Fiori di Ciliegio

di Lotiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 - Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** 02 - Un vecchio amico ***
Capitolo 3: *** 03 - Minaccia ***
Capitolo 4: *** 04 - Un'ombra ***
Capitolo 5: *** 05 - Segreto ***
Capitolo 6: *** 06 - Il Signor Yukino ***
Capitolo 7: *** 07 - Come rendere le cose più difficili ***
Capitolo 8: *** 08 - Parole al vento ***
Capitolo 9: *** 09 - Spia ***
Capitolo 10: *** 10 - Cuore ***
Capitolo 11: *** 11 - Bentornato ***
Capitolo 12: *** 12 - Tu (I Parte) ***
Capitolo 13: *** 13 - Tu (II Parte) ***
Capitolo 14: *** 14 - Invisible ***
Capitolo 15: *** 15 - Alexandra ***
Capitolo 16: *** 16 - Assassini ***
Capitolo 17: *** 17 - Sorpresa ***
Capitolo 18: *** 18 - Karina ***
Capitolo 19: *** 19 - Prigioniera ***



Capitolo 1
*** 01 - Un nuovo inizio ***


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01 - Un nuovo inizio


Kyoto


Erano passati poco più di due anni da quella triste notte. Dmìtrij lo aveva lasciato al porto di Tokyo agonizzante e aveva saputo poco dopo che era morto.
L’assassina si trovava in una delle zone più belle di Kyoto, sulle rive dello stagno che accoglie il Tempio del Padiglione d’Oro, con i suoi meravigliosi giardini. Era sempre rimasta incantata a guardare il tempio quando era piccola, ma era sempre stata più affascinata dalla sua sorella, il Tempio del Padiglione d’Argento, la quale non vedeva da quando era bambina. Quest’ultimo tempio, si diceva, conservava le vere reliquie del Buddha.
Reila portava degli occhiali scuri che le coprivano metà del volto. Sui capelli scuri aveva dei petali di ciliegio. Era la stagione della fioritura e stranamente non sembrava darle fastidio, come al solito. Simboleggiavano l’amore, una cosa che a lei era stato da sempre negato.
Improvvisamente lo aveva visto. Reila aveva portato lo sguardo verso l’altare e verso un uomo, circondato da altri uomini vestiti di nero. Una situazione alquanto bizzarra vedere uno come lui in un posto del genere, dopotutto lui non credeva in nulla che non fosse qualcosa di materiale.
Reila storse la bocca e si avvicinò lentamente. Fece finta di accostarsi all’altare, rimanendo sempre attenta che non la guardasse in pieno volto. Avrebbe potuto riconoscerla.
Attese che l’uomo entrasse all’interno. Era da solo e non si era minimamente accorto della sua presenza. Lei non fece altro che seguirlo.
L’assassina non poté far altro che sorridere e all’improvviso sfiorargli la spalla, per poi spingerlo verso uno degli angoli semibui del tempio.
-Chi non muore si rivede.
Lo aveva bloccato al muro, con il suo esile peso. Dopotutto lui non mostrava alcuna resistenza e sembrava anche piacergli. Reila non fece altro, nella penombra, che guardarlo in volto e di ritrovare gli stessi sentimenti che aveva provato tempo prima. Contrastanti come l’acqua e il fuoco.
-Non sei cambiata affatto.
Sul volto della donna comparve un leggero sorriso che le illuminò il viso. Strinse le labbra e chinò il volto verso il basso. Proprio in quel momento, la mano dell’uomo le sollevò il viso lentamente mentre le sue labbra si schiudevano appena.
Reila di scatto unì le sue labbra a quelle dell’uomo, appropriandosi di quella bocca la quale un tempo aveva odiato. Si staccò dall’uomo, traendo un profondo respiro, come se stesse prendendo aria dopo una lunga pausa in apnea.
La donna sorrise per qualche istante per poi rabbuiarsi all’improvviso.
-Cos’hai?
L’uomo si preoccupò per lei, sollevandole il volto con una mano e costringendola a guardarlo negli occhi. Reila scosse il capo, lasciando che un tiepido sorriso le illuminasse il volto.
-Niente, è solo che…
La donna lasciò la frase incompleta e l’uomo, che nel frattempo l’aveva stretta a sé, le carezzò il capo teneramente.
-Reila, è morto. Fattene una ragione.
-Non è per Dmìtrij. È per mio padre. Sai perché sono tornata a Kyoto?
L’uomo strinse le labbra e mosse il capo in segno di assenso. Come se qualcosa l’avesse colpito; un pugno in pieno petto. Prese un profondo respiro, lasciando che il volto di Reila gli si avvicinasse fino a sfiorargli la guancia.
-Sei sempre nella mia lista, lo sai questo?
Le labbra si stirarono in un sorriso lascivo. Guardava l’uomo, quella stessa persona che lei aveva pensato per tutto quel tempo che le avesse rovinato la vita.
-Ho lasciato da un po’ quella vita. Da quando sono tornata a Tokyo per pareggiare i conti.
Glielo disse quasi per rassicurarlo. Al momento non doveva temere di trovarsi una canna di pistola troppo vicino alla faccia.
-Tuo padre non ha mai saputo della tua esistenza dopo l’incidente che ti ha rovinato le mani. Ma non sarebbe il caso di dirglielo? Soprattutto in questa situazione.
Reila scosse il capo in segno di diniego, forse troppo energicamente da far intuire una certa nota di nervosismo.
-No, George. Non posso farlo. Se non risolvo la questione, lo metterei solo in pericolo. Nessuno deve saperlo.
George prese alcuni attimi per riflettere. Stette zitto, lasciando solo che il suono dei loro respiri all’interno dello spazio vuoto, lo riempisse. Non sapeva come convincerla a dire a suo padre che lei fosse ancora viva, ma questa era una decisione della donna, purtroppo.
-Ma potrebbe anche essere il momento in cui lui sappia qualcosa. Potrebbe aiutarti.
-No.
Reila scosse il capo di scatto, alzando leggermente la voce a quella risposta.
-Non voglio tornare da lui in questo modo. Non provarci, George.
La voce calò poi all’improvviso in un bisbiglio. L’uomo alzò le mani in segno di resa, accettando la sua volontà. Non aveva intenzione di contraddirla adesso.
Il tempio cominciava a popolarsi e loro stavano acquattati in quella penombra che al momento li teneva nascosti, ma purtroppo non sarebbe durato ancora a lungo. In quel luogo va osservato il silenzio e i loro bisbigli, presto, sarebbero stati uditi da troppe persone. Un qualcosa che non potevano permettersi.
-Devo andare adesso.
Reila si stacco da George, l’unico uomo che al momento conosceva e di cui si doveva fidare. Quella situazione, per un certo verso, non piaceva neanche a lei. Era come se fosse regredita e avesse cancellato tutto ciò che era stata costretta a fare, inseguendo quel sogno vanaglorioso. Si era convinta che George l’avesse voluta solo spaventare ai tempi di Peter e dopotutto erano quasi simili quando si trattava di ingannare qualcuno. A lei serviva qualcuno a cui potersi appoggiare nei momenti bui. A lui serviva qualcuna per poter scaldare il suo letto che non fosse la moglie.
Le mani di Reila continuavano a rimanere coperte. Quelle cicatrici aveva pensato di rimuoverle con un intervento di chirurgia estetica, ma aveva preferito aspettare a tempi migliori. Quando tutto sarebbe finito.
George l’afferrò per un braccio per impedirle di scappare, come aveva fatto negli ultimi due anni.
La donna non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia in quel momento e si era voltata. Tanti erano i sentimenti che la devastavano in quegli ultimi tempi.
-Devi ritornare, Reila.
-Per te George? A cosa ti servo?
George scosse il capo, tirandola verso di sé e sfiorandole la schiena con la propria camicia, abbracciandola delicatamente da dietro. Le si avvicinò all’orecchio, chinandosi, vista la differenza di altezza.
-No. Fallo per te e tuo padre. Devi cominciare ad abbandonare i tuoi fantasmi del passato.
Reila non rispose. Se ne stette zitta per alcuni istanti che sembrarono ore. Oramai i turisti avevano quasi invaso quella parte del tempio e presto li avrebbero visti.
-Non è così semplice come credi.
-Comprendi anche la mia situazione. Non posso aiutarti in questo modo.
Reila trasse un profondo respiro, sollevando appena il capo e volgendolo in modo che potesse vedere le labbra di George.
-So in che guaio ti sei messo. Finché lei sarà con te, George, ti sarà molto difficile muoverti liberamente come prima.
George fece un cenno di assenso, senza parlare. Sapeva qual’era la sua situazione e sapeva che Reila aveva maledettamente ragione. Ma sentire il suo profumo poggiando il volto sui suoi capelli, lo inebriava ad ogni incontro clandestino. Non riusciva a farne a meno.
Le labbra di George nuovamente si portarono verso quelle di Reila, tenendo il volto di lei con una mano e socchiudendo gli occhi.
Quel contatto serviva ad entrambi, a sentirsi vivi e distanti da quelle vite che non avevano portato nulla a tutti e due. Solo odio e rancore.
Premette di più sulle labbra di lei, come a volerle stampare sulle sue e non abbandonarle mai, per avere sempre il suo sapore sulla bocca. Reila si scostò, non senza un po’ di riluttanza verso quel contatto che non aveva più, e poi si separò da lui, lasciando il suo calore.
-Te l’ho detto, George. Fino a quando lei sarà con te, noi non potremo vederci più.
La donna mosse qualche passo verso l’uscita, lasciando George nella penombra e con l’eco delle sue ultime parole.
Per George era facile abbandonare i suoi fantasmi. Lui era più freddo e calcolatore, proprio come Dmìtrij, ma in fondo amava Reila e non aveva paura di mettere in gioco i suoi sentimenti. Così come non aveva fatto Dmìtrij.
Reila si portò verso uno dei ciliegi e sollevo il capo, rimettendo gli occhiali da sole che le coprivano il viso. Un sorriso sornione comparve sulle sue labbra, che aveva colorato di rosso. Aveva sicuramente lasciato la traccia sul colletto di George, che lui avrebbe cercato di fare andare via. Succedeva sempre così.
Com’erano cambiate le cose dopo aver saputo della morte di Dmìtrij. Era stata anche al funerale. Nascosta dietro una marea di persone vestite di nero che facevano finta di piangere. Non come lei. Il suo cuore piangeva per la morte di quell’uomo che l’aveva fatta sentire se stessa. Non sapeva neanche a chi fosse andata l’azienda che l’uomo aveva tanto bramato.
Si ritrovò a pensare a quelle cose. L’aveva tradita e umiliata, come persona e soprattutto come donna. Aveva distrutto tutte le sue aspettative. Diventava triste e intrattabile quando pensava a quelle cose e l’aver abbandonato la sua vita passata, le faceva passare più tempo a pensarci.
George la vide, affacciandosi, dall’entrata del tempio. La seguì per alcuni istanti prima di allontanarsi dal luogo. Le guardie del corpo, alle quali aveva chiesto di non entrare nel tempio, lo seguirono verso l’auto.
George entrò, guardando verso gli alberi di ciliegio, dove sapeva che Reila se ne stava seduta. Poi sfiorò l’anulare sinistro, ricordandogli ciò che era stato costretto a fare.
Quella donna era pericolosa e Reila sicuramente non voleva metterlo ulteriormente nei guai. Era riuscito a partire per il Giappone, con la scusa di una riunione di una delle sue aziende. Strinse le mani mentre l’auto scomparve dietro l’angolo.
Reila sapeva di George e sapeva che era sposato da poco e sapeva anche il perché. Le stava chiedendo aiuto. Lo aveva letto in quegli occhi nocciola. Aveva letto l’appello disperato di un uomo che era innamorato di lei. Forse l’unico che l’avesse mai amata.
Si scostò dal tronco e incominciò a camminare verso il laghetto di carpe. Per i giapponesi sono pesci sacri e incarnano la continuità della vita e gli incessanti cambiamenti. Lei di cambiamenti ne aveva fatti tanti.
Aveva quegli occhi di ghiaccio sempre puntati addosso. Come un monito. Come una colpa.
Sapeva che George doveva sposarsi, ma era rimasta nell’ombra facendogli credere di essere morta e poi un giorno era tornata, ma troppo tardi.
Almeno per lui. E lei aveva bisogno di George.
Conosceva la donna che si era unita all’uomo e sapeva anche che sicuramente lo aveva costretto, dietro qualche falso accordo.
Dovevano incontrarsi di nascosto e ciò rendeva le cose più difficili da risolvere. Doveva muoversi in fretta e lei aveva già perso troppo tempo.
Prima di fare qualche passo falso, doveva assolutamente contattare qualcuno di fidato lì in Giappone e Jin sembrava la persona più adatta. Era lui che le riforniva le armi ogni volta che ne aveva bisogno ed era lui che, dopotutto quello che era successo, si era preso cura di lei. Era come un padre per Reila ed era stato proprio lui a conservare la sua pistola, fino a quando le sarebbe servita nuovamente.
L’assassina aveva cercato di abbandonare la sua vita, ma nuovamente le si era buttata addosso la situazione nella quale non avrebbe potuto fare a meno della sua fedele compagna.
Reila sapeva che le sarebbe servita, ma non adesso. Jin era l’unico del quale al momento si fidava. Teneva con lei il segreto della sua vita e avrebbe preferito farsi uccidere che rivelare dove Reila si trovasse.
La donna prese il viale verso l’uscita. Si voltò nuovamente verso il Tempio, inchinandosi per saluto. Aveva bisogno di pregare, ma non l’aveva fatto. Se ci fosse stato un dio che l’avesse protetta, lei non se lo sarebbe meritato.
Aveva preso talmente tante vite per quell’inutile odio che l’aveva divorata, che ormai non riusciva più a capire se si sarebbe salvata nell’altro mondo.
Poi una mano andò verso la ferita della spalla. Ricordava ancora come Natasha e i suoi uomini erano riusciti a ferirla e la cicatrice non era completamente sparita. Un altro monito a ricordarle chi era e cos’era.
L’unica persona che poteva salvare suo padre. L’unica persona che era stata per tutto quel tempo.
Un’assassina.
yin yang vettore

Per saperne di più

Kyoto: è una città del Giappone di quasi 1,5 milioni di abitanti, che nel passato fu la capitale del paese per più di un millennio (precisamente dal 794 al 1868) e che è oggi il capoluogo dell'omonima Prefettura. La città, nota anche come "la città dei mille templi", essendo stata quasi interamente risparmiata dalla seconda guerra mondiale, è considerata il più grande reliquiario della cultura giapponese, e per questo inserita nei siti protetti dall'UNESCO. È una sede universitaria di importanza nazionale e centro culturale di livello mondiale. (Cenni presi da Wikipedia.it)

Tempio del Padiglione d’Oro: Il Kinkaku-ji o Tempio del padiglione d'oro (più spesso semplicemente "Padiglione d'oro") è il nome del reliquario di Rokuon-ji, che si trova a Kyoto, Giappone. Costruita nel 1397 come villa per lo Shogun Ashikaga Yoshimitsu (25 settembre 1358 – 31 maggio 1408). Figlio di Ashikaga Yoshiakira, fu il terzo shōgun dello shogunato Ashikaga. Ricevette il titolo di Seii Taishogun nello stesso anno della morte del padre Yoshiakira nel 1367. Nel 1374 prese il giovane Zeami Motokiyo sotto la sua ala protettrice. (Cenni presi da Wikipedia.it)

Tempio del Padiglione d’Argento: Il Ginkaku-ji, letteralmente padiglione d’Argento, nasce come residenza privata dello shogun Yoshimasa che lo fece costruire nel 1489, costui in onore del nonno Yoshimitsu che aveva ricoperto di fogle d’oro il Kinkaku-ji, voleva far rivestire d’argento questa costruzione che lo doveva accogliere a riposarsi dalle fatiche del governo e delle guerre intestine, allietandolo con le arti, ma la morte sopraggiunta l’anno successivo e la guerra Onin fecero si che il padiglione rimanesse incompiuto,senza la copertura in Argento, ma di egual fascino e bellezza. Il Tempio si trova all’estremità nord del così detto sentiero del filosofo una strada, circondata da ciliegi e alberi da frutta e fiore. (Cenni presi da viaggiagiappone.it)

Angolo dell'autrice


Ed eccomi con la revisione di questi pochi capitoli di questa storia, che pian piano riprenderà forma e che non lascerò a maturare qui ma andrà avanti perchè qualche capitolo è già pronto. Cos'è che vorreste sapere di più sui personaggi? Chiedete e vi sarà dato, oppure datemi una vostra vista su questi personaggi che si stagliano in questo panorama un po' spy-sytory. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Ringrazio come sempre _marty per il banner favoloso.


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Capitolo 2
*** 02 - Un vecchio amico ***


02
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02 - Un vecchio amico


Osaka
 
Era una casetta nella periferia di Osaka, a due piani e un meraviglioso giardino. Bianca, come la maggior parte delle case in quella zona.
Reila camminava tranquillamente, con i suoi inseparabili occhiali e il trench color kaki chiuso per bene sulla vita. Tirava un po’ di vento in quella stagione, ma non faceva tanto freddo.
Quello che non si notava dai gesti di Reila era il guardarsi sui due lati scoperti e ogni tanto le spalle, lo faceva sembrare un comportamento molto naturale.
Quando arrivò alla casetta bianca, che conosceva bene, premette il pulsante del citofono. Attese qualche istante prima che una voce dall’interno si facesse viva.
-Sì?
-I ciliegi in fiore sono bellissimi.
Reila conosceva bene la parola d’ordine per farsi riconoscere. Ma a Jin non serviva tutta quella trafila, avrebbe riconosciuto la voce della donna anche mascherata da qualche apparecchio.
Il cancelletto della casa si aprì e Reila, attenta a non inciampare a quel solito gradino, percorse il vialetto fino alla porta che si era dischiusa.
Entrò all’interno e subito abbracciò calorosamente il proprietario di casa, poco più basso di lei.
Jin era un signore di mezza età che era stato insieme al padre di Reila nell’esercito e del quale nutriva una profonda stima. Ormai prossimo ai sessant’anni, Jin era ormai distrutto dall’artrite e dai reumatismi, venuti precocemente.
-Jin, che piacere vederti.
Reila sorrise, contenta di rivedere il suo vecchio tutore. Erano ormai due anni che non gli faceva una visita.
-Non posso dire altrettanto, Reila.
Disse Jin, chinando leggermente il capo. Reila rimase interdetta per qualche istante.
-So perché sei venuta da me e non è certo per una visita di cortesia.
Reila storse le labbra portando lo sguardo verso il volto di Jin. Sapeva bene cosa volesse intendere il suo tutore, ma la decisione ormai l’aveva presa.
-Ti prometto che questa sarà l’ultima volta. Ho bisogno di lei.
Reila sorrise nel pronunciare quella frase, ma in cuor suo sapeva che non si sarebbe mai liberata di quella vita. Ormai l’aveva assorbita interamente e né Jin, né George avrebbero potuto farle cambiare idea.
Jin la guardò perplesso. Sapeva come la ragazza ragionava, però in quel momento voleva crederle. Il problema è che Jin sapeva bene che non sarebbe servito a salvarla dal guaio in cui si sarebbe messa da lì a poco.
-Seguimi.
 
__________________


Reila si rigirava nel letto senza riuscire a chiudere occhio. Come quando faceva un tempo, si era rifugiata per una notte a casa di Jin.
Fissava il soffitto e stringeva le coperte tra le mani. I suoi pensieri andarono a ciò che avrebbe fatto. E dire che aveva deciso di metterci una pietra sopra a tutta quella storia, almeno da quando aveva saputo che Dmìtrij era morto.
Un morsa prese il suo cuore, all’improvviso. Il solo pensare a lui la faceva ancora star male e non riusciva a togliersi il suo fantasma da davanti gli occhi in quell’ultimo istante, quando lo aveva ucciso.
 
Reila avvicinò la propria bocca a quella dell’uomo. Voleva ancora il suo sapore sulle labbra e il suo calore sul proprio corpo.
 
La donna non riusciva a pensare ad altro e l’immagine dell’uomo che la teneva stretta a sé, anche per qualche istante, non era scomparso. Era come se le avesse lasciato un pezzo di sé a torturarla nei giorni a venire. Continuava a tormentarsi per ciò che aveva fatto.
Si alzò dal letto e accese la luce, portandosi verso la finestra. Reila aveva scostato le tende con una mano e lo sguardo sfiorò quelle stesse mani che ancora ricordavano.
Le immagini si sovraffollarono e si confusero tra loro. Vorticarono rendendola cieca alla realtà per qualche istante. Era cose se stesse rivivendo alcuni ricordi, ma non erano tali. Erano veri, tangibili.
Le capitava spesso. I fantasmi del passato non avrebbero mai cessato di presentarsi.
Reila guardò fuori, nella notte, mentre le luci di una timida alba cominciavano ad intravedersi all’orizzonte. Era arrivato il momento di andare.
-Riuscirò a dimenticare tutto.
Lo disse a bassa voce. Una promessa che fece a se stessa e che doveva assolutamente mantenere.
 

Kyoto
 
Ricordava bene le parole di Jin. Non avrebbe mai potuto dimenticarle. Gliele aveva dette nel momento in cui aveva nuovamente stretto tra le sue mani la sua fedele compagna, lei almeno non l’aveva mai tradita.
-Reila, ricordati quello che mi hai promesso.
L’assassina aveva solo annuito e per qualche istante era rimasta in silenzio, accarezzando la canna lucida di Firestorm, come l’aveva chiamata. Quando ti affezioni ad una cosa, non si può resistere nel darle un nome. Sia pure un oggetto freddo e pericoloso.
A Jin gli aveva risposto di non preoccuparsi, che tutto sarebbe filato liscio. Che presto sarebbero ritornati ad essere una famiglia felice, come tantissimo tempo fa.
Reila camminava per le vie di Kyoto distrattamente e qualche volta era andata a sbattere anche contro qualche passante.
Quegli occhiali scuri le coprivano il volto, per paura che qualcuno la riconoscesse. Aveva fatto scintille un giorno nella cittadina di Kyoto e ancora se ne ricordava. Al solo pensiero un sorriso le sfuggì dalle labbra rosse come il sangue. A quegli occhi imploranti che aveva lasciato vivere.
Scosse il capo a scacciare quel pensiero. Era stata l’unica volta che si era lasciata sfuggire un’emozione, ma dopotutto, a quel tempo, era ancora all’inizio della sua carriera.
Quel giorno era stato abbastanza emozionante ed eclatante, tanto che i giornali ne parlarono per giorni e giorni. Per Reila era stato un lavoro come tutti gli altri.
Già, anche Dmìtrij era stato un lavoro come gli altri, solo che ci era rimasta scottata pesantemente.
Sul viso di Reila comparve un velo di tristezza, cosa che non volle per nulla nascondere anche perché nessuno l’avrebbe mai vista. Era una passante come tutti, solo con un po’ di tristezza ancora viva nel cuore.
La donna prese un profondo respiro, spostando la mano destra verso il fodero della pistola. Le infondeva sicurezza e null’altro l’avrebbe fatta calmare come faceva quel pezzo di metallo.
Era la sua garanzia ad una vita migliore in quel momento. Anche se lei non ci aveva mai creduto a questa favola.
Si soffermò per qualche istante, alzando il capo verso l’alto, guardando la croce sulla diocesi di Kyoto.
Quante volte aveva sperato di potersi sposare ed avere una vita senza rimpianti e ripensamenti.
Forse lei non era destinata ad avere tutto questo, era destinata solo a rovinare la vita a quelle persone che lei stessa invidiava.
Poi, dopo Dmìtrij era arrivato di nuovo George.
A quel pensiero si soffermò per qualche istante. Strinse leggermente le labbra e sorrise appena. Nonostante non fosse felice, non era quello che voleva, ma si era arresa all’idea che, forse, era lui l’uomo con cui doveva dividere quella misera esistenza.
Fatta di sotterfugi e incontri al buio. Non era questo però, non era quello che lei voleva e in un momento nel quale si sentiva così debole, George sembrava l’unica ancora di salvezza. Quella della disperazione.
Ora doveva concentrarsi solo a quello che era venuta a fare in Giappone e più precisamente a Kyoto, la sua città di origine.
Alzò nuovamente il capo e notò che il cielo si stava rabbuiando. Avrebbe agito da lì a poche ore e forse qualcosa sarebbe successo. Dipendeva tutto dalla sua capacità di dimenticare il passato.
Reila iniziò nuovamente a camminare. I suoi passi più decisi e i suoi movimenti più femminili, così come aveva dovuto imparare per far cadere gli uomini ai suoi piedi e poterli uccidere.
La donna sentiva dentro di sé qualcosa, non sapeva dargli forma e nome, ma sentiva che sarebbe successo qualcosa. Scosse il capo, sorridendo a quel pensiero. Sapeva bene che non sarebbe successo niente, anche perché sapeva fare il suo sporco lavoro.
 
__________________

Si era nascosta dietro le tende. Attendeva nella penombra della stanza il suo obiettivo. Sapeva che sarebbe arrivato da solo e che sarebbe stato molto semplice prenderlo di sorpresa.
In Russia era stata braccata e a stento era riuscita a sfuggire agli uomini di Natasha. Era stato debilitante e faticoso, ma alla fine era riuscita a tornare in Giappone, per poter risolvere quel piccolo problema scaturito a Mosca.
Sentì improvvisamente dei passi che si avvicinavano alla porta dell’appartamento. Si era acquattata ancora di più contro la finestra, sua unica via di fuga.
L’uomo entrò. Natasha era ai suoi comandi, poiché la donna fredda e calcolatrice non era solo una proprietaria di bordelli, ma era quella che forniva le armi e la droga all’uomo che avrebbe dovuto uccidere.
Dopo che Natasha aveva divulgato la descrizione del suo volto alle persone che erano in affari con lei, tra cui lo zio di Dmìtrij, Reila era dovuta scappare con la coda tra le gambe. Era stata braccata per tutta la Russia e adesso, ne era sicura, che altri erano sulle sue tracce. Doveva solo arrivare per prima. Pensavano volesse sabotare la loro missione, ma era stato solo un tremendo malinteso.
Solo un inutile malinteso.
Ora il suo uomo, Hideori, era a pochi passi da lei, che stava sollevando il bicchiere di whisky che si era preparato.
Ma altri passi sentì improvvisamente dirigersi verso la porta e Hideori, dopo che aveva sentito bussare, si era diretto verso l’uscio per aprire.
Reila strinse le labbra e si acquattò di più contro il muro. Questo imprevisto non ci voleva. Stringeva Firestorm nella mano destra come se fosse la sua unica ancora di salvezza e in effetti in quel momento lo era. Se fosse stato necessario avrebbe ucciso entrambi. Anche perché era la prima volta che era lei a decidere il bersaglio, la prima volta che gli ordini erano dettati solo dalla sua testa.
Prese un profondo respiro, attenta ad ogni movimento e rumore sospetto. Sentì nuovamente Hideori ritornare indietro e al suo seguito un altro uomo, dalla sua posizione non poteva distinguerne i tratti.
Non passò che un istante, il tempo di ideare un piano secondario per poterne uscire illesa, che sentì vibrare un colpo sordo e un corpo cadere a terra pesantemente.
Reila strabuzzò gli occhi, non avendo al momento il coraggio di uscire fuori dal suo nascondiglio. Strinse con più veemenza la pistola e sbirciò attraverso la tenda per vedere ciò che era successo.
-Reila.
La sua sorpresa si fece palese e sul suo volto accrebbe la paura di non comprendere quello che stava succedendo.
Sentì che i passi dell’uomo che era entrato con Hideori si avvicinavano a lei, senza avere la forza di reagire. Era stata troppo in inattività per avere la forza di andare e scappare. Ma la voce dell’uomo era tremendamente familiare, un uomo che si perdeva nei suoi ricordi.
E poi una domanda le affiorava nella mente. Come faceva a sapere che lei era lì?
L’uomo scostò la tenda e Reila, presente a se stessa, gli punto Firestorm alla testa, proprio in mezzo agli occhi. Alla fine era rinsavita, doveva pensare alla sua vita adesso. Ma proprio quando lei stava per premere il grilletto, la mano libera dell’uomo la disarmò e sentì la presa vigorosa sul polso bloccandola contro il proprio corpo, puntandole alla tempia la stessa pistola che aveva ucciso Hideori.
Reila, nel riconoscerlo, le si bloccò la voce in gola, sgranando gli occhi come se avesse visto un fantasma.
-Ka... jiro.
Reila fece uscire quel nome come vomitato dai meandri della sua mente. Cercò di guardarsi intorno senza avere a portata di sguardo la sua Firestorm, l’unico essere capace di difenderla adesso.
-Rivedermi non ti fa piacere?
La voce dell’uomo dagli occhi nocciola e dalla forma di mandorla appena accennata, la fece trasalire. Aveva fatto crescere i suoi capelli castani e i tratti erano come quelli di lei, molto occidentali, anche se c’era la predominante orientale.
Le labbra sottili di Kajiro erano stirate in un sorriso appena accennato.
-Non in questo modo e non in questa situazione.
Reila aveva ponderato per bene le parole da dirgli. Lui era l’unico che l’aveva sconfitta e l’unico a cui aveva risparmiato la vita.
La presa dell’uomo sui polsi di Reila si fece più prepotente per farla avvicinare abbastanza al proprio volto. Reila aveva accennato una smorfia di dolore sul volto pallido e scostò il viso più che poté dalla vicinanza che lui aveva assicurato.
-Ti dispiace che io sia diventato ciò che sono?
Reila non poté far altro che annuire e lasciare un sospiro che le provocò la stretta particolarmente violenta dell’uomo.
-Non pensavo che avresti scelto questa strada. Se lo avessi saputo, non ti avrei lasciato vivere.
Kajiro non fece altro che sorridere e rilasciare la presa da Reila pian piano, in modo che il sangue refluisse lentamente nelle mani della donna e che l’odore di lei gli si insinuasse nelle narici.
-Non sei cambiata per niente, Reila.
Reila corrugò leggermente le sopracciglia, ma non rispose. Il quel periodo era cambiata molto, ma cosa poteva saperne un pivello di ciò che era diventata ormai la sua vita?
L’assassina raccolse la sua pistola, riponendola nel fodero. Voltò le spalle all’uomo, sapeva bene che non le avrebbe fatto del male, almeno per adesso.
Reila non rispose, si limitò a spostare lo sguardo verso il basso. Persa nei ricordi di quegli ultimi anni. Non fece neanche caso a Kajiro che si era avvicinato talmente tanto da farle sentire il proprio alito sul collo.
-Ho una cosa da dirti.
La voce dell’uomo era bassa e il volto di Reila si fece più duro. Prese un profondo respiro e si voltò di scatto, facendo in modo di guardare Kajiro negli occhi e carpire le parole che le voleva dire, prima che lui pronunciasse realmente qualcosa.
Reila, nel volto dell’uomo, lesse qualcosa e fece qualche passo indietro.
-Mi hanno chiesto di ucciderti.
Reila non rispose, di rimando però le labbra si curvarono in un leggero sorriso. Naturalmente non si poteva uccidere facilmente chi uccideva per mestiere.
-E credi di potercela fare, Kajiro?!
L’uomo non poté far altro che spostare il suo peso sulla mano che si era appena poggiata al muro e guardare l’assassina con sicurezza. Reila non si era minimamente accorta che era finita con le spalle contro la parete.
-Oggi no, ho prima un conto da regolare con te e poi ti devo un favore.
Reila era bloccata tra il muro e l’assassino, e non poteva muoversi perché qualsiasi via le era stata preclusa. Ciò che non le piaceva di Kajiro era la voce, le faceva tremare le gambe e non per qualche emozione, assolutamente. Non sapeva dare il nome a ciò che provava.
-Allora fammi passare.
Sostenne lo sguardo di Kajiro fino in fondo senza più una parola, tanto che lui si scostò poco dopo alzando le mani in segno di resa.
Reila, senza voltarsi, uscì proprio da dove era entrata, dalla finestra, che fortunatamente era situata anche al piano terra. Non rivolse nessuna parola prima di andarsene, né Kajiro provò a fiatare. Non voleva sapere cosa l’aspettava, non ne aveva voglia.
Ora aveva solo un nuovo nemico da mettere sulla lista e naturalmente, questa volta, non avrebbe avuto rimorsi ad ucciderlo.
yin yang vettore

Per saperne di più

Osaka: (Ōsaka-shi, (letteralmente "grande pendio"), è una città del Giappone di 2,7 milioni di abitanti situata nella regione del Kansai, nell'isola di Honshu, alla foce dei fiumi Yodo e Yamato.
 È la capitale dell'omonima prefettura e la terza città del Giappone per numero di abitanti, posta al centro della popolata area metropolitana chiamata Keihanshin, di cui fanno parte Kobe e Kyōto, con le quali raggiunge il numero di 17.510.000 abitanti.
Osaka fu storicamente la capitale commerciale del Giappone, di cui ancora oggi è uno dei maggiori distretti industriali e portuali.
Diocesi di Kyoto: (in latino Dioecesis Kyotensis) è una sede della Chiesa cattolica suffraganea dell'arcidiocesi di Osaka. Nel 2004 contava 19.198 battezzati su 7.314.195 abitanti. È attualmente retta dal vescovo Paul Yoshinao Otsuka.
La prefettura apostolica di Kyōto fu eretta il 17 giugno 1937 con la bolla Quidquid ad spirituale di papa Pio XI, ricavandone il territorio dalla diocesi di Osaka (oggi arcidiocesi).
Il 12 luglio 1951 la prefettura apostolica è stata elevata a diocesi con la bolla Inter supremi di papa Pio XII.

Angolo dell'autrice


Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.


