Into the Fire di elsie (/viewuser.php?uid=13925)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
prova1
Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Questa fanfiction si basa vagamente sul film X-Men 2, ma ho cambiato
qualcosa qui e là dove mi faceva più comodo. La storia si
incentra su John Allerdyce (a.k.a Pyro) e sulla sua relazione con un
personaggio originale, Meredith St.Clair. Spero che possiate
apprezzarla.
Ho scelto il rating arancione perché ci sono parecchie parolacce
(probabilmente giallo sarebbe bastato, ma meglio non rischiare). Niente
di straordinariamente volgare, ma tanto perché lo sappiate e vi
possiate regolare di conseguenza.
Buona lettura e buon divertimento!
.....................................................................................................................
Meredith St.Clair tirò un’altra boccata di fumo
dalla sigaretta che aveva appena acceso, appoggiandosi più
comodamente al muro della villa.
Sapeva che se qualche professore l’avesse beccata a fumare,
sarebbe stata nei guai. La tirata che le aveva propinato la dottoressa
Grey l’ultima volta le era perfettamente chiara. Niente
sigarette. Le regole della scuola prevedono... eccetera eccetera.
Ma quel posto era tranquillo e sicuro. Nessuno veniva mai nella zona
delle cucine una volta che l’orario della cena era passato. Era
la vecchia ala sul retro della casa, deserta di notte, e ben lontana
dai dormitori. Un pergolato di edera canadese proteggeva il suo
cantuccio dagli sguardi indiscreti e dal vento. Un posto perfetto.
Meredith si portò di nuovo la sigaretta alla bocca, lentamente,
gli occhi fissi sui cespugli di rose bianche di fronte a sé.
Chissà chi li cura, si chiese. Abbassò lo sguardo e
buttò la cenere per terra. Un leggero alito di vento fece
rotolare il cilindretto che si era staccato dalla sua sigaretta verso
il centro del minuscolo cortile. Avrebbe dovuto ricordarsi di spazzare
la cenere nel tombino prima di andare via. Sarebbe stato davvero
stupido farsi scoprire per un dettaglio del genere, anche se dubitava
che qualcuno della scuola frequentasse le cucine, men che meno il
cortiletto dietro le cucine. Di nuovo tornò a guardare le rose.
Le piante erano ben curate, prive di insetti, i rami accuratamente
potati. Evidentemente qualcuno se ne occupava. Escluse i suoi compagni.
Molti di loro erano abbastanza snob da pensare che il cibo apparisse
magicamente, già cucinato e tutto, sui vassoi in sala mensa.
Ridacchiò beffardamente e il fumo le andò di traverso,
facendola tossire. Fu molto felice che non ci fosse nessuno lì
con lei.
Si asciugò gli occhi con un movimento rabbioso, vergognandosi
della sua stupidità. Tirò su col naso e sebbene la gola
le pizzicasse ancora aspirò dalla sigaretta, buttando indietro i
capelli castani con un movimento noncurante. Lottò contro
l’urgenza di tossire e mandò il fumo giù nei
polmoni. Dopo qualche secondo, lo fece risalire lungo la trachea, e lo
espellè con un lungo soffio dalla bocca. Si sentì meglio,
come se questa manovra da fumatrice esperta cancellasse o almeno
andasse a pareggiare la sua goffaggine di poco prima. Aspirò di
nuovo.
Per qualche motivo, escludeva anche che ad occuparsi delle rose fosse
un professore, o il giardiniere. A chi importava del cortiletto dietro
le cucine? Forse era una delle ragazze che cucinavano per la mensa
della scuola. Cioè, lei non le aveva mai viste, a dire la
verità non sapeva chi lavorasse in cucina, ma ci sono in tutti i
posti, no? La bassa manovalanza che cucina e fa le pulizie, gli
invisibili che per dieci dollari l’ora sgobbano per i ricchi.
Immaginò una bella ragazza latina con la carnagione scura e i
capelli neri di nome Maria, o Rosa. Era arrivata da poco dal Messico su
un camioncino colorato carico di immigrati. Aveva trovato lavoro qui
nella scuola dopo averle provate un po’ tutte: contadina in un
frutteto, raccoglitrice di cotone in Mississipi, donna delle pulizie in
un centro commerciale. Aveva freddo qui negli Stati Uniti, e le mancava
il suo paese. Curava le rose sul retro della cucina perché i
fiori le piacevano, le mettevano allegria, e le rose le ricordavano
quelle che crescevano nel giardino di sua nonna, là a casa
sua... Improvvisamente si sentì molto stupida.
Aveva sempre pensieri del genere. Immaginava cose, si raccontava
storie... Doveva finirla sul serio. Era il giardiniere, a curare le
rose, chi altro? Perché una delle ragazze della cucina, ammesso
che esistesse, avrebbe perso tempo in un giardino che non era il suo,
dopo l’orario di lavoro, invece di andare a casa, o da qualche
parte a rilassarsi e a divertirsi? Quale ingenuo idiota avrebbe
immaginato una storia del genere, per giunta zeppa dei peggiori
clichè, invece di considerare l’ipotesi più logica
e probabile?
Scosse la testa, furiosa con se stessa, e un leggero soffio di vento la
fece rabbrividire. Era la fine di settembre e sebbene le giornate
fossero ancora tutto sommato piacevoli, le notti erano già
piuttosto fredde. Si strinse nel cappotto e si portò la
sigaretta alle labbra.
“E tu che cazzo ci fai qua?”
Meredith sentì lo stomaco annodarsi e un rivolo di sudore freddo
correrle giù per la schiena. Il suo primo pensiero fu che
dopotutto non ci avrebbe messo molto a fare le valigie.
Ma mentre abbassava la sigaretta e si voltava verso la voce le venne in
mente che un professore non si sarebbe mai espresso così.
Sulla porta stava uno dei suoi compagni. Si stringeva in un giubbetto
di pelle e la guardava torvo con un pacchetto di sigarette in mano.
Avevano qualche lezione insieme. Jeans sdruciti, capelli sparati in
aria e un accendino sempre in mano. Si chiamava John qualcosa, le
pareva. Non lo conosceva bene, ma d’altra parte lei non aveva
fatto amicizia praticamente con nessuno.
“Prego?” Meredith domandò con un’espressione incredula.
“Ti ho chiesto cosa ci fai qua.” Sfilò una sigaretta
dal pacchetto. “Questo è il mio posto.”
“Il tuo posto? No, non credo proprio.”
“L’ho scoperto io, perciò è il mio posto. Non
mi piace la compagnia mentre fumo.” Si piazzò di fronte a
lei, ostruendole la vista delle rose.
Meredith rise sarcastica. “A chi lo dici.” Alzò la
sigaretta ormai quasi finita. “Sono arrivata prima io,
perciò vattene.”
Lui alzò le spalle. “Vattene tu.”
Meredith non disse nulla. La conversazione stava prendendo una piega da
asilo, e la cosa non le piaceva. Lui sembrò prendere il suo
silenzio come una sorta di capitolazione, e con un’espressione
soddisfatta tirò fuori uno Zippo dalla tasca dei pantaloni.
Avrebbe potuto facilmente accendersi la sigaretta che teneva fra le
labbra, invece usò l’accendino per produrre una piccola
fiamma nel cavo della sua mano. Alzò la mano a coppa verso il
viso e si accese la sigaretta.
“Affascinante.” disse Meredith, caricando la voce con tutto il sarcasmo di cui era capace.
Lui non disse nulla. La fissò insistentemente, e Meredith stava
per chiedergli cosa diavolo avesse da guardare quando lui parlò.
“Che sai fare?” le chiese con la sigaretta tra i denti.
Meredith considerò la domanda per qualche secondo. “So
preparare un’ottima crostata di mirtilli.” ghignò
“Ecco cosa so fare. Che diavolo significa cosa sai fare?”
Aveva alzato leggermente la voce e questo non le piaceva. Non voleva fargli credere che stesse perdendo la pazienza.
Lui sbuffò via il fumo, chiaramente infastidito. “Lo sai
benissimo cosa intendo! I tuoi poteri, genio, e non gridare! Vuoi farci
sentire?”
Il fatto che lui le dicesse di abbassare la voce, anche se ovviamente aveva ragione, la irritò ancora di più.
“Certo che so cosa intendi. Quello che non so è perché questi dovrebbero essere fatti tuoi.”
Invece di reagire come Meredith si aspettava, lui sorrise soddisfatto,
come se avesse appena segnato un punto a suo favore. Diede un calcio ad
un legnetto mentre aspirava dalla sua sigaretta.
“Perché che io mi ricordi non ti ho mai visto usare i tuoi
poteri, zucchero. Comincio a chiedermi se tu sia davvero una di
noi.”
Meredith sentì la rabbia montare. Mentiva di proposito, per
mandarla fuori dalla grazia di dio, così lei se ne sarebbe
andata.
Certo che l’aveva vista. Usava i suoi poteri in continuazione, in
classe. Dalla prima elementare in avanti, non era mai successo che
attraversasse l’aula per prendere un libro invece di muoverlo col
pensiero.
“E tu chi saresti, l’ispettore alle mutazioni?” gli sibilò.
“E tu chi saresti, la più acida dell’universo?” rispose lui.
“Fottiti.”
“Fottiti tu.”
Ed ecco di nuovo la spiacevole sensazione di avere ancora quattro anni.
Sentendosi profondamente a disagio, Meredith guardò la sigaretta
ormai spenta che rigirava tra le dita. Rispondendo ad un impulso
meccanico più che a una vera e propria decisione, diede un
colpetto alla cenere, che si staccò e planò lentamente
sul cemento.
Lui alzò gli occhi al cielo. “No, non lì! Nel
tombino, dannazione! Vuoi veramente mandarlo a puttane questo
posto!”
Meredith lo fissò per qualche istante, carica d’odio,
indecisa se farlo volare o meno con le chiappe sulle rose con una
spinta della sua energia psichica. Le sarebbe spiaciuto molto
distruggere le rose, perciò decise di lasciar perdere.
Propositi omicidi a parte, aveva comunque un grosso problema: voltarsi
e andarsene senza raccogliere la cenere, dandogli così la
soddisfazione di aver ragione a proposito di “voler mandare quel
posto a puttane”, come si era espresso (senza contare la
soddisfazione intrinseca nel vederla andar via), oppure usare la sua
mente per spazzare la cenere nel tombino, così dandogli
così la soddisfazione di rispondere alla sua domanda di poco
prima? Di nuovo Meredith lo immaginò volare sulle rose, e di
nuovo pensò che quelle rose le piacevano parecchio.
Alzò le spalle e gettò quel che restava della sigaretta a
terra insieme alla cenere, per poi concentrarsi e spingere il tutto
verso il tombino. Il materiale era leggero e non faceva fatica, ma era
buio e doveva sforzarsi per vedere la cenere, il cui colore era
maledettamente simile al cemento del cortiletto, ed assicurarsi che
fosse tutto pulito.
Mentre lavorava, lo sentì ridacchiare, felice di avere vinto.
“Oooh, è questo che sai fare allora? Muovi le cose col
pensiero? Un po’ come il professor Xavier e la dottoressa
Grey?”
Meredith annuì. Forse un pugno in faccia sarebbe bastato.
“E sai leggere nel pensiero?” le chiese, piegando la testa
di lato e osservandola come se stesse cercando di capire fino a che
punto lei fosse capace di spingersi.
Meredith non disse nulla. Improvvisamente le venne un gran voglia di piangere, ma scacciò via il pensiero con forza.
“Cosa sto pensando adesso?” continuò lui.
Non si sentiva più combattiva, ma solo stanca. Si domandò
se il fatto di aver usato i suoi poteri l’avesse debilitata in
qualche modo. Se spingere per mezzo metro della cenere le toglieva
tutte le sue energie, allora aveva un bel problema.
“Che devi davvero liberarti di quel giubbotto ridicolo?”
Lui raddrizzò la testa e l’espressione eccitata che aveva
sparì per lasciar posto ad una delusa. “No, non sai
leggere nel pensiero. Ho sentito la dottoressa Grey dirti che devi
continuare ad esercitarti.”
Meredith sentì la rabbia rimontare in lei come l’onda di
uno tsunami. “Allora lo sai cosa so fare, pezzo
d’imbecille!”
Lui alzò le spalle e sorrise compiaciuto. Abbassò la sigaretta e buttò la cenere sul cemento.
“Se pensi che pulirò per te ti sbagli di grosso.” lo avvisò Meredith.
Il suo sorriso di scherno si allargò. “Beh zucchero, non
è poi granché quello che mi hai fatto vedere. Muovere
della cenere? Wow, divertente. Vorrei tanto poterlo fare io.”
Per la terza volta nel giro di pochi minuti Meredith sentì
l’impulso irrefrenabile di usare i suoi poteri contro
quell’insopportabile idiota. Invece fissò un ciotolo tondo
che stava in un’aiuola e lo fece volteggiare davanti a sé.
“Beh, cominciamo a ragionare.” disse lui. Alzò la mano libera. “Fai un lancio, piccola.”
Forse Meredith scagliò il sasso con un po’ troppa forza, o
forse la mano migliore di John era quella che reggeva la sigaretta.
Fatto sta che invece di afferrarlo, John colpì il sasso con il
polso e modificò la sua traiettoria, mandandolo a schiantarsi
contro una delle finestre della cucina.
Rimasero entrambi pietrificati per qualche secondo, fissando il vetro
infranto come se la loro mente fosse troppo orripilata per riuscire a
credere a quello che era appena successo. Poi Meredith ruppe
l’incantesimo.
“Oh merda.” disse.
“Guarda cosa hai fatto!” disse John, la sua voce, per la prima volta, quasi isterica.
“Io? Io?” si difese Meredith, altrettanto nel panico.
“E’ colpa mia se hai le mani di pastafrolla?”
“Zitta!” ordinò John. Si fermarono entrambi ad ascoltare i rumori della notte. “Senti qualcuno?”
Meredith si concentrò. “No.” disse infine. Si sporse
cautamente dal pergolato per guardare le finestre dei dormitori. John
la imitò.
“Si è accesa qualche luce?”
“Levati, non vedo niente!”
“No, nessuna luce. E non starmi addosso!”
Si guardarono in faccia l’uno con l’altra. “Forse non hanno sentito.” disse Meredith.
John considerò la possibilità per qualche secondo.
“Forse no.” Il tono della sua voce lasciava trasparire
quanto poco ne fosse convinto.
“Ok. Andiamo via.”
John annuì. “Sì.” Gettò la sigaretta
che ancora aveva tra le dita verso il tombino, ma lo mancò.
Meredith si concentrò, spinse la sigaretta per i venti
centimetri che ancora le mancavano e la guardò sparire in uno
dei fori.
“Ora sì che abbiamo cancellato ogni traccia.” disse lui, sarcastico. Meredith lo ignorò.
Si infilarono nella porta che dal cortiletto dava sul corridoio delle
cucine e John la richiuse dietro di sé. Entrambi tirarono un
sospiro di sollievo.
“Mi auguro sinceramente che voi due abbiate un’ottima ragione per questo.”
Stavolta Meredith non ebbe problemi a riconoscere la voce. Quando lei e
John si voltarono, trovarono Logan, meglio conosciuto come Wolverine,
che li fissava con le braccia conserte e un’espressione furibonda
sul viso.
.........................................................................................
Ok, questo capitolo è finito. Spero davvero che vi sia piaciuto.
E’ la prima fanfiction che pubblico, quindi mi farebbe davvero
molto piacere sapere che ne pensate. In particolare vorrei sapere come
vi sembra la mia Meredith. Se ce qualcosa che mi da il voltastomaco
sono le Mary Sue, e se lei lo è lo devo sapere! Ho cercato di
renderla il più “reale” possibile, e spero di
esserci riuscita.
A questo proposito, vorrei aggiungere una nota sul nome. Lo so che
Meredith St.Clair è un nome spaventoso, ma prima che tiriate
fuori sassi e bastoni ho una spiegazione per questo orrore.
“Meredith” è un nome che, per colpa di Grey’s
Anatomy, mi si è appiccicato al cervello. Originalmente il
cognome di Meredith era Hudson, ma dato che è una trovatella (e
va beh, tanto lo si viene a sapere nel secondo capitolo) ho pensato che
il suo cognome doveva essere stato costruito a tavolino. Sulle rive del
lago St. Clair sorge la città di Detroit, dove Meredith è
nata.
Ok, è davvero tutto. Penso di aggiornare tra un paio di giorni. Un bacio a tutti e a presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
ItF2
Disclaimer: Pyro
e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla
Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti
per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Eccoci dunque al secondo capitolo. Mi auguro davvero che il primo vi sia piaciuto.
Una piccola nota che mi sono dimenticata di scrivere la scorsa volta:
"Into the Fire" è il titolo di una (bellissima) canzone dei
Thirteen Senses, e avrà un ruolo importante nello sviluppo della
storia tra John e Meredith.
.....................................................................................
Le voci degli studenti che si preparavano per un altro giorno di
lezioni risuonavano per la villa mentre Meredith attraversava i
corridoi diretta allo studio del professor Xavier.
Logan non aveva voluto sentire una parola. Aveva semplicemente
rimandato lei e John nei loro rispettivi dormitori, e a Meredith non
era sembrato il caso di insistere inventando scuse o chiedendo cosa ne
sarebbe stato di lei. Da quello che aveva imparato di Logan, sapeva che
non era uno che abbondasse di pazienza. Specie quando era così
arrabbiato.
Ieri sera era troppo tardi per mettersi a fare i bagagli. Contava di
saltare la colazione e farlo stamattina. Paige, la sua compagna di
stanza, non capiva cosa stesse facendo, perciò Meredith le
spiegò per sommi capi cos’era successo la sera prima,
omettendo quasi completamente il ruolo di John qualcosa nella vicenda e
quanto nervosa l’avesse resa.
Paige aveva detto che probabilmente l’avrebbero solo messa in
punizione e che, per quanto ne sapeva lei, nessuno era mai stato
espulso. Meredith si era limitata ad alzare le spalle ed aveva
continuato a riempire la sua valigia.
Anche se mentre camminava cercava di tenere la testa sgombra da
qualunque pensiero, doveva ammettere che lasciare la scuola le sarebbe
dispiaciuto. Non perché avesse molti amici lì, o
perché si sentisse a casa, no. Perché... Non lo sapeva
bene, ma sentiva che avrebbe perso qualcosa andandosene. E questo la
rendeva triste.
La professoressa Munroe aveva bussato alla porta della sua camera
e le aveva detto severamente di andare nello studio del professor
Xavier non appena avesse finito la colazione.
“Ma...”
“Fallo e basta, Meredith.”
In sala mensa gli studenti chiacchieravano e si scambiavano appunti,
assonnati ma pronti per una nuova giornata. Alcuni stavano finendo i
compiti, altri si sbaciucchiavano negli angoli bui. Nessuno
l’aveva fissata. Meglio così. Probabilmente la storia
della sua avventura notturna non era ancora trapelata. Si era guardata
intorno ma John non c’era.
Immaginò che fosse con il professor Xavier. E’ovvio che
sia il preside a buttarti fuori, pensò. Magari anche a dirti
quanto è stato inutile il suo viaggio fino in Maryland per
venirti a prendere.
Improvvisamente un pensiero che non era il suo le attraversò il cervello.
...ricordarmi il dossier per il Presidente...
Si fermò di colpo e guardò la porta alla sua sinistra.
Probabilmente si trovava di fronte alla stanza di Hank McCoy. Dio
com’era fastidioso, intercettare i pensieri degli altri senza
volerlo. Aveva una buona manualità con il resto dei suoi poteri,
muovere gli oggetti con il pensiero e tutto il resto, ma leggere nella
mente era un’abilità che ancora non riusciva a
controllare. Andava e veniva come le pareva e questo, per un mutante,
era come farsi la pipì addosso.
Riprese a camminare, infastidita ed imbarazzata dal paragone che gli
era appena saltato in mente. La dottoressa Grey le ripeteva sempre che
era solo una questione di esercizio, ma ora questo non era più
un suo problema. Bussò alla porta dello studio ed entrò.
Ed eccolo lì, la fonte di tutti i suoi guai, con i suoi jeans
strappati e gli anfibi e quegli assurdi capelli. Più avanti,
dietro la sua scrivania, il professor Xavier la fissava severamente.
“Ti stavamo aspettando, Meredith. Vieni avanti.”
Obbedì e si mise di fianco all’idiota, che la guardò per un istante con quel suo sguardo indolente.
Era abbastanza ovvio che ci fosse anche lui. Il professore doveva aver
pensato che era meglio risparmiare tempo e prendere due piccioni con
una fava.
Mentre aspettava che Xavier parlasse, Meredith cercò di svuotare
la testa da ogni pensiero. Non le piaceva che si leggesse nella sua
mente.
“Ieri sera siete stati sorpresi a violare una delle regole
principali della scuola. Non è la prima volta che un professore
vi scopre a fumare. Tutti e due.”
Un momento. Forse Xavier pensava che fossero amici. Che fossero
complici. Meredith aprì la bocca per spiegargli che il loro
incontro era stato solo un amaro scherzo del destino, ma John,
evidentemente altrettanto disgustato all’idea, la precedette.
“Io non la conosco!” esclamò.
Xavier lo fulminò con lo sguardo. “Non interrompere, John.” Lui tacque.
“E come se non bastasse, ieri sera avete vandalizzato una proprietà della scuola.”
Questa volta fu Meredith a parlare. “Non è stato
intenzionale! Io... è stato un incidente!” Si voltò
verso John perché la sostenesse.
“E’ vero, è stato un incidente.” disse lui lentamente. “Non lo abbiamo fatto apposta.”
Xavier li fissò a lungo in silenzio. Meredith aspettò che
entrasse nei suoi pensieri per verificare se stesse dicendo la
verità, ma lui si limitò a guardarli e basta.
“Vi credo.” sospirò. “Ma questo non cambia le
cose. Non avreste dovuto essere lì a fumare. Anche se non avete
rotto quella finestra apposta, se foste stati nelle vostre stanze a
dormire questo non sarebbe accaduto. Così non si può
andare avanti.” Meredith chinò la testa, in attesa del
colpo finale. “Dovete seriamente darvi una regolata,
ragazzi.”
Meredith, che a questo punto aspettava di sentire qualcosa che suonasse
come “fate le valige e andate con dio” alzò la testa
confusa. Quello che il professor Xavier aveva detto non somigliava ad
un’espulsione.
“Non capisco...” balbettò.
“Significa che siete in punizione, Meredith.
All’intervallo, verrete qui e mi consegnerete sigarette e
accendini. Durante le pause e dopo cena rimarrete nel salone o comunque
sempre dove un professore può vedervi. Basta uscite dai
dormitori nel cuore della notte. E dopo la scuola aiuterete nei lavori
manuali per ripagare il vetro che avete rotto. Sono stato chiaro?”
“Sì.” risposero entrambi. Anche se a Meredith la
punizione sembrava una gran rottura, si sentì sollevata al
pensiero di non essere stata espulsa.
“Adesso tornate in classe. E ricordatevi che vi aspetto all’intervallo.”
Meredith e John uscirono dallo studio. Appena la porta di noce si
richiuse alle loro spalle, lui iniziò a ridacchiare. “Te
la sei fatta sotto, eh zucchero?”
Meredith si allontanò senza nemmeno guardarlo.
****
“Dovete tagliare la legna in modo che possa essere bruciata nel
camino della sala comune.” spiegò Piotr Rasputin mentre
Meredith e John lo stavano ad ascoltare a braccia conserte. Rasputin
indicò l’enorme catasta di legna alla sua sinistra.
“Sono i rami potati l’inverno scorso dagli alberi del
parco, perciò non sono molto spessi. Vi basteranno
questi.” Additò una sega e una piccola scure appoggiate
contro il cavalletto. Sorrise. “Vedrete, non sarà
così difficile.” Meredith sentì di odiarlo.
“Io sarò laggiù a sistemare il tetto del
capanno.” proseguì Rasputin. “E’ lontano, ma
potrò vedervi benissimo, perciò niente trucchi. Niente
battere la fiacca e niente falò.” aggiunse fissando John,
che fece spallucce. Rasputin raccolse la sua borsa da lavoro e si
incamminò verso il capanno degli attrezzi, visibile tra gli
alberi a circa cinquanta metri da loro. “State attenti a non
farvi male. Se avete bisogno di qualcosa fate un fischio, ragazzi. Buon
lavoro.”
Meredith lo guardò sparire tra gli alberi. John cominciò
a imprecare prendendo a calci tutto quello che gli capitava a tiro.
“Che idiozia. Che fottuta perdita di tempo. Merda. Merda.”
Meredith guardò la catasta di legna. Sarebbe stata una lunga giornata.
“Adesso do fuoco alla maledetta catasta. Levati.”
Molto lunga.
“Chi se ne frega di quel cavolo di camino! Dannazione!”
Meredith notò una cadenza particolare nella sua voce. Più
che una cadenza, un accento di cui non si era resa conto prima. Il che
era strano, perché ora che ci faceva caso si era accorta che era
piuttosto forte.
Si avvicinò alla legna e afferrò uno dei rami.
Cominciò a lottare per districarlo dalla catasta e trascinarlo
sul cavalletto.
“Potrei dargli fuoco. Diremo che è stato un altro incidente.”
“Come preferisci.” rispose lei issando il ramo.
“Potresti usare i tuoi poteri per trascinare quella cosa, sai?”
“Oddio, dici sul serio? Grazie per avermelo ricordato. Come ho
fatto fino ad oggi senza di te?” gli chiese con un espressione di
finto stupore. “Credevo fossimo in punizione insieme. Magari
potresti aiutarmi.”
Lui alzò le spalle. “Volevo solo dire che mi sembrava
più semplice usare la telecinesi invece che spostare la legna a
mano.”
“Già, per te di sicuro.” lo schernì Meredith. “Vuoi prendere la dannata sega, almeno?”
Lui sorrise e fece come lei gli aveva ordinato. “Come vuoi tu, zucchero.”
Meredith alzò la testa di scatto, furiosa. “Se mi chiami
zucchero un’altra volta, giuro su dio che ti faccio volare fino
alla villa.”
Doveva aver visto nei suoi occhi quant’era arrabbiata,
perché John lasciò cadere la questione e alzò le
mani in un gesto di resa.
“Ok, ok, non ti scaldare. Stavo solo scherzando.”
Si mise di fronte a lei dall’altro lato del cavalletto e
appoggiò la lama dentellata sul legno. Meredith afferrò
l’altra estremità della sega.
“Devi solo seguire il mio movimento.” le spiegò lui.
Lei annuì. “Lo so. L’ho già fatto.”
Cominciarono a lavorare e per un po’ nessuno dei due
parlò. Era un lavoro ingrato. I rami non erano così
sottili come Rasputin aveva voluto fargli credere, e tagliarli a mano
era pura follia. Meredith era quasi sicura che da qualche parte nel
capanno degli attrezzi o nella cantina della villa ci fosse una
splendida motosega che avrebbe potuto facilitare il loro lavoro, ma
sospettava che spaccarsi la schiena facesse parte integrante della
punizione.
Si asciugò la fronte con la manica della maglietta a maniche
lunghe che indossava. Le articolazioni delle spalle cominciavano a
farle male sul serio aveva le mani graffiate a causa della legna.
John non faceva conversazione, ma aveva continuato a mormorare a denti
stretti quant’era cretino il lavoro che stavano facendo e quanto
gli facesse schifo.
“Ci siamo svegliati lagnosi stamattina, eh?” disse alla
fine Meredith quando non ne potè più di tutte quelle
lamentele.
“Scusa se la mia voce disturba le tue preziose orecchie, principessina.” rispose lui.
“Credevo di averti detto di non darmi dei soprannomi!”
“No, avevi detto di non chiamarti zucchero!”
“Guarda che è la stessa cosa!” esplose Meredith,
esasperata. “Ascolta, se mi chiami ancora con un nome che non
è il mio, ti faccio del male.”
Lui emise una risata di scherno. “Provaci.”
Meredith strinse i pugni, e per un attimo i due si fissarono in
silenzio. Dopo qualche secondo, abbassarono lentamente la guardia e
tornarono al lavoro.
Gettarono i due tronconi che avevano appena segato nel mucchio della
legna già tagliata e si voltarono per prendere un altro ramo.
Stanca di farsi graffiare le mani, Meredith usò il pensiero per
spostare uno dei rami dalla cima della catasta e posarlo sul cavalletto.
“Dio ti ringrazio, era ora.” sospirò John.
“Guarda che lo faccio solo perché sono stanca.” ribattè Meredith debolmente.
Lui sorrise. “Sì, lo vedo.”
Meredith cercò tracce di sarcasmo nella sua voce, ma non ne
trovò. Dopo un po’, mentre sudavano come schiavi su quel
dannato legno secco, John disse: “E comunque non lo conosco. Il
tuo nome, intendo.”
“Meredith.” Si era sempre vergognata del suo nome. Era talmente retrò da essere ridicolo.
“Meredith, e poi?” incalzò lui.
“Meredith St.Clair.”
“Meredith St.Clair? Sembra il nome di un’attrice degli anni Venti.”
Era più o meno quello che pensava anche Meredith, ma che fosse
lui a farglielo notare la mandava in bestia. “Sentiamo, e tu come
ti chiami?”
“John Allerdyce.” rispose lui con quella sua parlata lenta
a strascicata. “Secondo te questo ci entra nel camino?”
chiese alzando uno dei tronconi che avevano tagliato.
Meredith scosse la testa. “No. E’ troppo lungo."
“Come pensavo.” disse John, lanciando il pezzo di ramo nel
mucchio della legna già tagliata. Suo malgrado, Meredith non
potè fare a meno di sorridere.
“E così il tuo cognome è Allerdyce.”
continuò Meredith mentre spostava con il pensiero un altro ramo.
“Pensavo ti chiamassi John Smettila-Di-Giocare-Con-
Quell’-Accendino.”
John rise. “Sì, è quello che la professoressa
Munroe ripete più spesso dopo il mio nome. Magari un giorno
comincerà a chiamarmi John Smettiacc, per risparmiare
tempo.”
Posò la sega e si asciugò la fronte sbuffando. Poi
afferrò l’orlo della sua maglietta (la felpa giaceva
già nell’erba da tempo) e se la sfilò, rimanendo a
petto nudo.
Sbruffone, pensò Meredith. Era settembre e anche se stavano
faticando parecchio, non faceva davvero così caldo da togliersi
la maglietta. John sorrise, evidentemente compiaciuto che lei lo stesse
guardando.
“Se vuoi sfilarti la maglietta anche tu non c’è problema.” ghignò.
Meredith alzò gli occhi al cielo. “Che classe.”
rispose. Afferrò la sega ed aspettò che John facesse
altrettanto, ma lui la ignorò. Fissò la catasta di rami
ancora da tagliare e poi il loro piccolo cumulo di legna già
pronta. Sospirò teatralmente. “Se penso a tutto quello che
potrei fare invece di star qui a perdere tempo.”
“Puoi provare a farlo presente al professor Xavier.”
rispose Meredith, sarcastica. “Forse ti restituisce pure le
sigarette. Non te lo consiglio, però. Dove stavo io prima non
funzionava, ma magari tu sei più fortunato.”
Lui tornò al cavalletto e ripresero il lavoro. “E
dov’è che stavi prima?” le domandò John
mentre segavano il ramo.
Lei lasciò passare qualche secondo prima di rispondere. “In orfanotrofio.” disse infine.
John la guardò con stupore. Era strano. Quando diceva alla gente
di essere cresciuta in orfanotrofio, Meredith era abituata a ricevere
due tipi di sguardi: di compassione o di scherno, che poi erano la
stessa cosa. Era la prima volta che qualcuno la guardava stupito, e non
sapeva bene come reagire.
“Dai, sto aspettando una delle tue formidabili battute.” lo incalzò.
Ma John si limitò a scuotere la testa. “Ci sono stato anch’io.”
Meredith lo guardò negli occhi, sorpresa e confusa. Aveva appena
fatto una gaffe colossale, e non sapeva come recuperare.
“Oh. Ok.” disse infine.
Chiuse gli occhi, frustrata. Aveva voglia di prendersi a sberle.
Lavorarono per il resto del pomeriggio senza parlare quasi mai, ma
nonostante il silenzio a Meredith sembrò che tra loro fosse
appena caduta una specie di barriera invisibile. Come se il fatto di
condividere quell’esperienza li rendesse membri dello stesso club.
Stava già iniziando a tramontare quando Rasputin venne a dirgli
che avrebbero continuato l’indomani. Si incamminarono in silenzio
tra gli alberi del parco. Quando furono di fianco al capanno degli
attrezzi, John lo aggirò e si appoggiò al muro
posteriore, invisibile dalla casa. Arrotolò i jeans fino quasi
al ginocchio e da una calza tirò fuori un pacchetto di sigarette.
“Ti va di fumare?” le chiese scoccandole uno dei suoi sorrisi compiaciuti.
Meredith prese il suo pacchetto da una delle tasche della felpa. “Volentieri.”
..............................................................................
E siamo arrivati alla fine anche del secondo capitolo. Ci si rivede tra un paio di giorni!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
ItF3
Disclaimer: Pyro e gli X-men
non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics
e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film.
Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di
Meredith St.Clair.
.....................................................................................................................
Era domenica sera, e Meredith stava andando nella sala comune dopo
essersi fatta la doccia (lei e John avevano lavorato tutto il weekend,
cominciando a chiedersi se il vetro che avevano rotto fosse in
realtà una costosissima lega sperimentale di produzione
governativa), quando la dottoressa Grey, la vicepreside della scuola,
la chiamò nel suo studio.
“Meredith? Hai un secondo?”
Sapendo che la domanda era puramente retorica, annuì ed
entrò. La stanza era piccola, e le librerie alle pareti
sembravano togliere ulteriore spazio. Doveva però ammettere che
la dottoressa Grey l’aveva arredata bene. Al centro della stanza,
sopra un tappeto dall’aria arabeggiante, c’erano due
poltrone di pelle nera divise da un tavolinetto da caffé, che
come le aveva spiegato la dottoressa la prima volta che era entrata nel
suo studio, proveniva da un viaggio che lei e il professor Summers
avevano fatto in Marocco. Alcuni vasi di fiori freschi appoggiati qui e
là aiutavano a smorzare quell’aurea da studio medico che
la stanza aveva. Meredith guardò i fiori. Rose. Rose bianche.
Come quelle che c’erano nel cortiletto delle cucine.
Improvvisamente le si accese una lampadina. E se...
“Prego, siediti pure.” le disse la Grey indicando una delle poltrone.
“Grazie.” Mentre guardava la dottoressa prendere posto di
fronte a lei, Meredith si chiese come faceva a sapere che in quel
momento stava passando davanti al suo studio. Probabilmente la Grey era
abbastanza potente da leggere nella mente delle persone anche
attraverso una porta chiusa.
Jean Grey sorrise. “Ho incontrato Paige Guthrie in sala comune
poco fa, mi ha detto che stavi per scendere. Quando ho sentito dei
passi ho immaginato che fossi tu.”
Meredith si mise a studiare il tappeto ai suoi piedi. “Scusi.” mormorò. Avrebbe voluto morire.
“Affatto, scusami tu. E’ una cosa davvero scortese leggere
la mente altrui senza permesso, ma immagino che le vecchie abitudini
siano dure a morire.” Fece una pausa. “E tu come te la cavi
con la telepatia? Hai notato qualche miglioramento?” chiese.
“Mi sto esercitando.” disse, ed era vero. Non riuscire a
controllare bene la telepatia era un grosso disagio per lei e voleva
liberarsene al più presto. “Ma continuo a sentire i
pensieri degli altri, di tanto in tanto.”
“Questo è un bene. Se non riuscissi a sentire niente,
quello sì che sarebbe un problema.” Fissò Meredith
dritta negli occhi. “Cosa sto pensando ora?”
Meredith restituì lo sguardo e si concentrò più
che poteva. Sgombrare la mente... Visualizzare il percorso... Dalle
pupille fino dentro la testa...
...gatto...vicina...muro...
“Ehm... qualcosa su di un gatto vicino ad un muro?” tentò Meredith.
“Bene, molto bene. La frase che stavo pensando era “Il
gatto della vicina salta sul muro alto”, ma stai facendo degli
enormi progressi, Meredith.” Tornò a fissarla.
“Comunque non è di questo che volevo parlare.”
Ah ecco, mi sembrava,
pensò Meredith. Tutti i professori le avevano fatto un sermone a
proposito della sigaretta e del vetro rotto, e la dottoressa Grey,
effettivamente, mancava all’appello.
“Ormai è qualche mese che sei arrivata nella scuola. Posso chiederti come ti trovi?”
Ok, la stava prendendo alla larga. “Bene.” rispose Meredith, cercando di capire esattamente dove volesse arrivare.
La Grey sembrò considerare la sua risposta. “E per quanto
riguarda le attività scolastiche? I programmi didattici
corrispondono alle tue aspettative?”
Meredith alzò le spalle, sempre più confusa.
“Sì, immagino di sì.” La dottoressa Grey la
guardò come se aspettasse di sentire il resto, perciò
Meredith si sentì in dovere di aggiungere qualcosa.
“Cioè... non è che avessi proprio delle
aspettative. Ad essere sincera non sapevo bene cosa avrei trovato
venendo qui.”
La Grey sorrise. “Hai legato con qualcuno in particolare?”
Stava pensando ad Allerdyce, di sicuro. “No.” rispose secca Meredith. “Nessuno in particolare.”
Jean Grey la guardò in silenzio per qualche istante. “Che mi dici di Paige, la tua compagna di stanza?”
“E’ ok.”
“Ok?”
“Sì... ok.”
“Che significa ok?” insisté la dottoressa. “Non andate d’accordo?”
“No, non è così.” si affrettò a
puntualizzare Meredith. Non aveva problemi con Paige. Era a posto, solo
che... “E’ gentile, carina e tutto, non mi fraintenda,
è una ragazza simpatica, ma...” Si fermò, in cerca
delle parole giuste.
“Avete caratteri troppo diversi per andare d’accordo.” concluse per lei la dottoressa Grey.
Meredith sorrise debolmente. “Credo che sia così.”
Jean Grey sembrava essersi aspettata quella risposta. “Davvero
non c’è nessuno che tu consideri tuo amico,
Meredith?” ritornò a chiederle.
Si riferiva di nuovo ad Allerdyce? Voleva farle ammettere che loro due
avevano un piano segreto per destabilizzare la scuola? Guardò la
Grey dritta negli occhi. No, forse no, decise. Forse voleva solo sapere se aveva legato con qualcuno.
Pensò alle persone che aveva conosciuto da quando era arrivata
all’Istituto. C’era la ragazza asiatica con quel nome
assurdo, che incontrava sempre al corso di geometria... e Martha,
Martha Johansson, che era silenziosa e solitaria quanto lei. Bobby, il
ragazzo che sapeva creare il ghiaccio, era gentile, le aveva mostrato
la scuola quando era arrivata, e quando si incontravano scambiavano
sempre qualche parola. A volte c’era anche la sua ragazza con
lui. Con loro parlava, si trovava anche abbastanza bene, ma non poteva
dire di aver legato.
“No, nessuno.” disse infine.
La dottoressa Grey sembrava essersi aspettata anche questo.
Accavallò le gambe e disse: “Dato il tuo passato è
comprensibile che tu non te la senta di affezionarti troppo alle
persone.” Meredith sentì il proprio cuore caderle nello
stomaco. “Vuoi parlarne?”
Meredith ebbe l’impulso di alzarsi e andare via. “Credevo
l’avessimo fatto quando sono arrivata.” rispose, sulla
difensiva.
“Beh, sì e no.” Mosse una mano come se volesse
scacciare una mosca. “Credo che dovremmo parlarne di nuovo.”
Era l’ultima cosa che Meredith voleva, ma rimase zitta.
“Se ricordo bene, sei nata a Detroit, vero?”
Ci fu silenzio per un po’. Poi Meredith disse: “Non so se
sono nata a Detroit. Mi hanno trovato sulla scalinata della chiesa di
St. Mary of Grace a Detroit, quindi sui documenti c’è
scritto che sono nata lì.”
Jean Grey annuì. “Per quanto sei stata lì?”
“Un po’”
“Quanto, Meredith?”
Meredith sospirò. “Quattro anni, a periodi alterni.”
“Perché di tanto in tanto venivi affidata ad una famiglia.” non era una domanda, ma un’affermazione.
“Sì.” confermò Meredith, controvoglia.
Essendo cresciuta in orfanotrofio, conosceva bene le dure leggi non
scritte che regolano la scelta di un bambino da parte di una potenziale
famiglia. I neonati che, come lei, erano stati abbandonati a poche ore
dalla nascita avevano buone probabilità di trovare dei genitori.
Tutti adorano un cosino morbido e grazioso che non ha memoria e che li
chiamerà mamma e papà senza problemi. Tuttavia,
più un bambino cresce e meno possibilità ha di essere
adottato. Fino ai quattro, cinque anni ci sono ancora speranze, ma una
volta che inizi la scuola sei finito. Avere un bambino in età
scolare significa avere un figlio che sa benissimo di non essere tuo
figlio, e che probabilmente andrà male a scuola e avrà
problemi comportamentali.
Le cose cambiano un po’ se sei una mutante. Per quanto tu possa
essere carina a quattro settimane di vita, far volare i peluche per la
stanza è un deterrente molto forte per qualunque potenziale
famiglia, e una bambina di tre anni che butta giù le mensole dai
muri se le neghi il gelato dopocena terrorizzerebbe chiunque.
“A quante famiglie sei stata affidata?”
“Me ne ricordo due. Ma mi hanno detto che ce ne sono state altre quattro.”
“Quanto tempo hai trascorso con quelle famiglie, Meredith?”
“Non ricordo bene. Due, tre settimane, credo. Non molto di più.”
La dottoressa Grey la guardò. “E poi ti rimandavano indietro.”
Il cuore di Meredith sprofondò un pochino di più. Silenzio.
“Per via delle tue abilità?”
Meredith sentì un’ondata di irritazione contorcerle lo stomaco. “Ovvio.” sibilò di malumore.
Jean Grey sembrò non accorgersene. “Cosa è successo quando avevi quattro anni?”
Meredith si agitò sulla poltrona, sempre più innervosita.
