Time's Never Enough

di Avah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il paradiso non esiste ***
Capitolo 2: *** Il tempo cura tutte le ferite ***
Capitolo 3: *** Un vuoto incolmabile ***
Capitolo 4: *** Le lacrime ormai non servono più ***
Capitolo 5: *** Ceneri del passato ***
Capitolo 6: *** Forse il cielo aveva bisogno di te ***
Capitolo 7: *** Tutti si preoccupavano di te ***
Capitolo 8: *** Sono qui per te ***
Capitolo 9: *** Sono proprio io ***
Capitolo 10: *** Sola ***
Capitolo 11: *** Ti troverò, da qualche parte ***
Capitolo 12: *** Che ci è successo? ***



Capitolo 1
*** Il paradiso non esiste ***


 


Il paradiso non esiste


Sai cosa ci fa più male di tutto? Non il fatto che te ne sei andata, lasciandoci da soli al nostro destino, non il fatto che saremmo dovuti crescere senza di te. Quello che ci ha fatto star male è il modo in cui volevano dirci che tu non c’eri più. Ci dicevano “non vi dovete preoccupare, lei è lassù che vi guarda, non vi dimentica”. Tutte cavolate. Non è vero che esiste un posto dove tu ci guardi, perché tu sei andata via, abbandonandoci a noi stessi.

-Hayley!-.
La ragazza con i capelli e gli occhi castani si voltò indietro per un momento, sentendosi chiamare. Quando vide chi era, sbuffò e tornò sui propri passi, cercando di ignorare quella voce che la chiamava; sistemò meglio il peso dello zaino sulle spalle e continuò a camminare, alzando di più il volume della canzone che stava ascoltando.
-Ehi Hayley, sei diventata sorda per caso?-.
La ragazza alzò lo sguardo verso il ragazzo che l’aveva raggiunta e che adesso camminava di fianco a lei; visti da lontano sembravano molto diversi l’uno dall’altra, ma una volta che ci si avvicinava si poteva cogliere la similarità di entrambi nei capelli castani e nei tratti del volto.
-Che vuoi Matt?- chiese lei, andando avanti.
-Si può sapere che hai combinato stavolta con la prof di francese? Oggi se la stava prendendo con me per colpa tua-.
Lei sbuffò -Quella perfettina non è capace di farsi gli affari suoi-.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo -Ti prego, dimmi che è successo-.
-Niente di così importante-.
-Hai di nuovo preso una nota? Se è così papà non sarà molto contento…-.
Lei si fermò di scatto e si voltò verso il ragazzo -Credi che lo verrà a sapere? Sarai tu a fare di nuovo la spia?-.
Lui la afferrò per un braccio e la costrinse a guardarlo negli occhi -Credi davvero che potrai nascondergli sempre la verità? Sai quanto me che prima o poi verrà a sapere tutto, e tu sarai nei guai-.
-Ma la volete smettere di starmi sempre addosso?! Sono cresciuta, non ho bisogno di voi!-.
-Hayley, lo so come ti senti. La mamma ha abbandonato sia me che te e…-.
-Ma che stai dicendo Matt? Lei se n’è andata quando avevo quattro anni!-.
-E io ne avevo sei. Cambia qualcosa forse? No, lei non c’è più e ce ne dobbiamo fare una ragione, che ti piaccia o no-.
-Certo che cambia! Tu hai più ricordi di lei, mentre io non ho niente! Mi ha abbandonato, come pensi sia stato crescere senza una figura materna?- iniziò a gridare.
Il ragazzo la guardava senza dire una parola, mentre lei stava esplodendo.
-Non mi avete mai capita, né tu né papà, né nessun’altro! Dovete lasciarmi stare, e fatemi vivere la mia vita!- detto questo, scappò via di corsa, sparendo ben presto alla vista del ragazzo.

La donna ormai senza più un nome e senza certezze vagava inquieta per la città, incapace di ricordare. E poi, ecco tornare quei flash: quei momenti in cui nella sua mente si formavano delle immagini sbiadite, troppo sfocate per poter capire cosa volessero dire. Una questione di un paio di secondi, poi tutto spariva.
Era sempre stato così, da quando aveva iniziato a vivere con lui. Le capitava spesso, immagini confuse e suoni indistinti che riecheggiavano nella sua mente senza ricordi. Con l’avanzare del tempo, quelle cefalee erano aumentate, ma ciò che vedeva rimaneva una massa indistinta di colori e suoni. Erano diventate così frequenti che credeva di impazzire, un giorno o l’altro, da tanto erano fastidiose. Lui le aveva perfino pagate le cure più costose per fare in modo che tornasse a stare bene, ma non era servito molto, finché non si erano trasferiti.
Da quando avevano cambiato città le cose erano migliorate, i flash iniziarono a farsi sempre più sporadici e meno invasivi, anche se non erano mai spariti del tutto: solitamente la notte tornavano nei suoi sogni, ma il significato rimaneva sempre oscuro.
Poi aveva capito che era stata imbrogliata, che non era quella la sua vita. Aveva deciso di darci un taglio a tutto, tornare indietro da quella che una volta era la sua vita. Sempre che fosse riuscita a riconquistarsela, la sua vita.

La ragazza continuò a correre, incurante del fatto se si scontrava con qualcuno o se per poco non la investivano. Era sempre così, dopo una delle solite litigate che, da almeno cinque anni, si affacciavano nella sua vita. Lei non voleva essere così, scontrosa e cinica con tutti, ma era come se gliel’avessero imposto.
Da quando aveva scoperto la verità e che sua madre non sarebbe più tornata da lei, era cresciuta in fretta, non vivendo appieno la sua infanzia, diventando matura prima del previsto. Gli altri non capivano che era cresciuta, che dentro di lei era nata la sua maturità, forse anche perché non lo dimostrava. Ma il suo comportamento, che a prima vista sembrava così ribelle e infantile, nascondeva invece la fragilità e l’insicurezza di un’adolescente.
Ciò che agli occhi degli altri era nascosto era che lei aveva smesso di essere bambina da un po’, e aveva iniziato a comportarsi così per paura. Una paura folle che ogni momento la tormentava; era il terrore di non essere ciò che gli altri volevano da lei. Aveva paura di sbagliare, di non riuscire a diventare la figlia perfetta che i suoi genitori avevano sempre sperato di avere. Aveva paura di non essere all’altezza, di non essere mai abbastanza in tutto ciò che faceva, di non poter nemmeno assomigliare minimamente al fratello che i suoi genitori adoravano.
Probabilmente era per quel motivo che sua madre se n’era andata quando lei era ancora piccola. Aveva capito che non sarebbe riuscita a combinare niente nella vita, che sarebbe stato un disastro totale, e per quel motivo era andata via, per togliersi di dosso una responsabilità così grande. Di certo non poteva biasimarla; anche lei avrebbe fatto lo stesso, se si fosse trovata nei suoi panni.
Qualunque fosse la ragione per cui era sparita, comunque, non riusciva a perdonarla, e ogni giorno sentiva dentro di sé una sensazione di odio e rabbia che non riusciva a nascondere, facendola diventare ciò che si mostrava al mondo.

Ecco quei flash, di nuovo. La donna si prese la testa fra le mani, cercando di allontanare quelle immagini. In effetti, dopo poco sparirono, lasciando solo un martellare continuo alle tempie.
Non riusciva a capire perché le succedesse tutto quello. Quei ricordi ormai persi non tornavano mai e venivano rimpiazzati da quei fastidiosissimi momenti di confusione. L’unica cosa che era riuscita a comprendere era che quei lampi di memoria si facevano vedere quando osservava una cosa specifica: un palazzo, un cartello stradale, un ponte, un volto.
Adocchiò una panchina libera all’ombra, perciò vi si diresse e si sedette, guardando continuamente le persone che le passavano davanti. Chissà dov’era finito lui. Forse non stava più lì, magari si era trasferito altrove. E se fosse stato così, la sua ricerca e il suo dolore sarebbero stati totalmente inutili. Forse, se anche lo avesse visto, non l’avrebbe riconosciuto, dopo tanti anni di assenza. E tutto ciò non sarebbe servito a niente.
Con un sospiro, si appoggiò allo schienale della panchina e dalla tasca dei jeans estrasse un foglio spiegazzato, leggermente ingiallito negli angoli e lungo le pieghe. Lo aprì e rimase a contemplare il disegno a pennarelli fatto sicuramente da un bambino, ma chissà quando. Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi e ritrovare nella memoria almeno un pezzetto che la ricollegasse a quel disegno.
Per una volta, stranamente, l’immagine che le si formò dietro le palpebre chiuse era nitida, come la risata che risuonò nelle sue orecchie; c’era solo quel disegno, e una piccola mano che lo porgeva verso di lei, come per regalarle quella figura semplice e naturale, come solo i bambini sanno fare.

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Capitolo 2
*** Il tempo cura tutte le ferite ***


Il tempo cura tutte le ferite

“Tempo. Ci vuole solo tempo.” Mi dicevo così, ogni santa mattina quando mi svegliavo, quando per l’ennesima volta mi accorgevo che tu non c’eri. Ti ho odiata, sai? Ti ho odiato a morte, per essertene andata lasciandoci da soli. Ma poi ho capito che il mio non era odio, non sarei mai riuscito a odiarti. Il mio era soltanto un sotterfugio che il mio orgoglio aveva creato per non mostrare il mio dolore. Sono melodrammatico, vero? Odiavi quando diventavo così.
È strano. Quante volte ho usato la parola “odio”? Era l’unica parola che proprio non sopportavi.
 
A volte è davvero difficile capire come ragionano le persone. Si nascondono dentro se stesse, senza far vedere al mondo quello che provano, come si sentono. In alcuni momenti, nemmeno lo psicologo più bravo del mondo sarebbe riuscito a capire cosa si scatena dentro la persona, cosa le fa decidere determinate cose e non le fa scegliere altre possibilità, perché il suo comportamento è così e non diverso.
Era questo che si chiedevano il più delle volte gli uomini del ventisettesimo distretto della Polizia di Los Angeles, riguardo alla decisione del loro collega di rimanere lì nonostante la morte della moglie. Aveva sempre nascosto ciò che provava davanti a tutti, perfino davanti ai due figli, forse - come aveva suggerito l’unica donna della squadra a parte il capo e la sua stessa segretaria - per cercare di mostrarsi forte proprio per loro due, che erano tutto ciò che gli rimaneva della moglie, sparita tragicamente durante un’indagine.
Lentamente, poi, il desiderio di sapere cosa pensasse il collega era andato scemando, fino a scomparire del tutto; ricordavano ancora la collega scomparsa, ma il dolore delle ferite era diminuito e pian piano la pelle intaccata era tornata normale, anche se si poteva ancora scorgere il segno bianco delle cellule nuove della cicatrice.
Ma lui, lui non era mai tornato quello di una volta. Non che prima fosse uno molto estroverso, ma da quel momento si era chiuso dentro se stesso, dietro quel guscio che si era costruito attorno. Una volta, parecchi anni prima, un criminale gli aveva raccontato di quel guscio in cui si rifugiava, ma all’epoca non ci aveva dato peso; adesso che stava vivendo quell’inferno, però, quella gli sembrò l’unica possibilità per andare avanti. Anche il suo sorriso, che dopo la nascita dei due figli si era fatto vedere sempre più spesso, era sparito come un tempo, rimpiazzato dalla stessa espressione impenetrabile.
Se pensava a quello che era successo quella mattina, prima che succedesse tutto quel casino, prima che la sua vita e quella dei suoi figli venisse sconvolta, si sentiva male. Perché non poteva tornare indietro a quel giorno, fare in modo che non accadesse nulla, che tutto si risolvesse in un’altra maniera?
 
-E’ ora di svegliarsi…- mormorò lei al suo orecchio -Andiamo, svegliati dormiglione-.
Lui borbottò qualcosa, senza girarsi verso di lei.
-Amore, svegliati dai!-.
Sbuffò, aprendo un occhio per lanciare un’occhiata alla sveglia -Linds, sono solo le sei e mezza!-.
-Lo so- lo baciò sulla guancia.
-E allora lasciami dormire, no?-.
-No- fece un sorrisetto -E’ ora di alzarsi-.
-Ma si può sapere che ti prende oggi?- finalmente si decise a voltarsi verso di lei.
-Non eri tu che dicevi sempre che non passiamo mai abbastanza tempo insieme?- lo stuzzicò.
-E con questo?-.
-Beh, Matt e Hayley stanno ancora dormendo… Finora non ci sono state chiamate… Potremmo passare questa mezz’ora di pace insieme, no? Senza interruzioni di alcun tipo…-.
Si passò una mano sul volto -Dì un po’, da dove ti vengono queste idee?-.
-Ci penso alla notte al posto di dormire- sorrise, poi lo baciò.
-Questo spiega molte cose…- sorrise, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte, poi la tirò verso di sé e ricambiò il bacio.
Si sistemò meglio, scivolando sopra di lui, senza interrompere il bacio; lui posò una mano sulla sua nuca, costringendola a non allontanarsi, mentre i suoi capelli lunghi ricadevano ai lati del viso come a formare una tenda di discrezione e intimità.
-Forse hai ragione- disse, in un momento che le labbra si erano allontanate di qualche centimetro -Dovremmo passare più tempo insieme, da soli-.
-Io te l’avevo detto-.
Si staccò da lei -Appena possibile chiederò a Singer di darci qualche giorno di ferie, così potremmo andarcene via, noi due soli, senza Matt e Hayley… Che ne dici?-.
-Dico che sarebbe fantastico-.