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Capitolo 3
*** 03 - Minaccia ***


02
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03 - Minaccia


Era stremata. Alla fine delle sue forze e il pensiero dell’incontro di qualche notte prima, la destabilizzava e la deconcentrava. Neanche l’ultimo pugno che aveva tirato contro il sacco da boxe, le aveva giovato.
Non riusciva a scaricare il nervosismo che aveva dentro, persistente come un tic tac di un orologio. Eppure la sua ora ancora non era arrivata, perché aveva tante cose da fare e tanto ancora da soffrire. Ma non era questo il problema. Poteva essere chiunque, ma non Kajiro.
Doveva assolutamente parlare con qualcuno. Ma avere qualcuno per lei non era mai stato così semplice. Mettere di mezzo Jin avrebbe significato metterlo in pericolo e questo non avrebbe potuto perdonarselo.
Anche i cuori più duri hanno qualcuno dal quale tornare, il fatto è che per Reila avere qualcuno era sempre stato motivo per non tornare. Avrebbe solo complicato le cose e questo non poteva permetterselo.
La donna tolse i guanti da kick-boxing. Riprese fiato per lo sforzo ma ancora non riusciva a togliersi il viso dell’uomo giapponese dalla testa. Si chiedeva cosa mai volesse Kajiro da lei.
Era la domanda che la tormentava da quando era rientrata in albergo, anche perché non aveva voglia di tornare dal suo padrino, le avrebbe solo detto che l’aveva avvertita. Adesso doveva togliersi dai guai da sola.
La mente poi cominciò a ricordare la Russia, cominciò a pensare a Natasha e a come fare per eliminare quella donna. Era stata sicuramente lei a commissionare all’assassino la sua morte, ma Reila non immaginava che la direttrice di bordelli conoscesse bene il killer.
Reila chinò il capo e poi il pensiero di un uomo fece capolino da qualche angolo remoto della sua mente. Russo e biondo.
-Dmìtrij.
La voce era flebile. Aveva sussurrato il suo nome, con la voglia di riaverlo tra le braccia. Ma ormai non c’era più. Lui era morto e lei non aveva potuto dargli quello che più desiderava.
Si chiedeva spesso perché facesse così male. Il ricordo di un uomo che aveva imparato ad amare e ad odiare, l’unica persona di cui finalmente aveva sentito il calore.
Una sola lacrima rigò il volto dell’assassina, come non le capitava dall’ultima volta che l’aveva visto. Nel momento in cui gli aveva sparato. Era stata lei che gli aveva strappato la vita, eppure ne aveva sentito subito la mancanza.
Reila scrollò le spalle e scosse il capo per cercare di abbandonare il pensiero. Doveva solo pensare alla sua missione adesso, doveva solo ricostruirsi una vita e con George l’avrebbe rifatta. Sempre se la moglie l’avesse abbandonato oppure semplicemente se fosse morta. Ci aveva pensato molte volte e questo non le era piaciuto. Ormai il suo cervello organizzava tutto con la morte della persona, la via più semplice.
Si avviò a passo svelto verso la sua camera e decise che era il momento di pensare ad altro. Pensare a lui non le avrebbe risollevato la vita, né la giornata quindi era arrivato il momento di mettersi in moto.
 
Reila aveva preparato tutto. La vasca da bagno con i sali e tanta schiuma. Aveva raccolto i capelli lunghi dentro un asciugamano e aveva finalmente deciso di immergersi per un bagno ristoratore. Le avrebbe tolto la maggior parte della stanchezza accumulata.
Reila tirò un sospiro di sollievo e si rilassò, chiudendo gli occhi.
L’acqua era calda e il suo animo si stava risollevando. Improvvisamente la presenza di qualcuno che l’osservava, si fece pressante facendola sobbalzare e guardarsi intorno.
Delle mani sfiorarono le sue spalle.
-Reila, rilassati. Non sono qui per ucciderti. Non ancora!
Kajiro calcò sull’ultima parola in un avvertimento da dare all’assassina. Ma la voce era melliflua e con quel tono che a Reila metteva i brividi. L’uomo comprimeva alcune zone delle spalle, per farla stare calma e tranquilla in modo che lui potesse dirle quello per cui era venuto.
-Cosa vuoi?
La voce di Reila era sprezzante. Cosa mai poteva aspettarsi da lei?
Sicuramente non che l’accogliesse a braccia aperte. Difatti la fronte si era corrucciata e lo sguardo puntato di fronte a lei era arrabbiato, ma più che con lui, con se stessa.
-Reila, perché non ti calmi?
Le mani di Kajiro si spostarono sulle spalle dell’assassina portando alcuni massaggi per rilassare i muscoli abbastanza tesi della donna. Sfiorava la sua pelle come se fosse l’oro più prezioso e Reila sentiva il respiro dell’uomo sul collo, pressante e invadente.
Reila non riusciva però a stendere completamente il corpo, anche se l’acqua le dava un certo torpore alla testa. Ma doveva rimanere lucida, anche il bagno era rovinato.
L’uomo le si avvicinò pericolosamente all’orecchio e con una mano andò a cingerle il mento. Le fece voltare il capo, mentre lo sguardo dell’assassina era meno attento e meno sveglio di poco prima. Era come intontita.
-Voglio assaggiarti. Da tanto tempo desidero farlo.
La voce era bassa, lenta e sfioravano la pelle di Reila come velluto. Così come le labbra dell’uomo sulla guancia che scivolavano delicate e il viso ben rasato che non dava alcun fastidio a Reila.
-Cosa hai messo nei sali?
L’uomo sorrise e non poté far altro che avvicinarsi alle labbra della donna e iniziare un lento sfiorare di quella bocca che avrebbe voluto assaggiare più di ogni altra cosa. Ma non la baciò, non ancora. Non era il momento. Voleva tenerla per sé e farsi desiderare, così come lei aveva fatto con lui.
-Te ne sei accorta. Solo qualcosa per farti abbandonare alla tranquillità, mio fiore di ciliegio.
Reila non poté far altro che spalancare gli occhi al nomignolo che le aveva affibbiato, anche perché era il nome che usava quando stava in Giappone, un nome che conoscevano in pochi. Quei pochi che sapevano come contattarla.
-Non toccarmi.
-Non lo farò. Farò in modo che sia tu a chiedermi di farlo.
Reila aveva la mente annebbiata e non riusciva a formulare una frase coerente con tutto il discorso. Non riusciva neanche a vederlo, dato che aveva il volto solo per metà girato verso di lui e con la coda dell’occhio le risultava difficile.
Kajiro, le lasciò il mento sfiorandole il braccio e infine si sollevò.
Reila era rimasta fissa di fronte a lei e non gli aveva più rivolto la parola. Distese le braccia lungo la vasca da bagno e le mani si strinsero a formare pugni. Strinse così forte da fare uscire qualche goccia di sangue. Le mani già piagate da anni avevano nuove ferite, ma le più amare che poteva avere.
La cosa peggiore e che iniziava ad instillarsi nei suo cuore una scintilla di paura e di rabbia nei suoi confronti. Paura di quell’uomo che lei stessa aveva salvato e che il male aveva traviato e rabbia perché era stata lei a creare quel mostro.
La cosa peggiore era che non ne poteva parlare con nessuno e non poteva neanche sfogarsi a modo suo.
Uscì dalla vasca, sicura di essere sola. Kajiro era andato via, infilò l’accappatoio e si portò verso il salottino. Non era certo una donna che si faceva mancare niente e certo la sua bottiglia di vodka non poteva non esserci. Ma accanto a questa ce ne era un’altra, non per lei. Non sapeva neanche se avrebbe mai assaggiato quel nuovo alcolico, ma la teneva sempre. Magari qualcuno l’avrebbe bevuto prima o poi quel whiskey che le portava alla mente tanti ricordi.
 
Reila, attraverso gli occhiali da sole, distingueva anche il più piccolo particolare.
Era al tempio anche quel giorno, era l’ultimo giorno nel quale poteva vedere George, sempre se fosse riuscito a raggiungerla. Poi lui sarebbe ripartito per la Russia e anche lei.
Era una situazione già abbastanza complicata, mancava solo quell’assassino da strapazzo a complicare ancora di più il problema. Non poteva chiamare Jin, ma aveva bisogno dei suoi contatti per poter ritornare in Russia. Sicuramente tutta l’ Organizatsya¹, presto, avrebbe saputo chi lei fosse e questo non poteva permetterselo. Oppure poteva chiedere a George un aiuto.
Reila scosse il capo. Non riusciva a capire nemmeno perché era venuta di nuovo davanti al tempio. Non sapeva perché era ritornata in quel luogo e perché mai continuasse a guardare gli alberi di ciliegio. Ne sentiva il profumo e la profonda comunione che aveva con quegli alberi. Il padre le ripeteva sempre che lei era nata sotto quegli alberi e ne aveva preso il colore dei petali sulla pelle.
Chissà cosa avrebbe pensato a vederla adesso, con cicatrici profonde che le laceravano l’anima e la giovialità di bambina che era stata sostituita dalla freddezza della morte.
Poi i pensieri raggiunsero Tokyo e il porto, ma li scacciò subito, come i peggiori dei suoi ricordi. Alla fine la moglie di George le aveva invaso la mente. Non che la conoscesse, ma ne conosceva gli intenti. Dopotutto era la figlia di uno degli uomini più potenti della Russia e, sicuramente, una delle donne più pericolose del mondo moderno. Aveva preso qualche informazione su di lei e ciò che la spaventava di più era lo sguardo cinico e senza cuore della donna di affari in carriera. Ormai monopolizzava quasi tutto l’impero di George e lui stesso si era fatto gabbare con il più semplice dei trucchi.
Reila aveva appreso, almeno a quel tempo, che il matrimonio di George fosse stato combinato per poter salvare l’azienda, ma forse in quel crollo in borsa che l'uomo aveva subito, dove sicuramente lo zampino della moglie era stato proficuo, lei aveva preventivato tutto per poterlo sposare, anche senza il suo consenso.
George era, dopotutto, uno dei maggiori rifornitori di materiale bellico per l’esercito russo e questo doveva già mettergli i campanelli d’allarme. Solo che George si era fatto tradire da quel bel faccino e dall’estrema tenerezza che dimostrava lo sguardo della donna. Una cosa saggiamente architettata per stargli accanto.
Reila prese un profondo respiro, lasciando che le sue mani si posassero sulla corteccia di uno dei tanti alberi. Alla fine era arrivato il momento e tutto ciò a cui aveva sperato era diventato fumo davanti ai suoi occhi, davanti alla sua anima.
Alla fine lei aveva deciso e dopotutto non sembrava una scelta così difficile. L’unica scelta veramente difficile sarebbe stata, un giorno, abbandonare tutto per una vita monotona e tranquilla alla quale aveva sempre aspirato.
Lasciò il giardino e si diresse verso la pagoda. Sollevò gli occhi, guardandone il tetto e l’oro che l’ornava che rifletteva sui suoi occhiali scuri. A quale religione avrebbe mai potuto affidarsi?
Non ci aveva mai pensato, anche se le chiese europee la affascinavano di più. Avrebbe desiderato un abito come lo aveva visto nei film della Principessa Sissi, ma sapeva anche che quel sogno era destinato a rimanere tale.

Reila si avvicinò alla zona delle offerte per il tempio e ne sfiorò la superficie. Poi alla fine prese uno di quei pezzetti di legno per esprimere il proprio desiderio e lo attaccò alle altre offerte. 
Prese un profondo respiro, senza celare quella malinconia che ormai da tempo l’aveva presa. Allungò una mano coperta da guanto e aveva suonato la campanella. L’assassina chiuse gli occhi e congiunse le mani di fronte a sé e iniziò a pregare. Chissà cosa l’aveva spinta a fare quel gesto, ma una cosa era certa, ne aveva bisogno. Aveva bisogno di sentirsi protetta anche da un dio che magari nemmeno esisteva, ma aveva bisogno di sentirsi al sicuro.
yin yang vettore

Per saperne di più

¹L'Organizatsya ("organizzazione") è la criminalità organizzata di stampo mafioso della Russia, spesso indicata come mafiya dagli stessi russi e nota in italiano come mafia russa. Uno dei fenomeni che ha sorpreso maggiormente gli osservatori stranieri della Russia post-sovietica è stata la velocità con cui si è diffusa ed imposta l'Organizatsya.

Angolo dell'autrice

Lotiel Scrittrice - La pioggia sulla neve

Vi invito a guardare la mia pagina Facebook dove novità, spoiler e curiosità sui miei personaggi, vi aspettano. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e per chi continua a seguirmi nonostante tutto.


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Capitolo 4
*** 04 - Un'ombra ***


02
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04 - Un'ombra


Mosca

 

Kajiro stava guardando con poco interesse la giovane donna bionda, che si dimenava sul palco per mostrare le proprie grazie. Era in una di quelle salette private, che solo i più facoltosi potevano pagarsi e poter avere una notte d’avventura con la ballerina che si erano scelti, se volevano.

Nella testa dell’uomo quella donna aveva preso le sembianze di Reila, in tutto e per tutto. Per tutta la sua vita, l’assassina, era diventata un’ossessione e quando si era presentata l’occasione che ormai attendeva da tutta la vita, non se l’era fatta sfuggire.

Kajiro guardava la donna che volteggiava in una sensuale lap-dance per cercare di sedurlo e di farsi desiderare, ma lui era assente a ciò che lo circondava e non aveva occhi che per una Reila immaginaria che gli lanciava occhiate di desiderio. Colei che aveva deciso di perseguitare fin quando la sua ossessione non fosse svanita.

La bocca dell’uomo era stirata in un sorriso sardonico. Sembrava la malignità fatta persona e tutti avevano paura di lui, non perché sapessero chi fosse, ma semplicemente perché era lui stesso che ispirava paura da ogni poro della sua pelle. Invece, molte volte, suscitava nelle donne un turbamento. Forse era il suo volto che si protendeva verso i lineamenti europei che lo rendevano interessante e affascinante.

Una mano andò a carezzare il mento, mentre la lingua sfiorava lentamente le labbra. Era così che si era immaginato sempre Reila, sensuale e bellissima, con semplicemente l’indispensabile addosso.

Solo quando si era sporto appena verso la ballerina sentì la porta aprirsi, ma non si voltò nemmeno, poiché sapeva chi ci fosse dietro le sue spalle. La persona che aspettava e che gli aveva offerto quell’intermezzo noioso.

Kajiro si voltò solo qualche istante dopo verso la donna, lasciando che questa mandasse via prima la ragazza.

-Via, Katrina.

La ragazza raccolse ciò che si era tolta fino a quel momento, ben poco a dir la verità e, con uno sguardo ammiccante verso l’uomo, se ne andò lentamente e a piccoli passi.

Kajiro si volse verso la donna appena entrata, con quel suo accento russo così marcato, e iniziò ad osservarla.

-Natasha, la prossima volta mi potresti anche evitare questo genere di spettacolo.

Quello sguardo freddo rimase fisso verso Natasha e non poté far altro che sorridere e scuotere leggermente il capo.

Natasha rimase sulla porta senza avvicinarsi all’uomo. A modo suo lo conosceva abbastanza da stargli altamente lontana e anche se lavorava per lei, ne aveva un timore quasi reverenziale.

Kajiro dal canto suo si alzò dalla sedia, svettando nell’altezza che le origini europee gli avevano fornito. Una mano in tasca e lo sguardo spostato verso il palco dove poco prima si stava esibendo l’altra donna. Lo sguardo era ridotto a due minuscole fessure, tanto che sembrava volesse tenere i suoi pensieri dentro, senza farli uscire.

-Reila…

L’uomo alzò solo una mano per zittirla, tanto che Natasha abbassò lo sguardo stringendo le labbra tinte di rosso tra i denti. Rimase silente per molto tempo e la donna seguì l’esempio dell’assassino, lasciando che i pensieri nella sua testa facessero il loro corso.

Kajiro scosse solo il capo e nella sua follia, sorrise.

-Reila è mia ed è un mio problema. Preoccupati di più delle tue puttane, Natasha. Devi lasciar fare il lavoro ad un professionista.

Natasha sollevò lo sguardo di scatto. Cos’era quello che Kajiro le vedeva negli occhi? Rabbia repressa? Odio? Passione?

No, era solo la consapevolezza che tutto quello che lui aveva detto era vero, lei non era altro che una pedina in mano ad un giocatore troppo esperto.

-Volevo solo ricordarti che sta arrivando il momento, ma credo tu lo sappia benissimo. Devi fare in fretta.

Kajiro non poté far altro che sorridere e annuire appena, senza darle una risposta. Le si avvicinò con fare lento  misurato, tanto da indurre Natasha ad avere un brivido lungo la schiena e una fitta allo stomaco. Era paura. Una paura fottuta per un uomo che di umano non era rimasto nulla.

Alla fine Natasha si scostò dalla porta, lasciando il passaggio all’assassino dagli occhi assurdamente freddi. Sapeva bene che contro di lui non poteva avere alcuna possibilità, ma la sua mente stava già elaborando un’idea su come fare per vendicarsi dal torto subito. Perché anche se Kajiro non l’aveva toccata, l’aveva umiliata sia come donna che come mandante dell’omicidio. O almeno così voleva credere lei.

_________________________________

 

L’assassino uscì fuori dal locale e si ritrovò nella fredda e inquietante atmosfera russa. Neve e gelo avvolti nell’aria ovattata di una città che non conosceva davvero la sua natura.
Una mano andò a sfiorare il cappotto pesante che portava. Prese i guanti e li infilò, lasciando che le dita delle mani si beassero di quel contatto caldo, muovendole leggermente come se sfiorasse qualcosa di prezioso.

Un respiro fece condensare una nuvoletta di aria gelida e infine il suo telefonino che prese a suonare. Kajiro lo estrasse dalla tasca interna del cappotto, non mostrando quel leggero moto di sorpresa che aleggiò nel suo volto per qualche breve istante, chiuso sempre in quella coltre di ghiaccio che neanche una donna avrebbe scaldato.

L’uomo guardò il display, chiudendo il bavero del cappotto sulla bocca, stringendosi nel suo elemento naturale e infine sorrise.

-Io e te dobbiamo parlare. Raggiungimi immediatamente.

Kajiro aveva riconosciuto la voce e non doveva far altro che raggiungerlo nella sede di Mosca. Non disse nulla, ma si limitò solo ad ascoltare disegnando un ghigno di fastidio sul bel volto. Prese un leggero respiro, la persona dall’altra parte non pretendeva una risposta. Era semplicemente un ordine.
E difatti Kajiro non mise molto per arrivare. Prese un taxi, lasciò anche la mancia all’autista e scese dall’auto. Sollevò il capo per contare mentalmente di quanti piani fosse composto quel palazzo, ma non riusciva mai a capire quanti ne fossero.
Sapeva però che lo attendeva una persona con cui voleva averci poco a che fare, solo perché seguiva un capo che era legato ad una vendetta inutile e dispendiosa. Sollevò appena le spalle. Tanto a lui cosa importava, la cosa positiva era che lo pagava profumatamente ed era quello che si aspettava anche questa volta.

L’assassino entrò all’interno del palazzo e scrollò dalle spalle l’ultima rimanenza della neve che vi si era depositata. Nevicava quella notte e rendeva l'atomosfera molto più surreale. Scosse anche il capo, ma i capelli erano leggermente umidicci; la neve vi si era sciolta sul capo. Salì con l’ascensore verso un piano a cui era stato abilitato dalla guardia all’ingresso.

-Mi attendo un rapporto dettagliato da te.

Kajiro non ebbe neanche il tempo di uscire dall’ascensore che già l’uomo era sul piedi di guerra. L’uomo in giacca e cravatta era meno alto di lui, tarchiato e grassoccio. Un tempo era in affari con l’esercito russo, con il quale aveva mantenuto un buon rapporto. Almeno con gli alti ranghi.

Aveva perso la maggior parte dei capelli ed era rimasto quasi calvo. Le spalle però erano abbastanza robuste, così come il collo taurino.

-Hideori non è più un tuo problema.

Disse Kajiro appena entrato nel grande salone adibito ad ufficio. Il passo calmo e la solita mano nella tasca del pantalone. Con la mano libera andò a sfiorare una delle piante presenti all’interno. Le pareti avevano un delicato color ocra e i mobili in noce erano sapientemente abbinati tra la modernità e l’antichità. Pavimenti di parquet in mogano dove ogni tanto si sentiva risuonare il rumore dei tacchetti delle scarpe dell’assassino.
Non prestava attenzione al suo interlocutore, ma si limitava, come sempre a guardarsi intorno. Come se qualcuno stesse progettando di ucciderlo da un momento all’altro.

-So bene come lavori, ma non era a questo che mi riferivo. Natasha mi ha riferito.

Kajiro storse solo le labbra e i suoi occhi si chiusero in delle fessure, prima di voltarsi verso l’uomo a cui dava le spalle. Prese un leggero respiro, rilassando le spalle e si voltò con uno dei suoi migliori sorrisi falsi.

-L’assassina, come ho già detto alla tua dipendente, è un affar mio.

L’uomo tarchiato schiarì la propria voce, lasciando finire l'assassino che adesso lo sovrastava anche a pochi metri di distanza.

-Ramov ha parlato chiaro. Deve essere eliminata.

Un altro respiro profondo per Kajiro che ancora sfoggiava quel sorriso, ma che pian piano si stava spegnendo.

-Alexander, te l’ho detto. Non toccatela, lei è mia. E poi, perché è così importante per Ramov?

Le sue parole risuonarono come un imperativo. Non dovevano toccarla, anche perché lui era l’unico che poteva sorprenderla e ucciderla.

Alexander non poté far altro che osservarlo per qualche istante e stringere le labbra. Non parlava semplicemente perché aveva un timore sopito verso di lui, ma non poteva certo mostrarsi debole e chinare il capo.

-Sono cose che non ti riguardano. Hai trovato invece l’uomo che si fa chiamare Jin?

Kajiro fece solo schioccare la lingua e non poté far altro che scuotere il capo. Ma quel mezzo sorriso, che gli rendeva il volto una maschera malvagia, permaneva sulle labbra sottili.

-Ci sono vicino.

-Sai benissimo che è il solo che sa dove si trova Kamamoto.

Alexander si voltò verso la grande vetrata che affacciava sulla città. Le luci e i colori erano praticamente inutili ai suoi occhi. I pensieri dell’uomo tarchiato erano rivolti ad altro al momento e tutto quello sfondo assumeva colori dal grigio al nero. E la figura dell’assassino rifletteva come un’ombra malvagia sulla sua testa.

-Se non mi faceste fare avanti e indietro tra Mosca e Tokyo, questo problema lo avrei risolto già da tempo.

-Le tecnologie si intercettano. I computer non sono affidabili, meglio parlare di persona senza orecchie indiscrete. Non credi?

Kajiro si portò una mano a sfiorare i capelli e ravvivarli. Ormai si erano asciugati e avevano ripreso la morbidezza di sempre. Sembrava così tanto un bravo ragazzo, ma in realtà era l’odio che lo muoveva così come l’ossessione per Reila.

Senza più dire una parola prese la via per uscire.

-Hai un volo prenotato per questa sera. Sai bene cosa fare, una valigetta ti verrà consegnata direttamente a Tokyo.

Kajiro annuì semplicemente ed entrò nell’ascensore che lo portò al piano terra. Ne uscì salutando con un breve cenno della testa la guardia che era posta all’ingresso e si immerse nelle strade di Mosca. Aveva bisogno di qualche momento solo per se stesso.

Il solo e unico pensiero adesso era domandarsi dove Reila fosse in quell’istante. Cosa stesse facendo, chi stava uccidendo. E solo quel pensiero gli provocava un’emozione dentro alla quale non sapeva dare nome.

Camminò per molto tempo prima di prendere un taxi che lo avrebbe portato all’aeroporto di Mosca –Domodedovo e dove sarebbe ripartito, nuovamente verso Tokyo.

Infatti l’assassino aveva alzato la mano per richiamare un taxi ed entrare. Si avvolse nel cappotto, e si incuneò nelle spalle, portando ancora la sua mente in qualche luogo sconosciuto. Sapeva bene dove si trovava Jin, ma quell’uomo gli serviva anche ad avere un contatto con Reila, l’unico che poteva dirgli esattamente i suoi movimenti, o così credeva.

Reila aveva capito fin dall’inizio che nessuno doveva sapere dove andava, Jin in primis, il quale doveva rimanere all’oscuro di tutto, sapendo bene che prima o poi qualcuno l’avrebbe cercata.

Arrivato all’aeroporto, Kajiro lasciò nuovamente la mancia e si diresse verso il check-in per prendere il biglietto. Naturalmente avrebbe usato un nome falso, quello che Alexander gli aveva detto di usare per avere il biglietto e passare come un turista.

Aggirandosi all’interno della struttura guardava i volti di uomini e di donne ai quali la vita aveva destinato altri percorsi e altre vie. Semplicemente lui aveva usato quella più facile. L’omicidio.

Ed era anche tremendamente bravo nel farlo.

Mentre si dirigeva verso il metal-detector, un uomo gli passò accanto e quel volto gli sembrò tremendamente familiare. Kajiro allargò leggermente gli occhi, ma scosse il capo improvvisamente sorridendo falsamente come soleva fare.

Non poteva essere lui, semplicemente perché era morto.

Si era assicurato lui stesso che fosse chiuso nella bara.

Ora ricordava e al sol pensiero un sorriso caldo e avvolgente gli si disegno sul bel volto. Quella bellissima donna vestita di nero e quegli occhi nascosti dagli occhiali, sicuramente pieni di lacrime di rimorso. Dopotutto era rimasta sempre la solita Reila, anche se con un cuore più distrutto dell’ultima volta che l’aveva vista.

Kajiro dimenticò subito l’uomo, sapendo che non poteva essere lui. Solo qualcuno che gli poteva somigliare ed infatti si voltò, guardandolo meglio.

Non era lui, non era il suo volto carismatico e gelido, era semplicemente uno che gli ricordava tremendamente il russo.

Poco dopo chiamarono il suo volo e dunque si diresse verso i metal-detector e infine verso il gate.


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Angolo dell'autrice


Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 5
*** 05 - Segreto ***


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05 - Segreto


Rostov Velikij

L’uomo era seduto di fronte alla grande vetrata da dove poteva ben vedere il grande lago dove sorge la bella cittadina di Rostov Velikij. Lo sguardo era cupo e delle folte sopracciglia, in parte grigie, facevano sembrare gli occhi due buchi neri dove lasciare le speranze di chi vi si fosse avventurato. Neri proprio come le acque del lago.

Dall’altra parte le luci del Cremlino di Rostov risaltavano nella notte e gli occhi erano puntati verso questo spettacolo, non guardandolo realmente. Lo sguardo era perso nel vuoto di un nome che riaffiorava sempre sulle sue labbra.

La bocca era stirata in una leggera smorfia di disappunto e aveva artigliato le mani ai braccioli della sua poltrona. Non parlava, rimaneva lì ad ascoltare il lento moto del vento che spirava fuori le finestre semiaperte.

-Alexandra.

Un sibilo leggero uscì dalla bocca, lievemente distorta dalla fitta di dolore che il sol pensiero della persona che aveva nominato gli provocava.

L’uomo sollevò lentamente una mano per passarla all’interno della folta capigliatura bianca. Poteva avere sui sessant’anni, ma non li dimostrava assolutamente. Aveva ancora i capelli di quando era giovane ed era un uomo abbastanza piacente, anche se le rughe in qualche angolo del volto aveva intessuto qualche piccola ragnatela.

Prese un leggero respiro prima di sollevarsi dalla poltrona e portare la mano che era tra i capelli, nella tasca della vestaglia. Ne tirò fuori una fotografia ormai consunta e quasi irriconoscibile, ma nei tratti dolci della donna raffigurata trovava sempre la sua Alexandra, dai capelli rossi e gli occhi azzurri e gentili.

Lo sguardo e l’attenzione dell’uomo si focalizzarono verso colui che era appena entrato dalla porta dietro le sue spalle. Non lo aveva neanche sentito entrare.

L’attenzione dell’uomo in vestaglia si voltò nuovamente verso la finestra.

-Nessuna buona notizia, non è così?

L’uomo che era appena entrato chinò il capo verso il basso, tenendo le mani dietro la schiena. Non rispose subito, ma attese che l’altro uomo dai capelli bianchi dicesse qualcosa.

-Dov’è mia nipote? Dovresti vegliare su di lei.

-Sergej, mia moglie non si è mossa da Rostov.

Sergej Ramov prese un respiro profondo, tanto da riempire il silenzio intorno a lui. Strinse la foto tra le dita, la foto di Alexandra e infine la rimise nella tasca.

-E invece tu te ne vai in giro per il mondo, lasciandola qui da sola.

L’uomo biondo sfiorò i capelli con una mano, sistemandoli e sbuffando delicatamente, come per prendere del tempo prima di rispondere.

- Karina sa difendersi anche da sola e poi dovrò pur proteggere gli interessi delle nostre aziende in qualche modo, Sergej.

-Non in questo momento, George.

I tratti di George si affilarono. Non lo sopportava, non riusciva più a sopportare quell’uomo che lo ostacolava in qualsiasi modo. Le braccia si spostarono sul petto, conserte, e gli occhi ferini continuarono a guardare Sergej girato di spalle.

-Abbiamo i collaboratori per questo.

-Non è così semplice come credi. I nostri collaboratori non erano in grado di risolvere il problema. Sai bene che al momento dobbiamo mostrarci forti e potenti. Il Giappone ci sta schiacciando.

Da quando l’azienda di George si era unita all’azienda del nonno di Karina, sua moglie, tutto era diventato sempre più difficile. Ingenti somme di denaro che sparivano, particolari viaggi di lavoro che non avevano mai fatto e lui che doveva riuscire a far quadrare i conti in modo che nessuno si accorgesse in quali acque stessero viaggiando tutti. Man mano che si andava avanti diventava tutto più rischioso e misterioso, tanto da far sorgere in George un dubbio che gli portava molte perplessità. L’uomo era all’oscuro dei traffici di Sergej e così voleva restare. La sola cosa che gli dava tremendamente fastidio era che usava i soldi della compagnia per i suoi loschi traffici.

Purtroppo da quando avevano aperto una fabbrica a Tokyo, sicuramente come copertura per qualcosa di molto più grande, erano cominciati i veri guai. Ma almeno poteva rivedere Reila quando riusciva ad andarci e questo, almeno, lo rendeva un po’ più affabile quando si trattava di dover risolvere problemi anche lì.

George infine fece un passo avanti, senza avvicinarsi troppo.

-Davanti all’evidenza non possiamo arrenderci, ma lottare.

-Gli affari non possono andare meglio di così, sono io che ho risollevato le sorti della tua azienda. Ricordatelo bene.

Certo, come poteva dimenticare tutto quello che gli aveva fatto passare. L’accordo che era stato obbligato a siglare con la propria vita. E la cosa che faceva più rabbia è che era tutto vero. Non fosse stato per lui, le azione della società di George sarebbero crollate.

-Mi chiedo se ne è valsa veramente la pena.

La voce di George risultò greve e bassa, tanto da non essere udita da Sergej che aveva ripetuto sommessamente il nome della figlia scomparsa molto tempo prima. L’uomo biondo scosse il capo, lasciando l’altro a rimuginare sul passato e su quello che sarebbe potuto essere se solo Alexandra fosse ancora viva.

Sergej gli aveva succhiato tutto. Praticamente aveva assicurato alla nipote un futuro a spese sue. Quell’accordo che comprendeva lo sposare la nipote, rimasta orfana, proteggerla in vita e amarla, proprio come Sergej non aveva potuto fare con la povera Alexandra, sua figlia.

E dire che, detto dai suoi domestici, la giovane donna dai capelli rossi era diversa dal padre. Amava la vita e voleva godersela. La ricordavano come una persona buona e dolce, soprattutto.

Karina entrò poco dopo all’interno della stanza,  il risuonare dei suoi tacchi alti l’aveva preannunciata ancor prima che varcasse la soglia.

-Tutto bene qui?

George non poté far altro che ricambiare il casto bacio che lei gli diede sulle labbra, ricordandogli ogni singolo momento che adesso lui apparteneva a lei.

La giovane donna aveva preso tutto dalla madre. Occhi grandi e capelli rossi come il fuoco. L’altezza e la bellezza tipica dell’est, seria nel suo tailleur scuro, ma non era riuscita a prenderne il carattere così da risultare la brutta copia della madre.

-George stava andando via. Non è così?

Sergej marcò maggiormente sull’ultima frase, così da ricordargli che doveva solo eseguire gli ordini dettati senza fare storie. Anche se era il marito di sua nipote, egli contava ben poco nella sua azienda, assorbita completamente dalla società Ramov.

-Vecchio pazzo.

Bofonchiò George e infine uscì, lasciando i due soli e appartati da orecchie indiscrete. Karina si avvicinò al nonno, con un lento movimento felino e misurato.

-Non sospetta nulla.

Sergej prese a negare con il capo, lasciando intendere alla nipote, con un gesto lento e misurato della mano, di prendergli qualcosa da bere in modo da potersi sciogliere un po’ la lingua.

Lo sguardo della donna era tutto fuorché amorevole in quel momento, anche perché aveva saputo cose che era meglio non sapere. Aveva la cattiveria che trasudava dagli occhi da gatta che si ritrovava e in più accentuava questo stato da un trucco leggero e accattivante.

-Hai notizie interessanti?

Karina fece segno di sì con il capo.

-Alexander mi ha chiamata poco fa. Ha detto che il killer è sulla buona strada e che presto ci fornirà sia la notizia della morte di Jin, sia gli indizi per trovare il signor Kamamoto.

Karina spostò lo sguardo verso le finestre aperte, per poi avvicinarsi verso queste e infine richiuderle, anche perché il vento si stava alzando e rischiava di farle sbattere.

-Sei uguale a tua madre.

-E’ che tengo a te. Non puoi prenderti un malanno.

Gli occhi chiari di Karina si posarono verso il lago Nero, chiamato così per le acque scure che vi erano.

-Se solo George sapesse…

-Meglio che ne resti all’oscuro, visti i suoi sentimenti per quella donna.

Al sol sentirla nominare, Karina strinse le pesanti tende tra le mani in modo spasmodico, come se avesse avuto il collo di Reila tra le mani.

Non immaginava mai di poter provare molto più odio di quanto già ne provava, ma non solo perché aveva rubato il cuore dell’uomo che aveva sposato, ma anche perché era stata la causa della morte della madre.

-Conosco le scappatelle di George e sono sicura che loro due si vedono ancora.

George una volta gliene aveva parlato, quando un tempo erano solo dei semplici amici, ma aveva saputo poi alla fine che Reila era diventata un’assassina e molto dopo aveva compreso di doverla odiare più dell’uomo che aveva sposato. Non c’era mai stato amore nel loro rapporto.

-E quindi dell’assassina nessuna novità?

La nipote di Sergej fece un cenno di diniego con il capo e sulle labbra colorate di un rosso acceso, si disegnò una curvatura malsana, seguita dagli occhi, che mostrarono tutto ciò che di malvagio c’era in lei.

-Vorrei ucciderla con le mie stesse mani, quella puttana.

Sergej si alzò dalla poltrona per poi avvicinarsi a Karina, prendendole le mani tra le sue.

-A tempo debito, mia cara. A tempo debito.

La donna prese un leggero respiro e su quelle labbra dove vi era stata malvagità fino a qualche attimo prima, si era disegnato un sorriso affettuoso.

-Siamo sicuri che l’uomo con cui l’assassina aveva intrapreso un rapporto, non possa darci problemi?

-Quell’uomo ormai è fuori dalle nostre vite e non potrà darci alcun fastidio, Karina.

-Ma spero vivamente che dia problemi a quell’infida serpe, spero che il suo spirito la tormenti fino alla fine.

