What I haven't said

di Fiby_Elle
(/viewuser.php?uid=67875)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***
Capitolo 5: *** 4. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 6. ***
Capitolo 8: *** 7. ***
Capitolo 9: *** 8. ***
Capitolo 10: *** 9. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Questa storia comincia con un rumore di vetro in frantumi.

Quello della tua auto che si infrange a duecento contro il cavalcavia.

Quello del mio cuore, quando al telefono una voce anonima, piatta, mi dice che a casa, quella notte, non saresti più tornato.

Una conversazione di poche parole, rapida come una ferita inferta.

“Lei è Zayn Malik?”

“Sì… sono le quattro del mattino…”

“L’abbiamo trovata come ultima chiamata del signor Liam Payne. Ha avuto un incidente. Lo stiamo portando al Cassie Hospital.”

Ho riagganciato.

Sai, Liam, sono stato piuttosto bravo.

Non ho pianto. Non ho urlato. Non sono nemmeno corso in ospedale.

Mi sono vestito in silenzio, ho preso le chiavi dell’auto e ho guidato senza fretta fino a te.

Tu mi avresti rimproverato da morire, già lo so, mi avresti guardato di sottecchi, con sufficienza e un po’ di rancore, e mi avresti urlato che sono sempre il solito iceberg, il solito stronzo, il solito deserto pianeggiante senza colline o distrazioni. Tu sei sempre stato più bravo di me, Liam, a tirar fuori quello che avevi dentro, a vomitare tutto ciò che di velenoso potesse esserci nella tua essenza per evitare che ti intossicasse, ti divorasse gli organi interni con l’intento di ucciderti.

Tu sei puro come l’acqua, Liam, trasparente e incontaminato.

Io no.

Io sono il sangue, sono sporco, sono denso, sono fatto di tante cellule differenti nascoste nel mio colore scarlatto.

Me ne rimango nascosto, a fluire nelle vene, nelle arterie, nel cuore, perché se mai colassi fuori per me sarebbe solo morte, solo dolore.

Non ti dirò mai, ad esempio, che le mie mani tremavano, mentre erano strette intorno al volante.

Non ti dirò mai quanti anni di vita ho perso, mentre Harry col volto paonazzo, rigato di lacrime, nella corsia d’emergenza di quel cazzo di ospedale, mi diceva frasi sconnesse, un po’ urlate, con Niall che piangeva contro le ginocchia, rannicchiato come un bambino e Louis che si teneva stretto ai fianchi di Harry, neanche fosse  una radice, una quercia a cui aggrapparsi per non essere trascinati giù.

Non ti dirò mai che sono morto dieci volte, a ripetizione, affogato e riemerso, mentre un dottore senza volto mi portava in camera tua e mi mostrava cos’è davvero l’inferno, di cosa gli esseri umani dovrebbero realmente avere paura.

“Ha perso molto sangue. Abbiamo dovuto asportare parte del fegato e la milza. Il battito c’è, ma è debolissimo. Non sappiamo cosa succederà.”

Ho sempre odiato gli ospedali, sai Liam. È per questo che due mesi fa non ti accompagnai a fare quelle famose analisi. Non è questione di angoscia o di ipocondria, bada bene. È questione che io, i medici proprio, li odio dal profondo del mio cuore.

Tu sei lì, con la guancia scorticata e le labbra rotte, il busto fasciato e le gambe viola dei lividi, le braccia un intrigo di aghi e un buco nel collo da cui esce un tubo enorme che mi fa chiedere come uno stupido perché non ti faccia male,  perché non ti dia fastidio; tu sei lì, pallidissimo, piccolo come non ti ho mai visto, in quel letto due volte più grande di te e quello mi dice che forse morirai, così, neanche fosse la cosa più normale della terra.

Non è la cosa più normale della terra, Liam!

Non lo è, cazzo!

Io li odio gli ospedali!

E odio te perché mi stai costringendo ad averci a che fare.

“Non star lì a farti fumare il cervello, Zayn! Queste cose succedono… andrà tutto bene…”  Lo so che mi avresti detto una cosa del genere.
Vorrei tremendamente che me la dicessi adesso, anche se non puoi parlare e un’infermiera ci spiega che in questo momento non senti niente, sei come un vegetale.

