Fiori di Ciliegio di Lotiel (/viewuser.php?uid=15614)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 - Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** 02 - Un vecchio amico ***
Capitolo 3: *** 03 - Minaccia ***
Capitolo 4: *** 04 - Un'ombra ***
Capitolo 5: *** 05 - Segreto ***
Capitolo 6: *** 06 - Il Signor Yukino ***
Capitolo 7: *** 07 - Come rendere le cose più difficili ***
Capitolo 8: *** 08 - Parole al vento ***
Capitolo 9: *** 09 - Spia ***
Capitolo 10: *** 10 - Cuore ***
Capitolo 11: *** 11 - Bentornato ***
Capitolo 12: *** 12 - Tu (I Parte) ***
Capitolo 13: *** 13 - Tu (II Parte) ***
Capitolo 14: *** 14 - Invisible ***
Capitolo 15: *** 15 - Alexandra ***
Capitolo 16: *** 16 - Assassini ***
Capitolo 17: *** 17 - Sorpresa ***
Capitolo 18: *** 18 - Karina ***
Capitolo 19: *** 19 - Prigioniera ***
Capitolo 1 *** 01 - Un nuovo inizio ***
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by _marty
01
- Un nuovo inizio
Kyoto
Erano
passati poco più di due anni da quella triste notte.
Dmìtrij lo aveva lasciato
al porto di Tokyo agonizzante e aveva saputo poco dopo che era morto.
L’assassina
si trovava in una delle zone più belle di Kyoto, sulle rive
dello stagno che
accoglie il Tempio del Padiglione d’Oro, con i suoi
meravigliosi giardini. Era
sempre rimasta incantata a guardare il tempio quando era piccola, ma
era sempre
stata più affascinata dalla sua sorella, il Tempio del
Padiglione d’Argento, la
quale non vedeva da quando era bambina. Quest’ultimo tempio,
si diceva,
conservava le vere reliquie del Buddha.
Reila
portava degli occhiali scuri che le coprivano metà del
volto. Sui capelli scuri
aveva dei petali di ciliegio. Era la stagione della fioritura e
stranamente non
sembrava darle fastidio, come al solito. Simboleggiavano
l’amore, una cosa che
a lei era stato da sempre negato.
Improvvisamente
lo aveva visto. Reila aveva portato lo sguardo verso l’altare
e verso un uomo,
circondato da altri uomini vestiti di nero. Una situazione alquanto
bizzarra
vedere uno come lui in un posto del genere, dopotutto lui non credeva
in nulla
che non fosse qualcosa di materiale.
Reila
storse la bocca e si avvicinò lentamente. Fece finta di
accostarsi all’altare,
rimanendo sempre attenta che non la guardasse in pieno volto. Avrebbe
potuto
riconoscerla.
Attese
che
l’uomo entrasse all’interno. Era da solo e non si
era minimamente accorto della
sua presenza. Lei non fece altro che seguirlo.
L’assassina
non poté far altro che sorridere e all’improvviso
sfiorargli la spalla, per poi
spingerlo verso uno degli angoli semibui del tempio.
-Chi
non
muore si rivede.
Lo
aveva
bloccato al muro, con il suo esile peso. Dopotutto lui non mostrava
alcuna
resistenza e sembrava anche piacergli. Reila non fece altro, nella
penombra, che
guardarlo in volto e di ritrovare gli stessi sentimenti che aveva
provato tempo
prima. Contrastanti come l’acqua e il fuoco.
-Non
sei
cambiata affatto.
Sul
volto
della donna comparve un leggero sorriso che le illuminò il
viso. Strinse le
labbra e chinò il volto verso il basso. Proprio in quel
momento, la mano
dell’uomo le sollevò il viso lentamente mentre le
sue labbra si schiudevano
appena.
Reila
di
scatto unì le sue labbra a quelle dell’uomo,
appropriandosi di quella bocca la
quale un tempo aveva odiato. Si staccò dall’uomo,
traendo un profondo respiro,
come se stesse prendendo aria dopo una lunga pausa in apnea.
La
donna
sorrise per qualche istante per poi rabbuiarsi all’improvviso.
-Cos’hai?
L’uomo
si
preoccupò per lei, sollevandole il volto con una mano e
costringendola a
guardarlo negli occhi. Reila scosse il capo, lasciando che un tiepido
sorriso
le illuminasse il volto.
-Niente,
è
solo che…
La
donna
lasciò la frase incompleta e l’uomo, che nel
frattempo l’aveva stretta a sé, le
carezzò il capo teneramente.
-Reila,
è
morto. Fattene una ragione.
-Non
è per
Dmìtrij. È per mio padre. Sai perché
sono tornata a Kyoto?
L’uomo
strinse le labbra e mosse il capo in segno di assenso. Come se qualcosa
l’avesse colpito; un pugno in pieno petto. Prese un profondo
respiro, lasciando
che il volto di Reila gli si avvicinasse fino a sfiorargli la guancia.
-Sei
sempre
nella mia lista, lo sai questo?
Le
labbra
si stirarono in un sorriso lascivo. Guardava l’uomo, quella
stessa persona che
lei aveva pensato per tutto quel tempo che le avesse rovinato la vita.
-Ho
lasciato da un po’ quella vita. Da quando sono tornata a
Tokyo per pareggiare i
conti.
Glielo
disse quasi per rassicurarlo. Al momento non doveva temere di trovarsi
una
canna di pistola troppo vicino alla faccia.
-Tuo
padre
non ha mai saputo della tua esistenza dopo l’incidente che ti
ha rovinato le
mani. Ma non sarebbe il caso di dirglielo? Soprattutto in questa
situazione.
Reila
scosse il capo in segno di diniego, forse troppo energicamente da far
intuire
una certa nota di nervosismo.
-No,
George. Non posso farlo. Se non risolvo la questione, lo metterei solo
in
pericolo. Nessuno deve saperlo.
George
prese alcuni attimi per riflettere. Stette zitto, lasciando solo che il
suono
dei loro respiri all’interno dello spazio vuoto, lo
riempisse. Non sapeva come
convincerla a dire a suo padre che lei fosse ancora viva, ma questa era
una
decisione della donna, purtroppo.
-Ma
potrebbe anche essere il momento in cui lui sappia qualcosa. Potrebbe
aiutarti.
-No.
Reila
scosse il capo di scatto, alzando leggermente la voce a quella risposta.
-Non
voglio
tornare da lui in questo modo. Non provarci, George.
La
voce
calò poi all’improvviso in un bisbiglio.
L’uomo alzò le mani in segno di resa,
accettando la sua volontà. Non aveva intenzione di
contraddirla adesso.
Il
tempio
cominciava a popolarsi e loro stavano acquattati in quella penombra che
al
momento li teneva nascosti, ma purtroppo non sarebbe durato ancora a
lungo. In
quel luogo va osservato il silenzio e i loro bisbigli, presto,
sarebbero stati
uditi da troppe persone. Un qualcosa che non potevano permettersi.
-Devo
andare adesso.
Reila
si
stacco da George, l’unico uomo che al momento conosceva e di
cui si doveva
fidare. Quella situazione, per un certo verso, non piaceva neanche a
lei. Era
come se fosse regredita e avesse cancellato tutto ciò che
era stata costretta a
fare, inseguendo quel sogno vanaglorioso. Si era convinta che George
l’avesse voluta
solo spaventare ai tempi di Peter e dopotutto erano quasi simili quando
si
trattava di ingannare qualcuno. A lei serviva qualcuno a cui potersi
appoggiare
nei momenti bui. A lui serviva qualcuna per poter scaldare il suo letto
che non
fosse la moglie.
Le
mani di
Reila continuavano a rimanere coperte. Quelle cicatrici aveva pensato
di
rimuoverle con un intervento di chirurgia estetica, ma aveva preferito
aspettare a tempi migliori. Quando tutto sarebbe finito.
George
l’afferrò per un braccio per impedirle di
scappare, come aveva fatto negli
ultimi due anni.
La
donna
non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia in quel momento e si era
voltata. Tanti
erano i sentimenti che la devastavano in quegli ultimi tempi.
-Devi
ritornare, Reila.
-Per
te
George? A cosa ti servo?
George
scosse il capo, tirandola verso di sé e sfiorandole la
schiena con la propria
camicia, abbracciandola delicatamente da dietro. Le si
avvicinò all’orecchio,
chinandosi, vista la differenza di altezza.
-No.
Fallo
per te e tuo padre. Devi cominciare ad abbandonare i tuoi fantasmi del
passato.
Reila
non
rispose. Se ne stette zitta per alcuni istanti che sembrarono ore.
Oramai i turisti
avevano quasi invaso quella parte del tempio e presto li avrebbero
visti.
-Non
è così
semplice come credi.
-Comprendi
anche la mia situazione. Non posso aiutarti in questo modo.
Reila
trasse un profondo respiro, sollevando appena il capo e volgendolo in
modo che
potesse vedere le labbra di George.
-So
in che
guaio ti sei messo. Finché lei sarà con te,
George, ti sarà molto difficile
muoverti liberamente come prima.
George
fece
un cenno di assenso, senza parlare. Sapeva qual’era la sua
situazione e sapeva
che Reila aveva maledettamente ragione. Ma sentire il suo profumo
poggiando il
volto sui suoi capelli, lo inebriava ad ogni incontro clandestino. Non
riusciva
a farne a meno.
Le
labbra
di George nuovamente si portarono verso quelle di Reila, tenendo il
volto di
lei con una mano e socchiudendo gli occhi.
Quel
contatto serviva ad entrambi, a sentirsi vivi e distanti da quelle vite
che non
avevano portato nulla a tutti e due. Solo odio e rancore.
Premette
di
più sulle labbra di lei, come a volerle stampare sulle sue e
non abbandonarle
mai, per avere sempre il suo sapore sulla bocca. Reila si
scostò, non senza un
po’ di riluttanza verso quel contatto che non aveva
più, e poi si separò da
lui, lasciando il suo calore.
-Te
l’ho
detto, George. Fino a quando lei sarà con te, noi non
potremo vederci più.
La
donna
mosse qualche passo verso l’uscita, lasciando George nella
penombra e con l’eco
delle sue ultime parole.
Per
George
era facile abbandonare i suoi fantasmi. Lui era più freddo e
calcolatore,
proprio come Dmìtrij, ma in fondo amava Reila e non aveva
paura di mettere in
gioco i suoi sentimenti. Così come non aveva fatto
Dmìtrij.
Reila
si
portò verso uno dei ciliegi e sollevo il capo, rimettendo
gli occhiali da sole
che le coprivano il viso. Un sorriso sornione comparve sulle sue
labbra, che
aveva colorato di rosso. Aveva sicuramente lasciato la traccia sul
colletto di
George, che lui avrebbe cercato di fare andare via. Succedeva sempre
così.
Com’erano
cambiate le cose dopo aver saputo della morte di Dmìtrij.
Era stata anche al
funerale. Nascosta dietro una marea di persone vestite di nero che
facevano
finta di piangere. Non come lei. Il suo cuore piangeva per la morte di
quell’uomo che l’aveva fatta sentire se stessa. Non
sapeva neanche a chi fosse
andata l’azienda che l’uomo aveva tanto bramato.
Si
ritrovò
a pensare a quelle cose. L’aveva tradita e umiliata, come
persona e soprattutto
come donna. Aveva distrutto tutte le sue aspettative. Diventava triste
e
intrattabile quando pensava a quelle cose e l’aver
abbandonato la sua vita
passata, le faceva passare più tempo a pensarci.
George
la
vide, affacciandosi, dall’entrata del tempio. La
seguì per alcuni istanti prima
di allontanarsi dal luogo. Le guardie del corpo, alle quali aveva
chiesto di
non entrare nel tempio, lo seguirono verso l’auto.
George
entrò, guardando verso gli alberi di ciliegio, dove sapeva
che Reila se ne
stava seduta. Poi sfiorò l’anulare sinistro,
ricordandogli ciò che era stato
costretto a fare.
Quella
donna era pericolosa e Reila sicuramente non voleva metterlo
ulteriormente nei
guai. Era riuscito a partire per il Giappone, con la scusa di una
riunione di
una delle sue aziende. Strinse le mani mentre l’auto
scomparve dietro l’angolo.
Reila
sapeva di George e sapeva che era sposato da poco e sapeva anche il
perché. Le
stava chiedendo aiuto. Lo aveva letto in quegli occhi nocciola. Aveva
letto
l’appello disperato di un uomo che era innamorato di lei.
Forse l’unico che
l’avesse mai amata.
Si
scostò
dal tronco e incominciò a camminare verso il laghetto di
carpe. Per i
giapponesi sono pesci sacri e incarnano la continuità della
vita e gli incessanti
cambiamenti. Lei di cambiamenti ne aveva fatti tanti.
Aveva
quegli occhi di ghiaccio sempre puntati addosso. Come un monito. Come
una
colpa.
Sapeva
che
George doveva sposarsi, ma era rimasta nell’ombra facendogli
credere di essere
morta e poi un giorno era tornata, ma troppo tardi.
Almeno
per
lui. E lei aveva bisogno di George.
Conosceva
la donna che si era unita all’uomo e sapeva anche che
sicuramente lo aveva
costretto, dietro qualche falso accordo.
Dovevano
incontrarsi di nascosto e ciò rendeva le cose più
difficili da risolvere.
Doveva muoversi in fretta e lei aveva già perso troppo tempo.
Prima
di
fare qualche passo falso, doveva assolutamente contattare qualcuno di
fidato lì
in Giappone e Jin sembrava la persona più adatta. Era lui
che le riforniva le
armi ogni volta che ne aveva bisogno ed era lui che, dopotutto quello
che era
successo, si era preso cura di lei. Era come un padre per Reila ed era
stato
proprio lui a conservare la sua pistola, fino a quando le sarebbe
servita
nuovamente.
L’assassina
aveva cercato di abbandonare la sua vita, ma nuovamente le si era
buttata
addosso la situazione nella quale non avrebbe potuto fare a meno della
sua
fedele compagna.
Reila
sapeva che le sarebbe servita, ma non adesso. Jin era l’unico
del quale al momento
si fidava. Teneva con lei il segreto della sua vita e avrebbe preferito
farsi
uccidere che rivelare dove Reila si trovasse.
La
donna
prese il viale verso l’uscita. Si voltò nuovamente
verso il Tempio, inchinandosi
per saluto. Aveva bisogno di pregare, ma non l’aveva fatto.
Se ci fosse stato
un dio che l’avesse protetta, lei non se lo sarebbe meritato.
Aveva
preso
talmente tante vite per quell’inutile odio che
l’aveva divorata, che ormai non riusciva
più a capire se si sarebbe salvata nell’altro
mondo.
Poi
una
mano andò verso la ferita della spalla. Ricordava ancora
come Natasha e i suoi
uomini erano riusciti a ferirla e la cicatrice non era completamente
sparita.
Un altro monito a ricordarle chi era e cos’era.
L’unica
persona che poteva salvare suo padre. L’unica persona che era
stata per tutto
quel tempo.
Un’assassina.
Angolo
dell'autrice
Ed
eccomi con la revisione di questi pochi capitoli di questa storia, che
pian
piano riprenderà forma e che non lascerò a
maturare qui ma andrà avanti perchè
qualche capitolo è già pronto. Cos'è
che vorreste sapere di più sui personaggi?
Chiedete e vi sarà dato, oppure datemi una vostra vista su
questi personaggi
che si stagliano in questo panorama un po' spy-sytory. Fatemi sapere
cosa ne
pensate.
Ringrazio
come sempre _marty per il banner favoloso.
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Capitolo 2 *** 02 - Un vecchio amico ***
02
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by _marty
02
- Un vecchio amico
Osaka
Era
una
casetta nella periferia di Osaka, a due piani e un meraviglioso
giardino.
Bianca, come la maggior parte delle case in quella zona.
Reila
camminava tranquillamente, con i suoi inseparabili occhiali e il trench
color
kaki chiuso per bene sulla vita. Tirava un po’ di vento in
quella stagione, ma
non faceva tanto freddo.
Quello
che
non si notava dai gesti di Reila era il guardarsi sui due lati scoperti
e ogni
tanto le spalle, lo
faceva sembrare un
comportamento molto naturale.
Quando
arrivò alla casetta bianca, che conosceva bene, premette il
pulsante del
citofono. Attese qualche istante prima che una voce
dall’interno si facesse viva.
-Sì?
-I
ciliegi
in fiore sono bellissimi.
Reila
conosceva bene la parola d’ordine per farsi riconoscere. Ma a
Jin non serviva
tutta quella trafila, avrebbe riconosciuto la voce della donna anche
mascherata
da qualche apparecchio.
Il
cancelletto della casa si aprì e Reila, attenta a non
inciampare a quel solito
gradino, percorse il vialetto fino alla porta che si era dischiusa.
Entrò
all’interno e subito abbracciò calorosamente il
proprietario di casa, poco più
basso di lei.
Jin
era un
signore di mezza età che era stato insieme al padre di Reila
nell’esercito e del
quale nutriva una profonda stima. Ormai prossimo ai
sessant’anni, Jin era ormai
distrutto dall’artrite e dai reumatismi, venuti precocemente.
-Jin,
che
piacere vederti.
Reila
sorrise, contenta di rivedere il suo vecchio tutore. Erano ormai due
anni che
non gli faceva una visita.
-Non
posso
dire altrettanto, Reila.
Disse
Jin,
chinando leggermente il capo. Reila rimase interdetta per qualche
istante.
-So
perché
sei venuta da me e non è certo per una visita di cortesia.
Reila
storse le labbra portando lo sguardo verso il volto di Jin. Sapeva bene
cosa
volesse intendere il suo tutore, ma la decisione ormai
l’aveva presa.
-Ti
prometto che questa sarà l’ultima volta. Ho
bisogno di lei.
Reila
sorrise nel pronunciare quella frase, ma in cuor suo sapeva che non si
sarebbe
mai liberata di quella vita. Ormai l’aveva assorbita
interamente e né Jin, né
George avrebbero potuto farle cambiare idea.
Jin
la
guardò perplesso. Sapeva come la ragazza ragionava,
però
in quel momento voleva crederle. Il problema è che Jin
sapeva
bene che non sarebbe servito a salvarla dal guaio in cui si
sarebbe messa da lì a poco.
-Seguimi.
__________________
Reila
si
rigirava nel letto senza riuscire a chiudere occhio. Come quando faceva
un
tempo, si era rifugiata per una notte a casa di Jin.
Fissava
il
soffitto e stringeva le coperte tra le mani. I suoi pensieri andarono a
ciò che
avrebbe fatto. E dire che aveva deciso di metterci una pietra sopra a
tutta
quella storia, almeno da quando aveva saputo che Dmìtrij era
morto.
Un
morsa
prese il suo cuore, all’improvviso. Il solo pensare a lui la
faceva ancora star
male e non riusciva a togliersi il suo fantasma da davanti gli occhi in
quell’ultimo istante, quando lo aveva ucciso.
Reila avvicinò la
propria bocca a quella
dell’uomo. Voleva ancora il suo sapore sulle labbra e il suo
calore sul proprio
corpo.
La
donna
non riusciva a pensare ad altro e l’immagine
dell’uomo che la teneva stretta a
sé, anche per qualche istante, non era scomparso. Era come
se le avesse
lasciato un pezzo di sé a torturarla nei giorni a venire.
Continuava a
tormentarsi per ciò che aveva fatto.
Si
alzò dal
letto e accese la luce, portandosi verso la finestra. Reila aveva
scostato le
tende con una mano e lo sguardo sfiorò quelle stesse mani
che ancora
ricordavano.
Le
immagini
si sovraffollarono e si confusero tra loro. Vorticarono rendendola
cieca alla
realtà per qualche istante. Era cose se stesse rivivendo
alcuni ricordi, ma non
erano tali. Erano veri, tangibili.
Le
capitava
spesso. I fantasmi del passato non avrebbero mai cessato di presentarsi.
Reila
guardò fuori, nella notte, mentre le luci di una timida alba
cominciavano ad
intravedersi all’orizzonte. Era arrivato il momento di andare.
-Riuscirò
a
dimenticare tutto.
Lo
disse a
bassa voce. Una promessa che fece a se stessa e che doveva
assolutamente
mantenere.
Kyoto
Ricordava
bene le parole di Jin. Non avrebbe mai potuto dimenticarle. Gliele
aveva dette
nel momento in cui aveva nuovamente stretto tra le sue mani la sua
fedele
compagna, lei almeno non l’aveva mai tradita.
-Reila, ricordati quello che mi hai
promesso.
L’assassina
aveva solo annuito e per qualche istante era rimasta in silenzio,
accarezzando
la canna lucida di Firestorm, come l’aveva chiamata. Quando
ti affezioni ad una
cosa, non si può resistere nel darle un nome. Sia pure un
oggetto freddo e
pericoloso.
A
Jin gli
aveva risposto di non preoccuparsi, che tutto sarebbe filato liscio.
Che presto
sarebbero ritornati ad essere una famiglia felice, come tantissimo
tempo fa.
Reila
camminava
per le vie di Kyoto distrattamente e qualche volta era andata a
sbattere anche
contro qualche passante.
Quegli
occhiali scuri le coprivano il volto, per paura che qualcuno la
riconoscesse.
Aveva fatto scintille un giorno nella cittadina di Kyoto e ancora se ne
ricordava. Al solo pensiero un sorriso le sfuggì dalle
labbra rosse come il
sangue. A quegli occhi imploranti che aveva lasciato vivere.
Scosse
il
capo a scacciare quel pensiero. Era stata l’unica volta che
si era lasciata
sfuggire un’emozione, ma dopotutto, a quel tempo, era ancora
all’inizio della
sua carriera.
Quel
giorno
era stato abbastanza emozionante ed eclatante, tanto che i giornali ne
parlarono per giorni
e giorni. Per Reila era stato un lavoro come tutti gli altri.
Già,
anche
Dmìtrij era stato un lavoro come gli altri, solo che ci era
rimasta scottata
pesantemente.
Sul
viso di
Reila comparve un velo di tristezza, cosa che non volle per nulla
nascondere
anche perché nessuno l’avrebbe mai vista. Era una
passante come tutti, solo con
un po’ di tristezza ancora viva nel cuore.
La
donna
prese un profondo respiro, spostando la mano destra verso il fodero
della
pistola. Le infondeva sicurezza e null’altro
l’avrebbe fatta calmare come
faceva quel pezzo di metallo.
Era
la sua
garanzia ad una vita migliore in quel momento. Anche se lei non ci
aveva mai
creduto a questa favola.
Si
soffermò
per qualche istante, alzando il capo verso l’alto, guardando
la croce sulla
diocesi di Kyoto.
Quante
volte aveva sperato di potersi sposare ed avere una vita senza
rimpianti e
ripensamenti.
Forse
lei
non era destinata ad avere tutto questo, era destinata solo a rovinare
la vita
a quelle persone che lei stessa invidiava.
Poi,
dopo
Dmìtrij era arrivato di nuovo George.
A
quel
pensiero si soffermò per qualche istante. Strinse
leggermente le labbra e sorrise
appena. Nonostante non fosse felice, non era quello che voleva, ma si era arresa
all’idea
che, forse, era lui l’uomo con cui doveva dividere quella
misera esistenza.
Fatta
di
sotterfugi e incontri al buio. Non era questo però, non era
quello che lei
voleva e in un momento nel quale si sentiva così debole,
George sembrava
l’unica ancora di salvezza. Quella della disperazione.
Ora
doveva
concentrarsi solo a quello che era venuta a fare in Giappone e
più precisamente
a Kyoto, la sua città di origine.
Alzò
nuovamente il capo e notò che il cielo si stava rabbuiando.
Avrebbe agito da lì
a poche ore e forse qualcosa sarebbe successo. Dipendeva tutto dalla
sua
capacità di dimenticare il passato.
Reila
iniziò nuovamente a camminare. I suoi passi più
decisi e i suoi movimenti più
femminili, così come aveva dovuto imparare per far cadere
gli uomini ai suoi
piedi e poterli uccidere.
La
donna
sentiva dentro di sé qualcosa, non sapeva dargli forma e
nome, ma sentiva che
sarebbe successo qualcosa. Scosse il capo, sorridendo a quel pensiero.
Sapeva
bene che non sarebbe successo niente, anche perché sapeva
fare il suo sporco
lavoro.
__________________
Si
era
nascosta dietro le tende. Attendeva nella penombra della stanza il suo
obiettivo. Sapeva che sarebbe arrivato da solo e che sarebbe stato
molto
semplice prenderlo di sorpresa.
In
Russia
era stata braccata e a stento era riuscita a sfuggire agli uomini di
Natasha.
Era stato debilitante e faticoso, ma alla fine era riuscita a tornare
in
Giappone, per poter risolvere quel piccolo problema scaturito a Mosca.
Sentì
improvvisamente dei passi che si avvicinavano alla porta
dell’appartamento. Si
era acquattata ancora di più contro la finestra, sua unica
via di fuga.
L’uomo
entrò. Natasha era ai suoi comandi, poiché la
donna fredda e calcolatrice non
era solo una proprietaria di bordelli, ma era quella che forniva le
armi e la
droga all’uomo che avrebbe dovuto uccidere.
Dopo
che
Natasha aveva divulgato la descrizione del suo volto alle persone che
erano in
affari con lei, tra cui lo zio di Dmìtrij, Reila era dovuta
scappare con la
coda tra le gambe. Era stata braccata per tutta la Russia e adesso, ne
era sicura,
che altri erano sulle sue tracce. Doveva solo arrivare per prima.
Pensavano
volesse sabotare la loro missione, ma era stato solo un tremendo
malinteso.
Solo
un
inutile malinteso.
Ora
il suo
uomo, Hideori, era a pochi passi da lei, che stava sollevando il
bicchiere di
whisky che si era preparato.
Ma
altri
passi sentì improvvisamente dirigersi verso la porta e
Hideori, dopo che aveva
sentito bussare, si era diretto verso l’uscio per aprire.
Reila
strinse le labbra e si acquattò di più contro il
muro. Questo imprevisto non ci
voleva. Stringeva Firestorm nella mano destra come se fosse la sua
unica ancora
di salvezza e in effetti in quel momento lo era. Se fosse stato
necessario
avrebbe ucciso entrambi. Anche perché era la prima volta che
era lei a decidere
il bersaglio, la prima volta che gli ordini erano dettati solo dalla
sua testa.
Prese
un
profondo respiro, attenta ad ogni movimento e rumore sospetto.
Sentì nuovamente
Hideori ritornare indietro e al suo seguito un altro uomo, dalla sua
posizione
non poteva distinguerne i tratti.
Non
passò
che un istante, il tempo di ideare un piano secondario per poterne
uscire
illesa, che sentì vibrare un colpo sordo e un corpo cadere a
terra
pesantemente.
Reila
strabuzzò gli occhi, non avendo al momento il coraggio di
uscire fuori dal suo
nascondiglio. Strinse con più veemenza la pistola e
sbirciò attraverso la tenda
per vedere ciò che era successo.
-Reila.
La
sua
sorpresa si fece palese e sul suo volto accrebbe la paura di non
comprendere
quello che stava succedendo.
Sentì
che i
passi dell’uomo che era entrato con Hideori si avvicinavano a
lei, senza avere
la forza di reagire. Era stata troppo in inattività per
avere la forza di
andare e scappare. Ma la voce dell’uomo era tremendamente
familiare, un uomo
che si perdeva nei suoi ricordi.
E
poi una
domanda le affiorava nella mente. Come faceva a sapere che lei era
lì?
L’uomo
scostò la tenda e Reila, presente a se stessa, gli punto
Firestorm alla testa,
proprio in mezzo agli occhi. Alla fine era rinsavita, doveva pensare
alla sua
vita adesso. Ma proprio quando lei stava per premere il grilletto, la
mano
libera dell’uomo la disarmò e sentì la
presa vigorosa sul polso bloccandola
contro il proprio corpo, puntandole alla tempia la stessa pistola che
aveva ucciso Hideori.
Reila,
nel
riconoscerlo, le si bloccò la voce in gola, sgranando gli
occhi come se avesse
visto un fantasma.
-Ka...
jiro.
Reila
fece
uscire quel nome come vomitato dai meandri della sua mente.
Cercò di guardarsi
intorno senza avere a portata di sguardo la sua Firestorm,
l’unico essere
capace di difenderla adesso.
-Rivedermi
non ti fa piacere?
La
voce
dell’uomo dagli occhi nocciola e dalla forma di mandorla
appena accennata, la fece trasalire. Aveva fatto
crescere i suoi capelli castani e i tratti erano come quelli di lei,
molto
occidentali, anche se c’era la predominante orientale.
Le
labbra
sottili di Kajiro erano stirate in un sorriso appena accennato.
-Non
in
questo modo e non in questa situazione.
Reila
aveva
ponderato per bene le parole da dirgli. Lui era l’unico che
l’aveva sconfitta e
l’unico a cui aveva risparmiato la vita.
La
presa
dell’uomo sui polsi di Reila si fece più
prepotente per farla avvicinare
abbastanza al proprio volto. Reila aveva accennato una smorfia di
dolore sul
volto pallido e scostò il viso più che
poté dalla vicinanza che lui aveva
assicurato.
-Ti
dispiace che io sia diventato ciò che sono?
Reila
non
poté far altro che annuire e lasciare un sospiro che le
provocò la stretta
particolarmente violenta dell’uomo.
-Non
pensavo che avresti scelto questa strada. Se lo avessi saputo, non ti
avrei
lasciato vivere.
Kajiro
non
fece altro che sorridere e rilasciare la presa da Reila pian piano, in
modo che
il sangue refluisse lentamente nelle mani della donna e che
l’odore di lei gli
si insinuasse nelle narici.
-Non
sei
cambiata per niente, Reila.
Reila
corrugò leggermente le sopracciglia, ma non rispose. Il quel
periodo era
cambiata molto, ma cosa poteva saperne un pivello di ciò che
era diventata
ormai la sua vita?
L’assassina
raccolse la sua pistola, riponendola nel fodero. Voltò le
spalle all’uomo,
sapeva bene che non le avrebbe fatto del male, almeno per adesso.
Reila
non
rispose, si limitò a spostare lo sguardo verso il basso.
Persa nei ricordi di
quegli ultimi anni. Non fece neanche caso a Kajiro che si era
avvicinato
talmente tanto da farle sentire il proprio alito sul collo.
-Ho
una
cosa da dirti.
La
voce
dell’uomo era bassa e il volto di Reila si fece
più duro. Prese un profondo
respiro e si voltò di scatto, facendo in modo di guardare
Kajiro negli occhi e
carpire le parole che le voleva dire, prima che lui pronunciasse
realmente
qualcosa.
Reila,
nel
volto dell’uomo, lesse qualcosa e fece qualche passo
indietro.
-Mi
hanno
chiesto di ucciderti.
Reila
non
rispose, di rimando però le labbra si curvarono in un
leggero sorriso.
Naturalmente non si poteva uccidere facilmente chi uccideva per
mestiere.
-E
credi di
potercela fare, Kajiro?!
L’uomo
non
poté far altro che spostare il suo peso sulla mano che si
era appena poggiata al
muro e guardare l’assassina con sicurezza. Reila non si era
minimamente accorta
che era finita con le spalle contro la parete.
-Oggi
no,
ho prima un conto da regolare con te e poi ti devo un favore.
Reila
era
bloccata tra il muro e l’assassino, e non poteva muoversi
perché qualsiasi via
le era stata preclusa. Ciò che non le piaceva di Kajiro era
la voce, le faceva
tremare le gambe e non per qualche emozione, assolutamente. Non sapeva
dare il
nome a ciò che provava.
-Allora
fammi passare.
Sostenne
lo
sguardo di Kajiro fino in fondo senza più una parola, tanto
che lui si scostò
poco dopo alzando le mani in segno di resa.
Reila,
senza voltarsi, uscì proprio da dove era entrata, dalla
finestra, che
fortunatamente era situata anche al piano terra. Non rivolse nessuna
parola
prima di andarsene, né Kajiro provò a fiatare.
Non voleva sapere cosa
l’aspettava, non ne aveva voglia.
Ora
aveva
solo un nuovo nemico da mettere sulla lista e naturalmente, questa
volta, non
avrebbe avuto rimorsi ad ucciderlo.
Osaka: (Ōsaka-shi,
(letteralmente "grande pendio"), è una città del
Giappone di 2,7
milioni di abitanti situata nella regione del Kansai, nell'isola di
Honshu,
alla foce dei fiumi Yodo e Yamato.
È
la capitale dell'omonima
prefettura e la terza città del Giappone per numero di
abitanti, posta al
centro della popolata area metropolitana chiamata Keihanshin, di cui
fanno
parte Kobe e Kyōto, con le quali raggiunge il numero di 17.510.000
abitanti.
Osaka fu storicamente la capitale commerciale del
Giappone, di cui ancora
oggi è uno dei maggiori distretti industriali e portuali.
Diocesi di Kyoto: (in latino Dioecesis
Kyotensis) è una sede della Chiesa cattolica
suffraganea dell'arcidiocesi
di Osaka. Nel 2004 contava 19.198 battezzati su 7.314.195 abitanti.
È
attualmente retta dal vescovo Paul Yoshinao Otsuka.