La donna strinse in un impeto le mani del nonno, che del resto non fece altro gesto che avvicinarsi la nipote a sé ed abbracciarla. Sentiva il calore della famiglia intorno a lui e non avrebbe amato nessun’altra come sua nipote, nessun’altra che non avesse avuto lo stesso sangue di Alexandra.

-A questo proposito ho una notizia che, sinceramente, non so come considerare.

-Karina, quell’uomo ormai è morto.

-Dopo che Kajiro è arrivato a Tokyo, ha avuto un incessante bisogno di chiamare Alexander.

Lo sguardo dell’uomo calò verso il basso, come se stesse pensando a qualcosa, ma al momento non riusciva a formulare assolutamente un pensiero concreto, che avesse un po’ di importanza.

-Ha detto di averlo intravisto all’aeroporto. A Mosca. Dobbiamo controllare che sia tutto regolare?

Gli occhi di Sergej si allargarono appena.

-Ma  lui ne è sicuro?

-Assolutamente no. Ma sarà meglio esserne sicuri.

 

____________________________________

 

Osaka

 

Tutto sembrava placido e tranquillo nel quartiere dalle casette bianche. Il sole che tramontava ad ovest e stormi di uccelli che si spostavano nel cielo per trovare un rifugio dai predatori notturni. Proprio quello che non sospettava minimamente Jin quando si era affacciato dalla finestra, era che anche lui doveva iniziare a nascondersi dai predatori che quella notte avrebbero fatto irruzione in casa sua.

Nelle fitte ombre, l’anziano protettore di Reila guardava le luci dei lampioni che pian piano si accendevano e la sera calava pian piano, ascoltando il frinire leggero dei grilli nel giardino e il fruscio delle foglie mosse leggermente dal vento.

Non si accorse assolutamente che una mano si era allungata verso di lui, lasciandogli solo qualche istante per comprendere cosa stava accadendo. La mano gli strinse la gola per qualche istante, per poi sentirsi sulla bocca, un fazzoletto imbevuto di cloroformio.

Per Jin tutto perse consistenza e colore. Gli occhi, che dapprima avevano cercato di vedere il suo aggressore, si chiusero rivoltandosi all’indietro.

E poco prima di chiudere gli occhi e di perdere i sensi, sentì indistinte delle parole.

-Ora mi dirai tutto quello che voglio sapere.


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Per saperne di più

Rostov Velikij: si trova sulle rive del lago Nero a 197 km a nord-est di Mosca ed è una delle più antica città russe poiché la sua esistenza è già documentata dalle “Cronache dei tempi passati” nell’anno 862. Fu governata da Jaroslavl il saggio e dal fratello Boris che vi introdussero il cristianesimo, non senza una forte opposizione degli abitanti che nel 1071 uccisero il vescovo. Fu chiamata Rostov-velikij (la grande) da Jurij Dolgorukij nel XII secolo per conferirle maggiore importanza. Oggi Rostov è un importante centro tessile e restano ancora costruzioni antiche come il cremlino e il monastero di S. Jakov.

Cremlino di Rostov: La visita senza dubbio più importante. Con la vecchia piazza del mercato sulla quale si affaccia la Cattedrale dell' Assunzione (1408-1411). Accanto alla Cattedrale si innalza la torre campanara (XVII secolo) con tredici campane i cui concerti sono stati incisi su dischi (in vendita presso il Museo del Cremlino). Il Cremlino fu fatto costruire nella seconda metà del XVII secolo dal metropolita Jonas, uomo di grande cultura e di raffinato gusto artistico.

Angolo dell'autrice


Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 6
*** 06 - Il Signor Yukino ***


02
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06 - Il Signor Yukino



Mosca

Reila guardava con poco interesse le persone che si apprestavano all’interno dell’aeroporto di Mosca-Domodedovo per prendere gli ultima voli della giornata. E dire che si era ripromessa di non tornare mai più in quella città da quando vi aveva vissuto per qualche tempo con Dmìtrij.
Guardava quella gente che sembrava essere così felice e tranquilla nella loro corsa affannosa per prendere l’aereo e i suoi occhi si muovevano freneticamente come se stesse ricercando qualcuno, una persona che non sembrava essere in nessuno dei volti che vedeva andare avanti e indietro.
Le mani le tremavano impercettibilmente, anche se sentiva bene quel formicolio lungo il braccio, un fastidio acuito dalla presenza di colei che stava ricercando con tutte le sue forze e che finalmente riuscì ad intravedere.
Eccola.
Natasha, con i suoi fidi scagnozzi, si stava affrettando per uscire all’esterno dell’aeroporto e poter salire sulla macchina che la stava attendendo. Bella nel suo completo rosso fuoco, che riprendeva il colore delle sue labbra e in netto contrasto con il caschetto scuro dei suoi capelli. Ma Reila sapeva che gli occhi celavano quella misteriosa paura che poteva avere finalmente per un fantasma, per il fantasma che l’avrebbe uccisa senza remore.
Anche se gli altri non potevano sentirli, i tacchi della russa risuonavano sul pavimento ad un ritmo frenetico. Era su questo che l’assassina si era focalizzata, inspirando una fantomatica essenza che poteva provenire dalla bambolina fatta di menzogne che era Natasha.
Era diventata la sua ossessione da qualche tempo e quando succedeva, la ferita alla spalla acuiva il dolore per un semplice scherzo dei suoi sensi. Le bruciava la sconfitta che aveva subito da parte di quella donna e non riusciva a farsene una ragione. Ma Reila doveva rimanere calma e calcolatrice, come la leonessa prima di azzannare la sua preda. Sì, se la sarebbe mangiata ma in un modo molto più lento e freddo, così come la vendetta che stava seguendo e che la stava guidando, dandole l’euforia che le aveva dato la prima volta che aveva ucciso.
Si mosse anche lei, Natasha non l’avrebbe mai riconosciuta, sapeva mascherarsi bene e non le risultò difficile mischiarsi con il resto del mondo che l’aveva buttata troppo presto in una dura realtà. Doveva solo andare a recuperare la sua pistola e alla fine compiere il piano.
L’assassina afferrò la maniglia del suo trolley e iniziò a camminare, dalla parte opposta in cui era andata la russa. Uscita all’esterno voltò il capo, come per ricercare un taxi  (in effetti le serviva davvero) e osservò la salita della sua preda sulla berlina scura.
-Presto sarai mia.
Le labbra dell’assassina si stirarono in un sorriso costruito e finto e gli occhi le si allargarono appena. Anche se non potevano essere visibili da sotto gli occhiali grandi e scuri, se qualcuno avesse potuto vedere per intero quell’espressione, avrebbe potuto tranquillamente affermare che la donna poteva somigliare senza ombra di dubbio ad una serial-killer.
Reila riconquistò il suo autocontrollo fin da subito. Ora era l’adrenalina dell’azione che la guidava e si sentiva più che mai viva.
 
_________________________________


Paesino che affaccia sulla Baia di Suruga
 
-Signor Yukino?!
La voce che lo chiamava lo fece voltare improvvisamente e fermarsi durante la sua tranquilla passeggiatina mattutina. Teneva le mani dietro la schiena, voltandosi pian piano verso il ragazzo che lo aveva chiamato. Il signor Yukino poteva avere tranquillamente sessant’anni, non di più. E quegli occhialetti che si scurivano alla luce solare, lo facevano sembrare proprio la tipica persona che voleva starsene per i fatti suoi. Ma ciò che si notava di primo acchito era il suo volto. Non era assolutamente giapponese, anche se aveva usato sempre un cognome nipponico. Lo aveva scelto lui.
Il giovane postino corse verso di lui a perdifiato, come faceva sempre del resto e quando passava riusciva sempre a farlo irritare non poco. Il signor Yukino stirò le labbra in un mezzo sorriso e la voce  risuonò più forte di quanto avrebbe voluto.
-Sì, sono qui.
Aveva alzato la voce solo per farsi sentire dal ragazzo che gli consegnò alcune buste di lettere.
-Devi per forza gridare a quel modo?
Iniziò a riprendere il ragazzo. Quante volte glielo aveva detto di non strillare a quel modo ormai ne aveva perso il conto, eppure glielo diceva ogni sacrosanta volta sperando in un rinsavimento del giovane.
-Ha ragione. Mi scusi.
Sempre la solita scusa campata in aria. Il signor Yukino credeva che probabilmente il ragazzo ci godeva a farlo imbestialire.
L’uomo scorreva le lettere ad una ad una e semplicemente non fece altro che sgranare appena gli occhi scuri, contornati da alcune rughe abbastanza profonde, e passarsi una mano nei capelli neri, tagliati corti, così come soleva sempre fare nell’esercito.
-Sì, sì. Vai.
Sventolò in un rapido gesto la mano per congedare il giovane e quello sfrecciò lungo il viale per andare a consegnare la posta.
Yukino rientrò a passò sveltissimo lungo il vialetto che lo portava a casa sua. Si era trasferito da poco in quel bel paesino sulle coste est del Giappone. Si trovava nella Baia di Suruga, della prefettura di Shizuoka. Era  un paesino di turisti anziani e di persone che vi avevano acquistato la casa per poter stare lontani dallo smog e dall’inquinamento urbano. Sul mare si poteva vedere anche qualche barchetta con il suo proprietario intento a pescare.
All’uomo era quello che gli piaceva. Prevalentemente la tranquillità di un luogo baciato dal sole.
Spostò con la mano la porta appena aperta, un pesante portone blindato che la sua mole gli aveva permesso di spostare. Alto molto più dei giapponesi e un fisico temprato dal continuo allenamento.
Richiuse la porta dietro di sé e buttò a terra le lettere che non servivano. Bollette, bollette e solo bollette. 
Sospirò, un pesante respiro che gli uscì fuori dai polmoni in modo repentino e quasi improvviso. Era ciò che leggeva sulla lettere che gli destava questi profondi pensieri. Non riceveva sue notizie ormai da tempo immemore e così la sua scrittura gli aveva ricordato i bei vecchi tempi.
Un sorriso comparve sule labbra sottili di Yukino. Ma rimase per qualche istante interdetto da quell’improvvisa scrittura. L’amico la usava raramente e solo se un reale pericolo incombeva su di lui. Un altro rapido sospiro che trattenne per qualche secondo prima di scartare la lettera, con una lentezza pari ad una moviola ultramoderna e infine l’aprì, tradendo quell’impassibilità che manteneva solitamente come signor Yukino e prese un’espressone più enigmatica, come se non fosse l’uomo che interpretava ma solo un mero personaggio che chiedeva di poter vivere una vita più tranquilla di prima.
Quelle parole erano state scritte con una fretta assurda e con una tale intensità che la prima reazione di Yukino fu accartocciare la carta e tentare di scagliarla da qualche altra parte, lontana da lui.
Cominciava con un semplice “Amico mio” ma finiva con quella strana parola che non pensava di dover leggere per molto, molto tempo ancora.
 
“Amico mio,
tutto bene?
Sai che non ti scrivo ormai da tempo e quindi ti sembrerà strano che lo faccia adesso.
Ma ascoltami attentamente.
Ora, come ora, devi allontanarti dal posto dove ti trovi.
Presto sapranno dove abiti.
Presto verranno per ucciderti.”
 
Morte. Era questa la parola che aleggiava in quella lettera, un ombra che lo seguiva ormai da troppo tempo e ormai dallo stesso tempo ne sfuggiva. Aveva sempre la valigia pronta per questa evenienza e adesso era un’emergenza a cui non poteva sottrarsi.
 
 
________________________________
 
Mosca
 
Reila tirò una pesante boccata di fumo e lo buttò fuori dalla bocca con la forma di una lenta nuvoletta che si disperse nell’aria circostante. Nuovamente lo stesso gesto e nuovamente la nuvoletta, come se nel gelo nell’inverno russo l'aria non formasse già abbastanza quella condensa d'aria fastidiosa. Avrebbe anche potuto smettere e osservare l’aria condensarsi davanti alla sua bocca, ma preferiva sporcarsi i polmoni al momento.
 Aveva indossato un pesante cappotto foderato di pelliccia che la teneva calda e un colbacco che le raccoglieva i capelli scuri sopra la nuca.
Le labbra colorate di rosso lasciavano alcune macchie sulla stessa sigaretta, che infine spense su uno dei posacenere, in mezzo ad altre cicche simili alla sua. Il collo ampio del cappotto le copriva la metà del viso e gli occhi erano puntati verso l’entrata de’ “Il Paradiso in Terra”.
Di tanto in tanto l’assassina sbatteva i piedi in terra per il freddo, anche se portava degli stivali imbottiti anche questi per combattere il gelo.
Un tempo le piaceva guardare la neve, ma qui a Mosca era veramente troppa per i suoi gusti.
Ma l’entrata principale non era assolutamente la sua meta. Anzi, era meglio capire quanti uomini difendevano l’ingresso e il perimetro del locale. La stanza privata di Natasha, posta al primo piano dello stabile, era talmente in vista che non si poteva non notare solo alzando la testa.
Iniziò a camminare, girando al vicolo che costeggiava il locale e abbastanza trafficato da non far notare troppo la sua presenza.
La russa non si preoccupava molto della sua sicurezza, ma preferiva stare in bella mostra e far sfoggio di sé. Dopotutto era il locale di lap-dance più famoso di tutta Mosca e Natasha non aveva di paura di apparire, ma di essere buttata nel dimenticatoio. Per Reila non sarebbe stato difficile passare i controlli dall’altra parte del palazzo e infilarsi all’interno. E così si infilò nel vicolo poco frequentato.
La prima guardia era proprio di fronte a sé, girata dalla parte opposta rispetto a lei. Reila non dovette far altro che avvicinarsi di soppiatto, abbastanza vicina da poterlo tramortire con tubo di metallo preso dal vicolo. Fortunatamente non passava nessuno al momento.
L’assassina sbatté le mani tra loro per togliersi la polvere dai guanti, lasciare impronte era l’ultimo dei suoi pensieri, ma stare attenti era una delle sue regole. Si guardò intorno per cercare come rendere quel tramortimento più casuale possibile ed ecco al caso suo proprio uno dei tanti mattoni staccatosi dal palazzo di fianco un po’ fatiscente. Mise un mattone di fianco all’uomo e corse verso le scale d’emergenza, senza farsi scorgere dall’altra guardia che andava avanti e indietro per la fine del vicolo dove quest’ultimo incontrava una curva. Non si era accorto di niente.
Reila prese un leggero respiro di sollievo mentre risaliva silenziosamente le scale fino alla finestra di Natasha, da dove sentì provenire alcuni lamenti di piacere. Digrignò i denti per il disguido momentaneo. Sentì i sussurri, sicuramente era una delle tante ballerine con cui Natasha amava intrattenersi e non mise molto a sentire la voce della russa.
-Vai, Katrina. Lasciami riposare.
Il momento era arrivato e attese che la ragazza uscisse fuori con molta disinvoltura e che Natasha, sdraiata sul letto, si voltasse dalla parte opposta dov’era lei per potersi infilare all’interno della stanza. Reila era come una serpe che striscia all’interno della sua tana senza compiere alcun rumore.
Lo sguardo della killer era un misto di vendetta e adrenalina, cosa che le scorreva per tutto il corpo lasciando che i nervi fossero tesi fino allo spasmo.
 Si avvicinò senza fare rumore, muovendosi sinuosamente come un serpente ed estraendo la pistola montata di silenziatore.
Le labbra si stirarono in un sorriso sardonico, tanto da farlo sembrare completamente irreale, ma quella calma che la sua mano dimostrava, quella fermezza sul volto che la rendeva ciò che era, quell’espressione sul volto completamente assente alle sofferenze altrui era la maschera che le piaceva di più. Ecco quello che era, una perfetta macchina di morte.
Reila arrivò abbastanza vicino a Natasha che la canna della pistola toccava quasi la nuca della russa.
-Natasha.
Un sussurro il suo che voleva rendere ancora più spaventoso il risveglio della donna e così fu, tanto da farla balzare dal letto e portarsi in piedi, seguendo con lo sguardo gli occhi di Reila, due pozzi completamente neri dove si sarebbe perso chiunque.
-Chi sei?
-Dai, non farmi credere di non avermi riconosciuta.
Reila con la mano libera scostò il collo del cappotto rivelando il bel viso chiaro e lasciò ricadere i capelli lungo la schiena togliendo il colbacco. La ferita sulla spalla iniziò a pulsare, ma cercò semplicemente di non farci caso. Non poteva mollare proprio adesso che era così vicina al suo obiettivo.
-Re…Reila…
La russa rimase per qualche istante incredula, fissando per qualche secondo la canna lucida di Firestorm, la fida compagna dell’assassina, che ancora non accennava ad alcun movimento verso il grilletto.
-Sì, sono io, Natasha. So che mi stavi cercando.
-Sapevo che quell’imbecille avrebbe combinato qualcosa, infatti eccoti qui. Avrebbe dovuto ucciderti quando ne ha avuto l’occasione.
Reila non poté far altro che sorridere appena. Bella, con quei lineamenti da bambolina di porcellana così semplici da far cadere gli uomini ai suoi piedi.
-Oh, non essere così prevedibile, sapevi bene che non lo avrebbe fatto.
-Cosa vuoi da me?
Natasha rimase per qualche istante con il fiato sospeso, quando vide l’indice di Reila fermarsi sul grilletto e semplicemente il suo sguardo fiero contrastante con la paura fottuta che aveva la russa. La russa stringeva le mani convulsamente al petto e si guardava intorno senza trovare una sola via d’uscita. Natasha si era costruita una gabbia dorata perfetta.
-Ma Natasha, è così semplice.
Reila rise, come non si permetteva ormai da molto tempo e tutto ciò sembrava ancora più surreale di quanto già non fosse.
-Devo solo ucciderti.
Il volto innocente e gli occhi leggermente sgranati in quell’espressione quasi da bambina e le spalle che si erano sollevate in un gesto di noncuranza, ecco ciò che aveva messo dentro la russa un terrore sordo, come non ne aveva mai provati in vita sua.
L’indice di Reila ora premeva leggermente sul grilletto, pian piano, fino a farle desiderare di avere una morte veloce senza tutta quella messinscena.
Natasha con occhi sgranati alternava lo sguardo da Reila alla bocca della canna, dalla canna al volto dell’assassina. Strinse le labbra, se le morse fino a far uscire il sangue, dello stesso colore del rossetto, tanto da farle davvero desiderare di morire. Non era mai stata una temeraria e ne stava dando ampia prova.
Chiuse gli occhi e con quanto fiato in gola aveva, gridò. Reila poteva solo ringraziare le pareti insonorizzare che la russa si era fatta costruire per i suoi incontri.
-Dmìtrij è vivo.
Natasha l’aveva gridato così forte da indurre Reila a fermare la corsa del grilletto tutto d’un tratto, riportando l’indice verso il castello dell’arma. Lo sguardo dell’assassina si era fatto spento, ancora di più di quanto poteva essere e si era svuotato dell’adrenalina che aveva in corpo. Impercettibilmente, tremò.
Una risata nervosa iniziò ad uscire dalla bocca di Reila, quasi volesse farla risultare normale, tanto da riempire lo spazio circostante.
-Sai dove si trova?
Natasha annuì soltanto.
-Allora portami da lui.

 


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Per saperne di più

 

Baia di Suruga: La Penisola di Izu si tuffa nell’oceano Pacifico lasciandosi a est la Baia di Sagami e a ovest quella di Suruga ed è una delle regioni turistiche più apprezzate del Giappone. Le sue verdi colline, i numerosi centri termali e i tanti stabilimenti balneari insieme alla qualità degli hotel e delle pensioni tradizionali sono protagonisti del suo successo. In più, la vicinanza alla città di Tokyo e la posizione ai piedi del Monte Fuji la rendono facilmente accessibile.

Angolo dell'autrice


Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 7
*** 07 - Come rendere le cose più difficili ***


02
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07 - Come rendere le cose più difficili



Cosa stava accadendo?
Era questo che si ripeteva Jin da quando si era svegliato da quella tremenda botta in testa. Sì, molto probabilmente lo avevano colpito con qualcosa di molto pesante, anche perché avvertiva un tremendo mal di testa che gli comprimeva le meningi.
Era legato ad una sedia, in modo che non si potesse muovere neanche per respirare un po’ più a pieno. Un nodo perfetto gli legava le mani dietro la schiena e le gambe erano belle aderenti ai piedi anteriori della sedia. Jin stava pian piano riacquistando la lucidità e gli occhi si stavano riaprendo ad una velocità che rasentava la moviola. La testa ciondolava e dalla sua bocca usciva poco più di un sibilo. Poteva sembrare un respiro molto affannato, anche perché se Jin non avesse preso il suo inalatore per l’asma, difficilmente sarebbe arrivato fino al giorno dopo.
Ma non era la malattia che gli attanagliava i polmoni, ma qualcosa di più subdolo che lo guardava nell’ombra.
-Avanti, fatti vedere.
E da un angolo poco distante da lì, all’improvviso, poté ben vedere un puntino rosso che si accendeva e poi si spegneva. Jin aveva gli occhi ancora appannati e non riusciva a distinguere la sagoma, ma ne era sicuro: era un uomo, qualcuno con cui meglio non averci a che fare.
Quel puntino rosso, nella penombra della stanza si spense di botto, semplicemente aveva finito la sigaretta e la figura si era alzata, lasciando la cicca dentro il posacenere.
-Temevo quasi di averti colpito così forte da non farti più svegliare.
La voce dal naturale accento giapponese, aveva fatto sollevare il capo di Jin che teneva penzoloni, quasi fosse una bambola di pezza buttata lì. Sollevò lo sguardo e il volto dell’uomo, ancora prima della voce, gli aveva fatto tornare alla mente alcuni ricordi che aveva cercato di seppellire.
Sapeva bene chi si trovava di fronte a lui e ad un certo punto iniziò a provare paura.
Jin l’osservava. Aveva tratti occidentali, ma dalla conformazione del volto si poteva bene vedere che era giapponese; aveva preso dalle due razze le parti migliori.

Del resto Kajiro non era disdegnato dalle donne e questo lo rendeva ancora più sicuro della presa che aveva sulle persone. Aveva una mentalità oscura anche per se stesso e a volte si sorprendeva di quello che poteva fare o solo pensare.
Kajiro si avvicinò di qualche passo, ma rimanendo sempre a debita distanza da Jin, che cercava in tutti i modi di sfuggire al suo sguardo.
-Sai bene perché sono qui.
A quell’affermazione Jin non poté far altro che stringere le mani a pugno e scuotere il capo per qualche istante, mentendo.
-No, cos’hai da dirmi di così urgente?
La voce rauca fu scossa da una legger risata, tanto che Kajiro fece una smorfia di dissenso sul bel volto pallido.
-Perché rendete questo lavoro sempre più difficile.
E detto questo non si scompose, ma prese in mano l’inalatore dell’anziano giapponese e glielo sventolò a pochi centimetri di distanza. Kajiro sapeva bene che se Jin voleva tenersi la sua vita, quella era l’unica cosa che avrebbe potuto farlo parlare, altrimenti sarebbe passato alle maniere forti. Solo Dio sapeva quanto gli piaceva passare sempre alla seconda parte del trattamento.
-Avanti, vecchio. Dimmi quello che voglio sapere e potrai morire con onore.
-Se non parlo mi uccidi e se parlo mi uccidi lo stesso. Che cosa ci guadagno io?
Un sorriso beffardo si disegnò sulle labbra di Jin. Anche se anelava di fare solo un’aspirata e il suo respiro era più affannato, non poteva tradire la fiducia di un caro amico, neanche se ci avesse dovuto rimettere la vita e soprattutto la fiducia che Reila aveva riposto in lui.
-Una morte senza dolore e sofferenza.
Kajiro aveva sorriso dopo aver risposto all’uomo. Sentiva nelle vene il flusso del sangue irrompere come un fiume in piena verso il cervello. Non era mai stato una persona paziente, ma in quel momento doveva solo riuscire a controllarsi, altrimenti non avrebbe ricavato neanche un ragno dal buco. Sapeva bene che la piccola Karina sapeva essere sadica quasi quanto lui.
Jin prese un respiro profondo, anche se gli cominciava a risultare molto difficile e ogni respiro era una tortura per i suoi polmoni e per il suo petto, se iniziava a tossire era la fine.
-Non vedo ancora il vantaggio per me.
Jin era cocciuto, testardo così come la vita gli aveva insegnato e questo a Kajiro non faceva alcun piacere.
-Avanti, non capisco perché tu voglia soffrire.
Jin sollevò solo lo sguardo e rise, con un misto di attacchi di tosse, ma rise. Non sguaiatamente ma adorava quello sguardo di colui che non poteva sbilanciarsi più di tanto, lo sguardo di Kajiro che anelavano le sue risposte quasi quanto lui anelasse il suo inalatore.
L’assassino si voltò di spalle, conscio che non avrebbe mai potuto saltargli addosso e una mano andò a sfiorare il mento. Nella sua testa iniziarono a delinearsi le reali guide di quella notte e si prospettava che Jin gli dicesse quello che voleva sapere.
L’uomo prese un profondo respiro, poi un altro. Schiarì la voce e infine si voltò verso Jin e con il suo solito savoir-faire si avvicinò all’anziano. Un altro profondo respiro e quel sorriso che non abbandonava le sue labbra.
-Bene, se proprio vuoi passare alle maniere dure, mi inviti a nozze.

Lentamente, Kajiro, mise alle sue mani dei guanti scuri. Piano, come in una danza dove il cigno sta morendo. Lo sguardo era truce e delicato al tempo stesso e questo a Jin mise una certa agitazione.
-Cominciamo.
Detto questo l’assassino sferrò un dritto sulla tempia di Jin e l’uomo da lì a poco, svenne.
 
 
__________________________
 
 
Osaka. Da quanto ormai non tornava in quella città?
Ogni volta che voltava il capo in un angolo diverso, tutto sembrava uguale a come lo ricordava. Dopotutto mancava da quasi trent’anni, da quando lei era morta.
Il signor Yukino aveva messo le mani nelle tasche e si era incuneato nelle proprie spalle per dare l’aria di un signore anziano che voleva essere lasciato in pace. Scorbutico e irascibile, come lo era sempre stato all’età dell’esercito dove aveva dato prova di grande coraggio. Ma dopo quella faccenda la sua vita era cambiata nel peggio, dopotutto era cambiata e non poteva farci nulla.
L’uomo aveva sempre pensato che se si potesse prevedere il futuro, molti uomini lo seguirebbero lo stesso, perché sembra l’unico possibile a dargli una vita movimentata e piena di avventure, ma ora come ora avrebbe preferito rimanere nella sua bella casa sulla baia di Suruga e vivere da pensionato fino alla fine dei suoi giorni.
 L’espressione era completamente persa in chissà quale strano pensiero che lo portava in tempi lontani, quando aveva conosciuto Alexandra, la prima donna che aveva amato prima della sua ragione di vita.
Era bella. I capelli colore del fuoco e gli occhi gentili e caldi, gli unici a scaldarlo nell’inverno gelido siberiano. Era proprio lì che l‘aveva conosciuta e quel ricordo era così vivido che non gli sembrava assolutamente reale. Poi, quando seppe che era morta, non riuscì assolutamente a perdonarselo. In cuor suo aveva sempre pensato che fosse stata tutta colpa sua.
Yukino, perso in quel pensiero e nel sorriso di Alexandra, aveva sollevato la testa e aveva buttato tutta l’aria che non si era minimamente accorto di aver inspirato.

Era così strano camminare in quella via, dove vi si era ritrovato tante volte con il suo compagno d’armi. Si era trovato a sospirare nuovamente, prima di intravedere un’ombra allontanarsi dalla casa di Jin.
Yukino si tiro verso un muro, alzando il bavero del cappotto. Come poteva essere stato così stupido?
L’aveva anche avvisato di scappare, ma pensava che l’unico luogo impensabile dove poteva andare era anche quello più sicuro. Più stai esposto e più non ti vedono. Era questo che aveva imparato nella sua vita, ma adesso aveva commesso un errore madornale. Un errore che avrebbe potuto costargli la vita.

 

__________________________


Era davvero doloroso l’ago che entrava nel braccio e gli occhi dell’assassino che lo guardavano, fissi nei suoi, così folli da sembrare irreali. Così neri da sembrare dei buchi neri dove sarebbe potuto morire.
Jin prese un profondo respiro, accorgendosi che i suoi polmoni erano in fiamme e il volto assunse una nota di dolore misto alla voglia di voler nascondere tutto, di non far vedere all’uomo che stava soffrendo. Ma Jin non poté trattenere un sibilo che gli uscì prepotentemente dalle labbra dischiuse.
-Cosa stai facendo?
Jin non capiva neanche se avesse detto veramente quelle parole. Era ancora intontito dal pugno e la vista era completamente offuscata, tanto da vedere solo una sagoma indistinta davanti a lui, ma sapeva bene che Kajiro gli aveva iniettato qualcosa. Il liquido l’aveva sentito entrare prepotentemente nelle vene e sentiva il sangue refluirgli persino nelle orecchie.
-Ti avevo avvertito.
La voce di Kajiro risultò, alle orecchie di Jin, cavernosa e lontana, come un mostro della sua infanzia tornato indietro per poterlo mangiare.
Jin sentì indistintamente il rumore di una sedia trascinata, e nuovamente si ritrovò la faccia di Kajiro di fronte al suo. L’assassino gli aveva afferrato il volto, sollevandolo e tenendolo stretto tra il pollice e l’indice.
L’anziano aveva la testa pesante ed era debole. L’asma lo stava divorando dall’interno e non avrebbe potuto fare nulla se non morire, senza dire nulla.
-Ti ho iniettato un siero della verità, Jin.
Il killer si era seduto elegantemente davanti a lui, lasciandogli il volto penzolare. Kajiro aveva accavallato le gambe e alla bocca aveva portato nuovamente una sigaretta, aspirandone appena il fumo e ributtandolo fuori con nonchalance.
-Non avrai da me nessuna informazione.
Kajiro aveva sorriso e aveva tirato un’altra boccata di fumo.
-Non ne sarei tanto sicuro. Dopotutto non puoi opporti.
L’assassino aveva sempre usato metodi poco convenzionali nell’interrogare qualcuno e molte volte preferiva quello più semplice, come drogare le persone e farsi dire tutto quello che voleva.
-Conosci il pentothal?
L’aveva chiesto con una voce bassa e calma, aveva tutto il tempo per aspettare. Insomma, il tempo che a Jin restava e prima che le luci dell’alba avrebbero inondato l'orizzonte.
L’anziano non parlava e alla domanda dell’uomo annuì soltanto. Era debole, ma assolutamente cosciente di quello che l’assassino stava facendo. Si sentiva quel pressante peso sul petto, i polmoni sembravano scoppiargli tanti la pressione che ne proveniva e aveva assolutamente bisogno del suo inalatore, tanto che la voce, con sua somma sorpresa, uscì rantolante.
-Non puoi obbligarmi a parlare.
Le labbra dell’assassino si era incurvate in un sorriso sardonico e aveva buttato fuori un po’ d’aria, come un leggero colpo di tosse.
-Oh, certo che lo farai.
Una leggera smorfia che cercava di imitare un rattristamento da parte dell’uomo che aveva allungato la mani verso il pavimento, per dare un colpo alla sigaretta e far cadere la cenere che vi si era consumata.
-Dunque, dov’è Reila?
Era questo che gli premeva più di tutto, la cosa che gli interessava più di Kamamoto.
Jin cercava di resistere, ma non aveva più la volontà di una volta e il siero era abbastanza potente da far parlare anche un muto. Le labbra erano serrate, lasciando per qualche istante che un rantolo confuso uscisse dalle sue labbra e la sua faccia si trasformasse in una maschera di dolore.
-Dai, Jin. Perché sei così reticente.
Kajro stava perdendo la pazienza, ma doveva solo aspettare che il pentothal facesse l’effetto sperato.
-Mosca.
Era uscito un rantolo, un filo di voce gutturale che chi avrebbe sentito da fuori, sarebbe potuto sembrare un animale ferito.
-Dovevo immaginarlo. Natasha.
L’assassino aveva portato una mano al mento, massaggiandolo. Stava pensando, ma non rese assolutamente vive le sue emozioni, tanto che la maschera di una freddezza quasi mortale gli aveva investito il volto, tirando i suoi tratti in modo ferino.
-Vedi che puoi essere collaborativo?
Jin si era morso immediatamente le labbra, lasciando che gli occhi si stringessero in un modo di dolore che non veniva dal corpo, ma dalla consapevolezza di aver tradito la ragazza.
-Un’ultima cosa.
Aveva lasciato un attimo di silenzio all’interno della stanza, per poi buttare la sigaretta a terra, dopo aver espulso l’ultima nuvoletta di fumo.
-Dov’è Kamamoto?
Jin allargo le pupille. Aveva la testa ancora bassa e l’assassino non si era accorto dell’espressione che aveva fatto, ma non poteva assolutamente immaginare che da lì a poco glielo avrebbe detto.
-Se mi dici questo, ti lascerò andare.
E sulle labbra di quell’uomo si nascose un sorriso freddo e sadico, di chi sa già che la sua vittima è destinata a morire da lì a poco.
-Non so dove sia, l’ho avvertito di andarsene.
Un colpo di tosse scosse il corpo di Jin. Gli era sembrato di sputare tutta l’anima in un solo colpo.
-E come lo hai avvertito.
-Con una lettera.
Un mugugno da parte dell’assassino, lasciando una leggera risatina nell’aria. Come quella del diavolo che si sente di tanto in tanto. Sinistra e maligna.
-E questa lettera dove l’hai spedita?
-A Suruga.
L’assassino si alzò lentamente dalla sedia, e riassetto la giacca gessata che portava e sbatté le mani sui pantaloni scuri. Aveva preso la via dell’uscita, lasciando Jin ancora legato e malato.
-Come si fa chiamare adesso?
La domanda, a Kajiro, gli era frullata nel momento in cui gli aveva detto di aver spedito la lettera. Attese, senza voltarsi, che l’anziano gli rispondesse.
-Yukino.
Kajiro storse le labbra e una mano andò a sfiorare la chioma castana. Era stato colpito come un fulmine a ciel sereno.
-Bene, Jin.
Kajiro arrivò alla porta e prima di uscire, si voltò verso l’uomo.
-Ah, la dose che ti ho iniettato è  letale.
Glielo disse quasi come se fosse l’ultima cosa che aveva pensato. Come se fosse una cosa senza importanza e detto questo se ne uscì fuori come un’ombra nella notte.
Jin era rimasto lì, agonizzante e con una crisi respiratoria che, con il suo problema dell’asma, avrebbe reso tutto più facile. Aveva solo un sorriso triste sulle labbra, lasciando che lui stesso, poco dopo, cadesse in uno stato d’incoscienza.

yin yang vettore

Per saperne di più 

Siero della verità: è un farmaco psicoattivo utilizzato per ottenere informazioni da soggetti che non possono o non vogliono fornirle. Secondo il diritto internazionale, l'utilizzo di questi preparati è classificato come una forma di tortura.
Tuttavia, essi sono correttamente e produttivamente utilizzati nella valutazione dei pazienti psicotici nella pratica della psichiatria.
In quest'ultimo contesto, la somministrazione controllata di farmaci ipnotici endovenosa viene chiamata "narcosintesi". Viene anche usato per l’iniezione letale per i condannati a morte. La procedura ed il metodo di esecuzione assomigliano alla tecnica per realizzare un'anestesia generale: al condannato viene inflitta un'iniezione per via endovenosa contenente una dose letale di pentothal o pentobarbital (barbiturici molto potenti) misto ad un agente chimico paralizzante. Al termine della procedura, il cuore può continuare a battere per un periodo che può variare dai 6 ai 15 minuti, dato che il condannato viene dapprima messo in uno stato di incoscienza e poi viene ucciso lentamente per paralisi respiratoria e successivamente per paralisi cardiaca.