Questo significa che non la avverti la mia mano sulle tue dita con le unghie saltante, non la vedi l’agonia che mi impietrisce il volto, non lo sai che nello stomaco ho un verme impietoso di nome paura.

Tu sei quello coraggioso, lo sai, vero? Io sono quello che scappa, che teme il dolore, tu sei caduto tante di quelle volte, invece Liam, tante di quelle volte che ormai le botte non si sentono più.

Ma no, no, tu non lo sai quanto sei coraggioso. Come potresti. Non te l’ho mai detto. Non te l’ho mai confessato. Come mille altre cose ancora…

Non sto piangendo, Liam.

Non sto piangendo, te lo giuro.

Io piango col cuore, non con gli occhi.

Me lo dicevi sempre anche tu.

“Cosa facciamo, Zayn… cosa facciamo se muore…” mi chiede Harry con la voce rotta, ancora con Louis che non molla la presa dai suoi fianchi.

Li guardo e quasi mi viene da ridere.

Luis sta immobile come se un solo movimento potesse consegnarti alla morte ed Harry… Harry ha questa malsana convinzione che io abbia sempre la risposta… quel suo modo sfacciatamente infantile di prendere la verità dal fango e buttarla in faccia…

Già, cosa facciamo se muori, eh Liam?

Cosa faccio IO se muori?

“Non muore, Harry… è semplice…”

“Sì, Zayn, ma se muore? Se muore davvero?”

“No Hary, Liam non muore… perché io proprio non lo so che cazzo facciamo se muore!”

 Vorrei che le mie parole servissero a qualcosa.

Vorrei che crederci fermamente, pronunciarlo ad alta voce, bastasse a farti svegliare adesso e sorridere, come se ti fossi semplicemente
ridestato da un lungo sonno.

Ma io non sono Dio, Liam, non ho voce in capitolo sulla tua vita…

Per questo è necessario che lo faccia.

Non ti lascio andare via così, Liam, pieno di parole non dette, senza sapere la mia verità.

Non ti lascio andare con la colpa di averti parlato mille volte, senza aver mai detto, confessato, quello che volevo davvero.

Non posso, Liam, non devo.

Hai sempre detto che il mio cuore è un letto di fiume, di cui io mostro solo il delta.

Questo è il mio oceano, Liam.

Questa è l’acqua che non hai visto.
 


Continua…
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. ***


1.


Il sole sta sorgendo, Liam.

La notte è passata, ma il tuo male, la luna, non se l’è portato con sé.

Tu non ti sei mosso, sei ancora qui immobile e devastato, come una di quelle sculture italiane bellissime, lasciate per strada a marcire tra pioggia e smog, incuria e abitudine. Perché funziona così, Liam, quando una cosa ce l’hai sempre sotto agli occhi, finisce che ti stanca, anche se è l’opera d’arte più straordinaria del mondo. Sai quando ti accorgi della sua mancanza, poi? Quando viene distrutta, sparisce dalla vista e non è più tua.

Io la mano non te l’ho lasciata un attimo, Liam, e la tengo ancora adesso come se legarti a me in una qualche maniera corporea, significasse ancorarti alla vita, impedirti di volare via.

È singolare. Per la prima volta sento dentro di me un’esistenza completa, una voglia di fare, disfare, che brulica come un nido febbrile di api. E Dio solo sa, quanto vorrei aprirmi lo stomaco e prendere questo miele di vita per donarlo a te, così spento in questo momento, così tenue e pallido.

Non eri così, la prima volta che ti ho incontrato, Liam, non ci crederai, ma io me lo ricordo bene.

Eri una tavolozza di colori caldi, fuoco di ambra e primi giorni di settembre.

Avevi il sorriso bianco di inverno, ma la corteccia sporca negli occhi e la pelle di foglie secche e croccanti.

Era il maggio dei miei diciassette anni quando ti ho visto per la prima volta, una serata che non dimenticherò mai più.

Dicono che quell’età sia la più bella del mondo, sai Liam. Lo dicono soprattutto i grandi, con il rimpianto e la gelosia nella voce, perché avere diciassette anni è sinonimo di coraggio, avventura, amore. Se avessero ragione, io dovrei dire di essere nato già adulto e aver trascorso un’adolescenza di disperata vecchiaia. Il mio coraggio si chiamava incoscienza, le mie avventure duravano il tempo di una sigaretta accesa e dell’amore avevo il terrore, lo fuggivo come un elefante alla vista di un topo.