“Mi mandarono in Florida. Dissero che c’era una famiglia
fantastica che sarebbe andata benissimo per me.”
“E fu così?” continuò impassibile la Grey.
Meredith perse la pazienza. “Perché me lo chiede? Sa
benissimo come è andata. Ne abbiamo già parlato.”
La dottoressa non si scompose. “Vorrei che ne parlassimo ancora, Meredith.” disse con calma.
Lei si gettò esasperata contro lo schienale della poltrona.
“All’inizio sì. Avevo tutto quello che volevo. Era
una famiglia molto ricca, mi bastava aprire bocca per essere sommersa
dai giocattoli. A loro non importava dei miei poteri, avrei potuto
anche distruggere la casa e non avrebbero fatto una piega. Avevo una
tata.” cominciò ad enumerare sulle dita “quattro
cani, due pony, la casa dei sogni di Barbie e il castello incantato di
Lady Lovley, inclusi Lady Lovley, il principe Cuorforte, tutte la dame
di compagnia e la strega cattiva.” Meredith fece una pausa.
Ricordare le faceva male. “Ma non avevo dei genitori.”
Per un po’ nessuna delle due parlò. Fu Meredith ad
interrompere il silenzio. “Erano sempre occupatissimi. Lui era
sempre al lavoro, lei aveva il club, le serate di beneficenza, il the
con le amiche... Quando tornavano era tutto un “Meredith,
tesoro”, ma tempo venti minuti e sparivano di nuovo.”
“Come finì, Meredith?” chiese la dottoressa Grey. La sua voce fu poco più che un sussurrò.
Lei alzò le spalle. “Il primo anno fu perfetto. Poi
cominciarono a perdere interesse, credo.” Se un bambino normale
ha bisogno di attenzione, un bambino mutante ne richiede almeno il
triplo. “Una sera mi misi a fare i capricci perché volevo
che fosse...” Si interruppe in cerca di un qualche appellativo
calzante. Non ne trovò nessuno. “...lei a mettermi a letto, non la tata. Scesi nel salone dove stavano tenendo una festa, e quando lui
mi afferrò il braccio per portarmi di sopra io... persi il
controllo e feci esplodere il lampadario.” Ricordava
perfettamente gli avvenimenti di quella sera, la pioggia di cristalli
che si era abbattuta sul salone, la gente che si accalcava urlando
verso la porta e loro che le gridavano: “Che cosa hai fatto? Che cosa hai fatto?”
“Non fu poi una tragedia, Meredith. A sei anni è normale
non riuscire a gestire le proprie abilità, specie quando si
è emotivamente stressati. E nessuno degli invitati rimase ferito
seriamente.”
Meredith rise amaramente. “Non fu quello che dissero i Carter mentre mi riportavano ai servizi sociali.”
Quando era tornata in orfanotrofio aveva ormai sei anni,
l’età fatale. Nessuno l’avrebbe più voluta
anche se fosse stata normale, figuriamoci quando sapevano che era una
mutante capace di far crollare un lampadario di cristallo su di una
stanza gremita di gente.
“E così ritornasti in orfanotrofio?”
Perché la Grey si ostinava a farle domande di cui conosceva
benissimo le risposte? Non ci erano già passate quando era
arrivata nell’istituto?
“Sì.”
“Un orfanotrofio in Florida?”
“Per un po’. Poi mi rimandarono al nord.”
“A Detroit?”
Era sicura che la dottoressa se ne ricordasse. Glielo aveva detto nel
loro primo colloquio, e comunque era scritto nel suo fascicolo. Ogni
maledetta cosa era scritta nel suo fascicolo.
“No, a Minneapolis. Mi dissero che nel mio vecchio istituto non c’era più posto.”
“E tu credi che fosse veramente così?”
Meredith alzò le spalle e non disse nulla.
“Ti dispiacque non ritornare a Detroit?” continuò la dottoressa Grey.
Di nuovo Meredith alzò le spalle. “Non mi importava.”
“Perché no?”
Che razza di domanda era? Meredith sorrise sarcasticamente. “Non
lo so il perché. Non mi importava più di nulla a quel
punto.”
Improvvisamente si rese conto di quello che aveva appena detto.
Sentì un’ondata di confusa pietà per quella bimba
che a sei anni ne aveva passate talmente tante da essere emotivamente
vuota.
“D’accordo. Quanto tempo passasti a Minneapolis?”
“Due anni e mezzo.”
“Ti ci trovavi bene?”
“No. Mi faceva schifo.”
La dottoressa Grey si sporse in avanti. “Cosa esattamente ti faceva schifo?”
“Tutto. Il posto, la gente che ci lavorava, gli altri bambini.”
“Perché?”
Di nuovo quella domanda assurda. Meredith fissò Jean Grey
direttamente negli occhi prima di rispondere. “Non sopportavo
più nessuno.”
La dottoressa si ritrasse, come se avesse paura che Meredith le leggesse nel pensiero.
“Fosti affidata a qualche famiglia?” chiese quando si fu ricomposta.
“Sì, ci hanno provato.” rise Meredith. “Nessuno resisteva più di due settimane.”
“Come mai? Per via dei tuoi poteri?”
“No.” Meredith si rese conto che stava ancora sorridendo.
“Facevo un tale casino che nessuno voleva avere a che fare con
me.” Era perverso, sorridere per una cosa del genere.
“Perché? Non volevi avere una famiglia?”
“No.” Si rese conto di aver risposto un po’ troppo
velocemente. “Non più.” aggiunse a mo’ di
giustificazione.
“Perché no?”
Di nuovo si sentì esasperata. “Glielo ho detto il
perché!” La sua voce era stridula e cercò di
controllarsi. “Odiavo tutti.”
L’ultima frase sembrò alleggiare nella stanza come una
specie di bestemmia. Meredith si augurò che avessero finito.
“Ma poi ti trovarono una famiglia a Phoenix.” disse la dottoressa Grey in un tono casuale.
Meredith chiuse gli occhi. “Sì. A Phoenix.”
“E lì non creasti problemi?” La Grey stava sussurrando di nuovo. Meredith tenne gli occhi e la bocca chiusi.
Alcuni ragazzi passarono nel corridoio al di là della porta chiusa. L’orologio nello studio battè le sette.
Meredith aprì lentamente gli occhi. “Molti,
all’inizio. Ma poi vidi che non funzionava. Loro non mi
rimandavano indietro.” Gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Credo che dovremmo parlare della tua famiglia, Meredith.”
disse la dottoressa. Lei chiuse di nuovo gli occhi per ricacciare
indietro le lacrime.
“Avevano una figlia mutante.” disse infine, con il tono
più casuale e distaccato che le riusciva. “Perciò
gli andava bene averne un’altra, credo. Mio padre aveva
moltissima pazienza con noi due. Anzi, si divertiva un mondo a vederci
far volare le cose o a creare lampi di luce. E’ questo che Evie
sa fare.” si affrettò a spiegare “Lampi di luce. Ci
chiamava le sue due superbimbe.” A quel punto i ricordi che
pensava di aver seppellito nel profondo della sua anima stavano
tornando a galla e lei non riusciva più a fermarli. “Mi
chiedeva di indovinare cosa stava pensando, e quando ci riuscivo era
più eccitato di me.” Rise, la prima risata sincera da
quando era entrata nello studio. Forse la prima da anni. “Portava
me ed Evie al parco, e ci divertivamo come pazzi a spaventare i
passanti.”
Anche la dottoressa Grey stava sorridendo. “Andavi d’accordo con Evie?”
“Moltissimo, da subito. Aveva la mia età e gli altri
bambini a scuola la evitavano, perciò desiderava con tutto il
cuore un compagno di giochi. Legammo molto.”
“Eri felice?”
“Sì, direi proprio di sì.”
“Quanto sei rimasta con i Barrymore?”
“Quattro anni e mezzo. Poi mi hanno rimandato a est, a New York
City. Sono rimasta in quell’orfanotrofio per quasi tre anni,
senza interruzioni. Non che mi spiacesse, adoravo New York.”
La Grey si limitò a fissarla senza mangiare la foglia.
“Perché i Barrymore rinunciarono alla tua custodia?”
“Lo sa il perché.” sussurrò Meredith.
“Voglio sentirlo da te.”
“Lo ha già sentito da me.”
“Voglio sentirlo di nuovo.”
“Perché?” la domanda le era sfuggita dalle labbra prima che riuscisse a controllarsi.
“Perché credo che ti farà bene.”
“Io credo di no.”
Questa volta il silenzio durò parecchi minuti. Alla fine
Meredith disse lentamente: “Mio padre si ammalò.” Ci
fu un'altra lunga pausa. “Cancro. Lui... non poteva più
lavorare, e così...” Lasciò cadere la frase.
“Di chi fu la decisione di mandarti via?”
“Di mia madre. Non ce la faceva a stare dietro a due figlie
mutanti e a un marito malato terminale.” Si vergognò ad
aver usato l’espressione “malato terminale” per suo
padre.
“Intendeva economicamente o in termini di tempo e attenzioni?” chiese la dottoressa Grey.
Meredith si strinse nelle spalle. “Non lo so.”
“Tu cosa pensi?”
“Entrambe, credo. Nostra madre era sempre stata un po’ a disagio riguardo ai nostri poteri.”
“Come ti sentisti?” continuò la dottoressa.
Come pensava si fosse sentita? “Male, ovvio.”
“Rifiutata?”
“Credo.”
“Credi?” Jean Grey si sporse nuovamente in avanti.
“Sì, io...” Meredith si agitò sulla poltrona. “Non so, non ricordo esattamente.”
“Meredith, come fai a non ricordarti una cosa simile?” continuò la dottoressa.
“Non...” ormai cominciava a sentirsi disperata.
“Perché non mi legge nel pensiero e basta? Sarebbe molto
più semplice per tutte e due!”
“Non voglio leggerti nel pensiero, Meredith, non servirebbe a niente. Voglio che me lo dica tu.”
Meredith inspirò ed espirò un paio di volte prima di
rispondere. “Stavo male, malissimo, ok? Mio padre.. lui stava
morendo, ed io... non potevo stare lì con lui, non potevo stare
con la mia famiglia perché improvvisamente non ce l’avevo
più, una famiglia. Ecco come stavo. Soddisfatta?”
La dottoressa Grey non si scompose. “Eri a New York quando sapesti che era morto?” chiese.
Meredith espirò di nuovo. “Sì.”
“Fu tua madre a telefonarti?”
“No, fu Evie.” I singhiozzi di sua sorella le
riecheggiarono nel cervello. “Era là con lui quando
successe e io fui la prima persona che chiamò.”
“Hai mantenuto i contatti con tua sorella Evie?”
“Sì, per molto tempo. Quando l’ho chiamata da qui,
il giorno che sono arrivata, sua madre mi ha detto che se ne era andata
di casa.” Né a lei né alla Grey era sfuggito quel
“sua madre”.
“E la cosa ti ha sorpreso?”
“Non più di tanto. Evie ha sempre avuto problemi con sua
madre da...” esitò “allora.” Guardò
fuori dalla finestra.
“Sei preoccupata per lei?”
“Un po’. Evie è una ragazza fragile, specie quando
si tratta della sua diversità. Ma è in gamba.”
Sì, lo era. Doveva solo non farsi mettere sotto dai giudizi dei
“normali”.
La Grey la fissò per un po’ in silenzio. “Poco fa hai detto che New York ti piaceva.”
“Sì, è così.”
“Come mai?”
“E’ una metropoli. Il cuore del mondo. L’avevo vista
tante volte al cinema e alla televisione e mi sembrava fantastico
viverci per davvero.”
“Ti piaceva più di Phoenix?”
Meredith la guardò negli occhi. “Di Phoenix mi piaceva la mia famiglia.”
Jean Grey alzò un sopracciglio. Sembrava impressionata dalla sua
risposta. “E come l’hai presa quando ti hanno detto che una
famiglia di Baltimora era disponibile per l’affidamento?”
Meredith rise di nuovo. “Ero sorpresa che qualcuno volesse una
mutante sedicenne. E infastidita che avessero candidato me.”
Aveva odiato i Jackson con ogni fibra del suo essere. Quando era
arrivata nella loro fattoria a Baltimora aveva capito il perché
della loro richiesta. Non era disinteressato altruismo, oh no. Le
famiglie affidatarie percepiscono un contributo governativo per ogni
ragazzo che prendono in affido, e lei e gli altri quattro
“ospiti” (tutti, a parte lei, normali, ma già
adolescenti) erano una rendita mica male per i Jackson.
Aveva scatenato l’inferno, ricorrendo a tutti i suoi vecchi
metodi. Era perfino riuscita a leggere nella mente di Faye Jackson, ed
aveva spiattellato davanti a tutta la parrocchia che la torta al
cioccolato che lei si vantava di aver preparato con le sue mani per
“la gara delle massaie” in realtà proveniva dal
drugstore giù all’angolo. Lo considerava il suo capolavoro.
I Jackson avevano resistito più a lungo di quanto avessero fatto
le altre famiglie. Non volevano perdere i soldi dei servizi sociali.
Dopo un assedio durato quattro mesi, il professor Xavier e Jean Grey
erano venuti alla fattoria, avevano parlato con i Jackson e avevano
chiesto a Meredith se volesse andare con loro all’Istituto per
Giovani Dotati. Lei aveva accettato. Sembrava una prospettiva
più allettante che tornare all’orfanotrofio.
Anche la dottoressa Grey sorrideva. Avendo visto di persona la
fattoria, e non essendo stupida, aveva capito immediatamente cosa
succedeva in quel posto. Meredith non aveva mai dimenticato le parole
che le aveva detto mentre camminavano verso la macchina: “A volte
la forza è necessaria.” Solo dopo aveva scoperto che Jean
Grey era in grado di leggere nel pensiero.
“Ti sei pentita di aver accettato la nostra proposta?” le chiese infine.
“Non direi.”
“Meglio così.” disse la dottoressa alzandosi dalla sua poltrona. Meredith la imitò.
“Continua ad esercitarti con la telepatia. Vuoi fare un’altra prova?” Lei annuì.
Guardò la Grey negli occhi... si concentrò...
“Tom gioca a calcio con il dottore.” disse.
“L’amico di Tom gioca a calcio con il figlio del
dottore.” precisò la dottoressa. “Stai andando molto
bene. Continua così.” L’accompagnò alla
porta. L’orologio batteva le otto.
“Ci vediamo a cena, allora.” disse la Grey aprendo la porta.
Meredith diede un ultimo sguardo alle rose bianche sulla sua scrivania,
e si ricordò che ce n’erano di uguali all’ospedale,
l’ultima volta che aveva visto suo padre.
“Sì, certo.” rispose.
Invece di andare in mensa si diresse verso il suo dormitorio. Ai piedi
delle scale sbattè contro John Allerdyce, che veniva dal
corridoio opposto. Non si fermò a chiedergli scusa.
“Ehi, che modi sono questi?” sentì che le gridava dietro mentre lei si arrampicava su per le scale.
Continuò a camminare. Sentì di odiare lui e il suo
maledetto posto dietro le cucine, con tutte le sue rose che crescevano
perfette ed immacolate nelle aiuole.
.......................................................................................
Ecco fatto. Mi spiace che John sia apparso solo alla fine, ma era
necessario spiegare qualcosa in più su Meredith prima di
continuare la storia. Giuro che Pyro sarà molto più
presente nel prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
ItF4
Disclaimer:
Pyro e gli
X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e
alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo
invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.
...............................................................................
Il giorno successivo il suo colloquio con Jean Grey, Meredith stava
rientrando in camera dopo la lezione pomeridiana di combattimento corpo
a corpo tenuta da Logan quando improvvisamente si fermò sulla
soglia, confusa. La ragazza asiatica con i capelli corti e un nome
strano, con cui di tanto in tanto scambiava qualche parola dopo la
lezione di Summers, era in piedi sul letto di Paige e stava attaccando
all’armadio un poster dei System of a Down. Quando si accorse
di Meredith, le sorrise e saltò giù dal letto,
venendole incontro.
“Ehi, ciao!” la salutò “Ti aspettavo.”
“Ehm, ciao.” Meredith sorrise debolmente, sempre
più confusa. “Senti, non vorrei sembrarti scortese, ma che
stai facendo?”
“Oh, la dottoressa Grey non te l’ha detto?”
domandò la ragazza, stupita. “Cambiamento di
alloggi.” Sorrise. “Sono la tua nuova compagna di stanza.
Il tuo nome è Meredith, vero? Io sono Jubilation Lee.”
concluse con una smorfia. “Ma non chiamarmi mai così.
Tutti mi chiamano semplicemente Jubilee. Figo, vero? Non solo è
molto più carino, ma è anche pratico.”
Allora la Grey le aveva letto nel pensiero, dopotutto. Altrimenti, come
faceva a sapere che con Jubilee si trovava bene? Lei non l'aveva
menzionato.
“Oh, ti da fastidio il poster?” chiese Jubilee indicando l’armadio. “Se vuoi lo tolgo.”
“No, figurati, nessun problema.” rispose Meredith
appoggiando con cautela la sua borsa sul letto. Il pavimento della
camera era coperto di vestiti e libri gettati alla rinfusa.
“Non ti preoccupare, entro stasera sistemo tutto.” si
affrettò ad assicurarle Jubilee. Rise. “Sai, sono una
frana nei traslochi.”
Meredith alzò le spalle. “Non preoccuparti, non sono una
maniaca dell’ordine.” Questo era stato uno dei maggiori
punti di disaccordo tra lei e Paige. Quello che per lei era
accettabile, per Paige era un casino. A quanto pareva, con Jubilee si
sarebbero trovate sulla stessa lunghezza d’onda.
“Ti piacciono i System of a Down?” le chiese Jubilee mentre
raccoglieva un maglione spiegazzato dal pavimento e lo gettava sul
letto.
“Conosco solo qualche canzone.” rispose Meredith.
“”Sorrow” e “Toxicity”, hai
presente?” Jubilee annuì vigorosamente. “Oh, e anche
“Atwa”.”
“Ma allora ti devo assolutamente far ascoltare “The
Metro”!” esclamò Jubilee battendo le mani.
“Vedrai che ti piacerà tantissimo.” Si fermò
di colpo e guardò Meredith. “Ovviamente, se ti
va...” aggiunse con cautela.
“Ma sì, certo.” si affrettò a rassicurarla
Meredith. “Certo che mi va di ascoltarla, perché no?”
Jubilee sorrise, sollevata. “Ah, ok.” Meredith le
restituì il sorriso. Non sapeva perché, ma Jubilee le
trasmetteva allegria. “Sai, io tendo ad essere un po’
invadente a volte e...” Si fermò di colpo, e Meredith
stava per chiederle se andava tutto bene quando riprese improvvisamente
a parlare alla velocità della luce. “Ascolta, ma
perché non andiamo giù in mensa a prenderci un bel
gelato, eh? Per festeggiare.”
Meredith guardò l’orologio. “Mi piacerebbe molto, ma veramente io...”
“Oh, ti preeeeego...” Jubilee la implorò a mani
giunte. “Noi dobbiamo festeggiare. Solo dieci minuti. Ti
preeeeego...”
Meredith guardò la sua nuova compagna di stanza. Mancavano
ancora più di quaranta minuti alle quattro, quando avrebbe
dovuto raggiungere John alla catasta per continuare la loro punizione,
e il suo programma era di passarli da sola nell’aula audiovisivi
a guardare un film.
“Ok.” disse infine.
“Evviva!” gridò Jubilee gettandosi verso la porta. Meredith rise.
****
Erano sedute ad uno dei tavoli della sala mensa, mangiando un gelato
alla panna e ridacchiando. Jubilee parlava davvero troppo e, dato che
Meredith parlava troppo poco, il risultato era perfetto.
“Ma dai, non ci credo che ancora non conosci quasi nessuno.” esclamò Jubilee con la bocca piena.
Meredith alzò le spalle e prese un altro cucchiaio di gelato.
“E’ così, invece. Te l’ho detto che non sono
una di compagnia.”
“Oh, andiamo, questo non è affatto vero.” protestò Jubilee.
“Marie! Ehi, Marie!” gridò rivolta ad una ragazza
che passava di fronte alla porta della mensa. Lei venne dalla loro
parte.
Meredith si accorse di conoscerla. Era la fidanzata di Bobby, il ragazzo del ghiaccio.
“Meredith, questa è la mia amica Marie
D’Ancanto.” le presentò Jubilee. “Marie,
questa è la mia nuova compagna di stanza, Meredith...
Meredith...”
“St.Clair.” Meredith concluse per lei. “Noi due ci conosciamo già.” Marie annuì.
“Oh beh, meglio così.” disse Jubilee. “Dove te
ne vai di bello, Marie? Perché non ti siedi qui un po’ con
noi?”
“Veramente stavo andando a studiare.” rispose Marie,
giocherellando con il ciuffo bianco che le cadeva sul viso, così
in contrasto con il resto dei suoi capelli color mogano.
“Oh andiamo, Marie, non fare la secchiona.”
l’apostrofò Jubilee. “Hai tutto il pomeriggio per
studiare. Siediti con noi.” Marie sembrava tentata.
“Aiutaci a finire il gelato.” le disse Meredith, indicando
la coppa che lei e Jubilee stavano dividendosi. “Io sto per
vomitare.”
“Io pure.” confermò Jubilee.
Marie sorrise. “Ok, allora.” disse afferrando un cucchiaino
pulito e sedendosi di fronte a loro. Prese una cucchiaiata di gelato e
se lo portò alla bocca. “Mmm, che buono...”
esclamò ad occhi chiusi. Meredith notò che aveva entrambe
le mani coperte da guanti neri.
“Stavo raccontando a Meredith delle nostre serate popcorn e film,
Marie.” disse Jubilee. “Sapevi che lei ha visto tutti i
film di John Carpenter?”
“Dicendolo così mi fai sembrare una sfigata.”
protestò Meredith prendendo un altro po’ di gelato.
“Ma dai, è una cosa forte. Io lo ho adorato, “Schegge di paura”.” continuò Jubilee.
“Io preferisco i film con meno sangue.” intervenne Marie.
“L’hai visto “Le pagine della nostra
vita”?” domandò rivolta a Meredith.
“No, ma mi piacerebbe. Ho sentito che è molto bello.” rispose.
“Noi lo abbiamo preso a noleggio la scorsa settimana e abbiamo
pianto come fontane.” Jubilee confermò annuendo
vigorosamente. “Cioè, i ragazzi erano più
sull’orlo del suicidio, a dir la verità...”
Tutte e tre risero. “Se ti piace il cinema, perché non ti
unisci a noi qualche volta?” le propose Marie. “A noi
farebbe piacere.”
“Assolutamente.” confermò Jubilee.
Da quanto tempo non guardava un film in compagnia? Secoli,
probabilmente. Quando era in orfanotrofio, spesso usciva di nascosto e
si infilava in un cinema per tutto il pomeriggio, ma sempre da sola. Si
ricordò di quando lei e Evie guardavano e riguardavano la
videocassetta di “The Nightmare Before Christmas” sdraiate
sul divano. Sembrava passato un intero millennio.
“Sì, anche a me farebbe piacere.” Sorrise, e Marie e Jubilee fecero altrettanto.
“Ehi piccola, ma dov’eri finita?” Un ragazzo alto e
con i capelli castani avanzò verso di loro. Meredith riconobbe
Bobby. “Dove sei stata?” domandò rivolto a Marie
“Ti cerco da venti minuti.” Si chinò a baciare la
sua ragazza sui capelli, ma lei si ritrasse.
“Scusa, Bobby, mi dispiace tanto.” disse “Stavo
venendo in biblioteca, ma poi le ragazze mi hanno tentato con questo
buonissimo gelato...”
“Uhm, gelato...” esclamò Bobby fissando con golosità la coppa.
“Prego, Bobby non fare complimenti.” disse Jubilee.
“Grazie, Lee.” Si sedette di fianco a Marie e usò il
suo cucchiaino per prendere una grossa porzione di gelato.
“Bobby, ma che schifò!” protestò lei.
“Perché?” domandò lui. “Non ho mica paura dei tuoi germi...”
“Forse Marie si riferiva ai tuoi, di germi...” ridacchiò Jubilee.
“Non dare ascolto a queste due vipere, Meredith.” disse Bobby rivolgendole un sorriso.
“Ehi, indovina chi ha una nuova compagna di stanza?” esclamò improvvisamente Jubilee.
Bobby guardò prima lei e poi Meredith. “Davvero?”
Scoppiò a ridere. “Condoglianze, Meredith.” Jubilee
gli fece una pernacchia.
“Come mai questo spostamento?” domandò Marie.
Prima che Meredith potesse rispondere Bobby intervenì. “La
dottoressa Grey ha fatto parecchi cambiamenti negli alloggi. Secondo
lei alcune stanze erano male assortite, per cui ha voluto mettere
insieme persone che hanno più chance di andare
d’accordo.”
Alcune voci che aveva sentito dicevano che Bobby era uno dei più
vecchi studenti della scuola, quindi probabilmente aveva delle fonti
attendibili all’interno del corpo docente. Meredith fu contenta
di sapere che la cosa non riguardava solo lei.
“Beh, con me e Meredith ci ha azzeccato.” rise Jubilee.
“Quando è entrata in camera c’erano vestiti fin sul
soffitto, eppure lei non ha fatto una piega.”
“Perché credevo che fosse la mia, quella felpa sul
lampadario...” disse Meredith. I quattro ragazzi seduti al tavolo
risero.
“Sai che Meredith ha visto tutti i film di John Carpenter?” disse Jubilee, questa volta rivolta a Bobby.
“Davvero?” chiese lui “Anche “La cosa”?” Meredith confermò.
“Spesso noi prendiamo un film, e...” cominciò Bobby.
“L’abbiamo già invitata.” lo informò Marie.
“Ok, fantastico.” disse Bobby “Se avessimo saputo che ti piace il cinema ti avremmo invitata prima.”
Prima che Meredith potesse dire qualcosa, una voce conosciuta si intromise.
“Ah, eccoti qui, bello...”
John Allerdyce entrò nella mensa e si diresse al loro tavolo. Si
fermò a qualche metro da loro, però, quando si accorse di
chi era seduto lì con il suo amico. Il suo sguardo offeso
indugiò per qualche secondo su Meredith prima di tornare su
Bobby.
Meredith si ricordò di come lo aveva trattato la sera prima e si sentì profondamente in colpa.
“Non lo sapevo che eri occupato, amico. Ci vediamo dopo in camera.” disse John.
“Perché non ti siedi qui con noi, John?” lo invitò Marie.
“No, grazie, davvero non posso.” rispose. “Purtroppo
adesso ho da fare. Ci si vede più tardi.” Detto questo, si
voltò e uscì dalla stanza. Meredith la guardò
andare via, a disagio.
“Ehm, credo di dover andare anch’io.” disse guardando l'orologio.
Bobby la guardò. “Sì, lo immaginavamo.”
Meredith guardò prima lui, poi Marie, poi Jubilee. Abbassò gli occhi. “E così lo sapete, eh?”
“Sì, John ha accennato qualcosa a proposito di un
tentativo di lapidazione.” disse Marie. “Ma vorremmo
sentire la tua versione, naturalmente.”
Meredith raccontò brevemente del cortiletto e del lancio finito male.
“Sì, immaginavo una cosa del genere.” rise Bobby.
“Non mi fraintendere, John è pieno di qualità, ma
non riuscirebbe ad afferrare qualcosa al volo nemmeno se avesse le mani
coperte di Superattak.”
Di nuovo, Meredith rise. “Ora devo proprio andare.”
“Ti aspettiamo per cena.” disse Jubilee. “Vuoi sederti con noi?”
“Certo che sì.” rispose Meredith. Jubilee sorrise.
“Buon lavoro, Meredith. E non permettere al vecchio John di battere la fiacca.” le raccomandò Bobby.
Si salutarono e Meredith uscì dal salone, meditando su come
fosse cambiata in fretta la sua giornata. Quasi perdonava alla
dottoressa Grey di averle di nuovo letto nel pensiero senza chiederle
il permesso.
****
Quando arrivò alla catasta, John era già piegato sul
cavalletto a segare un pezzo di legno. La sua maglietta e la sua felpa
giacevano sul prato.
“Ehi, avresti dovuto aspettarmi!” lo chiamò Meredith correndo verso di lui.
Il ramo si divise in due con un colpo secco. John afferrò i due
tronconi e li buttò nel mucchio della legna già tagliata
che, a onor del vero, era aumentata parecchio nell’ultima
settimana. Si asciugò la fronte con il braccio e poi, sempre
senza degnare Meredith di una sola occhiata, afferrò un altro
ramo e lottò per portarlo sul cavalletto.
“Aspetta, ci penso io.” si affrettò a dire Meredith,
sollevando il ramo coi suoi poteri e posandolo sul cavalletto.
Si misero a segarlo in silenzio. Di tanto in tanto, Meredith gli
lanciava delle occhiate furtive, ma John continuava a guardare in basso.
“Non avresti dovuto iniziare senza di me. Siamo in punizione
insieme, non è giusto che ti sobbarchi del lavoro da
solo.” gli disse. John la ignorò. Meredith sentiva il
senso di colpa mordergli le viscere come un serpente.
“Allora...” tentò di nuovo dopo un po’. “tu e Bobby vi conoscete da molto?”
“Ah, oggi ti va di fare conversazione?” rispose lui sempre senza guardarla.
Meredith si sentì avvampare. “Senti, mi dispiace per come
mi sono comportata ieri sera. Non ce l’avevo con te.”
"Vorrei ben vedere." sibilò lui.
Meredith aprì la bocca per dire qualcos'altro, ma poi rinuciò.
Segarono un ramo, e poi un altro, in totale silenzio. Intorno a loro,
il parco sembrava altrettanto pacifico. Solo un leggero soffio di vento
muoveva di tanto in tanto le foglie degli alberi che stavano ormai
cominciando ad ingiallire. Meredith sospirò. Il ramo che stavano
segando ora era spesso e nodoso, e stavano faticando moltissimo per
tagliarlo.
I movimenti di John erano irruenti, quasi rabbiosi. Il sudore gli
colava sul petto nudo, luccicando al sole del tardo pomeriggio. La sua
carnagione era forse un po' troppo chiara, ma era fatto bene, non
troppo muscoloso ma nemmeno troppo magro.
"Vuoi tenere la lama dritta, dannazione?" le gridò lui all'improvviso. "Non combiniamo niente così!"
"Sei tu che pieghi la lama!" rispose Meredith. "E non mi urlare!" Lui imprecò a bassa voce.
"Guarda che stasera mangerò al vostro tavolo." gli disse
Meredith, sforzandosi di parlare con calma. "Dovrai guardarmi per
forza."
John alzò gli occhi, ancora offuscati dal risentimento. "Dai, ti
ho chiesto scusa." proseguì Meredith. "Per quanto ancora vuoi
fare l'offeso? Non possiamo solo... andare avanti?"
Lui tornò a guardare il ramo. "Su, ricominciamo." disse. Non era
un ordine secco. Sembrava stesse sforzandosi di essere gentile.
Meredith si affrettò ad obbedire. "E tieni il polso dritto." l'ammonì. Lei alzò gli occhi al cielo.
Quel ramo si rivelò essere davvero un osso duro. Ci stavano
mettendo tutta la loro forza, ma proprio non riuscivano a tagliarlo.
Dopo un po' Meredith si rese conto che aveva appoggiato la mano
sinistra su quella di lui. Era incredibilmente calda. La pelle era
leggermente umida di sudore, e ruvida, come se fosse abituato al lavoro
manuale. Si chiese se doveva spostare la mano. A John sembrava non dare
fastidio, forse non se n'era neanche accorto. Alla fine decise di
lasciarla.
Improvvisamente il ramo si spaccò in due, e Meredith si
affrettò a togliera la mano da quella di John prima che lui se
ne accorgesse. Entusiasta, afferrò una delle due metà e
la gettò tra la legna tagliata. "Quello era troppo lungo." disse
John.
Lei lo guardò per qualche secondo. "Sì, ma di poco." disse infine. John sorrise.
Felice di quella breccia, Meredith gli restituì il sorriso.
"Ti secca che stasera mangi con i tuoi amici?" chiese mentre trasportava un altro ramo.
"No." rispose John.
"Prima sembravi infastidito."
"Ero ancora incazzato per ieri sera."
"E adesso non lo sei più?"
"Insomma!" sbuffò lui spazientito. "Ti preferivo quando non mi rivolgevi la parola. Mi sembri la Grey."
Meredith fu sul punto di confessargli che era per colpa della
dottoressa Grey se la sera precedente era così sconvolta, ma poi
si morse la lingua. Avrebbe fatto troppe domande su cose che lei non
aveva voglia di raccontare.
"Chi ti ha invitato? Bobby?" chiese lui.
"Jubilee."
"Lo sapevo. Tenesse la bocca chiusa, una buona volta..."
"E' la mia nuova compagna di stanza." disse Meredith, sulla difensiva.
"Buon per te." disse John, sarcastico.
In quel momento arrivò Logan a dirgli che per quel giorno
avevano finito. Meredith sistemò gli attrezzi e John si rimise
la maglietta, annodandosi la felpa attorno alla vita.
Come al solito, si misero a fumare dietro il capanno degli attrezzi.
Meredith si frugò in tasca in cerca dell'accendino, ma non lo
trovò. Senza dire una parola, John le offrì la fiamma che
teneva nel palmo della mano.
"Grazie." disse Meredith.
John annuì lievemente. "Non c'è di che."
Fumarono in silenzio, come sempre, ognuno perso nei propri pensieri.
.........................................................................................
Ed ecco sistemato anche questo capitolo.
E' vero, John e Meredith non
stanno facendo grandi passi avanti per il momento, ma abbiate fede...
Nel frattempo, se vi andasse di recensire...
Nota: Sono quasi
sicura che "La cosa" sia un film di John Carpenter. Se non fosse
così, fatemelo sapere e mi affretterò a correggere.
A presto con il quinto capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
ItF5
Disclaimer:
Pyro e gli
X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e
alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo
invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.
Ho fatto una ricerca su Wikipedia. Il vero nome di Wolverine, alias
Logan, è James Howlett. Lo scrivo perchè, dato che lo uso
in questo capitolo, non volevo creare confusione.
Comunque basta chiacchere. Enjoy!
......................................................
Settembre finì, così come ottobre. Era ormai metà
novembre, la settimana del Giorno del Ringraziamento, e molti studenti
erano tornati dalle loro famiglie per la breve vacanza.
Meredith e Marie stavano studiando in biblioteca. Qualche tavolo
più in là, Bobby si esercitava con le equazioni di
secondo grado, e John sbadigliava sui compiti di scienze.
L’ultimo mese e mezzo Meredith l’aveva trascorso con il
loro gruppo. Era bello avere qualcuno con cui fare i compiti, dividere
il tavolo a cena, scambiare un’ultima battuta prima di andare a
dormire. Non le era più successo da... beh, da un sacco di anni.
Meredith alzò gli occhi dal libro di letteratura e guardò
fuori dalla finestra. Pioggia e vento sferzavano con rabbia i vetri, e
di tanto in tanto un tuono li faceva sobbalzare sulla sedia. Il suo
sguardo si posò sui suoi compagni. Bobby stava mordicchiando una
matita e, probabilmente soprappensiero, l’aveva congelata quasi
fino alla punta.
I pomeriggi li trascorrevano quasi sempre così, a studiare in
biblioteca o ad allenarsi in palestra. Quando il tempo era ancora
accettabile, prima di cena lei e Marie facevano jogging nel parco della
villa. La sera di solito cazzeggiavano finché era ora di andare
a dormire, oppure noleggiavano un film. In un paio di occasioni erano
andati al cinema, giù in città. Avevano gusti diversi, ma
erano riusciti a stabilire una buona alternanza tra commedie
disimpegnate, film d’autore ed emerite cazzate. Marie preferiva i
film d’amore, Jubilee (appoggiata da Meredith) gli horror e i
ragazzi gli ammazzamenti alla Rambo.
Da quando era iniziato il brutto tempo il professor Xavier aveva deciso
per una sospensione della pena, per cui lei e John non si trovavano
più in giardino a scontare la loro condanna sulla legna da
ardere. I loro rapporti erano molto diminuiti. Si vedevano ogni santo
giorno, ma John stava sempre sulla difensiva. E non solo con lei, con
tutti, Bobby a parte. Stava con loro, mangiava al loro stesso tavolo,
guardavano la tv seduti fianco a fianco, ma mai che si lasciasse andare
davvero. Ogni tanto lasciava cadere una battutina sarcastica, e finiva
lì. Ormai non ci faceva neanche più caso.
Meredith guardò l’orologio. “Sono le cinque,
ragazzi.” disse raccogliendo le sue cose. “La dottoressa
Grey mi aspetta per il mio allenamento di telepatia.”
Marie alzò gli occhi dal libro e si stiracchiò. “Ok. Ci si vede dopo in sala comune.” le disse.
“A dopo, Meredith.” la salutò Bobby. John si limitò ad alzare una mano.
Meredith si diresse verso l’ala della scuola dove si trovavano le
aule. Aveva ancora i suoi problemi con la telepatia. C’erano
giorni in cui le sembrava di aver fatto passi da gigante, altre in cui
non riusciva a captare neanche una sillaba. La dottoressa Grey diceva
che era colpa della pubertà, ma lei sospettava ci fosse
dell’altro.
Arrivò all’aula insonorizzata in cui si tenevano le
esercitazioni di telepatia. Jean Grey era già lì, e
guardava assorta fuori dalla finestra.
“Mi scusi per il ritardo, dottoressa.” disse Meredith entrando.
Lei si voltò e le sorrise. “Niente affatto, sei puntualissima. Come ti senti oggi, Meredith?”
“Bene.” rispose posando la sua borsa.
“Mi fa piacere. Iniziamo subito, se sei d’accordo.”
Meredith annuì. "Direi di cominciare dai cartoncini.”
propose la Grey prendendo una scatola da una degli scaffali.
Meredith si sedette al tavolo che occupava il centro della stanza e la
Grey prese posto di fronte a lei. Mischiò i cartoncini,
posò la pila alla sua destra e poi prese quello in cima,
mostrandone il dorso a Meredith. “Quando vuoi.” disse.
Meredith la guardò dritta negli occhi. “Quadrato.” disse infine.
La dottoressa girò il cartoncino.
Cerchio.
“Non fa niente.” la confortò. “Proviamo ancora.” Estrasse un altro cartoncino dal mucchio.
Meredith lo fissò come se volesse bucarlo con lo sguardo, poi guardò la Grey. “Fiore.”
Rombo.
Meredith sospirò, frustrata. “Non perdere la
pazienza.” l’ammonì la dottoressa. Prese un altro
cartoncino.
Questa volta Meredith si concentrò a lungo prima di parlare. “Casa.”
Triangolo.
Meredith scosse la testa. Oggi decisamente non era la sua giornata.
Cominciava seriamente ad odiarla, la sua telepatia ad intermittenza.
“Rimani concentrata, Meredith.” disse la Grey prendendo il quarto cartoncino.
Meredith fissò intensamente il dorso della carta. Fa che sia un rombo. pensò. Fa che sia un rombo. Fa che sia un rombo. Fa che sia un rombo. Fa che sia un rombo. Oh ti prego, fa che sia un rombo...
La dottoressa Grey girò di scatto la testa di lato, come su
qualcosa l’avesse colpita. Guardò Meredith stupefatta.
“Stavi pensando ad un rombo?” le chiese.
Meredith non riusciva a capire cosa stesse succedendo. “Beh, io... cioè sì, ma...” balbettò.
La dottoressa guardò il cartoncino che aveva in mano, poi
Meredith. Lentamente posò la carta sul tavolo. C’era
disegnato un quadrato verde.
“Quando tu guardavi la carta, io ho visto un rombo, Meredith, e non un quadrato.” le spiegò a bassa voce.
“Beh, io ho desiderato che fosse un rombo.” disse Meredith “Forse mi ha letto nel pensiero.”
La dottoressa Grey scosse la testa. “No, io ho visto un rombo, non ho sentito
te pensare ad un rombo...” Si alzò. “Rimane solo da
capire se il tuo potere è quello di manipolare la materia, o la
mente...” disse, rivolta più a se stessa che a Meredith.
Meredith si sentì mozzare il fiato. “Come scusi?” farfugliò.
La dottoressa Grey si risedette. “Cerca di farmi vedere qualcosa,
Meredith, o di convincermi di qualcosa, come preferisci.”
Meredith non riusciva a pensare a nulla. Farle vedere qualcosa... e
come avrebbe dovuto farlo? Ok, il segreto è visualizzare, no?
Doveva pensare a qualcosa di conosciuto, qualcosa che fosse facile per
lei da ricordare... La sua camera...
Guardò Jean Grey dritta negli occhi. Noi non siamo qui. pensò. Non
siamo nell’aula di telepatia, no, siamo nella mia stanza, nella
stanza di Meredith St.Clair e Jubilation Lee, su al secondo piano del
dormitorio femminile...
Meredith visualizzò la porta che si apriva, il letto di Jubilee
a sinistra, il suo a destra. Vide i poster sull’armadio, i libri
e le penne sparse sulla scrivania, la coperta blu sul suo letto e il
peluche di Snoopy seduto composto sul letto di Jubilee, sopra le
lenzuola arancione...
Jean Grey sorrise. “Mi piace come avete decorato la stanza, anche
se io non riuscirei a vivere in tutto quel disordine. Quel pupazzo di
Snoopy è davvero adorabile.”
“E’ di Jubilee.” disse Meredith, ancora frastornata
da quello che stava accadendo. E se la dottoressa avesse ragione? E se
fosse stata davvero capace di manipolare la mente?
“Non è possibile che lei mi abbia letto nel
pensiero?” domandò non volendo farsi illusioni troppo
presto. “E l’abbia... immaginato?”
La Grey ci pensò su. “E’ improbabile. Ma
naturalmente dobbiamo esserne totalmente sicuri.” Si alzò.
“Aspetta qui, io torno subito.” Uscì a passo svelto
dalla stanza.
Meredith rimase sola, con un turbinio di pensieri che le si agitavano
nel cervello. Forse era per questo che non riusciva a leggere nei
pensieri delle persone. Forse la sua telepatia funzionava solo in
uscita, e non in entrata...