Angolo dell'autrice


Ed eccomi di ritorno con un capitolo pieno di suspense e di colpi di scena. Almeno spero che lo abbia reso tale perchè nella mia testa era già tutto scritto, doveva solo essere messo nero su bianco. Spero di esserci riuscita. Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 8
*** 08 - Parole al vento ***


02
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08 - Parole al vento



Era stato così tremendamente facile.
Gli occhi scuri si guardavano intorno e non avvertivano alcun pericolo. Solo ed esclusivamente Natasha davanti a lei che la conduceva dove le aveva chiesto. Da Dmìtrij.
Ma stranamente Reila sentiva attraversarle lungo la schiena una strana sensazione, qualcosa di cui si sarebbe dovuta pentire amaramente. Ma non riusciva a dare un nome a quel presentimento, tanto che aveva i sensi annebbiati da ciò che le si prospettava davanti.
Non aveva compreso il perché la russa la stava portando lì, non comprendeva perché fosse stato così semplice e soprattutto perché non avesse chiesto alla donna con le labbra di fuoco di dirle dove si trovava e ucciderla nella sua stanza.
La pistola rimaneva puntata verso il fianco della russa e la mano sinistra la cingeva come se fosse un’amica che aveva ritrovato dopo tanto tempo.
-Non fare la furba.
Natasha si era voltata a guardarla. Reila era sempre stata una bella donna, fin da quando l’aveva vista quella notte al suo locale, quando uno dei suoi uomini l’aveva ferita e il suo sguardo non era riuscita a staccarsi dal viso delineato da una leggera smorfia.
Reila aveva i nervi tesi e non si interessava alla donna accanto a lei, non più di quanto non  meritasse. Possibile che l’assassina non si era accorta che poteva essere tutta una trappola?
Troppo facile portarla con sé, fin a non pensare che poteva tenderle un’imboscata o che semplicemente voleva farla soffrire. A Reila questo non era passato minimamente per la testa e quando si parlava dell’uomo che aveva amato fino ad annullare se stessa, non capiva più nulla e non riusciva assolutamente a collegare i fatti.
Tutto quello che sapeva era non conoscere minimamente la sua reazione, semmai la notizia che Dmìtrij fosse vivo sarebbe stata vera.
Appena uscite dal locale, minacciando Natasha che se nel caso avesse avvertito qualcuno sarebbe morta prima che sparassero a lei, presero la direzione dell’auto della russa. Il leggero venticello e la neve che cadeva rasserenava l’assassina e le toccava la pelle come una doccia gelata.
-Adesso mettiti alla guida e portami da lui.
Reila le aveva fatto il cenno con la testa, non le servivano repliche. La russa doveva fare solo quello che diceva lei, altrimenti sarebbe finita molto male.
Reila era salita direttamente al posto del passeggero, tenendo ben nascosta la sua fida compagna, sempre puntata verso la sua vittima.
Il suo sguardo si chinò per qualche istante, mentre la russa metteva in moto e partiva molto lentamente. Aveva preso un profondo respiro e i pensieri iniziarono a vorticarle in testa come un uragano, pungendole le meningi come il freddo russo.
Il colbacco le copriva la testa, dentro questo aveva raccolto i capelli e le dava modo di coprire il volto nel caso la tristezza l’avesse invasa. Al solo pensiero stava male e il cuore le faceva male, ma dopotutto, pensò alzando il capo con una certa autostima scaturita improvvisamente dal suo animo, credeva di aver fatto la scelta giusta a sparare all’uomo. L’unico errore che non si era perdonata era il non essersi assicurata che lui fosse morto davvero. Per qualche istante non pensò neanche a suo padre, tanto il pensiero di Dmìtrij era così pressante da risultare doloroso come un pugno nello stomaco.
Natasha guidava prudentemente, lasciando che il silenzio si stabilisse tra loro, come un muto accordo preso il precedenza. Di sottecchi osservava l’assassina che notava fare lo stesso, lasciando che il suo sguardo si alternasse tra la strada e la donna. Le labbra sapientemente colorate di rosso di Reila si muovevano appena e la russa era sempre rimasta affascinata dall’assassina, tanto da desiderare di prenderla in qualsiasi modo potesse essere possibile.
Reila sollevò lo sguardo verso Natasha, come se si fosse accorta dei pensieri dell’altra storcendo le labbra in una pericolosa smorfia. Solo qualche istante prima di tornare alla naturale freddezza del suo lavoro, con lo sguardo dritto di fronte a sé.
Percorrevano le strade principali, sgombre dalla neve che continuava imperterrita a cadere. Si prospettava uno degli inverni più duri, ma le autorità si erano già mosse per mettere la città in sicurezza. Almeno per quelle persone che se lo potevano permettere.
Reila, come ripresasi da un momento di torpore dovuto al freddo, riassettò la pistola sotto il cappotto e la strinse con più veemenza. Osservò i tratti di Natasha e in quel momento miriadi di domande le vennero in testa, voleva soprattutto capire il perché di molte cose.
-Hai solo allungato un po’ la permanenza su questa terra.
La voce era gelida e lo sguardo ne seguiva completamente il pensiero, lasciando gli occhi appena socchiusi per contornare il momento.
Natasha non rispose, lasciando che l’assassina cominciasse nuovamente a parlare.
-Cosa ci guadagni tu in questa storia?
La russa sgranò gli occhi, come se comprendesse che Reila sapesse già abbastanza da mettere alla gogna tutti i suoi collaboratori e soprattutto il suo capo.
-Non dirmi che fai tutto questo per soldi, Natasha… mi cadresti ancora più in basso.
La russa non fece altro che schioccare la lingua e un sorrisino le affiorò sulle labbra rosse. Sapeva bene che al momento non l’avrebbe uccisa.
-Parli proprio tu. Il tuo lavoro è fondato sui soldi.
A Reila quella fu come una doccia fredda, ma ne aveva ricevute talmente tante, da risultare completamente asettica a quel commento.
-Non stiamo parlando di me, ma di te.
Reila non faceva altro che osservarla, fissarla con quel suo sguardo del quale si doveva solo avere paura, perché mostrava tutta la risolutezza e la disperazione di quella donna. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per arrivare ai suoi scopi.
Un profondo silenzio calò sulle due, poi improvvisamente Natasha attaccò.
-Fu Dmìtrij che mi chiese di farlo.
Reila allargò gli occhi, cercando di non far capire alla russa quanto tutte quelle parole facessero male.
-Fare cosa esattamente?
-Cercare di ferirti, Reila. Cercare di far vacillare le tue certezze, così che lui avrebbe potuto approfittare di quella situazione. Della tua debolezza-
Il corpo di Reila ebbe come un tremito improvviso, tanto che la mano coperta dal guanto, quella libera, si strinse a pugno, non curandosi se Natasha se ne potesse accorgere o meno.
-Aveva previsto tutto. Fin dall’inizio.
Reila strinse le labbra, lasciando che quel vento gelido nel cuore passasse come tutto l’amore che provava ancora per Dmìtrij. Per lui si era arresa alle emozioni, per lui aveva rinunciato a tutto e lui aveva già previsto tutto dall’inizio.
-Ne eri innamorata?
Questa volta fu Natasha a storcere le labbra e aprirsi in una risata moderata. Lasciando che lo sguardo gelido dell’assassina si posasse su di lei, lasciandole quel freddo addosso che non poteva togliere assolutamente. Di colpo la russa si zittì.
-L’unico errore che ho fatto è non essermi accertata che fosse morto.
Reila avvicinò la pistola verso il fianco di Natasha, facendole capire che fin’ora era stata clemente, da quel momento in poi era tutta in salita.
-Chi lo ha soccorso?
Natasha si strinse le labbra in un morso per non parlare. Poi rilassò tutti i muscoli, mentre accelerava appena per superare due macchine e svoltare sulla destra di due edifici alti, dalle finestre blu.
-Non hai ancora capito? Ti ha usato fino alla fine…
Rimase in sospeso tutta la frase, poiché Natasha si fermò e mise il freno a mano. Le mani andarono a porsi sulle gambe, come in attesa. Stava facendo sfoggio di tutto il coraggio di cui era capace.
-Siamo arrivati.

Improvvisamente tutte le domande che Reila aveva, compresa quella per comprendere meglio le parole di Natasha, caddero, come castelli di carta.
L’assassina aprì lo sportello, tenendo sempre sottotiro la donna e le intimò di scendere, immediatamente. La russa non poté far altro che chiudere la macchina e sentire il corpo caldo di Reila accostarsi al suo, mentre quell’ostacolo costituito dalla canna della pistola, si frapponeva tra le due.
Davanti a loro si ergeva la vecchia fabbrica di cioccolato di Mosca. La Krasny Oktyabr, situata al centro dell’isola artificiale di Bolotny. La fabbrica, dal colore rosso vivo dei suoi mattoni, era illuminata a giorno essendo ora un centro culturale e dedito alla vita notturna della città.
Gli occhi di Reila si posarono per qualche istante sulle persone presenti in quel luogo. Tutte diverse da lei e tremendamente a loro agio nei loro cappotti imbottiti. Neanche il freddo aveva attecchito la loro voglia di divertimento.
Prese un profondo respiro, sentendo che il quel luogo vi era già stata o che almeno l’aveva vista da lontano. Le labbra si strinsero in un muto grido di dolore quando vide in lontananza la chiesa del Salvatore, proprio dove Dmìtrij l’aveva stretta tra le sue braccia la prima volta e dove le aveva rubato il primo bacio della loro storia completamente travagliata.
L’assassina aveva sentito le mani tremare e la pistola non avere un appiglio forte e deciso. Difatti sembrò quest’ultima ricordare all’assassina chi era e cosa faceva in quel luogo, mentre Natasha si stringeva al suo fianco.
Il corpo di Reila si irrigidì, non soltanto per il freddo ma per quel contatto non voluto dalle mani della russa sul suo braccio. Storse le labbra staccandosi in malo modo dall’abbraccio di Natasha e infine poté sentire indistintamente il rumore del fiume proprio di fianco l’ex-fabbrica solo chiudendo gli occhi e riprendere il controllo di se stessa. Il gesto non era stato voluto, ma erano stati i suoi pensieri a portarla a reagire a quel modo. In verità, lei era ancora innamorata di quell’uomo che l’aveva tradita e trattata come una bambola di pezza. Era diverso dal sentimento verso Peter e in seguito a quello di George. Era qualcosa di trascendentale, di completo abbandono dei sensi al solo pensiero.
Reila, dopo che Natasha l’aveva guardata con occhi furenti, si accosto a lei e la bocca della pistola si accostò al fianco della russa, sentendola da sotto il cappotto e attraverso quello dell’assassina. Dopo questo la russa si ammansì.
-Andiamo.
Attraversarono quella miriade di persone, alle quali potevano semplicemente sembrare delle buone amiche. Le tendenze di Natasha non erano neanche ben viste dalla polizia russa e tantomeno dal suo presidente, difatti la donna aveva tranquillamente assunto un comportamento docile e che a Reila sarebbe dovuto sembrare strano.
-Sei sicura di volerlo?
La voce della donna russa aveva varcato il muro di silenzio che l’assassina aveva eretto tra loro, perché semplicemente non voleva avere una discussione con lei. Lo sguardo dell’assassina fu come un fulmine che saettò verso l’altra con la velocità di un secondo. Si stette zitta e non rispose.
Attraversarono la vecchia fabbrica e alla fine entrarono nel palazzo proprio dietro questa, lasciando la vita notturna al suo inizio.
-Dobbiamo salire al quarto piano. Lui si trova lì.
Era la voce di Natasha che sempre mantenendo un tono basso, seguiva Reila nella salita delle scale. L’assassina restò comunque attenta a qualsiasi movimento brusco dell’altra e si guardò attorno. Come se si sentisse spiata e completamente nuda a occhi invisibili.
Quando furono arrivate l’assassina spinse in malo modo la russa che si avvicinò alla porta.
-Ma che modi.
Infine alzò la mano e iniziò a bussare, come se fosse tutto un codice segreto.
Reila prese un profondo respiro e infine puntò la pistola verso la testa della russa. L’indice si portò velocemente verso il grilletto, lasciando per qualche momento interdetta la russa.
-Adesso non mi servi più.
Non fece in tempo a far finire la corsa al grilletto che la porta si aprì, gli occhi le si spalancarono e cadde a terra colpita da un dardo sonnifero. L’ultima cosa che aveva visto erano quegli occhi di ghiaccio, completamente privi di alcun sentimento.

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Per saperne di più 

Krasny Oktyabr: Gli edifici di un ex fabbrica di cioccolata sono diventati un bellissimo esempio di archeologia industriale riutilizzata a scopi diversi. Per la popolazione moscovita under 30, "Krasny Oktyabr" è soprattutto sinonimo di cultura, e lo storico edificio color mattone di luogo alla moda, da frequentare per rimanere al passo coi tempi. Questo da quando le linee produttive della cioccolateria più famosa della Russia hanno lasciato spazio a mostre, cinema, bar, ristoranti, che caratterizzano una delle location più vive della città, attraversata ogni giorno dalla sua popolazione più dinamica, giovane, intraprendente. Collocata nel cuore di Mosca - presso lʼisola artificiale di Bolotny - la facciata in mattoni rossi della storica fabbrica dolciaria "Krasny Oktyabr", occupa buona parte del lungomoscova Bersenevsky, a pochi metri dal Cremlino e dalla chiesa del Cristo Salvatore, dal celebre “House on the Embankment“, dal teatro Bolshoi e dal Museo Puškin.

Angolo dell'autrice


L'ottavo capitolo è finalmente on-line e non posso che essere fiera di dove sono arrivata fin'ora. Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 9
*** 09 - Spia ***


02
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09 - Spia



Rostov Velikij
 
Si era guardato abbastanza intorno prima di assoldarlo.
George era assolutamente cosciente di quello che stava facendo, ma sperava sinceramente di non trovare quello che temeva.
Era questo che pensava l’uomo, sdraiato sul proprio letto e a torso nudo. Aveva appena fatto sesso con la moglie e gli occhi erano puntati verso il soffitto. Non poteva far nulla che Sergej veniva a scoprirlo, ma usando i suoi fondi privati sperava che almeno in quella situazione non l’avrebbe smascherato.
Katrina uscì dal bagno e con indosso solo l’asciugamano, ma chissà perché, guardandola anche più attentamente, George non riusciva a provare neanche quel pizzico di lussuria che una moglie dovrebbe scatenare, anche con una consorte come lei. Bella era bella, non poteva negarlo, ma reputava quella donna una serpe e dunque pericolosa. Un pericolo che avrebbe voluto sinceramente evitare.
George la degnò di un rapido sguardo, lasciando che la donna gli si avvicinasse e si posasse di fianco a lui.
-A cosa pensi?
La domanda lo rese un po’ inquieto, tanto da aspettare qualche attimo prima di rispondere. Volse il capo, leggermente, verso di lei e la guardò, da capo a piedi. Cosa che a lei fece piacere.
-Alla notte appena trascorsa.
Sulle belle labbra di Katrina si disegnò un piccolo sorriso. Spostò la mano verso il torace di George e disegnò intricati ghirigori immaginari. Non era stupida e l’uomo lo sapeva bene.
-Devo dedurre che ti sia piaciuta.
L’uomo sollevò solo un angolo della bocca, tanto da farlo risultare un ghigno. Prese un profondo respiro, calibrando ogni singola sillaba che doveva uscire dalle sue labbra.
-Mi chiedo perché ti ostini a venire con me, potresti avere tutti gli amanti che vuoi ed evitarmi.
Katrina non poté non ridere, portando la mano sul petto come se volesse calmare gli scossoni di ilarità che l’uomo le aveva provocato.
-George, sei il solito. Rovini sempre l’atmosfera.
Non che ce ne fosse mai stata all’interno del loro rapporto puramente fisico, ma George si sentiva anche una pedina in quel preciso istante, quando tutto doveva essere il compimento di un amore. Quello che non era mai stato tra loro. Non poteva farci assolutamente nulla, l’uomo non riusciva proprio ad essere romantico neanche per errore con lei.
La donna, ancora ridendo, si spostò verso la cabina armadio e lasciando cadere l’asciugamano direttamente a terra, il corpo nudo ebbe appena un tremito per poi scomparire dietro le ante, ma non senza continuare a parlare.
-Mi lascerai ancora oggi?
La voce era fintamente contrariata e il tono rasentava il sarcastico. George non si voltò verso di lei, ma continuava a guardare verso l’alto, l’unico posto dove non rischiava di incontrare lo sguardo di sua moglie. Sollevò la mano verso l’alto guardando contrariato la fede all’anulare sinistro e infine sospirò, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo in segno di diniego.
-Lo sai bene che tuo nonno non mi lascia due minuti liberi.
La voce dell’uomo era atona, alta il giusto per farsi sentire dalla donna che fuoriuscì solo con la testa, posando entrambe le mani per non cadere, lasciando che i capelli rossi le ricadessero sulle spalle come morbide onde, rimanendo nascosta dietro l’anta della cabina armadio.
-Beh, è il minimo che ti chiede, non dovresti neanche lamentarti.
George non poté che annuire e poi infine alzarsi, andare verso il bagno e richiudere la porta. Sul lavandino di questo vi era un test di gravidanza e questo gli fece sovvenire tanti ricordi poco piacevoli. Era solo questo che voleva da lui. Un figlio da poter plasmare come voleva lei. Il solo motivo per cui ancora facevano sesso. L’unico modo in cui poteva servirsi di lui.
George aprì l’acqua del lavandino e si sciacquò la faccia, sollevò lo sguardo guardandosi allo specchio e si osservò bene. Un fantasma di quello che era. Gli occhi nocciola erano spenti ormai da troppo tempo e non riusciva a capacitarsi di come era arrivato a quel momento.
Le mani sostenevano il peso del busto nudo spostato in avanti.
Non che non avesse provato ad evitare di avere figli, ma lo tenevano sotto stretto controllo, anche se sembrava il contrario. Se solo Sergej avesse saputo che non voleva assolutamente avere figli, soprattutto con la nipote, lo avrebbe rovinato e questo non poteva permetterselo.
Era arrivato il momento di agire. Era rimasto fermo fin troppo tempo.
 
_______________________________
 
Osaka
 
Yukino aveva visto l’uomo andare via, ma stranamente non lo aveva visto avvicinarsi. Aveva preso a respirare un po’ a fatica, ma cercava di calibrare il suo respiro ai rumori della notte, in modo da non essere scoperto. Si era acquattato contro l’angolo di una casa a pochi metri da quella di Jin.
Sentiva che era successo qualcosa e per qualche istante iniziò a guardarsi i piedi, come rapito da qualche visione, come se sentisse che per l’amico non ci fosse nulla da fare se non solo una preghiera per far innalzare la sua anima in cielo.
Yukino si era nuovamente sporto dal suo nascondiglio per poter vedere se l’uomo che aveva intravisto fosse ancora nei paraggi e questo lo aveva reso molto più cauto, avvicinandosi alla bella casa bianca, dove poco tempo prima Reila aveva dormito e che lui non sospettava assolutamente.
Lo sguardo era attento e scrutatore, indagava nel vicinato, ma nessuna presenza oltre quella di lui e qualche rada macchina di persone che andavano a lavorare.
Arrivato alla finestra sul retro, Yukino guardò un'altra volta verso le sue spalle, l’alba era arrivata, il sole stava rischiarando il cielo e gli uccelli si sentivano cantare già da qualche ora.
Prese un profondo respiro e l’uomo entro all’interno della casa, continuando a rimanere basso e cercando di fare meno rumore possibile. Aveva imparato ad uccidere un uomo armato con l’uso esclusivo delle mani e dunque questo non lo spaventava, l’importante era che la minaccia non fosse troppo distante da lui.
-Jin?!
La voce dell’uomo risultò molto bassa e in ogni stanza sentiva un odore di pulito e di buono, Jin era sempre stato particolarmente attento alla pulizia.
-Jin?!
Un’altra volta e nella cucina nessun rumore se non un leggero rantolo improvviso, che aveva appena sentito appena entrato ma che non ci aveva fatto caso.
Ma quando Yukino entrò all’interno del salotto gli si gelò il sangue nelle vene. Jin era riverso a terra. Le corde che lo avevano legato erano state sciolte e lasciate di fianco a lui, mentre il peso dell’uomo lo aveva portato a cadere a terra, riverso in modo scomposto.
-Jin!
Gridò o così era arrivato alle sue orecchie. Si lasciò in avanti per soccorrere l’amico. Rispetto a lui, Jin era invecchiato molto di più, sarà stato per la sua malattia o solo perché era portato ad appassire così, ma era debole e troppo magro tra le sue braccia. Infatti si era inginocchiato e aveva scosso l’amico per cercare di riprenderlo, aveva anche avvicinato l’orecchio alla bocca dell’altro uomo per sentire se respirasse. Benché debole, Jin respirava ancora.
-Rispondimi, amico mio!
Lo aveva abbracciato e aveva preso, a pochi passi da lui, l’inalatore dell’uomo. L’asma gli era venuto molto dopo essere uscito dall’esercito. Non conosceva la causa di quella malattia, ma sapeva che era successo qualcosa che gli aveva negato improvvisamente di parlarne con lui e così glielo accosto alla bocca per fargli prendere un po’ d’aria ai polmoni.
Jin aprì gli occhi e nell’appannamento della morte vide il volto del suo amico e sorrise, semplicemente.
-Aleksey?
Jin corrugò la fronte, improvvisamente.
-Cosa ci fai qui? Devi andartene subito.
Uno scatto convulso di tosse, mentre il veleno stava facendo effetto nelle vene dell’anziano debilitato oltremodo dal trattamento che aveva subito da Kajiro. Infine Yukino sollevò Jin e lo depose sul divano, almeno era un posto un po’ più comodo.
-Devo chiamare un’ambulanza.
E fece per alzarsi, ma l’altro gli pose una mano sul braccio scuotendo il capo.
-Lascia perdere. Io sto morendo.
Yukino non poté far altro che calare il capo e rassegnarsi. Glielo aveva detto in modo così tranquillo, che conosceva davvero la sua fine. Jin non aveva mai mentito.
-Mi ha avvelenato e non mi rimane molto tempo.
Prese un profondo respiro, si sentì mancare improvvisamente il fiato e artigliò con una mano il braccio dell’amico che aveva tentato di alzarsi nuovamente per avvicinarsi al telefono.
-Ho troppe cose da dirti e poco tempo per farlo, quindi ascoltami.
Yukino non poté che annuire e lasciare all’amico tutto il tempo che gli serviva per formulare le frasi.
-Tutto questo è stata opera del tuo vecchio amico. Ricordi Sergej?
-Come potrei mai dimenticarlo?!
E il volto di Yukino si oscurò per qualche istante, quando l’ombra di morte gli passò davanti agli occhi fu lui a continuare.
-Ha fatto uccidere mia figlia.
Jin sorrise e andò a stringere la mano dell’amico.
-Te l’ho tenuto nascosto da così tanto tempo che ormai mi sembra inutile farlo.
Yukino non comprese, ma cercò di ricordare quando aveva conosciuto Sergej e soprattutto quando aveva amato sua figlia Alexandra e quel ricordo gli scaldò il cuore per qualche attimo, fino a quando non ricordò il volto di Miori, sua moglie e la donna che aveva amato più si se stesso.
-Devi ascoltarmi, Aleksey.
Si era completamente dimenticato anche di usare il nome di copertura e lo chiamava con il suo vero nome, con il nome che aveva prima di doversi nascondere.
Yukino lo guardò fisso e cercava in tutti i modi di trattenere quelle lacrime che avrebbe versato dopo per l’amico ormai in fin di vita.
-Tutto questo è stata opera di Sergej. Ti sta ancora cercando e non si darà pace fino a quando non ti troverà. Ti sta addossando la colpa della morte della figlia.
Un altro colpo di tosse e un rantolo che denotava gli ultimi istanti di vita di Jin.
-Questa è opera di un suo sicario. Cercalo, è un giapponese. Il suo nome è Kajiro.
-L’ho visto uscire da qui.
Annuì Yukino anche se il volto gli era sconosciuto, ma aveva già sentito parlare di lui nell’ambito delle sue ricerche e dei suoi contatti. Aveva sentito dire qualcosa e adesso aveva la conferma di ciò che era capace di fare e di farsi dire qualsiasi cosa.
-Non ho parlato, amico mio. Non ho parlato.
-Lo so.
Yukino sorrise e gli deterse la fronte sudata. La sua mano passò sulla sua fronte e in quell’istante, improvvisamente, Jin gli rivolse un sorriso fraterno tanto da fargli sciogliere il cuore.
-Lui la conosce…
Un colpo di tosse ancora, un altro e Jin fece in tempo a respirare e a prendere un po’ di fiato.
-Conosce tua figlia.
Lo sguardo di Yukino si fece più intenso e si allargò in modo da denotare la sorpresa che le parole di Jin gli aveva scatenato. Il cuore batteva in modo spasmodico e le dita aveva stretto appena la mano dell’altro uomo.
-Tua figlia è viva. Questo è il segreto che mi stavo portando nella tomba.
Yukino non reagì. Rimase lì immobile a guardare la parete di fronte a sé come se vi avesse visto qualcosa. Lo sguardo assente e delicato, come se accarezzasse il volto di sua figlia.
Infine si chinò verso Jin e gli posò un bacio sulla fronte e poco dopo lo sentì spirare l’ultimo dei suoi respiri.
-Grazie di tutto, amico mio.
Yukino si alzò, non prima però di aver chiuso gli occhi di Jin. Chiamò i soccorsi, ma quando arrivarono da Jin, all’amico non lo trovarono, non poteva esporsi per questo e il suo compagno di gioventù lo aveva protetto fino a farsi uccidere.
Lo guardava portato via in una barella, dopo che gli infermieri e i dottori avevano constatato che non c’era davvero più nulla da fare. Lo sguardo calò verso il basso, un pezzo di cuore se ne era andato, ma le parole di Jin gli avevano svegliato quella parte del suo amore celato fino a quel momento.
Reila era viva e se lui glielo aveva detto voleva dire che c’era un fondo di verità e nel suo cuore sentì che quella scintilla di speranza non era mai morta con la figlia. Adesso si stava alimentando sempre di più.
Doveva trovare Kajiro e farsi dire dove si trovava sua figlia, a costo di fargli sputare tutto così come aveva fatto con Jin.
 
 
 
_______________________________
 
Rostov Velikij
 
Erano luci rosse, luci soffuse e delicate agli occhi che nascondevano il vero ruolo che avevano nel contesto. Il bar era in una delle zone malfamate di Rostov e molto lontano dalla propria casa. George si guardava intorno, non facendo trapelare la vera motivazione per cui era andato in quel posto, così lontano dai luoghi solitamente frequentati.
Negli occhi castani sentiva il reale peso degli sguardi su di lui, ma quel nome lo aveva tenuto lontano dalla brutta gente, tanto che non lo aveva assolutamente toccato quando lo aveva pronunciato ed era entrato nel bar.
E proprio in quel momento, quando una delle cameriere carine e in abiti succinti, che sicuramente denotavano il reale uso di quel locale, gli si avvicinò riuscì a notare l’uomo che doveva incontrare proprio dietro di lei.
-Ha bisogno d’altro…
Non la fece neanche terminare la ragazza che con la mano gli fece cenno di allontanarsi e si artigliò al suo doppio whiskey ordinato poco prima. Sembrava un uomo pieno di sé e non aveva dato cenno di cedimento neanche quando due brutti ceffi si erano avvicinati a lui e gli avevano parlato, ma solo il nome dell’uomo era stato sufficiente a farli allontanare da lui.
-Ti stavo aspettando.
E stese il braccio verso il bracciolo del divanetto dove si era accomodato, facendo tintinnare il ghiaccio all’interno del bicchiere. Ecco la sostanziale differenza tra George e Dmìtrij. Il ghiaccio nel bicchiere del whishey.
L’uomo gli porse alcune carte e gliele passò con circospezione.
-Signor Kivonich, questo è tutto quello che dovrebbe sapere sul suo socio in affari.
George si era sporto in avanti, aprendo la cartella con i documenti e con la coda dell’occhio studiare nuovamente l’uomo che gli stava di fronte. Non era sicuro di potersi fidare ciecamente di lui, ma doveva tentare questa strada.
-Spero in una sua discrezione.
La voce era bassa e misurata, tanto da far intendere all’altro di non essere un uomo qualunque. George non poteva esporsi e dunque aveva chiesto a lui di fare il lavoro sporco.
-Avrà tutta la discrezione che potrà pagarmi.
George non poté far altro che sorridere sghembo e guardare fisso l’uomo.
-Sapevo di potermi fidare di lei. Il pagamento è dove lo ha sempre trovato. Spero di non doverci incontrare più.
Finì l’alcolico in un sorso solo e si alzò, mettendosi il cappotto sulle spalle e afferrando i documenti, come preziosi gioielli infilandoli nella borsa di fianco a lui e infine si diresse verso l’uscita. Era arrivato il momento della rivincita.


yin yang vettore

Angolo dell'autrice


Il nono capitlo è finalmente on-line e non posso che essere fiera di dove sono arrivata fin'ora. Naturalmente mi scuso per il tremendo ritardo e per farmi perdonare ho scritto un capitolo un po' più lunghetto del solito, perchè stiamo entrando davvero nel vivo della storia e non posso che essserne fiera.
Dunque avrete capito adesso che Yukino ha parecchi nomi, ma solo quello che pronuncia Jin è quello vero, quello di quando si era arruolato nell'esercito russo e che è il vero padre di Reila, che ora sa bene che la figlia è ancora viva.
Vorrei magari chiedere cosa ne pensate e cosa vi aspettate da adesso in poi, naturalmente se volete lasciare una traccia del vostro passaggio non posso che esserne doppiamente felice.

Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 10
*** 10 - Cuore ***


02
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10 - Cuore


Mosca
 
La testa le faceva male e ancora era intontita dal sonnifero che le aveva regalato quelle ore di sonno inaspettate. Reila mosse appena il capo da una parte all’altra e si rese conto, con un po’ di ritardo, di essere ammanettata al letto dove stava riposando, tirando semplicemente la mano verso di lei. Aprì leggermente gli occhi e si accorse della troppa luce all’interno dell’ambiente, come un neon puntato direttamente sui suoi occhi.
Tirò con più forza le manette che la tenevano bloccata, facendo un rumore fastidioso anche alle sue orecchie. Era stata legata solo da una mano.
Si tirò a sedere e cercò in tutti i modi di liberarsi. Le avevano tolto anche i ferretti dai capelli e rimaneva solo con il suo tailleur con cui era arrivata da Natasha. Anche la sua fida compagna era sparita.
Sgranò gli occhi improvvisamente, come se tutti gli avvenimenti le fossero ritornati come un lampo di luce nella testa.
Dmìtrij.
Era il suo il volto che aveva visto appena era stata aperta la porta? Erano suoi gli occhi che aveva scorto e che si era sorpresa di vedere tanto che il suo cuore in quel momento aveva perso un battito?
Prese a respirare con un po’ di fatica, un peso invisibile le si era posato sul petto senza permetterle di prendere aria.
L’avevano lasciata sola lì, senza nulla, se non un bicchiere di acqua di fianco, sul comodino. Lo guardò ma non lo prese, avendo paura che ci fosse qualche strana droga per farla parlare, ma dopotutto non era lei ad avere qualcosa da dire.
Reila cominciò a guardarsi attorno, capire se era ancora nel luogo dove era arrivata con la russa oppure in un altro posto, ma si accorse solo in quel momento che non aveva visto nulla dell’appartamento se non quegli occhi.
Un respiro profondo. Non doveva assolutamente farsi prendere dal panico, ma era decisamente il panico a prendere pian piano piede dentro di lei, lasciandole intendere che quella era solo l’inizio della sua partita.
Un altro profondo respiro prima di socchiudere gli occhi e buttarsi sul letto, guardando il soffitto. Doveva solo attendere. Nella vita aveva imparato anche quello. Saper attendere il nemico.
Sentiva dentro di lei che comunque tutto era destinato a succedere e per quanto avesse voluto quell’incontro, adesso sentiva che forse aveva fatto un tremendo errore e proprio in quel momento, quando i suoi pensieri si spostarono sui suoi ricordi, che comparve un sorriso malinconico sulle labbra rosse e così Reila si riaddormentò.
 
________________________________
 
 
La guardava. Non poteva farne a meno. Voleva ricordare quando si addormentava tra le sue braccia e non la lasciava mai da sola. Sentiva un profondo vuoto che aveva lui stesso voluto e questo non poteva che fargli ancora più male.
Dmìtrij era lì, seduto accanto al letto dove Reila riposava e sentiva una profonda ferita al petto, trasmessa anche dal sorriso con cui la donna si era abbandonata, come se avesse intuito a cosa pensava quando si era addormentava.
Reila fece qualche movimento e l’uomo si alzò di scatto dalla sedia, portandosi verso la penombra. Lei sicuramente non aveva dimenticato ciò che le aveva fatto e questo era il prezzo che lui avrebbe dovuto pagare per tutta la vita.
L’uomo passò una mano tra la capigliatura cresciuta dall’ultima volta. La barba era di tre o quattro giorni e non aveva voglia di farla, quell’aspetto gli conferiva almeno una piccola copertura quando usciva. Nessuno doveva sapere che era vivo. Tranne lei alla quale avrebbe dovuto chiedere un altro favore.
Il problema era vedere se Reila avrebbe accettato.
 
