Into the Fire

di elsie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


prova1 Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Questa fanfiction si basa vagamente sul film X-Men 2, ma ho cambiato qualcosa qui e là dove mi faceva più comodo. La storia si incentra su John Allerdyce (a.k.a Pyro) e sulla sua relazione con un personaggio originale, Meredith St.Clair. Spero che possiate apprezzarla.
Ho scelto il rating arancione perché ci sono parecchie parolacce (probabilmente giallo sarebbe bastato, ma meglio non rischiare). Niente di straordinariamente volgare, ma tanto perché lo sappiate e vi possiate regolare di conseguenza.

Buona lettura e buon divertimento!


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Meredith St.Clair tirò un’altra boccata di fumo dalla sigaretta che aveva appena acceso, appoggiandosi più comodamente al muro della villa.

Sapeva che se qualche professore l’avesse beccata a fumare, sarebbe stata nei guai. La tirata che le aveva propinato la dottoressa Grey l’ultima volta le era perfettamente chiara. Niente sigarette. Le regole della scuola prevedono... eccetera eccetera.

Ma quel posto era tranquillo e sicuro. Nessuno veniva mai nella zona delle cucine una volta che l’orario della cena era passato. Era la vecchia ala sul retro della casa, deserta di notte, e ben lontana dai dormitori. Un pergolato di edera canadese proteggeva il suo cantuccio dagli sguardi indiscreti e dal vento. Un posto perfetto.

Meredith si portò di nuovo la sigaretta alla bocca, lentamente, gli occhi fissi sui cespugli di rose bianche di fronte a sé. Chissà chi li cura, si chiese. Abbassò lo sguardo e buttò la cenere per terra. Un leggero alito di vento fece rotolare il cilindretto che si era staccato dalla sua sigaretta verso il centro del minuscolo cortile. Avrebbe dovuto ricordarsi di spazzare la cenere nel tombino prima di andare via. Sarebbe stato davvero stupido farsi scoprire per un dettaglio del genere, anche se dubitava che qualcuno della scuola frequentasse le cucine, men che meno il cortiletto dietro le cucine. Di nuovo tornò a guardare le rose.

Le piante erano ben curate, prive di insetti, i rami accuratamente potati. Evidentemente qualcuno se ne occupava. Escluse i suoi compagni. Molti di loro erano abbastanza snob da pensare che il cibo apparisse magicamente, già cucinato e tutto, sui vassoi in sala mensa. Ridacchiò beffardamente e il fumo le andò di traverso, facendola tossire. Fu molto felice che non ci fosse nessuno lì con lei.

Si asciugò gli occhi con un movimento rabbioso, vergognandosi della sua stupidità. Tirò su col naso e sebbene la gola le pizzicasse ancora aspirò dalla sigaretta, buttando indietro i capelli castani con un movimento noncurante. Lottò contro l’urgenza di tossire e mandò il fumo giù nei polmoni. Dopo qualche secondo, lo fece risalire lungo la trachea, e lo espellè con un lungo soffio dalla bocca. Si sentì meglio, come se questa manovra da fumatrice esperta cancellasse o almeno andasse a pareggiare la sua goffaggine di poco prima. Aspirò di nuovo.

Per qualche motivo, escludeva anche che ad occuparsi delle rose fosse un professore, o il giardiniere. A chi importava del cortiletto dietro le cucine? Forse era una delle ragazze che cucinavano per la mensa della scuola. Cioè, lei non le aveva mai viste, a dire la verità non sapeva chi lavorasse in cucina, ma ci sono in tutti i posti, no? La bassa manovalanza che cucina e fa le pulizie, gli invisibili che per dieci dollari l’ora sgobbano per i ricchi.

Immaginò una bella ragazza latina con la carnagione scura e i capelli neri di nome Maria, o Rosa. Era arrivata da poco dal Messico su un camioncino colorato carico di immigrati. Aveva trovato lavoro qui nella scuola dopo averle provate un po’ tutte: contadina in un frutteto, raccoglitrice di cotone in Mississipi, donna delle pulizie in un centro commerciale. Aveva freddo qui negli Stati Uniti, e le mancava il suo paese. Curava le rose sul retro della cucina perché i fiori le piacevano, le mettevano allegria, e le rose le ricordavano quelle che crescevano nel giardino di sua nonna, là a casa sua... Improvvisamente si sentì molto stupida.

Aveva sempre pensieri del genere. Immaginava cose, si raccontava storie... Doveva finirla sul serio. Era il giardiniere, a curare le rose, chi altro? Perché una delle ragazze della cucina, ammesso che esistesse, avrebbe perso tempo in un giardino che non era il suo, dopo l’orario di lavoro, invece di andare a casa, o da qualche parte a rilassarsi e a divertirsi? Quale ingenuo idiota avrebbe immaginato una storia del genere, per giunta zeppa dei peggiori clichè, invece di considerare l’ipotesi più logica e probabile?

Scosse la testa, furiosa con se stessa, e un leggero soffio di vento la fece rabbrividire. Era la fine di settembre e sebbene le giornate fossero ancora tutto sommato piacevoli, le notti erano già piuttosto fredde. Si strinse nel cappotto e si portò la sigaretta alle labbra.

“E tu che cazzo ci fai qua?”

Meredith sentì lo stomaco annodarsi e un rivolo di sudore freddo correrle giù per la schiena. Il suo primo pensiero fu che dopotutto non ci avrebbe messo molto a fare le valigie.
Ma mentre abbassava la sigaretta e si voltava verso la voce le venne in mente che un professore non si sarebbe mai espresso così.

Sulla porta stava uno dei suoi compagni. Si stringeva in un giubbetto di pelle e la guardava torvo con un pacchetto di sigarette in mano.

Avevano qualche lezione insieme. Jeans sdruciti, capelli sparati in aria e un accendino sempre in mano. Si chiamava John qualcosa, le pareva. Non lo conosceva bene, ma d’altra parte lei non aveva fatto amicizia praticamente con nessuno.

“Prego?” Meredith domandò con un’espressione incredula.

“Ti ho chiesto cosa ci fai qua.” Sfilò una sigaretta dal pacchetto. “Questo è il mio posto.”

“Il tuo posto? No, non credo proprio.”

“L’ho scoperto io, perciò è il mio posto. Non mi piace la compagnia mentre fumo.” Si piazzò di fronte a lei, ostruendole la vista delle rose.

Meredith rise sarcastica. “A chi lo dici.” Alzò la sigaretta ormai quasi finita. “Sono arrivata prima io, perciò vattene.”

Lui alzò le spalle. “Vattene tu.”

Meredith non disse nulla. La conversazione stava prendendo una piega da asilo, e la cosa non le piaceva. Lui sembrò prendere il suo silenzio come una sorta di capitolazione, e con un’espressione soddisfatta tirò fuori uno Zippo dalla tasca dei pantaloni. Avrebbe potuto facilmente accendersi la sigaretta che teneva fra le labbra, invece usò l’accendino per produrre una piccola fiamma nel cavo della sua mano. Alzò la mano a coppa verso il viso e si accese la sigaretta.

“Affascinante.” disse Meredith, caricando la voce con tutto il sarcasmo di cui era capace.

Lui non disse nulla. La fissò insistentemente, e Meredith stava per chiedergli cosa diavolo avesse da guardare quando lui parlò.

“Che sai fare?” le chiese con la sigaretta tra i denti.

Meredith considerò la domanda per qualche secondo. “So preparare un’ottima crostata di mirtilli.” ghignò “Ecco cosa so fare. Che diavolo significa cosa sai fare?”

Aveva alzato leggermente la voce e questo non le piaceva. Non voleva fargli credere che stesse perdendo la pazienza.

Lui sbuffò via il fumo, chiaramente infastidito. “Lo sai benissimo cosa intendo! I tuoi poteri, genio, e non gridare! Vuoi farci sentire?”

Il fatto che lui le dicesse di abbassare la voce, anche se ovviamente aveva ragione, la irritò ancora di più.

“Certo che so cosa intendi. Quello che non so è perché questi dovrebbero essere fatti tuoi.”

Invece di reagire come Meredith si aspettava, lui sorrise soddisfatto, come se avesse appena segnato un punto a suo favore. Diede un calcio ad un legnetto mentre aspirava dalla sua sigaretta.

“Perché che io mi ricordi non ti ho mai visto usare i tuoi poteri, zucchero. Comincio a chiedermi se tu sia davvero una di noi.”

Meredith sentì la rabbia montare. Mentiva di proposito, per mandarla fuori dalla grazia di dio, così lei se ne sarebbe andata.

Certo che l’aveva vista. Usava i suoi poteri in continuazione, in classe. Dalla prima elementare in avanti, non era mai successo che attraversasse l’aula per prendere un libro invece di muoverlo col pensiero.

“E tu chi saresti, l’ispettore alle mutazioni?” gli sibilò.

“E tu chi saresti, la più acida dell’universo?” rispose lui.

“Fottiti.”

“Fottiti tu.”

Ed ecco di nuovo la spiacevole sensazione di avere ancora quattro anni. Sentendosi profondamente a disagio, Meredith guardò la sigaretta ormai spenta che rigirava tra le dita. Rispondendo ad un impulso meccanico più che a una vera e propria decisione, diede un colpetto alla cenere, che si staccò e planò lentamente sul cemento.

Lui alzò gli occhi al cielo. “No, non lì! Nel tombino, dannazione! Vuoi veramente mandarlo a puttane questo posto!”

Meredith lo fissò per qualche istante, carica d’odio, indecisa se farlo volare o meno con le chiappe sulle rose con una spinta della sua energia psichica. Le sarebbe spiaciuto molto distruggere le rose, perciò decise di lasciar perdere.

Propositi omicidi a parte, aveva comunque un grosso problema: voltarsi e andarsene senza raccogliere la cenere, dandogli così la soddisfazione di aver ragione a proposito di “voler mandare quel posto a puttane”, come si era espresso (senza contare la soddisfazione intrinseca nel vederla andar via), oppure usare la sua mente per spazzare la cenere nel tombino, così dandogli così la soddisfazione di rispondere alla sua domanda di poco prima? Di nuovo Meredith lo immaginò volare sulle rose, e di nuovo pensò che quelle rose le piacevano parecchio.

Alzò le spalle e gettò quel che restava della sigaretta a terra insieme alla cenere, per poi concentrarsi e spingere il tutto verso il tombino. Il materiale era leggero e non faceva fatica, ma era buio e doveva sforzarsi per vedere la cenere, il cui colore era maledettamente simile al cemento del cortiletto, ed assicurarsi che fosse tutto pulito.

Mentre lavorava, lo sentì ridacchiare, felice di avere vinto. “Oooh, è questo che sai fare allora? Muovi le cose col pensiero? Un po’ come il professor Xavier e la dottoressa Grey?”

Meredith annuì. Forse un pugno in faccia sarebbe bastato.

“E sai leggere nel pensiero?” le chiese, piegando la testa di lato e osservandola come se stesse cercando di capire fino a che punto lei fosse capace di spingersi.

Meredith non disse nulla. Improvvisamente le venne un gran voglia di piangere, ma scacciò via il pensiero con forza.

“Cosa sto pensando adesso?” continuò lui.

Non si sentiva più combattiva, ma solo stanca. Si domandò se il fatto di aver usato i suoi poteri l’avesse debilitata in qualche modo. Se spingere per mezzo metro della cenere le toglieva tutte le sue energie, allora aveva un bel problema.

“Che devi davvero liberarti di quel giubbotto ridicolo?”

Lui raddrizzò la testa e l’espressione eccitata che aveva sparì per lasciar posto ad una delusa. “No, non sai leggere nel pensiero. Ho sentito la dottoressa Grey dirti che devi continuare ad esercitarti.”

Meredith sentì la rabbia rimontare in lei come l’onda di uno tsunami. “Allora lo sai cosa so fare, pezzo d’imbecille!”

Lui alzò le spalle e sorrise compiaciuto. Abbassò la sigaretta e buttò la cenere sul cemento.

“Se pensi che pulirò per te ti sbagli di grosso.” lo avvisò Meredith.

Il suo sorriso di scherno si allargò. “Beh zucchero, non è poi granché quello che mi hai fatto vedere. Muovere della cenere? Wow, divertente. Vorrei tanto poterlo fare io.”

Per la terza volta nel giro di pochi minuti Meredith sentì l’impulso irrefrenabile di usare i suoi poteri contro quell’insopportabile idiota. Invece fissò un ciotolo tondo che stava in un’aiuola e lo fece volteggiare davanti a sé.

“Beh, cominciamo a ragionare.” disse lui. Alzò la mano libera. “Fai un lancio, piccola.”

Forse Meredith scagliò il sasso con un po’ troppa forza, o forse la mano migliore di John era quella che reggeva la sigaretta. Fatto sta che invece di afferrarlo, John colpì il sasso con il polso e modificò la sua traiettoria, mandandolo a schiantarsi contro una delle finestre della cucina.

Rimasero entrambi pietrificati per qualche secondo, fissando il vetro infranto come se la loro mente fosse troppo orripilata per riuscire a credere a quello che era appena successo. Poi Meredith ruppe l’incantesimo.

“Oh merda.” disse.

“Guarda cosa hai fatto!” disse John, la sua voce, per la prima volta, quasi isterica.

“Io? Io?” si difese Meredith, altrettanto nel panico. “E’ colpa mia se hai le mani di pastafrolla?”

“Zitta!” ordinò John. Si fermarono entrambi ad ascoltare i rumori della notte. “Senti qualcuno?”

Meredith si concentrò. “No.” disse infine. Si sporse cautamente dal pergolato per guardare le finestre dei dormitori. John la imitò.

“Si è accesa qualche luce?”

“Levati, non vedo niente!”

“No, nessuna luce. E non starmi addosso!”

Si guardarono in faccia l’uno con l’altra. “Forse non hanno sentito.” disse Meredith.

John considerò la possibilità per qualche secondo. “Forse no.” Il tono della sua voce lasciava trasparire quanto poco ne fosse convinto.

“Ok. Andiamo via.”

John annuì. “Sì.” Gettò la sigaretta che ancora aveva tra le dita verso il tombino, ma lo mancò. Meredith si concentrò, spinse la sigaretta per i venti centimetri che ancora le mancavano e la guardò sparire in uno dei fori.

“Ora sì che abbiamo cancellato ogni traccia.” disse lui, sarcastico. Meredith lo ignorò.

Si infilarono nella porta che dal cortiletto dava sul corridoio delle cucine e John la richiuse dietro di sé. Entrambi tirarono un sospiro di sollievo.

“Mi auguro sinceramente che voi due abbiate un’ottima ragione per questo.”

Stavolta Meredith non ebbe problemi a riconoscere la voce. Quando lei e John si voltarono, trovarono Logan, meglio conosciuto come Wolverine, che li fissava con le braccia conserte e un’espressione furibonda sul viso.


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Ok, questo capitolo è finito. Spero davvero che vi sia piaciuto.

E’ la prima fanfiction che pubblico, quindi mi farebbe davvero molto piacere sapere che ne pensate. In particolare vorrei sapere come vi sembra la mia Meredith. Se ce qualcosa che mi da il voltastomaco sono le Mary Sue, e se lei lo è lo devo sapere! Ho cercato di renderla il più “reale” possibile, e spero di esserci riuscita.

A questo proposito, vorrei aggiungere una nota sul nome. Lo so che Meredith St.Clair è un nome spaventoso, ma prima che tiriate fuori sassi e bastoni ho una spiegazione per questo orrore. “Meredith” è un nome che, per colpa di Grey’s Anatomy, mi si è appiccicato al cervello. Originalmente il cognome di Meredith era Hudson, ma dato che è una trovatella (e va beh, tanto lo si viene a sapere nel secondo capitolo) ho pensato che il suo cognome doveva essere stato costruito a tavolino. Sulle rive del lago St. Clair sorge la città di Detroit, dove Meredith è nata.

Ok, è davvero tutto. Penso di aggiornare tra un paio di giorni. Un bacio a tutti e a presto!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


ItF2 Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Eccoci dunque al secondo capitolo. Mi auguro davvero che il primo vi sia piaciuto.

Una piccola nota che mi sono dimenticata di scrivere la scorsa volta: "Into the Fire" è il titolo di una (bellissima) canzone dei Thirteen Senses, e avrà un ruolo importante nello sviluppo della storia tra John e Meredith.

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Le voci degli studenti che si preparavano per un altro giorno di lezioni risuonavano per la villa mentre Meredith attraversava i corridoi diretta allo studio del professor Xavier.

Logan non aveva voluto sentire una parola. Aveva semplicemente rimandato lei e John nei loro rispettivi dormitori, e a Meredith non era sembrato il caso di insistere inventando scuse o chiedendo cosa ne sarebbe stato di lei. Da quello che aveva imparato di Logan, sapeva che non era uno che abbondasse di pazienza. Specie quando era così arrabbiato.

Ieri sera era troppo tardi per mettersi a fare i bagagli. Contava di saltare la colazione e farlo stamattina. Paige, la sua compagna di stanza, non capiva cosa stesse facendo, perciò Meredith le spiegò per sommi capi cos’era successo la sera prima, omettendo quasi completamente il ruolo di John qualcosa nella vicenda e quanto nervosa l’avesse resa.
Paige aveva detto che probabilmente l’avrebbero solo messa in punizione e che, per quanto ne sapeva lei, nessuno era mai stato espulso. Meredith si era limitata ad alzare le spalle ed aveva continuato a riempire la sua valigia.

Anche se mentre camminava cercava di tenere la testa sgombra da qualunque pensiero, doveva ammettere che lasciare la scuola le sarebbe dispiaciuto. Non perché avesse molti amici lì, o perché si sentisse a casa, no. Perché... Non lo sapeva bene, ma sentiva che avrebbe perso qualcosa andandosene. E questo la rendeva triste.

La professoressa Munroe aveva bussato alla porta della sua camera e le aveva detto severamente di andare nello studio del professor Xavier non appena avesse finito la colazione.

“Ma...”

“Fallo e basta, Meredith.”

In sala mensa gli studenti chiacchieravano e si scambiavano appunti, assonnati ma pronti per una nuova giornata. Alcuni stavano finendo i compiti, altri si sbaciucchiavano negli angoli bui. Nessuno l’aveva fissata. Meglio così. Probabilmente la storia della sua avventura notturna non era ancora trapelata. Si era guardata intorno ma John non c’era.
Immaginò che fosse con il professor Xavier. E’ovvio che sia il preside a buttarti fuori, pensò. Magari anche a dirti quanto è stato inutile il suo viaggio fino in Maryland per venirti a prendere.

Improvvisamente un pensiero che non era il suo le attraversò il cervello.

...ricordarmi il dossier per il Presidente...

Si fermò di colpo e guardò la porta alla sua sinistra. Probabilmente si trovava di fronte alla stanza di Hank McCoy. Dio com’era fastidioso, intercettare i pensieri degli altri senza volerlo. Aveva una buona manualità con il resto dei suoi poteri, muovere gli oggetti con il pensiero e tutto il resto, ma leggere nella mente era un’abilità che ancora non riusciva a controllare. Andava e veniva come le pareva e questo, per un mutante, era come farsi la pipì addosso.

Riprese a camminare, infastidita ed imbarazzata dal paragone che gli era appena saltato in mente. La dottoressa Grey le ripeteva sempre che era solo una questione di esercizio, ma ora questo non era più un suo problema. Bussò alla porta dello studio ed entrò.

Ed eccolo lì, la fonte di tutti i suoi guai, con i suoi jeans strappati e gli anfibi e quegli assurdi capelli. Più avanti, dietro la sua scrivania, il professor Xavier la fissava severamente.

“Ti stavamo aspettando, Meredith. Vieni avanti.”

Obbedì e si mise di fianco all’idiota, che la guardò per un istante con quel suo sguardo indolente.
Era abbastanza ovvio che ci fosse anche lui. Il professore doveva aver pensato che era meglio risparmiare tempo e prendere due piccioni con una fava.
Mentre aspettava che Xavier parlasse, Meredith cercò di svuotare la testa da ogni pensiero. Non le piaceva che si leggesse nella sua mente.

“Ieri sera siete stati sorpresi a violare una delle regole principali della scuola. Non è la prima volta che un professore vi scopre a fumare. Tutti e due.”

Un momento. Forse Xavier pensava che fossero amici. Che fossero complici. Meredith aprì la bocca per spiegargli che il loro incontro era stato solo un amaro scherzo del destino, ma John, evidentemente altrettanto disgustato all’idea, la precedette.

“Io non la conosco!” esclamò.

Xavier lo fulminò con lo sguardo. “Non interrompere, John.” Lui tacque.

“E come se non bastasse, ieri sera avete vandalizzato una proprietà della scuola.”

Questa volta fu Meredith a parlare. “Non è stato intenzionale! Io... è stato un incidente!” Si voltò verso John perché la sostenesse.

“E’ vero, è stato un incidente.” disse lui lentamente. “Non lo abbiamo fatto apposta.”

Xavier li fissò a lungo in silenzio. Meredith aspettò che entrasse nei suoi pensieri per verificare se stesse dicendo la verità, ma lui si limitò a guardarli e basta.

“Vi credo.” sospirò. “Ma questo non cambia le cose. Non avreste dovuto essere lì a fumare. Anche se non avete rotto quella finestra apposta, se foste stati nelle vostre stanze a dormire questo non sarebbe accaduto. Così non si può andare avanti.” Meredith chinò la testa, in attesa del colpo finale. “Dovete seriamente darvi una regolata, ragazzi.”

Meredith, che a questo punto aspettava di sentire qualcosa che suonasse come “fate le valige e andate con dio” alzò la testa confusa. Quello che il professor Xavier aveva detto non somigliava ad un’espulsione.

“Non capisco...” balbettò.

“Significa che siete in punizione, Meredith. All’intervallo, verrete qui e mi consegnerete sigarette e accendini. Durante le pause e dopo cena rimarrete nel salone o comunque sempre dove un professore può vedervi. Basta uscite dai dormitori nel cuore della notte. E dopo la scuola aiuterete nei lavori manuali per ripagare il vetro che avete rotto. Sono stato chiaro?”

“Sì.” risposero entrambi. Anche se a Meredith la punizione sembrava una gran rottura, si sentì sollevata al pensiero di non essere stata espulsa.

“Adesso tornate in classe. E ricordatevi che vi aspetto all’intervallo.”

Meredith e John uscirono dallo studio. Appena la porta di noce si richiuse alle loro spalle, lui iniziò a ridacchiare. “Te la sei fatta sotto, eh zucchero?”

Meredith si allontanò senza nemmeno guardarlo.

****

“Dovete tagliare la legna in modo che possa essere bruciata nel camino della sala comune.” spiegò Piotr Rasputin mentre Meredith e John lo stavano ad ascoltare a braccia conserte. Rasputin indicò l’enorme catasta di legna alla sua sinistra. “Sono i rami potati l’inverno scorso dagli alberi del parco, perciò non sono molto spessi. Vi basteranno questi.” Additò una sega e una piccola scure appoggiate contro il cavalletto. Sorrise. “Vedrete, non sarà così difficile.” Meredith sentì di odiarlo.

“Io sarò laggiù a sistemare il tetto del capanno.” proseguì Rasputin. “E’ lontano, ma potrò vedervi benissimo, perciò niente trucchi. Niente battere la fiacca e niente falò.” aggiunse fissando John, che fece spallucce. Rasputin raccolse la sua borsa da lavoro e si incamminò verso il capanno degli attrezzi, visibile tra gli alberi a circa cinquanta metri da loro. “State attenti a non farvi male. Se avete bisogno di qualcosa fate un fischio, ragazzi. Buon lavoro.”

Meredith lo guardò sparire tra gli alberi. John cominciò a imprecare prendendo a calci tutto quello che gli capitava a tiro.

“Che idiozia. Che fottuta perdita di tempo. Merda. Merda.”

Meredith guardò la catasta di legna. Sarebbe stata una lunga giornata.

“Adesso do fuoco alla maledetta catasta. Levati.”

Molto lunga.

“Chi se ne frega di quel cavolo di camino! Dannazione!”

Meredith notò una cadenza particolare nella sua voce. Più che una cadenza, un accento di cui non si era resa conto prima. Il che era strano, perché ora che ci faceva caso si era accorta che era piuttosto forte.

Si avvicinò alla legna e afferrò uno dei rami. Cominciò a lottare per districarlo dalla catasta e trascinarlo sul cavalletto.

“Potrei dargli fuoco. Diremo che è stato un altro incidente.”

“Come preferisci.” rispose lei issando il ramo.

“Potresti usare i tuoi poteri per trascinare quella cosa, sai?”

“Oddio, dici sul serio? Grazie per avermelo ricordato. Come ho fatto fino ad oggi senza di te?” gli chiese con un espressione di finto stupore. “Credevo fossimo in punizione insieme. Magari potresti aiutarmi.”

Lui alzò le spalle. “Volevo solo dire che mi sembrava più semplice usare la telecinesi invece che spostare la legna a mano.”

“Già, per te di sicuro.” lo schernì Meredith. “Vuoi prendere la dannata sega, almeno?”

Lui sorrise e fece come lei gli aveva ordinato. “Come vuoi tu, zucchero.”

Meredith alzò la testa di scatto, furiosa. “Se mi chiami zucchero un’altra volta, giuro su dio che ti faccio volare fino alla villa.”

Doveva aver visto nei suoi occhi quant’era arrabbiata, perché John lasciò cadere la questione e alzò le mani in un gesto di resa.

“Ok, ok, non ti scaldare. Stavo solo scherzando.”

Si mise di fronte a lei dall’altro lato del cavalletto e appoggiò la lama dentellata sul legno. Meredith afferrò l’altra estremità della sega.

“Devi solo seguire il mio movimento.” le spiegò lui.

Lei annuì. “Lo so. L’ho già fatto.”

Cominciarono a lavorare e per un po’ nessuno dei due parlò. Era un lavoro ingrato. I rami non erano così sottili come Rasputin aveva voluto fargli credere, e tagliarli a mano era pura follia. Meredith era quasi sicura che da qualche parte nel capanno degli attrezzi o nella cantina della villa ci fosse una splendida motosega che avrebbe potuto facilitare il loro lavoro, ma sospettava che spaccarsi la schiena facesse parte integrante della punizione.

Si asciugò la fronte con la manica della maglietta a maniche lunghe che indossava. Le articolazioni delle spalle cominciavano a farle male sul serio aveva le mani graffiate a causa della legna.
John non faceva conversazione, ma aveva continuato a mormorare a denti stretti quant’era cretino il lavoro che stavano facendo e quanto gli facesse schifo.

“Ci siamo svegliati lagnosi stamattina, eh?” disse alla fine Meredith quando non ne potè più di tutte quelle lamentele.

“Scusa se la mia voce disturba le tue preziose orecchie, principessina.” rispose lui.

“Credevo di averti detto di non darmi dei soprannomi!”

“No, avevi detto di non chiamarti zucchero!”

“Guarda che è la stessa cosa!” esplose Meredith, esasperata. “Ascolta, se mi chiami ancora con un nome che non è il mio, ti faccio del male.”

Lui emise una risata di scherno. “Provaci.”

Meredith strinse i pugni, e per un attimo i due si fissarono in silenzio. Dopo qualche secondo, abbassarono lentamente la guardia e tornarono al lavoro.

Gettarono i due tronconi che avevano appena segato nel mucchio della legna già tagliata e si voltarono per prendere un altro ramo. Stanca di farsi graffiare le mani, Meredith usò il pensiero per spostare uno dei rami dalla cima della catasta e posarlo sul cavalletto.

“Dio ti ringrazio, era ora.” sospirò John.

“Guarda che lo faccio solo perché sono stanca.” ribattè Meredith debolmente.

Lui sorrise. “Sì, lo vedo.”

Meredith cercò tracce di sarcasmo nella sua voce, ma non ne trovò. Dopo un po’, mentre sudavano come schiavi su quel dannato legno secco, John disse: “E comunque non lo conosco. Il tuo nome, intendo.”

“Meredith.” Si era sempre vergognata del suo nome. Era talmente retrò da essere ridicolo.

“Meredith, e poi?” incalzò lui.

“Meredith St.Clair.”

“Meredith St.Clair? Sembra il nome di un’attrice degli anni Venti.”

Era più o meno quello che pensava anche Meredith, ma che fosse lui a farglielo notare la mandava in bestia. “Sentiamo, e tu come ti chiami?”

“John Allerdyce.” rispose lui con quella sua parlata lenta a strascicata. “Secondo te questo ci entra nel camino?” chiese alzando uno dei tronconi che avevano tagliato.

Meredith scosse la testa. “No. E’ troppo lungo."

“Come pensavo.” disse John, lanciando il pezzo di ramo nel mucchio della legna già tagliata. Suo malgrado, Meredith non potè fare a meno di sorridere.

“E così il tuo cognome è Allerdyce.” continuò Meredith mentre spostava con il pensiero un altro ramo. “Pensavo ti chiamassi John Smettila-Di-Giocare-Con- Quell’-Accendino.”

John rise. “Sì, è quello che la professoressa Munroe ripete più spesso dopo il mio nome. Magari un giorno comincerà a chiamarmi John Smettiacc, per risparmiare tempo.”

Posò la sega e si asciugò la fronte sbuffando. Poi afferrò l’orlo della sua maglietta (la felpa giaceva già nell’erba da tempo) e se la sfilò, rimanendo a petto nudo.

Sbruffone, pensò Meredith. Era settembre e anche se stavano faticando parecchio, non faceva davvero così caldo da togliersi la maglietta. John sorrise, evidentemente compiaciuto che lei lo stesse guardando.

“Se vuoi sfilarti la maglietta anche tu non c’è problema.” ghignò.

Meredith alzò gli occhi al cielo. “Che classe.” rispose. Afferrò la sega ed aspettò che John facesse altrettanto, ma lui la ignorò. Fissò la catasta di rami ancora da tagliare e poi il loro piccolo cumulo di legna già pronta. Sospirò teatralmente. “Se penso a tutto quello che potrei fare invece di star qui a perdere tempo.”

“Puoi provare a farlo presente al professor Xavier.” rispose Meredith, sarcastica. “Forse ti restituisce pure le sigarette. Non te lo consiglio, però. Dove stavo io prima non funzionava, ma magari tu sei più fortunato.”

Lui tornò al cavalletto e ripresero il lavoro. “E dov’è che stavi prima?” le domandò John mentre segavano il ramo.

Lei lasciò passare qualche secondo prima di rispondere. “In orfanotrofio.” disse infine.

John la guardò con stupore. Era strano. Quando diceva alla gente di essere cresciuta in orfanotrofio, Meredith era abituata a ricevere due tipi di sguardi: di compassione o di scherno, che poi erano la stessa cosa. Era la prima volta che qualcuno la guardava stupito, e non sapeva bene come reagire.

“Dai, sto aspettando una delle tue formidabili battute.” lo incalzò.

Ma John si limitò a scuotere la testa. “Ci sono stato anch’io.”

Meredith lo guardò negli occhi, sorpresa e confusa. Aveva appena fatto una gaffe colossale, e non sapeva come recuperare.

“Oh. Ok.” disse infine.

Chiuse gli occhi, frustrata. Aveva voglia di prendersi a sberle.

Lavorarono per il resto del pomeriggio senza parlare quasi mai, ma nonostante il silenzio a Meredith sembrò che tra loro fosse appena caduta una specie di barriera invisibile. Come se il fatto di condividere quell’esperienza li rendesse membri dello stesso club.

Stava già iniziando a tramontare quando Rasputin venne a dirgli che avrebbero continuato l’indomani. Si incamminarono in silenzio tra gli alberi del parco. Quando furono di fianco al capanno degli attrezzi, John lo aggirò e si appoggiò al muro posteriore, invisibile dalla casa. Arrotolò i jeans fino quasi al ginocchio e da una calza tirò fuori un pacchetto di sigarette.

“Ti va di fumare?” le chiese scoccandole uno dei suoi sorrisi compiaciuti.

Meredith prese il suo pacchetto da una delle tasche della felpa. “Volentieri.”

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E siamo arrivati alla fine anche del secondo capitolo. Ci si rivede tra un paio di giorni!


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


ItF3 Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

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Era domenica sera, e Meredith stava andando nella sala comune dopo essersi fatta la doccia (lei e John avevano lavorato tutto il weekend, cominciando a chiedersi se il vetro che avevano rotto fosse in realtà una costosissima lega sperimentale di produzione governativa), quando la dottoressa Grey, la vicepreside della scuola, la chiamò nel suo studio.

“Meredith? Hai un secondo?”

Sapendo che la domanda era puramente retorica, annuì ed entrò. La stanza era piccola, e le librerie alle pareti sembravano togliere ulteriore spazio. Doveva però ammettere che la dottoressa Grey l’aveva arredata bene. Al centro della stanza, sopra un tappeto dall’aria arabeggiante, c’erano due poltrone di pelle nera divise da un tavolinetto da caffé, che come le aveva spiegato la dottoressa la prima volta che era entrata nel suo studio, proveniva da un viaggio che lei e il professor Summers avevano fatto in Marocco. Alcuni vasi di fiori freschi appoggiati qui e là aiutavano a smorzare quell’aurea da studio medico che la stanza aveva. Meredith guardò i fiori. Rose. Rose bianche. Come quelle che c’erano nel cortiletto delle cucine. Improvvisamente le si accese una lampadina. E se...

“Prego, siediti pure.” le disse la Grey indicando una delle poltrone.

“Grazie.” Mentre guardava la dottoressa prendere posto di fronte a lei, Meredith si chiese come faceva a sapere che in quel momento stava passando davanti al suo studio. Probabilmente la Grey era abbastanza potente da leggere nella mente delle persone anche attraverso una porta chiusa.

Jean Grey sorrise. “Ho incontrato Paige Guthrie in sala comune poco fa, mi ha detto che stavi per scendere. Quando ho sentito dei passi ho immaginato che fossi tu.”

Meredith si mise a studiare il tappeto ai suoi piedi. “Scusi.” mormorò. Avrebbe voluto morire.

“Affatto, scusami tu. E’ una cosa davvero scortese leggere la mente altrui senza permesso, ma immagino che le vecchie abitudini siano dure a morire.” Fece una pausa. “E tu come te la cavi con la telepatia? Hai notato qualche miglioramento?” chiese.

“Mi sto esercitando.” disse, ed era vero. Non riuscire a controllare bene la telepatia era un grosso disagio per lei e voleva liberarsene al più presto. “Ma continuo a sentire i pensieri degli altri, di tanto in tanto.”

“Questo è un bene. Se non riuscissi a sentire niente, quello sì che sarebbe un problema.” Fissò Meredith dritta negli occhi. “Cosa sto pensando ora?”

Meredith restituì lo sguardo e si concentrò più che poteva. Sgombrare la mente... Visualizzare il percorso... Dalle pupille fino dentro la testa...

...gatto...vicina...muro...

“Ehm... qualcosa su di un gatto vicino ad un muro?” tentò Meredith.

“Bene, molto bene. La frase che stavo pensando era “Il gatto della vicina salta sul muro alto”, ma stai facendo degli enormi progressi, Meredith.” Tornò a fissarla. “Comunque non è di questo che volevo parlare.”

Ah ecco, mi sembrava, pensò Meredith. Tutti i professori le avevano fatto un sermone a proposito della sigaretta e del vetro rotto, e la dottoressa Grey, effettivamente, mancava all’appello.

“Ormai è qualche mese che sei arrivata nella scuola. Posso chiederti come ti trovi?”

Ok, la stava prendendo alla larga. “Bene.” rispose Meredith, cercando di capire esattamente dove volesse arrivare.

La Grey sembrò considerare la sua risposta. “E per quanto riguarda le attività scolastiche? I programmi didattici corrispondono alle tue aspettative?”

Meredith alzò le spalle, sempre più confusa. “Sì, immagino di sì.” La dottoressa Grey la guardò come se aspettasse di sentire il resto, perciò Meredith si sentì in dovere di aggiungere qualcosa. “Cioè... non è che avessi proprio delle aspettative. Ad essere sincera non sapevo bene cosa avrei trovato venendo qui.”

La Grey sorrise. “Hai legato con qualcuno in particolare?”

Stava pensando ad Allerdyce, di sicuro. “No.” rispose secca Meredith. “Nessuno in particolare.”

Jean Grey la guardò in silenzio per qualche istante. “Che mi dici di Paige, la tua compagna di stanza?”

“E’ ok.”

“Ok?”

“Sì... ok.”

“Che significa ok?” insisté la dottoressa. “Non andate d’accordo?”

“No, non è così.” si affrettò a puntualizzare Meredith. Non aveva problemi con Paige. Era a posto, solo che... “E’ gentile, carina e tutto, non mi fraintenda, è una ragazza simpatica, ma...” Si fermò, in cerca delle parole giuste.

“Avete caratteri troppo diversi per andare d’accordo.” concluse per lei la dottoressa Grey.

Meredith sorrise debolmente. “Credo che sia così.”

Jean Grey sembrava essersi aspettata quella risposta. “Davvero non c’è nessuno che tu consideri tuo amico, Meredith?” ritornò a chiederle.

Si riferiva di nuovo ad Allerdyce? Voleva farle ammettere che loro due avevano un piano segreto per destabilizzare la scuola? Guardò la Grey dritta negli occhi. No, forse no, decise. Forse voleva solo sapere se aveva legato con qualcuno.

Pensò alle persone che aveva conosciuto da quando era arrivata all’Istituto. C’era la ragazza asiatica con quel nome assurdo, che incontrava sempre al corso di geometria... e Martha, Martha Johansson, che era silenziosa e solitaria quanto lei. Bobby, il ragazzo che sapeva creare il ghiaccio, era gentile, le aveva mostrato la scuola quando era arrivata, e quando si incontravano scambiavano sempre qualche parola. A volte c’era anche la sua ragazza con lui. Con loro parlava, si trovava anche abbastanza bene, ma non poteva dire di aver legato.

“No, nessuno.” disse infine.

La dottoressa Grey sembrava essersi aspettata anche questo. Accavallò le gambe e disse: “Dato il tuo passato è comprensibile che tu non te la senta di affezionarti troppo alle persone.” Meredith sentì il proprio cuore caderle nello stomaco. “Vuoi parlarne?”

Meredith ebbe l’impulso di alzarsi e andare via. “Credevo l’avessimo fatto quando sono arrivata.” rispose, sulla difensiva.

“Beh, sì e no.” Mosse una mano come se volesse scacciare una mosca. “Credo che dovremmo parlarne di nuovo.”

Era l’ultima cosa che Meredith voleva, ma rimase zitta.

“Se ricordo bene, sei nata a Detroit, vero?”

Ci fu silenzio per un po’. Poi Meredith disse: “Non so se sono nata a Detroit. Mi hanno trovato sulla scalinata della chiesa di St. Mary of Grace a Detroit, quindi sui documenti c’è scritto che sono nata lì.”

Jean Grey annuì. “Per quanto sei stata lì?”

“Un po’”

“Quanto, Meredith?”

Meredith sospirò. “Quattro anni, a periodi alterni.”

“Perché di tanto in tanto venivi affidata ad una famiglia.” non era una domanda, ma un’affermazione.

“Sì.” confermò Meredith, controvoglia.

Essendo cresciuta in orfanotrofio, conosceva bene le dure leggi non scritte che regolano la scelta di un bambino da parte di una potenziale famiglia. I neonati che, come lei, erano stati abbandonati a poche ore dalla nascita avevano buone probabilità di trovare dei genitori. Tutti adorano un cosino morbido e grazioso che non ha memoria e che li chiamerà mamma e papà senza problemi. Tuttavia, più un bambino cresce e meno possibilità ha di essere adottato. Fino ai quattro, cinque anni ci sono ancora speranze, ma una volta che inizi la scuola sei finito. Avere un bambino in età scolare significa avere un figlio che sa benissimo di non essere tuo figlio, e che probabilmente andrà male a scuola e avrà problemi comportamentali.

Le cose cambiano un po’ se sei una mutante. Per quanto tu possa essere carina a quattro settimane di vita, far volare i peluche per la stanza è un deterrente molto forte per qualunque potenziale famiglia, e una bambina di tre anni che butta giù le mensole dai muri se le neghi il gelato dopocena terrorizzerebbe chiunque.

“A quante famiglie sei stata affidata?”

“Me ne ricordo due. Ma mi hanno detto che ce ne sono state altre quattro.”

“Quanto tempo hai trascorso con quelle famiglie, Meredith?”

“Non ricordo bene. Due, tre settimane, credo. Non molto di più.”

La dottoressa Grey la guardò. “E poi ti rimandavano indietro.”

Il cuore di Meredith sprofondò un pochino di più. Silenzio.

“Per via delle tue abilità?”

Meredith sentì un’ondata di irritazione contorcerle lo stomaco. “Ovvio.” sibilò di malumore.

Jean Grey sembrò non accorgersene. “Cosa è successo quando avevi quattro anni?”

Meredith si agitò sulla poltrona, sempre più innervosita. “Mi mandarono in Florida. Dissero che c’era una famiglia fantastica che sarebbe andata benissimo per me.”

“E fu così?” continuò impassibile la Grey.

