Winning a Battle, Losing the War di elsie (/viewuser.php?uid=13925)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
WaBLtW1
Disclaimer:
Tutti i personaggi di questo racconto, a parte Meredith
St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan
Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox. Io
li ho solo presi in prestito per un po’.
Come ho scritto nel riassunto, in questo racconto si parla di aborto. O
meglio, delle scelte a cui una persona si trova davanti quando ha a che
fare con una gravidanza non programmata. Dopo un lungo dilemma
interiore, ho deciso di non
scegliere il rating rosso perché, in tutta onestà, non ho
scritto niente che giustifichi un rating così alto. Non mi
sembra che questo racconto contenga nulla di offensivo o provocatorio, ma capisco
che è un tema di cui qualcuno potrebbe non voler sentir parlare.
Mi sembra giusto mettere le carte in tavola prima, anche se questo
significa dare qualche anticipazione sul racconto.
Bene, sistemata questa questione possiamo passare a cose più
leggere. Come forse qualcuno si sarà accorto, “Winning a
Battle, Losing the War” è il titolo di una canzone dei
King of Convenience. Mi sembrava carino continuare con la
“tradizione” inaugurata da “Into the Fire” e
usare anche per questo racconto il titolo di una canzone.
Spero che questo racconto vi possa piacere. Ora basta con le chiacchiere, passiamo ai fatti!
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La luce del sole nascente illuminava la stanza numero 109 del motel
Stardust, appena fuori Philadelphia. Indumenti di vario tipo erano
sparsi alla rinfusa sul linoleum verde bottiglia del pavimento, e una
valigia ancora mezza piena era abbandonata aperta ai piedi
dell’armadio, sul fondo della stanza. Accanto alla porta
c’era quello che sembrava essere una pesante zaino da campeggio
nuovo di zecca, già colmo di tutta l’attrezzatura
necessaria. Su un tavolino accanto alla finestra giacevano una serie di
passaporti di varie nazionalità, mazzi di chiavi, bigliettini
strappati via da angoli di quaderni con appuntati indirizzi e nomi, un
pacchetto di chewing-gum e uno di sigarette, accanto ad uno Zippo con
il disegno di uno squalo.
Un ragazzo biondo dormiva a pancia in giù sul letto
matrimoniale, occupandone la metà di destra. Nell’altra
metà il letto era sfatto e le lenzuola erano gettate indietro,
come se il suo occupante si fosse alzato in fretta e di nascosto.
Dietro la porta del bagno, Meredith St.Clair, che aveva passato gli
ultimi quattordici mesi con il nome di Medusa, camminava nervosamente
avanti e indietro davanti al mobile del lavandino, gli occhi fissi
all’orologio che vi era posato sopra con il quadrante rivolto
verso di lei. Accanto all’orologio c’era quello che
sembrava essere un lungo e sottile bastoncino di plastica bianca.
La lancetta dei secondi ticchettò, e Medusa cominciò a
rosicchiarsi l’unghia del indice sinistro. Erano almeno dieci
anni che aveva smesso di mangiarsi le unghie, ma quella era
un’occasione particolare. La lancetta dei secondi si mosse di
nuovo. Tac.
Settantanove... Settantotto...
Medusa arrivò di nuovo fino alla doccia, troppo lontano per
vedere a che punto fosse la stramaledettissima lancetta dei secondi,
poi tornò in fretta sui suoi passi. Si fermò davanti
all’orologio e fissò la lancetta. E muoviti, schifosa, pensò. Tac.
Settanta...
Passò a mangiarsi l’unghia del pollice. Fece un paio di
passi verso la doccia, poi si sentì improvvisamente una stupida
per quel ridicolo balletto e si sedette bruscamente sul water, proprio
davanti all’orologio. Tac.
Sessantaquattro... Sessantatre...
Sbuffò e, senza accorgersene, cominciò a battere nervosamente il piede sul pavimento freddo. Novanta secondi. Cristo santo, non possono essere così lunghi. Si tratta di un misero minuto e mezzo.
Afferrò l’orologio e lo guardò attentamente, come
se cercasse di capire se si stesse prendendo gioco di lei. La lancetta
dei secondi rimase ferma tremante al suo posto, come se volesse
rifiutarsi di procedere. Tac, disse infine.
Medusa gettò l’orologio sul mobile, furiosa, e si
alzò di scatto. Poi si ricordò che doveva fare piano, che
per nessun motivo al mondo doveva svegliarlo, e guardò con ansia
la porta del bagno, cercando di carpire un qualsiasi rumore che potesse
provenire dalla camera da letto. Non sentì nulla, e dopo qualche
secondo ricominciò a camminare avanti e indietro.
Cinquanta... Quarantanove...
Scorse di sfuggita la sua immagine nello specchio del bagno e quello
che vide non le piacque per niente, una ragazza con i capelli castano
ramato raccolti in una coda mezza sfatta e il viso grigiastro per il
nervoso. Sembrava malata. Ma se non altro, pensò con un certo sollievo, di certo non sono ingrassata. Di
colpo si sentì irritata dall’inutilità di quel
pensiero, e si portò alle labbra l’unghia
dell’indice destro. Tac.
Trentatrè... Trentadue...
Ormai mancava poco. Mezzo minuto non era poi così tanto, no? Tra
poco sarebbe finito tutto. L’ansia, i sotterfugi, la
preoccupazione. Sarebbe sparita ogni cosa e lei avrebbe potuto tornare
alla sua vita normale, senza più angosce e paure e notti insonni
passate a fissare il soffitto. Sarebbe passato tutto.
Ventuno... Venti...
Si sedette nuovamente sul water, poi si alzò, poi si sedette di
nuovo. Si guardò intorno, passando velocemente in rassegna le
piastrelle bianche, i sanitari di porcellana a buon mercato e il mobile
di legno laccato, con la vernice che ormai si scrostava attorno al
lavandino, dove veniva più spesso a contatto con l’acqua.
Afferrò l’orologio che vi giaceva sopra.
Sette... Sei...
Il cuore cominciò a martellarle nel petto e la lancetta dei
secondi, che fino a qual momento aveva proceduto con una lentezza
esasperante, tutto di un tratto si mise a correre come un ossessa.
Medusa trattenne il respiro e senza nemmeno accorgersene scattò
in piedi, elettrizzata e atterrita allo stesso tempo.
Tre... Due... Uno...
Tac.
Medusa si scagliò in avanti e afferrò il bastoncino di
plastica bianca che fino a quel momento se ne era rimasto trascurato e
dimenticato sul mobile. La sua superficie era liscia e intatta, senza
nessuna finestrella scavata nella plastica. Confusa, si accorse che era
sottosopra e con le dita che le tremavano lo girò.
Blu.
Medusa fissò la finestrella sul bastoncino, la bocca impastata e
asciutta, il cuore impazzito di paura. Chiuse gli occhi per un paio di
secondi, poi li riaprì.
La finestrella era sempre blu. Il test era positivo.
Le ginocchia le cedettero e lei si sedette sul pavimento freddo,
aggrappandosi al mobile con una mano per non cadere rovinosamente a
terra, la mano destra che stringeva ancora convulsamente il test di
gravidanza. Un singhiozzo le salì alle labbra e lei si
affrettò a soffocarlo con la mano libera. E’ positivo, è positivo, è positivo! le gridò il suo cervello. Cosa farai adesso? Cosa farai?
Senza che potesse opporvisi, grosse lacrime calde le riempirono gli
occhi fino ad offuscarle la vista, pronte a riversarsi a fiume sul suo
viso da un momento all’altro. Sapeva bene che se si fosse messa a
piangere in quel momento non sarebbe più riuscita a fermarsi.
No, le disse una voce risoluta
nella sua mente, proveniente, ne era quasi certa, dall’ultimo
centimetro quadrato del suo cervello che ancora non era stato invaso
dall’angoscia e dal terrore. Non
devi piangere. Cristo, sei già abbastanza nella merda senza che
ti metti anche a frignare. Sai che se ti metti a piangere farai un
casino d’inferno e sveglierai John, e il fatto che lui ancora non
sospetti niente è l’unico aspetto positivo di questa
faccenda. E anche se per un qualche miracolo non lo svegliassi, quando
avrai finito di piangere avrai tutta la faccia gonfia e gli occhi rossi
e il naso che gocciola, e lui si accorgerà subito di quello che
è successo e vorrà sapere perché piangevi. Quindi
datti un contegno e ricaccia subito indietro quelle lacrime.
Medusa annuì e si affrettò ad ubbidire, prendendo un paio
di profondi respiri ad occhi chiusi e tirando su col naso finché
non riuscì a riguadagnare il controllo di sé stessa. Ma
per quanto autoritaria e risoluta, la voce nel suo cervello non aveva
alcun potere sul suo stomaco, e un’ondata di nausea la travolse
con violenza, costringendola ad aggrapparsi al bordo del water mentre
conati di vomito la scuotevano dalla testa ai piedi.
Disgustata da sé stessa, strappò un pezzo di carta
igienica e si pulì la bocca, poi si alzò sulle gambe che
ancora le tremavano, tirando lo sciacquone con un movimento stanco.
Raccolse da terra il test di gravidanza, (Blu, blu, blu!
continuò a gridare una voce nella sua testa, ma Medusa la
ignorò) e lo infilò nel pacchetto degli assorbenti
insieme alla sua scatola e alle istruzioni per l’uso,
accuratamente piegate, poi sbattè il pacchetto nel suo beauty
case e lo richiuse. Se ne sarebbe liberata non appena John fosse
uscito. Prese il suo spazzolino, ci mise sopra un’abbondante dose
di dentifricio e cominciò a risciacquarsi la bocca.
La maniglia della porta si abbassò violentemente, e Medusa sobbalzò.
“Meredith, sei lì dentro?” chiamò una voce
maschile dall’altro lato della porta. Con un ultimo, frenetico
sguardo attorno per accertarsi che fosse tutto in ordine, Medusa
girò la chiave nella toppa e aprì la porta.
Pyro stava in piedi dall’altra parte con indosso solo un paio di
boxer neri, i capelli corti e biondi tutti arruffati e
un’espressione sonnolenta sulla faccia.
“’giorno...” biascicò chinandosi a baciarla.
“Mm, menta...” disse quando si staccarono, leccandosi le
labbra. Nonostante tutto quello che era appena successo, Medusa non
riuscì a trattenere un sorriso.
Pyro si appoggiò alla porta puntellandosi allo stipite con
l’avambraccio sinistro, e la guardò con gli occhi
socchiusi.
“Tutto bene?” chiese.
Il cuore di Medusa saltò un paio di battiti. “Sì,
sì, tutto bene.” rispose, il più convincentemente
che poteva. “Perché?”
Pyro alzò le spalle. “Non ti chiudi mai a chiave in bagno.”
“Scusa.” rispose lei, cercando di nascondere la tensione.
“Dovevo essere soprapensiero.” Appena la pronunciò,
Medusa si rese conto che era una scusa davvero pessima, ma con suo
grande sollievo Pyro non sembrò farci caso.
“Come mai in piedi a quest’ora?” le domandò,
ma non c’era traccia di sospetto nella sua voce; più che
altro, sembrava semplicemente curioso.
“Non riuscivo a dormire.” rispose Medusa, più rilassata.
Lui sorrise e le cinse i fianchi con un braccio. “Potevi
svegliarmi.” disse con un sussurro. “Avremmo sicuramente
trovato qualcosa di interessante da fare.”
“Non ne dubito.” rispose Medusa mentre lui si chinava a baciarla.
Mentre le labbra di Pyro si posavano sulle sue, sentì una fitta di rimorso stringerle lo stomaco. Bella ipocrita che sei. Hai appena scoperto di essere incinta di suo figlio e ti comporti come se niente fosse.
Il braccio di Pyro che era ancora appoggiato allo stipite si
spostò e la mano strinse uno dei suoi seni,
massaggiandolo attraverso la canottiera che indossava. Medusa gli prese
il mento nell’incavo della mano e gli spinse delicatamente la
testa indietro, ponendo fine al bacio.
“Prima fatti la barba.” disse con un lieve sorriso,
strofinandogli la guancia ispida con l’indice. “Dopo
vedremo.”
Pyro sospirò e alzò gli occhi al cielo.
“E va bene.” rispose passando una mano tra i suoi capelli
ossigenati, imperitura memoria di quella notte in cui avevano giocato a
“verità o pegno” dividendosi una bottiglia di Jack
Daniels. Quando la mattina dopo Medusa gli aveva detto ridendo che non
avrebbe preteso che lui pagasse il suo pegno, se non se la sentiva,
Pyro era sceso al supermercato all'angolo ed era tornato con una
scatola di tinta bionda, troppo stupidamente orgoglioso per tirarsi
indietro da una sfida che aveva sottoscritto per gioco e da ubriaco.
Pyro entrò nel bagno sbadigliando e aprì il suo beauty
case, frugandoci dentro alla ricerca del rasoio. Medusa cominciò
a spogliarsi, intenzionata a farsi la doccia e lavarsi via di dosso
tutta l’angoscia e l’incertezza, e sì, anche quella
sensazione di sporcizia che si era sentita sulla pelle dal momento in
cui John era apparso sulla porta del bagno, assonnato e dolcissimo.
“Che stai facendo?” le chiese ad un tratto, fissandola come se non l’avesse mai vista prima senza vestiti.
Lei alzò le spalle, spiazzata dall’ovvietà della domanda. “Mi faccio un doccia.” rispose.
Pyro posò il rasoio sul lavandino. “Guarda che non puoi
fare così.” disse. “Non puoi negare il sesso al tuo
ragazzo e poi spogliarti nuda davanti a lui. E’ molto, molto
scorretto. E anche molto crudele.”
Medusa sorrise e si sfilò le mutandine. “Allora sbrigati a
farti la barba ed entra.” gli rispose chiudendo dietro di
sé le pareti scorrevoli della doccia.
****
Medusa rientrò in camera dal bagno dopo aver finito di
asciugarsi i capelli. John era mezzo sdraiato, mezzo seduto sul letto
disfatto, un cuscino sistemato dietro la schiena, e stava guardando il
notiziario alla tv.
...la Cura, che, come ha assicurato
Warren Worthington, presidente della Worthington Pharmaceutics,
è in grado di reprimere il genere mutante, sarà presto
disponibile gratuitamente in tutta la nazione, per ogni mutante che ne
faccia richiesta...
“Bastardi fottuti.” ringhiò Pyro.
Medusa lo raggiunse e si accoccolò accanto a lui nel letto, appoggiando la testa sul suo petto.
“Riguarda questo, l’uscita che tu e Magneto dovete fare stasera?” gli chiese.
“Penso proprio di sì.” rispose lui mentre le
grattava la schiena. “Non mi ha dato molti dettagli. Sai come
fa.”
“Sì, lo so.” Alzò la testa dal suo petto e lo
guardò. “Vuoi che venga anch’io?”
Pyro scosse la testa. “Naaa. Da quel che ho capito non
sarà niente di che. Si tratterà di imbucarsi ad una
riunione di mutanti e guardare le spalle al vecchio mentre cerca di
convincerli ad unirsi alla Confraternita. Niente di pericoloso o
eccitante.” Sorrise e indicò lo zaino da campeggio che
aspettava vicino alla porta. “E poi è meglio che almeno
uno di noi due si goda l’ultima notte in albergo. Da domani
è finita la pacchia.”
Medusa guardò lo zaino. “Se Magneto vuole che ci
trasferiamo tutti nella foresta significa che tra un po’ ci
sarà qualcosa di grosso.” disse, rivolta più a
sé stessa che a Pyro.
“Già. E’ diventato un filo paranoico, da quando
Mistica è stata catturata.” sbadigliò Pyro.
Medusa sorrise. “E’ vero, Mistica. E’ stata una vera
sorpresa sapere che si era fatta arrestare. Un genio come lei. Ed io
che avevo sempre pensato che avesse più tette che
cervello.” disse sarcastica.
Pyro scoppiò a ridere. “Sei una iena.” le disse, dandole un bacio.
Di nuovo Medusa si sentì sporchissima, e di nuovo ebbe voglia di
scoppiare a piangere. Per un istante fu sul punto di staccare le labbra
da quelle di lui e raccontargli del test di gravidanza che era
diventato blu, ma poi si trattenne. Non fare la vigliacca, la rimproverò la voce. Non c’è bisogno di far star male anche lui.
Pyro pose fine al bacio e le sorrise. “Fame?” le chiese, scostandole con delicatezza i capelli dalla fronte.
Medusa annuì. “Direi.”
Pyro sorrise di nuovo, afferrando al volo la sua allusione alla recente performance nella doccia, e si alzò dal letto.
“Che vuoi mangiare?” chiese mentre cercava le scarpe. “Il solito?”
Medusa annuì e si mise seduta a gambe incrociate sul letto.
“Sai, forse dovrei andare io.” disse. “I tuoi capelli
non passano esattamente inosservati.”
“I miei capelli vanno benissimo.” replicò lui
allacciandosi gli anfibi. “Perché? Cos’hai contro i
miei capelli? Sei stata tu a dirmi di tingerli.”
Medusa alzò gli occhi al cielo. “Ero ubriaca, John.”
Lui alzò le spalle. “E allora? Lo era anch’io.”
Medusa scoppiò a ridere. “No, tu eri perfettamente sobrio
quando sei andato a comprare la tinta. E’ questa la parte
più triste di tutta la faccenda.”
Lui frugò nel cassetto del comodino accanto al letto e
tirò fuori una specie di bracciale con attaccato un piccolo
lanciafiamme. Medusa lo guardò mentre se lo infilava al polso
destro.
“Nemmeno quel coso passa molto inosservato.” disse.
“E’ più comodo dell’accendino.” rispose Pyro con una alzata di spalle.
Il lanciafiamme era stato uno dei molti doni di Magneto. Quando erano
entrati nella Confraternita, Medusa e Pyro possedevano solo i vestiti
che avevano indosso. Magneto provvedeva a loro per qualunque
necessità: i documenti falsi, le stanze d’albergo in cui
dormivano, il cibo, i viaggi (negli ultimi quattordici mesi si erano
spostati con Magneto più o meno in tutto il mondo, in cerca di
nuove leve per la Confraternita), persino i vestiti e le sigarette. A
pensarci bene, anche il test di gravidanza era stato comprato con i
soldi della diaria mensile che Magneto corrispondeva loro. Si trattava
di cifre più che dignitose, ma andava detto che Pyro e Medusa
avevano sempre speso i soldi che ricevevano in maniera responsabile e
oculata.
Una volta Medusa aveva chiesto a Magneto da dove veniva tutto quel
denaro, dato che la Confraternita non aveva entrate, o almeno non aveva
entrate di cui lei fosse a conoscenza. Magneto le aveva sorriso con
dolcezza. “Non preoccuparti dei soldi, mia cara.” le aveva
risposto. “Considerali uno stipendio per i servigi che tu e Pyro
offrite alla Confraternita.” Medusa non aveva fatto altre domande.
Pyro raccolse un paio di jeans che giacevano sul pavimento, vicino alla
porta del bagno, e frugò nelle tasche in cerca del portafoglio,
senza trovarlo. Mormorando sottovoce qualche imprecazione, si mise a
cercare tra le cianfrusaglie che giacevano sparpagliate sul tavolino
accanto alla finestra. Alla fine trovò un biglietto da venti
dollari infilato in un passaporto canadese (Medusa vi figurava con il
nome di Claire Handersen) e se li infilò in tasca con un
espressione soddisfatta.
“Questa stanza fa schifo.” disse Medusa guardandosi in
giro. In ogni motel in cui soggiornavano allungavano sempre cinquanta
dollari alla cameriera perché si tenesse alla larga dalla loro
camera, ma l’effetto collaterale era che vivevano in un porcile.
“Fregatene.” rispose John mentre si infilava il giubbotto. “Domani ce ne andiamo.”
“Dobbiamo raccogliere le cose che ci servono. I documenti,
soprattutto.” disse Medusa, alzandosi dal letto. Forse si era
messa in piedi un po’ troppo velocemente, perché per un
secondo ebbe le vertigini e dovette appoggiarsi al muro per non cadere.
Fortunatamente Pyro stava sistemandosi i capelli davanti lo specchio
del bagno e non se ne accorse.
“Il resto lo possiamo lasciare.” continuò Medusa,
cercando di parlare con il tono più tranquillo e rilassato che
le riusciva. Le stava tornando la nausea e dovette sedersi di nuovo sul
letto.
Pyro aprì la porta della camera. “Sì, ma dobbiamo
ricordarci di distruggere quelle cose.” disse indicando i
foglietti scribacchiati sul tavolino accanto alla finestra. Sorrise e
alzò la mano destra, dove il lanciafiamme luccicava minacciosamente. “Ci penso io quando avremo finito di
fare colazione. E’ un po’ che non
uso questa bellezza.”
Medusa aspettò che i suoi passi si allontanassero in corridoio, poi corse in bagno e vomitò di nuovo. Almeno adesso puoi essere sincera con te stessa, si disse. Se
vomiti alla mattina, non c’è più bisogno che tu dia
la colpa alla cena che era avariata. E se hai il mal di testa e le
vertigini, non potrai più raccontarti che Magneto ti ha fatto
lavorare molto e sei esausta. Se hai la nausea e l’emicrania
è perché sei incinta, e ora non puoi più scappare.
****
Quella sera, quando Pyro uscì per accompagnare Magneto alla
riunione, Medusa gettò il test di gravidanza nel bidone
dell’immondizia che si trovava nel cortile del motel, poi
tornò nella sua stanza e si spogliò nuda davanti allo
specchio del bagno, esaminando con attenzione il suo corpo.
Il seno le si era già ingrossato, non di molto, certo, ma era
gonfio e duro al tatto, e le faceva male. Le sembrò anche che le
areole avessero preso un colorito leggermente più scuro, ma non
sarebbe stata pronta a giurarci. Si soppesò i seni con le mani,
premendo delicatamente i capezzoli turgidi, ma rimosse immediatamente
la pressione quando sentì il dolore aumentare leggermente.
Massaggiò con attenzione attorno alle areole, cercando un
nodulo, ma poi pensò, sentendosi un po’ ridicola, che
probabilmente il dolore era dovuto alle ghiandole del latte che
cominciavano a gonfiarsi.
Si mise la mano aperta sul ventre, appena sopra il triangolo del pube,
e si accarezzò con attenzione la pancia. Non c’era alcun
dubbio. Si era arrotondata. Non c’era bisogno di guardare nello
specchio per vederlo; lo poteva sentire, senza alcuna
possibilità di errore, sotto il suo palmo.
Medusa guardò in basso la mano appoggiata delicatamente sul grembo. C’è davvero qualcosa dentro di me, pensò. Un piccolo, minuscolo, insignificante esserino che nuota e cresce nella mia pancia.
Cercò di immaginarsi come potesse essere, quel cosino
microscopico che se ne stava tutto rannicchiato dentro di lei, ma
proprio non aveva idea di che aspetto avesse. Deve essere proprio qui, si disse passando la mano sul punto in cui il suo ventre era più tondo. E siamo stati John ed io a farlo.
Improvvisamente una serie di immagini le attraversarono la mente. Vide
il suo grembo ingrossarsi sempre più, settimana dopo settimana,
mese dopo mese. Vide sé stessa appoggiarsi una mano sul ventre
gonfio, e sentire un piedino minuscolo premere contro il suo palmo.
Vide John sdraiarsi accanto a lei sul letto, e posare un soffice bacio
sul suo pancione...
Basta.
Guardò il suo volto nello specchio. Basta.
Sai che non sarà così. Queste cose succedono solo nelle
pubblicità dei biscotti. Nella realtà ci sono i conti da
pagare, e la parcella del pediatra, e i pannolini, e tutto il resto...
Credi che Magneto sarà altrettanto generoso con voi, quando
scoprirà che non sei più in grado di lavorare per la
Confraternita? E che succederà allora? Dove vivrete? Come vi
procurerete i soldi per mangiare? Come sfamerete il vostro bambino?
Come?
Una lacrima le rigò il viso. E
se anche per un miracolo Magneto vi permettesse di restare, saresti
davvero così infame da condannare il tuo bambino ad una vita da
fuggiasco, da reietto, rischiando di farlo diventare orfano, o figlio
di carcerati, ad ogni piè sospinto? Che ne sarebbe di lui, se
voi foste catturati o uccisi? Chi si occuperebbe di lui? Un'altra lacrima scese dai suoi occhi.
Sai bene cosa gli succederebbe. Vuoi
che faccia la tua fine, rimbalzare da un orfanotrofio all’altro,
da una famiglia affidataria all’altra, alla mercè di
qualunque Alex Hagen che si senta in diritto di tirargli del fango e di
chiamarlo mostro? Un singhiozzo le scuotè il corpo e
Medusa si coprì una mano con la bocca, orripilata dal pensiero
che si era appena formato nella sua mente.
Vuoi che faccia la fine di Evie?
Si sedette per terra e finalmente si concesse di piangere.
....................................................................................
Siamo arrivati alla fine di questo capitolo. Allora, come lo avete trovato? Fatemi sapere.
Secondo voi, come reagirebbe John se sapesse che Meredith aspetta un bambino? Si
farebbe prendere dal panico, oppure accetterebbe le proprie
resposabilità? E soprattutto, sarebbe felice all'idea di
diventare padre? Come pensate che evolverà la cosa?
Un bacio a tutti e alla prossima!
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
WaBLtW2
Disclaimer: tutti
i personaggi presenti in questo racconto, a parte Meredith
St.Clair/Medusa, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel
Comics e alla Twentieth Century Fox.
Salve a
tutti! Ecco il secondo capitolo di "Winning a Battle, Losing the War".
Ad essere sincera, viste le critiche favorevoli che avevo avuto per
"Into the Fire", mi ero aspettata un esordio un po' più
brillante. Vedete? Così imparo a montarmi la testa; il Karma non
perdona mai.
Se qualcuno
volesse lasciarmi anche solo due righe per dirmi che ne pensa di questa
fanfic ne sarei felicissima. Anche "fai schifo, ritirati" andrebbe
bene, almeno so se continuare a postare oppure no.
Ad ogni modo,
adesso basta pippe mentali e parliamo di cose inerenti al
racconto. I nomi dei mutanti che si uniscono alla Confraternita la sera
in cui Magneto e Pyro partecipano alla riunione nella chiesa (la
ragazza con i capelli neri e il bustino di pelle che percepisce i
poteri degli altri mutanti e i suoi due amici, tanto per intenderci)
non vengono mai pronunciati nel film X Men 3, così ho fatto una
ricerca su Wikipedia, Dio la benedica. Se sono sbagliati, prendetevela
con i redattori di Wikipedia, non con me. ^__^
C'è
un po' di lemon verso la fine del capitolo. Come al solito, niente di
esplicito o dettagliato, ma tanto per farvelo sapere.
Buona lettura!
......................................................................................................................................
Medusa guardò preoccupata il cielo plumbeo all’orizzonte.
Probabilmente ci sarebbe stato un temporale entro il tramonto, e
sperò ardentemente che la tenda giù
all’accampamento reggesse all’acquazzone.
Brava, molto professionale, si rimproverò. Sei
nel bel mezzo di una missione e tu pensi alla tenda. Ringrazia dio che
Magneto non è in grado di leggere nel pensiero.
Medusa fissò il suo capo che se ne stava in piedi a qualche
passo da lei, intento anche lui a scrutare l’orizzonte. Sapeva
bene che non stava guardando il cielo. Stava aspettando che il
convoglio militare apparisse da oltre la curva, così avrebbero
potuto entrare in azione e liberare il suo braccio destro, da ormai
quattro mesi nelle mani del governo degli Stati Uniti d’America.
Medusa sbuffò impaziente, e fortunatamente nessuno se ne
accorse. Tra lei e Mistica non era mai corso buon sangue, ma Medusa non
avrebbe potuto spiegare il perché. Si detestavano e basta, fin
dal primo giorno in cui lei e Pyro si erano uniti alla Confraternita.
Questione di carattere, forse. O di rivalità tra donne.
Pyro si appoggiò ad uno degli alberi che offrivano loro riparo,
e si accese una sigaretta. Medusa cominciò a sentirsi addosso
una certa stanchezza. Ormai stava in piedi ad aspettare da quasi
quaranta minuti, e provò il desiderio di sedersi per terra, ma
poi si trattenne. Non voleva fare la figura della debole davanti ai
nuovi acquisti della Confraternita. In fondo, lei era pur sempre
Medusa, una delle guardie del corpo di Magneto e, ora che Mistica era
impegnata altrove, tanto per usare un eufemismo, anche uno dei suoi
luogotenenti.
Magneto aveva chiesto a lei e a Pyro di occuparsi
dell’inserimento dei ragazzi nuovi, reclutati, come le aveva
raccontato il suo fidanzato, a quella riunione in cui lui e Magneto
avevano fatto irruzione. Il suo sguardo scivolò su di loro: Kid
Omega, il ragazzo asiatico con gli aculei a porcospino, Archlight, con
il suo sguardo arcigno e i suoi guanti viola, e il loro capo, Callisto,
che aveva trovato Mistica su ordine di Magneto.
Non avrebbero partecipato all’azione oggi, ma si sarebbero
limitati a guardare. Sul campo di battaglia sarebbero scesi loro tre:
lei, Pyro e Magneto, i veterani.
Non era la prima volta che partecipava ad uno scontro. Da quando aveva
lasciato la scuola le era capitato più volte di usare i suoi
poteri, sia per difendersi, sia per attaccare. Ormai piegare le persone
alla propria volontà e trasformarli in burattini di cui lei
teneva i fili non le faceva più né caldo né
freddo. Non ne provava piacere, ma nemmeno la disturbava come succedeva
un tempo: era routine, ordinaria amministrazione. Era semplicemente
quello che faceva per sopravvivere. E sopravvivere era tutto.
Si era però imposta di non uccidere, a meno che non fosse
strettamente necessario. Per fortuna, controllare la volontà
delle persone per il momento si era rivelato sufficiente, e non si era
mai trovata nella situazione di dire “o me o loro”.
“Sono vicini.” disse Callisto. “Un chilometro, non di più.”
Magneto la guardò brevemente ed annuì. “Aspettate
finché non mi sarò liberato del convoglio.” disse
rivolto a Medusa e Pyro. “Poi raggiungetemi.”
Si gettò il lungo mantello nero oltre le spalle e si
incamminò verso la strada, a circa un centinaio di metri da
loro. Medusa sapeva quello che stava per succedere. Era un copione
già visto. pensò. Stupidi umani, pensò. Troppo pieni di sè per imparare dai propri errori.
Pyro schiacciò la sigaretta contro la suola del suo stivale e si
mise a fianco della sua fidanzata. “Lavoretto facile?”
disse guardando Magneto, ormai solo una figurina ferma nel centro della
strada.
“Assolutamente sì.” rispose lei.
“Guardie?”
Medusa alzò le spalle. “Due o tre, se Magneto si libera della scorta.”
Pyro annuì pensieroso. “Se ne libererà.”
“E noi che facciamo?” si intromise improvvisamente Kid Omega.
Medusa e Pyro si voltarono a guardarlo. “State di guardia.” rispose lei.
Le piacevano quei tre ragazzi, le sembravano in gamba. Se fosse stato
per lei li avrebbe fatti partecipare alla missione, ma gli ordini di
Magneto erano stati chiari: il loro ruolo sarebbe stato puramente
d’osservazione. Dovevano ancora imparare come lavorava la
Confraternita.
Kid Omega alzò le spalle, incredulo. “Ma se non verrà nessuno!” protestò.
“Beh, tanto meglio per voi.” gli rispose Pyro. “Potrete godervi con comodo lo spettacolo.”
“E a proposito di spettacolo.” disse Callisto indicando la strada. “Guardate là.”
Una colonna di auto era appena spuntata da dietro la curva. Due
fuoristrada neri con i lampeggianti della polizia precedevano un enorme
tir, che trainava quello che sembrava essere un container
d’acciaio. Dietro il tir, altri due fuoristrada chiudevano il
convoglio.
Pyro rise. “Cristo santo, c’è metallo
ovunque!” esclamò. “Ma come fanno ad essere
così cretini?”
Medusa si limitò a sorridere mentre i primi due fuoristrada
venivano spazzati via da Magneto con un semplice gesto della mano.
Sentì Callisto e gli altri mormorare stupefatti, esattamente
come aveva fatto lei la prima volta che aveva visto Magneto
all’opera.
Anche gli altri due fuoristrada carambolarono nel prato, uno da una
parte e uno dall’altra, e a quel punto il container si
staccò dal tir che lo trainava e scivolò
sull’asfalto, sollevando una cascata di scintille. Il tir, ormai
fuori controllo, procedette a folle velocità verso Magneto.
Dietro di lei, Medusa sentì Archlight trattenere il respiro.
“Porca puttana, guardate che roba!” gridò Kid Omega
a metà tra l’elettrizzato e l’atterrito, mentre il
tir si librava in aria e poi si sfracellava sull’asfalto alle
spalle di Magneto.
“Te l’avevo detto che si sarebbe liberato della scorta.” disse Pyro rivolgendosi a Medusa.
Magneto alzò una mano, e il container rallentò la sua
corsa sull’asfalto fino a fermarsi a pochi passi da lui.
“Andiamo.” ordinò Pyro, e i cinque ragazzi corsero
in direzione del loro capo, in attesa tra i rottami delle auto. Medusa
evitò accuratamente di guardare i cadaveri degli agenti
stritolati tra le lamiere.
Raggiunsero il retro del container e Medusa ordinò a Callisto,
Kid Omega e Archlight di rimanere di guardia all’esterno.
“Non riesco a credere di essere venuta fin qui solo per restarmene con le mani in mano.” protestò Callisto.
“Fidati.” le disse Medusa. “Quando conoscerai Mistica sarai felice di essere rimasta fuori.”
Callisto le sorrise, e Medusa ne fu contenta. Voleva farsi rispettare,
ma non voleva essere una stronza piena di boria come era Mistica, che
guardava tutti dall’alto in basso solo perché era
così in confidenza con Magneto da potersi permettere di
chiamarlo con il suo vero nome. Per
essere una che si dà tutte quelle arie, non ha fatto una gran
figura facendosi catturare come una rubagalline qualsiasi, pensò Medusa ridacchiando malignamente dentro di sé.
Si piazzò davanti al portellone d’acciaio del container.
Magneto, alla sua destra ma leggermente più arretrato rispetto a
lei, la guardò negli occhi. “Pronta?” le chiese.
Medusa guardò il portello e si concentrò. Sentiva il
cuore pomparle l’adrenalina in circolo battendo ad una
velocità folle, ma sapeva benissimo che non era paura, solo
eccitazione. I muscoli delle gambe si fletterono leggermente, pronti a
scattare. Sapeva quello che doveva fare. Era una tecnica collaudata.
“Pronta.” rispose, e in quel preciso istante il portellone
d’acciaio si staccò dai suoi cardini e volò via, e
Medusa saltò nel container, gli occhi spalancati davanti a
sé.
Una pistola le si puntò immediatamente contro la faccia, e
dietro la pistola c’era un agente sudato e con
l’uniforme tutta spiegazzata che ansimava spaventato. La
guardò negli occhi.
La guardavano sempre tutti negli occhi. Possibile che non avessero ancora capito?
“Che vuoi fare, burattino?” chiese all’agente con
tono di scherno, e quello abbassò immediatamente la pistola, le
braccia che ciondolavano mollemente lungo i fianchi come se non
avessero ossa nella carne.
“Ecco, bravo, a cuccia.” gli disse guardandolo sdraiarsi faccia a terra.
Il rumore di un applauso le fece alzare la testa. Mistica era in fondo
al container, davanti alla porta spalancata di una cella. Il corpo di
una guardia giaceva esanime ai suoi piedi.
“Brava.” le ghignò. “Erano anni che non mi divertivo così.”
Medusa alzò le spalle con finta indifferenza, ma dentro di
sé bruciava dalla rabbia. Mistica era davvero bravissima a farla
andare fuori dalla grazia di dio.
“Sai com’è.” rispose. “C’è
stato parecchio da fare in questi mesi. Peccato che tu te lo sia
perso.” Mistica aprì la bocca, il volto contorto dalla
rabbia, e Medusa esultò per essere riuscita a colpirla sul vivo.