 
Sì, quella volta aveva visto giusto. Quel ricordo era rimasto impresso nella sua mente, come un segno indelebile, tatuato con il fuoco nella sua memoria. Nonostante tutto quello che era successo, qualcosa era ancora ben impresso dentro di lei. Non tutto era andato perduto come aveva sempre pensato da quando aveva scoperto la verità.
Quel ricordo così nitido e preciso le aveva riacceso le speranze e, per un momento, era rinata dentro di lei la fede, nonostante non fosse mai stata una gran credente. Forse c’era ancora la speranza che riuscisse a ricordare tutto, che potesse tornare alla sua vecchia vita, a quella che aveva abbandonato dieci anni prima. Dieci anni… erano un sacco di tempo. Ma ciononostante, qualche cosa era rimasta nella sua memoria, come una cicatrice che ricorda una ferita anche a distanza di molto tempo. E ciò doveva pur avere un significato, anche se lei non riusciva ancora a trovarlo.
Rimase a fissare il disegno per un paio di minuti poi, come riscossa dalla trance in cui era caduta, ripiegò con cura il foglio e, invece di metterlo in tasca, lo ripose all’interno della borsa insieme agli altri oggetti che forse le avrebbero consegnato il suo passato, i suoi ricordi, la sua vita.
La donna senza nome rimase per un momento a contemplare gli altri oggetti e, senza estrarla dalla borsa, sfiorò con la mano una catenina d’oro con un piccolo medaglione ovale apribile. Sapeva già cosa conteneva, lo aveva scoperto quel giorno che aveva ritrovato quel piccolo tesoro nascosto sul fondo di un armadio: da una parte, c’era una piccola fotografia di un uomo con due bambini, un maschio e una femmina, mentre nell’altra metà c’era la foto di un giovane ragazzo sui vent’anni circa in uniforme da poliziotto.
Ritirando la mano, rimase per un momento a fissare gli altri oggetti che erano lì dentro, ciò che era rimasto di quella che una volta era lei; a un estraneo alla sua vicenda sarebbero potuti sembrare solo una manciata di cianfrusaglie senza un significato particolare, ma per lei erano diventati l’unica speranza di una vita normale, di un ritorno nel suo mondo, di una riconquista del suo posto.
 
-E questa cos’è?- si chiese, vedendo una piccola scatola di plastica nera appoggiata sul fondo dell’armadio.
Si mise a sedere per terra e, dopo averla tirata fuori e averla appoggiata sulle proprie ginocchia, ci soffiò sopra e una nuvola di polvere si alzò, opacizzando per un momento l’aria.
Alzò il coperchio e si ritrovò faccia a faccia con una decina scarsa di oggetti disparati, che a prima vista sembravano non avere nessun collegamento tra di loro. Ma non appena ebbe dato un’occhiata più approfondita, i flash iniziarono a bombardarle la mente, mentre immagini confuse le passavano davanti agli occhi, sempre più velocemente.
Era stato in quel momento che aveva capito che qualcosa non andava, e che quella sensazione di non appartenenza e distacco non erano soltanto una sua fantasia. Si sentiva così perché quello non era il suo posto, non lo era mai stato e non lo sarebbe mai diventato. Semplicemente, non apparteneva a quel mondo che le avevano imposto.

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Capitolo 3
*** Un vuoto incolmabile ***


Un vuoto incolmabile

Ho visto tante persone morire, anche molte persone vicino a me, ma nessuna ha mai lasciato il vuoto che hai lasciato tu. Eri davvero così stanca di questa vita, ora che avevi trovato il tuo equilibrio? Davvero stavi così male da sparire per sempre? Mi sento in colpa, sai. Forse non ero una così buona amica come credevo, forse avrei dovuto fare di più per te. Ma cosa, se hai deciso di andartene all’improvviso?

La ragazza non voleva tornare a casa. Non aveva voglia di subirsi una ramanzina prima da suo fratello e, quando sarebbe tornato, da suo padre. Non voleva vedere nessuno che la giudicasse così, che non riusciva a capirla; per quel motivo decise di rifugiarsi da sua “zia”. In realtà non era effettivamente sua zia, tra di loro non c’era nessun legame di parentela; semplicemente, la chiamava così perché era praticamente cresciuta con lei, dopo che sua madre era morta. Era la sua migliore amica e la sua confidente, perciò non poteva far altro che rivolgersi a lei.
Parecchie volte suo padre le aveva detto che assomigliava moltissimo a sua madre, e ogni volta che succedeva lei dava in escandescenze; non voleva che la paragonassero a qualcuno che non aveva mai conosciuto, che se n’era andata abbandonandola quando aveva solo quattro anni. Forse però un fondo di verità c’era: lei riusciva a capire sua madre e l’aiutava sempre, perciò probabilmente anche lei le chiedeva aiuto perché non era poi così diversa come voleva - e sperava - di essere.
Arrivò sotto casa sua e vide l’auto parcheggiata lì fuori, sull’altro lato della strada. Perfetto, era in casa. Senza suonare il campanello, oltrepassò il cancello e con la chiave che le aveva dato lei, entrò nel palazzo. Salì i gradini due a due, quasi ansiosa di arrivare da lei e potersi sfogare; arrivata sul pianerottolo, si avvicinò piano alla porta e con timidezza bussò, come se tutt’a un tratto avesse perso tutta la sua sfrontatezza.
-Hayley, chi ci fai qui?- le chiese, non appena aprì la porta e se la ritrovò davanti.
-Ciao zia Madison- rispose la ragazza, abbassando d’improvviso lo sguardo -Posso parlarti?-.
-Certo. Vieni dentro- si scostò e le fece cenno di entrare.
Si diressero in soggiorno e si sedettero sul divano, una di fronte all’altra.
-Allora, cosa mi volevi dire?- iniziò la donna.
La ragazza rimase in silenzio per un attimo, riflettendo; poi, come presa da un irrefrenabile desiderio di sfogarsi, iniziò a piangere, impedendole persino di parlare.

Il ragazzo, invece di tornare a casa come al solito, si diresse con passo lento verso il luogo di lavoro del padre. Era una passeggiata un po’ lunga, ma a lui non importava; anzi, sarebbe stato meglio, così avrebbe avuto tutto il tempo per decidere cosa dire a suo padre una volta che sarebbe arrivato.
Forse non doveva andare da lui, avrebbe dovuto lasciare che fosse lei a vedersela con lui, ma proprio non resisteva a quegli impulsi. Forse era anche dovuto al fatto che lo aveva promesso, quel giorno, dieci anni prima: davanti a quella pietra grigia aveva promesso che si sarebbe presa cura di lei in futuro, che avrebbe fatto di tutto purché non le succedesse niente.
Senza nemmeno rendersene conto, in pochissimo era arrivato. Gli agenti in uniforme che andavano e venivano non facevano mai caso a lui, ormai erano abituati a vederlo lì in giro; sapevano che era il figlio di un collega, e qualche voce diceva anche che prima o poi, seguendo le orme dei genitori, lui stesso sarebbe entrato in polizia. Lui non sapeva cosa ne sarebbe stato della sua vita, cosa avrebbe fatto una volta finiti gli studi; per il momento, era concentrato su quei libri che non vedeva l’ora di rinchiudere in soffitta dentro qualche scatolone.
Entrò nella sede; si fermò per qualche secondo a scambiare due parole con due colleghi di suo padre, poi si avvicinò alla scrivania che si trovava appena fuori dal’ufficio con le pareti di vetro.
-C’è mio padre?- chiese alla donna dietro il computer.
-Sì, è di là in ufficio- indicò la stanza alle proprie spalle.
-Grazie- si limitò a dire, poi, dopo aver bussato una volta, entrò nell’ufficio.
Quanto tempo aveva passato lì dentro, tra quelle mura! Ricordava ancora quando sua sorella era appena nata, e lui molte volte stava lì con suo padre perché sua madre doveva occuparsi della piccola.
-Ciao papà- disse, lasciando cadere lo zaino a terra.
-Ehi Matt- fece l’uomo, voltandosi verso di lui -Tutto bene a scuola?-.
-Il solito- sospirò, prendendo una sedia libera e lasciandocisi cadere sopra -E’ Hayley che mi preoccupa-.
-Che ha combinato stavolta?-.
-Non so se dovrei dirtelo- il ragazzo abbassò lo sguardo -Penso che sia successo qualcosa oggi a scuola, ma lei non mi ha voluto dire niente. Penso che non sia neppure andata a casa-.
L’uomo sospirò -Sarà sicuramente andata da Madison- disse -Oggi ha il giorno libero-.
In quel momento la porta si aprì e fece il suo ingresso nella stanza un altro uomo, piuttosto giovane, con i capelli castani arruffati e gli occhi leggermente più scuri.
-David, ha chiamato Mark dalla Scientifica dicendo che ha una pista per quei spaciatori- disse.
-Arrivo subito- rispose, alzandosi -Senti Matt, ne riparliamo a casa con lei, ok?- aggiunse, rivolgendosi al ragazzo.
-D’accordo-.
-Ci vediamo più tardi- concluse, uscendo dalla stanza.
Il ragazzo rimase lì, a guardarsi intorno, mentre i ricordi gli tornavano alla mente. Ricordava perfettamente quelle giornate che aveva passato lì, quando era piccolo, mentre i suoi genitori erano fuori; passava delle ore steso per terra, sulla moquette, a disegnare e pastrocchiare con i pennarelli. Gli era sempre piaciuto, non ne riusciva a fare a meno. All’inizio non faceva altro che ritrarre arcobaleni e infiniti mari, poi crescendo aveva affinato le proprie capacità, fino a fare del disegno il suo chiodo fisso. Le figure infantili erano scomparse, rimpiazzate dai personaggi che inventava lui stesso, eroi ed eroine che ritraeva ispirandosi a ciò che i suoi genitori gli raccontavano.
“Chissà, forse da qualche parte ci sono ancora i miei disegni di quando ero più piccolo” pensò, tirando fuori dallo zaino un blocco di fogli e una matita. “Alla mamma piacevano tanto, li conservava tutti. A volte li portava persino con sé, ovunque andasse. Forse ne aveva uno anche quando è morta”.

-Tesoro non piangere, avanti!- la donna si allungò verso la ragazza, cercando di calmarla -Va tutto bene-.
-No, niente va bene!- fece lei, scossando la testa -Non è mai andato bene niente! Mai!-.
-Non dire così. Sono sicura che sia qualcosa che si può aggiustare-.
La ragazza non rispose; teneva la testa china per non mostrare le lacrime che le correvano follemente sulle guance, rigandogliele con una scia salina. Era orgogliosa, e non poteva farci niente; era soltanto una delle tante caratteristiche che la rendevano simile a quella donna che era sparita dalla sua vita da dieci anni.
-Cerca di calmarti, poi mi racconti cos’è successo e troviamo insieme una soluzione, ok?- disse la donna, alzando lo sguardo dell’altra con la mano.
La ragazza deglutì un paio di volte, cercando di fermare il pianto, poi si drizzò sul divano e, con voce ancora scossa dai singhiozzi, iniziò a parlare.
-E’ tutta colpa di quella stupida- esordì -Quella donna è incapace di fare il suo mestiere e di farsi gli affari suoi-.
-La tua prof di francese?-.
La ragazza annuì; ormai tutti sapevano che nutriva un odio smisurato verso la sua insegnante, e non faceva niente per mascherarlo. A lei non importava niente di non farsi scoprire, perciò la donna sembrava divertirsi a prendersela personalmente con lei e, se non funzionava, attaccava con ostinazione suo fratello.
-Che ha fatto questa volta?- chiese.
-E’ insulsa, non sa insegnare, e ce l’ha a morte con me! Non esita a trovare la prima occasione per rovinarmi la vita, come se non fosse già abbastanza difficile-.
-Ok, questo lo so. Ma precisamente, cosa ti ha fatto di male?-.
-Non sa farsi gli affari suoi. Mi chiede delle cose personali solo per prendermi in giro davanti al resto della classe, come fa con Ian. Ce l’ha con noi-.
-Cose personali… Del tipo?-.
-Mi voleva fare un’interrogazione di quasi un’ora sulla mia famiglia- precisò -E se l’è presa con me perché mi sono rifiutata di rispondere alle sue domande-.
-Hayley- disse la donna, dopo un attimo di silenzio -Lei stava facendo solo il suo lavoro, sono sicura che a lei non interessa minimamente la tua vita a casa. E se se l’è presa con te è perché non hai voluto rispondere-.
-Ma zia Madison- fece la ragazza, non sapendo più da che parte stesse la donna -Perché avrei dovuto risponderle? Perché avrei dovuto dirle tutta la mia vita? Perché avrei dovuto parlare di quello che ho passato?- le lacrime presero di nuovo il sopravvento, impedendole di continuare.
La donna l’abbracciò, cercando di confortarla e di farla calmare almeno un po’ -Hayley, non devi fare così. Lo sai che tua madre non vorrebbe mai vederti così. Lei vorrebbe solo che tu sia felice, anche se a volte devi ripercorrere quei brutti momenti-.
La ragazza non rispose; stava con il viso affondato nella spalla della donna, e continuava a piangere.
-Lei vuole che tu sia forte, che dimostri che sai andare avanti a testa alta- le alzò il viso -Non devi deluderla-.