Meredith perse la pazienza. “Perché me lo chiede? Sa benissimo come è andata. Ne abbiamo già parlato.”

La dottoressa non si scompose. “Vorrei che ne parlassimo ancora, Meredith.” disse con calma.

Lei si gettò esasperata contro lo schienale della poltrona. “All’inizio sì. Avevo tutto quello che volevo. Era una famiglia molto ricca, mi bastava aprire bocca per essere sommersa dai giocattoli. A loro non importava dei miei poteri, avrei potuto anche distruggere la casa e non avrebbero fatto una piega. Avevo una tata.” cominciò ad enumerare sulle dita “quattro cani, due pony, la casa dei sogni di Barbie e il castello incantato di Lady Lovley, inclusi Lady Lovley, il principe Cuorforte, tutte la dame di compagnia e la strega cattiva.” Meredith fece una pausa. Ricordare le faceva male. “Ma non avevo dei genitori.”

Per un po’ nessuna delle due parlò. Fu Meredith ad interrompere il silenzio. “Erano sempre occupatissimi. Lui era sempre al lavoro, lei aveva il club, le serate di beneficenza, il the con le amiche... Quando tornavano era tutto un “Meredith, tesoro”, ma tempo venti minuti e sparivano di nuovo.”

“Come finì, Meredith?” chiese la dottoressa Grey. La sua voce fu poco più che un sussurrò.

Lei alzò le spalle. “Il primo anno fu perfetto. Poi cominciarono a perdere interesse, credo.” Se un bambino normale ha bisogno di attenzione, un bambino mutante ne richiede almeno il triplo. “Una sera mi misi a fare i capricci perché volevo che fosse...” Si interruppe in cerca di un qualche appellativo calzante. Non ne trovò nessuno. “...lei a mettermi a letto, non la tata. Scesi nel salone dove stavano tenendo una festa, e quando lui mi afferrò il braccio per portarmi di sopra io... persi il controllo e feci esplodere il lampadario.” Ricordava perfettamente gli avvenimenti di quella sera, la pioggia di cristalli che si era abbattuta sul salone, la gente che si accalcava urlando verso la porta e loro che le gridavano: “Che cosa hai fatto? Che cosa hai fatto?”

“Non fu poi una tragedia, Meredith. A sei anni è normale non riuscire a gestire le proprie abilità, specie quando si è emotivamente stressati. E nessuno degli invitati rimase ferito seriamente.”

Meredith rise amaramente. “Non fu quello che dissero i Carter mentre mi riportavano ai servizi sociali.”

Quando era tornata in orfanotrofio aveva ormai sei anni, l’età fatale. Nessuno l’avrebbe più voluta anche se fosse stata normale, figuriamoci quando sapevano che era una mutante capace di far crollare un lampadario di cristallo su di una stanza gremita di gente.

“E così ritornasti in orfanotrofio?”

Perché la Grey si ostinava a farle domande di cui conosceva benissimo le risposte? Non ci erano già passate quando era arrivata nell’istituto?

“Sì.”

“Un orfanotrofio in Florida?”

“Per un po’. Poi mi rimandarono al nord.”

“A Detroit?”

Era sicura che la dottoressa se ne ricordasse. Glielo aveva detto nel loro primo colloquio, e comunque era scritto nel suo fascicolo. Ogni maledetta cosa era scritta nel suo fascicolo.

“No, a Minneapolis. Mi dissero che nel mio vecchio istituto non c’era più posto.”

“E tu credi che fosse veramente così?”

Meredith alzò le spalle e non disse nulla.

“Ti dispiacque non ritornare a Detroit?” continuò la dottoressa Grey.

Di nuovo Meredith alzò le spalle. “Non mi importava.”

“Perché no?”

Che razza di domanda era? Meredith sorrise sarcasticamente. “Non lo so il perché. Non mi importava più di nulla a quel punto.”

Improvvisamente si rese conto di quello che aveva appena detto. Sentì un’ondata di confusa pietà per quella bimba che a sei anni ne aveva passate talmente tante da essere emotivamente vuota.

“D’accordo. Quanto tempo passasti a Minneapolis?”

“Due anni e mezzo.”

“Ti ci trovavi bene?”

“No. Mi faceva schifo.”

La dottoressa Grey si sporse in avanti. “Cosa esattamente ti faceva schifo?”

“Tutto. Il posto, la gente che ci lavorava, gli altri bambini.”

“Perché?”

Di nuovo quella domanda assurda. Meredith fissò Jean Grey direttamente negli occhi prima di rispondere. “Non sopportavo più nessuno.”

La dottoressa si ritrasse, come se avesse paura che Meredith le leggesse nel pensiero.

“Fosti affidata a qualche famiglia?” chiese quando si fu ricomposta.

“Sì, ci hanno provato.” rise Meredith. “Nessuno resisteva più di due settimane.”

“Come mai? Per via dei tuoi poteri?”

“No.” Meredith si rese conto che stava ancora sorridendo. “Facevo un tale casino che nessuno voleva avere a che fare con me.” Era perverso, sorridere per una cosa del genere.

“Perché? Non volevi avere una famiglia?”

“No.” Si rese conto di aver risposto un po’ troppo velocemente. “Non più.” aggiunse a mo’ di giustificazione.

“Perché no?”

Di nuovo si sentì esasperata. “Glielo ho detto il perché!” La sua voce era stridula e cercò di controllarsi. “Odiavo tutti.”

L’ultima frase sembrò alleggiare nella stanza come una specie di bestemmia. Meredith si augurò che avessero finito.

“Ma poi ti trovarono una famiglia a Phoenix.” disse la dottoressa Grey in un tono casuale.

Meredith chiuse gli occhi. “Sì. A Phoenix.”

“E lì non creasti problemi?” La Grey stava sussurrando di nuovo. Meredith tenne gli occhi e la bocca chiusi.

Alcuni ragazzi passarono nel corridoio al di là della porta chiusa. L’orologio nello studio battè le sette.

Meredith aprì lentamente gli occhi. “Molti, all’inizio. Ma poi vidi che non funzionava. Loro non mi rimandavano indietro.” Gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Credo che dovremmo parlare della tua famiglia, Meredith.” disse la dottoressa. Lei chiuse di nuovo gli occhi per ricacciare indietro le lacrime.

“Avevano una figlia mutante.” disse infine, con il tono più casuale e distaccato che le riusciva. “Perciò gli andava bene averne un’altra, credo. Mio padre aveva moltissima pazienza con noi due. Anzi, si divertiva un mondo a vederci far volare le cose o a creare lampi di luce. E’ questo che Evie sa fare.” si affrettò a spiegare “Lampi di luce. Ci chiamava le sue due superbimbe.” A quel punto i ricordi che pensava di aver seppellito nel profondo della sua anima stavano tornando a galla e lei non riusciva più a fermarli. “Mi chiedeva di indovinare cosa stava pensando, e quando ci riuscivo era più eccitato di me.” Rise, la prima risata sincera da quando era entrata nello studio. Forse la prima da anni. “Portava me ed Evie al parco, e ci divertivamo come pazzi a spaventare i passanti.”

Anche la dottoressa Grey stava sorridendo. “Andavi d’accordo con Evie?”

“Moltissimo, da subito. Aveva la mia età e gli altri bambini a scuola la evitavano, perciò desiderava con tutto il cuore un compagno di giochi. Legammo molto.”

“Eri felice?”

“Sì, direi proprio di sì.”

“Quanto sei rimasta con i Barrymore?”

“Quattro anni e mezzo. Poi mi hanno rimandato a est, a New York City. Sono rimasta in quell’orfanotrofio per quasi tre anni, senza interruzioni. Non che mi spiacesse, adoravo New York.”

La Grey si limitò a fissarla senza mangiare la foglia. “Perché i Barrymore rinunciarono alla tua custodia?”

“Lo sa il perché.” sussurrò Meredith.

“Voglio sentirlo da te.”

“Lo ha già sentito da me.”

“Voglio sentirlo di nuovo.”

“Perché?” la domanda le era sfuggita dalle labbra prima che riuscisse a controllarsi.

“Perché credo che ti farà bene.”

“Io credo di no.”

Questa volta il silenzio durò parecchi minuti. Alla fine Meredith disse lentamente: “Mio padre si ammalò.” Ci fu un'altra lunga pausa. “Cancro. Lui... non poteva più lavorare, e così...” Lasciò cadere la frase.

“Di chi fu la decisione di mandarti via?”

“Di mia madre. Non ce la faceva a stare dietro a due figlie mutanti e a un marito malato terminale.” Si vergognò ad aver usato l’espressione “malato terminale” per suo padre.

“Intendeva economicamente o in termini di tempo e attenzioni?” chiese la dottoressa Grey.

Meredith si strinse nelle spalle. “Non lo so.”

“Tu cosa pensi?”

“Entrambe, credo. Nostra madre era sempre stata un po’ a disagio riguardo ai nostri poteri.”

“Come ti sentisti?” continuò la dottoressa.

Come pensava si fosse sentita? “Male, ovvio.”

“Rifiutata?”

“Credo.”

“Credi?” Jean Grey si sporse nuovamente in avanti.

“Sì, io...” Meredith si agitò sulla poltrona. “Non so, non ricordo esattamente.”

“Meredith, come fai a non ricordarti una cosa simile?” continuò la dottoressa.

“Non...” ormai cominciava a sentirsi disperata. “Perché non mi legge nel pensiero e basta? Sarebbe molto più semplice per tutte e due!”

“Non voglio leggerti nel pensiero, Meredith, non servirebbe a niente. Voglio che me lo dica tu.”

Meredith inspirò ed espirò un paio di volte prima di rispondere. “Stavo male, malissimo, ok? Mio padre.. lui stava morendo, ed io... non potevo stare lì con lui, non potevo stare con la mia famiglia perché improvvisamente non ce l’avevo più, una famiglia. Ecco come stavo. Soddisfatta?”

La dottoressa Grey non si scompose. “Eri a New York quando sapesti che era morto?” chiese.

Meredith espirò di nuovo. “Sì.”

“Fu tua madre a telefonarti?”

“No, fu Evie.” I singhiozzi di sua sorella le riecheggiarono nel cervello. “Era là con lui quando successe e io fui la prima persona che chiamò.”

“Hai mantenuto i contatti con tua sorella Evie?”

“Sì, per molto tempo. Quando l’ho chiamata da qui, il giorno che sono arrivata, sua madre mi ha detto che se ne era andata di casa.” Né a lei né alla Grey era sfuggito quel “sua madre”.

“E la cosa ti ha sorpreso?”

“Non più di tanto. Evie ha sempre avuto problemi con sua madre da...” esitò “allora.” Guardò fuori dalla finestra.

“Sei preoccupata per lei?”

“Un po’. Evie è una ragazza fragile, specie quando si tratta della sua diversità. Ma è in gamba.” Sì, lo era. Doveva solo non farsi mettere sotto dai giudizi dei “normali”.

La Grey la fissò per un po’ in silenzio. “Poco fa hai detto che New York ti piaceva.”

“Sì, è così.”

“Come mai?”

“E’ una metropoli. Il cuore del mondo. L’avevo vista tante volte al cinema e alla televisione e mi sembrava fantastico viverci per davvero.”

“Ti piaceva più di Phoenix?”

Meredith la guardò negli occhi. “Di Phoenix mi piaceva la mia famiglia.”

Jean Grey alzò un sopracciglio. Sembrava impressionata dalla sua risposta. “E come l’hai presa quando ti hanno detto che una famiglia di Baltimora era disponibile per l’affidamento?”

Meredith rise di nuovo. “Ero sorpresa che qualcuno volesse una mutante sedicenne. E infastidita che avessero candidato me.”

Aveva odiato i Jackson con ogni fibra del suo essere. Quando era arrivata nella loro fattoria a Baltimora aveva capito il perché della loro richiesta. Non era disinteressato altruismo, oh no. Le famiglie affidatarie percepiscono un contributo governativo per ogni ragazzo che prendono in affido, e lei e gli altri quattro “ospiti” (tutti, a parte lei, normali, ma già adolescenti) erano una rendita mica male per i Jackson.

Aveva scatenato l’inferno, ricorrendo a tutti i suoi vecchi metodi. Era perfino riuscita a leggere nella mente di Faye Jackson, ed aveva spiattellato davanti a tutta la parrocchia che la torta al cioccolato che lei si vantava di aver preparato con le sue mani per “la gara delle massaie” in realtà proveniva dal drugstore giù all’angolo. Lo considerava il suo capolavoro.

I Jackson avevano resistito più a lungo di quanto avessero fatto le altre famiglie. Non volevano perdere i soldi dei servizi sociali. Dopo un assedio durato quattro mesi, il professor Xavier e Jean Grey erano venuti alla fattoria, avevano parlato con i Jackson e avevano chiesto a Meredith se volesse andare con loro all’Istituto per Giovani Dotati. Lei aveva accettato. Sembrava una prospettiva più allettante che tornare all’orfanotrofio.

Anche la dottoressa Grey sorrideva. Avendo visto di persona la fattoria, e non essendo stupida, aveva capito immediatamente cosa succedeva in quel posto. Meredith non aveva mai dimenticato le parole che le aveva detto mentre camminavano verso la macchina: “A volte la forza è necessaria.” Solo dopo aveva scoperto che Jean Grey era in grado di leggere nel pensiero.

“Ti sei pentita di aver accettato la nostra proposta?” le chiese infine.

“Non direi.”

“Meglio così.” disse la dottoressa alzandosi dalla sua poltrona. Meredith la imitò.

“Continua ad esercitarti con la telepatia. Vuoi fare un’altra prova?” Lei annuì.

Guardò la Grey negli occhi... si concentrò...

“Tom gioca a calcio con il dottore.” disse.

“L’amico di Tom gioca a calcio con il figlio del dottore.” precisò la dottoressa. “Stai andando molto bene. Continua così.” L’accompagnò alla porta. L’orologio batteva le otto.

“Ci vediamo a cena, allora.” disse la Grey aprendo la porta.

Meredith diede un ultimo sguardo alle rose bianche sulla sua scrivania, e si ricordò che ce n’erano di uguali all’ospedale, l’ultima volta che aveva visto suo padre.

“Sì, certo.” rispose.

Invece di andare in mensa si diresse verso il suo dormitorio. Ai piedi delle scale sbattè contro John Allerdyce, che veniva dal corridoio opposto. Non si fermò a chiedergli scusa.

“Ehi, che modi sono questi?” sentì che le gridava dietro mentre lei si arrampicava su per le scale.

Continuò a camminare. Sentì di odiare lui e il suo maledetto posto dietro le cucine, con tutte le sue rose che crescevano perfette ed immacolate nelle aiuole.

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Ecco fatto. Mi spiace che John sia apparso solo alla fine, ma era necessario spiegare qualcosa in più su Meredith prima di continuare la storia. Giuro che Pyro sarà molto più presente nel prossimo capitolo!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


ItF4

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

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Il giorno successivo il suo colloquio con Jean Grey, Meredith stava rientrando in camera dopo la lezione pomeridiana di combattimento corpo a corpo tenuta da Logan quando improvvisamente si fermò sulla soglia, confusa. La ragazza asiatica con i capelli corti e un nome strano, con cui di tanto in tanto scambiava qualche parola dopo la lezione di Summers, era in piedi sul letto di Paige e stava attaccando all’armadio un poster dei System of a Down. Quando si accorse di Meredith, le sorrise e saltò giù dal letto, venendole incontro.

“Ehi, ciao!” la salutò “Ti aspettavo.”

“Ehm, ciao.” Meredith sorrise debolmente, sempre più confusa. “Senti, non vorrei sembrarti scortese, ma che stai facendo?”

“Oh, la dottoressa Grey non te l’ha detto?” domandò la ragazza, stupita. “Cambiamento di alloggi.” Sorrise. “Sono la tua nuova compagna di stanza. Il tuo nome è Meredith, vero? Io sono Jubilation Lee.” concluse con una smorfia. “Ma non chiamarmi mai così. Tutti mi chiamano semplicemente Jubilee. Figo, vero? Non solo è molto più carino, ma è anche pratico.”

Allora la Grey le aveva letto nel pensiero, dopotutto. Altrimenti, come faceva a sapere che con Jubilee si trovava bene? Lei non l'aveva menzionato.

“Oh, ti da fastidio il poster?” chiese Jubilee indicando l’armadio. “Se vuoi lo tolgo.”

“No, figurati, nessun problema.” rispose Meredith appoggiando con cautela la sua borsa sul letto. Il pavimento della camera era coperto di vestiti e libri gettati alla rinfusa.

“Non ti preoccupare, entro stasera sistemo tutto.” si affrettò ad assicurarle Jubilee. Rise. “Sai, sono una frana nei traslochi.”

Meredith alzò le spalle. “Non preoccuparti, non sono una maniaca dell’ordine.” Questo era stato uno dei maggiori punti di disaccordo tra lei e Paige. Quello che per lei era accettabile, per Paige era un casino. A quanto pareva, con Jubilee si sarebbero trovate sulla stessa lunghezza d’onda.

“Ti piacciono i System of a Down?” le chiese Jubilee mentre raccoglieva un maglione spiegazzato dal pavimento e lo gettava sul letto.

“Conosco solo qualche canzone.” rispose Meredith. “”Sorrow” e “Toxicity”, hai presente?” Jubilee annuì vigorosamente. “Oh, e anche “Atwa”.”

“Ma allora ti devo assolutamente far ascoltare “The Metro”!” esclamò Jubilee battendo le mani. “Vedrai che ti piacerà tantissimo.” Si fermò di colpo e guardò Meredith. “Ovviamente, se ti va...” aggiunse con cautela.

“Ma sì, certo.” si affrettò a rassicurarla Meredith. “Certo che mi va di ascoltarla, perché no?”

Jubilee sorrise, sollevata. “Ah, ok.” Meredith le restituì il sorriso. Non sapeva perché, ma Jubilee le trasmetteva allegria. “Sai, io tendo ad essere un po’ invadente a volte e...” Si fermò di colpo, e Meredith stava per chiederle se andava tutto bene quando riprese improvvisamente a parlare alla velocità della luce. “Ascolta, ma perché non andiamo giù in mensa a prenderci un bel gelato, eh? Per festeggiare.”

Meredith guardò l’orologio. “Mi piacerebbe molto, ma veramente io...”

“Oh, ti preeeeego...” Jubilee la implorò a mani giunte. “Noi dobbiamo festeggiare. Solo dieci minuti. Ti preeeeego...”

Meredith guardò la sua nuova compagna di stanza. Mancavano ancora più di quaranta minuti alle quattro, quando avrebbe dovuto raggiungere John alla catasta per continuare la loro punizione, e il suo programma era di passarli da sola nell’aula audiovisivi a guardare un film.

“Ok.” disse infine.

“Evviva!” gridò Jubilee gettandosi verso la porta. Meredith rise.

****

Erano sedute ad uno dei tavoli della sala mensa, mangiando un gelato alla panna e ridacchiando. Jubilee parlava davvero troppo e, dato che Meredith parlava troppo poco, il risultato era perfetto.

“Ma dai, non ci credo che ancora non conosci quasi nessuno.” esclamò Jubilee con la bocca piena.

Meredith alzò le spalle e prese un altro cucchiaio di gelato. “E’ così, invece. Te l’ho detto che non sono una di compagnia.”

“Oh, andiamo, questo non è affatto vero.” protestò Jubilee.

“Marie! Ehi, Marie!” gridò rivolta ad una ragazza che passava di fronte alla porta della mensa. Lei venne dalla loro parte.

Meredith si accorse di conoscerla. Era la fidanzata di Bobby, il ragazzo del ghiaccio.

“Meredith, questa è la mia amica Marie D’Ancanto.” le presentò Jubilee. “Marie, questa è la mia nuova compagna di stanza, Meredith... Meredith...”

“St.Clair.” Meredith concluse per lei. “Noi due ci conosciamo già.” Marie annuì.

“Oh beh, meglio così.” disse Jubilee. “Dove te ne vai di bello, Marie? Perché non ti siedi qui un po’ con noi?”

“Veramente stavo andando a studiare.” rispose Marie, giocherellando con il ciuffo bianco che le cadeva sul viso, così in contrasto con il resto dei suoi capelli color mogano.

“Oh andiamo, Marie, non fare la secchiona.” l’apostrofò Jubilee. “Hai tutto il pomeriggio per studiare. Siediti con noi.” Marie sembrava tentata.

“Aiutaci a finire il gelato.” le disse Meredith, indicando la coppa che lei e Jubilee stavano dividendosi. “Io sto per vomitare.”

“Io pure.” confermò Jubilee.

Marie sorrise. “Ok, allora.” disse afferrando un cucchiaino pulito e sedendosi di fronte a loro. Prese una cucchiaiata di gelato e se lo portò alla bocca. “Mmm, che buono...” esclamò ad occhi chiusi. Meredith notò che aveva entrambe le mani coperte da guanti neri.

“Stavo raccontando a Meredith delle nostre serate popcorn e film, Marie.” disse Jubilee. “Sapevi che lei ha visto tutti i film di John Carpenter?”

“Dicendolo così mi fai sembrare una sfigata.” protestò Meredith prendendo un altro po’ di gelato.

“Ma dai, è una cosa forte. Io lo ho adorato, “Schegge di paura”.” continuò Jubilee.

“Io preferisco i film con meno sangue.” intervenne Marie. “L’hai visto “Le pagine della nostra vita”?” domandò rivolta a Meredith.

“No, ma mi piacerebbe. Ho sentito che è molto bello.” rispose.

“Noi lo abbiamo preso a noleggio la scorsa settimana e abbiamo pianto come fontane.” Jubilee confermò annuendo vigorosamente. “Cioè, i ragazzi erano più sull’orlo del suicidio, a dir la verità...”

Tutte e tre risero. “Se ti piace il cinema, perché non ti unisci a noi qualche volta?” le propose Marie. “A noi farebbe piacere.”

“Assolutamente.” confermò Jubilee.

Da quanto tempo non guardava un film in compagnia? Secoli, probabilmente. Quando era in orfanotrofio, spesso usciva di nascosto e si infilava in un cinema per tutto il pomeriggio, ma sempre da sola. Si ricordò di quando lei e Evie guardavano e riguardavano la videocassetta di “The Nightmare Before Christmas” sdraiate sul divano. Sembrava passato un intero millennio.

“Sì, anche a me farebbe piacere.” Sorrise, e Marie e Jubilee fecero altrettanto.

“Ehi piccola, ma dov’eri finita?” Un ragazzo alto e con i capelli castani avanzò verso di loro. Meredith riconobbe Bobby. “Dove sei stata?” domandò rivolto a Marie “Ti cerco da venti minuti.” Si chinò a baciare la sua ragazza sui capelli, ma lei si ritrasse.

“Scusa, Bobby, mi dispiace tanto.” disse “Stavo venendo in biblioteca, ma poi le ragazze mi hanno tentato con questo buonissimo gelato...”

“Uhm, gelato...” esclamò Bobby fissando con golosità la coppa.

“Prego, Bobby non fare complimenti.” disse Jubilee.

“Grazie, Lee.” Si sedette di fianco a Marie e usò il suo cucchiaino per prendere una grossa porzione di gelato.

“Bobby, ma che schifò!” protestò lei.

“Perché?” domandò lui. “Non ho mica paura dei tuoi germi...”

“Forse Marie si riferiva ai tuoi, di germi...” ridacchiò Jubilee.

“Non dare ascolto a queste due vipere, Meredith.” disse Bobby rivolgendole un sorriso.

“Ehi, indovina chi ha una nuova compagna di stanza?” esclamò improvvisamente Jubilee.

Bobby guardò prima lei e poi Meredith. “Davvero?” Scoppiò a ridere. “Condoglianze, Meredith.” Jubilee gli fece una pernacchia.

“Come mai questo spostamento?” domandò Marie.

Prima che Meredith potesse rispondere Bobby intervenì. “La dottoressa Grey ha fatto parecchi cambiamenti negli alloggi. Secondo lei alcune stanze erano male assortite, per cui ha voluto mettere insieme persone che hanno più chance di andare d’accordo.”

Alcune voci che aveva sentito dicevano che Bobby era uno dei più vecchi studenti della scuola, quindi probabilmente aveva delle fonti attendibili all’interno del corpo docente. Meredith fu contenta di sapere che la cosa non riguardava solo lei.

“Beh, con me e Meredith ci ha azzeccato.” rise Jubilee. “Quando è entrata in camera c’erano vestiti fin sul soffitto, eppure lei non ha fatto una piega.”

“Perché credevo che fosse la mia, quella felpa sul lampadario...” disse Meredith. I quattro ragazzi seduti al tavolo risero.

“Sai che Meredith ha visto tutti i film di John Carpenter?” disse Jubilee, questa volta rivolta a Bobby.

“Davvero?” chiese lui “Anche “La cosa”?” Meredith confermò.

“Spesso noi prendiamo un film, e...” cominciò Bobby.

“L’abbiamo già invitata.” lo informò Marie.

“Ok, fantastico.” disse Bobby “Se avessimo saputo che ti piace il cinema ti avremmo invitata prima.”

Prima che Meredith potesse dire qualcosa, una voce conosciuta si intromise.

“Ah, eccoti qui, bello...”

John Allerdyce entrò nella mensa e si diresse al loro tavolo. Si fermò a qualche metro da loro, però, quando si accorse di chi era seduto lì con il suo amico. Il suo sguardo offeso indugiò per qualche secondo su Meredith prima di tornare su Bobby.
Meredith si ricordò di come lo aveva trattato la sera prima e si sentì profondamente in colpa.

“Non lo sapevo che eri occupato, amico. Ci vediamo dopo in camera.” disse John.

“Perché non ti siedi qui con noi, John?” lo invitò Marie.

“No, grazie, davvero non posso.” rispose. “Purtroppo adesso ho da fare. Ci si vede più tardi.” Detto questo, si voltò e uscì dalla stanza. Meredith la guardò andare via, a disagio.

“Ehm, credo di dover andare anch’io.” disse guardando l'orologio.

Bobby la guardò. “Sì, lo immaginavamo.”

Meredith guardò prima lui, poi Marie, poi Jubilee. Abbassò gli occhi. “E così lo sapete, eh?”

“Sì, John ha accennato qualcosa a proposito di un tentativo di lapidazione.” disse Marie. “Ma vorremmo sentire la tua versione, naturalmente.”

Meredith raccontò brevemente del cortiletto e del lancio finito male.

“Sì, immaginavo una cosa del genere.” rise Bobby. “Non mi fraintendere, John è pieno di qualità, ma non riuscirebbe ad afferrare qualcosa al volo nemmeno se avesse le mani coperte di Superattak.”

Di nuovo, Meredith rise. “Ora devo proprio andare.”

“Ti aspettiamo per cena.” disse Jubilee. “Vuoi sederti con noi?”

“Certo che sì.” rispose Meredith. Jubilee sorrise.

“Buon lavoro, Meredith. E non permettere al vecchio John di battere la fiacca.” le raccomandò Bobby.

Si salutarono e Meredith uscì dal salone, meditando su come fosse cambiata in fretta la sua giornata. Quasi perdonava alla dottoressa Grey di averle di nuovo letto nel pensiero senza chiederle il permesso.

****

Quando arrivò alla catasta, John era già piegato sul cavalletto a segare un pezzo di legno. La sua maglietta e la sua felpa giacevano sul prato.

“Ehi, avresti dovuto aspettarmi!” lo chiamò Meredith correndo verso di lui.

Il ramo si divise in due con un colpo secco. John afferrò i due tronconi e li buttò nel mucchio della legna già tagliata che, a onor del vero, era aumentata parecchio nell’ultima settimana. Si asciugò la fronte con il braccio e poi, sempre senza degnare Meredith di una sola occhiata, afferrò un altro ramo e lottò per portarlo sul cavalletto.

“Aspetta, ci penso io.” si affrettò a dire Meredith, sollevando il ramo coi suoi poteri e posandolo sul cavalletto.

Si misero a segarlo in silenzio. Di tanto in tanto, Meredith gli lanciava delle occhiate furtive, ma John continuava a guardare in basso.

“Non avresti dovuto iniziare senza di me. Siamo in punizione insieme, non è giusto che ti sobbarchi del lavoro da solo.” gli disse. John la ignorò. Meredith sentiva il senso di colpa mordergli le viscere come un serpente.

“Allora...” tentò di nuovo dopo un po’. “tu e Bobby vi conoscete da molto?”

“Ah, oggi ti va di fare conversazione?” rispose lui sempre senza guardarla.

Meredith si sentì avvampare. “Senti, mi dispiace per come mi sono comportata ieri sera. Non ce l’avevo con te.”

"Vorrei ben vedere." sibilò lui.

Meredith aprì la bocca per dire qualcos'altro, ma poi rinuciò.

Segarono un ramo, e poi un altro, in totale silenzio. Intorno a loro, il parco sembrava altrettanto pacifico. Solo un leggero soffio di vento muoveva di tanto in tanto le foglie degli alberi che stavano ormai cominciando ad ingiallire. Meredith sospirò. Il ramo che stavano segando ora era spesso e nodoso, e stavano faticando moltissimo per tagliarlo.

I movimenti di John erano irruenti, quasi rabbiosi. Il sudore gli colava sul petto nudo, luccicando al sole del tardo pomeriggio. La sua carnagione era forse un po' troppo chiara, ma era fatto bene, non troppo muscoloso ma nemmeno troppo magro.

"Vuoi tenere la lama dritta, dannazione?" le gridò lui all'improvviso. "Non combiniamo niente così!"

"Sei tu che pieghi la lama!" rispose Meredith. "E non mi urlare!" Lui imprecò a bassa voce.

"Guarda che stasera mangerò al vostro tavolo." gli disse Meredith, sforzandosi di parlare con calma. "Dovrai guardarmi per forza."

John alzò gli occhi, ancora offuscati dal risentimento. "Dai, ti ho chiesto scusa." proseguì Meredith. "Per quanto ancora vuoi fare l'offeso? Non possiamo solo... andare avanti?"

Lui tornò a guardare il ramo. "Su, ricominciamo." disse. Non era un ordine secco. Sembrava stesse sforzandosi di essere gentile.

Meredith si affrettò ad obbedire. "E tieni il polso dritto." l'ammonì. Lei alzò gli occhi al cielo.

Quel ramo si rivelò essere davvero un osso duro. Ci stavano mettendo tutta la loro forza, ma proprio non riuscivano a tagliarlo. Dopo un po' Meredith si rese conto che aveva appoggiato la mano sinistra su quella di lui. Era incredibilmente calda. La pelle era leggermente umida di sudore, e ruvida, come se fosse abituato al lavoro manuale. Si chiese se doveva spostare la mano. A John sembrava non dare fastidio, forse non se n'era neanche accorto. Alla fine decise di lasciarla.

Improvvisamente il ramo si spaccò in due, e Meredith si affrettò a togliera la mano da quella di John prima che lui se ne accorgesse. Entusiasta, afferrò una delle due metà e la gettò tra la legna tagliata. "Quello era troppo lungo." disse John.

Lei lo guardò per qualche secondo. "Sì, ma di poco." disse infine. John sorrise.

Felice di quella breccia, Meredith gli restituì il sorriso.

"Ti secca che stasera mangi con i tuoi amici?" chiese mentre trasportava un altro ramo.

"No." rispose John.

"Prima sembravi infastidito."

"Ero ancora incazzato per ieri sera."

"E adesso non lo sei più?"

"Insomma!" sbuffò lui spazientito. "Ti preferivo quando non mi rivolgevi la parola. Mi sembri la Grey."

Meredith fu sul punto di confessargli che era per colpa della dottoressa Grey se la sera precedente era così sconvolta, ma poi si morse la lingua. Avrebbe fatto troppe domande su cose che lei non aveva voglia di raccontare.

"Chi ti ha invitato? Bobby?" chiese lui.

"Jubilee."

"Lo sapevo. Tenesse la bocca chiusa, una buona volta..."

"E' la mia nuova compagna di stanza." disse Meredith, sulla difensiva.

"Buon per te." disse John, sarcastico.

In quel momento arrivò Logan a dirgli che per quel giorno avevano finito. Meredith sistemò gli attrezzi e John si rimise la maglietta, annodandosi la felpa attorno alla vita.

Come al solito, si misero a fumare dietro il capanno degli attrezzi. Meredith si frugò in tasca in cerca dell'accendino, ma non lo trovò. Senza dire una parola, John le offrì la fiamma che teneva nel palmo della mano.

"Grazie." disse Meredith.

John annuì lievemente. "Non c'è di che."

Fumarono in silenzio, come sempre, ognuno perso nei propri pensieri.

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Ed ecco sistemato anche questo capitolo.

E' vero, John e Meredith non stanno facendo grandi passi avanti per il momento, ma abbiate fede... Nel frattempo, se vi andasse di recensire...

Nota: Sono quasi sicura che "La cosa" sia un film di John Carpenter. Se non fosse così, fatemelo sapere e mi affretterò a correggere.

A presto con il quinto capitolo!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


ItF5 Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Ho fatto una ricerca su Wikipedia. Il vero nome di Wolverine, alias Logan, è James Howlett. Lo scrivo perchè, dato che lo uso in questo capitolo, non volevo creare confusione.

Comunque basta chiacchere. Enjoy!
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Settembre finì, così come ottobre. Era ormai metà novembre, la settimana del Giorno del Ringraziamento, e molti studenti erano tornati dalle loro famiglie per la breve vacanza.
Meredith e Marie stavano studiando in biblioteca. Qualche tavolo più in là, Bobby si esercitava con le equazioni di secondo grado, e John sbadigliava sui compiti di scienze.

L’ultimo mese e mezzo Meredith l’aveva trascorso con il loro gruppo. Era bello avere qualcuno con cui fare i compiti, dividere il tavolo a cena, scambiare un’ultima battuta prima di andare a dormire. Non le era più successo da... beh, da un sacco di anni.

Meredith alzò gli occhi dal libro di letteratura e guardò fuori dalla finestra. Pioggia e vento sferzavano con rabbia i vetri, e di tanto in tanto un tuono li faceva sobbalzare sulla sedia. Il suo sguardo si posò sui suoi compagni. Bobby stava mordicchiando una matita e, probabilmente soprappensiero, l’aveva congelata quasi fino alla punta.

I pomeriggi li trascorrevano quasi sempre così, a studiare in biblioteca o ad allenarsi in palestra. Quando il tempo era ancora accettabile, prima di cena lei e Marie facevano jogging nel parco della villa. La sera di solito cazzeggiavano finché era ora di andare a dormire, oppure noleggiavano un film. In un paio di occasioni erano andati al cinema, giù in città. Avevano gusti diversi, ma erano riusciti a stabilire una buona alternanza tra commedie disimpegnate, film d’autore ed emerite cazzate. Marie preferiva i film d’amore, Jubilee (appoggiata da Meredith) gli horror e i ragazzi gli ammazzamenti alla Rambo.

Da quando era iniziato il brutto tempo il professor Xavier aveva deciso per una sospensione della pena, per cui lei e John non si trovavano più in giardino a scontare la loro condanna sulla legna da ardere. I loro rapporti erano molto diminuiti. Si vedevano ogni santo giorno, ma John stava sempre sulla difensiva. E non solo con lei, con tutti, Bobby a parte. Stava con loro, mangiava al loro stesso tavolo, guardavano la tv seduti fianco a fianco, ma mai che si lasciasse andare davvero. Ogni tanto lasciava cadere una battutina sarcastica, e finiva lì. Ormai non ci faceva neanche più caso.

Meredith guardò l’orologio. “Sono le cinque, ragazzi.” disse raccogliendo le sue cose. “La dottoressa Grey mi aspetta per il mio allenamento di telepatia.”

Marie alzò gli occhi dal libro e si stiracchiò. “Ok. Ci si vede dopo in sala comune.” le disse.

“A dopo, Meredith.” la salutò Bobby. John si limitò ad alzare una mano.

Meredith si diresse verso l’ala della scuola dove si trovavano le aule. Aveva ancora i suoi problemi con la telepatia. C’erano giorni in cui le sembrava di aver fatto passi da gigante, altre in cui non riusciva a captare neanche una sillaba. La dottoressa Grey diceva che era colpa della pubertà, ma lei sospettava ci fosse dell’altro.

Arrivò all’aula insonorizzata in cui si tenevano le esercitazioni di telepatia. Jean Grey era già lì, e guardava assorta fuori dalla finestra.

“Mi scusi per il ritardo, dottoressa.” disse Meredith entrando.

Lei si voltò e le sorrise. “Niente affatto, sei puntualissima. Come ti senti oggi, Meredith?”

“Bene.” rispose posando la sua borsa.

“Mi fa piacere. Iniziamo subito, se sei d’accordo.” Meredith annuì. "Direi di cominciare dai cartoncini.” propose la Grey prendendo una scatola da una degli scaffali.

Meredith si sedette al tavolo che occupava il centro della stanza e la Grey prese posto di fronte a lei. Mischiò i cartoncini, posò la pila alla sua destra e poi prese quello in cima, mostrandone il dorso a Meredith. “Quando vuoi.” disse.

Meredith la guardò dritta negli occhi. “Quadrato.” disse infine.

La dottoressa girò il cartoncino.

Cerchio.

“Non fa niente.” la confortò. “Proviamo ancora.” Estrasse un altro cartoncino dal mucchio.

Meredith lo fissò come se volesse bucarlo con lo sguardo, poi guardò la Grey. “Fiore.”

Rombo.

Meredith sospirò, frustrata. “Non perdere la pazienza.” l’ammonì la dottoressa. Prese un altro cartoncino.

Questa volta Meredith si concentrò a lungo prima di parlare. “Casa.”

Triangolo.

Meredith scosse la testa. Oggi decisamente non era la sua giornata. Cominciava seriamente ad odiarla, la sua telepatia ad intermittenza.

“Rimani concentrata, Meredith.” disse la Grey prendendo il quarto cartoncino.

Meredith fissò intensamente il dorso della carta. Fa che sia un rombo. pensò. Fa che sia un rombo. Fa che sia un rombo. Fa che sia un rombo. Fa che sia un rombo. Oh ti prego, fa che sia un rombo...

La dottoressa Grey girò di scatto la testa di lato, come su qualcosa l’avesse colpita. Guardò Meredith stupefatta.

“Stavi pensando ad un rombo?” le chiese.

Meredith non riusciva a capire cosa stesse succedendo. “Beh, io... cioè sì, ma...” balbettò.

La dottoressa guardò il cartoncino che aveva in mano, poi Meredith. Lentamente posò la carta sul tavolo. C’era disegnato un quadrato verde.

“Quando tu guardavi la carta, io ho visto un rombo, Meredith, e non un quadrato.” le spiegò a bassa voce.

“Beh, io ho desiderato che fosse un rombo.” disse Meredith “Forse mi ha letto nel pensiero.”

La dottoressa Grey scosse la testa. “No, io ho visto un rombo, non ho sentito te pensare ad un rombo...” Si alzò. “Rimane solo da capire se il tuo potere è quello di manipolare la materia, o la mente...” disse, rivolta più a se stessa che a Meredith.

Meredith si sentì mozzare il fiato. “Come scusi?” farfugliò.

La dottoressa Grey si risedette. “Cerca di farmi vedere qualcosa, Meredith, o di convincermi di qualcosa, come preferisci.”

Meredith non riusciva a pensare a nulla. Farle vedere qualcosa... e come avrebbe dovuto farlo? Ok, il segreto è visualizzare, no? Doveva pensare a qualcosa di conosciuto, qualcosa che fosse facile per lei da ricordare... La sua camera...

Guardò Jean Grey dritta negli occhi. Noi non siamo qui. pensò. Non siamo nell’aula di telepatia, no, siamo nella mia stanza, nella stanza di Meredith St.Clair e Jubilation Lee, su al secondo piano del dormitorio femminile...

Meredith visualizzò la porta che si apriva, il letto di Jubilee a sinistra, il suo a destra. Vide i poster sull’armadio, i libri e le penne sparse sulla scrivania, la coperta blu sul suo letto e il peluche di Snoopy seduto composto sul letto di Jubilee, sopra le lenzuola arancione...

Jean Grey sorrise. “Mi piace come avete decorato la stanza, anche se io non riuscirei a vivere in tutto quel disordine. Quel pupazzo di Snoopy è davvero adorabile.”

“E’ di Jubilee.” disse Meredith, ancora frastornata da quello che stava accadendo. E se la dottoressa avesse ragione? E se fosse stata davvero capace di manipolare la mente?

“Non è possibile che lei mi abbia letto nel pensiero?” domandò non volendo farsi illusioni troppo presto. “E l’abbia... immaginato?”

La Grey ci pensò su. “E’ improbabile. Ma naturalmente dobbiamo esserne totalmente sicuri.” Si alzò. “Aspetta qui, io torno subito.” Uscì a passo svelto dalla stanza.

Meredith rimase sola, con un turbinio di pensieri che le si agitavano nel cervello. Forse era per questo che non riusciva a leggere nei pensieri delle persone. Forse la sua telepatia funzionava solo in uscita, e non in entrata...
Si sentiva euforica, ma anche un po’ spaventata. Manipolare la mente... le sembrava una cosa un po’ fuori dalla portata di una sedicenne. E quel verbo la inquietava un po’. Di solito, “manipolare” non significava nulla di buono.