“Signore, vi prego.” le richiamò la voce di Magneto prima che Mistica riuscisse a dire qualcosa.
Medusa si voltò. Lui e Pyro erano saliti sul container e ora si
guardavano in giro con curiosità, facendo vagare lo sguardo
dall’agente sdraiato accanto al portellone a quello morto vicino
alla cella di Mistica, alle porte numerate che si trovavano sulla
parete destra del container.
La cambiaforma avanzò verso il suo vecchio amico, la disputa con
Medusa già dimenticata. “Era ora.” disse rivolta a
Magneto. Probabilmente il tono voleva essere risentito, ma più
che altro suonò sollevato.
“Sono stato occupato.” replicò Magneto con un tono di scusa. “Che cosa hai scoperto?”
Mistica alzò le spalle. “La fonte della Cura è un
mutante. Un ragazzo dei laboratori Worthington.” rispose.
“Senza di lui non hanno niente.”
Magneto annuì con aria soddisfatta. Fece volare una cartelletta
d’acciaio che giaceva sul pavimento fino a Pyro, che
l’afferrò al volo. “Leggi la lista degli
invitati.” gli disse.
Pyro obbedì. “Detenuto 1475, James Madrox .” lesse indicando la prima cella.
Magneto scardinò via la porta. Dentro c’era un uomo con i
capelli scuri, una maglietta colorata e un giubbotto di pelle. Fece un
passo avanti e improvvisamente c’erano due
uomini con i capelli scuri e la giacca di pelle, uno dentro la cella,
l’altro appena fuori. Poi un’altra copia si staccò
da quello che era rimasto nella cella e si piazzò davanti ai
mutanti della Confraternita, poi si staccò un’altra copia,
e un'altra ancora, e un’altra ancora. Alla fine anche
l’uomo della cella fece un passo avanti, e tutte le copie (ormai
ce n’erano una mezza dozzina) si riunirono al corpo originale,
che sorrise serafico ai suoi liberatori.
Medusa lo fissò a sua volta. Aveva degli splendidi occhi verdi e
adesso che lo guardava meglio, il suo sorriso non era serafico,
tutt’altro. Era un sorriso sexy. Davvero molto, molto sexy. Che gran bel pezzo di...
La voce di Mistica la distolse brutalmente dai suoi pensieri. “Ha
rapinato sette banche.” spiegò.
“Contemporaneamente.”
Per la prima volta da quando si erano conosciute, Medusa provò
un’ondata di gratitudine per la cambiaforma. Dentro di sé
stramaledisse gli ormoni che le erano impazziti a causa della
gravidanza, e che la portavano dalla depressione alla ninfomania
compulsiva almeno sei o sette volte al giorno.
Le era capitato altre volte di fare pensieri su qualche uomo che
incontrava, e che non era John. Beh, non era mica di legno. Ma mai fino
al punto di sentirsi sessualmente attratta da lui.
Magneto squadrò Madrox dalla testa ai piedi. “Mi farebbe comodo uno con il tuo talento.” disse.
Lui alzò le spalle. “E va bene, ci sto.” rispose.
“Benvenuto nella Confraternita.” gli disse Magneto, e
Madrox si incamminò verso il portellone, ma non prima di essersi
voltato a squadrare Mistica. Medusa dovette girarsi di scatto e fissare
la parete di fondo del container per impedire ad una serie di pensieri
molto sexy e molto sconci di riversarsi nel suo cervello.
Passarono alla cella successiva. “Detenuto 3982, Cain
Marko.” lesse Pyro. Mentre scorreva con gli occhi il contenuto
della cartelletta, qualcosa sembrò catturare la sua attenzione.
“Ehi, sentite questa: “Il detenuto deve essere tenuto
sempre sottochiave.” citò. “Se si mette in moto,
niente può fermarlo.”
Magneto piegò leggermente la testa di lato, genuinamente
incuriosito dalla nota che le guardie avevano aggiunto al suo profilo.
“Che cosa interessante.” bisbigliò, e la pesante
porta d’acciaio di spalancò di colpo.
Alla parete della cella era legato un uomo gigantesco, i muscoli del
torace e dall’addome gonfi come quelli di un pugile, o di un
culturista. Aveva decisamente le spalle più larghe che Medusa
avesse mai visto. Rimase in attesa di qualche pensiero a luci rosse, ma
grazie a dio non ne ebbe nemmeno uno. Non poteva esserne sicura al
cento per cento, dato che indossava un elmo di ferro simile a quello di
Magneto, ma il tizio, per quanto muscoloso, non era certo né
bello né sexy. Meno male che ancora non sei caduta tanto in basso, pensò con un certo sollievo.
“Come ti chiamano?” chiese Magneto all’uomo nella cella.
Lui alzò il mento in una posa d’orgoglio. “Il Fenomeno.” rispose.
Magneto sollevò un sopracciglio con aria vagamente schifata. “Mi domando il perché.”
Il Fenomeno non sembrò cogliere il sarcasmo nella voce di
Magneto. “Fatemi uscire, devo fare pipì.” disse
semplicemente.
Le morse di ferro che lo tenevano imprigionato si spaccarono in due e
il Fenomeno uscì dalla cella, guardando uno per uno i suoi
liberatori.
“Bello il tuo elmo.” disse Pyro quando lo sguardo del Fenomeno si posò su di lui.
Medusa cercò con una certa ansia del sarcasmo nella voce di
Pyro. Voleva molto bene al suo ragazzo e sapeva che era imbattibile con
il suo lanciafiamme, ma il Fenomeno, a giudicare dalla stazza, sarebbe
stato capace di metterlo al tappeto con una sberla.
Per fortuna il Fenomeno, forse anche lui indeciso come Medusa,
optò per la strada della non violenza. “Mi dona,
vero?” rispose.
Poi accadde, e accadde molto in fretta. Medusa sentì un click,
come un caricatore che viene infilato in una pistola, e un urlo.
“No!”
Si voltò di scatto e vide che l’agente si era rialzato e
puntava la pistola verso di loro. Il suo cervello fu, per un istante,
annebbiato dalla paura, ma la sua mano destra si mosse veloce e per
conto suo, senza bisogno di alcun ordine o autorizzazione, e si
posò sul suo grembo per fare da scudo al bambino dentro di lei.
Mistica scattò in avanti, e il proiettile che era diretto a
Magneto la colpì poco sotto la spalla sinistra. Prima che la
guardia potesse sparare di nuovo, prima ancora che riuscisse a capire
cos’era successo, Magneto gli fece volare via la pistola dalle
mani e Pyro lo investì con una potentissima fiammata.
Il poliziotto cadde a terra senza un lamento (più tardi, quando
ripensò a quello che era successo nel container, Medusa
ringraziò dio per questo: era sicura che se lo avesse sentito
gridare sarebbe impazzita), il corpo avvolto dalle fiamme.
L’odore dolciastro della carne bruciata si diffuse nel container,
e immediatamente Medusa fu travolta dalla nausea.
Si aspettò di vedere il sangue colare copioso dalla ferita di
Mistica, ma invece, quando la cambiaforma cadde a terra, Medusa
potè vedere che aveva una fiala conficcata nella carne. Il
liquido che vi era contenuto si iniettò rapidamente dentro il
corpo di Mistica, che cominciò a tremare, squassata dalle
convulsioni.
I suoi capelli furono i primi a cambiare, passando da rosso fuoco a
nero corvino. La sua pelle perse rapidamente il colorito blu scuro e le
scaglie che ricoprivano il suo corpo furono inghiottite
dall’epidermide, che divenne liscia e rosea. Alla fine una
Mistica completamente diversa, una Mistica che Medusa non conosceva, li
guardò terrorizzata e tremante, sdraiata nuda sul pavimento
d’acciaio del container.
“Grazie per avermi salvato.” le disse Magneto, distogliendo lo sguardo.
Mistica sollevò la testa, i suoi occhi azzurri (azzurri, non
gialli, come erano stati fino a quel momento) pieni di lacrime.
“Eric...” chiamò con un filo di voce.
Lui tornò a guardarla. “Mi dispiace, mia cara.” disse. “Non sei più una di noi ormai.”
Medusa si voltò a guardare Magneto, incapace di credere a
ciò che aveva appena sentito. Fu proprio questo, il fatto che
lui cacciasse via il suo miglior luogotenente dopo anni e anni di
fedele servizio, che si liberasse della sua unica amica dopo che lei
aveva rischiato la vita per salvarlo dalla Cura, a stomacarla
maggiormente in tutta quella giornata, ancor più del cadavere
della guardia che ancora bruciava a pochi passi da lei.
“Che peccato.” Medusa sentì dire da Magneto mentre
si allontanava insieme a Pyro e al Fenomeno. “Era così
bella.”
Si tolse la giacca e l’appoggiò sulle spalle di Mistica,
cercando di coprirla meglio che poteva, detestandosi per non averci
pensato prima, per averla lasciata nuda ed esposta sotto gli occhi di
tre uomini, per non averle risparmiato almeno quella degradazione.
Mistica la guardò senza parlare, incapace di smettere di
tremare. Non si erano mai piaciute, anzi, avrebbero potuto
tranquillamente dire che si odiavano, eppure Medusa non aveva mai
voluto questo, non glielo aveva mai augurato, mai.
Avrebbe voluto dirlo a Mistica, avrebbe voluto dirle che le dispiaceva,
che era tutta colpa sua se aveva perso i suoi poteri, era colpa sua se
Magneto l’aveva abbandonata, se quella guardia era morta in
maniera orribile...
Ma la nausea ormai era diventata troppo forte, e Medusa si voltò
e corse fuori dal container, cercando di non guardare il cadavere
carbonizzato del poliziotto. L’aria pura e fresca le fece
guadagnare alcuni secondi preziosi e riuscì a fare il giro del
container, arrivando alla parte anteriore, e lì cadde in
ginocchio e vomitò con violenza.
Si rimise in piedi, ma improvvisamente il pensiero di aver lasciato
dentro Mistica, di non averla aiutata ad alzarsi e ad uscire, di non
aver neppure provato a contraddire Magneto quando l’aveva buttata
fuori dalla Confraternita le provocò un'altra serie di conati.
Si aggrappò al metallo contorto e annerito del container.
“Ehi, va tutto bene?”
Medusa alzò gli occhi e vide Callisto che la guardava con aria sospettosa.
Si pulì la bocca con il dorso della mano. “Sì,
sì, certo.” rispose cercando di darsi una contegno.
“Sicura?” insisté Callisto. “Perché non sembra che tu stia bene.”
Medusa cercò di controllare il tremito che le impediva di reggersi in piedi senza appoggiarsi al container.
“Sto bene.” ripeté, e mosse qualche passo verso Callisto.
“Ma che è successo là dentro?” chiese la ragazza.
“Non importa.” rispose Medusa. “Andiamocene via di qui.”
****
“E’ colpa mia. E’ tutta colpa mia.”
Medusa e Pyro erano seduti per terra davanti alla loro tenda,
nell’accampamento che la Confraternita aveva stabilito nella
foresta. Medusa guardò il falò che scoppiettava a qualche
metro da loro, guardò le fiamme che rischiaravano debolmente la
notte, e rabbrividì ripensando al poliziotto che era morto
bruciato. Distolse in fretta lo sguardo prima che la nausea potesse
tornare ad assalirla.
Aveva passato quasi un ora sotto la doccia, nel bunker sotterraneo che
Magneto usava come rifugio privato, eppure non riusciva a togliersi di
dosso quell’odore stomachevole di carne bruciata. John le aveva
assicurato che se lo immaginava, che lui riusciva solo a sentire il
profumo del bagnoschiuma e dello shampoo, eppure Medusa non si dava
pace.
“Non è stata colpa tua.” ripeté Pyro per
l’ennesima volta quella sera. “Sai bene che non è
così.”
“Avrei dovuto stare più attenta.” insisté lei
testardamente. “Ordinare alla guardia di gettare la
pistola.” Scosse la testa, frustrata. “Come ho potuto
essere così stupida?”
“Non era mai successo che qualcuno riuscisse a liberarsi dal tuo
controllo prima d’ora.” replicò Pyro. “Non lo
potevi prevedere.”
“Beh, avrei dovuto.” obiettò lei stizzosamente.
Sospirò e diede un calcio al terriccio polveroso e secco ai suoi
piedi. Non c’era stato alcun temporale e la terra implorava
acqua. “E’ che mi era sembrato così debole e
spaventato... Pensavo che l’energia che avevo utilizzato bastasse
per tenerlo sotto controllo.”
“Appunto.” disse Pyro. “Hai fatto tutto quello che
dovevi.” Allargò le braccia. “Senti, Meredith,
facciamo una vita pericolosa. Non sempre possiamo controllare tutto
quello che succede durante le nostre missioni. Ci sono dei rischi.
Questo lo sappiamo noi, lo sa Magneto e lo sapeva anche Mistica.”
Medusa scosse la testa e guardò il gruppetto che sedeva attorno
al falò poco distante. C’era un uomo sulla quarantina, con
i capelli scuri lunghi fino alle spalle e la pelle olivastra, che
teneva banco raccontando qualcosa agli altri mutanti che erano
lì con lui.
“... e allora io mi giro verso il ciccione,” Medusa
sentì l’uomo dire. “e gli faccio: Se ti piace
così tanto, perché non te lo sposi?”
Il suo pubblico, di cui faceva parte anche Kid Omega, scoppiò a ridere di gusto.
“La odiavo, la odiavo davvero, sai?” disse Medusa a bassa
voce. “E adesso mi sento una merda. Come se le avessi sparato
io.”
Pyro la guardò. “Hai ordinato al poliziotto di alzarsi e sparare?” chiese.
Medusa lo fissò scioccata. “No!” esclamò. “No, certo che no! Come puoi solo pensare...”
“Allora ho ragione io.” la interruppe Pyro. “Non è stata colpa tua.”
Medusa scosse la testa e appoggiò il mento sulle ginocchia,
cominciando a piangere. Incolpò di nuovo i suoi ormoni
impazziti, ma la verità era che si sentiva troppo stanca e
troppo sconvolta per lottare ancora contro le lacrime, e questa volta
il pensiero che uno dei veterani della Confraternita non potesse
mostrarsi debole davanti ai suoi sottoposti non servì a niente.
Pyro le mise un braccio attorno alle spalle e le girò il viso
verso di lui. “Non è colpa tua.” ripeté, e si
chinò a darle un bacio sulle labbra. Era la prima volta da
quando era iniziata la loro relazione che John si lasciava andare ad
una simile dimostrazione di affetto in pubblico, e Meredith ne fu
così sorpresa e così felice che la sua voglia di piangere
scemò.
John le sorrise. “Andiamo a dormire?” chiese indicando la tenda.
Meredith annuì e si alzò in piedi. In quel momento le giunse dal falò la voce di Kid Omega.
“Che cos’è quello, amico, un rosario?” chiese al tizio con i capelli lunghi.
“Questo? Ah, sì.” rispose lui. “E’ una
strana storia, pensa. Me l’ha dato anni fa una ragazza che avevo
incontrato a Chicago. Io non lo volevo neanche, ma lei continuava a
dire che aveva abbandonato la sua bambina sulle scale di Saint Mary of
Grace a Detroit e che ora non era più degna di tenere Dio su di
sé, e allora...”
Medusa si girò di scatto. “Come hai detto?” chiese all’uomo con i capelli lunghi.
Tutto il gruppetto attorno al fuoco si gelò immediatamente
quando vide la luogotenente di Magneto avanzare a grandi passi verso di
loro. L’uomo con i capelli lunghi deglutì e la
fissò con uno sguardo spaventato.
“Beh,” iniziò cauto. “si parlava di questo...”
Si interruppe, evidentemente insicuro su come procedere, e alzò
la mano sinistra. Attorno al polso portava avvolto quello che sembrava
essere un lungo rosario di pietre scure. La croce d’argento che
pendeva dalla catena brillava alla luce del fuoco.
Medusa fissò la croce. “Hai detto che te l’ha dato
una ragazza?” chiese. “Dove?” Sentì Pyro
arrivarle alle spalle e fissare anche lui il rosario avvolto attorno al
polso dell’uomo.
“A Chicago.” ripeté lui. “E’
stato...” Corrugò la fronte nello sforzo di ricordare.
“Sì, alla mensa dei poveri di Joliet Street. Non è
che io mangiassi lì, avevo un amico che ci lavorava, quindi
capitava spesso che andassi a...”
“Ed è lì che hai incontrato quella ragazza?” lo interruppe Medusa. “Che aspetto aveva?”
L’uomo scosse la testa. “Non ricordo. E’ successo... mah, una quindicina di anni fa, più o meno.”
“Sei sicuro che abbia parlato di Saint Mary of Grace, a
Detroit?” lo incalzò Medusa. “Proprio sicuro?”
“Sì, su questo non posso sbagliarmi.” rispose
l’uomo. “Lo ha ripetuto almeno un migliaio di volte.”
Medusa guardò di nuovo il rosario che luccicava riflettendo
debolmente la luce del falò. Poi, con un rapido sguardo a Pyro,
si incamminò verso gli alberi che costeggiavano
l’accampamento, lasciando dietro di sé il gruppetto di
mutanti che la guardarono nervosi e stupiti.
Il cuore le batteva impazzito nel petto, e Medusa si mise a camminare
avanti e indietro tra gli alberi come aveva fatto quando aspettava il
risultato del test di gravidanza. Un tumulto di emozioni le si
rimestava nello stomaco, e Medusa non avrebbe potuto dire, nemmeno
sotto tortura, quale fosse la prevalente in lei.
Pyro la raggiunse e le rivolse uno sguardo interrogativo. Solo la parte
destra del suo viso era distinguibile nel buio, illuminata dal chiarore
del falò. Il resto del suo corpo era in ombra.
Medusa lo guardò in silenzio. “John, credo che quella
donna fosse mia madre.” sussurrò quando riuscì a
racimolare il fiato che le serviva per parlare.
Lui spalancò gli occhi. “No, aspetta, aspetta un
momento.” disse alzando una mano. “Come fai a
sapere...”
“La chiesa.” rispose Medusa. “E’ per questo che
il mio secondo nome è Grace, perché mi hanno trovata
sulla scalinata di Saint Mary of Grace a Detroit. John, e se...”
“Non puoi esserne sicura. Si tratta di una chiesa, chissà
quanti bambini, negli anni, sono stati lasciati lì davanti.
Voglio dire, si sentono di continuo storie del genere.” disse
Pyro.
Medusa considerò per un po’ le sue parole.
“Sì, questo è vero. Ma la chiesa corrisponde, e la
città, e anche il periodo, più o meno.”
Fissò di nuovo Pyro, cercando di distinguere i suoi occhi nella
penombra. “John, potrebbe essere lei.”
Pyro le restituì lo sguardo e rimase in silenzio. “Andiamo
a dormire, adesso.” disse piano, dopo un po’. “Domani
ci penseremo.”
Tornarono nella loro tenda e si prepararono per la notte. Medusa si
spogliò dei vestiti che indossava e si mise la maglietta di John
che utilizzava come pigiama. Nonostante fossero ormai in maggio, la
temperatura non era molto alta di notte, ma il sacco a pelo che avevano
comprato era abbastanza grande per tutti e due, e se Meredith sentiva
freddo le bastava stringersi a John per scaldarsi.
Quando si voltò, Medusa vide che Pyro era già nel sacco a pelo e la stava fissando con un sorriso sulle labbra.
“Sono felice di averti ceduto quella maglietta.” le disse facendo correre gli occhi sulle sue gambe nude.
Medusa sorrise a sua volta. “Dovrai indossarla di nuovo, qualche
volta.” rispose indicando la maglietta. “Ormai ha quasi del
tutto perso il tuo odore.”
Pyro annuì e le tese le braccia. “Quando vuoi, ma adesso vieni qui.”
Medusa obbedì e si infilò nel sacco a pelo insieme a lui,
avvolgendogli le braccia attorno al corpo e attirandolo a sé per
un bacio. John rispose con altrettanta passione, le sue mani che
vagavano libere sul corpo di lei finchè non furono entrambi
nudi, e Meredith dovette premere forte la bocca contro il suo petto per
soffocare il gemito che le salì alle labbra quando raggiunse
l'orgasmo. Alla fine crollarono uno a fianco all'altra, stremati e
coperti di sudore.
“Da dove viene Meredith allora?” chiese improvvisamente Pyro mentre l’abbracciava.
“Il paramedico che mi portò in ospedale mi diede il nome
di sua madre.” rispose lei appoggiando la testa sulla sua spalla.
“O almeno così mi hanno detto.”
Rimase a lungo sveglia a guardare la luce del falò che filtrava
attraverso il telo della tenda, sempre più fievole, sempre
più fievole, finché non si spense completamente e tutto
fu buio.
.....................................................................................................................
Spero di non aver offeso
nessuno, ma ho voluto fare un omaggio a Eric Dane, che in X Men 3
interpreta James Madrox (alias Multiple Man), e che secondo me è
l'uomo più sexy della galassia. Non per niente in Grey's Anatomy
ha ricevuto il soprannome di "Dottor Bollore"...
Comunque non vi preoccupate: la fantasia di Meredith su Madrox rimarrà, appunto, una fantasia senza alcuno sviluppo.
Se ci riuscite, non ve la prendete
troppo con Meredith, non è stata del tutto colpa sua. A parte il
fatto non trascurabile che sono io, il suo burattinaio (Buahhahhahh,
risata malvagia), Meredith è in preda agli ormoni della
gravidanza, e Eric Dane è, oggettivamente, un gran bel pezzo di
gnocco, tanto per usare un francesismo che fa molto chic.
E poi a chi non è capitato
di fare pensieri sconci su qualcuno che non è il proprio
ragazzo? Allora? Nessuno? Forse c'è una mano alzata là in
fondo... No, nessuno.
Forse il ruolo di Medusa e
Pyro nella Confraternita potrebbe a prima vista sembrare eccessivo, ma
se ci pensate bene, nel film Pyro è con Magneto ovunque
vada, e sull'isola di Alcatraz è proprio lui a trasmettere
l'ordine d'attacco al resto della Confraternita. Non mi sembra
eccessivo affermare che, a causa anche della "demutantizzazione" (lo so, andrei picchiata per quest'orrore che ho appena scritto) di Mistica, Pyro diventi il braccio destro di Magneto.
Bene, anche per questa volta è tutto. Un saluto a tutti e a presto!
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
WaBLtW3
Disclaimer: Tutti
i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith
St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan
Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.
Ecco a voi il terzo capitolo. Godetevelo!
..............................................................................................................................
Arrivarono davanti alla mensa per i poveri di Joliet Street, a Chicago,
quando le campane della chiesa lì accanto suonavano le due del
pomeriggio.
“E’ questa?” chiese dubbioso Pyro, guardando l’edificio grigio e malmesso che sorgeva davanti a loro.
Tutta Joliet Street, a dir la verità, aveva l’aria di
essere poco raccomandabile. Molti dei palazzi che vi si affacciavano
avevano alcune delle loro finestre sbarrate con assi di legno, e
graffiti dipinti con le bombolette spray decoravano i muri, che erano
scrostati in più punti. C’erano alcuni bambini che
giocavano a guardie e ladri in un vicolo buio, e li avevano guardati
con diffidenza quando Pyro e Medusa li avevano avvicinati per chiedere
informazioni.
Non si faceva fatica ad immaginare che Joliet Street non fosse certo nella parte “rispettabile” della città.
Medusa lesse l’insegna situata sopra la porta a vetri. “Sì, è questa.” disse.
Esitò per qualche istante, poi si avvicinò e cercò
di guardare all’interno della mensa attraverso la vetrata, ma
erano troppo opaca per la polvere per riuscire a distinguere qualcosa.
Si girò a guardare Pyro, e lui le si mise a fianco. Medusa mise
la mano sulla maniglia della porta e spinse.
Una piccola parte di lei fu delusa quando la porta si aprì. Non
sapeva se era più ansiosa o più spaventata di scoprire
qualcosa su sua madre. Aveva cercato di non farsi troppe illusioni,
ripetendosi che erano passati troppi anni da quando l’uomo che
aveva incontrato all’accampamento era stato qui, e che
probabilmente la ragazza del rosario non era nemmeno sua madre. Una
parte di lei sperava ardentemente che non lo fosse.
Durante il viaggio aveva continuato a chiedersi cosa avrebbe fatto e
detto se per uno strano caso del destino quella donna fosse stata
davvero sua madre, e si fossero incontrate. Sapeva bene che esisteva
una probabilità su un milione che questi due avvenimenti si
realizzassero contemporaneamente, eppure non riusciva a smettere di
pensarci, atterrita ed elettrizzata allo stesso tempo.
Cosa avrebbe fatto? Si sarebbe voltata e sarebbe andata via, oppure
sarebbe andata da lei per parlarle? E in questo caso, cosa avrebbe
potuto dire? “Ciao, io sono la figlia che hai abbandonato, ti va
di parlarne?”
Pyro e Medusa attraversarono la porta a vetri e si ritrovarono in una
grande sala con le pareti chiare e il pavimento a piastrelle bianche e
nere. Tre lunghi tavoli, ognuno da circa cinquanta posti, erano
disposti perpendicolarmente nella stanza, e un lungo bancone
costeggiava la parete di fondo, piatti e bicchieri ordinatamente
impilati sopra. Non c’era anima viva.
Medusa si stava chiedendo cosa fare quando una porticina di legno
accanto al bancone si aprì e apparve una donna di mezza
età con una lunga gonna a fiori e una camicia rosa, i capelli
grigi raccolti in una crocchia sulla testa.
“Mi dispiace, adesso la mensa è chiusa.” disse rivolta a Medusa e Pyro. “Tornate alle sette.”
Ad un tratto si fermò e impallidì. “Santo cielo,
Danielle!” esclamò fissando Medusa. “Come è
possibile?”
Medusa sentì il suo respiro bloccarsi nei polmoni. “Cosa?
Come mi ha chiamato?” chiese alla donna avanzando rapidamente
verso di lei.
La donna prese un paio di occhiali da vista dal taschino della camicia
e li inforcò, esaminando attentamente Medusa attraverso le
lenti. “No, tu non sei Danielle.” mormorò, parlando
più a sé stessa che alla ragazza in piedi davanti a lei.
“Eppure...”
“Sto cercando una persona.” disse Medusa. Il sangue le
rombava talmente forte nei timpani che faticava a sentire il suono
della sua stessa voce. “Un uomo mi ha detto che, circa quindici
anni fa, incontrò qui una ragazza che diceva di aver abbandonato
la sua bambina davanti alla chiesa di Saint Mary of Grace a
Detroit.”
La donna guardò Medusa, e sembrò capire qualcosa che a
lei evidentemente sfuggiva. Chiuse gli occhi e scosse debolmente la
testa. “Allora è vero...” disse. “E io che
pensavo fosse solo uno dei suoi vaneggiamenti...”
Per un momento, Medusa fu certa che il suo cuore stesse per esplodere,
talmente batteva forte. “Allora esiste davvero questa ragazza?
Lei la conosce?” chiese con un filo di voce.
La donna annuì gravemente. “Prego, sedetevi.” disse
indicando a Medusa e Pyro uno dei tavoli della mensa. Mormorando
qualche parola di ringraziamento, i due ragazzi si sistemarono uno a
fianco all’altra, e la donna si sedette di fronte a loro.
“Sai, le somigli davvero moltissimo.” disse
improvvisamente. “E’ per questo che ti ho chiamato Danielle
quando ti ho vista. Sei il suo ritratto.”
“E’ così che si chiama? Danielle?” chiese Medusa. Ha detto che le assomiglio, sussurrò una voce nel suo cervello. Ho una madre a cui assomigliare, adesso...
La donna le rivolse un mezzo sorriso. “Sì, Danielle. Danielle Alvarez.”
Alvarez, ripeté Medusa
dentro di sé. Si era sempre chiesta, fin da bambina, da dove
venissero la sua carnagione scura e le sue labbra piene. Ora lo sapeva.
Sua madre aveva origini latine.
“C’è ancora una sua fotografia, di là.” disse la donna. “Posso andare a prenderla.”
Il cuore di Medusa le fece una capriola nel petto. “Sì, la prego.” rispose con un sussurro.
La donna si alzò. “Torno subito.” disse, ed
uscì dalla stessa porta da cui era entrata, la sua lunga gonna a
fiori che ondeggiava dietro di lei.
Medusa si voltò verso Pyro, elettrizzata. Aveva così
tante cose da dirgli, così tante emozioni da descrivergli,
eppure la sua bocca si rifiutò di emettere un qualunque suono.
Non sapeva proprio da che parte cominciare.
Lui se ne accorse e le sorrise, prendendole una mano tra le sue. Senza
staccare mai i suoi occhi da quelli di lei, si portò lentamente
la mano alle labbra e ne baciò il dorso. Meredith gli sorrise a
sua volta e gli accarezzò una guancia con la mano libera, grata
per tutto il sostegno che le stava dando in quella situazione. Era
venuto con lei fino a Chicago senza protestare per un viaggio che, a
ben guardare, avrebbe avuto buone probabilità di risolversi in
niente, sopportando senza mai fiatare il suo silenzio e i suoi mugugni
distratti durante tutto il tragitto in treno. E ancora le teneva la
mano fra le sue, sapendo bene, senza bisogno che lei aprisse bocca, in
quale stato si trovasse ora che stava per vedere sua madre, seppure in
fotografia, per la prima volta in tutta la sua vita.
La porta si riaprì e la donna riapparve con un bricco di limonata ghiacciata e due bicchieri.
“A proposito, il mio nome è Rachel Edmond.” disse
versando la limonata nei bicchieri. “Faccio volontariato qui da
ormai trent’anni, ed è così che ho conosciuto
Danielle. Ecco, prendete.” disse porgendo a Pyro e Medusa i loro
bicchieri colmi. “Avete tutta l’aria di aver fatto un lungo
viaggio.”
Medusa la ringraziò e si portò alle labbra il bicchiere,
rendendosi conto di quanto fosse assetata solo quando il primo sorso di
limonata le scese giù per la gola.
Rachel la guardò e le rivolse un sorriso. “Ecco.”
disse porgendole una fotografia. “Questa è Danielle.”
Una ragazza di non più di vent’anni, con la carnagione
ambrata e lunghi capelli neri era seduta ad uno dei tavoli della mensa,
forse proprio il tavolo in cui Medusa era seduta ora. I suoi vestiti
erano logori e male assortiti, con un lungo cappotto di panno grigio
che copriva una maglietta azzurra di cotone e una paio di jeans
stracciati. Le sue labbra carnose erano leggermente dischiuse e i suoi
occhi sembravano fissare un punto lontano, situato da qualche parte
alla sua sinistra. Dal suo collo pendeva un rosario di pietre scure con
al centro una croce d’argento. Medusa scrutò attentamente
ogni dettaglio. Se non fosse stato per i capelli neri e gli occhi
nocciola avrebbe anche potuto essere lei la ragazza della foto.
“Come vedi, ti somiglia molto.” disse Rachel. “Non
avrei mai creduto che ci fosse veramente una bambina. Come ho detto
prima, pensavo si trattasse solo di una delle sue farneticazioni.”
Medusa alzò gli occhi dalla fotografia. “Farneticazioni?” chiese. “Farneticazioni in che senso?”
Rachel esitò, a disagio.
“La prego.” la incalzò Medusa. “Ho bisogno di sapere. Mi dica la verità.”
Rachel esalò un lungo sospiro. “Danielle è malata
di mente. Una qualche forma di schizofrenia, o almeno credo.”
Medusa sentì Pyro stringerle forte la mano fra le sue.
“Non saprei darti il suo esatto quadro clinico, ma posso dirti
che aveva dei gravi problemi quando arrivò qui.”
Medusa si lasciò andare contro lo schienale della sedia. La
parte di lei che già immaginava lunghe chiacchierate con
Danielle, o almeno sognava la possibilità di chiederle
perché l’avesse abbandonata, giaceva al suolo colpita a
morte.
“Apparve qui da un giorno all’altro.” continuò
Rachel. “Nessuno fu in grado di cavarle una parola sensata
riguardo a dove venisse. Ogni giorno, per circa un anno e mezzo, venne
alla mensa a mangiare, cascasse il mondo, a pranzo e a cena.”
“Lei...” iniziò Medusa, in realtà senza avere la minima idea di quello che voleva domandare.
“Una brava ragazza, proprio una brava ragazza.” disse
Rachel con affetto. “La maggior parte del tempo se ne stava per
conto suo a mormorare versetti della Bibbia e preghiere, senza dare
fastidio a nessuno. Era tanto buona. Qui le volevamo tutti molto bene.
Ogni tanto, quando si sentiva un po’ meglio, dava una mano a
pulire e aiutava gli altri ospiti. Ma capitava di rado,
purtroppo.”
Medusa guardò di nuovo la fotografia davanti a lei. Non
guarda da un'altra parte perché il fotografo l’ho sorpresa
mentre era distratta. Chissà cosa sta credendo di vedere mentre
scruta in quel punto lontano. Si vergognò immediatamente per quel pensiero.
“Era molto religiosa?” chiese, cercando di ignorare il dolore che sentiva nel petto.
“Oh sì, molto.” rispose Rachel. “Portava al
collo il suo rosario come se fosse una reliquia. Poi un giorno si
presentò qui senza, e non fummo capaci di farci dire che fine
avesse fatto. Molto probabilmente l’aveva perso da qualche
parte.”
Medusa scosse la testa sorridendo tristemente. “Non poteva
più portare Dio su di sé perché aveva abbandonato
la sua bambina.” mormorò. Rachel Edmond la guardò
sconcertata.
“Ho incontrato l’uomo a cui Danielle diede il suo rosario,
circa quindici anni fa.” spiegò Medusa, indicandolo nella
foto. “Lo pregò di prenderlo dicendo che lei aveva
abbandonato sua figlia davanti alla chiesa di Saint Mary of Grace a
Detroit. E’ così che sono risalita a questo posto.”
“Sì.” disse Rachel. “Lo ripeteva sottovoce
migliaia di volte al giorno. Ma dato il suo stato mentale, nessuno ha
mai immaginato che fosse vero.”
Medusa fissò a lungo la fòrmica verde pisello del tavolo,
incapace di sentire nulla che non fosse quel dolore nel petto, come la
ferita di un pugnale. Alzò lentamente lo sguardo su Rachel.
“Signora Edmond.” iniziò, cercando di tenere la voce
ferma. “Sa dirmi dove si trova Danielle ora?”
Lei annuì tristemente. “E’ ricoverata
all’ospedale psichiatrico di St. Louis.” disse con un
sospiro. La ferita nel petto di Medusa si fece più dolorosa.
“Come ti ho detto, è rimasta con noi per circa un anno.
Poi un giorno è sparita misteriosamente come era apparsa.”
continuò Rachel Edmond.
“Se è scomparsa come fa a dire che è in manicomio a St. Louis?” domandò Pyro.
“Per dieci anni non abbiamo saputo più niente di
lei.” rispose Rachel. “Quando sparì abbiamo provato
a cercarla per un po’, ma non ne trovammo traccia da nessuna
parte. Passammo in rassegna gli ospedali, le case di cura, i ricoveri
per senzatetto, persino gli obitori, Dio non volesse. Niente. Poi,
cinque anni fa, uno dei volontari della mensa è andato a trovare
suo cugino che era stato ricoverato nell’ospedale psichiatrico di
St. Louis, e ha riconosciuto Danielle in una delle pazienti.”
La signora Edmond fece una nuova pausa e guardò Medusa, indecisa
se continuare o meno. “Sai, sono andata anch’io a trovarla,
ogni tanto.” disse infine. “E’... L’ho trovata
molto peggiorata, da quando stava qua. Povera bambina. Anni fa era
ancora lucida, anche se solo a tratti. Con un po’ di pazienza si
riusciva a farla ragionare. Ma adesso...” Scosse la testa con gli
occhi lucidi. “E’ completamente persa nel suo mondo. Non
credo neanche che si renda conto di dove si trova, o di quello che le
accade attorno, povero angioletto. E’ come se il suo corpo fosse
ancora su questa terra, ma la sua mente è altrove. Mi dispiace
moltissimo.”