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Capitolo 4
*** Le lacrime ormai non servono più ***


Le lacrime ormai non servono più

È sempre difficile quando si perde una persona cara. Puoi cercare di darti delle spiegazioni, dicendoti “ehi, adesso è là che ti guarda, sta bene”, ma poi capisci che in fondo non ci credi nemmeno tu. E so quel che dico: nella mia vita me ne sono capitate tante, ma in fondo non riesci mai ad abituartici. Alla fine non ti rimane che una strada: andare avanti.

-Ragazzi non siete proprio capaci di stare almeno un paio di giorni senza provocare dei disastri, vero?-.
La donna, con la valigetta di metallo in una mano, passò sotto il nastro giallo con le lettere nere, senza smettere di sorridere.
-Stavolta è colpa loro- disse l’uomo più anziano del gruppo, indicando con un gesto l’altra donna e un altro uomo.
-Davvero?- rise la donna -Madison, non me lo sarei mai aspettato da te!-.
-Ehi, non incolpare me adesso!- si difese l’altra -C’era Ben al volante, io stavo sul lato del passeggero!-.
-Ma certo, adesso è colpa mia!- intervenne l’uomo -Quand’è che smetterò di essere l’ultimo arrivato?-.
-Ok ok, ho capito. Non mettetevi a litigare adesso- la donna cercò di calmarli -Adesso cerchiamo di mettere in ordine questo casino, va bene?-.
-D’accordo- fecero gli altri tre in coro.
-Ma si può sapere che fine ha fatto Mark?- chiese poi la donna, guardandosi intorno.
-Guarda che sono qui- l’uomo chiamato in causa venne fuori, affacciandosi da dietro un’auto -E’ un pezzo che ti sto aspettando-.
-Scusami se ho due bambini di cui devo occuparmi- ribatté lei, raggiungendolo -Non è certamente colpa mia se tu sei ancora scapolo-.
-Ma che simpatica che sei- sbuffò lui -Cerca piuttosto di darti da fare in questo macello-.
-Agli ordini capo!- scherzò lei, mettendosi sull’attenti -Ma ricordati che quando me ne andrò per un paio di giorni in vacanza dovrai cavartela da solo-.
-E quando pensavi di dirmelo?-.
-Non ti riscaldare Mark! È ancora tutto un’ipotesi-.
-Vedi di avvertirmi prima che te ne vai, chiaro?-.
-Ma certo- sbuffò -E comunque non ti accorgerai nemmeno che non ci sono. Sarà tutto normale-.


Già, sarebbe stato tutto normale, la solita routine. Se solo quel dannato giorno non fosse successo quel casino.
Se solo quel dannato giorno fosse andato tutto diversamente.
Se solo quel dannato giorno, a distanza di poche ore da quelle parole, lei non fosse sparita, all’improvviso.
In parte si sentivano tutti responsabili per quello che era accaduto; avrebbero dovuto insistere, fare in modo che lei non intervenisse, che quel bastardo non potesse farle del male. Invece no, erano stati degli idioti, si erano lasciati trasportare dalla fiducia che riponevano in lei, sicuri che non le sarebbe successo niente, che si sarebbe difesa. E invece si sbagliavano, e pure tanto.
Se quel giorno le avessero impedito di agire di testa sua, se fossero arrivati prima, se quella dannata sparatoria non ci fosse stata. Se quel giorno non ci fosse mai stato…
Se, se, se. Erano tutti e soli se. Solo probabilità, possibilità che non sarebbero mai più successe.
La verità era che non si poteva porvi un rimedio, le cose erano andate così. Non si poteva tornare indietro nel tempo, impedire che succedesse tutto, che lei morisse. Il destino aveva deciso così, e loro non potevano farci niente per cambiare quello che era successo. Ormai non rimaneva altro che accettare la realtà, per quanto fosse dura e dolorosa, anche se - forse - solo il tempo sarebbe riuscito a cicatrizzare quelle ferite.

Perché era successo a lei? Perché aveva dovuto sopportare quei dieci anni di lontananza e dolore?
Era stata allontanata a forza, contro la sua volontà, in un momento che era impotente e non poteva impedire che succedesse. Era stata presa in giro, ingannata da una persona che credeva affidabile e che sembrava volerle bene. Le aveva dato una nuova identità, una nuova vita, sperando che non si accorgesse mai di quello che era successo in passato, ma si era sbagliato. Aveva pensato che, magari, tenendole nascosta la verità, sarebbe riuscito a portarla via con sé, senza destare troppi sospetti, ma non aveva dato peso all’unica cosa che era davvero importante.
Aveva rinchiuso quella scatola in un vecchio armadio ormai in disuso, convinto che niente l’avrebbe spinta ad andare a curiosare là dentro, ma si era sbagliato: in cerca di qualcosa che non ricordava nemmeno cosa fosse, aveva trovato proprio ciò che doveva rimanere nascosto.

-Alex dobbiamo parlare- esordì lei, entrando nella stanza senza bussare.
-Scusa tesoro, ma sono occupato- disse, senza nemmeno alzare lo sguardo verso di lei.
Lei tenne a freno la lingua, per non dare in escandescenze, poi si mosse verso di lui e sbatté con forza la scatola di plastica nera, mettendogliela proprio sotto al naso.
Lui spostò lo sguardo da lei alla scatola, e viceversa, capendo che la sua messinscena era stata scoperta.
-Ci lasci da soli, per favore- sospirò, rivolgendosi all’uomo presente nella stanza, che con un gesto della testa uscì.
Lei aspettò di sentire la porta richiudersi alle sue spalle, prima di iniziare a chiedere delle spiegazioni.
-Allora?- disse semplicemente, aspettando che fosse lui a svuotare il sacco.
-Posso spiegarti tutto- disse lui, con tono accondiscende -Dammi solo un secondo-.
-Ho tutto il tempo che vuoi- rispose, con voce velenosa -D’altronde, cosa sono dieci anni di bugie rispetto a un minuto di verità?-.
-Senti, avevo intenzione di dirti tutto- si alzò e cercò di avvicinarsi, ma lei si ritrasse -Davvero-.
-E quando? Quando ormai era tutto finito, quando non c’era più niente da fare? Oppure quando avrei ripreso la memoria? O ancora quando sarei stata talmente lontana da non poter più tornare indietro?-.
L’uomo non rispose; si sentiva terribilmente in colpa e i rimorsi lo stavano divorando dall’interno.
-Mi hai mentito Alex, per dieci anni- continuò lei -Mi hai preso in giro per tutto questo tempo, magari senza domandarti se stessi bene o meno. Non hai pensato a quanto dolore hai provocato alle persone da cui mi hai allontanato?-.
-Ascoltami- l’uomo ruppe il suo silenzio -Quando ti ho ritrovata eri svenuta in mezzo a un bosco, come potevo lasciarti lì? Non ce l’avrei mai fatta-.
-Ma forse qualcuno mi avrebbe trovata, mi avrebbe fatto tornare dalla mia famiglia!-.
-O forse non avrebbe fatto niente di tutto ciò. Chi può saperlo, forse avrebbero abusato di te e ti avrebbero lasciata lì in balia delle bestie feroci. Preferivi questo a qualche bugia innocente?-.
-Qualche bugia innocente?!- ripeté lei, stralunata -Dieci anni di menzogne ti sembrano qualche bugia innocente?!-.
-Se sono servite a salvarti, a fare in modo che per un po’ tu stessi bene, allora sì-.

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Capitolo 5
*** Ceneri del passato ***


Ceneri del passato

Non sai mai cosa provi quando una persona che non conosci bene, ma che era così amica di chi ti sta intorno, se ne va, all’improvviso, in modo del tutto inaspettato. Credo che si senta solo una specie di vuoto dentro, di cui non riesci a comprenderne la fonte, ma sai che tutto deriva da ciò che aleggia nell’aria. Qualcosa di pesante e irrespirabile.

-Lindsay non farlo, chiaro?-.
-No Dave, non posso farlo scappare così! Quel bastardo ha usato dei bambini per spacciare droga, non me lo lascerò sfuggire così!-.
-Ti prego non fare idiozie. Linds… Lindsay!-.


-David?- l’uomo accanto a lui cercò di farlo tornare al presente -David? Tutto bene?-.
L’altro si riscosse dai suoi pensieri -Sì certo- si affrettò a rispondere, tornando lentamente alla realtà.
-Sembravi… assente, con la testa da un’altra parte-.
-Scusa- fece lui, guardando fuori dal finestrino -Sono solo stanco-.
-Beh ci credo- disse l’altro, continuando a guidare -Hai fatto il doppio turno per tutta la settimana, prendendo di continuo il posto di Mike. A malapena sei andato a casa a riposare un po’. Per quanto pensi di andare avanti così?-.
-Mike ha bisogno di passare un po’ di tempo con Andrea e Christine- rispose, senza distogliere lo sguardo dal paesaggio fuori dal finestrino.
-E tu non passi mai del tempo con i tuoi figli? Non credi che vorrebbero vederti anche a casa, ogni tanto?-.
-Mathew e Hayley sono diventati grandi, sanno cavarsela anche da soli. Non c’è bisogno che li controlli tutto il giorno-.
-Ma certo- disse, annuendo sarcasticamente -E tu ti nascondi in ufficio per non farti vedere da loro. Fantastica idea-.
-Che ne sai tu di quello che sto passando, Ben?- finalmente si decise a voltarsi verso il collega -Tu non sai nemmeno lontanamente cosa significhi andare avanti giorno dopo giorno con la consapevolezza che la persona che ami non c’è più e non tornerà mai!-.
-Ehi David datti una calmata- disse l’altro -Si stava solo parlando-.
-Allora cerca di parlare solo di cose che sai cosa significano-.

Come pezzi di un gigantesco puzzle, le tessere dei suoi ricordi stavano lentamente tornando al proprio posto, restituendole quel passato che credeva andato perduto. Ogni minuscolo frammento di memoria ritrovava il suo compagno, lentamente ma con costanza, riprendendo il filo degli eventi. Ben presto sarebbe riuscita ad avere il quadro completo sotto i suoi occhi, in modo da poterlo contemplare per ritrovare l’inizio da cui ripartire, se necessario anche resettare tutto.
La donna riniziò a camminare con passo lento, guardando ogni cosa che la circondava come se fosse la prima volta, a volte fermandosi in mezzo alla strada come se sotto l’effetto di un incantesimo fosse stata ipnotizzata e non poteva distogliere lo sguardo da ciò che stava guardando, come una bambina quando vede in una vetrina colorata il giocattolo che ha sempre desiderato. Forse era così che si sentiva, una bambina in mezzo al paese delle sue fantasie, popolato da ciò che aveva sognato e immaginato con fervore.
Tornare a quella realtà, ad ogni modo, era stato relativamente facile. Pensava che lui avrebbe fatto di tutto pur di impedirle di partire, di non andarsene dall’altro lato del paese, lasciandolo solo. Invece no, era stato collaborativo e comprensivo, senza mai essere soffocante o in qualche modo invadente. Era sicuramente una persona sincera, un amico vero, ma da quando aveva capito che quello non era il suo posto non riusciva più a vederlo in quel modo. O forse, più semplicemente, non voleva farlo.