La porta si aprì e la dottoressa Grey rientrò seguita da Logan. “Il professor Howlett ha gentilmente accettato di aiutarci.”

Logan le sorrise debolmente. Era palese che non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo lì.

“Come sai, il professore non ha alcuna capacità telepatica.” proseguì la Grey. “Mostra anche a lui ciò che hai mostrato a me, Meredith.”

Meredith si alzò in piedi e guardò Logan. Di nuovo vide la porta della camera aprirsi, i letti ed il peluche di Snoopy...

“Basta così, Meredith.” La voce della dottoressa Grey sembrava arrivare da un chilometro di distanza.

Meredith sbattè un paio di volte le palpebre e la stanza sparì dalla sua vista. Logan si passava le mani sugli occhi, confuso.

“Dio mio...” disse “Per un attimo mi è sembrato di essere in una stanza da letto, invece che qua...”

Meredith guardò Jean Grey, trionfante. Ma allora era tutto vero...

“Mi domando se tu riesca a manipolare anche la volontà, oltre che le percezioni...” disse la dottoressa, meditabonda. “Meredith, prova a comandare al professor Howlett di fare qualcosa .”

“Ehi Jean, aspetta un momento...” protestò lui.

“Ti prego, Logan, è molto importante. Libera la mente adesso.” Lui sembrò rassegnarsi. “Quando vuoi, Meredith.” disse la dottoressa.

Meredith fissò Logan negli occhi. Era difficile non farsi intimidire...

Esci dalla stanza, pensò. Vai, girati ed esci. Cammina fino alla porta ed esci! Esci, fallo subito, ora!

Gli occhi di Logan sembravano fuori fuoco. Lentamente, si voltò su se stesso, e fece un passo verso la porta. E poi un altro. E un altro ancora. I suoi movimenti erano lenti, i passi strascicati. Mise la mano sulla maniglia... Ad un tratto si raddrizzò e lasciò cadere la mano che aveva sollevato.

“Che diavolo...” disse con il suo pesante accento canadese. “Questa me la paghi, Jean...”

La dottoressa Grey la guardò con approvazione.“E’ incredibile, Meredith. Un primo tentativo eccellente. Avevi chiesto al professore di uscire dalla stanza, vero?” Lei annuì. “C’eri quasi riuscita. Credo che la concentrazione che ti è necessaria per manipolare le persone dipenda dal grado di remissività del soggetto... Naturalmente il professor Howlett si aspettava il tuo attacco.”

Meredith guardò Logan, che stava ancora massaggiandosi le tempie. “Mi scusi, professore.” disse con un debole sorriso.

Lui alzò una mano. “Non fa niente, Meredith.” disse, ma era abbastanza chiaro che l’esperienza l’aveva fiaccato.

“Parlerò con il professor Xavier al più presto.” continuò la dottoressa Grey. “Nel frattempo, credo che dovremo continuare i tuoi allenamenti di telepatia.”

“Forse è questa la mia abilità.” obiettò Meredith. “Forse sono in grado di far vedere delle cose alle persone, e non di leggere la mente.”

“No, non credo che sia così.” disse la dottoressa Grey. “Credo che tu sia in grado di fare entrambe le cose.” Guardò l’orologio. “Ma adesso è tardi e tu hai bisogno di riposarti un po’. Riprenderemo questo discorso domani.”

Meredith prese la sua borsa, salutò i professori e si diresse alla sala comune. Non vedeva l’ora di dirlo agli altri. Creare visioni, manipolare la volontà... finalmente non si sentiva più un’incapace.

Improvvisamente ricordò l’espressione di Logan quando aveva preso il controllo della sua mente, e il suo entusiasmo si raffreddò. Ripensò ai suoi occhi vitrei, a quei movimenti lentissimi, fiacchi... Lo rivedeva muoversi verso la porta come uno zombie...

Arrivò alla sala comune e vide i suoi amici raggruppati davanti alla tv con un’espressione preoccupata.

“Ehi, che succede?” chiese avvicinandosi a Bobby.

“Un altro di quegli affascinanti signori della Lega Contro i Mutanti sta tenendo uno dei suoi comizi.” rispose lui.

In televisione, un uomo in doppiopetto grigio si agitava su di un podio. Una folla di gente applaudiva e lo incitava.

“Credevo che avessero smesso con questa roba.” disse Jubilee.

John rise. “Benvenuta nel mondo reale, Biancaneve.”

Meredith continuò a fissare la televisione. L’uomo in doppiopetto si agitava sempre più, e dalla folla si alzò un coro: “No-ai-mutanti! No-ai-mutanti! No-ai-mutanti...”

“Non dovrebbero permettergli di fare così.” disse con rabbia. “Non è giusto.”

John la guardò sorpreso. Bobby alzò le spalle tristemente. “Questo è un paese libero. Possono dire ciò che vogliono.”

“Sì, ma questa è discriminazione!” proseguì testardamente Meredith. “Non c’è scritto da qualche parte nella Costituzione: “Tutti gli uomini sono creati uguali.”?”

“Finché parlano e basta” disse Bobby “la Costituzione garantisce loro la libertà di pensiero.”

“Loro hanno la libertà di pensiero.” intervenne John. “E noi quali diritti abbiamo? Solo di crepare?”

Jubilee sussultò. Marie esclamò: “John!”

“Guarda che qui nessuno sta parlando di uccidere!” rispose Bobby.

“Ma dai amico, leggi tra le righe! Cosa aspettiamo, che imbraccino il fucile?” chiese John.

“Va bene, adesso basta così.” disse Jubilee. “Parliamo di qualcos’altro ragazzi, d’accordo?” Si voltò verso Meredith. “Come è andato l’allenamento, Meredith?”

“Direi bene.” rispose lei. “Ho scoperto che so manipolare la mente delle persone.”

“Sul serio?” chiese Marie.

“Meredith, ma è una figata pazzesca!” esclamò Jubilee.

“Sul serio?” ripeté Bobby.

Meredith rise. “Sì. La Grey mi ha fatto esercitare su Logan... Gli ho fatto credere di essere in camera nostra su di sopra, invece che nell’aula di telepatia...”

“Wow, esperimenti su cavie umane...” disse Bobby.

“Riesco anche ad obbligare la gente a fare delle cose.” continuò Meredith, stavolta con meno entusiasmo.

“Dimmi che hai obbligato Logan a dare testate contro il muro e diventi il mio idolo personale.” disse John.

“Questa avrei proprio voluto vederla...” rise Bobby, che sembrava divertirsi un mondo.

“Ci fai vedere?”, chiese Marie.

“Su John, magari.”, suggerì Jubilee.

“Non ci provare.” l’avvisò lui. “Obbliga quel primino laggiù a calarsi i pantaloni.” disse indicando un ragazzino occhialuto in fondo alla stanza.

“Ragazzi, no!” disse seccamente Bobby.

“Va bene, va bene, stavo solo scherzando.” si giustificò John alzandosi. “Sto morendo di fame. Quand’è che arriva l’ora di cena?”

“Credo che potremmo anche cominciare ad andare in sala mensa.” disse Jubilee guardando l’orologio. “Ehm, Meredith? Per quanto io lasci la camera in disordine, tu non mi obbligheresti mai a togliermi i pantaloni in sala comune, vero?”

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Un altro capitolo con poco John, me ne rendo conto. Ma abbiate fede nell'autrice, che per la prima volta nella sua "carriera" di fanwriter ha ben chiara la destinazione che i nostri beneamati personaggi raggiungeranno.

A presto con il capitolo 6!

P.S: Un grazie di cuore a Star_Dust_Daga che ha recensito! Grazie davvero stavo per perdere le speranze! Spero proprio che questo nuovo capitolo ti sia piaciuto.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


ItF6 Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

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Passarono i giorni e le settimane, ma per quanto si esercitasse Meredith aveva ancora problemi con la telepatia. Di contro, riusciva a controllare i suoi nuovi poteri con sorprendente abilità. La dottoressa Grey le aveva spiegato che non tutte le capacità sono presenti in un mutante fin dalla nascita: può accadere che uno abbia delle “abilità latenti” che rimangono sopite fino allo sviluppo.
Meredith era contenta che fosse stato così per lei. Se avesse avuto la capacità di manipolare la mente delle persone quando era troppo piccola per controllarsi, avrebbe rischiato seriamente di far male a qualcuno.

Il giorno successivo la scoperta delle sue nuove capacità il professor Xavier l’aveva chiamata nel suo studio. Si era congratulato per i suoi progressi, ma l’aveva anche messa in guardia riguardo ai pericoli che i suoi nuovi poteri comportavano.

“Essere in grado di piegare le persone alla propria volontà comporta un grande peso morale, Meredith. C’è una linea sottilissima che separa la necessità dall’abuso, e tu dovrai sempre sforzarti di distinguerla.”

Meredith era assolutamente d’accordo con il professore. Non aveva voglia di andare in giro a trasformare in zombi le persone intorno a lei.

Mancavano due settimane a Natale, e gli studenti percorrevano vocianti i corridoi, felici delle vacanze che si avvicinavano. Dopo la lezione di geometria, Meredith e Jubilee raggiunsero gli altri in sala comune, già gremita di ragazzi che chiacchieravano buttati qui e là sulle poltrone o commentavano i video di Mtv che scorrevano sul video del televisore.
Bobby e Marie sedevano accanto al caminetto, intenti a ripassare per l’interrogazione di storia.
Meredith guardò il fuoco che scoppiettava nel camino. “Ehi, lo riconosco quel ramo!” disse, ma gli altri non sembrarono afferrare.

“Come è andata la lezione di Summers?” chiese Marie.

“Al solito.” rispose Meredith sedendosi di fronte a loro. “Siete pronti per l’interrogazione?”

“Insomma...” disse Bobby con una smorfia.

“Ma finiscila, piagnone, dici sempre così e poi prendi il massimo dei voti.” l’apostrofò Jubilee.

“Ehi, che ci posso fare se sono un perfezionista?” si giustificò lui.

John arrivò e si lasciò cadere su una sedia. “Dio, che giornata di merda...” mugugnò.

Bobby gli diede una pacca sul ginocchio. “Che c’è? Logan ti ha massacrato alla lezione di combattimento corpo a corpo?”

“Quell’energumeno canadese ci ha spaccato la schiena a flessioni. Brutto bastardo...” John guardò la legna che bruciava nel camino e fece una smorfia. Meredith sorrise.

“Uh, quanto sei delicatino...” lo provocò Jubilee.

“Vaffanculo, ok?” rispose piccato lui, punto sul vivo.

“Vaffanculo?” ripeté Jubilee.

“Sì, vaffanculo.”

“Va bene, adesso basta.” intervenne Marie. “Finitela, sembra di essere all’asilo.”

“Ha cominciato lei.” protestò John.

“Che dite, andiamo a fare un paio di vasche alla piscina coperta?” propose Jubilee. “Non ho voglia di studiare.”

“Mi piacerebbe.” disse Marie. “Ma tra mezz’ora io e Meredith abbiamo la nostra lezione di teatro.”

“Perdete ancora tempo con quelle cavolate?” chiese John, sarcastico.

“Forse saranno cavolate per te, Shakespere.” rispose Meredith “Ma a noi poveri comuni mortali non dispiacciono.”

Lui liquidò la disputa con un gesto della mano. “Come ti pare.” disse indolentemente.

In quel momento entrò la signora Manh, la segretaria della scuola. “Meredith St.Clair?” chiamò.

Meredith si alzò. “Sono io.”

“C’è una telefonata per te in segreteria.”

“Per me?” si stupì Meredith. “Ma ne è sicura?”

“Assolutamente.” rispose la signora Manh.

Meredith guardò i suoi amici e fece spallucce. “Ci si vede tra un po’, ragazzi.”

****

Dieci minuti dopo, Meredith tornò dalla segreteria alla sala comune. Un passo, poi un altro passo, poi un altro. Non c’era nessuna voce intorno a lei, nessun suono, nessun viso. Un altro passo, e poi un altro. Il mondo era sparito, inghiottito nel profondo dell’universo, ma lei continuava a camminare, anche se il suo corpo si era dissolto nel nulla e lei non lo sentiva più, non sentiva più niente.

Doveva essere rimasto qualcosa del suo viso, tuttavia, perché quando lo spettro di Meredith St.Clair apparve sulla porta della sala comune i suoi amici smisero improvvisamente di sorridere e la guardarono stupefatti.

“Meredith...” bisbigliò Marie.

Sentì una voce dire: “Mia sorella si è uccisa.”

Solo quando Jubilee si coprì la bocca con le mani, scioccata, e Bobby si alzò per abbracciarla Meredith si accorse che quella voce era la sua.

****

Meredith scese nell’atrio con la valigia in mano. In fondo alle scale, la professoressa Munroe l’aspettava con uno sguardo insieme triste e preoccupato.

“Il professor Howlett è andato a prendere la macchina.” disse quando Meredith la raggiunse. “Ti accompagnerà lui all’aeroporto. Questi sono i tuoi biglietti.” Glieli porse. “E questo è l’indirizzo del tuo albergo. Il soggiorno è già stato pagato, perciò non preoccuparti di niente. Qui ti ho scritto anche qualche numero utile, nel caso avessi bisogno di qualcosa.”

Meredith prese le carte che la professoressa le porgeva. “Grazie.” disse.

Un paio di ragazzine attraversarono l’atrio, dirette in mensa per la colazione. Guardarono la sua valigia, poi Meredith, e si allontanarono parlottando. Vista la sua reputazione, probabilmente pensavano che la stessero buttando fuori.

Anche Meredith guardò la sua valigia. Non era sua. Gliel’aveva prestata Jubilee. La sua valigia era troppo grande, e lei sarebbe stata via solo qualche giorno.

“Meredith,” iniziò la Munroe. “davvero non vuoi che qualcuno...”

Sapeva cosa stava per chiederle, perché si era sentita ripetere quella domanda un centinaio di volte nelle ultime quattordici ore, da almeno venti persone diverse.

“No.” tagliò corto Meredith. “Va bene così.”

La professoressa Munroe non sembrò contenta della sua risposta, ma non insisté oltre. In quel momento arrivarono Bobby, Jubilee e Marie.

“Tieni duro, compagna di stanza.” disse Jubilee mentre l’abbracciava.

“Sei sicura di volerci andare da sola?” la chiese Marie, posando una delle sue mani inguantate sulla spalla di Meredith.

“Sì. Andrà tutto bene.” Aveva ripetuto quella frase talmente tante volte che ormai le parole le uscivano in automatico.

La porta di ingresso si aprì ed entrò Logan, il naso e le mani rosse per il freddo.

“La macchina è qui fuori.” disse guardando Meredith. “Se sei pronta...”

Lei annuì. “Certo.”

Logan prese la valigia e Meredith salutò un’ultima volta i suoi amici. La professoressa Munroe l’accompagnò fuori.

Tutto era coperto da uno spesso manto bianco. Gli alberi sembravano spezzarsi sotto il peso, e anche la fontana che sorgeva al centro del cortile era ghiacciata.

Aveva nevicato la notte precedente. La prima nevicata della stagione.

Logan sistemò la valigia nel portabagagli. “Telefona appena arrivi in albergo, tesoro, ok?” le disse la professoressa Munroe, e poi la strinse. A Meredith sembrò che una lacrima solcasse il suo bel viso scuro.

Logan mise l’auto in moto ed imboccarono il lungo viale alberato che dalla villa portava alla strada principale. Erano circa a metà del viale quando a Meredith sembrò di vedere, in lontananza, una fiamma intermittente sprigionarsi da un albero. Man mano che l’auto si avvicinava, però, Meredith si accorse che non era il tronco ad emettere il fuoco. C’era una figura appoggiata all’albero, la figura di un ragazzo in jeans e giubbotto di pelle. Quando l’auto gli passò accanto, John alzò la mano destra in segno di saluto. Meredith fece altrettanto.

Rimase voltata a guardarlo sparire in lontananza finché la sua fiamma non svanì dietro una curva.

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Ebbene sì. Povera Meredith. E povera Evie. Mi sento un po’ in colpa ad assassinare così i miei personaggi... Ma per quanto doloroso, è necessario allo scopo.

Il capitolo è un po’ corto e me ne scuso. Vi posso anticipare fin da ora che il settimo compenserà questa mancanza.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


ItF7

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Ecco il nuovo capitolo. E’ piuttosto triste, quindi tenetevi pronti una bella scatola di Kleneex.

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L’Interstate 87 si snodava sotto di loro come un lungo serpente d’asfalto. Ora che avevano lasciato l’area urbana di New York City il traffico era un po’ diminuito, ma cominciava a fare buio e la strada era scivolosa per via del ghiaccio. Ci avrebbero messo almeno un paio d’ore ad arrivare a North Salem.

Rivedere la neve l’aveva stupita. A Phoenix il sole era caldo e la terra asciutta, e lei si era dimenticata dell’esistenza della neve. Si ricordò vagamente che aveva nevicato la notte prima della sua partenza, e in cinque giorni la neve non si scoglie, non nello stato di New York.

Logan spostò la mano destra dal volante all’autoradio, come se volesse accenderla, ma poi sembrò aver cambiato idea.

“Se vuole accendere la radio, per me non c’è problema.” gli disse Meredith. “Non mi dispiacerebbe un po’di musica.”

Logan posò per un istante gli occhi su di lei. “Davvero?”

“Davvero.” confermò Meredith.

Lui accese la radio, e le note di una canzone pop risuonarono nell’abitacolo. Logan si affrettò a cambiare stazione. Era a disagio. Quando l’aveva vista apparire dal terminal degli arrivi nazionali le era andato incontro e l’aveva abbracciata goffamente. Le aveva chiesto se aveva fame e quando Meredith aveva risposto di no aveva portato per lei la valigia fino alla macchina.

Dopo vari tentativi, la radio si sintonizzò su una vecchia canzone di Bruce Springsteen.

…Now on the street tonight the lights grow dim
The walls of my room are closing in.
There's a war outside still raging
you say it ain't ours anymore to win…

Evidentemente Logan decise che era la più adatta per l’occasione perché smise di cambiare stazione. Forse pensava che si sarebbe offesa se lui avesse lasciato la radio sintonizzata su una canzone troppo allegra. Dopotutto, la stava riportando a casa dal funerale di sua sorella.

Meredith si infilò la mano nella tasca di jeans e il bordo della foto che teneva ripiegata lì le ferì leggermente le dita.

Evie.

L’aveva rivista nel locale interrato delle pompe funebri, il giorno stesso in cui era arrivata a Phoenix. Hannah non era scesa con lei, non ce la faceva a guardare sua figlia. Non di nuovo.

Logan mise la freccia e sorpassò un grosso tir nero. Le ombre degli alberi sul ciglio dell’autostrada si erano fatte più lunghe. “E’ per via dell’inclinazione con cui la luce colpisce la terra al tramonto, Meredith.” le aveva spiegato suo padre tanto, tanto tempo fa. “Più il sole sparisce dietro l’orizzonte, più le ombre si fanno lunghe.”

Evie era sdraiata su di un lettino di alluminio, solo un lenzuolo a coprire il suo corpo nudo. Era magra, più magra di come se la ricordava, forse per via dei mesi passati in strada. I suoi capelli neri, lunghi e liscissimi, erano pettinati con cura, e quando Meredith si era avvicinata si era accorta che aveva anche un filo di trucco sul viso. Si era chiesta se l’avesse il giorno in cui era morta o se era opera del truccatore delle pompe funebri.

Non l’aveva chiesto. Invece aveva chiesto, con un filo di voce: “Come?”

L’impiegato che era con lei aveva sfogliato nervosamente una cartella. “Ehm... overdose da diazepam. Mi dispiace.”

“Sì.” aveva risposto lei. Era una risposta stupida.

“Se vuole, può rimanere sola con sua sorella.” le aveva offerto l’impiegato.

Improvvisamente Meredith aveva sentito un’ondata di repulsione per quell’ometto che si permetteva di girare intorno ad Evie mentre lei era se ne stava sdraiata nuda.

“Sì.” aveva ripetuto.

L’impiegato aveva detto ancora qualcosa mentre se ne andava, ma Meredith non aveva ascoltato. Evie aveva ancora lo stesso identico viso di quando era piccola, affilato ed innocente, con le labbra sottili e il nasino all’insù e quegli enormi occhi verdi.

Meredith aveva alzato una mano e le aveva accarezzato i capelli. “Evie...” aveva chiamato.

Evie non si era svegliata. Meredith si era ricordata di quando erano piccole, e la domenica mattina fingevano di dormire finché papà e mamma non facevano irruzione nella loro cameretta e cominciavano a far loro il solletico e a riempirle di baci finché le bambine non iniziavano a ridere e a contorcersi, rivelando l’inganno. Forse è per questo che non si sveglia, aveva pensato Meredith. Se papà fosse qui, lui le farebbe il solletico ed Evie comincerebbe a divincolarsi e a ridere come una pazza.

Aveva continuato ad accarezzarle i capelli per molto, molto tempo, finché l’impiegato delle pompe funebri non era tornato a dirle che dovevano chiudere.

I cartelli stradali passavano davanti al suo finestrino come informi macchie di colore. La neve non brillava quasi più alla luce del tramonto. Cominciava a farsi tardi: presto anche gli ultimi raggi di sole si sarebbero spenti, e sarebbe calata la notte.

Logan accese i fari. “C’è un’area di servizio, alla prossima uscita.” le disse. “Se vuoi possiamo fermarci. A scuola ti hanno tenuto in caldo la cena, ma se hai fame subito, o hai bisogno di usare il bagno...” Alla parola “bagno” arrossì.

“Sono a posto, grazie.” rispose Meredith.

“Sicura?”

“Sì, sicura.”

Il giorno del funerale era assolato e ventoso. Un vento caldo che soffiava dal deserto e che portava con sé minuscole particelle di sabbia.

Erano arrivati alla spicciolata, composti e vestiti di nero. Parenti, amici, compagni di scuola, persino qualche vicino. Alcuni avevano riconosciuto Meredith e l’avevano salutata, sorpresi e imbarazzati. Evidentemente si erano dimenticati di lei finché non l’avevano rivista ricomparire, e ora si sentivano in colpa per non essersi aspettati la sua presenza al funerale. In fondo, non era lei Meredith, quella di cui Evie parlava sempre, la sorella lontana e mai dimenticata?

Si era seduta accanto ad Hannah. Non perché lo desiderasse, ma perché era l’unico posto rimasto libero. La gente lo aveva lasciato a lei di proposito: se Meredith era lì, quel posto era suo di diritto. Non che non volesse sedersi accanto ad Hannah. Non provava alcun risentimento per lei, e se ne aveva provato in passato ora non se lo ricordava più. Ma erano due estranee, due persone che per un caso fortuito si ritrovavano a piangere la stessa bara. Hannah seppelliva sua figlia; Meredith sua sorella. Ognuna aveva il proprio dolore.

Il prete parlava e parlava. Qualcuno dei presenti piangeva, altri sembravano fissare un punto lontano, trincerati dietro gli occhiali da sole. Meredith se li era dimenticati e ora li rimpiangeva. Si sentiva esposta, vulnerabile. Pregò che per una volta la sua telepatia rimanesse silente. Non le andava di sentire cosa pensassero quelle persone di sua sorella.

Ad un certo punto si era voltata e circa una decina di metri più indietro aveva visto, seminascosto dalla statua di un angelo, un ragazzo bruno e pallido. I suoi vestiti neri erano malmessi e troppo larghi per lui, e le sue mani sottili stringevano con forza le ali dell’angelo, come se cercasse conforto dai singhiozzi che scuotevano il suo corpo magro. Sembrava devastato.

Il prete aveva parlato ancora a lungo e lei non aveva sentito una sola parola. Si chiese se Evie si sarebbe sentita offesa dal fatto che sua sorella si era distratta al suo funerale. No, non credeva si sarebbe offesa. Guardò la bara di legno scuro, e immaginò il suo minuscolo corpo in quel mare di seta bianca che foderava l’interno.

L’avevano vestita di nero, il suo colore preferito. Indossava una gonna e una maglietta a maniche lunghe, calze a rete e anfibi. Meredith aveva insistito perché la truccassero con l’eyeliner nero e il rossetto viola, e le mettessero tutti i suoi bracciali e i suoi anelli. Lo smalto nero che colorava le unghie di Evie era sbeccato, e Hannah glielo aveva rimesso.

Evie era esattamente come nella foto che lei e Meredith avevano scattato a Times Square quando Evie era venuta a trovarla a New York, un anno prima, l’ultima volta che aveva visto sua sorella viva. Meredith infilò di nuovo la mano in tasca.

Un anno.

Era bastato un anno per trasformare la ragazzina sorridente della foto nel corpo che ora stava chiuso in quella bara.

Hannah le aveva messo tra le mani il suo peluche preferito di quando era piccola e Meredith aveva deposto la videocassetta di “The Nightmare Before Christmas” ai suoi piedi, e perfino allora, mentre componevano il corpo di Evie nella bara, perfino allora Meredith e Hannah erano lontane anni luce l’una dall’altra, pietose del loro reciproco dolore ma incommensurabilmente distanti.

Il prete aveva detto qualcosa a proposito del perdono per tutti i peccatori, e lo sguardo di Meredith era passato dalla bara alla fossa lì accanto, e poi alla piccola lapide di marmo grigio a circa mezzo metro di distanza.
Quella lapide portava il nome di John Barrymore, suo padre. Meredith aveva pensato che metà della sua famiglia era sepolta in quel pezzo di terra, e l’altra metà stava per raggiungerla.

Il prete aveva benedetto la bara e tutti si erano alzati in piedi. Gli operai del cimitero, apparsi da chissà dove, avevano preso la bara e avevano cominciato a calarla nella fossa.

Meredith si era sentita mancare l’aria. Più gli operai lavoravano, più le sembrava di non riuscire a respirare. Sentiva il bisogno di strapparsi via la camicia, di gettarsi per terra e di urlare a pieni polmoni.

“No, no, che fate?” voleva gridare. “Lei è viva, è viva, fatele il solletico e vedrete se non si metterà a ridere... Lasciatela uscire, non riesce a respirare chiusa lì dentro, lasciatela uscire, lei è viva, viva vi dico...”

Ma la sua parte razionale, quella che sapeva che Evie era morta, l’aveva costretta a rimanere immobile e in silenzio, perché lì in quella bara non c’era sua sorella, ma solo il guscio, l’involucro mortale di quella che un tempo era stata Evelyne Barrymore Dovunque fosse ora, Evie non poteva sentire più niente.

Quando la sepoltura era finita la gente si era messa in fila per fare le condoglianze ai parenti. Meredith si era fatta largo tra la folla ed era andata dal ragazzo dell’angelo.

Si chiamava Daniel. Davanti ad un cheseburger e ad un bicchiere di Coca-Cola comprati da Burger King le aveva raccontato degli ultimi mesi di Evie.

Ormai fuori era tutto buio, e Meredith non riusciva più a distinguere nulla al di là della luce proiettata dai fari. C’erano solo poche altre auto in giro, e a parte il ghiaccio viaggiavano senza intoppi. Una Mustang grigia li sorpassò e sparì inghiottita dalla notte. Meredith si chiese chi trasportasse. Immaginò due bambine, una con la carnagione ambrata e gli occhi grigi, l’altra pallida e bruna, che giocavano e ridevano sul sedile posteriore.

Daniel e Evie si erano conosciuti in un alloggio per senzatetto, tutte e due in fuga dalle famiglie che non li capivano, da chi li giudicava dei diversi, dalla gente che li guardava con compassione se andava bene e con disgusto se erano sfortunati. Erano rimasti insieme, due cani bastonati che si facevano compagnia. Tiravano avanti chiedendo l’elemosina e rubando nei supermercati.

Ma Evie continuava a scappare, a scappare. Daniel sapeva che questo non andava bene, perché se scappi senza fermarti mai prima o poi ti cederà il cuore. Aveva cercato con tutto se stesso di proteggere Evie dal male, da tutto ciò che potesse ferirla.

Ma lei non smetteva di scappare, perché non poteva smettere, proprio non poteva, capisci? Evie scappava da se stessa, e per quanto scappasse non riusciva mai a lasciarsi indietro.

E alla fine il suo cuore era scoppiato.

L’avevano trovata riversa su di una panchina, o così gli avevano detto. Lui non era lì. Forse vergognandosi, o forse come ultimo gesto d’amore per il ragazzo che amava, Evie era andata a scrivere il suo ultimo atto dove lui non avrebbe potuto vederla. Era stata la polizia a trovarla, con il flacone di pillole vuoto in una mano e il suo biglietto d’addio scribacchiato su di un tovagliolo nell’altra. Solo quattro parole: “La guerra è finita.”

Ci avevano messo tre settimane ad identificarla. Di adolescenti ne spariscono a migliaia e una mutante suicida non è certo una priorità nazionale. Per tre settimane Evie era rimasta in una cella frigorifera all’obitorio della contea prima che la polizia riuscisse a risalire a sua madre, Hannah Barrymore.

A Meredith sembrava di impazzire se pensava a sua sorella chiusa lì dentro da sola e al freddo per tre fottutissime settimane. Evie, che era così fragile, così dolce, così pura, Evie che era capace di illuminare una stanza con il suo sorriso, come avevano potuto fare una cosa simile a lei, a lei che era così innocente, così ingenua, totalmente incapace di fare del male a qualcuno, come avevano potuto farle una cosa del genere, come...

Era stato solo quando era tornata in albergo che a Meredith era venuto in mente che Evie doveva essere stata sottoposta all’autopsia.

Qualcuno aveva dissacrato il suo corpo, le aveva tagliato via i vestiti e quando giaceva nuda sul tavolo d’acciaio le aveva aperto l’addome dallo sterno all’inguine, squartandola come un animale al macello.

Era corsa in bagno e aveva vomitato anche l’anima.

Logan imboccò l’uscita dell’Interstate e si immise sulla strada provinciale. Meredith lesse il cartello che indicava l’inizio della contea di Westchester. Tra trenta minuti, quaranta al massimo, sarebbero arrivati alla scuola.

Aveva passato al setaccio ogni parola, ogni frase, ogni istante che aveva trascorso con Evie, alla ricerca di un indizio, di un segnale qualsiasi che avrebbe potuto annunciare la sua fine. Avrebbe potuto impedire la morte di sua sorella, prevedere il suo suicidio, se solo avesse prestato un po’ più d’attenzione?

Ci aveva pensato e ripensato, esaminando e riesaminando lettere, conversazioni telefoniche e i giorni e le ore che loro due avevano passato insieme, sia prima del suo allontanamento da Phoenix che dopo. Cercava un gesto, un’intonazione della voce, uno sguardo che preannunciasse il suo darsi volontariamente alla morte.

Ma aveva dovuto essere sincera con se stessa. Quante volte aveva pensato ad Evie, da quando aveva conosciuto Jubilee e gli altri? Le aveva telefonato il giorno che era arrivata alla scuola, d’accordo. Ma quando Hannah le aveva detto che era scappata di casa, quanti tentativi concreti aveva fatto per trovarla? Si era limitata a guardare fuori dalla finestra di tanto in tanto, augurandosi che Evie stesse bene. Se si fosse preoccupata veramente per sua sorella, avrebbe mollato tutto e sarebbe volata a Phoenix a cercarla. Questo avrebbe fatto la vecchia Meredith. Invece lei aveva preferito rimanere al sicuro nella bolla di sapone creata dal professor Xavier, mentre al di fuori, nel mondo reale, gli altri mutanti, compresa sua sorella, lottavano per sopravvivere e spesso soccombevano.

E se Evie, disperata, avesse tentato di contattare sua sorella perché l’aiutasse? L’immagine di Evie che con la boccetta di Valium nella tasca del cappotto si sentiva rispondere dai Jackson: “E’ andata via.” le spezzava il cuore. Doveva sapere, così aveva chiamato i Jackson.

Era stata Faye a rispondere.

“Pronto?”

“Sono Meredith St.Clair.”

“Ah.”

“Non ho chiamato per litigare. Voglio solo sapere se qualcuno mi ha cercata.”

“Io... Come?”

“Dopo che me ne sono andata, qualcuno ha telefonato, o scritto, chiedendo di me? In particolare una ragazza, che si è presentata come Evie, o Evelyne, Barrymore?”

“Senti, adesso io devo proprio...”

“Non azzardarti a riattaccare! Allora, mia sorella ha scritto? Telefonato? Sì o no?”

“No... Nessuno ti ha cercata qui da quando sei andata via.”

“Ne sei sicura?”

“Sì.”

Attraversarono il centro abitato di North Salem. La strada principale era un tripudio di luci e di abeti decorati con nastri variopinti. Si fermarono ad un semaforo e Meredith vide un’enorme Babbo Natale che la salutava dalla cima di un lampione.

“Hanno fatto le cose in grande, quest’anno.” disse Logan.

“Davvero?”

“Sì. Gli scorsi anni era un mortorio. A quanto ho sentito, hanno preparato anche una festa con i fuochi d’artificio per Capodanno.”

“Sembra carino.”

“Già.”

Si erano presto lasciati alle spalle le luci e i festoni di North Salem ed erano arrivati nella zona periferica dove sorgeva la villa, chiamata Salem Center. Meredith non aveva mai capito il perché. Se a North Salem c’erano i negozi e i bar, a Salem Center c’era solo una strada, Graymalkin Lane, costeggiata da enormi foreste di abeti secolari e da prati erbosi. Solo ogni tanto il profilo di una casa si stagliava, antico e minaccioso, tra gli alberi.

Mancavano poche centinaia di metri ormai. Alla radio finì una canzone che Meredith non aveva ascoltato, e ne iniziò un’altra.

Come on, come on
Put your hands into the fire
Explain, explain
As I turn and meet the power
This time, this time
Turning white and senses dire
Pull up, pull up
From one extreme to another...

Eccolo, il numero 1407 di Graymalkin Lane. Il cancello si aprì automaticamente appena l’auto gli arrivò a pochi metri di distanza e Logan svoltò nel viale. Indifferente al fatto che ormai erano arrivati e che la radio sarebbe stata spenta prima che la canzone potesse terminare, cominciò il ritornello.

From the summer to the spring
From the mountain to the air
From Samaritan to sin
And it's waiting on the end…

Il fatto che Evie non l’avesse cercata non cambiava proprio nulla, ovviamente, né in un senso, né nell’altro. Era solo un piccolo, minuscolo dettaglio perso nel quadro generale, e il quadro generale era uno solo: Evie se n’era andata, se n’era andata per sempre e ora lei, Meredith Grace St.Clair, era più sola di quanto non fosse mai stata.

Logan fermò la macchina davanti all’entrata e spense la radio, interrompendo a metà la canzone. Meredith scese dall’auto e camminò cauta nella neve. Guardò il profilo scuro e austero della villa, a malapena visibile nella semioscurità. Le luci provenienti dalle sue finestre si riflettevano sul cortile immacolato, e ogni tanto una sagoma passava velocemente davanti ai vetri, creando un gioco di luci e ombre sul manto candido della neve. Meredith mise la mano nella tasca dei jeans per assicurarsi che Evie fosse ancora lì.

Logan tirò fuori la valigia dal portabagagli. “Lasci a me, professore.” disse Meredith. “Non è pesante.”

Lui sorrise. “Scherzi? Sono un gentiluomo, io.” Meredith si sforzò di restituirgli il sorriso.

Erano sugli scalini d’ingresso quando il portone si aprì e apparve Jean Grey, l’ultima persona al mondo che Meredith avrebbe voluto vedere in quel momento. Poco più dietro di lei, Bobby, Jubilee e Marie la salutarono con la mano.

“Bentornata, Meredith.” disse la Grey.

“Grazie dottoressa.” rispose. Poco più in là, seminascosto nell’ombra che le scale gettavano, John la fissava con le mani nelle tasche dei jeans.

“Ti abbiamo tenuto da parte la cena.” continuò la dottoressa.

“Grazie, ma io...” Cercò una scusa attendibile. “ho già mangiato sull’aereo.”

La dottoressa Grey la guardò. “Come preferisci.” disse. “Se più tardi ti venisse fame, il vassoio con la tua cena è in sala mensa. Buonanotte, Meredith. Ragazzi...” Detto questo, si incamminò verso il corridoio che portava agli alloggi dei professori.

“Buonanotte.” li salutò Logan, seguendola.

“Grazie di tutto, professore.” disse Meredith.

Lui le sorrise e le accarezzò i capelli. “Non dirlo neanche, piccolina.” le rispose con tenerezza. Per la prima volta in quella giornata Meredith sentì un’ondata di calore per lui.

Appena Logan si fu voltato, Jubilee le saltò al collo e le diede un bacio sulla guancia.

“Come stai, Meredith?” le chiese stringendola più che poteva.

Fu contenta quando Bobby la liberò dalla stretta di Jubilee e l’abbracciò, evitandole di mentire.

“Ci sei mancata.” le disse. Meredith vide che John era sgusciato via dal suo nascondiglio ed era sparito.

Marie fece per abbracciarla, ma poi si trattenne e si limitò ad accarezzarle i capelli come aveva fatto Logan. “Sei sicura di non voler mangiare?” chiese.

“Sì.” rispose Meredith. “Sono molto stanca, preferisco andare in camera.”

“Vengo con...” esordì Jubilee, ma Marie le strinse il braccio. Portava dei guanti bianchi lunghi fino al gomito.

“D’accordo. Se hai bisogno di noi, saremo in sala comune.” le disse con il suo tono gentile.

Dopo aver rifiutato l’offerta di Bobby di portarle la valigia, Meredith si diresse verso la sua stanza.

Quando arrivò, la trovò stranamente pulita e ordinata. Probabilmente Jubilee aveva pensato di farle piacere sistemando la camera, e sebbene la sua premura nel farle questa piccola cortesia la commuovesse, la rattristò trovare la stanza così diversa. Significava che ciò che una parte di lei ancora si ostinava a rifiutare era successo veramente.

Per non pensare, aprì la valigia sul letto e si mise a svuotarla. Dopo qualche minuto, sentì dei passi in corridoio e qualcuno si fermò davanti alla porta aperta. Probabilmente Jubilee non aveva resistito ed era venuta a vedere come stava.

Invece, quando si voltò, trovò John appoggiato allo stipite. Per un istante si domandò come avesse fatto ad entrare nel dormitorio femminile.

“Vuoi parlare?” le chiese. Prima che avesse il tempo di pronunciare l’ultima sillaba Meredith aveva già risposto alla sua domanda.

“No.”

John guardò in silenzio mentre Meredith continuava a svuotare la valigia.

“Vuoi che ti lasci sola?” chiese dopo un po’.

Meredith si voltò di scatto a guardarlo. “No.” rispose.

C’era un tono di supplica nella sua voce, e se normalmente questo l’avrebbe spaventata ora non le importava affatto. Perché era vero. Non voleva rimanere sola.

Un lampo illuminò per un secondo gli occhi di John. “Non lo farò.” disse.

Si guardarono negli occhi in silenzio. Meredith infilò la mano nella tasca dei jeans.

“Verresti con me in un posto?” gli chiese.

John annuì. “Certo.”

****

Raggiunsero il cortiletto delle cucine non dal corridoio, ma dall’esterno, facendo il giro della casa. Meredith non era più tornata lì a fumare dalla sfortunata sera del vetro rotto, ed era sicura che anche John avesse fatto lo stesso: sarebbe stato stupido tornare in quel posto dopo quello che era successo. Quando arrivarono al cortiletto, trovarono intatta la neve che copriva il pavimento. Nessun altro era stato lì.

Meredith si fermò davanti all’aiuola delle rose. I tronchi sottili sbucavano dal tappeto bianco della neve, nudi e legnosi. Era difficile credere che da lì a qualche mese, quando fosse arrivata la primavera e la neve si fosse sciolta, quelle cose secche e morte si sarebbero ricoperte di foglie verde scuro, e i loro boccioli si sarebbero aperti per svelare petali delicati e candidi come la neve che ora li teneva prigionieri nel suo gelo.

Meredith tirò fuori la fotografia dalla tasca dei jeans e l’aprì, lisciandola con cura. Due ragazze si tenevano abbracciate e sorridevano spensierate alla macchina fotografica, felici di essersi ritrovate dopo tanto tempo. I loro sorrisi sembravano gridare al mondo che sarebbero rimaste unite per sempre. Evie cingeva con un braccio la vita di sua sorella e faceva il segno della vittoria con l’altra mano. I suoi grandi occhi verdi, messi ancora più in risalto dall’eyeliner, guardavano dritti dentro l’obiettivo della fotocamera, e il rossetto viola scuro (Evie l’aveva visto in una profumeria di Manhattan e l’aveva voluto comprare a tutti i costi, spendendo un capitale, e dio quanto l’aveva presa in giro Meredith per questo) non riusciva ad indurire i suoi tratti, così infantili e delicati.

“E’ molto bella.” disse John.

Meredith sorrise. “Sì, lo è davvero.”