Medusa abbassò di nuovo lo sguardo, il dolore al petto più forte che mai. Tutto questo tempo, e non ho niente, pensò.
Fin da piccola aveva cercato di immaginare chi fosse la donna che
l’aveva messa al mondo. Una parte di lei la odiava per averla
abbandonata, condannandola ad una vita di solitudine negli orfanotrofi,
mentre gli altri bambini avevano una mamma e una famiglia che si
prendesse cura di loro.
Ma voleva anche disperatamente sapere perché l’avesse
rifiutata, lasciandola appena nata sulla scalinata di una chiesa.
Quando aveva visto la foto di Danielle la parte di lei terrorizzata
dall’idea che sua madre non l’avesse voluta perché
era una mutante aveva esultato. Sembrava così giovane. Forse era
per quello che l’aveva abbandonata, perché era ancora una
ragazzina e non sapeva come provvedere a sua figlia. Ma ora non avrebbe
mai potuto parlare con sua madre, sapere da dove veniva, chiederle se
da qualche parte aveva dei nonni, degli zii, o cose simili. Danielle
era malata, e se Rachel aveva ragione non sarebbe stata in grado di
dirle nemmeno una parola.
La mano di John strinse più forte la sua, e Medusa si
voltò a guardarlo brevemente, poi si alzò. La signora
Edmond le rivolse uno sguardo indulgente. “Ti ho dato solo brutte
notizie, mia cara. Non sai quanto mi dispiace.”
Medusa scosse la testa, il suo pensiero lontano anni luce da lì.
“Non è colpa sua. La ringrazio per tutto il tempo che mi
ha dedicato.” disse lentamente.
“Non c’è di che, cara.” le rispose Rachel.
“A proposito, ancora non ti ho chiesto come ti chiami.”
Medusa esitò. La signora Edmond le piaceva, e non le andava di mentirle. Oh, andiamo, si disse infine. Chi mai potrebbe collegare te a questo posto?
“Meredith.” rispose, ignorando lo sguardo di rimprovero di Pyro.
Rachel sorrise. “Meredith.” ripeté. Indicò la
fotografia che giaceva sul tavolo davanti a loro. “Prendila pure,
se vuoi.”
Medusa scrutò attentamente la ragazza che vi era rappresentata,
e che aveva i suoi stessi identici tratti, la sua stessa identica
carnagione, le sue stesse labbra, perfino la sua stessa corporatura.
Sorrise.
“No, grazie.” rispose. “Non ne ho bisogno.”
****
Appena tornarono al campo Medusa andò al bunker ad incontrare
Magneto. Era stata via tutto il giorno, e anche se ai membri della
Confraternita era solitamente concessa una certa libertà di
andare e venire lei aveva pur sempre delle responsabilità.
Quella mattina, quando era andata dal capo a dirgli che lei e Pyro si
sarebbero assentati per motivi personali, si era aspettata che lui le
negasse il permesso o almeno che le chiedesse dove stavano andando. Una
parte di lei desiderava che lo facesse, così avrebbe avuto un
buon motivo per discutere con lui. Invece Magneto si era limitato a
sorriderle e a dirle: “D’accordo, mia cara.”
Lo trovò nella sala principale del bunker, seduto al tavolo di
acciaio che occupava gran parte della stanza. La pistola che il giorno
precedente Magneto aveva tolto alla guardia sul container, prima che
Pyro la uccidesse, giaceva sulla superficie lucida della tavola. Medusa
distolse rapidamente lo sguardo e lo posò su Magneto.
“Ci sono stati dei nuovi arrivi oggi.” disse lui.
Medusa annuì. “Sì, li ho visti montare le tende mentre venivo qui.”
Magneto le mostrò dei fogli che teneva in mano. “Archlight
ha trascritto i loro nomi e le loro abilità.”
Medusa guardò il suo capo, cercando del rimprovero nella sua
voce. Di solito, la registrazione delle nuove leve era un compito che
spettava a lei; tutto ciò che riguardava la gestione della
truppa era sotto la sua responsabilità. Ma Magneto non sembrava
né irritato, né deluso; semplicemente, la stava
informando.
“Posso?” chiese Medusa.
Magneto alzò le spalle. “Certo.”
I fogli che aveva in mano volarono verso Medusa, che li afferrò
mentre erano a mezz’aria e cominciò a scorrerli
velocemente, grata di avere una scusa per non guardare Magneto negli
occhi. Aveva scoperto di non avere affatto voglia di guardarlo, dopo
quello che era successo il giorno precedente.
“Stiamo diventando numerosi.” disse Medusa senza alzare gli
occhi dai fogli. “Ci serviranno più provvigioni.”
“Non c’è problema.” rispose Magneto.
Medusa sorrise continuando a scorrere distrattamente i fogli.
“Sì, immaginavo.” disse. Cominciò a fare
rapporto, ma rifiutò di alzare gli occhi su Magneto. “Il
morale della truppa è ancora piuttosto alto. Un paio di persone
si sono lamentate per la sistemazione nel bosco, ma si sono dati una
calmata quando ho fatto loro presente che questo non è il
camping delle Giovani Marmotte. La situazione sanitaria è
piuttosto buona. Un paio di raffreddori, ma per il momento niente di
preoccupante. Finché il tempo tiene non credo che avremmo
preoccupazioni su quel fronte. Ah, dimenticavo. La ragazza bionda che
sa mimetizzarsi, Kharmaleon, si è lamentata per un mal di denti.
Le ho dato un paio di analgesici, ma credo che presto dovremmo mandarla
in città a vedere un dentista. Servono le solite cose, tessera
sanitaria falsa e tutto il resto. Comunque non penso ci saranno
problemi, è una dormiente.” Nel gergo della Confraternita,
il termine “dormiente” indicava chi non aveva ancora
partecipato ad una missione.
“Quando gliene parlerai?” chiese improvvisamente Magneto.
“Parlare con chi a proposito di cosa, Magneto?” rispose Medusa senza alzare lo sguardo dalle carte.
“Dovrebbe poter prendere parte a questa decisione. E' anche figlio suo.”
Le carte che Medusa teneva in mano caddero a terra, e lei fissò
Magneto con un misto di terrore e di ansia. Il capo della Confraternita
la guardò con tenerezza, e Medusa si lasciò cadere su una
sedia.
“Non...” iniziò debolmente, senza nemmeno sapere cosa voleva dire.
Lui le sorrise. “Mia cara, quando ieri quella guardia ci ha
puntato addosso la sua pistola, tu ti sei messa una mano sul ventre. Lo
so, probabilmente non ti sei nemmeno accorta di averlo fatto.” le
disse con un tono comprensivo. “Credo sia quello che viene
comunemente definito “istinto materno”. E' una legge di
natura, non lo si può controllare. Ogni madre difende il proprio
piccolo.”
Le ultime parole di Magneto furono come una pugnalata al cuore.
Pensò all’esserino annidato dentro di lei che dormiva
cullato dai battiti del suo cuore, sicuro che la sua mamma
l’avrebbe protetto sempre.
“Certo, Pyro non poteva accorgersene, visto che ti dava le
spalle.” continuò Magneto. “E se ancora non gli hai
detto niente significa che questo bambino tu non lo vuoi tenere. Ma
è pur sempre il padre, e ha il diritto di dire la sua.”
La vergogna e il senso di colpa tornarono a colpirla in tutta la loro potenza. Guarda che cosa ha fatto John per te, disse una voce maligna nella sua mente. Ti
ha tenuto per mano, ti ha rassicurata quando più ne avevi
bisogno, e tu ti libererai del vostro bambino senza che lui nemmeno
sappia della sua esistenza. Senza che abbia, almeno una volta, la
possibilità di metterti una mano sulla pancia.
Di colpo si odiò. Non riusciva a sopportare
l’intensità di quella sensazione rivolta contro di
sé, perciò diresse la sua collera e il suo disprezzo
verso Magneto.
“E tu che ne sai?” gli disse rabbiosamente. “Com’è che adesso ti metti a farmi la predica?”
Lui non si scompose per quella mancanza di rispetto. “Hai
ragione.” rispose. “Io non ne so nulla di figli. Ma nella
mia vita ho imparato una cosa o due sul mentire. O sul nascondere la
verità, che poi, credimi, mia cara, qualunque scusa tu ti voglia
raccontare sono la stessa identica cosa. Se vuoi accettare un consiglio
da un vecchio, posso dirti che se deciderai di non dire niente a Pyro
prima o poi questa scelta tornerà a tormentarti. Qualunque cosa
tu voglia fare a proposito del bambino, è meglio per tutti e due
voi se prendete questa decisione insieme.”
Medusa rise sarcastica, ancora scossa dall’odio e dallo sdegno.
“Decisione? E cosa c’è da decidere?” chiese
all’uomo che la guardava dall’altro capo del tavolo.
“Come dovremo sfamare questo bambino, secondo te? Perché,
se ho capito bene da quello che è successo a Mistica ieri, per
quelli che non sono più utili alla Confraternita la faccenda
suona un po’ come: “grazie di tutto, adesso levatevi dai
coglioni.” Non credo che ci permetteresti di restare se avessimo
un neonato di cui occuparci, ho ragione?”
La frase su Mistica le era sfuggita di bocca prima che avesse il tempo
di capire quello che stava dicendo, e appena ebbe terminato la sua
sfuriata Medusa pensò che Magneto l’avrebbe colpita, o le
avrebbe gridato contro, o l’avrebbe buttata fuori dalla
Confraternita. Invece si limitò a rivolgerle uno sguardo
impassibile.
“Sì, hai ragione.” rispose.
Medusa lo guardò a sua volta, cercando di riacquistare la calma.
Poi abbasso lo sguardo. “Allora non c’è nessuna
decisione da prendere.” disse piano. “Non c’è
niente da discutere.”
Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui Medusa continuò a fissare il tavolo lucente dinnanzi a lei. Non c’è nessuna possibilità di scelta, si disse amaramente. E’
una strada obbligata, perciò non c’è bisogno che
John lo sappia. Lo farebbe solo soffrire. Puoi portare questo peso da
sola, e sai che è l’unica cosa da fare. Non la migliore,
solo l’unica.
Alzò lentamente gli occhi su Magneto. “Non dirgli niente.” sussurrò.
Lui scosse la testa. “Certo che non lo farò. Non spetta a
me.” disse con calma. “Se tu hai deciso di non
parlargliene, non è compito mio intromettermi.”
Medusa annuì leggermente, sempre guardando altrove. “Ok.” mormorò.
Sì alzò e uscì dalla stanza, lasciandosi alle
spalle Magneto ancora seduto al tavolo, i cui occhi, ne era sicura,
erano fissi sulla sua schiena mentre si allontanava.
Quando uscì dal bunker il sole stava già calando oltre le
cime degli alberi. Guardò attorno a sé
l’accampamento che si preparava per la notte, e si
incamminò verso la sua tenda.
Ripensò al viaggio a Chicago, alla fotografia di Danielle, e si
rese improvvisamente conto di non aver pensato, neppure per un momento,
all’uomo che era suo padre. Si era concentrata solo su Danielle,
senza considerare che doveva pur esserci una controparte maschile
coinvolta nel suo concepimento. Forse l’ha lasciata quando Danielle gli ha detto di essere incinta, pensò. Non sarebbe la prima volta che si sente una storia del genere.
Alla sua destra, Callisto e Archlight stavano sistemando un telo di
plastica sopra le casse che contenevano gli approvvigionamenti per il
campo. Quando la videro passare interruppero per qualche istante il
loro lavoro e la salutarono. Oppure, chissà, continuò Medusa tra sé e sé. Quell’uomo non ha mai saputo di aver avuto una figlia. Una
rondine si gettò dall’alto di un abete e planò a
volo radente sull’accampamento, sfrecciando come un missile a
pochi passi da lei. Sarebbe bello chiederlo a Danielle, pensò.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
WaBLtW4
Disclaimer:
tutti i personaggi presenti in questo racconto ad eccezione di
Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono
a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century
Fox.
Ben ritrovati con il
capitolo 4 di questo racconto. Come vi sarete sicuramente accorti, sto
seguendo la trama di X Men 3. A differenza del film precedente (sul
quale ho incoscientemente basato "Into the Fire") questa volta X Men 3
l'ho guardato. Anzi, ce l'ho in DVD, quindi le differenze di trama
saranno davvero minime. Qualche dettaglio sarà diverso, ma
è una scelta cosciente.
Comunque, godetevi il capitolo.
..............................................................................................
Medusa era inginocchiata nella tenda che lei e Pyro occupavano, e stava
riempiendo una piccola borsa con un po’ di cibo, bottigliette
d’acqua e altre cose che le sarebbero servite per il viaggio a
St. Louis. Seduto davanti all’entrata, Pyro la guardava
severamente.
“Non servirà a niente.” disse ad un tratto.
Medusa non alzò lo sguardo. “Sì, probabilmente è vero.” rispose.
“Hai sentito quella donna.” continuò Pyro, sempre
più contrariato. “Sta male, non è neppure in grado
di capire dove si trova. Non ti dirà niente di utile!”
“Questo lo so.” replicò Medusa infilando il suo pacchetto di sigarette nella tasca esterna della borsa.
“E allora perché ci vuoi andare?” esclamò Pyro, esasperato. “Non ha senso!”
Medusa alzò lentamente gli occhi dalla borsa e li fissò
in quelli di lui. “Voglio andare.” disse piano.
Pyro alzò la mano destra in un gesto di stizza.
“Sì, ma perché?” disse, questa volta quasi
gridando.
Prima che Medusa avesse il tempo di rispondere, sentirono qualcuno che
si schiariva rumorosamente la voce appena fuori dalla loro tenda.
Entrambi guardarono l’ombra scura che il sole proiettava sul
telo, poi Pyro tiro giù l’apertura lampo dell’uscita
e scivolò fuori. Medusa lo seguì.
Kid Omega li guardò a disagio, passando rapidamente lo sguardo
dall’uno all’altra. Probabilmente li aveva sentiti litigare
e ora non sapeva come comportarsi.
“Che vuoi?” lo aggredì Pyro.
“Mi dispiace disturbare.” rispose Kid Omega. “Ma
Magneto vi vuole a rapporto. Dice che è urgente.”
Pyro e Medusa si scambiarono un’occhiata. “Andiamo.”
disse nervosamente lui, e i tre si incamminarono verso il bunker di
Magneto, il silenzio tra i due fidanzati pesante come un macigno. Kid
Omega li seguiva distanziato di qualche passo, cercando di evitare di
fissare lo sguardo sui due che lo precedevano e che aveva evidentemente
interrotto durante una discussione privata piuttosto accesa. Medusa fu
quasi sicura di averlo sentito tirare un sospiro di sollievo quando
cominciarono a scendere le scale del bunker.
Kid Omega si fermò in una delle stanze d’anticamera
insieme a Callisto e al Fenomeno, mentre Medusa e Pyro proseguirono
verso la sala principale.
Trovarono Magneto seduto al grande tavolo d’acciaio che dominava la stanza.
“Callisto ha percepito una forza imponente.” disse il capo
della Confraternita quando Pyro e Medusa si avvicinarono. “Una
mutante che io credevo perduta molto tempo fa.”
Medusa si limitò a restituirgli lo sguardo senza chiedere
ulteriori spiegazioni. Ormai si era abituata alle frasi criptiche di
Magneto.
“Portarla nella Confraternita sarebbe un grosso punto a favore
della nostra causa.” continuò. “Dobbiamo andarla a
prendere subito e portarla qui, prima che qualcun altro arrivi a
lei.”
“Qualcun altro chi?” domandò Pyro. “Xavier e la sua banda di senza spina dorsale?”
Magneto annuì. “E’ vitale che Xavier rimanga lontano
da lei.” disse. “Sarebbe un grosso problema per noi, se la
Fenice cadesse sotto la sua influenza.”
“Fenice?” chiese Pyro. “E’ così che si chiama?”
“Sì.” rispose Magneto. “Vi spiegherò
tutto mentre siamo in viaggio. Adesso andate a prepararvi.”
Pyro annuì e si voltò per uscire, ma Medusa rimase
immobile. Quando era sulla porta John si accorse che la sua ragazza non
lo seguiva, allora si voltò e la guardò sorpreso.
“Meredith.” la chiamò.
Magneto la fissò con uno sguardo interrogativo. Ora o mai più, si disse lei.
“Mi dispiace, Magneto, ma non posso venire.” disse con calma, restituendogli lo sguardo.
Lui scosse la testa. “Mia cara, sono costretto ad insistere. Oggi mi servi al mio fianco.”
“Te lo ripeto, oggi non posso venire con te.” rispose lei.
“Puoi portare uno dei ragazzi nuovi. Mi sembrano in gamba, e sono
sicura che saranno all’altezza della situazione.”
Magneto si alzò in piedi; la sua pazienza sembrava essere sul
punto di esaurirsi. “Non voglio portare qualcuno che non ho mai
visto combattere, Medusa, voglio te. Non credo che tu ti renda conto di
quanto è importante questa missione.”
Lei si sforzò di reggere lo sguardo di ghiaccio che sembrava
voler bucare la sua anima. “No, capisco benissimo, credimi. Ma
non posso aiutarti comunque.” disse, tenendo la voce più
ferma che le riusciva. “Porta i ragazzi nuovi. Normalmente ti
avrei consigliato di portare Mistica, ma considerata l’attuale
situazione....”
Il gelo cadde nella stanza. Magneto e Medusa continuarono a guardarsi
negli occhi in silenzio, nessuno dei due disposto ad abbassare lo
sguardo per primo.
“Mi dispiace, Magneto, non voglio mancarti di rispetto.”
disse lentamente Medusa. “Ma oggi ho un impegno altrove.
Tornerò in un giorno, un giorno e mezzo al massimo.”
Aspettò che lui replicasse, ma non lo fece. Si limitò a guardarla accigliato.
“Comunque,” continuò Medusa. “se vorrai
espellermi dalla Confraternita, è tuo pieno diritto
farlo.”
Si voltò e si incamminò verso l'uscita della stanza.
Quando passò di fianco a Pyro lui la afferrò per un
braccio e la costrinse a seguirlo oltre la soglia, chiudendo poi la
porta dietro di sé.
“Meredith, ti ha abbandonata.” disse piano, guardandola negli occhi.
“E’ vero.” rispose lei. “Ma rimane comunque mia madre.”
Fece per incamminarsi verso l’uscita, ma Pyro non la
lasciò andare. Improvvisamente furiosa, lei gli diede una spinta
e liberò il braccio dalla sua stretta. “Non ho chiesto il
tuo permesso, John, e nemmeno la tua compagnia.” gli
sibilò, la voce carica di rabbia. “Se vuoi andare con
Magneto, allora va’ con Magneto. Io comunque vado a St.
Louis.”
Si voltò e uscì dal bunker senza un guardarsi indietro.
****
Medusa camminava per le strade di St. Louis cercando di non pensare a
niente. Non al suo futuro nella Confraternita, né al bambino,
né a John, nemmeno a cosa avrebbe fatto e detto una volta che si
sarebbe trovata di fronte a Danielle.
Adesso il suo obiettivo era trovare l’ospedale psichiatrico, poi
avrebbe affrontato ogni cosa a piccole tappe. Una volta trovato
l’istituto, sarebbe dovuta arrivare fino a Danielle, e solo
quando sarebbero state faccia a faccia Medusa avrebbe deciso cosa fare.
E una volta finito con sua madre, avrebbe affrontato tutto il resto. Ma
per il momento, proprio non ci voleva pensare, anche se sapeva che doveva pensarci.
A domani ci pensiamo domani, si era detta. Aveva letto quella frase in “Trainspotting” e le era piaciuta tantissimo.
Aveva chiesto indicazioni appena era arrivata in stazione, e per
fortuna le avevano detto che l’ospedale non era lontano. Avrebbe
potuto prendere un taxi, ma la verità era che in questo momento
si sentiva troppo nervosa e inquieta per intessere relazioni sociali
con un altro essere umano. Solitamente le piaceva parlare con i
taxisti, rispondere alle mille domande che le facevano; spesso lei e
Pyro inventavano storie pazzesche quando salivano sui taxi e si
mettevano a chiacchierare con gli autisti. Più che altro, era
lei a coinvolgerlo in questo gioco.
Non lo considerava proprio mentire: non si può mentire a una
persona che incontri una volta nella vita e solo per dieci minuti.
Più che altro, lo considerava un esempio di “realtà
creativa”. Ma stavolta non aveva voglia di pensare a niente,
nemmeno ad una storia inventata da raccontare ad un estraneo.
Improvvisamente le venne una voglia pazzesca di fumare. Frugò
nella tasca esterna della borsa e tirò fuori le sue sigarette.
Poteva sentire il peso del suo accendino dentro il pacchetto, e sorrise
mentre lo faceva scivolare fuori. Era un piccolo accendino usa e getta
di plastica verde, con disegnato sopra un alce stilizzata con un
maglione di lana e gli occhiali da sole. Pyro la sfotteva sempre per
quel coso, pavoneggiandosi con il suo preziosissimo Zippo, ma a lei
piaceva e si era rifiutata di cambiarlo. Tirò fuori una
sigaretta.
A onor del vero, anche lo Zippo era passato in secondo piano da quando
Magneto aveva regalato a Pyro il lanciafiamme che teneva al polso. Lui
lo adorava e non se ne staccava mai. Ad un certo punto, Medusa aveva
dovuto impuntarsi e pretendere che se lo togliesse almeno quando
andavano a letto, sostenendo che la loro storia stava diventando una
cosa a tre: lei, lui e il suo amatissimo lanciafiamme.
“Un giorno ti sorprenderò mentre ci fai sesso.” gli aveva detto Medusa ridendo.
John l’aveva afferrata e l’aveva buttata sul letto,
facendole il solletico, e cinque minuti dopo si stavano già
sfilando i vestiti, il lanciafiamme abbandonato sul pavimento della
camera.
Stava per portarsi la sigaretta alle labbra, ma qualcosa la bloccò. Non puoi e lo sai, la rimproverò una vocina nella sua mente. Glielo devi.
Abbassò la sigaretta e la rinfilò nel pacchetto insieme
all’accendino, poi gettò il tutto in un cestino
dell’immondizia senza nemmeno fermarsi. Finché può, si disse, questo bambino ha il diritto di essere sano e felice. E’ tutto quello che posso offrirgli.
Scorse in lontananza un grosso cancello di ferro battuto, e lo
riconobbe per quello che le avevano indicato come l'entrata
dell’ospedale. Appoggiato ad uno dei piloni di mattoni rossi che
sostenevano il cancello c’era un ragazzo biondo che fumava con
aria impensierita. Medusa non si chiese neppure se era lui. Era un
copione già visto, qualcosa che era già successo tempo
fa. Lei che passa in macchina e lui che la saluta appoggiato ad un
albero.
Pyro la guardò in volto mentre lei si faceva sempre più
vicina. Medusa si fermò a qualche passo da lui, guardandolo a
sua volta senza dire una parola.
“Credevo che fossi con Magneto.” disse lei infine.
Pyro alzò le spalle e gettò a terra la sigaretta. “Credevi male.” rispose.
Medusa guardò il mozzicone ruzzolare vicino ai suoi piedi e non disse nulla.
“Ti si spezzerà il cuore.” le disse improvvisamente
Pyro. “Qualcuno deve pur raccogliere i pezzi.”
Lei alzò gli occhi da terra e lo fissò.
“Ti si spezzerà il cuore, Meredith.” ripeté Pyro, la sua voce triste ma rassegnata.
Medusa annuì. “Lo so.” disse con un sussurro. Pyro la guardò in silenzio.
“Quando ero bambino, e sentivo
mio padre tornare a casa ubriaco e con una gran voglia di menare le
mani, io mi nascondevo.” disse dopo un po’. Medusa lo
fissò stupita: era la prima volta che le parlava della sua
infanzia e di suo padre. “E rimanevo nascosto mentre lui mi
chiamava e mi cercava ovunque. Sapevo che nascondersi era una cosa
stupida, perchè prima o poi sarei dovuto uscire fuori e allora
mio padre mi avrebbe beccato e me ne avrebbe dato il triplo, ma non
potevo farci niente. Non riuscivo mai a stare fermo ad aspettare che
lui arrivasse e mi riempisse di botte.” Fece una pausa e
fissò i suoi occhi in quelli di lei. “Le persone fuggono
sempre dal dolore, Meredith. E' l' istinto di sopravvivenza. Invece tu
stai per buttartici in mezzo. Perché?”
Improvvisamente gli occhi di lei si riempirono di lacrime. Aprì
la bocca per rispondere, ma si rese conto di non avere niente da dire.
Si limitò a guardarlo in silenzio, pregando che lui la capisse
comunque.
Pyro distolse lo sguardo. “Andiamo.” disse indicando con un
movimento della testa il palazzo che sorgeva al di là del
cancello.
Attraversarono il giardino, punteggiato qui e là di aiuole
ordinatamente potate e di grossi alberi di pioppo, alla cui ombra erano
seduti uomini e donne che si guardavano in giro straniti oppure
parlavano a bassa voce tra sé e sé. A pochi passi da
loro, infermieri con le uniformi candide sorvegliavano i pazienti sulle
panchine.
Il palazzo che ospitava l’ospedale era un vecchio caseggiato in
stile liberty, probabilmente risalente all’inizio del secolo o
giù di lì, e Medusa sentì il cambiamento di
temperatura non appena lei e Pyro varcarono la porta d’ingresso e
si ritrovarono nella portineria.
Se non fosse stato per gli infermieri e i medici che si affaccendavano
qui e là, consegnando cartelle al banco dell’accettazione
o spingendo pazienti in carrozzina, sarebbe stato difficile indovinare
che si trattava di un ospedale. La sala era rimasta probabilmente
com’era in origine: le luci provenienti da un grosso lampadario
di cristallo si riflettevano sul pavimento di marmo scuro, tirato
perfettamente a lucido. Gli arzigogolati telai di ferro delle finestre
proiettavano artistiche ombre sui color grigio chiaro, e in fondo alla
sala, dietro il banco dell’accettazione, Medusa poteva vedere una
scalinata di marmo che si arrampicava verso il piano superiore, il
corrimano di ferro battuto e mogano elaborato quanto i telai delle
finestre. Accanto alle scale c’era un vecchio ascensore, le cui
porte di acciaio di tanto in tanto si aprivano facendo uscire dottori
in camice bianco e persino qualche paziente in vestaglia.
Forse fu a causa degli spifferi che ci sono sempre in un vecchio
palazzo, ma mentre si guardava attorno Medusa rabbrividì. Quel
posto le ricordava un film dell’orrore che aveva visto anni prima
e l’aveva terrorizzata, in cui un gruppo di persone passava la
notte in un ex manicomio, situato in un antico palazzo più o
meno come quello in cui si trovava ora. L’ospedale era stato
chiuso dopo che i pazienti erano insorti e avevano massacrato il
personale medico, morendo poi nell’immane incendio che loro
stessi avevano appiccato. La cosa che l’aveva spaventata di
più era la figura inquietante e maligna del primario del
manicomio, un sadico pazzo che si divertiva a torturare i suoi pazienti
e che era misteriosamente scomparso nel nulla dopo la notte
dell’incendio.
Pensò che non l’avrebbe troppo stupita se le porte
dell’ascensore si fossero aperte e ne fosse uscito il dottore di
quel film, con il suo sguardo malvagio e il suo sorriso diabolico.
Si impose di smetterla e si diresse verso il banco
dell’accettazione, Pyro che le camminava a fianco. Un infermiere
sui trent’anni, con il pizzetto e i capelli castani dritti sulla
testa stava trafficando con delle cartelle.
“Ehi, George, sistemami la cartella della Ross quando hai
tempo.” gli disse un dottore mentre si dirigeva verso le scale.
L’infermiere alzò lo sguardo dalla cartella che stava
compilando e annuì. “Certo, dottor Petersen.”
rispose, e in quel momento si accorse dei due ragazzi davanti a lui.
“Posso esservi utile?” chiese.
Medusa sentì il proprio cuore aumentare i battiti. “Cerco Danielle Alvarez.” disse.
Lui la guardò sospettoso. “Siete parenti?” domandò.
“Una specie.” replicò lei.
L’infermiere riprese a compilare la cartella che aveva sottomano. “Allora mi dispiace, ma non potete vederla.”
Medusa gli afferrò il polso, e lui la guardò. “Va
tutto bene.” gli disse lei con calma fissando i suoi occhi grigi
in quelli dell’infermiere. “Dimmi solo dov’è
Danielle Alvarez.”
Lui la guardava senza vederla, la testa lievemente ciondolante sul
collo. “Terzo piano, reparto di media sicurezza.” disse con
un tono piatto e monotono.
Medusa gli rilasciò il polso. “Molto bene.” gli
rispose sempre guardandolo negli occhi. “Ora noi saliamo. Va
tutto bene. Torna a fare il tuo lavoro.”
L’infermiere annuì e abbassò la testa, segnando di
tanto in tanto qualcosa sulla cartella con un movimento stanco della
mano. A uno spettatore distratto poteva sembrare immerso nel suo
lavoro.
Questa volta Medusa aveva usato parecchia energia per essere sicura che
l’infermiere non si liberasse dal suo controllo almeno per
un’ora, e sperò che nel frattempo nessuno si accorgesse
dello strano comportamento dell’uomo, o almeno non lo attribuisse
ai due ragazzi che ora attraversavano l’atrio, diretti verso
l’ascensore.
Pyro e Medusa evitarono di guardarsi mentre aspettavano che le porte si
aprissero e l’ascensore li caricasse, portandoli al terzo piano.
Ora che l’incontro con Danielle si avvicinava, Medusa cominciava
a sentire l’agitazione crescere in lei, ma si rifiutò
ostinatamente di cominciare a pensare a cosa avrebbe fatto una volta
arrivata davanti a quella donna che era sua madre.
La verità è che non lo sai, disse una voce dentro di lei. Non
sai perché sei venuta fino a qui. John ha ragione. Non ricaverai
nulla da questo viaggio, se non dolore e rimpianti. E sai bene che in
questo momento dolore e rimpianti sono la cosa di cui hai meno bisogno.
Ne hai già in abbondanza.
Alzò lo sguardo verso Pyro, che stava appoggiato alla parete di
fondo dell’ascensore con le mani nelle tasche dei jeans e lo
sguardo rivolto verso il soffitto, e aprì la bocca per dirgli
che voleva tornare indietro, ma proprio in quel momento le porte
dell’ascensore si aprirono e Pyro la guardò negli occhi, e
Medusa non se la sentì più di parlare.
Uscirono dall’ascensore e si trovarono di fronte a un lungo
corridoio con le pareti candide e il pavimento di linoleum color panna,
sul quale si affacciavano, a intervalli regolari, porte di acciaio con
delle finestrelle di vetro rinforzato situate più o meno
all’altezza del volto di una persona di media statura. Incerti su
dove cercare Danielle, Medusa e Pyro cominciarono a inoltrarsi nel
corridoio, ma dopo qualche metro furono fermati da un’infermiera
con una cascata di capelli ricci e rossi che era spuntata da una delle
porte.
“E voi dove state andando?” chiese squadrandoli accigliata.
Medusa la guardò, indecisa se usare o meno i suoi poteri su di
lei. Alla fine decise di optare per la strada della menzogna. Se andava
male, c’era sempre tempo di fare retromarcia. “Siamo qui
per vedere Danielle Alvarez.” disse. “L’infermiere
giù all’accettazione... George, mi pare... ha detto che
potevamo salire.”
Fissò l’infermiera negli occhi, pronta ad usare i suoi
poteri in caso non avesse abboccato, ma lei si limitò a scuotere
la testa. “E figurati se ne combina una giusta... Quel
deficiente...” mormorò. Alzò lo sguardo su Pyro e
Medusa. “Qui non potete girare da soli.” disse.
“Venite, vi accompagno io.”
Medusa ringraziò e si incamminò dietro di lei, Pyro che
la seguiva distanziato di un passo. Mentre percorrevano il corridoio,
Medusa riuscì a intravedere dai vetri delle porte alcune persone
all’interno delle stanze, sedute sui letti o per terra. Distolse
in fretta lo sguardo.
“Pensavo che Danielle non avesse parenti.” disse ad un certo punto l’infermiera con i capelli rossi.
“Siamo cugini alla lontana.” rispose Medusa. L’infermiera non replicò.
“Mi hanno detto...” iniziò Medusa, incerta. Non era
sicura di aver voglia di sapere. “Mi hanno detto che sta molto
male.”
La rossa alzò le spalle. “E’ completamente
dissociata dalla realtà, questo sì.” rispose.
“Ma ho visto di peggio. Lei almeno è calma, per la maggior
parte del tempo.”
“E quando non è calma?” domandò Medusa.
“A volte ha delle crisi, e diventa pericolosa.” disse
l’infermiera “Non per gli altri, per sé. Abbiamo
notato che è più tranquilla nella saletta della
televisione, chissà per quale motivo, visto che non la guarda
mai. Si agita meno che in camera.”
Arrivarono ad una grande finestra di vetro da cui era possibile vedere
l’interno di una stanza. Le pareti erano candide e asettiche come
il resto del corridoio, ma il pavimento era coperto da un grosso
tappeto colorato e qui e là erano appesi disegni e fotografie.
C’erano alcune poltrone, tutte di colore diverso, e su una di
esse c’era seduta una infermiera di colore sulla cinquantina che
guardava distrattamente la televisione. Su un’altra poltrona, nel
lato opposto della stanza, stava una donna di circa trentacinque anni,
i lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo. Indossava un
cardigan di lana marrone sopra a quello che sembrava essere un pigiama
azzurro. Aveva le braccia avvolte attorno al corpo, come se cercasse
riparo dal freddo, e si dondolava lentamente avanti e indietro, mentre
le sue labbra si muovevano senza sosta.
L’infermiera con i capelli rossi guardò la donna sulla
poltrona, poi si girò e fissò insistentemente Medusa,
evidentemente insospettita dalla straordinaria somiglianza tra le due.
Pyro si voltò a guardarla, scoccandole uno dei suoi sguardi
più minacciosi, e la rossa impallidì e si
allontanò dal corridoio da cui erano venuti.
Medusa guardò la donna che si muoveva avanti e indietro sulla
poltrona. Era questo il momento di pensare a cosa fare e a cosa dire,
ma non le venne in mente nulla, come se la sua mente si rifiutasse di
fare il proprio lavoro. Pyro la guardava con un’espressione
indecifrabile, e lei gli restituì lo sguardo per alcuni secondi.
Poi avanzò verso la porta che era alla sinistra della vetrata,
abbassò la maniglia ed entrò.
Appena la sentì, l’infermiera spense la televisione e le sorrise amichevolmente.
“Ciao.” disse.
“Salve.” rispose Medusa. Si accorse di stare tremando. “Sono...”
L’infermiera annuì. “Lo so.” disse. Si
voltò verso la donna seduta sull’altra poltrona.
“Guarda chi è arrivato, Danielle.”
Lei non si mosse. Continuò a mormorare senza sosta, il viso rivolto verso la parete.
Senza nemmeno rendersene conto, Medusa si avvicinò a Danielle.
Alcune striature di grigio si distinguevano tra i suoi capelli corvini,
e gli angoli della bocca e degli occhi erano segnati da qualche piccola
ruga, ma a parte questi dettagli era identica a com’era nella
fotografia che Rachel Edmond le aveva mostrato a Chicago.
Identica a me, si disse Medusa.
Danielle si dondolò avanti e indietro lentamente. Le sue parole
erano poco più di un sussurro, e Medusa riusciva ad afferrarne
solo alcune. Le giunse all’orecchio quello che sembrava essere
una preghiera: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore
ferito... salva gli spiriti affranti.” mormorò Danielle,
stringendosi nelle spalle. A Medusa sembrò che stesse
rabbrividendo, e inconsciamente si inginocchiò di fronte a lei,
a non più di una ventina di centimetri di distanza.