Si sentiva euforica, ma anche un po’ spaventata. Manipolare la
mente... le sembrava una cosa un po’ fuori dalla portata di una
sedicenne. E quel verbo la inquietava un po’. Di solito,
“manipolare” non significava nulla di buono.
La porta si aprì e la dottoressa Grey rientrò seguita da
Logan. “Il professor Howlett ha gentilmente accettato di
aiutarci.”
Logan le sorrise debolmente. Era palese che non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo lì.
“Come sai, il professore non ha alcuna capacità
telepatica.” proseguì la Grey. “Mostra anche a lui
ciò che hai mostrato a me, Meredith.”
Meredith si alzò in piedi e guardò Logan. Di nuovo vide
la porta della camera aprirsi, i letti ed il peluche di Snoopy...
“Basta così, Meredith.” La voce della dottoressa Grey sembrava arrivare da un chilometro di distanza.
Meredith sbattè un paio di volte le palpebre e la stanza
sparì dalla sua vista. Logan si passava le mani sugli occhi,
confuso.
“Dio mio...” disse “Per un attimo mi è
sembrato di essere in una stanza da letto, invece che qua...”
Meredith guardò Jean Grey, trionfante. Ma allora era tutto vero...
“Mi domando se tu riesca a manipolare anche la volontà,
oltre che le percezioni...” disse la dottoressa, meditabonda.
“Meredith, prova a comandare al professor Howlett di fare
qualcosa .”
“Ehi Jean, aspetta un momento...” protestò lui.
“Ti prego, Logan, è molto importante. Libera la mente
adesso.” Lui sembrò rassegnarsi. “Quando vuoi,
Meredith.” disse la dottoressa.
Meredith fissò Logan negli occhi. Era difficile non farsi intimidire...
Esci dalla stanza, pensò. Vai, girati ed esci. Cammina fino alla porta ed esci! Esci, fallo subito, ora!
Gli occhi di Logan sembravano fuori fuoco. Lentamente, si voltò
su se stesso, e fece un passo verso la porta. E poi un altro. E un
altro ancora. I suoi movimenti erano lenti, i passi strascicati. Mise
la mano sulla maniglia... Ad un tratto si raddrizzò e
lasciò cadere la mano che aveva sollevato.
“Che diavolo...” disse con il suo pesante accento canadese. “Questa me la paghi, Jean...”
La dottoressa Grey la guardò con approvazione.“E’
incredibile, Meredith. Un primo tentativo eccellente. Avevi chiesto al
professore di uscire dalla stanza, vero?” Lei annuì.
“C’eri quasi riuscita. Credo che la concentrazione che ti
è necessaria per manipolare le persone dipenda dal grado di
remissività del soggetto... Naturalmente il professor Howlett si
aspettava il tuo attacco.”
Meredith guardò Logan, che stava ancora massaggiandosi le
tempie. “Mi scusi, professore.” disse con un debole sorriso.
Lui alzò una mano. “Non fa niente, Meredith.” disse,
ma era abbastanza chiaro che l’esperienza l’aveva fiaccato.
“Parlerò con il professor Xavier al più
presto.” continuò la dottoressa Grey. “Nel
frattempo, credo che dovremo continuare i tuoi allenamenti di
telepatia.”
“Forse è questa la mia abilità.”
obiettò Meredith. “Forse sono in grado di far vedere delle
cose alle persone, e non di leggere la mente.”
“No, non credo che sia così.” disse la dottoressa
Grey. “Credo che tu sia in grado di fare entrambe le cose.”
Guardò l’orologio. “Ma adesso è tardi e tu
hai bisogno di riposarti un po’. Riprenderemo questo discorso
domani.”
Meredith prese la sua borsa, salutò i professori e si diresse
alla sala comune. Non vedeva l’ora di dirlo agli altri. Creare
visioni, manipolare la volontà... finalmente non si sentiva
più un’incapace.
Improvvisamente ricordò l’espressione di Logan quando
aveva preso il controllo della sua mente, e il suo entusiasmo si
raffreddò. Ripensò ai suoi occhi vitrei, a quei movimenti
lentissimi, fiacchi... Lo rivedeva muoversi verso la porta come uno
zombie...
Arrivò alla sala comune e vide i suoi amici raggruppati davanti alla tv con un’espressione preoccupata.
“Ehi, che succede?” chiese avvicinandosi a Bobby.
“Un altro di quegli affascinanti signori della Lega Contro i Mutanti sta tenendo uno dei suoi comizi.” rispose lui.
In televisione, un uomo in doppiopetto grigio si agitava su di un podio. Una folla di gente applaudiva e lo incitava.
“Credevo che avessero smesso con questa roba.” disse Jubilee.
John rise. “Benvenuta nel mondo reale, Biancaneve.”
Meredith continuò a fissare la televisione. L’uomo in
doppiopetto si agitava sempre più, e dalla folla si alzò
un coro: “No-ai-mutanti! No-ai-mutanti! No-ai-mutanti...”
“Non dovrebbero permettergli di fare così.” disse con rabbia. “Non è giusto.”
John la guardò sorpreso. Bobby alzò le spalle
tristemente. “Questo è un paese libero. Possono dire
ciò che vogliono.”
“Sì, ma questa è discriminazione!”
proseguì testardamente Meredith. “Non c’è
scritto da qualche parte nella Costituzione: “Tutti gli uomini
sono creati uguali.”?”
“Finché parlano e basta” disse Bobby “la
Costituzione garantisce loro la libertà di pensiero.”
“Loro hanno la libertà di pensiero.” intervenne
John. “E noi quali diritti abbiamo? Solo di crepare?”
Jubilee sussultò. Marie esclamò: “John!”
“Guarda che qui nessuno sta parlando di uccidere!” rispose Bobby.
“Ma dai amico, leggi tra le righe! Cosa aspettiamo, che imbraccino il fucile?” chiese John.
“Va bene, adesso basta così.” disse Jubilee.
“Parliamo di qualcos’altro ragazzi, d’accordo?”
Si voltò verso Meredith. “Come è andato
l’allenamento, Meredith?”
“Direi bene.” rispose lei. “Ho scoperto che so manipolare la mente delle persone.”
“Sul serio?” chiese Marie.
“Meredith, ma è una figata pazzesca!” esclamò Jubilee.
“Sul serio?” ripeté Bobby.
Meredith rise. “Sì. La Grey mi ha fatto esercitare su
Logan... Gli ho fatto credere di essere in camera nostra su di sopra,
invece che nell’aula di telepatia...”
“Wow, esperimenti su cavie umane...” disse Bobby.
“Riesco anche ad obbligare la gente a fare delle cose.” continuò Meredith, stavolta con meno entusiasmo.
“Dimmi che hai obbligato Logan a dare testate contro il muro e diventi il mio idolo personale.” disse John.
“Questa avrei proprio voluto vederla...” rise Bobby, che sembrava divertirsi un mondo.
“Ci fai vedere?”, chiese Marie.
“Su John, magari.”, suggerì Jubilee.
“Non ci provare.” l’avvisò lui. “Obbliga
quel primino laggiù a calarsi i pantaloni.” disse
indicando un ragazzino occhialuto in fondo alla stanza.
“Ragazzi, no!” disse seccamente Bobby.
“Va bene, va bene, stavo solo scherzando.” si
giustificò John alzandosi. “Sto morendo di fame.
Quand’è che arriva l’ora di cena?”
“Credo che potremmo anche cominciare ad andare in sala
mensa.” disse Jubilee guardando l’orologio. “Ehm,
Meredith? Per quanto io lasci la camera in disordine, tu non mi
obbligheresti mai a togliermi i pantaloni in sala comune, vero?”
........................................................................
Un
altro capitolo con poco John, me ne rendo conto. Ma abbiate fede
nell'autrice, che per la prima volta nella sua "carriera"
di fanwriter ha ben chiara la destinazione che i nostri beneamati
personaggi raggiungeranno.
A presto con il capitolo 6!
P.S: Un grazie di cuore a
Star_Dust_Daga che ha recensito! Grazie davvero stavo per perdere le
speranze! Spero proprio che questo nuovo capitolo ti sia piaciuto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
ItF6
Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
.........................................................................
Passarono i giorni e le settimane, ma per quanto si esercitasse
Meredith aveva ancora problemi con la telepatia. Di contro, riusciva a
controllare i suoi nuovi poteri con sorprendente abilità. La
dottoressa Grey le aveva spiegato che non tutte le capacità sono
presenti in un mutante fin dalla nascita: può accadere che uno
abbia delle “abilità latenti” che rimangono sopite
fino allo sviluppo.
Meredith era contenta che fosse stato così per lei. Se avesse
avuto la capacità di manipolare la mente delle persone quando
era troppo piccola per controllarsi, avrebbe rischiato seriamente di
far male a qualcuno.
Il giorno successivo la scoperta delle sue nuove capacità il
professor Xavier l’aveva chiamata nel suo studio. Si era
congratulato per i suoi progressi, ma l’aveva anche messa in
guardia riguardo ai pericoli che i suoi nuovi poteri comportavano.
“Essere in grado di piegare le persone alla propria
volontà comporta un grande peso morale, Meredith.
C’è una linea sottilissima che separa la necessità
dall’abuso, e tu dovrai sempre sforzarti di distinguerla.”
Meredith era assolutamente d’accordo con il professore. Non aveva
voglia di andare in giro a trasformare in zombi le persone intorno a
lei.
Mancavano due settimane a Natale, e gli studenti percorrevano vocianti
i corridoi, felici delle vacanze che si avvicinavano. Dopo la lezione
di geometria, Meredith e Jubilee raggiunsero gli altri in sala comune,
già gremita di ragazzi che chiacchieravano buttati qui e
là sulle poltrone o commentavano i video di Mtv che scorrevano
sul video del televisore.
Bobby e Marie sedevano accanto al caminetto, intenti a ripassare per l’interrogazione di storia.
Meredith guardò il fuoco che scoppiettava nel camino.
“Ehi, lo riconosco quel ramo!” disse, ma gli altri non
sembrarono afferrare.
“Come è andata la lezione di Summers?” chiese Marie.
“Al solito.” rispose Meredith sedendosi di fronte a loro. “Siete pronti per l’interrogazione?”
“Insomma...” disse Bobby con una smorfia.
“Ma finiscila, piagnone, dici sempre così e poi prendi il
massimo dei voti.” l’apostrofò Jubilee.
“Ehi, che ci posso fare se sono un perfezionista?” si giustificò lui.
John arrivò e si lasciò cadere su una sedia. “Dio, che giornata di merda...” mugugnò.
Bobby gli diede una pacca sul ginocchio. “Che c’è?
Logan ti ha massacrato alla lezione di combattimento corpo a
corpo?”
“Quell’energumeno canadese ci ha spaccato la schiena a
flessioni. Brutto bastardo...” John guardò la legna che
bruciava nel camino e fece una smorfia. Meredith sorrise.
“Uh, quanto sei delicatino...” lo provocò Jubilee.
“Vaffanculo, ok?” rispose piccato lui, punto sul vivo.
“Vaffanculo?” ripeté Jubilee.
“Sì, vaffanculo.”
“Va bene, adesso basta.” intervenne Marie. “Finitela, sembra di essere all’asilo.”
“Ha cominciato lei.” protestò John.
“Che dite, andiamo a fare un paio di vasche alla piscina
coperta?” propose Jubilee. “Non ho voglia di
studiare.”
“Mi piacerebbe.” disse Marie. “Ma tra mezz’ora io e Meredith abbiamo la nostra lezione di teatro.”
“Perdete ancora tempo con quelle cavolate?” chiese John, sarcastico.
“Forse saranno cavolate per te, Shakespere.” rispose
Meredith “Ma a noi poveri comuni mortali non dispiacciono.”
Lui liquidò la disputa con un gesto della mano. “Come ti pare.” disse indolentemente.
In quel momento entrò la signora Manh, la segretaria della scuola. “Meredith St.Clair?” chiamò.
Meredith si alzò. “Sono io.”
“C’è una telefonata per te in segreteria.”
“Per me?” si stupì Meredith. “Ma ne è sicura?”
“Assolutamente.” rispose la signora Manh.
Meredith guardò i suoi amici e fece spallucce. “Ci si vede tra un po’, ragazzi.”
****
Dieci minuti dopo, Meredith tornò dalla segreteria alla sala
comune. Un passo, poi un altro passo, poi un altro. Non c’era
nessuna voce intorno a lei, nessun suono, nessun viso. Un altro passo,
e poi un altro. Il mondo era sparito, inghiottito nel profondo
dell’universo, ma lei continuava a camminare, anche se il suo
corpo si era dissolto nel nulla e lei non lo sentiva più, non
sentiva più niente.
Doveva essere rimasto qualcosa del suo viso, tuttavia, perché
quando lo spettro di Meredith St.Clair apparve sulla porta della sala
comune i suoi amici smisero improvvisamente di sorridere e la
guardarono stupefatti.
“Meredith...” bisbigliò Marie.
Sentì una voce dire: “Mia sorella si è uccisa.”
Solo quando Jubilee si coprì la bocca con le mani, scioccata, e
Bobby si alzò per abbracciarla Meredith si accorse che quella
voce era la sua.
****
Meredith scese nell’atrio con la valigia in mano. In fondo alle
scale, la professoressa Munroe l’aspettava con uno sguardo
insieme triste e preoccupato.
“Il professor Howlett è andato a prendere la
macchina.” disse quando Meredith la raggiunse. “Ti
accompagnerà lui all’aeroporto. Questi sono i tuoi
biglietti.” Glieli porse. “E questo è
l’indirizzo del tuo albergo. Il soggiorno è già
stato pagato, perciò non preoccuparti di niente. Qui ti ho
scritto anche qualche numero utile, nel caso avessi bisogno di
qualcosa.”
Meredith prese le carte che la professoressa le porgeva. “Grazie.” disse.
Un paio di ragazzine attraversarono l’atrio, dirette in mensa per
la colazione. Guardarono la sua valigia, poi Meredith, e si
allontanarono parlottando. Vista la sua reputazione, probabilmente
pensavano che la stessero buttando fuori.
Anche Meredith guardò la sua valigia. Non era sua.
Gliel’aveva prestata Jubilee. La sua valigia era troppo grande, e
lei sarebbe stata via solo qualche giorno.
“Meredith,” iniziò la Munroe. “davvero non vuoi che qualcuno...”
Sapeva cosa stava per chiederle, perché si era sentita ripetere
quella domanda un centinaio di volte nelle ultime quattordici ore, da
almeno venti persone diverse.
“No.” tagliò corto Meredith. “Va bene così.”
La professoressa Munroe non sembrò contenta della sua risposta,
ma non insisté oltre. In quel momento arrivarono Bobby, Jubilee
e Marie.
“Tieni duro, compagna di stanza.” disse Jubilee mentre l’abbracciava.
“Sei sicura di volerci andare da sola?” la chiese Marie,
posando una delle sue mani inguantate sulla spalla di Meredith.
“Sì. Andrà tutto bene.” Aveva ripetuto quella
frase talmente tante volte che ormai le parole le uscivano in
automatico.
La porta di ingresso si aprì ed entrò Logan, il naso e le mani rosse per il freddo.
“La macchina è qui fuori.” disse guardando Meredith. “Se sei pronta...”
Lei annuì. “Certo.”
Logan prese la valigia e Meredith salutò un’ultima volta i
suoi amici. La professoressa Munroe l’accompagnò fuori.
Tutto era coperto da uno spesso manto bianco. Gli alberi sembravano
spezzarsi sotto il peso, e anche la fontana che sorgeva al centro del
cortile era ghiacciata.
Aveva nevicato la notte precedente. La prima nevicata della stagione.
Logan sistemò la valigia nel portabagagli. “Telefona
appena arrivi in albergo, tesoro, ok?” le disse la professoressa
Munroe, e poi la strinse. A Meredith sembrò che una lacrima
solcasse il suo bel viso scuro.
Logan mise l’auto in moto ed imboccarono il lungo viale alberato
che dalla villa portava alla strada principale. Erano circa a
metà del viale quando a Meredith sembrò di vedere, in
lontananza, una fiamma intermittente sprigionarsi da un albero. Man
mano che l’auto si avvicinava, però, Meredith si accorse
che non era il tronco ad emettere il fuoco. C’era una figura
appoggiata all’albero, la figura di un ragazzo in jeans e
giubbotto di pelle. Quando l’auto gli passò accanto, John
alzò la mano destra in segno di saluto. Meredith fece
altrettanto.
Rimase voltata a guardarlo sparire in lontananza finché la sua fiamma non svanì dietro una curva.
..............................................................................
Ebbene sì.
Povera Meredith. E povera Evie. Mi sento un po’ in colpa ad
assassinare così i miei personaggi... Ma per quanto doloroso,
è necessario allo scopo.
Il capitolo è un po’
corto e me ne scuso. Vi posso anticipare fin da ora che il settimo
compenserà questa mancanza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
ItF7
Disclaimer: Pyro
e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla
Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti
per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Ecco il nuovo capitolo. E’ piuttosto triste, quindi tenetevi pronti una bella scatola di Kleneex.
.................................................................................................
L’Interstate 87 si snodava sotto di loro come un lungo serpente
d’asfalto. Ora che avevano lasciato l’area urbana di New
York City il traffico era un po’ diminuito, ma cominciava a
fare buio e la strada era scivolosa per via del ghiaccio. Ci avrebbero
messo almeno un paio d’ore ad arrivare a North Salem.
Rivedere la neve l’aveva stupita. A Phoenix il sole era caldo e
la terra asciutta, e lei si era dimenticata dell’esistenza della
neve. Si ricordò vagamente che aveva nevicato la notte prima
della sua partenza, e in cinque giorni la neve non si scoglie, non
nello stato di New York.
Logan spostò la mano destra dal volante all’autoradio,
come se volesse accenderla, ma poi sembrò aver cambiato idea.
“Se vuole accendere la radio, per me non c’è
problema.” gli disse Meredith. “Non mi dispiacerebbe un
po’di musica.”
Logan posò per un istante gli occhi su di lei. “Davvero?”
“Davvero.” confermò Meredith.
Lui accese la radio, e le note di una canzone pop risuonarono
nell’abitacolo. Logan si affrettò a cambiare stazione. Era
a disagio. Quando l’aveva vista apparire dal terminal degli
arrivi nazionali le era andato incontro e l’aveva abbracciata
goffamente. Le aveva chiesto se aveva fame e quando Meredith aveva
risposto di no aveva portato per lei la valigia fino alla macchina.
Dopo vari tentativi, la radio si sintonizzò su una vecchia canzone di Bruce Springsteen.
…Now on the street tonight the lights grow dim
The walls of my room are closing in.
There's a war outside still raging
you say it ain't ours anymore to win…
Evidentemente Logan decise che era la più adatta per
l’occasione perché smise di cambiare stazione. Forse
pensava che si sarebbe offesa se lui avesse lasciato la radio
sintonizzata su una canzone troppo allegra. Dopotutto, la stava
riportando a casa dal funerale di sua sorella.
Meredith si infilò la mano nella tasca di jeans e il bordo della
foto che teneva ripiegata lì le ferì leggermente le dita.
Evie.
L’aveva rivista nel locale interrato delle pompe funebri, il
giorno stesso in cui era arrivata a Phoenix. Hannah non era scesa con
lei, non ce la faceva a guardare sua figlia. Non di nuovo.
Logan mise la freccia e sorpassò un grosso tir nero. Le ombre
degli alberi sul ciglio dell’autostrada si erano fatte più
lunghe. “E’ per via dell’inclinazione con cui la luce
colpisce la terra al tramonto, Meredith.” le aveva spiegato suo
padre tanto, tanto tempo fa. “Più il sole sparisce dietro
l’orizzonte, più le ombre si fanno lunghe.”
Evie era sdraiata su di un lettino di alluminio, solo un lenzuolo a
coprire il suo corpo nudo. Era magra, più magra di come se la
ricordava, forse per via dei mesi passati in strada. I suoi capelli
neri, lunghi e liscissimi, erano pettinati con cura, e quando Meredith
si era avvicinata si era accorta che aveva anche un filo di trucco sul
viso. Si era chiesta se l’avesse il giorno in cui era morta o se
era opera del truccatore delle pompe funebri.
Non l’aveva chiesto. Invece aveva chiesto, con un filo di voce: “Come?”
L’impiegato che era con lei aveva sfogliato nervosamente una
cartella. “Ehm... overdose da diazepam. Mi dispiace.”
“Sì.” aveva risposto lei. Era una risposta stupida.
“Se vuole, può rimanere sola con sua sorella.” le aveva offerto l’impiegato.
Improvvisamente Meredith aveva sentito un’ondata di repulsione
per quell’ometto che si permetteva di girare intorno ad Evie
mentre lei era se ne stava sdraiata nuda.
“Sì.” aveva ripetuto.
L’impiegato aveva detto ancora qualcosa mentre se ne andava, ma
Meredith non aveva ascoltato. Evie aveva ancora lo stesso identico viso
di quando era piccola, affilato ed innocente, con le labbra sottili e
il nasino all’insù e quegli enormi occhi verdi.
Meredith aveva alzato una mano e le aveva accarezzato i capelli. “Evie...” aveva chiamato.
Evie non si era svegliata. Meredith si era ricordata di quando erano
piccole, e la domenica mattina fingevano di dormire finché
papà e mamma non facevano irruzione nella loro cameretta e
cominciavano a far loro il solletico e a riempirle di baci
finché le bambine non iniziavano a ridere e a contorcersi,
rivelando l’inganno. Forse è per questo che non si sveglia, aveva pensato Meredith. Se papà fosse qui, lui le farebbe il solletico ed Evie comincerebbe a divincolarsi e a ridere come una pazza.
Aveva continuato ad accarezzarle i capelli per molto, molto tempo,
finché l’impiegato delle pompe funebri non era tornato a
dirle che dovevano chiudere.
I cartelli stradali passavano davanti al suo finestrino come informi
macchie di colore. La neve non brillava quasi più alla luce del
tramonto. Cominciava a farsi tardi: presto anche gli ultimi raggi di
sole si sarebbero spenti, e sarebbe calata la notte.
Logan accese i fari. “C’è un’area di servizio,
alla prossima uscita.” le disse. “Se vuoi possiamo
fermarci. A scuola ti hanno tenuto in caldo la cena, ma se hai fame
subito, o hai bisogno di usare il bagno...” Alla parola
“bagno” arrossì.
“Sono a posto, grazie.” rispose Meredith.
“Sicura?”
“Sì, sicura.”
Il giorno del funerale era assolato e ventoso. Un vento caldo che
soffiava dal deserto e che portava con sé minuscole particelle
di sabbia.
Erano arrivati alla spicciolata, composti e vestiti di nero. Parenti,
amici, compagni di scuola, persino qualche vicino. Alcuni avevano
riconosciuto Meredith e l’avevano salutata, sorpresi e
imbarazzati. Evidentemente si erano dimenticati di lei finché
non l’avevano rivista ricomparire, e ora si sentivano in colpa
per non essersi aspettati la sua presenza al funerale. In fondo, non
era lei Meredith, quella di cui Evie parlava sempre, la sorella lontana
e mai dimenticata?
Si era seduta accanto ad Hannah. Non perché lo desiderasse, ma
perché era l’unico posto rimasto libero. La gente lo aveva
lasciato a lei di proposito: se Meredith era lì, quel posto era
suo di diritto. Non che non volesse sedersi accanto ad Hannah. Non
provava alcun risentimento per lei, e se ne aveva provato in passato
ora non se lo ricordava più. Ma erano due estranee, due persone
che per un caso fortuito si ritrovavano a piangere la stessa bara.
Hannah seppelliva sua figlia; Meredith sua sorella. Ognuna aveva il
proprio dolore.
Il prete parlava e parlava. Qualcuno dei presenti piangeva, altri
sembravano fissare un punto lontano, trincerati dietro gli occhiali da
sole. Meredith se li era dimenticati e ora li rimpiangeva. Si sentiva
esposta, vulnerabile. Pregò che per una volta la sua telepatia
rimanesse silente. Non le andava di sentire cosa pensassero quelle
persone di sua sorella.
Ad un certo punto si era voltata e circa una decina di metri più
indietro aveva visto, seminascosto dalla statua di un angelo, un
ragazzo bruno e pallido. I suoi vestiti neri erano malmessi e troppo
larghi per lui, e le sue mani sottili stringevano con forza le ali
dell’angelo, come se cercasse conforto dai singhiozzi che
scuotevano il suo corpo magro. Sembrava devastato.
Il prete aveva parlato ancora a lungo e lei non aveva sentito una sola
parola. Si chiese se Evie si sarebbe sentita offesa dal fatto che sua
sorella si era distratta al suo funerale. No, non credeva si sarebbe
offesa. Guardò la bara di legno scuro, e immaginò il suo
minuscolo corpo in quel mare di seta bianca che foderava
l’interno.
L’avevano vestita di nero, il suo colore preferito. Indossava una
gonna e una maglietta a maniche lunghe, calze a rete e anfibi. Meredith
aveva insistito perché la truccassero con l’eyeliner nero
e il rossetto viola, e le mettessero tutti i suoi bracciali e i suoi
anelli. Lo smalto nero che colorava le unghie di Evie era sbeccato, e
Hannah glielo aveva rimesso.
Evie era esattamente come nella foto che lei e Meredith avevano
scattato a Times Square quando Evie era venuta a trovarla a New York,
un anno prima, l’ultima volta che aveva visto sua sorella viva.
Meredith infilò di nuovo la mano in tasca.
Un anno.
Era bastato un anno per trasformare la ragazzina sorridente della foto nel corpo che ora stava chiuso in quella bara.
Hannah le aveva messo tra le mani il suo peluche preferito di quando
era piccola e Meredith aveva deposto la videocassetta di “The
Nightmare Before Christmas” ai suoi piedi, e perfino allora,
mentre componevano il corpo di Evie nella bara, perfino allora Meredith
e Hannah erano lontane anni luce l’una dall’altra, pietose
del loro reciproco dolore ma incommensurabilmente distanti.
Il prete aveva detto qualcosa a proposito del perdono per tutti i
peccatori, e lo sguardo di Meredith era passato dalla bara alla fossa
lì accanto, e poi alla piccola lapide di marmo grigio a circa
mezzo metro di distanza.
Quella lapide portava il nome di John Barrymore, suo padre. Meredith
aveva pensato che metà della sua famiglia era sepolta in quel
pezzo di terra, e l’altra metà stava per raggiungerla.
Il prete aveva benedetto la bara e tutti si erano alzati in piedi. Gli
operai del cimitero, apparsi da chissà dove, avevano preso la
bara e avevano cominciato a calarla nella fossa.
Meredith si era sentita mancare l’aria. Più gli operai
lavoravano, più le sembrava di non riuscire a respirare. Sentiva
il bisogno di strapparsi via la camicia, di gettarsi per terra e di
urlare a pieni polmoni.
“No, no, che fate?” voleva gridare. “Lei
è viva, è viva, fatele il solletico e vedrete se non si
metterà a ridere... Lasciatela uscire, non riesce a respirare
chiusa lì dentro, lasciatela uscire, lei è viva, viva vi
dico...”
Ma la sua parte razionale, quella che sapeva che Evie era morta,
l’aveva costretta a rimanere immobile e in silenzio,
perché lì in quella bara non c’era sua sorella, ma
solo il guscio, l’involucro mortale di quella che un tempo era
stata Evelyne Barrymore Dovunque fosse ora, Evie non poteva
sentire più niente.
Quando la sepoltura era finita la gente si era messa in fila per
fare le condoglianze ai parenti. Meredith si era fatta largo tra la
folla ed era andata dal ragazzo dell’angelo.
Si chiamava Daniel. Davanti ad un cheseburger e ad un bicchiere di
Coca-Cola comprati da Burger King le aveva raccontato degli ultimi mesi
di Evie.
Ormai fuori era tutto buio, e Meredith non riusciva più a
distinguere nulla al di là della luce proiettata dai fari.
C’erano solo poche altre auto in giro, e a parte il ghiaccio
viaggiavano senza intoppi. Una Mustang grigia li sorpassò e
sparì inghiottita dalla notte. Meredith si chiese chi
trasportasse. Immaginò due bambine, una con la carnagione
ambrata e gli occhi grigi, l’altra pallida e bruna, che giocavano
e ridevano sul sedile posteriore.
Daniel e Evie si erano conosciuti in un alloggio per senzatetto, tutte
e due in fuga dalle famiglie che non li capivano, da chi li giudicava
dei diversi, dalla gente che li guardava con compassione se andava bene
e con disgusto se erano sfortunati. Erano rimasti insieme, due cani
bastonati che si facevano compagnia. Tiravano avanti chiedendo
l’elemosina e rubando nei supermercati.
Ma Evie continuava a scappare, a scappare. Daniel sapeva che questo non
andava bene, perché se scappi senza fermarti mai prima o poi ti
cederà il cuore. Aveva cercato con tutto se stesso di proteggere
Evie dal male, da tutto ciò che potesse ferirla.
Ma lei non smetteva di scappare, perché non poteva
smettere, proprio non poteva, capisci? Evie scappava da se stessa, e
per quanto scappasse non riusciva mai a lasciarsi indietro.
E alla fine il suo cuore era scoppiato.
L’avevano trovata riversa su di una panchina, o così gli
avevano detto. Lui non era lì. Forse vergognandosi, o forse come
ultimo gesto d’amore per il ragazzo che amava, Evie era andata a
scrivere il suo ultimo atto dove lui non avrebbe potuto vederla. Era
stata la polizia a trovarla, con il flacone di pillole vuoto in una
mano e il suo biglietto d’addio scribacchiato su di un tovagliolo
nell’altra. Solo quattro parole: “La guerra è
finita.”
Ci avevano messo tre settimane ad identificarla. Di adolescenti ne
spariscono a migliaia e una mutante suicida non è certo una
priorità nazionale. Per tre settimane Evie era rimasta in una
cella frigorifera all’obitorio della contea prima che la polizia
riuscisse a risalire a sua madre, Hannah Barrymore.
A Meredith sembrava di impazzire se pensava a sua sorella chiusa
lì dentro da sola e al freddo per tre fottutissime settimane.
Evie, che era così fragile, così dolce, così pura,
Evie che era capace di illuminare una stanza con il suo sorriso, come
avevano potuto fare una cosa simile a lei, a lei che era così
innocente, così ingenua, totalmente incapace di fare del male a
qualcuno, come avevano potuto farle una cosa del genere, come...
Era stato solo quando era tornata in albergo che a Meredith era venuto
in mente che Evie doveva essere stata sottoposta all’autopsia.
Qualcuno aveva dissacrato il suo corpo, le aveva tagliato via i vestiti
e quando giaceva nuda sul tavolo d’acciaio le aveva aperto
l’addome dallo sterno all’inguine, squartandola come un
animale al macello.
Era corsa in bagno e aveva vomitato anche l’anima.
Logan imboccò l’uscita dell’Interstate e si immise
sulla strada provinciale. Meredith lesse il cartello che indicava
l’inizio della contea di Westchester. Tra trenta minuti, quaranta
al massimo, sarebbero arrivati alla scuola.
Aveva passato al setaccio ogni parola, ogni frase, ogni istante che
aveva trascorso con Evie, alla ricerca di un indizio, di un segnale
qualsiasi che avrebbe potuto annunciare la sua fine. Avrebbe potuto
impedire la morte di sua sorella, prevedere il suo suicidio, se solo
avesse prestato un po’ più d’attenzione?
Ci aveva pensato e ripensato, esaminando e riesaminando lettere,
conversazioni telefoniche e i giorni e le ore che loro due avevano
passato insieme, sia prima del suo allontanamento da Phoenix che dopo.
Cercava un gesto, un’intonazione della voce, uno sguardo che
preannunciasse il suo darsi volontariamente alla morte.
Ma aveva dovuto essere sincera con se stessa. Quante volte aveva
pensato ad Evie, da quando aveva conosciuto Jubilee e gli altri? Le
aveva telefonato il giorno che era arrivata alla scuola,
d’accordo. Ma quando Hannah le aveva detto che era scappata di
casa, quanti tentativi concreti aveva fatto per trovarla? Si era
limitata a guardare fuori dalla finestra di tanto in tanto, augurandosi
che Evie stesse bene. Se si fosse preoccupata veramente per sua
sorella, avrebbe mollato tutto e sarebbe volata a Phoenix a cercarla.
Questo avrebbe fatto la vecchia Meredith. Invece lei aveva preferito
rimanere al sicuro nella bolla di sapone creata dal professor Xavier,
mentre al di fuori, nel mondo reale, gli altri mutanti, compresa sua
sorella, lottavano per sopravvivere e spesso soccombevano.
E se Evie, disperata, avesse tentato di contattare sua sorella
perché l’aiutasse? L’immagine di Evie che con la
boccetta di Valium nella tasca del cappotto si sentiva rispondere dai
Jackson: “E’ andata via.” le spezzava il cuore.
Doveva sapere, così aveva chiamato i Jackson.
Era stata Faye a rispondere.
“Pronto?”
“Sono Meredith St.Clair.”
“Ah.”
“Non ho chiamato per litigare. Voglio solo sapere se qualcuno mi ha cercata.”
“Io... Come?”
“Dopo che me ne sono andata, qualcuno ha telefonato, o scritto,
chiedendo di me? In particolare una ragazza, che si è presentata
come Evie, o Evelyne, Barrymore?”
“Senti, adesso io devo proprio...”
“Non azzardarti a riattaccare! Allora, mia sorella ha scritto? Telefonato? Sì o no?”
“No... Nessuno ti ha cercata qui da quando sei andata via.”
“Ne sei sicura?”
“Sì.”
Attraversarono il centro abitato di North Salem. La strada principale
era un tripudio di luci e di abeti decorati con nastri variopinti. Si
fermarono ad un semaforo e Meredith vide un’enorme Babbo Natale
che la salutava dalla cima di un lampione.
“Hanno fatto le cose in grande, quest’anno.” disse Logan.
“Davvero?”
“Sì. Gli scorsi anni era un mortorio. A quanto ho sentito,
hanno preparato anche una festa con i fuochi d’artificio per
Capodanno.”
“Sembra carino.”
“Già.”
Si erano presto lasciati alle spalle le luci e i festoni di North Salem
ed erano arrivati nella zona periferica dove sorgeva la villa, chiamata
Salem Center. Meredith non aveva mai capito il perché. Se a
North Salem c’erano i negozi e i bar, a Salem Center c’era
solo una strada, Graymalkin Lane, costeggiata da enormi foreste di
abeti secolari e da prati erbosi. Solo ogni tanto il profilo di una
casa si stagliava, antico e minaccioso, tra gli alberi.
Mancavano poche centinaia di metri ormai. Alla radio finì una
canzone che Meredith non aveva ascoltato, e ne iniziò
un’altra.
Come on, come on
Put your hands into the fire
Explain, explain
As I turn and meet the power
This time, this time
Turning white and senses dire
Pull up, pull up
From one extreme to another...
Eccolo, il numero 1407 di Graymalkin Lane. Il cancello si aprì
automaticamente appena l’auto gli arrivò a pochi metri di
distanza e Logan svoltò nel viale. Indifferente al fatto che
ormai erano arrivati e che la radio sarebbe stata spenta prima che la
canzone potesse terminare, cominciò il ritornello.
From the summer to the spring
From the mountain to the air
From Samaritan to sin
And it's waiting on the end…
Il fatto che Evie non l’avesse cercata non cambiava proprio
nulla, ovviamente, né in un senso, né nell’altro.
Era solo un piccolo, minuscolo dettaglio perso nel quadro generale, e
il quadro generale era uno solo: Evie se n’era andata, se
n’era andata per sempre e ora lei, Meredith Grace St.Clair, era
più sola di quanto non fosse mai stata.
Logan fermò la macchina davanti all’entrata e spense la
radio, interrompendo a metà la canzone. Meredith scese
dall’auto e camminò cauta nella neve. Guardò il
profilo scuro e austero della villa, a malapena visibile nella
semioscurità. Le luci provenienti dalle sue finestre si
riflettevano sul cortile immacolato, e ogni tanto una sagoma passava
velocemente davanti ai vetri, creando un gioco di luci e ombre sul
manto candido della neve. Meredith mise la mano nella tasca dei jeans
per assicurarsi che Evie fosse ancora lì.
Logan tirò fuori la valigia dal portabagagli. “Lasci a me,
professore.” disse Meredith. “Non è pesante.”
Lui sorrise. “Scherzi? Sono un gentiluomo, io.” Meredith si sforzò di restituirgli il sorriso.
Erano sugli scalini d’ingresso quando il portone si aprì e
apparve Jean Grey, l’ultima persona al mondo che Meredith avrebbe
voluto vedere in quel momento. Poco più dietro di lei, Bobby,
Jubilee e Marie la salutarono con la mano.
“Bentornata, Meredith.” disse la Grey.
“Grazie dottoressa.” rispose. Poco più in là,
seminascosto nell’ombra che le scale gettavano, John la fissava
con le mani nelle tasche dei jeans.
“Ti abbiamo tenuto da parte la cena.” continuò la dottoressa.
“Grazie, ma io...” Cercò una scusa attendibile. “ho già mangiato sull’aereo.”
La dottoressa Grey la guardò. “Come preferisci.”
disse. “Se più tardi ti venisse fame, il vassoio con la
tua cena è in sala mensa. Buonanotte, Meredith.
Ragazzi...” Detto questo, si incamminò verso il corridoio
che portava agli alloggi dei professori.
“Buonanotte.” li salutò Logan, seguendola.
“Grazie di tutto, professore.” disse Meredith.
Lui le sorrise e le accarezzò i capelli. “Non dirlo
neanche, piccolina.” le rispose con tenerezza. Per la prima volta
in quella giornata Meredith sentì un’ondata di calore per
lui.
Appena Logan si fu voltato, Jubilee le saltò al collo e le diede un bacio sulla guancia.
“Come stai, Meredith?” le chiese stringendola più che poteva.
Fu contenta quando Bobby la liberò dalla stretta di Jubilee e l’abbracciò, evitandole di mentire.
“Ci sei mancata.” le disse. Meredith vide che John era sgusciato via dal suo nascondiglio ed era sparito.
Marie fece per abbracciarla, ma poi si trattenne e si limitò ad
accarezzarle i capelli come aveva fatto Logan. “Sei sicura di non
voler mangiare?” chiese.
“Sì.” rispose Meredith. “Sono molto stanca, preferisco andare in camera.”
“Vengo con...” esordì Jubilee, ma Marie le strinse
il braccio. Portava dei guanti bianchi lunghi fino al gomito.
“D’accordo. Se hai bisogno di noi, saremo in sala comune.” le disse con il suo tono gentile.
Dopo aver rifiutato l’offerta di Bobby di portarle la valigia, Meredith si diresse verso la sua stanza.
Quando arrivò, la trovò stranamente pulita e ordinata.
Probabilmente Jubilee aveva pensato di farle piacere sistemando la
camera, e sebbene la sua premura nel farle questa piccola cortesia la
commuovesse, la rattristò trovare la stanza così diversa.
Significava che ciò che una parte di lei ancora si ostinava a
rifiutare era successo veramente.
Per non pensare, aprì la valigia sul letto e si mise a
svuotarla. Dopo qualche minuto, sentì dei passi in corridoio e
qualcuno si fermò davanti alla porta aperta. Probabilmente
Jubilee non aveva resistito ed era venuta a vedere come stava.
Invece, quando si voltò, trovò John appoggiato allo
stipite. Per un istante si domandò come avesse fatto ad entrare
nel dormitorio femminile.
“Vuoi parlare?” le chiese. Prima che avesse il tempo di
pronunciare l’ultima sillaba Meredith aveva già risposto
alla sua domanda.
“No.”
John guardò in silenzio mentre Meredith continuava a svuotare la valigia.
“Vuoi che ti lasci sola?” chiese dopo un po’.
Meredith si voltò di scatto a guardarlo. “No.” rispose.
C’era un tono di supplica nella sua voce, e se normalmente questo
l’avrebbe spaventata ora non le importava affatto. Perché
era vero. Non voleva rimanere sola.
Un lampo illuminò per un secondo gli occhi di John. “Non lo farò.” disse.
Si guardarono negli occhi in silenzio. Meredith infilò la mano nella tasca dei jeans.
“Verresti con me in un posto?” gli chiese.
John annuì. “Certo.”
****
Raggiunsero il cortiletto delle cucine non dal corridoio, ma
dall’esterno, facendo il giro della casa. Meredith non era
più tornata lì a fumare dalla sfortunata sera del vetro
rotto, ed era sicura che anche John avesse fatto lo stesso: sarebbe
stato stupido tornare in quel posto dopo quello che era successo.
Quando arrivarono al cortiletto, trovarono intatta la neve che copriva
il pavimento. Nessun altro era stato lì.
Meredith si fermò davanti all’aiuola delle rose. I tronchi
sottili sbucavano dal tappeto bianco della neve, nudi e legnosi. Era
difficile credere che da lì a qualche mese, quando fosse
arrivata la primavera e la neve si fosse sciolta, quelle cose secche e
morte si sarebbero ricoperte di foglie verde scuro, e i loro boccioli
si sarebbero aperti per svelare petali delicati e candidi come la neve
che ora li teneva prigionieri nel suo gelo.
Meredith tirò fuori la fotografia dalla tasca dei jeans e
l’aprì, lisciandola con cura. Due ragazze si tenevano
abbracciate e sorridevano spensierate alla macchina fotografica, felici
di essersi ritrovate dopo tanto tempo. I loro sorrisi sembravano
gridare al mondo che sarebbero rimaste unite per sempre. Evie cingeva
con un braccio la vita di sua sorella e faceva il segno della vittoria
con l’altra mano. I suoi grandi occhi verdi, messi ancora
più in risalto dall’eyeliner, guardavano dritti dentro
l’obiettivo della fotocamera, e il rossetto viola scuro (Evie
l’aveva visto in una profumeria di Manhattan e l’aveva
voluto comprare a tutti i costi, spendendo un capitale, e dio quanto
l’aveva presa in giro Meredith per questo) non riusciva ad
indurire i suoi tratti, così infantili e
delicati.
“E’ molto bella.” disse John.
Meredith sorrise. “Sì, lo è davvero.”