Si inginocchiò nella neve e cominciò a scavare ai piedi della rosa più grande e più forte. Il terreno era duro a causa del freddo e le sue dita faticavano a sbriciolarlo. La terra gelata le ferì i polpastrelli e Meredith iniziò a singhiozzare, continuando a graffiare il terreno e a lottare perché esso cedesse e le lasciasse spazio. Senza nemmeno accorgersene cominciò a piangere sempre più violentemente, liberandosi di tutte la lacrime che non era riuscita a piangere da quando aveva saputo che Evie era morta. Forse di tutte le lacrime che non aveva pianto in tutta la sua vita.

John non le mise un braccio intorno alle spalle e non cercò di consolarla. Senza dire una parola si inginocchiò accanto a Meredith e cominciò a scavare insieme a lei. Lottavano con le unghie e con le dita contro un muro compatto di terra ghiacciata e di minuscole pietruzze appuntite, tornando ancora e ancora ad assaltare lo stessa zolla finché essa non cedeva e si sbriciolava, combattendo strenuamente per ogni singolo millimetro di spazio che guadagnavano.

Quando la buca fu abbastanza grande e profonda Meredith diede un ultimo bacio alla foto di Evie e la depositò sul fondo. Sua sorella la guardò, raggiante e piena di luce come era stata ogni singolo giorno della sua vita.

“Addio, Evie.” le disse. “Sarai al sicuro qui.”.

Poi, con grandissima cura a delicatezza, lei e John cominciarono a ricoprirla di terra. Fecero molta attenzione a ridurre i grumi di terriccio in polvere fine, scartando tutti i sassolini e gli agglomerati di argilla che non riuscivano a frantumare, perché la terra non pesasse troppo su Evie.

Quando la buca fu colma, la nascosero con cura sotto uno strato di neve, perché fosse invisibile e irraggiungibile per chiunque dovesse trovarsi, seppure per caso, a passare davanti alla rosa.

Rimasero inginocchiati nella neve finché Meredith non smise completamente di piangere. Pian piano, i suoi singhiozzi diminuirono d’intensità finchè il suo pianto non divenne un rivolo silenzioso che dagli occhi scendeva a bagnarle le guancie e il collo. Lentamente, le lacrime cominciarono a diminuire sempre più, sempre più, finché non smisero di scendere.

Dopo che la sua ultima lacrima le ebbe solcato il viso, Meredith chiuse gli occhi e respirò due volte a pieni polmoni. Poi si asciugò il volto con la manica della maglietta e si alzò lentamente in piedi. Si sentiva totalmente in pace ora. Sotto la rosa, la neve custodiva e proteggeva la buca.

“Torniamo” disse con calma. John annuì.

Percorsero il giardino della villa fianco a fianco. Ormai tutti erano rientrati nelle loro stanze e la casa era immersa nel silenzio. Solo poche, fioche luci si diffondevano ancora dalle finestre e si riflettevano nella neve. Anche il parco sembrava addormentato da un incantesimo. Né il richiamo di un uccello notturno, né i movimenti di un animale, né il mormorio del vento tra le foglie ruppero il silenzio che regnava quella notte.

Meredith iniziò a tremare. I suoi jeans e le sue scarpe erano fradici e non aveva preso niente per ripararsi dal freddo quando era uscita. John si sfilò la felpa e gliela porse.

“Tieni.”

Lei lo guardò. Indossava solo una maglietta a maniche lunghe che non aveva l’aria di essere molto pesante. John intuì la sua indecisione. “Io non ho mai freddo.” le spiegò. “Prendila.”

Meredith si infilò la felpa e il suo calore fu consolatorio per il suo corpo intirizzito dal freddo. Improvvisamente si rese conto di sapere così poco di John, di essersi interessata così poco alla sua vita.

“Il tuo accento.” gli disse. “Non ti ho mai chiesto.”

Lui alzò le spalle. “Sono nato in Australia.” spiegò. “Mio padre era un alcolizzato che picchiava me e mia madre e che non riusciva a tenersi un lavoro. Perciò emigrammo negli Stati Uniti, ma anche qui lui continuò a bere e a picchiarci.” Fece una pausa. “Un giorno picchiò mia madre talmente forte da ucciderla. Lui è finito in carcere, io in orfanotrofio. E questo è tutto. Non c’è altro.”

“Mi dispiace.” disse Meredith.

Lui alzò le spalle. “Non ci pensare.”

Meredith lo guardò negli occhi. “No, davvero mi dispiace.”

John le restituì lo sguardo e annuì lentamente. “Grazie.” disse.

La lasciò ai piedi delle scale del dormitorio femminile. Quando entrò in camera Jubilee alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e il suo sguardo si posò sulle mani di Meredith, sporche di terra e di sangue.

“Meredith... cosa...” balbettò.

“Io e John abbiamo seppellito Evie.” le spiegò. Avrebbe davvero voluto essere più chiara e permettere a Jubilee di capire, ma non esistevano parole più adatte di quelle per descrivere ciò che era successo.

Fu solo dopo essersi fatta la doccia e preparata per andare a dormire che si accorse di non aver restituito a John la sua felpa.

“E quella, Meredith?” chiese Jubilee guardandola sistemare ordinatamente la felpa sulla sedia che stava davanti alla scrivania.

“E’ di John. Domani gliela restituisco.” le aveva risposto.

Molto, molto più tardi, quando da tempo avevano spento la luce e Jubilee dormiva profondamente, Meredith si alzò dal letto, si infilò la felpa e si addormentò avvolta nel suo tepore.

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Ecco fatto. Spero che siate arrivati alla fine senza bisogno di antidepressivi, e che vi sia piaciuto. Non vorrei sembrare una presuntuosa, ma rileggendo questo capitolo mi sembra la cosa migliore che io abbia mai scritto, e mi farebbe molto molto piacere se qualcuno volesse dirmi se ho ragione ad essere orgogliosa di me stessa o se sarebbe meglio che mi dessi all’ippica. Ringrazio fin da ora chi volesse lasciare una recensione.

P.S 1: La canzone del divino Bruce Springsteen che viene citata nel capitolo è “No Surrender”. Ecco la traduzione della strofa riportata:

“[...]Nelle strade stanotte la luce si sta affievolendo
Le pareti della mia stanza si stanno chiudendo.
C’è una guerra là fuori che ancora infuria
Tu dici che non sta più a noi vincerla[...]”

P.S. 2: “La guerra è finita”, il messaggio che Evie scrive nel suo biglietto d’addio, è in realtà il titolo di una canzone dei Baustelle. Racconta di una ragazza che si uccide lasciando come ultimo messaggio, appunto, le parole “la guerra è finita”. E’ da questa canzone che nasce il personaggio di Evie.

P.S. 3: Come probabilmente avrete immaginato, se avete letto le mie note all’inizio del capitolo due, la canzone che inizia a suonare poco prima che Meredith e Logan arrivino alla scuola è “Into the Fire” dei Thirteen Senses, e che dà il titolo a questo racconto. Segue traduzione:

“Andiamo, andiamo,
metti le mani nel fuoco.
Spiega, spiega,
mentre io mi volto e incontro il potere.
Questa volta, questa volta,
diventando bianco e presagendo la catastrofe.
Spingi, spingi, da un estremo all’altro.

Dall’estate alla primavera
Dalla montagna all’aria
Dal Samaritano al peccato
E aspetta alla fine[...]”

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


ItF8

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Scusate il ritardo. Ecco qui il capitolo otto.

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Le vacanze di Natale erano ormai agli sgoccioli. Ancora pochi giorni e gli studenti che erano andati a casa per passare le feste in famiglia sarebbero tornati alla scuola. Gli altri, quelli che non avevano altro posto dove andare se non l’Istituto Xavier per Giovani Dotati (e che non erano un numero poi tanto esiguo), si godevano gli ultimi giorni di vacanza scatenando battaglie a colpi di palle di neve, pattinando sul laghetto ghiacciato o andando fino a North Salem per prendersi una cioccolata calda in un bar.

Le lezioni erano terminate il 23 dicembre a mezzogiorno, per permettere a chi tornava a casa di partire nel pomeriggio, e Meredith aveva visto per ore dalla finestra della sua camera processioni di ragazzi allegri e festanti che trascinavano le loro pesanti valige fino pulmini e si abbracciavano, promettendo di tenersi in contatto durante le vacanze. Un paio di ragazzini del primo anno erano stati portati a casa dai loro genitori. Meredith li aveva guardati abbandonare le loro valige sugli scalini dell’ingresso e correre incontro alle auto.

Meredith aveva rifiutato l’invito di Jubilee ad andare con lei a Beverly Hills e passare le feste con la sua famiglia.

“Davvero, ho già parlato con i miei, sarebbero felicissimi di ospitarti per le vacanze.” era stato il ritornello di Jubilee nell’ultima settimana di scuola.

Alla fine Meredith aveva dovuto giurare che avrebbe trascorso a casa sua almeno due settimane durante le vacanze estive, o Jubilee avrebbe perso l’aereo. Era stata l’ultima a salire sul pulmino che avrebbe portato lei e altri otto ragazzi al JFK. Jubilee si era sporta dal finestrino e si era sbracciata per salutarla.

“Non ti dimenticare che l’hai promesso!” le aveva urlato mentre il pulmino si allontanava lungo il viale.

Quando il sole era calato oltre i boschi, nelle stanze della villa era scesa una calma inusuale. Nessuno che ridesse o chiacchierasse nei corridoi, nessun gruppo di studenti che aspettasse l’inizio di una lezione seduto per terra davanti alle aule; solo di tanto in tanto il pavimento di legno scricchiolava sotto i passi di uno dei ragazzi che era rimasto nell’Istituto.

Quella sera Meredith era scesa nella sala comune pensando di trovarla deserta, invece aveva trovato Marie che leggeva un libro seduta sul divano, davanti al caminetto acceso. Quando l’aveva sentita entrare, aveva alzato gli occhi e l’aveva salutata con il suo solito sorriso gentile. “Ehi.”

“Ehi.” aveva risposto Meredith sedendosi su una delle poltrone. “Dov’è Bobby?” le aveva chiesto.

Marie aveva chiuso il suo libro. “E’ tornato a Boston per passare le vacanze con la sua famiglia.”

Meredith aveva tentennato. Era un po’ insicura. Tempo prima, Marie le aveva raccontato della sua famiglia giù in Mississipi e della loro casa, che era stata costruita dal suo bisnonno.

“Ah...” aveva esordito Meredith. “E tu non...”

“No.” Marie si era guardata le mani coperte da guanti di pelle nera. “Io non torno a casa.”

Per un po’ erano rimaste tutte e due in silenzio a guardare il fuoco che scoppiettava nel caminetto.

“E’ stata una mia decisione, sai.” aveva detto ad un tratto Marie. “Dopo quello che... Dopo quello che era successo, ho pensato che sarebbe stata la cosa migliore per tutti, se io...”
Si era schiarita la voce. “Stavo in camera mia con il mio ragazzo. Quando ci siamo baciati lui è svenuto, ed è rimasto in coma per due settimane. Così ho pensato che era molto meglio, molto meglio per tutti se io me ne andavo prima di far del male a qualcun’altro.” Si era guardata di nuovo le mani e una lacrima le aveva solcato il viso.

Meredith non sapeva bene cosa dire per confortarla. Lei detestava quando la gente la compativa per i suoi poteri, ma non voleva nemmeno lasciare che Marie piangesse senza consolarla. Si era seduta accanto a lei e le aveva messo un braccio attorno alle spalle. Marie aveva sussultato e si era scostata.

“Scusami.” aveva detto Meredith tirandosi indietro.

“No, scusami tu.” le aveva risposto Marie asciugandosi il viso. “E’ che è così difficile dover stare sempre attenta a non sfiorare nessuno, e che ogni maledetto centimetro della mia pelle sia sempre coperto anche in piena estate...” Aveva sospirato frustrata. “Non so cosa darei, per poter nuotare una sola volta senza il terrore di far male a qualcuno.”

Meredith si era ricordata di tutte le volte che erano andati in piscina e Marie aveva trovato una scusa per rimanere a scuola. Aveva guardato le mani della sua amica avvolte nella loro prigione di pelle nera.

“Non so cosa darei per essere toccata.” aveva continuato Marie con un filo di voce. “Per poter accarezzare Bobby. Per potergli dare un bacio, anche uno solo.”
Aveva sorriso amaramente. “Lui è stato così comprensivo, ha detto che non gli importa se non possiamo toccarci e non possiamo...” Era arrossita. “...farlo. Ma io lo so, lo so che prima o poi questo gli peserà, e allora si troverà un'altra ragazza, una che potrà toccare senza il rischio che lei lo uccida e che non deve portare questi assurdi guanti ovunque...” Marie aveva ricominciato a piangere.

Meredith aveva preso le mani di Marie fra le sue e le aveva strette.

****

Meredith stava guardando da sola la televisione in sala comune quando entrò la professoressa Munroe.

“Ciao Meredith.” la salutò.

“Buonasera, professoressa Munroe. Pensavo fosse ancora in Kenya.”

“Sono tornata questa mattina.” disse. “Ormai le vacanze sono finite.”

“Com’è andata?”

“Benissimo, direi.” Sorrise. “E’ incredibile quanto casa tua ti sembri bella quando sei stata lontana per un po’. E le tue vacanze come sono andate?”

“Bene, grazie.”

“Cosa avete fatto?”

Meredith alzò le spalle. “Oh, niente di particolare. A Capodanno siamo andati a North Salem a vedere i fuochi d’artificio. Davvero bello.”

“Dov’è Marie?”

“Ha detto che doveva studiare ed è rimasta in camera. Se vuole vado a chiamarla.” rispose Meredith.

“No, a dire la verità cercavo te...” La professoressa sembrò cercare le parole giuste. “Ci sarebbe da disfare l’albero di Natale dell’atrio... Se vuoi... Se hai tempo...” La Munroe era diventata così indulgente con lei, dopo la morte di sua sorella

Meredith si alzò. “Ma certo.”

Raggiunse l’atrio, e quando arrivò vide John accanto all’albero. Poco distante da lui c’era una grossa scatola di cartone e alcuni vecchi giornali. John tolse una palla di vetro colorato dai rami dell’abete, l’avvolse nel giornale e la depose nello scatolone. Quando vide entrare Meredith si fermò e la guardò.

Lei gli si avvicinò e prese un’altra palla dall’albero. Sorrise. “Hanno incastrato anche te, eh?” gli chiese.

John prese la sfera di vetro dalle mani di lei e l’avvolse nella carta. “Già.”

Meredith lo guardò deporre il fagotto sul fondo dello scatolone. Poi prese un’altra palla dai rami dell’abete e la porse a John.

“Non ho mai capito che gusto c’è a riempire un albero di schifezze solo per togliere tutto quindici giorni dopo.” disse lui dopo qualche minuto.

Meredith sorrise. “Neanche io.”

Il giorno dopo la sepoltura di Evie Meredith era andata da lui a restituirgli la felpa, ma John non l’aveva voluta indietro. “Tienila tu.” le aveva detto semplicemente.

“Ma...”

“Davvero, non importa. Tienila.”

Meredith aveva piegato la felpa e l’aveva sistemata sul fondo del suo armadio. Ogni tanto, quando si rigirava nel letto senza riuscire ad addormentarsi, aspettava che Jubilee dormisse, poi prendeva la felpa e se l’infilava sopra il pigiama. Solo allora riusciva a prendere sonno.

Lei e John continuarono a lavorare in coppia: Meredith toglieva dall’albero le palle di vetro, John le avvolgeva nella carta e la metteva nella scatola. Entrambi sapevano che avrebbero fatto molto prima se ognuno avesse fatto per sé, invece continuarono come avevano iniziato finché tutte le decorazioni non furono nello scatolone. Meredith guardò l’albero spoglio e una grande tristezza l’assalì. Si sentì come se avesse appena distrutto qualcosa di bello.

“E adesso?” chiese.

John alzò le spalle. “Abbiamo finito, credo.”

Abbassò lo sguardo e, inconsciamente, Meredith fece lo stesso. Solo in quel momento di accorse che le mani di John stavano sanguinando.

“Le tue mani...” gli disse.

Lui le sollevò e le guardò. “Una delle palle di vetro era scheggiata, ma non è nulla di grave. E’ solo un graffio.”

Meredith gli prese le mani e le esaminò. C’era un grosso taglio sul palmo della mano destra, e un altro, più piccolo ma non meno profondo, lungo l’indice sinistro. Rivoli di sangue scuro uscivano copiosi dalle ferite. Non erano certo dei semplici graffi.

“Aspetta...” sussurrò Meredith. Dalla tasca dei jeans estrasse un fazzoletto pulito e cominciò a tamponare i tagli più delicatamente che poteva, cercando di non fargli male.

Non si accorse di quanto fossero vicini finché John non appoggiò la fronte contro la sua.

Meredith chiuse gli occhi e le sue dita strinsero dolcemente quelle di lui. Per qualche istante rimasero entrambi immobili ad ascoltare il battito dei loro cuori e il rumore dei loro respiri.

Quando le loro labbra si unirono, all’inizio si limitarono a sfiorarsi delicatamente. Meredith non avrebbe potuto dire chi dei due avesse iniziato a baciare chi, ma poi successe, e tutto quello che esisteva al mondo erano lei e John e i loro cuori che battevano all’impazzata mentre si baciavano accanto all’abete.

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Oh, che carini... Non sono un amore? Finalmente ce l'hanno fatta!! Si sono baciati!

Un grossissimo bacio a Star_Dust_Daga e Gertie che hanno recensito il capitolo sette! Significa molto per me. Come avete visto in questo capitolo c'è parecchio Pyro... e d'ora in avanti ce ne sarà sempre di più ;-)

Anche questo è piuttosto corto come capitolo, ma visto il sorpresone finale cercate di essere indulgenti. Ci si vede tra un paio di giorni con il capitolo nove.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


ItF9

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Visto che ieri ho postato un po' in ritardo rispetto al solito, ecco il capitolo nove con un giorno d'anticipo. Come al solito, buona lettura!

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“Ragazzi miei, è ufficiale.” disse Bobby. “Siamo i più fighi dell’universo.”

Erano tutti e cinque in camera di John e Bobby, esaltati ed entusiasti. Erano stati appena convocati dal professor Xavier, che aveva comunicato loro, alla presenza dei professori, di essere stati ammessi al programma di inserimento negli X-men. L’indomani avrebbero cominciato con le simulazioni di combattimento nella camera speciale.

“Diavolo, sì!” rispose Jubilee, facendo una piroetta al centro della stanza, “I migliori del mondo!”

“Dell’intera galassia!” la corresse Marie ridendo.

Lei e Bobby erano seduti sul letto di lui, mano nella mano ma ad una certa distanza. Di fronte a loro, John stava seduto sul suo letto con la schiena contro la parete e Meredith era seduta tra le sue gambe, la schiena appoggiata al petto di lui. In sottofondo, lo stereo diffondeva le note del “Black Album” dei Metallica.

“Ragazzi, non riesco a credere che sia vero.” disse Meredith.

“Oh, sì che lo è.” le rispose Bobby. “Hai sentito il professore: “Avete dimostrato impegno e serietà negli studi, perciò...”

“...Perciò tirate fuori le palle e datevi da fare, stronzetti.” concluse John imitando la voce di Xavier. I ragazzi risero.

“Beh, non sono sicura che il professor Xavier si sia espresso così, ma di certo il succo era proprio questo.” disse Marie.

“Anche se non credo che si riferisse a me con quella frase.” continuò John. “Quando ha parlato di serietà ed impegno mi sono voltato per vedere se c’era qualcun altro dietro.” Ci fu un altro coro di risate.

“Probabilmente hanno preso in considerazione anche altri fattori.” gli suggerì Meredith.

“Forse. O forse sul X-Jet si è rotto il grill.” ridacchiò Bobby.

John alzò il dito medio. “O magari hanno finito il ghiaccio.” rispose.

Jubilee si mise a saltellare per la stanza. “Siamo-i-numeri-uno! Siamo-i-numeri-uno! Siamo-i-numeri-uno!...” scandì.

“Dieci dollari che adesso vomita.” disse Meredith.

“Venti.” rilanciò Bobby.

“Se lo fa, giuro su dio che le do fuoco.” minacciò John.

Jubilee smise di saltellare e si mise una mano sulla fronte. “Oddio, mi gira la testa...” si lamentò sedendosi per terra.

“Era ora, mi stavi facendo venire il mal di mare.” le disse Marie.

Jubilee si guardò attorno come se si rendesse conto solo in quel momento di dove fosse. “Ehi, ma perché ascoltiamo questo mortorio?” protestò. “Qui ci vuole qualcosa di più allegro!”

“Metti “We are the Champions”.” propose Meredith.

“Non credo che l'abbiamo.” disse Bobby. “Ma puoi provare a cercare se c’è qualcos'altro che ti piace di più.”

Jubilee avanzò a carponi fino allo stereo e si mise a frugare tra i cd.

“Dovrebbe esserci un album dei Red Hot Chili Peppers.” suggerì Marie. “Mi pare di averlo portato l’ultima volta che siamo venuti qui.”

John approfittò della distrazione generale per chinarsi verso Meredith e baciarle l’orecchio. Lei sorrise. Le capitava spesso di sorridere, da quando lei e John si erano messi insieme. Era incredibile quanto solo la sua presenza la rendesse felice e tranquilla, e non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era sentita così per un ragazzo.

Quando gli altri avevano scoperto la loro relazione avevano reagito con gioia, una volta passato il primo momento di stupore. Non che lei e John avessero fatto un annuncio ufficiale o roba simile.
John non era molto espansivo in pubblico, ma a Meredith non importava. Nemmeno a lei piacevano troppo le smancerie e le moine da romanzetto rosa, specialmente di fronte ad una platea di spettatori, perciò gli altri ci avevano messo un po’ a capire quello che stava succedendo.

Una sera erano scesi a cena mano nella mano. Le veniva ancora da ridere quando ripensava alle espressioni stupefatte dei loro amici mentre lei e John si avvicinavano al tavolo.

“Ma voi due state...” aveva iniziato Bobby guardandoli con gli occhi fuori dalle orbite.

“...tenendovi per mano?” aveva concluso Marie, altrettanto scioccata.

“Beh, sì.”

“Quindi voi due...”

“Sì.”

A quel punto erano stati sommersi da un fiume di domande e di congratulazioni:

“Oh mio dio... Non ci posso credere!”

“Ragazzi, ma è fantastico! Quando è successo?”

“Voi due insieme...”

“E’ una cosa magnifica!”

“Ma che aspettavate a dirlo? Wow, ragazzi...”

Più tardi, in camera, mentre Meredith si infilava il pigiama e si preparava per andare a dormire, Jubilee si era seduta sul suo letto e le aveva sorriso abbracciando il peluche di Snoopy.

“Sai, mi hai davvero stupito stasera.” le aveva detto. “Ero sicura che tu e John ci avreste messo molto più tempo.”

Era toccato a Meredith rimanere a bocca aperta, e Jubilee era scoppiata a ridere.

“Non ho il sonno pesante come credi, cara la mia compagna di stanza.” le aveva detto strizzandole l'occhio.

Alla fine i ragazzi riuscirono ad accordarsi per un album dei New Found Glory. Con discrezione, Meredith avvicinò la mano a quella di John e ne accarezzò il dorso con l’indice.

“Allora,” iniziò Bobby con fare pratico mentre le prime note di “All Downhill from Here” si diffondevano nella stanza. “bisogna cominciare a pensare a cose serie.”

“Tipo un piano per sopravvivere all’allenamento di domani?” chiese Meredith.

“Beh, sì, anche, ma a questo penseremo dopo. Adesso dobbiamo decidere i nostri nomi in codice.” le rispose Bobby.

“I che?” domandò Marie.

“I nome in codice. Ogni membro della squadra ne ha uno.”

“Che forza, come gli agenti segreti!” si entusiasmò Jubilee.

“Ma non fa un po’ troppo fumetto?” si chiese Meredith, dubbiosa.

“E che vuoi fare, andare in giro a dire a tutti il tuo vero nome?” rispose John. “Sarebbe troppo rischioso.”

“Questo è vero.” concesse Meredith.

Le dita di John cominciarono a giocherellare con le sue, e di nuovo Meredith sorrise.

“Tu come ti chiamerai, Bobby?” saltò su Jubilee.

“Qualcosa come Freezer, o Snowman...” considerò Marie, scrutando attenta il suo fidanzato.

“No, Snowman no, è troppo da femminuccia.” intervenne Meredith scrutando anche lei Bobby.

“Allora Snowman, è deciso.” lo prese in giro John.

“Ah ah ah, molto divertente, bello.” rispose Bobby. “Veramente io avevo già pensato ad un nome.” Fece una pausa. “Iceman.”

“Iceman?” ripeté Marie perplessa.

“Amico, te lo devo proprio dire.” intervenne John. “E’ il nome più triste e patetico che io abbia mai sentito.”

“E’ un po’ scontato, Bobby.” gli disse Meredith.

Marie scosse la testa. “No, neanche a me piace. E’ troppo prevedibile.”

Bobby le sorrise e le strinse la mano. “Ma io sono così, prevedibile e affidabile.”

John sollevò un sopracciglio. “Io non ne sarei così orgoglioso, Bobby.”

Lui alzò le spalle. “Beh, non c’è niente di male ad essere affidabile.” Di nuovo sorrise alla sua ragazza e Marie, dopo una lieve esitazione, gli accarezzò un braccio. Portava dei guanti di cotone grigio in tinta con i suoi jeans.

“Sarà.” disse Jubilee alzando le spalle. “Ma a me piaceva di più Freezer.”

Bobby le allungò un calcio scherzoso. “E tu come ti chiamerai, ragazzina?”

“Non lo so...” rispose lei, pensierosa. “Vorrei un nome figo...”

“Trovato! Scassapalle è un nome perfetto per te.” esclamò John.

Meredith gli assestò una gomitata nello stomaco. “Ehi, non maltrattare la mia compagna di stanza.” gli intimò.

“Diglielo, Meredith!” gridò Jubilee ridendo.

“Scusa, non sapevo che tu fossi la sua mammina.” rispose John sarcastico. “E poi che c’è di male in Scassapalle? E’ perfetto per lei.”

“No, non lo è.” si lagnò Jubilee mettendo il broncio.

“Oh, non rattristarti, piccina.” la consolò Bobby, tra il serio e il faceto. “Adesso papà te lo trova un bel nome.”

“Che ne dici di Sparkle?” propose Marie riferendosi alla capacità di Jubilee di emettere bolle di energia luminosa dalle mani.

“Naaa, fa troppo ragazza ricca di Beverly Hills.” rispose Jubilee con una smorfia.

“Ma tu sei una ragazza ricca di Beverly Hills.” le ricordò Bobby.

“Sì, ma non c’è bisogno che lo sappiano tutti.” disse lei. “Ci vuole qualcosa di più energico.”

“E’ vero.” concordò Meredith. “Qualcosa di più adatto alla sua personalità.” Ci pensò su qualche secondo. “Perché non Bubble?”

“No, troppo da cartone animato!” protestò Jubilee.

“Che ne dite di Rottura?”

“John!”

“Beh, cercavo solo di essere d’aiuto...”

Rimasero qualche minuto in silenzio a pensare un nome in codice per Jubilee mentre i New Found Glory continuavano a cantare dallo stereo. Meredith sentiva il cuore di John batterle contro la schiena e il suo respiro tra i capelli. Per un istante chiuse gli occhi e si godette la vicinanza del suo ragazzo, così calda e rassicurante. Reclinò la testa indietro e appoggiò la nuca contro la spalla di John.

“Secondo me,” iniziò cautamente Marie. “Jubilee è un nome in codice.”

“Sì...” disse Bobby, considerando attentamente la proposta della sua fidanzata. “Sì, mi piace...”

“Ma...” iniziò Jubilee.

“Pensaci bene, è un nome perfetto per te.” disse Meredith rivolta alla sua compagna di stanza. “Dinamico, vivace, facile da ricordare. Ti descrive alla perfezione.”

“Sì, lo so che mi descrive alla perfezione.” rispose Jubilee con un espressione scura sul viso. “E’ il mio nome.”

“Mettiamolo ai voti.” propose Marie. “Chi pensa che il nome in codice di Jubilee debba essere Jubilee?”

“Io.” disse Bobby alzando una mano.

“Io.” lo imitò Meredith.

“Io.” fece Marie alzando una delle sue mani inguantate.

“Io no.” disse Jubilee sempre più indispettita.

John si limitò ad alzare le spalle.

“Quattro contro uno.” contò Marie. “Allora è deciso.”

Jubilee mise di nuovo il broncio.

“Allora, a chi tocca adesso?” chiese Marie gettando indietro i suoi lunghi capelli color mogano.

“Pensiamo a John.” disse Meredith. “Non dovrebbe essere troppo difficile.”

“Il primo che se ne esce con qualcosa tipo “Fireman” fa una brutta fine.” minacciò lui.

“Perché, che ha che non va?” gli chiese Bobby.

“Ti piace Flames?” propose Jubilee.

“Ecco, lo sapevo che avrebbe sparato una cazzata del genere... Preparate l’estintore.” disse John con un sospiro. Tutti tranne Jubilee risero.

“E va bene, va bene, allora Flames no...” fece marcia indietro lei. “Quanto sei permaloso...”

“Hai qualche idea?” chiese Meredith a John, sistemandosi più comodamente contro di lui per poterlo guardare in viso. John aveva degli occhi di un blu talmente scuro da sembrare marroni, se uno non li guardava da vicino.

Lui considerò la cosa per qualche secondo. “Beh, ovviamente qualcosa che ha a che fare col fuoco...”

“Ma non mi dire.” disse sarcastica Jubilee, cogliendo al volo l'occasione di ripagare John con la sua stessa moneta.

Lui la ignorò. “...ma non vorrei finire nel banale.”

“Aspetta un attimo...” intervenne Marie, pensosa. “Com’è che ti chiama sempre Logan?”

“Testa calda?” le suggerì Bobby.

“Sì, esatto, Hothead. Come ti suona?”

“E’ davvero penoso.” rispose John con una smorfia.

“Sì, fa abbastanza schifo.” confermò Meredith.

“Ok, allora non ho altre idee.” disse Marie sollevando le braccia in un gesto di resa.

“Ci vuole qualcosa di più...” iniziò Bobby, guardando attentamente il suo amico.

“...pericoloso.” concluse John.

Ci fu un’altra lunga pausa. Mentre meditavano, John premette la sua guancia contro la tempia di Meredith, e rimase così a lungo.

“Forse... Firestarter?” propose Meredith cautamente, dopo un po’. “Come la canzone dei Prodigy?”

“E’ bel nome.” concesse John, staccando il viso da quello di lei. “Ma è un po’ troppo lungo da chiamare durante una battaglia.”

“Già, è vero. E allora Burn?”

“Bleah, banale...”

“Sei troppo raffinato, amico mio.” gli disse Bobby accarezzando una mano di Marie tra le sue. “Qui ci costringi a buttarci sulle lingue straniere. Come si dice “fuoco” in francese?”

“Feu.” rispose Marie. “Ma è orrendo.”

“Concordo.” disse John. “Altre lingue?”

“Fuego.” propose Meredith.

“No.”

“Mmm... Feuer?” chiese Marie.

“Forse Feuer... No, non mi piace. Nessuno sa l’italiano?” domandò John.

“No, ma mia madre è ebrea.” disse Bobby. “Se non sbaglio, fuoco in ebraico si dice “Esh”.”

John alzò le spalle. “Beh, non è esattamente quello a cui pensavo, ma sempre meglio degli altri.”

“Aspettate un momento.” Tutti si voltarono verso Marie. “Che idioti che siamo, ma come abbiamo fatto a non pensarci prima?” Guardò John dritta negli occhi. “Pyro!”

“Pyro?” ripetè Jubilee.

“Sì, ti sta bene.” disse Bobby. “E’ aggressivo, elegante...”

“Sembra che tu stia parlando di una macchina.” lo prese in giro Meredith.

John ripetè un paio di volte il nome sottovoce, pensieroso. Meredith non riuscì proprio a resistere e gli diede un veloce bacetto all’angolo delle labbra. Lui emerse dalla sua meditazione e le sorrise, sorpreso.

“Mi piace, Marie, mi piace davvero.” disse stringendo Meredith tra le sue braccia.

“E brava la mia piccola!” esclamò Bobby, entusiasta. “E’ già il secondo nome che indovini. Batti un cinque!”

Marie rise, ma Meredith era sicura di aver visto un’ombra spegnere i suoi occhi quando aveva baciato John.

“Tecnicamente, il mio non l’ha indovinato...” precisò Jubilee.

“Allora, come lo chiamiamo questo genietto?” domandò Bobby mettendo un braccio attorno alle spalle della sua ragazza.

“Bobby, no!” lo rimproverò lei, divincolandosi. “E’ troppo rischioso...”

“Ci vuole qualcosa di carino e dolce come lei...” propose Jubilee.

“Qualcosa come Ladybelle?” chiese Bobby.

“Oddio, no... fa venire il diabete...” protestò schifato John.

“John ha ragione, non lo voglio un nome dolce e carino.” disse convinta Marie. “Voglio qualcosa di tosto, qualcosa da...”

“...da ragazzaccia?” chiese Meredith.

Marie annuì. “Esatto.”

Bobby la guardò perplesso. “Ma tu non sei una ragazzaccia!”

“Beh, forse voglio esserlo.” rispose Marie. “Forse mi sono stancata di fare sempre la brava ragazza.”

“Brava, così si fa!” la incitò John.

“Ehi, tu non incoraggiarla.” gli intimò Bobby.

“Che ne dici di Brat, Marie?” propose Meredith.

“Meredith!” disse Bobby scandalizzato. “Ti ci metti anche tu?”

“No, troppo blando. Voglio qualcosa più duro, più da teppista di strada...”

“Esatto!” gridò Jubilee. “Rogue!”

“Sì!” esclamò Meredith.

“No!” protestò Bobby, sempre più turbato da un lato del carattere della sua fidanzata che evidentemente non conosceva.

“Sì, sì, è bellissimo!” disse Marie entusiasta. “Proprio quello che volevo... Brava Jubilee!”

“E-uno-l’ho-indovinato-io! E-uno-l’ho-indovinato-io! E-uno-l’ho-indovinato-io...” cominciò a canticchiare la ragazza seduta per terra.

“E ora non manca che Meredith da sistemare...” disse Marie voltandosi verso di lei.

Meredith si sentì eccitata ma anche un po’ nervosa. Stava per scoprire come i suoi amici e il suo ragazzo percepivano lei e i suoi poteri.

“Qualcosa che c’entri con la mente, ovvio.” disse Jubilee. “Psyco... Psyco...”

“Psycoangel.” propose Marie.

“Wow, ragazzi sono commossa,” iniziò Meredith. Lo era davvero. “Ma la parte dell’angelo proprio non la capisco.”

“Beh, sei bella, e sei buona...” spiegò Jubilee.

“Così mi fate montare la testa.” protestò Meredith ridendo.

“Beh, c’è sempre Psycobeast, se preferisci...” disse John alzando le spalle. Meredith gli diede una gomitata scherzosa nelle costole.

“Divertente... Tra i due preferisco l’angelo, allora.”

Meredith ripensò a quel pomeriggio nell’aula di telepatia, quando aveva scoperto i suoi nuovi poteri. Sembrava essere accaduto in un’altra vita... Una vita in cui c’era ancora sua sorella.

John la strinse un po’ più forte, riportandola alla realtà. Meredith si girò a guardarlo e i loro occhi si fissarono gli uni negli altri. Lentamente, prese la mano di John che era appoggiata sul suo stomaco e la strinse.

“Pensavo” disse “a qualcosa come Medusa.”

“Medusa?” chiese Bobby. “Il mostro con i serpenti al posto dei capelli che uccideva le persone con lo sguardo?”

“Non le uccideva.” precisò Meredith. “Le trasformava in pietra.”

“E perché diavolo vorresti un nome del genere?”

Meredith ripensò allo sguardo vacuo di Logan quando lei aveva preso possesso della sua volontà.

“Lei tramutava le persone in pietra.” spiegò. “Io posso fargli fare ciò che voglio. In fondo non c’è differenza.”

John appoggiò delicatamente la labbra alla sua tempia e le diede un lieve bacio. Non durò che un secondo.

“Allora è deciso.” disse Bobby guardandoli uno per uno. “Rogue, Jubilee, Pyro, Medusa e Iceman.” Sorrise. “Domani li facciamo neri, nella camera speciale.”

............................................................................................

Ed ecco i nostri due fidanzatini ripresi in uno dei loro primi momenti di tenerezza. Mi sono sforzata di non rendere la cosa troppo smielata, perchè nè Meredith nè John mi sembrano il tipo. Comunque, se in un futuro dovesse diventare tutto un "Meredith, pulcino... John, tesoruccio... bacini bacini", siete autorizzati a mandarmi un email bomba.

Rileggendo questo capitolo e anche quelli indietro mi sono resa conto che Jubilee mi è venuta fuori un po' stereotipata. A mia discolpa, posso dire che nel cartone animato degli X-men che facevano quando ero piccola (ebbene sì, non ho mai letto il fumetto) Jubilee era rappresentata come un'adolescente piena di energia. E poi mi serviva qualcuno che bilanciasse il carattere un po' ombroso e cupo di Meredith.

Bene, ho detto tutto. Vi saluto e vi aspetto presto per il capitolo dieci!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


ItF10

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Chiedo umilmente perdono in ginocchio per questo mostruso ritardo, ma il mio computer ha deciso di prendersi il fine settimana libero e di non funzionare più. Sono finalmente riuscita a sistemarlo, e spero che abbiate avuto la pazienza di aspettarmi. Ancora le mie più sentite scuse.

In questo capitolo c’è qualche riferimento al sesso. Non mi sembra di essere stata troppo esplicita né tantomeno volgare, ma forse il rating arancione in questa occasione è appropriato.

Buona lettura!

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Una leggera pioggia primaverile batteva contro i vetri delle finestre. Era ormai marzo inoltrato, e il gelo dell’inverno stava lentamente, seppure controvoglia, cedendo il passo al tepore della bella stagione. Da qualche settimana ormai non nevicava più; la maggior parte delle giornate erano serene, anche se fredde, e di tanto in tanto le nuvole venivano ad oscurare il sole, rovesciando sull’Istituto e sulle foreste di Salem Center una pioggia sottile e gelida.

This is the first day of my life
I swear I was born right in the doorway…

Nella camera lo stereo era acceso e il picchiettio della pioggia contro i vetri era coperto solo parzialmente dalla musica che ne proveniva, ma i due ragazzi sdraiati sul letto sembrarono non farci caso. Ci volle molto, molto tempo prima che mettessero fine al loro lungo bacio e si guardassero negli occhi.

“Sono contenta che oggi la lezione di teatro sia saltata.” disse Meredith passando una mano tra i capelli del suo ragazzo.

John sorrise contro le sue labbra. “Già. Devo proprio ringraziare il vecchio Wagner quando lo incontro nei corridoi.”

Meredith rise. “Magari non dirgli il motivo per cui lo ringrazi.”

La sua bocca trovò nuovamente quella di John e gli diede un bacio. Lui rispose con un altro bacio, e per un po’ le loro labbra furono troppo impegnate per parlare.

“Anche se, a pensarci bene, insistendo un po’ potrei farlo passare come esercizio di recitazione.” disse lei quando si interruppero per riprendere fiato.

Il viso di John si scurì immediatamente. “Meredith, se scopro che qualcun altro ti mette le mani addosso, anche solo per una recita, giuro che dovranno raccoglierlo con l’aspirapolvere.”

Meredith si tirò su e lo guardò dritto negli occhi. “Ehi.” lo rassicurò. “Guarda che nessuno a parte te mi mette le mani addosso.” Sorrise. “Nemmeno alla lezione di teatro. Nemmeno per finta.”

John le restituì lo sguardo, ancora serio. “Davvero?”

“Te lo giuro.” Meredith scoppiò a ridere. “O mio dio, sei geloso!”

“Ci puoi scommettere che sono geloso.” rispose lui con un ringhio basso e minaccioso. Le prese il viso tra le mani e le accarezzò gli zigomi coi pollici. “Dio, sei così sexy con i capelli sciolti...”

Meredith si abbassò su di lui e gli baciò la gola appena sopra il collo della maglietta. “Ti stai facendo venire delle idee sordide, John Allerdyce?” gli chiese scherzosamente mentre gli accarezzava le braccia e il petto attraverso il tessuto.

“Oh sì, molto sordide.” rispose lui. “Vieni qui.”

La tirò giù e la baciò con passione. Meredith rispose con altrettanto trasporto, assaporando la sua bocca e perdendosi nelle sensazioni che le regalava. Le mani di lui le accarezzavano i fianchi e la vita, mandandole brividi lungo tutta la spina dorsale. Quando si staccarono, John la strinse forte contro di sé, e Meredith sprofondò nel suo abbraccio, la testa appoggiata sulla sua spalla e le fronte premuta contro il suo collo. Respirò il suo profumo e si concentrò sui battiti del suo cuore, quasi a ritmo con il picchiettare della pioggia.

Adorava questi momenti con John. Passare del tempo sdraiati sul letto a baciarsi, o anche solo a tenersi abbracciati, la faceva sentire al settimo cielo. Solo la presenza, la vicinanza di John bastava a farla sentire così... così... completa. Appagata.