“Danielle...” chiamò, ma lei continuò a
guardare altrove. Aveva un’espressione talmente triste e
addolorata negli occhi che per qualche secondo Medusa si sentì
sul punto di scoppiare a piangere. C’era talmente tanta
sofferenza in quello sguardo che le sembrava di non riuscire a
sopportarlo. Mormorando ancora qualche parola, Danielle si portò
la mano destra alla bocca e si mise tra i denti l’unghia del
pollice. Medusa sorrise.
“Mi mangiavo anch’io le unghie da piccola, sai?” le disse, cercando di tenere la voce ferma.
Danielle si tolse improvvisamente la mano di bocca e strinse i pugni.
“Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia.”
mormorò, questa volta ad un tono più alto. Alzò lo
sguardo verso il soffitto e si mise a dondolarsi con più forza.
“Cancella il mio peccato...”
Una lacrima scese sulla guancia di Medusa, e lei si affrettò ad
asciugarla con il dorso della mano. Danielle sembrò calmarsi, e
tornò a stringersi le braccia attorno al corpo, i suoi occhi
pieni di sofferenza di nuovo rivolti verso la parete. “Riconosco
la mia colpa.” sussurrò Danielle cullandosi avanti e
indietro.
“Danielle.” chiamò Medusa.
Lei continuò a dondolarsi avanti e indietro, guardando la parete
senza vederla davvero. “Il mio peccato mi sta sempre
dinnanzi.” mormorò.
“Danielle.”
“Santa Maria, madre di Dio... La mia bambina è davanti a
te. Saint Mary of Grace, aiutami.” sussurrò lei.
Medusa sentì una lama conficcarsi nel suo cuore e per un istante
fu sul punto di correre fuori dalla stanza, tornare alla sua tenda
nella foresta e dimenticare tutto quello che aveva scoperto su sua
madre. Invece rimase ferma, le sue gambe incapaci di obbedirle
.
“Danielle.” chiamò di nuovo, cercando di controllare la voce. “Ti prego, guardami.”
Lei non lo fece. Medusa si concentrò più che poteva. Era
parecchio tempo che non tentava più di utilizzare la telepatia,
ma arrivati a questo punto era la sola cosa che potesse funzionare.
Danielle.
Questa volta, la donna seduta sulla poltrona sobbalzò e
gridò spaventata. Per una frazione di secondo, gli occhi di
Danielle incrociarono quelli di Medusa, e la ragazza ebbe
l’impressione che sua madre si rendesse conto della sua presenza.
Ma durò solo un istante, poi Danielle riprese a fissare il nulla
davanti a sé sedendo dritta e rigida sulla poltrona, i pugni
serrati accanto alle cosce. “Pietà, pietà,
pietà di me, mio Dio.” disse ad alta voce ansimando
terrorizzata.
L’infermiera si era avvicinata non appena aveva sentito Danielle
gridare, e ora le accarezzava dolcemente le schiena e i capelli.
“Su, su, Danielle, non è niente.” le
bisbigliò con un tono calmo e rassicurante. “Calmati, mia
cara, non è niente.”
Medusa era balzata in piedi senza accorgersene, e ora fissava Danielle
che continuava a tremare e boccheggiare, pazza di terrore. Cercò
di ignorare la figura di Pyro, che osservava la scena attraverso il
vetro. Il dolore nel suo petto si fece più acuto.
“Mi dispiace.” disse, la sua gola di nuovo serrata dal pianto.
L’infermiera scosse la testa. “Non è colpa
tua.” disse. “Capita, di tanto in tanto. Vero Danielle,
cara? Ma non è niente. Adesso passa tutto. Non è vero che
passa tutto?” chiese rivolta alla donna che ancora sedeva rigida
sulla poltrona. “Certo che passa. Su, fai un bel respiro. Non
serve la medicina, vero tesoro? Puoi calmarti da sola. Un bel respiro,
Danielle, avanti. Ecco, brava, così.” Lentamente, Danielle
smise di ansimare e il suo corpo divenne meno rigido. Cominciò a
mormorare una preghiera. “Padre nostro, che sei nei
cieli...”
“Brava la mia Danielle, proprio brava.” le disse con
affetto l’infermiera. “Sei proprio una brava ragazza. Non
devi spaventarti, sai?” continuò, questa volta
rivolgendosi a Medusa. “Ogni tanto perde la testa, ma la maggior
parte delle volte basta trattarla con un po’ di dolcezza per
farla stare meglio, anche se i dottori preferiscono passare
direttamente ai tranquillanti.” Accarezzò con tenerezza i
capelli di Danielle. “Ti ha aspettato tanto. Parla di te in
continuazione.”
“Credevo che non si accorgesse di niente.” replicò
Medusa, la ferita nel suo petto ormai ridotta ad una piaga.
L’infermiera sorrise. “Il suo mondo è diverso dal
nostro. Per lei certe cose non sono mai accadute, e altre accadono in
continuazione. Io credo che Danielle si accorga delle cose di cui vuole
accorgersene, solo che lo fa in maniera differente da come lo facciamo
noi. Solo perché non ti guarda, non significa che non ti
vede.”
Medusa fissò la donna davanti a lei. Era di nuovo calma, e aveva
ricominciato a dondolarsi avanti e indietro bisbigliando sommessamente,
così indifesa, così vulnerabile. Improvvisamente, ebbe
un’illuminazione riguardo al suo concepimento. Le lacrime
cominciarono a scenderle lungo le guance.
“Lei crede,” chiese rivolta all’infermiera.
“che è colpa mia se è così? Voglio dire, lei
mi sembra...” si interruppe, cercando di domare le lacrime. No,
no, no, non chiedere! urlava la sua mente. Scappa!
“Insomma, sarebbe stato facile farle del male, no?”
continuò Medusa. Sapeva che avrebbe sofferto, eppure non
riusciva a smettere. “Forse qualcuno si è... approfittato
di lei, e allora...”
Non riusciva a terminare la frase a cui stava pensando nemmeno nel suo
cervello. Era un ipotesi talmente orribile che non riusciva a gestirla.
L’infermiera alzò lo sguardo e la guardò con aria
interrogativa. “Non posso darti delle certezze.” rispose.
“Ma io non credo che tu sia nata da una violenza, e nemmeno che
tu abbia fatto impazzire tua madre. Da quello che ho imparato di
Danielle in tutti gli anni in cui è stata qui, ti posso dire che
per qualunque ragione ti abbia lasciata davanti a quella chiesa, di
certo non è stato perché non ti voleva bene.”
Medusa si avvicinò di nuovo a Danielle, che ora stava mormorando
un Ave Maria con lo sguardo fisso sul pavimento. C’era un modo di
sapere per certo tutta la verità, anzi, per sapere ogni cosa che
si era chiesta in tutti gli anni che era vissuta fantasticando sulla
donna che l’aveva messa al mondo. Sapeva di poterlo fare; quello
che non sapeva era se lo voleva fare.
“...prega per noi peccatori...” mormorò Danielle cullandosi lentamente.
Medusa alzò una mano e la avvicinò al suo volto, in
quella che poteva sembrare una carezza. Stava per sapere tutto, ogni
cosa, ogni piccolo dettaglio su Danielle e su come era nata, e del
perché era stata abbandonata. Quelle cose che desiderava sapere
da tutta la vita.
Improvvisamente ritrasse la mano e indietreggiò chiudendo gli
occhi. L’infermiera le rivolse un sorriso comprensivo. “Non
ti preoccupare.” disse. “So che è difficile. Non
sentirti in colpa se vuoi prenderti del tempo.”
Medusa rivolse un ultimo sguardo a Danielle, che continuò a
dondolarsi e a mormorare sottovoce, e uscì dalla stanza. Solo
quando la porta si chiuse dietro di lei si rese conto che avrebbe
dovuto per lo meno salutare, ma non ebbe la forza di tornare indietro.
Pyro stava ancora guardando Danielle attraverso il vetro. Lentamente,
staccò lo sguardo dalla donna nella stanza e lo posò su
Medusa, che stava in piedi davanti a lui con lo sguardo basso.
“Andiamo a casa.” disse piano.
Troppo stanca e sofferente per pensare che erano in un ospedale
psichiatrico in cui erano entrati illegalmente, che sarebbero stati
visibili dalla saletta e dal corridoio, in caso fosse arrivato
qualcuno, troppo addolorata persino per ricordare di avere un orgoglio
che ora le stava strillando che John l’aveva avvertita fin dal
principio, e che lei lo aveva trattato di merda quando lui aveva
cercato di impedirle di farsi del male, nonostante tutto questo Medusa
si gettò tra le braccia del suo ragazzo e scoppiò a
piangere.
John la strinse a sé per qualche secondo, poi le mise un braccio
attorno alla vita e si incamminarono insieme verso l’uscita.
Medusa appoggiò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi,
esausta, lasciando che fosse lui a guidarla fuori da quel posto.
****
Arrivarono all’accampamento nella prima mattinata del giorno
successivo. Mentre camminavano verso la loro tenda, incontrarono
Callisto che li salutò sorridente.
“E’ stato da non credere ieri.” disse. “Peccato
ve lo siate persi. Quella tizia,” Indicò verso la cima di
una collinetta che dominava il campo. “è una cosa
spaventosa.”
Medusa e Pyro alzarono lo sguardo verso il punto indicato da Callisto.
Accanto a Magneto stava in piedi la dottoressa Jean Grey, i suoi lunghi
capelli rossi che rilucevano sotto il debole sole che filtrava tra i
rami degli alberi.
..........................................................................................................................
Alcune precisazioni:
1. Il film a cui Medusa pensa nell'atrio dell'ospedale psichiatrico
è "La casa sulla collina". L'ho visto qualche anno fa e ho
ancora i capelli dritti in testa dalla paura.
2. Le preghiere che Danielle mormora all'inizio del suo incontro con Meredith sono versetti presi dai Salmi 19 e 50.
Tra l'altro, vorrei ringraziare e salutare Gertie che ha recensito la
conclusione di "Into the Fire". Forse non leggi questo racconto, ma non
so in che altro modo dirti quanto sono felice che la
conclusione ti sia piaciuta. Un grossissimo bacio!!!
Bene, ho detto tutto e adesso vi saluto. Spero di poter aggiornare presto. Un bacio a tutti!
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
WaBLtW5
Disclaimer:
tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di
Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono
a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century
Fox.
Come
vedete ho già aggiornato. Per fortuna l'ispirazione non mi
abbandona, anzi, al momento mi sento piuttosto prolifica. Spero che
duri fino alla fine del racconto.
A proposito, non sarà lungo come "Into the Fire", anzi, in un
paio di capitoli, al massimo tre, penso di chiudere la storia.
Comunque ecco il capitolo cinque. Spero tanto che sia di vostro gradimento!
.......................................................................
Medusa stava camminando nella foresta, cercando un po’ di tregua
dalle sue responsabilità di veterano della Confraternita. La
gestione della truppa stava diventando sempre più impegnativa
man mano che altri mutanti si univano alle loro schiere, ma non era
quello a disturbarla maggiormente.
La gravidanza le stava dando parecchi problemi. Le bastava rimanere in
piedi per più di dieci minuti per sentirsi esausta, e raramente
riusciva a terminare una giornata senza che l’emicrania arrivasse
a tormentarla.
La cosa più dura, comunque, non era sopportare questi disturbi,
ma fare in modo che nessuno si accorgesse che stava male. Era diventata
bravissima, ormai, a rimanere impassibile quando aveva la nausea e poi
correre a vomitare non appena John era impegnato a fare altro.
Si fermò di fianco a un cespuglio di more, e ne colse una
distrattamente. Da quando erano tornati, il giorno prima, lei e John
avevano accuratamente evitato di parlare di St. Louis o
dell’arrivo di Jean Grey nella Confraternita. Uno dei principali
argomenti di discussione tra di loro era l’imminente attacco ai
laboratori Worthington. Magneto non l’aveva ancora menzionato, ma
entrambi sapevano che era prossimo a venire.
Medusa esaminò la bacca scura sul suo palmo, chiedendosi se
fosse poi davvero una mora. Dopotutto, quando andava a scuola era
sempre stata una frana in scienze. Meglio di no, si disse. Manca solo un’intossicazione alimentare alla tua lunga lista di acciacchi. La gettò via e ricominciò a camminare.
Era tornata da St. Louis con la certezza che Magneto l’avrebbe
cacciata via non appena avesse messo piede al campo, invece non era
successo nulla. Non era andato a cercarla e non l’aveva fatta
chiamare al bunker. Era dal giorno prima, da quando lei e Pyro erano
tornati all’accampamento e avevano visto il loro capo sulla
collinetta insieme alla Grey che di Magneto non c’era più
traccia. Sapeva che probabilmente era al bunker a preparare
l’attacco, oppure a decidere come utilizzare i poteri di Jean
Grey.
Era rimasta molto sorpresa quando aveva scoperto che la misteriosa
Fenice era in realtà la vicedirettrice della sua vecchia scuola,
uno dei pilastri degli X Men. Se glielo avessero raccontato
probabilmente non ci avrebbe creduto, Jean Grey che abbandona la
squadra di Xavier e si unisce al suo mortale nemico. Forse anche la
dottoressa, alla fine, si era resa conto di quanto fosse ridicolo il
credo che si ostinavano a sostenere nella scuola di Salem Center.
Vivere con gli umani è possibile, certo, come no. Costruire
insieme un mondo migliore in cui ci sarebbe stata pace e mutua
comprensione.
Medusa sorrise sarcastica. Salve, mi
chiamo Charles Xavier e vivo in una casa fatta di zucchero filato
accanto al fiume di melassa, nel Paese delle Mele Caramellate.
Ridacchiò compiaciuta della sua stessa arguzia, e le dispiacque
che non ci fosse stato nessuno lì con lei che potesse ascoltare.
Era una battuta divertente, e decise di riciclarla alla prima
occasione. Era sicura che John avrebbe riso. Questo pensiero, per
qualche motivo, la rese malinconica.
Rivedere Jean Grey le aveva riportato alla memoria ciò che erano
stati. Non che avesse dei ripensamenti: no, sapeva che il suo posto era
qui nella Confraternita e non con gli X Men. Erano passati appena
quattordici mesi da quando lei e John avevano infranto la loro promessa
ed erano corsi via dal jet, eppure sembrava essere passato un millennio
intero. A volte, quando si guardava indietro, le sembrava di rivedere
la vita di una altra persona. Perché quella era effettivamente un'altra persona, si disse. Tu sei Medusa, la ragazza che frequentava l’Istituto era Meredith St.Clair.
Un rumore proveniente da una siepe alla sua sinistra la distolse
bruscamente dai suoi pensieri. Si voltò, e da dietro i rami
verde scuro spuntò Jean Grey, i lunghi capelli rossi che le
incorniciavano il viso serio e tirato.
Per un istante Medusa dubitò che quella donna fosse davvero
la dottoressa Grey. Cioè, riconosceva il volto e i capelli e
tutto il resto, ma c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi
verdi, un ombra scura che Medusa non aveva mai visto prima d’ora.
Ripensò alla prima volta che si erano incontrate, alla fattoria
dei Jackson a Baltimora, e la dottoressa le aveva spiegato con un
sorriso gentile che se voleva c’era un posto per lei
nell’Istituto Xavier per Giovani Dotati, dove avrebbe imparato ad
utilizzare i suoi poteri nel modo giusto.
“Il modo giusto” pensò. La gente utilizza sempre a sproposito quest’espressione.
Medusa fissò il suo sguardo sul volto indecifrabile di Jean
Grey, chiedendosi per l’ennesima volta quale fosse il motivo che
l’aveva spinta a lasciare il suo posto tra gli X Men. Forse aveva
qualcosa a che vedere con quell’ombra nei suoi occhi.
“Salve, dottoressa Grey.” disse Medusa infine.
Lei le sorrise. “Ciao Meredith.” replicò. “ Sono felice di vederti. Ti trovo bene.”
“Grazie.” rispose Medusa. Una parte di lei le disse
che avrebbe dovuto contraddirla e avvisarla che Meredith non era
più il suo nome, ma la ignorò.
Si chiese, per la prima volta da quella notte, come avessero reagito i
suoi professori alla notizia che lei e John si erano allontanati
dall’X-Jet e si erano uniti a Magneto e Mistica. Dolore? Rabbia?
Delusione?
Perché non ci hanno mai cercati? disse una voce dentro di lei, adirata. Perché non hanno mai provato, in tutti questi mesi, a riportarci a scuola?
Si stupì. Da dove veniva quel pensiero?
“Non avrei mai immaginato di rivederla, dottoressa Grey.”
disse Medusa. “Soprattutto non avrei mai immaginato di rivederla
qui.”
L’ombra negli occhi di Jean Grey si fece più profonda.
“Molte cose sono cambiate, Meredith.” disse. C’era
qualcosa nella sua voce che Medusa non aveva mai sentito prima. Di
certo era qualcosa che non apparteneva alla Grey che aveva conosciuto
alla scuola. “Non sono più la dottoressa Grey.”
“E io non sono più Meredith.” replicò lei. Le
sembrò che gli occhi di Jean perdessero un po’ della loro
ombra.
Rimasero in silenzio qualche secondo. Il vento increspò
leggermente le falde del lungo cappotto color porpora di Jean, e Medusa
si domandò nuovamente chi fosse quella donna lì in piedi
davanti a lei. Era davvero la stessa persona che, circa un anno e mezzo
prima, le aveva detto che se non si fosse staccata da John lui
l’avrebbe trascinata sotto con sé?
“Ho fatto la mia scelta.” disse Medusa.
“Sì, anche io” rispose Jean Grey.
“Lei lo aveva predetto.” continuò Medusa.
“Sapeva fin dall’inizio che sarebbe finita
così.”
Jean annuì. “Sì, è vero. Ma speravo non succedesse.”
Medusa ripensò a quella notte ad Alkali Lake, quando era corsa
nella foresta a cercare John, e lo aveva trovato mentre stava per
andarsene insieme a Magneto e a Mistica. Si rese conto per la prima
volta che, se fosse arrivata solo qualche minuto più tardi,
l’avrebbe perduto per sempre senza nemmeno una parola di addio.
“Ovviamente non poteva andare che in questo modo.”
continuò Jean Grey. La sua voce suonava bassa e stanca.
“Ognuno insegue il proprio destino.”
Medusa sentì un confuso senso di abbandono e di tristezza alle
sue parole. Avrebbe preferito che gridasse, che le chiedesse
perché aveva infranto la sua promessa e si era allontanata
dall’X Jet, qualunque cosa tranne “ognuno insegue il
proprio destino.” La faceva sentire inutile, e la faceva sentire
come se tutti i mesi passati all’Istituto, tutti i vari
“siamo una famiglia” e i “siamo qui per
aiutarti” non fossero altro che un’orribile, disgustosa
menzogna.
Di nuovo si chiese da dove venisse quel pensiero. Perché la fai così lunga? si chiese. Che ti importa di Xavier e della sua scuola?
“Mi dispiace averla delusa, dottoressa.” disse Medusa. Si
accorse che la voce le aveva tremato, ma scoprì che non le
importava più di tanto.
Jean sorrise. “Non mi hai delusa, Meredith.”
Medusa avrebbe voluto aggiungere qualcosa, qualunque cosa, ma non le
venne in mente nulla da dire. Avrebbe voluto che la Grey la
rimproverasse, o le rinfacciasse di averle mentito e di averle voltato
le spalle dopo tutto quello che aveva fatto per lei, ma Jean si
limitò a distogliere lo sguardo e incamminarsi verso il campo,
situato da qualche parte oltre gli alberi alla loro sinistra. Fu allora
che Medusa parlò.
“Aspetto un bambino.”
Jean Grey si voltò e fissò i suoi occhi in quelli della
ragazza di fronte a lei. In quel momento Medusa si rese conto della
frase che aveva appena pronunciato, e le prese il panico. E non solo
perché aveva detto una cosa così intima e privata a
quella che ora per lei non era altro che una perfetta estranea, se non
una potenziale nemica; ma soprattutto perché dirlo ad alta voce
tutto ad un tratto lo rese reale.
La potenza di questa rivelazione la investì come l’onda di
uno tsunami. Non si trattava più di una cosa astratta, di
qualcosa che non riusciva ad afferrare, no: qui si trattava del suo bambino, del figlio suo e di John che lei portava nel suo
grembo, e si rese conto per la prima volta ciò che comportava
prendere una decisione riguardo questo bambino, sia in un senso che
nell’altro. Fu troppo per lei e, prima che potesse anche solo
provare a controllarsi, le lacrime le stavano già inondando il
viso.
Jean rimase in silenzio a guardarla piangere per qualche secondo.
“Perché lo stai dicendo a me, Meredith?” chiese
infine, il suo tono privo di qualunque emozione.
Medusa si rese conto di non avere nessuna ragione. “Non lo
so.” sussurrò tra le lacrime. “Forse volevo solo
dirlo a qualcuno.”
Si lasciò cadere su un tronco abbattuto e fissò il
terreno ai suoi piedi, cercando di controllarsi. Era sicura di quello
che doveva fare, ma ora era più difficile andare avanti e
portare a compimento la sua decisione, ora che sapeva, ora che riusciva
a sentire quella piccola vita germogliare dentro di lei, ora che quel
minuscolo ammasso di cellule che galleggiava da qualche parte nel suo
corpo era diventato l’estensione di lei, di loro due, di lei e
John insieme. Si chiese se sarebbe davvero riuscita a fare ciò
che doveva fare, e poi continuare a comportarsi come se il loro bambino
non fosse mai esistito, neppure per un istante, dentro di lei.
La voce di Jean Grey la distolse dai suoi pensieri. “Non lo vuoi?” chiese.
Medusa alzò la testa di scatto. “Non lo voglio?”
ripetè incredula. Le parole le uscivano di bocca da sole.
“Crede che io non terrei questo bambino, se potessi?” Le
lacrime, che prima si erano fermate, ritornarono a bagnarle il viso.
“Io lo vorrei, davvero. Vorrei tanto un bambino da John, ma
come...” Allargò le braccia in un gesto disperato.
“Come dovrei fare, come posso farlo crescere così? In
mezzo al nulla, senza soldi, senza niente. Io non...”
Faticava a trovare le parole, a mettere insieme qualcosa di
coerente per spiegare quello che sentiva dentro di sé. “E
allora ho pensato... Se John lo sapesse, il suo primo istinto sarebbe
quello di tenerlo. Ma poi comincerebbe a farsi delle domande, a
chiedersi come fare, e alla fine si troverebbe davanti ad un muro,
esattamente come mi ci sono trovata io adesso. E allora capirebbe che
non ci sono altre soluzioni se non quella di... di...” Non
riuscì a terminare quella frase; non voleva rendere reale anche
quello. Si asciugò velocemente le guance con il dorso della mano
e fissò i suoi occhi grigi in quelli verdi di Jean Grey.
L’ombra sembrava quasi del tutto scomparsa.
“Gli si spezzerebbe il cuore.” mormorò Medusa.
“Ed io mi sono detta...” Prese un lungo respiro. “Mi
sono detta che questa volta non c’è bisogno di entrare
entrambi nel fuoco. Posso farlo da sola, e risparmiare a John questo
dolore. Non ha senso, soffrire in due, se io posso portare a termine
quello che...” Chiuse gli occhi. “...deve essere
fatto.”
Il vento agitò lievemente le foglie degli alberi sopra la sua
testa, e Medusa si rifiutò di riaprire gli occhi. Finché
rimaneva con gli occhi serrati, forse esisteva ancora una qualche
occasione di sfuggire alla realtà dei fatti, di non affrontare
ciò che si stava avvicinando. Come la neve, che non si cura mai di ciò che le succede attorno,
pensò, piuttosto incoerentemente. Di nuovo la sua mente
tornò a quella notte ad Alkali Lake, quando aveva corso a
perdifiato nella foresta alla disperata ricerca di John.
Rimase ad occhi chiusi così a lungo che alla fine era sicura che
Jean Grey se ne fosse andata. Invece sentì dei ramoscelli
spezzarsi e delle foglie secche scricchiolare, come se qualcuno ci
stesse camminando sopra. Aprì gli occhi, perplessa, e vide Jean
avvicinarsi a lei e sedersi al suo fianco sul tronco. Il suo viso era
serio, ma i suoi occhi erano tornati ad essere quelli di sempre, gli
occhi che Medusa aveva imparato a conoscere tanto tempo prima.
“Sai che potresti tornare alla scuola, Meredith.”
sussurrò. “Sai che vi riprenderebbero. Tutti e tre.”
Medusa scosse la testa. “No.” disse con forza. “No,
mai. Come potrei affidare mio figlio a qualcuno che si rifiuta di
lottare contro coloro che vogliono fargli del male? Qualcuno che non
è in grado di combattere per lui?” L’impeto della
sua rabbia la costrinse ad alzarsi in piedi, e fissò Jean ancora
seduta sul tronco, le sue mani bianche e sottili appoggiate l’una
sopra l’altra sui pantaloni color porpora. Lei la guardò a
sua volta, e Medusa distolse lo sguardo, temendo che volesse leggerle
nel pensiero.
“E’ per questo che te ne sei andata?” domandò Jean Grey. “Per combattere?”
Medusa posò nuovamente gli occhi sul suo volto.
“Sì. Io non potevo più aspettare che le cose
accadessero, mi capisce?” Desiderava davvero che Jean Grey
capisse, e che la giustificasse per aver tradito il giuramento ed
essersi allontanata dall’aereo. “Io non posso accettare
ciò in cui voi credete, rassegnarsi a ciò che ci fanno e
sperare in un futuro migliore. Mi dispiace, ma io voglio poter
lottare.”
Aveva pronunciato le sue ultime parole come una sfida. Sentì di
nuovo scorrere dentro di sé la rabbia e il dolore che aveva
provato per mesi dopo la morte di sua sorella, che si era tolta la vita
perché non riusciva a sopportare di essere considerata un
mostro. Se ciò che doveva fare era tradire e uccidere
perché non capitasse mai più ciò che era successo
ad Evie, perché finalmente i mutanti potessero avere rispetto
che meritavano dagli umani, allora era pronta a farlo.
Jean Grey si alzò lentamente dal tronco e fissò i suoi
occhi verdi in quelli di Medusa. L’ombra era tornata e aleggiava,
scura e minacciosa, dietro le sue pupille.
“L’hai detto tu stessa.” disse con un filo di voce.
“La tua scelta è stata quella di combattere, e tutto
quello che posso dirti, Meredith, è che né io né
nessun altro poteva impedire che le cose andassero diversamente da come
sono andate.” Si fermò per un istante.
“Né potrebbe impedire quello che sta per accadere.”
Medusa la guardò senza parlare, sentendo un miscuglio di
orgoglio e di dolore che si agitava nel suo cuore. Provava disprezzo
per ciò che era stata quando faceva parte della squadra di
Xavier, eppure una parte di lei rimpiangeva di avervi rinunciato. Jean
Grey distolse lo sguardo e fissò le foglie che stormivano sugli
alberi, mosse dolcemente dal vento, poi posò una mano sottile
sulla spalla di Medusa e si incamminò verso il campo. Medusa
rimase immobile a guardare gli alberi di fronte a lei.
“Ad ogni modo mi ha fatto piacere rivederti.” disse la voce di Jean Grey da qualche parte oltre le sue spalle.
Medusa non si mosse. Dentro di sé rivide la foresta innevata ad
Alkali Lake, e risentì il gelo della notte mentre correva tra
gli alberi guidata solo dalla luce della luna piena e dalla voce di
Evie. Con un brivido, si rese conto che le cose avrebbero potuto andare
in maniera totalmente opposta: avrebbe potuto non trovare mai John, e
rimanere nella scuola. Dopotutto, la foresta era enorme, e lei era solo
stata fortunata ad aver sentito quel rumore di rami spezzati che la
aveva guidata fino a lui. E’ stato il caso a decidere il mio destino, si disse. Solo il caso e niente più di questo.
Che cosa avrebbe fatto allora? Avrebbe lasciato lo stesso la scuola, e
si sarebbe unita alla Confraternita? Oppure alla fine si sarebbe messa
l’anima in pace e avrebbe deciso che, in fondo, la strada della
persuasione pacifica e del compromesso era quella da seguire?
Medusa si sforzò di trovare le risposte dentro di sé, ma
scoprì che non né aveva alcuna, o forse non voleva
trovarle affatto. E’ meglio così. Bisogna sempre fuggire dal dolore, non è vero?
In quel momento un rumore la distolse dai suoi pensieri. John camminava
tra gli alberi e si stava avvicinando a lei con un lieve sorriso che
gli piegava le labbra sottili. La sua espressione rilassata, tuttavia,
svanì in fretta quando vide lo sguardo negli occhi di Medusa.
Pyro si fermò a qualche metro da lei, fissandola preoccupato.
“C’è qualche problema?” chiese scrutando il
viso della sua ragazza, in cerca di un qualche indizio che potesse
suggerirgli cosa la stesse turbando.
Medusa fissò i suoi occhi grigi in quelli blu scuro di Pyro. Ci conosciamo così bene, si disse. Abbiamo camminato insieme nel fuoco talmente a lungo che possiamo leggere l’uno dentro l’altra in un istante.
Lasciò che il vento muovesse di nuovo le foglie prima di
parlare. “Ti ricordi la notte ad Alkali Lake?” chiese. Una
ruga segnò la fronte di Pyro mentre aspettava che Medusa
continuasse.
“Mi avresti lasciata senza nemmeno dirmi che te ne andavi.”
disse lei fissandolo negli occhi. “Senza nemmeno salutarmi.”
Pyro scosse la testa con forza. “No, questo non è
vero.” rispose, sulla difensiva. “Sarei tornato a
prenderti.”
Medusa sorrise tristemente. “A prendermi? E se io non avessi voluto venire con te?”
Pyro la guardò perplesso per qualche istante; evidentemente non
riusciva a capire da dove uscisse quell’interrogatorio.
“Pensavo che tu ci credessi.” disse, allargando le braccia
ad indicare il campo della Confraternita da qualche parte dietro agli
alberi.
“Sì, infatti è così.” rispose Medusa.
“Io credo in tutto questo. Io voglio tutto questo, John, sono
sicura di volerlo.” Fece una pausa e cercò gli occhi di
Pyro. “Ma se non lo avessi voluto, se avessi voluto rimanere, tu
saresti rimasto per me?”
John si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, irritato e a
disagio. Distolse velocemente lo sguardo e fissò un punto
indefinito da qualche parte alla sua sinistra, mentre il vento portava
fino a loro il rumore di un grido, forse il richiamo di un uccello
rapace o forse qualcos’altro.
“Sai che farei qualunque cosa per te.” mormorò Pyro infine.
“Non è quello che ti ho chiesto” replicò
Medusa. Una parte della sua anima si era commossa per la risposta che
Pyro le aveva dato, eppure ancora non le bastava.
John tornò a fissare il suo sguardo su di lei.
“Perché vuoi litigare?” domandò, la sua voce
piena di collera.
“E perché no?” replicò Medusa.
Ci fu un attimo di silenzio, poi Pyro diede un calcio rabbioso ad un
sasso che si trovava per terra davanti a lui, scagliandolo lontano di
qualche metro.
“Lo sapevo. Lo sapevo! Chi è che ti mette in testa queste
stronzate, eh? Chi?” gridò furioso contro Medusa.
“E' stata lei, vero? Quella dannata Jean Grey! Ti sta mettendo
contro di me! Lo sapevo che ci avrebbe portato solo guai!”
Medusa si limitò a scuotere la testa con calma. “Ti sbagli, John. Jean Grey non c’entra nulla.”
Lui la guardò in viso. “E allora da dove viene questo mare
di cazzate? Che ti prende tutto ad un tratto? Ci stai
ripensando?”
“No, assolutamente no.” replicò Medusa.
“E allora cosa?” domandò lui, rifilando un calcio al
tronco su cui poco prima Medusa sedeva insieme a Jean. Alcune scaglie
di legno marcio si staccarono e caddero a terra.
Medusa le fissò, cercando di distinguerle dalle foglie secche su
cui erano cadute e che avevano un colore molto simile alle schegge di
legno, e non parlò. Sopra le loro teste, il vento riprese a
giocare con le foglie degli alberi.
“Ah, al diavolo.” disse Pyro.
Medusa sentì i suoi stivali spezzare i rami e le foglie secche
che giacevano in terra mentre si allontanava da lei. Riconosceva quella
camminata: John pestava sempre i piedi a terra con eccessiva forza
quando era furibondo, o turbato da qualcosa. Davvero ci conosciamo bene, ripeté a sé stessa. Non abbiamo segreti l’uno per l’altra.
Rendendosene conto a malapena, sollevò la mano destra e se l’appoggiò sul ventre.
****
Tornò all’accampamento solo quando il sole stava
già cominciando a nascondersi dietro le cime degli alberi
più alti. Sapeva bene di aver trascurato i suoi compiti quel
giorno, eppure, stranamente, la cosa non la faceva sentire poi
così in colpa.
Non sarà certo questo a distruggere la Confraternita,
pensò Medusa mentre si avvicinava alla sua tenda, desiderando
solo scivolarvi dentro e dimenticare quella giornata. Sperò
ardentemente che Pyro fosse altrove, altrimenti sapeva che ci sarebbero
state altre discussioni, altre liti, e lei non aveva davvero la forza
per affrontare una cosa del genere. Voleva solo rannicchiarsi nella sua
tenda e dormire.
Le mancavano ormai pochi passi quando Medusa vide, a circa venti metri
da lei, Magneto attraversare il campo a passo spedito, discutendo ora
con Callisto, che insieme ad Archlight lo seguiva distanziata di
qualche passo, ora con Pyro, che avanzava al fianco del capo della
Confraternita. Ad un tratto, John disse qualcosa e Magneto gli mise una
mano sul petto, guardandolo fisso negli occhi. Pyro smise
immediatamente di camminare.
Medusa non riuscì a sentire quello che Magneto disse a John, ma
doveva essere qualcosa di molto serio, perché quando
l’anziano comandante della Confraternita riprese a camminare Pyro
rimase immobile a guardarlo allontanarsi, il viso segnato da
un’espressione di stupore misto a mortificazione.
In quel momento Magneto si accorse che Medusa stava osservando la scena
a qualche metro da loro, e lasciandosi alle spalle Callisto e Archlight
si diresse verso la sua seconda guardia del corpo. Medusa rimase
immobile ad aspettare che Magneto si avvicinasse e le dicesse quello
che doveva dirle (e si aspettava fosse l’espulsione dalla
Confraternita), invece quando fu abbastanza vicino lui
l’afferrò per un braccio e la trascinò verso gli
alberi, dove nessuno avrebbe potuto ascoltare la loro conversazione.
“Charles Xavier è morto.” disse severamente Magneto,
fissando i suoi occhi d’acciaio in quelli di Medusa. Lei rimase
in silenzio mentre qualcosa nel profondo della sua anima, probabilmente
ciò che restava di Meredith St.Clair, sussultava per la sorpresa
e il dolore.
“La tua unica fortuna è che se anche ci fossi stata tu con
me lui sarebbe morto comunque.” continuò Magneto,
scrutando attentamente dentro gli occhi di lei. “Questa volta
è andata così, Medusa, ma non azzardarti mai più a
voltarmi le spalle in quel modo.” Fece una pausa e le sue dita
sottili si strinsero più forte attorno al braccio della ragazza.
“Sei con me oppure no?”
Medusa non abbassò lo sguardo. “Certo che sono con te.” rispose.
“E allora comportati di conseguenza.” le ringhiò
Magneto lasciandole andare il braccio e allontanandosi senza più
degnarla di un’occhiata.
Medusa lo guardò camminare velocemente tra le tende e sparire in
fondo al campo, seguito come un ombra da Callisto e da Archlight, che
avevano pazientemente atteso il ritorno del loro comandante. Non appena
le loro figure scomparvero oltre gli alberi che costeggiavano
l’accampamento e lo dividevano dalla entrata del bunker privato
di Magneto, Medusa si voltò a guardare Pyro, che aveva osservato
l’intera scena dal punto in cui si era fermato quando Magneto gli
aveva posato la mano sul petto.
I loro occhi si incrociarono per qualche istante, poi lui si
voltò e si incamminò verso la parte opposta del campo.