________________________________
 
 
Lo sguardo dell’assassina si aprì appena, lasciando che le ombre prendessero pian piano forma nella sua mente. Sbatté più e più volte le palpebre per assicurarsi una buona visuale con la luce che filtrava dalla finestra chiusa. Almeno poteva ben capire che la notte era trascorsa. La luce al neon era stata spenta.
Quando si svegliò ebbe l’impulso di alzarsi e diede uno strattone secco alle manette che la serravano al baldacchino del letto. Non fece neanche in tempo a vedere la sagoma vicino alla porta, poggiata a questa, che il cuore se ne accorse prima. Difatti aveva preso a battere a ritmo serrato e il respiro si era fatto più pressante e veloce.
Reila aveva aperto la bocca senza però riuscire a dire il suo nome, tanto la sua vista l’aveva sconvolta. Non pensava neanche di essere sveglia e avrebbe faticato un po’ per avere una concezione distaccata dalla situazione.
Dmìtrij sospirò, prendendo un rapido respiro e buttando fuori l’aria rumorosamente. Si avvicinò alla donna e lei, di rimando, si spostò verso dietro, anche se bloccata dalla manetta. Gli occhi dell’assassina erano chiusi in una fessura, voleva fargli percepire che non aveva paura di lui e che non lo temeva, ma che gli voleva stare il più lontano possibile.
Lui si soffermò a qualche passo da lei e si bloccò. Sarà stato quello sguardo che gli aveva lasciato, un guanto di sfida che non avrebbe dovuto raccogliere e infatti fu proprio così che fece.
Dmìtrij si massaggio la mascella con una mano. Non sapeva cosa dire e qualsiasi cosa provasse a pensare gli moriva sulle labbra. Le preoccupazioni gli avevano conferito qualche altra ruga di espressione, rendendo il suo volto molto più affascinante di quanto già non fosse di suo.
Reila lo guardò. Lo osservò più attentamente di come non lo aveva mai visto e improvvisamente la bocca si stirò in un sorriso tirato e sardonico.
-Dunque è questa la faccia dei traditori.
La voce risuonò lenta e delicata, come se gli avesse appena detto che l’amava. Infine schioccò la lingua al palato e rimase in attesa. In attesa di quelle parole che avrebbe dovuto dirle e che invece tardarono ad arrivare.
-Ho bisogno del tuo aiuto.
Erano uscite così, poco prima di capire che non erano proprio le parole adatte all’occasione, ma era disperato e avrebbe tentato in tutti i modi di convincere la migliore assassina che avesse mai conosciuto.
-Diciamo che non sono proprio le parole che mi aspettavo.
Sempre quel sorriso sardonico e sempre quell’indifferenza sulla faccia che a Dmìtrij facevano più male di un proiettile nel petto.
Lo sguardo di Reila era ostile e non poteva essere altrimenti, anche perché stava resistendo con tutta se stessa per non cadere nuovamente in quella trappola. Ma non sarebbe stato facile, non per lei.
L’uomo invece rimase per qualche istante impassibile, ma non somigliava neanche alla metà del Dmìtrij che lei ricordava.
-Reila, ho bisogno assolutamente del tuo aiuto.
La donna non riusciva a capacitarsi che glielo stesse chiedendo di nuovo e non riusciva a credere a quello che stava sentendo. Come se nulla fosse successo. Il volto si piegò leggermente sul lato.
-Perché?
Non era rivolto all’aiuto chiesto, ma ad un motivo molto più pericoloso.
-Ho bisogno che tu uccida qualcuno per me.
Reila cercò di trattenere una risata, ma proprio non ce la fece. Scoppiò in una risata, buttando la testa indietro e sdraiandosi, come poteva, sul letto a baldacchino dove era stata ammanettata.
L’uomo la guardò. Si sarebbe aspettato qualsiasi comportamento, ma non questo. Non se lo aspettava proprio.
Infatti l‘uomo rimase solo a guardarla, perché il quel gesto era racchiuso tutto l’odio che provava per lui. Per quell’essere che le aveva reso la vita un inferno. Solo che lui non lo sapeva.
Reila si riprese poco dopo, resistendo a stento ad asciugarsi una lacrima che le era scivolata sulla guancia. L’angolo della bocca si inclino verso l’alto, lasciando quel sapore amaro in bocca all’uomo che le stava di fronte.
-Che strano, anch’io vorrei uccidere qualcuno e guarda caso lo farei esclusivamente per me stessa.
Le parole erano risuonate con una certa malizia mista al veleno della peggior specie. Reila lo stava fissando e non poteva fare altro che nutrirsi di quelle sue paure, dei suoi dubbi e di ciò che lui stava pensando per  rispondere alla sua provocazione.
Passò qualche istante e il silenzio intorno a loro diventò sempre più pesante. Sempre più stretto, tanto da far annaspare l’aria ad entrambi.
Dmìtrij si sentiva in un vicolo cieco e tutto il potere che aveva su di lei, lo aveva perso ormai da tempo. Doveva solo giocare d’astuzia e cercare di convincerla. Si avvicinò a lei e le mostrò la chiave per aprire la manetta.
-Non voglio tenerti prigioniera.
-Hai perso il diritto di dirmi ciò che devo fare e molto più di tenermi legata a te.
Le parole erano state sputate e la donna si fece solo più distante da lui, come se ci fosse un muro insormontabile tra i due che impediva ad entrambi di vedersi veramente.
L’uomo giocherellava con quella stessa chiave, come se avesse voluto farle credere che non l’avrebbe mai liberata. Non fino a quando non gli avrebbe detto sì, supplicandolo di tenerla con sé.
Ma Reila aveva altri programmi, altre cose da seguire che stare ad ascoltarlo. Anche se il suo cuore non smetteva un attimo di palpitarle nel petto, le sue parole non tradivano ciò che le suggeriva la testa. Non cedere in nessun modo e in nessun caso.
-Presto ti spiegherò tutto, ma adesso devi aiutarmi.
Lui era esasperato da quel comportamento e aveva cominciato a fare avanti e indietro nella stanza accarezzandosi i capelli e prendendo rapidi respiri. Capì subito che con la donna il gioco della chiave non avrebbe funzionato.
Dmìtrij fissò lo sguardo in quello di Reila e a grandi passi le si avvicinò, afferrandola per il volto con una mano e stringendole la mandibola, ma senza esercitare forza.
Voleva guardarla negli occhi, cercare di capire se davvero nel suo cuore non c’era più posto per lui. Se davvero quella donna si era trasformata in una vipera che sputava veleno.
La mano dell’uomo tremava e lei se ne rese conto.
-Hai paura.
Era stata lei a parlare che non aveva accennato a liberarsi dalla sua presa, affrontandolo a viso aperto. Aveva allargato gli occhi e lo aveva deriso con la sola espressione del volto. Dmìtrij non riusciva assolutamente a reagire a quella chiara provocazione.
-Se sei così sprezzante verso di me con le parole, perché il tuo cuore sta per esplodere?
E detto questo l’uomo fece un mezzo sorriso, lo sprezzante di sempre, quello della Gioconda che deride tutti con il suo mistero. Detto questo con la mano libera andò a sfiorare il petto di Reila che ebbe un sussulto non voluto. Il corpo la stava tradendo.
-Si arrenderà anche lui prima o poi.
Le parole di Reila risuonarono come un addio a quell’amore che l’aveva e la stava ancora divorando. Un amore malsano e ridicolo che il suo cuore si ostinava di tenere vivo.
-Tu non mi hai dimenticato.
Fu come uno schiaffo in pieno volto per Reila. La donna allargò gli occhi questa volta per la paura che lui potesse capire qualcosa. Cercava con tutti i mezzi di non fargli intendere nulla e cercava di rimanere attaccata al suo odio, perché quello le era rimasto verso quell’uomo. O così voleva far intendere e cercava di imprimersi nella testa.
-L’unico modo, Dmìtrij, sarà ucciderti con le mie stesse mani.
Reila fece scivolare quelle parole, calcando sul nome come a volerlo togliere definitivamente dalla sua testa e detto questo gli sputò addosso con astio. Lui non fece altro che lasciare la presa sulla sua faccia e pulirsi il volto con la manica della camicia, lasciando intravedere in quegli occhi di ghiaccio una consapevolezza diversa da quella con la quale era entrato nella stanza. Reila poteva cedergli ancora.
-Dunque deduco che tu non voglia aiutarmi?
In pochi istanti aveva riacquistato la sicurezza in se stesso. Aveva ritrovato l’arroganza che lei ricordava bene e sicuramente aveva trovato quel se stesso che lei odiava più di ogni altra cosa.
-Liberami.
Sibillina.
-Assolutamente no.
-Dmìtrij, non farmi pentire di non averti sparato un altro proiettile quel giorno.
Il sorriso dell’uomo si allargò con una nuova e ritrovata sicurezza e malizia.
-Voglio che tu lavori ancora per me.
-Spero che tu riesca ad uccidermi prima che io riesca a liberarmi.
Le parole di Reila erano cariche di sfida e di risentimento. Lo vide allontanarsi e aprire la porta della stanza. L’assassina aveva il fiatone corto e lo guardava in cagnesco. Aveva talmente tanta rabbia da non riuscire neanche a sfogarla. Poi Dmìtrij la guardò con un sorriso sghembo.
-Non ce ne sarà bisogno.
Reila prese un profondo respiro, prima di vederlo allontanare e quindi chiudere la porta dietro di sé. Nuovamente rimase da sola, ancora ammanettata al letto senza sapere cosa fare. Le sue certezze stavano crollando, ma non poteva farlo. Non dopo quello che lui le aveva fatto.
-Lasciami andare via da qui!
Lo gridò con tutto il fiato che aveva in gola e con le lacrime che le pungevano gli occhi, ma che si ostinava a trattenere. I polmoni anelavano più aria di quanto lei poteva respirarne in quel momento. Stava cedendo ad un momento di panico e cerco di tranquillizzarsi, capendo che quella non era assolutamente la via da seguire, ma quel sentimento che aveva cercato di celare con  tutta se stessa stava cominciando a divorarla dall’interno.
 
________________________________
 
 
Quando Dmìtrij aveva richiuso la porta dietro le proprie spalle, si era poggiato a questa prendendo un profondo respiro per calmare anche il suo cuore.
La stava nuovamente trattando come avrebbe voluto evitare, ma non riusciva a mostrarsi per quello che davvero era e quindi cercava di reprimere quel dolore, un filo spinato che gli stingeva il cuore facendolo sanguinare. L’aveva sentita urlare e c’era mancato poco che non si precipitasse all’interno per abbracciarla stretta a lui.
Non poteva cedere. Dopotutto doveva risolvere quel problema e poi forse avrebbe potuto dire tutto all’assassina. Alla donna che aveva sentito sempre sua.


yin yang vettore

Angolo dell'autrice


Siamo al decimo capitolo e la storia è ancora all'inizio. Finalmente è arrivato il momento dell'incontro tra Reila e Dmìtrij. Non so, ma il capitolo l'ho letto e riletto tante volte ma non riesce ancora a convincermi appieno. Però per un certo verso mi piace così il loro incontro. Uno scontro tra titani. Grazie per essere arrivati fino a qui e semplicemente se vi piace o anche se non vi piace, fatemi sapere cosa ne pensate. E ricordate ce lasciare recensioni aumenta l'autostima dell'autrice e del recensore. XD
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 11
*** 11 - Bentornato ***


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11 - Bentornato



Rostov Velikij
 
L’osservava ormai da troppo tempo nascosto in un angolo della strada, ma non poteva avvicinarsi poiché sembrava circospetto mentre parlava con quell’uomo. Si guardava le spalle come se da un momento all’altro qualcuno potesse spuntare fuori e ucciderlo.
Il signor Yukino aveva preso un aereo dal Giappone quella stessa mattina e era arrivato a Rostov con un taxi. Era rimasto appostato in un bar in un primo momento e l’aveva seguito poco dopo, cercando di capire il momento migliore per avvicinarsi.
Non faceva nulla che potesse dare sospetto ad alcuno. Stava li a guardare il cellulare, facendo finta di ricercare qualcosa di importante nella rubrica, leggeva il giornale. Dopotutto quella era la sua Patria Natia, sapeva come muoversi.
Eccolo. Una stretta di mano e nulla di più, per poi allontanarsi e avvicinarsi alla macchina che lo attendeva vicino al marciapiede. Fu lì che Yukino allungò il passo e cercò di fermarlo.
Si guardò intorno, procedendo ad un ritmo serrato e attraversò la strada. Per poco non lo prese in pieno una macchina. L’autista suonò il clacson per intimargli di spostarsi e lui di rimando alzò solo le mani, ma questo imprevisto gli servì a far sollevare gli occhi all’uomo che stava seguendo e di guardarlo.
L’altro sbiancò di colpo e si soffermò a osservarlo mentre si avvicinava a lui. Schiarì la voce e cercò di riprendersi, ma alla fine sapeva che questo momento sarebbe arrivato prima o poi, ma non credeva così presto. Voleva dire solo una cosa, che qualcosa di grave era successa e che molte altre si sarebbero susseguite.
George prese un profondo respiro e si guardò intorno per poi fare cenno a Yukino di avvicinarsi immediatamente alla macchina e di infilarsi all’interno. Questo al momento sembrava la priorità più assoluta e la cosa più strana era che il russo sembrava conoscerlo veramente bene. Non si erano ancora scambiati una parola, ma già sapevano di ciò che dovevano parlare. Di una promessa che era stata fatta molto tempo fa.
 
___________________________________
 
 
Il fumo gli annebbiava gli occhi e non riusciva a ragionare con lucidità. La sigaretta era stretta tra l’indice e il medio, il pollice leggermente flesso verso il filtro e la bocca contratta in una smorfia particolarmente preoccupata.
L’altro uomo gli stava seduto accanto. Le gambe divaricate leggermente e un braccio poggiato lungo il finestrino, la mano che sosteneva la testa. Lo sguardo era vacuo davanti a sé e anche lui aveva una sigaretta in mano, ma non l’aveva accesa. Aveva smesso molto tempo prima e cercava di non ricascare nel giro.
Il separé della macchina era stato tirato su e l’autista era un fidato uomo di George che non avrebbe detto una sola parola.
Yukino si era voltato verso l’altro che gli metteva un po’ di ansia addosso. Le problematiche si stavano accumulando e proprio adesso non dovevano esserci disturbi. Ma questo superava tutte le sue preoccupazioni attuali.
-Non pensavo di vederti così presto.
La voce di George ruppe il silenzio che si era creato tra loro. L’altro non fece altro che voltare il volto verso di lui e osservarlo. Non aveva rimproveri negli occhi, ne cercava di giustificare i suoi errori. Era solo lì, silenzioso e pensoso.
-Jin è morto.
George, a quella rivelazione, aveva stretto le labbra.
-Quando?
-Una settimana fa.
Nell’abitacolo della macchina, la tensione era salita e si tagliava con la lama di un coltello. Gli occhi di entrambi si erano incrociati e si fissavano. Questo era un presagio non molto buono, voleva dire che gli altri erano sulla buona strada per scoprire il tutto.
-Non ne sono certo, Aleksey. Ma è possibile che chi ti sta cercando, conosca molto bene ciò che stiamo tentando di nascondere.
 Aleksey cercò di pensare a qualcosa e cercava sicuramente di trovare una soluzione che forse neanche c’era.
-Mi ha detto anche un’altra cosa.
George si volse lentamente verso di lui ed espirò fuori una nuvoletta di fumo della sigaretta ormai consumata dall’attesa.
-Credo di sapere cosa. Sapevamo che la stava aiutando.
Quello che Jin non aveva detto ad Aleksey era che Kajiro stava cercando Reila e che lei era in pericolo. Non era riuscito a dirglielo, non consapevole che quel segreto che il giapponese aveva nascosto per tanti anni, era già ben noto al padre di Reila e si teneva in disparte perché era meglio così per tutti.
-Non sono riuscito a sapere neanche chi fosse colui che l’ha ucciso.
-Su questo ti posso aiutare io.
George non fece altro che sollevare la valigetta di cui non si separava mai, aprendola poco dopo. Tolse alcune carte, che sembravano avere un che di segreto e dunque molto affascinante.
George gliele porse e Aleksey non poté far altro che aprirle con un certo timore, conscio che quello che avrebbe potuto trovare all’interno non gli sarebbe piaciuto affatto.
Lesse con profondo interesse. Lo lesse nuovamente, senza distogliere mai lo sguardo dai fogli che divorava come se ne dipendesse la propria vita.
-Queste chi te le ha date?
George non poté non sorridere e assottigliare lo sguardo, mentre si avvicinò lentamente verso l’orecchio dell’amico.
-Ho anch’io i miei informatori.
Sicuramente il russo si riferiva a colui che aveva pagato profumatamente solo qualche sera prima. Un omicidio sarebbe stato troppo eclatante e quindi si era fermato solo a cercare informazioni. Quelle che gli sarebbero servite per poi chiedere a Reila di compiere al posto suo.
Tra i nomi spiccava anche quello di sua moglie e l’assassina ne era già ben conscia, solo che ancora lei non sapeva che stava facendo parte di un disegno più grande e George disconosceva che l’assassina avesse già ritrovato colui che amava ed odiava allo stesso tempo.
Aleksey prese le carte e le osservò nuovamente.
-Mia figlia?
-Al momento ne disconosco la posizione.
George aprì il posacenere e buttò la cicca ormai consumata. Lo sguardo era calmo e i lineamenti del viso distesi, come se non si rendesse conto del reale pericolo in cui si trovava o semplicemente non voleva assolutamente pensarci, anche perché al momento la priorità era trovare Reila. Il meccanismo ormai si era messo in moto.
-Come ne disconosci la posizione?
Il russo schiarì la voce nel sentire quella del compagno un po’ incrinata dall’apprensione. Portò una mano chiusa a pugno verso le labbra e volse gli occhi nocciola verso Aleksey.
-Ho un po’ le mani legate, non credi?
Disse questo mostrando la vera nuziale al dito e sventolandoglielo davanti al volto. L’altro uomo non poté far altro che annuire debolmente, cercando di mascherare la frustrazione che aveva provato per qualche istante.
-Ma so che è in Russia.
Aleksey  volse il capo di scatto. George aveva appena detto ciò che voleva sapere, ma andarla a cercare l’avrebbe solo messa in allarme e sicuramente si sarebbe sentita tradita dall’unico uomo che reputava tale: suo padre. Doveva solo capire dove si trovasse, poi il destino avrebbe dato una mano a favore o a discapito di entrambi.
-Sembra che l’assassino di Jin sia lo stesso che vuole eliminarti. Dobbiamo stare attenti.
George aveva nuovamente guardato fuori dal finestrino. L’autista stava facendo un giro largo per permettergli di parlare più tempo con l’altro uomo.
-Qui c’è scritto Kajiro e credo di sapere di chi si tratta, ma devo completare le mie ricerche.
Aleksey portò una mano sulla testa. Non riusciva a pensare alla sua bambina come una donna priva di scrupoli morali. Non era mai riuscito a sopportarlo, neanche quando aveva saputo il motivo per cui era stata quasi ammazzata e, avendo saputo ciò che lei era diventata, ne  reputava la scelta più che legittima. Avrebbe preferito che non si intromettesse nei loro piani, ma avevano assolutamente bisogno di lei. Un componente fondamentale per permettere anche a lei di avere un po’ di pace dopo tutta la sofferenza che aveva sopportato.
-Mio suocero l’ha ingaggiato proprio per uccidere tua figlia e non credo che si fermerà fino a quando non lo avrà fatto.
Un sospiro di frustrazione e un’espressione completamente assente fu quella del padre di Reila, guardando George con una certa preoccupazione mal nascosta.
-Ma se non sappiamo noi dove si trova, non lo saprà neanche lui.
-Dobbiamo trovarla prima noi. Per il suo bene.
George non poté far altro che annuire a quelle parole, stringendo le labbra nello stesso momento in cui il volto dell’assassina gli comparve davanti. Non dimentico dei suoi baci e delle sue carezze, strinse un pugno sul ginocchio. La cosa che gli faceva più male era che lei non si era ancora staccata dal suo passato ed era proprio quello, a parte il suo matrimonio, a pesargli di più.
Aleksey sembrò accorgersi di questa reazione e sorrise mestamente lasciando intravedere appena la dentatura.
-Non ti ho mai ringraziato per esserti fermato quella volta.
Il giovane prese un profondo respiro, capendo immediatamente a ciò che si riferiva. Glielo aveva riferito lui stesso poco prima di allearsi con l’uomo e non poté far altro che sentire un male incontrollabile al petto.
-Non potevo, Aleksey. Non avrei potuto.
-Capisco anche il motivo.
E quel sorriso mesto diventò tranquillo e affabile. Aveva chinato il volto verso il suo petto, cercando di non far intravedere all’altro la sua espressione speranzosa. Con quell’ultima frase a George gli si era gelato il sangue nelle vene per l’ansia e non poté far altro che sentirsi soddisfatto di quella scelta presa tantissimo tempo prima.
Non passò molto tempo prima che George riprese il discorso lasciato in sospeso pochi minuti prima.
-Dove alloggerai?
-Ho i miei contatti qui in Russia. Ex commilitoni che saranno felici di darmi una mano.
-Non ne dubito.
George si fece una grassa risata insieme ad Aleksey e il clima si fece più rilassato e più amichevole di prima. Ormai lo considerava come il padre che non aveva mai avuto e invidiava a volte Reila di averne uno così. Era per questo motivo che cercava di spingerla a contattarlo. Ma come il padre, la donna era testarda e orgogliosa e mai si sarebbe piegata a seguire un consiglio datole da un uomo che la amava.
-Reila se la caverà. Stanne certo.
Fu il russo a parlare e infine non ci fu bisogno di altre parole inutili.
George diede l’ordine di fermare l’auto e Aleksey scese voltandogli le spalle. Sapevano già come contattarsi e come evitare di essere visti insieme. Il padre di Reila iniziò il cammino verso uno dei marciapiedi dove avrebbe preso un taxi che l’avrebbe portato verso colui che gli avrebbe potuto procurare qualcosa con cui difendersi.
L’auto sfrecciò nella fredda serata invernale e Aleksey si strinse di più nella pelliccia del bavero, osservando completamente assente le nuvolette formatesi dalla sua bocca mentre respirava. L’aria si condensava così come le sue idee prendevano vita ed ora era il momento di agire. Era stato troppo fermo e si era assopito nella vita tranquilla che aveva condotto in tutti quegli anni.
Di rimando George lo guardò per l’ennesima volta. Forse l’ultima.
Non sapeva se l’avrebbe rincontrato, ma avrebbe fatto di tutto per riavvicinarlo a Reila e restituirgli l’ultimo amore della sua vita.


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Angolo dell'autrice


Finalmento sono riuscita a pubblicare questo undicesimo capitolo con non poca difficoltà. Fortunata che ho anche i prossimi due capitoli già belli che pronti e quindi non dovrete aspettare più del dovuto per poterli leggere. I nodi cominciano ad arrivare al pettine, solo che ce ne sono tantissimi da sbrogliare e non tutti piacevoli. Spero che qualcuno legga ancora questa storia e che lasci il suo parere sullo svolgersi della vicenda.
Per un'autrice sapere cosa ne pensate è un modo per capire di andare nella direzione giusta e molte di voi possono capire queste mie parole.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.  E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 12
*** 12 - Tu (I Parte) ***


02
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12 - Tu (I Parte)



Reila era rimasta per tutta il giorno da sola, senza avere qualcosa da mangiare o da bere, tanto che quel bicchiere sul comodino era diventato un miraggio nel deserto. Non doveva cedere e se Dmìtrij stava cercando di prenderla per fame allora aveva trovato la persona sbagliata. Nell’esercito aveva avuto un buon addestramento per farla resistere a queste cose e quindi non era un problema.
Prima o poi sarebbe tornato, perché lui aveva assolutamente bisogno di lei.
La donna guardava il soffitto e l’unico cosa a cui poteva pensare al momento era di potersi fare una doccia al più presto. Cercava di pensare alle cose futili e di poco conto e questo, si era resa conto, era l’unico modo di tenere a freno le emozioni.
Il respiro era controllato e calmo e la sua testa era leggera. Ora che lo aveva rivisto aveva capito anche troppe cose. Non si sarebbe mai liberata del suo fantasma fino a quando avrebbe vissuto e quella le sembrava la punizione peggiore che il Cielo potesse infliggerle.
La mente e il cuore erano completamente in guerra tra loro e non riusciva a decidersi se far zittire il cuore chiedendola di ucciderla o seguire semplicemente la testa, lasciando stare le stilettate di dolore che le mandava ogni qual volta cercava di cancellare il ricordo di Dmìtrij. Dopotutto si era resa conto che non conosceva assolutamente quell’uomo e ne lui mostrava spiragli per poter entrare. Il solo modo sarebbe stato aprire una breccia, ma come avrebbe potuto fingere con lui?
Abbandonarsi avrebbe significato arrendersi, proprio come quella volta. Proprio come quando si era fatta prendere in giro con le sue belle parole. Doveva solo tornare da George e uccidere Kajiro come prima cosa, visto che al prossimo incontro l’assassino non avrebbe esitato.
Sarebbe arrivato il momento di Natasha e infine Dmìtrij, poi avrebbe concluso la sua personale missione e sarebbe tornata da Jin per consegnargli definitivamente la sua arma, passando una vita di rimpianti e rimorsi accanto a George. Al momento le sembrava assolutamente una soluzione allettante.
Prese un profondo respiro e cercò di massaggiarsi la tempia con la mano libera. Era scomoda in quella posizione e il braccio cominciava a dolerle, tanto da stiracchiarlo di tanto in tanto come poteva, dato che era ancora bloccato dalle manette.
Cosa doveva fare?
Accettare le condizioni di Dmìtrij sarebbe stato un ennesimo errore, ma del resto era l’unica via di fuga.
Promettergli ciò che chiedeva, tanto una morte in più o in meno sulla sua coscienza non sarebbe stata di troppo?
La sua testa era già abbastanza affollata dalla sua esistenza che i problemi delle sue vittime passavano in secondo piano, tanto che il suo “grillo parlante” ormai aveva perso le speranze e si era preso una vacanza.
Cominciò a concentrarsi, almeno si sarebbe studiata un po’ intorno per passare il tempo, dato che non c’era molto da fare.
Va bene il letto, che era poggiato al muro, al centro della stanza e due comodini retrò e di buon gusto ai lati del baldacchino. Un armadio di fronte a lei e una finestra o almeno quello che sembrava visto che era coperta da pesanti tende dal colore indefinito. Purtroppo la penombra della stanza non le permetteva di vedere oltre, ma affinò la vista tanto da notare un’altra porta all’opposto dell’entrata. Sicuramente era il bagno, che al momento doveva dire di agognare più di una bistecca al sangue. Si era ricordata che non usufruiva della toilette già da troppo tempo, tanto che il bisogno era diventato impellente. Cercò alla fine di non pensarci. Alla fine di sarebbe dovuta trascinare tutto il letto per poterci andare.
Si risistemò nuovamente sul letto, aspettando. Prima o poi qualcuno sarebbe venuto.
 
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Dmìtrij era seduto alla scrivania nella stanza accanto a quella dove riposava l’assassina. Stava risistemando delle carte che le avrebbe presto portato. Si era rasato per bene quella mattina e si era pettinato i capelli in modo che lei lo ricordasse per com’era all’epoca, quando si erano conosciuti.

L’uomo lo aveva capito e non era facile per lui accettarlo, perché anche Reila era rimasta come una macchia indelebile nel suo cuore e soprattutto nella sua mente, che al momento si trovavano assolutamente d’accordo.
Era cambiato. Forse era stata la paura che gli aveva permesso questa trasformazione, ma ancora non riusciva a pensarci in modo cosciente. L’ombra della morte aleggiava sulla sua testa e chiedere nuovamente all’assassina era stato un azzardo che si sarebbe permesso tra non molto tempo. Anche perché doveva sistemare entrambi i killer, dopotutto entrambi lo volevano morto ma almeno il motivo della donna era più che legittimo.
-Avrà bisogno sicuramente di andare in bagno.
Era stata Natasha a parlare. Era accomodata in una delle poltrona oltre la scrivania occupata dall’uomo, con le gambe accavallate e scoperte dal sottile abito nero che portava. Per quanto poteva essere una bella donna, risultava troppo bambolina per gli uomini e poi soprattutto perché lei aveva altre tendenze.
Dmìtrij la guardò di sottecchi, mentre sistemava un foglio che era scappato dalla sua attenzione due minuti prima.
-Avrà bisogno anche della doccia.
Il tono di voce dell’uomo non tradì che un leggero tono di malizia, ricordando quella volta quando l’aveva posseduta nella doccia e lei gli aveva permesso di vedere le sue mani, attraversate da profonde cicatrici, segno di un passato che non aveva ancora cancellato.
Si alzò e affondò una mano dentro la tasca dei pantaloni, afferrando la chiave delle manette che tenevano ammanettata Reila.
-Permettile di lavarsi, ma non ammanettarla dopo. Lascia che lo faccia io.
Negli occhi di Natasha passò un lampo di risentimento e le labbra rosse ebbero un moto di stizza a quelle parole.
-Permettimi almeno…
Lo sguardo di ghiaccio di Dmìtrij non volle più repliche.
-Non la devi toccare. Lei è mia.
Lo aveva detto con il tono della voce che tradiva assolutamente una passione morbosa e disperata, come se gli bruciasse vederla nelle braccia di altri uomini o di altre donne.
-Ora fai come ti ho detto.
Natasha acconsentì soltanto, anche perché c’era un patto tra loro. Un patto nel quale l’unica a perdere sarebbe stata lei e questo non poteva permetterselo. Girò i tacchi e con una camminata lasciva e conturbante lasciò la stanza andando verso quella dov’era tenuta prigioniera Reila.
Dmìtrij calò il capo per qualche istante e posò entrambe le mani sulla scrivania. Non doveva tremare e mostrarsi debole o sarebbe stata la sua disfatta.
 
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Natasha si avvicinò velocemente alla stanza e si avventò verso la maniglia. Aveva rabbia addosso e non riusciva assolutamente a sfogarla.
Entrò di scatto e Reila si sollevò improvvisamente dal letto, come svegliata da un pericolo imminente e difatti si ritrovò la russa di fronte, senza avere il tempo di mettere a fuoco le immagini. Si sedette sul letto intontita e stanca. Per quanto potesse riposare, erano i pensieri a tenere la sua mente vigile e attenta. Delle profonde occhiaie erano comparse sul suo viso rilevate dal trucco colato, segno che non dormiva da giorni per pianificare tutto il piano che le era andato anche male e neanche nell’assoluta tranquillità riusciva a rilassarsi.
Natasha sollevò leggermente l’abito dalla coscia e afferrando una pistola da borsetta, comoda e veloce, la puntò direttamente verso l’assassina.
-Avanti, Natasha, non farai sul serio?!
E ignorandola completamente l’assassina si stiracchiò il modo da togliere quell’intorpidimento dal corpo dovuto all’assenza di sonno. Procedette a togliersi le scarpe. Si era dimenticata anche che non si dorme con le scarpe sul letto, almeno le buone maniere non le aveva dimenticate e poi erano brutto presagio.
Natasha sorrise appena, mentre con la mano libera le lanciò la chiave per le manette.
Reila rimase per qualche istante interdetta, ma l’afferrò. Quella mattina aveva già deciso di non scappare. Voleva confrontarsi con il suo passato e al momento era proprio dietro quella porta. Scappare non avrebbe risolto nulla.
-Avrai bisogno di farti una doccia. Troverai tutto ciò che ti occorre in bagno.
E detto questo si poggiò alla porta e attese, senza discostare la pistola in direzione del cuore dell’assassina.
Reila non ce l’avrebbe fatta a disarmarla dalla distanza che occorreva tra lei e Natasha e quindi accantonò assolutamente quella mossa. Fu felice però di essersi tolta le manette dal polso che massaggiò con delicatezza. Un profondo solco rosso ne aveva intaccato il rosato della sua pelle.
-Sai bene che in altre occasioni ti avrei disarmata senza battere ciglio.
L’assassina la osservò di sottecchi per qualche istante e iniziò a togliersi solo la giacca del tailleur scuro che portava per poi rimanere con il top in chiffon che le lasciava scoperte le spalle. Difatti Reila faceva tutto con estrema calma e Natasha cercava di rimanere impassibile a quello spettacolo. Dopotutto la donna l’aveva sempre intrigata e se non fosse stata costretta dall’uomo, l’avrebbe presa e ammanettata al letto proprio in quell’istante.
Reila prese a ridere sommessamente, dirigendosi verso la porta del bagno, scalza.
-E non metterci molto.
-Non ho intenzione di scappare. Non quando il mio destino è dietro la porta.
Natasha non comprese alla perfezione quelle parole, ma non poté far a meno di voltarsi per qualche istante dietro di sé, lasciando scoperta la sua visuale verso la donna. Se Reila avrebbe voluto, l’avrebbe disarmata senza pensarci un attimo e senza che lei se ne accorgesse, approfittandosi di quella distrazione che le sarebbe potuta costare la vita.
Ma l’assassina le rivolse solo un’ultima occhiata prima di richiudere la porta dietro le sue spalle.
E lì rimase in attesa.
Reila aprì l’acqua della doccia che si trovava di fronte a lei. Approfittò dapprima del bagno e poi infine iniziò a denudarsi, guardandosi attorno.
Poteva notare un grande specchio, dove si avvicinò poco dopo essersi tolta la gonna e le autoreggenti e osservò il proprio volto, poggiando le mani su un lavandino di marmo italiano. Anche lì, Dmìtrij, non aveva smesso di esprimere il lusso che stava anche nella casa di Mosca.
C’era tutto l’occorrente per truccarsi e uno spazzolino da denti con tanto di dentifricio. Tutto quello che le occorreva per rendersi almeno presentabile. Spazzole, phon e quant’altro per darsi almeno un contegno.
Reila si massaggiò le guance vedendole un po’ scavate dall’ultima volta, ma pensò che dopotutto non mangiava ormai tanto da quando aveva saputo che lui era ancora vivo.
Si massaggiò gli occhi, macchiati dal mascara che era colato e dalla matita che si era cancellata in alcuni punti. Prese una salviettina struccante e tolse tutto il residuo, come a volersi liberare di ciò che era prima di entrare in quell’appartamento.
Reila si voltò verso la doccia. Il pavimento era riscaldato e i sanitari erano perfettamente lucidi e nuovi. Difatti poteva camminare tranquillamente a piedi nudi. La finestra affacciava direttamente su venti piani di stabile, segno che di lì non sarebbe potuta mai scappare se ne avesse avuto l’occasione. Ma al momento non era quello che voleva.
Prese un profondo respiro e si spogliò completamente, lasciando tutto a terra ed entrando sotto il getto caldo della doccia, come un fiume purificatore che le avrebbe tolto tutta la stanchezza e la frustrazione che aveva in quel momento.
Chiuse gli occhi e iniziò a massaggiarsi il volto e i capelli, poi passò al collo e ne percepì la rigidezza di quegli anni passati ad uccidere. I suoi pensieri si spostarono verso le mani di Dmìtrij sul suo corpo e improvvisamente aprì gli occhi di scatto. Si ritrovò ad avere il fiatone e il cuore che le palpitava a ritmo serrato. Non poteva assolutamente farsi abbindolare di nuovo.
Prese il bagnoschiuma, rendendosi conto che era alla vaniglia, un vezzo che aveva sempre avuto e questo non la sorprese. Lui ricordava tutto di lei come lei di lui e questo non poteva che farle completamente male, tanto da sentire nello stomaco le farfalle e insieme il contorcersi dello stesso.
Chiuse nuovamente gli occhi. Lasciandosi cullare dall’aroma della vaniglia di Saint Barth, una fragranza che lei assolutamente adorava e massaggiandosi il corpo ne sentì quell’odore di sigaretta mista al whiskey, e del profumo che lui emanava quando la stringeva a sé.
Reila posò entrambe le mani sul muro, lasciando che l’acqua cadesse implacabile su suo corpo. Continuando di questo passo gli sarebbe caduta tra le braccia in meno di dieci secondi.
Di una cosa si rendeva però conto. Che le era mancato da morire.
Rapide le lacrime andarono a confondersi con il getto caldo della doccia.