Non che non facessero anche altro. Gli abbracci e i baci innocenti non sempre bastavano, e per Meredith non c’era al mondo soddisfazione maggiore di vedere John inarcarsi e gemere sotto le sue mani e le sue labbra, e ricevere da lui lo stesso trattamento. Ma ancora non erano arrivati fino in fondo. E la ragione principale per cui ancora non l’avevano fatto era, per quanto la imbarazzasse ammetterlo, che lei non aveva mai fatto l’amore con nessuno prima.

Meredith aveva tentennato un po’ prima di ammetterlo. La terrorizzava il fatto che lui potesse considerarla una patetica sfigata e non volesse avere più nulla a che fare con lei. Finché, qualche tempo prima, mentre se ne stavano sdraiati sul letto in camera di Meredith, John le aveva accarezzato una guancia e le aveva sorriso.

“Tu sei vergine, vero?” le aveva chiesto.

Meredith era arrossita e aveva voltato la testa di lato. “Pensavo di essere io quella in grado di leggere nel pensiero.” aveva mormorato imbarazzata.

“Beh, io sono pieno di doti nascoste.” aveva risposto John con un sorriso malizioso.

Lei gli aveva dato una sberla sulla testa, ridendo. “Idiota.”

Anche John aveva riso. Poi le aveva accarezzato il viso, dolcemente, e aveva detto: “Aspetteremo.”

Meredith aveva messo la mano sopra la sua. “Sei sicuro?”

“Sì. Ovvio, dovrò trovarmi una ragazza con cui fare sesso nel frattempo, ma...”

Meredith l’aveva colpito con un cuscino. “Sei veramente un idiota. Un giorno di questi vedi se non mi libero di te...” aveva minacciato.

John l’aveva abbracciata. “No che non lo farai.” aveva detto piano, guardandola negli occhi.

Meredith l’aveva stretto a sua volta e aveva avvicinato il viso a quello di John. “Infatti, non lo farò.” aveva sussurrato contro le sue labbra, un secondo prima che si unissero.

Yours is the first face that I saw
I think I was blind before I met you
Now I don’t know where I am
I don’t know where I’ve been
But I know where I want to go

So I thought I’d let you know…

“A che stai pensando?” le chiese ad un tratto John.

Meredith gli baciò il collo. “A quanto sei meraviglioso.” rispose senza smettere di baciarlo.

John infilò una mano sotto la maglietta di lei e le accarezzò la schiena. “Però, mica male...”

Meredith si tirò su a guardarlo in viso. “Magari potrei...” iniziò con un sorriso malizioso. “sai... coccolarti un po’.”

Si morse le labbra e, con un finto sguardo di pudicizia, fece correre gli occhi sul corpo di lui fino ad arrivare al cavallo dei pantaloni.

John la guardò con desiderio, le pupille ingrandite a tal punto che avevano quasi inghiottito le iridi blu.

“Sembra un programma delizioso...” mormorò mettendole una mano dietro la nuca e attirandola verso di sé per baciarla.

Proprio in quel momento la porta si spalancò ed apparve Bobby.

“Il tempo è scaduto, piccioncini.” disse.

John afferrò un oggetto che stava sul comodino (Meredith non fece in tempo a vedere cosa fosse) e glielo tirò contro, fortunatamente mancandolo.

“Bobby, esci immediatamente!” urlò. “Eravamo d’accordo che mi avresti lasciato la stanza fino alle cinque!”

“Beh, a parte il fatto che sono le cinque,” rispose lui guardando l’orologio. “Meredith, la dottoressa Grey ti cerca. Ti vorrebbe parlare.”

John si lanciò in una serie di insulti diretti alla bella dottoressa dai capelli rossi. Sapendo di non avere scelta, anche se non aveva affatto voglia di vedere Jean Grey, soprattutto in quel momento, Meredith si sedette sul letto e cominciò ad infilarsi le scarpe.

“Beh, ti secca lasciarci ancora un minuto?” ringhiò John in direzione di Bobby, che sparì.

“Cosa pensi che voglia?” chiese poi rivolto a Meredith.

Lei alzò le spalle. “Parlare di Evie, credo. Non lo abbiamo ancora fatto.”

“Ehi.” John le mise una mano su una spalla e la fece voltare verso di lui.

“Non ci andare, se non ti va.” disse piano. “Non sei obbligata.”

Meredith scosse la testa. “Tu ti rifiuteresti di andare dalla Grey se lei ti facesse chiamare?”

John alzò le spalle. “Scherzi? Sai quante volte l’ho fatto?”

Meredith scoppiò a ridere. “Perché non mi sorprende?” rispose.

Si alzò in piedi e guardò John. “Bene, ci vediamo dopo.” disse, cercando di non sembrare troppo turbata.

Lui la raggiunse e le prese le mani. “Sei sicura di volerci andare?”

Meredith appoggiò la fronte contro quella di John e lo guardò negli occhi. “Sì.” rispose. Sorrise. “Posso tenere testa a Jean Grey.”

Lui le prese il viso tra le mani. “Lo so.” sussurrò, e la attirò a sé per un bacio.

****

“Vieni, Meredith, vieni pure.” disse la dottoressa Grey mentre le apriva la porta del suo studio. “Scusa per la convocazione improvvisa. Spero di non averti disturbata.”

“No.” mentì Meredith il più convincentemente che poteva. Sentì le sue guance colorarsi di rosso, e pregò tutti gli dei nel cielo che alla Grey non venisse l’idea di leggerle nel pensiero.

Fortunatamente la dottoressa sembrò non accorgersi del suo imbarazzo. Con un sorriso, la invitò a prendere posto su una delle poltrone e poi fece altrettanto. Ci fu un attimo di silenzio in cui Meredith si guardò in giro. Lo studio era identico a come l’aveva visto l’ultima volta che ci era stata, ma i vasi con le rose bianche erano spariti. Niente di strano, pensò Meredith: era troppo presto per la fioritura delle rose.

“Innanzitutto vorrei dirti che sono molto fiera di te, Meredith.” cominciò Jean Grey con il suo solito tono tranquillo. “Hai fatto enormi passi avanti da quando abbiamo parlato l’ultima volta, e non mi riferisco solo delle tue abilità. A proposito, stai continuando ad esercitarti nella lettura del pensiero?”

Per la seconda volta nel giro di due minuti, Meredith fu costretta a mentirle. “Certo.” disse.

Non si era più esercitata da molto, molto tempo, e non perché fosse troppo presa da John o altro; era fermamente convinta che la dottoressa e il professor Xavier si sbagliassero riguardo le sue capacità. Dopo mesi e mesi di inutili tentativi era giunta alla conclusione che la sua abilità fosse quella di manipolare la volontà (cosa che fra l’altro, le riusciva con straordinaria destrezza), e non di leggere nel pensiero; aveva provato a esprimere le sue obiezioni, ma la dottoressa Grey aveva liquidato il problema come una semplice mancanza di esercizio. Perciò, da qualche tempo a questa parte Meredith aveva deciso di prendere in mano la questione per conto proprio e risolvere i suoi problemi di telepatia semplicemente smettendo di occuparsene. Per il momento questo sistema funzionava a meraviglia, ma non era altrettettanto sicura che la dottoressa Grey ne avrebbe apprezzato l’ingegnosità. Sperò che non la mettesse alla prova.

“Bene.” disse Jean Grey, soddisfatta della sua risposta. Meredith tirò un sospiro di sollievo.

“Ma non divaghiamo.” continuò accavallando le gambe. “Cosa pensi di fare quando lascerai la scuola?”

Meredith aggrottò la fronte. “Scusi, non credo di aver capito la domanda.”

“Sei a metà del penultimo anno.” le spiegò la dottoressa Grey. “L’anno prossimo dovrai decidere cosa fare nella vita. Hai già qualche progetto, suppongo.”

Meredith si appoggiò allo schienale della poltrona, lievemente a disagio. Progetti? Non aveva mai fatto piani a lungo termine nella sua vita; tanto, a che sarebbe servito? Ora che la dottoressa glielo domandava, Meredith si rese conto di non avere la più pallida idea di cosa ne sarebbe stato di lei una volta terminato il liceo.

“Se devo essere sincera, no, non ho fatto nessun progetto.” rispose infine, vergognandosene un po’. Di solito la gente ha dei piani per il futuro.

“Beh, ad esempio, pensi di lasciare gli studi o vuoi andare al college?” chiese la dottoressa Grey come se stesse spiegando una cosa ovvia ad un bambino non proprio sveglio.

Meredith sorrise. Questa era una domanda retorica per lei, e la Grey lo sapeva. Non frequentava forse l’Istituto grazie al fondo d’assistenza che la scuola garantiva agli studenti con problemi finanziari?

“Io non ho un soldo.” disse. Questa volta era lei che si sentiva come se stesse esprimendo un’ovvietà. “Non credo proprio di potermi permettere il college.”

La dottoressa Grey guardò la sua scrivania, e una cartelletta color ocra che vi giaceva sopra si librò in aria e volò fino alla poltrona. La dottoressa l’afferrò mentre si trovava a mezz’aria e l’aprì, poi cominciò a scorrere velocemente i fogli che si trovavano al suo interno.

“Il professor Wagner è entusiasta di te.” disse continuando a guardare le pagine contenute nella cartella. “Dice che hai grande talento per la recitazione. Vuole affidarti il ruolo di Cordelia nella messa in scena di “Re Lear” che si terrà a fine anno.” Alzò di scatto la testa dalla cartella e guardò Meredith, vagamente preoccupata. “Questo non avrei dovuto dirlo. Fa finta di non saperne niente, ok? Ad ogni modo, quello che intendo dire è che molte università stanziano borse di studio per gli alunni che entrano a far parte delle loro compagnie teatrali. La Brown e la Columbia, solo per citarne un paio sulla East Coast. Se invece preferisci spostarti, so che sia la UCLA che Stanford hanno eccellenti programmi di teatro.”

Meredith la fissò, disorientata dalla grande quantità di informazioni che aveva appena ricevuto. Le ci volle qualche secondo prima di realizzare che la più importante non era che avrebbe avuto il ruolo di protagonista nella recita di fine anno. I nomi “Columbia” e “Stanford” le vorticavano nel cervello.

“Anche il professor Cassidy ti considera una delle sue migliori allieve.” proseguì la dottoressa Grey. “Ha detto che il saggio che hai scritto riguardo la condizione sociale dei mutanti nei paesi in via di sviluppo è tra i migliori che abbia mai letto.” Meredith ricordava quel tema: il professor Cassidy le aveva dato il massimo dei voti. “Secondo lui hai la stoffa per diventare una giornalista politica. Ho letto anche io il tuo saggio, Meredith, e, onestamente, concordo pienamente con lui. Sei libera di fare ciò che vuoi, naturalmente, ma penso che sarebbe un vero peccato se tu non sfruttassi il tuo potenziale.” Fece una pausa. “Comincia a pensarci. Dopotutto hai ancora tempo.”

Meredith guardò, senza davvero vederlo, il disegno del tappeto orientale ai suoi piedi. Avrebbe dovuto sentirsi felice ed entusiasta per quest’opportunità che le si presentava inaspettatamente davanti agli occhi, invece tutto quello che provava in quel momento era un crescente senso di soffocamento. Chi era Jean Grey per decidere della sua vita? Come si permetteva di scegliere al suo posto quale strada intraprendere, quando nemmeno lei lo sapeva?

“Credo che una laurea in giornalismo sia l’ideale per te. Sei una ragazza combattiva e piena di talento: sono sicura che una volta terminati gli studi troveresti lavoro in un giornale importante in men che non si dica. Il Washington Post, o il Times, magari anche alla CNN, quello che vuoi.” continuò con un’aria allegra. Meredith sentì il senso di soffocamento aumentare. “Sono convinta che non avresti problemi ad ottenere una borsa di studio da un’università prestigiosa. Ovviamente, anche la scuola ti darebbe una mano.”

“No.” intervenne Meredith cocciutamente, felice di trovare un’obiezione sensata da poter opporre. “Non voglio altri soldi dall’Istituto. Mi avete già pagato il liceo, non c’è bisogno che mi paghiate anche l’università.”

“Oh andiamo, Meredith, non essere sciocca.” disse la dottoressa Grey con un sorriso. “I soldi non sono un problema. Il fondo di assistenza non si esaurisce con il liceo; serve anche per aiutare gli studenti una volta che il loro ciclo di studi all’Istituto è terminato.”

Meredith rimase in silenzio a guardare il tappeto. Cominciava a provare ostilità verso la dottoressa Grey ed era arrabbiata con se stessa per questo. Dopotutto, le aveva appena offerto un’opportunità straordinaria per il suo futuro, un’opportunità che non si sarebbe mai sognata prima d’allora. Chiunque si sarebbe sentito entusiasta, e grato, di fronte alla prospettiva di poter diventare, un giorno, un giornalista di successo. Perché lei no?

“Meredith?” chiamò la dottoressa Grey. “C’è qualche problema?”

Lei scosse la testa stizzosamente. “No, nessun problema.”

“Non mi sembri molto entusiasta di quest’idea.”

Meredith alzò le spalle e continuò a guardare il tappeto. “Non lo so ancora, ci devo pensare. Ha detto lei stessa che c’è tempo .”

Ci fu una lunga pausa in cui Meredith evitò di incontrare gli occhi della dottoressa Grey, timorosa che volesse leggerle nel pensiero. Poi Meredith sentì la cartella contenente le sue note scolastiche atterrare dolcemente sulla scrivania, e con la coda dell’occhio vide la dottoressa piegarsi verso di lei, i gomiti appoggiati sulle cosce e le mani intrecciate.

“La tua vita è molto cambiata dall’ultima volta che ci siamo incontrate.” disse. Il suo tono era comprensivo, indulgente. “Vuoi che ne parliamo?”

Meredith guardò la dottoressa Grey. Dalla sua esperienza, sapeva bene che non avrebbe accettato un no come risposta. Avrebbe continuato ad attaccare finché Meredith non fosse stata troppo stanca per difendersi e le avrebbe detto ciò che voleva sentire. Doveva conservare le forze, giocare d’astuzia.

“Ok.” disse.

La dottoressa Grey sembrò stupirsi. Poi si riprese e le indirizzò un debole sorriso. “Sono stata molto colpita da come hai reagito alla morte di tua sorella. Se finora non sono intervenuta, è perché ho visto che hai opposto a questa perdita una reazione positiva, costruttiva, invece che negativa.”

Positiva? Meredith ebbe voglia di scoppiare a ridere. Se la dottoressa Grey avesse saputo quanto dolore e quanta rabbia l’assalivano ogni volta che pensava a Evie non si sarebbe mai sognata di dire una cosa del genere. Solo perché non andava in giro a far esplodere le finestre e a trasformare i suoi compagni in burattini non significava che non avesse voglia di farlo.

“So che ti dei fatta degli amici.” continuò la dottoressa Grey con un sorriso. “Sono contenta che la mia idea di metterti in camera con Jubilation Lee abbia funzionato.”
Fece una pausa e guardò Meredith negli occhi. “E so anche che tu e John Allerdyce vi frequentate.”

Meredith girò la testa di scatto verso la finestra, improvvisamente furiosa.

Bobby.

O lui aveva spifferato tutto ai suoi adorati amici professori, oppure la Grey le aveva letto di nuovo nel pensiero. Non sapeva dire quale delle due possibilità la mandava più in bestia.

“Non ho usato la telepatia, Meredith.” si affrettò a spiegare la dottoressa, indovinando metà di quello a cui stava pensando. “Non ne ho avuto bisogno. Sono la vicepreside, e in quanto tale ho la responsabilità degli allievi. Non faccio altro che tenervi d’occhio, tutti quanti voi, per tutto il santo giorno.” A Meredith sembrò di sentire una nota di stanchezza nella voce di Jean Grey. “Non c’è voluto molto per notare un cambiamento nel vostro comportamento. Certo, siete stati discreti, molto più discreti delle altre coppie. Ma a mensa vi sedete più vicini di quanto sarebbe necessario, vi cercate con gli occhi quando siete lontani, e di tanto in tanto vi sfiorate la mano nei corridoi.”

Dovette ammettere che la dottoressa Grey era una buona osservatrice. Non avevano mai pensato di nascondersi, lei e John, ma il fatto che ora Jean Grey stesse parlando della loro relazione come se la cosa la riguardasse la irritava oltre misura.

“Meredith, guardami.” disse la dottoressa con calma. Dovette fare un grosso sforzo per togliere lo sguardo dai rivoli di pioggia che rigavano i vetri delle finestre e posarli sulla Grey.

“Ti prego, non fraintendermi. Il fatto che tu e John abbiate una relazione è magnifico, Meredith, assolutamente magnifico. Per tutti e due voi. Credo che entrambi possiate trarne grande beneficio, e come ho detto prima, sono molto, molto contenta che tu abbia opposto una reazione costruttiva ad un evento così negativo come il suicidio di tua sorella.”

Ci fu un pesante silenzio in cui le due donne si guardarono negli occhi. Fu Meredith la prima ad abbassare lo sguardo.

“Ma voglio che tu ti renda perfettamente conto di ciò che la tua relazione con John comporta.” disse la dottoressa Grey.

Meredith tornò a guardarla in viso, confusa. “Non capisco.”

“Meredith, quando tu e John siete arrivati qui, entrambi avevate moltissima rabbia e moltissimo dolore in corpo. Una cosa totalmente comprensibile, visto le vostre esperienze passate.” Per un istante lo sguardo della dottoressa Grey si abbassò sul tavolino che separava le due poltrone. “Voi due avete affrontato situazioni attraverso le quali nessuno, nessuno è in grado di passare indenne, e le cicatrici che quelle esperienze vi hanno lasciato ve le portate dietro ancora oggi.”

Meredith si sentì come se le avesse appena conficcato una lama incandescente nella carne. Fece un enorme sforzo perché il suo viso rimanesse tranquillo.

“Se curate adeguatamente,” continuò la dottoressa Grey “te lo posso assicurare, un giorno quelle cicatrici spariranno, o saranno così minuscole che nemmeno vi daranno più fastidio. Ma il processo di guarigione è lungo e difficile, Meredith, e basta molto, molto poco perché quelle ferite si riaprano e buttino fuori tutto il male che tengono ancora in sé.” Tacque per un istante. “Sai come si origina un’esplosione vulcanica?” Il magma rimane in pressione sotto la superficie terrestre finché non trova un buco, una feritoia dal quale raggiungere il terreno. E quando ci riesce, erutta da sottoterra con una violenza tale da distruggere tutto ciò che ha attorno a sé. Persino il vulcano stesso, a volte. E una volta che il magma comincia a fuoriuscire, non c’è più modo di fermare l’eruzione.”

Meredith cominciò a provare un vago senso di nausea. Non voleva ascoltare quelle cose.

“In voi due c’è un grande potenziale, sia in senso positivo che in senso negativo. Ci sono due anime belle dietro quelle cicatrici, due persone che possono fare grandi cose per se stessi e per gli altri. Ma adesso, Meredith, tu e John state camminando sull’orlo del baratro, e voglio che tu lo sappia.”

Le ultime parole della dottoressa la colpirono come una sberla in piena faccia. Che intendeva dire? Perché parlava come se lei e John si trovassero davanti ad un pericolo mortale?

“C’è ancora troppo dolore, troppo risentimento in voi, in tutte e due voi, ma in John più che in te, Meredith. Sai perché ho voluto parlare con te da sola e non vi ho fatti venire insieme? Perché in questo momento sei tu quella con il maggior potenziale positivo. Meredith, se dovesse succedere...”
La dottoressa Grey sembrava veramente preoccupata ora, Il suo tono era teso ed allarmato.

“John non riesce ancora a superare tutta la sofferenza e tutta la rabbia che ha ancora dentro. Certo, lo so che anche per te è difficile, ma tu riesci a gestire questo fardello meglio di quanto ci riesca lui. Riesci ad essere una presenza positiva, sia per te stessa che per John. Per questo dico che sono contenta che vi frequentiate, perché credo che la tua presenza e il tuo affetto possano fare per lui molto più di quanto io possa fare in mesi e mesi di colloqui. Ma devi stare molto, molto attenta, Meredith. Esattamente come tu tendi al positivo, John tende al negativo. Al nichilismo. All’autodistruzione.”

Jean Grey si fermò e guardò fuori dalla finestra. Finalmente la pioggia aveva smesso di cadere, e un timido raggio di sole tentò di gettare la sua debole luce nella stanza. Era uno sforzo inutile, comunque. Presto ci sarebbe stato il tramonto, e il sole avrebbe dovuto scomparire.

“E basterà poco, pochissimo, perché la sua tendenza alla autodistruzione inghiotta anche te. Per questo ti ho chiamato qui, Meredith. Se ciò dovesse accadere, se l’odio e la rabbia dovessero prevalere dentro John, tu dovrai riequilibrare la bilancia e sforzarti di riportare entrambi verso il positivo, perché John da solo non è in grado di aiutare se stesso. Ma c’è la possibilità che tu non riesca a farlo.”

Meredith guardò la vicepreside e cercò di dare un senso alle sue parole. Aveva la vaga impressione di sapere già dove sarebbe andata a parare, e anche se il suo istinto le diceva di prendere la porta e andarsene da quella stanza il più velocemente che poteva, il peso di quello che la dottoressa Grey le stava dicendo la teneva inchiodata sulla poltrona.

“Potete perdervi entrambi, Meredith, oppure salvarvi entrambi. Forse un giorno, non oggi, non subito, ma un giorno, tu dovrai prendere una decisione. E allora voglio che mi prometti che se sarà necessario, prenderai la decisione giusta e ti staccherai da John, perchè se non lo farai, Meredith, lui ti trascinerà sotto con sé.”

Finalmente, ci fu silenzio. Forse fu proprio quel silenzio così pesante, molto più che le parole della dottoressa, a far nascere dentro Meredith una furia cieca, gelida, che aumentava sempre più ogni secondo che quel silenzio si prolungava.

Jean Grey non aveva scavato a mani nude nel terreno ghiacciato, facendosi tagliuzzare le dita dal gelo e dai sassi. Dov’era lei, dov’erano tutti quanti, quando John si era inginocchiato accanto a lei nella neve per aiutarla a seppellire Evie?

“So che la tua recente perdita ti ha sconvolta, ma...”

“Credo che lei si faccia troppe illusioni, dottoressa, riguardo a quello che sa di me.” Meredith era probabilmente più infuriata in questo momento di quanto lo fosse stata durante tutto il colloquio, eppure il suo tono la sorprese per quanto fu calmo e gelido.

Jean Grey la guardò come se Meredith l’avesse appena schiaffeggiata. “Meredith,” balbettò “io posso capire quello che provi...”

“Davvero?” Le parole le uscivano di bocca prima che potesse fermarle. “Aveva una sorella che si è suicidata perchè non ce la faceva a vivere da mutante tra gli umani?”

La dottoressa sembrò esitare di nuovo. “Questo no, ma...”

“Allora non è proprio possibile che lei capisca.”

Ci fu di nuovo silenzio. Meredith guardò la dottoressa Grey dritta negli occhi, come se volesse sfidarla a leggerle nel pensiero. La vicepreside resse lo sguardo, ma non tentò nessun trucco telepatico.

“Hai ragione.” disse infine la dottoressa Grey. Il suo tono era di nuovo calmo e controllato. “Ti chiedo scusa. Non posso sapere cosa provi riguardo alla morte di tua sorella, nessuno può. Ho scelto le parole sbagliate, e mi dispiace.”
Sospirò. “Meredith, voglio solo che tu ti prenda cura di te stessa.”

“L’ho sempre fatto.” rispose.

“Questo lo so. Ma non vuoi lasciare che io ti aiuti?” chiese la dottoressa. Meredith guardò un punto imprecisato oltre la sua spalla.

“Lo sta già facendo. Con l’Istituto, le lezioni, e tutto il resto. E’ venuta fino a Baltimora a prendermi.” disse infine.

Di nuovo la dottoressa Grey sospirò. “D’accordo.” disse mentre si alzava. “Penserai a quello che ti ho detto, vero? L’università... e anche tutto il resto?”

Meredith rimase seduta e non rispose. Improvvisamente un’idea le attraversò il cervello.

“Chi lavora nelle cucine?” chiese.

La dottoressa la fissò, totalmente spiazzata dalla domanda. “Abbiamo assunto delle persone esterne alla scuola.” rispose. “Una cuoca e due ragazze che l’aiutino. Perché mi fai questa domanda?”

Meredith sorrise tra sé e sé. “Non importa.” rispose.

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Eh eh eh! (risatina cattivella). Niente divertimento per il povero John, no no! (John: “Noooooooo maledetta! Giuro che questa me la paghi! Appena mi capiti sotto tiro ti faccio entrare in un posacenere!” ... Zitto, schiavo! O mando lì Wolverine in pieno assetto da battaglia!) Scusate, stavamo dicendo? Ah sì...

La canzone che Meredith e John ascoltano mentre... ehm... chiacchierano del più e del meno sul letto di lui è “The First of My Life” dei Bright Eyes. Ecco la traduzione delle strofe riportate nel capitolo:

“Questo è il primo giorno della mia vita
Giuro che sono nato proprio qui sulla porta...

[...]

Il tuo è il primo viso che ho visto
Penso di essere stato cieco prima di conoscerti
Ora non so dove sono
Non so dove sono stato
Ma so dove voglio andare.

E allora ho pensato di fartelo sapere... [...]”

Volevo ringraziare in maniera particolare lia, che ha lasciato una bellissima recensione che mi ha commossa. Grazie davvero tanto! Ho creduto molto in questa fanfiction e sono felice che qualquno l'apprezzi. Soprattutto sono felice per le tue belle parole su Meredith! Come "mamma" letteraria sono molto sensibile su questo argomento. Spero che contiuerai a seguire la mia storia, e nel frattempo ti restituisco sinceramente riconoscente la stretta di mano, e se non ti offendi ti mando anche un bacio.

Colgo l'occasione per salutare anche chiunque altro segua questa fanfic, in maniera particolare Gertie e Star_Dust_Daga (un bacione anche a voi, ragazze!). Mi scuso di avervi fatte aspettare, ma come avete visto non è dipeso dalla mia volontà.

Bene, e con questo abbiamo finito. A presto con il capitolo 11!

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


ItF11

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Come vedete, il mio computer ha deciso di fare il bravo e sono riuscita ad aggiornare puntualmente. Da questo capitolo cominceranno a presentarsi gli avvenimenti del film X Men 2. Devo però confessarvi un segreto: io ho visto solo il primo e il terzo film della trilogia, e ho letto la trama del secondo. Perciò, lo scheletro della storia seguirà grosso modo la trama di X Men 2, ma i dettagli sono stati aggiunti dalla mia fantasia. Spero non ve la prenderete troppo.

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Quella notte un’ombra scura, più scura della stessa notte, scivolò in silenzio tra gli alberi del parco e si avvicinò furtiva alla villa. Poco dopo un’altra ombra, e poi un’altra, e un’altra, e un’altra, raggiunsero la prima e si acquattarono a pochi passi dalle entrate, gli occhi spalancati nelle tenebre e le orecchie tese ad aspettare la parola che avrebbe dato inizio alla caccia.

Poi la parola fu pronunciata, e ci fu l’inferno.
.
****

Meredith si svegliò di soprassalto quando un urlo che sembrava volerle trapassare i timpani riecheggiò per la casa facendo tremare i vetri delle finestre. Si mise a sedere sul letto ed altre urla, non così forti come il primo ma altrettanto terrorizzate, si levarono oltre i muri della stanza e la porta chiusa.

“Oddio no! Oddio no!”

“Hanno attaccato la scuola!”

Poi ci fu una voce che Meredith riconobbe come quella di Piotr Rasputin:

“Correte!”

Per una frazione di secondo i suoi occhi incontrarono quelli di Jubilee, anche lei seduta sul suo letto, terrorizzata. Poi le due ragazze saltarono giù dai loro letti e cominciarono a vestirsi. Meredith afferrò una maglietta a maniche lunghe e un paio di jeans che giacevano sul pavimento, tra le cose da lavare, e se le infilò più velocemente che poteva. Allacciò frettolosamente le scarpe da ginnastica e, dopo essersi accertata che Jubilee fosse pronta a seguirla, spalancò la porta e si lanciò nel corridoio.

Era il panico. Ragazze con lo sguardo terrorizzato e i capelli in disordine, alcune ancora in pigiama, correvano verso le scale. Molte avevano il viso rigato di lacrime, e Meredith vide una ragazza alta e robusta spingere da parte le più mingherline per farsi spazio.

“Andiamo!” le disse Jubilee, iniziando a correre anche lei nella direzione delle scale.

“No!” Meredith la afferrò per un braccio e Jubilee la guardò confusa. Il suo viso era teso per la paura e aveva gli occhi pieni di lacrime. “Questa scala finisce nell’atrio principale, finiremo in trappola!” Indicò la direzione opposta. “Dobbiamo scendere per le scale della lavanderia. Vieni!”

Jubilee annuì e le due ragazze cercarono di farsi largo tra la folla che le spingeva nella direzione opposta. Dovettero procedere il più possibile vicino ai muri, tenendosi per mano per non essere separate dall’impeto delle loro compagne in fuga. Più di una volta Meredith fu urtata così violentemente che quasi perse l’equilibrio.

Poi la folla cominciò a scemare, e poterono finalmente mettersi a correre.

Mai, da quando era arrivata all’Istituto, il corridoio degli alloggi le era sembrato così lungo. Nel frattempo, il suo cervello saltava da un pensiero all’altro, sovraccaricato dall’adrenalina. Dobbiamo uscire di qui. Dobbiamo arrivare al parco. E poi? E se ci aspettano? E se la porta sul retro è chiusa? Cosa facciamo allora? Cosa facciamo?

Girò l’angolo, persa nei suoi pensieri, e si ritrovò a pochi centimetri da una ragazza che veniva dalla direzione opposta. Ormai era troppo tardi per evitare lo scontro, e Meredith chiuse gli occhi in attesa della collisione.

Non successe nulla. Sentì un’ondata di freddo, e la spiacevole sensazione di avere migliaia e migliaia di formiche che le zampettavano sotto la pelle.

Riaprì gli occhi e, stupefatta, si girò per vedere una ragazza bassa e con i capelli castani correre lungo il corridoio, in direzione delle scale principali. Lo shock fu tale che per un momento dimenticò che doveva continuare a scappare.

“E’ solo Kitty!” le urlò Jubilee passandole accanto e tirandola per un braccio. “Passa attraverso le cose!”

Meredith si ridestò e ricominciò a correre più veloce che poteva. Girarono un ultimo angolo ed eccole lì.

Le scale.

Le aveva scese almeno una volta a settimana da quando era arrivata alla scuola. Erano le vecchie scale di servizio che portavano alla lavanderia degli studenti. Dovevano solo scendere due piani di scale, imboccare il corridoio sulla destra, girare a sinistra una volta arrivate alla stanza dove si trovavano le lavatrici, oltrepassare il locale delle caldaie e uscire dalla porta sul retro. A quel punto sarebbero state nel parco, e avrebbero potuto avere un’opportunità di fuggire.

Jubilee era davanti a lei di qualche metro ora, e cominciò a scendere i gradini a due a due. Meredith la seguì, non pensando più a come uscire di lì ma come rientrare una volta fuori. Devo trovare John. Come faccio a sapere se sta bene? Come faccio a sapere dov’è? Devo andare a cercarlo. E se fosse già fuori? E se l’hanno preso?

Superarono il pianerottolo del primo piano ed erano a oltre metà della rampa quando Jubilee si fermò improvvisamente. Solo per un miracolo Meredith riuscì a non finirle addosso. Le due ragazze rimasero in attesa, osando a malapena respirare. Alcune voci maschili giunsero a loro dal pianoterra.

“...narcotizzati, sì.”

“Evacuate i ragazzi, e...”

Meredith e Jubilee si guardarono terrorizzate. Poi Jubilee staccò gli occhi da quelli di Meredith e guardò verso il pianerottolo che avevano appena sorpassato. Sulla destra c’era una porta che riconduceva nel dormitorio; andando a sinistra si imboccava un corridoio che permetteva di raggiungere l’ala della villa che ospitava le aule.

Meredith annuì e lei e Jubilee cominciarono a risalire le scale in punta di piedi, un gradino alla volta. Sentivano le voci di quegli uomini provenire da sotto di loro e a Meredith sembrò di vedere oltre la balaustra delle uniformi grigie e nere, e delle piccole figure colorate stese per terra a faccia in giù. Non aveva mai avuto così paura in tutta la sua vita.

Raggiunsero il pianerottolo e cominciarono a dirigersi verso il corridoio sulla sinistra, di tanto in tanto lanciando occhiate terrorizzate dietro di sé, aspettando di veder comparire i militari da un momento all’altro. Jubilee mise la mano sulla maniglia della porta e la spinse verso il basso, più delicatamente che poteva. Meredith trattenne il respiro. Non ci fu nessun rumore.

Pianissimo, Jubilee aprì la porta quel tanto che bastava perché potessero infilarsi nel corridoio, e richiuse la porta dietro Meredith quando anche lei fu passata.

Per un attimo le due ragazze si guardarono in silenzio, indecise se potessero o no considerarsi fuori pericolo. “Vieni, allontaniamoci dalla porta.” sussurrò Jubilee.

Si inoltrarono nel corridoio buio, guidate solo dalla luce della luna. Quando furono ragionevolmente lontane, Jubilee si voltò e la guardò spaventata.

“Meredith, dobbiamo trovare gli altri.” sussurrò. “Marie, e Bobby, e...”

Meredith annuì. “Lo so.”

Jubilee prese fiato per un momento. “Se continuiamo in questo corridoio, arriviamo alle aule. E poi che si fa?”

Meredith cercò di pensare il più velocemente che poteva. Dove sarebbero andate una volta arrivate alle aule? Se scendevano nel salone d’ingresso, era quasi sicura che le avrebbero prese. Sarebbe stato pieno di militari lì. Tornare indietro era impossibile. Rimanere nascoste in una delle aule? Non se ne sarebbero andati prima di perquisire l’edificio. Senza contare che dovevano ancora trovare gli altri. Cominciò a sentirsi disperata.

“La biblioteca.” disse infine Jubilee, gli occhi illuminati da un lampo di speranza.

Meredith scosse la testa. “Dobbiamo scendere nell’ingresso per arrivare alla biblioteca. Ci butteremmo dritte nelle loro braccia.”

“No, se passiamo dalla porta secondaria. La scala dietro all’aula di scienze porta proprio lì.”

Era un’ottima idea. Cominciarono a camminare lungo il corridoio, gli occhi spalancati e le orecchie tese, ma sembrava che quell’ala della villa fosse stata risparmiata dall’incursione. Probabilmente, dato che era notte fonda, i soldati non pensavano che vi si potesse trovare qualcuno. Meredith e Jubilee si tennero quanto più possibile lontano dalle finestre, ma potevano vedere, attraverso la stoffa delle tende, la luce di numerosi fari puntati verso la casa e le ombre di uomini e veicoli che di tanto in tanto oscuravano momentaneamente le luci artificiali.

Cominciarono a rilassarsi un pochino, e nel cervello di Meredith domande meno urgenti cominciarono a farsi strada tra i suoi pensieri. Chi erano quelle persone? Cosa volevano da loro, e perché avevano assaltato l’Istituto? E soprattutto perché i professori non stavano difendendo i loro alunni? Un’idea raccapricciante l’assalì senza preavviso: e se si fossero liberati prima degli adulti, per potersi poi dedicare con calma a dare la caccia ai ragazzi? Un’immagine estremamente vivida le si formò davanti agli occhi prima che Meredith la potesse scacciare: una porta sfondata, e un corpo esanime avvolto in lenzuola insanguinate...

“Ci siamo quasi.” sussurrò Jubilee. Girarono l’angolo, e videro una scena che fece loro ghiacciare il sangue nelle vene.

Un ragazzino di non più di dieci-undici anni si acquattava contro il muro, terrorizzato, il volto solcato dalle lacrime e le braccia sopra la testa. Su di lui troneggiava un soldato in pieno assetto da battaglia, la canna del fucile puntata contro la faccia del bambino.

“No!” urlò Meredith. Sentì una potentissima ondata di paura, rabbia e sdegno esploderle nello stomaco.

Il soldato, sorpreso dalla sua voce, si girò a guardarla. Fu un errore fatale.

Appena i suoi occhi incontrarono quelli di Meredith, la mano che stringeva il fucile si aprì mollemente e l’arma cadde a terra con clangore. Il soldato fece una piroetta di novanta gradi, si diresse contro il muro opposto a lui con passo di marcia e ci sbattè contro con violenza.

Meredith lo fece tornare indietro di qualche passo, e poi lo rimandò a sbattere contro la parete, stavolta con ancora maggior violenza della precedente. Vediamo se questo ti piace. Lo trovi divertente? Divertente come puntare un fucile in faccia ad un bambino?

Dalla bocca e dal naso del soldato cominciò a colare del sangue, e Meredith gli ordinò di nuovo di correre contro la parete. Non si sarebbe forse nemmeno accorta dei soldati che, richiamati dal suo grido, stavano accorrendo dal corridoio che era alle loro spalle, se Jubilee non l’avesse tirata per un braccio.

“Meredith, scappiamo!”

Il soldato cadde a terra come una bambola di stracci, la faccia coperta di sangue. Meredith si riscosse, e cominciò a correre.

“Scappa!” disse al bambino che se ne stava ancora seduto per terra e la guardava sbalordito. Lui annuì e semplicemente scomparve.

Tutto quello che Meredith riusciva a sentire in quel momento erano le voci dei soldati e i loro passi dietro di loro, sempre più vicini, sempre più vicini. Corse a perdifiato per il corridoio, quel corridoio che non avrebbe saputo dire quante volte aveva attraversato sbadigliando con i libri sottobraccio, e si lanciò giù per le scale.

In men che non si dica il suo piede toccò l’ultimo gradino e Meredith vide, alla fine del corridoio, la porta della biblioteca, la sua unica possibilità di salvezza. Era arrivata a circa cinque metri dalla porta quando una morsa d’acciaio le si avvolse intorno alla vita e la sollevò, trascinandola nell’ombra. Provò a urlare, ma una mano le chiuse la bocca.

E’ finita, pensò mentre lottava per divincolarsi. Sono morta. Non rivedrò mai più né John né Jubilee, né nessun altro...

“Shhh.” la voce di Logan le sussurrò nell’orecchio. “Non urlare, sono io.” Meredith smise immediatamente di lottare e Logan la mise a terra.

“Meredith.” John emerse dal buio e la prese tra le braccia, stringendola forte a sé. Lei lo strinse a sua volta, appoggiando il viso contro la sua spalla e lasciando che due lacrime di sollievo le solcassero le guance.

Quando sollevò la testa dalla spalla di John, vide che c’erano anche Marie e Bobby lì con loro.

“Jubilee.” disse Meredith, mentre l’angoscia e la paura le si riversavano di nuovo nell’animo. “Era proprio dietro di me, dobbiamo...”

“L’hanno presa.” disse Bobby, il suo volto triste e teso.

“Allora dobbiamo...”

“Non le faranno del male.” disse Logan. “Vogliono solo portarvi via, non vogliono uccidervi. Non possiamo fare più niente per Jubilee adesso.”

Meredith rimase in silenzio, troppo frastornata e sotto shock per poter fare o dire alcunché. Jubilee era stata catturata, l’avevano portata via chissà dove...

“La biblioteca è piena di soldati. Dobbiamo arrivare alla camera speciale.” continuò Logan indicando il corridoio dietro di loro, perpendicolare a quello che portava alla porta secondaria della biblioteca. “Dentro la camera c’è un passaggio che ci porterà lontano dalla villa. E’ tutto chiaro?”

I ragazzi annuirono. Meredith si sforzò di prestare attenzione a quello che Logan stava dicendo. Chiuse gli occhi, prese un bel respiro e poi annuì. Le braccia di John ancora la tenevano per la vita, ed era una sensazione rassicurante. Dovevano arrivare alla camera speciale, andare lontano da quegli uomini.

“Dobbiamo fare piano, almeno finché non saremo lontani dalla biblioteca. Bobby, in testa. Io chiudo il gruppo.” concluse Logan.

Si incamminarono, Bobby che avanzava cautamente, Marie poco dietro di lui, John e Meredith e infine Logan. Quando il corridoio ebbe fatto un paio di angoli, Logan disse: “D’accordo. Ora potete mettervi a correre.”

“O magari potete non farlo.” disse una voce gelida dietro di loro.

Si voltarono di scatto, Wolverine sfoderando gli artigli, John facendo scattare il suo accendino.

Un uomo corpulento, con la barba e un’uniforme grigia, stava in piedi nel centro del corridoio. Meredith sperò che la guardasse, ma l’uomo sembrava interessato solo a Logan.

“Sarebbe solo uno spreco di energie e di tempo, per tutti quanti noi. Sono sicuro che possiamo giungere ad un accordo onorevole. Non credi anche tu, James?” disse rivolgendo a Logan un sorriso gelido. Meredith pensò che era così che doveva sorridere una iena.