-Te ne stai andando?- l’uomo si affacciò alla porta, appoggiandosi allo stipite.
-A te cosa pare?- ribatté lei, senza voltarsi a guardarlo e continuando a gettare abiti nel borsone da viaggio, già mezzo pronto da qualche giorno.
Sospirò; fece qualche passo nella stanza, fino a ritrovarsi alle sue spalle solo di qualche centimetro -Ehi, non volevo che andasse così- le accarezzò il braccio, ma lei si ritrasse.
-Però è andata proprio così- si voltò verso di lui, con un’espressione furente -Ed è così che andrà a finire-.
Con un mezzo sorriso sulle labbra, le prese con delicatezza le mani; questa volta lei non rifiutò il contatto, anche se non voleva incrociare il suo sguardo.
-Davvero, te lo avrei detto. Solo che… non mi sembravi ancora pronta. Sarebbe stato un shock troppo grande per te-.
Lei non rispose; continuava a tenere lo sguardo spostato di lato, puntato sul pavimento di parquet.
-Te lo giuro, non sto scherzando. Perché dovrei mentirti ora?-.
-Lo so che sei sincero- disse con un sussurro, accennando appena un sorriso, spostando lo sguardo sulle mani allacciate -L’ho sempre saputo-.
Lui ricambiò il sorriso, poi la tirò verso di sé e l’abbracciò; lei si lasciò andare, appoggiando la fronte alla spalla dell’uomo, mentre sentiva le lacrime salirle agli occhi.
-Non sono arrabbiata con te- confessò -E’ che… ho paura-.
-Di che cosa?- chiese lui, con voce dolce, accarezzandole i capelli.
-Credo che sia per ciò che diranno gli altri, quando tornerò… Ho paura che mi giudichino, che non mi lascino spiegare…-.
-Andrà tutto bene, vedrai- le alzò lo sguardo e la guardò dritto negli occhi -Sono sicuro che capiranno. Ci vorrà del tempo, certo, ma alla fine tornerà tutto come prima-.
Lei lo guardò con occhi nuovi, capendo che aveva davanti un amico di cui poteva fidarsi, e non un nemico contro cui avrebbe dovuto combattere per riottenere la sua libertà.
-Voglio che tu sia felice, più di ogni altra cosa- il sorriso di prima si allargò leggermente -E perciò voglio che tu accetti questi- si mise una mano in tasca e ne estrasse una busta gialla, leggermente rigonfia.
-Che cosa…- iniziò a dire lei, non capendo, ma lui la interruppe.
-Prendi questi soldi e torna da loro. Credo che avranno bisogno di rivederti-.
-Alex, io… Non so che dire-.
-Non dire niente. Prendili e vai. Accettalo come regalo d’addio-.
-Devi proprio tornare in Italia? Non puoi rimanere qui?- chiese lei, mentre due lacrime le solcavano gli zigomi.
-Lo avevo deciso già da tempo, e mi stanno aspettando- disse lui, con un sorriso amaro -Ma tornerò a trovarti, lo prometto-.

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Capitolo 6
*** Forse il cielo aveva bisogno di te ***


Forse il cielo aveva bisogno di te

Ho sofferto molto nella mia vita, fin dalla tua nascita, piccola mia. Se ho continuato a lottare lo facevo solo per te, perché riuscissi ad avere una vita degna di questo nome. Non te l’ho mai dimostrato, ma ero orgogliosa di te, della mia bambina coraggiosa e testarda. Solo di una cosa avevo sempre avuto paura: che un giorno te ne andassi, all’improvviso. Me l’ero sempre detto: nessun genitore dovrebbe sopravvivere ai propri figli.

La ragazza stava tornando a casa, seppur a malincuore. Sapeva che lei c’era sempre, che per qualsiasi problema l’avrebbe ascoltata, ma non poteva passare intere giornate a casa sua. E poi, a quell’ora doveva andare al lavoro.
Con le cuffie bianche dell’mp3 nelle orecchie, salì sull’autobus che in meno di dieci minuti l’avrebbe portata dalle parti dove abitava sua nonna; pensò che poteva andare a fare un salto da lei, intanto che c’era. Durante il tragitto guardò sempre fuori dal finestrino, a parte in un momento che aveva posato lo sguardo su una donna con un bambino di forse sei anni, seduto in grembo alla madre; quella vista le provocò una stretta fortissima al cuore, tanto da farle venire le lacrime agli occhi, che respinse con forza.
Quando l’autobus si fermò, scese e andò diretta a casa di sua nonna, fermandosi solo un momento per prendere due paste da condividere con lei. Con il sacchetto in mano e lo zaino in spalla, approfittò del momento in cui stava uscendo un uomo dal palazzo per entrare; salì i gradini uno alla volta e, arrivata sul pianerottolo, bussò alla porta. Aspettò che venisse ad aprire, sempre con la sua lentezza da donna di mezza età.
-Ciao tesoro- disse la donna, non appena la vide.
-Ciao nonna- la ragazza si chinò a baciarle le guance, poi le porse il sacchetto.
-Mi fa piacere vederti. Dai, entra dentro- prese il sacchetto e lo aprì, assaporandone il profumo, poi si scostò e la fece passare -Tutto bene a scuola?- le chiese poi, mentre si dirigeva in cucina per prendere due tovaglioli.
-Il solito- sbuffò, lasciando cadere lo zaino su una sedia, accomodandosi poi su una poltrona.
La donna tornò indietro con un vassoio su cui aveva posato due bicchieri, le due paste, un paio di tovaglioli e una bottiglia d’aranciata.
-Come stai?- le chiese, sistemando con cura il cibo sul tavolino posto davanti al divano.
-Come vuoi che stia, nonna- rispose, andandosi a sedere di fianco a lei -E’ sempre la stessa storia-.
-Lo so, tesoro-.
Rimasero per un po’ in silenzio, mangiando lentamente, ognuna assorta nei propri pensieri.
-Senti Hayley, dal momento che tra poco è l’anniversario di tua madre…- iniziò a dire, ma la ragazza la interruppe bruscamente.
-Nonna, per favore. Non ho voglia di parlare ancora di lei- disse con voce dura.
-Ma tesoro- replicò l’altra, leggermente stupita dal comportamento della nipote -Fammi finire di parlare-.
-Lo so cosa vuoi dire, nonna- sbuffò, con l’appetito che tutt’a un tratto era sparito -Vuoi che pensi a qualcosa di carino da dire per ricordarla il giorno della funzione. E’ così tutti gli anni, ormai, e dovete capire che io non ho un bel niente da dire!- le ultime parole furono quasi urlate.
-Hayley…- iniziò la donna, ma la ragazza ormai aveva perso il controllo.
-Che dovrei dire, che era una brava donna dedita al lavoro e alla famiglia? Non sono altro che stronzate, le solite che sento tutti gli anni. Se n’è andata, mi ha abbandonato, non mi ha mai voluto!-.
-Questo non è affatto vero- rispose con durezza la donna, alzandosi in piedi -Tua madre ti ha sempre amato, e lo sai anche tu!-.
-No nonna, io non so niente!- si alzò in piedi anche lei -Io non so se mi abbia mai voluto bene davvero, e se era così perché se n’è andata!-.
-Credi che davvero abbia progettato di morire, quel giorno? E’ stato un incidente, Hayley-.
-Sapevo che sarebbe stata una perdita di tempo venire qui- la ragazza recuperò lo zaino e si diresse verso la porta d’ingresso -Pensavo che per una volta sarebbe stato diverso, ma mi sbagliavo-.
Uscì di lì, sbattendo con forza la porta, poi si catapultò letteralmente giù dalle scale, mentre le lacrime si facevano di nuovo sentire, ma stavolta non ebbe la forza di respingerle e lasciò che le rigassero, calde e saline, le guance.
“Mamma, perché devo passare questo inferno per colpa tua?” si chiese, mentre correva via verso casa. “Perché non sei rimasta con me quando ne avevo bisogno? Perché sei morta?”

Il ragazzo stava tornando a casa, con lo zaino sulle spalle e tanti pensieri per la testa. Mentre era in ufficio da suo padre, si era ricordato che tempo qualche giorno e sarebbe stato il decimo anniversario della morte di sua madre. Come tutti gli altri anni da quando avevano scoperto la verità, si sarebbe dovuto sforzare per trovare qualcosa da dire su di lei il giorno della funzione in sua memoria; lui però non era bravo con le parole, non lo era mai stato. Avrebbe comunque provato a buttare giù qualche idea, ma era sicuro che sarebbe stato tutto inutile: era più bravo con la matita, che con la penna da scrivere.
Sospirò, cercando di non pensarci; non era quello il momento, quando sarebbe tornato a casa avrebbe trovato sua sorella e avrebbe dovuto parlarle, come tutte le volte che avevano litigato. Se solo la loro madre fosse stata ancora viva, se quel giorno non fosse mai arrivato, forse in quel momento non avrebbero passato tanti guai e casini.
Quando era ormai arrivato, vide una ragazza correre verso di lui, con gli occhi coperti dalle mani per non far vedere le lacrime che le stavano rigando il viso; lui cercò di scansarsi, ma lo scontro fu inevitabile.
-Hayley, che è successo?- chiese lui allarmato, quando si accorse di chi aveva davanti.
La ragazza si tirò su e cercò di nascondere almeno un po’ le guance rigate di nero a causa della matita che le lacrime le avevano portato via dagli occhi.
-Matt non guardarmi!- si schermò il viso con le mani per non farsi vedere in che stato pietoso si trovava.
-Hayley, sei mia sorella!- le scostò delicatamente le mani dal viso e notò subito gli occhi gonfi e rossi -Che è successo?- tornò a chiederle.
Lei non rispose; si gettò su di lui e affondò il volto nel suo petto, scoppiando di nuovo a piangere.
-Andiamo a casa, è meglio- disse, cercando di calmarla e aprendo il cancello.

I due uomini uscirono dalla sede della Polizia Scientifica senza nemmeno guardarsi; ognuno dei due era immerso nei propri pensieri e non badava molto all’altro. Salirono in auto e fecero ritorno verso il comando, sempre senza guardarsi.
-Senti Ben, mi dispiace per prima- fece l’uomo sul sedile del passeggero, interrompendo il silenzio -Sono stato troppo duro con te-.
L’altro non rispose; rimase concentrato sulla strada che si srotolava davanti a sé e continuò a guidare.
-Non pensavo davvero quello che ho detto. Il fatto è che sono ancora troppo scombussolato, e non sono sicuro di riuscire a reggere questa situazione ancora per molto-.
-Allora perché non ti decidi a prendere almeno un giorno libero?- rispose infine l’altro.
L’uomo sospirò -Se mi sono comportato così fino adesso l’ho fatto per Mathew e Hayley. Volevo che fossero forti e che riuscissero ad andare avanti, perciò ho pensato che magari se fossi stato forte io lo sarebbero stati anche loro- fece una pausa -Ma ora sono grandi, e io non sento più quel dovere che avevo dieci anni fa-.
-Ho capito- disse dopo un momento di silenzio -Secondo me dovreste passare un po’ di tempo insieme-.
-Lo vorrei tanto, ma presto sarà il suo anniversario e… Non penso di farcela-.

Il cielo era stranamente sereno, anche se qualche nuvola faceva capolino all’orizzonte. I fucili spararono a salve e le trombe suonavano una musica triste e bassa, accompagnando il feretro avvolto nella bandiera a stelle e strisce americana verso il suo destino.
Il gruppo di persone, chi con le lacrime agli occhi e chi con un groppo in gola, guardavano con sguardo vuoto la fossa davanti a loro, appena sotto a una semplice lastra di granito scuro con incise poche, semplici parole, oltre a un nome e due date.
Le corde iniziarono ad allungarsi lentamente all’interno della fossa, mentre all’orizzonte la luce iniziava a scarseggiare e i bagliori dei lampi accecavano l’azzurro scuro del cielo.
Un tuono accompagnò l’uomo con un cesto di rose bianche che porse a ogni presente; i primi a gettare i fiori nella fossa, sopra la cassa di legno chiaro, furono l’uomo inginocchiato di fianco ai due bambini, stretti a lui, poi seguirono tutti gli altri. Quando la parte superiore del feretro fu coperta di petali bianchi, la terra si abbatté all’interno della fossa in grandi badilate, lente ma costanti. I presenti iniziarono ad andarsene, senza una parola, mentre al loro posto sopraggiungevano a una velocità spaventosa grandi nuvoloni neri e lampi accecanti, che regalavano un po’ di luce a quella giornata nera.
Una donna si avvicinò all’uomo con i due bambini, mentre le lacrime le correvano lungo le guance.
-Aveva sempre desiderato conoscere suo padre- disse -Ora sono sicura che potrà farlo-.
-Si era sempre sentita responsabile per quello che era successo in passato- rispose l’uomo, alzandosi in piedi e tenendo i due bambini per mano -Credo che ora capirà che si sbagliava-.
I due rimasero in silenzio a contemplare la lastra grigia davanti a loro. A un certo punto, l’uomo si voltò verso un’altra donna che era rimasta in disparte dietro di loro e le affidò i due bambini.
-Portali a casa con te- disse -Voglio rimanere un po’ da solo-.
La donna annuì; prese in braccio la più piccola e per mano il fratello maggiore, poi si avviò lungo il sentiero ghiaiato.
-Vorrei che accettassi questa- l’uomo porse alla donna la bandiera che fino a poco prima avvolgeva il feretro -E’ tua-.
La donna lo respinse -No, dovresti tenerla tu. Non ha senso che la prenda io-.
-Era tua figlia- le mise in mano il drappo -E’ l’unica cosa che è rimasta di lei. A me bastano i nostri ricordi-.
La donna non disse niente; fissò la bandiera che aveva in mano e annuì, sentendosi un groppo in gola, poi se ne andò, senza più voltarsi.
Le nuvole si fecero più vicine e la pioggia iniziò a scivolare giù, coprendo quel poco di luce; l’uomo alzò lo sguardo al cielo e lasciò che le gocce si confondessero con le sue lacrime.