Si inginocchiò nella neve e cominciò a scavare ai piedi
della rosa più grande e più forte. Il terreno era duro a
causa del freddo e le sue dita faticavano a sbriciolarlo. La terra
gelata le ferì i polpastrelli e Meredith iniziò a
singhiozzare, continuando a graffiare il terreno e a lottare
perché esso cedesse e le lasciasse spazio. Senza nemmeno
accorgersene cominciò a piangere sempre più
violentemente, liberandosi di tutte la lacrime che non era riuscita a
piangere da quando aveva saputo che Evie era morta. Forse di tutte le
lacrime che non aveva pianto in tutta la sua vita.
John non le mise un braccio intorno alle spalle e non cercò di
consolarla. Senza dire una parola si inginocchiò accanto a
Meredith e cominciò a scavare insieme a lei. Lottavano con le
unghie e con le dita contro un muro compatto di terra ghiacciata e di
minuscole pietruzze appuntite, tornando ancora e ancora ad assaltare lo
stessa zolla finché essa non cedeva e si sbriciolava,
combattendo strenuamente per ogni singolo millimetro di spazio che
guadagnavano.
Quando la buca fu abbastanza grande e profonda Meredith diede un ultimo
bacio alla foto di Evie e la depositò sul fondo. Sua sorella la
guardò, raggiante e piena di luce come era stata ogni singolo
giorno della sua vita.
“Addio, Evie.” le disse. “Sarai al sicuro qui.”.
Poi, con grandissima cura a delicatezza, lei e John cominciarono a
ricoprirla di terra. Fecero molta attenzione a ridurre i grumi di
terriccio in polvere fine, scartando tutti i sassolini e gli
agglomerati di argilla che non riuscivano a frantumare, perché
la terra non pesasse troppo su Evie.
Quando la buca fu colma, la nascosero con cura sotto uno strato di
neve, perché fosse invisibile e irraggiungibile per chiunque
dovesse trovarsi, seppure per caso, a passare davanti alla rosa.
Rimasero inginocchiati nella neve finché Meredith non smise
completamente di piangere. Pian piano, i suoi singhiozzi diminuirono
d’intensità finchè il suo pianto non divenne un
rivolo silenzioso che dagli occhi scendeva a bagnarle le guancie e il
collo. Lentamente, le lacrime cominciarono a diminuire sempre
più, sempre più, finché non smisero di scendere.
Dopo che la sua ultima lacrima le ebbe solcato il viso, Meredith chiuse
gli occhi e respirò due volte a pieni polmoni. Poi si
asciugò il volto con la manica della maglietta e si alzò
lentamente in piedi. Si sentiva totalmente in pace ora. Sotto la rosa,
la neve custodiva e proteggeva la buca.
“Torniamo” disse con calma. John annuì.
Percorsero il giardino della villa fianco a fianco. Ormai tutti erano
rientrati nelle loro stanze e la casa era immersa nel silenzio. Solo
poche, fioche luci si diffondevano ancora dalle finestre e si
riflettevano nella neve. Anche il parco sembrava addormentato da un
incantesimo. Né il richiamo di un uccello notturno, né i
movimenti di un animale, né il mormorio del vento tra le foglie
ruppero il silenzio che regnava quella notte.
Meredith iniziò a tremare. I suoi jeans e le sue scarpe erano
fradici e non aveva preso niente per ripararsi dal freddo quando era
uscita. John si sfilò la felpa e gliela porse.
“Tieni.”
Lei lo guardò. Indossava solo una maglietta a maniche lunghe che
non aveva l’aria di essere molto pesante. John intuì la
sua indecisione. “Io non ho mai freddo.” le spiegò.
“Prendila.”
Meredith si infilò la felpa e il suo calore fu consolatorio per
il suo corpo intirizzito dal freddo. Improvvisamente si rese conto di
sapere così poco di John, di essersi interessata così
poco alla sua vita.
“Il tuo accento.” gli disse. “Non ti ho mai chiesto.”
Lui alzò le spalle. “Sono nato in Australia.”
spiegò. “Mio padre era un alcolizzato che picchiava me e
mia madre e che non riusciva a tenersi un lavoro. Perciò
emigrammo negli Stati Uniti, ma anche qui lui continuò a bere e
a picchiarci.” Fece una pausa. “Un giorno picchiò
mia madre talmente forte da ucciderla. Lui è finito in carcere,
io in orfanotrofio. E questo è tutto. Non c’è
altro.”
“Mi dispiace.” disse Meredith.
Lui alzò le spalle. “Non ci pensare.”
Meredith lo guardò negli occhi. “No, davvero mi dispiace.”
John le restituì lo sguardo e annuì lentamente. “Grazie.” disse.
La lasciò ai piedi delle scale del dormitorio femminile. Quando
entrò in camera Jubilee alzò gli occhi dal libro che
stava leggendo e il suo sguardo si posò sulle mani di Meredith,
sporche di terra e di sangue.
“Meredith... cosa...” balbettò.
“Io e John abbiamo seppellito Evie.” le spiegò.
Avrebbe davvero voluto essere più chiara e permettere a Jubilee
di capire, ma non esistevano parole più adatte di quelle per
descrivere ciò che era successo.
Fu solo dopo essersi fatta la doccia e preparata per andare a dormire che si accorse di non aver restituito a John la sua felpa.
“E quella, Meredith?” chiese Jubilee guardandola
sistemare ordinatamente la felpa sulla sedia che stava davanti alla
scrivania.
“E’ di John. Domani gliela restituisco.” le aveva risposto.
Molto, molto più tardi, quando da tempo avevano spento la luce e
Jubilee dormiva profondamente, Meredith si alzò dal letto, si
infilò la felpa e si addormentò avvolta nel suo tepore.
..............................................................................................................
Ecco fatto. Spero che
siate arrivati alla fine senza bisogno di antidepressivi, e che vi sia
piaciuto. Non vorrei sembrare una presuntuosa, ma rileggendo questo
capitolo mi sembra la cosa migliore che io abbia mai scritto, e mi
farebbe molto molto piacere se qualcuno volesse dirmi se ho ragione ad
essere orgogliosa di me stessa o se sarebbe meglio che mi dessi
all’ippica. Ringrazio fin da ora chi volesse lasciare una
recensione.
P.S 1:
La canzone del divino Bruce Springsteen che viene citata nel capitolo
è “No Surrender”. Ecco la traduzione della strofa
riportata:
“[...]Nelle strade stanotte la luce si sta affievolendo
Le pareti della mia stanza si stanno chiudendo.
C’è una guerra là fuori che ancora infuria
Tu dici che non sta più a noi vincerla[...]”
P.S. 2:
“La guerra è finita”, il messaggio che Evie scrive
nel suo biglietto d’addio, è in realtà il titolo di
una canzone dei Baustelle. Racconta di una ragazza che si uccide
lasciando come ultimo messaggio, appunto, le parole “la guerra
è finita”. E’ da questa canzone che nasce il
personaggio di Evie.
P.S. 3:
Come probabilmente avrete immaginato, se avete letto le mie note
all’inizio del capitolo due, la canzone che inizia a suonare poco
prima che Meredith e Logan arrivino alla scuola è “Into
the Fire” dei Thirteen Senses, e che dà il titolo a questo
racconto. Segue traduzione:
“Andiamo, andiamo,
metti le mani nel fuoco.
Spiega, spiega,
mentre io mi volto e incontro il potere.
Questa volta, questa volta,
diventando bianco e presagendo la catastrofe.
Spingi, spingi, da un estremo all’altro.
Dall’estate alla primavera
Dalla montagna all’aria
Dal Samaritano al peccato
E aspetta alla fine[...]”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
ItF8
Disclaimer:
Pyro e gli
X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e
alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo
invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.
Scusate il ritardo. Ecco qui il capitolo otto.
.......................................................................................
Le vacanze di Natale erano ormai agli sgoccioli. Ancora pochi giorni e
gli studenti che erano andati a casa per passare le feste in famiglia
sarebbero tornati alla scuola. Gli altri, quelli che non avevano altro
posto dove andare se non l’Istituto Xavier per Giovani Dotati (e
che non erano un numero poi tanto esiguo), si godevano gli ultimi
giorni di vacanza scatenando battaglie a colpi di palle di neve,
pattinando sul laghetto ghiacciato o andando fino a North Salem per
prendersi una cioccolata calda in un bar.
Le lezioni erano terminate il 23 dicembre a mezzogiorno, per permettere
a chi tornava a casa di partire nel pomeriggio, e Meredith aveva visto
per ore dalla finestra della sua camera processioni di ragazzi allegri
e festanti che trascinavano le loro pesanti valige fino pulmini e si
abbracciavano, promettendo di tenersi in contatto durante le vacanze.
Un paio di ragazzini del primo anno erano stati portati a casa dai loro
genitori. Meredith li aveva guardati abbandonare le loro valige sugli
scalini dell’ingresso e correre incontro alle auto.
Meredith aveva rifiutato l’invito di Jubilee ad andare con lei a Beverly Hills e passare le feste con la sua famiglia.
“Davvero, ho già parlato con i miei, sarebbero felicissimi
di ospitarti per le vacanze.” era stato il ritornello di Jubilee
nell’ultima settimana di scuola.
Alla fine Meredith aveva dovuto giurare che avrebbe trascorso a casa
sua almeno due settimane durante le vacanze estive, o Jubilee avrebbe
perso l’aereo. Era stata l’ultima a salire sul pulmino che
avrebbe portato lei e altri otto ragazzi al JFK. Jubilee si era sporta
dal finestrino e si era sbracciata per salutarla.
“Non ti dimenticare che l’hai promesso!” le aveva
urlato mentre il pulmino si allontanava lungo il viale.
Quando il sole era calato oltre i boschi, nelle stanze della villa era
scesa una calma inusuale. Nessuno che ridesse o chiacchierasse nei
corridoi, nessun gruppo di studenti che aspettasse l’inizio di
una lezione seduto per terra davanti alle aule; solo di tanto in tanto
il pavimento di legno scricchiolava sotto i passi di uno dei ragazzi
che era rimasto nell’Istituto.
Quella sera Meredith era scesa nella sala comune pensando di trovarla
deserta, invece aveva trovato Marie che leggeva un libro seduta sul
divano, davanti al caminetto acceso. Quando l’aveva sentita
entrare, aveva alzato gli occhi e l’aveva salutata con il suo
solito sorriso gentile. “Ehi.”
“Ehi.” aveva risposto Meredith sedendosi su una delle
poltrone. “Dov’è Bobby?” le aveva chiesto.
Marie aveva chiuso il suo libro. “E’ tornato a Boston per passare le vacanze con la sua famiglia.”
Meredith aveva tentennato. Era un po’ insicura. Tempo prima,
Marie le aveva raccontato della sua famiglia giù in Mississipi e
della loro casa, che era stata costruita dal suo bisnonno.
“Ah...” aveva esordito Meredith. “E tu non...”
“No.” Marie si era guardata le mani coperte da guanti di pelle nera. “Io non torno a casa.”
Per un po’ erano rimaste tutte e due in silenzio a guardare il fuoco che scoppiettava nel caminetto.
“E’ stata una mia decisione, sai.” aveva detto ad un
tratto Marie. “Dopo quello che... Dopo quello che era successo,
ho pensato che sarebbe stata la cosa migliore per tutti, se
io...”
Si era schiarita la voce. “Stavo in camera mia con il mio
ragazzo. Quando ci siamo baciati lui è svenuto, ed è
rimasto in coma per due settimane. Così ho pensato che era molto
meglio, molto meglio per tutti se io me ne andavo prima di far del male
a qualcun’altro.” Si era guardata di nuovo le mani e una
lacrima le aveva solcato il viso.
Meredith non sapeva bene cosa dire per confortarla. Lei detestava
quando la gente la compativa per i suoi poteri, ma non voleva nemmeno
lasciare che Marie piangesse senza consolarla. Si era seduta accanto a
lei e le aveva messo un braccio attorno alle spalle. Marie aveva
sussultato e si era scostata.
“Scusami.” aveva detto Meredith tirandosi indietro.
“No, scusami tu.” le aveva risposto Marie asciugandosi il
viso. “E’ che è così difficile dover stare
sempre attenta a non sfiorare nessuno, e che ogni maledetto centimetro
della mia pelle sia sempre coperto anche in piena estate...”
Aveva sospirato frustrata. “Non so cosa darei, per poter nuotare
una sola volta senza il terrore di far male a qualcuno.”
Meredith si era ricordata di tutte le volte che erano andati in piscina
e Marie aveva trovato una scusa per rimanere a scuola. Aveva guardato
le mani della sua amica avvolte nella loro prigione di pelle nera.
“Non so cosa darei per essere toccata.” aveva continuato
Marie con un filo di voce. “Per poter accarezzare Bobby. Per
potergli dare un bacio, anche uno solo.”
Aveva sorriso amaramente. “Lui è stato così
comprensivo, ha detto che non gli importa se non possiamo toccarci e
non possiamo...” Era arrossita. “...farlo. Ma io lo so, lo
so che prima o poi questo gli peserà, e allora si troverà
un'altra ragazza, una che potrà toccare senza il rischio che lei
lo uccida e che non deve portare questi assurdi guanti
ovunque...” Marie aveva ricominciato a piangere.
Meredith aveva preso le mani di Marie fra le sue e le aveva strette.
****
Meredith stava guardando da sola la televisione in sala comune quando entrò la professoressa Munroe.
“Ciao Meredith.” la salutò.
“Buonasera, professoressa Munroe. Pensavo fosse ancora in Kenya.”
“Sono tornata questa mattina.” disse. “Ormai le vacanze sono finite.”
“Com’è andata?”
“Benissimo, direi.” Sorrise. “E’ incredibile
quanto casa tua ti sembri bella quando sei stata lontana per un
po’. E le tue vacanze come sono andate?”
“Bene, grazie.”
“Cosa avete fatto?”
Meredith alzò le spalle. “Oh, niente di particolare. A
Capodanno siamo andati a North Salem a vedere i fuochi
d’artificio. Davvero bello.”
“Dov’è Marie?”
“Ha detto che doveva studiare ed è rimasta in camera. Se vuole vado a chiamarla.” rispose Meredith.
“No, a dire la verità cercavo te...” La
professoressa sembrò cercare le parole giuste. “Ci sarebbe
da disfare l’albero di Natale dell’atrio... Se vuoi... Se
hai tempo...” La Munroe era diventata così indulgente con
lei, dopo la morte di sua sorella
Meredith si alzò. “Ma certo.”
Raggiunse l’atrio, e quando arrivò vide John accanto
all’albero. Poco distante da lui c’era una grossa
scatola di cartone e alcuni vecchi giornali. John tolse una palla di
vetro colorato dai rami dell’abete, l’avvolse nel giornale
e la depose nello scatolone. Quando vide entrare Meredith si
fermò e la guardò.
Lei gli si avvicinò e prese un’altra palla
dall’albero. Sorrise. “Hanno incastrato anche te,
eh?” gli chiese.
John prese la sfera di vetro dalle mani di lei e l’avvolse nella carta. “Già.”
Meredith lo guardò deporre il fagotto sul fondo dello scatolone.
Poi prese un’altra palla dai rami dell’abete e la porse a
John.
“Non ho mai capito che gusto c’è a riempire un
albero di schifezze solo per togliere tutto quindici giorni
dopo.” disse lui dopo qualche minuto.
Meredith sorrise. “Neanche io.”
Il giorno dopo la sepoltura di Evie Meredith era andata da lui a
restituirgli la felpa, ma John non l’aveva voluta indietro.
“Tienila tu.” le aveva detto semplicemente.
“Ma...”
“Davvero, non importa. Tienila.”
Meredith aveva piegato la felpa e l’aveva sistemata sul fondo del
suo armadio. Ogni tanto, quando si rigirava nel letto senza riuscire ad
addormentarsi, aspettava che Jubilee dormisse, poi prendeva la felpa e
se l’infilava sopra il pigiama. Solo allora riusciva a prendere
sonno.
Lei e John continuarono a lavorare in coppia: Meredith toglieva
dall’albero le palle di vetro, John le avvolgeva nella carta e la
metteva nella scatola. Entrambi sapevano che avrebbero fatto molto
prima se ognuno avesse fatto per sé, invece continuarono come
avevano iniziato finché tutte le decorazioni non furono nello
scatolone. Meredith guardò l’albero spoglio e una grande
tristezza l’assalì. Si sentì come se avesse appena
distrutto qualcosa di bello.
“E adesso?” chiese.
John alzò le spalle. “Abbiamo finito, credo.”
Abbassò lo sguardo e, inconsciamente, Meredith fece lo stesso.
Solo in quel momento di accorse che le mani di John stavano sanguinando.
“Le tue mani...” gli disse.
Lui le sollevò e le guardò. “Una delle palle di
vetro era scheggiata, ma non è nulla di grave. E’ solo un
graffio.”
Meredith gli prese le mani e le esaminò. C’era un grosso
taglio sul palmo della mano destra, e un altro, più piccolo ma
non meno profondo, lungo l’indice sinistro. Rivoli di sangue
scuro uscivano copiosi dalle ferite. Non erano certo dei semplici
graffi.
“Aspetta...” sussurrò Meredith. Dalla tasca dei
jeans estrasse un fazzoletto pulito e cominciò a tamponare i
tagli più delicatamente che poteva, cercando di non fargli male.
Non si accorse di quanto fossero vicini finché John non appoggiò la fronte contro la sua.
Meredith chiuse gli occhi e le sue dita strinsero dolcemente quelle di
lui. Per qualche istante rimasero entrambi immobili ad ascoltare il
battito dei loro cuori e il rumore dei loro respiri.
Quando le loro labbra si unirono, all’inizio si limitarono a
sfiorarsi delicatamente. Meredith non avrebbe potuto dire chi dei due
avesse iniziato a baciare chi, ma poi successe, e tutto quello che
esisteva al mondo erano lei e John e i loro cuori che battevano
all’impazzata mentre si baciavano accanto all’abete.
............................................................................................................................
Oh, che carini... Non sono un amore? Finalmente ce l'hanno fatta!! Si sono baciati!
Un grossissimo bacio a Star_Dust_Daga e Gertie che hanno recensito il
capitolo sette! Significa molto per me. Come avete visto in questo
capitolo c'è parecchio Pyro... e d'ora in avanti ce ne
sarà sempre di più ;-)
Anche questo è piuttosto corto come capitolo, ma visto il
sorpresone finale cercate di essere indulgenti. Ci si vede tra un paio
di giorni con il capitolo nove.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
ItF9
Disclaimer:
Pyro e gli
X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e
alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo
invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.
Visto che ieri ho
postato un po' in ritardo rispetto al solito, ecco il capitolo nove con
un giorno d'anticipo. Come al solito, buona lettura!
...........................................................................
“Ragazzi miei, è ufficiale.” disse Bobby. “Siamo i più fighi dell’universo.”
Erano tutti e cinque in camera di John e Bobby, esaltati ed entusiasti.
Erano stati appena convocati dal professor Xavier, che aveva comunicato
loro, alla presenza dei professori, di essere stati ammessi al
programma di inserimento negli X-men. L’indomani avrebbero
cominciato con le simulazioni di combattimento nella camera speciale.
“Diavolo, sì!” rispose Jubilee, facendo una piroetta
al centro della stanza, “I migliori del mondo!”
“Dell’intera galassia!” la corresse Marie ridendo.
Lei e Bobby erano seduti sul letto di lui, mano nella mano ma ad una
certa distanza. Di fronte a loro, John stava seduto sul suo letto con
la schiena contro la parete e Meredith era seduta tra le sue gambe, la
schiena appoggiata al petto di lui. In sottofondo, lo stereo diffondeva
le note del “Black Album” dei Metallica.
“Ragazzi, non riesco a credere che sia vero.” disse Meredith.
“Oh, sì che lo è.” le rispose Bobby.
“Hai sentito il professore: “Avete dimostrato impegno e
serietà negli studi, perciò...”
“...Perciò tirate fuori le palle e datevi da fare,
stronzetti.” concluse John imitando la voce di Xavier. I ragazzi
risero.
“Beh, non sono sicura che il professor Xavier si sia espresso
così, ma di certo il succo era proprio questo.” disse
Marie.
“Anche se non credo che si riferisse a me con quella
frase.” continuò John. “Quando ha parlato di
serietà ed impegno mi sono voltato per vedere se c’era
qualcun altro dietro.” Ci fu un altro coro di risate.
“Probabilmente hanno preso in considerazione anche altri fattori.” gli suggerì Meredith.
“Forse. O forse sul X-Jet si è rotto il grill.” ridacchiò Bobby.
John alzò il dito medio. “O magari hanno finito il ghiaccio.” rispose.
Jubilee si mise a saltellare per la stanza. “Siamo-i-numeri-uno!
Siamo-i-numeri-uno! Siamo-i-numeri-uno!...” scandì.
“Dieci dollari che adesso vomita.” disse Meredith.
“Venti.” rilanciò Bobby.
“Se lo fa, giuro su dio che le do fuoco.” minacciò John.
Jubilee smise di saltellare e si mise una mano sulla fronte.
“Oddio, mi gira la testa...” si lamentò sedendosi
per terra.
“Era ora, mi stavi facendo venire il mal di mare.” le disse Marie.
Jubilee si guardò attorno come se si rendesse conto solo in quel
momento di dove fosse. “Ehi, ma perché ascoltiamo questo
mortorio?” protestò. “Qui ci vuole qualcosa di
più allegro!”
“Metti “We are the Champions”.” propose Meredith.
“Non credo che l'abbiamo.” disse Bobby. “Ma puoi
provare a cercare se c’è qualcos'altro che ti piace di
più.”
Jubilee avanzò a carponi fino allo stereo e si mise a frugare tra i cd.
“Dovrebbe esserci un album dei Red Hot Chili Peppers.”
suggerì Marie. “Mi pare di averlo portato l’ultima
volta che siamo venuti qui.”
John approfittò della distrazione generale per chinarsi verso
Meredith e baciarle l’orecchio. Lei sorrise. Le capitava spesso
di sorridere, da quando lei e John si erano messi insieme. Era
incredibile quanto solo la sua presenza la rendesse felice e
tranquilla, e non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era
sentita così per un ragazzo.
Quando gli altri avevano scoperto la loro relazione avevano reagito con
gioia, una volta passato il primo momento di stupore. Non che lei e
John avessero fatto un annuncio ufficiale o roba simile.
John non era molto espansivo in pubblico, ma a Meredith non importava.
Nemmeno a lei piacevano troppo le smancerie e le moine da romanzetto
rosa, specialmente di fronte ad una platea di spettatori, perciò
gli altri ci avevano messo un po’ a capire quello che stava
succedendo.
Una sera erano scesi a cena mano nella mano. Le veniva ancora da ridere
quando ripensava alle espressioni stupefatte dei loro amici mentre lei
e John si avvicinavano al tavolo.
“Ma voi due state...” aveva iniziato Bobby guardandoli con gli occhi fuori dalle orbite.
“...tenendovi per mano?” aveva concluso Marie, altrettanto scioccata.
“Beh, sì.”
“Quindi voi due...”
“Sì.”
A quel punto erano stati sommersi da un fiume di domande e di congratulazioni:
“Oh mio dio... Non ci posso credere!”
“Ragazzi, ma è fantastico! Quando è successo?”
“Voi due insieme...”
“E’ una cosa magnifica!”
“Ma che aspettavate a dirlo? Wow, ragazzi...”
Più tardi, in camera, mentre Meredith si infilava il pigiama e
si preparava per andare a dormire, Jubilee si era seduta sul suo letto
e le aveva sorriso abbracciando il peluche di Snoopy.
“Sai, mi hai davvero stupito stasera.” le aveva detto.
“Ero sicura che tu e John ci avreste messo molto più
tempo.”
Era toccato a Meredith rimanere a bocca aperta, e Jubilee era scoppiata a ridere.
“Non ho il sonno pesante come credi, cara la mia compagna di stanza.” le aveva detto strizzandole l'occhio.
Alla fine i ragazzi riuscirono ad accordarsi per un album dei New Found
Glory. Con discrezione, Meredith avvicinò la mano a quella di
John e ne accarezzò il dorso con l’indice.
“Allora,” iniziò Bobby con fare pratico mentre le
prime note di “All Downhill from Here” si diffondevano
nella stanza. “bisogna cominciare a pensare a cose serie.”
“Tipo un piano per sopravvivere all’allenamento di domani?” chiese Meredith.
“Beh, sì, anche, ma a questo penseremo dopo. Adesso
dobbiamo decidere i nostri nomi in codice.” le rispose Bobby.
“I che?” domandò Marie.
“I nome in codice. Ogni membro della squadra ne ha uno.”
“Che forza, come gli agenti segreti!” si entusiasmò Jubilee.
“Ma non fa un po’ troppo fumetto?” si chiese Meredith, dubbiosa.
“E che vuoi fare, andare in giro a dire a tutti il tuo vero
nome?” rispose John. “Sarebbe troppo rischioso.”
“Questo è vero.” concesse Meredith.
Le dita di John cominciarono a giocherellare con le sue, e di nuovo Meredith sorrise.
“Tu come ti chiamerai, Bobby?” saltò su Jubilee.
“Qualcosa come Freezer, o Snowman...” considerò Marie, scrutando attenta il suo fidanzato.
“No, Snowman no, è troppo da femminuccia.” intervenne Meredith scrutando anche lei Bobby.
“Allora Snowman, è deciso.” lo prese in giro John.
“Ah ah ah, molto divertente, bello.” rispose Bobby.
“Veramente io avevo già pensato ad un nome.” Fece
una pausa. “Iceman.”
“Iceman?” ripeté Marie perplessa.
“Amico, te lo devo proprio dire.” intervenne John.
“E’ il nome più triste e patetico che io abbia mai
sentito.”
“E’ un po’ scontato, Bobby.” gli disse Meredith.
Marie scosse la testa. “No, neanche a me piace. E’ troppo prevedibile.”
Bobby le sorrise e le strinse la mano. “Ma io sono così, prevedibile e affidabile.”
John sollevò un sopracciglio. “Io non ne sarei così orgoglioso, Bobby.”
Lui alzò le spalle. “Beh, non c’è niente di
male ad essere affidabile.” Di nuovo sorrise alla sua ragazza e
Marie, dopo una lieve esitazione, gli accarezzò un braccio.
Portava dei guanti di cotone grigio in tinta con i suoi jeans.
“Sarà.” disse Jubilee alzando le spalle. “Ma a me piaceva di più Freezer.”
Bobby le allungò un calcio scherzoso. “E tu come ti chiamerai, ragazzina?”
“Non lo so...” rispose lei, pensierosa. “Vorrei un nome figo...”
“Trovato! Scassapalle è un nome perfetto per te.” esclamò John.
Meredith gli assestò una gomitata nello stomaco. “Ehi, non
maltrattare la mia compagna di stanza.” gli intimò.
“Diglielo, Meredith!” gridò Jubilee ridendo.
“Scusa, non sapevo che tu fossi la sua mammina.” rispose
John sarcastico. “E poi che c’è di male in
Scassapalle? E’ perfetto per lei.”
“No, non lo è.” si lagnò Jubilee mettendo il broncio.
“Oh, non rattristarti, piccina.” la consolò Bobby,
tra il serio e il faceto. “Adesso papà te lo trova un bel
nome.”
“Che ne dici di Sparkle?” propose Marie riferendosi alla
capacità di Jubilee di emettere bolle di energia luminosa dalle
mani.
“Naaa, fa troppo ragazza ricca di Beverly Hills.” rispose Jubilee con una smorfia.
“Ma tu sei una ragazza ricca di Beverly Hills.” le ricordò Bobby.
“Sì, ma non c’è bisogno che lo sappiano
tutti.” disse lei. “Ci vuole qualcosa di più
energico.”
“E’ vero.” concordò Meredith. “Qualcosa
di più adatto alla sua personalità.” Ci
pensò su qualche secondo. “Perché non Bubble?”
“No, troppo da cartone animato!” protestò Jubilee.
“Che ne dite di Rottura?”
“John!”
“Beh, cercavo solo di essere d’aiuto...”
Rimasero qualche minuto in silenzio a pensare un nome in codice per
Jubilee mentre i New Found Glory continuavano a cantare dallo stereo.
Meredith sentiva il cuore di John batterle contro la schiena e il suo
respiro tra i capelli. Per un istante chiuse gli occhi e si godette la
vicinanza del suo ragazzo, così calda e rassicurante.
Reclinò la testa indietro e appoggiò la nuca contro la
spalla di John.
“Secondo me,” iniziò cautamente Marie. “Jubilee è un nome in codice.”
“Sì...” disse Bobby, considerando attentamente la
proposta della sua fidanzata. “Sì, mi piace...”
“Ma...” iniziò Jubilee.
“Pensaci bene, è un nome perfetto per te.” disse
Meredith rivolta alla sua compagna di stanza. “Dinamico, vivace,
facile da ricordare. Ti descrive alla perfezione.”
“Sì, lo so che mi descrive alla perfezione.” rispose
Jubilee con un espressione scura sul viso. “E’ il mio
nome.”
“Mettiamolo ai voti.” propose Marie. “Chi pensa
che il nome in codice di Jubilee debba essere Jubilee?”
“Io.” disse Bobby alzando una mano.
“Io.” lo imitò Meredith.
“Io.” fece Marie alzando una delle sue mani inguantate.
“Io no.” disse Jubilee sempre più indispettita.
John si limitò ad alzare le spalle.
“Quattro contro uno.” contò Marie. “Allora è deciso.”
Jubilee mise di nuovo il broncio.
“Allora, a chi tocca adesso?” chiese Marie gettando indietro i suoi lunghi capelli color mogano.
“Pensiamo a John.” disse Meredith. “Non dovrebbe essere troppo difficile.”
“Il primo che se ne esce con qualcosa tipo “Fireman” fa una brutta fine.” minacciò lui.
“Perché, che ha che non va?” gli chiese Bobby.
“Ti piace Flames?” propose Jubilee.
“Ecco, lo sapevo che avrebbe sparato una cazzata del genere...
Preparate l’estintore.” disse John con un sospiro. Tutti
tranne Jubilee risero.
“E va bene, va bene, allora Flames no...” fece marcia indietro lei. “Quanto sei permaloso...”
“Hai qualche idea?” chiese Meredith a John, sistemandosi
più comodamente contro di lui per poterlo guardare in viso. John
aveva degli occhi di un blu talmente scuro da sembrare marroni, se uno
non li guardava da vicino.
Lui considerò la cosa per qualche secondo. “Beh, ovviamente qualcosa che ha a che fare col fuoco...”
“Ma non mi dire.” disse sarcastica Jubilee, cogliendo al volo l'occasione di ripagare John con la sua stessa moneta.
Lui la ignorò. “...ma non vorrei finire nel banale.”
“Aspetta un attimo...” intervenne Marie, pensosa. “Com’è che ti chiama sempre Logan?”
“Testa calda?” le suggerì Bobby.
“Sì, esatto, Hothead. Come ti suona?”
“E’ davvero penoso.” rispose John con una smorfia.
“Sì, fa abbastanza schifo.” confermò Meredith.
“Ok, allora non ho altre idee.” disse Marie sollevando le braccia in un gesto di resa.
“Ci vuole qualcosa di più...” iniziò Bobby, guardando attentamente il suo amico.
“...pericoloso.” concluse John.
Ci fu un’altra lunga pausa. Mentre meditavano, John premette la
sua guancia contro la tempia di Meredith, e rimase così a lungo.
“Forse... Firestarter?” propose Meredith cautamente, dopo un po’. “Come la canzone dei Prodigy?”
“E’ bel nome.” concesse John, staccando il viso da
quello di lei. “Ma è un po’ troppo lungo da chiamare
durante una battaglia.”
“Già, è vero. E allora Burn?”
“Bleah, banale...”
“Sei troppo raffinato, amico mio.” gli disse Bobby
accarezzando una mano di Marie tra le sue. “Qui ci costringi a
buttarci sulle lingue straniere. Come si dice “fuoco” in
francese?”
“Feu.” rispose Marie. “Ma è orrendo.”
“Concordo.” disse John. “Altre lingue?”
“Fuego.” propose Meredith.
“No.”
“Mmm... Feuer?” chiese Marie.
“Forse Feuer... No, non mi piace. Nessuno sa l’italiano?” domandò John.
“No, ma mia madre è ebrea.” disse Bobby. “Se
non sbaglio, fuoco in ebraico si dice “Esh”.”
John alzò le spalle. “Beh, non è esattamente quello a cui pensavo, ma sempre meglio degli altri.”
“Aspettate un momento.” Tutti si voltarono verso Marie.
“Che idioti che siamo, ma come abbiamo fatto a non pensarci
prima?” Guardò John dritta negli occhi. “Pyro!”
“Pyro?” ripetè Jubilee.
“Sì, ti sta bene.” disse Bobby. “E’ aggressivo, elegante...”
“Sembra che tu stia parlando di una macchina.” lo prese in giro Meredith.
John ripetè un paio di volte il nome sottovoce, pensieroso.
Meredith non riuscì proprio a resistere e gli diede un veloce
bacetto all’angolo delle labbra. Lui emerse dalla sua meditazione
e le sorrise, sorpreso.
“Mi piace, Marie, mi piace davvero.” disse stringendo Meredith tra le sue braccia.
“E brava la mia piccola!” esclamò Bobby, entusiasta.
“E’ già il secondo nome che indovini. Batti un
cinque!”
Marie rise, ma Meredith era sicura di aver visto un’ombra spegnere i suoi occhi quando aveva baciato John.
“Tecnicamente, il mio non l’ha indovinato...” precisò Jubilee.
“Allora, come lo chiamiamo questo genietto?” domandò
Bobby mettendo un braccio attorno alle spalle della sua ragazza.
“Bobby, no!” lo rimproverò lei, divincolandosi. “E’ troppo rischioso...”
“Ci vuole qualcosa di carino e dolce come lei...” propose Jubilee.
“Qualcosa come Ladybelle?” chiese Bobby.
“Oddio, no... fa venire il diabete...” protestò schifato John.
“John ha ragione, non lo voglio un nome dolce e carino.”
disse convinta Marie. “Voglio qualcosa di tosto, qualcosa
da...”
“...da ragazzaccia?” chiese Meredith.
Marie annuì. “Esatto.”
Bobby la guardò perplesso. “Ma tu non sei una ragazzaccia!”
“Beh, forse voglio esserlo.” rispose Marie. “Forse mi sono stancata di fare sempre la brava ragazza.”
“Brava, così si fa!” la incitò John.
“Ehi, tu non incoraggiarla.” gli intimò Bobby.
“Che ne dici di Brat, Marie?” propose Meredith.
“Meredith!” disse Bobby scandalizzato. “Ti ci metti anche tu?”
“No, troppo blando. Voglio qualcosa più duro, più da teppista di strada...”
“Esatto!” gridò Jubilee. “Rogue!”
“Sì!” esclamò Meredith.
“No!” protestò Bobby, sempre più turbato da
un lato del carattere della sua fidanzata che evidentemente non
conosceva.
“Sì, sì, è bellissimo!” disse Marie
entusiasta. “Proprio quello che volevo... Brava Jubilee!”
“E-uno-l’ho-indovinato-io! E-uno-l’ho-indovinato-io!
E-uno-l’ho-indovinato-io...” cominciò a canticchiare
la ragazza seduta per terra.
“E ora non manca che Meredith da sistemare...” disse Marie voltandosi verso di lei.
Meredith si sentì eccitata ma anche un po’ nervosa. Stava
per scoprire come i suoi amici e il suo ragazzo percepivano lei e i
suoi poteri.
“Qualcosa che c’entri con la mente, ovvio.” disse Jubilee. “Psyco... Psyco...”
“Psycoangel.” propose Marie.
“Wow, ragazzi sono commossa,” iniziò Meredith. Lo
era davvero. “Ma la parte dell’angelo proprio non la
capisco.”
“Beh, sei bella, e sei buona...” spiegò Jubilee.
“Così mi fate montare la testa.” protestò Meredith ridendo.
“Beh, c’è sempre Psycobeast, se preferisci...”
disse John alzando le spalle. Meredith gli diede una gomitata scherzosa
nelle costole.
“Divertente... Tra i due preferisco l’angelo, allora.”
Meredith ripensò a quel pomeriggio nell’aula di telepatia,
quando aveva scoperto i suoi nuovi poteri. Sembrava essere accaduto in
un’altra vita... Una vita in cui c’era ancora sua sorella.
John la strinse un po’ più forte, riportandola alla
realtà. Meredith si girò a guardarlo e i loro occhi si
fissarono gli uni negli altri. Lentamente, prese la mano di John che
era appoggiata sul suo stomaco e la strinse.
“Pensavo” disse “a qualcosa come Medusa.”
“Medusa?” chiese Bobby. “Il mostro con i serpenti al
posto dei capelli che uccideva le persone con lo sguardo?”
“Non le uccideva.” precisò Meredith. “Le trasformava in pietra.”
“E perché diavolo vorresti un nome del genere?”
Meredith ripensò allo sguardo vacuo di Logan quando lei aveva preso possesso della sua volontà.
“Lei tramutava le persone in pietra.” spiegò.
“Io posso fargli fare ciò che voglio. In fondo non
c’è differenza.”
John appoggiò delicatamente la labbra alla sua tempia e le diede un lieve bacio. Non durò che un secondo.
“Allora è deciso.” disse Bobby guardandoli uno per
uno. “Rogue, Jubilee, Pyro, Medusa e Iceman.” Sorrise.
“Domani li facciamo neri, nella camera speciale.”
............................................................................................
Ed ecco i nostri
due fidanzatini ripresi in uno dei loro primi momenti di tenerezza. Mi
sono sforzata di non rendere la cosa troppo smielata, perchè
nè Meredith nè John mi sembrano il tipo. Comunque, se in
un futuro dovesse diventare tutto un "Meredith, pulcino... John,
tesoruccio... bacini bacini", siete autorizzati a mandarmi un email
bomba.
Rileggendo questo capitolo e anche quelli indietro mi sono resa conto
che Jubilee mi è venuta fuori un po' stereotipata. A mia
discolpa, posso dire che nel cartone animato degli X-men che facevano
quando ero piccola (ebbene sì, non ho mai letto il fumetto)
Jubilee era rappresentata come un'adolescente piena di energia. E poi
mi serviva qualcuno che bilanciasse il carattere un po' ombroso e cupo
di Meredith.
Bene, ho detto tutto. Vi saluto e vi aspetto presto per il capitolo dieci!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
ItF10
Disclaimer: Pyro
e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla
Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti
per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Chiedo umilmente perdono in
ginocchio per questo mostruso ritardo, ma il mio computer ha deciso di
prendersi il fine settimana libero e di non funzionare più. Sono
finalmente riuscita a sistemarlo, e spero che abbiate avuto la pazienza
di aspettarmi. Ancora le mie più sentite scuse.
In questo capitolo c’è qualche riferimento al sesso. Non
mi sembra di essere stata troppo esplicita né tantomeno volgare,
ma forse il rating arancione in questa occasione è appropriato.
Buona lettura!
..............................................................................
Una leggera pioggia primaverile batteva contro i vetri delle finestre.
Era ormai marzo inoltrato, e il gelo dell’inverno stava
lentamente, seppure controvoglia, cedendo il passo al tepore della
bella stagione. Da qualche settimana ormai non nevicava più; la
maggior parte delle giornate erano serene, anche se fredde, e di tanto
in tanto le nuvole venivano ad oscurare il sole, rovesciando
sull’Istituto e sulle foreste di Salem Center una pioggia sottile
e gelida.
This is the first day of my life
I swear I was born right in the doorway…
Nella camera lo stereo era acceso e il picchiettio della pioggia contro
i vetri era coperto solo parzialmente dalla musica che ne proveniva, ma
i due ragazzi sdraiati sul letto sembrarono non farci caso. Ci volle
molto, molto tempo prima che mettessero fine al loro lungo bacio e si
guardassero negli occhi.
“Sono contenta che oggi la lezione di teatro sia saltata.”
disse Meredith passando una mano tra i capelli del suo ragazzo.
John sorrise contro le sue labbra. “Già. Devo proprio
ringraziare il vecchio Wagner quando lo incontro nei corridoi.”
Meredith rise. “Magari non dirgli il motivo per cui lo ringrazi.”
La sua bocca trovò nuovamente quella di John e gli diede un
bacio. Lui rispose con un altro bacio, e per un po’ le loro
labbra furono troppo impegnate per parlare.
“Anche se, a pensarci bene, insistendo un po’ potrei farlo
passare come esercizio di recitazione.” disse lei quando si
interruppero per riprendere fiato.
Il viso di John si scurì immediatamente. “Meredith, se
scopro che qualcun altro ti mette le mani addosso, anche solo per una
recita, giuro che dovranno raccoglierlo con
l’aspirapolvere.”
Meredith si tirò su e lo guardò dritto negli occhi.
“Ehi.” lo rassicurò. “Guarda che nessuno a
parte te mi mette le mani addosso.” Sorrise. “Nemmeno alla
lezione di teatro. Nemmeno per finta.”
John le restituì lo sguardo, ancora serio. “Davvero?”
“Te lo giuro.” Meredith scoppiò a ridere. “O mio dio, sei geloso!”
“Ci puoi scommettere che sono geloso.” rispose lui con un
ringhio basso e minaccioso. Le prese il viso tra le mani e le
accarezzò gli zigomi coi pollici. “Dio, sei così
sexy con i capelli sciolti...”
Meredith si abbassò su di lui e gli baciò la gola appena
sopra il collo della maglietta. “Ti stai facendo venire delle
idee sordide, John Allerdyce?” gli chiese scherzosamente mentre
gli accarezzava le braccia e il petto attraverso il tessuto.
“Oh sì, molto sordide.” rispose lui. “Vieni qui.”
La tirò giù e la baciò con passione. Meredith
rispose con altrettanto trasporto, assaporando la sua bocca e
perdendosi nelle sensazioni che le regalava. Le mani di lui le
accarezzavano i fianchi e la vita, mandandole brividi lungo tutta la
spina dorsale. Quando si staccarono, John la strinse forte contro di
sé, e Meredith sprofondò nel suo abbraccio, la testa
appoggiata sulla sua spalla e le fronte premuta contro il suo collo.
Respirò il suo profumo e si concentrò sui battiti del suo
cuore, quasi a ritmo con il picchiettare della pioggia.