“Come... come sai...” iniziò Logan, scioccato.

“Oh, io so molte cose, James.” continuò la iena vestita di grigio. “Cose che anche tu vorresti sapere.” Fece una pausa e sorrise di nuovo. “Vuoi sentirle?”

Logan esitò, ma prima che potesse dire una parola, Bobby scattò in avanti e puntò i palmi dalle mani verso il soldato, e in pochi secondi uno spesso muro di ghiaccio tagliava in due il corridoio, loro da una parte e la iena dall’altra. Logan guardò prima il muro, poi Bobby, e per una frazione di secondo Meredith si aspettò che lo colpisse. Veloce come era apparsa, la strana espressione sul volto di Logan sparì.

“Ottimo lavoro, Bobby.” disse. Guardò Meredith e gli altri ragazzi. “Usciamo di qui, presto.”

****

Anche dopo essere usciti dal passaggio continuarono a correre attraverso i boschi, desiderosi di mettere un buon numero di chilometri tra loro e i militari.

Le prime luci dell’alba li colsero mentre attraversavano una foresta di abeti secolari, a pochi metri dalle rive di un lago. Logan si guardò attorno, si appoggiò ad un tronco e tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni.

“Possiamo riposarci un po’adesso.” disse.

Marie crollò a terra e si mise a piangere, e Bobby le si sedette accanto e le accarezzò le spalle ed i capelli, mormorandole parole di conforto. Meredith si sedette su una roccia che affiorava dal terreno e si prese la testa fra le mani, disperata.

John l’abbracciò e le fece appoggiare la testa sulla sua spalla. Meredith cominciò a piangere.

“Ehi.” le sussurrò John mentre la cullava dolcemente. “Ehi.”

Meredith alzò il volto e lo guardò. “Evie.” mormorò. “Le avevo detto che sarebbe stata al sicuro.”

John le accarezzò il viso e asciugò le sue lacrime. “Lo è.” disse con convinzione. “Non la troveranno mai.”

Rimasero così tutti e cinque, Bobby e Marie per terra, Meredith e John seduti sulla roccia e Logan che fumava in silenzio appoggiato all’albero. Indifferente alla loro paura e al loro dolore, la superficie del lago risplendeva al sole nascente, proiettando migliaia e migliaia di luci allegre e multicolori.

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E' la prima volta che scrivo un capitolo "d'azione" e sono un po' in ansia. Spero che non mi sia riuscito troppo confuso o monotono, e di essere riuscita a trasmettere il senso di pericolo e la paura che i personaggi provano. Fatemi sapere, ok?

Di nuovo grazie a lia per aver recensito! Un bacio a tutti e a presto con il capitolo 11.


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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


ItF12

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.


Salve a tutti! Ecco a voi il capitolo 12.

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“Sei sicuro che la tua famiglia non creerà problemi, Bobby?” disse Logan.

Stavano percorrendo un viale costeggiato da villette bianche in stile coloniale, tutte identiche le une alle altre, con il praticello ben curato davanti alla casa e il portico di legno. La classica periferia americana, pensò Meredith mentre si guardava attorno.

“Sicuro.” rispose Bobby che, tenendo per mano Marie, li stava guidando lungo il viale. “Gli ho telefonato dalla stazione, mia madre stava impazzendo dalla gioia. Ci stanno aspettando.”

Non sapendo cosa fare né dove andare, Bobby aveva proposto di rifugiarsi a casa dei suoi a Boston e decidere la prossima mossa una volta arrivati là. Dopo un attimo di esitazione, Logan aveva approvato il piano: avevano bisogno di un posto sicuro dove nascondersi finché non avessero saputo cosa fare, e Boston era sufficientemente lontano dall’Istituto.

“Quanto manca ancora?” chiese John, esausto. Camminavano da almeno un ora.

“E’ quella lì in fondo.” rispose Bobby, indicando una casa con grandi finestre ad arco e il porticato grigio pieno di piante in vaso.

“C’è solo una cosa.” aggiunse mentre imboccavano il vialetto d’ingresso. “Non gliel’ho detto.”

“Detto cosa?” domandò Marie.

Bobby si voltò e guardò Logan. “Che sono un mutante.”

“COSA?” gli chiese Logan, a metà tra lo scioccato e il furioso.

“Bobby, ma sei impazzito?” disse John. “Non hai visto quello che è successo a scuola? Che pensi che volesse quella gente?”

Marie sembrava altrettanto stupefatta. Meredith guardò Bobby e pensò che se non fosse stata così stanca l’avrebbe preso a sberle.

“Che dici, loro non sono così!” replicò Bobby. “Vedrete, quando spiegheremo cosa è successo loro capiranno subito e...”

“Andiamocene.” ordinò secco Logan.

Non fecero in tempo a voltarsi che la porta d’ingresso si aprì e apparve una donna.

“Bill! Tom!” chiamò rivolta a qualcuno che si trovava dentro la casa. “Sono arrivati!”

Poi uscì e andò incontro alle cinque persone che stavano in piedi, stravolte e spaventate, sul suo prato. Meredith e gli altri si scambiarono uno sguardo veloce: ormai era troppo tardi per tornare indietro.

“Bobby, tesoro!” disse abbracciando il figlio. “Come sono felice di vederti!”

“Mamma.” rispose lui, divincolandosi dalla stretta. “Questi sono i miei amici, e il professor Howlett, da...” si interruppe in cerca di una definizione. “...scuola.”

La signora Drake strinse la mano a Logan, che rispose con un orribile sorriso tirato, e poi guardò i compagni di suo figlio.

“Benvenuti, ragazzi.” disse con calore. Meredith pensò che assomigliava davvero moltissimo a Bobby. Entrambi avevano gli occhi chiari e i capelli castani, e un viso spigoloso addolcito da un’espressione mite.

“Vi prego, non rimanete sul prato.” continuò la mamma di Bobby con un sorriso, indicando la porta d’ingresso. “Andiamo in casa.”

Mormorando qualche parola di ringraziamento, Meredith, John e Marie, seguiti da Logan, salirono le scalinata del portico ed attraversarono la porta che la signora Drake, sempre tenendo per mano suo figlio, teneva spalancata per loro.

Si ritrovarono in un ingresso piccolo ma elegante, con le pareti rivestite di legno scuro tirate a lucido e numerosi quadri raffiguranti scene di caccia appesi ai muri. Un uomo dall’aspetto atletico nonostante qualche chilo di troppo e i capelli striati di grigio venne loro incontro da una delle stanze in fondo al corridoio, e strinse con calore la mano a Logan.

“William Drake.” si presentò. “Non credo ci siamo mai incontrati.”

“No, infatti.” rispose Logan, che sembrava aver riguadagnato il controllo di se stesso. “Sono James Howlett, uno dei professori di Bobby. Ci dispiace disturbare.”

“Oh, ma non è affatto un disturbo!” rispose la signora Drake. “Tom!” gridò rivolta alle scale. “Vieni a salutare tuo fratello!”

“Siamo molto, molto felici che siate passati a trovarci.” continuò il padre di Bobby. “Anche se non abbiamo capito molto bene come mai vi troviate a Boston.”

“Gita scolastica.” rispose secco Logan. Meredith pensò che fosse una scusa pessima, ma fortunatamente un ragazzino biondo sui quattordici anni scese le scale e si fermò a guardarli dal penultimo gradino, appoggiandosi alla ringhiera.

“Ehi tu!” gli disse Bobby andandogli incontro e scompigliandogli i capelli. Il ragazzo sorrise e diede un cinque al fratello. “Ciao Bobby.” disse.

“Ragazzi,” iniziò Bobby mettendo un braccio attorno alle spalle del fratello minore. “Questo è Tom, il mio fratellino, e questi ovviamente sono i miei genitori.”

Meredith, John e Marie risposero con un cenno di saluto. Il signore e la signora Drake sorrisero e si fecero avanti per stringere loro la mano.

“Lui è il mio amico John...” Bobby proseguì nelle presentazioni.

Il padre di Bobby annuì. “Bobby ci ha parlato di te.” disse con un sorriso mentre stringeva la mano di John.

“..lei è Meredith...”

“Piacere.” disse lei stringendo le mani che i genitori di Bobby le porgevano.

“...e lei è Marie.” Meredith notò che anche in quell’occasione disperata Marie non aveva scordato di indossare i guanti.

Il sorriso sul volto della signora Drake si allargò. “Oh, allora sei tu la famosa Marie!” escalmò. “Che piacere conoscerti, sei veramente...”

“Madeline.” la richiamò il marito.

“Mamma!” esclamò Bobby, imbarazzato. Sia lui che Marie erano arrossiti.

“Beh, volevo solo dire che sono felice di vedere questa Marie di cui parli sempre...”

“Mamma!”

“E’un piacere conoscervi.” disse il padre di Bobby, evidentemente tentando di sviare il discorso. “Gli amici di Bobby sono sempre i benvenuti.”

Meredith ebbe la spiacevole sensazione di essere osservata insistentemente, e si voltò in direzione delle scale, dove Tom era rimasto per tutto il tempo. Beh, non era esattamente il fatto che la guardasse a metterla a disagio, quanto piuttosto come la guardava e quale parte del suo corpo stesse fissando. Si rese conto di indossare solo una leggera maglietta di cotone e incrociò le braccia sul petto, imbarazzata. John si accorse del suo disagio e si voltò brevemente verso Tom, poi le mise un braccio attorno alle spalle con fare possessivo, come se volesse marcare il territorio.

“Avete fame?” chiese la signora Drake. “Volete mangiare qualcosa?”

“Se non vi dispiace, io avrei bisogno di usare il bagno.” disse timidamente Marie.

“Ma certo!” le sorrise la signora Drake. “Bobby, tesoro, perché non accompagni le ragazze di sopra, così possono rinfrescarsi un po’?”

Lui annuì e fece loro cenno di seguirlo su per le scale.

Meredith si voltò verso John. “A dopo.” gli sussurrò. Aveva voglia di baciarlo, ma non se la sentì di fronte a tutte quelle persone.

Mentre passava accanto a Tom, Meredith vide chiaramente che la seguiva con gli occhi, senza nessun pudore e senza tentare di nascondere quello che stava facendo. Poté sentire il suo sguardo fisso sul sedere mentre saliva le scale. E’ solo un ragazzino con gli ormoni in subbuglio, disse tra sé e sé. A quell’età spoglierebbero con gli occhi qualunque cosa non sia la Barbie della sorella. Ma c’era qualcosa di perverso nel modo in cui Tom Drake la fissava. Non come un quattordicenne, ma come un vecchio porco lascivo.

“Ecco.” disse Bobby tenendo aperta per lei e Marie la porta di una camera da letto piccola e pulita, ma dall’aspetto asettico e impersonale. “Questa è la stanza degli ospiti. Ha un bagno privato.” disse indicando una porta sulla parete di fronte al letto. “Sono sicuro che mia madre stia preparando il pranzo, ma fate con comodo, ok? Quando siete pronte, scendete.” concluse uscendo dalla stanza e chiudendo la porta dietro di sé.

Marie e Meredith si guardarono, lievemente in imbarazzo. Non avevano ancora avuto occasione di parlare degli eventi della notte precedente, e nessuna delle due sapeva se l’altra aveva voglia di discuterne.

“Vuoi andare prima tu?” chiese Meredith indicando la porta del bagno. Non era la cosa migliore da dire, ma decise di mantenersi sul concreto piuttosto che lanciarsi in discussioni impegnative.

Marie si sedette sul letto. “No, vai prima tu.” disse. “Non devo davvero usare il bagno. Volevo solo uscire da quella situazione imbarazzante.”

Le due ragazze scoppiarono a ridere. A pensarci bene, non era così divertente, ma era il primo pensiero vagamente allegro che avevano avuto nelle ultime dieci ore, e vi si aggrapparono con tutte le loro forze.

“I genitori di Bobby mi sembrano delle brave persone.” disse Meredith quando smise di ridere. “Mi domando perché non ha ancora detto loro di essere un mutante.”

Marie alzò le spalle. “Non lo so. Voglio dire, non ne abbiamo mai parlato esplicitamente, ma io davo per scontato che loro lo sapessero.”

Sentirono dei rumori provenire dal pianoterra, come se qualcuno stesse trascinando delle sedie sul pavimento.

“Credo che sia meglio che io vada a farmi la doccia.” disse Meredith. “O faremo tardi per pranzo.”

Entrò nel piccolo bagno e chiuse la porta alle sue spalle. Le pareti e il pavimento erano piastrellate con mattonelle bianche a fiori, e sul mobile di legno accanto al lavello erano deposti due grandi asciugamani puliti.

Meredith si spogliò e gettò a terra i vestiti che indossava, ma poi si rese conto con disgusto che avrebbe dovuto rimetterseli dopo la doccia. Doveva comprarsene di puliti, ma non aveva un soldo, e non le andava di rubare.
Avevano comprato i biglietti per Boston con i soldi che Meredith aveva sfilato, grazie alla telecinesi, dalla borsa di una signora. Era una questione di vita o di morte, di questo si rendeva perfettamente conto, ma il furto le aveva lasciato una spiacevole sensazione per tutto il viaggio. Rimpianse che Bobby non avesse una sorella che avrebbe potuto prestarle i vestiti.

L’acqua calda sulla pelle le sembrò una benedizione. Rimase a lungo con il viso sollevato verso il getto della doccia, lasciando che l’acqua le scorresse addosso, portando via con sé la stanchezza e la sporcizia.
Ripensò alla notte precedente, alle urla, a quegli uomini che li braccavano come se fossero selvaggina... Rivide Jubilee, sentiva i suoi passi riecheggiare dietro di lei mentre correvano nel corridoio, un attimo prima che sparisse inghiottita dal buio... Rivide il soldato con il fucile spianato, e il suo viso ridotto ad una maschera di sangue mentre giaceva a terra come una bambola rotta...

Prese lo shampoo e si sfregò la testa fino a farsi male, come se volesse grattare via dal suo cervello quelle immagini orribili. Poi si lavò con cura (bagnoschiuma alla lavanda, il suo preferito) e uscì dalla doccia, avvolgendosi in uno degli asciugamani accanto al lavello.

Si tamponò i capelli e si guardò attorno alla ricerca di un phon, ma non lo trovò. Non era poi un gran problema: in casa il riscaldamento era piuttosto alto, e avrebbe potuto aspettare dopo pranzo.
Con una smorfia di disgusto, raccolse i vestiti da terra e se li rimise, poi, dopo essersi strizzata i capelli un’ultima volta, uscì dal bagno.

Trovò Marie che piangeva sommessamente seduta sul letto, il viso tra le mani inguantate di bianco. Meredith si sedette al suo fianco, tenendosi però ad una certa distanza. Le lacrime la mettevano sempre un po’ a disagio.

“Marie...” chiamò piano. “Marie...”

Lei sollevò lo sguardo. “Ho baciato Bobby.” mormorò.

Meredith si ricordò quello che Marie le aveva detto in sala comune qualche mese prima, ed ebbe un brutto presentimento.

“E lui...” non ebbe il coraggio di finire la frase.

Marie scosse la testa con forza. “No, ma si è sentito male, stava per svenire...”

“Ma ora sta bene?”

Marie annuì.

“Lo vedi?” disse dolcemente Meredith accarezzandole la schiena. “Non è successo niente di grave.”

Di nuovo Marie scosse la testa. “Mi lascerà... Lo so che mi lascerà...” disse fra le lacrime.

“Non dire così, non lo farà. Bobby ti vuole bene.” la consolò Meredith.

Marie si asciugò gli occhi con il dorso della mano e poi sorrise. “Che scema che sono... Con tutti i problemi che abbiamo...” disse alzandosi.

Meredith la guardò. “Marie...”

Lei evitò di incrociare il suo sguardo. “Sto bene, sto bene. Un momento di debolezza....” Rise, una risata tesa e finta. “Ascolta, perché tu non... perché tu non scendi, intanto? Io mi faccio la doccia e ti raggiungo.”

“Sei sicura?” domandò Meredith.

Lei annuì con forzata allegria. “Sì, certo. A dopo.”

Meredith uscì in corridoio e scese le scale. Non sembrava esserci nessuno in giro. Arrivata nell’ingresso, si guardò attorno un po’ spaesata e attraverso una porta aperta vide John, di spalle all’entrata e assorto a contemplare qualcosa sulla mensola del camino. Entrò nella stanza e gli si avvicinò, ma lui era talmente preso dai suoi pensieri che non se ne accorse.

Quando fu proprio dietro di lui, lo prese per mano. “Ehi.” gli bisbigliò.

Lui si voltò. “Ehi.” Per un attimo, prima che lui le sorridesse, Meredith scorse un’espressione triste e risentita aleggiare sul viso del suo ragazzo.

Meredith vide che l’oggetto che aveva assorbito tanto l’attenzione di John erano una serie di cornici contenenti foto della famiglia Drake, tutte disposte in fila sul camino. Un Bobby di non più di quattro o cinque anni le sorrideva vestito da Uomo Ragno, e in un'altra cornice l’intera famiglia Drake era in posa sotto l’albero di Natale.

“Tutto bene?” chiese a John.

“Sì, tutto bene.” rispose lui.

Si tenevano vicini, i visi a pochi centimetri l’uno dall’altro. Meredith sentì la tranquillità che solitamente la coglieva quando stava con John lavare via parte dell’angoscia delle ultime ore. “Dove sono tutti?” chiese.

“Di là.” rispose John. “La mamma di Bobby ci sta preparando il pranzo.”

Meredith sorrise. “Andiamo?” propose. “Sto morendo di fame.”

“Anch’io.” replicò John restituendole il sorriso.

Nessuno dei due si mosse, non prima di essersi scambiati un bacio. Meredith sentì il respiro caldo di lui contro le labbra e le sue braccia che le cingevano la vita, e il suo sapore, e il calore della sua pelle sotto la maglietta, mentre faceva correre le mani lungo la sua schiena. Quando si staccarono, Meredith appoggiò la fronte contro quella di John e chiuse gli occhi, mentre le loro labbra si increspavano per scambiarsi un altro piccolo, leggero bacio.

Poi, sempre tenendosi per mano, si incamminarono verso la sala da pranzo.

Proprio mentre erano sulla porta, Tom Drake scese le scale e, senza dire una parola, si infilò nella stanza che si trovava dall’altro lato dell’ingresso. Mentre passava davanti a loro girò la testa e guardò Meredith, totalmente indifferente alla presenza di John.

Meredith sentì la stretta di lui farsi più forte. “Calmati.” gli disse.

“Se non fosse il fratello di Bobby gli avrei già spaccato la faccia.” ringhiò John.

“Lascia stare. Non ha importanza.”

“Quando salivi le scale ti ha...”

“E’solo uno stupido ragazzino eccitato. Non ne vale la pena.”

Entrarono nella stanza e si trovarono di fronte un lunga tavolo di legno, già imbandito e pronto per il pranzo. A quanto pare Meredith e John erano gli ultimi ad arrivare.

“Scusate il ritardo.” disse Meredith. “Non sapevamo che foste già tutti qui.”

“Non importa.” le sorrise il signor Drake. “Sedetevi pure, ragazzi.”

Meredith e John presero posto nelle ultime due sedie rimaste libere, uno di fronte all’altra.

La signora Drake servì da mangiare, e per un po’ i cinque fuggiaschi furono troppo impegnati a rifocillarsi per fare conversazione. Non toccavano cibo dalla sera precedente e ora che il pericolo immediato era passato le ore di digiuno si facevano sentire.

“Allora,” disse dopo qualche minuto il padre di Bobby. “non ci avete ancora detto che siete venuti a fare a Boston.”

Logan, Bobby, Marie, Meredith e John smisero di mangiare e si guardarono l’un l’altro, preoccupati.

“Siete qui per visitare il MIT, o per vedere i luoghi della Rivoluzione?” continuò con un sorriso bonario il padre di Bobby. Si rivolse a Logan. “Lei insegna scienze o storia?”

“Educazione fisica.” rispose Logan, e il signor Drake sembrò perplesso.

“A dire la verità, papà,” disse Bobby. “siamo qui perché abbiamo avuto dei problemi a scuola.”

“Bobby...” lo richiamò Logan. Lui lo ignorò.

“Problemi? Che genere di problemi?” chiese la signora Drake con un tono preoccupato.

“Ieri notte c’è stato un attacco.” rispose Bobby. “L’esercito, o così sembra. Hanno portato via molti di noi.”

La madre di Bobby si coprì la bocca con le mani. “Cosa?” domandò il signor Drake, sbalordito. “Perché mai l’esercito dovrebbe fare incursione in un collegio?”

“L’Istituto Xavier per Giovani Dotati non è un semplice collegio.” rispose Bobby pacato.

Ormai era fatta. Meredith pregò la che la famiglia di Bobby fosse così comprensiva come sembrava.

“Non capisco.” disse la signora Drake. “Bobby, ma che...”

“Mamma, io sono un mutante.” disse. Indicò i suoi compagni. “Tutti noi lo siamo. L’Istituto accoglie i ragazzi con abilità speciali e insegna loro ad utilizzare i loro poteri.”

Ci fu un silenzio di tomba che durò qualche secondo, finché non fu interrotto da una risatina.

“Vuoi dire che sei un fottuto fenomeno da baraccone?” chiese Tom Drake rivolto a suo fratello. Bobby impallidì.

“Tom!” ruggì il signor Drake.

“Ma…”

“Zitto!”

Seguì altro silenzio.

“Hai...” iniziò la signora Drake con la voce che le tremava. “hai provato a non essere un mutante, Bobby?”

“Come?” chiese lui, sbalordito.

“Voglio solo dire che magari ti sei convinto di esserlo, e...”

Bobby la guardò come se si trovasse di fronte un’estranea. “Ti vengo a dire che l’esercito ha cercato di ucciderci, e tutto quello che sai chiedermi e se ho provato a non essere un mutante?”

“No, non è questo!” si affrettò a spiegare la signora Drake. “Pensavo solo che forse...”

“Perché l’esercito vi ha attaccato?” la interruppe il signor Drake rivolgendosi a Logan.

“Onestamente non glielo so dire.” rispose lui.

“E gli altri professori? E gli altri ragazzi?”

“Non so nemmeno questo. O sono in fuga, come noi, oppure sono stati catturati.”

“Magari potremmo farci dei soldi con te, Bobby.” intervenne Tom.

“Ti avevo avvisato!” gli urlò il padre. “Va’ in camera tua, subito!”

Tom si alzò, sbattè la sedia contro il tavolo e si avviò a grandi passi fuori dalla stanza. Meredith lo sentì salire le scale.

“Ci deve pur essere una ragione per cui l’esercito vi ha attaccati.” disse con calma il signor Drake.

I cinque fuggiaschi si voltarono a guardarlo.

“Papà...” mormorò Bobby, incredulo.

“Sta dicendo che ce la siamo voluta noi?” gli chiese Logan, il suo tono basso e diffidente.

“No. Sto solo dicendo che di solito l’esercito non attacca le scuole.” rispose il padre di Bobby. “Qualche motivo ci dovrà pur essere.”

“Non riesco a credere che vi stiate comportando così.” disse Bobby, guardando prima sua padre e poi sua madre. “Ho portato i miei amici qui perché ero convinto che saremmo stati al sicuro.”

“Infatti!” saltò su la signora Drake. “Solo che è stato un tale shock...”

Bobby si alzò in piedi, indignato. “Ve ne libereremo presto, state tranquilli. Dateci solo mezz’ora per organizzarci e ce ne andiamo.”

“Sai bene che non è necessario, Bobby!” gli rispose suo padre.

“Io credo di sì, invece.” rispose lui mentre se ne andava dalla stanza. Dopo un attimo di esitazione, Marie gli corse dietro.

I genitori di Bobby rimasero seduti ai loro posti, il volto cinereo e gli occhi bassi. La signora Drake stritolava nervosamente un fazzolettino di carta tra le mani, e sembrava sul punto di scoppiare e piangere.

Logan, Meredith e John si guardarono l’un l’altro, profondamente imbarazzati. Poi Logan si alzò in piedi.

“Dobbiamo organizzarci per partire.” disse rivolto al signor Drake. Anche se si sforzava di mantenere il tono calmo e neutrale, Meredith potè sentire una nota di disprezzo e di risentimento nella sua voce.

“Potete restare, professore.” rispose lui.

Logan scosse la testa. “No, dobbiamo continuare a muoverci se non vogliamo che ci rintracciano. Meredith, John.” chiamò. I due ragazzi scattarono in piedi. “Andiamo a parlare con Marie e Bobby.”

Fu un vero sollievo potersi allontanare dalla sala da pranzo. Mentre uscivano, Meredith sentì la signora Drake che iniziava a singhiozzare.

Entrarono in soggiorno, la stanza dove Meredith aveva trovato John quando era scesa dalle scale. Bobby era appoggiato al camino, lo sguardo basso a fissare il pavimento. Marie era accanto a lui, le braccia incrociate sul petto e uno sguardo preoccupato negli occhi. Quando sentì i suoi compagni che si avvicinavano, Bobby alzò il volto e li guardò, con un’espressione insieme infuriata e mortificata.

“Mi dispiace.” iniziò. Aveva gli occhi pieni di lacrime. “Pensavo che avrebbero capito.... Che fossero diversi...”

“Bobby...” disse Marie, anche lei sull’orlo del pianto. Fece per allungare una mano e accarezzargli il viso, ma poi si ritrasse.

Lui le prese la mano e la baciò, poi attirò a sé Marie e la strinse, appoggiando il viso contro i suoi capelli. Lei si mise a piangere. “Mi dispiace avervi portati qui. E’ stato inutile.” mormorò Bobby guardando i suoi compagni.

“Non pensarci, Bobby.” lo rassicurò Meredith. “Non è colpa tua.”

“Sì. Ormai quel che è fatto e fatto.” disse amaramente Logan.

Ci fu un attimo di silenzio, in cui Marie smise di piangere e alzò la testa dalla spalla di Bobby.

“Che si fa adesso?” chiese con la voce ancora tremante.

“Ce ne andiamo.” rispose semplicemente Logan.

“Per dove?” gli chiese John, evidentemente poco convinto della validità del piano.

“Intanto cominciamo ad uscire, poi ci pensiamo.”

John sembrava voler obiettare, ma dal tono con cui Logan aveva pronunciato quella frase era chiaro che non avrebbe accettato discussioni.

“Ehm, Bobby...” iniziò Meredith. “Mi rendo conto che è il momento sbagliato, ma avrei bisogno di un phon...”

Bobby la guardò per un attimo spaesato, come se non riuscisse proprio ad afferrare le sue parole.

“Ah sì, certo.” disse dopo qualche istante. “Vai di sopra, c’è un bagno alla fine del corridoio. Il phon è nell’armadietto sotto il lavandino.”

Meredith si voltò. “Farò in fretta.” disse rivolta a John e a Logan.

Uscì nell’ingresso e si arrampicò su per le scale. Fu contenta di non incrociare nessuno: sarebbe stato molto, molto imbarazzante ora trovarsi di fronte uno dei familiari di Bobby.

Trovò il bagno in fondo al corridoio e si inginocchiò di fronte al lavandino, cercando il phon. Appena lo ebbe trovato, inserì la spina nella presa e cominciò ad asciugarsi i capelli senza nemmeno chiudere la porta. I suoi capelli erano solo umidi ormai: sarebbe stata una questione di qualche minuto asciugarli, e lei desiderava andarsene più in fretta che poteva da quella casa.

Povero Bobby, pensò Meredith, e per un breve istante le tornarono in mente tutte le famiglie che l’avevano abbandonata, tutti quelli che erano fuggiti da lei perchè era una mutante. Chi dà loro il diritto di guardarci dall’alto in basso? Chi dà loro il diritto di credersi meglio di noi? si chiese con rabbia.

Si guardò in giro in cerca di una spazzola, e, sentendosi un po’ in colpa, frugò in uno dei cassetti. Quando rialzò la testa, vide che Tom Drake era sulla porta e stava guardando la sua immagine riflessa nello specchio.

Aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo sguardo lui che aveva negli occhi la bloccò. Si rese conto che le faceva paura.

“Allora, sei anche tu un fenomeno come Bobby?” le chiese Tom, mentre un orribile sorriso gli piegava gli angoli della bocca.

Lei distolse lo sguardo e cominciò a passarsi la spazzola tra i capelli.

“Non te l’hanno mai detto che non si spia una ragazza mentre è in bagno?” rispose lei, cercando di nascondere la rabbia nella sua voce.

L’espressione di Tom si indurì immediatamente. “Questa è casa mia.” le ringhiò contro.

Meredith decise di ignorarlo e rimise la spazzola nel suo cassetto. Prima che potesse rendersene conto, lui le fu addosso, stringendole un seno con la mano sinistra e premendole le labbra contro il collo.

“Ti va di scopare?” le mormorò contro la pelle, bagnandola con la sua saliva.

Disgustata, Meredith si divincolò e cercò di mollargli un ceffone, ma dato la posizione in cui si trovava riuscì solo a spingergli via la testa, colpendolo con la mano aperta proprio sugli occhi.

Improvvisamente, una serie di immagini estremamente vivide fecero irruzione nel suo cervello, e una scena si formò davanti ai suoi occhi, chiara e nitida come se stesse avvenendo in quel preciso momento.

Vide una camera da letto che si affacciava su un prato, al primo piano di una casa. La scrivania era in disordine, così come il pavimento, e il letto era sfatto. Alle pareti erano appese immagini di campioni dell’NFL e anche qualche foto ritagliata da delle riviste, raffiguranti per lo più ragazze in bikini e surfisti abbronzati intenti a scivolare sulle onde.

Tom Drake era seduto sul letto e giocherellava distrattamente con uno yo-yo. Teneva incastrato tra la spalla e l’orecchio un telefono cellulare.

“911, qual è la sua emergenza?” disse una voce nel telefono.

“Mi chiamo Thomas Drake. Ci sono dei mutanti in casa mia.” Fece rimbalzare svogliatamente lo yo-yo. “Sembrano pericolosi.”

“Mantenga la calma. Quanti sono?”

“Cinque.”

“Manderemo una pattuglia il più presto possibile. Mi dia l’indirizzo.”

“131 Belmond Road. Mandate più di una pattuglia.”

Meredith tirò via la mano dagli occhi di Tom come se l’avesse bruciata, e lui indietreggiò di qualche passo, barcollando.

Meredith sentiva il proprio cuore batterle nel petto impazzito. Quelle immagini erano così vivide, reali... Era davvero successo quello che pensava fosse successo? Era davvero riuscita a leggere nel pensiero di Tom, quando gli aveva messo la mano sugli occhi?

“Che cosa mi hai fatto, puttana schifosa?”

L’urlo di Tom la riportò alla realtà. Stava arrivando la polizia... Dovevano andarsene subito...

Con una spintone, buttò a terra il ragazzino e corse nel corridoio e giù per le scale. Logan, Bobby, Marie e John, che la stavano aspettando davanti la porta d’ingresso, alzarono lo sguardo quando la sentirono arrivare di corsa.

“Dobbiamo andare.” disse loro Meredith, senza fiato. L’angoscia che l’aveva abbandonata nelle ultime ore tornò a investirla con tutta la sua forza. “Tom ha chiamato la polizia.”

Bobby la guardò incredulo. “Non...”

Meredith afferrò la mano di John. “E’ così, stanno arrivando!” La paura e la disperazione la facevano gridare senza che lei se ne rendesse conto. “Dobbiamo andarcene subito!”

Il viso di Logan era cinereo. “Fuori. Ora.” disse mentre apriva la porta.

Appena si lanciarono sul portico, cinque auto della polizia si fermarono sgommando davanti alla casa, a sirene spiegate. Le portiere si aprirono e almeno dieci poliziotti scesero a terra, puntando loro contro le pistole.

“Alzate le mani e sdraiatevi a terra!” urlò un poliziotto.

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Allora, piaciuto il cliffhanger finale? Sì, lo so che non è poi 'sta gran cosa per chi ha già visto il film... Ma datemi qualche soddisfazione...

Marie mi stà riuscendo un po' troppo piagnucolosa, poverina. Giuro, non era il mio intento, a me Rogue piace moltissimo! Ho solo la sensazione che se dovesse capitare a me, di non poter sfiorare nessuno per paura di fargli del male, credo che non farei altro che stare chiusa nella mia stanza a piangere anche gli occhi. Spero che tutti i fan di Rogue là fuori possano capire le mie buone intenzioni e mi possano scusare.

Saluto tutti quanti (un abbraccio speciale va a Star_Dust_Daga, Gertie e Lia, le mie affezionate lettrici), e vi aspetto presto con il capitolo 13!

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


ItF13

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Anche in questo capitolo prosegue a grandi linee la trama che appare già in X Men 2, quindi se lo avete già visto sapete già, mutatis mutandis (giuro che non l'ho fatto apposta!!), quello che succederà. Se invece, come la sottoscritta, ancora non avete avuto occasione di vedere il film, e non volete rovinarvi la sorpresa, allora vi consiglierei di girare al largo. Non ho ritenuto necessario mettere l'avvertimento spoiler perchè si tratta di un film uscito ben quattro anni fa, ma capisco che a qualcuno possa dare fastidio.

Buona lettura e buon divertimento!

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Meredith strinse più forte la mano di John, disperata e terrorizzata.

Era finita. La polizia li teneva sotto tiro, ora non potevano più scappare. Li avrebbero catturati e sicuramente li avrebbero consegnati a quegli uomini, a quei militari, e chissà cosa avrebbe fatto loro la iena con l’uniforme grigia...

“Mani in alto e faccia a terra, ora!” ripeté il poliziotto.

“Questi sono ragazzini.” Logan li indicò allargando le braccia, in un gesto allo stesso tempo incredulo e protettivo. “Non c’è bisogno di tutte quelle armi.”

“Questo è l’ultimo avvertimento!” gli urlò il poliziotto di rimando.

Logan fece un passo avanti. “Non vogliamo...”

Si sentì un colpo di pistola, e Meredith e Marie gridarono. Logan barcollò indietro e si portò una mano alla testa. Con orrore, Meredith vide un rivolo di sangue gocciolargli giù dal mento, prima che la ferita che aveva sulla tempia si autorimarginasse.

Era talmente spaventata da non accorgersi immediatamente che la mano di John era scivolata via dalla sua e che il suo Zippo era scattato.

“Avete presente quei mutanti cattivi di cui parlano tutti?” Meredith non riconobbe la voce che aveva parlato. “Io sono uno di loro.”

Accadde tutto in un secondo. Meredith fu spinta con violenza indietro, contro la porta, poi ci fu una fiammata e una delle auto della polizia saltò in aria con un boato che scosse l’intero quartiere.

Ci furono altre urla, e poi un’altra auto esplose, investita da una valanga di fuoco. I poliziotti cominciarono a scappare in cerca di riparo, troppo preoccupati per la loro incolumità per continuare ad occuparsi delle persone sotto il portico.

“John, adesso basta!” urlò Logan.

John lo ignorò. Meredith guardò il suo volto: era distaccato, e, nonostante la furia che deformava i suoi tratti, incredibilmente calmo e risoluto, come se quello che stava accadendo in quel momento fosse stato in preparazione per anni e anni, la naturale e prevedibile conseguenza di una reazione a catena, che non poteva in alcun modo essere evitata.

Come l’eruzione di un vulcano, pensò Meredith.

“John, no!” gridò Bobby, proprio mentre John si girava verso una terza auto. Ignorando anche il suo migliore amico, John puntò la mano verso la volante e in un secondo l’auto fu avvolta dalle fiamme. Il serbatoio esplose, proiettando verso il cielo una pioggia di frammenti di ferro e di schegge di vetro.

Perfino dal portico, a circa dieci metri di distanza, Meredith riusciva a sentire il calore degli incendi sulla pelle. Un fumo nero e denso si levava dalle carcasse delle auto in fiamme, e il puzzo della benzina e della plastica bruciata era quasi insopportabile.

“John!” chiamò Meredith.

Lui non rispose. Con la stessa espressione di gelida ira John puntò una quarta auto.

In quel momento Marie si tolse i guanti, corse verso John e gli prese il viso tra le mani. Per una frazione di secondo lui la guardò sorpreso, poi i suoi occhi rotearono verso l’alto e svenne. Marie lo lasciò andare e Logan lo afferrò al volo, deponendolo sulle assi di legno del portico.

“No!” urlò Meredith gettandosi in avanti. Troppo disperata per rendersi conto di quello che faceva, spinse via Logan e si inginocchiò accanto a John.

“John, John, amore, ti prego, svegliati...” mormorò con la voce rotta dal pianto mentre lo scuoteva delicatamente, cercando di fargli riprendere conoscenza. “Ti prego, ti prego amore mio, svegliati...” ripeté ancora e ancora, ma lui non aprì gli occhi.

Impietrita dal dolore, nemmeno si accorse dell’improvviso vento che si era levato, e solo una piccola parte del suo cervello registrò un rumore che si avvicinava, forte, sempre più forte, come la turbina di un aereo. Il suo John non apriva gli occhi, non le rispondeva, e che il mondo esplodesse in mille pezzettini o si schiantasse contro il sole la lasciava totalmente indifferente. Che le importava di tutto, se lui...

“Lascialo, Meredith, lo portiamo io e Logan.” le disse con dolcezza Bobby mentre sollevava il corpo di John. Meredith lo guardò senza capire quello che le diceva.

“Sono venuti a prenderci.” disse Logan indicando un punto sulla strada. “John starà bene. Corri!”

Solo in quel momento Meredith si accorse che l’X-Jet era fermo a mezz’aria davanti alle auto incendiate, nero e affusolato come un enorme uccello rapace, con il portellone posteriore abbassato. Le figure di due donne, una con lunghi capelli rossi e l’altra con i capelli candidi tagliati all’altezza delle spalle si stagliavano contro le fiamme.

Seguendo Bobby e Logan che trasportavano il corpo di John, si fece strada tra i detriti e raggiunse il jet. Non appena furono tutti a bordo, il portellone si chiuse dietro di loro e Meredith potè sentire l’aereo riprendere lentamente quota.

“Cosa gli è successo?” chiese la professoressa Munroe avvicinandosi a John e mettendogli una mano sulla fronte.

“Marie lo ha toccato.” rispose Logan guardando la dottoressa Grey.

Lei annuì. “Portalo di là.” disse rivolta a Logan, e lui si avviò, tenendo John tra le braccia, verso l’interno del jet.

Per un secondo lo sguardo di Jean Grey incrociò quello di Meredith, poi, insieme alla professoressa Munroe, sparì dietro a Logan.

“Che diavolo ti è preso?” urlò Meredith in direzione di Marie, che la guardò ammutolita, evidentemente stupita dalla violenza della sua rabbia. “Volevi ucciderlo?”

“Meredith, datti una calmata.” intervenne Bobby.

“Nessuno ti ha chiesto niente, Bobby.” Non riusciva a controllarsi. Era troppo angosciata e troppo furiosa per farlo.

“Mi dispiace, Meredith, ma lo hai visto anche tu!” si difese Marie. “Aveva completamente perso il controllo!”

“Aveva paura! Era terrorizzato da quelle persone, dopo quello che è successo a scuola!” le urlò Meredith. “Ma si può sapere da che parte stai?”

Marie la guardò a bocca aperta. “Ma che dici? Guarda che siamo tutti dalla stessa parte!”

“Senti, lasciamo stare.” tagliò corto Meredith. Rimpiangeva di essersi lanciata in recriminazioni proprio in quel momento, aveva fretta di andare da John e loro le stavano facendo perdere tempo prezioso. “Hai fatto quello che pensavi fosse giusto nel momento in cui l’hai pensato. Vorrei solo che ammettessi che era una cazzata.”

“Ti ho già detto di non parlarle così!” le urlò Bobby.

“E io ti ho già detto di starne fuori, Bobby! Questi non sono affari tuoi!”

“Non sono affari miei?” ripeté lui, incredulo. “Certo che sono affari miei! Lei è la mia ragazza e John è il mio migliore amico!”

“Senti, ma che altro potevamo fare?” disse Marie. “Credi che mi sia piaciuto? Ho dovuto farlo! Non ho avuto scelta!”

Una risata di scherno eruppe dalle labbra di Meredith prima che lei avesse il tempo di bloccarla.

“Tu non hai idea di che significhi non avere scelta.” disse mentre voltava le spalle a Bobby e Marie e si incamminava verso l’interno del jet, preoccupata solo di trovare John.

I suoi passi riecheggiavano sul pavimento di acciaio mentre esplorava l’aereo, stranamente senza incontrare anima viva. Presumibilmente si trovavano tutti nella cabina di pilotaggio o in qualche altro posto tranquillo dove discutere dei recenti avvenimenti. Di questo Meredith si sarebbe interessata dopo; ora l’unica cosa a cui riusciva a pensare era di trovare qualcuno che la portasse dal suo ragazzo. Finalmente, dopo aver girato un angolo, si trovò faccia a faccia con la professoressa Munroe.

“Dov’è?” domandò. Non le importava nulla di sembrare scortese.

“Quarta porta a sinistra. Meredith...”

Lei la ignorò e cominciò a correre nel corridoio finché non trovò la porta che le aveva indicato la professoressa. Tremando per l’angoscia spinse il portellone ed entrò.