La prefettura apostolica di
Kyōto fu eretta il 17 giugno
1937 con la bolla Quidquid ad spirituale
di papa Pio XI, ricavandone
il territorio dalla diocesi di Osaka
(oggi arcidiocesi).
Il 12 luglio 1951 la prefettura apostolica
è
stata elevata a diocesi con la bolla Inter supremi
di papa Pio XII.
Angolo
dell'autrice
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate.
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Capitolo 3 *** 03 - Minaccia ***
02
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by _marty
03
- Minaccia
Era
stremata. Alla fine delle sue forze e il pensiero
dell’incontro di qualche
notte prima, la destabilizzava e la deconcentrava. Neanche
l’ultimo pugno che
aveva tirato contro il sacco da boxe, le aveva giovato.
Non
riusciva a scaricare il nervosismo che aveva dentro, persistente come
un tic
tac di un orologio. Eppure la sua ora ancora non era arrivata,
perché aveva
tante cose da fare e tanto ancora da soffrire. Ma non era questo il
problema.
Poteva essere chiunque, ma non Kajiro.
Doveva
assolutamente parlare con qualcuno. Ma avere qualcuno per lei non era
mai stato
così semplice. Mettere di mezzo Jin avrebbe significato
metterlo in
pericolo e questo non avrebbe potuto perdonarselo.
Anche
i cuori
più duri hanno qualcuno dal quale tornare, il fatto
è che per Reila avere
qualcuno era sempre stato motivo per non tornare. Avrebbe solo
complicato le
cose e questo non poteva permetterselo.
La
donna
tolse i guanti da kick-boxing. Riprese fiato per lo sforzo ma ancora
non
riusciva a togliersi il viso dell’uomo giapponese dalla
testa. Si chiedeva cosa
mai volesse Kajiro da lei.
Era
la
domanda che la tormentava da quando era rientrata in albergo, anche
perché non
aveva voglia di tornare dal suo padrino, le avrebbe solo detto che
l’aveva
avvertita. Adesso doveva togliersi dai guai da sola.
La
mente
poi cominciò a ricordare la Russia, cominciò a
pensare a Natasha e a come fare
per eliminare quella donna. Era stata sicuramente lei a commissionare
all’assassino la sua morte, ma Reila non immaginava che la
direttrice di
bordelli conoscesse bene il killer.
Reila
chinò
il capo e poi il pensiero di un uomo fece capolino da qualche angolo
remoto
della sua mente. Russo e biondo.
-Dmìtrij.
La
voce era
flebile. Aveva sussurrato il suo nome, con la voglia di riaverlo tra le
braccia. Ma ormai non c’era più. Lui era morto e
lei non aveva potuto dargli
quello che più desiderava.
Si
chiedeva
spesso perché facesse così male. Il ricordo di un
uomo che aveva imparato ad
amare e ad odiare, l’unica persona di cui finalmente aveva
sentito il calore.
Una
sola
lacrima rigò il volto dell’assassina, come non le
capitava dall’ultima volta
che l’aveva visto. Nel momento in cui gli aveva sparato. Era
stata lei che gli
aveva strappato la vita, eppure ne aveva sentito subito la mancanza.
Reila
scrollò le spalle e scosse il capo per cercare di
abbandonare il pensiero.
Doveva solo pensare alla sua missione adesso, doveva solo ricostruirsi
una vita
e con George l’avrebbe rifatta. Sempre se la moglie
l’avesse abbandonato oppure
semplicemente se fosse morta. Ci aveva pensato molte volte e questo non
le era
piaciuto. Ormai il suo cervello organizzava tutto con la morte della
persona,
la via più semplice.
Si
avviò a
passo svelto verso la sua camera e decise che era il momento di pensare
ad
altro. Pensare a lui non le avrebbe risollevato la vita, né
la giornata quindi
era arrivato il momento di mettersi in moto.
Reila
aveva
preparato tutto. La vasca da bagno con i sali e tanta schiuma. Aveva
raccolto i
capelli lunghi dentro un asciugamano e aveva finalmente deciso di
immergersi
per un bagno ristoratore. Le avrebbe tolto la maggior parte della
stanchezza
accumulata.
Reila
tirò
un sospiro di sollievo e si rilassò, chiudendo gli occhi.
L’acqua
era
calda e il suo animo si stava risollevando. Improvvisamente la presenza
di
qualcuno che l’osservava, si fece pressante facendola
sobbalzare e guardarsi
intorno.
Delle
mani
sfiorarono le sue spalle.
-Reila,
rilassati. Non sono qui per ucciderti. Non ancora!
Kajiro
calcò
sull’ultima parola in un avvertimento da dare
all’assassina. Ma la voce era
melliflua e con quel tono che a Reila metteva i brividi.
L’uomo comprimeva
alcune zone delle spalle, per farla stare calma e tranquilla in modo
che lui
potesse dirle quello per cui era venuto.
-Cosa
vuoi?
La
voce di
Reila era sprezzante. Cosa mai poteva aspettarsi da lei?
Sicuramente
non che l’accogliesse a braccia aperte. Difatti la fronte si
era corrucciata e
lo sguardo puntato di fronte a lei era arrabbiato, ma più
che con lui, con se
stessa.
-Reila,
perché
non ti calmi?
Le
mani di
Kajiro si spostarono sulle spalle dell’assassina portando
alcuni massaggi per
rilassare i muscoli abbastanza tesi della donna. Sfiorava la sua pelle
come se fosse l’oro
più prezioso e Reila sentiva il respiro dell’uomo
sul collo, pressante e
invadente.
Reila
non
riusciva però a stendere completamente il corpo, anche se
l’acqua le dava un
certo torpore alla testa. Ma doveva rimanere lucida, anche il bagno era
rovinato.
L’uomo
le
si avvicinò pericolosamente all’orecchio e con una
mano andò a cingerle il
mento. Le fece voltare il capo, mentre lo sguardo
dell’assassina era meno
attento e meno sveglio di poco prima. Era come intontita.
-Voglio
assaggiarti. Da tanto tempo desidero farlo.
La
voce era
bassa, lenta e sfioravano la pelle di Reila come velluto.
Così come le labbra
dell’uomo sulla guancia che scivolavano delicate e il viso
ben rasato che non dava
alcun fastidio a Reila.
-Cosa
hai
messo nei sali?
L’uomo
sorrise e non poté far altro che avvicinarsi alle labbra
della donna e iniziare
un lento sfiorare di quella bocca che avrebbe voluto assaggiare
più di ogni
altra cosa. Ma non la baciò, non ancora. Non era il momento.
Voleva tenerla per
sé e farsi desiderare, così come lei aveva fatto
con lui.
-Te
ne sei
accorta. Solo qualcosa per farti abbandonare alla
tranquillità, mio fiore di
ciliegio.
Reila
non
poté far altro che spalancare gli occhi al nomignolo che le
aveva affibbiato,
anche perché era il nome che usava quando stava in Giappone,
un nome che
conoscevano in pochi. Quei pochi che sapevano come contattarla.
-Non
toccarmi.
-Non
lo
farò. Farò in modo che sia tu a chiedermi di
farlo.
Reila
aveva
la mente annebbiata e non riusciva a formulare una frase coerente con
tutto il
discorso. Non riusciva neanche a vederlo, dato che aveva il volto solo
per metà
girato verso di lui e con la coda dell’occhio le risultava
difficile.
Kajiro,
le
lasciò il mento sfiorandole il braccio e infine si
sollevò.
Reila
era
rimasta fissa di fronte a lei e non gli aveva più rivolto la
parola. Distese le
braccia lungo la vasca da bagno e le mani si strinsero a formare pugni.
Strinse
così forte da fare uscire qualche goccia di sangue. Le mani
già piagate da anni
avevano nuove ferite, ma le più amare che poteva avere.
La
cosa
peggiore e che iniziava ad instillarsi nei suo cuore una scintilla di
paura e
di rabbia nei suoi confronti. Paura di quell’uomo che lei
stessa aveva salvato
e che il male aveva traviato e rabbia perché era stata lei a
creare quel
mostro.
La
cosa
peggiore era che non ne poteva parlare con nessuno e non poteva neanche
sfogarsi a modo suo.
Uscì
dalla
vasca, sicura di essere sola. Kajiro era andato via, infilò
l’accappatoio e si
portò verso il salottino. Non era certo una donna che si
faceva mancare niente
e certo la sua bottiglia di vodka non poteva non esserci. Ma accanto a
questa
ce ne era un’altra, non per lei. Non sapeva neanche se
avrebbe mai assaggiato quel
nuovo alcolico, ma la teneva sempre. Magari qualcuno
l’avrebbe bevuto prima o
poi quel whiskey che le portava alla mente tanti ricordi.
Reila,
attraverso gli occhiali da sole, distingueva anche il più
piccolo particolare.
Era
al
tempio anche quel giorno, era l’ultimo giorno nel quale
poteva vedere George,
sempre se fosse riuscito a raggiungerla. Poi lui sarebbe ripartito per
la
Russia e anche lei.
Era
una
situazione già abbastanza complicata, mancava solo
quell’assassino da strapazzo
a complicare ancora di più il problema. Non poteva chiamare
Jin, ma aveva
bisogno dei suoi contatti per poter ritornare in Russia. Sicuramente
tutta l’
Organizatsya¹,
presto, avrebbe saputo chi lei fosse e questo non poteva permetterselo.
Oppure
poteva chiedere a George un aiuto.
Reila
scosse il capo. Non riusciva a
capire nemmeno perché era venuta di nuovo davanti al tempio.
Non sapeva perché
era ritornata in quel luogo e perché mai continuasse a
guardare gli alberi di
ciliegio. Ne sentiva il profumo e la profonda comunione che aveva con
quegli
alberi. Il padre le ripeteva sempre che lei era nata sotto quegli
alberi e ne
aveva preso il colore dei petali sulla pelle.
Chissà
cosa avrebbe pensato a vederla
adesso, con cicatrici profonde che le laceravano l’anima e la
giovialità di
bambina che era stata sostituita dalla freddezza della morte.
Poi
i pensieri raggiunsero Tokyo e il
porto, ma li scacciò subito, come i peggiori dei suoi
ricordi. Alla fine la
moglie di George le aveva invaso la mente. Non che la conoscesse, ma ne
conosceva gli intenti. Dopotutto era la figlia di uno degli uomini
più potenti
della Russia e, sicuramente, una delle donne più pericolose
del mondo moderno.
Aveva preso qualche informazione su di lei e ciò che la
spaventava di più era
lo sguardo cinico e senza cuore della donna di affari in carriera.
Ormai
monopolizzava quasi tutto l’impero di George e lui stesso si
era fatto gabbare
con il più semplice dei trucchi.
Reila
aveva appreso, almeno a
quel tempo, che il matrimonio di George fosse stato combinato
per poter salvare l’azienda, ma forse in quel crollo in borsa
che l'uomo aveva subito, dove sicuramente lo zampino della moglie era
stato proficuo, lei aveva preventivato tutto per poterlo sposare, anche
senza il suo consenso.
George
era, dopotutto, uno dei maggiori
rifornitori di materiale bellico per l’esercito russo e
questo doveva già
mettergli i campanelli d’allarme. Solo che George si era
fatto tradire da quel bel
faccino e dall’estrema tenerezza che dimostrava lo sguardo
della donna. Una
cosa saggiamente architettata per stargli accanto.
Reila
prese un profondo respiro,
lasciando che le sue mani si posassero sulla corteccia di uno dei tanti
alberi.
Alla fine era arrivato il momento e tutto ciò a cui aveva
sperato era diventato
fumo davanti ai suoi occhi, davanti alla sua anima.
Alla
fine lei aveva deciso e dopotutto
non sembrava una scelta così difficile. L’unica
scelta veramente difficile
sarebbe stata, un giorno, abbandonare tutto per una vita monotona e
tranquilla
alla quale aveva sempre aspirato.
Lasciò
il giardino e si diresse verso la
pagoda. Sollevò gli occhi, guardandone il tetto e
l’oro che l’ornava che
rifletteva sui suoi occhiali scuri. A quale religione avrebbe mai
potuto
affidarsi?
Non ci aveva mai pensato, anche se le chiese europee la affascinavano
di più.
Avrebbe desiderato un abito come lo aveva visto nei film della
Principessa
Sissi, ma sapeva anche che quel sogno era destinato a rimanere tale.
Reila
si avvicinò alla zona delle
offerte per il tempio e ne sfiorò la superficie. Poi alla
fine prese uno di quei
pezzetti di legno per esprimere il proprio desiderio e lo
attaccò alle altre
offerte.
Prese
un profondo respiro, senza celare
quella malinconia che ormai da tempo l’aveva presa.
Allungò una mano coperta da
guanto e aveva suonato la campanella. L’assassina chiuse gli
occhi e congiunse
le mani di fronte a sé e iniziò a pregare.
Chissà cosa l’aveva spinta a fare
quel gesto, ma una cosa era certa, ne aveva bisogno. Aveva bisogno di
sentirsi
protetta anche da un dio che magari nemmeno esisteva, ma aveva bisogno
di
sentirsi al sicuro.
¹L'Organizatsya
("organizzazione") è la criminalità organizzata
di stampo mafioso
della Russia, spesso indicata come mafiya
dagli stessi russi e nota in italiano come mafia
russa. Uno dei fenomeni che ha sorpreso maggiormente gli
osservatori stranieri della Russia post-sovietica è stata la
velocità con cui
si è diffusa ed imposta l'Organizatsya.
Angolo
dell'autrice
Lotiel
Scrittrice - La pioggia sulla neve
Vi invito a guardare la mia pagina Facebook dove
novità, spoiler e curiosità sui miei personaggi,
vi aspettano. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per
poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi
ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e per chi continua a
seguirmi nonostante tutto.
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Capitolo 4 *** 04 - Un'ombra ***
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Angolo
dell'autrice
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 5 *** 05 - Segreto ***
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Rostov
Velikij:
si trova sulle rive del lago Nero a 197
km a nord-est di Mosca ed è
una delle più antica città russe
poiché la sua esistenza è già
documentata dalle “Cronache dei tempi
passati” nell’anno 862. Fu governata
da Jaroslavl il saggio
e dal fratello Boris che vi introdussero il cristianesimo, non senza
una forte opposizione degli abitanti che nel 1071 uccisero il vescovo.
Fu chiamata Rostov-velikij (la grande) da Jurij Dolgorukij
nel XII secolo per conferirle maggiore importanza. Oggi Rostov
è un importante centro tessile e restano ancora costruzioni
antiche come il cremlino e il monastero di S. Jakov.
Cremlino
di Rostov:
La visita senza dubbio più importante. Con la vecchia piazza
del mercato sulla quale si affaccia la Cattedrale dell' Assunzione
(1408-1411). Accanto alla Cattedrale si innalza la torre campanara
(XVII secolo) con tredici campane i cui concerti sono stati incisi su
dischi (in vendita presso il Museo del Cremlino). Il Cremlino fu fatto
costruire nella seconda metà del XVII secolo dal metropolita
Jonas, uomo di grande cultura e di raffinato gusto artistico.
Angolo
dell'autrice
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
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chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
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Capitolo 6 *** 06 - Il Signor Yukino ***
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06
- Il Signor Yukino
Mosca
Reila
guardava con poco interesse le
persone che si apprestavano all’interno
dell’aeroporto di Mosca-Domodedovo per
prendere gli ultima voli della giornata. E dire che si era ripromessa
di non
tornare mai più in quella città da quando vi
aveva vissuto per qualche tempo
con Dmìtrij.
Guardava
quella gente che sembrava essere così felice e tranquilla
nella loro corsa affannosa
per prendere l’aereo e i suoi occhi si muovevano
freneticamente come se stesse
ricercando qualcuno, una persona che non sembrava essere in nessuno dei
volti
che vedeva andare avanti e indietro.
Le
mani le
tremavano impercettibilmente, anche se sentiva bene quel formicolio
lungo il
braccio, un fastidio acuito dalla presenza di colei che stava
ricercando con
tutte le sue forze e che finalmente riuscì ad intravedere.
Eccola.
Natasha,
con i suoi fidi scagnozzi, si stava affrettando per uscire
all’esterno
dell’aeroporto e poter salire sulla macchina che la stava
attendendo. Bella nel
suo completo rosso fuoco, che riprendeva il colore delle sue labbra e
in netto
contrasto con il caschetto scuro dei suoi capelli. Ma Reila sapeva che
gli
occhi celavano quella misteriosa paura che poteva avere finalmente per
un
fantasma, per il fantasma che l’avrebbe uccisa senza remore.
Anche
se
gli altri non potevano sentirli, i tacchi della russa risuonavano sul
pavimento
ad un ritmo frenetico. Era su questo che l’assassina si era
focalizzata,
inspirando una fantomatica essenza che poteva provenire dalla bambolina
fatta
di menzogne che era Natasha.
Era
diventata la sua ossessione da qualche tempo e quando succedeva, la
ferita alla
spalla acuiva il dolore per un semplice scherzo dei suoi sensi. Le
bruciava la
sconfitta che aveva subito da parte di quella donna e non riusciva a
farsene
una ragione. Ma Reila doveva rimanere calma e calcolatrice, come la
leonessa
prima di azzannare la sua preda. Sì, se la sarebbe mangiata
ma in un modo molto
più lento e freddo, così come la vendetta che
stava seguendo e che la stava
guidando, dandole l’euforia che le aveva dato la prima volta
che aveva ucciso.
Si
mosse
anche lei, Natasha non l’avrebbe mai riconosciuta, sapeva
mascherarsi bene e
non le risultò difficile mischiarsi con il resto del mondo
che l’aveva buttata
troppo presto in una dura realtà. Doveva solo andare a
recuperare la sua
pistola e alla fine compiere il piano.
L’assassina
afferrò la maniglia del suo trolley e iniziò a
camminare, dalla parte opposta
in cui era andata la russa. Uscita all’esterno
voltò il capo, come per
ricercare un taxi (in
effetti le serviva
davvero) e osservò la salita della sua preda sulla berlina
scura.
-Presto
sarai mia.
Le
labbra
dell’assassina si stirarono in un sorriso costruito e finto e
gli occhi le si
allargarono appena. Anche se non potevano essere visibili da sotto gli
occhiali
grandi e scuri, se qualcuno avesse potuto vedere per intero
quell’espressione,
avrebbe potuto tranquillamente affermare che la donna poteva somigliare
senza
ombra di dubbio ad una serial-killer.
Reila
riconquistò il suo autocontrollo fin da subito. Ora era
l’adrenalina dell’azione
che la guidava e si sentiva più che mai viva.
_________________________________
Paesino che affaccia sulla Baia di
Suruga
-Signor
Yukino?!
La
voce che
lo chiamava lo fece voltare improvvisamente e fermarsi durante la sua
tranquilla passeggiatina mattutina. Teneva le mani dietro la schiena,
voltandosi pian piano verso il ragazzo che lo aveva chiamato. Il signor
Yukino poteva avere tranquillamente sessant’anni, non di
più. E quegli
occhialetti che si scurivano alla luce solare, lo facevano sembrare
proprio la
tipica persona che voleva starsene per i fatti suoi. Ma ciò
che si notava di
primo acchito era il suo volto. Non era assolutamente giapponese, anche
se
aveva usato sempre un cognome nipponico. Lo aveva scelto lui.
Il
giovane
postino corse verso di lui a perdifiato, come faceva sempre del resto e
quando
passava riusciva sempre a farlo irritare non poco. Il signor Yukino
stirò le
labbra in un mezzo sorriso e la voce risuonò
più forte di quanto avrebbe voluto.
-Sì,
sono
qui.
Aveva
alzato la voce solo per farsi sentire dal ragazzo che gli
consegnò alcune buste
di lettere.
-Devi
per
forza gridare a quel modo?
Iniziò
a
riprendere il ragazzo. Quante volte glielo aveva detto di non strillare
a quel
modo ormai ne aveva perso il conto, eppure glielo diceva ogni
sacrosanta volta
sperando in un rinsavimento del giovane.
-Ha
ragione. Mi scusi.
Sempre
la
solita scusa campata in aria. Il signor Yukino credeva che
probabilmente il ragazzo ci
godeva a farlo imbestialire.
L’uomo
scorreva le lettere ad una ad una e semplicemente non fece altro che
sgranare
appena gli occhi scuri, contornati da alcune rughe abbastanza profonde,
e
passarsi una mano nei capelli neri, tagliati corti, così
come soleva sempre
fare nell’esercito.
-Sì,
sì.
Vai.
Sventolò
in
un rapido gesto la mano per congedare il giovane e quello
sfrecciò lungo il
viale per andare a consegnare la posta.
Yukino
rientrò a passò sveltissimo lungo il vialetto che
lo portava a casa sua. Si era
trasferito da poco in quel bel paesino sulle coste est del
Giappone. Si
trovava nella Baia di Suruga, della prefettura di Shizuoka. Era un paesino di turisti
anziani e di persone
che vi avevano acquistato la casa per poter stare lontani dallo smog e
dall’inquinamento urbano. Sul mare si poteva vedere anche
qualche barchetta con
il suo proprietario intento a pescare.
All’uomo
era quello che gli piaceva. Prevalentemente la tranquillità
di un luogo baciato
dal sole.
Spostò
con
la mano la porta appena aperta, un pesante portone blindato che la sua
mole gli
aveva permesso di spostare. Alto molto più dei giapponesi e
un fisico temprato
dal continuo allenamento.
Richiuse
la
porta dietro di sé e buttò a terra le lettere che
non servivano. Bollette,
bollette e solo bollette.
Sospirò,
un
pesante respiro che gli uscì fuori dai polmoni in modo
repentino e quasi improvviso.
Era ciò che leggeva sulla lettere che gli destava questi
profondi pensieri. Non
riceveva sue notizie ormai da tempo immemore e così la sua
scrittura gli aveva
ricordato i bei vecchi tempi.
Un
sorriso
comparve sule labbra sottili di Yukino. Ma rimase per qualche istante
interdetto
da quell’improvvisa scrittura. L’amico la usava
raramente e solo se un reale
pericolo incombeva su di lui. Un altro rapido sospiro che trattenne per
qualche
secondo prima di scartare la lettera, con una lentezza pari ad una
moviola
ultramoderna e infine l’aprì, tradendo
quell’impassibilità che manteneva
solitamente come signor Yukino e prese un’espressone
più enigmatica, come se
non fosse l’uomo che interpretava ma solo un mero personaggio
che chiedeva di poter vivere
una vita più tranquilla di prima.
Quelle
parole erano state scritte con una fretta assurda e con una tale
intensità che
la prima reazione di Yukino fu accartocciare la carta e tentare di
scagliarla
da qualche altra parte, lontana da lui.
Cominciava
con un semplice “Amico mio” ma finiva con quella
strana parola che non pensava
di dover leggere per molto, molto tempo ancora.
“Amico
mio,
tutto
bene?
Sai
che non ti scrivo ormai da tempo e quindi ti sembrerà strano
che
lo faccia adesso.
Ma
ascoltami attentamente.
Ora,
come ora, devi allontanarti dal posto dove ti trovi.
Presto
sapranno dove abiti.
Presto
verranno per ucciderti.”
Morte.
Era
questa la parola che aleggiava in quella lettera, un ombra che lo
seguiva ormai
da troppo tempo e ormai dallo stesso tempo ne sfuggiva. Aveva sempre la
valigia
pronta per questa evenienza e adesso era un’emergenza a cui
non poteva
sottrarsi.
________________________________
Mosca
Reila
tirò
una pesante boccata di fumo e lo buttò fuori dalla bocca con
la forma di una
lenta nuvoletta che si disperse nell’aria circostante.
Nuovamente lo stesso
gesto e nuovamente la nuvoletta, come se nel gelo
nell’inverno russo l'aria non formasse già
abbastanza quella condensa d'aria fastidiosa. Avrebbe anche potuto
smettere e
osservare l’aria condensarsi davanti alla sua bocca, ma
preferiva sporcarsi i
polmoni al momento.
Aveva indossato un pesante
cappotto foderato
di pelliccia che la teneva calda e un colbacco che le raccoglieva i
capelli
scuri sopra la nuca.
Le
labbra
colorate di rosso lasciavano alcune macchie sulla stessa sigaretta, che
infine
spense su uno dei posacenere, in mezzo ad altre cicche simili alla sua.
Il
collo ampio del cappotto le copriva la metà del viso e gli
occhi erano puntati
verso l’entrata de’ “Il Paradiso in
Terra”.
Di
tanto in
tanto l’assassina sbatteva i piedi in terra per il freddo,
anche se portava
degli stivali imbottiti anche questi per combattere il gelo.
Un
tempo le
piaceva guardare la neve, ma qui a Mosca era veramente troppa per i
suoi gusti.
Ma
l’entrata principale non era assolutamente la sua meta. Anzi,
era meglio capire
quanti uomini difendevano l’ingresso e il perimetro del
locale. La stanza
privata di Natasha, posta al primo piano dello stabile, era talmente in
vista
che non si poteva non notare solo alzando la testa.
Iniziò
a
camminare, girando al vicolo che costeggiava il locale e abbastanza
trafficato
da non far notare troppo la sua presenza.
La
russa
non si preoccupava molto della sua sicurezza, ma preferiva stare in
bella
mostra e far sfoggio di sé. Dopotutto era il locale di
lap-dance più famoso di
tutta Mosca e Natasha non aveva di paura di apparire, ma di essere
buttata nel
dimenticatoio. Per Reila non sarebbe stato difficile passare i
controlli dall’altra
parte del palazzo e infilarsi all’interno. E così
si infilò nel vicolo poco
frequentato.
La
prima
guardia era proprio di fronte a sé, girata dalla parte
opposta rispetto a lei.
Reila non dovette far altro che avvicinarsi di soppiatto, abbastanza
vicina da
poterlo tramortire con tubo di metallo preso dal vicolo. Fortunatamente
non
passava nessuno al momento.
L’assassina
sbatté le mani tra loro per togliersi la polvere dai guanti,
lasciare impronte
era l’ultimo dei suoi pensieri, ma stare attenti era una
delle sue regole. Si
guardò intorno per cercare come rendere quel tramortimento
più casuale
possibile ed ecco al caso suo proprio uno dei tanti mattoni staccatosi
dal
palazzo di fianco un po’ fatiscente. Mise un mattone di
fianco all’uomo e corse
verso le scale d’emergenza, senza farsi scorgere
dall’altra guardia che andava
avanti e indietro per la fine del vicolo dove quest’ultimo
incontrava una
curva. Non si era accorto di niente.
Reila
prese
un leggero respiro di sollievo mentre risaliva silenziosamente le scale
fino
alla finestra di Natasha, da dove sentì provenire alcuni
lamenti di piacere.
Digrignò i denti per il disguido momentaneo.
Sentì i sussurri, sicuramente
era una delle tante ballerine con cui Natasha amava intrattenersi e non
mise
molto a sentire la voce della russa.
-Vai,
Katrina. Lasciami riposare.
Il
momento
era arrivato e attese che la ragazza uscisse fuori con molta
disinvoltura e che
Natasha, sdraiata sul letto, si voltasse dalla parte opposta
dov’era lei per potersi infilare
all’interno della stanza. Reila era come una serpe che
striscia all’interno
della sua tana senza compiere alcun rumore.
Lo
sguardo
della killer era un misto di vendetta e adrenalina, cosa che le
scorreva per
tutto il corpo lasciando che i nervi fossero tesi fino allo spasmo.
Si avvicinò senza
fare rumore, muovendosi
sinuosamente come un serpente ed estraendo la pistola montata di
silenziatore.
Le
labbra
si stirarono in un sorriso sardonico, tanto da farlo sembrare
completamente
irreale, ma quella calma che la sua mano dimostrava, quella fermezza
sul volto
che la rendeva ciò che era, quell’espressione sul
volto completamente assente
alle sofferenze altrui era la maschera che le piaceva di
più. Ecco quello che era, una perfetta macchina di morte.
Reila
arrivò abbastanza vicino a Natasha che la canna della
pistola toccava quasi la nuca della russa.
-Natasha.
Un
sussurro
il suo che voleva rendere ancora più spaventoso il risveglio
della donna e così
fu, tanto da farla balzare dal letto e portarsi in piedi, seguendo con
lo
sguardo gli occhi di Reila, due pozzi completamente neri dove si
sarebbe perso
chiunque.
-Chi
sei?
-Dai,
non
farmi credere di non avermi riconosciuta.
Reila
con
la mano libera scostò il collo del cappotto rivelando il bel
viso chiaro e
lasciò ricadere i capelli lungo la schiena togliendo il
colbacco. La ferita
sulla spalla iniziò a pulsare, ma cercò
semplicemente di non farci caso. Non
poteva mollare proprio adesso che era così vicina al suo
obiettivo.
-Re…Reila…
La
russa
rimase per qualche istante incredula, fissando per qualche secondo la
canna
lucida di Firestorm, la fida compagna dell’assassina, che
ancora non accennava
ad alcun movimento verso il grilletto.
-Sì,
sono
io, Natasha. So che mi stavi cercando.
-Sapevo
che
quell’imbecille avrebbe combinato qualcosa, infatti eccoti
qui. Avrebbe dovuto
ucciderti quando ne ha avuto l’occasione.
Reila
non
poté far altro che sorridere appena. Bella, con quei
lineamenti da bambolina di
porcellana così semplici da far cadere gli uomini ai suoi
piedi.
-Oh,
non
essere così prevedibile, sapevi bene che non lo avrebbe
fatto.
-Cosa
vuoi
da me?
Natasha
rimase per qualche istante con il fiato sospeso, quando vide
l’indice di Reila
fermarsi sul grilletto e semplicemente il suo sguardo fiero
contrastante con la
paura fottuta che aveva la russa. La russa stringeva le mani
convulsamente al
petto e si guardava intorno senza trovare una sola via
d’uscita. Natasha si era
costruita una gabbia dorata perfetta.
-Ma
Natasha, è così semplice.
Reila
rise,
come non si permetteva ormai da molto tempo e tutto ciò
sembrava ancora più
surreale di quanto già non fosse.
-Devo
solo
ucciderti.
Il
volto
innocente e gli occhi leggermente sgranati in
quell’espressione quasi da
bambina e le spalle che si erano sollevate in un gesto di noncuranza,
ecco ciò che
aveva messo dentro la russa un terrore sordo, come non ne aveva mai
provati in
vita sua.
L’indice
di
Reila ora premeva leggermente sul grilletto, pian piano, fino a farle
desiderare di avere una morte veloce senza tutta quella messinscena.
Natasha
con
occhi sgranati alternava lo sguardo da Reila alla bocca della canna,
dalla
canna al volto dell’assassina. Strinse le labbra, se le morse
fino a far uscire
il sangue, dello stesso colore del rossetto, tanto da farle davvero
desiderare
di morire. Non era mai stata una temeraria e ne stava dando ampia prova.
Chiuse
gli
occhi e con quanto fiato in gola aveva, gridò. Reila poteva
solo ringraziare le
pareti insonorizzare che la russa si era fatta costruire per i suoi
incontri.
-Dmìtrij
è
vivo.
Natasha
l’aveva gridato così forte da indurre Reila a
fermare la corsa del grilletto
tutto d’un tratto, riportando l’indice verso il
castello dell’arma. Lo sguardo dell’assassina
si era fatto spento, ancora di più di quanto poteva essere e
si era svuotato
dell’adrenalina che aveva in corpo. Impercettibilmente,
tremò.
Una
risata
nervosa iniziò ad uscire dalla bocca di Reila, quasi volesse
farla risultare
normale, tanto da riempire lo spazio circostante.
-Sai
dove
si trova?
Natasha
annuì soltanto.
-Allora
portami da lui.
Angolo
dell'autrice
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 7 *** 07 - Come rendere le cose più difficili ***
02
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by _marty
07
- Come rendere le cose più difficili
Cosa
stava
accadendo?
Era
questo
che si ripeteva Jin da quando si era svegliato da quella tremenda botta
in
testa. Sì, molto probabilmente lo avevano colpito con
qualcosa di molto
pesante, anche perché avvertiva un tremendo mal di testa che
gli comprimeva le
meningi.
Era
legato
ad una sedia, in modo che non si potesse muovere neanche per respirare
un po’
più a pieno. Un nodo perfetto gli legava le mani dietro la
schiena e le gambe
erano belle aderenti ai piedi anteriori della sedia. Jin stava pian
piano
riacquistando la lucidità e gli occhi si stavano riaprendo
ad una velocità che
rasentava la moviola. La testa ciondolava e dalla sua bocca usciva poco
più di
un sibilo. Poteva sembrare un respiro molto affannato, anche
perché se Jin non
avesse preso il suo inalatore per l’asma, difficilmente
sarebbe arrivato fino
al giorno dopo.
Ma
non era
la malattia che gli attanagliava i polmoni, ma qualcosa di
più subdolo che lo
guardava nell’ombra.
-Avanti,
fatti vedere.
E
da un
angolo poco distante da lì, all’improvviso,
poté ben vedere un puntino rosso che
si accendeva e poi si spegneva. Jin aveva gli occhi ancora appannati e
non
riusciva a distinguere la sagoma, ma ne era sicuro: era un uomo,
qualcuno con cui
meglio non averci a che fare.