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Capitolo 7
*** Tutti si preoccupavano di te ***


Tutti si preoccupavano di te

I due fratelli erano tornati a casa insieme dopo essersi scontrati proprio davanti al cancello; dopo essersi sfogata e aver fatto la pace con il fratello, la ragazza si era data una ripulita e si era riposata. Ora erano lì tutti e due, seduti al tavolo della cucina con i libri davanti, matematica lei e latino lui.
-Questa roba è inutile!- sbuffò lei, lanciando via la penna che aveva in mano -Che me ne faccio dei logaritmi durante la mia vita?!-.
-Nemmeno il latino è importante, però dobbiamo studiarlo- il ragazzo le passò la penna, facendo scivolare sotto il suo naso i fogli che aveva spinto via.
Lei lo guardò male, riprovando a finire l’esercizio; non passarono più di dieci minuti che lei alzò la testa e puntò lo sguardo fuori dalla finestra, senza pensare a niente.
-Hayley, concentrati- la richiamò suo fratello -Se fai così non riuscirai mai a finire i compiti-.
-Secondo te papà hai mai pensato di risposarsi, prima o poi?- chiese lei, cambiando totalmente argomento.
-Questo cosa c’entra con i logaritmi?-.
-Non lo so- si voltò verso di lui -Mi è venuto in mente adesso. Però per te gli è mai passato per la testa?-.
Lui sospirò -Non ne ho idea Hayley. Da quanto mi ricordo, lui e la mamma erano sempre stati legati. Probabilmente sì, c’ha pensato, ma non c’ha mai sperato davvero-.
-Tu ti ricordi molto di lei, della mamma?-.
-Poco e niente- sospirò di nuovo -Se n’è andata quando avevo sei anni, non pensavo certamente che morisse da un giorno all’altro, perciò non badavo molto a cose particolari- si fermò di botto, ma vide davanti a sé un pubblico piuttosto interessato, perciò non poté far altro che continuare.
-Non ti è rimasto impresso niente di particolare?- lo incalzò lei, sempre più attenta.
-Il suo sorriso- rispose dopo un momento di riflessione -Sorrideva sempre, sia quando era con me che con te. Era sempre raggiante, e per quanto mi ricordo non aveva mai litigato con papà-.
-Si conoscevano da tempo, vero? Zia Madison mi ha detto così, una volta-.
-Si erano conosciuti diversi anni fa a New York, quando ancora stavano entrambi là. Non so per quale motivo poi si siano trasferiti qui a Los Angeles, però dicevano che ci avrebbero portati là qualche volta, quando saremmo cresciuti-
-Ho capito…-.
In quel momento suonò il campanello; il ragazzo andò al citofono, poi fece entrare la ragazza che era appena arrivata.
-Hayley, io e Steffy andiamo nella mia stanza a studiare- disse, tornando in cucina dalla sorella seguita dall’altra ragazza -Se hai bisogno di aiuto vieni a chiamarmi-.
-D’accordo- annuì, facendo un cenno di saluto all’altra.
Il ragazzo fece un cenno a quella appena arrivata di seguirlo; la condusse fino alla sua stanza, al piano superiore, e quando furono dentro si richiuse la porta alle spalle.
-Wow- commentò lei non appena ebbe dato un’occhiata alla stanza -Sono impressionata-.
-Per che cosa?-.
-Non ti credevo così altruista con tua sorella. Davvero l’aiuti con i compiti?- si sedette di fianco a lui sul letto.
-Ci aiutiamo a vicenda- replicò lui, prendendo fuori un libro e iniziando a sfogliarlo.
-Ho capito- disse, poi si alzò e si diresse verso l’unica foto presente nella stanza -E’ tua madre?-.
-Sì- rispose lui senza nemmeno guardarci -E’ l’unica foto che sono riuscito a recuperare in cui ci siamo tutti-.

Eccola, la collina fuori città, nel mezzo dei boschi. Sulla sommità della piccola altura c’era solo un cumulo di macerie, ferraglie e vetri rotti; l’edera e l’erba avevano invaso già da tempo quel piccolo tempio di desolazione e distruzione.
La donna fissava con sguardo vuoto la collinetta di detriti di cemento e ferro, ripensando che era lì che era successo tutto. Era lì che la sua vita e quella di chi le stava attorno era cambiata, in un momento solo, per sempre.
Spostò lo sguardo sugli alberi di conifere che crescevano lungo il pendio, disseminando i sentieri interni di foglie rossicce e secche; le piante si inerpicavano su tutto il lato est della collina, rendendo tortuosi e impervi i piccoli viottoli all’interno del bosco.
Era stato lì, in mezzo a un letto di foglie autunnali, che la sua vita aveva subito quella svolta così inaspettata. Era stato lì, mentre lei non poteva far niente, se non giacere come morta nella sua bara di fogliame secco.
La donna alzò gli occhi al cielo, cercando di ricacciare in gola il nodo che le si stava formando; gettando un’ultima occhiata alla collina e al bosco, si voltò e tornò sui suoi passi, tenendo le mani in tasca strette in un pugno.

Forse stava sbagliando. Forse non doveva scappare dalla realtà, forse doveva alzare lo sguardo e combattere. Non doveva lasciare che i suoi ragazzi ne risentissero a causa sua. Il dolore ancora lo attanagliava, ma doveva camminare ancora. Cosa gli avrebbe detto lei, se lo avesse visto in quelle condizioni, se avesse visto cos’era capitato ai suoi amatissimi figli? No, si stava comportando malissimo, lasciando tutto al caso, e non era ciò che doveva fare. Si era preso delle responsabilità, responsabilità che in parte stava mollando, credendo che ormai fosse andato tutto perduto.
I pensieri dell’uomo furono spazzati via quando sentì il suo cellulare suonare insistentemente nella tasca della sua giacca.
-Detective Milton- rispose, tornando lentamente alla realtà.
-Signor Milton?- disse una voce femminile dall’altra parte -Sono la signora Johnsson, la preside della scuola di sua figlia Hayley-.
-Oh salve signora Johnsson- disse l’uomo passandosi una mano sul volto stanco, pensando che sua figlia si fosse cacciata nei guai per l’ennesima volta -Che è successo?-.
-Se non le dispiace vorrei parlarne direttamente con lei a quattr’occhi- rispose la donna.
-D’accordo, ma non so quando sia possibile. Il fatto è che sono impegnato e…-.
-Lei quando è disponibile?-.
-Se per lei va bene, direi anche adesso dal momento che sto per finire il turno-.
-D’accordo- convenne la donna -Allora la aspetto qui a scuola-.

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Capitolo 8
*** Sono qui per te ***


Sono qui per te

-Non voglio dire delle brutte cose su di lui, però… Non credete che David sia un po’ strano negli ultimi tempi?-.
L’uomo si appoggiò allo schienale della sedia e guardò i due colleghi negli occhi, sbattendo ripetutamente una penna sulla scrivania.
-Credo che sia normale che si comporti così- disse la donna, soffiando sulla sua tazza di caffè bollente -D’altronde siamo ormai nello stesso periodo di ogni anno-.
-Sì ma quest’anno sembra quasi peggio… Non so perché, ma ho questa sensazione-.
-Mike ha ragione- intervenne l’altro uomo -Prima mentre stavamo tornando dalla Scientifica è stato molto aggressivo, molto di più di altre volte-.
-Ragazzi, dobbiamo anche ricordarci di quello che sta passando- aggiunse la donna, bevendo un sorso di caffè.
-Ok Madison, ma riflettici- disse il primo -Sono ormai passati dieci anni, abbiamo fatto di tutto per aiutarlo e ci ha sempre respinto… Non mi sembra un bel comportamento da parte sua-.
-Prova a metterti nei suoi panni- rispose di nuovo lei -Saresti in grado di dimenticare la donna che hai amato per un’intera vita?-.

-Signor Milton, si accomodi- la donna seduta dietro alla scrivania gli fece un cenno di sedersi su una delle due poltrone davanti a lei.
L’uomo fece un cenno di assenso e si sedette, guardando prima la donna dietro alla scrivania poi l’altra che era in piedi lì di fianco, con le braccia incrociate sul petto.
-Allora, che è successo?- chiese lui, cercando di non pensare subito al peggio che potesse essere accaduto.
-Vede, l’abbiamo convocata per parlare del comportamento di sua figlia Hayley- disse la donna seduta, facendosi leggermente avanti e appoggiando le mani incrociate alla scrivania.
Lui sospirò -So che mia figlia non è esattamente una studentessa modello e che ha parecchi problemi con i suoi compagni, però…- non finì la frase perché l’altra donna lo interruppe.
-Non è il problema di relazionarsi con gli altri- disse -Il fatto è che sua figlia non è educata, risponde continuamente sia a me che ai miei colleghi e…-.
-Signora Dupont, per favore- l’ammonì l’altra, appoggiandole una mano sul braccio -Quello che vogliamo dirle, è che sua figlia non ha un comportamento adeguato a questo istituto-.
-Signora Johnsson, mi spiace se la interrompo, ma so come è fatta mia figlia- disse l’uomo -Hayley ha sempre avuto un carattere un po’ difficile, soprattutto da quando sua madre è morta- nel pronunciare le ultime parole sentì un groppo formarsi in gola, ma riuscì a respingerlo -Ho sempre cercato di aiutarla, ho anche provato a portarla da uno specialista quando era più piccola, ma è testarda ed è impossibile cambiarla-.
-Forse non ha ricevuto un buon esempio- continuò la donna, senza scomporsi.
-Lei non ha idea di cosa ha passato mia figlia negli ultimi anni- disse l’uomo, guardando la donna con uno sguardo di ghiaccio -Da quando mia moglie è morta abbiamo avuto molte difficoltà, e se Hayley si comporta così è solo perché è insicura e anche a casa la situazione non è tra le migliori-.
-Allora cerchi di darle più stabilità e di migliorare le cose- continuò imperterrita la donna -Forse con una buona figura femminile davanti…- non finì la frase, perché l’uomo scattò in piedi.
-Non mi venga a dire come gestire la mia vita privata!- fece lui, alzando il tono di voce -Lei non può nemmeno immaginare cos’ho passato negli ultimi anni, cercando di dare ai miei figli tutto ciò di cui avevano bisogno da quando la loro madre se n’è andata-.
Le due donne lo guardarono con espressione sorpresa, quasi allibita.
-Mi sono fatto in quattro per loro, standogli vicino quando ne avevano bisogno- continuò lui -Forse ha ragione, a loro manca una figura materna, ma sarò io a decidere quando sarà il momento giusto, sia per me che per loro!-.
Dette queste ultime parole, si voltò e se ne andò da lì, sbattendo con forza la porta.