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Angolo dell'autrice


Ed ecco a voi il dodicesimo capitolo è finalmente on-line e le cose si stanno cmplicando fino all'inverosimile. Sto cercando di seguire il tempo che mi sono data tra un capitolo all'altro, cioé dieci giorni, ma se non arriva in questo lasso di tempo aspettate solo uno o due giorni in più.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere. E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 13
*** 13 - Tu (II Parte) ***


02
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13 - Tu (II Parte)


Dmìtrij entrò rapido nella stanza, dove si trovava Natasha, con delle carte in mano e la camicia appena sbottonata sui primi due bottoni. Non aveva mai rinunciato ai suoi pantaloni eleganti e le scarpe in tinta e difatti fu così che fece la sua comparsa. Voleva che lei lo ricordasse così com’era.
Nella mano libera un bicchiere di whiskey.
-Puoi andare.
Lui congedò così la russa che non ebbe neanche in tempo di ribattere. L’aveva zittita con un rapido gesto della mano. Lei sbuffò e uscì fuori dalla stanza, facendo sentire il rintocco dei suoi tacchi sul parquet di legno scuro. E poi, alzando leggermente la voce, gridò per farsi sentire.
-Io torno al club.
E di rimando si sentì la porta sbattere e l’uscita di scena della russa.
Dmìtrij non poté far altro che sorridere, poiché gli sarebbe servito tutto il tempo necessario da solo con lei. Accese la luce della stanza e quest’ultima fu come risvegliatasi da un lento torpore. Era viva di colore e di mobilio di buon gusto. L’uomo infine si accomodò sulla poltrona non distante dal letto e iniziò a studiare il modo in cui introdurle il tutto.
E non dovette attendere molto quando la vide comparire da dietro la porta, con l’accappatoio legato in vita e forse un po’ troppo grande per lei. Aveva lasciato il viso al naturale e lasciato i capelli sciolti lungo le spalle. Anche così era la donna più bella di cui si fosse invaghito in tutta la sua vita.
Reila allargò appena gli occhi quando si accorse che era lì e il suo cuore perse un battito quando lo vide proprio come lo ricordava, con fogli di carta e il suo bicchiere di whiskey tra le mani. Si impose di calmarsi e si avvicinò verso di lui, ma tenendosi sempre a distanza di sicurezza.
Lui la guardò, di sottecchi, assaporando i suoi movimenti e il suo profumo che gli era arrivato come un’ondata. Vaniglia di Saint Barth.
Reila rimase ferma a guardarlo, a pochi metri di distanza. Mosse qualche passo per avvicinarsi a una delle poltrone che, nella penombra, non aveva notato. Distolse lo sguardo dall’uomo e cercò di vedere ciò che le era stato precluso accorgendosi che quell’armadio moderno, attaccato al muro e dello stesso colore del letto, non lo aveva proprio notato.
Nessuno dei due parlava ma la tensione tra loro si sentiva come i tuoni e i fulmini che avevano cominciato a imperversare nel cielo di Mosca.
Anche se aveva l’accappatoio ancora addosso, si sentiva come nuda di fronte a lui. Difficile non notare lo sguardo da predatore con cui l’aveva sempre guardata.
La donna decise infine di sistemarsi sulla poltrona proprio di fronte a Dmìtrij. Non si sarebbe spogliata davanti a lui. Non più.
-Avanti, dimmi quello che hai da dire e dividiamo le strade.
Reila aveva rotto il silenzio e Dmìtrij alzò lo sguardo con una lentezza sconcertante, come se non le volesse dare conto e importanza. L’assassina accavallò le gambe, cercando di non mostrare assolutamente lembi di pelle non voluta.
-Quanta fretta.
Reila lo fissava. Stava cercando tutto il coraggio di cui disponeva per poterlo fare e avrebbe dovuto resistere il tempo necessario per poterne trarre vantaggio. Il fuoco che aveva dentro rischiava di scontrarsi con il ghiaccio degli occhi dell’uomo e questo non doveva assolutamente capitare di nuovo.
-Sei tu che hai bisogno di me e so che ti preme molto spiegarmi il motivo per cui mi tieni prigioniera.
Lui aveva riso leggermente e le labbra si erano piegate su un lato in un ghigno malevolo.
Dmìtrij adesso la stava fissando, proprio come sperava non avesse fatto. Lei era lì, inerme e senza possibilità di difendersi, perché sentiva già il suo corpo tremare e purtroppo non di paura.
-Come ben sai mi sono nascosto qui, inscenando la mia morte e avendo avuto un grande aiuto da parte tua.
Reila si sentì morire e un suono strozzato, leggermente udibile, era fuoriuscito dalle sue labbra serrate.
Come poteva mai provare ancora qualcosa per lui?
-E ti sei nascosto in centro città?
-Più sei visibile e più non ti vedono.
Dmìtrij aveva sorriso e il suo sguardo aveva assunto una nota dolce nel guardarla, che si spense subito con gli ultimi bagliori del tramonto. Bevve l’ultimo sorso del whiskey che aveva in mano e posò il bicchiere sul tavolinetto in mogano accanto alla poltrona e sulla stessa mano poggiò il capo.
Reila aveva sentito le farfalle nello stomaco ancora una volta, proprio quando aveva compiuto quel semplice gesto e le gambe si erano strette in una morsa impercettibile. Prese un leggero respiro, mantenendo il tono calmo e disinteressato.
-Prima di dirti quello che ho da proporti vorrei chiederti scusa.
E la voce dell’uomo tremò nell’ultima parola. Un qualcosa che non aveva mai pronunciato nella sua vita verso nessuno.
Negli occhi, Reila, si sentì pressare le lacrime che prepotentemente volevano uscire, denotando ancora la debolezza verso l’uomo. Questa non era assolutamente una lotta di orgoglio, ma semplicemente di quell’amor proprio che aveva abbandonato molto tempo prima. Proprio sul molo di Tokyo.
 -Scusa?
Aveva trovato il coraggio di rispondergli e di riversargli tutto il veleno che aveva in corpo von un’unica e sola parola.
-Sì.
E il quel momento l’aveva guardata e nella sua espressione vi lesse un qualcosa di strano; un qualcosa che sembrava un vero pentimento. In Reila qualcosa si mosse, ma era così debole che lei non ci fece neanche caso.
L’assassina l’aveva guardato abbassando appena le palpebre, volendo mettere a fuoco la sua anima e non la sua immagine. Le braccia erano state posate lungo i braccioli e aveva dato modo all’accappatoio che portava di spostarsi appena sulle gambe. Dmìtrij conosceva tutto di lei, ogni centimetro del suo corpo e della sua anima. Aveva capito che non c’era motivo per cui lei lo nascondesse.
-Tu credi che chiedendomi scusa i problemi si risolvano?
Reila aveva sollevato un sopracciglio.
-No, ma è un inizio.
La donna aveva preso un respiro bloccandolo a metà e alle parole dell’uomo, che aveva portato il bicchiere alle labbra per bere un po’ di whiskey, aveva risposto con un sorriso sbilenco. Non credeva ad una sola parola che lui diceva.
-Avanti, Dmìtrij, dimmi cosa vuoi e facciamola finita.
L’uomo aveva nuovamente bevuto un altro po’ di whiskey e aveva posato il bicchiere sul tavolinetto accanto alla poltrona. Aveva nuovamente guardato le carte e lasciato che il silenzio invadesse la stanza. Aveva deciso che tutto si sarebbe svolto nella tranquillità più assoluta, non voleva davvero costringere Reila, ma convincerla e facendole credere che fosse per sua spontanea volontà.
La guardava e la trovava sempre più bella, anche con quell’aria corrucciata e infastidita dalla sua persona. Non avrebbe mai creduto che nel suo cuore martoriato fosse rimasto ancora qualcosa di lui, ma in fondo alla sua anima sperava che ci fosse ancora quel briciolo che gli facesse vedere che ancora pensava a lui.
-Non volevo finisse così.
L’uomo ancora temporeggiava, voleva scavare nella testa di Reila e capire.
Reila allargò gli occhi increduli. La sua espressione la disse lunga in un solo attimo. La voce si bloccò in gola ma cercò di non farlo notare più di tanto. Aveva abbassato il capo e i capelli scuri le si erano spostati sulla fronte. Una mano si era andata a poggiare sulla fronte, scuotendo il capo appena percettibilmente. 
-Ho bisogno di qualcosa di forte.
Reila si era alzata dalla poltrona di scatto, guardando Dmìtrij in cagnesco. Si avvicinò a un mobiletto, dove sopra vi erano posati alcuni bicchieri bassi e bombati, in cui sperava avesse trovato quello che cercava. Aprì le ante e il suo viso si rasserenò trovando la vodka secca che cercava. Non aveva il coraggio di voltarsi verso l’uomo e gli tenne girate le spalle per tutto il tempo in cui si era servita e versata la bevanda che le avrebbe alleviato un po’ di pene.
Reila bagnò le labbra con il liquido incolore e posò una mano sul cuore che batteva talmente forte da farle pensare che l’uomo l’avrebbe sentito se si fosse avvicinato più del dovuto.
Dmìtrij invece non si era mosso dalla sua poltrona e Reila preferì rimanere vicino al mobiletto nel caso avesse avuto bisogno di un altro bicchiere. Sapeva che doveva essere lucida, ma un bicchiere non avrebbe compromesso la sua stabilità. Le serviva solo per sciogliersi. Dopotutto quel tempo, davanti a lui, si sentiva ancora fragile e insicura.
Dmìtrij la guardò si soppiatto per tutto il tragitto e ora che si era voltata verso di lui, aveva abbassato il suo sguardo verso le carte. Solo lui sapeva quanto in cuor suo avrebbe voluto alzarsi e stringerla tra le braccia, obbligandola ad aprirgli il suo cuore e vederle attraverso.
Quel silenzio, per Reila, era estenuante più del rumore.
-Dimmi cosa vuoi.
L’aveva detto a denti stretti, sperando che la voce bassa e tremante non si sentisse. Aveva il corpo leggermente scosso e cercava con tutta se stessa di nascondere i suoi tremori, associandoli magari alla vodka.
-Qualcuno vuole uccidermi da prima che ti chiedessi di uccidere mio zio.
L’uomo non aveva voluto approfondire quel tremore che, anche se debole, aveva percepito nella voce della donna. La guardò e vi si soffermò per qualche istante accarezzando la sua figura minuta con gli occhi.
-Sono riuscito a risalire a lui grazie ad i miei contatti.
Reila lo ascoltava e guardava quella bocca che tanto l’aveva assaggiata. Si sarebbe dovuta allontanare al più presto da lui, perché mantenere una conversazione sarebbe stato estenuante e ne sarebbe uscita sconfitta, ancora una volta.
-Ricordati che dentro questa stanza hai una persona pronta a ucciderti. Cosa ti fa pensare che ti aiuterò?
Dmìtrij aveva assunto un’aria tranquilla e i suoi tratti duri si addolcirono di colpo.
-Perché se tu ucciderai quest’uomo per me, ti permetterò di avere una scelta.
Reila era rimasta per qualche momento interdetta.
-Di quale scelta parli?
L’uomo le aveva sorriso, proprio come faceva un tempo e a lei si era gelato il sangue nelle vene.
-Ti permetterò di decidere cosa fare di me.
Mentre lo diceva Reila aveva bevuto un sorso e quello stesso le era andato di traverso, facendola tossire e bruciare la gola  come se vi fosse scesa lava. Le tremavano le mani per la rabbia e non si riusciva a controllare, non dopo quelle parole. Difatti scattò verso di lui con i pugni chiusi e pronti a prenderlo per il bavero della camicia.
Dmìtrij la lasciò fare e non si mosse di un millimetro mentre lei lo afferrava dalla camicia e facendogli spostare il busto in avanti, staccandolo dallo schienale della poltrona. Lo guardava in un modo pauroso, ma lui sapeva che in quegli occhi c’era tutto l’astio nei suoi confronti e ne era ben consapevole. Ma doveva tentare comunque questa strada.
-Io non mi vendo più. La mia decisione verso di te è stata già presa.
Glielo aveva detto in tono basso e irato. I suoi occhi, se avessero potuto, avrebbero mandato fulmini e saette.
-Il nome dell’uomo che sta tentando di uccidermi è Kajiro.
Reila allargò gli occhi stanchi e affaticati e smollò con uno spintone Dmìtrij lasciandolo seduto su quella stramaledetta poltrona. Era ritornata al mobiletto e aveva versato un altro po’ di vodka all’interno del bicchiere. Fatto questo, si era avvicinata alla finestra, guardando da lontano le persone che camminavano tranquille nelle strade.
-Non lo faccio per te, ma per me.
Dmìtrij non sapeva che Reila avesse un conto in sospeso con Kajiro, ma gli avevano detto che era una persona di cui lei si sarebbe ricordata molto bene. Doveva giocarsi la carta se l’avesse ricordato in positivo o in negativo e fortunatamente per lui, aveva già intenzione di ucciderlo.
L’uomo si alzò dalla sua poltrona e posò le carte che aveva in mano sul tavolino. L’aveva guardata per qualche istante mentre portava i passi verso la porta.
-Dopo che lo avrai ucciso, ritorna qui e deciderai.
Dmìtrij afferrò la maniglia della porta e chinò leggermente il capo, senza guardarla conscio che neanche lei lo stava guardando. Aprì la porta.
-Nell’armadio troverai tutto quello che ti serve e la tua pistola è custodita nell’altra stanza. Sei libera.
Reila aveva tirato un sospiro di delusione, facendo fuoriuscire tutta la rabbia che le aveva montato in corpo quella piccola discussione. Aveva assentito, non aveva fatto nient’altro e aveva tenuto lo sguardo sulla strada. L’ultimo sorso della vodka.
Reila sentì solo la porta richiudersi così come si richiuse la sua mente, lasciando libero il suo cuore e le lacrime libere di cadere silenziose.
yin yang vettore

Angolo dell'autrice


Devo sire che questo è stato il capitolo più difficile che abbia mai scritto, ma non perché non sapevo cosa scrivere ma perchè la scena era talmente difficile da risultare per me quasi impossibile da scrivere. Vari momenti di sconforto e vari moemnti di blocco, sono riuscita ad aggiornare solo adesso. Dopo ben due mesi.
Non passerà più tutto questo tempo ora che la storia è entrata nel suo vivo (dopo ben tredici capitoli) e ora è tutto già scritto, anche se credo che i personaggi mi faranno cambiare rotta molte volte, ma non temete che arriverò alla fine di quest'avventura.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, anche perchè ne giova l'autostima dell'autrice (cioé me).
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere e i lettori silenziosi. E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 14
*** 14 - Invisible ***


02
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14 - Invisible


Aveva accavallato le gambe fasciate in delle calze color fumo. Si vedeva leggermente il pizzo che adornava la calza delle sue autoreggenti che le davano un fascino particolare e selvaggio.
I capelli erano raccolti in uno chignon castigato, come se volesse cozzare completamente con il suo abbigliamento provocante, anche se indossava un tailleur decisamente semplice.
Era quello sguardo che attirava le prede. Era quel modo di guardare uomini e donne che le permetteva di arrivare dove ogni donna vorrebbe essere. Al potere.
E Karina era proprio così.
Era una donna completamente succube del passato. Non del suo, non ne aveva avuto uno essendo sempre vissuta sotto l’ombra del nonno e soprattutto sotto l’ombra della madre. Tutti le dicevano che somigliava moltissimo a lei e che i suoi capelli rossi rappresentavano il fuoco della sua rabbia che aveva sempre covato, anziché il temperamento passionale della madre.
No, non si sentiva in colpa con se stessa e con nessuno della sua famiglia, ma dava tutta la colpa a quella donna che si era intromessa tra lei e suo marito, anche se non la conosceva affatto. Non riusciva a mandare giù la cosa che George amasse un'altra e non lei; che gli avesse chiesto soprattutto un figlio che lui cercava in tutti i modi di non darle.
Karina aveva stretto le mani sui braccioli della poltrona. Attendeva semplicemente che un altro cliente finisse di parlare e concludere un affare. Non sentiva quasi più le voci che nella sua testa le raccomandavano di andare cauta. Le labbra colorate di un rosso acceso e voluttuose avevano disegnato un sorriso delicato mentre asseriva alle parole dell’uomo che le stava di fronte.
Annuiva lei, ma non rivolta verso il suo interlocutore ma verso un’idea che le era passata per la testa.
-Abbiamo finito?
L’uomo di fronte a lei rimase per qualche istante interdetto e alla fine annuì sconfitto e si alzò, non senza aver rivolto un inchino verso Karina ed uscire.
La donna si stiracchiò e fece girare la poltrona girevole verso la grande vetrata che si buttava sulla grande Piazza Rossa. La neve continuava a scendere copiosa e aveva formato un altro strato sulle grandi strade sotto il Cremlino illuminato.
Karina aveva poggiato la testa sulla mano e aveva sospirato mentre cambiava gamba accavallando quella che prima stava sotto l’altra. Assottigliò lo sguardo, come se volesse vedere meglio ciò che si nascondeva sotto la coltre bianca e pura della neve. La malvagità.
Quella permeava tutto il suo essere al momento, non dandole un istante di tregua. Si sentiva come rinchiusa in una prigione fin troppo piccola per lei. A volte le sembrava anche che le mancasse l’aria nei polmoni e annaspava quella che riusciva a recuperare, sempre durante la notte e sempre dopo un incubo.
La sua vita era rimasta come un limbo sospeso da quando la madre si era tolta la vita. Lei aveva solo due anni e sapere più tardi il motivo per cui lo aveva fatto le era costato caro. Eliminare completamente la dolce e cara Karina e mettere al suo posto un mostro dedito alla vendetta.
Ricordava bene e quella neve non la aiutava assolutamente a dimenticare ciò che era e ciò che era diventata. Non si preoccupava di chi doveva calpestare; doveva arrivare al suo scopo e non si sarebbe fermata per nulla al mondo.
Il cielo era nero sormontato dalla nuvole della neve. Stava arrivando la sera e le luci avevano cominciato a rischiarare la città rossa. E in quel momento lo sguardo della donna si spostò verso un punt imprecisato del buio che si stava formando, verso un volto che conosceva bene.
Karina aveva sempre amato George. Fin dalla prima volta che lo aveva visto, presentatole dal nonno. Aveva sentito le classiche farfalle nello stomaco. Ora, invece, lui non la vedeva proprio. Non sapeva neanche se mai l’avesse amata o provato un briciolo di apprezzamento per quello che lei era.
La donna, dimentica dei suoi pensieri, aveva girato nuovamente la sedia verso la scrivania e aveva premuto il pulsante dell’interfono.
-Chiamami Alexander.
Solo un assenso dall’altra parte e intanto poggiò la schiena su tutta lo schienale e attese, guardando il soffitto con quei tenui occhi verdi. Se la si guardava da questa prospettiva, i tratti del suo volto assumeva una linea assolutamente giovanile e dimostrava realmente la sua età. Il volto le si addolciva e le labbra di stiravano in un sorriso tranquillo, come se ne mondo non ci fossero problemi.

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Non passò molto tempo da quando Alexander fece in suo ingresso all’interno dello studio, non senza essere preannunciato. Era arrivato di gran lena dall’altra sede della società e recava sotto il suo braccio una cartellina. Era uno degli uomini più fidati di Karina e le amministrava la maggior parte degli affari. Era un uomo alto, lo si poteva notare perché mettendosi a confronto con la donna la superava almeno di una spanna.
Alexander, appena raggiunto l’ufficio di lei, aveva chinato leggermente in capo in segno di saluto e alla fine si era avvicinato ad una delle poltroncine di fronte alla scrivania. L’arredamento era minimal e ciò che attirava di più erano le grandi vetrate che affacciavano direttamente sul Cremlino, come se da lì avesse potuto governare su tutta la Russia.
-Hai novità?
La voce della donna era bassa e calibrata. Aveva tranquillamente girato la sedia verso l’uomo e l’aveva guardato diritto negli occhi. L’uomo rimaneva ogni volta un po’ in soggezione da lei, anche se la conosceva ormai da tantissimi anni.
Alexander, che non dimostrava più di trentacinque anni, fisso i suoi occhi nocciola n quelli verdi di lei e aveva portato una mano a ravvivare i capelli scuri. Poi aveva preso la cartellina che aveva portato sotto il braccio e sbottonò l’ultimo bottone della giacca beige che portava, abbinandosi egregiamente con il pantalone blu scuro che indossava.
-Sembra che Jin non ce l’abbia fatta, Karina.
E subito sul volto di lei si disegnò un sorriso.
-Kajiro è riuscito a sapere dove si nascondeva Kamamoto. Il vecchio ha ammesso solo di aver spedito una lettera indirizzata in una località del Giappone ad un certo Signor Yukino che, come ha asserito prima di morire, è uno dei nomi dell’uomo che cerchiamo.
Alexander non era bravissimo a pronunciare nomi giapponesi, ma era un uomo che conosceva molte altre lingue, così come l’inglese e il russo che ormai padroneggiava quasi come la madre lingua.
-Che notizie abbiamo di questa località?
-Si chiama Suruga e affaccia sull’Oceano Pacifico. Abbiamo già mandato qualcuno dei nostri a controllare.
Karina annuì e per qualche istante rimase silenziosa. Picchiettava le unghie ben curate sulla scrivania e pensava. Quando quella donna meditava troppo poteva diventare più che malvagia, diabolica.
-Dopo che avrai un rapporto dettagliato su quella casa, voglio che cerchi quella donna. Si chiama Reila e Kajiro la conosce bene. Deve trovarla.
-Sembra sia sparita dalla circolazione, ma informerò l’assassino che deve trovarla. Sembra abbia un conto in sospeso con lei.
Karina annuì e si alza dalla sedia, sistemandosi la longuette sulle gambe tornite, frutto della palestra, ma non senza perdere il fascino classico della donna del’est.
Alexander si alzò a sua volta e chinò leggermente il capo.
-Dobbiamo concentrarci sulla ricerca, Karina. Non possiamo distogliere l’attenzione dal progetto.
Karina guardava Alexander e lui ricambiavo lo sguardo. Non c’era bisogno di troppe parole. Era solo un modo per pensare ad altro.
-Comprendo. Solo un passatempo quella ricerca, ma il padre è pericolo e sa troppe cose.
-Lo so e infatti c’è un’altra cosa.
Il volto della donna si girò lentamente verso Alexander, come se si aspettasse le prossime parole.
-Sembra che tuo marito cominci a sospettare qualcosa. Dobbiamo cercare di tenerla nascosta quanto più possiamo.
-Della Invisible occupatene tu, di mio marito me ne occupo io. Come procede a proposito?
Per l’uomo era il momento di rilassarsi, anche perché il pericolo era scampato. Karina era bella ma tanto quanto la sua cattiveria e a volte rivelare più del dovuto era fatale con lei.
-Tutto procede secondo i piani. Sembra ci siano stati dei piccoli problemi con l’erogazione all’interno delle capsule.
La donna si era avvicinata alla scrivania e lì si era poggiata con le mani sull’angolo, ascoltando le parole di Alexander con un certo interesse.
-Hanno avuto dei problemi con l’innesco del primo prototipo. Sembra che abbiamo bisogno di più tempo per averne il pieno controllo.
-Bene, ma non avranno più tempo di quanto ne abbiano già. Sto aspettando fin troppo o i migliori scienziati del mondo non sanno creare ciò che gli ho chiesto?
Alexander si ammutolì di colpo, lasciando alla donna il modo di sfogarsi. Comprendeva e sapeva come Karina aveva intenzione di sbarazzarsi di qualche scienziato sbagliato, ma sapeva anche che avrebbe solo portato dei rischi inutili e al momento non ne potevano correre.
-Non possiamo permetterci che la C.I.A. sospetti qualcosa.
Karina parve soppesare le parole di Alexander, tanto che stiracchiò le labbra in un sorriso esasperato e mostrò quei denti bianchi come un leone in gabbia. L’uomo aveva ragione, non poteva permettersi di scoprirsi così tanto, non quando era così vicina alla sua meta.
Doveva continuare così, senza altri intoppi del genere.
-Allora sai come convincere i cervelloni a sbrigarsi.
Alexander annuì debolmente e strinse la cartelletta al petto come un adolescente, un chiaro segno di debolezza come gli capitava ormai da tempo con quella donna così carismatica.
Alexander aveva compiuto un passo all’indietro. Ormai il discorso con lei era concluso e avrebbe fatto tutto quello che lei chiedeva. Anche se gli premeva soltanto il fatto che continuando così sicuramente li avrebbero scoperti.
-Al momento non possiamo fare quello che chiedi. Nelle nostre file c’è sicuramente qualcuno che passa le informazioni.
Karina prese un rapido respiro e assentì lievemente.
-Ho sentito di questa talpa. Cercala ed eliminala.
Alexander strinse leggermente le labbra e fece un cenno di assenso verso la donna. Aveva sempre temuto il suo potere e soprattutto il suo carisma. Aveva avuto sempre il potere di far crollare la gente ai suoi piedi. Anche lui.
-Copri tutto se ce ne è bisogno, Alexander. Non farmi pentire di averti dato quello che hai.
L’uomo non fece nient’altro che allontanarsi e uscire fuori dalla porta, non senza un misto di preoccupazione negli occhi. Con lei sarebbe saltato anche lui se solo gli Stati Uniti avessero sospettato e di sospetti gliene stavano regalando a bizzeffe. Qualcuno passava le informazioni e questo non potevano permetterselo. Compromettendo la sua carriera avrebbe compromesso anche quella di tutti i suoi collaboratori e avrebbe perso tutto, per non parlare della prigione che gli sarebbe toccata.
No.
Alexander non l’avrebbe mai permesso. Non sarebbe caduto nella trappola che tutti si aspettavo che cadesse.
yin yang vettore

Angolo dell'autrice


Avete ragione. Sono in tremendo ritardo, ma purtroopo non mi è stato possibile aggiornare prima. Infatti non ho fatto assolutamente in tempo neanche di correggerlo come si deve. Così come l'ho scritto, correggendo solo quello che sono riuscita a vedere.
Spero vi siate goduti un po' questo capitolo. Anche perché questo capitolo, anche se di passaggio, rivela quello che sta succedendo. Spero vi sia piaciuto.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere. E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 15
*** 15 - Alexandra ***


02
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15 - Alexandra


Era stato attento. Molto attento.
Si era guardato le spalle per tutto il tragitto e alla fine si era ritrovato a vagare per la città senza una meta, come se volesse far perdere le sue tracce ad un inseguitore invisibile. In realtà nessuno lo pedinava e al momento nessuno sapeva che il signor Yukino (o più semplicemente Aleksey) era lì, ma non riusciva a stare tranquillo anche con la sua abilità di rimanere nell’ombra.
George gli aveva indicato un albergo per quella sera dove non gli avrebbero fatto domande. Il russo si sarebbe occupato di tutto, ma Aleksey non riusciva a stare tranquillo. Nemmeno dopo tutto questo tempo. Come sempre si sentiva fuori luogo e fuori dal tempo, come se nulla gli appartenesse assolutamente.
In effetti i suoi passi, un tempo, erano guidati dapprima da Alexandra e poi infine da Miori, che aveva amato più dell'altra, con un’intensità tale da sconvolgerlo ogni qual volta vedeva il suo viso. Ormai ne era rimasto solo il ricordo e qualche fotografia sbiadita.
Sì, era sempre dovuto scappare da tutti, perché dopotutto Aleksey aveva sempre avuto Sergey alle calcagna, da quando aveva abbandonato l’esercito e sua figlia. L’uomo ricordava bene le parole che si erano dette con Alexandra l’ultima volta, proprio come se le avessero appena dette. Erano state dure, difficili e assolutamente inappropriate. Aveva semplicemente paura a quel tempo.
 
Alexandra era lì, davanti a lui, avvolta nella sua pelliccia. Sul capo un colbacco e per coprire le dita dal freddo, uno scaldamani in pelliccia.
La donna era immobile, ma dentro di lei tremava. Sentiva che quel momento sarebbe arrivato, che sarebbe successo tutto quello che nei suoi sogni già vedeva e temeva. Ne sentiva la pressante angoscia che cominciava a crescere nel suo cuore.
Aleksey era chiuso nel suo cappotto di lana con i vari gradi e mostrine messe in bella mostra e il colbacco a coprire quei suoi capelli biondi, quasi bianchi. Gli occhi azzurri guardavano quelli verdi di lei e l’uomo non riusciva assolutamente a staccare lo sguardo da lei.
Proprio come il loro primo incontro sarebbe avvenuta la loro separazione.
Il vento spirava leggero e gelido dentro le ossa; un freddo che loro percepivano solo nel cuore. La neve era cominciata a scendere nella città di Tomsk, e loro, all’interno di una casa non molto fuori città, si stavano guardando senza dire una sola parola.
Alexandra aveva liberato i suoi meravigliosi capelli rossi e lui l’aveva guardata incantato, così com’era successo qualche anno prima.
Quell’anno, in Siberia, si era registrato l’inverno più rigido. Gli abitanti avevano cercato come potevano di fare scorta di legna e provviste, anche perché le strade sarebbero diventate quasi impraticabili, almeno con i mezzi convenzionali.
Gli spazzaneve e gli spargisale lavoravano a ritmo serrato, ma nulla poteva contro quella neve che non aveva voglia di smettere di cadere per rendere il momento della separazione ancora più distruttivo per gli animi di entrambi.
Aleksey sentiva di non doverla lasciare, ma gli ordini erano ordini e non osava chiederle di scappare con lui, perché il tutto si sarebbe ridotto a un “Pensa al dolore che darei alla mia famiglia”.
Forse non si amavano abbastanza da poter fare un passo come quello, così lungo e difficile che solo pochi amanti erano riusciti a compiere. Chissà con quale esito e l’uomo se lo chiedeva spesso.
 
Quando il ricordo iniziò a sbiadirsi, Aleksey si ritrovò esattamente al posto dove George gli aveva detto. Si era sorpreso nel vedere ciò che il tempo non aveva assolutamente cancellato. Non sapeva se era meglio ricordare le strade che aveva percorso insieme ad Alexandra in quegl’anni passati o aver dimenticato alcuni momenti preziosi insieme a lei.
Se ne sentiva distrutto ogni volta che ci pensava. Era un uomo freddo e calcolatore, ma lei era riuscita per la prima volta scioglierlo e dargli una vita diversa da quella che aveva progettato per sé.
Entrò all’interno dell’hotel raddrizzando la schiena e alzando il mento in un moto fiero. Si sentiva ancora quell’uomo, anche se cambiato quasi nella sua integrità. Gli eventi, i sogni e la realtà avevano cambiato qualsiasi cosa.
-Romanov.
Un semplice nome per poter far capire all’addetto alla reception il messaggio. Gli occhi dell’addetto squadrarono Aleksey e infine con il capo annuì debolmente. Gli diede le chiavi della stanza e non fece domande, ma ad Aleksey serviva davvero scambiare due parole con qualcuno di fidato e l’unico uomo di cui si fidava era morto solo la settimana prima.
Appena entrato all’interno della stanza, posta al piano superiore dell’albergo, si ritrovò all’interno di uno spazio che sentiva stringersi su di lui.
L’edificio dove era stato fatto hotel era stato costruito più di cinquant’anni prima nel periodo stalinista. Se ne sentiva ancora il peso e quei palazzi, costruiti da Stalin, erano chiamati le Sette Sorelle, adibiti ai tempi moderni ad altri scopi da quelli inizialmente preposti. Il Radisson Hotel aveva ereditato la magnificenza dei palazzi russi, lasciando indietro il primato di albergo più alto del mondo.
Aleksey non aveva vissuto quegli anni appieno, ma dai racconti del padre ne aveva sentito parlare. Non poteva dirsi d’accordo o meno con il pensiero di Stalin, ma ormai i tempi erano cambiati e con lui anche l’uomo.
George aveva pensato a lui, ma quel lusso non gli era mai piaciuto. Troppo oro, troppi tappeti, troppo tutto e dentro quel tutto si sentiva soffocare.
Aleksey richiuse la porta alle spalle e lasciò il mondo fuori, ma liberi i pensieri e i ricordi ad invadergli la mente.
 