Quel
puntino rosso, nella penombra della stanza si spense di botto,
semplicemente
aveva finito la sigaretta e la figura si era alzata, lasciando la cicca
dentro
il posacenere.
-Temevo
quasi di averti colpito così forte da non farti
più svegliare.
La
voce dal
naturale accento giapponese, aveva fatto sollevare il capo di Jin che
teneva
penzoloni, quasi fosse una bambola di pezza buttata lì.
Sollevò lo sguardo e il
volto dell’uomo, ancora prima della voce, gli aveva fatto
tornare alla mente
alcuni ricordi che aveva cercato di seppellire.
Sapeva
bene
chi si trovava di fronte a lui e ad un certo punto iniziò a
provare paura.
Jin l’osservava. Aveva tratti occidentali, ma dalla
conformazione del volto si
poteva bene vedere che era giapponese; aveva preso dalle due razze le
parti
migliori.
Del
resto
Kajiro non era disdegnato dalle donne e questo lo rendeva ancora
più sicuro
della presa che aveva sulle persone. Aveva una mentalità
oscura anche per se
stesso e a volte si sorprendeva di quello che poteva fare o solo
pensare.
Kajiro
si
avvicinò di qualche passo, ma rimanendo sempre a debita
distanza da Jin, che
cercava in tutti i modi di sfuggire al suo sguardo.
-Sai
bene
perché sono qui.
A
quell’affermazione Jin non poté far altro che
stringere le mani a pugno e
scuotere il capo per qualche istante, mentendo.
-No,
cos’hai da dirmi di così urgente?
La
voce
rauca fu scossa da una legger risata, tanto che Kajiro fece una smorfia
di dissenso
sul bel volto pallido.
-Perché
rendete questo lavoro sempre più difficile.
E
detto
questo non si scompose, ma prese in mano l’inalatore
dell’anziano giapponese e
glielo sventolò a pochi centimetri di distanza. Kajiro
sapeva bene che se Jin voleva
tenersi la sua vita, quella era l’unica cosa che avrebbe
potuto farlo parlare,
altrimenti sarebbe passato alle maniere forti. Solo Dio sapeva quanto
gli
piaceva passare sempre alla seconda parte del trattamento.
-Avanti,
vecchio. Dimmi quello che voglio sapere e potrai morire con onore.
-Se
non
parlo mi uccidi e se parlo mi uccidi lo stesso. Che cosa ci guadagno io?
Un
sorriso
beffardo si disegnò sulle labbra di Jin. Anche se anelava di
fare solo
un’aspirata e il suo respiro era più affannato,
non poteva tradire la fiducia
di un caro amico, neanche se ci avesse dovuto rimettere la vita e
soprattutto
la fiducia che Reila aveva riposto in lui.
-Una
morte
senza dolore e sofferenza.
Kajiro
aveva sorriso dopo aver risposto all’uomo. Sentiva nelle vene
il flusso del
sangue irrompere come un fiume in piena verso il cervello. Non era mai
stato
una persona paziente, ma in quel momento doveva solo riuscire a
controllarsi,
altrimenti non avrebbe ricavato neanche un ragno dal buco. Sapeva bene
che la
piccola Karina sapeva essere sadica quasi quanto lui.
Jin prese un respiro profondo, anche
se gli
cominciava a risultare molto difficile e ogni respiro era una tortura
per i
suoi polmoni e per il suo petto, se iniziava a tossire era la fine.
-Non
vedo ancora il vantaggio per me.
Jin
era cocciuto, testardo così come la vita gli
aveva insegnato e questo a Kajiro non faceva alcun piacere.
-Avanti,
non capisco perché tu voglia soffrire.
Jin
sollevò solo lo sguardo e rise, con un misto
di attacchi di tosse, ma rise. Non sguaiatamente ma adorava quello
sguardo di
colui che non poteva sbilanciarsi più di tanto, lo sguardo
di Kajiro che
anelavano le sue risposte quasi quanto lui anelasse il suo inalatore.
L’assassino
si voltò di spalle, conscio che non
avrebbe mai potuto saltargli addosso e una mano andò a
sfiorare il mento. Nella
sua testa iniziarono a delinearsi le reali guide di quella notte e si
prospettava che Jin gli dicesse quello che voleva sapere.
L’uomo prese un profondo respiro, poi un altro.
Schiarì la voce e infine si
voltò verso Jin e con il suo solito savoir-faire si
avvicinò all’anziano. Un
altro profondo respiro e quel sorriso che non abbandonava le sue labbra.
-Bene, se proprio vuoi passare alle maniere dure, mi inviti a nozze.
Lentamente,
Kajiro, mise alle sue mani dei guanti
scuri. Piano, come in una danza dove il cigno sta morendo. Lo sguardo
era
truce e delicato al tempo stesso e questo a Jin mise una certa
agitazione.
-Cominciamo.
Detto
questo l’assassino sferrò un dritto sulla
tempia di Jin e l’uomo da lì a poco, svenne.
__________________________
Osaka.
Da quanto ormai non tornava in quella
città?
Ogni volta che voltava il capo in un angolo diverso, tutto sembrava
uguale a come lo ricordava. Dopotutto mancava da quasi
trent’anni, da quando
lei era morta.
Il signor Yukino aveva messo le mani nelle tasche e si era incuneato
nelle
proprie spalle per dare l’aria di un signore anziano che
voleva essere lasciato
in pace. Scorbutico e irascibile, come lo era sempre stato
all’età
dell’esercito dove aveva dato prova di grande coraggio. Ma
dopo quella faccenda
la sua vita era cambiata nel peggio, dopotutto era cambiata e non
poteva
farci nulla.
L’uomo aveva sempre pensato che se si potesse prevedere il
futuro, molti uomini
lo seguirebbero lo stesso, perché sembra l’unico
possibile a dargli una vita
movimentata e piena di avventure, ma ora come ora avrebbe preferito
rimanere
nella sua bella casa sulla baia di Suruga e vivere da pensionato fino
alla fine
dei suoi giorni.
L’espressione
era completamente persa in
chissà quale strano pensiero che lo portava in tempi
lontani, quando aveva
conosciuto Alexandra, la prima donna che aveva amato prima della sua
ragione di
vita.
Era bella. I capelli colore del fuoco e gli occhi gentili e caldi, gli
unici a
scaldarlo nell’inverno gelido siberiano. Era proprio
lì che l‘aveva conosciuta
e quel ricordo era così vivido che non gli sembrava
assolutamente reale. Poi,
quando seppe che era morta, non riuscì assolutamente a
perdonarselo. In cuor
suo aveva sempre pensato che fosse stata tutta colpa sua.
Yukino, perso in quel pensiero e nel sorriso di Alexandra, aveva
sollevato la
testa e aveva buttato tutta l’aria che non si era minimamente
accorto di aver
inspirato.
Era
così strano camminare in quella via, dove vi
si era ritrovato tante volte con il suo compagno d’armi. Si
era trovato a
sospirare nuovamente, prima di intravedere un’ombra
allontanarsi dalla casa di
Jin.
Yukino si tiro verso un muro, alzando il bavero del cappotto. Come
poteva
essere stato così stupido?
L’aveva anche avvisato di scappare, ma pensava che
l’unico luogo impensabile
dove poteva andare era anche quello più sicuro.
Più stai esposto e più non ti
vedono. Era questo che aveva imparato nella sua vita, ma adesso aveva
commesso
un errore madornale. Un errore che avrebbe potuto costargli la vita.
__________________________
Era
davvero
doloroso l’ago che entrava nel braccio e gli occhi
dell’assassino che lo
guardavano, fissi nei suoi, così folli da sembrare irreali.
Così neri da
sembrare dei buchi neri dove sarebbe potuto morire.
Jin
prese
un profondo respiro, accorgendosi che i suoi polmoni erano in fiamme e
il volto
assunse una nota di dolore misto alla voglia di voler nascondere tutto,
di non
far vedere all’uomo che stava soffrendo. Ma Jin non
poté trattenere un sibilo
che gli uscì prepotentemente dalle labbra dischiuse.
-Cosa
stai
facendo?
Jin
non
capiva neanche se avesse detto veramente quelle parole. Era ancora
intontito
dal pugno e la vista era completamente offuscata, tanto da vedere solo
una
sagoma indistinta davanti a lui, ma sapeva bene che Kajiro gli aveva
iniettato
qualcosa. Il liquido l’aveva sentito entrare prepotentemente
nelle vene e
sentiva il sangue refluirgli persino nelle orecchie.
-Ti
avevo
avvertito.
La
voce di
Kajiro risultò, alle orecchie di Jin, cavernosa e lontana,
come un mostro della
sua infanzia tornato indietro per poterlo mangiare.
Jin
sentì
indistintamente il rumore di una sedia trascinata, e nuovamente si
ritrovò la faccia di Kajiro di fronte al suo.
L’assassino gli aveva afferrato il volto,
sollevandolo e tenendolo stretto tra il pollice e l’indice.
L’anziano
aveva la testa pesante ed era debole. L’asma lo stava
divorando dall’interno e
non avrebbe potuto fare nulla se non morire, senza dire nulla.
-Ti
ho
iniettato un siero della verità, Jin.
Il
killer si
era seduto elegantemente davanti a lui, lasciandogli il volto
penzolare. Kajiro aveva accavallato le gambe e alla bocca aveva portato
nuovamente
una sigaretta, aspirandone appena il fumo e ributtandolo fuori con
nonchalance.
-Non
avrai
da me nessuna informazione.
Kajiro
aveva sorriso e aveva tirato un’altra boccata di fumo.
-Non
ne
sarei tanto sicuro. Dopotutto non puoi opporti.
L’assassino
aveva sempre usato metodi poco convenzionali nell’interrogare
qualcuno e molte
volte preferiva quello più semplice, come drogare le persone
e farsi dire tutto
quello che voleva.
-Conosci
il
pentothal?
L’aveva
chiesto con una voce bassa e calma, aveva tutto il tempo per aspettare.
Insomma, il tempo che a Jin restava e prima che le luci
dell’alba avrebbero inondato l'orizzonte.
L’anziano
non parlava e alla domanda dell’uomo annuì
soltanto. Era debole, ma
assolutamente cosciente di quello che l’assassino stava
facendo. Si sentiva quel
pressante peso sul petto, i polmoni sembravano scoppiargli tanti la
pressione
che ne proveniva e aveva assolutamente bisogno del suo inalatore, tanto
che la
voce, con sua somma sorpresa, uscì rantolante.
-Non
puoi
obbligarmi a parlare.
Le
labbra
dell’assassino si era incurvate in un sorriso sardonico e
aveva buttato fuori
un po’ d’aria, come un leggero colpo di tosse.
-Oh,
certo
che lo farai.
Una
leggera
smorfia che cercava di imitare un rattristamento da parte
dell’uomo che aveva
allungato la mani verso il pavimento, per dare un colpo alla sigaretta
e far
cadere la cenere che vi si era consumata.
-Dunque,
dov’è Reila?
Era
questo
che gli premeva più di tutto, la cosa che gli
interessava più di Kamamoto.
Jin
cercava
di resistere, ma non aveva più la volontà di una
volta e il siero era
abbastanza potente da far parlare anche un muto. Le labbra erano
serrate,
lasciando per qualche istante che un rantolo confuso uscisse dalle sue
labbra e
la sua faccia si trasformasse in una maschera di dolore.
-Dai,
Jin.
Perché sei così reticente.
Kajro
stava
perdendo la pazienza, ma doveva solo aspettare che il pentothal facesse
l’effetto sperato.
-Mosca.
Era
uscito
un rantolo, un filo di voce gutturale che chi avrebbe sentito da fuori,
sarebbe
potuto sembrare un animale ferito.
-Dovevo
immaginarlo. Natasha.
L’assassino
aveva portato una mano al mento, massaggiandolo. Stava pensando, ma non
rese
assolutamente vive le sue emozioni, tanto che la maschera di una
freddezza quasi
mortale gli aveva investito il volto, tirando i suoi tratti in modo
ferino.
-Vedi
che
puoi essere collaborativo?
Jin
si era
morso immediatamente le labbra, lasciando che gli occhi si stringessero
in un
modo di dolore che non veniva dal corpo, ma dalla consapevolezza di
aver
tradito la ragazza.
-Un’ultima
cosa.
Aveva
lasciato un attimo di silenzio all’interno della stanza, per
poi buttare la
sigaretta a terra, dopo aver espulso l’ultima nuvoletta di
fumo.
-Dov’è
Kamamoto?
Jin
allargo
le pupille. Aveva la testa ancora bassa e l’assassino non si
era accorto
dell’espressione che aveva fatto, ma non poteva assolutamente
immaginare che da
lì a poco glielo avrebbe detto.
-Se
mi dici
questo, ti lascerò andare.
E
sulle
labbra di quell’uomo si nascose un sorriso freddo e sadico,
di chi sa già che
la sua vittima è destinata a morire da lì a poco.
-Non
so dove sia, l’ho avvertito di andarsene.
Un
colpo di tosse scosse il corpo di Jin. Gli era
sembrato di sputare tutta l’anima in un solo colpo.
-E
come lo hai avvertito.
-Con
una lettera.
Un
mugugno da parte dell’assassino, lasciando una
leggera risatina nell’aria. Come quella del diavolo che si
sente di tanto in
tanto. Sinistra e maligna.
-E
questa lettera dove l’hai spedita?
-A
Suruga.
L’assassino
si alzò lentamente dalla sedia, e
riassetto la giacca gessata che portava e sbatté le mani sui
pantaloni scuri.
Aveva preso la via dell’uscita, lasciando Jin ancora legato e
malato.
-Come
si fa chiamare adesso?
La
domanda, a Kajiro, gli era frullata nel
momento in cui gli aveva detto di aver spedito la lettera. Attese,
senza
voltarsi, che l’anziano gli rispondesse.
-Yukino.
Kajiro
storse le labbra e una mano andò a
sfiorare la chioma castana. Era stato colpito come un fulmine a ciel
sereno.
-Bene,
Jin.
Kajiro
arrivò alla porta e prima di uscire, si
voltò verso l’uomo.
-Ah,
la dose che ti ho iniettato è letale.
Glielo
disse quasi come se fosse l’ultima cosa
che aveva pensato. Come se fosse una cosa senza importanza e detto
questo se ne
uscì fuori come un’ombra nella notte.
Jin era rimasto
lì, agonizzante e con una crisi respiratoria
che, con il suo problema dell’asma, avrebbe reso tutto
più facile. Aveva solo un
sorriso triste sulle labbra, lasciando che lui stesso, poco dopo,
cadesse in uno stato d’incoscienza.
Siero della
verità: è un
farmaco psicoattivo utilizzato per ottenere
informazioni da soggetti che non possono o non vogliono fornirle.
Secondo il
diritto internazionale, l'utilizzo di questi preparati è
classificato come una
forma di tortura.
Tuttavia,
essi sono correttamente e produttivamente utilizzati nella
valutazione dei pazienti psicotici nella pratica della psichiatria.
In
quest'ultimo contesto, la somministrazione controllata di farmaci
ipnotici
endovenosa viene chiamata "narcosintesi". Viene anche usato per
l’iniezione letale per i condannati a morte. La procedura
ed il metodo di esecuzione assomigliano alla tecnica per realizzare
un'anestesia generale: al condannato viene inflitta un'iniezione per
via
endovenosa contenente una dose letale di pentothal o pentobarbital
(barbiturici
molto potenti) misto ad un agente chimico paralizzante. Al termine
della
procedura, il cuore può continuare a battere per un periodo
che può variare dai
6 ai 15 minuti, dato che il condannato viene dapprima messo in uno
stato di
incoscienza e poi viene ucciso lentamente per paralisi respiratoria e
successivamente per paralisi cardiaca.
Angolo
dell'autrice
Ed eccomi di ritorno con un capitolo pieno di suspense
e di colpi di scena. Almeno spero che lo abbia reso tale
perchè nella mia testa era già tutto scritto,
doveva solo essere messo nero su bianco. Spero di esserci riuscita.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 8 *** 08 - Parole al vento ***
02
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by _marty
08
- Parole al vento
Era
stato
così tremendamente facile.
Gli
occhi
scuri si guardavano intorno e non avvertivano alcun pericolo. Solo ed
esclusivamente Natasha davanti a lei che la conduceva dove le aveva
chiesto. Da
Dmìtrij.
Ma
stranamente Reila sentiva attraversarle lungo la schiena una strana
sensazione,
qualcosa di cui si sarebbe dovuta pentire amaramente. Ma non riusciva a
dare un
nome a quel presentimento, tanto che aveva i sensi annebbiati da
ciò che le si
prospettava davanti.
Non
aveva
compreso il perché la russa la stava portando lì,
non comprendeva perché fosse
stato così semplice e soprattutto perché non
avesse chiesto alla donna con le
labbra di fuoco di dirle dove si trovava e ucciderla nella sua stanza.
La
pistola
rimaneva puntata verso il fianco della russa e la mano sinistra la
cingeva come
se fosse un’amica che aveva ritrovato dopo tanto tempo.
-Non
fare
la furba.
Natasha
si
era voltata a guardarla. Reila era sempre stata una bella donna, fin da
quando
l’aveva vista quella notte al suo locale, quando uno dei suoi
uomini l’aveva
ferita e il suo sguardo non era riuscita a staccarsi dal viso delineato
da una
leggera smorfia.
Reila
aveva
i nervi tesi e non si interessava alla donna accanto a lei, non
più di quanto
non meritasse.
Possibile che l’assassina
non si era accorta che poteva essere tutta una trappola?
Troppo
facile portarla con sé, fin a non pensare che poteva
tenderle un’imboscata o
che semplicemente voleva farla soffrire. A Reila questo non era passato
minimamente per la testa e quando si parlava dell’uomo che
aveva amato fino ad
annullare se stessa, non capiva più nulla e non riusciva
assolutamente a
collegare i fatti.
Tutto
quello che sapeva era non conoscere minimamente la sua reazione, semmai
la
notizia che Dmìtrij fosse vivo sarebbe stata vera.
Appena
uscite dal locale, minacciando Natasha che se nel caso avesse avvertito
qualcuno sarebbe morta prima che sparassero a lei, presero la direzione
dell’auto della russa. Il leggero venticello e la neve che
cadeva rasserenava
l’assassina e le toccava la pelle come una doccia gelata.
-Adesso
mettiti alla guida e portami da lui.
Reila
le
aveva fatto il cenno con la testa, non le servivano repliche. La russa
doveva
fare solo quello che diceva lei, altrimenti sarebbe finita molto male.
Reila
era
salita direttamente al posto del passeggero, tenendo ben nascosta la
sua fida
compagna, sempre puntata verso la sua vittima.
Il
suo sguardo
si chinò per qualche istante, mentre la russa metteva in
moto e partiva molto
lentamente. Aveva preso un profondo respiro e i pensieri iniziarono a
vorticarle in testa come un uragano, pungendole le meningi come il
freddo
russo.
Il
colbacco
le copriva la testa, dentro questo aveva raccolto i capelli e le dava
modo di
coprire il volto nel caso la tristezza l’avesse invasa. Al
solo pensiero stava
male e il cuore le faceva male, ma dopotutto, pensò alzando
il capo con una
certa autostima scaturita improvvisamente dal suo animo, credeva di
aver fatto
la scelta giusta a sparare all’uomo. L’unico errore
che non si era perdonata
era il non essersi assicurata che lui fosse morto davvero. Per qualche
istante
non pensò neanche a suo padre, tanto il pensiero di
Dmìtrij era così pressante
da risultare doloroso come un pugno nello stomaco.
Natasha
guidava prudentemente, lasciando che il silenzio si stabilisse tra
loro, come
un muto accordo preso il precedenza. Di sottecchi osservava
l’assassina che
notava fare lo stesso, lasciando che il suo sguardo si alternasse tra
la strada
e la donna. Le labbra sapientemente colorate di rosso di Reila si
muovevano
appena e la russa era sempre rimasta affascinata
dall’assassina, tanto da
desiderare di prenderla in qualsiasi modo potesse essere possibile.
Reila
sollevò lo sguardo verso Natasha, come se si fosse accorta
dei pensieri
dell’altra storcendo le labbra in una pericolosa smorfia.
Solo qualche istante
prima di tornare alla naturale freddezza del suo lavoro, con lo sguardo
dritto
di fronte a sé.
Percorrevano
le strade principali, sgombre dalla neve che continuava imperterrita a
cadere.
Si prospettava uno degli inverni più duri, ma le
autorità si erano già mosse
per mettere la città in sicurezza. Almeno per quelle persone
che se lo potevano
permettere.
Reila,
come
ripresasi da un momento di torpore dovuto al freddo,
riassettò la pistola sotto
il cappotto e la strinse con più veemenza.
Osservò i tratti di Natasha e in
quel momento miriadi di domande le vennero in testa, voleva soprattutto
capire
il perché di molte cose.
-Hai
solo
allungato un po’ la permanenza su questa terra.
La
voce era
gelida e lo sguardo ne seguiva completamente il pensiero, lasciando gli
occhi
appena socchiusi per contornare il momento.
Natasha
non
rispose, lasciando che l’assassina cominciasse nuovamente a
parlare.
-Cosa
ci
guadagni tu in questa storia?
La
russa
sgranò gli occhi, come se comprendesse che Reila sapesse
già abbastanza da
mettere alla gogna tutti i suoi collaboratori e soprattutto il suo
capo.
-Non
dirmi
che fai tutto questo per soldi, Natasha… mi cadresti ancora
più in basso.
La
russa
non fece altro che schioccare la lingua e un sorrisino le
affiorò sulle labbra
rosse. Sapeva bene che al momento non l’avrebbe uccisa.
-Parli
proprio tu. Il tuo lavoro è fondato sui soldi.
A
Reila
quella fu come una doccia fredda, ma ne aveva ricevute talmente tante,
da
risultare completamente asettica a quel commento.
-Non
stiamo
parlando di me, ma di te.
Reila
non
faceva altro che osservarla, fissarla con quel suo sguardo del quale si
doveva solo
avere paura, perché mostrava tutta la risolutezza e la
disperazione di quella
donna. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per arrivare ai suoi scopi.
Un
profondo
silenzio calò sulle due, poi improvvisamente Natasha
attaccò.
-Fu
Dmìtrij
che mi chiese di farlo.
Reila
allargò gli occhi, cercando di non far capire alla russa
quanto tutte quelle
parole facessero male.
-Fare
cosa
esattamente?
-Cercare
di
ferirti, Reila. Cercare di far vacillare le tue certezze,
così che lui avrebbe
potuto approfittare di quella situazione. Della tua debolezza-
Il
corpo di
Reila ebbe come un tremito improvviso, tanto che la mano coperta dal
guanto,
quella libera, si strinse a pugno, non curandosi se Natasha se ne
potesse
accorgere o meno.
-Aveva
previsto tutto. Fin dall’inizio.
Reila
strinse le labbra, lasciando che quel vento gelido nel cuore passasse
come
tutto l’amore che provava ancora per Dmìtrij. Per
lui si era arresa alle
emozioni, per lui aveva rinunciato a tutto e lui aveva già
previsto tutto
dall’inizio.
-Ne
eri
innamorata?
Questa
volta
fu Natasha a storcere le labbra e aprirsi in una risata moderata.
Lasciando che
lo sguardo gelido dell’assassina si posasse su di lei,
lasciandole quel freddo
addosso che non poteva togliere assolutamente. Di colpo la russa si
zittì.
-L’unico
errore che ho fatto è non essermi accertata che fosse morto.
Reila
avvicinò la pistola verso il fianco di Natasha, facendole
capire che fin’ora
era stata clemente, da quel momento in poi era tutta in salita.
-Chi
lo ha
soccorso?
Natasha
si
strinse le labbra in un morso per non parlare. Poi rilassò
tutti i muscoli,
mentre accelerava appena per superare due macchine e svoltare sulla
destra di
due edifici alti, dalle finestre blu.
-Non
hai
ancora capito? Ti ha usato fino alla fine…
Rimase
in
sospeso tutta la frase, poiché Natasha si fermò e
mise il freno a mano. Le mani
andarono a porsi sulle gambe, come in attesa. Stava facendo sfoggio di
tutto il
coraggio di cui era capace.
-Siamo arrivati.
Improvvisamente
tutte le domande che Reila aveva, compresa quella per comprendere
meglio le
parole di Natasha, caddero, come castelli di carta.
L’assassina
aprì lo sportello, tenendo sempre sottotiro la donna e le
intimò di scendere,
immediatamente. La russa non poté far altro che chiudere la
macchina e sentire
il corpo caldo di Reila accostarsi al suo, mentre
quell’ostacolo costituito
dalla canna della pistola, si frapponeva tra le due.
Davanti
a loro si ergeva la vecchia
fabbrica di cioccolato di Mosca. La Krasny Oktyabr, situata al centro
dell’isola artificiale di Bolotny. La fabbrica, dal colore
rosso vivo dei suoi
mattoni, era illuminata a giorno essendo ora un centro culturale e
dedito alla
vita notturna della città.
Gli
occhi di Reila si posarono per
qualche istante sulle persone presenti in quel luogo. Tutte diverse da
lei e
tremendamente a loro agio nei loro cappotti imbottiti. Neanche il
freddo aveva
attecchito la loro voglia di divertimento.
Prese
un profondo respiro, sentendo che
il quel luogo vi era già stata o che almeno
l’aveva vista da lontano. Le labbra
si strinsero in un muto grido di dolore quando vide in lontananza la
chiesa del
Salvatore, proprio dove Dmìtrij l’aveva stretta
tra le sue braccia la prima
volta e dove le aveva rubato il primo bacio della loro storia
completamente
travagliata.
L’assassina
aveva sentito le mani
tremare e la pistola non avere un appiglio forte e deciso. Difatti
sembrò
quest’ultima ricordare all’assassina chi era e cosa
faceva in quel luogo,
mentre Natasha si stringeva al suo fianco.
Il
corpo di Reila si irrigidì, non
soltanto per il freddo ma per quel contatto non voluto dalle mani della
russa
sul suo braccio. Storse le labbra staccandosi in malo modo
dall’abbraccio di
Natasha e infine poté sentire indistintamente il rumore del
fiume proprio di
fianco l’ex-fabbrica solo chiudendo gli occhi e riprendere il
controllo di se stessa.
Il gesto non era stato voluto, ma erano stati i suoi pensieri a
portarla a
reagire a quel modo. In verità, lei era ancora innamorata di
quell’uomo che
l’aveva tradita e trattata come una bambola di pezza. Era
diverso dal
sentimento verso Peter e in seguito a quello di George. Era qualcosa di
trascendentale, di completo abbandono dei sensi al solo pensiero.
Reila,
dopo che Natasha l’aveva guardata
con occhi furenti, si accosto a lei e la bocca della pistola si
accostò al
fianco della russa, sentendola da sotto il cappotto e attraverso quello
dell’assassina. Dopo questo la russa si ammansì.
-Andiamo.
Attraversarono
quella miriade di
persone, alle quali potevano semplicemente sembrare delle buone amiche.
Le
tendenze di Natasha non erano neanche ben viste dalla polizia russa e
tantomeno
dal suo presidente, difatti la donna aveva tranquillamente assunto un
comportamento docile e che a Reila sarebbe dovuto sembrare strano.
-Sei
sicura di volerlo?
La
voce della donna russa aveva varcato
il muro di silenzio che l’assassina aveva eretto tra loro,
perché semplicemente
non voleva avere una discussione con lei. Lo sguardo
dell’assassina fu come un
fulmine che saettò verso l’altra con la
velocità di un secondo. Si stette zitta
e non rispose.
Attraversarono
la vecchia fabbrica e alla
fine entrarono nel palazzo proprio dietro questa, lasciando la vita
notturna al
suo inizio.
-Dobbiamo
salire al quarto piano. Lui si
trova lì.
Era
la voce di Natasha che sempre
mantenendo un tono basso, seguiva Reila nella salita delle scale.
L’assassina restò
comunque attenta a qualsiasi movimento brusco dell’altra e si
guardò attorno. Come
se si sentisse spiata e completamente nuda a occhi invisibili.
Quando
furono arrivate l’assassina
spinse in malo modo la russa che si avvicinò alla porta.
-Ma
che modi.
Infine
alzò la mano e iniziò a bussare,
come se fosse tutto un codice segreto.
Reila
prese un profondo respiro e infine
puntò la pistola verso la testa della russa.
L’indice si portò velocemente
verso il grilletto, lasciando per qualche momento interdetta la russa.
-Adesso
non mi servi più.
Non
fece in tempo a far finire la corsa
al grilletto che la porta si aprì, gli occhi le si
spalancarono e cadde a terra
colpita da un dardo sonnifero. L’ultima cosa che aveva visto
erano quegli occhi
di ghiaccio, completamente privi di alcun sentimento.
Krasny Oktyabr:
Gli edifici di un ex fabbrica di
cioccolata sono diventati un bellissimo esempio di archeologia
industriale riutilizzata a scopi diversi. Per la popolazione moscovita
under 30, "Krasny Oktyabr" è soprattutto sinonimo di
cultura, e lo storico edificio color mattone di luogo alla moda, da
frequentare per rimanere al passo coi tempi. Questo da quando le linee
produttive della cioccolateria più famosa della Russia hanno
lasciato spazio a mostre, cinema, bar, ristoranti, che caratterizzano
una delle location più vive della città,
attraversata ogni giorno dalla sua popolazione più dinamica,
giovane, intraprendente. Collocata nel cuore di Mosca - presso lʼisola
artificiale di Bolotny - la facciata in mattoni rossi della storica
fabbrica dolciaria "Krasny Oktyabr", occupa buona parte del
lungomoscova Bersenevsky, a pochi metri dal Cremlino e dalla chiesa del
Cristo Salvatore, dal celebre “House on the
Embankment“, dal teatro Bolshoi e dal Museo Puškin.
Angolo
dell'autrice
L'ottavo capitolo è finalmente on-line e non
posso che essere fiera di dove sono arrivata fin'ora. Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
|
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Capitolo 9 *** 09 - Spia ***
02
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by _marty
09 - Spia
Rostov Velikij
Si
era
guardato abbastanza intorno prima di assoldarlo.
George
era
assolutamente cosciente di quello che stava facendo, ma sperava
sinceramente di
non trovare quello che temeva.
Era
questo
che pensava l’uomo, sdraiato sul proprio letto e a torso
nudo. Aveva appena
fatto sesso con la moglie e gli occhi erano puntati verso il soffitto.
Non
poteva far nulla che Sergej veniva a scoprirlo, ma usando i suoi fondi
privati
sperava che almeno in quella situazione non l’avrebbe
smascherato.
Katrina
uscì dal bagno e con indosso solo l’asciugamano,
ma chissà perché, guardandola
anche più attentamente, George non riusciva a provare
neanche quel pizzico di
lussuria che una moglie dovrebbe scatenare, anche con una consorte come
lei.
Bella era bella, non poteva negarlo, ma reputava quella donna una serpe
e
dunque pericolosa. Un pericolo che avrebbe voluto sinceramente evitare.
George
la
degnò di un rapido sguardo, lasciando che la donna gli si
avvicinasse e si
posasse di fianco a lui.
-A
cosa
pensi?
La
domanda
lo rese un po’ inquieto, tanto da aspettare qualche attimo
prima di rispondere.
Volse il capo, leggermente, verso di lei e la guardò, da
capo a piedi. Cosa che
a lei fece piacere.
-Alla
notte
appena trascorsa.
Sulle
belle
labbra di Katrina si disegnò un piccolo sorriso.
Spostò la mano verso il torace
di George e disegnò intricati ghirigori immaginari. Non era
stupida e l’uomo lo
sapeva bene.
-Devo
dedurre che ti sia piaciuta.
L’uomo
sollevò solo un angolo della bocca, tanto da farlo risultare
un ghigno. Prese
un profondo respiro, calibrando ogni singola sillaba che doveva uscire
dalle
sue labbra.
-Mi
chiedo
perché ti ostini a venire con me, potresti avere tutti gli
amanti che vuoi ed
evitarmi.
Katrina
non
poté non ridere, portando la mano sul petto come se volesse
calmare gli
scossoni di ilarità che l’uomo le aveva provocato.
-George,
sei il solito. Rovini sempre l’atmosfera.
Non
che ce
ne fosse mai stata all’interno del loro rapporto puramente
fisico, ma George si
sentiva anche una pedina in quel preciso istante, quando tutto doveva
essere il
compimento di un amore. Quello che non era mai stato tra loro. Non
poteva farci
assolutamente nulla, l’uomo non riusciva proprio ad essere
romantico neanche
per errore con lei.
La
donna,
ancora ridendo, si spostò verso la cabina armadio e
lasciando cadere
l’asciugamano direttamente a terra, il corpo nudo ebbe appena
un tremito per
poi scomparire dietro le ante, ma non senza continuare a parlare.
-Mi
lascerai ancora oggi?
La
voce era
fintamente contrariata e il tono rasentava il sarcastico. George non si
voltò
verso di lei, ma continuava a guardare verso l’alto,
l’unico posto dove non
rischiava di incontrare lo sguardo di sua moglie. Sollevò la
mano verso l’alto
guardando contrariato la fede all’anulare sinistro e infine
sospirò,
socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo in segno di diniego.
-Lo
sai
bene che tuo nonno non mi lascia due minuti liberi.