L’uomo camminava lentamente per le strade verso casa, con le mani chiuse in un pugno nelle tasche della giacca; doveva sapere che prima o poi tutto quello che sentiva dentro sarebbe esploso, e sarebbe successo nei peggiori dei modi. D’altronde non aveva mai voluto parlare con nessuno, si era sempre tenuto tutto per sé e aveva voluto portare quel fardello da solo, e ora ne poteva vedere i risultati.
Sospirò, cercando di non pensarci più; doveva solo dimenticare quello che era successo e voltare pagina, iniziando dal seguire il consiglio del collega. Sì, era meglio così; era molto meglio se tornava verso quel luogo che aveva sempre cercato di evitare.
Forse non avrebbe dovuto passare tutto il resto della vita così, credendo ancora in un miraggio che sapeva perfettamente non si sarebbe mai avverato. Eppure lui non rinunciava a quell’idea, non riusciva a togliersela dalla testa e per parecchie notti ci aveva pensato sopra, cercando di darsi mille spiegazioni. Ma alla fine la verità gli piombava addosso, e capiva che tutti quei pensieri erano soltanto fantasie.
Forse avrebbe dovuto rimettersi in gioco, tornare a vivere come una volta, ma c’era sempre quel qualcosa che lo tratteneva: c’era sempre lei sullo sfondo, e non riusciva a cancellarla, o almeno a sbiadirne almeno un po’ il ricordo. Sapeva che sarebbe stato difficile rimettersi sulla piazza,e il fatto che portasse ancora la fede all’anulare non lo aiutava di certo; forse la sua storia di vedovo avrebbe potuto fare colpo, ma lui non era quel genere di persona che usa il proprio passato per ottenere dei vantaggi.
Eccolo, ormai era arrivato sotto casa. Sospirò, alzando per un momento lo sguardo sull’edificio di due piani che gli stava a sinistra. Muovendo lentamente gli ultimi passi verso il cancello, estrasse dalla tasca la chiave, stringendola forte nella mano. Mancavano appena tre passi per entrare nel giardino quando si scontrò con una persona che non stava guardando dove stesse andando.
-Oddio, mi dispiace moltissimo…- farfugliò la donna, allungando una mano verso l’uomo che aveva accidentalmente spinto contro il muro -Non badavo dove stavo andando-.
-Ah non importa- fece lui, scrollandosi di dosso la polvere biancastra della verniciatura -Anche io ero sovrappensiero-
L’uomo alzò lo sguardo per vedere con chi avesse a che fare, e per poco non si sentì svenire. La reazione della donna fu simile, ma fu lei a riprendersi per prima e a sorridere in modo timido e quasi impercettibile.
-Ciao Dave- disse, con un sussurro.
Lui dovette deglutire un paio di volte, prima di riuscire a parlare -Linds…-.

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Capitolo 9
*** Sono proprio io ***


Sono proprio io


-Forse hai ragione Madison…- ammise l’uomo, smettendo di tamburellare la penna sulla scrivania -Non credo che sia così facile…-.
-Non oso nemmeno immaginare cos’abbia passato in questi anni- aggiunse l’altro uomo, guardando il foglio che aveva davanti a sé, ma senza vederlo.
La donna e l’altro uomo si scambiarono uno sguardo, capendosi perfettamente all’istante: gli stessi ricordi erano tornati alla mente a entrambi, ricordi che non sarebbero mai riusciti a cancellare. Sapevano cosa stava succedendo, perché il loro collega fosse così chiuso e volesse tenere per sé il suo dolore; non avevano forse passato lo stesso periodo, un paio di anni prima, quando il loro collega era morto?
Che cosa si poteva fare in una situazione del genere? Cosa si poteva fare quando si perdeva una persona così cara e che si amava, seppure in maniere molto distanti le une dalle altre? Era difficile da accettare, per giorni si cercava di pensare che fosse un’illusione, ma il tempo rendeva la realtà ancora più cruda di quanto non fosse.
La donna sospirò -Non credo ne verremmo mai a capo- disse, fissando la bevanda scura nella tazza.
-Ne sei sicura?-.
-Sappiamo com’è fatto, qual è il suo carattere- continuò lei -Non possiamo insistere ancora. La questione ormai riguarda solo lui, e deve essere lui a decidere quando sarà il momento di finirla con il passato e di tornare al presente-.

La ragazza aveva finito di fare i compiti di matematica, e adesso se ne stava seduta al tavolo della cucina con una tazza di cioccolato fumante davanti al naso, da cui ogni tanto beveva un sorso. Aveva lo sguardo puntato fuori dalla finestra alla sua destra, quella che dava sul giardino retrostante, ed era immersa nei suoi pensieri. Fissava con intensità l’altalena fissata a un ramo dell’acero del giardino con robuste catene d’acciaio che dondolavano dolcemente nel leggero vento primaverile. In quel momento ebbe come una specie di flash, un lampo di ricordi che le illuminò la mente per alcuni secondi: era piccola, doveva avere forse poco più tre anni, e guardava suo padre e suo fratello giocare a baseball tra di loro; in quel momento sentì una risata dietro di sé e, voltando lo sguardo, vide nella penombra, confusi dalla luce del sole che penetrava attraverso il mantello di foglie, i tratti di una donna con un sorriso bellissimo che abbassò lo sguardo su di lei e le diede un bacio sulla testa.
Era durato solo pochi secondi, ma a lei parve un’eternità. Credeva di aver rimosso qualsiasi ricordo di quella donna, invece quel momento era rimasto impresso nella sua memoria, e non sapeva nemmeno il perché. Si sentiva spaventata, quasi inorridita da quel flash, e con mani tremanti appoggiò la tazza sul tavolo, cercando di non rovesciare l’intero contenuto sul vetro.
Era stato uno shock rivederla, per di più in quel momento, mentre lei rideva; solo dopo un paio di mesi a quel giorno lei non sarebbe più tornata a casa, quel bacio che le dava tutte le sere prima di addormentarsi era volato via nel vento di quel pomeriggio estivo.
Chiuse gli occhi e l’immagine di quel sorriso le si formò dietro le palpebre, senza che lei se ne rendesse conto; sapeva che quella dolce sensazione era solo per lei, ma in quel momento rivedendolo si sentiva fredda e spaventata. Vuota. Abbandonata.

-Vuoi dire che è l’unica foto in cui ci siete tutti?- la ragazza si voltò verso di lui, sorpresa.
-E’ stata una scelta di mio padre- replicò lui, abbassando lo sguardo sul pavimento -Non voleva che…- si interruppe, incapace di continuare.
Non aveva mai capito quella scelta, il perché di quel gesto così estremo. Perché suo padre aveva voluto farlo, perché aveva deciso di impedire ai suoi figli di avere almeno un piccolo ricordo della donna che li aveva messi al mondo?
Non aveva mai condiviso quell’opinione, per lui era importante avere almeno qualche barlume di ricordo di sua madre, e aveva dovuto lottare con le unghie e con i denti, anno dopo anno, per poter conservare quella foto, la cosa più preziosa che avesse mai posseduto.
La ragazza lo guardò con espressione quasi intenerita, vedendolo così sensibile e frustato. Si sedette accanto a lui sul letto e gli prese una mano tra le sue. Non era sicura di quello che voleva dire, aveva paura che una parola di troppo l’avrebbe allontanata per sempre da quell’amico a cui voleva un bene dell’anima.
Si mordicchiò per un po’ il labbro inferiore, cercando di evitare qualsiasi parola che potesse ferirlo, ma alla fine fu lui a toglierla dal suo stesso impiccio.
-Grazie Steffy- disse, tenendo lo sguardo basso -Non saprei cosa farei senza di te-.
-Ehi- rispose lei, andando a cercare i suoi occhi -Non dirlo neanche per scherzo. Sai che per te ci sarò sempre-.
-Lo so- alzò lo sguardo verso di lei, e i suoi occhi azzurri screziati di nocciola si incatenarono a quelli chiari della ragazza -E’ un sollievo averti come amica-.
-Anche per me…- abbassò lo sguardo, improvvisamente imbarazzata, ma si riprese subito e tornò a guardarlo negli occhi -Sono davvero fortunata ad avere una persona come te-.

-S…Sei veramente tu?- l’uomo ancora non riusciva a credere a quello che gli stava succedendo.
Non poteva essere reale, non c’era nessuna logica che potesse spiegarlo. Eppure era lì, in piedi davanti a quella donna che aveva amato per un’intera vita, davanti a quella donna a cui aveva giurato fedeltà fino alla fine.
-Sono io Dave- disse lei, cercando di sorridere.
-Io… Io non posso crederci…- balbettò.
-Sono viva Dave. Sono sopravvissuta a quell’esplosione- la voce quasi le si ruppe nel pronunciare le ultime parole, ripensando a quel dannatissimo giorno in cui tutto era cambiato.
No, non poteva essere vero… Era tutto un’assurdità, un altro dei suoi sogni che continuava a rimbalzargli nella mente, cercando di convincerlo che quel miraggio in cui aveva sempre sperato potesse prima o poi realizzarsi.
-Io… Io non so che pensare-.
Lei si mordicchiò il labbro inferiore, ancora incerta su come potesse dimostrargli che non era un fantasma, né una fantasia, né un’illusione; con uno slancio improvviso gli si avvicinò e posò le sue labbra su quelle dell’uomo.
Lui rimase per un momento interdetto, non sapendo cosa pensare; dovette ammettere però che quelle labbra non erano una finzione: le sentiva sulle sue, calde, pulsanti, vive. Era ancora intimorito, spaventato da quello che stava succedendo, ma per un secondo si lasciò andare; da quanto tempo non provava più quelle sensazioni?
Fu lei la prima a sciogliere il bacio, ma continuò a tenere la fronte a contatto con quella dell’uomo; tenne gli occhi chiusi, cercando di nascondere le lacrime che le si stavano formando dietro le palpebre. Dopo qualche secondo riuscì a riaprirli e si ritrovò a guardare negli occhi chiari dell’uomo il suo riflesso.
-Sono io Dave- mormorò, non riuscendo a distogliere lo sguardo, né a staccarsi da lui -Riesci a credermi adesso?-.

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Capitolo 10
*** Sola ***


Sola

-Credo che sia ora di andare- la ragazza raccolse i suoi libri e aprì la porta -I miei si staranno chiedendo dove sono finita-.
-Ti accompagno di sotto- il ragazzo si alzò a sua volta e scese con lei i gradini fino al piano inferiore, poi fino alla porta di ingresso -Grazie per essere passata-.
-Sono io che ti devo ringraziare- sorrise lei -Senza il tuo aiuto non so come avrei fatto a studiare chimica-.
-Figurati, è stato un piacere- lui ricambiò il sorriso -Quando hai bisogno di studiare qualche altra formula sai chi chiamare e dove trovarmi- le fece l’occhiolino.
-Lo terrò a mente- disse lei, aprendo la porta e scomparendo dietro di essa, facendo un cenno di saluto.
Il ragazzo chiuse la porta e si diresse verso la cucina dove sua sorella era ancora seduta al tavolo, immersa nei propri pensieri, con i libri chiusi impilati uno sull’altro lì di fianco.
-Allora, hai finito di studiare?- chiese lui, sedendosi di fianco.
Lei annuì distrattamente, senza guardarlo negli occhi; si portò la tazza di cioccolato fumante alle labbra e ne bevve un gran sorso, sempre tenendo lo sguardo puntato verso il giardino al di là della finestra.
Lui la guardò per un momento, poi andò a recuperare un’altra tazza di cioccolato per sé e si risedette di fianco a lei, senza dire niente; rimasero così per alcuni minuti, nel più assoluto silenzio, interrotto solo dal ticchettio dell’orologio appeso dietro di loro.
-Matt…- chiamò lei, a voce bassissima.
-Che c’è?- chiese lui, alzando lo sguardo verso la sorella.
-Tu ti ricordi di quando passavamo i pomeriggi insieme, in giardino?-.
-Con mamma e papà intendi?-.
-Sì… Con… Con loro- disse lei, incapace di pronunciare quella parola che raramente aveva utilizzato.
-Qualcosa sì- rispose lui, appoggiandosi allo schienale della sedia -Ricordo che papà cercava in tutti i modi di insegnarmi a giocare a baseball… Anche se non c’è mai riuscito-.
La ragazza sorrise per un secondo -E… e la mamma?- disse poi, stringendo con forza la propria tazza.
Lui sospirò -Stava con te- rispose, cercando di non ferirla troppo -Passava quasi tutto il pomeriggio sull’altalena con te, e a volte ti cantava delle canzoncine per farti addormentare-.