Avrebbe preferito stare fuori anziché davanti a lei.
Il volto della donna era triste, ma manteneva quella compostezza e quel tratto tipico di Alexandra. Era sempre stata molto paziente con lui e per questo gliene doveva dare atto, ma non credeva che lei lo amasse così poco da accettare a testa china la decisione che suo padre aveva preso per loro due.
-Alexandra…
La voce del soldato tremò e con lei il cuore dell’uomo.
Lei lo aveva guardato e semplicemente gli aveva sorriso; un sorriso triste e lontano. Lo aveva già lasciato in cuor suo per non morire dal dolore di una separazione più dura di quella già si era sognata.
Non ce la fece però a trattenerle e lacrime che premevano contro gli occhi da quando si era messa in viaggio per raggiungerlo. Pungevano come aghi negli occhi ed erano amare. Se le sentiva bruciare come fuoco sulle guance, tanto erano dolorose e nonostante il freddo che sentiva.
-Non c’è bisogno di dire nulla.
Alexandra aveva singhiozzato e le parole le risultavano difficili da dire. Cercò in tutti i modi di calmarsi e, dopo quella breve e intensa emozione, le lacrime cessarono di cadere e sul volto della donna si disegnò un sorriso che fece rabbrividire Aleksey.
-Avrei voluto che fosse stato diverso tra noi.
-Ma non lo è, Aleksey. Mio padre ti ha dato un ordine e io non scapperei mai dalla mia famiglia. Dobbiamo rassegnarci che il nostro amore non è stato altro che un’avventura.
Aleksey era rimasto per qualche istante interdetto. Non mostrò la sorpresa sul volto, ma il cuore aveva perso un battito a quelle parole.
-Non è così e lo sai bene.
Alexandra aveva solo annuito e l’uomo gli si era avvicinato per poterla cingere un’ultima volta, ma lei si ritrasse riluttante al contatto.
-Non voglio aspettarti. Non ne ho né la forza e né la voglia.
L’uomo aveva semplicemente preso un respiro profondo e qualche secondo per elaborare un frase tale da non offendere il proprio onore. Anche se non credeva che Alexandra lo stesse abbandonando così, senza combattere. Non era in lei.
Sentiva la presenza costante delle parole di un’altra persona in quelle della donna.
-Non pensavo che saresti stata in grado di dirlo. A questo punto non meriti neanche una mia risposta.
Sembrava una discussione come quelle che si vedono alla tv, dove lui l’abbraccia con la forza, la bacia e tutto ritorna tranquillo e sereno, ma non in quella situazione. Si sentiva completamente distrutto e lei lo aveva abbandonato ormai da molto tempo.
-Mi stai solo confermando le mie paure, Alexandra. Non pensavo si sarebbero trasformate in realtà.
E detto questo Aleksey si sfiorò le labbra con la mano coperta da un guanto scuro e le rivolse il suo commiato.
 
Si era buttato sul letto, dopo la doccia e aveva cominciato a fissare il soffitto. In effetti non la vide mai più e quell’abbandono forzato costò cara la vita di Alexandra. Sapeva che era morta solo tre anni dopo. Aleksey era rientrato a Mosca dopo pochi mesi della missione e si era ritirato dall’esercito, la gloriosa Armata Rossa poteva fare a meno di lui.
Dopo questo si trasferì in Giappone e non passò molto che conobbe Miori. La tenera e dolce Miori.
Non era stato difficile amarla. Era arrivato tutto da sé, a lenire quel cuore che era stato fatto a pezzi molto tempo prima.
E ora la realtà premeva contro il suo cuore a fargli rivivere ciò che non avrebbe voluto. Non sapeva chi ci fosse a tendere i fili di quella vicenda, ma doveva far capire al destino che tendendo troppo i fili si sarebbero prima o poi spezzati.


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George era rincasato poco dopo il suo incontro con Aleksey e quell’incontro l’aveva oltremodo destabilizzato.
Perché adesso?
Era una domanda che durante il tragitto si era posto molte volte e senza mai darsi una risposta. La verità era che le risposte erano così ovvie che a lui faceva male solo ammetterle.
Era talmente immerso nei suoi pensieri che non aveva notato neanche l’avvicinarsi di Katrina. Solo quando gli fu davanti e con trasporto lo aveva abbracciato e poi baciato si era accorto della sua presenza.
George era rimasto per un attimo esterrefatto.
-A cosa devo questa sorpresa?
-Una moglie non può dare il bentornato al proprio marito?
Katrina infine si era avvicinata alle labbra di George e lì vi aveva insinuato la propria lingua in modo che lui comprendesse che era suo e che nessuna poteva metterle i bastoni tra le ruote. L’uomo non poté far altro che stringerla a sé e rispondere al bacio, anche se non con lo stesso trasporto.
La donna era così.
Poteva apparire minuta e indifesa, ma sotto quella scorza aveva l’animo di una predatrice ed era stato così che aveva abbindolato lui e suo nonno  e aveva assunto il pieno controllo della ditta.
Ma per quanto vivessero nella stessa casa, lei non sapeva niente di lui e lui non sapeva niente di lei; solo il minimo indispensabile.
A spaventarlo, però, erano i suoi occhi. Traditori, predatori e luminosi. Stava sicuramente tramando qualcosa e quello che pian piano stava scoprendo della moglie non gli piaceva affatto.
-Katrina, che cosa stai tramando?
La donna sorrise appena mentre si staccava dal corpo di George e si allontanava di qualche passo.
-Vorrei renderti partecipe di un qualcosa che ci renderà grandi, amore mio.
Katrina in effetti amava George e avrebbe voluto tanto che lui condividesse quella sua particolare vena malvagia e futuristica. Lei vedeva un mondo diverso da quello che percepiva adesso. Un mondo che sarebbe cambiato da lì a poco.
-Cosa stai dicendo?!
George lo chiese in modo scocciato mentre si versava il suo bicchiere di whiskey e ne saggiava un breve sorso per sentirne il dolce-amaro nella bocca, come a volersi togliere la presenza di Katrina dalle labbra.
-Ho intenzione di cambiare il nostro mondo, George.
L’uomo strabuzzò gli occhi e la guardò esterrefatto, come se avesse detto una follia ed era infatti quello che pensava con tutte le sue forze.
-Vieni e ti farò vedere con i tuoi occhi quello che intendo.
Anche se il nonno le aveva detto di non fidarsi ciecamente di George, voleva davvero fargli capire che con lei avrebbe solo vissuto una vita degna del suo nome.
La donna mise una pelliccia sulle spalle e si diresse verso la porta, infine si volse verso un George completamente sconvolto e gli tese la mano.

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Per saperne di più

Tomsk: (in russo: Томск) è una città della Russia di 488.400 abitanti, situata nella parte sud-occidentale della Siberia sul fiume Tom' e capoluogo della oblast' omonima.
Fu fondata nel 1604 e un tempo fu la più grande città siberiana, capoluogo della Gubernija di Tomsk. È un centro abitato ricco di storia e tradizioni, con notevoli testimonianze di architettura di epoca zarista e numerosi monumenti storici.

Le "Sette Sorelle": (in russo: Сталинские высотки, traslitterato: Stalinskie Vysotki, ovvero "alti edifici di Stalin") sono un gruppo di grattacieli di Mosca particolarmente rappresentativi del classicismo socialista. Vennero costruiti tra il 1947 e il 1957, in un'elaborata combinazione di stile barocco elisabettiano e gotico con la tecnologia anche usata nella costruzione dei grattacieli statunitensi.
Originariamente i grattacieli in progetto erano otto, numero che avrebbe dovuto simboleggiare gli otto secoli della capitale (1147-1947); la torre Zaryadye, progettata dall'architetto Dmitrij Nikolaevič Čečulin, non fu però mai costruita.
Un ottavo grattacielo che richiama esplicitamente le forme dei primi sette fu invece realizzato tra il 2001 e il 2005: si tratta del Triumph Palace, che fu per un certo tempo il più alto d'Europa.

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Angolo dell'autrice


Sono davvero imperdonabile.
Purtroppo ho abbandonato per un certo periodo la stesura della storia causa trasferimento e riordino della mia vita. Un altra città, un altro modo di pensarla e di vivere. Pian piano, tranquille, mi sto riprendendo.
Questo capitolo lo avevo già scitto nella mia testa. Volevo farvi sapere un po' più di Alexandra, visto che il questo romanzo compare spesso e volentieri. Uno di quei personaggi che anche ase non sono fisicamente nella storia, costituisce una parte fondamentale per le scelte di alcuni dei miei personaggi.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono molto propensa a raccontarvi qualche retroscena se volete
Infine vi prometto (e non è una semplice promessa da marinaio questa volta) entro la prossima settimana pubblicherò il sedicesimo capitolo.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere. E vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 16
*** 16 - Assassini ***


02
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16 - Assassini


Finalmente era riuscito a scovarla e dopo tanto tempo avrebbe avuto ciò che gli spettava di diritto. L’aveva seguita e lei sicuramente si era accorta di lui, tanto da portarlo in un posto affollato e pieno di rumori.
Nel pieno caos della piazza Lubjanka, proprio vicino alla pietra che commemorava il ricordo delle vittime della repressione sovietica. La pietra Soloveckie.
Reila era lì, che osservava il monumento dando le spalle proprio alla persone che meno avrebbe dovuto sottovalutare. L’uomo glielo aveva promesso, ma in mezzo alla gente non avrebbe fatto nulla. Era finito il tempo in cui nessuno parlava.
Lo sguardo della donna si volse infine verso il grande palazzo che con la sua mole dominava tutti i presenti. Davanti a questo un piccolo giardino di papaveri che, con il loro colore rosso intenso, sembrava volessero ricordare le vittime di ciò che la Russia era prima.
L’ex sede del KGB faceva quasi da ombra alla piazza che prendeva il suo nome, mentre le auto sfrecciavano lungo le strade costruite a ridosso della stessa. Reila la guardava, ammirando quella costruzione che si diceva che dal tetto si poteva vedere la Siberia. Più ammirava i mattoni gialli della Lubjanka e più comprendeva che la Russia aveva qualcos’altro per lei, un’altra sorpresa dopo Dmìtrij. L’ultima.
La chiacchierata con lui e l’averlo rivisto, l’aveva resa succube dei ricordi e dell’angoscia. Le aveva messo addosso un velo di finzione o realtà che difficilmente sarebbe riuscita a togliere. Aveva compreso, sì, che era stato proprio lui a ridarle un cuore e così come glielo aveva restituito, l’aveva preteso indietro con gli interessi.
La donna si era stretta all’interno del suo cappotto di pelliccia e sentì addosso più freddo di quello che esternamente si percepiva. Prese un profondo respiro per poi percepire la presenza dell’uomo dietro di lei, così come l’aveva sentita solo qualche ora prima.
-Sei riuscito a trovarmi.
Lo aveva detto in un soffio. Le certezze della donna stavano vacillando e ancora non aveva deciso il da farsi. Non sentiva più calore e questo la spaventava terribilmente, come se il ghiaccio si stesse impadronendo di lei. Forse era quello che la Russia voleva lasciarle? Il freddo nel cuore?
-Non è stato facile.
Kajiro aveva risposto con una certa enfasi e le si era posizionato proprio di fianco, puntando il suo sguardo dapprima sul grande palazzo e poi sul delicato viso di Reila che aveva assunto una piega sinistra.
-Non è stato facile neanche per me.
Reila aveva voltato la testa leggermente verso di lui e l’uomo si era ritrovato a guardarla senza capire ciò che stesse dicendo. L’assassino aveva lo sguardo interrogativo e prima che lui decidesse di chiedere, fu lei a rispondere.
-Trovare me stessa. Ancora ne sto cercando ancora i residui.
Era come se si volesse confidare con lui, con la persona meno adatta a queste situazioni e a questi discorsi. Kajiro era un tipo possessivo e violento, un uomo al quale era meglio stare alla larga. Stranamente, però, riusciva ad attrarre a sé con il fascino del male.
Reila lo conosceva bene o almeno credeva fosse così, ma da quando lo aveva lasciato lì incosciente e debole, risparmiandogli la vita, vedeva nei suoi occhi che tutto era cambiato e tutto era rimasto al suo posto.
-Dove sei stata?
-A combattere il mio passato.
La risposta fu come una doccia fredda e Kajiro corrucciò nuovamente le sopracciglia cercando di capire ciò che passava dentro la testa della donna, senza riuscirne a carpire i segreti.
Reila era sempre stata un eterna scoperta per lui e cercare di trovarle solo un piccolo difetto gli era davvero difficile.
-Cosa vuoi, Kajiro?
Gli occhi neri della donna si erano posati nuovamente sul volto dell’assassino e avevano cercato di leggere ciò che era così palesemente mostrato.
-Voglio che adesso fai i conti con il tuo presente.
Kajiro le si avvicinò e le strinse i braccio quasi a farle male. Non riusciva a resisterle e anche quella vicinanza per lui era una droga peggiore di qualsiasi in commercio. Aveva avvicinato il volto ai capelli della donna e li aveva annusati, sentendo il delicato profumo che lei emanava.
Reila non fece nulla se non avvicinarsi a lui, anche perché aveva sentito, poggiata sul suo costato, la canna di una pistola. In quella situazione non poteva fare molto, almeno per il momento e poteva permettersi di elaborare un qualcosa per potersi togliere da quella condizione.
-Ti avevo fatto una promessa, ricordi?
Reila aveva annuito e aveva sorriso. Non disse nulla, ma iniziò a seguire l’uomo senza fare storie o brutti movimenti per non allarmarlo.
Kajiro strinse di più la presa sul braccio di Reila e con l’altra mano premeva la pistola sulle costole dell’assassina quasi a mozzarle il respiro.
-Dove mi stai portando?
La voce dell’assassina era un filo sottile. Non voleva farsi sentire dagli altri passanti e dalle persone che le erano intorno. Il suo obiettivo era proprio lì, accanto a lei e non poteva fare nulla per compiere quello che avrebbe dovuto fare già da un pezzo.
No, non era per Dmìtrij che lo faceva. Stava cercando di dare un senso al proprio scopo senza che si mettesse in mezzo il passato e voleva cercare di mettere in linea retta la sua visione dell’amore.
Quello con Dmìtrij era distrutto, finito e voleva convincersene, anche se non era così semplice. Le provocava sempre quel leggero formicolio nel basso ventre e la stretta allo stomaco come se fosse una scolaretta alle prime cotte.
Nella testa di Reila vorticavano così tanti desideri inespressi e tanti pensieri che a Kajiro, per qualche istante, sembrò che si fosse estraniata dalla realtà circostante e che se ne stesse infischiando del destino che lui stava decidendo per lei.
-Voglio stare un po’ solo con te.
Reila non poté trattenere un leggero sorriso di scherno verso l’uomo tanto da meritarsi una stretta ancora più energica al braccio e un sicuro livido violaceo sulla pelle.
-Avanti, perché non mi uccidi e la facciamo finita?
Kajiro la guardò per qualche istante, sovrastandola con la sua altezza. Erano arrivati in uno dei vicoli bui che costeggiavano i caseggiati di quella via. Avevano camminato molto senza però parlarsi, ma scambiandosi sguardi enigmatici. Sicuramente tutti e due pensavano come l’uno avrebbe ucciso l’altro.
L’uomo aveva notato quello stabile in disuso prima di raggiungere Reila. Dal vicolo troneggiava davanti a loro come un gigante addormentato. Kajiro vi aveva fatto una piccola perlustrazione per vedere se ci fossero vagabondi e senza tetto, ma aveva notato che era completamente abbandonato. Avrebbe portato lì Reila, prima che potesse sfuggirgli un’altra volta.
Era passato un mese da quando l’aveva incontrata e questo aveva acuito molto di più la passione insana che aveva verso di lei.
Negli anni aveva imparato a essere silenzioso, a non avere timore e a non provare sentimenti per coloro che uccideva. Proprio com’era lei. Ma ciò che Kajiro non sapeva era che Reila era diventata umana.
La portò in quell’unico vicolo buio senza anime che potessero dargli fastidio, l’unico posto dove avrebbe potuto saggiare le sue labbra per la prima volta.
La accostò al muro e la premette contro questo, bloccandola con il peso del suo corpo. Le si era avvicinato talmente tanto da buttarle suo viso il suo respiro che risultava già ansimante.
-Perché non voglio ucciderti. Non subito.
Reila lo guardava. Aveva fissato il suo sguardo in quello dell’uomo per cercare di capire la sua prossima mossa. Doveva sparire nuovamente, perché uccidere Kajiro in questo modo non sarebbe stato un vero salvataggio. La donna voleva salvarlo da tutto il male che c’era nel mondo, anche se Kajiro stesso era diventato il male. Voleva ricordarlo così come lo aveva visto la prima volta. Tremante e pauroso sotto la sua pistola.
Se quel mondo l’avesse risucchiato completamente, lui non avrebbe più potuto smettere e sarebbe finito seppellito sotto qualche masso o in una tomba senza nome.
Loro erano questo, ombre senza nome di cui si ci dimentica facilmente e lei non voleva più questo. Voleva rifarsi una vita e voleva abbandonare l’ombra e immergersi nella luce di una nuova esistenza.
Voleva farlo semplicemente per se stessa. Magari sarebbe tornata dal padre.
Kajiro le si era avvicinato talmente tanto da renderlo succube dei suoi occhi, ma al momento Reila non avrebbe fatto la marionetta per poi ucciderlo senza rimorso, perché al momento non aveva il totale controllo della situazione e lei odiava non averlo.
La mano libera dell’assassino era andata a lambirle una coscia, artigliandola fino a farle male ma Reila non emise un gemito. La toccava come se l’avesse bramata da tempo, tanto da volerle lasciare un impronta di sé. La mano salì sotto la pelliccia, senza scostare gli abiti e premeva sia con questa che con il suo corpo. Voleva immergersi in lei, voleva che lei sentisse quanto la desiderava e quanto al contempo odiava se stesso.
Kajiro aveva cominciato ad odiare se stesso quando aveva capito che non sarebbe riuscito ad eguagliarla. Voleva diventare proprio come lei era sempre stata nei suoi sogni, come una vedova nera che uccide i suoi amanti e non prova rimorso.
Il tocco di Kajiro si fece ancora più prepotente fino ad aggrapparsi prima al braccio dell’assassina e poi infine prenderle un seno e stringendolo con foga.
Fu in quel momento che Reila emise un singulto di dolore, fissando il suo sguardo in quello dell’uomo. Non durò molto e lo lasciò subito, senza stringere oltre.
In tutto questo la pistola era puntata sul costato dell’assassina e lei non poteva ribellarsi, altrimenti avrebbe segnato la sua fine.
-Voglio tenerti con me. Voglio che tu stia sempre con me.
Il respiro era affannato e pesante. L’uomo tuffò il viso tra i capelli della donna e infine sul suo collo, cominciando a lambire il pezzo di pelle che unisce il collo alla clavicola. Lo succhiò fino a prenderle l’anima e segnandola come una sua proprietà. La mano di Reila si era posata sul braccio dell’assassino e sentì che i muscoli erano tesi fino all’estremo. Forse se si fosse concessa avrebbe avuto più possibilità, ma Kajiro avrebbe previsto le sue mosse e avrebbe fatto di tutto per non farla arrivare né alla sua pistola né a quella dell’uomo.
 -Se vuoi sarà così.
La voce che Reila aveva usato era molto bassa, come a volerlo tirare ancora di più a sé. Kajiro respirò affannosamente sul suo collo e nuovamente la spinse contro il muro, facendole  male poiché sentiva ancora di più i mattoni sporgenti del muro dietro la sua schiena.
Le si era avvicinato alla bocca e l’aveva accarezzata con la mano libera, saggiandone la consistenza e la carnosità. Lo sguardo di lui era malato e cercava come di trattenersi dal prenderla e farla sua per l’eternità. La mano scivolò sul collo della donna e la  strinse fino a farle mancare per un attimo il respiro.
Le labbra di Kajiro la intrappolarono ancora di più, premendo sulle labbra di lei come se fosse l’ultimo bacio prima della morte. Un bacio possessivo che non aveva nulla a che fare con quelli che l’assassina ricordava. Stava cercando di stare al gioco, ma quando Reila chiuse gli occhi l’unica immagine che le venne davanti fu quella di Dmìtrij, che le lambiva le labbra, il problema era che lui  non l’aveva mai baciata in un modo tanto brusco.
Kajiro aveva lasciato leggermente la presa dal collo. Sulla pelle della donna cominciarono a comparire leggeri segni rossi. Reila aveva la tipica pelle che si macchia in fretta e anche il livido sulla coscia prima o poi sarebbe uscito fuori.
Lei aprì gli occhi di scatto. Non era possibile che dopo tutto questo tempo lei ancora pensasse all’uomo che le aveva fatto del male. Voleva semplicemente liberarsi di lui e più cercava di farlo più la sua vita iniziava a dissolversi in una manciata di sabbia.
Reila iniziò a ribellarsi e cercò di spingere il peso di Kajiro in modo da farlo indietreggiare. Lui rimaneva attaccato alla sue labbra e con un morso al labbro inferiore riuscì a staccarlo da lei.
L’assassina sentiva il sangue dell’uomo sulle labbra e Kajiro lo stava saggiando direttamente dalla sua bocca.
Improvvisamente sul volto di Kajiro si disegnò un sorriso. Uno di quelli di cui hai paura e che non da nessun conforto.
Reila aveva poggiato entrambe le mani sul muro dietro di lei e le sopracciglia si erano corrucciate in modo che denotassero tutto l’odio che aveva verso di lui.
Non era vero, anche se se lo ripeteva sempre e più volte. Non era mai riuscita ad uscire da quella vita, perché il suo problema era di non riuscire a provare pietà per la persona che gli stava di fronte. Non sapeva se fosse stata lei l’artefice di quel cambiamento nel ragazzo che aveva conosciuto qualche anno prima, ma sapeva che doveva eliminarlo per il solo gusto di farlo.
Ciò che Reila non si aspettò, invece, fu il pugno che l’uomo le assestò sulla mandibola. Il dolore fu lampante e fulmineo che, cadendo a terra, si sentì come stordita. La testa iniziò a girarle e ciò che riuscì solo a vedere, era Kajiro che si avvicinava.
No, non un’altra volta. Riuscì a pensare prima di svenire per il colpo ricevuto e sperando che si sarebbe svegliata in condizioni migliori di come si sentiva in quel momento.
Non per lei, ma per poter infilare una pallottola nella testa di Kajiro.


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Per saperne di più


Lubjanka(in russo Лубянка) è il nome con cui è noto un palazzo di Mosca, celebre per essere sede dei servizi segreti sovietici prima e russi poi. È un grande edificio con facciata di mattoni gialli, progettato da Aleksander V. Ivanov nel 1897, ed ingrandito da Aleksej V. Ščusev nel 1940-47.
La Lubjanka venne costruita originariamente nel 1898, come sede neobarocca della Compagnia di Assicurazione Rossija, divenuta nota per i bei pavimenti in parquet ed i muri verde chiaro. Dissimulando la propria mole, l'edificio non comunica un'impressione di scala enorme: singoli dettagli palladiani e barocchi, come i minuti frontali agli angoli e la loggia centrale, si perdono in una apparentemente infinita facciata classicheggiante, dove le tre fasce di cornicioni sottolineano le linee orizzontali. Un orologio è posto al centro della fascia superiore della facciata.
Nel 1918 fu occupato dai primi servizi segreti sovietici, la Čeka. La sede rimase poi stabile nonostante le successive evoluzioni dei servizi, da Čeka a GPU a NKVD a KGB, fino ad approdare all'FSB russa di oggi. La Lubjanka mantiene una fama sinistra, legata alle torture e ai crudeli interrogatori che si tennero al suo interno dal 1918 al 1956 e che ebbero il loro culmine in epoca stalinista.

Pietra Soloveckie
si trova sempre sulla piazza Lubjanka ed è un monumento dedicato alle vittime della repressione sovietica. La pietra proviene dalle isole Soloveckie ove fu allestito il primo campo di lavori forzati del sistema Gulag descritto da Aleksandr Solženicyn.

 


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Angolo dell'autrice


Cari lettori e lettrici, finalmente dopo poco meno di un mese, sono riuscita a postare questo capitolo.
Un capitolo particolare perché per la prima volta reila viene colpita e non da un semplice schiaffo, ma da un pugno che le provoca un vero knock-out.
Sono contro la violenza sulle donne, ma il problema che uomini come Kajiro esistono e purtroppo molte donne prendono botte dalla mattina alla sera. Vorrei solo che riuscissero ad avere il coraggio di parlare.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la storia.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 17
*** 17 - Sorpresa ***


02
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17 - Sorpresa


Aleksey non vedeva né sentiva George da ormai troppi giorni e, nella sua testa, già pensava al peggio.
In quell’albergo si sentiva in trappola e se George era stato già eliminato, non sarebbe mancato molto tempo prima che andassero a prendere anche lui.
Nella cassaforte della camera gli era stata lasciata una pistola con una scatola di proiettili e sicuramente non era stato né per caso e né per la sua fortuna che ultimamente sembrava lo avesse abbandonato. Quel russo era un uomo che pensava a tutto, a differenza di come poteva apparire alla gente.
Aleksey era rimasto troppo tempo a guardare dalla finestra della sua indifferenza quel mondo che dapprima l’aveva acclamato come un eroe e poi gettato nel fango. L’unica parte che cercava di rimanere integra e sana ai suoi occhi era una specie di redenzione con l’aiuto di quella figlia che ormai era distrutta come lui.
Il pensiero a Reila gli andava ogni qual volta pensava ad Alexandra e ultimamente gli capitava molto spesso. Era come un martello che batteva in continuazione e sempre in quel punto, come se improvvisamente la vita meravigliosa passata con Miori fosse solo stato un bel sogno dal quale si era svegliato ormai da troppi anni.
Senza rendersene conto aveva infilato la pistola carica dentro la fondina interna attaccata alla cintura dei pantaloni. Aveva svuotato la cassaforte che conteneva tutto ciò che gli serviva per passare inosservato all’interno di quella città che gli aveva tolto tutto e si era voltato verso la porta. Ebbe infine un ripensamento.
Aleksey si era avvicinato alla finestra, provato e affranto. Posò la testa sulla vetrata e puntò gli occhi su un punto indefinito fuori, verso la strada. Non riusciva neanche più a vedere, ma si limitava a guardare. Dalla sua bocca era uscito un alito di fiato che si era condensato sul vetro.
Per la prima volta, con l’indice di una mano, aveva avuto il coraggio di scrivere l’iniziale del nome della donna che lo tormentava. Non voleva tornare in Russia, ma vi era stato costretto dal destino. Con quale faccia avrebbe potuto guardare la figlia e dirle che Miori non era stata la donna sempre presente nei suoi pensieri?
Era tutto così difficile e ne comprendeva l’intensità del momento. Avrebbe voluto rivedere Reila, anche per stringerla a sé come faceva quando era piccola; avrebbe voluto dirle tantissime cose, ma era il coraggio che, sapeva, gli sarebbe mancato nel momento cruciale.
Quel flusso di pensieri era stato interrotto da un bussare incessante alla porta e ciò che gli fece sentire un brivido secco alla schiena era che nessuno doveva sapere che lui si trovasse lì.
Aleksey si era avvicinato di soppiatto alla porta, cercando di intravedere dallo spioncino chi potesse essere, ma era stato oscurato, forse con una mano. Aveva preso un profondo respiro e si era nascosto di fianco alla porta, in attesa.
Non era un novellino e sapeva ben mantenere il respiro basso e calmo, non come sentiva dall’altra parte; troppo concitato dato dalla giovane età e poca esperienza.
Non si era mai sentito al sicuro da quando era partito dalla Russia per tornare in Giappone, ma si era considerato colpevole della morte di Alexandra. Sentiva il peso di un omicidio che aveva commesso, anche se non l’aveva mai spinta materialmente da quella balconata.
In quell’istante il pensiero di non riuscire nel suo intento cominciò a farsi strada nella sua testa perché, anche se la sua esperienza gli sembrava una corazza, si sentiva inadatto e vecchio per quel tempo che lo stava divorando o magari era solo il suo corpo che non reggeva più i nuovi sforzi e le nuove sfide. Aleksey stringeva la pistola convulsamente e che non usava ormai da troppo tempo. Aveva perso per alcuni istanti il contatto con la realtà confondendola con i ricordi.
Gli uomini là fuori si stavano dando da fare per scassinare la porta, ma perché darsi tanta pena per lui?
Dopotutto non era una pedina così importante e non costituiva una minaccia particolarmente attiva.
Il russo aveva ricominciato a respirare tranquillamente e aveva tratto un profondo sospiro, cercando di essere il più silenzioso possibile e poi infine il colpo di pistola con silenziatore verso il dispositivo della chiave elettronica che fece scattare tutti i suoi nervi come se fossero all’unisono.
Il primo non fu un problema eliminarlo, attese che nella penombra, all’apertura della porta, entrasse nel suo campo visivo e il colpo partì in un millesimo di secondo. Forse l’uomo non se ne era neanche accorto.
Il problema erano gli altri due.
Aveva cominciato a sentire i colpi di pistole sfiorargli la testa e le spalle mentre cercava un riparo. Rovesciò, in un impeto di furia, il tavolo da pranzo della suite, nascondendosi dietro di questo per ovviare almeno alle prime pallottole.
Aleksey si era rannicchiato come un bambino dietro il tavolo e aveva lasciato sporgere solo la mano per farsi un po’ di copertura e mettersi almeno in ginocchio. Purtroppo la sua stazza non gli permetteva una protezione ottimale e cercò di chinare il capo il più possibile. Sparò altri due colpi di copertura e ormai doveva lesinare sulle pallottole per cercare di eliminarli entrambi. Non aveva il tempo di ricaricare il caricatore e troppo poco tempo per cambiarlo.
Le altre pallottole erano nella borsa, sul letto.
Il russo si sporse appena dal bordo del tavolo per vedere almeno la posizione dei due killer. Uno era dietro la colonna in marmo in fondo alla camera – non distava neanche quattro metri – e l’altro dietro il divano. Almeno fu quello che riuscì a vedere prima che altre pallottole gli sfiorassero la testa, costringendolo a chinare di nuovo il capo. Nel silenzio che si era creato, per il ambio del caricatore di uno dei due sicari, trovò il suo momento contro uno degli avversari.
C’era stato un attimo di silenzio e forse l’altro si era distratto per qualche istante. Il momento giusto in cui Aleksey puntò l’arma verso uno dei due e sparò. Lo prese in testa e quello morì sul colpo. Ma da quel posto si doveva spostare, tanto che individuò un’ansa che il muro faceva proprio accanto a lui.
Rotolò velocemente verso quest’ultima approfittando del momento di confusione che l’altro killer aveva avuto. Si acquatto per qualche istante dietro il muro e prese un profondo respiro, accostandosi la pistola al cuore. Si sentiva rinascere, non pensava che quel mondo gli sarebbe mancato come in quel momento.
Aveva l’adrenalina che gli scorreva nelle vene. Si sentiva completamente distante e assolutamente invincibile. Era così che si sentiva un assassino che faceva quel lavoro per vivere?
Aleksey aveva preso un altro profondo respiro, fino a sentire i polmoni saturi di aria e di polvere da sparo. Non si era nemmeno accorto di non essere completamente coperto in quell’ansa.
Un proiettile gli aveva trapassato la spalla e la pallottola non era fuoriuscita dall’altra parte.
Non ne sentiva il dolore o il sangue che scorreva lungo la schiena. Vedeva solo il bersaglio, l’obiettivo dell’uomo che gli aveva appena sparato.
Solo poco dopo era sopraggiunto il dolore. Proprio quando aveva alzato la pistola per colpire l’ultimo uomo e cercare di recuperare gli altri proiettili posti sul letto. Aveva preso la mira e il quel momento la forza gli venne meno a causa della ferita alla spalla. Proprio quella con cui sparava e tenderla gli provoco uno spasmo che gli fece deviare il colpo un po’ più in basso da dove aveva mirato.
La mano sinistra era solo un impaccio con un’arma e non poteva usarla. Eppure, anche sbagliando, aveva colpito l’ultimo sicario a un fianco e, benché ferito, aveva perso l’arma, scivolata chissà dove, e cominciava a perdere sangue tanto da vedere subito una pozza sotto di lui. Forse gli aveva colpito la milza o lo stomaco.
La morte sarebbe stata più dolorosa rispetto agli altri due killer, ma almeno Aleksey era libero di poter scappare. Al momento, la sua preoccupazione maggiore era togliere il proiettile dalla sua spalla altrimenti avrebbe fatto infezione e la spalla sarebbe andata in cancrena.
Questo non se lo poteva proprio permettere.
Pose la pistola nella fondina con molta cura, incurante dei lamenti di sofferenza dell’assassino dietro di lui. Recuperò velocemente la giacca e la borsa con i proiettili e saettò verso l’uscita della camera. L’assassino rimasto non aveva neanche fatto in tempo a recuperare l’arma che Aleksey era già sparito.
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Aleksey aveva camminato molto e non sapeva neanche quanto tempo era passato.
A chi poteva rivolgersi adesso per aiutarlo a superare questo ostacolo?
Fortunatamente il proiettile aveva iniziato a fare da tappo e il sangue usciva pian piano, ma ogni volta che muoveva la spalla gli strappava un’imprecazione e un rantolo strozzato.
Non c’era moltissima gente in strada, ma troppa se nel caso il sangue avesse iniziato a gocciolare sul marciapiede. Doveva cercare aiuto, ne aveva assoluto bisogno e da solo non avrebbe potuto concludere un’operazione così invasiva. Avrebbe potuto solo far andare il proiettile più in basso rispetto a dove si trovava adesso e poi il tutto sarebbe stato irrimediabile.
Andare all’ospedale era fuori discussione, avrebbe dovuto dare troppe spiegazioni.
Gli serviva solo qualcuno che non avrebbe fatto tante domande. Un medico in pensione dell’Armata Rossa che era stato di stanza con lui in Siberia e del quale era sicuro di potersi fidare ciecamente. Nessuno sarebbe arrivato a lui.
Solo Semyon avrebbe potuto aiutarlo, sperava solo che vivesse ancora lì. Doveva trovare un taxi al più presto, visto che questo medico viveva nella periferia più a sud della città.

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Semyon era seduto comodamente sulla sua poltrona con la moglie che preparava la cena. I figli si erano già sposati, sia Prokhor che Rem ormai avevano costruito una famiglia, così come un brav’uomo doveva fare e Semyon era rimasto solo con la moglie a trascorrere la vita da nonni e da sposini novelli.
L’uomo aveva servito fedelmente nell’Armata Rossa fino al congedo e dunque godeva di un buon vitalizio da condividere con sua moglie, Anna.
Ancora non aveva idea che la sua vita sarebbe stata talmente scossa da fargli ricordare i tempi della Guerra Fredda, quando erano sempre tesi per un attacco americano.
Al momento teneva la sua copia del Rossijskaja Gazeta” davanti al volto. In quel periodo si parlava molto della politica attuale, ma Semyon non vi si ci soffermava più di tanto. Ormai, da bravo soldato, seguiva il presidente senza obiettare. Voleva solo finire i suoi giorni con i suoi nipoti e la sua bella moglie. Quello che gli interessava erano le notizie dal mondo.
Semyon aveva messo gli occhiali da lettura visto che da qualche tempo che non ci vedeva bene come un tempo. I suoi capelli non aveva perso la loro foltezza, si erano solo ingrigiti un po’.
Quando sentì il campanello suonare, non poté far altro che sollevare appena lo sguardo dal giornale con piglio interrogativo.
Chi poteva essere a quell’ora?
-Vado io.
L’uomo non fece scomodare la donna che gli rispose che le andava bene. Stava trafficando tra i fornelli e chissà quale manicaretto stava preparando. L’uomo già si leccava i baffi e a dire la verità, aveva l’acquolina in bocca.
Un altro trillo del campanello lo fece sobbalzare. Impugnò il bastone che gli serviva per camminare. Quella ferita che aveva subito durante una battuta di caccia lo aveva lasciato zoppo e la gamba destra cominciava a non essere più quella di una volta. Ormai, dell’uomo che faceva paura al sol guardarlo, non era rimasto quasi niente.
Gli occhi color nocciola si erano spostati verso la porta che raggiunse dopo qualche istante. Alzò il coperchietto dello spioncino e ci guardò attraverso. Chissà perché quasi non gli venne un colpo.
Perse almeno due battiti del cuore e trattenne il respiro per qualche istante, prima di aprire al terzo trillo e al bussare delicato dell’uomo dietro la porta.
Aprì la porta e tutto quello che ebbe da dire fu solo il nome dell’uomo.
-Aleksey!
Il russo entrò all’interno della casa, quando l’amico si scostò dall’uscio per farlo entrare. Proprio in quel momento nella stanza entrò Anna, inconsapevole di ciò che stava succedendo. Tutto quello che fece la donna e quello che poté vedere Aleksey furono le mani davanti alla bocca di Anna e Symion che tentava di spiegare la situazione. Poi Aleksey cadde a terra svenuto e in balìa degli eventi.
Invece in un altro angolo della città, nei sobborghi di Mosca, in una fabbrica abbandonata, Reila attendeva legata ad una sedia il momento della sua vendetta.