La
voce
dell’uomo era atona, alta il giusto per farsi sentire dalla
donna che fuoriuscì
solo con la testa, posando entrambe le mani per non cadere, lasciando
che i
capelli rossi le ricadessero sulle spalle come morbide onde, rimanendo
nascosta
dietro l’anta della cabina armadio.
-Beh,
è il
minimo che ti chiede, non dovresti neanche lamentarti.
George
non
poté che annuire e poi infine alzarsi, andare verso il bagno
e richiudere la
porta. Sul lavandino di questo vi era un test di gravidanza e questo
gli fece
sovvenire tanti ricordi poco piacevoli. Era solo questo che voleva da
lui. Un
figlio da poter plasmare come voleva lei. Il solo motivo per cui ancora
facevano sesso. L’unico modo in cui poteva servirsi di lui.
George
aprì
l’acqua del lavandino e si sciacquò la faccia,
sollevò lo sguardo guardandosi
allo specchio e si osservò bene. Un fantasma di quello che
era. Gli occhi
nocciola erano spenti ormai da troppo tempo e non riusciva a
capacitarsi di
come era arrivato a quel momento.
Le
mani
sostenevano il peso del busto nudo spostato in avanti.
Non
che non
avesse provato ad evitare di avere figli, ma lo tenevano sotto stretto
controllo, anche se sembrava il contrario. Se solo Sergej avesse saputo
che non
voleva assolutamente avere figli, soprattutto con la nipote, lo avrebbe
rovinato e questo non poteva permetterselo.
Era
arrivato il momento di agire. Era rimasto fermo fin troppo tempo.
_______________________________
Osaka
Yukino
aveva visto l’uomo andare via, ma stranamente non lo aveva
visto avvicinarsi.
Aveva preso a respirare un po’ a fatica, ma cercava di
calibrare il suo respiro
ai rumori della notte, in modo da non essere scoperto. Si era
acquattato contro
l’angolo di una casa a pochi metri da quella di Jin.
Sentiva
che
era successo qualcosa e per qualche istante iniziò a
guardarsi i piedi, come
rapito da qualche visione, come se sentisse che per l’amico
non ci fosse nulla
da fare se non solo una preghiera per far innalzare la sua anima in
cielo.
Yukino
si
era nuovamente sporto dal suo nascondiglio per poter vedere se
l’uomo che aveva
intravisto fosse ancora nei paraggi e questo lo aveva reso molto
più cauto,
avvicinandosi alla bella casa bianca, dove poco tempo prima Reila aveva
dormito
e che lui non sospettava assolutamente.
Lo
sguardo
era attento e scrutatore, indagava nel vicinato, ma nessuna presenza
oltre
quella di lui e qualche rada macchina di persone che andavano a
lavorare.
Arrivato
alla finestra sul retro, Yukino guardò un'altra volta verso
le sue spalle,
l’alba era arrivata, il sole stava rischiarando il cielo e
gli uccelli si
sentivano cantare già da qualche ora.
Prese
un
profondo respiro e l’uomo entro all’interno della
casa, continuando a rimanere basso
e cercando di fare meno rumore possibile. Aveva imparato ad uccidere un
uomo
armato con l’uso esclusivo delle mani e dunque questo non lo
spaventava,
l’importante era che la minaccia non fosse troppo distante da
lui.
-Jin?!
La
voce
dell’uomo risultò molto bassa e in ogni stanza
sentiva un odore di pulito e di
buono, Jin era sempre stato particolarmente attento alla pulizia.
-Jin?!
Un’altra
volta e nella cucina nessun rumore se non un leggero rantolo
improvviso, che
aveva appena sentito appena entrato ma che non ci aveva fatto caso.
Ma
quando
Yukino entrò all’interno del salotto gli si
gelò il sangue nelle vene. Jin era
riverso a terra. Le corde che lo avevano legato erano state sciolte e
lasciate
di fianco a lui, mentre il peso dell’uomo lo aveva portato a
cadere a terra,
riverso in modo scomposto.
-Jin!
Gridò
o
così era arrivato alle sue orecchie. Si lasciò in
avanti per soccorrere
l’amico. Rispetto a lui, Jin era invecchiato molto di
più, sarà stato per la
sua malattia o solo perché era portato ad appassire
così, ma era debole e troppo
magro tra le sue braccia. Infatti si era inginocchiato e aveva scosso
l’amico
per cercare di riprenderlo, aveva anche avvicinato l’orecchio
alla bocca
dell’altro uomo per sentire se respirasse. Benché
debole, Jin respirava ancora.
-Rispondimi,
amico mio!
Lo
aveva
abbracciato e aveva preso, a pochi passi da lui, l’inalatore
dell’uomo. L’asma
gli era venuto molto dopo essere uscito dall’esercito. Non
conosceva la causa
di quella malattia, ma sapeva che era successo qualcosa che gli aveva
negato
improvvisamente di parlarne con lui e così glielo accosto
alla bocca per fargli
prendere un po’ d’aria ai polmoni.
Jin
aprì
gli occhi e nell’appannamento della morte vide il volto del
suo amico e
sorrise, semplicemente.
-Aleksey?
Jin
corrugò
la fronte, improvvisamente.
-Cosa
ci
fai qui? Devi andartene subito.
Uno
scatto
convulso di tosse, mentre il veleno stava facendo effetto nelle vene
dell’anziano debilitato oltremodo dal trattamento che aveva
subito da Kajiro.
Infine Yukino sollevò Jin e lo depose sul divano, almeno era
un posto un po’
più comodo.
-Devo
chiamare un’ambulanza.
E
fece per alzarsi,
ma l’altro gli pose una mano sul braccio scuotendo il capo.
-Lascia
perdere. Io sto morendo.
Yukino
non
poté far altro che calare il capo e rassegnarsi. Glielo
aveva detto in modo
così tranquillo, che conosceva davvero la sua fine. Jin non
aveva mai mentito.
-Mi
ha
avvelenato e non mi rimane molto tempo.
Prese
un
profondo respiro, si sentì mancare improvvisamente il fiato
e artigliò con una
mano il braccio dell’amico che aveva tentato di alzarsi
nuovamente per
avvicinarsi al telefono.
-Ho
troppe
cose da dirti e poco tempo per farlo, quindi ascoltami.
Yukino
non
poté che annuire e lasciare all’amico tutto il
tempo che gli serviva per
formulare le frasi.
-Tutto
questo è stata opera del tuo vecchio amico. Ricordi Sergej?
-Come
potrei mai dimenticarlo?!
E
il volto
di Yukino si oscurò per qualche istante, quando
l’ombra di morte gli passò davanti
agli occhi fu lui a continuare.
-Ha
fatto
uccidere mia figlia.
Jin
sorrise
e andò a stringere la mano dell’amico.
-Te
l’ho
tenuto nascosto da così tanto tempo che ormai mi sembra
inutile farlo.
Yukino
non
comprese, ma cercò di ricordare quando aveva conosciuto
Sergej e soprattutto
quando aveva amato sua figlia Alexandra e quel ricordo gli
scaldò il cuore per
qualche attimo, fino a quando non ricordò il volto di Miori,
sua moglie e la
donna che aveva amato più si se stesso.
-Devi
ascoltarmi, Aleksey.
Si
era
completamente dimenticato anche di usare il nome di copertura e lo
chiamava con
il suo vero nome, con il nome che aveva prima di doversi nascondere.
Yukino
lo
guardò fisso e cercava in tutti i modi di trattenere quelle
lacrime che avrebbe
versato dopo per l’amico ormai in fin di vita.
-Tutto
questo è stata opera di Sergej. Ti sta ancora cercando e non
si darà pace fino
a quando non ti troverà. Ti sta addossando la colpa della
morte della figlia.
Un
altro
colpo di tosse e un rantolo che denotava gli ultimi istanti di vita di
Jin.
-Questa
è
opera di un suo sicario. Cercalo, è un giapponese. Il suo
nome è Kajiro.
-L’ho
visto
uscire da qui.
Annuì
Yukino anche se il volto gli era sconosciuto, ma aveva già
sentito parlare di
lui nell’ambito delle sue ricerche e dei suoi contatti. Aveva
sentito dire qualcosa
e adesso aveva la conferma di ciò che era capace di fare e
di farsi dire
qualsiasi cosa.
-Non
ho
parlato, amico mio. Non ho parlato.
-Lo
so.
Yukino
sorrise e gli deterse la fronte sudata. La sua mano passò
sulla sua fronte e in
quell’istante, improvvisamente, Jin gli rivolse un sorriso
fraterno tanto da
fargli sciogliere il cuore.
-Lui
la
conosce…
Un
colpo di
tosse ancora, un altro e Jin fece in tempo a respirare e a prendere un
po’ di
fiato.
-Conosce
tua figlia.
Lo
sguardo
di Yukino si fece più intenso e si allargò in
modo da denotare la sorpresa che
le parole di Jin gli aveva scatenato. Il cuore batteva in modo
spasmodico e le
dita aveva stretto appena la mano dell’altro uomo.
-Tua
figlia
è viva. Questo è il segreto che mi stavo portando
nella tomba.
Yukino
non
reagì. Rimase lì immobile a guardare la parete di
fronte a sé come se vi avesse
visto qualcosa. Lo sguardo assente e delicato, come se accarezzasse il
volto di
sua figlia.
Infine
si
chinò verso Jin e gli posò un bacio sulla fronte
e poco dopo lo sentì spirare
l’ultimo dei suoi respiri.
-Grazie
di
tutto, amico mio.
Yukino
si
alzò, non prima però di aver chiuso gli occhi di
Jin. Chiamò i soccorsi, ma
quando arrivarono da Jin, all’amico non lo trovarono, non
poteva esporsi per
questo e il suo compagno di gioventù lo aveva protetto fino
a farsi uccidere.
Lo
guardava
portato via in una barella, dopo che gli infermieri e i dottori avevano
constatato che non c’era davvero più nulla da
fare. Lo sguardo calò verso il
basso, un pezzo di cuore se ne era andato, ma le parole di Jin gli
avevano
svegliato quella parte del suo amore celato fino a quel momento.
Reila
era
viva e se lui glielo aveva detto voleva dire che c’era un
fondo di verità e nel
suo cuore sentì che quella scintilla di speranza non era mai
morta con la
figlia. Adesso si stava alimentando sempre di più.
Doveva
trovare Kajiro e farsi dire dove si trovava sua figlia, a costo di
fargli
sputare tutto così come aveva fatto con Jin.
_______________________________
Rostov Velikij
Erano
luci
rosse, luci soffuse e delicate agli occhi che nascondevano il vero
ruolo che
avevano nel contesto. Il bar era in una delle zone malfamate di Rostov
e molto
lontano dalla propria casa. George si guardava intorno, non facendo
trapelare
la vera motivazione per cui era andato in quel posto, così
lontano dai luoghi
solitamente frequentati.
Negli
occhi
castani sentiva il reale peso degli sguardi su di lui, ma quel nome lo
aveva
tenuto lontano dalla brutta gente, tanto che non lo aveva assolutamente
toccato
quando lo aveva pronunciato ed era entrato nel bar.
E
proprio
in quel momento, quando una delle cameriere carine e in abiti succinti,
che
sicuramente denotavano il reale uso di quel locale, gli si
avvicinò riuscì a
notare l’uomo che doveva incontrare proprio dietro di lei.
-Ha
bisogno
d’altro…
Non
la fece
neanche terminare la ragazza che con la mano gli fece cenno di
allontanarsi e
si artigliò al suo doppio whiskey ordinato poco prima.
Sembrava un uomo pieno
di sé e non aveva dato cenno di cedimento neanche quando due
brutti ceffi si
erano avvicinati a lui e gli avevano parlato, ma solo il nome
dell’uomo era stato
sufficiente a farli allontanare da lui.
-Ti
stavo
aspettando.
E
stese il
braccio verso il bracciolo del divanetto dove si era accomodato,
facendo tintinnare
il ghiaccio all’interno del bicchiere. Ecco la sostanziale
differenza tra
George e Dmìtrij. Il ghiaccio nel bicchiere del whishey.
L’uomo
gli
porse alcune carte e gliele passò con circospezione.
-Signor
Kivonich, questo è tutto quello che dovrebbe sapere sul suo
socio in affari.
George
si
era sporto in avanti, aprendo la cartella con i documenti e con la coda
dell’occhio studiare nuovamente l’uomo che gli
stava di fronte. Non era sicuro
di potersi fidare ciecamente di lui, ma doveva tentare questa strada.
-Spero
in
una sua discrezione.
La
voce era
bassa e misurata, tanto da far intendere all’altro di non
essere un uomo
qualunque. George non poteva esporsi e dunque aveva chiesto a lui di
fare il
lavoro sporco.
-Avrà
tutta
la discrezione che potrà pagarmi.
George
non
poté far altro che sorridere sghembo e guardare fisso
l’uomo.
-Sapevo
di
potermi fidare di lei. Il pagamento è dove lo ha sempre
trovato. Spero di non
doverci incontrare più.
Finì
l’alcolico in un sorso solo e si alzò, mettendosi
il cappotto sulle spalle e
afferrando i documenti, come preziosi gioielli infilandoli nella borsa
di
fianco a lui e infine si diresse verso l’uscita. Era arrivato
il momento della
rivincita.
Angolo
dell'autrice
Il nono capitlo è finalmente on-line e non
posso che essere fiera di dove sono arrivata fin'ora. Naturalmente mi
scuso per il tremendo ritardo e per farmi perdonare ho scritto un
capitolo un po' più lunghetto del solito, perchè
stiamo entrando davvero nel vivo della storia e non posso che essserne
fiera.
Dunque avrete capito adesso che Yukino ha parecchi nomi, ma solo quello
che pronuncia Jin è quello vero, quello di quando si era
arruolato nell'esercito russo e che è il vero padre di
Reila, che ora sa bene che la figlia è ancora viva.
Vorrei magari chiedere cosa ne pensate e cosa vi aspettate da adesso in
poi, naturalmente se volete lasciare una traccia del vostro passaggio
non posso che esserne doppiamente felice.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 10 *** 10 - Cuore ***
02
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by _marty
10 - Cuore
Mosca
La
testa le faceva male e ancora era intontita
dal sonnifero che le aveva regalato quelle ore di sonno inaspettate.
Reila
mosse appena il capo da una parte all’altra e si rese conto,
con un po’ di
ritardo, di essere ammanettata al letto dove stava riposando, tirando
semplicemente
la mano verso di lei. Aprì leggermente gli occhi e si
accorse della troppa luce
all’interno dell’ambiente, come un neon puntato
direttamente sui suoi occhi.
Tirò
con più forza le manette che la tenevano
bloccata, facendo un rumore fastidioso anche alle sue orecchie. Era
stata legata
solo da una mano.
Si
tirò a sedere e cercò in tutti i modi di
liberarsi.
Le avevano tolto anche i ferretti dai capelli e rimaneva solo con il
suo
tailleur con cui era arrivata da Natasha. Anche la sua fida compagna
era
sparita.
Sgranò
gli occhi improvvisamente, come se tutti
gli avvenimenti le fossero ritornati come un lampo di luce nella testa.
Dmìtrij.
Era
il suo il volto che aveva visto appena era
stata aperta la porta? Erano suoi gli occhi che aveva scorto e che si
era
sorpresa di vedere tanto che il suo cuore in quel momento aveva perso
un
battito?
Prese
a respirare con un po’ di fatica, un peso
invisibile le si era posato sul petto senza permetterle di prendere
aria.
L’avevano
lasciata sola lì, senza nulla, se non
un bicchiere di acqua di fianco, sul comodino. Lo guardò ma
non lo prese,
avendo paura che ci fosse qualche strana droga per farla parlare, ma
dopotutto
non era lei ad avere qualcosa da dire.
Reila
cominciò a guardarsi attorno, capire se era
ancora nel luogo dove era arrivata con la russa oppure in un altro
posto, ma si
accorse solo in quel momento che non aveva visto nulla
dell’appartamento se non
quegli occhi.
Un
respiro profondo. Non doveva assolutamente
farsi prendere dal panico, ma era decisamente il panico a prendere pian
piano
piede dentro di lei, lasciandole intendere che quella era solo
l’inizio della
sua partita.
Un
altro profondo respiro prima di socchiudere
gli occhi e buttarsi sul letto, guardando il soffitto. Doveva solo
attendere.
Nella vita aveva imparato anche quello. Saper attendere il nemico.
Sentiva
dentro di lei che comunque tutto era destinato
a succedere e per quanto avesse voluto quell’incontro, adesso
sentiva che forse
aveva fatto un tremendo errore e proprio in quel momento, quando i suoi
pensieri si spostarono sui suoi ricordi, che comparve un sorriso
malinconico
sulle labbra rosse e così Reila si riaddormentò.
________________________________
La
guardava. Non poteva farne a meno. Voleva
ricordare quando si addormentava tra le sue braccia e non la lasciava
mai da
sola. Sentiva un profondo vuoto che aveva lui stesso voluto e questo
non poteva
che fargli ancora più male.
Dmìtrij
era lì, seduto accanto al letto dove
Reila riposava e sentiva una profonda ferita al petto, trasmessa anche
dal
sorriso con cui la donna si era abbandonata, come se avesse intuito a
cosa
pensava quando si era addormentava.
Reila
fece qualche movimento e l’uomo si alzò di
scatto dalla sedia, portandosi verso la penombra. Lei sicuramente non
aveva
dimenticato ciò che le aveva fatto e questo era il prezzo
che lui avrebbe
dovuto pagare per tutta la vita.
L’uomo
passò una mano tra la capigliatura
cresciuta dall’ultima volta. La barba era di tre o quattro
giorni e non aveva
voglia di farla, quell’aspetto gli conferiva almeno una
piccola copertura
quando usciva. Nessuno doveva sapere che era vivo. Tranne lei alla
quale
avrebbe dovuto chiedere un altro favore.
Il
problema era vedere se Reila avrebbe
accettato.
________________________________
Lo
sguardo dell’assassina si aprì appena,
lasciando che le ombre prendessero pian piano forma nella sua mente.
Sbatté più
e più volte le palpebre per assicurarsi una buona visuale
con la luce che
filtrava dalla finestra chiusa. Almeno poteva ben capire che la notte
era
trascorsa. La luce al neon era stata spenta.
Quando
si svegliò ebbe l’impulso di alzarsi e
diede uno strattone secco alle manette che la serravano al baldacchino
del letto.
Non fece neanche in tempo a vedere la sagoma vicino alla porta,
poggiata a
questa, che il cuore se ne accorse prima. Difatti aveva preso a battere
a ritmo
serrato e il respiro si era fatto più pressante e veloce.
Reila
aveva aperto la bocca senza però riuscire a
dire il suo nome, tanto la sua vista l’aveva sconvolta. Non
pensava neanche di
essere sveglia e avrebbe faticato un po’ per avere una
concezione distaccata
dalla situazione.
Dmìtrij
sospirò, prendendo un rapido respiro e
buttando fuori l’aria rumorosamente. Si avvicinò
alla donna e lei, di rimando,
si spostò verso dietro, anche se bloccata dalla manetta. Gli
occhi dell’assassina
erano chiusi in una fessura, voleva fargli percepire che non aveva
paura di lui
e che non lo temeva, ma che gli voleva stare il più lontano
possibile.
Lui
si soffermò a qualche passo da lei e si
bloccò. Sarà stato quello sguardo che gli aveva
lasciato, un guanto di sfida
che non avrebbe dovuto raccogliere e infatti fu proprio così
che fece.
Dmìtrij
si massaggio la mascella con una mano.
Non sapeva cosa dire e qualsiasi cosa provasse a pensare gli moriva
sulle
labbra. Le preoccupazioni gli avevano conferito qualche altra ruga di
espressione, rendendo il suo volto molto più affascinante di
quanto già non
fosse di suo.
Reila
lo guardò. Lo osservò più attentamente
di
come non lo aveva mai visto e improvvisamente la bocca si
stirò in un sorriso
tirato e sardonico.
-Dunque
è questa la faccia dei traditori.
La
voce risuonò lenta e delicata, come se gli
avesse appena detto che l’amava. Infine schioccò
la lingua al palato e rimase
in attesa. In attesa di quelle parole che avrebbe dovuto dirle e che
invece
tardarono ad arrivare.
-Ho
bisogno del tuo aiuto.
Erano
uscite così, poco prima di capire che non
erano proprio le parole adatte all’occasione, ma era
disperato e avrebbe
tentato in tutti i modi di convincere la migliore assassina che avesse
mai
conosciuto.
-Diciamo
che non sono proprio le parole che mi
aspettavo.
Sempre
quel sorriso sardonico e sempre
quell’indifferenza sulla faccia che a Dmìtrij
facevano più male di un
proiettile nel petto.
Lo
sguardo di Reila era ostile e non poteva
essere altrimenti, anche perché stava resistendo con tutta
se stessa per non
cadere nuovamente in quella trappola. Ma non sarebbe stato facile, non
per lei.
L’uomo
invece rimase per qualche istante
impassibile, ma non somigliava neanche alla metà del
Dmìtrij che lei ricordava.
-Reila,
ho bisogno assolutamente del tuo aiuto.
La
donna non riusciva a capacitarsi che glielo
stesse chiedendo di nuovo e non riusciva a credere a quello che stava
sentendo.
Come se nulla fosse successo. Il volto si piegò leggermente
sul lato.
-Perché?
Non
era rivolto all’aiuto chiesto, ma ad un
motivo molto più pericoloso.
-Ho
bisogno che tu uccida qualcuno per me.
Reila
cercò di trattenere una risata, ma proprio
non ce la fece. Scoppiò in una risata, buttando la testa
indietro e
sdraiandosi, come poteva, sul letto a baldacchino dove era stata
ammanettata.
L’uomo
la guardò. Si sarebbe aspettato qualsiasi
comportamento, ma non questo. Non se lo aspettava proprio.
Infatti
l‘uomo rimase solo a guardarla, perché il
quel gesto era racchiuso tutto l’odio che provava per lui.
Per quell’essere che
le aveva reso la vita un inferno. Solo che lui non lo sapeva.
Reila
si riprese poco dopo, resistendo a stento
ad asciugarsi una lacrima che le era scivolata sulla guancia.
L’angolo della
bocca si inclino verso l’alto, lasciando quel sapore amaro in
bocca all’uomo
che le stava di fronte.
-Che
strano, anch’io vorrei uccidere qualcuno e
guarda caso lo farei esclusivamente per me stessa.
Le
parole erano risuonate con una certa malizia
mista al veleno della peggior specie. Reila lo stava fissando e non
poteva fare
altro che nutrirsi di quelle sue paure, dei suoi dubbi e di
ciò che lui stava
pensando per rispondere
alla sua
provocazione.
Passò
qualche istante e il silenzio intorno a
loro diventò sempre più pesante. Sempre
più stretto, tanto da far annaspare
l’aria ad entrambi.
Dmìtrij
si sentiva in un vicolo cieco e tutto il
potere che aveva su di lei, lo aveva perso ormai da tempo. Doveva solo
giocare
d’astuzia e cercare di convincerla. Si avvicinò a
lei e le mostrò la chiave per
aprire la manetta.
-Non
voglio tenerti prigioniera.
-Hai
perso il diritto di dirmi ciò che devo fare
e molto più di tenermi legata a te.
Le
parole erano state sputate e la donna si fece
solo più distante da lui, come se ci fosse un muro
insormontabile tra i due che
impediva ad entrambi di vedersi veramente.
L’uomo
giocherellava con quella stessa chiave,
come se avesse voluto farle credere che non l’avrebbe mai
liberata. Non fino a
quando non gli avrebbe detto sì, supplicandolo di tenerla
con sé.
Ma
Reila aveva altri programmi, altre cose da
seguire che stare ad ascoltarlo. Anche se il suo cuore non smetteva un
attimo
di palpitarle nel petto, le sue parole non tradivano ciò che
le suggeriva la
testa. Non cedere in nessun modo e in nessun caso.
-Presto
ti spiegherò tutto, ma adesso devi
aiutarmi.
Lui
era esasperato da quel comportamento e aveva
cominciato a fare avanti e indietro nella stanza accarezzandosi i
capelli e
prendendo rapidi respiri. Capì subito che con la donna il
gioco della chiave non
avrebbe funzionato.
Dmìtrij
fissò lo sguardo in quello di Reila e a
grandi passi le si avvicinò, afferrandola per il volto con
una mano e stringendole
la mandibola, ma senza esercitare forza.
Voleva
guardarla negli occhi, cercare di capire
se davvero nel suo cuore non c’era più posto per
lui. Se davvero quella donna
si era trasformata in una vipera che sputava veleno.
La
mano dell’uomo tremava e lei se ne rese conto.
-Hai
paura.
Era
stata lei a parlare che non aveva accennato a
liberarsi dalla sua presa, affrontandolo a viso aperto. Aveva allargato
gli
occhi e lo aveva deriso con la sola espressione del volto.
Dmìtrij non riusciva
assolutamente a reagire a quella chiara provocazione.
-Se
sei così sprezzante verso di me con le
parole, perché il tuo cuore sta per esplodere?
E
detto questo l’uomo fece un mezzo sorriso, lo
sprezzante di sempre, quello della Gioconda che deride tutti con il suo
mistero. Detto questo con la mano libera andò a sfiorare il
petto di Reila che
ebbe un sussulto non voluto. Il corpo la stava tradendo.
-Si
arrenderà anche lui prima o poi.
Le
parole di Reila risuonarono come un addio a
quell’amore che l’aveva e la stava ancora
divorando. Un amore malsano e
ridicolo che il suo cuore si ostinava di tenere vivo.
-Tu
non mi hai dimenticato.
Fu
come uno schiaffo in pieno volto per Reila. La
donna allargò gli occhi questa volta per la paura che lui
potesse capire
qualcosa. Cercava con tutti i mezzi di non fargli intendere nulla e
cercava di
rimanere attaccata al suo odio, perché quello le era rimasto
verso quell’uomo.
O così voleva far intendere e cercava di imprimersi nella
testa.
-L’unico
modo, Dmìtrij, sarà ucciderti con le mie
stesse mani.
Reila
fece scivolare quelle parole, calcando sul
nome come a volerlo togliere definitivamente dalla sua testa e detto
questo gli
sputò addosso con astio. Lui non fece altro che lasciare la
presa sulla sua
faccia e pulirsi il volto con la manica della camicia, lasciando
intravedere in
quegli occhi di ghiaccio una consapevolezza diversa da quella con la
quale era
entrato nella stanza. Reila poteva cedergli ancora.
-Dunque
deduco che tu non voglia aiutarmi?
In
pochi istanti aveva riacquistato la sicurezza
in se stesso. Aveva ritrovato l’arroganza che lei ricordava
bene e sicuramente
aveva trovato quel se stesso che lei odiava più di ogni
altra cosa.
-Liberami.
Sibillina.
-Assolutamente
no.
-Dmìtrij,
non farmi pentire di non averti sparato
un altro proiettile quel giorno.
Il
sorriso dell’uomo si allargò con una nuova e
ritrovata sicurezza e malizia.
-Voglio
che tu lavori ancora per me.
-Spero
che tu riesca ad uccidermi prima che io
riesca a liberarmi.
Le
parole di Reila erano cariche di sfida e di
risentimento. Lo vide allontanarsi e aprire la porta della stanza.
L’assassina
aveva il fiatone corto e lo guardava in cagnesco. Aveva talmente tanta
rabbia
da non riuscire neanche a sfogarla. Poi Dmìtrij la
guardò con un sorriso sghembo.
-Non
ce ne sarà bisogno.
Reila
prese un profondo respiro, prima di vederlo
allontanare e quindi chiudere la porta dietro di sé.
Nuovamente rimase da sola,
ancora ammanettata al letto senza sapere cosa fare. Le sue certezze
stavano
crollando, ma non poteva farlo. Non dopo quello che lui le aveva fatto.
-Lasciami
andare via da qui!
Lo
gridò con tutto il fiato che aveva in gola e con
le lacrime che le pungevano gli occhi, ma che si ostinava a trattenere.
I
polmoni anelavano più aria di quanto lei poteva respirarne
in quel momento.
Stava cedendo ad un momento di panico e cerco di tranquillizzarsi,
capendo che
quella non era assolutamente la via da seguire, ma quel sentimento che
aveva
cercato di celare con tutta
se stessa
stava cominciando a divorarla dall’interno.
________________________________
Quando
Dmìtrij aveva richiuso la porta dietro le
proprie spalle, si era poggiato a questa prendendo un profondo respiro
per
calmare anche il suo cuore.
La
stava nuovamente trattando come avrebbe voluto
evitare, ma non riusciva a mostrarsi per quello che davvero era e
quindi
cercava di reprimere quel dolore, un filo spinato che gli stingeva il
cuore
facendolo sanguinare. L’aveva sentita urlare e
c’era mancato poco che non si precipitasse
all’interno per abbracciarla stretta a lui.
Non
poteva cedere. Dopotutto doveva risolvere
quel problema e poi forse avrebbe potuto dire tutto
all’assassina. Alla donna
che aveva sentito sempre sua.
Angolo
dell'autrice
Siamo al decimo capitolo e la storia è
ancora all'inizio. Finalmente è arrivato il momento
dell'incontro tra Reila e Dmìtrij. Non so, ma il capitolo
l'ho letto e riletto tante volte ma non riesce ancora a convincermi
appieno. Però per un certo verso mi piace così il
loro incontro. Uno scontro tra titani. Grazie per essere arrivati fino
a qui e semplicemente se vi piace o anche se non vi piace, fatemi
sapere cosa ne pensate. E ricordate ce lasciare recensioni aumenta
l'autostima dell'autrice e del recensore. XD
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 11 *** 11 - Bentornato ***
02
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by _marty
11 - Bentornato
Rostov
Velikij
L’osservava
ormai da troppo tempo nascosto in un angolo della strada, ma non poteva
avvicinarsi poiché sembrava circospetto mentre parlava con
quell’uomo. Si
guardava le spalle come se da un momento all’altro qualcuno
potesse spuntare fuori
e ucciderlo.
Il
signor
Yukino aveva preso un aereo dal Giappone quella stessa mattina e era
arrivato a
Rostov con un taxi. Era rimasto appostato in un bar in un primo momento
e
l’aveva seguito poco dopo, cercando di capire il momento
migliore per
avvicinarsi.
Non
faceva
nulla che potesse dare sospetto ad alcuno. Stava li a guardare il
cellulare,
facendo finta di ricercare qualcosa di importante nella rubrica,
leggeva il
giornale. Dopotutto quella era la sua Patria Natia, sapeva come
muoversi.
Eccolo.
Una
stretta di mano e nulla di più, per poi allontanarsi e
avvicinarsi alla
macchina che lo attendeva vicino al marciapiede. Fu lì che
Yukino allungò il
passo e cercò di fermarlo.
Si
guardò
intorno, procedendo ad un ritmo serrato e attraversò la
strada. Per poco non lo
prese in pieno una macchina. L’autista suonò il
clacson per intimargli di
spostarsi e lui di rimando alzò solo le mani, ma questo
imprevisto gli servì a
far sollevare gli occhi all’uomo che stava seguendo e di
guardarlo.
L’altro
sbiancò di colpo e si soffermò a osservarlo
mentre si avvicinava a lui. Schiarì
la voce e cercò di riprendersi, ma alla fine sapeva che
questo momento sarebbe
arrivato prima o poi, ma non credeva così presto. Voleva
dire solo una cosa,
che qualcosa di grave era successa e che molte altre si sarebbero
susseguite.
George
prese un profondo respiro e si guardò intorno per poi fare
cenno a Yukino di
avvicinarsi immediatamente alla macchina e di infilarsi
all’interno. Questo al
momento sembrava la priorità più assoluta e la
cosa più strana era che il russo
sembrava conoscerlo veramente bene. Non si erano ancora scambiati una
parola,
ma già sapevano di ciò che dovevano parlare. Di
una promessa che era stata
fatta molto tempo fa.
___________________________________
Il
fumo gli
annebbiava gli occhi e non riusciva a ragionare con
lucidità. La sigaretta era
stretta tra l’indice e il medio, il pollice leggermente
flesso verso il filtro
e la bocca contratta in una smorfia particolarmente preoccupata.
L’altro
uomo gli stava seduto accanto. Le gambe divaricate leggermente e un
braccio
poggiato lungo il finestrino, la mano che sosteneva la testa. Lo
sguardo era
vacuo davanti a sé e anche lui aveva una sigaretta in mano,
ma non l’aveva
accesa. Aveva smesso molto tempo prima e cercava di non ricascare nel
giro.
Il
separé
della macchina era stato tirato su e l’autista era un fidato
uomo di George che
non avrebbe detto una sola parola.
Yukino
si
era voltato verso l’altro che gli metteva un po’ di
ansia addosso. Le
problematiche si stavano accumulando e proprio adesso non dovevano
esserci
disturbi. Ma questo superava tutte le sue preoccupazioni attuali.
-Non
pensavo di vederti così presto.
La
voce di
George ruppe il silenzio che si era creato tra loro. L’altro
non fece altro che
voltare il volto verso di lui e osservarlo. Non aveva rimproveri negli
occhi,
ne cercava di giustificare i suoi errori. Era solo lì,
silenzioso e pensoso.
-Jin
è
morto.
George,
a
quella rivelazione, aveva stretto le labbra.