-Sei davvero tu- sussurrò l’uomo, incapace di credere alle proprie parole.
-Sì Dave, sono io- la donna gli sorrise, felice che finalmente si fosse accorto che non stava mentendo, che non era un’altra quella che aveva appena baciato, ma che era veramente sua moglie.
-Linds…- lui la guardò dritto negli occhi, mentre la felicità che stava provando per aver ritrovato la donna che aveva sempre amato stava svanendo, sostituita da una feroce rabbia.
Lei gli accarezzò una guancia, ma l’uomo, preso da quella nuova sensazione e da tutte le cause del suo dolore passato, si ritrasse, senza più guardarla.
-Che succede Dave?- chiese lei, sorpresa dalla sua reazione.
-Che succede? Ora mi chiedi che succede?- il suo tono tradì tutta la rabbia che si stava accumulando dentro di lui, tutto l’odio che in quegli anni aveva provato nei suoi confronti per averlo abbandonato.
-Non… non sei felice di vedermi?- continuò lei -Non sei felice che io sia viva?-.
-Dovrei forse esserlo?- chiese lui di rimando -Dopo quello che ho passato?-.
-Dave non…- iniziò la donna, ma lui non le fece finire la frase.
-Dovrei essere felice che tu ti sia ripresentata così, dal nulla?- disse, non riuscendo a trattenersi -Hai una vaga idea di quello che abbiamo passato io, Matt e Hayley dopo che te ne sei andata? Ci hai abbandonati, tutti quanti-.
-Non era mia intenzione farlo…- cercò di scusarsi lei, ma l’uomo non le diede ascolto.
-Li hai lasciati da soli, li hai abbandonati a loro stessi. Dov’eri quando cadevano e si sbucciavano le ginocchia? Dov’eri quando avevano la febbre e stavano male? Dov’eri quando avevano bisogno della loro mamma?-.
-Io non volevo…-.
-Lascia perdere tutte quelle scuse, ormai il tempo è passato, loro sono cresciuti anche senza di te-.
-Credi davvero che mi piaccia l’idea di essermi persa tutti i loro momenti belli, tutti i momenti della loro infanzia?- attaccò lei, con gli occhi offuscati dalle lacrime -Credi davvero che abbia voluto abbandonarli di proposito?-.
-Ah già, è vero. Eri tu quella che voleva a tutti i costi che i suoi figli crescessero con entrambi i genitori- fece lui, con voce velenosa -Ma guarda un po’, sei stata proprio tu ad andartene-.
Lei lo guardò dritto negli occhi, incredula che fosse proprio lui a dirle quelle cose -Dave, come puoi dirmi questo?-.
-E’ la verità Linds, che ti piaccia o no- rispose lui, poi scosse la testa -Dio come sono stato idiota! Avrei dovuto chiarire questa situazione fin da subito, forse sarebbe andata diversamente-.

La sala del medico legale si trovava in fondo a un lungo corridoio mal illuminato e non esattamente pulito; regnava sempre un silenzio assoluto, ma in quel momento si sentiva il rimbombare assordante dei passi dei quattro agenti che stavano correndo.
-David ti prego calmati!- disse la donna, cercando di bloccare il collega.
-Lasciami Madison!- l’uomo si divincolò dalla sua presa, riprendendo a correre verso la sala autopsie -Non posso permetterlo!-.
Gli altri due uomini dietro di loro accorsero in aiuto della donna, e alla fine riuscirono a bloccarlo, prima che potesse fare irruzione nella stanza alla fine del corridoio.
-Lasciatemi!- gridò, cercando di divincolarsi -Devo andare da lei!-.
-David calmati!- continuò la donna -Non serve a niente fare così-.
-Non posso permetterlo, è mia moglie!- con uno strattone riuscì a liberarsi dalla stretta dell’uomo alla sua destra, ma l’altro teneva duro.
-David sai bene che è necessario in queste situazioni, lo sai meglio di chiunque altro- replicò la donna -Non vuoi sapere quello che è successo esattamente?-.
-E’ mia moglie, non voglio che venga toccata!- con queste parole riuscì a liberarsi definitivamente dalla stretta dei colleghi.
Fece qualche passo in direzione della porta, ma questa si aprì prima ancora che lui potesse afferrarne la maniglia. Ne uscì il medico legale che era accorso fuori, preoccupato dalle grida provenienti dal corridoio sempre silenzioso.
-La prego, mi faccia entrare- disse l’uomo, con voce supplicante -Voglio vederla-.
L’altro annuì e lo accompagnò all’interno, in mezzo a due tavoli su cui due corpi senza vita erano stesi, coperti da un lenzuolo bianco. Respirò profondamente, poi fece un cenno per dire all’altro di scoprire il corpo.
Quello che gli si presentò davanti lo fece star male; cercò di lottare contro le lacrime che premevano per uscire, ma non ce la fece. Alzò una mano per accarezzarle i capelli carbonizzati, ma non vi riuscì; chinò la testa e rimase lì senza dire niente, i singhiozzi che gli scuotevano il petto, i pugni serrati appoggiati al tavolo.
Quando riuscì a riprendersi abbastanza da poter parlare, alzò la testa e il patologo ricoprì il corpo con il lenzuolo bianco; lui aspettò ancora qualche momento, durante i quali rimase a fissare il telo davanti a lui.
-Non voglio che venga eseguita l’autopsia su di lei- disse infine, guardando il patologo.
-David sei impazzito?- esclamò la donna dietro di lui -E’ importante, e…- non riuscì a concludere la frase perché l’altro la interruppe.
-Non voglio che vi siano intrusioni nel corpo di mia moglie, chiaro?- disse lui, voltandosi verso i tre colleghi.
-David cerca di ragionare- disse il suo collega -Dobbiamo sapere quello che è successo, è la procedura-.
-Facile parlare per te, non c’è il corpo di Andrea sotto quel lenzuolo!- gridò lui, disperato.
-Andiamo, pensaci bene- intervenne l’altro uomo -Non vuoi sapere quale dei due corpi sia quello di tua moglie?-.
L’uomo si voltò di nuovo verso il tavolo, poi verso il patologo -Può farmi un favore?- disse, rivolto a quest’ultimo.
Lui annuì, senza dire niente.
-Voglio solo che stabilisca quale dei due è quello di mia moglie. Nessun altro taglio, nessun’altra intrusione-.

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Capitolo 11
*** Ti troverò, da qualche parte ***


Ti troverò, da qualche parte

-Ti prego ascoltami!- la donna afferrò il braccio dell’uomo con tutte le sue forze, impedendogli di andarsene.
-Ascoltare le tue storie? No grazie- lui si scrollò dalla sua presa e la guardò dritto negli occhi, con uno sguardo glaciale e infuocato allo stesso tempo -Non ti voglio più vedere, non voglio più sentire parlare di te-.
-Ma…- provò a dire lei, ma l’uomo non le diede tempo per finire la frase.
-Sparisci dalla mia vita, e questa volta per sempre-.
Dette queste parole, i due rimasero a fissarsi negli occhi ancora per qualche secondo, poi, vedendo che lui non demordeva e teneva duro, la donna se ne andò a testa bassa per non far vedere le lacrime che avevano iniziato la loro folle corsa sulle sue guance. Non si allontanò nemmeno di due metri che si fermò, senza nemmeno voltarsi.
-Sai, quando ho scoperto tutto, quando ho capito che ero stata imbrogliata, avevo paura a tornare- iniziò a dire la donna -Avevo paura di quello che mi avresti detto, di come avresti reagito, ma Alex mi aveva assicurato che sarebbe andato tutto nel verso giusto. Ora capisco quanto si sbagliava-.
-Alex?- chiese lui, inarcando un sopracciglio, come se non avesse sentito il resto.
-L’uomo che mi ha salvato dieci anni fa- spiegò -L’uomo che ha fatto in modo che potessi tornare qui, ma credo che sia stato un errore. Sei cambiato, non sei più l’uomo che ho sposato, sei tornato quello duro e insensibile che ho conosciuto all’inizio-.
-Il tempo passa Lindsay, ma forse tu non riesci a capirlo-.
-Lo capisco invece. Quello che non riesco a capire come un errore possa distruggere una personalità. Ma probabilmente, questo non lo saprò mai- detto questo, la donna riprese a camminare e si allontanò.
Solo quando il rumore sordo dei passi della donna che se ne andava si spense, l’uomo decise di entrare in casa; non appena, però, mise mano alla maniglia del cancelletto che chiudeva il giardino si fermò, incapace di oltrepassare quella sottile linea che lo separava dall’edificio bianco di fronte a lui. Appoggiò la fronte al metallo freddo della cancellata e rimase lì, ad occhi chiusi, la mano serrata intorno alla maniglia.
Alla fine si decise e rialzò lo sguardo, leggermente offuscato da un velo di lacrime che si costrinse a eliminare all’istante, riprendendo la sua solita espressione dura e impenetrabile. No, non se la sentiva di andare a casa e ritrovare negli occhi dei figli lo stesso sguardo che aveva appena allontanato per sempre da sé.
Ricacciando le mani in tasca, fece dietrofront e ritornò sui suoi passi, mentre i suoi sensi stavano perdendo il contatto con la realtà, riavvicinandolo a quei momenti lontani.

-Ti prego, non fare idiozie. Linds... Lindsay!-.
L’uomo lanciò il telefono dall’altra parte dell’auto, senza curarsi se si sarebbe rotto o meno, e premette ancora di più il pedale dell’acceleratore. Lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore e vide, con sollievo, che un’altra auto con sirene e lampeggiante accesi lo stava seguendo.
-Dannazione, non fare stupidaggini- mormorò, stringendo con forza il volante.
Finalmente riuscì a liberarsi dal traffico urbano che fino a quel momento lo aveva in parte rallentato, e in qualche minuto riuscì a scorgere da lontano la collinetta fuori città che stava cercando. Non appena arrivò ai piedi della piccola altura, notò un’altra berlina grigia ferma davanti all’imbocco della stradina sterrata che portava su, in quel momento ostruita da un tronco caduto durante l’ultimo temporale della settimana prima.
L’uomo scese dall’auto in fretta e furia, senza nemmeno chiudere lo sportello, poi si precipitò su per il pendio, seguito dai colleghi che correvano dietro di lui. Erano quasi arrivati alla porta del piccolo capanno in cima alla collina quando si sentì un forte boato, contemporaneo all’esplosione dell’edificio che si sbriciolò sotto una pioggia di vetri.
-Lindsay!- urlò l’uomo, mentre lingue di fuoco s’impossessavano di tutto ciò che era rimasto del capanno.
Senza pensarci nemmeno, iniziò a correre verso quell’inferno di fuoco, e ci si sarebbe buttato in mezzo, se i due colleghi dietro di lui non l’avessero afferrato per le spalle e gettato a terra, in modo da fermarlo.
-David fermati!- gridarono all’unisono -Non c’è più niente da fare-.
I due risollevarono l’uomo che rimase a guardare quell’orrore davanti a sé, sentendosi divorare all’interno dal dolore e dalla disperazione. Si lasciò cadere in ginocchio, strappando con ferocia ciuffi di erba misti a cenere nera, gridando il proprio dolore come un lupo ulula alla luna.

-Ho sentito dire che David non ha voluto l’autopsia sul corpo di Lindsay- disse il tecnico di laboratorio rivolto alla donna che si era presentata da lui qualche minuto prima -E’ vero?-.
-Già- sospirò lei -Non vuole capire che è importante per sapere chi e cosa l’abbiano uccisa davvero-.
L’uomo la guardò di traverso -Madison, sei davvero tu a parlare così?- le disse.
Lei ricambiò con uno sguardo interrogativo -Che intendi dire?-.
-Stai veramente dicendo che sono più importanti le indagini rispetto alla morte della tua migliore amica?-.
-Mark, io voglio solo la verità- rispose lei -E l’unico modo per saperlo è portare avanti le indagini, non c’è nessun altro sistema-.
-Io non ti riconosco- disse l’uomo, scuotendo la testa -Credevo che per te fosse importante…- non riuscì a finire la frase perché la donna lo interruppe.
-Senti Mark, anche io sono sconvolta per quello che è successo, chiaro?- disse lei, alzando il tono di voce -Sì, ho appena perso la mia migliore amica, e non sai quanto ne sono addolorata. Ma ora voglio soltanto le risposte che mi servono per renderle giustizia, come vorrebbe lei. Ti è chiaro il concetto?-.
L’uomo non rispose; abbassò lo sguardo e rimase lì senza dire niente.
-Allora, hai trovato qualcosa di utile?- riprese lei, tornando a usare un tono di voce normale.
-Ehm, no- lui si riscosse e spostò gli occhi sulle buste dei reperti allineate sul tavolo di fronte a lui -Tutto quello che poteva tornarci utile è andato distrutto nell’esplosione-.
-E dalle impronte dentali dei due corpi?-.
-Erano troppo danneggiati per avere un riscontro perfetto- l’uomo le mostrò quello che aveva scoperto -In effetti, abbiamo almeno una mezza dozzina di possibili identità-.