Adorava questi momenti con John. Passare del tempo sdraiati sul letto a
baciarsi, o anche solo a tenersi abbracciati, la faceva sentire al
settimo cielo. Solo la presenza, la vicinanza di John bastava a farla
sentire così... così... completa. Appagata.
Non che non facessero anche altro. Gli abbracci e i baci innocenti non
sempre bastavano, e per Meredith non c’era al mondo soddisfazione
maggiore di vedere John inarcarsi e gemere sotto le sue mani e le sue
labbra, e ricevere da lui lo stesso trattamento. Ma ancora non erano
arrivati fino in fondo. E la ragione principale per cui ancora non
l’avevano fatto era, per quanto la imbarazzasse ammetterlo, che
lei non aveva mai fatto l’amore con nessuno prima.
Meredith aveva tentennato un po’ prima di ammetterlo. La
terrorizzava il fatto che lui potesse considerarla una patetica sfigata
e non volesse avere più nulla a che fare con lei. Finché,
qualche tempo prima, mentre se ne stavano sdraiati sul letto in camera
di Meredith, John le aveva accarezzato una guancia e le aveva sorriso.
“Tu sei vergine, vero?” le aveva chiesto.
Meredith era arrossita e aveva voltato la testa di lato. “Pensavo
di essere io quella in grado di leggere nel pensiero.” aveva
mormorato imbarazzata.
“Beh, io sono pieno di doti nascoste.” aveva risposto John con un sorriso malizioso.
Lei gli aveva dato una sberla sulla testa, ridendo. “Idiota.”
Anche John aveva riso. Poi le aveva accarezzato il viso, dolcemente, e aveva detto: “Aspetteremo.”
Meredith aveva messo la mano sopra la sua. “Sei sicuro?”
“Sì. Ovvio, dovrò trovarmi una ragazza con cui fare sesso nel frattempo, ma...”
Meredith l’aveva colpito con un cuscino. “Sei veramente un
idiota. Un giorno di questi vedi se non mi libero di te...” aveva
minacciato.
John l’aveva abbracciata. “No che non lo farai.” aveva detto piano, guardandola negli occhi.
Meredith l’aveva stretto a sua volta e aveva avvicinato il viso a
quello di John. “Infatti, non lo farò.” aveva
sussurrato contro le sue labbra, un secondo prima che si unissero.
Yours is the first face that I saw
I think I was blind before I met you
Now I don’t know where I am
I don’t know where I’ve been
But I know where I want to go
So I thought I’d let you know…
“A che stai pensando?” le chiese ad un tratto John.
Meredith gli baciò il collo. “A quanto sei meraviglioso.” rispose senza smettere di baciarlo.
John infilò una mano sotto la maglietta di lei e le accarezzò la schiena. “Però, mica male...”
Meredith si tirò su a guardarlo in viso. “Magari
potrei...” iniziò con un sorriso malizioso. “sai...
coccolarti un po’.”
Si morse le labbra e, con un finto sguardo di pudicizia, fece correre
gli occhi sul corpo di lui fino ad arrivare al cavallo dei pantaloni.
John la guardò con desiderio, le pupille ingrandite a tal punto che avevano quasi inghiottito le iridi blu.
“Sembra un programma delizioso...” mormorò
mettendole una mano dietro la nuca e attirandola verso di sé per
baciarla.
Proprio in quel momento la porta si spalancò ed apparve Bobby.
“Il tempo è scaduto, piccioncini.” disse.
John afferrò un oggetto che stava sul comodino (Meredith non
fece in tempo a vedere cosa fosse) e glielo tirò contro,
fortunatamente mancandolo.
“Bobby, esci immediatamente!” urlò. “Eravamo
d’accordo che mi avresti lasciato la stanza fino alle
cinque!”
“Beh, a parte il fatto che sono le cinque,” rispose lui
guardando l’orologio. “Meredith, la dottoressa Grey ti
cerca. Ti vorrebbe parlare.”
John si lanciò in una serie di insulti diretti alla bella
dottoressa dai capelli rossi. Sapendo di non avere scelta, anche se non
aveva affatto voglia di vedere Jean Grey, soprattutto in quel momento,
Meredith si sedette sul letto e cominciò ad infilarsi le scarpe.
“Beh, ti secca lasciarci ancora un minuto?” ringhiò John in direzione di Bobby, che sparì.
“Cosa pensi che voglia?” chiese poi rivolto a Meredith.
Lei alzò le spalle. “Parlare di Evie, credo. Non lo abbiamo ancora fatto.”
“Ehi.” John le mise una mano su una spalla e la fece voltare verso di lui.
“Non ci andare, se non ti va.” disse piano. “Non sei obbligata.”
Meredith scosse la testa. “Tu ti rifiuteresti di andare dalla Grey se lei ti facesse chiamare?”
John alzò le spalle. “Scherzi? Sai quante volte l’ho fatto?”
Meredith scoppiò a ridere. “Perché non mi sorprende?” rispose.
Si alzò in piedi e guardò John. “Bene, ci vediamo
dopo.” disse, cercando di non sembrare troppo turbata.
Lui la raggiunse e le prese le mani. “Sei sicura di volerci andare?”
Meredith appoggiò la fronte contro quella di John e lo
guardò negli occhi. “Sì.” rispose. Sorrise.
“Posso tenere testa a Jean Grey.”
Lui le prese il viso tra le mani. “Lo so.” sussurrò, e la attirò a sé per un bacio.
****
“Vieni, Meredith, vieni pure.” disse la dottoressa
Grey mentre le apriva la porta del suo studio. “Scusa per la
convocazione improvvisa. Spero di non averti disturbata.”
“No.” mentì Meredith il più convincentemente
che poteva. Sentì le sue guance colorarsi di rosso, e
pregò tutti gli dei nel cielo che alla Grey non venisse
l’idea di leggerle nel pensiero.
Fortunatamente la dottoressa sembrò non accorgersi del suo
imbarazzo. Con un sorriso, la invitò a prendere posto su una
delle poltrone e poi fece altrettanto. Ci fu un attimo di silenzio in
cui Meredith si guardò in giro. Lo studio era identico a come
l’aveva visto l’ultima volta che ci era stata, ma i vasi
con le rose bianche erano spariti. Niente di strano, pensò
Meredith: era troppo presto per la fioritura delle rose.
“Innanzitutto vorrei dirti che sono molto fiera di te,
Meredith.” cominciò Jean Grey con il suo solito tono
tranquillo. “Hai fatto enormi passi avanti da quando abbiamo
parlato l’ultima volta, e non mi riferisco solo delle tue
abilità. A proposito, stai continuando ad esercitarti nella
lettura del pensiero?”
Per la seconda volta nel giro di due minuti, Meredith fu costretta a mentirle. “Certo.” disse.
Non si era più esercitata da molto, molto tempo, e non
perché fosse troppo presa da John o altro; era fermamente
convinta che la dottoressa e il professor Xavier si sbagliassero
riguardo le sue capacità. Dopo mesi e mesi di inutili tentativi
era giunta alla conclusione che la sua abilità fosse quella di
manipolare la volontà (cosa che fra l’altro, le riusciva
con straordinaria destrezza), e non di leggere nel pensiero; aveva
provato a esprimere le sue obiezioni, ma la dottoressa Grey aveva
liquidato il problema come una semplice mancanza di esercizio.
Perciò, da qualche tempo a questa parte Meredith aveva deciso di
prendere in mano la questione per conto proprio e risolvere i suoi
problemi di telepatia semplicemente smettendo di occuparsene. Per il
momento questo sistema funzionava a meraviglia, ma non era
altrettettanto sicura che la dottoressa Grey ne avrebbe apprezzato
l’ingegnosità. Sperò che non la mettesse alla prova.
“Bene.” disse Jean Grey, soddisfatta della sua risposta. Meredith tirò un sospiro di sollievo.
“Ma non divaghiamo.” continuò accavallando le gambe.
“Cosa pensi di fare quando lascerai la scuola?”
Meredith aggrottò la fronte. “Scusi, non credo di aver capito la domanda.”
“Sei a metà del penultimo anno.” le spiegò la
dottoressa Grey. “L’anno prossimo dovrai decidere cosa fare
nella vita. Hai già qualche progetto, suppongo.”
Meredith si appoggiò allo schienale della poltrona, lievemente a
disagio. Progetti? Non aveva mai fatto piani a lungo termine nella sua
vita; tanto, a che sarebbe servito? Ora che la dottoressa glielo
domandava, Meredith si rese conto di non avere la più pallida
idea di cosa ne sarebbe stato di lei una volta terminato il liceo.
“Se devo essere sincera, no, non ho fatto nessun progetto.”
rispose infine, vergognandosene un po’. Di solito la gente ha dei
piani per il futuro.
“Beh, ad esempio, pensi di lasciare gli studi o vuoi andare al
college?” chiese la dottoressa Grey come se stesse spiegando una
cosa ovvia ad un bambino non proprio sveglio.
Meredith sorrise. Questa era una domanda retorica per lei, e la Grey lo
sapeva. Non frequentava forse l’Istituto grazie al fondo
d’assistenza che la scuola garantiva agli studenti con problemi
finanziari?
“Io non ho un soldo.” disse. Questa volta era lei che si
sentiva come se stesse esprimendo un’ovvietà. “Non
credo proprio di potermi permettere il college.”
La dottoressa Grey guardò la sua scrivania, e una cartelletta
color ocra che vi giaceva sopra si librò in aria e volò
fino alla poltrona. La dottoressa l’afferrò mentre si
trovava a mezz’aria e l’aprì, poi cominciò a
scorrere velocemente i fogli che si trovavano al suo interno.
“Il professor Wagner è entusiasta di te.” disse
continuando a guardare le pagine contenute nella cartella. “Dice
che hai grande talento per la recitazione. Vuole affidarti il ruolo di
Cordelia nella messa in scena di “Re Lear” che si
terrà a fine anno.” Alzò di scatto la testa dalla
cartella e guardò Meredith, vagamente preoccupata. “Questo
non avrei dovuto dirlo. Fa finta di non saperne niente, ok? Ad ogni
modo, quello che intendo dire è che molte università
stanziano borse di studio per gli alunni che entrano a far parte delle
loro compagnie teatrali. La Brown e la Columbia, solo per citarne un
paio sulla East Coast. Se invece preferisci spostarti, so che sia la
UCLA che Stanford hanno eccellenti programmi di teatro.”
Meredith la fissò, disorientata dalla grande quantità di
informazioni che aveva appena ricevuto. Le ci volle qualche secondo
prima di realizzare che la più importante non era che avrebbe
avuto il ruolo di protagonista nella recita di fine anno. I nomi
“Columbia” e “Stanford” le vorticavano nel
cervello.
“Anche il professor Cassidy ti considera una delle sue migliori
allieve.” proseguì la dottoressa Grey. “Ha detto che
il saggio che hai scritto riguardo la condizione sociale dei mutanti
nei paesi in via di sviluppo è tra i migliori che abbia mai
letto.” Meredith ricordava quel tema: il professor Cassidy le
aveva dato il massimo dei voti. “Secondo lui hai la stoffa per
diventare una giornalista politica. Ho letto anche io il tuo saggio,
Meredith, e, onestamente, concordo pienamente con lui. Sei libera di
fare ciò che vuoi, naturalmente, ma penso che sarebbe un vero
peccato se tu non sfruttassi il tuo potenziale.” Fece una pausa.
“Comincia a pensarci. Dopotutto hai ancora tempo.”
Meredith guardò, senza davvero vederlo, il disegno del tappeto
orientale ai suoi piedi. Avrebbe dovuto sentirsi felice ed entusiasta
per quest’opportunità che le si presentava
inaspettatamente davanti agli occhi, invece tutto quello che provava in
quel momento era un crescente senso di soffocamento. Chi era Jean Grey
per decidere della sua vita? Come si permetteva di scegliere al suo
posto quale strada intraprendere, quando nemmeno lei lo sapeva?
“Credo che una laurea in giornalismo sia l’ideale per te.
Sei una ragazza combattiva e piena di talento: sono sicura che una
volta terminati gli studi troveresti lavoro in un giornale importante
in men che non si dica. Il Washington Post, o il Times, magari anche
alla CNN, quello che vuoi.” continuò con un’aria
allegra. Meredith sentì il senso di soffocamento aumentare.
“Sono convinta che non avresti problemi ad ottenere una borsa di
studio da un’università prestigiosa. Ovviamente, anche la
scuola ti darebbe una mano.”
“No.” intervenne Meredith cocciutamente, felice di trovare
un’obiezione sensata da poter opporre. “Non voglio altri
soldi dall’Istituto. Mi avete già pagato il liceo, non
c’è bisogno che mi paghiate anche
l’università.”
“Oh andiamo, Meredith, non essere sciocca.” disse la
dottoressa Grey con un sorriso. “I soldi non sono un problema. Il
fondo di assistenza non si esaurisce con il liceo; serve anche per
aiutare gli studenti una volta che il loro ciclo di studi
all’Istituto è terminato.”
Meredith rimase in silenzio a guardare il tappeto. Cominciava a provare
ostilità verso la dottoressa Grey ed era arrabbiata con se
stessa per questo. Dopotutto, le aveva appena offerto
un’opportunità straordinaria per il suo futuro,
un’opportunità che non si sarebbe mai sognata prima
d’allora. Chiunque si sarebbe sentito entusiasta, e grato, di
fronte alla prospettiva di poter diventare, un giorno, un giornalista
di successo. Perché lei no?
“Meredith?” chiamò la dottoressa Grey. “C’è qualche problema?”
Lei scosse la testa stizzosamente. “No, nessun problema.”
“Non mi sembri molto entusiasta di quest’idea.”
Meredith alzò le spalle e continuò a guardare il tappeto.
“Non lo so ancora, ci devo pensare. Ha detto lei stessa che
c’è tempo .”
Ci fu una lunga pausa in cui Meredith evitò di incontrare gli
occhi della dottoressa Grey, timorosa che volesse leggerle nel
pensiero. Poi Meredith sentì la cartella contenente le sue note
scolastiche atterrare dolcemente sulla scrivania, e con la coda
dell’occhio vide la dottoressa piegarsi verso di lei, i gomiti
appoggiati sulle cosce e le mani intrecciate.
“La tua vita è molto cambiata dall’ultima volta che
ci siamo incontrate.” disse. Il suo tono era comprensivo,
indulgente. “Vuoi che ne parliamo?”
Meredith guardò la dottoressa Grey. Dalla sua esperienza, sapeva
bene che non avrebbe accettato un no come risposta. Avrebbe continuato
ad attaccare finché Meredith non fosse stata troppo stanca per
difendersi e le avrebbe detto ciò che voleva sentire. Doveva
conservare le forze, giocare d’astuzia.
“Ok.” disse.
La dottoressa Grey sembrò stupirsi. Poi si riprese e le
indirizzò un debole sorriso. “Sono stata molto colpita da
come hai reagito alla morte di tua sorella. Se finora non sono
intervenuta, è perché ho visto che hai opposto a questa
perdita una reazione positiva, costruttiva, invece che negativa.”
Positiva? Meredith ebbe voglia di scoppiare a ridere. Se la dottoressa
Grey avesse saputo quanto dolore e quanta
rabbia l’assalivano ogni volta che pensava a Evie non si
sarebbe mai sognata di dire una cosa del genere. Solo perché non
andava in giro a far esplodere le finestre e a trasformare i suoi
compagni in burattini non significava che non avesse voglia di farlo.
“So che ti dei fatta degli amici.” continuò la
dottoressa Grey con un sorriso. “Sono contenta che la mia idea di
metterti in camera con Jubilation Lee abbia funzionato.”
Fece una pausa e guardò Meredith negli occhi. “E so anche che tu e John Allerdyce vi frequentate.”
Meredith girò la testa di scatto verso la finestra, improvvisamente furiosa.
Bobby.
O lui aveva spifferato tutto ai suoi adorati amici professori, oppure
la Grey le aveva letto di nuovo nel pensiero. Non sapeva dire quale
delle due possibilità la mandava più in bestia.
“Non ho usato la telepatia, Meredith.” si affrettò a
spiegare la dottoressa, indovinando metà di quello a cui stava
pensando. “Non ne ho avuto bisogno. Sono la vicepreside, e in
quanto tale ho la responsabilità degli allievi. Non faccio altro
che tenervi d’occhio, tutti quanti voi, per tutto il santo
giorno.” A Meredith sembrò di sentire una nota di
stanchezza nella voce di Jean Grey. “Non c’è voluto
molto per notare un cambiamento nel vostro comportamento. Certo, siete
stati discreti, molto più discreti delle altre coppie. Ma a
mensa vi sedete più vicini di quanto sarebbe necessario, vi
cercate con gli occhi quando siete lontani, e di tanto in tanto vi
sfiorate la mano nei corridoi.”
Dovette ammettere che la dottoressa Grey era una buona osservatrice.
Non avevano mai pensato di nascondersi, lei e John, ma il fatto che ora
Jean Grey stesse parlando della loro relazione come se la cosa la
riguardasse la irritava oltre misura.
“Meredith, guardami.” disse la dottoressa con calma.
Dovette fare un grosso sforzo per togliere lo sguardo dai rivoli di
pioggia che rigavano i vetri delle finestre e posarli sulla Grey.
“Ti prego, non fraintendermi. Il fatto che tu e John abbiate una
relazione è magnifico, Meredith, assolutamente magnifico. Per
tutti e due voi. Credo che entrambi possiate trarne grande beneficio, e
come ho detto prima, sono molto, molto contenta che tu abbia opposto
una reazione costruttiva ad un evento così negativo come il
suicidio di tua sorella.”
Ci fu un pesante silenzio in cui le due donne si guardarono negli occhi. Fu Meredith la prima ad abbassare lo sguardo.
“Ma voglio che tu ti renda perfettamente conto di ciò che
la tua relazione con John comporta.” disse la dottoressa Grey.
Meredith tornò a guardarla in viso, confusa. “Non capisco.”
“Meredith, quando tu e John siete arrivati qui, entrambi avevate
moltissima rabbia e moltissimo dolore in corpo. Una cosa totalmente
comprensibile, visto le vostre esperienze passate.” Per un
istante lo sguardo della dottoressa Grey si abbassò sul tavolino
che separava le due poltrone. “Voi due avete affrontato
situazioni attraverso le quali nessuno, nessuno
è in grado di passare indenne, e le cicatrici che quelle
esperienze vi hanno lasciato ve le portate dietro ancora oggi.”
Meredith si sentì come se le avesse appena conficcato una lama
incandescente nella carne. Fece un enorme sforzo perché il suo
viso rimanesse tranquillo.
“Se curate adeguatamente,” continuò la dottoressa
Grey “te lo posso assicurare, un giorno quelle cicatrici
spariranno, o saranno così minuscole che nemmeno vi daranno
più fastidio. Ma il processo di guarigione è lungo e
difficile, Meredith, e basta molto, molto poco perché quelle
ferite si riaprano e buttino fuori tutto il male che tengono ancora in
sé.” Tacque per un istante. “Sai come si origina
un’esplosione vulcanica?” Il magma rimane in pressione
sotto la superficie terrestre finché non trova un buco, una
feritoia dal quale raggiungere il terreno. E quando ci riesce, erutta
da sottoterra con una violenza tale da distruggere tutto ciò che
ha attorno a sé. Persino il vulcano stesso, a volte. E una volta
che il magma comincia a fuoriuscire, non c’è più
modo di fermare l’eruzione.”
Meredith cominciò a provare un vago senso di nausea. Non voleva ascoltare quelle cose.
“In voi due c’è un grande potenziale, sia in senso
positivo che in senso negativo. Ci sono due anime belle dietro quelle
cicatrici, due persone che possono fare grandi cose per se stessi e per
gli altri. Ma adesso, Meredith, tu e John state camminando
sull’orlo del baratro, e voglio che tu lo sappia.”
Le ultime parole della dottoressa la colpirono come una sberla in piena
faccia. Che intendeva dire? Perché parlava come se lei e John si
trovassero davanti ad un pericolo mortale?
“C’è ancora troppo dolore, troppo risentimento in
voi, in tutte e due voi, ma in John più che in te, Meredith. Sai
perché ho voluto parlare con te da sola e non vi ho fatti venire
insieme? Perché in questo momento sei tu quella con il maggior
potenziale positivo. Meredith, se dovesse succedere...”
La dottoressa Grey sembrava veramente preoccupata ora, Il suo tono era teso ed allarmato.
“John non riesce ancora a superare tutta la sofferenza e tutta la
rabbia che ha ancora dentro. Certo, lo so che anche per te è
difficile, ma tu riesci a gestire questo fardello meglio di quanto ci
riesca lui. Riesci ad essere una presenza positiva, sia per te stessa
che per John. Per questo dico che sono contenta che vi frequentiate,
perché credo che la tua presenza e il tuo affetto possano fare
per lui molto più di quanto io possa fare in mesi e mesi di
colloqui. Ma devi stare molto, molto attenta, Meredith. Esattamente
come tu tendi al positivo, John tende al negativo. Al nichilismo.
All’autodistruzione.”
Jean Grey si fermò e guardò fuori dalla finestra.
Finalmente la pioggia aveva smesso di cadere, e un timido raggio di
sole tentò di gettare la sua debole luce nella stanza. Era uno
sforzo inutile, comunque. Presto ci sarebbe stato il tramonto, e il
sole avrebbe dovuto scomparire.
“E basterà poco, pochissimo, perché la sua tendenza
alla autodistruzione inghiotta anche te. Per questo ti ho chiamato qui,
Meredith. Se ciò dovesse accadere, se l’odio e la rabbia
dovessero prevalere dentro John, tu dovrai riequilibrare la bilancia e
sforzarti di riportare entrambi verso il positivo, perché John
da solo non è in grado di aiutare se stesso. Ma c’è
la possibilità che tu non riesca a farlo.”
Meredith guardò la vicepreside e cercò di dare un senso
alle sue parole. Aveva la vaga impressione di sapere già dove
sarebbe andata a parare, e anche se il suo istinto le diceva di
prendere la porta e andarsene da quella stanza il più
velocemente che poteva, il peso di quello che la dottoressa Grey le
stava dicendo la teneva inchiodata sulla poltrona.
“Potete perdervi entrambi, Meredith, oppure salvarvi entrambi.
Forse un giorno, non oggi, non subito, ma un giorno, tu dovrai prendere
una decisione. E allora voglio che mi prometti che se sarà
necessario, prenderai la decisione giusta e ti staccherai da John,
perchè se non lo farai, Meredith, lui ti trascinerà sotto
con sé.”
Finalmente, ci fu silenzio. Forse fu proprio quel silenzio così
pesante, molto più che le parole della dottoressa, a far nascere
dentro Meredith una furia cieca, gelida, che aumentava sempre
più ogni secondo che quel silenzio si prolungava.
Jean Grey non aveva scavato a mani nude nel terreno ghiacciato,
facendosi tagliuzzare le dita dal gelo e dai sassi. Dov’era lei,
dov’erano tutti quanti, quando John si era inginocchiato accanto
a lei nella neve per aiutarla a seppellire Evie?
“So che la tua recente perdita ti ha sconvolta, ma...”
“Credo che lei si faccia troppe illusioni, dottoressa, riguardo a
quello che sa di me.” Meredith era probabilmente più
infuriata in questo momento di quanto lo fosse stata durante tutto il
colloquio, eppure il suo tono la sorprese per quanto fu calmo e gelido.
Jean Grey la guardò come se Meredith l’avesse appena
schiaffeggiata. “Meredith,” balbettò “io posso
capire quello che provi...”
“Davvero?” Le parole le uscivano di bocca prima che potesse
fermarle. “Aveva una sorella che si è suicidata
perchè non ce la faceva a vivere da mutante tra gli umani?”
La dottoressa sembrò esitare di nuovo. “Questo no, ma...”
“Allora non è proprio possibile che lei capisca.”
Ci fu di nuovo silenzio. Meredith guardò la dottoressa Grey
dritta negli occhi, come se volesse sfidarla a leggerle nel pensiero.
La vicepreside resse lo sguardo, ma non tentò nessun trucco
telepatico.
“Hai ragione.” disse infine la dottoressa Grey. Il suo tono
era di nuovo calmo e controllato. “Ti chiedo scusa. Non posso
sapere cosa provi riguardo alla morte di tua sorella, nessuno
può. Ho scelto le parole sbagliate, e mi dispiace.”
Sospirò. “Meredith, voglio solo che tu ti prenda cura di te stessa.”
“L’ho sempre fatto.” rispose.
“Questo lo so. Ma non vuoi lasciare che io ti aiuti?”
chiese la dottoressa. Meredith guardò un punto imprecisato oltre
la sua spalla.
“Lo sta già facendo. Con l’Istituto, le lezioni, e
tutto il resto. E’ venuta fino a Baltimora a prendermi.”
disse infine.
Di nuovo la dottoressa Grey sospirò.
“D’accordo.” disse mentre si alzava. “Penserai
a quello che ti ho detto, vero? L’università... e anche
tutto il resto?”
Meredith rimase seduta e non rispose. Improvvisamente un’idea le attraversò il cervello.
“Chi lavora nelle cucine?” chiese.
La dottoressa la fissò, totalmente spiazzata dalla domanda.
“Abbiamo assunto delle persone esterne alla scuola.”
rispose. “Una cuoca e due ragazze che l’aiutino.
Perché mi fai questa domanda?”
Meredith sorrise tra sé e sé. “Non importa.” rispose.
...................................................................................
Eh eh eh! (risatina
cattivella). Niente divertimento per il povero John, no no! (John:
“Noooooooo maledetta! Giuro che questa me la paghi! Appena mi
capiti sotto tiro ti faccio entrare in un posacenere!” ... Zitto,
schiavo! O mando lì Wolverine in pieno assetto da battaglia!)
Scusate, stavamo dicendo? Ah sì...
La canzone che Meredith e John ascoltano mentre... ehm... chiacchierano
del più e del meno sul letto di lui è “The First of
My Life” dei Bright Eyes. Ecco la traduzione delle strofe
riportate nel capitolo:
“Questo è il primo giorno della mia vita
Giuro che sono nato proprio qui sulla porta...
[...]
Il tuo è il primo viso che ho visto
Penso di essere stato cieco prima di conoscerti
Ora non so dove sono
Non so dove sono stato
Ma so dove voglio andare.
E allora ho pensato di fartelo sapere... [...]”
Volevo ringraziare in maniera
particolare lia, che ha lasciato una bellissima recensione che mi ha
commossa. Grazie davvero tanto! Ho creduto molto in questa fanfiction e
sono felice che qualquno l'apprezzi. Soprattutto sono felice per le tue
belle parole su Meredith! Come "mamma" letteraria sono molto sensibile
su questo argomento. Spero che contiuerai a seguire la mia storia, e
nel frattempo ti restituisco sinceramente riconoscente la stretta di
mano, e se non ti offendi ti mando anche un bacio.
Colgo l'occasione per salutare
anche chiunque altro segua questa fanfic, in maniera particolare Gertie
e Star_Dust_Daga (un bacione anche a voi, ragazze!). Mi scuso di avervi
fatte aspettare, ma come avete visto non è dipeso dalla mia
volontà.
Bene, e con questo abbiamo finito. A presto con il capitolo 11!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
ItF11
Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Come vedete, il mio
computer ha deciso di fare il bravo e sono riuscita ad aggiornare
puntualmente. Da questo capitolo cominceranno a presentarsi gli
avvenimenti del film X Men 2. Devo però confessarvi un segreto:
io ho visto solo il primo e il terzo film della trilogia, e ho letto la
trama del secondo. Perciò, lo scheletro della storia
seguirà grosso modo la trama di X Men 2, ma i dettagli sono
stati aggiunti dalla mia fantasia. Spero non ve la prenderete troppo.
....................................................................................
Quella notte un’ombra scura, più scura della stessa notte,
scivolò in silenzio tra gli alberi del parco e si
avvicinò furtiva alla villa. Poco dopo un’altra ombra, e
poi un’altra, e un’altra, e un’altra, raggiunsero la
prima e si acquattarono a pochi passi dalle entrate, gli occhi
spalancati nelle tenebre e le orecchie tese ad aspettare la parola che
avrebbe dato inizio alla caccia.
Poi la parola fu pronunciata, e ci fu l’inferno.
.
****
Meredith si svegliò di soprassalto quando un urlo che sembrava
volerle trapassare i timpani riecheggiò per la casa facendo
tremare i vetri delle finestre. Si mise a sedere sul letto ed altre
urla, non così forti come il primo ma altrettanto terrorizzate,
si levarono oltre i muri della stanza e la porta chiusa.
“Oddio no! Oddio no!”
“Hanno attaccato la scuola!”
Poi ci fu una voce che Meredith riconobbe come quella di Piotr Rasputin:
“Correte!”
Per una frazione di secondo i suoi occhi incontrarono quelli di
Jubilee, anche lei seduta sul suo letto, terrorizzata. Poi le due
ragazze saltarono giù dai loro letti e cominciarono a vestirsi.
Meredith afferrò una maglietta a maniche lunghe e un paio di
jeans che giacevano sul pavimento, tra le cose da lavare, e se le
infilò più velocemente che poteva. Allacciò
frettolosamente le scarpe da ginnastica e, dopo essersi accertata che
Jubilee fosse pronta a seguirla, spalancò la porta e si
lanciò nel corridoio.
Era il panico. Ragazze con lo sguardo terrorizzato e i capelli in
disordine, alcune ancora in pigiama, correvano verso le scale. Molte
avevano il viso rigato di lacrime, e Meredith vide una ragazza alta e
robusta spingere da parte le più mingherline per farsi spazio.
“Andiamo!” le disse Jubilee, iniziando a correre anche lei nella direzione delle scale.
“No!” Meredith la afferrò per un braccio e Jubilee
la guardò confusa. Il suo viso era teso per la paura e aveva gli
occhi pieni di lacrime. “Questa scala finisce nell’atrio
principale, finiremo in trappola!” Indicò la direzione
opposta. “Dobbiamo scendere per le scale della lavanderia.
Vieni!”
Jubilee annuì e le due ragazze cercarono di farsi largo tra la
folla che le spingeva nella direzione opposta. Dovettero procedere il
più possibile vicino ai muri, tenendosi per mano per non essere
separate dall’impeto delle loro compagne in fuga. Più di
una volta Meredith fu urtata così violentemente che quasi perse
l’equilibrio.
Poi la folla cominciò a scemare, e poterono finalmente mettersi a correre.
Mai, da quando era arrivata all’Istituto, il corridoio degli
alloggi le era sembrato così lungo. Nel frattempo, il suo
cervello saltava da un pensiero all’altro, sovraccaricato
dall’adrenalina. Dobbiamo
uscire di qui. Dobbiamo arrivare al parco. E poi? E se ci aspettano? E
se la porta sul retro è chiusa? Cosa facciamo allora? Cosa
facciamo?
Girò l’angolo, persa nei suoi pensieri, e si
ritrovò a pochi centimetri da una ragazza che veniva dalla
direzione opposta. Ormai era troppo tardi per evitare lo scontro, e
Meredith chiuse gli occhi in attesa della collisione.
Non successe nulla. Sentì un’ondata di freddo, e la
spiacevole sensazione di avere migliaia e migliaia di formiche che le
zampettavano sotto la pelle.
Riaprì gli occhi e, stupefatta, si girò per vedere una
ragazza bassa e con i capelli castani correre lungo il corridoio, in
direzione delle scale principali. Lo shock fu tale che per un momento
dimenticò che doveva continuare a scappare.
“E’ solo Kitty!” le urlò Jubilee passandole
accanto e tirandola per un braccio. “Passa attraverso le
cose!”
Meredith si ridestò e ricominciò a correre più
veloce che poteva. Girarono un ultimo angolo ed eccole lì.
Le scale.
Le aveva scese almeno una volta a settimana da quando era arrivata alla
scuola. Erano le vecchie scale di servizio che portavano alla
lavanderia degli studenti. Dovevano solo scendere due piani di scale,
imboccare il corridoio sulla destra, girare a sinistra una volta
arrivate alla stanza dove si trovavano le lavatrici, oltrepassare il
locale delle caldaie e uscire dalla porta sul retro. A quel punto
sarebbero state nel parco, e avrebbero potuto avere
un’opportunità di fuggire.
Jubilee era davanti a lei di qualche metro ora, e cominciò a
scendere i gradini a due a due. Meredith la seguì, non pensando
più a come uscire di lì ma come rientrare una volta
fuori. Devo trovare John. Come
faccio a sapere se sta bene? Come faccio a sapere dov’è?
Devo andare a cercarlo. E se fosse già fuori? E se l’hanno
preso?
Superarono il pianerottolo del primo piano ed erano a oltre metà
della rampa quando Jubilee si fermò improvvisamente. Solo per un
miracolo Meredith riuscì a non finirle addosso. Le due ragazze
rimasero in attesa, osando a malapena respirare. Alcune voci maschili
giunsero a loro dal pianoterra.
“...narcotizzati, sì.”
“Evacuate i ragazzi, e...”
Meredith e Jubilee si guardarono terrorizzate. Poi Jubilee
staccò gli occhi da quelli di Meredith e guardò verso il
pianerottolo che avevano appena sorpassato. Sulla destra c’era
una porta che riconduceva nel dormitorio; andando a sinistra si
imboccava un corridoio che permetteva di raggiungere l’ala della
villa che ospitava le aule.
Meredith annuì e lei e Jubilee cominciarono a risalire le scale
in punta di piedi, un gradino alla volta. Sentivano le voci di quegli
uomini provenire da sotto di loro e a Meredith sembrò di vedere
oltre la balaustra delle uniformi grigie e nere, e delle piccole figure
colorate stese per terra a faccia in giù. Non aveva mai avuto
così paura in tutta la sua vita.
Raggiunsero il pianerottolo e cominciarono a dirigersi verso il
corridoio sulla sinistra, di tanto in tanto lanciando occhiate
terrorizzate dietro di sé, aspettando di veder comparire i
militari da un momento all’altro. Jubilee mise la mano sulla
maniglia della porta e la spinse verso il basso, più
delicatamente che poteva. Meredith trattenne il respiro. Non ci fu
nessun rumore.
Pianissimo, Jubilee aprì la porta quel tanto che bastava
perché potessero infilarsi nel corridoio, e richiuse la porta
dietro Meredith quando anche lei fu passata.
Per un attimo le due ragazze si guardarono in silenzio, indecise se
potessero o no considerarsi fuori pericolo. “Vieni,
allontaniamoci dalla porta.” sussurrò Jubilee.
Si inoltrarono nel corridoio buio, guidate solo dalla luce della luna.
Quando furono ragionevolmente lontane, Jubilee si voltò e la
guardò spaventata.
“Meredith, dobbiamo trovare gli altri.” sussurrò. “Marie, e Bobby, e...”
Meredith annuì. “Lo so.”
Jubilee prese fiato per un momento. “Se continuiamo in questo corridoio, arriviamo alle aule. E poi che si fa?”
Meredith cercò di pensare il più velocemente che poteva.
Dove sarebbero andate una volta arrivate alle aule? Se scendevano nel
salone d’ingresso, era quasi sicura che le avrebbero prese.
Sarebbe stato pieno di militari lì. Tornare indietro era
impossibile. Rimanere nascoste in una delle aule? Non se ne sarebbero
andati prima di perquisire l’edificio. Senza contare che dovevano
ancora trovare gli altri. Cominciò a sentirsi disperata.
“La biblioteca.” disse infine Jubilee, gli occhi illuminati da un lampo di speranza.
Meredith scosse la testa. “Dobbiamo scendere nell’ingresso
per arrivare alla biblioteca. Ci butteremmo dritte nelle loro
braccia.”
“No, se passiamo dalla porta secondaria. La scala dietro all’aula di scienze porta proprio lì.”
Era un’ottima idea. Cominciarono a camminare lungo il corridoio,
gli occhi spalancati e le orecchie tese, ma sembrava che
quell’ala della villa fosse stata risparmiata
dall’incursione. Probabilmente, dato che era notte fonda, i
soldati non pensavano che vi si potesse trovare qualcuno. Meredith e
Jubilee si tennero quanto più possibile lontano dalle finestre,
ma potevano vedere, attraverso la stoffa delle tende, la luce di
numerosi fari puntati verso la casa e le ombre di uomini e veicoli che
di tanto in tanto oscuravano momentaneamente le luci artificiali.
Cominciarono a rilassarsi un pochino, e nel cervello di Meredith
domande meno urgenti cominciarono a farsi strada tra i suoi pensieri.
Chi erano quelle persone? Cosa volevano da loro, e perché
avevano assaltato l’Istituto? E soprattutto perché i
professori non stavano difendendo i loro alunni? Un’idea
raccapricciante l’assalì senza preavviso: e se si fossero
liberati prima degli adulti, per potersi poi dedicare con calma a dare
la caccia ai ragazzi? Un’immagine estremamente vivida le si
formò davanti agli occhi prima che Meredith la potesse
scacciare: una porta sfondata, e un corpo esanime avvolto in lenzuola
insanguinate...
“Ci siamo quasi.” sussurrò Jubilee. Girarono
l’angolo, e videro una scena che fece loro ghiacciare il sangue
nelle vene.
Un ragazzino di non più di dieci-undici anni si acquattava
contro il muro, terrorizzato, il volto solcato dalle lacrime e le
braccia sopra la testa. Su di lui troneggiava un soldato in pieno
assetto da battaglia, la canna del fucile puntata contro la faccia del
bambino.
“No!” urlò Meredith. Sentì una potentissima ondata di paura, rabbia e sdegno esploderle nello stomaco.
Il soldato, sorpreso dalla sua voce, si girò a guardarla. Fu un errore fatale.
Appena i suoi occhi incontrarono quelli di Meredith, la mano che
stringeva il fucile si aprì mollemente e l’arma cadde a
terra con clangore. Il soldato fece una piroetta di novanta gradi, si
diresse contro il muro opposto a lui con passo di marcia e ci
sbattè contro con violenza.
Meredith lo fece tornare indietro di qualche passo, e poi lo
rimandò a sbattere contro la parete, stavolta con ancora maggior
violenza della precedente. Vediamo se questo ti piace. Lo trovi divertente? Divertente come puntare un fucile in faccia ad un bambino?
Dalla bocca e dal naso del soldato cominciò a colare del sangue,
e Meredith gli ordinò di nuovo di correre contro la parete. Non
si sarebbe forse nemmeno accorta dei soldati che, richiamati dal suo
grido, stavano accorrendo dal corridoio che era alle loro spalle, se
Jubilee non l’avesse tirata per un braccio.
“Meredith, scappiamo!”
Il soldato cadde a terra come una bambola di stracci, la faccia coperta
di sangue. Meredith si riscosse, e cominciò a correre.
“Scappa!” disse al bambino che se ne stava ancora seduto
per terra e la guardava sbalordito. Lui annuì e semplicemente
scomparve.
Tutto quello che Meredith riusciva a sentire in quel momento erano le
voci dei soldati e i loro passi dietro di loro, sempre più
vicini, sempre più vicini. Corse a perdifiato per il corridoio,
quel corridoio che non avrebbe saputo dire quante volte aveva
attraversato sbadigliando con i libri sottobraccio, e si lanciò
giù per le scale.
In men che non si dica il suo piede toccò l’ultimo gradino
e Meredith vide, alla fine del corridoio, la porta della biblioteca, la
sua unica possibilità di salvezza. Era arrivata a circa cinque
metri dalla porta quando una morsa d’acciaio le si avvolse
intorno alla vita e la sollevò, trascinandola nell’ombra.
Provò a urlare, ma una mano le chiuse la bocca.
E’ finita, pensò mentre lottava per divincolarsi. Sono morta. Non rivedrò mai più né John né Jubilee, né nessun altro...
“Shhh.” la voce di Logan le sussurrò
nell’orecchio. “Non urlare, sono io.” Meredith smise
immediatamente di lottare e Logan la mise a terra.
“Meredith.” John emerse dal buio e la prese tra le braccia,
stringendola forte a sé. Lei lo strinse a sua volta, appoggiando
il viso contro la sua spalla e lasciando che due lacrime di sollievo le
solcassero le guance.
Quando sollevò la testa dalla spalla di John, vide che c’erano anche Marie e Bobby lì con loro.
“Jubilee.” disse Meredith, mentre l’angoscia e la
paura le si riversavano di nuovo nell’animo. “Era proprio
dietro di me, dobbiamo...”
“L’hanno presa.” disse Bobby, il suo volto triste e teso.
“Allora dobbiamo...”
“Non le faranno del male.” disse Logan. “Vogliono
solo portarvi via, non vogliono uccidervi. Non possiamo fare più
niente per Jubilee adesso.”
Meredith rimase in silenzio, troppo frastornata e sotto shock per poter
fare o dire alcunché. Jubilee era stata catturata,
l’avevano portata via chissà dove...
“La biblioteca è piena di soldati. Dobbiamo arrivare alla
camera speciale.” continuò Logan indicando il corridoio
dietro di loro, perpendicolare a quello che portava alla porta
secondaria della biblioteca. “Dentro la camera c’è
un passaggio che ci porterà lontano dalla villa. E’ tutto
chiaro?”
I ragazzi annuirono. Meredith si sforzò di prestare attenzione a
quello che Logan stava dicendo. Chiuse gli occhi, prese un bel respiro
e poi annuì. Le braccia di John ancora la tenevano per la vita,
ed era una sensazione rassicurante. Dovevano arrivare alla camera
speciale, andare lontano da quegli uomini.
“Dobbiamo fare piano, almeno finché non saremo lontani
dalla biblioteca. Bobby, in testa. Io chiudo il gruppo.” concluse
Logan.
Si incamminarono, Bobby che avanzava cautamente, Marie poco dietro di
lui, John e Meredith e infine Logan. Quando il corridoio ebbe fatto un
paio di angoli, Logan disse: “D’accordo. Ora potete
mettervi a correre.”
“O magari potete non farlo.” disse una voce gelida dietro di loro.
Si voltarono di scatto, Wolverine sfoderando gli artigli, John facendo scattare il suo accendino.
Un uomo corpulento, con la barba e un’uniforme grigia, stava in
piedi nel centro del corridoio. Meredith sperò che la guardasse,
ma l’uomo sembrava interessato solo a Logan.
“Sarebbe solo uno spreco di energie e di tempo, per tutti quanti
noi. Sono sicuro che possiamo giungere ad un accordo onorevole. Non
credi anche tu, James?” disse rivolgendo a Logan un sorriso
gelido. Meredith pensò che era così che doveva sorridere
una iena.