-Quando?
-Una
settimana fa.
Nell’abitacolo
della macchina, la tensione era salita e si tagliava con la lama di un
coltello.
Gli occhi di entrambi si erano incrociati e si fissavano. Questo era un
presagio non molto buono, voleva dire che gli altri erano sulla buona
strada per
scoprire il tutto.
-Non
ne
sono certo, Aleksey. Ma è possibile che chi ti sta cercando,
conosca molto bene
ciò che stiamo tentando di nascondere.
Aleksey cercò di
pensare a qualcosa e cercava
sicuramente di trovare una soluzione che forse neanche c’era.
-Mi
ha
detto anche un’altra cosa.
George
si
volse lentamente verso di lui ed espirò fuori una nuvoletta
di fumo della
sigaretta ormai consumata dall’attesa.
-Credo
di
sapere cosa. Sapevamo che la stava aiutando.
Quello
che
Jin non aveva detto ad Aleksey era che Kajiro stava cercando Reila e
che lei
era in pericolo. Non era riuscito a dirglielo, non consapevole che quel
segreto
che il giapponese aveva nascosto per tanti anni, era già ben
noto al padre di
Reila e si teneva in disparte perché era meglio
così per tutti.
-Non
sono
riuscito a sapere neanche chi fosse colui che l’ha ucciso.
-Su
questo
ti posso aiutare io.
George
non
fece altro che sollevare la valigetta di cui non si separava mai,
aprendola
poco dopo. Tolse alcune carte, che sembravano avere un che di segreto e
dunque
molto affascinante.
George
gliele porse e Aleksey non poté far altro che aprirle con un
certo timore,
conscio che quello che avrebbe potuto trovare all’interno non
gli sarebbe
piaciuto affatto.
Lesse
con
profondo interesse. Lo lesse nuovamente, senza distogliere mai lo
sguardo dai
fogli che divorava come se ne dipendesse la propria vita.
-Queste
chi
te le ha date?
George
non
poté non sorridere e assottigliare lo sguardo, mentre si
avvicinò lentamente
verso l’orecchio dell’amico.
-Ho
anch’io
i miei informatori.
Sicuramente
il russo si riferiva a colui che aveva pagato profumatamente solo
qualche sera
prima. Un omicidio sarebbe stato troppo eclatante e quindi si era
fermato solo
a cercare informazioni. Quelle che gli sarebbero servite per poi
chiedere a
Reila di compiere al posto suo.
Tra
i nomi
spiccava anche quello di sua moglie e l’assassina ne era
già ben conscia, solo che
ancora lei non sapeva che stava facendo parte di un disegno
più grande e George
disconosceva che l’assassina avesse già ritrovato
colui che amava ed odiava
allo stesso tempo.
Aleksey
prese le carte e le osservò nuovamente.
-Mia
figlia?
-Al
momento
ne disconosco la posizione.
George
aprì
il posacenere e buttò la cicca ormai consumata. Lo sguardo
era calmo e i
lineamenti del viso distesi, come se non si rendesse conto del reale
pericolo
in cui si trovava o semplicemente non voleva assolutamente pensarci,
anche perché
al momento la priorità era trovare Reila. Il meccanismo
ormai si era messo in
moto.
-Come
ne
disconosci la posizione?
Il
russo schiarì
la voce nel sentire quella del compagno un po’ incrinata
dall’apprensione.
Portò una mano chiusa a pugno verso le labbra e volse gli
occhi nocciola verso
Aleksey.
-Ho
un po’
le mani legate, non credi?
Disse
questo mostrando la vera nuziale al dito e sventolandoglielo davanti al
volto.
L’altro uomo non poté far altro che annuire
debolmente, cercando di mascherare
la frustrazione che aveva provato per qualche istante.
-Ma
so che
è in Russia.
Aleksey volse il capo di scatto.
George aveva appena
detto ciò che voleva sapere, ma andarla a cercare
l’avrebbe solo messa in
allarme e sicuramente si sarebbe sentita tradita dall’unico
uomo che reputava
tale: suo padre. Doveva solo capire dove si trovasse, poi il destino
avrebbe
dato una mano a favore o a discapito di entrambi.
-Sembra
che
l’assassino di Jin sia lo stesso che vuole eliminarti.
Dobbiamo stare attenti.
George
aveva nuovamente guardato fuori dal finestrino. L’autista
stava facendo un giro
largo per permettergli di parlare più tempo con
l’altro uomo.
-Qui
c’è scritto
Kajiro e credo di sapere di chi si tratta, ma devo completare le mie
ricerche.
Aleksey
portò una mano sulla testa. Non riusciva a pensare alla sua
bambina come una
donna priva di scrupoli morali. Non era mai riuscito a sopportarlo,
neanche
quando aveva saputo il motivo per cui era stata quasi ammazzata e,
avendo saputo
ciò che lei era diventata, ne reputava
la scelta più che legittima. Avrebbe preferito che non si
intromettesse nei
loro piani, ma avevano assolutamente bisogno di lei. Un componente
fondamentale
per permettere anche a lei di avere un po’ di pace dopo tutta
la sofferenza che
aveva sopportato.
-Mio
suocero l’ha ingaggiato proprio per uccidere tua figlia e non
credo che si
fermerà fino a quando non lo avrà fatto.
Un
sospiro
di frustrazione e un’espressione completamente assente fu
quella del padre di
Reila, guardando George con una certa preoccupazione mal nascosta.
-Ma
se non
sappiamo noi dove si trova, non lo saprà neanche lui.
-Dobbiamo
trovarla prima noi. Per il suo bene.
George
non
poté far altro che annuire a quelle parole, stringendo le
labbra nello stesso
momento in cui il volto dell’assassina gli comparve davanti.
Non dimentico dei
suoi baci e delle sue carezze, strinse un pugno sul ginocchio. La cosa
che gli
faceva più male era che lei non si era ancora staccata dal
suo passato ed era
proprio quello, a parte il suo matrimonio, a pesargli di più.
Aleksey
sembrò accorgersi di questa reazione e sorrise mestamente
lasciando intravedere
appena la dentatura.
-Non
ti ho
mai ringraziato per esserti fermato quella volta.
Il
giovane
prese un profondo respiro, capendo immediatamente a ciò che
si riferiva. Glielo
aveva riferito lui stesso poco prima di allearsi con l’uomo e
non poté far
altro che sentire un male incontrollabile al petto.
-Non
potevo, Aleksey. Non avrei potuto.
-Capisco
anche il motivo.
E
quel
sorriso mesto diventò tranquillo e affabile. Aveva chinato
il volto verso il
suo petto, cercando di non far intravedere all’altro la sua
espressione
speranzosa. Con quell’ultima frase a George gli si era gelato
il sangue nelle
vene per l’ansia e non poté far altro che sentirsi
soddisfatto di quella scelta
presa tantissimo tempo prima.
Non
passò
molto tempo prima che George riprese il discorso lasciato in sospeso
pochi minuti
prima.
-Dove
alloggerai?
-Ho
i miei
contatti qui in Russia. Ex commilitoni che saranno felici di darmi una
mano.
-Non
ne
dubito.
George
si
fece una grassa risata insieme ad Aleksey e il clima si fece
più rilassato e
più amichevole di prima. Ormai lo considerava come il padre
che non aveva mai
avuto e invidiava a volte Reila di averne uno così. Era per
questo motivo che
cercava di spingerla a contattarlo. Ma come il padre, la donna era
testarda e
orgogliosa e mai si sarebbe piegata a seguire un consiglio datole da un
uomo
che la amava.
-Reila
se la
caverà. Stanne certo.
Fu
il russo
a parlare e infine non ci fu bisogno di altre parole inutili.
George
diede l’ordine di fermare l’auto e Aleksey scese
voltandogli le spalle.
Sapevano già come contattarsi e come evitare di essere visti
insieme. Il padre
di Reila iniziò il cammino verso uno dei marciapiedi dove
avrebbe preso un taxi
che l’avrebbe portato verso colui che gli avrebbe potuto
procurare qualcosa con
cui difendersi.
L’auto
sfrecciò nella fredda serata invernale e Aleksey si strinse
di più nella
pelliccia del bavero, osservando completamente assente le nuvolette
formatesi
dalla sua bocca mentre respirava. L’aria si condensava
così come le sue idee
prendevano vita ed ora era il momento di agire. Era stato troppo fermo
e si era
assopito nella vita tranquilla che aveva condotto in tutti quegli anni.
Di
rimando
George lo guardò per l’ennesima volta. Forse
l’ultima.
Non
sapeva
se l’avrebbe rincontrato, ma avrebbe fatto di tutto per
riavvicinarlo a Reila e
restituirgli l’ultimo amore della sua vita.
Angolo
dell'autrice
Finalmento sono riuscita a pubblicare questo undicesimo
capitolo con non poca difficoltà. Fortunata che ho anche i
prossimi due capitoli già belli che pronti e quindi non
dovrete aspettare più del dovuto per poterli leggere. I nodi
cominciano ad arrivare al pettine, solo che ce ne sono tantissimi da
sbrogliare e non tutti piacevoli. Spero che qualcuno legga ancora
questa storia e che lasci il suo parere sullo svolgersi della vicenda.
Per un'autrice sapere cosa ne pensate è un modo per capire
di andare nella direzione giusta e molte di voi possono capire queste
mie parole.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 12 *** 12 - Tu (I Parte) ***
02
12 - Tu (I Parte)
Reila
era
rimasta per tutta il giorno da sola, senza avere qualcosa da mangiare o
da
bere, tanto che quel bicchiere sul comodino era diventato un miraggio
nel
deserto. Non doveva cedere e se Dmìtrij stava cercando di
prenderla per fame
allora aveva trovato la persona sbagliata. Nell’esercito
aveva avuto un buon
addestramento per farla resistere a queste cose e quindi non era un
problema.
Prima
o poi
sarebbe tornato, perché lui aveva assolutamente bisogno di
lei.
La
donna
guardava il soffitto e l’unico cosa a cui poteva pensare al
momento era di
potersi fare una doccia al più presto. Cercava di pensare
alle cose futili e di
poco conto e questo, si era resa conto, era l’unico modo di
tenere a freno le
emozioni.
Il
respiro
era controllato e calmo e la sua testa era leggera. Ora che lo aveva
rivisto
aveva capito anche troppe cose. Non si sarebbe mai liberata del suo
fantasma
fino a quando avrebbe vissuto e quella le sembrava la punizione
peggiore che il
Cielo potesse infliggerle.
La
mente e
il cuore erano completamente in guerra tra loro e non riusciva a
decidersi se
far zittire il cuore chiedendola di ucciderla o seguire semplicemente
la testa,
lasciando stare le stilettate di dolore che le mandava ogni qual volta
cercava
di cancellare il ricordo di Dmìtrij. Dopotutto si era resa
conto che non
conosceva assolutamente quell’uomo e ne lui mostrava spiragli
per poter
entrare. Il solo modo sarebbe stato aprire una breccia, ma come avrebbe
potuto
fingere con lui?
Abbandonarsi
avrebbe significato arrendersi, proprio come quella volta. Proprio come
quando
si era fatta prendere in giro con le sue belle parole. Doveva solo
tornare da
George e uccidere Kajiro come prima cosa, visto che al prossimo
incontro
l’assassino non avrebbe esitato.
Sarebbe
arrivato il momento di Natasha e infine Dmìtrij, poi avrebbe
concluso la sua
personale missione e sarebbe tornata da Jin per consegnargli
definitivamente la
sua arma, passando una vita di rimpianti e rimorsi accanto a George. Al
momento
le sembrava assolutamente una soluzione allettante.
Prese
un
profondo respiro e cercò di massaggiarsi la tempia con la
mano libera. Era
scomoda in quella posizione e il braccio cominciava a dolerle, tanto da
stiracchiarlo di tanto in tanto come poteva, dato che era ancora
bloccato dalle
manette.
Cosa
doveva
fare?
Accettare
le condizioni di Dmìtrij sarebbe stato un ennesimo errore,
ma del resto era
l’unica via di fuga.
Promettergli
ciò che chiedeva, tanto una morte in più o in
meno sulla sua coscienza non
sarebbe stata di troppo?
La
sua
testa era già abbastanza affollata dalla sua esistenza che i
problemi delle sue
vittime passavano in secondo piano, tanto che il suo “grillo
parlante” ormai
aveva perso le speranze e si era preso una vacanza.
Cominciò
a
concentrarsi, almeno si sarebbe studiata un po’ intorno per
passare il tempo,
dato che non c’era molto da fare.
Va
bene il
letto, che era poggiato al muro, al centro della stanza e due comodini
retrò e
di buon gusto ai lati del baldacchino. Un armadio di fronte a lei e una
finestra o almeno quello che sembrava visto che era coperta da pesanti
tende
dal colore indefinito. Purtroppo la penombra della stanza non le
permetteva di
vedere oltre, ma affinò la vista tanto da notare
un’altra porta all’opposto
dell’entrata. Sicuramente era il bagno, che al momento doveva
dire di agognare
più di una bistecca al sangue. Si era ricordata che non
usufruiva della
toilette già da troppo tempo, tanto che il bisogno era
diventato impellente.
Cercò alla fine di non pensarci. Alla fine di sarebbe dovuta
trascinare tutto
il letto per poterci andare.
Si
risistemò nuovamente sul letto, aspettando. Prima o poi
qualcuno sarebbe venuto.
Dmìtrij
era
seduto alla scrivania nella stanza accanto a quella dove riposava
l’assassina.
Stava risistemando delle carte che le avrebbe presto portato. Si era
rasato per
bene quella mattina e si era pettinato i capelli in modo che lei lo
ricordasse
per com’era all’epoca, quando si erano conosciuti.
L’uomo
lo
aveva capito e non era facile per lui accettarlo, perché
anche Reila era
rimasta come una macchia indelebile nel suo cuore e soprattutto nella
sua
mente, che al momento si trovavano assolutamente d’accordo.
Era
cambiato. Forse era stata la paura che gli aveva permesso questa
trasformazione, ma ancora non riusciva a pensarci in modo cosciente.
L’ombra
della morte aleggiava sulla sua testa e chiedere nuovamente
all’assassina era
stato un azzardo che si sarebbe permesso tra non molto tempo. Anche
perché
doveva sistemare entrambi i killer, dopotutto entrambi lo volevano
morto ma
almeno il motivo della donna era più che legittimo.
-Avrà
bisogno sicuramente di andare in bagno.
Era
stata
Natasha a parlare. Era accomodata in una delle poltrona oltre la
scrivania
occupata dall’uomo, con le gambe accavallate e scoperte dal
sottile abito nero
che portava. Per quanto poteva essere una bella donna, risultava troppo
bambolina per gli uomini e poi soprattutto perché lei aveva
altre tendenze.
Dmìtrij
la
guardò di sottecchi, mentre sistemava un foglio che era
scappato dalla sua
attenzione due minuti prima.
-Avrà
bisogno anche della doccia.
Il
tono di
voce dell’uomo non tradì che un leggero tono di
malizia, ricordando quella
volta quando l’aveva posseduta nella doccia e lei gli aveva
permesso di vedere
le sue mani, attraversate da profonde cicatrici, segno di un passato
che non
aveva ancora cancellato.
Si
alzò e
affondò una mano dentro la tasca dei pantaloni, afferrando
la chiave delle
manette che tenevano ammanettata Reila.
-Permettile
di lavarsi, ma non ammanettarla dopo. Lascia che lo faccia io.
Negli
occhi
di Natasha passò un lampo di risentimento e le labbra rosse
ebbero un moto di
stizza a quelle parole.
-Permettimi
almeno…
Lo
sguardo
di ghiaccio di Dmìtrij non volle più repliche.
-Non
la
devi toccare. Lei è mia.
Lo
aveva
detto con il tono della voce che tradiva assolutamente una passione
morbosa e
disperata, come se gli bruciasse vederla nelle braccia di altri uomini
o di
altre donne.
-Ora
fai
come ti ho detto.
Natasha
acconsentì soltanto, anche perché c’era
un patto tra loro. Un patto nel quale
l’unica a perdere sarebbe stata lei e questo non poteva
permetterselo. Girò i
tacchi e con una camminata lasciva e conturbante lasciò la
stanza andando verso
quella dov’era tenuta prigioniera Reila.
Dmìtrij
calò il capo per qualche istante e posò entrambe
le mani sulla scrivania. Non
doveva tremare e mostrarsi debole o sarebbe stata la sua disfatta.
Natasha
si
avvicinò velocemente alla stanza e si avventò
verso la maniglia. Aveva rabbia
addosso e non riusciva assolutamente a sfogarla.
Entrò
di
scatto e Reila si sollevò improvvisamente dal letto, come
svegliata da un
pericolo imminente e difatti si ritrovò la russa di fronte,
senza avere il
tempo di mettere a fuoco le immagini. Si sedette sul letto intontita e
stanca.
Per quanto potesse riposare, erano i pensieri a tenere la sua mente
vigile e
attenta. Delle profonde occhiaie erano comparse sul suo viso rilevate
dal
trucco colato, segno che non dormiva da giorni per pianificare tutto il
piano che
le era andato anche male e neanche nell’assoluta
tranquillità riusciva a
rilassarsi.
Natasha
sollevò leggermente l’abito dalla coscia e
afferrando una pistola da borsetta,
comoda e veloce, la puntò direttamente verso
l’assassina.
-Avanti,
Natasha, non farai sul serio?!
E
ignorandola completamente l’assassina si
stiracchiò il modo da togliere
quell’intorpidimento dal corpo dovuto all’assenza
di sonno. Procedette a
togliersi le scarpe. Si era dimenticata anche che non si dorme con le
scarpe
sul letto, almeno le buone maniere non le aveva dimenticate e poi erano
brutto
presagio.
Natasha
sorrise appena, mentre con la mano libera le lanciò la
chiave per le manette.
Reila
rimase per qualche istante interdetta, ma
l’afferrò. Quella mattina aveva già
deciso di non scappare. Voleva confrontarsi con il suo passato e al
momento era
proprio dietro quella porta. Scappare non avrebbe risolto nulla.
-Avrai
bisogno di farti una doccia. Troverai tutto ciò che ti
occorre in bagno.
E
detto
questo si poggiò alla porta e attese, senza discostare la
pistola in direzione del
cuore dell’assassina.
Reila
non
ce l’avrebbe fatta a disarmarla dalla distanza che occorreva
tra lei e Natasha
e quindi accantonò assolutamente quella mossa. Fu felice
però di essersi tolta
le manette dal polso che massaggiò con delicatezza. Un
profondo solco rosso ne
aveva intaccato il rosato della sua pelle.
-Sai
bene
che in altre occasioni ti avrei disarmata senza battere ciglio.
L’assassina
la osservò di sottecchi per qualche istante e
iniziò a togliersi solo la giacca
del tailleur scuro che portava per poi rimanere con il top in chiffon
che le
lasciava scoperte le spalle. Difatti Reila faceva tutto con estrema
calma e
Natasha cercava di rimanere impassibile a quello spettacolo. Dopotutto
la donna
l’aveva sempre intrigata e se non fosse stata costretta
dall’uomo, l’avrebbe
presa e ammanettata al letto proprio in quell’istante.
Reila
prese
a ridere sommessamente, dirigendosi verso la porta del bagno, scalza.
-E
non
metterci molto.
-Non
ho
intenzione di scappare. Non quando il mio destino è dietro
la porta.
Natasha
non
comprese alla perfezione quelle parole, ma non poté far a
meno di voltarsi per
qualche istante dietro di sé, lasciando scoperta la sua
visuale verso la donna.
Se Reila avrebbe voluto, l’avrebbe disarmata senza pensarci
un attimo e senza
che lei se ne accorgesse, approfittandosi di quella distrazione che le
sarebbe
potuta costare la vita.
Ma
l’assassina le rivolse solo un’ultima occhiata
prima di richiudere la porta
dietro le sue spalle.
E
lì rimase
in attesa.
Reila
aprì
l’acqua della doccia che si trovava di fronte a lei.
Approfittò dapprima del
bagno e poi infine iniziò a denudarsi, guardandosi attorno.
Poteva
notare un grande specchio, dove si avvicinò poco dopo
essersi tolta la gonna e
le autoreggenti e osservò il proprio volto, poggiando le
mani su un lavandino
di marmo italiano. Anche lì, Dmìtrij, non aveva
smesso di esprimere il lusso
che stava anche nella casa di Mosca.
C’era
tutto
l’occorrente per truccarsi e uno spazzolino da denti con
tanto di dentifricio.
Tutto quello che le occorreva per rendersi almeno presentabile.
Spazzole, phon
e quant’altro per darsi almeno un contegno.
Reila
si
massaggiò le guance vedendole un po’ scavate
dall’ultima volta, ma pensò che
dopotutto non mangiava ormai tanto da quando aveva saputo che lui era
ancora
vivo.
Si
massaggiò gli occhi, macchiati dal mascara che era colato e
dalla matita che si
era cancellata in alcuni punti. Prese una salviettina struccante e
tolse tutto
il residuo, come a volersi liberare di ciò che era prima di
entrare in
quell’appartamento.
Reila
si
voltò verso la doccia. Il pavimento era riscaldato e i
sanitari erano
perfettamente lucidi e nuovi. Difatti poteva camminare tranquillamente
a piedi
nudi. La finestra affacciava direttamente su venti piani di stabile,
segno che
di lì non sarebbe potuta mai scappare se ne avesse avuto
l’occasione. Ma al momento
non era quello che voleva.
Prese
un
profondo respiro e si spogliò completamente, lasciando tutto
a terra ed
entrando sotto il getto caldo della doccia, come un fiume purificatore
che le
avrebbe tolto tutta la stanchezza e la frustrazione che aveva in quel
momento.
Chiuse
gli
occhi e iniziò a massaggiarsi il volto e i capelli, poi
passò al collo e ne
percepì la rigidezza di quegli anni passati ad uccidere. I
suoi pensieri si
spostarono verso le mani di Dmìtrij sul suo corpo e
improvvisamente aprì gli
occhi di scatto. Si ritrovò ad avere il fiatone e il cuore
che le palpitava a
ritmo serrato. Non poteva assolutamente farsi abbindolare di nuovo.
Prese
il
bagnoschiuma, rendendosi conto che era alla vaniglia, un vezzo che
aveva sempre
avuto e questo non la sorprese. Lui ricordava tutto di lei come lei di
lui e
questo non poteva che farle completamente male, tanto da sentire nello
stomaco
le farfalle e insieme il contorcersi dello stesso.
Chiuse
nuovamente gli occhi. Lasciandosi cullare dall’aroma della
vaniglia di Saint
Barth, una fragranza che lei assolutamente adorava e massaggiandosi il
corpo ne
sentì quell’odore di sigaretta mista al whiskey, e
del profumo che lui emanava
quando la stringeva a sé.
Reila
posò
entrambe le mani sul muro, lasciando che l’acqua cadesse
implacabile su suo
corpo. Continuando di questo passo gli sarebbe caduta tra le braccia in
meno di
dieci secondi.
Di
una cosa
si rendeva però conto. Che le era mancato da morire.
Rapide le
lacrime andarono a confondersi con il getto caldo della doccia.
Angolo
dell'autrice
Ed ecco a voi il dodicesimo capitolo è
finalmente on-line e le cose si stanno cmplicando fino
all'inverosimile. Sto cercando di seguire il tempo che mi sono data tra
un capitolo all'altro, cioé dieci giorni, ma se non arriva
in questo lasso di tempo aspettate solo uno o due giorni in
più.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 13 *** 13 - Tu (II Parte) ***
02
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by _marty
13 - Tu (II Parte)
Dmìtrij
entrò rapido nella stanza, dove si trovava Natasha, con
delle carte in mano e
la camicia appena sbottonata sui primi due bottoni. Non aveva mai
rinunciato ai
suoi pantaloni eleganti e le scarpe in tinta e difatti fu
così che fece la sua
comparsa. Voleva che lei lo ricordasse così
com’era.
Nella
mano
libera un bicchiere di whiskey.
-Puoi
andare.
Lui
congedò
così la russa che non ebbe neanche in tempo di ribattere.
L’aveva zittita con
un rapido gesto della mano. Lei sbuffò e uscì
fuori dalla stanza, facendo
sentire il rintocco dei suoi tacchi sul parquet di legno scuro. E poi,
alzando
leggermente la voce, gridò per farsi sentire.
-Io
torno
al club.
E
di
rimando si sentì la porta sbattere e l’uscita di
scena della russa.
Dmìtrij
non
poté far altro che sorridere, poiché gli sarebbe
servito tutto il tempo
necessario da solo con lei. Accese la luce della stanza e
quest’ultima fu come
risvegliatasi da un lento torpore. Era viva di colore e di mobilio di
buon
gusto. L’uomo infine si accomodò sulla poltrona
non distante dal letto e iniziò
a studiare il modo in cui introdurle il tutto.
E
non
dovette attendere molto quando la vide comparire da dietro la porta,
con
l’accappatoio legato in vita e forse un po’ troppo
grande per lei. Aveva
lasciato il viso al naturale e lasciato i capelli sciolti lungo le
spalle.
Anche così era la donna più bella di cui si fosse
invaghito in tutta la sua
vita.
Reila
allargò appena gli occhi quando si accorse che era
lì e il suo cuore perse un
battito quando lo vide proprio come lo ricordava, con fogli di carta e
il suo
bicchiere di whiskey tra le mani. Si impose di calmarsi e si
avvicinò verso di
lui, ma tenendosi sempre a distanza di sicurezza.
Lui
la
guardò, di sottecchi, assaporando i suoi movimenti e il suo
profumo che gli era
arrivato come un’ondata. Vaniglia di Saint Barth.
Reila
rimase ferma a guardarlo, a pochi metri di distanza. Mosse qualche
passo per
avvicinarsi a una delle poltrone che, nella penombra, non aveva notato.
Distolse lo sguardo dall’uomo e cercò di vedere
ciò che le era stato precluso
accorgendosi che quell’armadio moderno, attaccato al muro e
dello stesso colore
del letto, non lo aveva proprio notato.
Nessuno
dei
due parlava ma la tensione tra loro si sentiva come i tuoni e i fulmini
che
avevano cominciato a imperversare nel cielo di Mosca.
Anche
se
aveva l’accappatoio ancora addosso, si sentiva come nuda di
fronte a lui.
Difficile non notare lo sguardo da predatore con cui l’aveva
sempre guardata.
La
donna
decise infine di sistemarsi sulla poltrona proprio di fronte a
Dmìtrij. Non si
sarebbe spogliata davanti a lui. Non più.
-Avanti,
dimmi quello che hai da dire e dividiamo le strade.
Reila
aveva
rotto il silenzio e Dmìtrij alzò lo sguardo con
una lentezza sconcertante, come
se non le volesse dare conto e importanza. L’assassina
accavallò le gambe,
cercando di non mostrare assolutamente lembi di pelle non voluta.
-Quanta
fretta.
Reila
lo
fissava. Stava cercando tutto il coraggio di cui disponeva per poterlo
fare e avrebbe
dovuto resistere il tempo necessario per poterne trarre vantaggio. Il
fuoco che
aveva dentro rischiava di scontrarsi con il ghiaccio degli occhi
dell’uomo e
questo non doveva assolutamente capitare di nuovo.
-Sei
tu che
hai bisogno di me e so che ti preme molto spiegarmi il motivo per cui
mi tieni
prigioniera.
Lui
aveva
riso leggermente e le labbra si erano piegate su un lato in un ghigno
malevolo.
Dmìtrij
adesso la stava fissando, proprio come sperava non avesse fatto. Lei
era lì,
inerme e senza possibilità di difendersi, perché
sentiva già il suo corpo
tremare e purtroppo non di paura.
-Come
ben
sai mi sono nascosto qui, inscenando la mia morte e avendo avuto un
grande
aiuto da parte tua.
Reila
si
sentì morire e un suono strozzato, leggermente udibile, era
fuoriuscito dalle
sue labbra serrate.
Come
poteva
mai provare ancora qualcosa per lui?
-E
ti sei
nascosto in centro città?
-Più
sei
visibile e più non ti vedono.
Dmìtrij
aveva sorriso e il suo sguardo aveva assunto una nota dolce nel
guardarla, che
si spense subito con gli ultimi bagliori del tramonto. Bevve
l’ultimo sorso del
whiskey che aveva in mano e posò il bicchiere sul
tavolinetto in mogano accanto
alla poltrona e sulla stessa mano poggiò il capo.
Reila
aveva
sentito le farfalle nello stomaco ancora una volta, proprio quando
aveva
compiuto quel semplice gesto e le gambe si erano strette in una morsa
impercettibile. Prese un leggero respiro, mantenendo il tono calmo e
disinteressato.
-Prima
di
dirti quello che ho da proporti vorrei chiederti scusa.
E
la voce
dell’uomo tremò nell’ultima parola. Un
qualcosa che non aveva mai pronunciato
nella sua vita verso nessuno.
Negli
occhi, Reila, si sentì pressare le lacrime che
prepotentemente volevano uscire,
denotando ancora la debolezza verso l’uomo. Questa non era
assolutamente una
lotta di orgoglio, ma semplicemente di quell’amor proprio che
aveva abbandonato
molto tempo prima. Proprio sul molo di Tokyo.
-Scusa?
Aveva
trovato il coraggio di rispondergli e di riversargli tutto il veleno
che aveva
in corpo von un’unica e sola parola.
-Sì.
E
il quel
momento l’aveva guardata e nella sua espressione vi lesse un
qualcosa di strano;
un qualcosa che sembrava un vero pentimento. In Reila qualcosa si
mosse, ma era
così debole che lei non ci fece neanche caso.
L’assassina
l’aveva guardato abbassando appena le palpebre, volendo
mettere a fuoco la sua
anima e non la sua immagine. Le braccia erano state posate lungo i
braccioli e
aveva dato modo all’accappatoio che portava di spostarsi
appena sulle gambe.
Dmìtrij conosceva tutto di lei, ogni centimetro del suo
corpo e della sua
anima. Aveva capito che non c’era motivo per cui lei lo
nascondesse.
-Tu
credi
che chiedendomi scusa i problemi si risolvano?
Reila
aveva
sollevato un sopracciglio.
-No,
ma è
un inizio.
La
donna
aveva preso un respiro bloccandolo a metà e alle parole
dell’uomo, che aveva
portato il bicchiere alle labbra per bere un po’ di whiskey,
aveva risposto con
un sorriso sbilenco. Non credeva ad una sola parola che lui diceva.
-Avanti,
Dmìtrij, dimmi cosa vuoi e facciamola finita.
L’uomo
aveva nuovamente bevuto un altro po’ di whiskey e aveva
posato il bicchiere sul
tavolinetto accanto alla poltrona. Aveva nuovamente guardato le carte e
lasciato che il silenzio invadesse la stanza. Aveva deciso che tutto si
sarebbe
svolto nella tranquillità più assoluta, non
voleva davvero costringere Reila, ma
convincerla e facendole credere che fosse per sua spontanea
volontà.
La
guardava
e la trovava sempre più bella, anche con
quell’aria corrucciata e infastidita
dalla sua persona. Non avrebbe mai creduto che nel suo cuore martoriato
fosse
rimasto ancora qualcosa di lui, ma in fondo alla sua anima sperava che
ci fosse
ancora quel briciolo che gli facesse vedere che ancora pensava a lui.
-Non
volevo
finisse così.
L’uomo
ancora temporeggiava, voleva scavare nella testa di Reila e capire.
Reila
allargò gli occhi increduli. La sua espressione la disse
lunga in un solo
attimo. La voce si bloccò in gola ma cercò di non
farlo notare più di tanto.
Aveva abbassato il capo e i capelli scuri le si erano spostati sulla
fronte.
Una mano si era andata a poggiare sulla fronte, scuotendo il capo
appena
percettibilmente.
-Ho
bisogno
di qualcosa di forte.
Reila
si
era alzata dalla poltrona di scatto, guardando Dmìtrij in
cagnesco. Si avvicinò
a un mobiletto, dove sopra vi erano posati alcuni bicchieri bassi e
bombati, in
cui sperava avesse trovato quello che cercava. Aprì le ante
e il suo viso si
rasserenò trovando la vodka secca che cercava. Non aveva il
coraggio di
voltarsi verso l’uomo e gli tenne girate le spalle per tutto
il tempo in cui si
era servita e versata la bevanda che le avrebbe alleviato un
po’ di pene.
Reila
bagnò
le labbra con il liquido incolore e posò una mano sul cuore
che batteva
talmente forte da farle pensare che l’uomo
l’avrebbe sentito se si fosse
avvicinato più del dovuto.
Dmìtrij
invece
non si era mosso dalla sua poltrona e Reila preferì rimanere
vicino al
mobiletto nel caso avesse avuto bisogno di un altro bicchiere. Sapeva
che
doveva essere lucida, ma un bicchiere non avrebbe compromesso la sua
stabilità.
Le serviva solo per sciogliersi. Dopotutto quel tempo, davanti a lui,
si
sentiva ancora fragile e insicura.
Dmìtrij
la
guardò si soppiatto per tutto il tragitto e ora che si era
voltata verso di lui,
aveva abbassato il suo sguardo verso le carte. Solo lui sapeva quanto
in cuor
suo avrebbe voluto alzarsi e stringerla tra le braccia, obbligandola ad
aprirgli il suo cuore e vederle attraverso.