Medusa rimase a guardarlo allontanarsi finché non riuscì
più a distinguerlo tra le tende colorate e le figure dei loro
compagni della Confraternita che si affaccendavano per prepararsi alla
notte, ormai prossima a calare.
.......................................................................
Oscure nuvole
di tempesta si stanno avvicinando per i nostri eroi. Come
proseguirà la storia? Se siete curiosi, non vi resta che
aspettare.
Penso di farlo presto, se questa ispirazione non mi abbandona. Un bacio a tutti quelli che seguono questa storia e a presto.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
WtBLtW6
Disclaimer:
tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di
Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono
a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century
Fox.
Salve a tutti e ben ritrovati. Ecco il capitolo 6.
...................................................................................
Medusa sedeva a gambe incrociate sul terreno umido di rugiada, in una
piccola radura nascosta nel cuore della foresta. Da lontano le
giungevano i rumori dell’accampamento, che proprio in quel
momento si stava lentamente svegliando e si preparava per il suo ultimo
giorno nel bosco. L’attacco all’isola di Alcatraz, sede
della Worthington Pharmaceutics, era ormai alle porte.
Medusa stese le gambe e appoggiò la schiena contro il tronco di
un albero, guardandosi in giro. Amava molto quella radura.
L’aveva scoperta il giorno in cui un violento attacco di nausea
l’aveva costretta ad abbandonare di corsa la tenda, mentre Pyro
era impegnato a discutere con Madrox a proposito di qualcosa a cui lei
non aveva fatto attenzione. Aveva corso a perdifiato tra gli alberi,
cercando di allontanarsi quanto più poteva dal campo, ma alla
fine non ce l’aveva fatta più a trattenersi ed era caduta
in ginocchio, vomitando ai piedi di un albero di quercia. Quando aveva
alzato la testa si era resa conto di trovarsi ai margini di una
minuscola radura coperta di muschio verde e di felci nane. La cosa che
l’aveva sorpresa di più, però, era un grosso
cespuglio di rose selvatiche che cresceva accanto ad una piccola pozza
di acqua piovana.
Ricordava di essersi avvicinata piena di stupore e di meraviglia, e di
aver accarezzato con delicatezza i petali setosi di una delle piccole
rose scarlatte. Aveva desiderato coglierla e portarla con sé
alla tenda, ma qualcosa l’aveva bloccata, dicendole che non era
giusto deturpare una cosa tanto bella e tanto pura.
Da allora era tornata spesso alla radura, eleggendolo a suo rifugio
personale. Tutte le volte che si era sentita stanca e depressa mollava
tutto e veniva a sedersi accanto alle rose selvatiche. Le ricordavano
una vecchia canzone di Nick Cave che suo padre ascoltava sempre quando
lei ed Evie erano piccole.
From the first day I saw her I knew she was the one
She stared in my eyes and smiled
For her lips were the colour of the roses
That grew down the river, all bloody and wild…
Medusa staccò gli occhi dalle rose e guardò il foglietto
spiegazzato che si rigirava nervosamente tra le mani. Vi era riportata
sopra una data (corrispondente ad un giorno della settimana seguente),
e un orario, le dieci e trenta del mattino.
Chiuse brevemente gli occhi e sospirò, il suo cuore saturo di
dolore e di lacrime non piante, poi si passò lentamente una mano
sul volto prima di tornare a guardare il biglietto. Il giorno
precedente era scesa in città di nascosto ed era andata al
consultorio pubblico. Un paio di giorni prima aveva telefonato ed aveva
preso appuntamento usando una delle sue false identità.
Aveva aspettato per quasi un’ora in una sala d’attesa
gremita di donne e ragazze, seduta in silenzio su di una scomoda
poltroncina di plastica verde. Quasi nessuno parlava. In fondo alla
sala, una donna sulla quarantina piangeva sommessamente, stringendo la
mano della ragazzina seduta al suo fianco. Medusa aveva pensato che non
potesse avere più di tredici anni.
Di tanto in tanto un’infermiera grassa usciva da una porta bianca
situata dietro il bancone dell’accettazione, inforcava gli
occhiali da vista che teneva appesi al collo con una catenella dorata e
chiamava un nome che stava scritto su una cartelletta. A quel punto una
delle donne seduta in sala d’attesa balzava in piedi e spariva
insieme all’infermiera grassa dietro la porticina bianca.
Medusa aveva guardato in terra, cercando di non ascoltare il pianto
della donna seduta in fondo alla sala. Era stato un sollievo quando
l’infermiera era ricomparsa e aveva letto un nuovo nome sulla
cartelletta, e madre e figlia erano entrate nella stanza al di
là del banco dell’accettazione. Finalmente libera di
guardare in giro senza il timore di incrociare lo sguardo sofferente
della donna o quello distaccato della ragazzina, Medusa aveva esaminato
le pareti bianche della stanza e il lampadario al neon, punteggiato dai
minuscoli cadaveri neri degli insetti che vi erano rimasti imprigionati
dentro. Pessima igiene per essere uno studio medico, aveva pensato. Si era augurata che le condizioni sanitarie negli ambulatori e nelle sale operatorie fossero migliori.
Aveva scacciato quel pensiero e si era concentrata sui poster colorati
appesi qua e là sui muri, che illustravano vari metodi di
contraccezione. Medusa aveva sorriso amaramente. Forse cercano di evitare che chi viene qui compia di nuovo lo stesso errore. O magari si tratta solo di un rimprovero. Si era accarezzata la pancia ed era riuscita a sentirne il calore attraverso il tessuto pesante del giubbotto che indossava. “Chi è causa del suo male pianga sé stesso.”, come diceva la mamma.
In quel momento la porta bianca si era aperta di nuovo e la tredicenne
era uscita quasi di corsa, seguita a ruota dalla madre che ora
singhiozzava ad alta voce premendosi un fazzoletto sulla bocca.
L'infermiera grassa aveva chiamato il nome che non era in realtà
il suo nome, e Medusa si era alzata e l’aveva seguita oltre la
porta bianca.
Si era ritrovata in una piccolo ambulatorio con le pareti candide e il
pavimento di mattonelle verdi. Di fronte alla porta da cui erano
entrate Medusa e l’infermiera c’era una scrivania su cui
erano impilate due colonne di cartelle, e dietro la scrivania si
trovava un grosso armadio con le ante di vetro, molto simile agli
armadietti che Medusa aveva visto più o meno una vita fa
nell’infermeria dell’X-Jet.
In un angolo della stanza si trovava un lettino d’ospedale, e
accanto ad esso c’erano alcune apparecchiature mediche e un
piccolo tavolino d’acciaio su cui era appoggiato un vassoio di
plastica sigillato in un sacchetto di cellophane, che conteneva, o
almeno così era parso a Medusa, una serie di strumenti
chirurgici. Fu molto sollevata di vedere che tutto sembrava pulito e
asettico.
L’infermiera grassa le aveva indicato la sedia che si trovava di
fronte alla scrivania e Medusa si era seduta. L’infermiera aveva
preso posto dall’altra parte del tavolo e aveva preso la cartella
che si trovava in cima alla pila di sinistra. Senza neanche degnarla di
un’occhiata aveva iniziato a compilare i fogli che vi si
trovavano all’interno.
L'infermiera le aveva chiesto la sua data di nascita, e Medusa aveva
cambiato il giorno e il mese ma non l'anno. Si era aspettata uno
sguardo di disprezzo o perlomeno di stupore per la sua giovane
età, invece l’infermiera non si era scomposta davanti al
fatto che aveva appena diciassette anni. Probabilmente ha visto di peggio, si era detta Medusa, e aveva ripensato alla tredicenne che sedeva indifferente in sala d’aspetto.
Diede anche un indirizzo e un numero di telefono falsi, sperando che nessuno controllasse.
“Sai di quanto sei incinta?” le aveva chiesto l'infermiera.
“Otto settimane, se è vero che si conta dal primo giorno
dell'ultima mestruazione.” aveva risposto Medusa. L'infermiera
aveva annuito senza alzare gli occhi dal foglio.
Le aveva fatto ancora qualche domanda, poi si era tolta gli occhiali e l’aveva guardata.
“Svestiti e sdraiati lì.” le aveva detto indicando il lettino. “Il dottore arriva subito.”
Poi, mentre Medusa si stava sfilando il giubbotto per appenderlo
sull’attaccapanni d’acciaio che si trovava in un angolo,
l’infermiera si era alzata dalla scrivania ed era uscita dalla
stanza, lasciandola sola.
Dopo qualche minuto il dottore era arrivato e l'aveva visitata. Medusa
aveva fissato il soffitto, sforzandosi di pensare ad altro, e quando il
dottore aveva acceso il monitor dell'ecografia aveva chiuso gli occhi e
stretto i pugni.
“Puoi rivestirti.” le aveva detto infine il dottore mentre
tirava la tendina che separava il lettino dal resto della stanza.
Medusa aveva obbedito e poi aveva scostato la tenda. Il dottore era
seduto alla scrivania, e stava scrivendo qualcosa sulla cartella che
l’infermiera grassa aveva iniziato a compilare.
“Sei già piuttosto avanti.” le aveva detto severamente.
Medusa l’aveva guardato senza farsi intimidire. “E' stata una decisione difficile.” aveva risposto.
Il dottore aveva posato la penna e le aveva restituito lo
sguardo, annuendo gravemente. “Sì, lo immagino.”
A Medusa era sembrato sincero, e questo l’aveva spinta ad
abbandonare un po’ dell’astio che aveva provato per il
dottore mentre lui l’aveva visitata e si era seduta sulla sedia
di fronte alla scrivania, guardandolo in silenzio mentre lui continuava
a compilare la sua cartella.
“Hai nausea alla mattina?” le aveva chiesto.
“Sì.”
Il dottore si era voltato e aveva preso una scatoletta di pastiglie
dall' armadio alle sue spalle. “Prendi queste. Una al giorno
dovrebbe bastare. Due, se le nausee sono persistenti.” aveva
detto a Medusa mentre le porgeva la scatola.
Medusa aveva infilato la scatola nella tasca del giubbotto. “Grazie.”
“Emicranie?” aveva continuato il dottore.
“Solo se sono molto stanca. Di solito se mi metto a dormire mi passa.”
Il dottore aveva annuito, poi era uscito dalla stanza. Medusa aveva
cominciato a domandarsi se dovesse andarsene anche lei, ma in quel
momento la porta si era aperta di nuovo ed era rientrata
l’infermiera grassa. Mentre la guardava incedere dondolando verso
la scrivania, Medusa aveva pensato che l’uniforme rosa che
indossava la faceva assomigliare ad una gigantesca caramella gommosa al
lampone.
L’infermiera aveva preso la cartelletta che il dottore aveva
lasciato sulla scrivania e vi aveva scritto sopra ancora
qualcos’altro. Medusa era rimasta zitta per un po’, ma poi
non era più riuscita a sopportare tutto quel silenzio.
“Perchè la visita?” aveva chiesto.
“Per assicurarci che vada tutto bene.” aveva replicato
l’infermiera, continuando imperterrita a compilare i fogli
contenuti nella cartella.
Medusa l’aveva guardata stupita. “Mi prende in giro?”
L’infermiera aveva posato la penna e finalmente aveva alzato gli
occhi. “Se tu o l'embrione presentate condizioni particolari,
è necessario che il dottore lo sappia e lo prenda in
considerazione durante l'intervento.” le aveva spiegato.
Medusa non aveva detto più nulla, e l’infermiera aveva
scritto ancora qualcosa sulla cartella. Poi l’aveva richiusa e
l’aveva posata in cima alla pila di destra. Si era tolta gli
occhiali e si era appoggiata contro lo schienale della sedia, scrutando
attentamente il viso di Medusa.
“Sai cosa succederà?” le aveva chiesto.
“Non lo voglio sapere.”
C’era stato qualche istante di silenzio. “L'intervento
è in anestesia locale.” aveva iniziato l’infermiera,
con il tono di qualcuno che si ritrova per la millesima volta a
spiegare la medesima cosa. “Potrai tornare a casa nel giro di un
paio d'ore, ma non sarai in grado di guidare.”
Medusa aveva alzato le spalle. “Non verrò in macchina.”
“Ad ogni modo, sarebbe meglio che ci fosse qualcuno con te, nel
caso ti sentissi male dopo l'intervento.” aveva continuato
l’infermiera. “Non hai un'amica che ti possa
accompagnare?”
Medusa aveva scosso la testa. “Abito appena fuori
città.” aveva replicato. “E sto con delle
persone.”
L’infermiera l’aveva guardata per qualche secondo, poi
aveva alzato le spalle a sua volta. “D’accordo.”
aveva detto. Aveva scribacchiato qualcosa su un foglietto e
l’aveva porto a Medusa. “Ecco il giorno e l'ora del tuo
intervento. Vieni un’ora prima, e a digiuno.”
Medusa si era infilata il biglietto nella tasca del giubbotto insieme
alle pastiglie che le aveva dato il dottore, e si era alzata in piedi.
L’infermiera l’aveva accompagnata fino alla porta, e mentre
aveva già la mano sulla maniglia si era voltata a guardare
Medusa.
“Puoi cambiare idea quando vuoi.” le aveva detto con
dolcezza. “Non saresti la prima. Se non ti presenterai
all’appuntamento, nessuno ti verrà a cercare.”
Medusa aveva fatto scivolare la mano nella tasca del giubbotto e aveva
stretto il biglietto tra le dita. “No, non
succederà.” aveva risposto senza guardare
l’infermiera.
E’ tutto deciso ormai, si
disse Medusa rileggendo per l’ennesima volta la breve serie di
numeri sul pezzo di carta che teneva in mano. Era talmente stropicciato
e sgualcito che l’inchiostro blu aveva cominciato a sbavarsi e
scomparire. Un ultimo sforzo e potrai uscire dal fuoco.
Strinse il foglio nel pugno con tutta la forza che aveva fino a ridurlo
ad una pallina dura e compatta, ma poi si rese conto che non era il
metodo migliore per distruggerlo. Lo riaprì con cura, poi lo
piegò a metà e cominciò a farlo a pezzettini
minuscoli. Le lacrime cominciarono a segnarle il viso e Medusa le
asciugò con rabbia mentre le sue dita continuavano a sminuzzare
il foglietto. Una parte di lei ricordò qualcosa di simile che
era successo tanto tempo prima, quando si era trovata a lottare non
contro della carta indifesa ma contro la neve e il gelo.
Allora c’era John al tuo fianco,
le ricordò una voce nel suo cervello mentre si accaniva sul
foglio come se fosse lui la causa di tutta la sua disperazione. Lo
ridusse in pezzetti così piccoli che le sue dita faticavano a
trattenerli e volavano via, disperdendosi tra le felci e planando
delicatamente sulla superficie dell’acqua.
Alla fine gettò rabbiosamente lontano gli ultimi angolini di carta e si passò le mani tra i capelli. Adesso basta piangere, si rimproverò con astio. Non cambierà proprio niente e lo sai benissimo. Tirò su col naso e fissò lo sguardo sul cespuglio di rose selvatiche davanti a lei. Ora come ora non puoi proprio permetterti di mostrarti debole. Non con quello che sta per succedere.
“Medusa?”
Per una frazione di secondo sperò con tutto il suo cuore che
fosse stato Pyro a pronunciare il suo nome, ma poi si rese conto che
quella voce doveva appartenere ad una donna.
Medusa si voltò e si alzò lentamente in piedi. Di fronte
a lei, Callisto la guardava con un espressione a metà tra il
curioso e il preoccupato, poi i suoi occhi passarono ad esaminare i
minuscoli pezzettini di carta sparsi qua e là nella radura.
“Che cosa c’è?” chiese Medusa. Il suo tono di
voce era talmente fermo e autoritario che Callisto sobbalzò e
tornò immediatamente a fissare il suo sguardo su di lei.
“Magneto ti cerca.” disse. “Sta per annunciare al
resto della Confraternita l’attacco ad Alcatraz e vuole che i
luogotenenti appaiano tutti al suo fianco mentre parla.”
Medusa annuì e si incamminò verso il campo. “
Andiamo.” ordinò rivolta a Callisto, che si
affrettò ad obbedirle.
Presto sarà tutto finito, si disse Medusa mentre marciavano tra gli alberi. Presto ogni cosa tornerà al suo posto.
****
Quando Medusa e Callisto arrivarono alla collinetta gli altri, escluso
Magneto, erano già lì. Il Fenomeno, Kid Omega, Madrox e
Archlight si tenevano a qualche metro di distanza dalla sommità,
evidentemente intimiditi dalla folla che vociava sotto di loro.
Più avanti di qualche passo rispetto al gruppo stava in piedi
Pyro, lo sguardo fisso davanti a sé. Un paio di metri a sinistra
c’era Jean Grey, il suo volto bianco teso e sofferente. Per un
istante i suoi occhi offuscati dall’ombra incrociarono quelli di
Medusa, poi tornarono a contemplare qualcosa che la ragazza non
riuscì a scorgere. Medusa ebbe l’impressione che Jean
stesse lottando per trattenere dentro di sé qualcosa che non
vedeva l’ora di erompere fuori. Ricordò le parole che
proprio Jean Grey le aveva detto, tanto tempo prima, a proposito delle
eruzioni vulcaniche, e per qualche motivo la cosa la fece sentire
stranamente inquieta.
Callisto prese posto accanto ad Archlight, anche lei evidentemente a
disagio per un rituale a cui assisteva per la prima volta, mentre
Medusa si fermò davanti al Fenomeno, avendo cura di trovarsi
più o meno alla stessa altezza di Pyro ma lasciando qualche
metro di distanza, in modo che Magneto potesse trovarsi
nell’esatto centro del gruppo. Le cose cambiano così in fretta, si disse. Qualche
mese fa eravamo io e John a starcene indietro di qualche passo mentre
Magneto e Mistica arringavano la folla, ed ora eccoci qua. I comandanti
in seconda, le fidate guardie del corpo. Magari, chi può dirlo,
ancora un paio di mesi e saranno Callisto e Kid Omega a fare scena a
fianco del capo, ed io e John chissà che fine avremo fatto.
Medusa si voltò a guardare Pyro e, per qualche strano motivo, le tornò in mente un'altra strofa della canzone.
On the second day I brought her a flower
She was more beautiful than any woman I'd seen
I said, "Do you know where the wild roses grow
So sweet and scarlet and free?"
Lei e John non si erano più parlati dal giorno della lite nel
bosco. Il giorno successivo a quell’episodio, Medusa era tornata
nella loro tenda e aveva scoperto che tutte le cose di John erano
scomparse. Sospettava che dormisse all’addiaccio, da qualche
parte nella foresta. Qualche volta aveva scorto una luce andare e
venire tra gli alberi di pioppo che proteggevano il lato sud del campo.
Pyro staccò gli occhi dalla folla e diresse per qualche istante
uno sguardo gelido verso Medusa, poi tornò a fissare le persone
che chiacchieravano e si agitavano ai piedi della collinetta. Medusa lo
fissò ancora a lungo dopo che lui ebbe distolto lo sguardo, ma
Pyro non si voltò più.
Ancora più dei silenzi e degli sguardi gelidi, la faceva a pezzi
non sapere se la loro relazione esisteva ancora, oppure se era oltre
ogni tentativo di aggiustare le cose. Era fin troppo cosciente che
l’unica soluzione era quella di affrontare l’argomento e
parlarne insieme, eppure le possibili risposte la terrorizzavano.
Andare da John e sentirsi dire che non esisteva più niente in
grado di salvare il loro rapporto era qualcosa che davvero non sarebbe
stata in grado di affrontare, specialmente in quel momento.
Tutte le volte che tornava nella tenda e si sdraiava da sola nel sacco
a pelo le tornava in mente la discussione che lei e Pyro avevano avuto
nel bosco, il giorno in cui lei aveva confessato a Jean Grey di essere
incinta, e si malediceva per avergli fatto quella domanda. John ha ragione, si rimproverava. Perché
hai voluto rivangare il passato? Che cosa ne hai guadagnato? Tu sei
l’unica persona al mondo che si getta tra le braccia del dolore,
invece che tentare di sfuggirgli come fanno tutti.
In quel momento Magneto salì la collinetta e si sistemò
nello spazio vuoto tra Pyro e Medusa, guardando la folla sotto di lui
come un monarca osserva i suoi sudditi dal balcone della sua residenza
imperiale. Immediatamente un silenzio pieno di riverenza cadde sul
campo, e ogni sguardo si impresse fermamente sul capo della
Confraternita. Magneto lasciò passare ancora qualche secondo,
poi alzò entrambe le braccia verso il cielo, lasciando che il
lungo mantello nero gli scivolasse oltre le spalle. La gente accalcata
sotto la collinetta trattenne il respiro, e Medusa vide le labbra di
Magneto piegarsi in un impercettibile sorriso, talmente leggero e
veloce che difficilmente qualcun altro avrebbe potuto notarlo. Si va in scena, pensò.
“Membri della Confraternita!” chiamò Magneto. Dalla
folla eruppe un grido, e a Medusa tornò alla mente una scena che
aveva visto tempo prima alla televisione. Un uomo in doppiopetto grigio
parlava da un podio e il pubblico lo incitava con il canto
“No-ai-mutanti! No-ai-mutanti!”. Scacciò con forza
quel pensiero.
“Loro vogliono curarci.” continuò Magneto, poi fece
una piccola pausa. Medusa guardò Pyro, e lui le restituì
lo sguardo. La sua mano sinistra stringeva il polso destro e Medusa
sorrise brevemente prima di intimare a se stessa che doveva ricordarsi
dov’era e mantenere un contegno solenne. Pyro metteva sempre le
mani in un certo modo, e camminava in un certo modo, quand’era
nervoso.
“Ma io dico che la cura siamo noi!” concluse Magneto, e
dalla folla che aveva atteso trepidante di sentire il resto della frase
si alzò un grido di gioia misto ad orgoglio. Un altro sorriso,
questa volta chiaramente visibile, apparve sul volto di Magneto. Si possono dire molte cose di lui, pensò Medusa mentre osservava il capo della Confraternita. Ma non che non sia un grande showman.
Magneto disse ancora qualcos’altro e la folla esultò di
nuovo, ma Medusa smise di ascoltare. Sapeva benissimo come Magneto
avrebbe concluso il suo discorso, e provò un certo fastidio al
pensiero di essere anche lei una specie di addobbo per quella ridicola
sceneggiata.
Era talmente infastidita che quando Magneto disse, indicando Jean Grey,
“Abbiamo le nostre armi!”, e la folla applaudì di
nuovo, lei si voltò dall’altra parte, ma poi il suo senso
del dovere intervenne e le intimò di smetterla di fare la
bambina. Medusa obbedì e si rimise a guardare la folla sotto di
lei con l’espressione più neutrale che le riusciva, ma con
la coda dell’occhio vide che Pyro la stava fissando. Il suo gesto
di stizza non gli era sfuggito.
“E se qualche mutante si metterà sulla nostra strada, noi
useremo questo veleno contro di lui!” esclamò Magneto, con
una tale rabbia che Medusa sobbalzò per la sorpresa, temendo,
per qualche istante, che il capo della Confraternita ce l’avesse
con lei per la sua mancanza d’attenzione. Oddio, ucciderei per una spremuta d’arancia, sospirò una vocina dentro di lei, e Medusa chiuse brevemente gli occhi imprecando a bassa voce. Ecco, adesso sono veramente a posto, pensò rassegnata. Niente di meglio che avere le voglie dispersa nel bel mezzo del nulla.
Cercò di lottare contro quel pensiero e di concentrarsi sulle
parole di Magneto, ma non c’era niente da fare. Aveva talmente
voglia di bere un bel bicchiere di succo d’arancia che le
sembrava quasi di sentirne il profumo. Nella sua mente apparve
l’immagine di una brocca di vetro piena di spremuta appena fatta,
con alcuni cubetti di ghiaccio che vi galleggiavano in mezzo, e le
venne l’acquolina in bocca a pensare a quanto sarebbe stata
fresca e dissetante... Certo, con l’aggiunta di un paio di
biscotti alla cannella sarebbe stata assolutamente perfetta...
Di nuovo il suo senso del dovere la pungolò con forza, e Medusa
si riscosse da quella fantasia culinaria proprio nel momento in cui
Magneto raggiungeva l’acme del suo discorso. “Andremo
sull’isola di Alcatraz per impossessarci della Cura, e
distruggeremo la sua fonte!” esclamò il comandante della
Confraternita, e le sue parole furono quasi soffocate dal ruggito
estatico ed entusiasta della folla. Medusa si girò a guardare il
suo capo. Adesso lo fa, si
disse. Proprio in quel momento Magneto sollevò entrambi i pugni,
come aveva fatto all’apertura del suo discorso, e fece lentamente
correre lo sguardo sulla folla in attesa sotto di lui. Medusa sapeva,
per esperienza diretta e personale, che ognuna delle persone ai piedi
della collinetta avrebbe avuto l’impressione di sentire gli occhi
del capo della Confraternita scrutare dentro i suoi.
“E poi niente potrà più fermarci!” concluse
Magneto tra le grida di giubilo del suo pubblico in delirio. Medusa
rimase immobile con le mani lungo i fianchi, il suo sguardo severo e
impassibile. Era andato tutto come previsto, ma questo pensiero, invece
di renderla felice, la fece sentire ancora più depressa e
irritata. Magneto, invece, sembrava molto soddisfatto
dell’effetto che il suo discorso aveva sortito sul resto della
Confraternita; guardò soddisfatto la folla che esultava sotto la
collina, poi si voltò e si diresse verso il bunker seguito dal
resto dei suoi luogotenenti, ma non da Jean Grey, che a quanto pareva
era scomparsa.
Medusa, al contrario, rimase ferma al suo posto. Aveva la vaga
sensazione che Magneto non volesse averla attorno, ma la cosa la
disturbava meno di quanto avrebbe desiderato; anzi, se doveva essere
totalmente sincera, era quasi felice di essere stata sollevata dal suo
incarico di seconda guardia del corpo, anche se ciò aveva
praticamente ridotto a zero le sue occasioni di incontrare Pyro.
John fu l’ultimo ad abbandonare la collina. Lui e Meredith si
ritrovarono faccia a faccia per la prima volta dopo settimane,
così vicini che Medusa riuscì a sentire l’odore del
suo profumo. Si morse le labbra per non scoppiare a piangere.
Improvvisamente, si era ricordata che nella canzone c’erano due
voci, una maschile ed una femminile. La prima strofa cantata dalla
donna faceva più o meno così:
When he knocked on my door and entered the room
My trembling subsided in his sure embrace.
He would be my first man, and with a careful hand
He wiped at the tears that ran down my face.
Ebbe l’impressione che Pyro stesse per dire qualcosa, e attese
con ansia che lui parlasse. Invece, dopo qualche secondo, John distolse
lo sguardo e si allontanò da lei, incamminandosi lentamente
verso il bunker. Medusa rimase ferma a guardarlo scendere dalla collina
con le lacrime che le pizzicavano gli occhi.
E’ finita, si disse mentre sentiva il suo cuore frantumarsi in mille schegge. E’ tutto finito ormai.
****
Era ormai notte fonda quando Medusa si svegliò di soprassalto e
accese la piccola torcia elettrica che teneva accanto a sé la
notte da quando Pyro se n’era andato. Si passò una mano
sulla fronte umida di sudore e allungò una mano verso lo zaino,
cercando qua e là una bottiglietta d’acqua che non fosse
già vuota. Alla fine ne trovò una ancora sigillata
avvolta in una maglietta e bevve a grandi sorsi, non tanto
perché avesse sete ma perché il suo cuore stava correndo
all’impazzata, e prendere qualche sorso d’acqua di solito
la calmava.
Sgusciò fuori dal sacco a pelo e si mise a sedere sul sottile
telo di nilon che la separava dal terreno duro e freddo, strofinandosi
gli occhi con la mano che ancora le tremava leggermente. La maglietta
che un tempo era appartenuta a John era zuppa di sudore, e i capelli le
scendevano sul viso tutti annodati ed in disordine. Se li scostò
dal collo e rabbrividì a causa del freddo della notte contro la
sua pelle umida.
Aveva avuto un incubo. Per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare
a proposito di cosa, ma sentiva che c’entrava la canzone, e anche
John ed Evie. La voce della donna nella canzone si ostinava
testardamente a vorticarle nel cervello, insistente e sgradita come un
ospite inatteso.
On the second day he came with a single red rose
Said: "Will you give me your loss and your sorrow?"
I nodded my head, as I lay on the bed
He said, "If I show you the roses, will you follow?"
Medusa alzò lentamente lo sguardo, e notò che c’era
una debole luce che brillava attraverso il telo della tenda.
Durò solo qualche istante, poi si spense subito. Medusa
continuò a guardare il punto in cui aveva visto il riflesso
scomparire, e infatti dopo qualche secondo la luce tornò, ma
solo per spegnersi nuovamente. Senza staccare gli occhi dal bagliore
intermittente, Medusa indossò velocemente un paio di jeans, una
maglietta a maniche lunghe e una felpa pesante, e, dopo essersi
allacciata le scarpe e afferrato la torcia elettrica, abbassò la
chiusura lampo che chiudeva la tenda e si avventurò fuori.
****
Non fu difficile trovare il suo rifugio. Le fiamme che si accendevano e
si spegnevano le indicarono il punto in cui doveva dirigersi, e la
torcia elettrica le permise di raggiungere gli alberi senza inciampare
in una delle tende.
Trovò Pyro sdraiato sull’erba in una piccola radura tra
gli alberi, un braccio ripiegato dietro la testa a fargli da cuscino e
l’altra mano che faceva scattare nervosamente lo Zippo. Le vampe
di fuoco che si alzavano, troppo grandi per essere generate da un
accendino così piccolo, permisero a Medusa di vedere lo zaino di
Pyro appoggiato contro il tronco di un albero. Allora è vero, si disse tristemente. E’ davvero qui che dorme.
Quando la sentì arrivare, John smise di far scattare lo Zippo e
per quasi mezzo minuto tutto fu buio. Gli alberi erano troppo fitti
perché il debole chiarore lunare potesse penetrare tra le foglie
e illuminare la radura, e per qualche istante Medusa ebbe paura che lui
scivolasse via nella notte e la lasciasse lì da sola.
“John.” sussurrò.
Improvvisamente sentì il click dello
Zippo, e una grossa palla di fuoco si formò tra le mani di Pyro
e poi si librò in aria, rimanendo appesa al nulla qualche metro
sopra le loro teste come un enorme e fluorescente lampadario da
discoteca. Medusa vide che ora John era in piedi davanti a lei,
un’espressione grave sul viso pallido e la mano destra che
stringeva con forza l’accendino. Non c’era traccia del
lanciafiamme.
Medusa cercò i suoi occhi e chiuse lentamente i pugni. Una parte
di lei tremava terrorizzata per quello che stava per chiedere, ma non
ce la faceva più a vivere in quello stato di perenne incertezza.
Doveva sapere senza il minimo dubbio se tra loro due era tutto finito.
“John, se vuoi chiudere con me, è un tuo diritto.”
La voce le usciva tremante e smozzicata, ed ogni parola era come una
lama incandescente che le bruciava la carne. Si avvolse le braccia
attorno al corpo come aveva visto fare da Danielle all’ospedale,
anche se non era il freddo a farla rabbrividire: aveva corso abbastanza
nella notte per ricordarsi, questa volta, di infilarsi una felpa per
proteggersi dalla bassa temperatura delle ore crepuscolari.
Lasciò che un altro tremito le percorresse la spina dorsale
prima di concludere. “Ma se vuoi farlo, me lo devi dire in
faccia.”
Pyro abbassò lo sguardo e si infilò lo Zippo nella tasca
dei jeans. Rimase in silenzio qualche secondo prima di alzare la testa
e guardare Medusa negli occhi, e ogni istante che passava fu per lei
come un ago piccolo e appuntito che le si infilava sotto le unghie.
“Non so dirti se sarei rimasto, Meredith.” disse infine
Pyro, i suoi profondi occhi blu fissi in quelli di lei. Trasse un lungo
respiro prima di continuare. “Ma, pistola alla testa, ti
risponderei che me ne sarei andato comunque.” Distolse lo sguardo
e serrò gli occhi con un’espressione di dolore misto a
rabbia. “Mi dispiace.”
Medusa annuì. “Sì, lo so.” rispose con un
bisbiglio roco. Sorrise tristemente. “Non saresti davvero tu, se
non scegliessi sempre di combattere.”
Pyro la guardò con un’espressione perplessa, indeciso se
considerare l’ultima frase come un rimprovero oppure come
un’affermazione. I suoi occhi brillavano alla luce del fuoco che
bruciava tra i rami degli alberi sopra di loro.
“Ed io non ti amerei tanto.”
Gli occhi di Pyro si spalancarono non appena l’ultima sillaba
lasciò le labbra di Medusa, e lei esitò, spaventata dalla
sua reazione. Non aveva avuto intenzione di pronunciare ad alta voce
quella frase, ma oramai era troppo tardi per tornare indietro e
rimangiarsela.
“Comunque, questo non cambia le cose.” sussurrò
Medusa mentre le lacrime cominciavano di nuovo ad offuscarle la vista.
“Se mi vuoi lasciare, John, allora fallo, e fallo in fretta. Io
non ce la faccio più a stare così, fa troppo male.”
Un singulto la scosse dalla testa ai piedi e cominciò a
piangere, indifferente al fatto che doveva sembrare davvero patetica e
triste. Il dolore era troppo forte per continuare ad occuparsi di
dettagli futili come quello.
Pyro non si mosse; continuò semplicemente a fissarla con un
espressione illeggibile sul volto. Medusa singhiozzò più
forte.
“Ti prego, John, ti prego.” implorò con un sussurro.
Voleva solo che finisse, così avrebbe potuto tornare alla tenda
e raccogliere i cocci del suo cuore in frantumi. Era così stanca
e dolorante che non le importava più di nulla e di nessuno.
John avanzò lentamente verso di lei, la luce delle fiamme sopra
le loro teste che si riflettevano nei suoi occhi blu profondo e
facevano risaltare i suoi capelli biondi. Prima che Medusa avesse il
tempo di abbassare lo sguardo, e offrire così il collo alla
scure che era certa stava per darle il colpo di grazia, lui le prese il
viso tra le mani e premette le labbra contro quelle di lei.
Per cinque o sei secondi Medusa non riuscì proprio a capire cosa stesse succedendo. Perché non parla? si domandò inebetita, prima di rendersi conto che John stava già
rispondendo alla sua domanda. Ancora esitante, come se temesse che
fosse solo un bel sogno pronto a svanirle tra le dita, avvolse le
braccia attorno al corpo di lui e il suo cuore ebbe un piccolo sussulto
di gioia quando fece correre le mani aperte sulla sua schiena senza che
lui si trasformasse in fumo. Chiuse gli occhi, pazza di felicità
ma ancora incredula nel sentire dopo tanto tempo il sapore del suo
ragazzo, un sapore che aveva creduto perso per sempre.
Pyro staccò la bocca da quella di Medusa e la guardò negli occhi, appoggiando la fronte contro quella di lei. E’ così che vi siete baciati la prima volta, ricordi? sussurrò una vocetta emozionata da qualche parte nel suo cervello. Tu gli stavi tamponando i tagli sulle mani e lui ha premuto la fronte contro la tua.
“Ti amo, Meredith.” lo sentì dire contro le sue
labbra, poi ci furono solo i suoi baci, e le loro mani che afferravano
vestiti e li gettavano da parte, e il corpo di John sul suo mentre le
loro bocche ripetevano all’infinito quelle due parole.
...................................................................................
Uhm... Vedete, la mia idea
iniziale prevedeva che Meredith e John si lasciassero. Ma quando ho
scritto la scena, proprio non ce l'ho fatta... E ho deciso di dar loro
una seconda possibilità. Forse, nel tentativo di cambiate le
carte in tavola, Meredith mi è diventata un po' Mary Sue, ma con
tutto quello che sta passando, poverina, si può
permettere di essere un po' debole e fragile. Ormai mi sono
affezionata troppo a lei per serbarle rancore...
Secondo voi va bene così, o avrei dovuto farli lasciare? E' un po' patetica come scena, vero? Fatemi sapere che ne pensate.