“Come... come sai...” iniziò Logan, scioccato.
“Oh, io so molte cose, James.” continuò la iena
vestita di grigio. “Cose che anche tu vorresti sapere.”
Fece una pausa e sorrise di nuovo. “Vuoi sentirle?”
Logan esitò, ma prima che potesse dire una parola, Bobby
scattò in avanti e puntò i palmi dalle mani verso il
soldato, e in pochi secondi uno spesso muro di ghiaccio tagliava in due
il corridoio, loro da una parte e la iena dall’altra. Logan
guardò prima il muro, poi Bobby, e per una frazione di secondo
Meredith si aspettò che lo colpisse. Veloce come era apparsa, la
strana espressione sul volto di Logan sparì.
“Ottimo lavoro, Bobby.” disse. Guardò Meredith e gli altri ragazzi. “Usciamo di qui, presto.”
****
Anche dopo essere usciti dal passaggio continuarono a correre
attraverso i boschi, desiderosi di mettere un buon numero di chilometri
tra loro e i militari.
Le prime luci dell’alba li colsero mentre attraversavano una
foresta di abeti secolari, a pochi metri dalle rive di un lago. Logan
si guardò attorno, si appoggiò ad un tronco e tirò
fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni.
“Possiamo riposarci un po’adesso.” disse.
Marie crollò a terra e si mise a piangere, e Bobby le si sedette
accanto e le accarezzò le spalle ed i capelli, mormorandole
parole di conforto. Meredith si sedette su una roccia che affiorava dal
terreno e si prese la testa fra le mani, disperata.
John l’abbracciò e le fece appoggiare la testa sulla sua spalla. Meredith cominciò a piangere.
“Ehi.” le sussurrò John mentre la cullava dolcemente. “Ehi.”
Meredith alzò il volto e lo guardò. “Evie.”
mormorò. “Le avevo detto che sarebbe stata al
sicuro.”
John le accarezzò il viso e asciugò le sue lacrime.
“Lo è.” disse con convinzione. “Non la
troveranno mai.”
Rimasero così tutti e cinque, Bobby e Marie per terra, Meredith
e John seduti sulla roccia e Logan che fumava in silenzio appoggiato
all’albero. Indifferente alla loro paura e al loro dolore, la
superficie del lago risplendeva al sole nascente, proiettando migliaia
e migliaia di luci allegre e multicolori.
......................................................................................................................
E' la prima volta che
scrivo un capitolo "d'azione" e sono un po' in ansia. Spero che non mi
sia riuscito troppo confuso o monotono, e di essere riuscita a
trasmettere il senso di pericolo e la paura che i personaggi provano.
Fatemi sapere, ok?
Di nuovo grazie a lia per aver recensito! Un bacio a tutti e a presto con il capitolo 11.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
ItF12
Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Salve a tutti! Ecco a voi il capitolo 12.
..................................................................................................................
“Sei sicuro che la tua famiglia non creerà problemi, Bobby?” disse Logan.
Stavano percorrendo un viale costeggiato da villette bianche in stile
coloniale, tutte identiche le une alle altre, con il praticello ben
curato davanti alla casa e il portico di legno. La classica periferia americana, pensò Meredith mentre si guardava attorno.
“Sicuro.” rispose Bobby che, tenendo per mano Marie, li
stava guidando lungo il viale. “Gli ho telefonato dalla stazione,
mia madre stava impazzendo dalla gioia. Ci stanno aspettando.”
Non sapendo cosa fare né dove andare, Bobby aveva proposto di
rifugiarsi a casa dei suoi a Boston e decidere la prossima mossa una
volta arrivati là. Dopo un attimo di esitazione, Logan aveva
approvato il piano: avevano bisogno di un posto sicuro dove nascondersi
finché non avessero saputo cosa fare, e Boston era
sufficientemente lontano dall’Istituto.
“Quanto manca ancora?” chiese John, esausto. Camminavano da almeno un ora.
“E’ quella lì in fondo.” rispose Bobby,
indicando una casa con grandi finestre ad arco e il porticato grigio
pieno di piante in vaso.
“C’è solo una cosa.” aggiunse mentre
imboccavano il vialetto d’ingresso. “Non gliel’ho
detto.”
“Detto cosa?” domandò Marie.
Bobby si voltò e guardò Logan. “Che sono un mutante.”
“COSA?” gli chiese Logan, a metà tra lo scioccato e il furioso.
“Bobby, ma sei impazzito?” disse John. “Non hai visto
quello che è successo a scuola? Che pensi che volesse quella
gente?”
Marie sembrava altrettanto stupefatta. Meredith guardò Bobby e
pensò che se non fosse stata così stanca l’avrebbe
preso a sberle.
“Che dici, loro non sono così!” replicò
Bobby. “Vedrete, quando spiegheremo cosa è successo loro
capiranno subito e...”
“Andiamocene.” ordinò secco Logan.
Non fecero in tempo a voltarsi che la porta d’ingresso si aprì e apparve una donna.
“Bill! Tom!” chiamò rivolta a qualcuno che si trovava dentro la casa. “Sono arrivati!”
Poi uscì e andò incontro alle cinque persone che stavano
in piedi, stravolte e spaventate, sul suo prato. Meredith e gli altri
si scambiarono uno sguardo veloce: ormai era troppo tardi per tornare
indietro.
“Bobby, tesoro!” disse abbracciando il figlio. “Come sono felice di vederti!”
“Mamma.” rispose lui, divincolandosi dalla stretta.
“Questi sono i miei amici, e il professor Howlett, da...”
si interruppe in cerca di una definizione. “...scuola.”
La signora Drake strinse la mano a Logan, che rispose con un orribile
sorriso tirato, e poi guardò i compagni di suo figlio.
“Benvenuti, ragazzi.” disse con calore. Meredith
pensò che assomigliava davvero moltissimo a Bobby. Entrambi
avevano gli occhi chiari e i capelli castani, e un viso spigoloso
addolcito da un’espressione mite.
“Vi prego, non rimanete sul prato.” continuò la
mamma di Bobby con un sorriso, indicando la porta d’ingresso.
“Andiamo in casa.”
Mormorando qualche parola di ringraziamento, Meredith, John e Marie,
seguiti da Logan, salirono le scalinata del portico ed attraversarono
la porta che la signora Drake, sempre tenendo per mano suo figlio,
teneva spalancata per loro.
Si ritrovarono in un ingresso piccolo ma elegante, con le pareti
rivestite di legno scuro tirate a lucido e numerosi quadri raffiguranti
scene di caccia appesi ai muri. Un uomo dall’aspetto atletico
nonostante qualche chilo di troppo e i capelli striati di grigio venne
loro incontro da una delle stanze in fondo al corridoio, e strinse con
calore la mano a Logan.
“William Drake.” si presentò. “Non credo ci siamo mai incontrati.”
“No, infatti.” rispose Logan, che sembrava aver
riguadagnato il controllo di se stesso. “Sono James Howlett, uno
dei professori di Bobby. Ci dispiace disturbare.”
“Oh, ma non è affatto un disturbo!” rispose la
signora Drake. “Tom!” gridò rivolta alle scale.
“Vieni a salutare tuo fratello!”
“Siamo molto, molto felici che siate passati a trovarci.”
continuò il padre di Bobby. “Anche se non abbiamo capito
molto bene come mai vi troviate a Boston.”
“Gita scolastica.” rispose secco Logan. Meredith
pensò che fosse una scusa pessima, ma fortunatamente un
ragazzino biondo sui quattordici anni scese le scale e si fermò
a guardarli dal penultimo gradino, appoggiandosi alla ringhiera.
“Ehi tu!” gli disse Bobby andandogli incontro e
scompigliandogli i capelli. Il ragazzo sorrise e diede un cinque al
fratello. “Ciao Bobby.” disse.
“Ragazzi,” iniziò Bobby mettendo un braccio attorno
alle spalle del fratello minore. “Questo è Tom, il mio
fratellino, e questi ovviamente sono i miei genitori.”
Meredith, John e Marie risposero con un cenno di saluto. Il signore e
la signora Drake sorrisero e si fecero avanti per stringere loro la
mano.
“Lui è il mio amico John...” Bobby proseguì nelle presentazioni.
Il padre di Bobby annuì. “Bobby ci ha parlato di te.” disse con un sorriso mentre stringeva la mano di John.
“..lei è Meredith...”
“Piacere.” disse lei stringendo le mani che i genitori di Bobby le porgevano.
“...e lei è Marie.” Meredith notò che anche
in quell’occasione disperata Marie non aveva scordato di
indossare i guanti.
Il sorriso sul volto della signora Drake si allargò. “Oh,
allora sei tu la famosa Marie!” escalmò. “Che
piacere conoscerti, sei veramente...”
“Madeline.” la richiamò il marito.
“Mamma!” esclamò Bobby, imbarazzato. Sia lui che Marie erano arrossiti.
“Beh, volevo solo dire che sono felice di vedere questa Marie di cui parli sempre...”
“Mamma!”
“E’un piacere conoscervi.” disse il padre di Bobby,
evidentemente tentando di sviare il discorso. “Gli amici di Bobby
sono sempre i benvenuti.”
Meredith ebbe la spiacevole sensazione di essere osservata
insistentemente, e si voltò in direzione delle scale, dove Tom
era rimasto per tutto il tempo. Beh, non era esattamente il fatto che
la guardasse a metterla a disagio, quanto piuttosto come
la guardava e quale parte del suo corpo stesse fissando. Si rese conto
di indossare solo una leggera maglietta di cotone e incrociò le
braccia sul petto, imbarazzata. John si accorse del suo disagio e si
voltò brevemente verso Tom, poi le mise un braccio attorno alle
spalle con fare possessivo, come se volesse marcare il territorio.
“Avete fame?” chiese la signora Drake. “Volete mangiare qualcosa?”
“Se non vi dispiace, io avrei bisogno di usare il bagno.” disse timidamente Marie.
“Ma certo!” le sorrise la signora Drake. “Bobby,
tesoro, perché non accompagni le ragazze di sopra, così
possono rinfrescarsi un po’?”
Lui annuì e fece loro cenno di seguirlo su per le scale.
Meredith si voltò verso John. “A dopo.” gli
sussurrò. Aveva voglia di baciarlo, ma non se la sentì di
fronte a tutte quelle persone.
Mentre passava accanto a Tom, Meredith vide chiaramente che la seguiva
con gli occhi, senza nessun pudore e senza tentare di nascondere quello
che stava facendo. Poté sentire il suo sguardo fisso sul sedere
mentre saliva le scale. E’ solo un ragazzino con gli ormoni in subbuglio, disse tra sé e sé. A quell’età spoglierebbero con gli occhi qualunque cosa non sia la Barbie della sorella.
Ma c’era qualcosa di perverso nel modo in cui Tom Drake la
fissava. Non come un quattordicenne, ma come un vecchio porco lascivo.
“Ecco.” disse Bobby tenendo aperta per lei e Marie la porta
di una camera da letto piccola e pulita, ma dall’aspetto asettico
e impersonale. “Questa è la stanza degli ospiti. Ha un
bagno privato.” disse indicando una porta sulla parete di fronte
al letto. “Sono sicuro che mia madre stia preparando il pranzo,
ma fate con comodo, ok? Quando siete pronte, scendete.” concluse
uscendo dalla stanza e chiudendo la porta dietro di sé.
Marie e Meredith si guardarono, lievemente in imbarazzo. Non avevano
ancora avuto occasione di parlare degli eventi della notte precedente,
e nessuna delle due sapeva se l’altra aveva voglia di discuterne.
“Vuoi andare prima tu?” chiese Meredith indicando la porta
del bagno. Non era la cosa migliore da dire, ma decise di mantenersi
sul concreto piuttosto che lanciarsi in discussioni impegnative.
Marie si sedette sul letto. “No, vai prima tu.” disse.
“Non devo davvero usare il bagno. Volevo solo uscire da quella
situazione imbarazzante.”
Le due ragazze scoppiarono a ridere. A pensarci bene, non era
così divertente, ma era il primo pensiero vagamente allegro che
avevano avuto nelle ultime dieci ore, e vi si aggrapparono con tutte le
loro forze.
“I genitori di Bobby mi sembrano delle brave persone.”
disse Meredith quando smise di ridere. “Mi domando perché
non ha ancora detto loro di essere un mutante.”
Marie alzò le spalle. “Non lo so. Voglio dire, non ne
abbiamo mai parlato esplicitamente, ma io davo per scontato che loro lo
sapessero.”
Sentirono dei rumori provenire dal pianoterra, come se qualcuno stesse trascinando delle sedie sul pavimento.
“Credo che sia meglio che io vada a farmi la doccia.” disse Meredith. “O faremo tardi per pranzo.”
Entrò nel piccolo bagno e chiuse la porta alle sue spalle. Le
pareti e il pavimento erano piastrellate con mattonelle bianche a
fiori, e sul mobile di legno accanto al lavello erano deposti due
grandi asciugamani puliti.
Meredith si spogliò e gettò a terra i vestiti che
indossava, ma poi si rese conto con disgusto che avrebbe dovuto
rimetterseli dopo la doccia. Doveva comprarsene di puliti, ma non aveva
un soldo, e non le andava di rubare.
Avevano comprato i biglietti per Boston con i soldi che Meredith aveva
sfilato, grazie alla telecinesi, dalla borsa di una signora. Era una
questione di vita o di morte, di questo si rendeva perfettamente conto,
ma il furto le aveva lasciato una spiacevole sensazione per tutto il
viaggio. Rimpianse che Bobby non avesse una sorella che avrebbe potuto
prestarle i vestiti.
L’acqua calda sulla pelle le sembrò una benedizione.
Rimase a lungo con il viso sollevato verso il getto della doccia,
lasciando che l’acqua le scorresse addosso, portando via con
sé la stanchezza e la sporcizia.
Ripensò alla notte precedente, alle urla, a quegli uomini che li
braccavano come se fossero selvaggina... Rivide Jubilee, sentiva i suoi
passi riecheggiare dietro di lei mentre correvano nel corridoio, un
attimo prima che sparisse inghiottita dal buio... Rivide il soldato con
il fucile spianato, e il suo viso ridotto ad una maschera di sangue
mentre giaceva a terra come una bambola rotta...
Prese lo shampoo e si sfregò la testa fino a farsi male, come se
volesse grattare via dal suo cervello quelle immagini orribili. Poi si
lavò con cura (bagnoschiuma alla lavanda, il suo preferito) e
uscì dalla doccia, avvolgendosi in uno degli asciugamani accanto
al lavello.
Si tamponò i capelli e si guardò attorno alla ricerca di
un phon, ma non lo trovò. Non era poi un gran problema: in casa
il riscaldamento era piuttosto alto, e avrebbe potuto aspettare dopo
pranzo.
Con una smorfia di disgusto, raccolse i vestiti da terra e se li
rimise, poi, dopo essersi strizzata i capelli un’ultima volta,
uscì dal bagno.
Trovò Marie che piangeva sommessamente seduta sul letto, il viso
tra le mani inguantate di bianco. Meredith si sedette al suo fianco,
tenendosi però ad una certa distanza. Le lacrime la mettevano
sempre un po’ a disagio.
“Marie...” chiamò piano. “Marie...”
Lei sollevò lo sguardo. “Ho baciato Bobby.” mormorò.
Meredith si ricordò quello che Marie le aveva detto in sala comune qualche mese prima, ed ebbe un brutto presentimento.
“E lui...” non ebbe il coraggio di finire la frase.
Marie scosse la testa con forza. “No, ma si è sentito male, stava per svenire...”
“Ma ora sta bene?”
Marie annuì.
“Lo vedi?” disse dolcemente Meredith accarezzandole la schiena. “Non è successo niente di grave.”
Di nuovo Marie scosse la testa. “Mi lascerà... Lo so che mi lascerà...” disse fra le lacrime.
“Non dire così, non lo farà. Bobby ti vuole bene.” la consolò Meredith.
Marie si asciugò gli occhi con il dorso della mano e poi
sorrise. “Che scema che sono... Con tutti i problemi che
abbiamo...” disse alzandosi.
Meredith la guardò. “Marie...”
Lei evitò di incrociare il suo sguardo. “Sto bene, sto
bene. Un momento di debolezza....” Rise, una risata tesa e finta.
“Ascolta, perché tu non... perché tu non scendi,
intanto? Io mi faccio la doccia e ti raggiungo.”
“Sei sicura?” domandò Meredith.
Lei annuì con forzata allegria. “Sì, certo. A dopo.”
Meredith uscì in corridoio e scese le scale. Non sembrava
esserci nessuno in giro. Arrivata nell’ingresso, si guardò
attorno un po’ spaesata e attraverso una porta aperta vide John,
di spalle all’entrata e assorto a contemplare qualcosa sulla
mensola del camino. Entrò nella stanza e gli si avvicinò,
ma lui era talmente preso dai suoi pensieri che non se ne accorse.
Quando fu proprio dietro di lui, lo prese per mano. “Ehi.” gli bisbigliò.
Lui si voltò. “Ehi.” Per un attimo, prima che lui le
sorridesse, Meredith scorse un’espressione triste e risentita
aleggiare sul viso del suo ragazzo.
Meredith vide che l’oggetto che aveva assorbito tanto
l’attenzione di John erano una serie di cornici contenenti foto
della famiglia Drake, tutte disposte in fila sul camino. Un Bobby di
non più di quattro o cinque anni le sorrideva vestito da Uomo
Ragno, e in un'altra cornice l’intera famiglia Drake era in posa
sotto l’albero di Natale.
“Tutto bene?” chiese a John.
“Sì, tutto bene.” rispose lui.
Si tenevano vicini, i visi a pochi centimetri l’uno
dall’altro. Meredith sentì la tranquillità che
solitamente la coglieva quando stava con John lavare via parte
dell’angoscia delle ultime ore. “Dove sono tutti?”
chiese.
“Di là.” rispose John. “La mamma di Bobby ci sta preparando il pranzo.”
Meredith sorrise. “Andiamo?” propose. “Sto morendo di fame.”
“Anch’io.” replicò John restituendole il sorriso.
Nessuno dei due si mosse, non prima di essersi scambiati un bacio.
Meredith sentì il respiro caldo di lui contro le labbra e le sue
braccia che le cingevano la vita, e il suo sapore, e il calore della
sua pelle sotto la maglietta, mentre faceva correre le mani lungo la
sua schiena. Quando si staccarono, Meredith appoggiò la fronte
contro quella di John e chiuse gli occhi, mentre le loro labbra si
increspavano per scambiarsi un altro piccolo, leggero bacio.
Poi, sempre tenendosi per mano, si incamminarono verso la sala da pranzo.
Proprio mentre erano sulla porta, Tom Drake scese le scale e, senza
dire una parola, si infilò nella stanza che si trovava
dall’altro lato dell’ingresso. Mentre passava davanti a
loro girò la testa e guardò Meredith, totalmente
indifferente alla presenza di John.
Meredith sentì la stretta di lui farsi più forte. “Calmati.” gli disse.
“Se non fosse il fratello di Bobby gli avrei già spaccato la faccia.” ringhiò John.
“Lascia stare. Non ha importanza.”
“Quando salivi le scale ti ha...”
“E’solo uno stupido ragazzino eccitato. Non ne vale la pena.”
Entrarono nella stanza e si trovarono di fronte un lunga tavolo di
legno, già imbandito e pronto per il pranzo. A quanto pare
Meredith e John erano gli ultimi ad arrivare.
“Scusate il ritardo.” disse Meredith. “Non sapevamo che foste già tutti qui.”
“Non importa.” le sorrise il signor Drake. “Sedetevi pure, ragazzi.”
Meredith e John presero posto nelle ultime due sedie rimaste libere, uno di fronte all’altra.
La signora Drake servì da mangiare, e per un po’ i cinque
fuggiaschi furono troppo impegnati a rifocillarsi per fare
conversazione. Non toccavano cibo dalla sera precedente e ora che il
pericolo immediato era passato le ore di digiuno si facevano sentire.
“Allora,” disse dopo qualche minuto il padre di Bobby.
“non ci avete ancora detto che siete venuti a fare a
Boston.”
Logan, Bobby, Marie, Meredith e John smisero di mangiare e si guardarono l’un l’altro, preoccupati.
“Siete qui per visitare il MIT, o per vedere i luoghi della
Rivoluzione?” continuò con un sorriso bonario il padre di
Bobby. Si rivolse a Logan. “Lei insegna scienze o storia?”
“Educazione fisica.” rispose Logan, e il signor Drake sembrò perplesso.
“A dire la verità, papà,” disse Bobby.
“siamo qui perché abbiamo avuto dei problemi a
scuola.”
“Bobby...” lo richiamò Logan. Lui lo ignorò.
“Problemi? Che genere di problemi?” chiese la signora Drake con un tono preoccupato.
“Ieri notte c’è stato un attacco.” rispose
Bobby. “L’esercito, o così sembra. Hanno portato via
molti di noi.”
La madre di Bobby si coprì la bocca con le mani.
“Cosa?” domandò il signor Drake, sbalordito.
“Perché mai l’esercito dovrebbe fare incursione in
un collegio?”
“L’Istituto Xavier per Giovani Dotati non è un semplice collegio.” rispose Bobby pacato.
Ormai era fatta. Meredith pregò la che la famiglia di Bobby fosse così comprensiva come sembrava.
“Non capisco.” disse la signora Drake. “Bobby, ma che...”
“Mamma, io sono un mutante.” disse. Indicò i suoi
compagni. “Tutti noi lo siamo. L’Istituto accoglie i
ragazzi con abilità speciali e insegna loro ad utilizzare i loro
poteri.”
Ci fu un silenzio di tomba che durò qualche secondo, finché non fu interrotto da una risatina.
“Vuoi dire che sei un fottuto fenomeno da baraccone?”
chiese Tom Drake rivolto a suo fratello. Bobby impallidì.
“Tom!” ruggì il signor Drake.
“Ma…”
“Zitto!”
Seguì altro silenzio.
“Hai...” iniziò la signora Drake con la voce che le
tremava. “hai provato a non essere un mutante, Bobby?”
“Come?” chiese lui, sbalordito.
“Voglio solo dire che magari ti sei convinto di esserlo, e...”
Bobby la guardò come se si trovasse di fronte un’estranea.
“Ti vengo a dire che l’esercito ha cercato di ucciderci, e
tutto quello che sai chiedermi e se ho provato a non essere un
mutante?”
“No, non è questo!” si affrettò a spiegare la signora Drake. “Pensavo solo che forse...”
“Perché l’esercito vi ha attaccato?” la interruppe il signor Drake rivolgendosi a Logan.
“Onestamente non glielo so dire.” rispose lui.
“E gli altri professori? E gli altri ragazzi?”
“Non so nemmeno questo. O sono in fuga, come noi, oppure sono stati catturati.”
“Magari potremmo farci dei soldi con te, Bobby.” intervenne Tom.
“Ti avevo avvisato!” gli urlò il padre. “Va’ in camera tua, subito!”
Tom si alzò, sbattè la sedia contro il tavolo e si
avviò a grandi passi fuori dalla stanza. Meredith lo
sentì salire le scale.
“Ci deve pur essere una ragione per cui l’esercito vi ha attaccati.” disse con calma il signor Drake.
I cinque fuggiaschi si voltarono a guardarlo.
“Papà...” mormorò Bobby, incredulo.
“Sta dicendo che ce la siamo voluta noi?” gli chiese Logan, il suo tono basso e diffidente.
“No. Sto solo dicendo che di solito l’esercito non attacca
le scuole.” rispose il padre di Bobby. “Qualche motivo ci
dovrà pur essere.”
“Non riesco a credere che vi stiate comportando
così.” disse Bobby, guardando prima sua padre e poi sua
madre. “Ho portato i miei amici qui perché ero convinto
che saremmo stati al sicuro.”
“Infatti!” saltò su la signora Drake. “Solo che è stato un tale shock...”
Bobby si alzò in piedi, indignato. “Ve ne libereremo
presto, state tranquilli. Dateci solo mezz’ora per organizzarci e
ce ne andiamo.”
“Sai bene che non è necessario, Bobby!” gli rispose suo padre.
“Io credo di sì, invece.” rispose lui mentre se ne
andava dalla stanza. Dopo un attimo di esitazione, Marie gli corse
dietro.
I genitori di Bobby rimasero seduti ai loro posti, il volto cinereo e
gli occhi bassi. La signora Drake stritolava nervosamente un
fazzolettino di carta tra le mani, e sembrava sul punto di scoppiare e
piangere.
Logan, Meredith e John si guardarono l’un l’altro, profondamente imbarazzati. Poi Logan si alzò in piedi.
“Dobbiamo organizzarci per partire.” disse rivolto al
signor Drake. Anche se si sforzava di mantenere il tono calmo e
neutrale, Meredith potè sentire una nota di disprezzo e di
risentimento nella sua voce.
“Potete restare, professore.” rispose lui.
Logan scosse la testa. “No, dobbiamo continuare a muoverci se non
vogliamo che ci rintracciano. Meredith, John.” chiamò. I
due ragazzi scattarono in piedi. “Andiamo a parlare con Marie e
Bobby.”
Fu un vero sollievo potersi allontanare dalla sala da pranzo. Mentre
uscivano, Meredith sentì la signora Drake che iniziava a
singhiozzare.
Entrarono in soggiorno, la stanza dove Meredith aveva trovato John
quando era scesa dalle scale. Bobby era appoggiato al camino, lo
sguardo basso a fissare il pavimento. Marie era accanto a lui, le
braccia incrociate sul petto e uno sguardo preoccupato negli occhi.
Quando sentì i suoi compagni che si avvicinavano, Bobby
alzò il volto e li guardò, con un’espressione
insieme infuriata e mortificata.
“Mi dispiace.” iniziò. Aveva gli occhi pieni di
lacrime. “Pensavo che avrebbero capito.... Che fossero
diversi...”
“Bobby...” disse Marie, anche lei sull’orlo del
pianto. Fece per allungare una mano e accarezzargli il viso, ma poi si
ritrasse.
Lui le prese la mano e la baciò, poi attirò a sé
Marie e la strinse, appoggiando il viso contro i suoi capelli. Lei si
mise a piangere. “Mi dispiace avervi portati qui. E’ stato
inutile.” mormorò Bobby guardando i suoi compagni.
“Non pensarci, Bobby.” lo rassicurò Meredith. “Non è colpa tua.”
“Sì. Ormai quel che è fatto e fatto.” disse amaramente Logan.
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Marie smise di piangere e alzò la testa dalla spalla di Bobby.
“Che si fa adesso?” chiese con la voce ancora tremante.
“Ce ne andiamo.” rispose semplicemente Logan.
“Per dove?” gli chiese John, evidentemente poco convinto della validità del piano.
“Intanto cominciamo ad uscire, poi ci pensiamo.”
John sembrava voler obiettare, ma dal tono con cui Logan aveva
pronunciato quella frase era chiaro che non avrebbe accettato
discussioni.
“Ehm, Bobby...” iniziò Meredith. “Mi rendo
conto che è il momento sbagliato, ma avrei bisogno di un
phon...”
Bobby la guardò per un attimo spaesato, come se non riuscisse proprio ad afferrare le sue parole.
“Ah sì, certo.” disse dopo qualche istante.
“Vai di sopra, c’è un bagno alla fine del corridoio.
Il phon è nell’armadietto sotto il lavandino.”
Meredith si voltò. “Farò in fretta.” disse rivolta a John e a Logan.
Uscì nell’ingresso e si arrampicò su per le scale.
Fu contenta di non incrociare nessuno: sarebbe stato molto, molto
imbarazzante ora trovarsi di fronte uno dei familiari di Bobby.
Trovò il bagno in fondo al corridoio e si inginocchiò di
fronte al lavandino, cercando il phon. Appena lo ebbe trovato,
inserì la spina nella presa e cominciò ad asciugarsi i
capelli senza nemmeno chiudere la porta. I suoi capelli erano solo
umidi ormai: sarebbe stata una questione di qualche minuto asciugarli,
e lei desiderava andarsene più in fretta che poteva da quella
casa.
Povero Bobby, pensò
Meredith, e per un breve istante le tornarono in mente tutte le
famiglie che l’avevano abbandonata, tutti quelli che erano
fuggiti da lei perchè era una mutante. Chi dà loro il diritto di guardarci dall’alto in basso? Chi dà loro il diritto di credersi meglio di noi? si chiese con rabbia.
Si guardò in giro in cerca di una spazzola, e, sentendosi un
po’ in colpa, frugò in uno dei cassetti. Quando
rialzò la testa, vide che Tom Drake era sulla porta e stava
guardando la sua immagine riflessa nello specchio.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo sguardo lui che aveva
negli occhi la bloccò. Si rese conto che le faceva paura.
“Allora, sei anche tu un fenomeno come Bobby?” le chiese
Tom, mentre un orribile sorriso gli piegava gli angoli della bocca.
Lei distolse lo sguardo e cominciò a passarsi la spazzola tra i capelli.
“Non te l’hanno mai detto che non si spia una ragazza
mentre è in bagno?” rispose lei, cercando di nascondere la
rabbia nella sua voce.
L’espressione di Tom si indurì immediatamente. “Questa è casa mia.” le ringhiò contro.
Meredith decise di ignorarlo e rimise la spazzola nel suo cassetto.
Prima che potesse rendersene conto, lui le fu addosso, stringendole un
seno con la mano sinistra e premendole le labbra contro il collo.
“Ti va di scopare?” le mormorò contro la pelle, bagnandola con la sua saliva.
Disgustata, Meredith si divincolò e cercò di mollargli un
ceffone, ma dato la posizione in cui si trovava riuscì solo a
spingergli via la testa, colpendolo con la mano aperta proprio sugli
occhi.
Improvvisamente, una serie di immagini estremamente vivide fecero
irruzione nel suo cervello, e una scena si formò davanti ai suoi
occhi, chiara e nitida come se stesse avvenendo in quel preciso momento.
Vide una camera da letto che si affacciava su un prato, al primo piano
di una casa. La scrivania era in disordine, così come il
pavimento, e il letto era sfatto. Alle pareti erano appese immagini di
campioni dell’NFL e anche qualche foto ritagliata da delle
riviste, raffiguranti per lo più ragazze in bikini e surfisti
abbronzati intenti a scivolare sulle onde.
Tom Drake era seduto sul letto e giocherellava distrattamente con uno
yo-yo. Teneva incastrato tra la spalla e l’orecchio un telefono
cellulare.
“911, qual è la sua emergenza?” disse una voce nel telefono.
“Mi chiamo Thomas Drake. Ci sono dei mutanti in casa mia.”
Fece rimbalzare svogliatamente lo yo-yo. “Sembrano
pericolosi.”
“Mantenga la calma. Quanti sono?”
“Cinque.”
“Manderemo una pattuglia il più presto possibile. Mi dia l’indirizzo.”
“131 Belmond Road. Mandate più di una pattuglia.”
Meredith tirò via la mano dagli occhi di Tom come se
l’avesse bruciata, e lui indietreggiò di qualche passo,
barcollando.
Meredith sentiva il proprio cuore batterle nel petto impazzito. Quelle
immagini erano così vivide, reali... Era davvero successo quello
che pensava fosse successo? Era davvero riuscita a leggere nel pensiero
di Tom, quando gli aveva messo la mano sugli occhi?
“Che cosa mi hai fatto, puttana schifosa?”
L’urlo di Tom la riportò alla realtà. Stava arrivando la polizia... Dovevano andarsene subito...
Con una spintone, buttò a terra il ragazzino e corse nel
corridoio e giù per le scale. Logan, Bobby, Marie e John, che la
stavano aspettando davanti la porta d’ingresso, alzarono lo
sguardo quando la sentirono arrivare di corsa.
“Dobbiamo andare.” disse loro Meredith, senza fiato.
L’angoscia che l’aveva abbandonata nelle ultime ore
tornò a investirla con tutta la sua forza. “Tom ha
chiamato la polizia.”
Bobby la guardò incredulo. “Non...”
Meredith afferrò la mano di John. “E’ così,
stanno arrivando!” La paura e la disperazione la facevano gridare
senza che lei se ne rendesse conto. “Dobbiamo andarcene
subito!”
Il viso di Logan era cinereo. “Fuori. Ora.” disse mentre apriva la porta.
Appena si lanciarono sul portico, cinque auto della polizia si
fermarono sgommando davanti alla casa, a sirene spiegate. Le portiere
si aprirono e almeno dieci poliziotti scesero a terra, puntando loro
contro le pistole.
“Alzate le mani e sdraiatevi a terra!” urlò un poliziotto.
..............................................................................................................
Allora, piaciuto il
cliffhanger finale? Sì, lo so che non è poi 'sta gran
cosa per chi ha già visto il film... Ma datemi qualche
soddisfazione...
Marie mi stà riuscendo un po' troppo piagnucolosa, poverina.
Giuro, non era il mio intento, a me Rogue piace moltissimo! Ho solo la
sensazione che se dovesse capitare a me,
di non poter sfiorare nessuno per paura di fargli del male, credo che
non farei altro che stare chiusa nella mia stanza a piangere anche gli
occhi. Spero che tutti i fan di Rogue là fuori possano capire le
mie buone intenzioni e mi possano scusare.
Saluto tutti quanti (un abbraccio speciale va a Star_Dust_Daga, Gertie
e Lia, le mie affezionate lettrici), e vi aspetto presto con il
capitolo 13!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
ItF13
Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Anche in questo capitolo
prosegue a grandi linee la trama che appare già in X Men 2,
quindi se lo avete già visto sapete già, mutatis mutandis
(giuro che non l'ho fatto apposta!!), quello che succederà. Se
invece, come la sottoscritta, ancora non avete avuto occasione di
vedere il film, e non volete rovinarvi la sorpresa, allora vi
consiglierei di girare al largo. Non ho ritenuto necessario mettere
l'avvertimento spoiler perchè si tratta di un film uscito ben
quattro anni fa, ma capisco che a qualcuno possa dare fastidio.
Buona lettura e buon divertimento!
.........................................................................................................
Meredith strinse più forte la mano di John, disperata e terrorizzata.
Era finita. La polizia li teneva sotto tiro, ora non potevano
più scappare. Li avrebbero catturati e sicuramente li avrebbero
consegnati a quegli uomini, a quei militari, e chissà cosa
avrebbe fatto loro la iena con l’uniforme grigia...
“Mani in alto e faccia a terra, ora!” ripeté il poliziotto.
“Questi sono ragazzini.” Logan li indicò allargando
le braccia, in un gesto allo stesso tempo incredulo e protettivo.
“Non c’è bisogno di tutte quelle armi.”
“Questo è l’ultimo avvertimento!” gli urlò il poliziotto di rimando.
Logan fece un passo avanti. “Non vogliamo...”
Si sentì un colpo di pistola, e Meredith e Marie gridarono.
Logan barcollò indietro e si portò una mano alla testa.
Con orrore, Meredith vide un rivolo di sangue gocciolargli giù
dal mento, prima che la ferita che aveva sulla tempia si
autorimarginasse.
Era talmente spaventata da non accorgersi immediatamente che la mano di
John era scivolata via dalla sua e che il suo Zippo era scattato.
“Avete presente quei mutanti cattivi di cui parlano tutti?”
Meredith non riconobbe la voce che aveva parlato. “Io sono uno di
loro.”
Accadde tutto in un secondo. Meredith fu spinta con violenza indietro,
contro la porta, poi ci fu una fiammata e una delle auto della polizia
saltò in aria con un boato che scosse l’intero quartiere.
Ci furono altre urla, e poi un’altra auto esplose, investita da
una valanga di fuoco. I poliziotti cominciarono a scappare in cerca di
riparo, troppo preoccupati per la loro incolumità per continuare
ad occuparsi delle persone sotto il portico.
“John, adesso basta!” urlò Logan.
John lo ignorò. Meredith guardò il suo volto: era
distaccato, e, nonostante la furia che deformava i suoi tratti,
incredibilmente calmo e risoluto, come se quello che stava accadendo in
quel momento fosse stato in preparazione per anni e anni, la naturale e
prevedibile conseguenza di una reazione a catena, che non poteva in
alcun modo essere evitata.
Come l’eruzione di un vulcano, pensò Meredith.
“John, no!” gridò Bobby, proprio mentre John si
girava verso una terza auto. Ignorando anche il suo migliore amico,
John puntò la mano verso la volante e in un secondo l’auto
fu avvolta dalle fiamme. Il serbatoio esplose, proiettando verso il
cielo una pioggia di frammenti di ferro e di schegge di vetro.
Perfino dal portico, a circa dieci metri di distanza, Meredith riusciva
a sentire il calore degli incendi sulla pelle. Un fumo nero e denso si
levava dalle carcasse delle auto in fiamme, e il puzzo della benzina e
della plastica bruciata era quasi insopportabile.
“John!” chiamò Meredith.
Lui non rispose. Con la stessa espressione di gelida ira John puntò una quarta auto.
In quel momento Marie si tolse i guanti, corse verso John e gli prese
il viso tra le mani. Per una frazione di secondo lui la guardò
sorpreso, poi i suoi occhi rotearono verso l’alto e svenne. Marie
lo lasciò andare e Logan lo afferrò al volo, deponendolo
sulle assi di legno del portico.
“No!” urlò Meredith gettandosi in avanti. Troppo
disperata per rendersi conto di quello che faceva, spinse via Logan e
si inginocchiò accanto a John.
“John, John, amore, ti prego, svegliati...” mormorò
con la voce rotta dal pianto mentre lo scuoteva delicatamente, cercando
di fargli riprendere conoscenza. “Ti prego, ti prego amore mio,
svegliati...” ripeté ancora e ancora, ma lui non
aprì gli occhi.
Impietrita dal dolore, nemmeno si accorse dell’improvviso vento
che si era levato, e solo una piccola parte del suo cervello
registrò un rumore che si avvicinava, forte, sempre più
forte, come la turbina di un aereo. Il suo John non apriva gli occhi,
non le rispondeva, e che il mondo esplodesse in mille pezzettini o si
schiantasse contro il sole la lasciava totalmente indifferente. Che le
importava di tutto, se lui...
“Lascialo, Meredith, lo portiamo io e Logan.” le disse con
dolcezza Bobby mentre sollevava il corpo di John. Meredith lo
guardò senza capire quello che le diceva.
“Sono venuti a prenderci.” disse Logan indicando un punto sulla strada. “John starà bene. Corri!”
Solo in quel momento Meredith si accorse che l’X-Jet era fermo a
mezz’aria davanti alle auto incendiate, nero e affusolato come un
enorme uccello rapace, con il portellone posteriore abbassato. Le
figure di due donne, una con lunghi capelli rossi e l’altra con i
capelli candidi tagliati all’altezza delle spalle si stagliavano
contro le fiamme.
Seguendo Bobby e Logan che trasportavano il corpo di John, si fece
strada tra i detriti e raggiunse il jet. Non appena furono tutti a
bordo, il portellone si chiuse dietro di loro e Meredith potè
sentire l’aereo riprendere lentamente quota.
“Cosa gli è successo?” chiese la professoressa
Munroe avvicinandosi a John e mettendogli una mano sulla fronte.
“Marie lo ha toccato.” rispose Logan guardando la dottoressa Grey.
Lei annuì. “Portalo di là.” disse rivolta a
Logan, e lui si avviò, tenendo John tra le braccia, verso
l’interno del jet.
Per un secondo lo sguardo di Jean Grey incrociò quello di
Meredith, poi, insieme alla professoressa Munroe, sparì dietro a
Logan.
“Che diavolo ti è preso?” urlò Meredith in
direzione di Marie, che la guardò ammutolita, evidentemente
stupita dalla violenza della sua rabbia. “Volevi ucciderlo?”
“Meredith, datti una calmata.” intervenne Bobby.
“Nessuno ti ha chiesto niente, Bobby.” Non riusciva a
controllarsi. Era troppo angosciata e troppo furiosa per farlo.
“Mi dispiace, Meredith, ma lo hai visto anche tu!” si
difese Marie. “Aveva completamente perso il controllo!”
“Aveva paura! Era terrorizzato da quelle persone, dopo quello che
è successo a scuola!” le urlò Meredith. “Ma
si può sapere da che parte stai?”
Marie la guardò a bocca aperta. “Ma che dici? Guarda che siamo tutti dalla stessa parte!”
“Senti, lasciamo stare.” tagliò corto Meredith.
Rimpiangeva di essersi lanciata in recriminazioni proprio in quel
momento, aveva fretta di andare da John e loro le stavano facendo
perdere tempo prezioso. “Hai fatto quello che pensavi fosse
giusto nel momento in cui l’hai pensato. Vorrei solo che
ammettessi che era una cazzata.”
“Ti ho già detto di non parlarle così!” le urlò Bobby.
“E io ti ho già detto di starne fuori, Bobby! Questi non sono affari tuoi!”
“Non sono affari miei?” ripeté lui, incredulo.
“Certo che sono affari miei! Lei è la mia ragazza e John
è il mio migliore amico!”
“Senti, ma che altro potevamo fare?” disse Marie.
“Credi che mi sia piaciuto? Ho dovuto farlo! Non ho avuto
scelta!”
Una risata di scherno eruppe dalle labbra di Meredith prima che lei avesse il tempo di bloccarla.
“Tu non hai idea di che significhi non avere scelta.” disse
mentre voltava le spalle a Bobby e Marie e si incamminava verso
l’interno del jet, preoccupata solo di trovare John.
I suoi passi riecheggiavano sul pavimento di acciaio mentre esplorava
l’aereo, stranamente senza incontrare anima viva. Presumibilmente
si trovavano tutti nella cabina di pilotaggio o in qualche altro posto
tranquillo dove discutere dei recenti avvenimenti. Di questo Meredith
si sarebbe interessata dopo; ora l’unica cosa a cui riusciva a
pensare era di trovare qualcuno che la portasse dal suo ragazzo.
Finalmente, dopo aver girato un angolo, si trovò faccia a faccia
con la professoressa Munroe.
“Dov’è?” domandò. Non le importava nulla di sembrare scortese.
“Quarta porta a sinistra. Meredith...”
Lei la ignorò e cominciò a correre nel corridoio
finché non trovò la porta che le aveva indicato la
professoressa. Tremando per l’angoscia spinse il portellone ed
entrò.