Quel
silenzio, per Reila, era estenuante più del rumore.
-Dimmi
cosa
vuoi.
L’aveva
detto a denti stretti, sperando che la voce bassa e tremante non si
sentisse.
Aveva il corpo leggermente scosso e cercava con tutta se stessa di
nascondere i
suoi tremori, associandoli magari alla vodka.
-Qualcuno
vuole uccidermi da prima che ti chiedessi di uccidere mio zio.
L’uomo
non
aveva voluto approfondire quel tremore che, anche se debole, aveva
percepito
nella voce della donna. La guardò e vi si
soffermò per qualche istante
accarezzando la sua figura minuta con gli occhi.
-Sono
riuscito a risalire a lui grazie ad i miei contatti.
Reila
lo
ascoltava e guardava quella bocca che tanto l’aveva
assaggiata. Si sarebbe
dovuta allontanare al più presto da lui, perché
mantenere una conversazione
sarebbe stato estenuante e ne sarebbe uscita sconfitta, ancora una
volta.
-Ricordati
che dentro questa stanza hai una persona pronta a ucciderti. Cosa ti fa
pensare
che ti aiuterò?
Dmìtrij
aveva assunto un’aria tranquilla e i suoi tratti duri si
addolcirono di colpo.
-Perché
se
tu ucciderai quest’uomo per me, ti permetterò di
avere una scelta.
Reila
era
rimasta per qualche momento interdetta.
-Di
quale
scelta parli?
L’uomo
le
aveva sorriso, proprio come faceva un tempo e a lei si era gelato il
sangue
nelle vene.
-Ti
permetterò di decidere cosa fare di me.
Mentre
lo
diceva Reila aveva bevuto un sorso e quello stesso le era andato di
traverso,
facendola tossire e bruciare la gola come
se vi fosse scesa lava. Le tremavano le mani per la rabbia e non si
riusciva a
controllare, non dopo quelle parole. Difatti scattò verso di
lui con i pugni
chiusi e pronti a prenderlo per il bavero della camicia.
Dmìtrij
la
lasciò fare e non si mosse di un millimetro mentre lei lo
afferrava dalla
camicia e facendogli spostare il busto in avanti, staccandolo dallo
schienale
della poltrona. Lo guardava in un modo pauroso, ma lui sapeva che in
quegli
occhi c’era tutto l’astio nei suoi confronti e ne
era ben consapevole. Ma
doveva tentare comunque questa strada.
-Io
non mi
vendo più. La mia decisione verso di te è stata
già presa.
Glielo
aveva detto in tono basso e irato. I suoi occhi, se avessero potuto,
avrebbero
mandato fulmini e saette.
-Il
nome
dell’uomo che sta tentando di uccidermi è Kajiro.
Reila
allargò gli occhi stanchi e affaticati e smollò
con uno spintone Dmìtrij
lasciandolo seduto su quella stramaledetta poltrona. Era ritornata al
mobiletto
e aveva versato un altro po’ di vodka all’interno
del bicchiere. Fatto questo,
si era avvicinata alla finestra, guardando da lontano le persone che
camminavano tranquille nelle strade.
-Non
lo
faccio per te, ma per me.
Dmìtrij
non
sapeva che Reila avesse un conto in sospeso con Kajiro, ma gli avevano
detto
che era una persona di cui lei si sarebbe ricordata molto bene. Doveva
giocarsi
la carta se l’avesse ricordato in positivo o in negativo e
fortunatamente per
lui, aveva già intenzione di ucciderlo.
L’uomo
si
alzò dalla sua poltrona e posò le carte che aveva
in mano sul tavolino. L’aveva
guardata per qualche istante mentre portava i passi verso la porta.
-Dopo
che
lo avrai ucciso, ritorna qui e deciderai.
Dmìtrij
afferrò la maniglia della porta e chinò
leggermente il capo, senza guardarla
conscio che neanche lei lo stava guardando. Aprì la porta.
-Nell’armadio
troverai tutto quello che ti serve e la tua pistola è
custodita nell’altra
stanza. Sei libera.
Reila
aveva
tirato un sospiro di delusione, facendo fuoriuscire tutta la rabbia che
le
aveva montato in corpo quella piccola discussione. Aveva assentito, non
aveva
fatto nient’altro e aveva tenuto lo sguardo sulla strada.
L’ultimo sorso della
vodka.
Reila sentì
solo la porta richiudersi così come si richiuse la sua
mente, lasciando libero
il suo cuore e le lacrime libere di cadere silenziose.
Angolo
dell'autrice
Devo sire che questo è stato il capitolo
più difficile che abbia mai scritto, ma non
perché non sapevo cosa scrivere ma perchè la
scena era talmente difficile da risultare per me quasi impossibile da
scrivere. Vari momenti di sconforto e vari moemnti di blocco, sono
riuscita ad aggiornare solo adesso. Dopo ben due mesi.
Non passerà più tutto questo tempo ora che la
storia è entrata nel suo vivo (dopo ben tredici capitoli) e
ora è tutto già scritto, anche se credo che i
personaggi mi faranno cambiare rotta molte volte, ma non temete che
arriverò alla fine di quest'avventura.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, anche perchè ne giova
l'autostima dell'autrice (cioé me).
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere e i lettori
silenziosi. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 14 *** 14 - Invisible ***
02
14 - Invisible
Aveva
accavallato le gambe fasciate in delle calze color fumo. Si vedeva
leggermente
il pizzo che adornava la calza delle sue autoreggenti che le davano un
fascino
particolare e selvaggio.
I
capelli
erano raccolti in uno chignon castigato, come se volesse cozzare
completamente
con il suo abbigliamento provocante, anche se indossava un tailleur
decisamente
semplice.
Era
quello
sguardo che attirava le prede. Era quel modo di guardare uomini e donne
che le
permetteva di arrivare dove ogni donna vorrebbe essere. Al potere.
E
Karina
era proprio così.
Era
una
donna completamente succube del passato. Non del suo, non ne aveva
avuto uno
essendo sempre vissuta sotto l’ombra del nonno e soprattutto
sotto l’ombra
della madre. Tutti le dicevano che somigliava moltissimo a lei e che i
suoi
capelli rossi rappresentavano il fuoco della sua rabbia che aveva
sempre
covato, anziché il temperamento passionale della madre.
No,
non si
sentiva in colpa con se stessa e con nessuno della sua famiglia, ma
dava tutta
la colpa a quella donna che si era intromessa tra lei e suo marito,
anche se
non la conosceva affatto. Non riusciva a mandare giù la cosa
che George amasse
un'altra e non lei; che gli avesse chiesto soprattutto un figlio che
lui
cercava in tutti i modi di non darle.
Karina
aveva stretto le mani sui braccioli della poltrona. Attendeva
semplicemente che
un altro cliente finisse di parlare e concludere un affare. Non sentiva
quasi
più le voci che nella sua testa le raccomandavano di andare
cauta. Le labbra
colorate di un rosso acceso e voluttuose avevano disegnato un sorriso
delicato
mentre asseriva alle parole dell’uomo che le stava di fronte.
Annuiva
lei, ma non rivolta verso il suo interlocutore ma verso
un’idea che le era
passata per la testa.
-Abbiamo
finito?
L’uomo
di
fronte a lei rimase per qualche istante interdetto e alla fine
annuì sconfitto
e si alzò, non senza aver rivolto un inchino verso Karina ed
uscire.
La
donna si
stiracchiò e fece girare la poltrona girevole verso la
grande vetrata che si
buttava sulla grande Piazza Rossa. La neve continuava a scendere
copiosa e
aveva formato un altro strato sulle grandi strade sotto il Cremlino
illuminato.
Karina
aveva poggiato la testa sulla mano e aveva sospirato mentre cambiava
gamba
accavallando quella che prima stava sotto l’altra.
Assottigliò lo sguardo, come
se volesse vedere meglio ciò che si nascondeva sotto la
coltre bianca e pura
della neve. La malvagità.
Quella
permeava tutto il suo essere al momento, non dandole un istante di
tregua. Si
sentiva come rinchiusa in una prigione fin troppo piccola per lei. A
volte le
sembrava anche che le mancasse l’aria nei polmoni e annaspava
quella che
riusciva a recuperare, sempre durante la notte e sempre dopo un incubo.
La
sua vita
era rimasta come un limbo sospeso da quando la madre si era tolta la
vita. Lei
aveva solo due anni e sapere più tardi il motivo per cui lo
aveva fatto le era
costato caro. Eliminare completamente la dolce e cara Karina e mettere
al suo
posto un mostro dedito alla vendetta.
Ricordava
bene e quella neve non la aiutava assolutamente a dimenticare
ciò che era e ciò
che era diventata. Non si preoccupava di chi doveva calpestare; doveva
arrivare
al suo scopo e non si sarebbe fermata per nulla al mondo.
Il
cielo
era nero sormontato dalla nuvole della neve. Stava arrivando la sera e
le luci
avevano cominciato a rischiarare la città rossa. E in quel
momento lo sguardo
della donna si spostò verso un punt imprecisato del buio che
si stava formando,
verso un volto che conosceva bene.
Karina
aveva sempre amato George. Fin dalla prima volta che lo aveva visto,
presentatole dal nonno. Aveva sentito le classiche farfalle nello
stomaco. Ora,
invece, lui non la vedeva proprio. Non sapeva neanche se mai
l’avesse amata o
provato un briciolo di apprezzamento per quello che lei era.
La
donna,
dimentica dei suoi pensieri, aveva girato nuovamente la sedia verso la
scrivania e aveva premuto il pulsante dell’interfono.
-Chiamami
Alexander.
Solo un
assenso dall’altra parte e intanto poggiò la
schiena su tutta lo schienale e
attese, guardando il soffitto con quei tenui occhi verdi. Se la si
guardava da
questa prospettiva, i tratti del suo volto assumeva una linea
assolutamente
giovanile e dimostrava realmente la sua età. Il volto le si
addolciva e le
labbra di stiravano in un sorriso tranquillo, come se ne mondo non ci
fossero
problemi.
Non
passò
molto tempo da quando Alexander fece in suo ingresso
all’interno dello studio,
non senza essere preannunciato. Era arrivato di gran lena
dall’altra sede della
società e recava sotto il suo braccio una cartellina. Era
uno degli uomini più
fidati di Karina e le amministrava la maggior parte degli affari. Era
un uomo
alto, lo si poteva notare perché mettendosi a confronto con
la donna la
superava almeno di una spanna.
Alexander,
appena raggiunto l’ufficio di lei, aveva chinato leggermente
in capo in segno
di saluto e alla fine si era avvicinato ad una delle poltroncine di
fronte alla
scrivania. L’arredamento era minimal e ciò che
attirava di più erano le grandi
vetrate che affacciavano direttamente sul Cremlino, come se da
lì avesse potuto
governare su tutta la Russia.
-Hai
novità?
La
voce
della donna era bassa e calibrata. Aveva tranquillamente girato la
sedia verso
l’uomo e l’aveva guardato diritto negli occhi.
L’uomo rimaneva ogni volta un
po’ in soggezione da lei, anche se la conosceva ormai da
tantissimi anni.
Alexander,
che non dimostrava più di trentacinque anni, fisso i suoi
occhi nocciola n
quelli verdi di lei e aveva portato una mano a ravvivare i capelli
scuri. Poi
aveva preso la cartellina che aveva portato sotto il braccio e
sbottonò
l’ultimo bottone della giacca beige che portava, abbinandosi
egregiamente con
il pantalone blu scuro che indossava.
-Sembra
che
Jin non ce l’abbia fatta, Karina.
E
subito
sul volto di lei si disegnò un sorriso.
-Kajiro
è
riuscito a sapere dove si nascondeva Kamamoto. Il vecchio ha ammesso
solo di
aver spedito una lettera indirizzata in una località del
Giappone ad un certo
Signor Yukino che, come ha asserito prima di morire, è uno
dei nomi dell’uomo
che cerchiamo.
Alexander
non era bravissimo a pronunciare nomi giapponesi, ma era un uomo che
conosceva
molte altre lingue, così come l’inglese e il russo
che ormai padroneggiava
quasi come la madre lingua.
-Che
notizie abbiamo di questa località?
-Si
chiama
Suruga e affaccia sull’Oceano Pacifico. Abbiamo
già mandato qualcuno dei nostri
a controllare.
Karina
annuì e per qualche istante rimase silenziosa. Picchiettava
le unghie ben
curate sulla scrivania e pensava. Quando quella donna meditava troppo
poteva
diventare più che malvagia, diabolica.
-Dopo
che
avrai un rapporto dettagliato su quella casa, voglio che cerchi quella
donna.
Si chiama Reila e Kajiro la conosce bene. Deve trovarla.
-Sembra
sia
sparita dalla circolazione, ma informerò
l’assassino che deve trovarla. Sembra
abbia un conto in sospeso con lei.
Karina
annuì e si alza dalla sedia, sistemandosi la longuette sulle
gambe tornite,
frutto della palestra, ma non senza perdere il fascino classico della
donna
del’est.
Alexander
si alzò a sua volta e chinò leggermente il capo.
-Dobbiamo
concentrarci sulla ricerca, Karina. Non possiamo distogliere
l’attenzione dal
progetto.
Karina
guardava Alexander e lui ricambiavo lo sguardo. Non c’era
bisogno di troppe
parole. Era solo un modo per pensare ad altro.
-Comprendo.
Solo un passatempo quella ricerca, ma il padre è pericolo e
sa troppe cose.
-Lo
so e infatti
c’è un’altra cosa.
Il
volto
della donna si girò lentamente verso Alexander, come se si
aspettasse le
prossime parole.
-Sembra
che
tuo marito cominci a sospettare qualcosa. Dobbiamo cercare di tenerla
nascosta
quanto più possiamo.
-Della
Invisible occupatene tu, di mio marito me ne occupo io. Come procede a
proposito?
Per
l’uomo
era il momento di rilassarsi, anche perché il pericolo era
scampato. Karina era
bella ma tanto quanto la sua cattiveria e a volte rivelare
più del dovuto era fatale
con lei.
-Tutto
procede secondo i piani. Sembra ci siano stati dei piccoli problemi con
l’erogazione all’interno delle capsule.
La
donna si
era avvicinata alla scrivania e lì si era poggiata con le
mani sull’angolo,
ascoltando le parole di Alexander con un certo interesse.
-Hanno
avuto dei problemi con l’innesco del primo prototipo. Sembra
che abbiamo
bisogno di più tempo per averne il pieno controllo.
-Bene,
ma
non avranno più tempo di quanto ne abbiano già.
Sto aspettando fin troppo o i
migliori scienziati del mondo non sanno creare ciò che gli
ho chiesto?
Alexander
si ammutolì di colpo, lasciando alla donna il modo di
sfogarsi. Comprendeva e
sapeva come Karina aveva intenzione di sbarazzarsi di qualche
scienziato
sbagliato, ma sapeva anche che avrebbe solo portato dei rischi inutili
e al
momento non ne potevano correre.
-Non
possiamo permetterci che la C.I.A. sospetti qualcosa.
Karina
parve soppesare le parole di Alexander, tanto che stiracchiò
le labbra in un
sorriso esasperato e mostrò quei denti bianchi come un leone
in gabbia. L’uomo
aveva ragione, non poteva permettersi di scoprirsi così
tanto, non quando era
così vicina alla sua meta.
Doveva
continuare così, senza altri intoppi del genere.
-Allora
sai
come convincere i cervelloni a sbrigarsi.
Alexander
annuì debolmente e strinse la cartelletta al petto come un
adolescente, un
chiaro segno di debolezza come gli capitava ormai da tempo con quella
donna
così carismatica.
Alexander
aveva compiuto un passo all’indietro. Ormai il discorso con
lei era concluso e
avrebbe fatto tutto quello che lei chiedeva. Anche se gli premeva
soltanto il
fatto che continuando così sicuramente li avrebbero scoperti.
-Al
momento
non possiamo fare quello che chiedi. Nelle nostre file
c’è sicuramente qualcuno
che passa le informazioni.
Karina
prese un rapido respiro e assentì lievemente.
-Ho
sentito
di questa talpa. Cercala ed eliminala.
Alexander
strinse leggermente le labbra e fece un cenno di assenso verso la
donna. Aveva
sempre temuto il suo potere e soprattutto il suo carisma. Aveva avuto
sempre il
potere di far crollare la gente ai suoi piedi. Anche lui.
-Copri
tutto se ce ne è bisogno, Alexander. Non farmi pentire di
averti dato quello
che hai.
L’uomo
non
fece nient’altro che allontanarsi e uscire fuori dalla porta,
non senza un
misto di preoccupazione negli occhi. Con lei sarebbe saltato anche lui
se solo
gli Stati Uniti avessero sospettato e di sospetti gliene stavano
regalando a
bizzeffe. Qualcuno passava le informazioni e questo non potevano
permetterselo.
Compromettendo la sua carriera avrebbe compromesso anche quella di
tutti i suoi
collaboratori e avrebbe perso tutto, per non parlare della prigione che
gli
sarebbe toccata.
No.
Alexander
non l’avrebbe mai permesso. Non sarebbe caduto nella trappola
che tutti si
aspettavo che cadesse.
Angolo
dell'autrice
Avete ragione. Sono in tremendo ritardo, ma purtroopo
non mi è stato possibile aggiornare prima. Infatti non ho
fatto assolutamente in tempo neanche di correggerlo come si deve.
Così come l'ho scritto, correggendo solo quello che sono
riuscita a vedere.
Spero vi siate goduti un po' questo capitolo. Anche perché
questo capitolo, anche se di passaggio, rivela quello che sta
succedendo. Spero vi sia piaciuto.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 15 *** 15 - Alexandra ***
02
15 - Alexandra
Era
stato
attento. Molto attento.
Si
era
guardato le spalle per tutto il tragitto e alla fine si era ritrovato a
vagare
per la città senza una meta, come se volesse far perdere le
sue tracce ad un
inseguitore invisibile. In realtà nessuno lo pedinava e al
momento nessuno sapeva
che il signor Yukino (o più semplicemente Aleksey) era
lì, ma non riusciva a
stare tranquillo anche con la sua abilità di rimanere
nell’ombra.
George
gli
aveva indicato un albergo per quella sera dove non gli avrebbero fatto
domande.
Il russo si sarebbe occupato di tutto, ma Aleksey non riusciva a stare
tranquillo. Nemmeno dopo tutto questo tempo. Come sempre si sentiva
fuori luogo
e fuori dal tempo, come se nulla gli appartenesse assolutamente.
In
effetti
i suoi passi, un tempo, erano guidati dapprima da Alexandra e poi
infine da
Miori, che aveva amato più dell'altra, con
un’intensità tale da sconvolgerlo
ogni qual volta vedeva il suo viso. Ormai ne era rimasto solo il
ricordo e
qualche fotografia sbiadita.
Sì,
era
sempre dovuto scappare da tutti, perché dopotutto Aleksey
aveva sempre avuto
Sergey alle calcagna, da quando aveva abbandonato l’esercito
e sua figlia.
L’uomo ricordava bene le parole che si erano dette con
Alexandra l’ultima
volta, proprio come se le avessero appena dette. Erano state dure,
difficili e
assolutamente inappropriate. Aveva semplicemente paura a quel tempo.
Alexandra era lì,
davanti a lui, avvolta nella
sua pelliccia. Sul capo un colbacco e per coprire le dita dal freddo,
uno
scaldamani in pelliccia.
La donna era immobile, ma dentro di
lei tremava.
Sentiva che quel momento sarebbe arrivato, che sarebbe successo tutto
quello
che nei suoi sogni già vedeva e temeva. Ne sentiva la
pressante angoscia che
cominciava a crescere nel suo cuore.
Aleksey era chiuso nel suo cappotto
di lana con i
vari gradi e mostrine messe in bella mostra e il colbacco a coprire
quei suoi
capelli biondi, quasi bianchi. Gli occhi azzurri guardavano quelli
verdi di lei
e l’uomo non riusciva assolutamente a staccare lo sguardo da
lei.
Proprio come il loro primo incontro
sarebbe
avvenuta la loro separazione.
Il vento spirava leggero e gelido
dentro le ossa;
un freddo che loro percepivano solo nel cuore. La neve era cominciata a
scendere nella città di Tomsk, e loro, all’interno
di una casa non molto fuori
città, si stavano guardando senza dire una sola parola.
Alexandra aveva liberato i suoi
meravigliosi
capelli rossi e lui l’aveva guardata incantato,
così com’era successo qualche
anno prima.
Quell’anno, in Siberia,
si era registrato
l’inverno più rigido. Gli abitanti avevano cercato
come potevano di fare scorta
di legna e provviste, anche perché le strade sarebbero
diventate quasi
impraticabili, almeno con i mezzi convenzionali.
Gli spazzaneve e gli spargisale
lavoravano a
ritmo serrato, ma nulla poteva contro quella neve che non aveva voglia
di
smettere di cadere per rendere il momento della separazione ancora
più
distruttivo per gli animi di entrambi.
Aleksey sentiva di non doverla
lasciare, ma gli
ordini erano ordini e non osava chiederle di scappare con lui,
perché il tutto
si sarebbe ridotto a un “Pensa al dolore che darei alla mia
famiglia”.
Forse non si amavano abbastanza da
poter fare un
passo come quello, così lungo e difficile che solo pochi
amanti erano riusciti
a compiere. Chissà con quale esito e l’uomo se lo
chiedeva spesso.
Quando
il
ricordo iniziò a sbiadirsi, Aleksey si ritrovò
esattamente al posto dove George
gli aveva detto. Si era sorpreso nel vedere ciò che il tempo
non aveva
assolutamente cancellato. Non sapeva se era meglio ricordare le strade
che
aveva percorso insieme ad Alexandra in quegl’anni passati o
aver dimenticato
alcuni momenti preziosi insieme a lei.
Se
ne
sentiva distrutto ogni volta che ci pensava. Era un uomo freddo e
calcolatore,
ma lei era riuscita per la prima volta scioglierlo e dargli una vita
diversa da
quella che aveva progettato per sé.
Entrò
all’interno dell’hotel raddrizzando la schiena e
alzando il mento in un moto
fiero. Si sentiva ancora quell’uomo, anche se cambiato quasi
nella sua
integrità. Gli eventi, i sogni e la realtà
avevano cambiato qualsiasi cosa.
-Romanov.
Un
semplice
nome per poter far capire all’addetto alla reception il
messaggio. Gli occhi
dell’addetto squadrarono Aleksey e infine con il capo
annuì debolmente. Gli
diede le chiavi della stanza e non fece domande, ma ad Aleksey serviva
davvero
scambiare due parole con qualcuno di fidato e l’unico uomo di
cui si fidava era
morto solo la settimana prima.
Appena
entrato all’interno della stanza, posta al piano superiore
dell’albergo, si
ritrovò all’interno di uno spazio che sentiva
stringersi su di lui.
L’edificio
dove era stato fatto hotel era stato costruito più di
cinquant’anni prima nel
periodo stalinista. Se ne sentiva ancora il peso e quei palazzi,
costruiti da
Stalin, erano chiamati le Sette Sorelle, adibiti ai tempi moderni ad
altri
scopi da quelli inizialmente preposti. Il Radisson Hotel aveva
ereditato la
magnificenza dei palazzi russi, lasciando indietro il primato di
albergo più
alto del mondo.
Aleksey
non
aveva vissuto quegli anni appieno, ma dai racconti del padre ne aveva
sentito
parlare. Non poteva dirsi d’accordo o meno con il pensiero di
Stalin, ma ormai
i tempi erano cambiati e con lui anche l’uomo.
George
aveva pensato a lui, ma quel lusso non gli era mai piaciuto. Troppo
oro, troppi
tappeti, troppo tutto e dentro quel tutto si sentiva soffocare.
Aleksey
richiuse la porta alle spalle e lasciò il mondo fuori, ma
liberi i pensieri e i
ricordi ad invadergli la mente.
Avrebbe preferito stare fuori
anziché davanti a
lei.
Il volto della donna era triste, ma
manteneva
quella compostezza e quel tratto tipico di Alexandra. Era sempre stata
molto
paziente con lui e per questo gliene doveva dare atto, ma non credeva
che lei
lo amasse così poco da accettare a testa china la decisione
che suo padre aveva
preso per loro due.
-Alexandra…
La voce del soldato
tremò e con lei il cuore
dell’uomo.
Lei lo aveva guardato e
semplicemente gli aveva
sorriso; un sorriso triste e lontano. Lo aveva già lasciato
in cuor suo per non
morire dal dolore di una separazione più dura di quella
già si era sognata.
Non ce la fece però a
trattenerle e lacrime che
premevano contro gli occhi da quando si era messa in viaggio per
raggiungerlo.
Pungevano come aghi negli occhi ed erano amare. Se le sentiva bruciare
come
fuoco sulle guance, tanto erano dolorose e nonostante il freddo che
sentiva.
-Non c’è
bisogno di dire nulla.
Alexandra aveva singhiozzato e le
parole le
risultavano difficili da dire. Cercò in tutti i modi di
calmarsi e, dopo quella
breve e intensa emozione, le lacrime cessarono di cadere e sul volto
della
donna si disegnò un sorriso che fece rabbrividire Aleksey.
-Avrei voluto che fosse stato
diverso tra noi.
-Ma non lo è, Aleksey.
Mio padre ti ha dato un
ordine e io non scapperei mai dalla mia famiglia. Dobbiamo rassegnarci
che il
nostro amore non è stato altro che un’avventura.
Aleksey era rimasto per qualche
istante
interdetto. Non mostrò la sorpresa sul volto, ma il cuore
aveva perso un
battito a quelle parole.
-Non è così e
lo sai bene.
Alexandra aveva solo annuito e
l’uomo gli si era
avvicinato per poterla cingere un’ultima volta, ma lei si
ritrasse riluttante
al contatto.
-Non voglio aspettarti. Non ne ho
né la forza e
né la voglia.
L’uomo aveva
semplicemente preso un respiro
profondo e qualche secondo per elaborare un frase tale da non offendere
il
proprio onore. Anche se non credeva che Alexandra lo stesse
abbandonando così,
senza combattere. Non era in lei.
Sentiva la presenza costante delle
parole di
un’altra persona in quelle della donna.
-Non pensavo che saresti stata in
grado di dirlo.
A questo punto non meriti neanche una mia risposta.
Sembrava una discussione come
quelle che si
vedono alla tv, dove lui l’abbraccia con la forza, la bacia e
tutto ritorna
tranquillo e sereno, ma non in quella situazione. Si sentiva
completamente
distrutto e lei lo aveva abbandonato ormai da molto tempo.
-Mi stai solo confermando le mie
paure,
Alexandra. Non pensavo si sarebbero trasformate in realtà.
E detto questo Aleksey si
sfiorò le labbra con la
mano coperta da un guanto scuro e le rivolse il suo commiato.
Si
era
buttato sul letto, dopo la doccia e aveva cominciato a fissare il
soffitto. In
effetti non la vide mai più e quell’abbandono
forzato costò cara la vita di
Alexandra. Sapeva che era morta solo tre anni dopo. Aleksey era
rientrato a
Mosca dopo pochi mesi della missione e si era ritirato
dall’esercito, la
gloriosa Armata Rossa poteva fare a meno di lui.
Dopo
questo
si trasferì in Giappone e non passò molto che
conobbe Miori. La tenera e dolce
Miori.
Non
era
stato difficile amarla. Era arrivato tutto da sé, a lenire
quel cuore che era
stato fatto a pezzi molto tempo prima.
E
ora la
realtà premeva contro il suo cuore a fargli rivivere
ciò che non avrebbe
voluto. Non sapeva chi ci fosse a tendere i fili di quella vicenda, ma
doveva
far capire al destino che tendendo troppo i fili si sarebbero prima o
poi
spezzati.
George
era
rincasato poco dopo il suo incontro con Aleksey e
quell’incontro l’aveva
oltremodo destabilizzato.
Perché
adesso?
Era
una
domanda che durante il tragitto si era posto molte volte e senza mai
darsi una
risposta. La verità era che le risposte erano
così ovvie che a lui faceva male
solo ammetterle.
Era
talmente immerso nei suoi pensieri che non aveva notato neanche
l’avvicinarsi
di Katrina. Solo quando gli fu davanti e con trasporto lo aveva
abbracciato e
poi baciato si era accorto della sua presenza.
George
era
rimasto per un attimo esterrefatto.
-A
cosa
devo questa sorpresa?
-Una
moglie
non può dare il bentornato al proprio marito?
Katrina
infine si era avvicinata alle labbra di George e lì vi aveva
insinuato la
propria lingua in modo che lui comprendesse che era suo e che nessuna
poteva
metterle i bastoni tra le ruote. L’uomo non poté
far altro che stringerla a sé
e rispondere al bacio, anche se non con lo stesso trasporto.
La
donna
era così.
Poteva
apparire minuta e indifesa, ma sotto quella scorza aveva
l’animo di una
predatrice ed era stato così che aveva abbindolato lui e suo
nonno e aveva
assunto il pieno controllo della
ditta.
Ma
per
quanto vivessero nella stessa casa, lei non sapeva niente di lui e lui
non
sapeva niente di lei; solo il minimo indispensabile.
A
spaventarlo, però, erano i suoi occhi. Traditori, predatori
e luminosi. Stava
sicuramente tramando qualcosa e quello che pian piano stava scoprendo
della
moglie non gli piaceva affatto.
-Katrina,
che cosa stai tramando?
La
donna
sorrise appena mentre si staccava dal corpo di George e si allontanava
di
qualche passo.
-Vorrei
renderti partecipe di un qualcosa che ci renderà grandi,
amore mio.
Katrina
in
effetti amava George e avrebbe voluto tanto che lui condividesse quella
sua
particolare vena malvagia e futuristica. Lei vedeva un mondo diverso da
quello
che percepiva adesso. Un mondo che sarebbe cambiato da lì a
poco.
-Cosa
stai
dicendo?!
George
lo
chiese in modo scocciato mentre si versava il suo bicchiere di whiskey
e ne
saggiava un breve sorso per sentirne il dolce-amaro nella bocca, come a
volersi
togliere la presenza di Katrina dalle labbra.
-Ho
intenzione di cambiare il nostro mondo, George.
L’uomo
strabuzzò gli occhi e la guardò esterrefatto,
come se avesse detto una follia
ed era infatti quello che pensava con tutte le sue forze.
-Vieni
e ti
farò vedere con i tuoi occhi quello che intendo.
Anche
se il
nonno le aveva detto di non fidarsi ciecamente di George, voleva
davvero fargli
capire che con lei avrebbe solo vissuto una vita degna del suo nome.
La
donna
mise una pelliccia sulle spalle e si diresse verso la porta, infine si
volse
verso un George completamente sconvolto e gli tese la mano.
Per saperne di più
Tomsk:
(in russo: Томск)
è una città
della Russia di
488.400 abitanti, situata nella parte sud-occidentale della Siberia sul
fiume Tom' e capoluogo della oblast'
omonima.
Fu
fondata nel 1604 e
un tempo fu la più grande città siberiana,
capoluogo della Gubernija
di Tomsk. È un centro abitato ricco di storia e
tradizioni, con notevoli
testimonianze di architettura di epoca zarista e numerosi monumenti
storici.
Le "Sette Sorelle": (in russo: Сталинские высотки, traslitterato: Stalinskie Vysotki,
ovvero
"alti edifici di Stalin") sono un gruppo di grattacieli di Mosca particolarmente
rappresentativi del classicismo
socialista. Vennero costruiti tra il 1947 e
il 1957,
in un'elaborata combinazione di stile barocco
elisabettiano e gotico con
la tecnologia anche usata nella costruzione dei grattacieli
statunitensi.
Originariamente
i grattacieli in
progetto erano otto, numero che avrebbe dovuto simboleggiare gli otto
secoli
della capitale (1147-1947); la torre Zaryadye, progettata
dall'architetto Dmitrij
Nikolaevič Čečulin, non fu però mai costruita.
Un
ottavo grattacielo che richiama
esplicitamente le forme dei primi sette fu invece realizzato tra il
2001 e il
2005: si tratta del Triumph
Palace, che fu per un certo tempo il più
alto d'Europa.
Angolo
dell'autrice
Sono davvero imperdonabile.
Purtroppo ho abbandonato per un certo periodo la stesura della storia
causa trasferimento e riordino della mia vita. Un altra
città, un altro modo di pensarla e di vivere. Pian piano,
tranquille, mi sto riprendendo.
Questo capitolo lo avevo già scitto nella mia testa. Volevo
farvi sapere un po' più di Alexandra, visto che il questo
romanzo compare spesso e volentieri. Uno di quei personaggi che anche
ase non sono fisicamente nella storia, costituisce una parte
fondamentale per le scelte di alcuni dei miei personaggi.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono molto propensa a
raccontarvi qualche retroscena se volete
Infine vi prometto (e non è una semplice promessa da
marinaio questa volta) entro la prossima settimana
pubblicherò il sedicesimo capitolo.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia. Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio dell'intera vicenda. Infine vi ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere. E vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 16 *** 16 - Assassini ***
02
16 - Assassini
Finalmente
era riuscito a scovarla e dopo tanto tempo avrebbe avuto ciò
che gli spettava
di diritto. L’aveva seguita e lei sicuramente si era accorta
di lui, tanto da
portarlo in un posto affollato e pieno di rumori.