-Madison? Madison stai ascoltando?-.
La donna alzò lo sguardo verso i due colleghi che la stavano fissando -Hai detto qualcosa?- disse, un po’ confusa e ancora sovrappensiero.
-Sei sicura di stare bene?- le chiese il collega, scrutandola attentamente.
-Sì sì, certo- si affrettò a rispondere -Stavo solo pensando ad alcune cose… Voi che stavate dicendo?-.
I due si scambiarono uno sguardo interrogativo, poi alzarono le spalle -Stavamo solo parlando di quei spacciatori-.
-Ah già- la donna tornò al presente, lasciando in disparte per un momento quei pensieri -C’è qualche novità?-.
-Al momento sembrerebbe di no, niente di nuovo-.
La donna annuì, come se quella notizia non la sfiorasse nemmeno; i due colleghi le lanciarono un’occhiata confusa, poi decisero di lasciar perdere e tornarono entrambi alle loro occupazioni. Di lì a poco la porta di vetro si aprì.
-David, che ci fai qui?- esclamò la donna, vedendo l’uomo entrare.
-Pensavamo fossi andato a casa- intervenne uno dei colleghi -E’ successo qualcosa?- aggiunse poi, notando la sua espressione sconvolta.
-Madison posso parlarti un momento?- l’uomo si rivolse direttamente alla donna, senza dare ascolto alle domande dei colleghi -E’ molto importante-.
-Ok- rispose lei, sconcertata dal suo tono serio, seguendo poi il collega lungo il corridoio deserto -Allora, che è successo?-.
-Lindsay… è tornata-.

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Capitolo 12
*** Che ci è successo? ***


Che ci è successo?

-Che… che vuol dire che è tornata?- chiese la donna, non proprio sicura di aver capito bene le parole dell’uomo.
-Lindsay è qui in città, l’ho incontrata poco fa, davanti alla porta di casa- rispose lui, con tono concitato.
Lei lo guardò male, poi sospirò -David, capisco che tu stia ancora male per quello che è successo, ma devi fartene una ragione. Lei è morta, non potrà mai…- non finì la frase perché lui la interruppe.
-No Madison, lei è viva!- esclamò -Era lei, ne sono sicuro-.
-David è impossibile, abbiamo trovato il suo corpo carbonizzato- gli fece notare la donna.
Lui scosse la testa -C’ho pensato anche io. Ma se avessimo trovato il corpo di un’altra? Se ci fosse stata un’altra donna in quel capanno quel giorno?-.
La donna sospirò di nuovo -Non è possibile, David. Chi altro sapeva che quell’uomo si trovava lì se non solo noi? Come ha fatto il capanno a esplodere se non c’era stata una sparatoria prima? Sai anche tu com’è andata- si fermò un momento -E poi, c’era la sua auto ai piedi della collina, l’abbiamo vista tutti-.
-Madison, io non so chi ci poteva essere quel giorno là dentro, né tantomeno posso sapere chi abbia causato la sparatoria, ma so per certo che non c’era Lindsay- vedendo l’espressione della collega, decise di vuotare il sacco -So che sembra assurdo, Madison, ma io sono certo che lei è viva. Prima… mi ha baciato, e non era finzione-.
Lei lo guardò con gli occhi fuori dalle orbite -L…lei ti avrebbe baciato?-.
L’uomo annuì, senza aggiungere nulla.
-Ok, supponiamo che lei sia viva…- iniziò a dire la donna, ma l’altro la interruppe.
-Lei è viva- sottolineò, scandendo le parole una per una.
-Ok, ok, lei è viva. In qualche modo riesce a sopravvivere all’esplosione e sparisce per dieci anni, poi all’improvviso torna qui, giusto?- disse lei e, a un cenno affermativo del collega, continuò -Qui mi sorge spontanea una domanda: perché dieci anni? E dov’è stata finora?-.
-Non ne ho idea- sospirò lui -Non gliel’ho chiesto. Ha solo menzionato un certo Alex, niente di più-.
-Che vi siete detti esattamente?- volle sapere lei, un po’ incuriosita, anche se era consapevole che quel dialogo stava prendendo una piega un po’ sinistra.
-Mi ha detto che le dispiaceva di essersene andata, di essere sparita, e che non era certo sua intenzione abbandonarci- rispose lui.
-E tu che le hai detto?-.
-Beh, ecco…- balbettò, rendendosi finalmente conto di quello che aveva causato -Le ho detto che non me ne importava niente delle sue scuse, che non volevo più sentir parlare di lei e che doveva uscire per sempre dalla mia vita-.
La donna sgranò gli occhi -Ma ti sei bevuto il cervello?!- esclamò, alzando notevolmente il tono di voce.
Due colleghi che stavano passando di lì smisero di chiacchierare tra di loro e si voltarono verso la donna, guardandola con gli occhi a palla. Lei se ne accorse e rispose con un’occhiataccia, continuando a fissarli finché non girarono l’angolo e sparirono alla sua vista.
-Ma sei scemo o cosa?- riprese poi lei, abbassando il tono -Ti rendi conto di quello che hai fatto?-.
Lui non rispose; rimase lì a testa bassa, senza dire niente.
-Per dieci anni ti sei lamentato del fatto che non avresti più rivisto tua moglie e dicevi che la rivolevi con te- continuò ad attaccarlo -E ora che per qualche strana ragione tutto questo accade tu la mandi a quel paese dicendole di sparire?! Si può sapere cos’hai in quel cervello bacato?!-.
-Ero confuso, d’accordo?- l’uomo rizzò la testa e la guardò dritto negli occhi -Non sapevo cosa dire, ed ero arrabbiato con lei. Volevo solo che non fosse vero- fece una pausa -E poi, come posso sapere che in questi anni non è stata tra le braccia di questo Alex o come diamine si chiama?-.
-Se fosse stato così, perché credi che sia tornata da te?-.
-E che ne so io!- sbottò lui -Magari per i sensi di colpa, perché avevano litigato… Non ne ho idea, Madison!-.
La donna scosse la testa, poi si allontanò di qualche passo -Credimi David, se stavolta lei non tornerà più sarà stata solo colpa tua- disse senza voltarsi verso di lui -Pensaci bene-.

La donna aprì lentamente gli occhi, cercando di abituarsi alla luce arancione che proveniva dalla finestra alla sua sinistra. Doveva essere pomeriggio inoltrato, ma lei non ricordava assolutamente di essersi addormentata, né ricordava cos’aveva fatto quella stessa mattina. Alzò il braccio destro per passarselo sul volto, ma non appena tentò di muoverlo una fitta di dolore le fece ricadere l’arto sul copriletto.
-Ehi, non devi fare certi movimenti- disse una voce maschile che non riconobbe -Devi stare ferma e riposarti-.
Ignorando quelle parole, cercò di mettersi almeno a sedere, riparandosi gli occhi dalla luce con la mano sinistra, e finalmente riuscì a vedere chiaramente il volto del suo interlocutore. Era seduto di fianco al letto su cui era stesa, e la stava guardando con un’espressione mista tra il sollievo e l’allarmato.
Tentò nuovamente di parlare, ma sentiva la bocca arsa e le labbra aride; notando con la coda dell’occhio una caraffa d’acqua posata sul comodino lì vicino e, cercando di evitare movimenti bruschi, gliela indicò. Lui seguì con lo sguardo la direzione che lei gli stava dicendo e, capendo cosa voleva, versò un po’ d’acqua in un bicchiere e l’aiutò a bere.
-Che… che mi è successo?- chiese lei, quando ebbe bevuto a sufficienza per schiarire la voce.
-Hai avuto un incidente- rispose l’uomo, riponendo sul comodino il bicchiere ormai vuoto -Sei praticamente finita sulla mia strada-.
-Che… che significa?-.
-Non ricordi quello che è successo?- chiese lui di rimando.
La donna fece un cenno negativo con la testa; proprio non ricordava niente. L’ultima cosa che gli era rimasta nella mente era un forte boato, ma non riusciva a capire cosa fosse.
-Ecco, eri nel bosco qui vicino, sulle colline, e sei caduta. Ti ho praticamente visto rotolarmi davanti-.
-Quando è successo?-.
-Un paio di giorni fa- rispose e, vedendo l’espressione d’orrore della donna, aggiunse -Il dottore che ti ha visitata ha detto che probabilmente hai sbattuto la testa, mentre rotolavi lungo il pendio. Hai una leggere commozione cerebrale e un’amnesia, ma niente che il tempo e il riposo non possano guarire-.
-E perché non riesco a muovere il braccio?- chiese lei, in preda al panico.
-Shh, calmati- lui le appoggiò una mano sulla fronte e le accarezzò i capelli -Hai una spalla lussata, e una slogatura alla caviglia. Vedrai che guarirà tutto in fretta-.


-Signora?-.
La donna si sistemò meglio la tracolla sulla spalla, e nel farlo passò la mano sulla vecchia ferita ormai guarita da tempo. Ripensò anche al dolore che aveva provato alla caviglia quando aveva cercato di mettersi in piedi, un paio di giorni dopo essersi risvegliata da quella specie di sonno in cui era caduta.
-Signora?-.
Lei rialzò lo sguardo e si ritrovò faccia a faccia con un ragazzo che non doveva avere più di una trentina d’anni, con i capelli biondi e gli occhi chiari; la stava fissando da dietro il vetro della biglietteria della stazione.
-Sì?- rispose lei.
-Mi spiace signora, ma la sua carta di credito è stata rifiutata- il ragazzo fece scivolare verso di lei una tessera magnetica di una banca locale -Il conto collegato a questa carta è stato bloccato-.
-Oh- fece lei, riprendo in mano la tessera -Scusi-.
-Vuole ancora il biglietto del treno per San Francisco?- disse lui, prima di cancellare la prenotazione che aveva già digitato al computer.
-Ah sì. Quant’è?-.
-Sono quaranta dollari e quindici, signora- rispose lui, premendo alcuni tasti sulla tastiera del computer.
La donna ripose il portafoglio all’interno della borsa che portava a tracolla e, nel farlo, notò una busta gialla sepolta sotto altri oggetti. Con una mano riuscì ad aprirla e ne estrasse una banconota da cinquanta dollari, che fece poi scivolare verso il cassiere dietro al vetro.
Lui contò il resto e glielo passò attraverso la fessura in fondo alla separazione di vetro, insieme a un biglietto del treno per San Francisco che partiva di lì a un’ora circa.
La donna fece un cenno con la testa per ringraziarlo, raccolse le monete del resto e il biglietto ferroviario e li depose nel portafoglio, poi si avviò verso una panchina sul binario cinque. Ne trovò una libera vicino al cartellone con gli orari dei treni locali e vi si mise a sedere, pensando che non avrebbe mai più rimesso piede in quella città.
Era stata rifiutata, spinta da parte, allontanata dalla sua vita, e lei non aveva fatto obiezioni. Aveva solo fatto una telefonata all’aeroporto per sapere quando ci sarebbe stato il primo volo per Chicago, ma da lì non sarebbe partito che tra una settimana, mentre ce n’era uno il giorno dopo che partiva da San Francisco. Non c’aveva pensato su due volte: aveva prenotato un posto su quel volo, e in quel momento non le rimaneva che aspettare che quel benedetto treno arrivasse per portarla via una volta per tutte.

La donna rivolse un altro sguardo al computer di fronte a lei, poi tornò ad occuparsi dei fogli che ingombravano la sua scrivania già da alcuni giorni, e che si stavano accumulando a una velocità impressionante.
Lo stava facendo davvero? Si era davvero lasciata convincere dalle fantasie del suo collega? Come le era saltato in mente di mettere sotto controllo delle carte di credito che ormai non venivano usate da anni? Forse lo stava facendo perché un po’ ci sperava, voleva che la sua migliore amica tornasse da lei. Ma lei sapeva benissimo che non sarebbe mai successo, lei se n’era andata tanti anni prima, sapeva cos’era successo quel giorno, e le sue speranze si erano assopite con il passare degli anni.
La donna sospirò, vedendo che non vi erano stati risultati fino a quel momento; lanciò un’occhiata verso il suo orologio e decise che era ora di fare una piccola pausa e mangiare qualcosa; almeno si sarebbe distratta per una decina di minuti e sarebbe tornata più concentrata al lavoro. Non aveva voglia di caffè, né tantomeno di quelle schifezze che si trovavano nelle macchinette, perciò decise di uscire e andare al bar più vicino, dove un caffè non avrebbe avuto il sapore di acqua.
Si stava infilando la giacca quando notò una notifica al computer; avvicinò il viso allo schermo per vedere di che si trattava, e all’istante sbiancò in volto.
-Non è possibile…- mormorò, non potendo credere a quello che vedeva -Non è possibile-.
Di slancio prese la cornetta del telefono fisso posto vicino al monitor del computer, compose un numero e aspettò che scattasse la conversazione.
-Sono io- disse, quando sentì che si era stabilita la connessione -Avevi ragione-.

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