Era una stanzetta con le pareti e il pavimento di metallo, con un lettino d’acciaio nel centro e alcuni armadietti con le ante di vetro, contenenti medicinali e attrezzature mediche di vario tipo, imbullonati al pavimento. Appoggiato alla parete in fondo c’era un letto a castello, e nella cuccetta più bassa giaceva John.

Meredith corse da lui e si inginocchiò accanto al letto. Si chinò su di lui per sentirne il respiro, poi gli passò una mano tra i capelli e gli toccò la fronte. La pelle era fredda e appiccicosa.

“John.” lo chiamò dolcemente.

Lui non rispose, ma le sembrò di vedere gli occhi muoversi sotto le palpebre, come succede spesso quando si sogna. Sembrava profondamente addormentato.

Accarezzandogli i capelli, si chinò su John per baciarlo sulla bocca. Fu un dolore per Meredith sentire che le sue labbra erano fredde e non rispondevano al bacio.

In quel momento la porta si aprì e Jean Grey entrò nell’infermeria. Quando scorse Meredith non le disse nulla, ma si diresse verso un armadietto e cominciò a trafficare con i medicinali.
Meredith si chiese se avrebbe dovuto parlare, ma poi decise che non era necessario e tornò ad occuparsi di John. Mentre gli accarezzava il viso, però, le sembrò di sentire gli occhi della Grey puntati addosso. Dopo aver ignorato quella sensazione per qualche minuto, si voltò per affrontarla.

La dottoressa stava ancora trafficando con le medicine, e sembrava non aver fatto altro per tutto il tempo.

“Si è solo difeso.” le disse Meredith, e la sua voce la stupì per quanto era roca. Non avrebbe potuto spiegare perché parlò. Forse aveva solo bisogno di dirlo a voce alta.

La dottoressa Grey alzò gli occhi e la guardò. “Io non ho aperto bocca, Meredith.” le rispose con il suo tono calmo e controllato.

“Il giorno in cui ci siamo conosciute lei mi ha detto che a volte la forza è necessaria.” continuò Meredith.

Ci fu una pausa.

“Ed è per questo che urlavi in quel modo contro Bobby e Marie?” chiese infine la dottoressa.

Meredith sentì le guancie avvampare come se l’avesse appena presa a schiaffi.

“La forza impiegata deve essere proporzionata alla minaccia, Meredith.”

“Lo era.”

La dottoressa Grey la guardò. “Stai parlando di te o di John?”

Prima che Meredith potesse pensare ad una risposta, l’aereo ebbe un violento sobbalzo, come se avesse incontrato un grosso vuoto d’aria. La dottoressa Grey dovette aggrapparsi al lettino per mantenessi in equilibrio, e un armadietto si spalancò, rovesciando a terra parte dei flaconi che conteneva.

Meredith si aggrappò istintivamente al letto a castello, anche se lei, essendo già in ginocchio, non rischiava di cadere. Guardò Jean Grey, ma la dottoressa sembrava spaventata e confusa quanto lei.

“Cosa...” iniziò Meredith.

In quel momento il jet ebbe un altro sobbalzo, ancora più violento del primo, e per un secondo le luci si abbassarono lasciando la stanza nel buio. La dottoressa Grey, che questa volta era quasi caduta in ginocchio, si rialzò e si diresse di corsa fuori dalla stanza.

“Rimani qui.” ordinò a Meredith mentre attraversava la porta.

Lei si guardò attorno freneticamente, mentre la paura cominciava a montarle dentro. L’X-Jet era una leggenda per i ragazzi della scuola: le sembrava altamente improbabile che le luci si spegnessero per un semplice vuoto d’aria. Si chiese cosa diavolo stesse succedendo: anche la dottoressa Grey le era sembrata seriamente preoccupata. Aveva quasi deciso di disobbedirle e andare a vedere se trovava qualcuno a cui chiedere spiegazioni, quando l’aereo fece uno scarto violento sulla destra e Meredith dovette afferrare con tutta la forza che aveva una delle sbarre d’acciaio che costituivano la struttura del letto a castello per non essere lanciata contro la parete. Molti altri armadietti si aprirono gettando sul pavimento il loro contenuto, che si sparpagliò per la stanza.

L’aereo fece un altro scarto, e poi un altro ancora. Era come se... Come se cercassimo di seminare qualcosa, pensò Meredith mentre la paura le pugnalava il cuore con una lama di ghiaccio. O qualcuno.

Poi, prima che il suo cervello avesse il tempo di formulare un altro pensiero coerente, ci fu un esplosione sotto di loro, e l’intero jet fu percorso dalla violenta onda d’urto. Le ante aperte degli armadietti sbatterono e il vetro di cui erano costituite si frantumò in mille pezzi, ricoprendo il pavimento di schegge taglienti. Meredith si buttò sul corpo di John e premette il viso contro il suo petto, terrorizzata. Le luci si spensero di colpo e una sirena cominciò a suonare, e Meredith sentì il cuore in gola e lo stomaco risalirle lungo l’esofago mentre l’aereo perdeva velocemente quota e precipitava, e tutto attorno a lei si frantumava e crollava, e il jet continuava a cadere, a cadere...

Poi, con un improvviso sobbalzo, l’X-Jet smise di precipitare e le luci si riaccesero come se nulla fosse accaduto. Meredith, che ormai si aspettava di sentire l’impatto con il suolo da un momento all’altro, rialzò di scatto la testa dal petto di John e si guardò in giro perplessa. L’infermeria era un disastro, il pavimento ricoperto da schegge di vetro e dai medicinali che si erano riversati dagli armadietti. Decise di uscire ed andare a vedere cosa succedeva.

“Mmm...” John si mosse nel suo letto, e Meredith lo guardò attentamente, speranzosa e in ansia.

“John...” lo chiamò, e lui girò la testa verso di lei e aprì gli occhi, o almeno ci provò.

“Ciao...” gli sorrise Meredith, piangendo contemporaneamente per il sollievo. Si sentì una scema; sicuramente non doveva sembrare molto intelligente. “Finalmente, era ora...” gli disse mentre si chinava a baciarlo. Questa volta, seppur debolmente, John rispose al bacio.

“Meredith... cosa...” tentò di chiedere lui quando si staccarono.

Lei si rese conto di non avere la più pallida idea di quello che era successo. “Siamo sull’X-Jet, e credo che stessimo precipitando... ma adesso... beh, adesso non precipitiamo più.” balbettò, rendendosi conto mentre parlava che quello che stava dicendo era totalmente incoerente.

John richiuse brevemente gli occhi, come se lo sforzo che aveva fatto ascoltandola fosse troppo per lo stato di debolezza in cui si trovava. Meredith gli accarezzò i capelli e lui riaprì gli occhi, alzando stancamente la mano destra come se volesse accarezzarle il viso. Meredith gli prese la mano tra le sue e se la portò alle labbra, baciandone più volte il palmo con devozione. Calde lacrime di paura mischiata a sollievo ricominciarono a solcarle il viso.

“Basta piangere.” l’ammonì John, tentando debolmente di accarezzarle una guancia.

Lei si asciugò rapidamente gli occhi e sorrise. “Non sto piangendo.” mentì.

“Che pessima bugiarda sei.” disse John, e Meredith rise.

“Vedo che ti riprendi in fretta.” gli rispose accarezzandogli la fronte. “Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?”

Lui scosse la testa con un espressione di disgusto. “No, mi viene da vomitare.” Sembrava di nuovo esausto. “Ma sto morendo di sete.”

Meredith gli diede un altro bacio sulle labbra. “Vado a prenderti qualcosa da bere.” gli disse mentre si alzava. “E dirò alla dottoressa Grey che sei sveglio.”

“No, la Grey no.” protestò John mentre Meredith apriva la porta dell’infermeria.

“Non fare il bambino, John Allerdyce.” lo rimproverò lei con un sorriso. Decisamente John si riprendeva in fretta.

Quando la porta dell’infermeria si richiuse dietro di lei e si ritrovò in corridoio, Meredith si rese conto di non avere la più pallida idea di dove trovare un bicchiere d’acqua. Guardò prima a destra e poi a sinistra, quindi decise che una direzione valeva l’altra: in fondo si trattava pur sempre di un aereo, per quanto grande, e prima o poi doveva per forza incontrare qualcuno.

Scelse di andare verso destra. Mentre camminava si accorse che i motori non erano più in funzione e che l’X-Jet non era più in volo. Sicuramente la sosta aveva a che fare con gli strani avvenimenti di poco prima. Stavano precipitando, di questo era sicura, e a giudicare da quanto era stata lunga la caduta avrebbero dovuto impattare al suolo con una violenza immane. Invece non era successo niente: era come se l’aereo si fosse fermato a mezz’aria. Come se qualcosa lo avesse afferrato al volo e gli avesse impedito di schiantarsi.

Improvvisamente sentì la voce di Logan e Meredith si diresse verso quel suono; dopo aver girato un angolo, vide che una porta era aperta e la luce che proveniva dall’interno della stanza si proiettava nel corridoio buio.

Si avvicinò: la porta era aperta a metà, e Meredith potè vedere solo alcune delle persone presenti nella stanza. Sentiva la voce della professoressa Munroe, anche se non riusciva a scorgerla; Logan era di spalle di fronte alla porta, e alla sua sinistra Meredith riconobbe, con un tuffo al cuore, due persone che non aveva mai incontrato prima, anche se sapeva perfettamente chi fossero. Rimase ferma davanti alla porta, pietrificata, mentre guardava Magneto e Mistica, i famosi e temuti capi della Confraternita dei Mutanti, lui in un elegante vestito di panno nero, lei con la pelle blu scuro e i capelli rosso fuoco, impegnati in conversazione con i suoi professori a pochi metri da lei. Professori che, per quanto ne sapeva Meredith, erano nemici giurati dei suddetti capi della suddetta Confraternita.

Mentre Meredith era impegnata con questi pensieri, Magneto si voltò, la vide e, con sua grande sorpresa, le sorrise. Impaurita, come se fosse stata appena scoperta a fare qualcosa di immorale, Meredith si riscosse e si allontanò in fretta da quella stanza.

Provava una strana inquietudine mentre ripensava al modo in cui Magneto le aveva sorriso. Era un sorriso gentile, lo stesso genere di sorriso che ti aspetti di vedere sul volto di un nonno amorevole mentre gioca con i suoi nipotini. Per un istante, le era sembrato di desiderare che lui le sorridesse ancora in quel modo.

****

Meredith si rigirò nella sua branda, incapace di prendere sonno. Marie giaceva nel lettino di fronte al suo, il viso rivolto alla parete d’acciaio della loro cabina all’interno dell’X-Jet, dormendo o fingendo di dormire.

Per tutta la sera Meredith aveva ignorato la coppia di fidanzati, e Bobby e Marie avevano ignorato lei. Mentre la dottoressa Grey spiegava loro quello che era successo alla scuola e quello che stava per succedere, i tre ragazzi avevano evitato di incrociare gli sguardi e si erano concentrati al massimo sulle parole della Grey.

Meredith pensò che raramente aveva sentito un racconto più raccapricciante di quello. La iena si chiamava Stryker, e a quanto pare era un colonnello dell’esercito con la sacra missione di sterminare i tutti i mutanti esistenti sulla faccia della terra. Come? aveva chiesto Bobby. Jean Grey si era mantenuta sul vago, ma aveva detto che grazie all’incursione nella scuola Stryker aveva raccolto abbastanza informazioni da creare una macchina distruggi-mutante chiamata Cerebro II, ed intendeva utilizzarla al più presto. Dove stiamo andando? aveva domandato Marie. Abbiamo scoperto che la sua base operativa si trova all’interno della diga ad Alkali Lake, aveva risposto la dottoressa, perciò si va là per fermarlo.

Finita la spiegazione, Bobby e Marie erano scomparsi e Meredith era tornata da John. Si era aspettata che Marie e Bobby entrassero in infermeria da un momento all’altro, invece non si erano fatti vivi. Meredith aveva sospettato che finché lei sarebbe rimasta lì con John loro non sarebbero mai venuti a trovare il loro amico. Fortunatamente John aveva dormito quasi per tutto il tempo e non le aveva domandato perché Marie e Bobby non erano lì con lei. Non poteva negare che si sarebbe sentita mortificata a raccontare a John della lite e di come aveva urlato contro di loro.

Meredith si rigirò su un fianco, con gli occhi aperti a fissare la stanzetta buia. Un filo di luce proveniente da sotto la porta le permetteva di scorgere Marie sdraiata sulla branda, ed era quasi sicura che anche lei fosse sveglia. Per un istante, fu sul punto di chiamarla, ma poi si morse la lingua. Era ancora arrabbiata. Molto, molto arrabbiata. Se fosse successo che... Se avesse fatto del male a John, per proteggere quegli uomini che volevano solo far loro del male...

Se Marie si fosse voltata e l’avesse guardata, glielo avrebbe detto. Stavolta si sarebbe sforzata di non gridare e le avrebbe spiegato con calma quello che provava riguardo a quello che era successo a Boston. Quello che provava riguardo a John. Forse le avrebbe raccontato ogni cosa. Ma Marie non si voltò.

Meredith si sentì infastidita dal suo comportamento. Che cosa stupida e infantile, fingere di essere addormentata. Ad un certo punto prese una decisione e gettò via le coperte con un movimento irritato. Le molle cigolarono quando si tirò a sedere sulla branda, e Meredith guardò Marie come se volesse sfidarla a dire qualcosa, ma lei rimase immobile. Sempre più irritata, si alzò e senza nemmeno vestirsi si diresse fuori dalla stanza.
Quando fu sulla porta, le sembrò che Marie si fosse tirata su e la stesse guardando, e per una frazione di secondo Meredith indugiò, aspettando, quasi sperando, che Marie pronunciasse il suo nome; ma ci fu solo silenzio, e lei si richiuse la porta alle spalle.

Le luci nel corridoio erano accese, e mentre camminava a piedi nudi sul pavimento gelido Meredith maledisse la sua vena melodrammatica che l’aveva spinta ad uscire dalla sua stanza con indosso solo una maglietta a maniche corte e la biancheria intima. Se avesse incontrato qualcuno avrebbe fatto proprio una bella figura, senza contare che non aveva una scusa plausibile per trovarsi in giro per l’aereo a quell’ora di notte. Fortunatamente sembrava che tutti fossero nelle loro rispettive cabine.

Aprì cautamente la porta dell’infermeria ed entrò in punta di piedi. Il pavimento era stato ripulito dal vetro e lei si avvicinò al letto di John, guidata dalle piccole luci opache incastonate tre il muro e il pavimento. Quando fu vicina, John si svegliò e la guardò con gli occhi annebbiati dal sonno.

“Ehi.” sussurrò Meredith, sperando che lui non se la prendesse troppo per essere stato svegliato nel cuore della notte.

“Ehi.” le rispose John, sollevando le coperte perché lei potesse infilarsi nel letto.

Meredith obbedì volentieri e si accoccolò contro di lui, godendosi il tepore del letto e il profumo del suo ragazzo. Gli accarezzò il viso e John si sfregò gli occhi, rivolgendole un sorriso assonnato.

“Come ti senti?” gli chiese Meredith baciandogli la fronte. Fu contenta di sentire che il suo corpo stava gradualmente recuperando il suo abituale calore.

“Beh,” rispose John stringendola a sé. “una splendida ragazza seminuda si è appena infilata nel mio letto. Direi che mi sento molto, molto bene.”

Meredith rise, lusingata, e si sporse in avanti per dargli un bacio dietro l’orecchio, che sapeva essere un punto sensibile per John. Lui rabbrividì leggermente e le prese il viso tra le mani, scrutandola attentamente nella penombra. Meredith gli restituì lo sguardo, fissando i suoi occhi grigi in quelli blu scuro di lui, poi John l’attirò a sé e la baciò.

Non si erano mai baciati così, con tutta quella passione e quella fame e quella tenerezza mista a irruenza. Si baciavano come se quella fosse la loro ultima occasione per farlo, e non dovessero sprecare neppure un istante di quel poco tempo che rimaneva. Le loro labbra si separarono più di una volta solo per una frazione di secondo, per poter riprendere fiato, e poi ricominciarono a baciarsi, famelici e disperati.

Quando alla fine si staccarono, Meredith appoggiò la testa al centro del suo petto, mentre John le accarezzava i capelli. Meredith lasciò che il suo respiro la cullasse mentre ascoltava il battito del suo cuore, rapido e violento come dopo una lunga corsa. Lentamente, entrambi cominciarono a rilassarsi e i loro respiri e i battiti del loro cuore tornarono al loro ritmo normale.

Meredith si voltò a guardare John. Aveva gli occhi chiusi e sembrava stesse scivolando nuovamente nel sonno, anche se le sue mani erano ancora appoggiate sui capelli di lei.

“John?” chiamò Meredith.

Lui tenne gli occhi chiusi. “Mmm?” mugugnò, già mezzo addormentato.

“Io... Io voglio fare l’amore con te.” disse Meredith, mentre il cuore ricominciò a batterle come impazzito nel petto.

John aprì gli occhi di scatto e la guardò nella semioscurità. “Cosa?” domandò con un sussurro.

“Voglio fare l’amore con te, John.” ripeté Meredith restituendogli lo sguardo.

Lui la tirò su finché i loro visi non si trovarono alla stessa altezza, e i suoi occhi non lasciarono quelli di Meredith neppure per un momento. “Sei sicura?” le chiese.

“Sì.” rispose lei, e nonostante la trepidazione che stava provando era certa di volerlo davvero.

A quel punto John la baciò di nuovo e Meredith lo strinse e lo baciò a sua volta, impaurita all’idea di aprirsi a lui eppure desiderosa di appartenergli con tutta se stessa.

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Ecco. Lo hanno fatto, finalmente. Beh, dopo quello che gli ho fatto passare, poveretti, se lo merivano proprio un momento di pace e di tranquillità.

Per Lia: di nuovo grazie per aver recensito, sono molto felice che il racconto riesca ad integrarsi con la trama del film, era il mio progetto fin dall'inizio. Mi fa anche molto piacere che una "fan" di Rogue (se così si può dire) non giudichi la mia resa del personaggio troppo patetica; non sai il sospiro di sollievo che ho tirato! Di nuovo grazie per le tue belle parole e a presto.

Per Star_Dust_Daga: Wow, la mia prima critica negativa! Sai, devo confessarti che nemmeno io ritengo che questo sia il mio capitolo migliore. Ho scoperto che scrivere capitoli d'azione non è affatto facile, anzi! Inoltre, non avendo visto il film, faccio una fatica immane a immaginare le situazioni che si presentano. (Colpa mia, certo, che avrei potuto scegliere un percorso diverso o almeno affittare X Men 2, ma sai com'è, facciamoci del male...). In che senso però non ti è piaciuto? I contenuti o lo stile? Se volessi dettagliare la tua critica mi faresti un enorme favore, così la prossima volta, magari, eviterò di fare gli stessi errori. Nel frattempo ti ringrazio per la recensione e spero che vorrai continuare a seguire la storia.

Da parte mia, vi saluto e vi aspetto tra un paio di giorni con il capitolo 14, che è, tanto perchè lo sappiate, il penultimo capitolo di questo racconto.

Un abbraccio a tutti e a presto!

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


ItF14

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Ci stiamo lentamente avviando verso la fine della storia: come ho detto la scorsa volta, questo capitolo è il penultimo. Spero che vi piaccia!

......................................................................................

Meredith attraversò i corridoi dell’X-Jet ed entrò nella piccola cambusa in cerca di qualcosa da mangiare, e trovò Logan, anche lui con tutta l’aria di essersi appena alzato, intento a prepararsi un caffè.

“Buongiorno...” biascicò Meredith sedendosi a su una delle panche d’acciaio accanto al tavolo.

“Buongiorno, Meredith.” rispose Logan prendendo il bricco del caffé dallo scaldavivande. “Vuoi mangiare qualcosa? Il latte è nel frigorifero. Credo che ci sia anche una scatola di cereali, da qualche parte.”

“A dire la verità prenderei più volentieri un po’ di caffé.” rispose lei. Non era più una bambina, e che diamine.

Logan non obiettò. Si limitò a riempire due tazze di caffè fumante, ne porse una a Meredith e si sedette sulla panca opposta a lei. Lei strinse tra le mani la tazza bollente, poi alzò lo sguardo su Logan.

“Professore?”

“Sì?”

“Ha presente ieri a casa dei genitori di Bobby? Quando sono scesa dicendo che stava arrivando la polizia?”

Logan annuì. “Sì. A proposito, come facevi a saperlo?”

Meredith trasse un lungo respiro. “Ecco, appunto di questo volevo parlarle.”

Gli raccontò di quello che era successo nel bagno e di come avesse letto nella mente di Tom quando gli aveva messo la mano sugli occhi.

“Cosa crede che sia successo, professore?” chiese Meredith con una certa ansia.

Logan alzò le spalle. “La telepatia non è il mio campo, Meredith. Dovresti chiedere alla dottoressa Grey.”

“Non ho ancora avuto occasione di farlo.” replicò lei. “Secondo lei, è possibile che io non sia in grado di leggere il pensiero a distanza, ma che abbia bisogno di un contatto fisico per farlo? Non mi era mai successo di avere un’immagine così chiara.” Ci pensò su un istante. “Beh, ad essere sincera, ieri è stata in assoluto la prima volta in cui ho visto qualcosa. Di solito sento e basta.”

Logan sembrò considerare la questione. “Non ho mai sentito di una mutazione del genere, ma ovviamente perché no? Tutto è possibile.”

La porta si aprì e la professoressa Munroe mise dentro la testa. “Logan.” chiamò. “Vieni.”

Richiuse la porta e Logan sbuffò, alzandosi. Quando aveva la mano sulla maniglia della porta, Meredith lo richiamò.

“Professore, questo Stryker... Sì, insomma, lui può...”

Logan le sorrise. “No, non può. Non potrà, quando arriveremo là noi.” Le strizzò l’occhio. “Stiamo andando ad Alkali Lake appunto per prenderlo a calci in culo e riportare a casa i nostri ragazzi. Non preoccuparti di Stryker.”

Uscì dalla stanza e Meredith guardò dentro la sua tazza di caffè. Si sentiva strana. No, strana non era la parola giusta. Diversa.

Come se la sua vecchia pelle le fosse scivolata via di dosso e ora avesse un corpo nuovo, totalmente differente. Si chiese se questo cambiamento fosse visibile dall’esterno, se qualcuno che la conoscesse bene, come Bobby o Marie, avrebbe potuto guardarla e accorgersi che lei era diversa da ieri sera.

Ieri sera... Meredith non era tipo da farsi troppe illusioni riguardo al primo rapporto sessuale. Sapeva che, a dispetto di quello che volevano far credere i film d'amore e i romanzi rosa, nella vita reale si tratta di una faccenda piuttosto dolorosa, e sì, anche sanguinolenta. Quando si era svegliata, quella mattina, aveva scoperto con orrore che aveva le mutandine sporche di sangue. Si era augurata che le lenzuola dell'infermeria non ne fossero macchiate, altrimenti sarebbe stato un bel problema spiegare alla dottoressa Grey la provenienza di quel sangue.

Era stato bello. Lo era stato davvero, anche se non in senso... ehm... puramente tecnico. Non aveva provato piacere, se non timidamente, verso la fine, quando il dolore era un po' scemato. Non che ne fosse rimasta delusa: solo le eroine dei romanzi rosa hanno degli splendidi orgasmi multipli la prima volta che fanno sesso. Meredith era abbastanza sveglia da non aspettarsi di venire durante la sua prima volta; ma si era aspettata che fosse speciale, e unica, e con John lo era stato. Non era stato perfetto, ma era perfetto per lei, per loro, e Meredith non avrebbe potuto essere più felice di così. Una volta aveva letto che non esiste cosa più bella al mondo che fare l'amore con qualcuno che ami davvero, e, in questo specifico e particolare caso, il libro aveva ragione.

Meredith sorrise tra sé e sé. Avevano tutto il tempo di migliorare i dettagli pratici. Certe cose si imparano con l’allenamento e, ora che avevano cominciato, lei aveva intenzione di fare l’amore con John centinaia di altre volte. Migliaia di altre volte.
Ma per farlo avrebbero dovuto aspettare che la situazione si normalizzasse e potessero tornare a scuola. Era sicura al novantanove per cento di non essere nel periodo fertile del suo ciclo, ma era stato stupido, ovviamente, e irresponsabile, fare sesso senza usare alcun tipo di protezione. Non intendeva correre il rischio un'altra volta.

La porta cigolò sui cardini, ed apparve Marie. Quando vide Meredith rimase per un attimo impietrita sulla soglia, ma poi si riprese ed entrò. “Ciao.” sibilò cautamente senza guardarla.

“Ciao.” rispose Meredith, altrettanto imbarazzata.

Marie si mise a frugare in uno degli armadietti d’acciaio, evidentemente cercando di fare quanto più rumore possibile per coprire il silenzio che era calato tra loro. Meredith continuò a guardare nella sua tazza di caffé, divisa tra il suo orgoglio e il senso di colpa che continuava a farsi sempre più pesante.

“Ehm, hai visto Logan?” chiese Marie sedendosi sulla panca che fronteggiava la sua, ma circa mezzo metro più a destra.

“E’ appena uscito.” rispose Meredith lanciandole uno sguardo furtivo.

“Ah, ok.”

Seguì un'altra lunga pausa in cui entrambe trangugiarono il loro caffè in silenzio.

“Bobby?” domandò brevemente Meredith, questa volta sforzandosi di guardare Marie in faccia.

Lei inghiottì un sorso di caffè. “E’ andato a trovare John.” rispose, evitando però di incrociare lo sguardo di Meredith.

Lei guardò di nuovo nella sua tazza, delusa dalla reazione di Marie. Anche se lo zucchero era ormai sciolto da un pezzo mescolò di nuovo nervosamente il caffè, più che altro per distogliere il pensiero da quel peso che le opprimeva il cuore.

“Sai, sta meglio.” disse improvvisamente Marie. Meredith alzò di scatto la testa e la guardò, e Marie arrossì ma evitò di abbassare gli occhi. “John, intendo. Abbiamo incrociato la dottoressa Grey, dice che oggi si può alzare...” Esitò. “Ma... ma di certo tu lo sai già.”

Meredith si affrettò a scuotere la testa. “No, è da ieri sera che non vedo la Grey.”

Marie tornò a guardare il suo caffè.

“Grazie per avermelo detto.” aggiunse Meredith dopo un po’, arrossendo.

Marie la guardò. “Di niente.”

Calò di nuovo un profondo silenzio. Meredith si alzò all’improvviso, forse un po’ troppo velocemente, e Marie si voltò a guardarla un po’ sconcertata.

“Beh, è meglio che vada a trovare John.” disse avviandosi verso la porta.

“Certo.” bisbigliò Marie. “Allora, a dopo.” aggiunse mentre Meredith stava già uscendo.

Le sembrò di sentire una nota di ansiosa speranza nella voce di Marie, e Meredith ne fu sollevata. Allora non era l’unica a desiderare che tutto tornasse come prima...

“A dopo.” rispose con un leggero sorriso.

Si avviò verso l’infermeria, cercando di ricordare quale fosse il corridoio giusto: l’X-Jet assomigliava davvero a un enorme labirinto di acciaio in cui era molto facile perdersi. Con una certa inquietudine sperò di non incappare di nuovo in Magneto. Ancora non si riusciva a spiegare quella strana sensazione che aveva provato ieri sera, quando lui le aveva sorriso in quel modo, e non voleva che succedesse di nuovo. Con un lieve sussulto, si rese conto che non aveva paura di ciò che avrebbe potuto fare Magneto; aveva paura di ciò che avrebbe potuto fare lei.

D’improvviso girò l’angolo e quasi sbattè contro qualcuno. Quando alzò lo sguardo, vide che era John, bellissimo e sorridente.

“Buongiorno.” le sussurrò mentre avvicinava le labbra alle sue per darle un bacio.

Meredith gli gettò le braccia al collo e lo attirò a sé, arrendendosi al suo bacio e lasciando che tutte le sensazioni e i ricordi della notte precedente le ritornassero alla memoria. Il corpo di John era caldo e duro premuto contro il suo, e le sue labbra erano delicate ma risolute. Quando John fece per tirarsi indietro e porre fine al bacio, Meredith gli mordicchiò con delicatezza il labbro inferiore e gli sorrise.

“Buongiorno.” rispose con una risatina maliziosa. “Vedo che sei in piedi. Ed io che pensavo di averti sfiancato ieri notte...”

John scoppiò a ridere. “Oh no, per niente.” Abbassò la voce ad un sussurro basso e sexy. “Anzi, troviamoci una cabina vuota e tranquilla, così ti posso mostrare quante altre energie mi restano...”

Meredith piegò leggermente la testa di lato e lo guardò negli occhi. “Vorrei, John, lo vorrei davvero tanto. Ma non ti sembra che abbiamo corso già abbastanza rischi?”

Lui spalancò gli occhi. “Perché, tu credi che potremmo...” chiese con una certa inquietudine nella voce.

Meredith scosse la testa. “No, non penso.” Fece una smorfia. “Ma non tenterei la sorte un’altra volta.”

John sospirò. “E va bene, d’accordo...”

La strinse tra le braccia e Meredith appoggiò il mento sulla sua spalla e chiuse gli occhi, facendosi cullare dal respiro del suo ragazzo.

“Sono il tuo primo uomo.” le sussurrò John nell’orecchio, con una punta di orgoglio nella voce.

Meredith lo strinse più forte contro di sé. “L’unico.” rispose. John le baciò i capelli.

“Avrei voluto svegliarmi con te questa mattina.” mormorò Meredith.

Si erano concessi solo qualche minuto di tenerezze dopo che avevano finito, e lei aveva trovato così bello starsene stretti l’uno nelle braccia dell’altra, scambiandosi baci e carezze e godendosi quella sensazione di coinvolgente, totale intimità.
Ma il timore di addormentarsi e di farsi scoprire dalla dottoressa Grey il mattino dopo era stato abbastanza forte da spingere Meredith, seppur controvoglia, a tornare nella sua cabina.

Una serie di umidi baci sul collo la distrasse dai suoi pensieri. Rabbrividendo, Meredith sorrise e passò le dita tra i capelli di John.

“Guarda che non attacca.” sussurrò. “Niente bis finche non torniamo all’Istituto.”

Lui continuò a baciarla. “Davvero? Neanche se stiamo molto molto attenti?” le sussurrò nell’orecchio, e poi le percorse il collo con la lingua.

Meredith ansimò, sorpresa, e le sue mani si serrarono istintivamente. Maledetto John Allerdyce e l’effetto che aveva su di lei! Con quel tono sexy e quei suoi giochetti le stava rendendo molto più difficile mantenere la sua decisione...

“Non è uno scherzo, John.” rispose, cercando di mantenere un tono quanto più serio e controllato possibile, ma sentì chiaramente la sua voce tremare per il desiderio.

Lui le sfiorò di nuovo il collo con le labbra, poi morse delicatamente il pezzetto di spalla che la sua maglietta lasciava scoperto.

“John!” gemette Meredith, e pensò che se lui non l’avesse tenuta abbracciata le sue ginocchia non l’avrebbero retta e sarebbe caduta per terra.

Lui alzò il viso dalla sua spalla e le sorrise, compiaciuto per essere riuscito a farle perdere il controllo. "Sì, hai ragione.” rispose prendendole il viso tra le mani. “Ma non credere...” Le diede un bacio sulle labbra. “...di essertela cavata...” Un altro bacio. “...così facilmente. Ho appena iniziato...” Bacio. “...con te, signorina...” Bacio. “...e quando torneremo a scuola...” Bacio. “...te lo dimostrerò."

Meredith sorrise. “Lo spero proprio.” rispose, e mettendogli una mano dietro la nuca lo attirò a sé per un bacio appassionato.

****

“E così sei in grado di vedere nella mente delle persone quando le tocchi.” disse la dottoressa Grey mentre lei e Meredith erano sedute in una delle salette dell’X-Jet. Erano in volo diretti ad Alkali Lake. “Sai, sono un po’ delusa da me stessa. Avrei potuto pensarci molto tempo fa.”

“Perché,” rispose Meredith, un po’ in ansia. “è normale?”

La dottoressa Grey la guardò. “Se per “normale” intendi comune, allora no, non è normale. Ma è meno raro di quanto uno pensi.”

“Ma a me non basta toccare qualcuno per leggere nella sua mente.” insisté Meredith, ancora poco convinta. “Voglio dire, tocco le persone di continuo, ma non vedo i loro pensieri. E’ stato solo quando ho messo la mano sugli occhi di Tom Drake che...” Esitò. “...è successo.”

La dottoressa incrociò la braccia, pensierosa. “Beh, questo è raro.” disse infine. “Ma non vedo perché dovrebbe essere un problema. Perché questa cosa ti preoccupa tanto?”

Meredith scosse la testa. “Non sono preoccupata.” rispose decisa. “E’ che vorrei capire. Perché è stato così chiaro ieri, mentre di solito riesco solo a captare brani di frasi come una radio rotta?”

“Potrei dirti che è una questione di allenamento. Ma non credo che a questo punto basterebbe come spiegazione.” le disse Jean Grey.

Meredith si ricordò che erano passati almeno tre o quattro mesi dall’ultima volta che si era allenata nella lettura del pensiero, e sarebbe stato un bel guaio se la dottoressa Grey avesse saputo la verità, dato che fino a quel momento era convinta dell’esatto contrario.

Non leggermi nel pensiero... pregò Meredith senza neppure accorgersene. Non leggermi nel pensiero... Non leggermi nel pensiero... Non leggermi nel pensiero... Non leggermi nel pensiero...

La dottoressa Grey girò la testa di scatto e si coprì gli occhi come se Meredith l’avesse colpita.

“Mi dispiace.” si affrettò a scusarsi Meredith. Ripensandoci, forse un po’ di allenamento non le avrebbe fatto male. “Mi dispiace davvero, non l’ho fatto apposta. Io...”

“Non fa niente, Meredith. Capita.” rispose Jean Grey sbattendo un paio di volte le palpebre e tornando a guardare Meredith. “Comunque, per rispondere alla tua domanda, credo che alla fin fine si tratti proprio di questo: la tua telepatia funziona molto, molto meglio se sei a contatto diretto con il soggetto, in particolare con i suoi occhi. Gli occhi perché, ovviamente, sono un centro ricettivo molto importante.”

“Non le vorrei sembrare insistente,” continuò Meredith. Voleva vederci chiaro in questa storia e per lei c’erano ancora troppi dettagli oscuri. “ma perché di tanto in tanto mi capita di ascoltare i pensieri degli altri?”

La dottoressa ci pensò su per qualche istante prima di rispondere. “La telepatia è pur sempre telepatia. Teoricamente, dovresti riuscire a leggere la mente delle persone, e comunicare con loro, senza bisogno di contatto fisico. Non devi sentirti sminuita per questo, Meredith.” disse anticipando la domanda che lei aveva già aperto la bocca per formulare. “Ti rendi conto di che abilità tu possegga, essendo in grado di manipolare la volontà e le percezioni altrui? Non c’è da meravigliarsi se questo potere assorbe gran parte delle energie destinate alle altre tue abilità. Sei sempre in grado di muovere le cose col pensiero, non è vero?”

Meredith annuì. “Certo.”

La dottoressa Grey si rilassò contro lo schienale d’acciaio della sedia. “In natura tutto si equilibra.” iniziò guardando un punto imprecisato oltre la spalla di Meredith. “Un predatore non può essere troppo superiore alle sue potenziali prede, o diventerebbe troppo pericoloso. Troppo potente. Ci deve essere la possibilità per le vittime di sfuggire alla cattura, o tutto il meccanismo che regola la sopravvivenza delle specie andrebbe a rotoli. Ovviamente, si fa per dire.” si affrettò ad aggiungere la dottoressa quando vide lo sguardo di Meredith. “Mi esprimevo in termini puramente astratti.”

Meredith guardò per terra, spaventata e confusa. “Allora... Questo significa che...”

“Non significa nulla, Meredith, a parte che sei in grado di leggere nella mente delle persone quando copri loro gli occhi con una mano.” rispose la Grey. “E’ una delle tue abilità, e non vedo perché...”

In quel momento bussarono alla porta, e Bobby mise dentro la testa. “Dottoressa, gli altri vorrebbero parlarle. Siamo quasi arrivati.” disse dopo un fugace sguardo a Meredith. Lei e Bobby non si erano più scambiati una parola dopo la lite del giorno precedente.

“Sì, arrivo.” rispose la Grey, e Bobby sparì veloce come era apparso. La dottoressa si alzò e si rivolse a Meredith. “Ci occuperemo approfonditamente di questa cosa con il professor Xavier, non appena torneremo a scuola. Nel frattempo, stai tranquilla e non angustiarti, d’accordo Meredith?”

“D’accordo.” rispose lei, ma la sua mente era già altrove. A malapena sentì la porta richiudersi e la dottoressa uscire.

Un predatore. Ecco che cos’era. Un’assassina. Una fottuta macchina da guerra.

Era sicura che la dottoressa non avesse scelto quelle parole a caso. Jean Grey non faceva mai niente per caso. Se le aveva parlato di prede e vittime e predatori un motivo c’era.

C’è una linea sottilissima che separa la necessità dall’abuso, le aveva detto a suo tempo il professor Xavier. Era forse possibile che, magari senza rendersene conto, lei l’avesse superata?
E se l’aveva fatto, quand’è che era successo?

Improvvisamente ricordò un episodio che era accaduto molti anni prima, e che Meredith pensava di aver dimenticato.

Quando l’avevano mandata a New York, dopo che suo padre si era ammalato di cancro e Hannah Barrymore l’aveva riaffidata ai servizi sociali, in orfanotrofio aveva incontrato una ragazza, Alex Hagen, di qualche anno più grande di lei.

Meredith era arrivata solo da una settimana e stava attraversando il cortile dell’istituto (era l’intervallo, questo se lo ricordava bene, ma non riusciva proprio a ricordare dove fosse diretta) quando Alex aveva raccolto da terra un pugno di fango e glielo aveva tirato addosso, così, senza preavviso né giustificazione, senza nessun altro motivo se non quello di umiliarla.

Un coro di risate si era levato dalle altre ragazze. Non era una risata allegra, né divertita. Più che una risata, sembrava il richiamo di un branco di iene che guardava un leone fare a pezzi un cucciolo. C’era della paura in quella risata, e anche del sollievo: finché Alex non finiva di tormentare Meredith loro sapevano di essere al sicuro.

Alex aveva preso un’altra manciata di fango e l’aveva colpita di nuovo. “Sei un mostro!” le aveva urlato contro con un ghigno di scherno. “Ecco perché ti hanno mandata via! Sei un mostro schifoso e nessuno ti vuole!”

Evidentemente il fatto che Alex l’avesse qualificata come mostro intoccabile era sufficiente perché le altre si sentissero in diritto di partecipare al linciaggio. Meredith non avrebbe saputo dire chi fu la prima ad iniziare, ma ben presto fu colpita da un’altra manciata di fango, e poi un’altra e un’altra ancora, finché non fu bersagliata da una pioggia di terra bagnata e appiccicosa, sui capelli, sul viso e sui vestiti, e dalle sue assalitrici si era levato un coro che si faceva sempre più intenso, sempre più intenso e sempre più crudele: “Mos-tro! Mos-tro! Mos-tro! Mos-tro!”

Meredith non aveva detto nulla, non aveva fatto nulla. Non aveva cercato di difendersi, né di scappare; non aveva neppure alzato le braccia per proteggersi il viso dal fango. Si era semplicemente voltata e, mentre il fango gettato dalle altre ragazze continuava a colpirla sui capelli, sulla schiena e sulla nuca, era tornata nell’edificio e si era diretta al bagno per farsi una doccia.

Aveva aspettato di essere assegnata al turno di pulizia nelle cucine assieme ad Alex Hagen. Meredith aveva le braccia immerse fino ai gomiti nell’acqua calda e stava lavando i piatti mentre Alex, dietro di lei, stava passando lo straccio sul pavimento sporco, ringhiando di tanto in tanto qualche frase di scherno in direzione di Meredith. Ad un tratto una pesante padella di ferro si era staccata dal suo gancio ed era volata in direzione di Alex, colpendola all’altezza delle reni. Alex aveva fatto cadere il mocio, gridando di sorpresa e di dolore, e allora un mestolo sollevatosi dalla pila dei piatti sporchi le era piombato addosso e Alex aveva strillato di nuovo, questa volta solo per il dolore.

Meredith aveva continuato tranquillamente a lavare i piatti mentre tutte le stoviglie, le pentole e il vasellame della cucina volavano via dai loro cassetti e dalle loro mensole e si abbattevano su Alex che gridava terrorizzata, la sua voce parzialmente coperta dal rumore sordo dei colpi, dal clangore delle pentole che cadevano sul pavimento e dal rompersi di piatti e bicchieri.

Meredith aveva chiuso il rubinetto e si era asciugata lentamente le mani con uno strofinaccio. Poi si era voltata e aveva camminato tranquillamente in direzione di Alex, seduta per terra a qualche metro da lei. Il pavimento della cucina era un disastro.