Nel
pieno
caos della piazza Lubjanka, proprio vicino alla pietra che commemorava
il
ricordo delle vittime della repressione sovietica. La pietra Soloveckie.
Reila
era
lì, che osservava il monumento dando le spalle proprio alla
persone che meno
avrebbe dovuto sottovalutare. L’uomo glielo aveva promesso,
ma in mezzo alla
gente non avrebbe fatto nulla. Era finito il tempo in cui nessuno
parlava.
Lo
sguardo
della donna si volse infine verso il grande palazzo che con la sua mole
dominava tutti i presenti. Davanti a questo un piccolo giardino di
papaveri
che, con il loro colore rosso intenso, sembrava volessero ricordare le
vittime
di ciò che la Russia era prima.
L’ex
sede
del KGB faceva quasi da ombra alla piazza che prendeva il suo nome,
mentre le
auto sfrecciavano lungo le strade costruite a ridosso della stessa.
Reila la
guardava, ammirando quella costruzione che si diceva che dal tetto si
poteva vedere
la Siberia. Più ammirava i mattoni gialli della Lubjanka e
più comprendeva che
la Russia aveva qualcos’altro per lei, un’altra
sorpresa dopo Dmìtrij.
L’ultima.
La
chiacchierata con lui e l’averlo rivisto, l’aveva
resa succube dei ricordi e
dell’angoscia. Le aveva messo addosso un velo di finzione o
realtà che
difficilmente sarebbe riuscita a togliere. Aveva compreso,
sì, che era stato
proprio lui a ridarle un cuore e così come glielo aveva
restituito, l’aveva
preteso indietro con gli interessi.
La
donna si
era stretta all’interno del suo cappotto di pelliccia e
sentì addosso più
freddo di quello che esternamente si percepiva. Prese un profondo
respiro per poi
percepire la presenza dell’uomo dietro di lei,
così come l’aveva sentita solo
qualche ora prima.
-Sei
riuscito
a trovarmi.
Lo
aveva
detto in un soffio. Le certezze della donna stavano vacillando e ancora
non
aveva deciso il da farsi. Non sentiva più calore e questo la
spaventava
terribilmente, come se il ghiaccio si stesse impadronendo di lei. Forse
era
quello che la Russia voleva lasciarle? Il freddo nel cuore?
-Non
è
stato facile.
Kajiro
aveva risposto con una certa enfasi e le si era posizionato proprio di
fianco,
puntando il suo sguardo dapprima sul grande palazzo e poi sul delicato
viso di
Reila che aveva assunto una piega sinistra.
-Non
è
stato facile neanche per me.
Reila
aveva
voltato la testa leggermente verso di lui e l’uomo si era
ritrovato a guardarla
senza capire ciò che stesse dicendo. L’assassino
aveva lo sguardo interrogativo
e prima che lui decidesse di chiedere, fu lei a rispondere.
-Trovare
me
stessa. Ancora ne sto cercando ancora i residui.
Era
come se
si volesse confidare con lui, con la persona meno adatta a queste
situazioni e
a questi discorsi. Kajiro era un tipo possessivo e violento, un uomo al
quale
era meglio stare alla larga. Stranamente, però, riusciva ad
attrarre a sé con
il fascino del male.
Reila
lo
conosceva bene o almeno credeva fosse così, ma da quando lo
aveva lasciato lì
incosciente e debole, risparmiandogli la vita, vedeva nei suoi occhi
che tutto
era cambiato e tutto era rimasto al suo posto.
-Dove
sei
stata?
-A
combattere il mio passato.
La
risposta
fu come una doccia fredda e Kajiro corrucciò nuovamente le
sopracciglia
cercando di capire ciò che passava dentro la testa della
donna, senza riuscirne
a carpire i segreti.
Reila
era
sempre stata un eterna scoperta per lui e cercare di trovarle solo un
piccolo
difetto gli era davvero difficile.
-Cosa
vuoi,
Kajiro?
Gli
occhi
neri della donna si erano posati nuovamente sul volto
dell’assassino e avevano
cercato di leggere ciò che era così palesemente
mostrato.
-Voglio
che
adesso fai i conti con il tuo presente.
Kajiro
le
si avvicinò e le strinse i braccio quasi a farle male. Non
riusciva a
resisterle e anche quella vicinanza per lui era una droga peggiore di
qualsiasi
in commercio. Aveva avvicinato il volto ai capelli della donna e li
aveva
annusati, sentendo il delicato profumo che lei emanava.
Reila
non
fece nulla se non avvicinarsi a lui, anche perché aveva
sentito, poggiata sul suo
costato, la canna di una pistola. In quella situazione non poteva fare
molto,
almeno per il momento e poteva permettersi di elaborare un qualcosa per
potersi
togliere da quella condizione.
-Ti
avevo
fatto una promessa, ricordi?
Reila
aveva
annuito e aveva sorriso. Non disse nulla, ma iniziò a
seguire l’uomo senza fare
storie o brutti movimenti per non allarmarlo.
Kajiro
strinse di più la presa sul braccio di Reila e con
l’altra mano premeva la
pistola sulle costole dell’assassina quasi a mozzarle il
respiro.
-Dove
mi
stai portando?
La
voce dell’assassina
era un filo sottile. Non voleva farsi sentire dagli altri passanti e
dalle
persone che le erano intorno. Il suo obiettivo era proprio
lì, accanto a lei e non
poteva fare nulla per compiere quello che avrebbe dovuto fare
già da un pezzo.
No,
non era
per Dmìtrij che lo faceva. Stava cercando di dare un senso
al proprio scopo
senza che si mettesse in mezzo il passato e voleva cercare di mettere
in linea
retta la sua visione dell’amore.
Quello
con
Dmìtrij era distrutto, finito e voleva convincersene, anche
se non era così
semplice. Le provocava sempre quel leggero formicolio nel basso ventre
e la
stretta allo stomaco come se fosse una scolaretta alle prime cotte.
Nella
testa
di Reila vorticavano così tanti desideri inespressi e tanti
pensieri che a
Kajiro, per qualche istante, sembrò che si fosse estraniata
dalla realtà
circostante e che se ne stesse infischiando del destino che lui stava
decidendo
per lei.
-Voglio
stare un po’ solo con te.
Reila
non
poté trattenere un leggero sorriso di scherno verso
l’uomo tanto da meritarsi
una stretta ancora più energica al braccio e un sicuro
livido violaceo sulla
pelle.
-Avanti,
perché non mi uccidi e la facciamo finita?
Kajiro
la
guardò per qualche istante, sovrastandola con la sua
altezza. Erano arrivati in
uno dei vicoli bui che costeggiavano i caseggiati di quella via.
Avevano
camminato molto senza però parlarsi, ma scambiandosi sguardi
enigmatici.
Sicuramente tutti e due pensavano come l’uno avrebbe ucciso
l’altro.
L’uomo
aveva
notato quello stabile in disuso prima di raggiungere Reila. Dal vicolo
troneggiava
davanti a loro come un gigante addormentato. Kajiro vi aveva fatto una
piccola
perlustrazione per vedere se ci fossero vagabondi e senza tetto, ma
aveva
notato che era completamente abbandonato. Avrebbe portato lì
Reila, prima che
potesse sfuggirgli un’altra volta.
Era
passato
un mese da quando l’aveva incontrata e questo aveva acuito
molto di più la
passione insana che aveva verso di lei.
Negli
anni aveva
imparato a essere silenzioso, a non avere timore e a non provare
sentimenti per
coloro che uccideva. Proprio com’era lei. Ma ciò
che Kajiro non sapeva era che
Reila era diventata umana.
La
portò in
quell’unico vicolo buio senza anime che potessero dargli
fastidio, l’unico
posto dove avrebbe potuto saggiare le sue labbra per la prima volta.
La
accostò
al muro e la premette contro questo, bloccandola con il peso del suo
corpo. Le
si era avvicinato talmente tanto da buttarle suo viso il suo respiro
che
risultava già ansimante.
-Perché
non
voglio ucciderti. Non subito.
Reila
lo
guardava. Aveva fissato il suo sguardo in quello dell’uomo
per cercare di
capire la sua prossima mossa. Doveva sparire nuovamente,
perché uccidere Kajiro
in questo modo non sarebbe stato un vero salvataggio. La donna voleva
salvarlo
da tutto il male che c’era nel mondo, anche se Kajiro stesso
era diventato il
male. Voleva ricordarlo così come lo aveva visto la prima
volta. Tremante e
pauroso sotto la sua pistola.
Se
quel
mondo l’avesse risucchiato completamente, lui non avrebbe
più potuto smettere e
sarebbe finito seppellito sotto qualche masso o in una tomba senza nome.
Loro
erano
questo, ombre senza nome di cui si ci dimentica facilmente e lei non
voleva più
questo. Voleva rifarsi una vita e voleva abbandonare l’ombra
e immergersi nella
luce di una nuova esistenza.
Voleva
farlo
semplicemente per se stessa. Magari sarebbe tornata dal padre.
Kajiro
le
si era avvicinato talmente tanto da renderlo succube dei suoi occhi, ma
al momento
Reila non avrebbe fatto la marionetta per poi ucciderlo senza rimorso,
perché
al momento non aveva il totale controllo della situazione e lei odiava
non
averlo.
La
mano
libera dell’assassino era andata a lambirle una coscia,
artigliandola fino a
farle male ma Reila non emise un gemito. La toccava come se
l’avesse bramata da
tempo, tanto da volerle lasciare un impronta di sé. La mano
salì sotto la pelliccia,
senza scostare gli abiti e premeva sia con questa che con il suo corpo.
Voleva
immergersi in lei, voleva che lei sentisse quanto la desiderava e
quanto al
contempo odiava se stesso.
Kajiro
aveva cominciato ad odiare se stesso quando aveva capito che non
sarebbe
riuscito ad eguagliarla. Voleva diventare proprio come lei era sempre
stata nei
suoi sogni, come una vedova nera che uccide i suoi amanti e non prova
rimorso.
Il
tocco di
Kajiro si fece ancora più prepotente fino ad aggrapparsi
prima al braccio
dell’assassina e poi infine prenderle un seno e stringendolo
con foga.
Fu
in quel
momento che Reila emise un singulto di dolore, fissando il suo sguardo
in
quello dell’uomo. Non durò molto e lo
lasciò subito, senza stringere oltre.
In
tutto
questo la pistola era puntata sul costato dell’assassina e
lei non poteva
ribellarsi, altrimenti avrebbe segnato la sua fine.
-Voglio
tenerti con me. Voglio che tu stia sempre con me.
Il
respiro
era affannato e pesante. L’uomo tuffò il viso tra
i capelli della donna e infine
sul suo collo, cominciando a lambire il pezzo di pelle che unisce il
collo alla
clavicola. Lo succhiò fino a prenderle l’anima e
segnandola come una sua
proprietà. La mano di Reila si era posata sul braccio
dell’assassino e sentì
che i muscoli erano tesi fino all’estremo. Forse se si fosse
concessa avrebbe
avuto più possibilità, ma Kajiro avrebbe previsto
le sue mosse e avrebbe fatto
di tutto per non farla arrivare né alla sua pistola
né a quella dell’uomo.
-Se vuoi sarà
così.
La
voce che
Reila aveva usato era molto bassa, come a volerlo tirare ancora di
più a sé.
Kajiro respirò affannosamente sul suo collo e nuovamente la
spinse contro il
muro, facendole male
poiché sentiva
ancora di più i mattoni sporgenti del muro dietro la sua
schiena.
Le
si era
avvicinato alla bocca e l’aveva accarezzata con la mano
libera, saggiandone la
consistenza e la carnosità. Lo sguardo di lui era malato e
cercava come di trattenersi
dal prenderla e farla sua per l’eternità. La mano
scivolò sul collo della donna
e la strinse fino a
farle mancare per un
attimo il respiro.
Le
labbra
di Kajiro la intrappolarono ancora di più, premendo sulle
labbra di lei come se
fosse l’ultimo bacio prima della morte. Un bacio possessivo
che non aveva nulla
a che fare con quelli che l’assassina ricordava. Stava
cercando di stare al
gioco, ma quando Reila chiuse gli occhi l’unica immagine che
le venne davanti
fu quella di Dmìtrij, che le lambiva le labbra, il problema
era che lui non
l’aveva mai baciata in un modo tanto brusco.
Kajiro
aveva lasciato leggermente la presa dal collo. Sulla pelle della donna
cominciarono a comparire leggeri segni rossi. Reila aveva la tipica
pelle che
si macchia in fretta e anche il livido sulla coscia prima o poi sarebbe
uscito
fuori.
Lei
aprì
gli occhi di scatto. Non era possibile che dopo tutto questo tempo lei
ancora
pensasse all’uomo che le aveva fatto del male. Voleva
semplicemente liberarsi
di lui e più cercava di farlo più la sua vita
iniziava a dissolversi in una
manciata di sabbia.
Reila
iniziò a ribellarsi e cercò di spingere il peso
di Kajiro in modo da farlo
indietreggiare. Lui rimaneva attaccato alla sue labbra e con un morso
al labbro
inferiore riuscì a staccarlo da lei.
L’assassina
sentiva il sangue dell’uomo sulle labbra e Kajiro lo stava
saggiando
direttamente dalla sua bocca.
Improvvisamente
sul volto di Kajiro si disegnò un sorriso. Uno di quelli di
cui hai paura e che
non da nessun conforto.
Reila
aveva
poggiato entrambe le mani sul muro dietro di lei e le sopracciglia si
erano
corrucciate in modo che denotassero tutto l’odio che aveva
verso di lui.
Non
era
vero, anche se se lo ripeteva sempre e più volte. Non era
mai riuscita ad
uscire da quella vita, perché il suo problema era di non
riuscire a provare
pietà per la persona che gli stava di fronte. Non sapeva se
fosse stata lei
l’artefice di quel cambiamento nel ragazzo che aveva
conosciuto qualche anno
prima, ma sapeva che doveva eliminarlo per il solo gusto di farlo.
Ciò
che
Reila non si aspettò, invece, fu il pugno che
l’uomo le assestò sulla mandibola.
Il dolore fu lampante e fulmineo che, cadendo a terra, si
sentì come stordita. La
testa iniziò a girarle e ciò che
riuscì solo a vedere, era Kajiro che si
avvicinava.
No,
non un’altra volta. Riuscì
a pensare prima di svenire per il colpo ricevuto e sperando che
si sarebbe svegliata in condizioni migliori di come si sentiva in quel
momento.
Non
per lei,
ma per poter infilare una pallottola nella testa di Kajiro.
Per saperne di più
Lubjanka(in russo Лубянка)
è il nome con cui è noto un palazzo di Mosca,
celebre per essere sede dei servizi
segreti sovietici prima
e russi poi.
È un grande edificio con facciata di mattoni gialli,
progettato da Aleksander
V. Ivanov nel 1897,
ed ingrandito da Aleksej
V. Ščusev nel 1940-47.
La
Lubjanka
venne costruita originariamente nel 1898,
come sede neobarocca della
Compagnia di Assicurazione Rossija, divenuta nota per i bei pavimenti
in
parquet ed i muri verde chiaro. Dissimulando la propria mole,
l'edificio non
comunica un'impressione di scala enorme: singoli dettagli palladiani e
barocchi,
come i minuti frontali agli angoli e la loggia centrale, si perdono in
una
apparentemente infinita facciata classicheggiante, dove le tre fasce di
cornicioni sottolineano le linee orizzontali. Un orologio è
posto al centro
della fascia superiore della facciata.
Nel 1918 fu
occupato dai primi servizi segreti sovietici, la Čeka.
La sede rimase poi stabile nonostante le successive evoluzioni dei
servizi, da
Čeka a GPU a NKVD a KGB,
fino ad approdare all'FSB russa
di oggi. La Lubjanka mantiene
una fama sinistra, legata alle torture e ai crudeli interrogatori che
si
tennero al suo interno dal 1918 al 1956
e che ebbero il loro culmine in epoca stalinista.
Pietra Soloveckie
si trova sempre sulla piazza Lubjanka ed è un monumento
dedicato
alle vittime della repressione sovietica. La pietra proviene dalle isole
Soloveckie ove
fu allestito il primo campo di lavori forzati del sistema Gulag
descritto
da Aleksandr Solženicyn.
Angolo
dell'autrice
Cari lettori e lettrici, finalmente dopo poco meno di
un mese, sono riuscita a postare questo capitolo.
Un capitolo particolare perché per la prima volta reila
viene colpita e non da un semplice schiaffo, ma da un pugno che le
provoca un vero knock-out.
Sono contro la violenza sulle donne, ma il problema che uomini come
Kajiro esistono e purtroppo molte donne prendono botte dalla mattina
alla sera. Vorrei solo che riuscissero ad avere il coraggio di parlare.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi
critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene
così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la
storia.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi
ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 17 *** 17 - Sorpresa ***
02
17 - Sorpresa
Aleksey
non
vedeva né sentiva George da ormai troppi giorni e, nella sua
testa, già pensava
al peggio.
In
quell’albergo si sentiva in trappola e se George era stato
già eliminato, non
sarebbe mancato molto tempo prima che andassero a prendere anche lui.
Nella
cassaforte della camera gli era stata lasciata una pistola con una
scatola di proiettili
e sicuramente non era stato né per caso e né per
la sua fortuna che ultimamente
sembrava lo avesse abbandonato. Quel russo era un uomo che pensava a
tutto, a
differenza di come poteva apparire alla gente.
Aleksey
era
rimasto troppo tempo a guardare dalla finestra della sua indifferenza
quel
mondo che dapprima l’aveva acclamato come un eroe e poi
gettato nel fango.
L’unica parte che cercava di rimanere integra e sana ai suoi
occhi era una
specie di redenzione con l’aiuto di quella figlia che ormai
era distrutta come
lui.
Il
pensiero
a Reila gli andava ogni qual volta pensava ad Alexandra e ultimamente
gli
capitava molto spesso. Era come un martello che batteva in
continuazione e
sempre in quel punto, come se improvvisamente la vita meravigliosa
passata con
Miori fosse solo stato un bel sogno dal quale si era svegliato ormai da
troppi
anni.
Senza
rendersene conto aveva infilato la pistola carica dentro la fondina
interna
attaccata alla cintura dei pantaloni. Aveva svuotato la cassaforte che
conteneva tutto ciò che gli serviva per passare inosservato
all’interno di
quella città che gli aveva tolto tutto e si era voltato
verso la porta. Ebbe
infine un ripensamento.
Aleksey
si
era avvicinato alla finestra, provato e affranto. Posò la
testa sulla vetrata e
puntò gli occhi su un punto indefinito fuori, verso la
strada. Non riusciva neanche
più a vedere, ma si limitava a guardare. Dalla sua bocca era
uscito un alito di
fiato che si era condensato sul vetro.
Per
la
prima volta, con l’indice di una mano, aveva avuto il
coraggio di scrivere
l’iniziale del nome della donna che lo tormentava. Non voleva
tornare in
Russia, ma vi era stato costretto dal destino. Con quale faccia avrebbe
potuto
guardare la figlia e dirle che Miori non era stata la donna sempre
presente nei
suoi pensieri?
Era
tutto
così difficile e ne comprendeva
l’intensità del momento. Avrebbe voluto
rivedere Reila, anche per stringerla a sé come faceva quando
era piccola;
avrebbe voluto dirle tantissime cose, ma era il coraggio che, sapeva,
gli
sarebbe mancato nel momento cruciale.
Quel
flusso
di pensieri era stato interrotto da un bussare incessante alla porta e
ciò che
gli fece sentire un brivido secco alla schiena era che nessuno doveva
sapere
che lui si trovasse lì.
Aleksey
si
era avvicinato di soppiatto alla porta, cercando di intravedere dallo
spioncino
chi potesse essere, ma era stato oscurato, forse con una mano. Aveva
preso un
profondo respiro e si era nascosto di fianco alla porta, in attesa.
Non
era un
novellino e sapeva ben mantenere il respiro basso e calmo, non come
sentiva
dall’altra parte; troppo concitato dato dalla giovane
età e poca esperienza.
Non
si era
mai sentito al sicuro da quando era partito dalla Russia per tornare in
Giappone, ma si era considerato colpevole della morte di Alexandra.
Sentiva il
peso di un omicidio che aveva commesso, anche se non l’aveva
mai spinta
materialmente da quella balconata.
In
quell’istante il pensiero di non riuscire nel suo intento
cominciò a farsi
strada nella sua testa perché, anche se la sua esperienza
gli sembrava una
corazza, si sentiva inadatto e vecchio per quel tempo che lo stava
divorando o
magari era solo il suo corpo che non reggeva più i nuovi
sforzi e le nuove
sfide. Aleksey stringeva la pistola convulsamente e che non usava ormai
da
troppo tempo. Aveva perso per alcuni istanti il contatto con la
realtà confondendola
con i ricordi.
Gli
uomini là
fuori si stavano dando da fare per scassinare la porta, ma
perché darsi tanta
pena per lui?
Dopotutto
non era una pedina così importante e non costituiva una
minaccia
particolarmente attiva.
Il
russo
aveva ricominciato a respirare tranquillamente e aveva tratto un
profondo sospiro,
cercando di essere il più silenzioso possibile e poi infine
il colpo di pistola
con silenziatore verso il dispositivo della chiave elettronica che fece
scattare tutti i suoi nervi come se fossero all’unisono.
Il
primo
non fu un problema eliminarlo, attese che nella penombra,
all’apertura della
porta, entrasse nel suo campo visivo e il colpo partì in un
millesimo di
secondo. Forse l’uomo non se ne era neanche accorto.
Il
problema
erano gli altri due.
Aveva
cominciato a sentire i colpi di pistole sfiorargli la testa e le spalle
mentre
cercava un riparo. Rovesciò, in un impeto di furia, il
tavolo da pranzo della
suite, nascondendosi dietro di questo per ovviare almeno alle prime
pallottole.
Aleksey
si
era rannicchiato come un bambino dietro il tavolo e aveva lasciato
sporgere solo
la mano per farsi un po’ di copertura e mettersi almeno in
ginocchio. Purtroppo
la sua stazza non gli permetteva una protezione ottimale e
cercò di chinare il
capo il più possibile. Sparò altri due colpi di
copertura e ormai doveva
lesinare sulle pallottole per cercare di eliminarli entrambi. Non aveva
il
tempo di ricaricare il caricatore e troppo poco tempo per cambiarlo.
Le
altre
pallottole erano nella borsa, sul letto.
Il
russo si
sporse appena dal bordo del tavolo per vedere almeno la posizione dei
due killer.
Uno era dietro la colonna in marmo in fondo alla camera – non
distava neanche quattro
metri – e l’altro dietro il divano. Almeno fu
quello che riuscì a vedere prima che
altre pallottole gli sfiorassero la testa, costringendolo a chinare di
nuovo il
capo. Nel silenzio che si era creato, per il ambio del caricatore di
uno dei due
sicari, trovò il suo momento contro uno degli avversari.
C’era
stato
un attimo di silenzio e forse l’altro si era distratto per
qualche istante. Il
momento giusto in cui Aleksey puntò l’arma verso
uno dei due e sparò. Lo prese
in testa e quello morì sul colpo. Ma da quel posto si doveva
spostare, tanto
che individuò un’ansa che il muro faceva proprio
accanto a lui.
Rotolò
velocemente verso quest’ultima approfittando del momento di
confusione che
l’altro killer aveva avuto. Si acquatto per qualche istante
dietro il muro e
prese un profondo respiro, accostandosi la pistola al cuore. Si sentiva
rinascere, non pensava che quel mondo gli sarebbe mancato come in quel
momento.
Aveva
l’adrenalina che gli scorreva nelle vene. Si sentiva
completamente distante e
assolutamente invincibile. Era così che si sentiva un
assassino che faceva quel
lavoro per vivere?
Aleksey
aveva preso un altro profondo respiro, fino a sentire i polmoni saturi
di aria
e di polvere da sparo. Non si era nemmeno accorto di non essere
completamente
coperto in quell’ansa.
Un
proiettile gli aveva trapassato la spalla e la pallottola non era
fuoriuscita
dall’altra parte.
Non
ne
sentiva il dolore o il sangue che scorreva lungo la schiena. Vedeva
solo il
bersaglio, l’obiettivo dell’uomo che gli aveva
appena sparato.
Solo
poco
dopo era sopraggiunto il dolore. Proprio quando aveva alzato la pistola
per
colpire l’ultimo uomo e cercare di recuperare gli altri
proiettili posti sul
letto. Aveva preso la mira e il quel momento la forza gli venne meno a
causa
della ferita alla spalla. Proprio quella con cui sparava e tenderla gli
provoco
uno spasmo che gli fece deviare il colpo un po’
più in basso da dove aveva mirato.
La
mano
sinistra era solo un impaccio con un’arma e non poteva
usarla. Eppure, anche sbagliando,
aveva colpito l’ultimo sicario a un fianco e,
benché ferito, aveva perso l’arma,
scivolata chissà dove, e cominciava a perdere sangue tanto
da vedere subito una
pozza sotto di lui. Forse gli aveva colpito la milza o lo stomaco.
La
morte
sarebbe stata più dolorosa rispetto agli altri due killer,
ma almeno Aleksey
era libero di poter scappare. Al momento, la sua preoccupazione
maggiore era togliere
il proiettile dalla sua spalla altrimenti avrebbe fatto infezione e la
spalla
sarebbe andata in cancrena.
Questo
non
se lo poteva proprio permettere.
Pose la
pistola nella fondina con molta cura, incurante dei lamenti di
sofferenza
dell’assassino dietro di lui. Recuperò velocemente
la giacca e la borsa con i
proiettili e saettò verso l’uscita della camera.
L’assassino rimasto non aveva
neanche fatto in tempo a recuperare l’arma che Aleksey era
già sparito.
Aleksey
aveva camminato molto e non sapeva neanche quanto tempo era passato.
A
chi
poteva rivolgersi adesso per aiutarlo a superare questo ostacolo?
Fortunatamente
il proiettile aveva iniziato a fare da tappo e il sangue usciva pian
piano, ma
ogni volta che muoveva la spalla gli strappava
un’imprecazione e un rantolo strozzato.
Non
c’era
moltissima gente in strada, ma troppa se nel caso il sangue avesse
iniziato a
gocciolare sul marciapiede. Doveva cercare aiuto, ne aveva assoluto
bisogno e
da solo non avrebbe potuto concludere un’operazione
così invasiva. Avrebbe
potuto solo far andare il proiettile più in basso rispetto a
dove si trovava
adesso e poi il tutto sarebbe stato irrimediabile.
Andare
all’ospedale
era fuori discussione, avrebbe dovuto dare troppe spiegazioni.
Gli
serviva
solo qualcuno che non avrebbe fatto tante domande. Un medico in
pensione
dell’Armata Rossa che era stato di stanza con lui in Siberia
e del quale era
sicuro di potersi fidare ciecamente. Nessuno sarebbe arrivato a lui.
Solo Semyon
avrebbe potuto aiutarlo, sperava solo che vivesse ancora lì.
Doveva trovare un
taxi al più presto, visto che questo medico viveva nella
periferia più a sud
della città.
Semyon
era
seduto comodamente sulla sua poltrona con la moglie che preparava la
cena. I
figli si erano già sposati, sia Prokhor che Rem ormai
avevano costruito una
famiglia, così come un brav’uomo doveva fare e
Semyon era rimasto solo con la
moglie a trascorrere la vita da nonni e da sposini novelli.
L’uomo
aveva
servito fedelmente nell’Armata Rossa fino al congedo e dunque
godeva di un buon
vitalizio da condividere con sua moglie, Anna.
Ancora
non aveva
idea che la sua vita sarebbe stata talmente scossa da fargli ricordare
i tempi
della Guerra Fredda, quando erano sempre tesi per un attacco americano.
Al
momento teneva
la sua copia del “Rossijskaja
Gazeta”
davanti al volto. In quel periodo
si
parlava molto della politica attuale, ma Semyon non vi si ci soffermava
più di
tanto. Ormai, da bravo soldato, seguiva il presidente senza obiettare.
Voleva
solo finire i suoi giorni con i suoi nipoti e la sua bella moglie.
Quello che
gli interessava erano le notizie dal mondo.
Semyon
aveva messo gli occhiali da
lettura visto che da qualche tempo che non ci vedeva bene come un
tempo. I suoi
capelli non aveva perso la loro foltezza, si erano solo ingrigiti un
po’.
Quando
sentì il campanello suonare, non
poté far altro che sollevare appena lo sguardo dal giornale
con piglio
interrogativo.
Chi
poteva essere a quell’ora?
-Vado
io.
L’uomo
non fece scomodare la donna che
gli rispose che le andava bene. Stava trafficando tra i fornelli e
chissà quale
manicaretto stava preparando. L’uomo già si
leccava i baffi e a dire la verità,
aveva l’acquolina in bocca.
Un
altro trillo del campanello lo fece
sobbalzare. Impugnò il bastone che gli serviva per
camminare. Quella ferita che
aveva subito durante una battuta di caccia lo aveva lasciato zoppo e la
gamba
destra cominciava a non essere più quella di una volta.
Ormai, dell’uomo che
faceva paura al sol guardarlo, non era rimasto quasi niente.
Gli
occhi color nocciola si erano
spostati verso la porta che raggiunse dopo qualche istante.
Alzò il coperchietto
dello spioncino e ci guardò attraverso. Chissà
perché quasi non gli venne un
colpo.
Perse
almeno due battiti del cuore e trattenne
il respiro per qualche istante, prima di aprire al terzo trillo e al
bussare
delicato dell’uomo dietro la porta.
Aprì
la porta e tutto quello che ebbe da
dire fu solo il nome dell’uomo.
-Aleksey!
Il
russo entrò all’interno della casa,
quando l’amico si scostò dall’uscio per
farlo entrare. Proprio in quel momento
nella stanza entrò Anna, inconsapevole di ciò che
stava succedendo. Tutto
quello che fece la donna e quello che poté vedere Aleksey
furono le mani
davanti alla bocca di Anna e Symion che tentava di spiegare la
situazione. Poi Aleksey
cadde a terra svenuto e in balìa degli eventi.
Invece in un altro
angolo della città,
nei sobborghi di Mosca, in una fabbrica abbandonata, Reila attendeva
legata ad
una sedia il momento della sua vendetta.
Angolo
dell'autrice
Cari lettori e lettrici, sono davvero senza speranze.
Purtroppo ho passato un periodo dove qualsiasi cosa che scrivevo non mi
piaceva e quindi ho deciso di prendermi una pausa dalla scrittura.
Solo che questa pausa è durata più del previsto.
Non ho scusa e spero che ci sia ancora qualcuno che legga questa
storia, anche perché ho promesso che la porterò a
compimento. Mi ci volessero anche dieci anni. (Ma spero di non metterci
tutto questo tempo).
Qui vediamo il padre di Reila in azione. Finalmente direte voi, visto
che di azione se ne è vista veramente poca. Spero che
riuscirete a perdonarmi anche dopo questa lunga assenza. Non posso far
altro che dirvi che nei prossimi giorni aggiornerò con il
capitolo diciottesimo.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi
critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene
così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la
storia.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi
ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
|
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Capitolo 18 *** 18 - Karina ***
02
18 - Karina
Rostov Velikij
George
era
comodamente seduto sul sedile della limousine e osservava Karina con un
misto
di curiosità e timore. L’uomo aveva accavallato
elegantemente le gambe e aveva
poggiato un braccio sulla coscia. Il suo atteggiamento cercava di farlo
apparire per quello che al momento non era: tranquillo.
Karina,
di
tutta risposta, aveva sfoggiato il più ammiccante dei
sorrisi e lo dirigeva sia
verso il marito che verso un punto imprecisato di fronte a lei. Era di
questo
che bisognava aver paura e il marito lo sapeva bene; di quello che
pensava e
delle idee che le arrivavano come lampi a ciel sereno. C’era
da aver paura di
ciò che lei rappresentava e di quello che poteva fare a una
persona soltanto
guardandola negli occhi.
Il
russo
non si sentiva mai al sicuro vicino a lei e cercava in tutti i modi,
ogni
volta, di apparire sicuro di sé e impavido, ma andando
avanti con il tempo
stava diventando sempre più difficile e arduo, soprattutto
da quando stava
cercando di complottare contro di lei. George voleva assolutamente
uscire da
quella situazione e l’unico modo, più consono e
facile, era quello di uccidere
la moglie e farlo sembrare un incidente. Proprio per questo aveva
chiesto
qualche mese prima l’aiuto di Reila per quel lavoro.
Era
da quel
momento al tempio che né la sentiva e né la
vedeva, il problema era che ancora
sentiva il suo profumo sulla pelle. Se con Karina ci fossero state
altre
circostanze e altri modi, forse avrebbe potuto provare davvero qualcosa
per
lei. Ma non così, non obbligandolo a fare ciò che
avrebbe voluto evitare come
la peste. Il matrimonio forzato.
Se
ne rendevano
conto entrambi che così non poteva funzionare, ma almeno ad
uno di loro faceva
comodo quella situazione, solo che questa condizione cambiava sempre e
a volte
di trovavano d’accordo entrambi su questo scambio.