N.B.: La canzone che compare nel capitolo è "Where the Wild
Roses Grow" di Nick Cave, appunto. Le strofe sono in alternanza
maschile/femminile, ma dato che nel testo appaiono tutte scomposte ho
deciso di rispettare, per la traduzione che compare qui di seguito, la
sequenza in cui vengono riportate nel racconto, così da non creare
confusione.
VOCE MASCHILE: "Dal primo giorno in cui l'ho vista ho saputo che era quella giusta
Mi ha guardato negli occhi e ha sorriso
Le sue labbra erano del colore delle rose
Che crescono vicino al fiume, rosse come il sangue e selvaggie"[..]
VOCE MASCHILE: [...]"Il secondo giorno le ho portato un fiore
Era più bella di qualsiasi altra donna avessi mai visto
Ho detto: "Lo sai dove crescono le rose selvagge
Così dolci e scarlatte e libere?"[..]
VOCE FEMMINILE: [...]"Quando bussò alla mia porta e entrò nella stanza
I miei brividi si calmarono nel suo forte abbraccio
Sarebbe stato il mio primo uomo, e con una mano amorevole
Asciugò le lacrime che mi solcavano il viso."
VOCE FEMMINILE: [...]"Il secondo giorno venne con una sola rosa rossa
Ha detto: "Vuoi darmi le tue perdite e il tuo dolore?"
Ho annuito, e mente mi sdraiavo sul letto
Ha detto: "Se ti mostrassi le rose, mi seguiresti?"[...]
Da ultimo, grazie di
cuore a joey_ms_86 per la sua recensione. Mi ha fatto molto piacere
leggerla, soprattutto per il fatto che non consideri Meredith una Marie
Sue: era la mia preoccupazione principale! Davvero grazie per le tue
parole.
Ecco fatto. Ciao e a presto!
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
WaBLtW7
Disclaimer:
tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di
Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono
a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century
Fox.
Bentornati! Ecco il nuovo capitolo di questo racconto. Mi auguro con tutto il cuore che vi possa piacere.
.......................................................................
La baia di San Francisco luccicava di mille riflessi dorati, illuminata dal sole del tardo pomeriggio.
Era una splendida giornata di fine primavera, e perfino in città
era possibile sentire il profumo mellifluo che si sprigionava dai fiori
e dalle piante di oleandro che crescevano sulle colline attorno alla
baia. Un leggero vento tiepido e salmastro soffiava dal mare,
increspandone la superficie con migliaia e migliaia di piccole onde che
andavano ad infrangersi dolcemente contro i piloni di cemento armato
che sostenevano il Golden Gate, percorso come ogni giorno da decine di
auto che procedevano in fila, sia in un senso che nell’altro. Di
tanto in tanto dalla colonna di macchine si alzava la strombazzata di
un clacson, ma per la maggior parte del tempo il traffico scorreva
senza intoppi, dato che l’ora di punta era ormai passata da un
pezzo.
Improvvisamente, una Subaru nera sbandò e andò a
tamponare una delle auto che provenivano dal senso opposto. Ci fu uno
stridore di freni, e poi altre due auto cozzarono l’una contro
l’altra, e ben presto tutto il Golden Gate si trasformò da
un capo all’altro in un’enorme pista d’autoscontro,
con le auto che inchiodavano facendo stridere i pneumatici e andavano a
sbattere tra di loro e contro i parapetti d’acciaio del ponte.
Gli occupanti delle macchine, terrorizzati, aprirono gli sportelli e si
misero a correre in preda al panico verso la terraferma, mentre i cavi
d’acciaio che assicuravano la parte calpestabile del Golden Gate
ai piloni si strappavano e frustavano l’aria minacciosi, e grossi
bulloni di ferro piovevano dall’alto e si schiantavano sulle
macchine ferme e sull’asfalto.
La Confraternita avanzò sul ponte, Magneto in testa. Alla sua
sinistra, indietro di non più di un passo, seguivano Medusa e
Pyro, l’uno a fianco all’altra. A destra di Magneto
camminava Jean Grey, rigida e trattenuta come se ogni singolo passo le
costasse un’immane fatica. Poco più indietro c’erano
Kid Omega, Callisto, Archlight e il Fenomeno, e poi tutto il resto
dell’armata, truce e nerovestita. Le auto ferme si spostavano a
destra e sinistra al loro passaggio, andando a sbattere contro le
pareti del ponte. Medusa pensò che era un po’ inquietante
vederle muoversi senza nessuno a bordo, lanciate come giocattoli qui e
là dal potere di Magneto. Fissò lo sguardo sul comandante
della Confraternita, che camminava con le mani alzate all’altezza
del petto e i palmi rivolti in avanti, il viso completamente rilassato
e tranquillo, come se si trovasse a passeggiare sul lungomare invece
che in mezzo a quel disastro di lamiere contorte e di vetri infranti.
Per qualche istante, le venne in mente l’immagine di quei santi
benedicenti all’ingresso delle chiese, ma poi cambiò idea.
No, più che altro sembra Mosè che guida il suo popolo attraverso il Mar Rosso, si
corresse, e subito quel pensiero la fece sentire vagamente a disagio.
Non era mai stata molto religiosa, ma le sembrò che quella
riflessione suonasse un po’ blasfema.
Quando furono più o meno nel centro del ponte, Magneto si
fermò e lasciò che tutto il suo esercito lo sorpassasse e
si sistemasse alle sue spalle. Quando anche l’ultimo uomo fu
passato, Magneto fece qualche passo in avanti, si sistemò meglio
i guanti di pelle nera che gli coprivano le mani e tese un braccio
davanti a sé. Medusa sentì l’intero ponte tremare e
gemere, come se una forza invisibile lo stesse stritolando, poi ci fu
una sorta di esplosione, anzi, una serie di esplosioni, davanti e
dietro di loro, e anche sotto
di loro. Si guardò attorno spaventata, ma poi si rese conto che
era il rumore del cemento e dell’acciaio dei piloni che si
frantumavano e cadevano in acqua. Vide, da lontano, della polvere densa
e pesante alzarsi dal punto in cui il Golden Gate si congiungeva con la
terraferma e poi, con una specie di ruggito che sembrava provenire dal
ponte stesso e che fece tremare il terreno sotto i loro piedi, il
Golden Gate si librò in aria.
Medusa fu quasi sul punto di cadere quando Magneto fece lentamente
piroettare il ponte e lo diresse verso l’isola di Alcatraz, che
spuntava dal mare a qualche miglia dal punto in cui si trovavano loro
in quel momento. Medusa la guardò perplessa: si era aspettata
una sorta di scoglio nero e fosco su cui sorgeva un lugubre edificio
simile al castello del conte Dracula, invece l’isola era coperta
di vegetazione verde e rigogliosa da cui spuntava un palazzo dalle mura
bianche. E’ davvero bella, pensò piena di ammirazione. Peccato
che abbiano rovinato un posto tanto incantevole mettendoci un carcere
prima e poi la sede della Worthington Pharmaceutics.
La brezza del mare le spostò sul viso quelle sottili ciocche di
capelli ricci che non era riuscita ad infilare nella treccia, e lei se
li sistemò dietro le orecchie con un movimento noncurante, anche
se sapeva benissimo che erano troppo corte per stare al loro posto e
ben presto sarebbero tornate a caderle sulla fronte. Si voltò a
guardare gli altri, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole. A
parte Jean Grey, che aveva la stessa espressione stanca e sofferente di
sempre, il resto della Confraternita si stava guardando in giro con la
medesima espressione di sbigottimento misto a timore reverenziale. Il
Fenomeno aveva addirittura la bocca spalancata, e Medusa trattenne a
stento una risatina. Il suo sguardo incrociò quello di Pyro, in
piedi a qualche metro da lei, e per un istante anche il volto di John
fu attraversato da un sorriso. E’ un sollievo aver sistemato le cose, si disse Medusa mentre il suo cuore accelerava leggermente i suoi battiti. Non credo che sarei riuscita ad affrontare tutto questo se lui non fosse stato al mio fianco.
In quel momento il ponte si abbassò bruscamente, e Medusa
barcollò cercando di non perdere l’equilibrio.
Sentì Magneto mormorare qualcosa rivolto a qualcuno che lei non
potè vedere, e poi la parte anteriore del Golden Gate, o quel
che ne rimaneva, atterrò con fragore sulle mura che proteggevano
l’edificio dell’ex prigione sull’isola di Alcatraz,
sbriciolandole come pane secco, mentre la parte posteriore si
schiantava da qualche parte sulla terraferma. L’urto fu talmente
violento che Kid Omega e Archlight, insieme a molti altri della
Confraternita, caddero a terra, e lo stesso sarebbe successo a Medusa
se Pyro non l’avesse afferrata per il polso e non l’avesse
attirata a sé, cingendole fugacemente la vita con un braccio
prima di lasciarla andare. I loro sguardi si incrociarono di nuovo, e
Medusa fece scivolare la mano sinistra in quella di lui e ne
accarezzò il palmo con la punta delle dita. Lo sentì
trattenere brevemente il respiro.
Magneto si voltò e tornò verso i suoi uomini con
un’espressione compiaciuta che gli aleggiava sul viso. Kid Omega
e Archlight si rialzarono e cominciarono a scrollarsi la polvere dai
vestiti, imbarazzati, mentre il resto dei luogotenenti, inclusi Pyro e
Medusa, si avvicinavano al loro comandante attendendo di ricevere
ordini.
“Sferreremo il nostro attacco quando farà buio.”
disse Magneto. “Fino ad allora manterremo le postazioni. Non
credo che qualcuno sarà così temerario da avventurarsi
sul ponte, ma meglio non rischiare. Non si può mai sapere fin
dove può spingersi la stupidità umana.” Dai
luogotenenti si sollevò una risatina, e Magneto sembrò
compiacersene.
“Pyro.” chiamò il capo della Confraternita, di nuovo
serio. Lui fece un passo in avanti. “Con me. Medusa, tu occupati
della sicurezza del lato est.” ordinò Magneto, indicando
con un movimento della testa l’estremità del ponte che
poggiava sulla terraferma.
Medusa annuì e fece cenno a Callisto di seguirla. La ragazza le
obbedì ed insieme si incamminarono verso la direzione opposta a
quella in cui si trovava l’isola di Alcatraz. Mentre
attraversavano il ponte, Medusa radunò tutti i mutanti i cui
poteri l’avrebbero aiutata a creare una barriera tra la loro
postazione e la terraferma e ordinò loro di seguirla. Anche se credo proprio che Magneto abbia ragione, si disse. Se ci saranno guai, verranno dall’isola. Il pensiero non le piacque per niente.
“Non capisco.” disse improvvisamente Callisto mentre
camminavano. “Tu sei in grado di ipnotizzare le persone,
no?”
Medusa annuì. “Sì, si può dire così.”
“E allora perché andare tutti? Perché fare a pezzi
il Golden Gate?” domandò Callisto. “Sarebbe bastato
che tu ti infiltrassi sull’isola e saresti riuscita a prendere il
ragazzino in un baleno.”
Medusa scoppiò a ridere. “Sì, ma io non avrei fatto
la millesima parte del rumore che ha fatto il Golden Gate librandosi in
aria e schiantandosi su Alcatraz.”
Callisto la guardò aggrottando la fronte.
“Qui non si parla solo di distruggere la Cura.” le
spiegò Medusa. “Se vogliamo costringere il mondo intero a
prestarci attenzione, allora dobbiamo agire in modo che nessuno possa
ignorarci.”
Callisto sollevò una sopracciglio, ancora dubbiosa. “Vuoi
dire che tutto questo macello è solo pubblicità?”
Medusa alzò le spalle. “Sì, in parte è
così. Come avrai certamente notato, Magneto sa come farsi
notare.”
“Dire così mi sembra sminuirlo.” replicò
Callisto e Medusa sorrise, ma dentro di sé sospettava che la
ragione principale fosse un'altra. Magneto
non si fida più di te, ecco perché non ti ha mandato a
distruggere la Cura. Ai suoi occhi i tuoi privilegi sono
terminati. Scoprì che questo pensiero la preoccupava più di quanto si sarebbe aspettata.
“Ehi, scusami!”
Medusa si voltò in direzione della voce, e vide che a chiamarla
era un uomo sulla quarantina con i capelli lunghi fino alle spalle e la
pelle scura. Lo riconobbe come l’uomo del falò, il tizio
che possedeva il rosario di Danielle e che l’aveva indirizzata
sulle sue tracce. Si voltò a guardare Callisto.
“Porta gli altri alla nostra postazione.” le disse. “Io arrivo subito.”
Guardò la ragazza e il resto della loro guardia allontanarsi in
direzione della terraferma, poi i suoi occhi tornarono sull’uomo
che le stava di fronte. Lui le rivolse un vago sorriso intimidito.
“So che non è il momento migliore, ma non ho ancora avuto
occasione di dartelo.” disse frugando nella tasca del suo
giubbotto militare. “Credo che questo dovresti tenerlo tu.”
Allungò la mano a coppa verso di lei, e Medusa vide che
nell’incavo del palmo teneva il rosario di pietre nere, con il
crocefisso d’argento che scintillava sotto il sole del tardo
pomeriggio. Si sentì improvvisamente in colpa per non aver
reclamato prima quell’oggetto che in passato era appartenuto a
sua madre.
Ricordò quello che le aveva detto l’infermiera dell’ospedale psichiatrico: “Solo perché non ti guarda, non significa che non ti vede.” Le tornò in mente che era corsa via senza salutare, e il pensiero la fece vergognare come una ladra.
“No, non posso.” disse senza staccare gli occhi dal rosario nella mano dell’uomo. “E’ tuo.”
Lui le sorrise di nuovo, questa volta con maggiore convinzione.
“Non conosco le tue motivazioni, ma credo che per te significhi
molto, molto più di quello che significa per me.” rispose.
“Avanti, prendilo.”
Quasi senza rendersene conto, Medusa allungò la mano destra e
l’uomo fece scivolare il rosario nel suo palmo. Si accorse che il
crocefisso era graffiato e qui e là aveva perso la cromatura, e
che alcune delle pietre nere erano scheggiate. “Grazie.”
mormorò infilandoselo nella tasca dei jeans.
“Di niente.” rispose l’uomo, poi si voltò e
tornò tra gli altri mutanti della Confraternita, seduti a gambe
incrociate sull’asfalto e sui cofani delle auto in attesa che
calasse la notte. Medusa riprese a camminare verso la sua postazione,
dove Callisto e gli altri la stavano aspettando in attesa dei suoi
ordini. Mentre marciava, fece scivolare una mano nella tasca dei jeans
e si mise a giocherellare distrattamente con i grani del rosario.
****
Esattamente come Magneto aveva previsto, le barriere erette per
proteggere il ponte si rivelarono totalmente inutili: nessuno,
né dall’isola né dalla terraferma, tentò di
sfondare le linee della Confraternita e scatenare una battaglia per il
possesso del Golden Gate. Probabilmente vogliono aspettare la nostra prima mossa, e poi reagire di conseguenza, si
disse Medusa mentre, seduta sul cofano di una Ford Fiesta grigia,
osservava gli ultimi raggi del sole morente riflettersi debolmente
sulle onde dell’oceano.
Si infilò una mano in tasca e le sue dita accarezzarono le
pietre lisce e fredde del rosario, e provò un vago senso di
inquietudine stringerle lo stomaco. Non
va bene. Anche un bambino si accorgerebbe che la nostra posizione
è indifendibile. Un drappello di un centinaio di uomini sarebbe
riuscito a buttarci in mare in non più di un’ora. Il
polpastrello dell’indice tracciò il contorno di una
spaccatura su uno dei grani del rosario, mentre un grosso uccello
bianco, probabilmente un albatro, scese in picchiata e planò con
grazia sulla superficie dell’acqua, a circa una cinquantina di
metri da dove si trovava lei in quel momento.
Come sarebbe bello essere come lui, pensò
Medusa mentre l’albatro riprendeva quota e spariva nel cielo,
dove avevano cominciato ad apparire, ancora offuscate
dall’estrema luce del tramonto, le primissime stelle. Nessuna guerra da affrontare, nessuna lotta da portare avanti, solo il cielo sopra le mie ali e l’oceano su cui scivolare.
Si ricordò di aver letto da qualche parte che in spagnolo la
parola “alcatraz” significa proprio “albatro”,
e la cosa le sembrò di buon auspicio.
Callisto le si avvicinò e si sedette accanto a lei sul cofano
della Ford. “Ho fatto ancora un giro.” disse. “Non
sembra che qualcuno abbia intenzione di avvicinarsi, ma ho ordinato a
Puck e Dustgirl di rafforzare la barriera ogni mezz’ora, tanto
per stare sicuri.”
Medusa annuì. “Molto bene.” Osservò il cielo,
percorso dagli ultimi riflessi dorati e rosei del tramonto. “Non
ne avremo ancora per molto. Appena cala la notte ci spostiamo tutti
dall’altro lato del ponte.”
Callisto sembrò perplessa. “Ma non sarebbe meglio lasciare qualcuno di guardia?” chiese.
Medusa non rispose subito. Anche lei aveva pensato la stessa cosa, ma
Magneto era stato categorico: tutti i mutanti della Confraternita, che
avessero o non avessero esperienza sul campo di battaglia, dovevano
partecipare all’assedio dell’isola. “La nostra
potenza d’impatto dovrà essere tremenda.” aveva
spiegato il capo della Confraternita.
“Gli ordini sono ordini.” disse infine, sperando che Callisto non notasse la sfumatura diffidente nella sua voce.
Rimasero ancora per qualche istante in silenzio mentre il cielo si
faceva scuro. Ora che il sole se ne era andato le stelle si ereno fatte
più temerarie, stagliandosi con le loro luci tremolanti nel blu
profondo del firmamento. Chissà che stella è, si chiese Medusa fissando il puntino più luminoso di tutti. Sirio, forse. O forse Orione. Cavolo, come vorrei essere stata attenta mentre il professor McCoy spiegava il sistema solare.
La voce di Callisto la riportò alla realtà. “Medusa?”
“Sì?”
“Ci saranno guai?”
Medusa si voltò a guardare la ragazza seduta al suo fianco, non
sapendo bene cosa dirle. Sapeva che il suo dovere era quello di
sostenere sempre e comunque Magneto, e se lui aveva detto che la
Confraternita avrebbe raso al suolo la sede dei laboratori Worthington
e distrutto la Cura lei non avrebbe dovuto mai e poi mai contraddirlo.
Però Callisto le piaceva, e non voleva insultare le sua
intelligenza mentendole e dicendole che sarebbe andato tutto benissimo.
Annuì lentamente. “Sì, Callisto. Credo che ci saranno guai.”
Callisto abbassò lo sguardo e non disse niente, e Medusa
guardò un’ultima volta la stella senza nome prima di
balzare giù dal cofano dell’auto.
“Vieni.” disse. “E’ ora.”
Cominciarono a radunare la loro squadra di mutanti e, armati di torce
elettriche e lampade tascabili, si misero in cammino per raggiungere
l’altra parte del ponte. Le auto fracassate e abbandonate che
costellavano il Golden Gate avevano un aspetto ancora più
spettrale illuminate fugacemente dai deboli fasci di luce delle pile, e
Medusa si mise di nuovo la mano in tasca e strinse brevemente il
rosario mentre guidava il suo gruppo attraverso quel disastro di vetri
infranti e lamiere contorte. Ancora più inquietante fu il fatto
che non incontrarono anima viva finché non raggiunsero la
metà ovest del ponte: tutti i membri della Confraternita,
infatti, si erano raggruppati vicino all’estremità
più vicina all’isola di Alcatraz, aspettando che venisse
dato l’ordine di attaccare. Medusa congedò la sua squadra
e, insieme a Callisto, si avvicinò a Pyro, che, appoggiato ad un
furgone, giocherellava pensieroso con il suo amato lanciafiamme. Quando
vide arrivare le due ragazze spense immediatamente la vampata che aveva
appena lanciato e sorrise all’espressione corrucciata di Medusa,
che stava osservando il lanciafiamme con un vago sguardo di odio.
“Tutto bene dall’altra parte?” domandò.
“Non si è fatto vedere nessuno.” rispose Medusa alzando le spalle. “E qui?”
Pyro si infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans.
“Stessa cosa. Sono rimasti rintanati là dentro per tutto
il giorno.” disse indicando con un cenno della testa
l’edificio bianco sull’isola, il cui cortile era illuminato
da numerosi fari elettrici. Era tutto talmente pacifico da sembrare che
non ci fosse anima viva in tutta Alcatraz.
Di nuovo Medusa sentì l’inquietudine morderle le viscere. Non mi piace, non mi piace per niente,
si disse osservando il cortile deserto dell’ex prigione. Pyro si
accorse del suo turbamento e fece per parlare, ma Callisto lo
precedette.
“E il capo?” domandò.
Pyro indicò la figura alta e distinta di Magneto che si
stagliava contro le luci artificiali dei fari, a pochi passi
dall’estremità del ponte. Qualche metro dietro di lui
c’erano Kid Omega e il Fenomeno.
“Credo che sia arrivato il momento.” disse Medusa
osservando il capo della Confraternita scrutare meditabondo il profilo
chiaro del palazzo.
Pyro annuì e si staccò dal furgone.
“Archlight!” chiamò rivolto alla ragazza che stava
seduta sul parapetto del ponte a qualche passo da loro. Appena
sentì la voce di Pyro scattò immediatamente in piedi.
“Va ad avvisare gli altri.” le ordinò Pyro. “Si comincia.”
Archlight si affrettò ad obbedire e sparì in mezzo alla
massa anonima degli altri mutanti della Confraternita. Pyro, Callisto e
Medusa, invece, si diressero verso l’estremità del ponte,
dove Magneto era in attesa.
Ci furono delle voci, e il rumore di portelloni di ferro che venivano
spalancati. In pochi istanti un gruppo di soldati uscì
dall’edificio e si riversò nel cortile, piazzandosi sulle
torrette e davanti alle entrate con i loro inutili fucili spianati,
mentre i comandanti correvano qua e là urlando cose come
“Ai posti di combattimento!” e “Caricate le
armi!”.
Medusa sorrise. Che razza di imbecilli, pensò. Dureranno sì e no quaranta secondi, con Magneto.
Callisto camminava spedita verso il capo della Confraternita, che
ancora osservava assorto il palazzo dell’ex prigione e gli uomini
con le uniformi verdi che si affannavano nel suo cortile, e Medusa fece
per accelerare il passo e raggiungerla. Pyro, però, le prese la
mano e la tirò leggermente verso di sé, facendola
rallentare. Medusa si girò a guardarlo.
“Finirà presto.” disse Pyro mentre camminavano. Medusa abbassò lo sguardo.
“Finirà presto.” ripeté lui dandole una
stretta alla mano, come aveva fatto quella notte ad Alkali Lake, quando
Meredith aveva gettato via il suo nome ed il suo passato e aveva detto
a Magneto di chiamarsi Medusa.
Lei non disse niente. Esattamente come aveva fatto allora, intrecciò le dita con quelle di John.
Pyro esitò un istante, come se fosse indeciso se pronunciare a
no le sue prossime parole. “E quando sarà finita, voglio
portarti via di qui. Almeno per un po’.” disse cautamente.
Cercò gli occhi di Medusa e fece una breve pausa. “Verrai
con me?” le chiese, la sua voce piena di timore e di speranza
insieme.
Lei annuì. “Sì, John, certo.” rispose.
Improvvisamente ripensò a quello che le aveva detto
l’infermiera il giorno in cui aveva fatto la visita al
consultorio: “Puoi cambiare idea quando vuoi. Se non ti presenterai all’appuntamento, nessuno ti verrà a cercare.” Scacciò quella voce dalla sua testa. Non adesso. Davvero questo non è il momento adatto.
Erano ormai vicini all’estremità del ponte, e la mano di
Pyro scivolò via da quella di Medusa. Le sembrò che
qualcosa dentro di lei avesse sussultato quando le dita di lui si erano
staccate dalle sue, e Medusa spalancò gli occhi per la sorpresa.
No, no, devo essermelo immaginato, si disse. E’ troppo piccolo perché io possa sentirlo muoversi.
“John?” chiamò improvvisamente.
Lui la guardò. “Cosa c’è?”
In quel momento Magneto si voltò e lanciò un breve
sguardo verso i suoi due più vecchi luogotenenti, che ancora si
attardavano ad un paio di metri da lui.
Medusa scosse la testa. “Niente.” rispose. “Te lo dico quando sarà finita.”
Si avvicinarono a Magneto e si piazzarono alla sua destra. I soldati
nel cortile correvano qui e là come formichine impazzite, e
Medusa sentì il Fenomeno ridacchiare, ma quando scrutò il
volto di Magneto vide che era serio e impassibile.
“Il ragazzo è nel lato sud-est dell’edificio.”
disse Callisto, che se ne stava in piedi qualche metro a sinistra di
Magneto.
Il capo della Confraternita annuì. “Bene, allora.” disse guardando Pyro.
Lui si voltò verso i mutanti in attesa dietro di loro. “Buttiamolo giù!” gridò.
Dalle schiere della Confraternita si levò un grido di battaglia
che assomigliava ad un ruggito, poi Medusa vide una folla di persone
correre in avanti e balzare dal ponte al cortile della prigione. In
qual momento le porte dei laboratori Worthington si spalancarono e
decine e decine di soldati uscirono dall’edificio in pieno
assetto da battaglia. Medusa li vide accucciarsi dietro i camini
dell’impianto di ventilazione che spuntavano qui e là nel
cortile, puntando i loro fucili verso le persone che ora correvano
verso di loro con l’intenzione di sfondare le loro file e fare
irruzione nel palazzo.
Il Fenomeno fece per scendere dal ponte e prendere parte alla battaglia, ma Magneto lo bloccò.
“Negli scacchi vanno avanti i pedoni.” disse con un tono
neutrale, senza staccare gli occhi dalla scena che si svolgeva nel
cortile davanti a lui. A Medusa tornò in mente la figura di
Mistica sdraiata nuda sul pavimento del container, ferita e
terrorizzata, e ad un tratto ebbe una rivelazione.
La canzone che le era venuta in mente quando si trovava nella radura
delle rose selvatiche, la canzone che suo padre ascoltava sempre quando
era bambina, non era affatto una canzone d’amore. Raccontava di
un omicidio. Ricordò improvvisamente l’angoscia che
l’assaliva quando la voce della donna cantava il ritornello, e
lei se ne stava seduta al tavolo della cucina con gli occhi sbarrati,
presagendo l’orrore che stava per essere narrato ma incapace di
smettere di ascoltare.
…They call me The Wild Rose
But my name was Elisa Day.
Why they call me it I do not know
For my name was Elisa Day…
Il vento portò fino a loro il rumore dei proiettili che venivano
messi in canna, e Magneto scosse la testa beffardamente. “Gli
umani e le loro armi.” disse, e alzò una mano per
strappare i fucili dalle mani dei soldati.
Non successe niente.
Medusa vide il volto di Magneto impallidire, poi si sentì il
rumore di uno sparo, e un grido. Uno dei mutanti della Confraternita
cadde a terra scosso dalle convulsioni, mentre la sua pelle passava da
rosso acceso ad un colorito olivastro. Qualcosa di argentato
luccicò sul suo petto, e per un secondo Medusa pensò che
si trattasse di un crocefisso simile a quello che ornava il rosario di
Danielle. Ma poi si rese conto che non era sul suo petto, ma nel
suo petto. Una fialetta uguale a quella che il poliziotto aveva sparato
contro a Mistica nel container era conficcata nella sua carne. Ecco perché non ci hanno attaccati prima, si disse. Ci stavano aspettando.
Ci furono altri spari e altri corpi che cadevano sulla ghiaia del
cortile. Magneto tentò di nuovo di usare i suoi poteri su quelle
armi, e di nuovo le armi rimasero al loro posto.
“Plastica.” disse il capo della Confraternita. Il suo tono
era a metà fra il casuale e l’ammirato, e a Medusa venne
voglia di gridare. “Hanno imparato.”
Si sentì una serie di esplosioni che coprirono il rumore degli
spari, e Medusa vide che alcuni soldati ora brandivano dei
lanciagranate. Migliaia e migliaia di dardi contenenti la Cura
piovevano sui mutanti che si trovavano nel cortile, e molti di loro
cominciarono a arretrare, pazzi di terrore, e a camminare gli uni sugli
altri. La maggior parte delle persone che avevano preso parte alla
battaglia erano dei dormienti che non avevano la minima esperienza di
combattimento.
“Per questo motivo vanno avanti i pedoni.” disse Magneto rivolto ai suoi luogotenenti.
Medusa si voltò a guardarlo ammutolita dalla sorpresa, dicendosi
che di certo aveva capito male. Kid Omega e Callisto stavano osservando
la scena con la stessa espressione orripilata sul volto, ma il viso di
Pyro era tranquillo e impassibile come quello di Magneto.
Ci fu un grido acuto e Medusa vide Lizard, un mutante che aveva la
capacità di arrampicarsi sui muri, precipitare dalla torretta
che aveva scalato e schiantarsi al suolo una decina di metri più
in basso. Il suo corpo rimbalzò con un tonfo raccapricciante
sulla ghiaia, e poi rimase immobile.
“Questa è follia.” mormorò Medusa, e senza
nemmeno rendersene conto fece un passo avanti. Vide un soldato puntare
il fucile contro una ragazza bionda che riconobbe come Kharmaleon, e
usando la telecinesi strappò l’arma dalle mani
dell’uomo con una violenza tale che il soldato perse
l’equilibrio e cadde a terra, disorientato. Le parve che Magneto
le gridasse qualcosa, ma lei non si prese il disturbo di dargli retta.
Continuò ad usare la telecinesi sui soldati e i loro fucili, ma
erano davvero troppi, e ogni volta che riusciva a disarmarne uno un
altro prendeva il suo posto.
Improvvisamente dal campo di battaglia si levò il grido
“Fuoco!” e qualcosa esplose sopra la sua testa. Le lamiere
di ferro su cui stava in piedi si sfilarono da sotto di lei e Medusa
perse l’equilibrio, cadendo all’indietro. Pyro
l’afferrò per un braccio e la tirò verso di
sè, mentre migliaia e migliaia di dardi si infrangevano contro
le lastre di ferro che Magneto faceva fluttuare a mezz’aria di
fronte a loro come scudo.
Mentre Pyro l’aiutava ad alzarsi in piedi, Medusa vide il capo
della Confraternita rivolgerle uno sguardo pieno di astio e di
rimprovero prima di girarsi verso Archlight.
“Usa le onde d’urto.” le ordinò. “Devi mirare a quelle armi!”
La ragazza avanzò verso l’estremità del ponte
sfilandosi i guanti viola. Non appena fu pronta, Magneto fece cadere a
terra le lamiere e Archlight picchiò insieme i palmi delle mani,
generando un’ondata di energia che investì tutto il
cortile della prigione. Le armi di plastica e gli scudi esplosero come
giocattoli nelle mani dei soldati, e Medusa si ricordò con una
punta di gelosia che quella era la tecnica che un tempo Magneto usava
con lei. Era lei che si
piazzava davanti alle porte d’acciaio e si scagliava nelle stanze
non appena il capo della Confraternita faceva saltare via i cardini,
pronta ad affrontare chiunque si trovasse al loro interno. Davvero le cose sono cambiate, si disse, e accarezzò il profilo del rosario che teneva in tasca attraverso il tessuto dei jeans.
Ormai liberi di attaccare, una seconda ondata di mutanti della
Confraternita si riversò dal ponte al cortile dell’isola,
desiderosi di vendicare i compagni feriti e uccisi. Medusa vide i
soldati gettare a terra quello che restava delle loro armi e guardarsi
attorno terrorizzati, mentre la fiumana di persone avanzava verso di
loro e li travolgeva. Alcuni militari vennero investiti da una vampa di
fuoco sputata da uno dei mutanti e si rotolarono per terra cercando di
spegnere le fiamme, e dalla parte opposta del cortile un gruppo di
soldati strisciava a terra tossendo e cercando invano di ripararsi gli
occhi dalla nube di sabbia in Dustgirl li aveva avvolti.
In quel momento il rumore di un motore a turbina si diffuse sopra il
campo di battaglia. Medusa, insieme alle altre persone che erano con
lei sul ponte, alzò la testa cercando di individuare
l’origine di quel rumore, ma non riuscì a scorgere
nient’altro che le stelle, ricamate nella seta del cielo, e la
luna piena spuntata chissà quando. Per un momento le
sembrò di scorgere una luce posarsi sul tetto dei laboratori, ma
poi ritornò a guardare il cortile, dove le forze della
Confraternita stavano ormai per avere la meglio. Ancora qualche minuto
e sarebbe finito tutto.
Ad un tratto un lampo si scaricò sul campo di battaglia, e Medusa sobbalzò. Non c’è una nuvola in cielo, pensò. Ma da dove diavolo... Poi
un altro fulmine e un altro ancora colpirono le file della
Confraternita, diffondendo il panico, e a Medusa bastò alzare la
testa per vedere la fonte di quello strano fenomeno. Ororo Munroe, la
sua ex insegnante di storia e membro degli X Men, volteggiava a
mezz’aria sopra il cortile, scagliando fulmini dalle mani. Hank
McCoy, abbigliato con una tuta di pelle e lattice troppo stretta per
lui, saltò giù dal tetto e ruggì in direzione del
ponte. Probabilmente farebbe paura, pensò Medusa, se quella cosa fosse una taglia o due più grande.
Due figure abbracciate si lanciarono nel cortile e sparirono
inghiottite dal terreno, mentre quello che Medusa riconobbe come Piotr
Rasputin atterrò sulla ghiaia scavando un piccolo cratere.
Infine ci fu una cascata di scintille che si sprigionarono in uno degli
angoli del tetto, e Wolverine balzò nel cortile, cominciando a
dare ordini ai soldati perché mantenessero le posizioni e si
schierassero dietro di loro. Gli X Men si misero in fila nel centro del
campo di battaglia, separando i militari dalle orde della
Confraternita, pronti a difendere i laboratori Worthington. Medusa
sentì un’onda di disgusto e di disprezzo verso di loro. Infami
codardi, traditori del loro stesso sangue. Si trincerano dietro i loro
bei discorsi di fratellanza e di pace, ma la realtà è che
sono semplicemente troppo vigliacchi per battersi contro gli umani.
Fece correre un’occhiata piena di disdegno su di loro, e
riconobbe Bobby, in piedi di fianco ad una ragazzina bassa e bruna che
di certo non era Rogue. Al centro della fila stava Wolverine, gli
artigli di adamantio sguainati e un’espressione di collera ferina
sul viso. Medusa ripensò al giorno in cui Logan era andato a
prenderla all’aeroporto, quando lei tornava dal funerale di Evie,
e si era sforzato di trovare alla radio una canzone che non fosse
troppo allegra, per non urtare i suoi sentimenti in quello che per lei
era un giorno di lutto e di dolore.
Le tornò improvvisamente alla mente tutta la sofferenza e la
rabbia che aveva provato per la morte della sua sorellina, e come
l’aveva straziata sentire da Daniel, il fidanzato di Evie, il
messaggio di addio che lei aveva lasciato: “La guerra è
finita.”
Nel cortile, McCoy ruggì di nuovo e la Confraternita, ripresasi
dal primo istante di spiazzamento, si lanciò all’attacco
dei nuovi arrivati.
Ti sbagli, Evie, pensò Medusa mentre osservava la battaglia infuriare nel cortile. La
guerra è appena cominciata, e sopravvivere è un dovere
per ognuno di noi. Quello che facciamo qui stanotte è proprio
questo, sopravvivere, e non c’è niente di buono, o di
bello, o di nobile nella sopravvivenza, d’accordo. Facciamo
quello che facciamo perché quelli che verranno dopo di noi
vedano riconosciuto il loro diritto all’esistenza, e non debbano
più lottare con le unghie e con i denti per ogni misero
centimetro di sole che riescono ad accaparrarsi. Ma finché non
arriverà quel giorno, Evie, il nostro dovere è quello di
lottare, e io credo, anzi, sono sicura, che sarà esattamente la
volontà di sopravvivere che alla fine ci permetterà di
sopravvivere.