Era una stanzetta con le pareti e il pavimento di metallo, con un
lettino d’acciaio nel centro e alcuni armadietti con le ante di
vetro, contenenti medicinali e attrezzature mediche di vario tipo,
imbullonati al pavimento. Appoggiato alla parete in fondo c’era
un letto a castello, e nella cuccetta più bassa giaceva John.
Meredith corse da lui e si inginocchiò accanto al letto. Si
chinò su di lui per sentirne il respiro, poi gli passò
una mano tra i capelli e gli toccò la fronte. La pelle era
fredda e appiccicosa.
“John.” lo chiamò dolcemente.
Lui non rispose, ma le sembrò di vedere gli occhi muoversi sotto
le palpebre, come succede spesso quando si sogna. Sembrava
profondamente addormentato.
Accarezzandogli i capelli, si chinò su John per baciarlo sulla
bocca. Fu un dolore per Meredith sentire che le sue labbra erano fredde
e non rispondevano al bacio.
In quel momento la porta si aprì e Jean Grey entrò
nell’infermeria. Quando scorse Meredith non le disse nulla, ma si
diresse verso un armadietto e cominciò a trafficare con i
medicinali.
Meredith si chiese se avrebbe dovuto parlare, ma poi decise che non era
necessario e tornò ad occuparsi di John. Mentre gli accarezzava
il viso, però, le sembrò di sentire gli occhi della Grey
puntati addosso. Dopo aver ignorato quella sensazione per qualche
minuto, si voltò per affrontarla.
La dottoressa stava ancora trafficando con le medicine, e sembrava non aver fatto altro per tutto il tempo.
“Si è solo difeso.” le disse Meredith, e la sua voce
la stupì per quanto era roca. Non avrebbe potuto spiegare
perché parlò. Forse aveva solo bisogno di dirlo a voce
alta.
La dottoressa Grey alzò gli occhi e la guardò. “Io
non ho aperto bocca, Meredith.” le rispose con il suo tono calmo
e controllato.
“Il giorno in cui ci siamo conosciute lei mi ha detto che a volte
la forza è necessaria.” continuò Meredith.
Ci fu una pausa.
“Ed è per questo che urlavi in quel modo contro Bobby e Marie?” chiese infine la dottoressa.
Meredith sentì le guancie avvampare come se l’avesse appena presa a schiaffi.
“La forza impiegata deve essere proporzionata alla minaccia, Meredith.”
“Lo era.”
La dottoressa Grey la guardò. “Stai parlando di te o di John?”
Prima che Meredith potesse pensare ad una risposta, l’aereo ebbe
un violento sobbalzo, come se avesse incontrato un grosso vuoto
d’aria. La dottoressa Grey dovette aggrapparsi al lettino per
mantenessi in equilibrio, e un armadietto si spalancò,
rovesciando a terra parte dei flaconi che conteneva.
Meredith si aggrappò istintivamente al letto a castello, anche
se lei, essendo già in ginocchio, non rischiava di cadere.
Guardò Jean Grey, ma la dottoressa sembrava spaventata e confusa
quanto lei.
“Cosa...” iniziò Meredith.
In quel momento il jet ebbe un altro sobbalzo, ancora più
violento del primo, e per un secondo le luci si abbassarono lasciando
la stanza nel buio. La dottoressa Grey, che questa volta era quasi
caduta in ginocchio, si rialzò e si diresse di corsa fuori dalla
stanza.
“Rimani qui.” ordinò a Meredith mentre attraversava la porta.
Lei si guardò attorno freneticamente, mentre la paura cominciava
a montarle dentro. L’X-Jet era una leggenda per i ragazzi della
scuola: le sembrava altamente improbabile che le luci si spegnessero
per un semplice vuoto d’aria. Si chiese cosa diavolo stesse
succedendo: anche la dottoressa Grey le era sembrata seriamente
preoccupata. Aveva quasi deciso di disobbedirle e andare a vedere se
trovava qualcuno a cui chiedere spiegazioni, quando l’aereo fece
uno scarto violento sulla destra e Meredith dovette afferrare con tutta
la forza che aveva una delle sbarre d’acciaio che costituivano la
struttura del letto a castello per non essere lanciata contro la
parete. Molti altri armadietti si aprirono gettando sul pavimento il
loro contenuto, che si sparpagliò per la stanza.
L’aereo fece un altro scarto, e poi un altro ancora. Era come se... Come se cercassimo di seminare qualcosa, pensò Meredith mentre la paura le pugnalava il cuore con una lama di ghiaccio. O qualcuno.
Poi, prima che il suo cervello avesse il tempo di formulare un altro
pensiero coerente, ci fu un esplosione sotto di loro, e l’intero
jet fu percorso dalla violenta onda d’urto. Le ante aperte degli
armadietti sbatterono e il vetro di cui erano costituite si
frantumò in mille pezzi, ricoprendo il pavimento di schegge
taglienti. Meredith si buttò sul corpo di John e premette il
viso contro il suo petto, terrorizzata. Le luci si spensero di colpo e
una sirena cominciò a suonare, e Meredith sentì il cuore
in gola e lo stomaco risalirle lungo l’esofago mentre
l’aereo perdeva velocemente quota e precipitava, e tutto attorno
a lei si frantumava e crollava, e il jet continuava a cadere, a
cadere...
Poi, con un improvviso sobbalzo, l’X-Jet smise di precipitare e
le luci si riaccesero come se nulla fosse accaduto. Meredith, che ormai
si aspettava di sentire l’impatto con il suolo da un momento
all’altro, rialzò di scatto la testa dal petto di John e
si guardò in giro perplessa. L’infermeria era un disastro,
il pavimento ricoperto da schegge di vetro e dai medicinali che si
erano riversati dagli armadietti. Decise di uscire ed andare a vedere
cosa succedeva.
“Mmm...” John si mosse nel suo letto, e Meredith lo guardò attentamente, speranzosa e in ansia.
“John...” lo chiamò, e lui girò la testa
verso di lei e aprì gli occhi, o almeno ci provò.
“Ciao...” gli sorrise Meredith, piangendo
contemporaneamente per il sollievo. Si sentì una scema;
sicuramente non doveva sembrare molto intelligente. “Finalmente, era ora...” gli disse mentre si chinava a
baciarlo. Questa volta, seppur debolmente, John rispose al bacio.
“Meredith... cosa...” tentò di chiedere lui quando si staccarono.
Lei si rese conto di non avere la più pallida idea di quello che
era successo. “Siamo sull’X-Jet, e credo che stessimo
precipitando... ma adesso... beh, adesso non precipitiamo
più.” balbettò, rendendosi conto mentre parlava che
quello che stava dicendo era totalmente incoerente.
John richiuse brevemente gli occhi, come se lo sforzo che aveva fatto
ascoltandola fosse troppo per lo stato di debolezza in cui si trovava.
Meredith gli accarezzò i capelli e lui riaprì gli occhi,
alzando stancamente la mano destra come se volesse accarezzarle il
viso. Meredith gli prese la mano tra le sue e se la portò alle
labbra, baciandone più volte il palmo con devozione. Calde
lacrime di paura mischiata a sollievo ricominciarono a solcarle il viso.
“Basta piangere.” l’ammonì John, tentando debolmente di accarezzarle una guancia.
Lei si asciugò rapidamente gli occhi e sorrise. “Non sto piangendo.” mentì.
“Che pessima bugiarda sei.” disse John, e Meredith rise.
“Vedo che ti riprendi in fretta.” gli rispose
accarezzandogli la fronte. “Vuoi che ti porti qualcosa da
mangiare?”
Lui scosse la testa con un espressione di disgusto. “No, mi viene
da vomitare.” Sembrava di nuovo esausto. “Ma sto morendo di
sete.”
Meredith gli diede un altro bacio sulle labbra. “Vado a prenderti
qualcosa da bere.” gli disse mentre si alzava. “E
dirò alla dottoressa Grey che sei sveglio.”
“No, la Grey no.” protestò John mentre Meredith apriva la porta dell’infermeria.
“Non fare il bambino, John Allerdyce.” lo rimproverò
lei con un sorriso. Decisamente John si riprendeva in fretta.
Quando la porta dell’infermeria si richiuse dietro di lei e si
ritrovò in corridoio, Meredith si rese conto di non avere la
più pallida idea di dove trovare un bicchiere d’acqua.
Guardò prima a destra e poi a sinistra, quindi decise che una
direzione valeva l’altra: in fondo si trattava pur sempre di un
aereo, per quanto grande, e prima o poi doveva per forza incontrare
qualcuno.
Scelse di andare verso destra. Mentre camminava si accorse che i motori
non erano più in funzione e che l’X-Jet non era più
in volo. Sicuramente la sosta aveva a che fare con gli strani
avvenimenti di poco prima. Stavano precipitando, di questo era sicura,
e a giudicare da quanto era stata lunga la caduta avrebbero dovuto
impattare al suolo con una violenza immane. Invece non era successo
niente: era come se l’aereo si fosse fermato a mezz’aria.
Come se qualcosa lo avesse afferrato al volo e gli avesse impedito di
schiantarsi.
Improvvisamente sentì la voce di Logan e Meredith si diresse
verso quel suono; dopo aver girato un angolo, vide che una porta era
aperta e la luce che proveniva dall’interno della stanza si
proiettava nel corridoio buio.
Si avvicinò: la porta era aperta a metà, e Meredith
potè vedere solo alcune delle persone presenti nella stanza.
Sentiva la voce della professoressa Munroe, anche se non riusciva a
scorgerla; Logan era di spalle di fronte alla porta, e alla sua
sinistra Meredith riconobbe, con un tuffo al cuore, due persone che non
aveva mai incontrato prima, anche se sapeva perfettamente chi fossero.
Rimase ferma davanti alla porta, pietrificata, mentre guardava Magneto
e Mistica, i famosi e temuti capi della Confraternita dei Mutanti, lui
in un elegante vestito di panno nero, lei con la pelle blu scuro e i
capelli rosso fuoco, impegnati in conversazione con i suoi professori a
pochi metri da lei. Professori che, per quanto ne sapeva Meredith,
erano nemici giurati dei suddetti capi della suddetta Confraternita.
Mentre Meredith era impegnata con questi pensieri, Magneto si
voltò, la vide e, con sua grande sorpresa, le sorrise.
Impaurita, come se fosse stata appena scoperta a fare qualcosa di
immorale, Meredith si riscosse e si allontanò in fretta da
quella stanza.
Provava una strana inquietudine mentre ripensava al modo in cui Magneto
le aveva sorriso. Era un sorriso gentile, lo stesso genere di sorriso
che ti aspetti di vedere sul volto di un nonno amorevole mentre gioca
con i suoi nipotini. Per un istante, le era sembrato di desiderare che
lui le sorridesse ancora in quel modo.
****
Meredith si rigirò nella sua branda, incapace di prendere sonno.
Marie giaceva nel lettino di fronte al suo, il viso rivolto alla parete
d’acciaio della loro cabina all’interno dell’X-Jet,
dormendo o fingendo di dormire.
Per tutta la sera Meredith aveva ignorato la coppia di fidanzati, e
Bobby e Marie avevano ignorato lei. Mentre la dottoressa Grey spiegava
loro quello che era successo alla scuola e quello che stava per
succedere, i tre ragazzi avevano evitato di incrociare gli sguardi e si
erano concentrati al massimo sulle parole della Grey.
Meredith pensò che raramente aveva sentito un racconto
più raccapricciante di quello. La iena si chiamava Stryker, e a
quanto pare era un colonnello dell’esercito con la sacra missione
di sterminare i tutti i mutanti esistenti sulla faccia della terra.
Come? aveva chiesto Bobby. Jean Grey si era mantenuta sul vago, ma
aveva detto che grazie all’incursione nella scuola Stryker aveva
raccolto abbastanza informazioni da creare una macchina
distruggi-mutante chiamata Cerebro II, ed intendeva utilizzarla al
più presto. Dove stiamo andando? aveva domandato Marie. Abbiamo
scoperto che la sua base operativa si trova all’interno della
diga ad Alkali Lake, aveva risposto la dottoressa, perciò si va
là per fermarlo.
Finita la spiegazione, Bobby e Marie erano scomparsi e Meredith era
tornata da John. Si era aspettata che Marie e Bobby entrassero in
infermeria da un momento all’altro, invece non si erano fatti
vivi. Meredith aveva sospettato che finché lei sarebbe rimasta
lì con John loro non sarebbero mai venuti a trovare il loro
amico. Fortunatamente John aveva dormito quasi per tutto il tempo e non
le aveva domandato perché Marie e Bobby non erano lì con
lei. Non poteva negare che si sarebbe sentita mortificata a raccontare
a John della lite e di come aveva urlato contro di loro.
Meredith si rigirò su un fianco, con gli occhi aperti a fissare
la stanzetta buia. Un filo di luce proveniente da sotto la porta le
permetteva di scorgere Marie sdraiata sulla branda, ed era quasi sicura
che anche lei fosse sveglia. Per un istante, fu sul punto di chiamarla,
ma poi si morse la lingua. Era ancora arrabbiata. Molto, molto
arrabbiata. Se fosse successo che... Se avesse fatto del male a John,
per proteggere quegli uomini che volevano solo far loro del male...
Se Marie si fosse voltata e l’avesse guardata, glielo avrebbe
detto. Stavolta si sarebbe sforzata di non gridare e le avrebbe
spiegato con calma quello che provava riguardo a quello che era
successo a Boston. Quello che provava riguardo a John. Forse le avrebbe
raccontato ogni cosa. Ma Marie non si voltò.
Meredith si sentì infastidita dal suo comportamento. Che cosa
stupida e infantile, fingere di essere addormentata. Ad un certo punto
prese una decisione e gettò via le coperte con un movimento
irritato. Le molle cigolarono quando si tirò a sedere sulla
branda, e Meredith guardò Marie come se volesse sfidarla a dire
qualcosa, ma lei rimase immobile. Sempre più irritata, si
alzò e senza nemmeno vestirsi si diresse fuori dalla stanza.
Quando fu sulla porta, le sembrò che Marie si fosse tirata su e
la stesse guardando, e per una frazione di secondo Meredith
indugiò, aspettando, quasi sperando, che Marie pronunciasse il
suo nome; ma ci fu solo silenzio, e lei si richiuse la porta alle
spalle.
Le luci nel corridoio erano accese, e mentre camminava a piedi nudi sul
pavimento gelido Meredith maledisse la sua vena melodrammatica che
l’aveva spinta ad uscire dalla sua stanza con indosso solo una
maglietta a maniche corte e la biancheria intima. Se avesse incontrato
qualcuno avrebbe fatto proprio una bella figura, senza contare che non
aveva una scusa plausibile per trovarsi in giro per l’aereo a
quell’ora di notte. Fortunatamente sembrava che tutti fossero
nelle loro rispettive cabine.
Aprì cautamente la porta dell’infermeria ed entrò
in punta di piedi. Il pavimento era stato ripulito dal vetro e lei si
avvicinò al letto di John, guidata dalle piccole luci opache
incastonate tre il muro e il pavimento. Quando fu vicina, John si
svegliò e la guardò con gli occhi annebbiati dal sonno.
“Ehi.” sussurrò Meredith, sperando che lui non se la
prendesse troppo per essere stato svegliato nel cuore della notte.
“Ehi.” le rispose John, sollevando le coperte perché lei potesse infilarsi nel letto.
Meredith obbedì volentieri e si accoccolò contro di lui,
godendosi il tepore del letto e il profumo del suo ragazzo. Gli
accarezzò il viso e John si sfregò gli occhi,
rivolgendole un sorriso assonnato.
“Come ti senti?” gli chiese Meredith baciandogli la fronte.
Fu contenta di sentire che il suo corpo stava gradualmente recuperando
il suo abituale calore.
“Beh,” rispose John stringendola a sé. “una
splendida ragazza seminuda si è appena infilata nel mio letto.
Direi che mi sento molto, molto bene.”
Meredith rise, lusingata, e si sporse in avanti per dargli un bacio
dietro l’orecchio, che sapeva essere un punto sensibile per John.
Lui rabbrividì leggermente e le prese il viso tra le mani,
scrutandola attentamente nella penombra. Meredith gli restituì
lo sguardo, fissando i suoi occhi grigi in quelli blu scuro di lui, poi
John l’attirò a sé e la baciò.
Non si erano mai baciati così, con tutta quella passione e
quella fame e quella tenerezza mista a irruenza. Si baciavano come se
quella fosse la loro ultima occasione per farlo, e non dovessero
sprecare neppure un istante di quel poco tempo che rimaneva. Le loro
labbra si separarono più di una volta solo per una frazione di
secondo, per poter riprendere fiato, e poi ricominciarono a baciarsi,
famelici e disperati.
Quando alla fine si staccarono, Meredith appoggiò la testa al
centro del suo petto, mentre John le accarezzava i capelli. Meredith
lasciò che il suo respiro la cullasse mentre ascoltava il
battito del suo cuore, rapido e violento come dopo una lunga corsa.
Lentamente, entrambi cominciarono a rilassarsi e i loro respiri e i
battiti del loro cuore tornarono al loro ritmo normale.
Meredith si voltò a guardare John. Aveva gli occhi chiusi e
sembrava stesse scivolando nuovamente nel sonno, anche se le sue mani
erano ancora appoggiate sui capelli di lei.
“John?” chiamò Meredith.
Lui tenne gli occhi chiusi. “Mmm?” mugugnò, già mezzo addormentato.
“Io... Io voglio fare l’amore con te.” disse
Meredith, mentre il cuore ricominciò a batterle come impazzito
nel petto.
John aprì gli occhi di scatto e la guardò nella
semioscurità. “Cosa?” domandò con un sussurro.
“Voglio fare l’amore con te, John.” ripeté Meredith restituendogli lo sguardo.
Lui la tirò su finché i loro visi non si trovarono alla
stessa altezza, e i suoi occhi non lasciarono quelli di Meredith
neppure per un momento. “Sei sicura?” le chiese.
“Sì.” rispose lei, e nonostante la trepidazione che stava provando era certa di volerlo davvero.
A quel punto John la baciò di nuovo e Meredith lo strinse e lo
baciò a sua volta, impaurita all’idea di aprirsi a lui
eppure desiderosa di appartenergli con tutta se stessa.
............................................................................................
Ecco. Lo hanno fatto,
finalmente. Beh, dopo quello che gli ho fatto passare, poveretti, se lo
merivano proprio un momento di pace e di tranquillità.
Per Lia: di nuovo grazie
per aver recensito, sono molto felice che il racconto riesca ad
integrarsi con la trama del film, era il mio progetto fin dall'inizio.
Mi fa anche molto piacere che una "fan" di Rogue (se così si
può dire) non giudichi la mia resa del personaggio troppo
patetica; non sai il sospiro di sollievo che ho tirato! Di nuovo grazie
per le tue belle parole e a presto.
Per Star_Dust_Daga: Wow,
la mia prima critica negativa! Sai, devo confessarti che nemmeno io
ritengo che questo sia il mio capitolo migliore. Ho scoperto che
scrivere capitoli d'azione non è affatto facile, anzi! Inoltre,
non avendo visto il film, faccio una fatica immane a immaginare le
situazioni che si presentano. (Colpa mia, certo, che avrei potuto
scegliere un percorso diverso o almeno affittare X Men 2, ma sai
com'è, facciamoci del male...). In che senso però non ti
è piaciuto? I contenuti o lo stile? Se volessi dettagliare la
tua critica mi faresti un enorme favore, così la prossima volta,
magari, eviterò di fare gli stessi errori. Nel frattempo ti
ringrazio per la recensione e spero che vorrai continuare a seguire la
storia.
Da parte mia, vi saluto e
vi aspetto tra un paio di giorni con il capitolo 14, che è,
tanto perchè lo sappiate, il penultimo capitolo di questo
racconto.
Un abbraccio a tutti e a presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
ItF14
Disclaimer:
Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby,
alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i
diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il
personaggio di Meredith St.Clair.
Ci stiamo lentamente
avviando verso la fine della storia: come ho detto la scorsa volta,
questo capitolo è il penultimo. Spero che vi piaccia!
......................................................................................
Meredith attraversò i corridoi dell’X-Jet ed entrò
nella piccola cambusa in cerca di qualcosa da mangiare, e trovò
Logan, anche lui con tutta l’aria di essersi appena alzato,
intento a prepararsi un caffè.
“Buongiorno...” biascicò Meredith sedendosi a su una delle panche d’acciaio accanto al tavolo.
“Buongiorno, Meredith.” rispose Logan prendendo il bricco
del caffé dallo scaldavivande. “Vuoi mangiare qualcosa? Il
latte è nel frigorifero. Credo che ci sia anche una scatola di
cereali, da qualche parte.”
“A dire la verità prenderei più volentieri un
po’ di caffé.” rispose lei. Non era più una
bambina, e che diamine.
Logan non obiettò. Si limitò a riempire due tazze di
caffè fumante, ne porse una a Meredith e si sedette sulla panca
opposta a lei. Lei strinse tra le mani la tazza bollente, poi
alzò lo sguardo su Logan.
“Professore?”
“Sì?”
“Ha presente ieri a casa dei genitori di Bobby? Quando sono scesa dicendo che stava arrivando la polizia?”
Logan annuì. “Sì. A proposito, come facevi a saperlo?”
Meredith trasse un lungo respiro. “Ecco, appunto di questo volevo parlarle.”
Gli raccontò di quello che era successo nel bagno e di come
avesse letto nella mente di Tom quando gli aveva messo la mano sugli
occhi.
“Cosa crede che sia successo, professore?” chiese Meredith con una certa ansia.
Logan alzò le spalle. “La telepatia non è il mio
campo, Meredith. Dovresti chiedere alla dottoressa Grey.”
“Non ho ancora avuto occasione di farlo.” replicò
lei. “Secondo lei, è possibile che io non sia in grado di
leggere il pensiero a distanza, ma che abbia bisogno di un contatto
fisico per farlo? Non mi era mai successo di avere un’immagine
così chiara.” Ci pensò su un istante. “Beh,
ad essere sincera, ieri è stata in assoluto la prima volta in
cui ho visto qualcosa. Di solito sento e basta.”
Logan sembrò considerare la questione. “Non ho mai sentito
di una mutazione del genere, ma ovviamente perché no? Tutto
è possibile.”
La porta si aprì e la professoressa Munroe mise dentro la testa. “Logan.” chiamò. “Vieni.”
Richiuse la porta e Logan sbuffò, alzandosi. Quando aveva la
mano sulla maniglia della porta, Meredith lo richiamò.
“Professore, questo Stryker... Sì, insomma, lui può...”
Logan le sorrise. “No, non può. Non potrà, quando
arriveremo là noi.” Le strizzò l’occhio.
“Stiamo andando ad Alkali Lake appunto per prenderlo a calci in
culo e riportare a casa i nostri ragazzi. Non preoccuparti di
Stryker.”
Uscì dalla stanza e Meredith guardò dentro la sua tazza
di caffè. Si sentiva strana. No, strana non era la parola
giusta. Diversa.
Come se la sua vecchia pelle le fosse scivolata via di dosso e ora
avesse un corpo nuovo, totalmente differente. Si chiese se questo
cambiamento fosse visibile dall’esterno, se qualcuno che la
conoscesse bene, come Bobby o Marie, avrebbe potuto guardarla e
accorgersi che lei era diversa da ieri sera.
Ieri sera... Meredith non era tipo da farsi troppe illusioni riguardo
al primo rapporto sessuale. Sapeva che, a dispetto di quello che
volevano far credere i film d'amore e i romanzi rosa, nella vita reale
si tratta di una faccenda piuttosto dolorosa, e sì, anche
sanguinolenta. Quando si era svegliata, quella mattina, aveva scoperto
con orrore che aveva le mutandine sporche di sangue. Si era augurata
che le lenzuola dell'infermeria non ne fossero macchiate, altrimenti
sarebbe stato un bel problema spiegare alla dottoressa Grey la
provenienza di quel sangue.
Era stato bello. Lo era stato davvero, anche se non in senso... ehm...
puramente tecnico. Non aveva provato piacere, se non timidamente, verso
la fine, quando il dolore era un po' scemato. Non che ne fosse rimasta
delusa: solo le eroine dei romanzi rosa hanno degli splendidi orgasmi
multipli la prima volta che fanno sesso. Meredith era abbastanza
sveglia da non aspettarsi di venire durante la sua prima volta; ma si
era aspettata che fosse speciale, e unica, e con John lo era stato. Non
era stato perfetto, ma era perfetto per lei, per loro, e Meredith non
avrebbe potuto essere più felice di così. Una volta aveva
letto che non esiste cosa più bella al mondo che fare l'amore
con qualcuno che ami davvero, e, in questo specifico e particolare
caso, il libro aveva ragione.
Meredith sorrise tra sé e sé. Avevano tutto il tempo di
migliorare i dettagli pratici. Certe cose si imparano con
l’allenamento e, ora che avevano cominciato, lei aveva intenzione
di fare l’amore con John centinaia di altre volte. Migliaia di
altre volte.
Ma per farlo avrebbero dovuto aspettare che la situazione si
normalizzasse e potessero tornare a scuola. Era sicura al novantanove
per cento di non essere nel periodo fertile del suo ciclo, ma era stato
stupido, ovviamente, e irresponsabile, fare sesso senza usare alcun
tipo di protezione. Non intendeva correre il rischio un'altra volta.
La porta cigolò sui cardini, ed apparve Marie. Quando vide
Meredith rimase per un attimo impietrita sulla soglia, ma poi si
riprese ed entrò. “Ciao.” sibilò cautamente
senza guardarla.
“Ciao.” rispose Meredith, altrettanto imbarazzata.
Marie si mise a frugare in uno degli armadietti d’acciaio,
evidentemente cercando di fare quanto più rumore possibile per
coprire il silenzio che era calato tra loro. Meredith continuò a
guardare nella sua tazza di caffé, divisa tra il suo orgoglio e
il senso di colpa che continuava a farsi sempre più pesante.
“Ehm, hai visto Logan?” chiese Marie sedendosi sulla panca
che fronteggiava la sua, ma circa mezzo metro più a destra.
“E’ appena uscito.” rispose Meredith lanciandole uno sguardo furtivo.
“Ah, ok.”
Seguì un'altra lunga pausa in cui entrambe trangugiarono il loro caffè in silenzio.
“Bobby?” domandò brevemente Meredith, questa volta sforzandosi di guardare Marie in faccia.
Lei inghiottì un sorso di caffè. “E’ andato a
trovare John.” rispose, evitando però di incrociare lo
sguardo di Meredith.
Lei guardò di nuovo nella sua tazza, delusa dalla reazione di
Marie. Anche se lo zucchero era ormai sciolto da un pezzo
mescolò di nuovo nervosamente il caffè, più che
altro per distogliere il pensiero da quel peso che le opprimeva il
cuore.
“Sai, sta meglio.” disse improvvisamente Marie. Meredith
alzò di scatto la testa e la guardò, e Marie
arrossì ma evitò di abbassare gli occhi. “John,
intendo. Abbiamo incrociato la dottoressa Grey, dice che oggi si
può alzare...” Esitò. “Ma... ma di certo tu
lo sai già.”
Meredith si affrettò a scuotere la testa. “No, è da ieri sera che non vedo la Grey.”
Marie tornò a guardare il suo caffè.
“Grazie per avermelo detto.” aggiunse Meredith dopo un po’, arrossendo.
Marie la guardò. “Di niente.”
Calò di nuovo un profondo silenzio. Meredith si alzò
all’improvviso, forse un po’ troppo velocemente, e Marie si
voltò a guardarla un po’ sconcertata.
“Beh, è meglio che vada a trovare John.” disse avviandosi verso la porta.
“Certo.” bisbigliò Marie. “Allora, a dopo.” aggiunse mentre Meredith stava già uscendo.
Le sembrò di sentire una nota di ansiosa speranza nella voce di
Marie, e Meredith ne fu sollevata. Allora non era l’unica a
desiderare che tutto tornasse come prima...
“A dopo.” rispose con un leggero sorriso.
Si avviò verso l’infermeria, cercando di ricordare quale
fosse il corridoio giusto: l’X-Jet assomigliava davvero a un
enorme labirinto di acciaio in cui era molto facile perdersi. Con una
certa inquietudine sperò di non incappare di nuovo in Magneto.
Ancora non si riusciva a spiegare quella strana sensazione che aveva
provato ieri sera, quando lui le aveva sorriso in quel modo, e non
voleva che succedesse di nuovo. Con un lieve sussulto, si rese conto
che non aveva paura di ciò che avrebbe potuto fare Magneto;
aveva paura di ciò che avrebbe potuto fare lei.
D’improvviso girò l’angolo e quasi sbattè
contro qualcuno. Quando alzò lo sguardo, vide che era John,
bellissimo e sorridente.
“Buongiorno.” le sussurrò mentre avvicinava le labbra alle sue per darle un bacio.
Meredith gli gettò le braccia al collo e lo attirò a
sé, arrendendosi al suo bacio e lasciando che tutte le
sensazioni e i ricordi della notte precedente le ritornassero alla
memoria. Il corpo di John era caldo e duro premuto contro il suo, e le
sue labbra erano delicate ma risolute. Quando John fece per tirarsi
indietro e porre fine al bacio, Meredith gli mordicchiò con
delicatezza il labbro inferiore e gli sorrise.
“Buongiorno.” rispose con una risatina maliziosa.
“Vedo che sei in piedi. Ed io che pensavo di averti sfiancato
ieri notte...”
John scoppiò a ridere. “Oh no, per niente.”
Abbassò la voce ad un sussurro basso e sexy. “Anzi,
troviamoci una cabina vuota e tranquilla, così ti posso mostrare
quante altre energie mi restano...”
Meredith piegò leggermente la testa di lato e lo guardò
negli occhi. “Vorrei, John, lo vorrei davvero tanto. Ma non ti
sembra che abbiamo corso già abbastanza rischi?”
Lui spalancò gli occhi. “Perché, tu credi che
potremmo...” chiese con una certa inquietudine nella voce.
Meredith scosse la testa. “No, non penso.” Fece una
smorfia. “Ma non tenterei la sorte un’altra volta.”
John sospirò. “E va bene, d’accordo...”
La strinse tra le braccia e Meredith appoggiò il mento sulla sua
spalla e chiuse gli occhi, facendosi cullare dal respiro del suo
ragazzo.
“Sono il tuo primo uomo.” le sussurrò John nell’orecchio, con una punta di orgoglio nella voce.
Meredith lo strinse più forte contro di sé. “L’unico.” rispose. John le baciò i capelli.
“Avrei voluto svegliarmi con te questa mattina.” mormorò Meredith.
Si erano concessi solo qualche minuto di tenerezze dopo che avevano
finito, e lei aveva trovato così bello starsene stretti
l’uno nelle braccia dell’altra, scambiandosi baci e carezze
e godendosi quella sensazione di coinvolgente, totale intimità.
Ma il timore di addormentarsi e di farsi scoprire dalla dottoressa Grey
il mattino dopo era stato abbastanza forte da spingere Meredith, seppur
controvoglia, a tornare nella sua cabina.
Una serie di umidi baci sul collo la distrasse dai suoi pensieri.
Rabbrividendo, Meredith sorrise e passò le dita tra i capelli di
John.
“Guarda che non attacca.” sussurrò. “Niente bis finche non torniamo all’Istituto.”
Lui continuò a baciarla. “Davvero? Neanche se stiamo molto
molto attenti?” le sussurrò nell’orecchio, e poi le
percorse il collo con la lingua.
Meredith ansimò, sorpresa, e le sue mani si serrarono
istintivamente. Maledetto John Allerdyce e l’effetto che aveva su
di lei! Con quel tono sexy e quei suoi giochetti le stava rendendo
molto più difficile mantenere la sua decisione...
“Non è uno scherzo, John.” rispose, cercando di
mantenere un tono quanto più serio e controllato possibile, ma
sentì chiaramente la sua voce tremare per il desiderio.
Lui le sfiorò di nuovo il collo con le labbra, poi morse
delicatamente il pezzetto di spalla che la sua maglietta lasciava
scoperto.
“John!” gemette Meredith, e pensò che se lui non
l’avesse tenuta abbracciata le sue ginocchia non
l’avrebbero retta e sarebbe caduta per terra.
Lui alzò il viso dalla sua spalla e le sorrise, compiaciuto per essere riuscito a farle perdere il controllo. "Sì,
hai ragione.” rispose prendendole il viso tra le mani. “Ma
non credere...” Le diede un bacio sulle labbra. “...di
essertela cavata...” Un altro bacio. “...così
facilmente. Ho appena iniziato...” Bacio. “...con te,
signorina...” Bacio. “...e quando torneremo a
scuola...” Bacio. “...te lo dimostrerò."
Meredith sorrise. “Lo spero proprio.” rispose, e
mettendogli una mano dietro la nuca lo attirò a sé per un
bacio appassionato.
****
“E così sei in grado di vedere nella mente delle persone
quando le tocchi.” disse la dottoressa Grey mentre lei e Meredith
erano sedute in una delle salette dell’X-Jet. Erano in volo
diretti ad Alkali Lake. “Sai, sono un po’ delusa da me
stessa. Avrei potuto pensarci molto tempo fa.”
“Perché,” rispose Meredith, un po’ in ansia. “è normale?”
La dottoressa Grey la guardò. “Se per
“normale” intendi comune, allora no, non è normale.
Ma è meno raro di quanto uno pensi.”
“Ma a me non basta toccare qualcuno per leggere nella sua
mente.” insisté Meredith, ancora poco convinta.
“Voglio dire, tocco le persone di continuo, ma non vedo i loro
pensieri. E’ stato solo quando ho messo la mano sugli occhi di
Tom Drake che...” Esitò. “...è
successo.”
La dottoressa incrociò la braccia, pensierosa. “Beh,
questo è raro.” disse infine. “Ma non vedo
perché dovrebbe essere un problema. Perché questa cosa ti
preoccupa tanto?”
Meredith scosse la testa. “Non sono preoccupata.” rispose
decisa. “E’ che vorrei capire. Perché è stato
così chiaro ieri, mentre di solito riesco solo a captare brani
di frasi come una radio rotta?”
“Potrei dirti che è una questione di allenamento. Ma non
credo che a questo punto basterebbe come spiegazione.” le disse
Jean Grey.
Meredith si ricordò che erano passati almeno tre o quattro mesi
dall’ultima volta che si era allenata nella lettura del pensiero,
e sarebbe stato un bel guaio se la dottoressa Grey avesse saputo la
verità, dato che fino a quel momento era convinta
dell’esatto contrario.
Non leggermi nel pensiero... pregò Meredith senza neppure accorgersene. Non leggermi nel pensiero... Non leggermi nel pensiero... Non leggermi nel pensiero... Non leggermi nel pensiero...
La dottoressa Grey girò la testa di scatto e si coprì gli occhi come se Meredith l’avesse colpita.
“Mi dispiace.” si affrettò a scusarsi Meredith.
Ripensandoci, forse un po’ di allenamento non le avrebbe fatto
male. “Mi dispiace davvero, non l’ho fatto apposta.
Io...”
“Non fa niente, Meredith. Capita.” rispose Jean Grey
sbattendo un paio di volte le palpebre e tornando a guardare Meredith.
“Comunque, per rispondere alla tua domanda, credo che alla fin
fine si tratti proprio di questo: la tua telepatia funziona molto,
molto meglio se sei a contatto diretto con il soggetto, in particolare
con i suoi occhi. Gli occhi perché, ovviamente, sono un centro
ricettivo molto importante.”
“Non le vorrei sembrare insistente,” continuò
Meredith. Voleva vederci chiaro in questa storia e per lei
c’erano ancora troppi dettagli oscuri. “ma perché di
tanto in tanto mi capita di ascoltare i pensieri degli altri?”
La dottoressa ci pensò su per qualche istante prima di
rispondere. “La telepatia è pur sempre telepatia.
Teoricamente, dovresti riuscire a leggere la mente delle persone, e
comunicare con loro, senza bisogno di contatto fisico. Non devi
sentirti sminuita per questo, Meredith.” disse anticipando la
domanda che lei aveva già aperto la bocca per formulare.
“Ti rendi conto di che abilità tu possegga, essendo in
grado di manipolare la volontà e le percezioni altrui? Non
c’è da meravigliarsi se questo potere assorbe gran parte
delle energie destinate alle altre tue abilità. Sei sempre in
grado di muovere le cose col pensiero, non è vero?”
Meredith annuì. “Certo.”
La dottoressa Grey si rilassò contro lo schienale
d’acciaio della sedia. “In natura tutto si
equilibra.” iniziò guardando un punto imprecisato oltre la
spalla di Meredith. “Un predatore non può essere troppo
superiore alle sue potenziali prede, o diventerebbe troppo pericoloso.
Troppo potente. Ci deve essere la possibilità per le vittime di
sfuggire alla cattura, o tutto il meccanismo che regola la
sopravvivenza delle specie andrebbe a rotoli. Ovviamente, si fa per
dire.” si affrettò ad aggiungere la dottoressa quando vide
lo sguardo di Meredith. “Mi esprimevo in termini puramente
astratti.”
Meredith guardò per terra, spaventata e confusa. “Allora... Questo significa che...”
“Non significa nulla, Meredith, a parte che sei in grado di
leggere nella mente delle persone quando copri loro gli occhi con una
mano.” rispose la Grey. “E’ una delle tue
abilità, e non vedo perché...”
In quel momento bussarono alla porta, e Bobby mise dentro la testa.
“Dottoressa, gli altri vorrebbero parlarle. Siamo quasi
arrivati.” disse dopo un fugace sguardo a Meredith. Lei e Bobby
non si erano più scambiati una parola dopo la lite del giorno
precedente.
“Sì, arrivo.” rispose la Grey, e Bobby sparì
veloce come era apparso. La dottoressa si alzò e si rivolse a
Meredith. “Ci occuperemo approfonditamente di questa cosa con il
professor Xavier, non appena torneremo a scuola. Nel frattempo, stai
tranquilla e non angustiarti, d’accordo Meredith?”
“D’accordo.” rispose lei, ma la sua mente era
già altrove. A malapena sentì la porta richiudersi e la
dottoressa uscire.
Un predatore. Ecco che cos’era. Un’assassina. Una fottuta macchina da guerra.
Era sicura che la dottoressa non avesse scelto quelle parole a caso.
Jean Grey non faceva mai niente per caso. Se le aveva parlato di prede
e vittime e predatori un motivo c’era.
C’è una linea sottilissima che separa la necessità dall’abuso,
le aveva detto a suo tempo il professor Xavier. Era forse possibile
che, magari senza rendersene conto, lei l’avesse superata?
E se l’aveva fatto, quand’è che era successo?
Improvvisamente ricordò un episodio che era accaduto molti anni prima, e che Meredith pensava di aver dimenticato.
Quando l’avevano mandata a New York, dopo che suo padre si era
ammalato di cancro e Hannah Barrymore l’aveva riaffidata ai
servizi sociali, in orfanotrofio aveva incontrato una ragazza, Alex
Hagen, di qualche anno più grande di lei.
Meredith era arrivata solo da una settimana e stava attraversando il
cortile dell’istituto (era l’intervallo, questo se lo
ricordava bene, ma non riusciva proprio a ricordare dove fosse diretta)
quando Alex aveva raccolto da terra un pugno di fango e glielo aveva
tirato addosso, così, senza preavviso né giustificazione,
senza nessun altro motivo se non quello di umiliarla.
Un coro di risate si era levato dalle altre ragazze. Non era una risata
allegra, né divertita. Più che una risata, sembrava il
richiamo di un branco di iene che guardava un leone fare a pezzi un
cucciolo. C’era della paura in quella risata, e anche del
sollievo: finché Alex non finiva di tormentare Meredith loro
sapevano di essere al sicuro.
Alex aveva preso un’altra manciata di fango e l’aveva
colpita di nuovo. “Sei un mostro!” le aveva urlato contro
con un ghigno di scherno. “Ecco perché ti hanno mandata
via! Sei un mostro schifoso e nessuno ti vuole!”
Evidentemente il fatto che Alex l’avesse qualificata come mostro
intoccabile era sufficiente perché le altre si sentissero in
diritto di partecipare al linciaggio. Meredith non avrebbe saputo dire
chi fu la prima ad iniziare, ma ben presto fu colpita da un’altra
manciata di fango, e poi un’altra e un’altra ancora,
finché non fu bersagliata da una pioggia di terra bagnata e
appiccicosa, sui capelli, sul viso e sui vestiti, e dalle sue
assalitrici si era levato un coro che si faceva sempre più
intenso, sempre più intenso e sempre più crudele:
“Mos-tro! Mos-tro! Mos-tro! Mos-tro!”
Meredith non aveva detto nulla, non aveva fatto nulla. Non aveva
cercato di difendersi, né di scappare; non aveva neppure alzato
le braccia per proteggersi il viso dal fango. Si era semplicemente
voltata e, mentre il fango gettato dalle altre ragazze continuava a
colpirla sui capelli, sulla schiena e sulla nuca, era tornata
nell’edificio e si era diretta al bagno per farsi una doccia.
Aveva aspettato di essere assegnata al turno di pulizia nelle cucine
assieme ad Alex Hagen. Meredith aveva le braccia immerse fino ai gomiti
nell’acqua calda e stava lavando i piatti mentre Alex, dietro di
lei, stava passando lo straccio sul pavimento sporco, ringhiando di
tanto in tanto qualche frase di scherno in direzione di Meredith. Ad un
tratto una pesante padella di ferro si era staccata dal suo gancio ed
era volata in direzione di Alex, colpendola all’altezza delle
reni. Alex aveva fatto cadere il mocio, gridando di sorpresa e di
dolore, e allora un mestolo sollevatosi dalla pila dei piatti sporchi
le era piombato addosso e Alex aveva strillato di nuovo, questa volta
solo per il dolore.
Meredith aveva continuato tranquillamente a lavare i piatti mentre
tutte le stoviglie, le pentole e il vasellame della cucina volavano via
dai loro cassetti e dalle loro mensole e si abbattevano su Alex che
gridava terrorizzata, la sua voce parzialmente coperta dal rumore sordo
dei colpi, dal clangore delle pentole che cadevano sul pavimento e dal
rompersi di piatti e bicchieri.
Meredith aveva chiuso il rubinetto e si era asciugata lentamente le
mani con uno strofinaccio. Poi si era voltata e aveva camminato
tranquillamente in direzione di Alex, seduta per terra a qualche metro
da lei. Il pavimento della cucina era un disastro.