I capelli di Alex erano scivolati via dalla coda in cui erano raccolti e ora le ricadevano in disordine sugli occhi e sulle spalle, mentre un sottile rivolo di sangue le colava da una narice. Aveva le labbra tumefatte e i suoi vestiti erano strappati in più punti, mostrando sotto escoriazioni e lividi. Sembrava incapace di smettere di ansimare e quando aveva visto Meredith avanzare verso di lei i suoi occhi si erano spalancati e aveva cercato di strisciare lontano, ma era finita con le spalle contro la cucina a gas. Vi si era acquattata contro e aveva piagnucolato quando Meredith le si era inginocchiata accanto.

“Se mi tiri di nuovo addosso qualcosa, o mi urli qualcosa, o fai qualunque altra cosa, io ti ammazzo.” aveva detto Meredith con calma.

Alex aveva spalancato gli occhi. La palpebra destra era rossa e gonfia; probabilmente sarebbe diventata nera entro la notte. Difficilmente Alex sarebbe stata in grado di aprire l’occhio destro la mattina seguente.

“Hai capito?” aveva continuato Meredith.

Alex aveva annuito mentre una lacrima le solcava il volto tumefatto. Meredith le aveva afferrato una ciocca di capelli e le aveva dato uno strattone. Alex aveva piagnucolato più forte.

“Ti ho chiesto se hai capito.” le aveva ripetuto Meredith con un sussurro.

Alex aveva deglutito un paio di volte, evidentemente cercando di racimolare tutto il coraggio che le restava per rispondere. “Sì, sì, ho capito.” aveva farfugliato infine. Da come fischiavano le sue esse doveva avere un incisivo spezzato.

Meredith era tornata al lavello e aveva ricominciato a lavare i piatti come se niente fosse accaduto. Dietro di sé poteva sentire Alex singhiozzare mentre sistemava i tegami che erano a terra e spazzava via dal pavimento i cocci dei piatti e il vetro dei bicchieri che si erano frantumati.

Da quel giorno nessuno le aveva più urlato contro o le aveva tirato addosso qualcosa. Se Alex la incontrava nei corridoi impallidiva e cambiava strada.

“Meredith.” chiamò la voce di Marie.

Lei si voltò, sollevata che qualcuno fosse venuto ad interrompere il filo dei suoi ricordi. Non voleva indugiare col pensiero su Alex Hagen o su quello che era successo in cucina.

“Siamo arrivati ad Alkali Lake.” proseguì Marie. “Vogliono che andiamo tutti di là, nella sala comandi. Ci devono parlare.”

Meredith si alzò e Marie fece per uscire dalla stanza. “Aspetta.” le disse improvvisamente Meredith, e Marie si voltò.

“Scusami per ieri” le suggerì una voce nel suo cervello. “Scusami se ho gridato.” Avanti, sono solo poche parole. Dillo.

Ormai era arrivata alla porta, dove Marie la stava aspettando guardandola in viso. Meredith si morse il labbro.

Dillo! Oh avanti, Meredith! Se non lo dici, te ne pentirai. Sai benissimo che te ne pentirai.

“Io...” iniziò, troppo imbarazzata per reggere lo sguardo di Marie.

Marie le strinse il braccio e Meredith sentì il calore della sua mano attraverso i guanti che indossava.

“Andiamo di là insieme, ti va?” le suggerì Marie con un sorriso.

Meredith annuì. “Certo.”

Si incamminarono fianco a fianco lungo il corridoio che portava alla sala comandi dell’ X-Jet. Ad un certo punto Meredith parlò.

“Sai...” iniziò a bassa voce, incapace di tenere ancora per sé la cosa. “Ieri notte John ed io...”

Marie sorrise. “Lo so. Sei uscita nel cuore della notte e sei tornata tutta arruffata.” Ridacchiò. “Allora, com’è stato? Un sogno, vero?” le domandò con una leggera nota di invidia nella voce.

Meredith scosse la testa. “No, non direi. Fa un male d’inferno. Non ti perdi poi molto.”

Marie la guardò sospettosa. “Ma dai, lo dici solo per farmi stare tranquilla.”

“No, dico sul serio.”

“Davvero?” si stupì Marie. “Non è stato bello? Neanche un pochino?”

Meredith cercò di formulare una risposta che fosse coerente. “Beh, è stato bello farlo con John, stare insieme così in quel modo, così... vicini e...” Si rese conto che non sarebbe riuscita a spiegarlo a parole nemmeno in un milione di anni. Come faceva a descrivere a Marie cosa si prova a essere tutt’uno con la persona che ami? “Sai, è stato come se lui facesse da sempre parte di me, del mio corpo, della mia anima, e fosse semplicemente tornato al suo posto...” azzardò.

Marie spalancò gli occhi. “Wow.”

“Beh, fisicamente, però, non è che sia stato poi così fantastico.” si affrettò ad aggiungere.

Marie fece una smorfia. “Fa davvero così male?” chiese.

Meredith annuì. “Sì. John è stato delicato e tutto, ma ha fatto lo stesso molto male.” Fece una pausa. “E non all’inizio e basta, come dicono in giro. Per tutto il tempo.”

“Lo fai sembrare una cosa orribile.” replicò Marie.

“No!” si affrettò a rispondere Meredith. “No, non è stato affatto orribile, anzi. E’ stato meraviglioso.”

Marie scoppiò a ridere, e Meredith la seguì a ruota. Era davvero felice che fossero riuscite ad aggiustare le cose dopo il litigio del giorno precedente. Non sarebbe mai riuscita a perdonarsi se avesse distrutto la sua amicizia con Marie solo per dar retta al suo stupido orgoglio. Meno male che Marie era meno stupida e meno orgogliosa di lei...

Arrivarono alla porta della sala comandi e Marie fece per aprirla.

“Aspetta.” le chiese di nuovo Meredith. “Non dirlo a nessuno, ok? Nemmeno a Bobby.”

Marie impallidì leggermente e si torse il suo ciuffo di capelli bianchi attorno all’indice. “Ah... Ok...” mormorò guardando per terra.

Meredith la fissò. “Non... Bobby non lo sa, vero?” domandò con un vago tremito di terrore nella voce.

“Beh...” iniziò Marie. “i ragazzi sono ragazzi.”

Gli occhi di Meredith si spalancarono. “Vuoi dire che è stato John a dirglielo?”

Marie annuì. “Stamattina, quando Bobby è andato a trovarlo in infermeria.”

Meredith si appoggiò alla parete. Lo uccido, pensò. Lentamente e dolorosamente.

In quel momento la porta si aprì e apparve Logan. “Allora, voi due, che state aspettando? Un invito scritto?”

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Non è il massimo come capitolo, questo sono pronta ad ammetterlo. In origine il capitolo 14 e il capitolo 15 erano fusi insieme, ma ho dovuto dividerli in due parti separate perchè era davvero troppo lungo. Quindi il capitolo 14 è diventato una sorta di capitolo di raccordo che... bah, non lo so. Spero di rifarmi con il capitolo finale. Vi giuro che ce la sto mettendo tutta.

Il rapporto Meredith-John ha sfiorato il pericoloso livello di guardia "coniglietti rosa" e la cosa non mi piace per niente. John era forse un po' troppo smielato, ma cercate di capirlo: ha fatto sesso ieri notte, e si sa che quando si parla di sesso gli uomini si rincoglioniscono completamente. Rimandate l'invio delle email bomba ancora di qualche giorno, ok? Tanto Meredith ha inaugurato un periodo di astinenza, quindi volente o nolente a John toccherà rimettere la testa a posto!

Tra due-tre giorni, penso, sarò pronta con il quindicesimo e ultimo capitolo. Allora, voi come credete che finirà? Anche in questa "realtà parallela" avranno luogo gli avvenimenti di X Men 2, o l'autrice deciderà di cambiare la carte in tavola? Le scommesse sono aperte!

Se volete scoprirlo, non vi resta che aspettare. Un bacio a tutti e a presto!

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


ItF15

Disclaimer: Pyro e gli X-men non appartengono a me ma a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox, che ha acquistato i diritti per il film. Possiedo invece, dato che l’ho creata io, il personaggio di Meredith St.Clair.

Scusate il ritardo. Giuro che non è stato per fare la splendida e creare un po' di suspance; ho riscritto tre volte questo capitolo prima che ne uscisse qualcosa di decente. Credo (e sia detto con tutta la modestia possibile) che il risultato finale sia piuttosto buono; comunque, come sempre, il giudizio finale spetta a voi.

C'è anche un altro motivo per cui sto postando così in ritardo, ed è che.... Mi dispiace, vi dovrete ciucciare tutto il capitolo 15 prima di scoprirlo. Ebbene sì, sono una vera carogna. ;-)

Comunque, adesso basta con la chiacchere. Ecco a voi l'ultimo capitolo di "Into the Fire".

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Marie e Meredith biascicarono qualche parola di scusa ed entrarono a testa bassa nella stanza.

La professoressa Munroe e la dottoressa Grey erano in piedi a pochi passi dalla console di comando dell’X-Jet, entrambe in pieno assetto da battaglia, e guardavano le nuove arrivate con aria solenne. Alla loro sinistra, in piedi anche loro ma senza le uniformi di combattimento, stavano John e Bobby. Le due ragazze si affrettarono a sistemarsi alla sinistra delle professoresse.
Con grande sollievo di Meredith, Magneto e Mistica sembravano non essere presenti.

“Siamo arrivati a destinazione.” iniziò Jean Grey, guardando ora Meredith e Marie, ora John e Bobby. “Tra qualche minuto, io e i professori ci introdurremo nella base del colonnello Stryker, che si trova all’interno della diga.”

“Noi non veniamo?” chiese Bobby, deluso.

“No, non questa volta.” rispose la dottoressa. La sua voce tradiva una certa impazienza.

“Ma ci siamo allenati per mesi, e poi...” insisté John.

“Mi dispiace, testa calda, ma questa volta dovrai lasciare l’azione a noi.” tagliò corto Logan, il rimprovero chiaro nel suo tono.

John distolse lo sguardo e fece scattare il suo Zippo.

“Il piano è di distruggere Cerebro II,” continuò la dottoressa Grey. “e di tornare all’X-Jet insieme ai vostri compagni e ai professori che sono stati presi prigionieri durante l’incursione nell’Istituto.” Fece una pausa. “Ci sono domande?”

“E noi che facciamo, nel frattempo?” domandò Meredith. Invidiava la calma di Jean Grey. Parlava di introdursi nella tana di un uomo che li voleva morti come se fosse in classe a spiegare il ciclo vitale della rana.

“Aspettate qui e tenete l’aereo pronto per il decollo immediato non appena saremo tornati.” rispose la dottoressa.

“Nessun colpo di testa.” disse la professoressa Munroe con un tono severo. “Nessuno di voi quattro” Li guardò uno per uno. “metterà piede a terra, per nessuna ragione al mondo. Sono stata chiara?”

I quattro ragazzi mugugnarono un sì.

“Staremo via un’ora al massimo.” disse Logan. “Se scaduto il tempo non saremo ancora tornati, voi dovrete sganciarvi.”

“Ma...” iniziò Marie, la voce tremante per la paura e la sorpresa.

Logan alzò una mano. “No, non voglio sentire nessun ma. Se entro un ora non saremo ancora qui, voi azionerete le procedure di emergenza e ve ne andrete. Bobby, sto parlando con te.” disse rivolgendosi direttamente a lui. “Il computer di bordo sa cosa fare. Dovrai solo azionarlo, e il pilota automatico vi porterà in una destinazione sicura. Hai capito?”

Bobby si limitò ad annuire in silenzio, evidentemente spaventato per la responsabilità che gli era piombata addosso.

“E che ne sarà di voi? E degli altri? E...” insisté Marie.

“Di questo non vi dovete preoccupare. Se l’ora dovesse scadere e noi non ci fossimo ancora fatti vivi, voi quattro ve ne andrete, e questo è quanto. Non voglio discussioni su questo argomento.”

Marie aprì di nuovo la bocca per contestare, ma poi la richiuse senza dire nulla. Tutti e quattro abbassarono gli occhi, incapaci di guardare i professori o i loro compagni. Meredith non riusciva a concepire un’ipotesi così orribile, doversene andare abbandonando gli altri al loro destino, tra le mani della iena e del suo branco di mostri in divisa. Senza contare che comunque non sarebbero andati poi così lontano: se Stryker riusciva ad azionare Cerebro sarebbero morti lo stesso.

“Voglio che promettiate, tutti voi, che se dovesse essere necessario azionerete l’X-Jet e ve ne andrete da qui più in fretta che potrete.” disse Logan, il suo tono un po’ più indulgente.

“E anche che non scenderete dall’X-Jet.” aggiunse la professoressa Munroe.

“Ok.” concesse Logan. “Promettete che non scenderete dall’X-Jet e che lascerete questo posto se non saremo tornati entro un ora.”

Nessuno parlò.

“Bobby, tu per primo.” disse Logan, il suo tono di nuovo duro e inflessibile.

Bobby alzò lentamente gli occhi dal pavimento e guardò Wolverine. “Sì.” sussurrò.

“Sì cosa?” insisté lui, impaziente.

Bobby deglutì e aprì le labbra, ma non ne uscì alcun suono. Era pallido come un cencio. Alla fine chiuse gli occhi per qualche secondo, espirò e poi guardò Logan con un espressione risoluta sul viso.

“Sì, lo prometto.” disse.

Logan sembrò soddisfatto. “John?”

John fece scattare un paio di volte il suo accendino. “Prometto.” rispose fissando la fiammella.

“Guardami in faccia.”

John staccò gli occhi dal fuoco e guardò Logan. “Prometto.” ripeté.

“Molto bene. Meredith?”

Meredith si sforzò di guardare Logan negli occhi. Era la frase più difficile e dolorosa che si era trovata a pronunciare in tutta la sua vita. Come faceva a giurare una cosa simile?

Prese un bel respiro. “Lo prometto.” disse. La sua voce, roca e tremante, sembrava appartenere ad un'altra persona.

Logan annuì e si voltò a guardare Marie. “Manchi solo tu.” le disse.

Marie serrò le labbra e scosse la testa.

Logan sospirò. “Devi promettere, Marie.”

Lei scosse la testa con ancor più violenza. “No, no, mai!” disse mentre una lacrima le scivolava su una guancia.

Logan la guardò con tenerezza. “L’ora sta passando, piccola. Sono tutti minuti che perdiamo.”

Gli occhi di Marie si spalancarono per l’orrore. “No!” gridò spaventata. “Lo prometto, lo prometto, ok?”

Logan le sorrise. “Brava la mia piccola.”

Marie si asciugò con rabbia le lacrime e tirò un paio di volte su col naso. Meredith si sentì sporchissima, come se avesse appena consegnato al boia il suo migliore amico.

“Un ora.” ripeté Jean Grey mentre lei, la professoressa Munroe e Wolverine si incamminavano fuori dalla sala comandi. “Rimanete qui dentro e non vi preoccupate. Andra tutto bene, ragazzi.”

La professoressa Munroe sorrise e Logan fece loro l’occhiolino prima di attraversare la porta. I quattro ragazzi sentirono le loro voci e quelle di Magneto e Mistica che si accordavano sugli ultimi dettagli del piano, poi i loro passi che si allontanavano in corridoio, poi più nulla.

I quattro ragazzi si guardarono ansiosamente in viso l’uno con l’altro, aspettando che uno di loro parlasse, ma nessuno ne ebbe il coraggio. Lentamente, Marie si sedette su una delle poltroncine di fronte la console dei comandi, e Bobby occupò quella a fianco, guardando fuori dal finestrino con aria preoccupata. John si appoggiò contro la parete d’acciaio e fece scattare più volte il suo accendino, guardando il vuoto davanti a sé. Meredith si mise alla sua sinistra e gli strinse la mano che non era occupata a giocherellare con lo Zippo.

Il pesante silenzio tra loro era interrotto solo dal click click click dell’accendino di John che si accendeva e si spegneva. Meredith alzò lo sguardo dal pavimento d’acciaio dell’X-Jet e i suoi occhi indugiarono sui suoi compagni.

“Sapete,” esordì con cautela. “quando la dottoressa Grey ha detto “rimanete qui dentro”, secondo me non intendeva proprio in questa stanza.”

Marie alzò lentamente la testa e la guardò come se la stesse vedendo per la prima volta. “Sì... Credo che Meredith abbia ragione.”

Meredith guardò Bobby e gli sorrise timidamente, sperando che non fosse più arrabbiato con lei. Con suo grande sollievo, Bobby le sorrise a sua volta. “Se andassimo nella sala di carico...” continuò Bobby. “Voglio dire, non scendiamo mica dal jet, no?”

John annuì. “Potremmo aprire il portellone.” suggerì. “Senza scendere, senza scendere, ovvio. Ma così è già tutto pronto, e appena arrivano...”

“E’ per velocizzare le cose.” concluse Meredith.

“Andiamo.” disse Marie scattando in piedi.

Gli altri tre la imitarono al volo e in un secondo erano già nel corridoio, Bobby in testa, diretti alla sala di carico. I loro passi rieccheggiarono tra le strette pareti di ferro dell’X-Jet, e Meredith provò un vago senso di inquietudine nel pensare che erano loro quattro da soli in tutto l’aereo, e con ancora maggiore irrequietezza si chiese quanto tempo fosse passato dall’inizio della missione. Stava per domandarlo a Bobby, l’unico di loro che avesse al polso l’orologio, ma poi si rese conto con una fitta di paura che non voleva affatto saperlo.

Strinse più forte la mano di John.

Appena arrivarono nell’ampia sala di carico dell’aereo Bobby si affrettò a raggiungere i comandi del portellone e l’azionò. Gli ingranaggi entrarono svelti in funzione, e la parete posteriore della stanza si abbassò lentamente finché non toccò terra.

Un’ improvvisa folata di vento gelido li fece tremare. Bobby accese le luci esterne e Meredith vide che l’aereo era atterrato in una radura innevata a pochi passi da una foresta di abeti, molto simile a quella in cui si trovava la scuola. Inconsciamente i quattro ragazzi fecero qualche passo verso l’apertura, e grazie alla luce della luna riuscirono a scorgere, in lontananza, quella che sembrava una grossa parete di cemento incastrata tra due montagne. Tesero le orecchie, ma dalla diga non proveniva alcun rumore.

Marie si sedette per terra contro la parete di sinistra, e Bobby si sistemò al suo fianco. John si issò su una delle casse che erano ammucchiate in fondo alla sala, vi si sedette a gambe larghe e poi prese delicatamente Meredith per i fianchi e l’aiutò a sollevarsi, facendola sedere tra le sue gambe. Meredith si sistemò più comodamente che poteva mentre le braccia di John si stringevano attorno alla sua vita, serrandola contro il suo corpo. Meredith mise le mani sopra quelle di lui e ne accarezzò il dorso. Dentro di sé sorrise ripensando alla prima volta che aveva toccato la sua mano, mentre tagliavano la legna nel giardino della scuola. Si rese conto di non aver mai chiesto a John se si era accorto, quel giorno, che la mano di lei era appoggiata sulla sua.

Meredith guardò verso l’esterno e grazie la luce dei fari potè vedere la neve sul terreno, candida e immacolata. Da quanto tempo non pensava alla neve. Da quando...

John appoggiò il mento sulla sua spalla e Meredith potè sentire che era turbato. Lentamente tolse la mano destra da quella di lui e cominciò ad accarezzargli l’esterno della coscia, cercando di farlo rilassare almeno un po’. Si voltò a guardarlo, ma lui continuò a fissare il nulla davanti a sé, il mento appoggiato sulla spalla di Meredith.
Assicurandosi che Bobby e Marie non stessero guardando, premette un bacio sulla guancia di John, e poi ritornò a guardare la neve. Pensò alla diga tra le montagne, e poi alla fotografia di Evie sepolta ai piedi della rosa, nel cortiletto delle cucine. John aveva ragione: era sicura che Stryker non avesse neppure sospettato della sua esistenza. La neve protegge e nasconde, pensò Meredith. Custodisce tutti i segreti che le vengono affidati, ma non le importa di niente. Non le importa se cela la tomba di una bambina uccisa dalla cattiveria della gente, o se si posa sulla tana di una iena.

John appoggiò la bocca al suo orecchio. “Oggi ho perso il mio accendino.” sussurrò.

Meredith si voltò a guardarlo. Non capiva quello che John le voleva dire e questo la inquietava.

“E’ stato...” John fece una pausa e si bagnò le labbra con la lingua, come se stesse scegliendo accuratamente le sue prossime parole. “E’ stato Magneto a trovarlo.”

Meredith rivide Magneto sorriderle dolcemente oltre la porta semichiusa, e il suo cuore rifiutò di continuare a battere, o almeno così le sembrò.

Ricordò quello che la professoressa Grey le aveva detto l’ultima volta che l’aveva chiamata nel suo studio: se l’odio e la rabbia dovessero prevalere dentro John, tu dovrai riequilibrare la bilancia e sforzarti di riportare entrambi verso il positivo.

“Mi ha detto delle cose.” aggiunse John con un filo di voce.

Ma c’è la possibilità che tu non riesca a farlo.

Meredith lo guardò, la mente completamente vuota, incapace di suggerirle qualcosa da dire.

Forse un giorno, non oggi, non subito, ma un giorno, tu dovrai prendere una decisione.

“Dovremmo prendere qualcosa per i feriti.” La voce di Bobby risuonò secca e roca, e lui si schiarì la gola prima di continuare. “In caso ce ne fossero. Non ce ne saranno, ma in caso...” Lasciò cadere la frase e guardò verso l’esterno.

“Bobby ha ragione.” continuò Marie. Anche se cercava di sembrare calma e controllata c’era un tremito di angoscia nella sua voce. “Dovremmo essere pronti. Bende, lacci emostatici, cose così.”

“Io so dove cercare.” disse Meredith saltando giù dalla cassa e liberandosi dalla stretta di John. La sua voce era acuta e isterica, e tutti si voltarono a guardarla. “Quando l’aereo stava precipitando gli armadietti dell’infermeria si sono aperti. Vado e torno.”

Si voltò e corse fuori dalla stanza prima che qualcuno potesse offrirsi di andare con lei per aiutarla. Mentre attraversava la porta incrociò lo sguardo di John. C’era dolore nei suoi occhi, e paura, paura di essere rifiutato, di essere abbandonato, lo sguardo che ha ogni figlio trascurato e ripudiato. La maledizione di ogni bambino rimasto solo.

Ti prego, ti prego, non posso, pensò Meredith con le lacrime agli occhi mentre correva nei corridoi. Non posso fare niente, e non ce la faccio a decidere.

Spalancò la porta dell’infermeria e vi si gettò dentro, cercando di ricordare da quale armadietto aveva visto cadere bende e cerotti. Alla fine ne scelse uno a caso e vi si inginocchiò davanti.

Appena aprì le ante riparate alla bel e meglio dopo gli incidenti del giorno prima, però, sentì un’improvvisa stretta allo stomaco, come se qualcosa l’avesse colpita con forza. Forse è solo la tua anima, disse una voce dentro di lei.

Strinse con forza il bordo dell’armadietto mentre rivedeva John inginocchiarsi accanto a lei nella neve, rivedeva le sue dita graffiare il terreno e lottare contro il gelo che voleva impedire loro di dare ad Evie un posto sicuro dove avrebbe potuto smettere di scappare, una buona volta, e riposare tranquilla.

Una lacrima le colò sulla maglietta mentre chiudeva gli occhi. Le faceva troppo male rivedere lo sguardo di Evie mentre posavano per la foto a Times Square e poi immaginare l’espressione sul suo volto mentre apriva il flacone di Valium e si rovesciava le pillole sulla mano. Le faceva troppo male rivedere la paura e la sofferenza negli occhi di John mentre lei si divincolava dal suo abbraccio e correva fuori dalla stanza.

John da solo non è in grado di aiutare sé stesso.

Le sembrò che grosse lacrime di sangue spillassero dal suo cuore e le gocciolassero lentamente nello stomaco.

Il respiro le si serrò per un istante, e Meredith alzò la testa di scatto verso il soffitto, in cerca di aria. Le luci al neon le bruciarono gli occhi e lei distolse in fretta la sguardo, mentre sentiva il suo cuore battere ad una velocità folle nel petto e il sangue rombarle nei timpani, e per una frazione di secondo il sangue annegò la sua paura.

Si alzò in piedi prima che il sangue si ritirasse e la paura avesse il tempo di riaffiorare, maligna e tenace, e in un secondo correva già lungo i corridoi dell’X-Jet, diretta alla sala di carico, e mentre correva le sembrò che il suo cuore avesse smesso di sanguinare, o se non altro che sanguinasse un po’ meno.

Bobby e Marie erano in piedi ai lati del portellone spalancato, e chiamavano a gran voce qualcuno che a quanto pareva si stava allontanando dall’aereo in direzione del bosco. Quando la sentirono arrivare, si voltarono di scatto e la guardarono, il viso contorto dall’ansia e dalla preoccupazione.

Potete perdervi entrambi, Meredith, oppure salvarvi entrambi.

Bobby e Marie urlarono e urlarono il suo nome e il vento fischiò gelido e crudele tra gli alberi mentre Meredith si lasciava alle spalle l’X-Jet e correva nella neve, diretta verso la foresta.

****

La luna piena splendeva luminosa nel cielo senza nubi, e anche nel folto del bosco Meredith non ebbe problemi a distinguere dove stava andando. Aveva seguito le orme di John per un po’, ma poi le aveva confuse con altre, probabilmente lasciate da Wolverine e dal resto degli X Men mentre si dirigevano alla diga, e ora proseguiva a casaccio, correndo qui e là guidata solo dal suo istinto.

La neve era più alta di quello che le era sembrato dall’X-Jet, e come le era successo tempo prima era uscita senza preoccuparsi di prendere qualcosa con cui coprirsi dal freddo. Meredith tremava mentre il sudore le si ghiacciava addosso, eppure correva e correva, e una parte del suo cervello le bisbigliò che questa volta non ci sarebbe stato nessuno che si sarebbe sfilato la felpa e gliela avrebbe offerta perché lei potesse scaldarsi.

Una radice che spuntava dal terreno la fece inciampare e Meredith dovette appoggiarsi al tronco di un abete per non cadere a terra. Premette per un istante le mani e il viso contro la corteccia ruvida, inspirando l’odore pungente della resina, e poi ricominciò a correre in cerca di John.

Avrebbe potuto urlare, chiamare il suo nome, ma la sua gola si era serrata nel momento stesso in cui il suo piede aveva toccato terra. Nella sua mente rivide sé stessa nella sala comandi dell’X-Jet, in piedi davanti ai suoi amici e ai suoi professori mentre guardava in faccia Logan e gli giurava che sarebbe rimasta sull’aereo. Bugiarda, piccola schifosa, mostro, disse qualcuno o qualcosa da dentro di lei, parlando con la voce cattiva di Alex Hagen.

Rivide sé stessa la notte dell’invasione, e pensò al soldato a cui aveva fracassato la faccia contro il muro. A volte la forza è necessaria, Meredith, le sussurrò la voce di Evie. E a te non dispiace di averlo fatto. Ti dispiace che sia dovuto accadere, ma non ti dispiace di aver usato i tuoi poteri contro quel soldato, né che John abbia fatto esplodere le auto della polizia. E’ come con la finestra della cucina, giù alla scuola. Se tu e John foste stati nelle vostre stanze, invece che in cortile a fumare, non avreste mai rotto quel vetro.

Meredith inspirò profondamente l’aria gelida della notte e continuò a correre a perdifiato nella neve, che scricchiolava sotto la suola delle sue scarpe da ginnastica come se protestasse oltraggiata per la sua intrusione. Come faceva Evie a sapere del vetro?

Me lo ha raccontato la rosa, rispose lei ridendo. Non sai quanto mi sono divertita. Meredith sorrise tra sé e sé. Non faticava ad immaginarlo. In fondo, si trattava di una storia davvero buffa.

Se quegli uomini non vi avessero attaccati, non sarebbe successo loro niente di male, continuò la voce di Evie. Ti ricordi cosa ci ha detto la mamma quando ci siamo volute arrampicare sul muro del parco giochi anche se lei ci aveva detto di non farlo, e siamo tornate a casa con i gomiti e le ginocchia tutte sbucciate?

“Chi è causa del suo male pianga sé stesso.” sussurrò Meredith al vento che le sferzava la faccia mentre correva tra gli alberi.

Le sembrò di sentire un rumore provenire da un punto indistinto alla sua destra, e Meredith vi si diresse senza pensare neppure per un momento che avrebbe potuto trattarsi della iena o di uno dei militari del suo branco.

Esattamente come tu tendi al positivo, John tende al negativo. Al nichilismo. All’autodistruzione, le ricordò la voce di Jean Grey.

Beh, forse la dottoressa si era sbagliata. Forse aveva fatto male i suoi conti. Forse non era John il polo negativo tra i due, forse il polo negativo... Sei tu, disse una voce, e questa volta Meredith non riuscì a riconoscere chi avesse parlato. Sei tu, e lo sei sempre stata.

Era buffo, che lei, la negativa tra le due sorelle, la pessimista, preferisse i colori chiari, mentre Evie, sempre così serena e allegra, si vestisse esclusivamente di nero. Quando Meredith era triste, Evie l’abbracciava ridendo e le diceva: “Su con la vita, sorellina, che oggi il sole splende!”

A Meredith venne da ridere anche se era quasi senza fiato per via della corsa. Evie era capace di dire “il sole splende” anche se fuori grandinava e c’erano dieci gradi sotto zero. Per lei il sole splendeva sempre.
Ed era così buona. Meredith non avrebbe saputo dire quante volte aveva dovuto dividere il pranzo a metà con Evie perché lei aveva dato tutti suoi soldi a qualche mendicante che aveva incontrato sulla strada da casa a scuola. Papà diceva che Evie aveva talmente tanta luce dentro di sé che quella non ce la faceva a restare tutta compressa nel suo corpo e se ne usciva. Luce gratis per tutti, diceva papà ridendo, e mica solo quella.

Guarda, guarda cosa hanno fatto alla nostra piccola Evie, papà, pensò Meredith guardando la luna piena. L'hanno costretta a scappare e a scappare finché la sua luce non si è spenta a poco a poco, finché la sua vita non è gocciolata via giorno per giorno.

Una nube nera e leggera come fumo passò veloce davanti alla luna, oscurandone la luce, e Meredith si dovette fermare per qualche istante. Si appoggiò con una mano ad un albero e respirò a pieni polmoni, cercando di recuperare un po’ di energie e di fiato per continuare a correre.
La nuvola passò, e la luce della luna ritornò ad illuminare la foresta rivestita del suo manto bianco. La neve brillò orgogliosa e altera sotto il pallido riverbero della luna e Meredith guardò in alto, verso il cielo. Pensò a Evie, addormentata sotto la rosa.

Non ero lì con te per proteggerti. Avrei dovuto esserci, ma non c’ero. Ero alla scuola, e ci sono rimasta perché lì non dovevo lottare per sopravvivere, non dovevo essere cattiva, o uccidere, o semplicemente difendermi da chi voleva farmi del male. Ho scelto la strada più facile.

I polmoni le facevano male per lo sforzo, e Meredith si concesse ancora qualche secondo di riposo prima di ricominciare a correre. Le sue unghie graffiarono la corteccia e l’abete si vendicò conficcandole una scheggia nel palmo. Meredith rise e appoggiò la schiena al tronco. La natura non perdona. Occhio per occhio, dente per dente.

La luna sembrò fissarla con un’espressione corrucciata, e Meredith smise improvvisamente di ridere. Evie era morta sola. Aveva inghiottito un intero flacone di tranquillanti e si era uccisa a sedici anni, e lei, Meredith, la sorella che Evie amava tanto, le aveva voltato le spalle e se ne era rimasta tranquilla a migliaia di chilometri di distanza, troppo debole, troppo vigliacca per combattere al suo fianco.

Era bastato che un branco di iene assaltasse la scuola perchè il sogno di Xavier crollasse come un castello di carte, schiacciato dal peso delle sue stesse sciocche e vane illusioni. Se la situazione non fosse stata così disperata, probabilmente Meredith avrebbe apprezzato il lato comico della faccenda.
Umani e mutanti che collaborano per un mondo migliore, come no. L’unico modo in cui gli umani intendevano avere contatti con i mutanti era separati dalla canna di un fucile.

Papà, papà, mi puoi perdonare? chiese Meredith alzando gli occhi verso l’alto. Ma la luna la guardò dal cielo e non le rispose.

Ci fu un altro rumore, più forte, come se qualcuno stesse spezzando dei rami, e Meredith si staccò dall’abete e si scagliò in quella direzione, correndo più veloce che poteva. Quanto tempo era passato, da quando era scesa dall’X-Jet? Quanto ne era passato dall’inizio della missione? Ripensò alla professoressa Munroe, che aveva sorriso mentre usciva dalla sala comandi dell’aereo, e che aveva pianto quando l’aveva salutata in cortile, il giorno in cui Logan l’aveva portata al JFK perché Meredith potesse prendere l’aereo per Phoenix.

Voglio che tu mi prometta che se sarà necessario, prenderai la decisione giusta e ti staccherai da John, riprese la dottoressa Grey.

Improvvisamente le sembrò di sentire una musica diffondersi nell’aria, e per una frazione di secondo Meredith rallentò la sua corsa, cercando di capire da dove venisse, ma poi si rese conto che era solo dentro la sua testa.

Era la canzone che aveva sentito alla radio quando era tornata dal funerale di Evie, la canzone che aveva cominciato a suonare mentre Logan svoltava nel viale della villa e che aveva continuato ostinatamente ad andare avanti anche se loro ormai erano arrivati a destinazione.

Come on, come on
Put your hands into the fire
Explain, explain
As I turn and meet the power
This time, this time
Turning white and senses dire
Pull up, pull up
From one extreme to another...

Nel fuoco... Forse alla fine era di questo che si trattava, solo di questo.

Ho infranto la promessa, pensò. Ho oltrepassato la linea. Sono marchiata per sempre.

Davanti a lei c’era una piccola salita e Meredith l’affrontò con uno scatto, arrampicandosi tra gli alberi che punteggiavano il pendio. Più di una volta le sue scarpe persero aderenza sul terreno innevato, rischiando di farla scivolare e cadere, ma ogni volta Meredith si rimise in piedi e continuò a correre, anche se ormai le gambe le tremavano per lo sforzo e una fitta dolorosa al fianco la costringeva a procedere piegata in due.

La cima della collinetta si avvicinava sempre più, e Meredith riusciva a vedere brandelli di cielo e di luna attraverso i rami degli alberi, come se qualcuno ne avesse strappato via dei pezzetti e li avesse poi appesi tra un abete e l’altro, come decorazioni per una macabra festa. Scivolò di nuovo e questa volta finì a terra, ma riuscì a parare la caduta appoggiandosi sulle mani e le ginocchia.

La neve le morse crudelmente le dita, felice di poterla finalmente punire dopo che Meredith aveva osato violare l’integrità e la purezza del suo reame segreto. Alla neve non importa, pensò di nuovo Meredith, perché a me dovrebbe importare di lei?

Si rialzò in piedi e percorse gli ultimi metri che la separavano dalla sommità della collinetta, il respiro che le si mozzava in gola ad ogni passo, il dolore al fianco ormai insopportabile. Con le ultime energie che le rimanevano si appoggiò al tronco di un abete e guardò in basso, in fondo al pendio.

Tre persone avanzavano nella neve. In testa al gruppetto procedeva un uomo anziano con un vestito di panno e un lungo mantello nero. Pochi passi dietro di lui c’era una donna con i capelli rossi e la pelle blu scuro ricoperta di squame, e alla sinistra della donna camminava un ragazzo, anche lui, come Meredith, vestito solo di una maglietta a maniche lunghe. Il freddo non sembrava dargli noia.

Meredith guardò John camminare al fianco di Magneto e Mistica, il suo sguardo fisso davanti a sé, il viso calmo e risoluto. Non c’era più traccia di dolore nei suoi occhi, né di paura. E nemmeno lei ne provò più.

Potevano salvarsi entrambi, oppure perdersi entrambi. L'unica cosa che rimaneva da fare ora, l'unica cosa che rimaneva da fare era entrare nel fuoco e vedere se riuscivano ad attraversarlo indenni, oppure se ne sarebbero stati consumati.

Lentamente Meredith si staccò dall’abete e scese con cautela il pendio innevato. Richiamato dal rumore dei suoi passi, il gruppetto si fermò di colpo e alzò gli occhi in direzione della collinetta. Mistica e John la guardarono con sorpresa, e per un istante le sembrò che la cambiaforma fosse anche sul punto di attaccarla. Magneto, invece, non fece e non disse nulla. Si limitò a guardarla con curiosità, come se si trovassero in un locale, o ad una festa, e Meredith avesse appena varcato la soglia.

Meredith restituì a Magneto lo sguardo, e si fermò davanti a lui, esausta. Le gambe a malapena la reggevano ed era sicura che se avesse dovuto fare un altro passo ancora sarebbe caduta a terra e sarebbe stata incapace di rialzarsi. Se Mistica la voleva uccidere, o Magneto avesse deciso di ordinarglielo, forse non sarebbe stata nemmeno in grado di combattere.

Ma Magneto le sorrise di nuovo, come le aveva sorriso sull’X-Jet. “Come ti chiami, mia cara?” le chiese con gentilezza.

Meredith staccò gli occhi dal volto di Magneto e guardò John, desiderando ardentemente che lui rispondesse al posto suo e scegliesse per lei il suo destino.

Ma John si limitò a restituirle lo sguardo e non parlò. Non poteva farlo. Non poteva decidere per lei quale fosse il suo nome, né quale fosse il suo posto. Toccava a lei rispondere a quella domanda.

Meredith tornò a guardare Magneto. Lui le sorrideva ancora con dolcezza e aspettava pazientemente che lei parlasse, incurante del fatto che si trovassero in una foresta nel cuore della notte, a pochi passi dalla base di Stryker.

“Medusa.” rispose infine Meredith.

Magneto alzò un sopracciglio, evidentemente trovandolo un nome bizzarro, ma non fece alcun commento. Si buttò un lembo del mantello oltre la spalla destra, avvolgendolo attorno al suo corpo, e indicò qualcosa situato dietro Meredith. “Bene. Andiamo, allora.” disse rivolto alle tre persone che erano lì con lui.

Meredith rimase ferma mentre Magneto e Mistica riprendevano a camminare nella neve. Lei e John si guardarono per qualche secondo in silenzio, poi John la raggiunse e fece scivolare la mano in quella di lei, e le diede una stretta. Forte.

Insieme cominciarono a camminare sulla scia di Magneto e Mistica. La mano di John era calda, e quel calore le diede le energie che le servivano per andare avanti e arrivare all’elicottero militare, che li aspettava fermo in una piccola radura tra gli alberi, a qualche metro da loro.

Meredith intrecciò le dita con quelle di John mentre salivano sull’elicottero, e Mistica sorrise sarcastica quando scorse le loro mani unite. Nessuno dei due la degnò di uno sguardo.

Stavano già camminando nel fuoco, ed era difficile vedere qualcosa al di là delle fiamme.

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E così finisce "Into the Fire". Spero che vi sia piaciuto. Cavoli, mi sto commuovendo...

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno avuto la pazienza di arrivare fino in fondo, specialmente Star_Dust_Daga, Gertie e Lia (nessuna preferenza, siete in "ordine temporale di recensione"), che hanno avuto la gentilezza e la bontà di seguire passo passo questo racconto, lasciandomi dei preziosissimi incoraggiamenti che mi hanno sollevato il morale nei momenti di blocco dello scrittore. Davvero grazie con tutto il cuore, ragazze. Non ho parole per dirvi quanto siano state importanti per me le vostre recensioni. Vi mando un abbraccio fortissimo!

Ringrazio anche te, lettore anonimo. Spero che il tuo silenzio sia dovuto alla mancanza di tempo e non al fatto che questo racconto ti abbia fatto schifo. (Anche se, te lo assicuro, in caso di recensione negativa non ti avrei mandato a casa un pacco pieno di api africane assassine.) Ti saluto, lettore anonimo, e mi auguro con tutto il cuore che "Into the Fire" ti sia piaciuto.

Il motivo per cui ho fatto così tardi ad aggiornare, oltre alle numerose riscritture di cui sopra, è che mentre scrivevo il capitolo 15 mi è balzata in mente l'idea di un seguito. E sapete com'è, quando ti viene in mente qualcosa, lo devi scrivere e basta. Mettere giù due capitoli di due storie diverse contemporaneamente è un'impresa da squilibrati, ve lo posso assicurare, ma finalmente ce l'ho fatta. Chissà come mai.
Così, insieme a questo capitolo, ho anche postato il primo capitolo del seguito di "Into the Fire". Si intitola "Winning a Battle, Losing the War". Se questo racconto vi è piaciuto, e volete conoscere la mia personale versione delle vicende di X Men 3, vi invito a dargli un'occhiata.

Bene, non ho altro da aggiungere se non che mando un ultimo, affettuosissimo saluto a tutti voi. Grazie di tutto e buona vita!!

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