.......................................................................
Finito anche questo. Spero vi sia piaciuto.
Ecco la traduzione della parte di canzone (ovviamente è sempre "Where the Wild Roses Grow") che appare nel testo:
[...]"Mi chiamano La Rosa Selvaggia
ma il mio nome era Elisa Day.
Non so perchè mi chiamino così.
Il mio nome era Elisa Day."[..]
Mi rendo conto che adesso è un po' criptico, ma vi posso assicurare che andrà meglio nel prossimo capitolo.
Per Lia: non
ci posso credere! Hai scritto una recensione per ogni singolo
capitolo... Io non so che dire, se non che sei straordinaria!!!!! Poche
persone avrebbero avuto la pazienza, e il buon cuore, di andare a
recuperare i capitoi "vecchi" e scrivere un commento per ognuno di loro
invece che scrivere un'unica recensione "riassuntiva" nel capitolo
più recente. Davvero, quando ho visto la mia pagina delle
recensioni mi sono commossa!! Volevo rispondere ad alcuni dei tuoi
commenti:
1. Per il capitolo 13 di "Into the Fire": Immagino che la scena a cui
ti riferisci sia quella della "furia incendiaria" sul portico dei
Drake. Ho recuperato e visto X Men 2 qualche giorno fa, e devo dire che
quella scena è davvero splendida. Per la musica, le
inquadrature, la straordinaria interpretazione di Aaron Stanford (chapeau,
ragazzo mio). Senza voler togliere nulla al bravissimo regista o agli
sceneggiatori, io quella scena l'avrei scritta così anche se
avessi visto il film prima di
iniziare a scrivere il racconto; mi serviva Wolverine in piedi, e
soprattutto mi serviva che John stesse molto male per innescare
l'attacco di rabbia di Meredith (quel "Ma si può sapere da che
parte stai?" che serviva a far scattare un campanello d'allarme). Senza
contare che un bello svenimento, beh, fa scena.
2. Per il capitolo 1 di "Winning...": Ho cercato di trattare il tema
dell'aborto più delicatamente possibile, sapendo bene che non
è un argomento da usare per fare melodramma a buon mercato. Mi
sono sforzata di immaginare le emozioni che una giovane donna
può provare in una situazione simile, senza giudicare quello che
Meredith pensa o fa. Sono felice e anche molto sollevata di aver
raggiunto questo risultato. Grazie per avermi rassicurata!
3. Per il capitolo 2 di "Winning...": Sono felice di dividere con te la
passione per quel figo (pardon, l'ho fatto di nuovo!) di Eric Dane! Per
quanto riguarda la scena sul container e la reazione di Magneto,
lasciami dire che Mistica è il personaggio per me più
"indigesto" (a parte Kitty Pride, che è una fuoriclasse) dei tre
film. Non la sopporto, non ci posso fare niente, e non è un caso
che lei è Meredith proprio non si piglino. Ma il modo in cui
Magneto la scarica quando non gli è più utile, e la scena
in cui lei se ne sta nuda,tremante e umiliata sotto lo sguardo di tre
uomini mi ha fatto davvero pena. Per me Magneto è molto simile a
molti capi di movimenti politici e sociali nella Storia: una volta che
hanno raggiunto un certo potere, diventano ingrati, crudeli e
presuntuosi. Meredith se ne accorge e la sua fede in lui vacilla,
anche se rimane fedele agli ideali della Confraternita in sè.
4. Per il capitolo 6 di "Winning...": Che vuoi che ti dica? Forse un
taglio netto era molto meglio, ma proprio non ce l'ho fatta! Si
vogliono troppo bene... Però quando Meredith dice "ti prego,
John" non intende "ti prego non mi lasciare". E' talmente convinta
che John voglia chiudere con lei che lo implora di sferrarle il colpo
di grazia il più velocemente possibile, perchè la seppur
lontana speranza che la loro storia esista ancora la sta distruggendo.
Quello che intende suona più meno come "ti prego, uccidimi"
(Jean Grey: "ehi, qualcuno mi ha chiamato?"), o meglio, come "ti prego,
lasciami e basta".
In conclusione, voglio solo dirti che ti ringrazio per ognuna delle
parole meravigliose che hai scritto sul mio stile, i miei personaggi e
le mie storie. Sai che mi sono un po' commossa leggendole? E' un
piacere scrivere per persone come te. Va beh, adesso basta sennò
faccio la figura della leccaculo, ma ti assicuro che mi viene davvero
dal cuore! Un affettuosissimo saluto, Lia, e spero che vorrai leggere
anche il proseguimento di questa storia.
Come probabilmente avrete capito, ormai siamo agli sgoccioli. Il
capitolo 8 sarà il capitolo finale. Se fino ad ora "Winning a
Battle, Losing the War" vi è piaciuto, vi invito ad aspettare
ancora un paio di giorni e scoprire come si concluderà. Sarò puntuale
questa volta, ve lo giuro. Ho già quasi finito la stesura
definitiva.
Un bacione a tutti e a presto!
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
WaBLtW8
Disclaimer:
tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di
Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono
a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century
Fox.
Benvenuti! Ecco il capitolo
conclusivo di "Winning a Battle, Losing the War". E' spaventosamente
lungo, lo so, ma non sono riuscita a fare altrimenti. Anche volendo
dividerlo in due parti, non ho trovato un punto di stacco
da cui tirare fuori un eventuale capitolo 9 senza ridurlo ad uno
schifo. Se arrivate vivi fino alla fine ^^ vi aspetto per gli
ultimi saluti... sigh...
Buona lettura!
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Gli X Men si stavano battendo con valore, e il fatto di trovarsi in una
posizione di marcata inferiorità numerica rispetto alle schiere
della Confraternita non sembrava metterli in difficoltà. Medusa
vide Wolverine tagliare in due uno dei lampioni che si trovavano nel
cortile con i suoi artigli di adamantio, e farlo cadere su alcuni degli
uomini che avanzavano minacciosi verso le file serrate degli X Men e
dei militari dietro di loro. Ci furono altre urla, più acute, e
Medusa riconobbe il suono di una lama, anzi, di tre lame, che venivano
conficcate nel corpo di un altro essere umano. Eccola, la pace di Charles Xavier e dei suoi degni tirapiedi, si disse distogliendo lo sguardo. Noi saremo anche dei criminali, ma almeno non siamo dei criminali ipocriti.
Tornò a guardare il cortile quando sentì il ruggito di
Hank McCoy risuonare nuovamente sul campo di battaglia. Nonostante la
tuta stretta, che senz’altro doveva essergli quanto meno
d’impiccio, riuscì a stendere a pugni e calci almeno
quattro mutanti della Confraternita contemporaneamente, e un altro
gruppetto (Medusa non potè contare esattamente quanti fossero)
finì a terra quando McCoy si lanciò contro un palo e lo
utilizzò come perno per volteggiarci attorno e colpire con i
calci chiunque o qualunque cosa si trovasse nel suo raggio
d’azione. Per qualche istante, Medusa ammirò stupefatta e
meravigliata quella mossa. Cavolo, e pensare che ad insegnare scienze era pallosissimo.
Si girò ad osservare il volto di Magneto e vide che ormai il
comandante della Confraternita era oltre la rabbia. I tratti del suo
viso pallido, reso ancora più bianco dalla luce della luna piena
e delle stelle, era talmente deformato dall’ira e dallo sdegno
che per qualche secondo Medusa ebbe paura di lui. Era sicura che
Magneto avesse preso in considerazione l’intervento degli X Men,
perciò aspettò che lui parlasse e spiegasse ai suoi
luogotenenti cosa fare per trarre le loro schiere da quel brutto
impiccio. Invece il comandante della Confraternita rimase muto; si
voltò verso Archlight e Kid Omega, che stavano anche loro
osservando in silenzio la battaglia, e rivolse loro uno sguardo
significativo. I due ragazzi annuirono, e poi cominciarono ad
inerpicarsi sulle lamiere del ponte, cercando un luogo abbastanza buio
e discreto per poter scendere nel cortile senza essere visti da uno
degli X Men o dai militari. Medusa non conosceva il loro compito, ma
era certa che aveva qualcosa a che fare con l’edificio bianco in
fondo al cortile, o con una delle persone al suo interno. Forse è il piano B, si disse.
Magneto non spiegava mai tutti i dettagli dei suoi piani ai suoi
sottoposti. Ognuno conosceva solo i propri compiti o poco più, e
per il resto doveva sbrigarsela da solo, o aspettare gli ordini diretti
di Magneto quando la missione era già in atto. Era una tecnica
lacunosa, certo, e anche pericolosa, perché non c’è
niente di peggio al mondo che trovarsi nel bel mezzo di una battaglia e
non sapere cosa fare. Medusa sospettava che ci fosse dietro una
filosofia del tipo “divide et impera”, un modo per tenere
ancora più legati a sé i propri sottoposti.. Si chiese se
Magneto intendesse affidarle qualche compito quella notte, o se
l’avrebbe semplicemente fatta rimanere sul ponte finché
tutto non fosse finito. Tutto dipendeva dalla possibilità che
Magneto avesse o meno ancora fiducia in lei. Guardò Pyro, che
stava osservando assorto i loro ex compagni di scuola e i loro ex
professori combattere per difendere coloro che desideravano la
sparizione dei mutanti dalla faccia della terra.
Chissà come Magneto prenderà la nostra richiesta di congedo, si domandò scrutando il volto pallido e impassibile del suo ragazzo. Chissà dove andremo, quando sarà finita. Si
infilò di nuovo la mano sinistra nella tasca dei jeans,
stringendo il rosario tra le dita, mentre la mano destra
accarezzò distrattamente il suo grembo.
Glielo dirai?
Quella voce non identificata, proveniente da qualche parte in uno degli
angoli più remoti del suo cervello, la colse totalmente di
sorpresa. Allora, glielo dirai o no?
Vorrei ricordarti che per la prossima settimana hai già un
appuntamento programmato per... beh, hai capito, no? Le dita di
Medusa si serrarono talmente forte attorno al rosario che potè
sentire il profilo delle pietre e del crocefisso penetrare nella sua
carne.
Cercò dentro di sé una risposta da dare alla voce. Io...
Io non... Beh, ma che cos’è che è cambiato, poi?
Niente, proprio niente. Anche se per un po’ lasciassimo la
Confraternita, i soldi non è che comincerebbero magicamente a
crescere sugli alberi.
Con un movimento rapido e pieno di stizza si tolse dalla fronte un paio
di ciocche che le erano di nuovo scivolate sugli occhi. Quella
conversazione con sé stessa non le piaceva affatto, anzi, la
metteva molto, molto a disagio, ed era desiderosa di chiuderla il
più presto possibile. Era molto stanca. Voleva che tutto
finisse, e che finisse subito.
Si avvicinò con discrezione a Pyro, il più
silenziosamente che le riusciva, abbastanza vicino per sentire
l’odore del suo profumo. Aveva sempre adorato il profumo di John;
lo trovava buonissimo, e sexy, e incredibilmente virile. Ispirò
a pieni polmoni quell’odore, e per un istante fu tentata di
appoggiare la testa sulla sua spalla e pregarlo di farla addormentare
così, tra le sue braccia. Voleva dormire, ed ignorare quel
fracasso che veniva da sotto di loro, le urla e il rumore della lotta,
e soprattutto voleva ignorare quelle domande assillanti che le stavano
facendo venire il mal di testa.
La voce, però, non sembrava disposta a gettare la spugna. Beh, ma questa non è affatto una risposta, replicò. Andrai o no all’appuntamento?
Prima che Medusa potesse anche solo iniziare a pensare a cosa dire, fu
investita da una violenta e improvvisa ventata che la costrinse a
ripararsi gli occhi. Con una fitta di adrenalina che le faceva correre
il cuore a mille e contorcere lo stomaco, alzò il viso verso
l'alto, pronta a fronteggiare l’attacco della Munroe, invece si
accorse un po’ sconcertata che sopra di lei c’era solo il
cielo, con il suo ricamo di stelle tremolanti e dorate e la luna piena
che brillava.
Un velocissima macchia scura che si muoveva nella zona periferica del
suo campo visivo le fece voltare la testa verso il tetto
dell’edificio in fondo al cortile, appena in tempo per vedere
Callisto gettarsi su Tempesta e trascinarla al suolo. Mentre guardava
le due donne lottare nel cortile, Medusa si disse sorpresa che
difficilmente lei avrebbe avuto una reazione pronta e decisa come
quella di Callisto. Sarà un’eccellente sostituta mentre io e John saremo via,
pensò. Un sorriso eruppe sulle sue labbra quando le venne in
mente ciò che aveva pensato mentre stava in attesa sulla
collinetta nel bosco, aspettando che Magneto arrivasse e annunciasse al
resto della Confraternita l’imminente attacco ai laboratori
Worthington: “Ancora un paio
di mesi e saranno Callisto e Kid Omega a fare scena a fianco del
capo”. Questa volta ci ho preso in pieno.
Intanto, nel cortile, un gruppo di mutanti della Confraternita si
scagliò contro Bobby, e lui alzò le mani producendo uno
spesso muro di ghiaccio che bloccò brutalmente la corsa dei suoi
assalitori. Sbatterono violentemente contro la parete e caddero al
suolo storditi dall’urto. John scattò in avanti, fissando
il suo ex amico con un espressione rabbiosa e decisa sul viso, ma
Magneto lo fermò.
“Non ancora.” gli disse, e Pyro gli rivolse uno sguardo stupito.
Anche Medusa era un po’ perplessa: perché il capo non
voleva che combattessero? D’accordo, non si fidava di lei, questo
le era ormai chiaro. Ma perché impedire a Pyro di partecipare
alla battaglia, oltretutto in un momento in cui le truppe della
Confraternita erano evidentemente in difficoltà? Che motivo
aveva di dubitare di John, quando lui... Forse ha capito che dopo stanotte ce ne andremo. Forse John gliene ha già parlato. Forse...
In quel momento Magneto si voltò verso di lei e le fissò
il suo sguardo gelido addosso, e il ghiaccio dei suoi occhi piantato
sul suo volto la fece rabbrividire dalla testa ai piedi. Per la seconda
volta in quella nottata, Medusa ebbe paura del suo capo.
“Va’ là dentro.” le disse Magneto. La sua voce
suonava autoritaria e pericolosa. “Trova il ragazzo e
uccidilo.”
Medusa rimase qualche istante immobile e in silenzio, incapace di
credere all’ordine che aveva appena ricevuto. Sì, sapeva
che erano andati fino ad Alcatraz per distruggere la fonte della Cura,
e sapeva che la fonte della Cura era un ragazzino, ma non si era mai
soffermata a pensare a come avrebbero compiuto quella missione. Soprattutto, non aveva mai pensato che Magneto avrebbe affidato proprio a lei, di tutte le persone, il compito di uccidere il ragazzo.
Lo sguardo di Pyro era altrettanto scioccato; evidentemente nemmeno lui
si era aspettato che di quella parte della missione fosse incaricata
Medusa. I suoi occhi passarono dalla sua fidanzata a Magneto, come se
volesse chiedergli di esentare Medusa da quel compito, ma lo sguardo
del comandante supremo della Confraternita era fisso sulla ragazza di
fronte a lui. Medusa si ricordò del giorno della lite con John,
lo stesso giorno in cui Magneto le aveva detto che se era veramente con
lui allora si sarebbe dovuta comportare di conseguenza. E’ un test. Mi sta offrendo un’ultima chance per rientrare a pieno titolo nella Confraternita.
Per una frazione di secondo si domandò cosa doveva fare,
obbedire all’ordine oppure ignorarlo e mandare tutto quanto al
diavolo.
Ricordati di Evie, disse una voce nel suo cervello. Lottare per sopravvivere è un dovere per ognuno di noi.
Staccò gli occhi da quelli di Magneto e guardò John,
cercando di comunicargli con lo sguardo tutto ciò che non poteva
dirgli a parole, per via di tutta quella gente che era lì con
loro, poi si voltò e cominciò a scendere dal ponte,
cercando lo stesso punto buio e riparato da cui erano passati Archlight
e Kid Omega. Il trucco è non pensare, si disse. Affrontiamo
questa cosa un passo alla volta, come con Danielle, e presto
sarà tutto finito, e potrò tornare da John.
Si appoggiò con la mano sinistra a quello che un tempo doveva
essere parte delle mura di difesa del complesso, prima che il Golden
Gate ci atterrasse sopra, e balzò sulla ghiaia. L’urto fu
più violento di quel che si era aspettata, e sentì una
fitta alle ginocchia che le risalì lungo il corpo fino a
stemperarsi nel ventre. Qualcosa dentro di lei sussultò di nuovo.
Medusa si impose di ignorare quella sensazione, e cominciò ad
esaminare attentamente la battaglia che si svolgeva di fronte a lei.
Gli X Men, da soli, stavano affrontando le orde della Confraternita,
ora in seria difficoltà, mentre i soldati sopravvissuti alla
prima ondata di attacco erano raggruppati davanti all’entrata
dell’edificio, bloccandola completamente. Di lì era
impossibile passare; doveva fare il giro del cortile e trovare
un’entrata secondaria, possibilmente senza farsi vedere da uno
degli X Men o dai militari. Certo, avrebbe potuto provare a marciare
attraverso il cortile e ipnotizzare chiunque fosse così
coraggioso, o stupido, da mettersi sulla sua strada; ma c’era
davvero troppa gente lì, e lei non aveva mai utilizzato il suo
potere su così tante persone contemporaneamente. Decise di
optare per un’entrata che fosse un po’ meno ad effetto.
Scivolò nell’ombra gettata dai resti di una jeep caduta
dal ponte e cominciò a seguire il perimetro esterno del cortile,
tenendosi quanto più possibile lontano dalla luce dei lampioni e
dei falò che bruciavano qui e là nel bel mezzo del campo
di battaglia. Vide qualcosa luccicare nell’estrema sinistra del
cortile, a circa una cinquantina di metri da lei, e Medusa si
fermò di colpo e si accucciò dietro la carcassa
accartocciata di una delle torrette, cercando di capire se si trattasse
del lanciafiamme di Pyro che entrava in funzione. Guardando meglio,
però, si accorse che era la pelle di acciaio organico di Colosso
a causare quel barlume di luce che aveva visto. Toccò di nuovo
il profilo del rosario attraverso la tasca dei jeans.
Medusa riprese a camminare cercando di fare il meno rumore possibile,
per non attirare su di sé l’attenzione di uno degli X Men.
Sapeva che i suoi poteri funzionavano anche sui mutanti, ma si rese
conto che preferiva di gran lunga non trovarsi ad affrontare uno degli
appartenenti alla squadra del defunto Charles Xavier.
Cinica, la rimproverò Meredith St.Clair da qualche parte dimenticata della sua anima. Medusa le ingiunse di stare zitta.
Guardò verso l’edificio bianco, e si accorse che per
aggirare il gruppo di soldati di guardia alla porte principali avrebbe
dovuto correre allo scoperto per almeno una decina di metri.
L’angolo di cortile che doveva attraversare era piuttosto lontano
dal punto in cui si stava svolgendo il grosso della battaglia, ma era
ben illuminato dalle luci artificiali che spuntavano dai muri del
palazzo, e se qualcuno avesse guardato da quella parte proprio nel
momento in cui Medusa lasciava il suo nascondiglio nell’ombra per
correre verso l’edificio difficilmente sarebbe riuscita a passare
inosservata.
Medusa guardò verso il centro del cortile, e vide Wolverine e
McCoy che combattevano fianco a fianco, e di nuovo si stupì per
la destrezza e l’agilità del suo ex professore di scienze.
La Munroe volteggiava a qualche metro dal suolo, scagliando fulmini a
destra e a manca, e Colosso era ancora dove l’aveva visto
l’ultima volta, nel punto più lontano del cortile,
impegnato a lottare contro un gruppetto piuttosto numeroso di mutanti
della Confraternita. Non riuscì però a scorgere né
Bobby né la ragazza bassa e bruna. Dopo un attimo di esitazione,
decise di tentare comunque. Aveva già perso abbastanza tempo.
Balzò fuori dal buio e si mise a correre più velocemente
che poteva verso il muro laterale dell’edificio, pronto a
inghiottirla nella sua ombra e a offrirle riparo. Se riesci ad arrivare a quel maledetto muro è fatta, si disse. Scommetto che tutti i soldati di guardia all’edificio si trovano ora nel cortile principale. Chissà per quale motivo, le venne in mente Danielle.
Mancavano non più di sei o sette passi alla sua meta, quando
qualcosa di duro e gelido, molto simile ad una palla di neve, la
colpì con forza su una spalla. L’urto non fu tanto
violento da farla cadere, ma la costrinse a fermarsi per non perdere
l’equilibrio, e Medusa fece una giravolta su se stessa,
più veloce che le riusciva, per fronteggiare il suo assalitore.
Bobby era in piedi di fronte a lei, ad una distanza di circa quindici
metri. Indossava una di quelle tute aderenti di pelle nera che
costituivano l’uniforme degli X Men, e che lei trovava talmente
kitch. Millenni prima, quando ancora frequentava l’Istituto e
aveva partecipato al programma di inserimento negli X Men (dio,
l’aveva fatto, l’aveva fatto davvero, era stata sul punto
di diventare a pieno titolo una di loro, ma com’era possibile?),
non le era mai piaciuto indossarle. La facevano sentire parte di una
sorta di ballo in maschera.
“Ma perché non possiamo andare in giro vestiti come
diavolo ci pare?” ripeteva ogni volta che uscivano dagli
spogliatoi e si dirigevano alla camera speciale. “Mica siamo
l’esercito.”
Bobby la fissava come se avesse appena bestemmiato. “Siamo una squadra, Meredith.” le rispondeva.
Stanotte, invece, Bobby non la guardava affatto. Teneva gli occhi
bassi, e per un momento Medusa non capì il perché. Santo dio, ma come è possibile che gli faccio così paura? si domandò. Poi ricordò che Bobby sapeva, e di certo non era uno stupido.
“Ciao, Meredith.” disse, sempre fissandosi le scarpe.
Medusa esaminò il suo tono. Non c’era nessuna sfumatura di
ostilità, per cui si sentì in diritto di fare un
po’ di conversazione.
“Dov’è Rogue?” domandò. Anche se era
rivolto verso il terreno, Medusa vide il viso di Bobby contorcersi in
una smorfia di rabbia.
“Non è divertente, Meredith.” le ringhiò.
“Beh, non voleva essere divertente, voleva essere una
domanda.” replicò lei, colta di sorpresa dalla reazione di
Bobby. “E comunque io non sono Meredith.”
Il ragazzo bruno di fronte a lei fece per alzare gli occhi, ma poi
tornò a fissare la ghiaia ai suoi piedi. Medusa maledisse
l’occasione che aveva perso. Andiamo, Bobby, andiamo. Sai bene che non puoi farcela.
“Va bene, Medusa, allora.” disse Bobby, la sua voce di
nuovo calma e ferma, e serrò per una attimo le mani.
“Medusa, vieni via di lì.” le ordinò.
Medusa rimase qualche secondo a fissarlo in silenzio. “No,
Iceman, credo proprio che rimarrò dove sono.” rispose
infine. “Anzi, sei tu che dovresti andartene.”
“Non se ne parla proprio, Meredith.” La voce di Bobby era
leggermente più alta questa volta, e Medusa provò una
ondata di stizza a sentirlo rivolgersi di nuovo a lei con il suo
vecchio nome. Gli occhi di lui si spostarono da un punto
all’altro sulla ghiaia, e Medusa si domandò che diavolo
stesse facendo. “Non ti permetterò di entrare in quel
edificio.”
Le sfuggì un sorriso. “E come pensi di fare, Bobby? Io ti
posso guardare, tu no. Direi che è un bello svantaggio.”
Bobby sembrò di nuovo seguire con gli occhi qualcosa sul
terreno, e Medusa capì. Stava seguendo la sua ombra.
Improvvisamente prese coscienza del peso del rosario nella tasca dei
suoi jeans, dei suoi grani duri e tondi premuti contro la carne della
coscia, e sentì l’urgenza di andarsene da quel luogo.
“Ascoltami Bobby, se non te ne vai immediatamente, ti giuro che
ti farò del male. Non moltissimo, perché un tempo siamo
stati amici, ma te ne farò abbastanza da impedirti di seguirmi.
Mi hai capito?”
Bobby non replicò. Si limitò a stringere i pugni, lo
sguardo ancora basso, e a muovere velocemente gli occhi sul terreno,
cercando ogni più piccolo spostamento della sua ombra. Medusa
sentì di nuovo l’adrenalina scorrerle nel corpo, e i
muscoli delle gambe e delle braccia che si flettevano da soli. Un
secondo prima che Bobby la investisse con un’ondata di ghiaccio,
Medusa riuscì a balzare via dal punto in cui stava e rotolare a
terra fino alla torretta che giaceva abbattuta al suolo. La
colpì con la spalla sinistra, producendo un rumore piuttosto
forte, e Bobby si voltò verso di lei, lo sguardo sempre basso, e
di nuovo le diresse contro un getto di ghiaccio, questa volta
però mancandola di due o tre metri buoni.
Medusa ne approfittò per strisciare dietro la torretta e pensare
a come liberarsi di Iceman. Il ragazzo era in gamba, più in
gamba di quello che si era aspettata: era riuscito ad assestare due
colpi pericolosi facendosi guidare solo dall’ombra che Medusa
gettava e dal rumore che lei aveva fatto quando aveva sbattuto contro
la torretta d’acciaio. Ma è cieco. Non può alzare gli occhi se di te, perché sa bene che se lo facesse sarebbe la sua fine.
Bobby, evidentemente cercando di farla uscire allo scoperto,
cominciò a gettare ondate di ghiaccio a caso. La mano di Medusa
si appoggiò nuovamente sul suo ventre, e lei provò
un’ondata di furia travolgente contro di lui, un odio che non
aveva mai provato prima in vita sua. Portalo
accanto al muro del cortile, dove c’è buio e lui non
potrà vedere la tua ombra. Portalo là e fallo a pezzi.
Si alzò in piedi, incurante del rumore che avrebbe potuto
attirare Bobby dalla sua parte, e gli diresse contro un’onda di
energia psichica. Il ragazzo, però, l’aveva sentita
muoversi ed era riuscito ad individuare la sua posizione. Riuscì
a gettarsi di lato ed evitare il grosso del colpo scagliatoli contro da
Medusa, ma lei si accorse che era comunque riuscita a ferirlo, seppure
di striscio, ad una gamba. Si mise a correre e lasciò il suo
rifugio dietro la torretta prima che Bobby avesse il tempo di
riprendersi dal suo attacco e potesse rispondere a sua volta, e mentre
era ancora in movimento lanciò un’altra ondata di energia
psichica, che fu fermata da Iceman grazie ad uno spesso muro di
ghiaccio.
Medusa colse l’occasione al volo. Vide un grosso pezzo di
lamiera, probabilmente un tempo parte del parapetto del Golden Gate,
giacere abbandonato accanto al muro del cortile, dieci o quindici metri
dietro Bobby che ancora si faceva scudo con la sua parete di ghiaccio.
Troppo occupato a seguire i movimenti di Medusa attraverso la
superficie translucida e deformante del muro, non si accorse del pezzo
di ferro che viaggiava verso di lui ad altissima velocità.
L’impatto fu così violento che Iceman fu scagliato
attraverso la parete che lui stesso aveva creato e rimbalzò un
paio di volte sulla ghiaia del cortile, prima di fermarsi a pochi passi
da dove stava Medusa. Lei avanzò verso il corpo insanguinato del
ragazzo, decisa a sferrargli il colpo di grazia.
Bobby giaceva sulla ghiaia con il viso rivolto verso il terreno, il
volto e le mani tagliuzzati in più punti. Quando sentì la
sua avversaria avvicinarsi tentò di tirarsi su appoggiandosi sui
gomiti, ma poi ripiombò a terra, ansimando per la sofferenza che
quello sforzo gli aveva causato. Provando una sorta di disgusto a
vederlo steso al suolo così vulnerabile e inerte, Medusa gli
sferrò un calcio nelle costole e lo voltò sulla schiena.
Bobby gemette ad occhi chiusi e rimase immobile, come se solo respirare
assorbisse tutte le sue energie. Medusa fece di nuovo librare in aria
il pezzo di lamiera che giaceva a qualche metro da loro, vicino ai
frammenti del muro di ghiaccio che già cominciavano a
sciogliersi, e lo portò sopra il punto in cui giaceva Iceman.
Lui tenne gli occhi chiusi, ma voltò la testa di lato, come se
sentisse il peso della lastra di acciaio che galleggiava
nell’aria qualche metro sopra di lui. Medusa alzò la
lamiera ancora di qualche centimetro. Addio, Bobby.
Tutto ad un tratto si rese conto che il suo cuore aveva rallentato, e
che i muscoli del suo corpo non erano più in tensione. Si
sentiva stanca adesso, certo, e anche un po’ ammaccata, ma sapeva
che quelle sensazioni erano dovute più che altro
all’adrenalina che si ritirava dal suo sistema nervoso. Il suo
corpo sapeva che il combattimento era finito. Fissò di nuovo
Bobby, vide uno spesso rivolo di sangue colargli dai capelli sulla
ghiaia, e sentì, non immaginò di sentire, proprio
sentì, il rumore che avrebbe fatto quel pezzo di lamiera quando
sarebbe caduto sul corpo del ragazzo e gli avrebbe sfondato il cranio.
Sopraffatta dall’orrore, Medusa girò di scatto la testa di
lato e fece posare dolcemente la lastra a terra, vicino al muro del
cortile. “Vai a casa, Bobby.” disse al ragazzo disteso di
fronte a lei, poi gli voltò le spalle e si mise a correre verso
il muro laterale dei laboratori. Mentre si allontanava, Medusa
sentì Bobby mormorarle qualcosa, ma lei non si fermò a
dargli retta. Aveva altre cose a cui pensare. Sembrava che nessuno
avesse fatto caso al combattimento tra lei e Iceman, ma presto o tardi
uno degli X Men si sarebbe accorto del corpo che giaceva inerte in
quell’angolo remoto di cortile, e si sarebbe messo a darle la
caccia. Doveva trovare il ragazzo più in fretta che poteva.
Medusa girò l’angolo dell’edificio, e tirò un
sospiro di sollievo quando l’ombra l’avvolse di nuovo,
offrendole rifugio. Vide, a circa venti metri di distanza, una luce
proveniente dall’interno della costruzione trafiggere
l’oscurità della notte, e vi si diresse di corsa. Fu
felice di constatare che aveva visto giusto: la luce proveniva da una
porta spalancata, probabilmente utilizzata da Archlight e Kid Omega per
penetrare nel palazzo dell’ex prigione. Sulla soglia giaceva il
cadavere di un militare, il corpo e i vestiti trafitti da migliaia e
migliaia di piccoli buchi. Assomigliava ad un grosso puntaspilli. Kid
Omega è di certo passato di qui, si disse Medusa.
Appena varcata la porta, però, sentì una fitta tremenda
all’addome, talmente forte che dovette afferrare lo stipite
d’acciaio dell’entrata per non crollare a terra. Medusa si
mise una mano sul ventre, spaventata, e improvvisamente tutto davanti
ai suoi occhi divenne nero. Le ci volle tutta la sua forza di
volontà per non svenire. Poi, improvvisamente come era apparso,
il dolore scemò e lei potè tirarsi su, perplessa e
impaurita. Con la punta delle dita si massaggiò delicatamente il
grembo, cercando di capire cosa era successo, ma le sembrò che
fosse tutto come prima. Fece cautamente un passo in avanti,
aspettandosi che il dolore l’assalisse di nuovo, ma non accadde
niente di simile e Medusa si incamminò lungo il corridoio
illuminato.
Si guardò intorno: i muri di cemento armato erano grigi e
spogli, e le lampade al neon che pendevano dai soffitti assomigliavano
molto a quelle che Medusa aveva visto nella sala d’attesa del
consultorio. Probabilmente si trovava in una zona secondaria dei
laboratori, l’area dei magazzini o qualcosa di simile.
Ricordò Callisto riferire a Magneto che il ragazzo si trovava
nell’ala sud-est del palazzo, ma in questo momento lei non aveva
la più pallida idea di quale fosse l’orientamento
dell’edificio, figurarsi se sapeva dov’era l’ala
sudorientale. Quando arrivò ad una biforcazione del corridoio,
Medusa decise con un’alzata di spalle di inoltrarsi nella parte
di sinistra, che le sembrava portasse verso il cuore
dell’edificio. La gente nasconde sempre le cose più
importanti nei luoghi più difficilmente raggiungibili
dall’esterno.
Bingo, si disse quando il
cemento armato lasciò spazio ad un delicato stucco color panna.
Anche le condizioni del pavimento e dei lampadari le sembrarono
migliorare man mano che camminava, e Medusa cominciò ad aprire
le porte bianche che si affacciavano sul corridoio, sperando di trovare
la stanza in cui tenevano il ragazzino. Trovò solo laboratori e
uffici, e stava cominciando a innervosirsi seriamente quando da dietro
l’angolo arrivò un grido.
“No! No! Vi prego, non lo fate!”
Medusa corse in direzione di quella voce e vide Archlight, che insieme
ad un’altra mutante della Confraternita, la ragazza asiatica con
le extension viola nei capelli che si chiamava Psylocke, stava
trascinando un uomo alto e con i capelli bianchi lungo il corridoio.
Appena videro arrivare Medusa si fermarono di colpo, e da dietro il
gruppetto sbucò Kid Omega, un sorriso che gli illuminava il
volto da orecchio a orecchio.
“Ehi, indovina?” disse il ragazzo indicando l’uomo
che tremava stretto tra Archlight e Psylocke. “Questo stronzo
è il fenomeno che ha inventato la Cura.”
Medusa studiò con attenzione l’uomo in completo blu scuro
che stava in piedi davanti a lei. I suoi vestiti, che pure avevano
l’aria di essere molto costosi, ora gli pendevano addosso
stazzonati e sgualciti, e i suoi capelli bianchi erano incollati alla
testa dal sudore che gli colava copioso sulla fronte. I suoi occhi
castani, ingigantiti dalla paura e dall’ansia, si muovevano come
impazziti, cercando di leggere il volto della ragazza di fronte a lui.
Medusa sorrise. “Ma non mi dire.” sussurrò, e mise la mano destra sugli occhi dell’uomo.
Migliaia e migliaia di immagini appartenenti ad una vita non sua
cominciarono a vorticarle nel cervello. Era come cercare di distinguere
qualcosa guardando fuori dal finestrino di un’auto che corre
lungo l’autostrada a trecento chilometri all’ora. Medusa
vide un’enorme grattacielo di vetro formarsi davanti ai suoi
occhi, il sole che si rifletteva nelle sue finestre lucide, poi
l’immagine cambiò, e apparve un bambino biondo che
singhiozzava davanti ad un grosso specchio, e in un istante il bambino
divenne un ragazzo in piedi nel centro di quello che sembrava uno
studio medico, e santo dio, erano ali quelle che spuntavano dalla sua
schiena? Medusa cercò di trovare l’informazione che le
serviva in mezzo a quella sequela di forme e di colori, ed infine nella
sua mente si formò l’immagine del corridoio in cui si
trovavano ora. Galleggiò a mezz’aria sopra le piastrelle
verde pisello del pavimento come se fosse priva di corpo, poi
volò in avanti, veloce, sempre più veloce, finché
il corridoio non si biforcò. Prese a sinistra, poi a destra, poi
ancora a sinistra, le pareti color panna che le sfrecciavano accanto
come confuse macchie di colore, e si trovò di fronte a una porta
bianca.
Jimmy.
Medusa tolse la mano dagli occhi dell’uomo e fece un passo
indietro. “Jimmy.” mormorò senza nemmeno rendersene
conto, mentre gli ultime immagini provenienti da quella mente estranea
le si riverberarono nel cervello prima di scomparire del tutto. Quando
sentì la voce di Medusa pronunciare quel nome, l’uomo con
il completo blu spalancò gli occhi e cercò di lanciarsi
verso di lei, ma Psylocke e Archlight glielo impedirono. Kid Omega
iniziò a ridacchiare: con tutta evidenza non aveva capito un
accidente di quello che era appena successo, ma gioiva nel vedere che
stava procurando così tanta angoscia al loro prigioniero.