I capelli di Alex erano scivolati via dalla coda in cui erano raccolti
e ora le ricadevano in disordine sugli occhi e sulle spalle, mentre un
sottile rivolo di sangue le colava da una narice. Aveva le labbra
tumefatte e i suoi vestiti erano strappati in più punti,
mostrando sotto escoriazioni e lividi. Sembrava incapace di smettere di
ansimare e quando aveva visto Meredith avanzare verso di lei i suoi
occhi si erano spalancati e aveva cercato di strisciare lontano, ma era
finita con le spalle contro la cucina a gas. Vi si era acquattata
contro e aveva piagnucolato quando Meredith le si era inginocchiata
accanto.
“Se mi tiri di nuovo addosso qualcosa, o mi urli qualcosa, o fai
qualunque altra cosa, io ti ammazzo.” aveva detto Meredith con
calma.
Alex aveva spalancato gli occhi. La palpebra destra era rossa e gonfia;
probabilmente sarebbe diventata nera entro la notte. Difficilmente Alex
sarebbe stata in grado di aprire l’occhio destro la mattina
seguente.
“Hai capito?” aveva continuato Meredith.
Alex aveva annuito mentre una lacrima le solcava il volto tumefatto.
Meredith le aveva afferrato una ciocca di capelli e le aveva dato uno
strattone. Alex aveva piagnucolato più forte.
“Ti ho chiesto se hai capito.” le aveva ripetuto Meredith con un sussurro.
Alex aveva deglutito un paio di volte, evidentemente cercando di
racimolare tutto il coraggio che le restava per rispondere.
“Sì, sì, ho capito.” aveva farfugliato
infine. Da come fischiavano le sue esse doveva avere un incisivo
spezzato.
Meredith era tornata al lavello e aveva ricominciato a lavare i piatti
come se niente fosse accaduto. Dietro di sé poteva sentire Alex
singhiozzare mentre sistemava i tegami che erano a terra e spazzava via
dal pavimento i cocci dei piatti e il vetro dei bicchieri che si erano
frantumati.
Da quel giorno nessuno le aveva più urlato contro o le aveva
tirato addosso qualcosa. Se Alex la incontrava nei corridoi impallidiva
e cambiava strada.
“Meredith.” chiamò la voce di Marie.
Lei si voltò, sollevata che qualcuno fosse venuto ad
interrompere il filo dei suoi ricordi. Non voleva indugiare col
pensiero su Alex Hagen o su quello che era successo in cucina.
“Siamo arrivati ad Alkali Lake.” proseguì Marie.
“Vogliono che andiamo tutti di là, nella sala comandi. Ci
devono parlare.”
Meredith si alzò e Marie fece per uscire dalla stanza.
“Aspetta.” le disse improvvisamente Meredith, e Marie si
voltò.
“Scusami per ieri” le suggerì una voce nel suo cervello. “Scusami se ho gridato.” Avanti, sono solo poche parole. Dillo.
Ormai era arrivata alla porta, dove Marie la stava aspettando guardandola in viso. Meredith si morse il labbro.
Dillo! Oh avanti, Meredith! Se non lo dici, te ne pentirai. Sai benissimo che te ne pentirai.
“Io...” iniziò, troppo imbarazzata per reggere lo sguardo di Marie.
Marie le strinse il braccio e Meredith sentì il calore della sua mano attraverso i guanti che indossava.
“Andiamo di là insieme, ti va?” le suggerì Marie con un sorriso.
Meredith annuì. “Certo.”
Si incamminarono fianco a fianco lungo il corridoio che portava alla
sala comandi dell’ X-Jet. Ad un certo punto Meredith parlò.
“Sai...” iniziò a bassa voce, incapace di tenere
ancora per sé la cosa. “Ieri notte John ed io...”
Marie sorrise. “Lo so. Sei uscita nel cuore della notte e sei
tornata tutta arruffata.” Ridacchiò. “Allora,
com’è stato? Un sogno, vero?” le domandò con
una leggera nota di invidia nella voce.
Meredith scosse la testa. “No, non direi. Fa un male d’inferno. Non ti perdi poi molto.”
Marie la guardò sospettosa. “Ma dai, lo dici solo per farmi stare tranquilla.”
“No, dico sul serio.”
“Davvero?” si stupì Marie. “Non è stato bello? Neanche un pochino?”
Meredith cercò di formulare una risposta che fosse coerente.
“Beh, è stato bello farlo con John, stare insieme
così in quel modo, così... vicini e...” Si rese
conto che non sarebbe riuscita a spiegarlo a parole nemmeno in un
milione di anni. Come faceva a descrivere a Marie cosa si prova a
essere tutt’uno con la persona che ami? “Sai, è
stato come se lui facesse da sempre parte di me, del mio corpo, della
mia anima, e fosse semplicemente tornato al suo posto...”
azzardò.
Marie spalancò gli occhi. “Wow.”
“Beh, fisicamente, però, non è che sia stato poi
così fantastico.” si affrettò ad aggiungere.
Marie fece una smorfia. “Fa davvero così male?” chiese.
Meredith annuì. “Sì. John è stato delicato e
tutto, ma ha fatto lo stesso molto male.” Fece una pausa.
“E non all’inizio e basta, come dicono in giro. Per tutto
il tempo.”
“Lo fai sembrare una cosa orribile.” replicò Marie.
“No!” si affrettò a rispondere Meredith. “No,
non è stato affatto orribile, anzi. E’ stato
meraviglioso.”
Marie scoppiò a ridere, e Meredith la seguì a ruota. Era
davvero felice che fossero riuscite ad aggiustare le cose dopo il
litigio del giorno precedente. Non sarebbe mai riuscita a perdonarsi se
avesse distrutto la sua amicizia con Marie solo per dar retta al suo
stupido orgoglio. Meno male che Marie era meno stupida e meno
orgogliosa di lei...
Arrivarono alla porta della sala comandi e Marie fece per aprirla.
“Aspetta.” le chiese di nuovo Meredith. “Non dirlo a nessuno, ok? Nemmeno a Bobby.”
Marie impallidì leggermente e si torse il suo ciuffo di capelli
bianchi attorno all’indice. “Ah... Ok...”
mormorò guardando per terra.
Meredith la fissò. “Non... Bobby non lo sa, vero?” domandò con un vago tremito di terrore nella voce.
“Beh...” iniziò Marie. “i ragazzi sono ragazzi.”
Gli occhi di Meredith si spalancarono. “Vuoi dire che è stato John a dirglielo?”
Marie annuì. “Stamattina, quando Bobby è andato a trovarlo in infermeria.”
Meredith si appoggiò alla parete. Lo uccido, pensò. Lentamente e dolorosamente.
In quel momento la porta si aprì e apparve Logan. “Allora, voi due, che state aspettando? Un invito scritto?”
.....................................................................................................
Non è
il massimo come capitolo, questo sono pronta ad ammetterlo. In origine
il capitolo 14 e il capitolo 15 erano fusi insieme, ma ho dovuto
dividerli in due parti separate perchè era davvero troppo lungo.
Quindi il capitolo 14 è diventato una sorta di capitolo di
raccordo che... bah, non lo so. Spero di rifarmi con il capitolo
finale. Vi giuro che ce la sto mettendo tutta.
Il rapporto Meredith-John ha sfiorato il pericoloso livello di guardia
"coniglietti rosa" e la cosa non mi piace per niente. John era forse un
po' troppo smielato, ma cercate di capirlo: ha fatto sesso ieri notte,
e si sa che quando si parla di sesso gli uomini si rincoglioniscono
completamente. Rimandate l'invio delle email bomba ancora di qualche
giorno, ok? Tanto Meredith ha inaugurato un periodo di astinenza,
quindi volente o nolente a John toccherà rimettere la testa a
posto!
Tra due-tre giorni, penso, sarò pronta con il quindicesimo e ultimo capitolo.
Allora, voi come credete che finirà? Anche in questa
"realtà parallela" avranno luogo gli avvenimenti di X Men 2, o
l'autrice deciderà di cambiare la carte in tavola? Le scommesse
sono aperte!
Se volete scoprirlo, non vi resta che aspettare. Un bacio a tutti e a presto!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
ItF15
Disclaimer:
Pyro e gli
X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e
alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo
invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.
Scusate il ritardo. Giuro che non è stato per fare la splendida e creare un po' di suspance; ho riscritto tre volte questo
capitolo prima che ne uscisse qualcosa di decente. Credo (e sia detto con tutta la modestia possibile) che il
risultato finale sia piuttosto buono; comunque, come sempre, il giudizio finale spetta a
voi.
C'è
anche un altro motivo per cui sto postando così in ritardo, ed
è che.... Mi dispiace, vi dovrete ciucciare tutto il capitolo 15
prima di scoprirlo. Ebbene sì, sono una vera carogna. ;-)
Comunque, adesso basta con la chiacchere. Ecco a voi l'ultimo capitolo di "Into the Fire".
............................................................................................................................................
Marie e Meredith biascicarono qualche parola di scusa ed entrarono a testa bassa nella stanza.
La professoressa Munroe e la dottoressa Grey erano in piedi a pochi
passi dalla console di comando dell’X-Jet, entrambe in pieno
assetto da battaglia, e guardavano le nuove arrivate con aria solenne.
Alla loro sinistra, in piedi anche loro ma senza le uniformi di
combattimento, stavano John e Bobby. Le due ragazze si affrettarono a
sistemarsi alla sinistra delle professoresse.
Con grande sollievo di Meredith, Magneto e Mistica sembravano non essere presenti.
“Siamo arrivati a destinazione.” iniziò Jean Grey,
guardando ora Meredith e Marie, ora John e Bobby. “Tra qualche
minuto, io e i professori ci introdurremo nella base del colonnello
Stryker, che si trova all’interno della diga.”
“Noi non veniamo?” chiese Bobby, deluso.
“No, non questa volta.” rispose la dottoressa. La sua voce tradiva una certa impazienza.
“Ma ci siamo allenati per mesi, e poi...” insisté John.
“Mi dispiace, testa calda, ma questa volta dovrai lasciare
l’azione a noi.” tagliò corto Logan, il rimprovero
chiaro nel suo tono.
John distolse lo sguardo e fece scattare il suo Zippo.
“Il piano è di distruggere Cerebro II,”
continuò la dottoressa Grey. “e di tornare all’X-Jet
insieme ai vostri compagni e ai professori che sono stati presi
prigionieri durante l’incursione nell’Istituto.” Fece
una pausa. “Ci sono domande?”
“E noi che facciamo, nel frattempo?” domandò
Meredith. Invidiava la calma di Jean Grey. Parlava di introdursi nella
tana di un uomo che li voleva morti come se fosse in classe a spiegare
il ciclo vitale della rana.
“Aspettate qui e tenete l’aereo pronto per il decollo
immediato non appena saremo tornati.” rispose la dottoressa.
“Nessun colpo di testa.” disse la professoressa Munroe con
un tono severo. “Nessuno di voi quattro” Li guardò
uno per uno. “metterà piede a terra, per nessuna ragione
al mondo. Sono stata chiara?”
I quattro ragazzi mugugnarono un sì.
“Staremo via un’ora al massimo.” disse Logan.
“Se scaduto il tempo non saremo ancora tornati, voi dovrete
sganciarvi.”
“Ma...” iniziò Marie, la voce tremante per la paura e la sorpresa.
Logan alzò una mano. “No, non voglio sentire nessun ma. Se
entro un ora non saremo ancora qui, voi azionerete le procedure di
emergenza e ve ne andrete. Bobby, sto parlando con te.” disse
rivolgendosi direttamente a lui. “Il computer di bordo sa cosa
fare. Dovrai solo azionarlo, e il pilota automatico vi porterà
in una destinazione sicura. Hai capito?”
Bobby si limitò ad annuire in silenzio, evidentemente spaventato
per la responsabilità che gli era piombata addosso.
“E che ne sarà di voi? E degli altri? E...” insisté Marie.
“Di questo non vi dovete preoccupare. Se l’ora dovesse
scadere e noi non ci fossimo ancora fatti vivi, voi quattro ve ne
andrete, e questo è quanto. Non voglio discussioni su questo
argomento.”
Marie aprì di nuovo la bocca per contestare, ma poi la richiuse
senza dire nulla. Tutti e quattro abbassarono gli occhi, incapaci di
guardare i professori o i loro compagni. Meredith non riusciva a
concepire un’ipotesi così orribile, doversene andare
abbandonando gli altri al loro destino, tra le mani della iena e del
suo branco di mostri in divisa. Senza contare che comunque non
sarebbero andati poi così lontano: se Stryker riusciva ad
azionare Cerebro sarebbero morti lo stesso.
“Voglio che promettiate, tutti voi, che se dovesse essere
necessario azionerete l’X-Jet e ve ne andrete da qui più
in fretta che potrete.” disse Logan, il suo tono un po’
più indulgente.
“E anche che non scenderete dall’X-Jet.” aggiunse la professoressa Munroe.
“Ok.” concesse Logan. “Promettete che non scenderete
dall’X-Jet e che lascerete questo posto se non saremo tornati
entro un ora.”
Nessuno parlò.
“Bobby, tu per primo.” disse Logan, il suo tono di nuovo duro e inflessibile.
Bobby alzò lentamente gli occhi dal pavimento e guardò Wolverine. “Sì.” sussurrò.
“Sì cosa?” insisté lui, impaziente.
Bobby deglutì e aprì le labbra, ma non ne uscì
alcun suono. Era pallido come un cencio. Alla fine chiuse gli occhi per
qualche secondo, espirò e poi guardò Logan con un
espressione risoluta sul viso.
“Sì, lo prometto.” disse.
Logan sembrò soddisfatto. “John?”
John fece scattare un paio di volte il suo accendino. “Prometto.” rispose fissando la fiammella.
“Guardami in faccia.”
John staccò gli occhi dal fuoco e guardò Logan. “Prometto.” ripeté.
“Molto bene. Meredith?”
Meredith si sforzò di guardare Logan negli occhi. Era la frase
più difficile e dolorosa che si era trovata a pronunciare in
tutta la sua vita. Come faceva a giurare una cosa simile?
Prese un bel respiro. “Lo prometto.” disse. La sua voce, roca e tremante, sembrava appartenere ad un'altra persona.
Logan annuì e si voltò a guardare Marie. “Manchi solo tu.” le disse.
Marie serrò le labbra e scosse la testa.
Logan sospirò. “Devi promettere, Marie.”
Lei scosse la testa con ancor più violenza. “No, no,
mai!” disse mentre una lacrima le scivolava su una guancia.
Logan la guardò con tenerezza. “L’ora sta passando, piccola. Sono tutti minuti che perdiamo.”
Gli occhi di Marie si spalancarono per l’orrore.
“No!” gridò spaventata. “Lo prometto, lo
prometto, ok?”
Logan le sorrise. “Brava la mia piccola.”
Marie si asciugò con rabbia le lacrime e tirò un paio di
volte su col naso. Meredith si sentì sporchissima, come se
avesse appena consegnato al boia il suo migliore amico.
“Un ora.” ripeté Jean Grey mentre lei, la
professoressa Munroe e Wolverine si incamminavano fuori dalla sala
comandi. “Rimanete qui dentro e non vi preoccupate. Andra tutto
bene, ragazzi.”
La professoressa Munroe sorrise e Logan fece loro l’occhiolino
prima di attraversare la porta. I quattro ragazzi sentirono le loro
voci e quelle di Magneto e Mistica che si accordavano sugli ultimi
dettagli del piano, poi i loro passi che si allontanavano in corridoio,
poi più nulla.
I quattro ragazzi si guardarono ansiosamente in viso l’uno con
l’altro, aspettando che uno di loro parlasse, ma nessuno ne ebbe
il coraggio. Lentamente, Marie si sedette su una delle poltroncine di
fronte la console dei comandi, e Bobby occupò quella a fianco,
guardando fuori dal finestrino con aria preoccupata. John si
appoggiò contro la parete d’acciaio e fece scattare
più volte il suo accendino, guardando il vuoto davanti a
sé. Meredith si mise alla sua sinistra e gli strinse la mano che
non era occupata a giocherellare con lo Zippo.
Il pesante silenzio tra loro era interrotto solo dal click click click
dell’accendino di John che si accendeva e si spegneva. Meredith
alzò lo sguardo dal pavimento d’acciaio dell’X-Jet e
i suoi occhi indugiarono sui suoi compagni.
“Sapete,” esordì con cautela. “quando la
dottoressa Grey ha detto “rimanete qui dentro”, secondo me
non intendeva proprio in questa stanza.”
Marie alzò lentamente la testa e la guardò come se la
stesse vedendo per la prima volta. “Sì... Credo che
Meredith abbia ragione.”
Meredith guardò Bobby e gli sorrise timidamente, sperando che
non fosse più arrabbiato con lei. Con suo grande sollievo, Bobby
le sorrise a sua volta. “Se andassimo nella sala di
carico...” continuò Bobby. “Voglio dire, non
scendiamo mica dal jet, no?”
John annuì. “Potremmo aprire il portellone.”
suggerì. “Senza scendere, senza scendere, ovvio. Ma
così è già tutto pronto, e appena
arrivano...”
“E’ per velocizzare le cose.” concluse Meredith.
“Andiamo.” disse Marie scattando in piedi.
Gli altri tre la imitarono al volo e in un secondo erano già nel
corridoio, Bobby in testa, diretti alla sala di carico. I loro passi
rieccheggiarono tra le strette pareti di ferro dell’X-Jet, e
Meredith provò un vago senso di inquietudine nel pensare che
erano loro quattro da soli in tutto l’aereo, e con ancora
maggiore irrequietezza si chiese quanto tempo fosse passato
dall’inizio della missione. Stava per domandarlo a Bobby,
l’unico di loro che avesse al polso l’orologio, ma poi si
rese conto con una fitta di paura che non voleva affatto saperlo.
Strinse più forte la mano di John.
Appena arrivarono nell’ampia sala di carico dell’aereo
Bobby si affrettò a raggiungere i comandi del portellone e
l’azionò. Gli ingranaggi entrarono svelti in funzione, e
la parete posteriore della stanza si abbassò lentamente
finché non toccò terra.
Un’ improvvisa folata di vento gelido li fece tremare. Bobby
accese le luci esterne e Meredith vide che l’aereo era atterrato
in una radura innevata a pochi passi da una foresta di abeti, molto
simile a quella in cui si trovava la scuola. Inconsciamente i quattro
ragazzi fecero qualche passo verso l’apertura, e grazie alla luce
della luna riuscirono a scorgere, in lontananza, quella che sembrava
una grossa parete di cemento incastrata tra due montagne. Tesero le
orecchie, ma dalla diga non proveniva alcun rumore.
Marie si sedette per terra contro la parete di sinistra, e Bobby si
sistemò al suo fianco. John si issò su una delle casse
che erano ammucchiate in fondo alla sala, vi si sedette a gambe larghe
e poi prese delicatamente Meredith per i fianchi e l’aiutò
a sollevarsi, facendola sedere tra le sue gambe. Meredith si
sistemò più comodamente che poteva mentre le braccia di
John si stringevano attorno alla sua vita, serrandola contro il suo
corpo. Meredith mise le mani sopra quelle di lui e ne accarezzò
il dorso. Dentro di sé sorrise ripensando alla prima volta che
aveva toccato la sua mano, mentre tagliavano la legna nel giardino
della scuola. Si rese conto di non aver mai chiesto a John se si era
accorto, quel giorno, che la mano di lei era appoggiata sulla sua.
Meredith guardò verso l’esterno e grazie la luce dei fari
potè vedere la neve sul terreno, candida e immacolata. Da quanto
tempo non pensava alla neve. Da quando...
John appoggiò il mento sulla sua spalla e Meredith potè
sentire che era turbato. Lentamente tolse la mano destra da quella di
lui e cominciò ad accarezzargli l’esterno della coscia,
cercando di farlo rilassare almeno un po’. Si voltò a
guardarlo, ma lui continuò a fissare il nulla davanti a
sé, il mento appoggiato sulla spalla di Meredith.
Assicurandosi che Bobby e Marie non stessero guardando, premette un
bacio sulla guancia di John, e poi ritornò a guardare la neve.
Pensò alla diga tra le montagne, e poi alla fotografia di Evie
sepolta ai piedi della rosa, nel cortiletto delle cucine. John aveva
ragione: era sicura che Stryker non avesse neppure sospettato della sua
esistenza. La neve protegge e nasconde, pensò Meredith. Custodisce
tutti i segreti che le vengono affidati, ma non le importa di niente.
Non le importa se cela la tomba di una bambina uccisa dalla cattiveria
della gente, o se si posa sulla tana di una iena.
John appoggiò la bocca al suo orecchio. “Oggi ho perso il mio accendino.” sussurrò.
Meredith si voltò a guardarlo. Non capiva quello che John le voleva dire e questo la inquietava.
“E’ stato...” John fece una pausa e si bagnò
le labbra con la lingua, come se stesse scegliendo accuratamente le sue
prossime parole. “E’ stato Magneto a trovarlo.”
Meredith rivide Magneto sorriderle dolcemente oltre la porta
semichiusa, e il suo cuore rifiutò di continuare a battere, o
almeno così le sembrò.
Ricordò quello che la professoressa Grey le aveva detto l’ultima volta che l’aveva chiamata nel suo studio: se
l’odio e la rabbia dovessero prevalere dentro John, tu dovrai
riequilibrare la bilancia e sforzarti di riportare entrambi verso il
positivo.
“Mi ha detto delle cose.” aggiunse John con un filo di voce.
Ma c’è la possibilità che tu non riesca a farlo.
Meredith lo guardò, la mente completamente vuota, incapace di suggerirle qualcosa da dire.
Forse un giorno, non oggi, non subito, ma un giorno, tu dovrai prendere una decisione.
“Dovremmo prendere qualcosa per i feriti.” La voce di Bobby
risuonò secca e roca, e lui si schiarì la gola prima di
continuare. “In caso ce ne fossero. Non ce ne saranno, ma in
caso...” Lasciò cadere la frase e guardò verso
l’esterno.
“Bobby ha ragione.” continuò Marie. Anche se cercava
di sembrare calma e controllata c’era un tremito di angoscia
nella sua voce. “Dovremmo essere pronti. Bende, lacci emostatici,
cose così.”
“Io so dove cercare.” disse Meredith saltando giù
dalla cassa e liberandosi dalla stretta di John. La sua voce era acuta
e isterica, e tutti si voltarono a guardarla. “Quando
l’aereo stava precipitando gli armadietti dell’infermeria
si sono aperti. Vado e torno.”
Si voltò e corse fuori dalla stanza prima che qualcuno potesse
offrirsi di andare con lei per aiutarla. Mentre attraversava la porta
incrociò lo sguardo di John. C’era dolore nei suoi occhi,
e paura, paura di essere rifiutato, di essere abbandonato, lo sguardo
che ha ogni figlio trascurato e ripudiato. La maledizione di ogni
bambino rimasto solo.
Ti prego, ti prego, non posso, pensò Meredith con le lacrime agli occhi mentre correva nei corridoi. Non posso fare niente, e non ce la faccio a decidere.
Spalancò la porta dell’infermeria e vi si gettò
dentro, cercando di ricordare da quale armadietto aveva visto cadere
bende e cerotti. Alla fine ne scelse uno a caso e vi si
inginocchiò davanti.
Appena aprì le ante riparate alla bel e meglio dopo gli
incidenti del giorno prima, però, sentì
un’improvvisa stretta allo stomaco, come se qualcosa
l’avesse colpita con forza. Forse è solo la tua anima, disse una voce dentro di lei.
Strinse con forza il bordo dell’armadietto mentre rivedeva John
inginocchiarsi accanto a lei nella neve, rivedeva le sue dita graffiare
il terreno e lottare contro il gelo che voleva impedire loro di dare ad
Evie un posto sicuro dove avrebbe potuto smettere di scappare, una
buona volta, e riposare tranquilla.
Una lacrima le colò sulla maglietta mentre chiudeva gli occhi.
Le faceva troppo male rivedere lo sguardo di Evie mentre posavano per
la foto a Times Square e poi immaginare l’espressione sul suo
volto mentre apriva il flacone di Valium e si rovesciava le pillole
sulla mano. Le faceva troppo male rivedere la paura e la sofferenza
negli occhi di John mentre lei si divincolava dal suo abbraccio e
correva fuori dalla stanza.
John da solo non è in grado di aiutare sé stesso.
Le sembrò che grosse lacrime di sangue spillassero dal suo cuore e le gocciolassero lentamente nello stomaco.
Il respiro le si serrò per un istante, e Meredith alzò la
testa di scatto verso il soffitto, in cerca di aria. Le luci al neon le
bruciarono gli occhi e lei distolse in fretta la sguardo, mentre
sentiva il suo cuore battere ad una velocità folle nel petto e
il sangue rombarle nei timpani, e per una frazione di secondo il sangue
annegò la sua paura.
Si alzò in piedi prima che il sangue si ritirasse e la paura
avesse il tempo di riaffiorare, maligna e tenace, e in un secondo
correva già lungo i corridoi dell’X-Jet, diretta alla sala
di carico, e mentre correva le sembrò che il suo cuore avesse
smesso di sanguinare, o se non altro che sanguinasse un po’ meno.
Bobby e Marie erano in piedi ai lati del portellone spalancato, e
chiamavano a gran voce qualcuno che a quanto pareva si stava
allontanando dall’aereo in direzione del bosco. Quando la
sentirono arrivare, si voltarono di scatto e la guardarono, il viso
contorto dall’ansia e dalla preoccupazione.
Potete perdervi entrambi, Meredith, oppure salvarvi entrambi.
Bobby e Marie urlarono e urlarono il suo nome e il vento fischiò
gelido e crudele tra gli alberi mentre Meredith si lasciava alle
spalle l’X-Jet e correva nella neve, diretta verso la foresta.
****
La luna piena splendeva luminosa nel cielo senza nubi, e anche nel
folto del bosco Meredith non ebbe problemi a distinguere dove stava
andando. Aveva seguito le orme di John per un po’, ma poi le
aveva confuse con altre, probabilmente lasciate da Wolverine e dal
resto degli X Men mentre si dirigevano alla diga, e ora proseguiva a
casaccio, correndo qui e là guidata solo dal suo istinto.
La neve era più alta di quello che le era sembrato
dall’X-Jet, e come le era successo tempo prima era uscita senza
preoccuparsi di prendere qualcosa con cui coprirsi dal freddo. Meredith
tremava mentre il sudore le si ghiacciava addosso, eppure correva e
correva, e una parte del suo cervello le bisbigliò che questa
volta non ci sarebbe stato nessuno che si sarebbe sfilato la felpa e
gliela avrebbe offerta perché lei potesse scaldarsi.
Una radice che spuntava dal terreno la fece inciampare e Meredith
dovette appoggiarsi al tronco di un abete per non cadere a terra.
Premette per un istante le mani e il viso contro la corteccia ruvida,
inspirando l’odore pungente della resina, e poi ricominciò
a correre in cerca di John.
Avrebbe potuto urlare, chiamare il suo nome, ma la sua gola si era
serrata nel momento stesso in cui il suo piede aveva toccato terra.
Nella sua mente rivide sé stessa nella sala comandi
dell’X-Jet, in piedi davanti ai suoi amici e ai suoi professori
mentre guardava in faccia Logan e gli giurava che sarebbe rimasta
sull’aereo. Bugiarda, piccola schifosa, mostro, disse qualcuno o qualcosa da dentro di lei, parlando con la voce cattiva di Alex Hagen.
Rivide sé stessa la notte dell’invasione, e pensò
al soldato a cui aveva fracassato la faccia contro il muro. A volte la forza è necessaria, Meredith, le sussurrò la voce di Evie. E
a te non dispiace di averlo fatto. Ti dispiace che sia dovuto accadere,
ma non ti dispiace di aver usato i tuoi poteri contro quel soldato,
né che John abbia fatto esplodere le auto della polizia.
E’ come con la finestra della cucina, giù alla scuola. Se
tu e John foste stati nelle vostre stanze, invece che in cortile a
fumare, non avreste mai rotto quel vetro.
Meredith inspirò profondamente l’aria gelida della notte e
continuò a correre a perdifiato nella neve, che scricchiolava
sotto la suola delle sue scarpe da ginnastica come se protestasse
oltraggiata per la sua intrusione. Come faceva Evie a sapere del vetro?
Me lo ha raccontato la rosa, rispose lei ridendo. Non sai quanto mi sono divertita. Meredith sorrise tra sé e sé. Non faticava ad immaginarlo. In fondo, si trattava di una storia davvero buffa.
Se quegli uomini non vi avessero attaccati, non sarebbe successo loro niente di male, continuò la voce di Evie. Ti
ricordi cosa ci ha detto la mamma quando ci siamo volute arrampicare
sul muro del parco giochi anche se lei ci aveva detto di non farlo, e
siamo tornate a casa con i gomiti e le ginocchia tutte sbucciate?
“Chi è causa del suo male pianga sé stesso.”
sussurrò Meredith al vento che le sferzava la faccia mentre
correva tra gli alberi.
Le sembrò di sentire un rumore provenire da un punto indistinto
alla sua destra, e Meredith vi si diresse senza pensare neppure per un
momento che avrebbe potuto trattarsi della iena o di uno dei militari
del suo branco.
Esattamente come tu tendi al positivo, John tende al negativo. Al nichilismo. All’autodistruzione, le ricordò la voce di Jean Grey.
Beh, forse la dottoressa si era sbagliata. Forse aveva fatto male i
suoi conti. Forse non era John il polo negativo tra i due, forse il
polo negativo... Sei tu, disse una voce, e questa volta Meredith non riuscì a riconoscere chi avesse parlato. Sei tu, e lo sei sempre stata.
Era buffo, che lei, la negativa tra le due sorelle, la pessimista,
preferisse i colori chiari, mentre Evie, sempre così serena e
allegra, si vestisse esclusivamente di nero. Quando Meredith era
triste, Evie l’abbracciava ridendo e le diceva: “Su con la
vita, sorellina, che oggi il sole splende!”
A Meredith venne da ridere anche se era quasi senza fiato per via della
corsa. Evie era capace di dire “il sole splende” anche se
fuori grandinava e c’erano dieci gradi sotto zero. Per lei il
sole splendeva sempre.
Ed era così buona. Meredith non avrebbe saputo dire quante volte
aveva dovuto dividere il pranzo a metà con Evie perché
lei aveva dato tutti suoi soldi a qualche mendicante che aveva
incontrato sulla strada da casa a scuola. Papà diceva che Evie
aveva talmente tanta luce dentro di sé che quella non ce la
faceva a restare tutta compressa nel suo corpo e se ne usciva. Luce
gratis per tutti, diceva papà ridendo, e mica solo quella.
Guarda, guarda cosa hanno fatto alla nostra piccola Evie, papà, pensò Meredith guardando la luna piena. L'hanno
costretta a scappare e a scappare finché la sua luce non si
è spenta a poco a poco, finché la sua vita non è
gocciolata via giorno per giorno.
Una nube nera e leggera come fumo passò veloce davanti alla
luna, oscurandone la luce, e Meredith si dovette fermare per qualche
istante. Si appoggiò con una mano ad un albero e respirò
a pieni polmoni, cercando di recuperare un po’ di energie e di
fiato per continuare a correre.
La nuvola passò, e la luce della luna ritornò ad
illuminare la foresta rivestita del suo manto bianco. La neve
brillò orgogliosa e altera sotto il pallido riverbero della luna
e Meredith guardò in alto, verso il cielo. Pensò a Evie,
addormentata sotto la rosa.
Non ero lì con te per
proteggerti. Avrei dovuto esserci, ma non c’ero. Ero alla scuola,
e ci sono rimasta perché lì non dovevo lottare per
sopravvivere, non dovevo essere cattiva, o uccidere, o semplicemente
difendermi da chi voleva farmi del male. Ho scelto la strada più
facile.
I polmoni le facevano male per lo sforzo, e Meredith si concesse ancora
qualche secondo di riposo prima di ricominciare a correre. Le sue
unghie graffiarono la corteccia e l’abete si vendicò
conficcandole una scheggia nel palmo. Meredith rise e appoggiò
la schiena al tronco. La natura non perdona. Occhio per occhio, dente
per dente.
La luna sembrò fissarla con un’espressione corrucciata, e
Meredith smise improvvisamente di ridere. Evie era morta sola. Aveva
inghiottito un intero flacone di tranquillanti e si era uccisa a sedici
anni, e lei, Meredith, la sorella che Evie amava tanto, le aveva
voltato le spalle e se ne era rimasta tranquilla a migliaia di
chilometri di distanza, troppo debole, troppo vigliacca per combattere
al suo fianco.
Era bastato che un branco di iene assaltasse la scuola perchè il
sogno di Xavier crollasse come un castello di carte, schiacciato dal
peso delle sue stesse sciocche e vane illusioni. Se la situazione non
fosse stata così disperata, probabilmente Meredith avrebbe
apprezzato il lato comico della faccenda.
Umani e mutanti che collaborano per un mondo migliore, come no.
L’unico modo in cui gli umani intendevano avere contatti con i
mutanti era separati dalla canna di un fucile.
Papà, papà, mi puoi perdonare? chiese Meredith alzando gli occhi verso l’alto. Ma la luna la guardò dal cielo e non le rispose.
Ci fu un altro rumore, più forte, come se qualcuno stesse
spezzando dei rami, e Meredith si staccò dall’abete e si
scagliò in quella direzione, correndo più veloce che
poteva. Quanto tempo era passato, da quando era scesa dall’X-Jet?
Quanto ne era passato dall’inizio della missione? Ripensò
alla professoressa Munroe, che aveva sorriso mentre usciva dalla sala
comandi dell’aereo, e che aveva pianto quando l’aveva
salutata in cortile, il giorno in cui Logan l’aveva portata al
JFK perché Meredith potesse prendere l’aereo per Phoenix.
Voglio che tu mi prometta che se sarà necessario, prenderai la decisione giusta e ti staccherai da John, riprese la dottoressa Grey.
Improvvisamente le sembrò di sentire una musica diffondersi
nell’aria, e per una frazione di secondo Meredith rallentò
la sua corsa, cercando di capire da dove venisse, ma poi si rese conto
che era solo dentro la sua testa.
Era la canzone che aveva sentito alla radio quando era tornata dal
funerale di Evie, la canzone che aveva cominciato a suonare mentre
Logan svoltava nel viale della villa e che aveva continuato
ostinatamente ad andare avanti anche se loro ormai erano arrivati a
destinazione.
Come on, come on
Put your hands into the fire
Explain, explain
As I turn and meet the power
This time, this time
Turning white and senses dire
Pull up, pull up
From one extreme to another...
Nel fuoco... Forse alla fine era di questo che si trattava, solo di questo.
Ho infranto la promessa, pensò. Ho oltrepassato la linea. Sono marchiata per sempre.
Davanti a lei c’era una piccola salita e Meredith
l’affrontò con uno scatto, arrampicandosi tra gli alberi
che punteggiavano il pendio. Più di una volta le sue scarpe
persero aderenza sul terreno innevato, rischiando di farla scivolare e
cadere, ma ogni volta Meredith si rimise in piedi e continuò a
correre, anche se ormai le gambe le tremavano per lo sforzo e una fitta
dolorosa al fianco la costringeva a procedere piegata in due.
La cima della collinetta si avvicinava sempre più, e Meredith
riusciva a vedere brandelli di cielo e di luna attraverso i rami degli
alberi, come se qualcuno ne avesse strappato via dei pezzetti e li
avesse poi appesi tra un abete e l’altro, come decorazioni per
una macabra festa. Scivolò di nuovo e questa volta finì a
terra, ma riuscì a parare la caduta appoggiandosi sulle mani e
le ginocchia.
La neve le morse crudelmente le dita, felice di poterla finalmente
punire dopo che Meredith aveva osato violare l’integrità e
la purezza del suo reame segreto. Alla neve non importa, pensò di nuovo Meredith, perché a me dovrebbe importare di lei?
Si rialzò in piedi e percorse gli ultimi metri che la separavano
dalla sommità della collinetta, il respiro che le si mozzava in
gola ad ogni passo, il dolore al fianco ormai insopportabile. Con le
ultime energie che le rimanevano si appoggiò al tronco di un
abete e guardò in basso, in fondo al pendio.
Tre persone avanzavano nella neve. In testa al gruppetto procedeva un
uomo anziano con un vestito di panno e un lungo mantello nero. Pochi
passi dietro di lui c’era una donna con i capelli rossi e la
pelle blu scuro ricoperta di squame, e alla sinistra della donna
camminava un ragazzo, anche lui, come Meredith, vestito solo di una
maglietta a maniche lunghe. Il freddo non sembrava dargli noia.
Meredith guardò John camminare al fianco di Magneto e Mistica,
il suo sguardo fisso davanti a sé, il viso calmo e risoluto. Non
c’era più traccia di dolore nei suoi occhi, né di
paura. E nemmeno lei ne provò più.
Potevano salvarsi entrambi, oppure perdersi entrambi. L'unica cosa che
rimaneva da fare ora, l'unica cosa che rimaneva da fare era entrare nel
fuoco e vedere se riuscivano ad attraversarlo indenni, oppure se ne
sarebbero stati consumati.
Lentamente Meredith si staccò dall’abete e scese con
cautela il pendio innevato. Richiamato dal rumore dei suoi passi, il
gruppetto si fermò di colpo e alzò gli occhi in direzione
della collinetta. Mistica e John la guardarono con sorpresa, e per un
istante le sembrò che la cambiaforma fosse anche sul punto di
attaccarla. Magneto, invece, non fece e non disse nulla. Si
limitò a guardarla con curiosità, come se si trovassero
in un locale, o ad una festa, e Meredith avesse appena varcato la
soglia.
Meredith restituì a Magneto lo sguardo, e si fermò
davanti a lui, esausta. Le gambe a malapena la reggevano ed era sicura
che se avesse dovuto fare un altro passo ancora sarebbe caduta a terra
e sarebbe stata incapace di rialzarsi. Se Mistica la voleva uccidere, o
Magneto avesse deciso di ordinarglielo, forse non sarebbe stata nemmeno
in grado di combattere.
Ma Magneto le sorrise di nuovo, come le aveva sorriso sull’X-Jet.
“Come ti chiami, mia cara?” le chiese con gentilezza.
Meredith staccò gli occhi dal volto di Magneto e guardò
John, desiderando ardentemente che lui rispondesse al posto suo e
scegliesse per lei il suo destino.
Ma John si limitò a restituirle lo sguardo e non parlò.
Non poteva farlo. Non poteva decidere per lei quale fosse il suo nome,
né quale fosse il suo posto. Toccava a lei rispondere a quella
domanda.
Meredith tornò a guardare Magneto. Lui le sorrideva ancora con
dolcezza e aspettava pazientemente che lei parlasse, incurante del
fatto che si trovassero in una foresta nel cuore della notte, a pochi
passi dalla base di Stryker.
“Medusa.” rispose infine Meredith.
Magneto alzò un sopracciglio, evidentemente trovandolo un nome
bizzarro, ma non fece alcun commento. Si buttò un lembo del
mantello oltre la spalla destra, avvolgendolo attorno al suo corpo, e
indicò qualcosa situato dietro Meredith. “Bene. Andiamo,
allora.” disse rivolto alle tre persone che erano lì con
lui.
Meredith rimase ferma mentre Magneto e Mistica riprendevano a camminare
nella neve. Lei e John si guardarono per qualche secondo in silenzio,
poi John la raggiunse e fece scivolare la mano in quella di lei, e le
diede una stretta. Forte.
Insieme cominciarono a camminare sulla scia di Magneto e Mistica. La
mano di John era calda, e quel calore le diede le energie che le
servivano per andare avanti e arrivare all’elicottero militare,
che li aspettava fermo in una piccola radura tra gli alberi, a qualche
metro da loro.
Meredith intrecciò le dita con quelle di John mentre salivano
sull’elicottero, e Mistica sorrise sarcastica quando scorse le
loro mani unite. Nessuno dei due la degnò di uno sguardo.
Stavano già camminando nel fuoco, ed era difficile vedere qualcosa al di là delle fiamme.
...........................................................................
E così finisce "Into the Fire". Spero che vi sia piaciuto. Cavoli, mi sto commuovendo...
Voglio ringraziare tutti
coloro che hanno avuto la pazienza di arrivare fino in fondo,
specialmente Star_Dust_Daga, Gertie e Lia (nessuna preferenza, siete in
"ordine temporale di recensione"), che hanno avuto la gentilezza e la bontà
di seguire passo passo questo racconto, lasciandomi dei preziosissimi
incoraggiamenti che mi hanno sollevato il morale nei momenti di blocco
dello scrittore. Davvero grazie con tutto il cuore, ragazze. Non ho
parole per dirvi quanto siano state importanti per me le vostre
recensioni. Vi mando un abbraccio fortissimo!
Ringrazio anche te,
lettore anonimo. Spero che il tuo silenzio
sia dovuto alla mancanza di tempo e non al fatto che questo racconto
ti abbia fatto schifo. (Anche se, te lo assicuro, in caso di recensione
negativa non ti avrei mandato a casa un pacco pieno di api africane
assassine.) Ti saluto,
lettore anonimo, e mi auguro con tutto il cuore che "Into the
Fire" ti sia piaciuto.
Il
motivo per cui ho fatto così tardi ad aggiornare, oltre alle
numerose riscritture di cui sopra, è che mentre scrivevo il
capitolo 15 mi è balzata in mente l'idea di un seguito. E sapete
com'è, quando ti viene in mente qualcosa, lo devi scrivere e
basta. Mettere giù due capitoli di due storie diverse
contemporaneamente è un'impresa da squilibrati, ve lo posso
assicurare, ma finalmente ce l'ho fatta. Chissà come mai.
Così, insieme a questo capitolo, ho anche postato il primo capitolo del
seguito di "Into the Fire". Si intitola "Winning a Battle, Losing the
War". Se questo racconto vi è piaciuto, e volete conoscere la
mia personale versione delle vicende di X Men 3, vi invito a dargli
un'occhiata.
Bene, non ho altro da aggiungere se non che mando un ultimo, affettuosissimo saluto a tutti voi. Grazie di tutto e buona vita!!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=156788
|