-Avanti
George, non essere preoccupato. Non ti fidi di tua moglie?
George
l’aveva guardata e per un attimo aveva pensato a qualcosa.
“Beh, certo che no.”
Ma non lo aveva espresso né con la bocca e tantomeno con il
viso. Era stato impassibile,
come aveva imparato a essere in quegli ultimi anni.
-Dove
stiamo andando?
La
donna
aveva sorriso senza voltarsi a guardarlo. Che cosa bolliva in pentola?
Sicuramente
qualcosa di troppo grosso da essere soltanto pensato. Non riusciva a
carpire
alcuna informazione dal volto di lei e George aveva subito pensato di
aver
fatto un enorme errore a seguirla. Si sentiva come un topo in trappola,
in
attesa che il gatto lo divorasse. Anche se non si poteva notare, aveva
il
battito accelerato e il suo cuore non voleva in alcun modo accennare a
smettere.
Era
preoccupato?
Forse
sì o
curioso di sapere cosa la moglie nascondesse da essere così
riservata al
riguardo.
La
strada
che l'auto stava percorrendo non gli era familiare. La neve continuava
a
scendere e aveva ricoperto ormai tutte le alte guglie delle chiese, ma
ancora
si temeva il peggio. Sarebbe stato l’inverno più
freddo degli ultimi anni e non
solo per il corpo che ne cominciava a sentire gli effetti, ma anche per
la
testa e per il cuore delle persone che vivevano lì.
Lo
sguardo
di George era annebbiato, così come le luci soffuse che
illuminavano le strade
e la sua mente in un continuo movimento, ma ciò che ci
passava non si poteva
propriamente considerare positivo. Aveva una certa apprensione cui non
riusciva
a dare un nome e si sentiva come in una morsa di ferro che gli stava
stritolando le ossa.
-Non
essere
nervoso.
Karina
aveva allungato una mano sul sedile e aveva stretto quella
dell’uomo, ma non vi
era calore nel gesto. Solo una cruda e triste realtà. Quella
che ancora George
doveva scoprire.
Erano
passate più di due ore e nell’auto vi era
un’aria pesante e irrespirabile. Non
si erano detti poi molto e il silenzio era calato come il sipario nella
fine di
un atto.
Il
luogo
dove erano diretti – ora George poteva vederlo bene
– era una delle vecchie
case in disuso della famiglia di Karina. Lasciata in completo
disfacimento, si
trovava sulle colline intorno a Rostov Velikij, da dove si godeva di
una
magnifica vista sulla città.
Com’era
diversa dalla capitale. Il
Cremlino non somigliava per nulla a quello di Mosca, quella della sua
città
natale dimostrava un fascino quasi irreale, anche se le guglie e i
colori erano
simili a quelle della capitale.
La
neve aveva ricoperto tutto. Aveva
fatto un tappeto morbido su cui posare i piedi e dove nascondere la
polvere
quando non si sa dove buttarla.
George
scese dall’auto, fermatasi nel
cortiletto lasciato a morire della casa e sotto la morsa del gelo. Si
sistemò
il proprio colbacco sulla testa che sollevò poco dopo verso
il tetto della
casa. Fatiscente e tetra, una casa che potrebbe dare
l’impressione di essere
abitata da spiriti tormentati.
L’uomo
si strinse dapprima il cappotto
pesante intorno a corpo e poi, pian piano, si diresse verso la moglie
che lo
attendeva dall’altro lato della macchina per aprirle lo
sportello. La
galanteria stava per scomparire ma in quei pochi attimi, gli uomini
davano
prova di sé, lasciando sognare ogni tanto le donne che
speravano in una
ricaduta del romanticismo. Ma non c’era amore in quei gesti
studiati, né nelle
parole dette e sussurrate o nelle ore trascorse a unirsi tra le
lenzuola di
seta.
No,
quello non era il tempo dei
sentimenti puri. C’erano solo odio e rimorso di una vita che
non si poteva
vivere appieno.
George
aprì lo sportello e Karina uscì,
avvolgendosi nella sua pelliccia che teneva il freddo lontano.
Ciò che temeva
era la reazione del marito a tutto quello che voleva mostrargli. Non
sospettava
minimamente che l’uomo la stava tradendo, tramando contro di
lei. Voleva
renderlo partecipe del suo progetto. Sapeva bene che c’era
una spia, ma il problema
era stato relegato ad Alexander che se ne stava occupando egregiamente.
George
guardò il volto della moglie e vi
posò un leggero bacio sulla guancia. Labbra e viso erano
freddi come gli
sguardi che si erano scambiati fino a quel momento.
Karina
di rimando prese la mano di
George e la strinse nella sua. Cominciò a camminare sul
vialetto disfatto,
mentre l’autista sistemava l’auto in una zona
più riparata. La neve continuava
a scendere e le loro scarpe lasciavano impronte che da lì a
poco sarebbero
state cancellate. I fiocchi di neve si attaccavano alle loro ciglia,
rendendo
la visuale più difficoltosa.
La
donna non riusciva bene a descrivere
ciò che pensava in quel momento. Era in completo contrasto
con se stessa. Era
giusto o sbagliato far conoscere il lavoro di una vita
all’unico uomo che amava
e che sperava in tutto il suo piccolo cuore di essere ricambiata?
Soprattutto
fargli conoscere un lavoro
ancora incompleto, un progetto che avrebbe potuto cambiare le sorti
della
Russia stessa.
La
donna temeva troppe cose e non era
mai sicura di riuscire quando si parlava di George. Non riusciva bene a
ragionare quale fosse la cosa più giusta da fare.
-Ora
vedrai qualcosa alla quale non
potrai credere.
La
voce di Karina era concitata. Felice
si poteva dire.
Si
infilò infatti in una delle gallerie
che portavano dietro la casa, ma a metà di questa
bussò ad una porta e lì entrarono.
Il cuore della donna era affannato senza fare alcuno sforzo. Emozione
si
potrebbe chiamare. Tutto ciò che non riusciva mai a mostrare
né con le parole e
né con i gesti erano proprio le cose che stava provando al
momento e ne era
impaurita. Voleva sembrare forte, ma la verità era che aveva
paura di se stessa
e dunque appariva severa e brutale.
-Perché
tutto questo riserbo?
-Perché
è una cosa così eccezionale che
non tutti potrebbero comprendere.
Era
stata una risposta rapida e detta
sottovoce.
Avevano
cominciato a scendere delle
scalette di metallo, almeno a quanto si sentiva dal rumore che
provocavano i
tacchi della donna. Era buio pesto e non si vedeva al di là
del proprio naso.
Karina
sentiva il respiro di George ed ebbe
un battito mancato al cuore. Lo sentiva leggermente affannato e non ne
comprendeva il motivo. Se solo avesse saputo ciò che George
voleva farle,
avrebbe ripensato a tutto ciò che gli aveva dato e che
provava. Ma chissà se
sarebbe riuscita a dimenticare l’amore profondo che provava
per lui.
Se
non fosse stato per delle luci di
emergenza lungo il percorso, avrebbero potuto inciampare e cadere ma
Karina
ormai sapeva il percorso a memoria. Anche se distratta dai pensieri, il
percorso avrebbe potuto farlo anche bendata e a ritroso.
Appena
raggiunta una certa profondità,
sotto le salde e antiche fondamenta della casa, si aprì una
porta blindata e la
luce all’interno quasi li accecò. Dovettero
entrambi socchiudere gli occhi e
attendere alcuni istanti che gli occhi riprendessero la loro naturale
funzione.
Appena
George aprì gli occhi, spaziò con
lo sguardo. Lo spostò verso Karina che aveva un sorriso
raggiante, come una
bimba con il nuovo giocattolo che desiderava da una vita.
Davanti
a lui si aprì un mondo
sconosciuto, fatto di alambicchi e provette. Strinse due volte gli
occhi per
riprendere l’abitudine alla luce e se li strofinò
leggermente. Tolse i guanti
foderati in pelliccia pian piano, cercando di rendersi conto di dove si
trovava.
L’ambiente
era riscaldato e non c’era
neanche bisogno dei cappotti e delle pellicce. Aveva sollevato il capo
osservando
l’intricato condotto di areazione che purificava
l’aria all’interno del sotterraneo.
Che peccato che fosse così bianco e asettico. Metallo
dappertutto che lasciava
uno strano brivido lungo la schiena. Decine di persone si affannavano
avanti indietro con
cartelline in mano e
camici bianchi, come i dottori degli ospedali.
Non
sentiva alcun odore e tutto era così
candido da farsi sorprendere per qualche istante. Non sentiva neanche
le voci
concitate che si avvicinavano a Karina e non sentiva
null’altro che un leggero
fischio dentro le orecchie.
-Ci
siamo quasi.
Karina
si era voltata verso uno degli
scienziati che aveva parlato. Aveva afferrato quell’unica
frase che spiegava
tutta la sua titubanza. Un largo sorriso le si disegnò sul
volto. Dopotutto
sentiva una gran gioia dentro se stessa da non poterla contenere.
-Voglio
sapere tutti i risvolti. Fino a
qualche giorno fa non sapevate neanche da dove cominciare.
Lo
scienziato, un po’ canuto, aveva
abbassato lo sguardo per qualche istante sulla cartellina dove molto
probabilmente aveva inserito tutti i dati raccolti.
-Non
pensavamo che mischiando alcuni
elementi, provati già in precedenza, avrebbero dato il
risultato sperato.
L’invisibilità del prodotto
c’è, la letalità pure. Abbiamo creato
l’arma
perfetta.
Alla
donna non poterono non allargarsi
gli occhi alla notizia e tutto ciò cui aveva creduto si
stata pian piano
trasformando in realtà. D’altro canto George,
proprio accanto a lei, iniziava a
prendere un po’ coscienza di ciò che stava
succedendo. Un arma chimica capace
di uccidere milioni di persone. Il problema non era quello, visto che
nel mondo
ce ne erano di peggiori, il problema era che avveniva tutto sotto i
suoi occhi
e non era minimamente a conoscenza di questo passatempo della moglie.
Se così
gli era lecito chiamarlo.
-Vieni.
Ti faccio vedere una cosa.
Lo
stava tirando da una manica e non se
ne era proprio accorto. Lo sguardo vagava in quel luogo privo di vita e
bianco
quasi da accecarlo.
-Cosa
stai facendo, Karina?
Sembrava
una predica di un padre quelle
parole che erano fuoriuscite dalla bocca di George e che alla donna
erano sembrate
come tali, ma cercò di evitare commenti acidi o qualsiasi
spiegazione
sarcastica.
-Possibile
che tu non te ne accorga? Qui
stiamo creando il futuro di un paese libero e indipendente.
-Stiamo
parlando della nostra Patria? La
Santa Madre Russia? Voglio ricordarti che non vi è mai stato
uno stato
indipendente e libero qui, ma solo una dittatura spietata. Credi che
con questa
rivoluzione che tu vuoi fare, risolveresti i problemi della nostra
gente?
George
aveva mantenuto un tono
abbastanza basso, perché erano solo loro due a discutere
senza inserire i vari
scagnozzi e gli scienziati al lavoro. Ci fu un attimo si silenzio e poi
George
continuò.
-Con
chi ce l’hai, Karina? Con
l’America? Con il Giappone? Contro quale grande potenza tu
vorresti intentare
una guerra batteriologica?
La
donna era rimasta per qualche momento
interdetta, senza sapere che cosa rispondere. L’aveva taciuto
a tutti, perfino
a lui e quando aveva deciso di rivelarglielo, lui che cosa sapeva ben
fare?
Criticarla?
-Tu
non sai quello che stai
farneticando. Qualcuno deve pur liberare questa terra dal dominio del
mondo.
Siamo soggetti agli altri e questo non dovremmo permetterlo.
La
russa aveva stretto le mani e i denti
avevano cozzato tra loro in un moto stizzito. Possibile che non
riuscisse a
capire il suo progetto? Possibile che non riuscisse a comprendere
ciò che lei
voleva dare alla sua Russia?
Difendere
quello che di buono era
rimasto.
-Guarda.
Non riesci proprio a vedere?
Karina
aveva mosso qualche passo verso
lo scienziato che le aveva chiesto di seguirlo. Voleva davvero far
comprendere
al proprio marito ciò che di buono c’era nel suo
progetto. Semplicemente voleva
la sua approvazione e mentre l’uomo anziano spiegava tutti
gli esperimenti che
erano stati condotti all’interno del laboratorio, la donna
cercava di far
capire a George ciò che voleva che succedesse.
-No,
George. Non voglio attaccare
nessuno di questi paesi. Comprendi che con l’America non
abbiamo motivo. È da
dopo il secondo conflitto mondiale che abbiamo intentato una guerra
fredda
contro di loro e non è ancora finita, pensi che voglia
scatenare un vero e
proprio collasso del pianeta? Non ho niente da ridire su alcun paese,
io voglio
dare un esempio al nostro.
George
trattenne il fiato per qualche
istante.
-Tu
sei impazzita. Vuoi uccidere milioni
di innocenti per il solo gusto di fare cosa?
-Voglio
che la Russia si risollevi,
George. Voglio che veda una nuova alba. Voglio che ritorni a essere la
grande
potenza che era un tempo e il nostro governo ha bisogno di essere
spronato.
L’uomo
non credeva alle sue orecchie.
Mai avrebbe pensato che sua moglie volesse tentare una guerra contro i
sui
stessi simili. Ma ciò che lo rese alquanto destabilizzato fu
il vedere la
simulazione di ciò che quel gas poteva fare.
-Cerca
di ripensarci, Karina. Non
commettere errori che potrebbero costare più della tua
stessa vita.
La
donna era completamente sorda alle
parole di George. Era amareggiata poiché lui non riusciva
proprio a capire la
sua veduta. Era sempre stato vero, lui non aveva mai avuto la mente
aperta e
non vedeva il mondo sotto la luce che lo vedeva lei. Stava cominciando
a
pensare che fosse proprio lui la spia verso la quale Alexander
l’aveva messa in
guardia.
Era
un progetto che non poteva più
aspettare, poiché i servizi segreti americani stavano
cominciando a ficcare il
naso un po’ troppo in quella faccenda e se avessero scoperto
ancora qualcosa,
il declino della sua famiglia e la sua morte non l’avrebbe
evitata nessuno.
Karina
sapeva che era rischioso, ma
voleva tentare lo stesso. Non lo faceva per lei, ma per il suo stesso
paese.
Karina
guardava le cartelle che le
venivano mostrate e annuiva decisa sul da farsi.
-Secondo
te a chi attribuirebbero
l’attacco?
George
cominciava a essere un po’ nervoso
e al suo posto chiunque lo avrebbe fatto, ma la moglie non lo
ascoltava.
Rimaneva completamente sorda.
-L’unica
pecca di questo gas è che a
contatto con l’aria si dissolve e diventa innocuo. Dobbiamo
metterlo nelle
fonti idriche della città.
Colui
che aveva parlato era lo
scienziato a capo di tutto il progetto. A quanto aveva sentito George
era uno
dei migliori in questo campo, ma pazzo quanto Karina, per questo aveva
perso
completamente la cattedra all’università. Proprio
non riusciva a ricordare come
si chiamasse.
Vedendo
che la donna non gli rispondeva,
George le si avvicinò.
-Non
sarò mai con te in questo progetto.
Sei una pazza.
Karina
allargò gli occhi per lo stupore.
Non se lo sarebbe mai aspettato dalla persona che amava più
di se stessa. Non avrebbe
mai pensato che il suo progetto sarebbe stato così denigrato
dall’unica persona
che voleva vicino in quel momento. Assottigliò leggermente
gli occhi,
trattenendo a stento una lacrima che stava per uscire e
chiamò le guardie.
-Chiudetelo
nel mio ufficio.
La
voce risultò ferma e sprezzante.
-Pensavo
fossi stato con me.
E
mentre la donna parlava, quattro
uomini alti e piazzati presero George dalle braccia mentre
l’uomo si dimenava e
cercava di liberarsi come poteva. Lo vedeva sporgersi verso di lei in
un
inutile tentativo di strozzarla, ma lei vide solo il suo amore e la sua
lealtà
verso di lui venire meno, come le stavano venendo meno le forze.
Cercò di
lottare contro il suo stesso cuore e fu in quel momento che, conscia
del
ghiaccio nel petto, di barricarsi ancor più dentro la sua
pazzia e decise di
non cedere. Rimase lì ferma mentre il marito veniva
trascinato verso l’ufficio
e che le gridava di ripensarci, di rinsavire.
-Non
sono mai stata più convinta in vita
mia. Ti farò vedere che questo mio progetto sarà
proficuo per la nostra
nazione.
E
dopo il trambusto e le urla che ancora
si sentivano di George, Alexander stesso fece il suo ingresso
all’interno della
sala, dove tutto era ritornato alla normalità. Era poco
più basso di Karina, ma
dovette comunque sollevare di poco quello sguardo color nocciola verso
il viso della
russa.
-Abbiamo
trovato la spia. Ha parlato.
Gli
occhi della donna ebbero un guizzo e
finì con il portare la completa attenzione verso
l’americano, ormai adottato dalla
Russia. Non si soffermò sul suo collo taurino o sulla sua
stempiatura, ma sulle
sue labbra.
-Ha
parlato e ha indicato tuo marito come
il mandante.
Tutti
i castelli della russa crollarono e
il cuore perse un battito. Quell’ultimo battito che ancora
c’era per il marito.
-Ottimo
lavoro, Alexander.
E lo
congedò velocemente. Di George se ne
sarebbe occupata lei stessa.
Angolo
dell'autrice
Ed eccomi di ritorno con questa storia. Purtroppo non
sono una persona costante e a volte mi perdo in picole cose che
purtroppo non riesco a risolvere in tempi brevi e tutto qesto mi toglie
il tempo per scrivere e coltivare le mie passioni. Con questo non
voglio assolutamente giustificarmi e anzi comprendo se molti di voi si
sono stancati di seguirmi e di leggere questa storia. Credetemi su una
cosa, però, la porterò alla fine
poichè ho ancora tantissimi progetti da portare avanti e
tante storie incomplete da rivedere e continuare. Non vi prometto
niente da qui a questa parte, ma spero che, anche se sono una persona
molto incostante, riusciate a seguirmi lo stesso, sperndo che non
passerà così tanto dal prossimo capitolo come
è successo con questo.
Dunque a presto (speriamo) con il prossimo capitolo.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi
critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene
così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la
storia.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi
ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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Capitolo 19 *** 19 - Prigioniera ***
02
19 - Prigioniera
Mosca
Era
legata,
imbavagliata e la situazione, che si stava ripetendo ormai troppe
volte, stava
risultando esasperante per l’assassina. Si era svegliata, ma
il dolore alla
testa non era cessato neanche dopo aver sicuramente dormito
un’eternità o
almeno così le era sembrato. Aveva le mani legate dietro la
schiena e le spalle
erano dolenti, riusciva a malapena a muoverle e i muscoli intorpiditi
le
lanciavano una scarica di formicolio che si irradiava per tutto il
braccio. Non
sapeva da quanto tempo era seduta e in quella posizione, ma sentiva
freddo e
aveva le mani gelide.
Dalle
finestre rotte poteva ben vedere che era giorno, ma ancora la vista
doveva
mettere a fuoco ciò che la circondava. Le sembrava che le
fosse passato sopra
un rullo compressore.
Era
sola al
momento e scosse la testa per riprendere un po’ le
facoltà perse. Sicuramente
era stata drogata, perché non le sembrava affatto di essere
intorpidita e
stordita solo dal freddo.
Almeno
Kajiro aveva avuto la buona coscienza di lasciarle una stufa con cui
scaldarsi,
anche se le stava arrostendo le gambe.
La
donna
sfiorò anche le proprie labbra con la lingua,
sentì un profondo taglio e il
sapore ferroso del sangue. L’unico pensiero che al momento la
teneva cosciente
era che gli avrebbe fatto pagare un caro prezzo per quel pugno, infatti
senza
accorgersene aveva digrignato i denti.
Non
riusciva a capire bene dove si trovasse, ma riusciva bene a capire, dai
rumori
che provenivano dall’esterno, che doveva essere non lontana
dal posto in cui
l’aveva tramortita.
Un
rumore
improvviso di passi la fece trasalire dai suoi pensieri e voltare lo
sguardo
verso l’uomo che era appena entrato. Rinchiuso nel suo
cappotto foderato in
pelliccia, Kajiro le si avvicinò lentamente senza degnarla
di uno sguardo, ma
cercando di spostare la sua attenzione altrove. L’uomo
sperava che fosse lei ad
iniziare il discorso e un profondo silenzio ovattato
dall’esterno, si era
creato tra loro.
Gli
occhi
dell’uomo ricercarono infine quelli di lei. Non riusciva
assolutamente a non
guardarla e non sapeva come si riuscisse a restare impassibili davanti
a Reila.
Le di avvicinò, senza distogliere lo sguardo da lei.
-Non
capisco come facciate a resistere a questo freddo.
Era
così,
per rompere il giaccio che aveva pronunciato la frase. Kajiro voleva
sembrare
impassibile davanti a lei, come se non gli importasse nulla; come se
non gli
provocasse nulla sul basso ventre.
L’uomo
la
guardava con quella malizia che non si preoccupava di nascondere e
Reila sapeva
bene o sperava di sapere ciò che passasse nella testa
dell’assassino. L’uomo
aveva lo sguardo da fiera e ciò che la spaventava a volte
era il non sapere
cosa le sarebbe successo.
Reila
infine pensò che, dopotutto, morire non sarebbe stato una
brutta cosa, avrebbe
solo smesso di soffrire e di patire quella vita che stava diventando
troppo
stretta per lei. Aveva preso un respiro talmente lungo, da riempire i
polmoni
fino all’orlo.
Ma
era da
lei abbattersi a quel modo?
Arrendersi
così, senza mostrare difesa ma soltanto mettere il collo in
mostra in attesa di
una lama? Sentiva freddo, ma non solo nel corpo, ma direttamente nel
cuore e
nella mente. Sentiva che tutto cominciava a girare anche senza di lei e
che il
mondo sarebbe stato un mondo migliore. Guardava il suo migliore esempio
di buon
cuore davanti a lei, trasformatosi in ciò che la donna
avrebbe voluto evitare.
-Dovresti
esserci abituato.
Aveva
risposto secca, senza alcuna inflessione. Era stanca e il pensiero di
dover
macinare qualcosa nella mente per rispondere a tono la rendeva ancora
più
spossata. Legata com’era non riusciva neanche a muovere le
mani dal freddo e il
suo corpo era intirizzito talmente tanto da rispondere in ritardo agli
stimoli.
Kajiro
era
invece avvolto in un cappotto foderato di pelliccia e sembrava non
patire quel
freddo di cui tanto si lamentava. I tratti non si erano ammorbiditi
dall’ultima
volta che l’aveva visto, ma anzi erano diventati
più taglienti e scuri.
-Devi
darmi
un sacco di spiegazioni, quindi dovrai stare qui con me per molto tempo.
Reila
aveva
sollevato il capo, gli occhi semichiusi e la bocca sistemata ad
esprimere la
sua indignazione. Non riusciva neanche a fingere di provare compassione
per
lui.
-Per
che
cosa? Per il freddo che senti? Non c’è rimedio per
quello.
La
voce
della donna era un semplice rantolo. Si sentiva come svenire di nuovo.
Sicuramente le aveva dato qualcosa, una droga per sentirsi a quel modo.
-Ah,
quasi
dimenticavo. Ti ho iniettato del siero della verità, ma vedo
che ancora non fa
effetto.
Reila
mostrò
le labbra in un sorriso sbilenco.
-Sono
stata
addestrata per questo.
Detto
questo le si annebbiò completamente la vista, scosse il capo
ma le immagini
cominciarono a farsi più confuse e meno nitide.
-C’era
anche un po’ di sonnifero. Tanto per abbassare le tue difese.
L’ultima
cosa che vide sulle labbra dell’uomo era un sorriso di
vittoria.
Kajiro
la
stava guardando. Ciò che poteva solo pensare era la totale
bellezza che
avvolgeva quella donna e lo pensava fin dal primo momento in cui
l’aveva
incontrata. L’aveva spostata in una sala più
riscaldata ricavata in una stanza
di quella fabbrica abbandonata. Era della famiglia di Karina, quindi
nessuno li
avrebbe disturbati.
In
quel
piccolo spazio non si era fatto mancare nulla, tanto da renderlo
insonorizzato
e difficile da individuare. Se avesse tenuto Reila
all’esterno sarebbe
sicuramente morta di freddo e questo non poteva permetterselo. Doveva
sapere
alcune cose di lei. Tutto quello che gli interessava.
Sempre
seduta su quella sedia, ancora non si era ripresa dalla dose di
sonnifero che
le aveva dato. Forse aveva un po’ esagerato, ma non poteva
farsela scappare,
quella donna era bella quanto letale.
Ogni
volta
che la incontrava scatenava in lui un senso di possessione che non era
normale
neanche per lui stesso. Era abituato alle donne che lo cercavano senza
neanche
chiamarle, ma lei era diversa. Lei era colei che seguiva da quando
l’aveva
liberato, da quando aveva fatto di lui quello che era. Un uomo completo
e
sicuro di sé.
L’uomo
non
sapeva perché aveva scelto quella vita, non dopo quello che
gli era successo.
Forse per rendere fiera quella donna che l’aveva salvato da
morte certa.
Il
problema
era che Reila non era mai stata una salvatrice o una donna con un
briciolo di
sentimento, semplicemente non gli aveva sparato perché non
era il suo
obiettivo, per questo l’aveva lasciato vivere.
Solo
che
non si sapeva spiegare per quale motivo la donna, per averlo salvato,
aveva
rischiato la sua stessa vita. Era stato un testimone scomodo, ma
nessuno lo
sapeva per fortuna.
Kajiro,
rimuginando sul suo passato, aveva preso inconsapevolmente una
sigaretta e si
era accomodato su una delle due poltrone scure che vi erano in quella
stanza.
Aveva tutte le comodità che poteva desiderare in un luogo
così angusto, ma era
solo per alcuni periodi che passava a Mosca, brevi e intensi.
Guardò
quella sigaretta tra le mani ma non l’accese. Non era sicuro
neanche di voler
fumare, però lo rilassava solo a sentirne l’odore
e il sapore. Si era
accomodato, stretto in quell’abito di fine fattura, dal
taglio classico. Un
gessato blu con tanto di gilet a tinta unita. Aveva tolto la giacca e
l’aveva
riposta da qualche parte, non ricordava neanche dove. In quel luogo
faceva
abbastanza caldo da sollevare anche le maniche della camicia fino al
gomito.
Attendeva
che l’assassina si svegliasse. L’attesa stava
diventando alquanto monotona e
noiosa e lui era ansioso di cominciare.
Un
movimento della testa di Reila e un leggero mugolio lo fece sussultare.
La
donna aveva scosso leggermente il capo e aveva preso un profondo
respiro.
Teneva la testa china e i capelli le erano scivolati in avanti
coprendole il
viso. Reila sollevò il capo leggermente in modo da mettere a
fuoco che si
trovava in un altro luogo. Non sapeva ne il dove e ne il quando e per
la prima
volta si ritrovò completamente spaesata.
Gli
occhi
scuri dell’assassina avevano messo a fuoco, pian piano, la
figura di Kajiro e
gli aveva rivolto solo un ghigno di sofferenza. Era la posizione che
cominciava
a diventarle troppo scomoda, avrebbe preferito dormire distesa su un
comodo
letto e non nella posizione che era costretta da troppo tempo.
-Ben
svegliata.
Era
la voce
di Kajiro che le era arrivata un po’ ovattata. La teneva
sedata tanto da non
avere neanche più le forze di sollevare il capo. Si sentiva
incapace di provare
a fare qualsiasi cosa per liberarsi. Era troppo imbottita da non
riuscire
neanche a collegarsi con la realtà circostante,
però almeno non sentiva più
freddo. Che stesse morendo?
-Ti
senti
pronta per le mie domande?
Reila
annuì
soltanto.
-Tu
parla e
io ti libero. Perché sei tornata a Mosca, Reila?
La
voce era
accattivante e volutamente bassa. Teneva un tono mellifluo che avrebbe
fatto
girare la testa a parecchie donne, ma con l’assassina non
attaccava. Lei era
abituata a sedurre non ad essere sedotta. Attese ancora per qualche
istante.
-Avanti,
perché sei tornata a Mosca? Era da tempo che non si sentiva
più parlare di te.
-Sono
stata
occupata a riordinare la mia vita.
La
voce
bassa e sofferente.
-C’è
qualcos’altro che ti ha spinta a tornare. Chi ti ha
ingaggiata?
La
donna
cercava di resistere al siero che le aveva iniettato, ma debole
com’era le
difese mentali stavano crollando come un castello di carta dopo una
folata di vento.
-Ero
a
Kyoto…
Una
risposta sconnessa.
-…
ho
incontrato qualcuno. Qualcuno a cui non devo nulla.
Aveva
preso
un respiro profondo e poi un mugolio per il dolore che iniziava a farsi
largo
nel petto, non sapeva se per le corde o se per quello che aveva da
dire. Cosa
le faceva più male?
-Chi
è questo
qualcuno? Ti ha ingaggiata?
La
voce
iniziava ad essere incalzante, ma non concitata. Manteneva sempre
quell’autocontrollo tipico di chi interroga per lavoro.
Reila
era
distante dalla realtà e dallo spazio. Non sentiva neanche le
domande e
rispondeva d’istinto, lasciando che le parole fluissero fuori
dalla bocca a
volte sconnesse a volte con un senso.
-No.
Mi ha
chiesto un favore.
-E
chi è?
-Io
non
prendo più ingaggi. Io voglio decidere di testa mia.
Kajiro
rimaneva impassibile, ma cominciava a vedere un segno di cedimento del
corpo.
Anche se la donna era stata temprata, tutto quello che le era successo
fino ad
allora l’aveva fiaccata nello spirito.
Era
stato
l’incontro con Dmìtrij che l’aveva
indebolita e le aveva fatto abbassare le
difese.
L’assassino
le si era avvicinato e le aveva messo una mano sulla fronte. Era
bollente e
Reila iniziava a delirare e a sconnettersi completamente dal mondo. In
quelle
condizioni la donna non avrebbe potuto dire nulla di concreto e quello
non
poteva permetterselo.
Reila
era
svenuta nuovamente ed aveva chiuso gli occhi, abbandonandosi
completamente alla
sedia e alle corde che la tenevano ferma.
Kajiro
la
slegò cercando di fare attenzione a non farla cadere. Non
voleva ucciderla, non
ancora.
La
prese in
braccio, assicurandosi però di bloccarle le mani sul
davanti, e la portò sul
letto della stanza e la distese. Era febbricitante e respirava
affannosamente.
Aveva il volto rosso come le labbra, peccato per quel taglio che le
aveva
provocato, ma era stato necessario.
La
coprì fino
al collo e iniziò a somministrarle qualcosa contro la
febbre. Non l’aveva
previsto, non avrebbe mai pensato che una donna forte come lei avesse
avuto
bisogno di essere curata.
Kajiro
tolse le scarpe e le si accoccolò accanto, stringendole la
vita come si fa con
un’amante sotto le coperte. Avvicinò il viso ai
capelli di lei, lasciandosi
inebriare dal profumo che emanavano. Reila aveva cominciato a tremare
dal
freddo e lui la strinse ancora di più per scaldarla con il
proprio corpo. Ne
sentiva la debolezza del corpo di una donna, ma la grande forza mentale
che
dopo tutto questo tempo l’aveva fatta diventare quella cinica
e stupenda
creatura che stringeva tra le braccia.
Angolo
dell'autrice
Cari
lettori e lettrici, devo dire che sono imperdonabile. Questa storia sta
viaggiando molto a rilento e purtroppo la causa é la mia
poca ispirazione in questi mesi. Non voglio scrivere tanto per portarla
avanti, anche se non mancano moltissimi capitoli, ma voglio scriverli
come si deve. Questo capitolo era fermo sul computer da non so quanto
tempo e questo me ne dispiace ma non c'era la voglia di volerlo
correggere, rivedere o semplicemente anche solo pubblicarlo. Ma c'era
qualche errorino qua e là e l'ho corretto. Molto
probabilmente non li ho visti tutti e quindi vi chiedo di segnalarmeli.
Come già detto questa storia vedrà la fine di
tutto e quindi state sicuri che la continuerò.
Naturalmente se avete domande chiedete pure. Sono aperta a qualsiasi
critica vogliate farmi. Fatemi sapere se i capitoli vanno bene
così o volete che cambi qualcosa per leggere meglio la
storia.
Rinnovo
sempre il mio invito a farmi sapere come vi sembra, non credo vi porti
via molto tempo una recensione, facendomi sapere cosa ne pensate di
questa storia.
Vi inviterei infine a leggere "Dopo
la pioggia" per
poter capire un po' meglio l'intera vicenda. Infine vi
ringrazio per
chi l'ha messa tra le preferite/seguite/ricordate e ringrazio coloro
che hanno recensito, facendomi sapere il loro parere.
Infine vi
indirizzo verso la mia pagina che terrò sempre aggiornata
con curiosità, spoiler e quant'altro.
Lotiel
Scrittrice - Come pioggia sulla neve
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