“Lascialo stare!” gridò l’uomo rivolto a Medusa. “E’ solo un ragazzino!”
Medusa dovette reprimere la voglia di mollargli un ceffone. “Come
se te ne fregasse qualcosa.” sibilò guardandolo dritto
negli occhi, e l’uomo tacque di colpo. Il suo corpo si
rilassò completamente, e dal suo volto teso scomparve ogni
espressione. Archlight e Psylocke le rivolsero uno sguardo pieno di
stupore, ma Medusa non riuscì proprio a sentirsi lusingata. Le
prime fitte della sua emicrania da gravidanza stavano cominciando ad
assalirla.
“Hai ancora bisogno di lui?” chiese Kid Omega, ancora
ghignando. “E’ in ritardo per la sua lezione di volo.”
Medusa chiuse gli occhi e alzò la mano destra per massaggiarsi
la tempia. “No, potete portarlo via.” rispose stancamente.
“Non ho utilizzato molta energia, perciò fate attenzione.
Si risveglierà presto.”
Sperò che i tre se ne andassero in fretta, così lei
avrebbe potuto trovare il ragazzino (Jimmy, così si chiamava), e
farla finita con tutto quanto. Kid Omega, però, non si mosse.
“Stai bene?” le domandò.
Medusa si sentì improvvisamente esasperata. “Sì,
sì, maledizione!” gli gridò contro. “Te ne
vuoi andare?”
Kid Omega la guardò offeso, poi si voltò verso le due
ragazze, che avevano osservato l’intera scena senza dire una
parola, e mormorò loro qualcosa. Il gruppetto si mise in marcia
verso la direzione dalla quale proveniva Medusa, l’uomo col
vestito blu che trascinava fiaccamente i piedi e guardava per terra con
la testa che gli ciondolava sulle spalle, e Kid Omega lanciò un
ultimo sguardo risentito verso Medusa mentre le passava a fianco.
Lei si mise a correre ancora prima che i tre giovani e il loro
prigioniero voltassero l’angolo, decisa a trovare Jimmy il prima
possibile. Sapeva che con tutta probabilità anche gli X Men
presto avrebbero avuto la stessa idea, sempre che uno dei loro non
fosse già dentro l’edificio.
E cosa farai quando avrai trovato il ragazzo, eh? Quello che stavi per fare a Bobby?
le domandò una voce maligna invadendo i suoi pensieri. Medusa
continuò a correre, cercando di ignorare quella sensazione di
orrore e paura che le stava opprimendo il petto, ma non ci
riuscì. Aveva quasi ammazzato Bobby, uno di quelli che neppure
troppo tempo prima era stato uno dei suoi migliori amici, anzi, uno
degli unici amici che aveva avuto in tutta la sua vita.
Voltò bruscamente a sinistra, seguendo il corridoio, e davanti
agli occhi le balzò l’immagine di Bobby in piedi
nell’atrio della scuola, il giorno in cui lei era arrivata
all’Istituto da Baltimora. Le era andato incontro e le aveva
stretto la mano con un sorriso. “Benvenuta nell’Istituto
Xavier.” le aveva detto, e poi l’aveva accompagnata a
visitare la villa. Quando aveva visto la sua espressione disorientata
all’ennesimo corridoio che si divideva, Bobby aveva riso e le
aveva messo una mano su una spalla. “Non preoccuparti, Meredith,
tutti noi ci siamo persi all’inizio. Ma poi ti ci abitui.”
le aveva detto con un sorriso rassicurante. “Se dovessi avere
bisogno di qualcosa, puoi sempre chiedere.”
Medusa continuò a correre lungo il corridoio color panna dei
laboratori Worhington, il peso sul suo cuore sempre più
intollerabile; era talmente opprimente, ormai, che le sembrava di non
riuscire a respirare. Aveva quasi ammazzato Bobby schiacciandogli la
testa sotto una lamiera di acciaio di due quintali. Bobby, che era
stato il primo ad alzarsi per abbracciarla quando aveva saputo della
morte di Evie.
Alex Hagen aveva ragione su di te. Tu sei un mostro,
le disse di nuovo la voce mentre il corridoio svoltava bruscamente a
destra, e Medusa vi si gettò senza pensarci due volte. Sapeva di
essere vicina alla sua meta ora. Un essere orribile come te non se la merita una cosa bella e pura come un bambino.
Girò di nuovo a sinistra quando il corridoio si biforcò,
e appena sorpassò l’angolo la vide. Sul muro in fondo alla
stanza, a circa venti passi da lei, c’era la porta bianca che
aveva scorto nella mente di Worthington. Il suo cuore cominciò a
battere all’impazzata, ancora più violento e rapido che
durante il suo combattimento con Iceman. Medusa si fermò di
colpo, ansimante e sudata per la corsa, e rimase immobile a fissare la
porta. Avrebbe dovuto gettarsi nel fuoco ancora quest’ultima
volta, sopportare il calore delle fiamme e il bruciore delle ustioni e
arrivare fino all’altra parte, dove avrebbe potuto riabbracciare
John.
Si infilò la mano in tasca e strinse il rosario con tutta la
forza che aveva. Il dolore la risvegliò, delineandole di nuovo
lucidamente la sua missione. Doveva eliminare il ragazzino, se voleva
che tutto quel delirio della Cura avesse fine, e che gli umani non si
sognassero mai più di creare qualcosa in grado di cancellare i
mutanti dalla faccia della terra. La sua mano rilasciò
lentamente il rosario e Medusa trasse un lungo respiro senza staccare
mai gli occhi dalla porta bianca davanti a lei. Jimmy doveva morire, se
voleva che il giorno in cui finalmente i mutanti avrebbero potuto
smettere di lottare per sopravvivere fosse un po’ più
vicino. La voce che le aveva parlato poco prima tentò di
controbattere, ma Medusa non glielo permise. Zitta! Zitta, stai zitta! le ingiunse, e quella si ritirò senza più pronunciare una sillaba.
Cominciò ad avanzare verso la porta provando dentro di sé
una nuova sensazione. Si sentiva calma e risoluta ora, come se quello
che stava per fare fosse stato già deciso millenni prima della
sua nascita da qualcuno più in alto di lei e facesse parte di
una sorta di piano cosmico che trascendeva la sua comprensione, ma in
cui Medusa aveva cieca fiducia.
Raggiunse la porta bianca e alzò la mano destra per aprirla.
Appena le sue dita toccarono il metallo della maniglia, però,
una voce che le suonava famigliare, anche se lei non la riconobbe
immediatamente, le parlò da dentro la sua anima. Questa
volta camminare nel fuoco ti farà molto male, Meredith. Molto,
molto più di quanto ti abbia mai fatto finora. Questa volta la
cicatrice ti rimarrà addosso, e sfigurerà il tuo volto
per sempre.
Medusa spalancò gli occhi. Sei davvero tu, papà?
domandò, ma non ebbe risposta. Rimase in attesa ancora qualche
secondo, aspettando che quella voce le parlasse ancora, ma ci fu solo
silenzio. Togliendosi di nuovo una ciocca o due di capelli ricci dalla
fronte, Medusa abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.
I muri, il soffitto, persino il pavimento erano coperti di lucidi
pannelli di plastica bianca. Solo una piccola e stretta finestra,
simile alla feritoia di un castello medioevale, si apriva nella parete
di destra; per il resto, erano solo le lampade al neon che pendevano
dal soffitto a dare luce alla stanza. Davanti a lei c’era un
letto con una vivace coperta gialla e verde, e, a fianco del letto,
rispettivamente a sinistra e a destra, c’erano una cassettiera
colorata e un comodino con sopra una lampada a forma di cane. Vari
giocattoli erano sparsi sul pavimento immacolato, e in un angolo
c’era un piccolo televisore e l’ultimo modello della
Playstation. Guardandosi in giro, il primo pensiero di Medusa fu che
quella stanza le ricordava la gabbietta di un criceto.
“Non fargli del male.” le
aveva gridato quel vecchio ipocrita bastardo di Worthington. Una cavia
da laboratorio, ecco che cos’era questo Jimmy. Una cavia da
laboratorio che gioca con i videogame, d’accordo, ma pur sempre
un animaletto su cui fare degli esperimenti. Un sorriso sarcastico
piegò le labbra di Medusa. Lo credo bene, che Worthington era così disperato all’idea di perdere il ragazzo, si disse. Chissà quanti soldi ci avrà fatto, vendendo al governo quella dannatissima Cura.
Improvvisamente qualcosa che si muoveva accanto al comodino
catturò la sua attenzione. All’inizio non l’aveva
notato, perché indossava una specie di tuta dello stesso colore
del muro e del pavimento, ma c’era un ragazzino che si acquattava
contro la parete e tremava come un ossesso. Medusa lo guardò
mentre si metteva le braccia sopra la testa in cerca di protezione, e
la sua memoria le proiettò davanti agli occhi l’immagine
di un soldato che puntava il suo fucile in faccia ad un bambino, nei
corridoi dell’Istituto Xavier. Scacciò quel pensiero dalla
sua testa e fece un passo avanti.
“Jimmy.” chiamò.
Il ragazzino alzò la testa dalle ginocchia e la guardò,
evidentemente sorpreso che quella donna nemica conoscesse il suo nome.
Non sembrava avere più di dodici o tredici anni, e Medusa
sospirò. Aveva sperato che fosse più grande. Gli occhi
verdi di Jimmy erano spalancati per il terrore, e le labbra gli
tremavano come se stesse per scoppiare a piangere da un momento
all’altro. Notò che lo avevano rasato a zero, e Medusa si
rammaricò di non aver schiaffeggiato Worthington. Era davvero il
minimo che meritava.
Decisa a non sprecare altro tempo, avanzò veloce verso il
ragazzo e Jimmy tornò a coprirsi il viso con le braccia, in
cerca di un riparo che comunque non gli sarebbe servito. Medusa lo
afferrò per la maglietta e lo scosse, obbligandolo a guardarla,
e Jimmy alzò gli occhi su di lei, troppo terrorizzato per
tentare di scappare o anche solo per implorarla di non ucciderlo.
Rimase muto, i suoi enormi occhi verdi fissati in quelli grigi di
Medusa, e una lacrima gli rigò il volto.
Medusa strinse più forte i pugni nella sua maglietta.
“Vattene.” gli disse. Un’espressione di vago stupore
si mischiò alla paura nel volto di Jimmy, e le sue labbra si
dischiusero, forse cercando di dire qualcosa, ma Medusa non gliene
lasciò il tempo. Lo scosse di nuovo. “Vattene.”
ripeté, la sua voce piena di collera e di astio. “Sparisci
per sempre. Dico sul serio. Emigra in Antartide, arruolati nella
Legione Straniera, ritirati in un monastero sull’Himalaya,
suicidati, se devi, ma non farti mai più vedere. Giuro se dio,
Jimmy,” cercò gli occhi del ragazzo. “se ti incontro
un'altra volta, o se anche solo sento qualcuno sussurrare il tuo nome,
ti vengo a cercare e ti uccido. Sono stata chiara?”
“Sì.” mormorò il ragazzino in un soffio. Sembrava stesse per svenire da un momento all’altro.
Medusa si alzò lentamente in piedi, i suoi occhi grigi sempre
fissi sul ragazzino davanti a lei. Jimmy, ancora rintanato nel suo
cantuccio, le restituì lo sguardo in silenzio, il viso dello
stesso colore dei suoi vestiti. Non c’era il minimo dubbio che
avesse compreso la serietà della promessa fattagli da Medusa.
Lei si voltò lentamente e si incamminò verso la porta, la
mano destra infilata nella tasca dei jeans. “Ti auguro ogni bene,
Jimmy.” disse mentre attraversava la soglia.
Non si diede nemmeno la pena di richiudere la porta una volta tornata
in corridoio, occupata com’era a tenere a bada quella sensazione
di panico mista a rabbia verso sé stessa che l’aveva
assalita non appena aveva lasciato Jimmy a tremare nel suo cantuccio.
Come avrebbe potuto spiegarsi davanti a Magneto, e soprattutto davanti
a John? Come avrebbe potuto guardare in faccia i suoi compagni della
Confraternita, e dir loro che i loro commilitoni vittime della Cura e
assassinati dai loro nemici erano caduti invano, e solo perché
lei era troppo vigliacca per affrontare il fuoco e portare a termine la
missione per la quale erano venuti fino ad Alcatraz?
Che fine hanno fatto tutti i tuoi bei
discorsi sull’obbligo alla sopravvivenza e sulla necessità
di combattere per un domani migliore? si rimproverò
mentre, senza nemmeno pensare a dove volesse davvero dirigersi, si
incamminava nel lungo corridoio color panna che l’aveva portata
fino alla stanza di Jimmy. Una fitta di angoscia e di paura le
attraversò lo stomaco, e Medusa si appoggiò con una mano
alla parete, sentendosi improvvisamente troppo spossata per procedere
ulteriormente. Chiuse gli occhi per qualche istante e la mano che non
era impegnata a sorreggersi al muro si alzò fino a sfiorare le
sue palpebre chiuse, scendendo poi sulle guance e sul collo. Una
polverina sottile le coprì le dita, e Medusa aprì di
scatto gli occhi per esaminarla con cautela, strofinando insieme i
polpastrelli di indice e pollice.
Si rese conto che doveva essere la polvere che le era rimasta addosso
quando si era rotolata a terra, per sfuggire al getto di ghiaccio che
Bobby le aveva diretto contro. Questo è sopravvivere. Quella
frase le balzò nel cervello senza alcun preavviso, e Medusa
smise di occuparsi della polvere per seguire il filo dei suoi pensieri,
curiosa ed insieme spaventata per come la cosa avrebbe potuto
evolversi. Rifiutarsi di entrare nel
fuoco per non farsi consumare il corpo dalle fiamme è un atto di
sopravvivenza piuttosto deciso.
Quella frase sembrò infondere nuova energia nel suo corpo
esausto. Medusa alzò la testa, raddrizzò le spalle e
ricominciò a camminare lungo il corridoio, decisa a lasciare
prima che poteva quell’edificio. Worthington è morto, si disse Medusa mentre svoltava nella sezione di corridoio in cui aveva incontrato Kid Omega e le ragazze. E
gli X Men verranno a prendersi il ragazzo. Lo porteranno al sicuro
nell’Istituto e non permetteranno che il governo lo usi ancora
per la sua guerra contro i mutanti. Medusa sorrise di nuovo
pensando a quanti mutanti terrorizzati e abbandonati la scuola di Salem
Center aveva offerto rifugio. Concesse all’immagine di Meredith
St.Clair di apparire un’ultima volta nella sua mente così
com’era il giorno in cui era scesa dall’auto che
l’aveva portata da Baltimora all’Istituto, la vide nei
vestiti che i Jackson le avevano comprato al discount per pochi
dollari, mentre stringeva la maniglia della sua valigia e guardava
nervosamente le pareti esterne della villa, coperte da uno strato
spesso di edera verde scuro. Medusa si meravigliò per tutta la
strada che aveva percorso da quel giorno: chi avrebbe potuto dire, a
quel tempo, che le cose sarebbero andate così? Eppure eccomi qui, si disse. E forse, magari in un giorno non troppo lontano, potrò tornare ad essere Meredith.
I muri color panna del corridoio scomparvero per lasciare spazio al
nudo cemento e Medusa esultò, sapendo di trovarsi vicina ormai
alla porta che aveva utilizzato per entrare nell’edificio, quando
improvvisamente quella che sembrava essere una scossa di terremoto
percorse il palazzo, facendo tremare i muri e il pavimento. Una sottile
polvere di cemento e scaglie di intonaco si staccarono dal soffitto e
caddero a terra a pochi passi da dove si trovava Medusa, e lei
alzò gli occhi verso l’alto, preoccupata. Certo, siamo in una zona sismica, ragionò. Ma
ehi, un’invasione di mutanti e un terremoto nella stessa sera?
Qui siamo ben oltre il calcolo delle probabilità. Di
nuovo la costruzione dei laboratori tremò, e da fuori provenne,
chiaro e distinto, il rumore di un’esplosione, seguito da quelle
che avrebbero potuto essere grida, oppure una fortissima raffica di
vento.
Si mise a correre più che poteva, cercando di guadagnare
l’uscita, il cuore che le batteva impazzito nel petto e lo
stomaco ormai ridotto ad un nodo inestricabile. Raggiunse la porta e
praticamente saltò via il cadavere del soldato che ingombrava la
soglia, ritrovandosi nel tratto tranquillo e buio di terreno che
costeggiava la parte laterale dei laboratori. Sentì dei rumori
provenire dal cortile principale, urla ed deflagrazioni unite al
cigolio sinistro dell’acciaio che si piegava e si spezzava, e
Medusa si diresse di corsa da quella parte. Il suo primo pensiero fu
che Magneto aveva perso la testa e stava distruggendo ogni cosa.
Mentre correva, si rese conto però che c’era
dell’altro, oltre le urla e le esplosioni e il gemito del
metallo. Era qualcosa che assomigliava al fruscio della sabbia
trasportata qua e là dal vento; Medusa non l’aveva mai
sentito prima, ma lo collegò al rumore di un tornado, o di un
uragano, ma subito cancellò quell’idea, dicendosi che non
si trovavano né nella zona né nella stagione adatta per
quei fenomeni.
La prima e ultima cosa che riuscì a vedere appena arrivò
nel cortile, attraverso l’inferno di polvere e terra che
mulinavano trasportati dal vento, fu il profilo di Jean Grey che si
librava a mezz’aria nel punto in cui Medusa aveva visto per
l’ultima volta Pyro e Magneto. L’angoscia e il terrore la
stritolarono, e senza nemmeno rendersene conto scattò in avanti,
intenzionata a raggiungere il ponte. Riuscì a fare un passo
soltanto, poi l’uragano la investì e la scagliò
lontano. Medusa chiuse gli occhi quando sentì il suo corpo
librarsi in aria, e cercò di portarsi una mano al volto per
impedire al pulviscolo di entrarle nel naso e nella bocca, ma fu tutto
inutile. La violenza del vento le impediva di respirare, e Medusa
cominciò a farsi prendere dal panico, temendo di morire
soffocata, ma poi il suo volo finì (una parte del suo cervello
le disse che dovevano essere passati solo pochi secondi, ma a Meredith
sembrò che quel supplizio fosse durato una vita) quando
sbattè contro qualcosa e il suo corpo rotolò a terra.
Il dolore dell’impatto fu talmente forte che Medusa non
riuscì nemmeno a gridare. Una sensazione di bruciore si diffuse
nel suo addome, così atrocemente dolorosa che Medusa
pensò di essere caduta su uno dei falò che punteggiavano
il campo di battaglia. Tutti i nervi del suo corpo si contrassero
mandando un unico messaggio al cervello che, forse sovraccarico per
tutti i segnali che gli arrivavano nello stesso istante, non
riuscì a concepire una reazione diversa dal raggomitolarsi in
posizione fetale. Quando Medusa ci provò, tuttavia, il dolore
all’addome fu talmente forte che rinunciò immediatamente,
e rimase sdraiata su un fianco, così come era caduta.
Aprì lentamente gli occhi e la prima cosa che vide fu il
terreno, marrone e polveroso, e non la ghiaia che ricopriva il cortile
principale dei laboratori. Doveva essere stata scagliata lontano da
quella forza misteriosa che era esplosa dal corpo di Jean Grey, e
probabilmente ora si trovava da qualche parte vicino alle mura esterne,
dove la ghiaia non arrivava. Guardò più in basso, verso
il punto da cui proveniva il dolore, e vide qualcosa di nero e
appuntito spuntare dal suo corpo. Incapace di capire cosa fosse e cosa
ci facesse in lei, accarezzò quella cosa con la punta delle
dita, e solo quando sentì il freddo del metallo lasciare posto
al tepore del suo corpo capì che una scheggia d’acciaio,
forse proveniente da una delle torrette abbattute che giacevano qua e
là nel cortile, le si era conficcata appena sotto lo sterno.
Qualcosa di caldo e viscoso le imbrattava le dita, e Medusa si
domandò da dove provenisse tutta quell’acqua prima di
rendersi conto che la maglietta e la felpa che indossava erano intrisi
di sangue, e dai suoi vestiti ormai zuppi grosse gocce di liquido denso
colavano sul terreno.
Oh mio dio, pensò Medusa portandosi una mano alla ferita, nel vano tentativo di fermare l’emorragia. Mi sto dissanguando.
Spaventata, alzò la testa alla frenetica ricerca di qualcuno che
la potesse aiutare, ma tutto ciò che riuscì a scorgere
nella penombra fu l’immagine distante di Jean Grey, le falde del
suo lungo cappotto porpora che le svolazzavano attorno come la coda di
un uccello. Il vulcano è esploso, pensò
Medusa, ricordando una conversazione che lei e la dottoressa Grey
avevano avuto tempo prima, quando ancora frequentava l’Istituto e
tutto era l’opposto di come era ora. L’eruzione non può più essere fermata.
Una fitta all’addome le fece digrignare i denti per il dolore e
Medusa guardò di nuovo la scheggia di metallo che le perforava
lo stomaco, ma non era la ferita il punto dal quale si irradiavano le
fitte. Era più in basso, e lei si posò una mano sul
grembo, spaventata. Un altro crampo le tolse il respiro, e poi un
altro, e Medusa sentì qualcosa sussultare e contorcersi dentro
di lei.
No, no, ti prego, no! pensò in preda al panico. Ti prego, fa quello che vuoi a me, ma non fare del male al mio bambino.
Lo sentì staccarsi da lei e scivolare via. Cercò di
opporsi, di trattenerlo in qualche modo, ma fu tutto inutile. Mentre
una lacrima le solcava una guancia, un’ultima contrazione spinse
via dal suo grembo quello che restava del suo piccolo, e poi tutto
dentro di lei fu vuoto, buio e freddo. Medusa chiuse gli occhi e la sua
mano strinse convulsamente il rosario che teneva nella tasca dei jeans.
Ti prego, ti prego, ti prego aiutami!
implorò, senza sapere a chi si stesse rivolgendo con quella
preghiera, se fosse una qualche divinità, o sua madre, o John, o
chiunque altro volesse accogliere quella disperata richiesta
d’aiuto.
Non sapeva di avere ancora la forza di piangere finché altre
lacrime non si unirono a quella che aveva solcato il suo volto pochi
secondi prima, e la sua mano destra emerse dalla tasca con il rosario
di Danielle avvolto attorno al palmo. Medusa la fece correre
delicatamente sul ventre, cercando il suo bambino, ma il gelo che vi
sentì le confermò che lui non era più lì
con lei.
Sentì la testa vorticarle terribilmente e il sapore del sangue
risalirle fino in bocca. Ogni residuo di forza l’abbandonò
e Medusa chiuse di nuovo gli occhi, troppo stanca e troppo debole per
lottare ancora contro quella sensazione di freddo che le stringeva il
corpo. Non sentiva più dolore, ma si disse che persino la
sofferenza atroce che aveva provato era preferibile al ghiaccio che ora
stava ricoprendo il suo corpo centimetro dopo centimetro, irradiandosi
dal suo grembo vuoto. La sua mano strinse di nuovo il rosario, o almeno
ci provò, e mentre un’altra lacrima sfuggiva alle sue
palpebre ed andava a mischiarsi al sangue sul terreno Medusa
pensò che non aveva mai sopportato il freddo, mai. Però sono stata fortunata ad aver incontrato nella vita qualcuno che mi ha dato la sua felpa per scaldarmi,
si disse con un sorriso. Una sensazione di gratitudine e di gioia
l’attraversò, difendendola per qualche secondo dal gelo
che l’attanagliava.
La sua testa ricadde lentamente di lato e lei sospirò. Qualcosa
le costringeva la gabbia toracica, impedendole di espandersi in maniera
efficiente, e respirare si stava facendo più difficile. Merda, morire fa proprio schifo, pensò, e con sorpresa si rese conto che non provava rabbia a quel pensiero, solo rimpianto. Ho
diciassette anni. Diciassette. Ci sono ancora così tante cose
che avrei dovuto fare. Così tante cose che avrei potuto dire. Di
nuovo si stupì di non essere infuriata all’idea di morire
a diciassette anni, ma poi pensò che forse era perché
l’ira è un sentimento che richiede una certa
quantità di energie, e lei non era sicura di averne ancora.
Anche le lacrime che fino a poco prima le solcavano il volto si erano
esaurite, o forse il freddo che la stringeva nella sua morsa le aveva
congelate dietro le sue palpebre.
On the third day he took me to the river
He showed me the roses and we kissed
And the last thing I heard was a muttered word
As he stood smiling above me with a rock in his fist…
“Papà, papà, corri!” gridò Evie.
“Meredith piange!” Medusa aprì di scatto gli occhi,
sobbalzando alla voce di sua sorella. Migliaia di luci le danzarono
nelle pupille come se stesse guardando attraverso un caleidoscopio, e
lei richiuse le palpebre. Evie era in piedi di fronte a lei e la
fissava con uno sguardo preoccupato, i suoi grandi occhi verdi pieni di
lacrime e il labbro inferiore spinto in avanti, come faceva sempre
quando stava per mettersi a piangere. Aveva otto anni, ma
quell’espressione la faceva sembrare ancora più piccola e
fragile.
Meredith continuò a singhiozzare, senza nemmeno curarsi di
asciugare quel fiume di lacrime che le inondava le guancie e le bagnava
la maglietta. Le sue mani strinsero convulsamente il copriletto dei
Looney Tunes, mentre dallo stereo del soggiorno arrivava fino alla
cameretta che divideva con Evie l’ultima strofa della canzone.
On the last day I took her where the wild roses grow
And she lay on the bank, the wind light as a thief
And I kissed her goodbye, said, "All beauty must die"
And lent down and planted a rose between her teeth.
Suo padre apparve sulla soglia, il volto teso in un’espressione
preoccupata. “Meredith...” disse, e poi fece una cosa che
lei non si sarebbe aspettata nemmeno in un milione di anni.
Attraversò velocemente la stanza, scavalcando le Barbie che
giacevano qui e là sul tappeto, si sedette accanto a lei sul
letto e la prese in braccio. “Shhh, tesoro mio, shhh...” le
sussurrò mentre la cullava, accarezzandole i capelli con una
mano e serrandola contro il suo petto con l’altro braccio.
“Non è niente... Vuoi dire a papà perché
piangi?”
Meredith singhiozzò più forte, e premette la fronte
contro la spalla di suo padre. Era arrivata a Phoenix da due mesi, e
aveva cercato in tutti i modi di farsi mandare via. Aveva rotto tutte
le bamboline di ceramica che sua madre teneva sul caminetto con
un’onda di energia psichica. Aveva preso a calci la siepe di
rododendro che cresceva accanto alla porta finché il tronco non
si era spezzato. Aveva spinto Evie in una pozzanghera. Due volte. Ma i
Barrymore la sgridavano, la mettevano in castigo e si ostinavano a
tenerla con loro. Lei li odiava.
“E’ stata la canzone, papà.” disse Evie, la
sua voce rotta dal pianto. Meredith sentì la mano di sua sorella
accarezzarle delicatamente il braccio. “Non piangere, non
piangere Meredith...” la implorò.
“Ti avevo detto di non mettere quell’album quando ci sono
le bambine, John.” Meredith non la poteva vedere, ma
immaginò che sua madre fosse da qualche parte nella stanza,
forse vicino alla porta.
Suo padre la strinse più forte contro di sé.
“Tesoro mio, non devi piangere.” le sussurrò
nell’orecchio mentre le sue mani le accarezzavano dolcemente la
testa e la schiena, cercando di calmare i singhiozzi che ancora la
scuotevano. “E’ solo una canzone, non è una cosa
reale. Non avevo idea che ti avrebbe sconvolta tanto. Non la metteremo
mai più, d’accordo piccola?”
Meredith scosse la testa con forza. “No, non è... Io
non...” mormorò tra i singhiozzi. Non voleva che
rinunciasse a qualcosa per colpa sua, ma non sapeva come dirglielo.
Sollevò le braccia, che fino a quel momento erano rimaste
abbandonate lungo i suoi fianchi con i pugni serrati, e le avvolse
attorno al collo di suo padre. Lui le diede un bacio sulla tempia.
“Va tutto bene, amore mio. Papà è qui con te, e
anche la mamma, e la tua sorellina...” disse spostandole dagli
occhi una ciocca di capelli zuppa di lacrime. Meredith strinse
più forte le braccia attorno al suo collo, pregando che lui non
la lasciasse andare mai. “Papà...” sussurrò
con gli occhi ancora chiusi. Era la prima volta che pronunciava quella
parola. Suo padre le baciò la fronte, poi la punta del naso e le
palpebre, e Meredith aprì piano gli occhi. Il viso di suo padre
era a pochi centimetri dal suo, e la stava guardando con un sorriso
sulle labbra. Le prese il volto tra le mani e spinse indietro i capelli
che le cadevano sulla faccia, poi la attirò a sé e le
baciò nuovamente la fronte. “Sono qui con te, piccolina.
Sarò sempre qui con te.”
“Papà.” chiamò piano Medusa, sdraiata sul
terreno freddo e duro del cortile dei laboratori Worthington,
sull’isola di Alcatraz. Aveva talmente freddo ora che non
riusciva a sentire più il suo corpo; le sue braccia, le sue
gambe, erano solo dei monconi intorpiditi, e per un istante Medusa si
domandò cos’erano quelle cose molli e pesanti attaccate a
lei. Aprì le palpebre, ma questa volta nessuna luce ballò
davanti ai suoi occhi: c’era solo un velo grigio e impalpabile
che copriva ogni cosa, impedendole di vedere. No, non così, si disse. Voglio morire guardando il cielo.
Medusa spostò la mano che ancora era posata sul suo grembo a
terra, o almeno dove presumeva ci fosse la terra, e spinse, gettando
contemporaneamente indietro la testa per buttare tutto il suo peso
dietro di lei. Atterrò sulla schiena e aspettò di sentire
di nuovo il dolore irradiarsi dalla ferita come una lingua di fuoco, ma
invece non successe nulla. Le dita della mano sinistra, che non erano
legate dalla catena del rosario, si piegarono e artigliarono la terra,
cercando un appiglio che le consentisse di sollevare il suo peso e
appoggiarsi al grosso frammento di muro che giaceva a terra pochi
centimetri dietro di lei. Si ricordò della buca che lei e John
avevano scavato per Evie ai piedi della rosa, nel cortile dietro le
cucine giù alla scuola, e sorrise pensando che nessun altro al
mondo conosceva quel segreto, solo loro tre: lei, sua sorella e John.
John. chiamò Medusa in silenzio. E’ maggio ormai. Chissà come sono belle le rose bianche, là nel nostro posto segreto.
Una lacrima solitaria sfuggì alla prigionia del ghiaccio e
percorse la sua guancia, andando a morire sulle sue labbra ancora
piegate in un sorriso. Sarebbe stato tanto bello vederle con te un’ultima volta.
La sua schiena colpì il cemento grezzo del muro più
duramente di quanto si era aspettata, ma stranamente non sentì
alcun dolore, solo la sensazione di avere qualcosa di duro e scomodo
che le urtava le vertebre. Medusa non ci fece caso. Riscaldata dalla
mano di John che stringeva la sua, mentre osservava insieme a lui il
cespuglio di rose bianche ai cui piedi giaceva Evie, Medusa aprì
gli occhi. Il velo che ricopriva le sue pupille era diventato
più buio e più fitto, immergendo tutto quel che restava
del suo mondo nelle tenebre, e lei utilizzò gli ultimi grammi di
forza e di coraggio che le restavano per strappare
quell’oscurità dai suoi occhi e gettarla lontana, dove non
avrebbe più potuto tenerla prigioniera.
Ed eccole, finalmente. Le stelle. Medusa dovette sbattere le palpebre
un paio di volte prima di riuscire a metterle a fuoco e scorgerle nella
seta blu scuro del cielo, lucenti e piene di grazia come migliaia di
piccole farfalle di fiamma. Sembravano osservare dall’alto la
ragazza insanguinata che giaceva in un angolo remoto del campo di
battaglia, e quando le ammiccarono tremolanti Medusa pensò che
forse era il loro modo di dirle che partecipavano al suo dolore, e che
stessero cercando di consolarla. Cercò il disco dorato della
luna piena, e quando lo trovò si strinse forte al petto il
rosario di Danielle. Non voleva rischiare di perderlo quando il suo
corpo si sarebbe rilassato, e le sue dita avrebbero perso presa.
“Papà.” chiamò rivolta verso il cielo,
così piano che nessuno, anche se fosse stato inginocchiato
accanto a lei, avrebbe potuto sentire. “Tienimi stretta
adesso.”
Stremata da quello sforzo, Medusa richiuse gli occhi. Un involontario
sospiro le fuggì dalle labbra mentre la sua testa si reclinava
lentamente di lato, poggiando la guancia contro il cemento ruvido del
frammento di muro.
La guerra era finita.
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Ok. Ok. Calma, adesso.
Prima di sommergere la mia casella di posta con email di insulti, prima
di rendermi cieca e storpia con devastanti maledizioni vudoo, prima di
assoldare una banda di killer ucraini per farmi gambizzare, lasciate
che vi spieghi le mie ragioni.
Non è stato facile fare questo a Meredith. L'ho creata io, le ho dedicato due mesi della mia vita, e le voglio bene. Vi giuro che mentre scrivevo l'ultima parte del capitolo mi veniva da piangere. Ma
io non credo nei lieto fine, e a volte la vita può essere
davvero davvero bastarda, e fregarsene se hai diciassette anni, tutta
la vita per rimediare ai tuoi errori e un bimbo che nascerà fra
sette mesi. Ho cercato un modo per salvarla, ci penso ormai da tre
giorni, ma sono giunta alla conclusione che questa storia non possa
avere un finale differente. Non so spiegarvi il perchè, sento
che deve essere così e basta. Cercate di non odiarmi troppo, se
ci riuscite, e non siate troppo tristi per Meredith.
E poi, gente, stiamo parlando degli X Men, avete presente? Rogue che
risorge quando Wolverine l'abbraccia? Jean Grey che emerge
miracolosamente dalle acque di Alkali Lake? E poi, se ci fate caso, la
parola "morta" non compare da nessuna parte.
Forse Meredith non è morta affatto. Qualche idea mi frulla in
testa, troppo labile per costituire una storia, ma in futuro
chissà? Magari qualche pezzo in più si unirà al
puzzle, e potrò cominciare a scrivere qualcosa di sensato.
Credetemi, anch'io desidero ardentemente che Meredith non muoia.
Comunque, passiamo per un momento a cose pratiche. Ecco la traduzione delle ultime due strofe di "Where the Wild Roses Grow":
VOCE FEMMINILE: [...]"Il terzo giorno mi ha portata al fiume
Mi ha mostrato le rose e ci siamo baciati.
E l'ultima cosa che ho sentito è stata una parola mormorata
mentre lui stava sopra di me con una pietra stretta nel pugno..."
VOCE MASCHILE: [...]"L'ultimo giorno l'ho portata dove crescono le rose selvagge
Lei si è sdraiata sulla riva, il vento leggero come un ladro.
Le ho dato un bacio d'addio, ho detto: "Ogni bellezza deve morire"
Poi mi sono chinato e le ho messo una rosa tra i denti"
Inquietante, eh?
Voglio salutare tutti quelli che hanno letto questo racconto, in particolare joey_ms_86 e Lia, che hanno avuto la bontà di recensire. Lia, come
al solito non so cosa dire, tranne che sei un mito. Grazie per tutto
l'incoraggiamento che mi hai dato. Spero che questo finale non ti abbia
lasciato troppo con l'amaro in bocca.
Ora è arrivato davvero il momento degli addii. Un grosso bacio a
tutti e buona vita! Se la mia vena creativa farà la brava e si
metterà a suggerirmi qualcosa di decente, magari ci sentiremo
ancora.
Un bacione!!!!!
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