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Rossijskaja Gazeta Il quotidiano ufficiale del governo della Federazione Russa, fondato nel 1990. Oltre ai principali fatti di cronaca nazionali e internazionali, economia, cultura e sport, pubblica anche i testi integrali delle leggi promulgate dal parlamento della Federazione Russa. Tiratura 180 mila copie.

yin yang vettore

Angolo dell'autrice


Cari lettori e lettrici, sono davvero senza speranze. Purtroppo ho passato un periodo dove qualsiasi cosa che scrivevo non mi piaceva e quindi ho deciso di prendermi una pausa dalla scrittura.
Solo che questa pausa è durata più del previsto. Non ho scusa e spero che ci sia ancora qualcuno che legga questa storia, anche perché ho promesso che la porterò a compimento. Mi ci volessero anche dieci anni. (Ma spero di non metterci tutto questo tempo).
Qui vediamo il padre di Reila in azione. Finalmente direte voi, visto che di azione se ne è vista veramente poca. Spero che riuscirete a perdonarmi anche dopo questa lunga assenza. Non posso far altro che dirvi che nei prossimi giorni aggiornerò con il capitolo diciottesimo.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la storia.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 18
*** 18 - Karina ***


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18 - Karina


Rostov Velikij
 
George era comodamente seduto sul sedile della limousine e osservava Karina con un misto di curiosità e timore. L’uomo aveva accavallato elegantemente le gambe e aveva poggiato un braccio sulla coscia. Il suo atteggiamento cercava di farlo apparire per quello che al momento non era: tranquillo.
Karina, di tutta risposta, aveva sfoggiato il più ammiccante dei sorrisi e lo dirigeva sia verso il marito che verso un punto imprecisato di fronte a lei. Era di questo che bisognava aver paura e il marito lo sapeva bene; di quello che pensava e delle idee che le arrivavano come lampi a ciel sereno. C’era da aver paura di ciò che lei rappresentava e di quello che poteva fare a una persona soltanto guardandola negli occhi.
Il russo non si sentiva mai al sicuro vicino a lei e cercava in tutti i modi, ogni volta, di apparire sicuro di sé e impavido, ma andando avanti con il tempo stava diventando sempre più difficile e arduo, soprattutto da quando stava cercando di complottare contro di lei. George voleva assolutamente uscire da quella situazione e l’unico modo, più consono e facile, era quello di uccidere la moglie e farlo sembrare un incidente. Proprio per questo aveva chiesto qualche mese prima l’aiuto di Reila per quel lavoro.
Era da quel momento al tempio che né la sentiva e né la vedeva, il problema era che ancora sentiva il suo profumo sulla pelle. Se con Karina ci fossero state altre circostanze e altri modi, forse avrebbe potuto provare davvero qualcosa per lei. Ma non così, non obbligandolo a fare ciò che avrebbe voluto evitare come la peste. Il matrimonio forzato.
Se ne rendevano conto entrambi che così non poteva funzionare, ma almeno ad uno di loro faceva comodo quella situazione, solo che questa condizione cambiava sempre e a volte di trovavano d’accordo entrambi su questo scambio.
-Avanti George, non essere preoccupato. Non ti fidi di tua moglie?
George l’aveva guardata e per un attimo aveva pensato a qualcosa. “Beh, certo che no.” Ma non lo aveva espresso né con la bocca e tantomeno con il viso. Era stato impassibile, come aveva imparato a essere in quegli ultimi anni.
-Dove stiamo andando?
La donna aveva sorriso senza voltarsi a guardarlo. Che cosa bolliva in pentola?
Sicuramente qualcosa di troppo grosso da essere soltanto pensato. Non riusciva a carpire alcuna informazione dal volto di lei e George aveva subito pensato di aver fatto un enorme errore a seguirla. Si sentiva come un topo in trappola, in attesa che il gatto lo divorasse. Anche se non si poteva notare, aveva il battito accelerato e il suo cuore non voleva in alcun modo accennare a smettere.
Era preoccupato?
Forse sì o curioso di sapere cosa la moglie nascondesse da essere così riservata al riguardo.
La strada che l'auto stava percorrendo non gli era familiare. La neve continuava a scendere e aveva ricoperto ormai tutte le alte guglie delle chiese, ma ancora si temeva il peggio. Sarebbe stato l’inverno più freddo degli ultimi anni e non solo per il corpo che ne cominciava a sentire gli effetti, ma anche per la testa e per il cuore delle persone che vivevano lì.
Lo sguardo di George era annebbiato, così come le luci soffuse che illuminavano le strade e la sua mente in un continuo movimento, ma ciò che ci passava non si poteva propriamente considerare positivo. Aveva una certa apprensione cui non riusciva a dare un nome e si sentiva come in una morsa di ferro che gli stava stritolando le ossa.
-Non essere nervoso.
Karina aveva allungato una mano sul sedile e aveva stretto quella dell’uomo, ma non vi era calore nel gesto. Solo una cruda e triste realtà. Quella che ancora George doveva scoprire.
 
Erano passate più di due ore e nell’auto vi era un’aria pesante e irrespirabile. Non si erano detti poi molto e il silenzio era calato come il sipario nella fine di un atto.
Il luogo dove erano diretti – ora George poteva vederlo bene – era una delle vecchie case in disuso della famiglia di Karina. Lasciata in completo disfacimento, si trovava sulle colline intorno a Rostov Velikij, da dove si godeva di una magnifica vista sulla città.
Com’era diversa dalla capitale. Il Cremlino non somigliava per nulla a quello di Mosca, quella della sua città natale dimostrava un fascino quasi irreale, anche se le guglie e i colori erano simili a quelle della capitale.
La neve aveva ricoperto tutto. Aveva fatto un tappeto morbido su cui posare i piedi e dove nascondere la polvere quando non si sa dove buttarla.
George scese dall’auto, fermatasi nel cortiletto lasciato a morire della casa e sotto la morsa del gelo. Si sistemò il proprio colbacco sulla testa che sollevò poco dopo verso il tetto della casa. Fatiscente e tetra, una casa che potrebbe dare l’impressione di essere abitata da spiriti tormentati.
L’uomo si strinse dapprima il cappotto pesante intorno a corpo e poi, pian piano, si diresse verso la moglie che lo attendeva dall’altro lato della macchina per aprirle lo sportello. La galanteria stava per scomparire ma in quei pochi attimi, gli uomini davano prova di sé, lasciando sognare ogni tanto le donne che speravano in una ricaduta del romanticismo. Ma non c’era amore in quei gesti studiati, né nelle parole dette e sussurrate o nelle ore trascorse a unirsi tra le lenzuola di seta.
No, quello non era il tempo dei sentimenti puri. C’erano solo odio e rimorso di una vita che non si poteva vivere appieno.
George aprì lo sportello e Karina uscì, avvolgendosi nella sua pelliccia che teneva il freddo lontano. Ciò che temeva era la reazione del marito a tutto quello che voleva mostrargli. Non sospettava minimamente che l’uomo la stava tradendo, tramando contro di lei. Voleva renderlo partecipe del suo progetto. Sapeva bene che c’era una spia, ma il problema era stato relegato ad Alexander che se ne stava occupando egregiamente.
George guardò il volto della moglie e vi posò un leggero bacio sulla guancia. Labbra e viso erano freddi come gli sguardi che si erano scambiati fino a quel momento.
Karina di rimando prese la mano di George e la strinse nella sua. Cominciò a camminare sul vialetto disfatto, mentre l’autista sistemava l’auto in una zona più riparata. La neve continuava a scendere e le loro scarpe lasciavano impronte che da lì a poco sarebbero state cancellate. I fiocchi di neve si attaccavano alle loro ciglia, rendendo la visuale più difficoltosa.
La donna non riusciva bene a descrivere ciò che pensava in quel momento. Era in completo contrasto con se stessa. Era giusto o sbagliato far conoscere il lavoro di una vita all’unico uomo che amava e che sperava in tutto il suo piccolo cuore di essere ricambiata?
Soprattutto fargli conoscere un lavoro ancora incompleto, un progetto che avrebbe potuto cambiare le sorti della Russia stessa.
La donna temeva troppe cose e non era mai sicura di riuscire quando si parlava di George. Non riusciva bene a ragionare quale fosse la cosa più giusta da fare.
-Ora vedrai qualcosa alla quale non potrai credere.
La voce di Karina era concitata. Felice si poteva dire.
Si infilò infatti in una delle gallerie che portavano dietro la casa, ma a metà di questa bussò ad una porta e lì entrarono. Il cuore della donna era affannato senza fare alcuno sforzo. Emozione si potrebbe chiamare. Tutto ciò che non riusciva mai a mostrare né con le parole e né con i gesti erano proprio le cose che stava provando al momento e ne era impaurita. Voleva sembrare forte, ma la verità era che aveva paura di se stessa e dunque appariva severa e brutale.
-Perché tutto questo riserbo?
-Perché è una cosa così eccezionale che non tutti potrebbero comprendere.
Era stata una risposta rapida e detta sottovoce.
Avevano cominciato a scendere delle scalette di metallo, almeno a quanto si sentiva dal rumore che provocavano i tacchi della donna. Era buio pesto e non si vedeva al di là del proprio naso.
Karina sentiva il respiro di George ed ebbe un battito mancato al cuore. Lo sentiva leggermente affannato e non ne comprendeva il motivo. Se solo avesse saputo ciò che George voleva farle, avrebbe ripensato a tutto ciò che gli aveva dato e che provava. Ma chissà se sarebbe riuscita a dimenticare l’amore profondo che provava per lui.
Se non fosse stato per delle luci di emergenza lungo il percorso, avrebbero potuto inciampare e cadere ma Karina ormai sapeva il percorso a memoria. Anche se distratta dai pensieri, il percorso avrebbe potuto farlo anche bendata e a ritroso.
Appena raggiunta una certa profondità, sotto le salde e antiche fondamenta della casa, si aprì una porta blindata e la luce all’interno quasi li accecò. Dovettero entrambi socchiudere gli occhi e attendere alcuni istanti che gli occhi riprendessero la loro naturale funzione.
Appena George aprì gli occhi, spaziò con lo sguardo. Lo spostò verso Karina che aveva un sorriso raggiante, come una bimba con il nuovo giocattolo che desiderava da una vita.
Davanti a lui si aprì un mondo sconosciuto, fatto di alambicchi e provette. Strinse due volte gli occhi per riprendere l’abitudine alla luce e se li strofinò leggermente. Tolse i guanti foderati in pelliccia pian piano, cercando di rendersi conto di dove si trovava.
L’ambiente era riscaldato e non c’era neanche bisogno dei cappotti e delle pellicce. Aveva sollevato il capo osservando l’intricato condotto di areazione che purificava l’aria all’interno del sotterraneo. Che peccato che fosse così bianco e asettico. Metallo dappertutto che lasciava uno strano brivido lungo la schiena. Decine di persone si affannavano avanti  indietro con cartelline in mano e camici bianchi, come i dottori degli ospedali.
Non sentiva alcun odore e tutto era così candido da farsi sorprendere per qualche istante. Non sentiva neanche le voci concitate che si avvicinavano a Karina e non sentiva null’altro che un leggero fischio dentro le orecchie.
-Ci siamo quasi.
Karina si era voltata verso uno degli scienziati che aveva parlato. Aveva afferrato quell’unica frase che spiegava tutta la sua titubanza. Un largo sorriso le si disegnò sul volto. Dopotutto sentiva una gran gioia dentro se stessa da non poterla contenere.
-Voglio sapere tutti i risvolti. Fino a qualche giorno fa non sapevate neanche da dove cominciare.
Lo scienziato, un po’ canuto, aveva abbassato lo sguardo per qualche istante sulla cartellina dove molto probabilmente aveva inserito tutti i dati raccolti.
-Non pensavamo che mischiando alcuni elementi, provati già in precedenza, avrebbero dato il risultato sperato. L’invisibilità del prodotto c’è, la letalità pure. Abbiamo creato l’arma perfetta.
Alla donna non poterono non allargarsi gli occhi alla notizia e tutto ciò cui aveva creduto si stata pian piano trasformando in realtà. D’altro canto George, proprio accanto a lei, iniziava a prendere un po’ coscienza di ciò che stava succedendo. Un arma chimica capace di uccidere milioni di persone. Il problema non era quello, visto che nel mondo ce ne erano di peggiori, il problema era che avveniva tutto sotto i suoi occhi e non era minimamente a conoscenza di questo passatempo della moglie. Se così gli era lecito chiamarlo.
-Vieni. Ti faccio vedere una cosa.
Lo stava tirando da una manica e non se ne era proprio accorto. Lo sguardo vagava in quel luogo privo di vita e bianco quasi da accecarlo.
-Cosa stai facendo, Karina?
Sembrava una predica di un padre quelle parole che erano fuoriuscite dalla bocca di George e che alla donna erano sembrate come tali, ma cercò di evitare commenti acidi o qualsiasi spiegazione sarcastica.
-Possibile che tu non te ne accorga? Qui stiamo creando il futuro di un paese libero e indipendente.
-Stiamo parlando della nostra Patria? La Santa Madre Russia? Voglio ricordarti che non vi è mai stato uno stato indipendente e libero qui, ma solo una dittatura spietata. Credi che con questa rivoluzione che tu vuoi fare, risolveresti i problemi della nostra gente?
George aveva mantenuto un tono abbastanza basso, perché erano solo loro due a discutere senza inserire i vari scagnozzi e gli scienziati al lavoro. Ci fu un attimo si silenzio e poi George continuò.
-Con chi ce l’hai, Karina? Con l’America? Con il Giappone? Contro quale grande potenza tu vorresti intentare una guerra batteriologica?
La donna era rimasta per qualche momento interdetta, senza sapere che cosa rispondere. L’aveva taciuto a tutti, perfino a lui e quando aveva deciso di rivelarglielo, lui che cosa sapeva ben fare? Criticarla?
-Tu non sai quello che stai farneticando. Qualcuno deve pur liberare questa terra dal dominio del mondo. Siamo soggetti agli altri e questo non dovremmo permetterlo.
La russa aveva stretto le mani e i denti avevano cozzato tra loro in un moto stizzito. Possibile che non riuscisse a capire il suo progetto? Possibile che non riuscisse a comprendere ciò che lei voleva dare alla sua Russia?
Difendere quello che di buono era rimasto.
-Guarda. Non riesci proprio a vedere?
Karina aveva mosso qualche passo verso lo scienziato che le aveva chiesto di seguirlo. Voleva davvero far comprendere al proprio marito ciò che di buono c’era nel suo progetto. Semplicemente voleva la sua approvazione e mentre l’uomo anziano spiegava tutti gli esperimenti che erano stati condotti all’interno del laboratorio, la donna cercava di far capire a George ciò che voleva che succedesse.
-No, George. Non voglio attaccare nessuno di questi paesi. Comprendi che con l’America non abbiamo motivo. È da dopo il secondo conflitto mondiale che abbiamo intentato una guerra fredda contro di loro e non è ancora finita, pensi che voglia scatenare un vero e proprio collasso del pianeta? Non ho niente da ridire su alcun paese, io voglio dare un esempio al nostro.
George trattenne il fiato per qualche istante.
-Tu sei impazzita. Vuoi uccidere milioni di innocenti per il solo gusto di fare cosa?
-Voglio che la Russia si risollevi, George. Voglio che veda una nuova alba. Voglio che ritorni a essere la grande potenza che era un tempo e il nostro governo ha bisogno di essere spronato.
L’uomo non credeva alle sue orecchie. Mai avrebbe pensato che sua moglie volesse tentare una guerra contro i sui stessi simili. Ma ciò che lo rese alquanto destabilizzato fu il vedere la simulazione di ciò che quel gas poteva fare.
-Cerca di ripensarci, Karina. Non commettere errori che potrebbero costare più della tua stessa vita.
La donna era completamente sorda alle parole di George. Era amareggiata poiché lui non riusciva proprio a capire la sua veduta. Era sempre stato vero, lui non aveva mai avuto la mente aperta e non vedeva il mondo sotto la luce che lo vedeva lei. Stava cominciando a pensare che fosse proprio lui la spia verso la quale Alexander l’aveva messa in guardia.
Era un progetto che non poteva più aspettare, poiché i servizi segreti americani stavano cominciando a ficcare il naso un po’ troppo in quella faccenda e se avessero scoperto ancora qualcosa, il declino della sua famiglia e la sua morte non l’avrebbe evitata nessuno.
Karina sapeva che era rischioso, ma voleva tentare lo stesso. Non lo faceva per lei, ma per il suo stesso paese.
Karina guardava le cartelle che le venivano mostrate e annuiva decisa sul da farsi.
-Secondo te a chi attribuirebbero l’attacco?
George cominciava a essere un po’ nervoso e al suo posto chiunque lo avrebbe fatto, ma la moglie non lo ascoltava. Rimaneva completamente sorda.
-L’unica pecca di questo gas è che a contatto con l’aria si dissolve e diventa innocuo. Dobbiamo metterlo nelle fonti idriche della città.
Colui che aveva parlato era lo scienziato a capo di tutto il progetto. A quanto aveva sentito George era uno dei migliori in questo campo, ma pazzo quanto Karina, per questo aveva perso completamente la cattedra all’università. Proprio non riusciva a ricordare come si chiamasse.
Vedendo che la donna non gli rispondeva, George le si avvicinò.
-Non sarò mai con te in questo progetto. Sei una pazza.
Karina allargò gli occhi per lo stupore. Non se lo sarebbe mai aspettato dalla persona che amava più di se stessa. Non avrebbe mai pensato che il suo progetto sarebbe stato così denigrato dall’unica persona che voleva vicino in quel momento. Assottigliò leggermente gli occhi, trattenendo a stento una lacrima che stava per uscire e chiamò le guardie.
-Chiudetelo nel mio ufficio.
La voce risultò ferma e sprezzante.
-Pensavo fossi stato con me.
E mentre la donna parlava, quattro uomini alti e piazzati presero George dalle braccia mentre l’uomo si dimenava e cercava di liberarsi come poteva. Lo vedeva sporgersi verso di lei in un inutile tentativo di strozzarla, ma lei vide solo il suo amore e la sua lealtà verso di lui venire meno, come le stavano venendo meno le forze. Cercò di lottare contro il suo stesso cuore e fu in quel momento che, conscia del ghiaccio nel petto, di barricarsi ancor più dentro la sua pazzia e decise di non cedere. Rimase lì ferma mentre il marito veniva trascinato verso l’ufficio e che le gridava di ripensarci, di rinsavire.
-Non sono mai stata più convinta in vita mia. Ti farò vedere che questo mio progetto sarà proficuo per la nostra nazione.
E dopo il trambusto e le urla che ancora si sentivano di George, Alexander stesso fece il suo ingresso all’interno della sala, dove tutto era ritornato alla normalità. Era poco più basso di Karina, ma dovette comunque sollevare di poco quello sguardo color nocciola verso il viso della russa.
-Abbiamo trovato la spia. Ha parlato.
Gli occhi della donna ebbero un guizzo e finì con il portare la completa attenzione verso l’americano, ormai adottato dalla Russia. Non si soffermò sul suo collo taurino o sulla sua stempiatura, ma sulle sue labbra.
-Ha parlato e ha indicato tuo marito come il mandante.
Tutti i castelli della russa crollarono e il cuore perse un battito. Quell’ultimo battito che ancora c’era per il marito.
-Ottimo lavoro, Alexander.
E lo congedò velocemente. Di George se ne sarebbe occupata lei stessa.

 

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Angolo dell'autrice


Ed eccomi di ritorno con questa storia. Purtroppo non sono una persona costante e a volte mi perdo in picole cose che purtroppo non riesco a risolvere in tempi brevi e tutto qesto mi toglie il tempo per scrivere e coltivare le mie passioni. Con questo non voglio assolutamente giustificarmi e anzi comprendo se molti di voi si sono stancati di seguirmi e di leggere questa storia. Credetemi su una cosa, però, la porterò alla fine poichè ho ancora tantissimi progetti da portare avanti e tante storie incomplete da rivedere e continuare. Non vi prometto niente da qui a questa parte, ma spero che, anche se sono una persona molto incostante, riusciate a seguirmi lo stesso, sperndo che non passerà così tanto dal prossimo capitolo come è successo con questo.
Dunque a presto (speriamo) con il prossimo capitolo.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la storia.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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Capitolo 19
*** 19 - Prigioniera ***


02
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19 - Prigioniera


Mosca
 
Era legata, imbavagliata e la situazione, che si stava ripetendo ormai troppe volte, stava risultando esasperante per l’assassina. Si era svegliata, ma il dolore alla testa non era cessato neanche dopo aver sicuramente dormito un’eternità o almeno così le era sembrato. Aveva le mani legate dietro la schiena e le spalle erano dolenti, riusciva a malapena a muoverle e i muscoli intorpiditi le lanciavano una scarica di formicolio che si irradiava per tutto il braccio. Non sapeva da quanto tempo era seduta e in quella posizione, ma sentiva freddo e aveva le mani gelide.
Dalle finestre rotte poteva ben vedere che era giorno, ma ancora la vista doveva mettere a fuoco ciò che la circondava. Le sembrava che le fosse passato sopra un rullo compressore.
Era sola al momento e scosse la testa per riprendere un po’ le facoltà perse. Sicuramente era stata drogata, perché non le sembrava affatto di essere intorpidita e stordita solo dal freddo.
Almeno Kajiro aveva avuto la buona coscienza di lasciarle una stufa con cui scaldarsi, anche se le stava arrostendo le gambe.
La donna sfiorò anche le proprie labbra con la lingua, sentì un profondo taglio e il sapore ferroso del sangue. L’unico pensiero che al momento la teneva cosciente era che gli avrebbe fatto pagare un caro prezzo per quel pugno, infatti senza accorgersene aveva digrignato i denti.
Non riusciva a capire bene dove si trovasse, ma riusciva bene a capire, dai rumori che provenivano dall’esterno, che doveva essere non lontana dal posto in cui l’aveva tramortita.
Un rumore improvviso di passi la fece trasalire dai suoi pensieri e voltare lo sguardo verso l’uomo che era appena entrato. Rinchiuso nel suo cappotto foderato in pelliccia, Kajiro le si avvicinò lentamente senza degnarla di uno sguardo, ma cercando di spostare la sua attenzione altrove. L’uomo sperava che fosse lei ad iniziare il discorso e un profondo silenzio ovattato dall’esterno, si era creato tra loro.
Gli occhi dell’uomo ricercarono infine quelli di lei. Non riusciva assolutamente a non guardarla e non sapeva come si riuscisse a restare impassibili davanti a Reila. Le di avvicinò, senza distogliere lo sguardo da lei.
-Non capisco come facciate a resistere a questo freddo.
Era così, per rompere il giaccio che aveva pronunciato la frase. Kajiro voleva sembrare impassibile davanti a lei, come se non gli importasse nulla; come se non gli provocasse nulla sul basso ventre.
L’uomo la guardava con quella malizia che non si preoccupava di nascondere e Reila sapeva bene o sperava di sapere ciò che passasse nella testa dell’assassino. L’uomo aveva lo sguardo da fiera e ciò che la spaventava a volte era il non sapere cosa le sarebbe successo.
Reila infine pensò che, dopotutto, morire non sarebbe stato una brutta cosa, avrebbe solo smesso di soffrire e di patire quella vita che stava diventando troppo stretta per lei. Aveva preso un respiro talmente lungo, da riempire i polmoni fino all’orlo.
Ma era da lei abbattersi a quel modo?
Arrendersi così, senza mostrare difesa ma soltanto mettere il collo in mostra in attesa di una lama? Sentiva freddo, ma non solo nel corpo, ma direttamente nel cuore e nella mente. Sentiva che tutto cominciava a girare anche senza di lei e che il mondo sarebbe stato un mondo migliore. Guardava il suo migliore esempio di buon cuore davanti a lei, trasformatosi in ciò che la donna avrebbe voluto evitare.
-Dovresti esserci abituato.
Aveva risposto secca, senza alcuna inflessione. Era stanca e il pensiero di dover macinare qualcosa nella mente per rispondere a tono la rendeva ancora più spossata. Legata com’era non riusciva neanche a muovere le mani dal freddo e il suo corpo era intirizzito talmente tanto da rispondere in ritardo agli stimoli.
Kajiro era invece avvolto in un cappotto foderato di pelliccia e sembrava non patire quel freddo di cui tanto si lamentava. I tratti non si erano ammorbiditi dall’ultima volta che l’aveva visto, ma anzi erano diventati più taglienti e scuri.
-Devi darmi un sacco di spiegazioni, quindi dovrai stare qui con me per molto tempo.
Reila aveva sollevato il capo, gli occhi semichiusi e la bocca sistemata ad esprimere la sua indignazione. Non riusciva neanche a fingere di provare compassione per lui.
-Per che cosa? Per il freddo che senti? Non c’è rimedio per quello.
La voce della donna era un semplice rantolo. Si sentiva come svenire di nuovo. Sicuramente le aveva dato qualcosa, una droga per sentirsi a quel modo.
-Ah, quasi dimenticavo. Ti ho iniettato del siero della verità, ma vedo che ancora non fa effetto.
Reila mostrò le labbra in un sorriso sbilenco.
-Sono stata addestrata per questo.
Detto questo le si annebbiò completamente la vista, scosse il capo ma le immagini cominciarono a farsi più confuse e meno nitide.
-C’era anche un po’ di sonnifero. Tanto per abbassare le tue difese.
L’ultima cosa che vide sulle labbra dell’uomo era un sorriso di vittoria.

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Kajiro la stava guardando. Ciò che poteva solo pensare era la totale bellezza che avvolgeva quella donna e lo pensava fin dal primo momento in cui l’aveva incontrata. L’aveva spostata in una sala più riscaldata ricavata in una stanza di quella fabbrica abbandonata. Era della famiglia di Karina, quindi nessuno li avrebbe disturbati.
In quel piccolo spazio non si era fatto mancare nulla, tanto da renderlo insonorizzato e difficile da individuare. Se avesse tenuto Reila all’esterno sarebbe sicuramente morta di freddo e questo non poteva permetterselo. Doveva sapere alcune cose di lei. Tutto quello che gli interessava.
Sempre seduta su quella sedia, ancora non si era ripresa dalla dose di sonnifero che le aveva dato. Forse aveva un po’ esagerato, ma non poteva farsela scappare, quella donna era bella quanto letale.
Ogni volta che la incontrava scatenava in lui un senso di possessione che non era normale neanche per lui stesso. Era abituato alle donne che lo cercavano senza neanche chiamarle, ma lei era diversa. Lei era colei che seguiva da quando l’aveva liberato, da quando aveva fatto di lui quello che era. Un uomo completo e sicuro di sé.
L’uomo non sapeva perché aveva scelto quella vita, non dopo quello che gli era successo. Forse per rendere fiera quella donna che l’aveva salvato da morte certa.
Il problema era che Reila non era mai stata una salvatrice o una donna con un briciolo di sentimento, semplicemente non gli aveva sparato perché non era il suo obiettivo, per questo l’aveva lasciato vivere.
Solo che non si sapeva spiegare per quale motivo la donna, per averlo salvato, aveva rischiato la sua stessa vita. Era stato un testimone scomodo, ma nessuno lo sapeva per fortuna.
Kajiro, rimuginando sul suo passato, aveva preso inconsapevolmente una sigaretta e si era accomodato su una delle due poltrone scure che vi erano in quella stanza. Aveva tutte le comodità che poteva desiderare in un luogo così angusto, ma era solo per alcuni periodi che passava a Mosca, brevi e intensi.
Guardò quella sigaretta tra le mani ma non l’accese. Non era sicuro neanche di voler fumare, però lo rilassava solo a sentirne l’odore e il sapore. Si era accomodato, stretto in quell’abito di fine fattura, dal taglio classico. Un gessato blu con tanto di gilet a tinta unita. Aveva tolto la giacca e l’aveva riposta da qualche parte, non ricordava neanche dove. In quel luogo faceva abbastanza caldo da sollevare anche le maniche della camicia fino al gomito.
Attendeva che l’assassina si svegliasse. L’attesa stava diventando alquanto monotona e noiosa e lui era ansioso di cominciare.
Un movimento della testa di Reila e un leggero mugolio lo fece sussultare. La donna aveva scosso leggermente il capo e aveva preso un profondo respiro. Teneva la testa china e i capelli le erano scivolati in avanti coprendole il viso. Reila sollevò il capo leggermente in modo da mettere a fuoco che si trovava in un altro luogo. Non sapeva ne il dove e ne il quando e per la prima volta si ritrovò completamente spaesata.
Gli occhi scuri dell’assassina avevano messo a fuoco, pian piano, la figura di Kajiro e gli aveva rivolto solo un ghigno di sofferenza. Era la posizione che cominciava a diventarle troppo scomoda, avrebbe preferito dormire distesa su un comodo letto e non nella posizione che era costretta da troppo tempo.
-Ben svegliata.
Era la voce di Kajiro che le era arrivata un po’ ovattata. La teneva sedata tanto da non avere neanche più le forze di sollevare il capo. Si sentiva incapace di provare a fare qualsiasi cosa per liberarsi. Era troppo imbottita da non riuscire neanche a collegarsi con la realtà circostante, però almeno non sentiva più freddo. Che stesse morendo?
-Ti senti pronta per le mie domande?
Reila annuì soltanto.
-Tu parla e io ti libero. Perché sei tornata a Mosca, Reila?
La voce era accattivante e volutamente bassa. Teneva un tono mellifluo che avrebbe fatto girare la testa a parecchie donne, ma con l’assassina non attaccava. Lei era abituata a sedurre non ad essere sedotta. Attese ancora per qualche istante.
-Avanti, perché sei tornata a Mosca? Era da tempo che non si sentiva più parlare di te.
-Sono stata occupata a riordinare la mia vita.
La voce bassa e sofferente.
-C’è qualcos’altro che ti ha spinta a tornare. Chi ti ha ingaggiata?
La donna cercava di resistere al siero che le aveva iniettato, ma debole com’era le difese mentali stavano crollando come un castello di carta dopo una folata di vento.
-Ero a Kyoto…
Una risposta sconnessa.
-… ho incontrato qualcuno. Qualcuno a cui non devo nulla.
Aveva preso un respiro profondo e poi un mugolio per il dolore che iniziava a farsi largo nel petto, non sapeva se per le corde o se per quello che aveva da dire. Cosa le faceva più male?
-Chi è questo qualcuno? Ti ha ingaggiata?
La voce iniziava ad essere incalzante, ma non concitata. Manteneva sempre quell’autocontrollo tipico di chi interroga per lavoro.
Reila era distante dalla realtà e dallo spazio. Non sentiva neanche le domande e rispondeva d’istinto, lasciando che le parole fluissero fuori dalla bocca a volte sconnesse a volte con un senso.
-No. Mi ha chiesto un favore.
-E chi è?
-Io non prendo più ingaggi. Io voglio decidere di testa mia.
Kajiro rimaneva impassibile, ma cominciava a vedere un segno di cedimento del corpo. Anche se la donna era stata temprata, tutto quello che le era successo fino ad allora l’aveva fiaccata nello spirito.
Era stato l’incontro con Dmìtrij che l’aveva indebolita e le aveva fatto abbassare le difese.
L’assassino le si era avvicinato e le aveva messo una mano sulla fronte. Era bollente e Reila iniziava a delirare e a sconnettersi completamente dal mondo. In quelle condizioni la donna non avrebbe potuto dire nulla di concreto e quello non poteva permetterselo.
Reila era svenuta nuovamente ed aveva chiuso gli occhi, abbandonandosi completamente alla sedia e alle corde che la tenevano ferma.
Kajiro la slegò cercando di fare attenzione a non farla cadere. Non voleva ucciderla, non ancora.
La prese in braccio, assicurandosi però di bloccarle le mani sul davanti, e la portò sul letto della stanza e la distese. Era febbricitante e respirava affannosamente. Aveva il volto rosso come le labbra, peccato per quel taglio che le aveva provocato, ma era stato necessario.
La coprì fino al collo e iniziò a somministrarle qualcosa contro la febbre. Non l’aveva previsto, non avrebbe mai pensato che una donna forte come lei avesse avuto bisogno di essere curata.
Kajiro tolse le scarpe e le si accoccolò accanto, stringendole la vita come si fa con un’amante sotto le coperte. Avvicinò il viso ai capelli di lei, lasciandosi inebriare dal profumo che emanavano. Reila aveva cominciato a tremare dal freddo e lui la strinse ancora di più per scaldarla con il proprio corpo. Ne sentiva la debolezza del corpo di una donna, ma la grande forza mentale che dopo tutto questo tempo l’aveva fatta diventare quella cinica e stupenda creatura che stringeva tra le braccia.

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yin yang vettore

Angolo dell'autrice


Cari lettori e lettrici, devo dire che sono imperdonabile. Questa storia sta viaggiando molto a rilento e purtroppo la causa é la mia poca ispirazione in questi mesi. Non voglio scrivere tanto per portarla avanti, anche se non mancano moltissimi capitoli, ma voglio scriverli come si deve. Questo capitolo era fermo sul computer da non so quanto tempo e questo me ne dispiace ma non c'era la voglia di volerlo correggere, rivedere o semplicemente anche solo pubblicarlo. Ma c'era qualche errorino qua e là e l'ho corretto. Molto probabilmente non li ho visti tutti e quindi vi chiedo di segnalarmeli.
Come già detto questa storia vedrà la fine di tutto e quindi state sicuri che la continuerò.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la storia.
Rinnovo sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi ringrazio per chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata con  curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel  Scrittrice - Come pioggia sulla neve


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