Non avevo mai avuto una ragazza, mi credi Liam? I giornali adesso me ne attribuiscono tante per quel periodo di normalità e non fama, vanno lì a scovare i loro nomi, i loro volti, ma quello che vorrei dir loro è che per me esse non erano in effetti che nomi e volti, senza identità, senza sostanza. Venti giorni e poco più di pizze e cinema, birre rubate e baci bagnati, ma oltre questo, niente di più. Dicevo loro addio dalla mia vita con lo stesso trasporto di quando una madre costringe il figlio a buttare nel water il suo pesce rosso, le guardavo sparire, affogare nell’acqua sporca, un po’ mi dispiaceva all’inizio, ma non mi lasciavano nulla a livello di cuore, dormivo sogni tranquilli ugualmente poichè nulla esse mi avevano tolto, visto che nulla avevo concesso loro di darmi. 

Non che non ci avessero provato, alcune avevano bussato alla mia porta ore ed ore, ma io le avevo salutate dallo spioncino e avevo semplicemente richiuso a chiave.

Tu sei arrivato una sera come mille altre nel mondo, Liam, prepotente e fatale come la voglia di un morso alla vista di una torta alla panna.

Non c’è stato bisogno di chiudere la porta, non hai nemmeno bussato.

Sei passato dalla finestra simile a un ladro e mi hai sorriso, insinuandoti con le tue labbra pronunciate nelle mie vene, cominciando la tua lenta scalata verso il cuore.

Sai, Liam, se ci fai caso, quando pensiamo a grandi quadri, pensiamo sempre a delle cornici speciali. I film, i libri, i video musicali, ci hanno indotto a credere che i grandi incontri si facciano sempre in giorni meravigliosi e particolari, indimenticabili: considerando che cambieranno per sempre la tua vita devono per forza svolgersi in uno scenario da fiaba, in una mattina di sole forte o in una notte di pioggia urticante e poetica. Lo credevo anche io inconsciamente, Liam, ma adesso so che non è vero, perché con te non è stato così.

Prima dei One Direction, prima di Harry, Louis e Niall, io e te ci siamo conosciuti in un ristorante italiano, ad una cena chiassosa e soffocante, insieme ad altri che speravano in un futuro di stelle ad X Factor. Io parlavo con una ragazza bionda, piccolina, dalle origini africane e tu mi sei rovinato a fianco, sulla stessa panca, gomito a gomito, neanche fossi una conchiglia alla deriva, trasportata dal mare. Ti ho guardato con la coda dell’occhio, giusto per capire con chi avrei diviso lo spazio vitale in quel casino di voci e rumori, e ricordo di aver pensato che sì, forse venivi davvero dal mare, perché la tua pelle sembrava di sabbia e la tua maglia bianca, minimale, sembrava fatta di schiuma salata di onde che si erano venute coraggiosamente ad infrangere contro di te. Tu hai notato che i miei occhi ti cercavano, ti scrutavano con una curiosità dettata più che altro dalla noia, ma educatamente non me lo hai fatto notare ed hai lasciato che ti conoscessero, facendo lo stesso anche tu.

Abbiamo passato così, a sfiorarci e a studiarci, tutta la sera.

Cercavo di parlare con la ragazza che avevo di fianco, di prestare ascolto alle sue storie di savane e soli senza tramonto, ma tu catturavi la mia attenzione con niente, un leggero tic alla gamba, un modo buffo di arrotolare i capelli alle dita, l’impronta calda delle tue labbra sul bordo del bicchiere di vetro. Parlavi con tutti, ma non ti facevi coinvolgere da nessuno, mangiavi impugnando la forchetta storta e a volte ti chiudevi in un silenzio di vetro, fragile tanto che un minimo cenno poteva romperlo e trasformarlo in risata.

Quando hai trovato il coraggio di rivolgermi la parola era notte fonda, il locale si era svuotato lentamente ed io e te eravamo soli sull’asfalto, due naufraghi che cercavano di tornare in un surrogato di casa.

“Ehi.” mi hai detto con un sorriso di miele, come se ci conoscessimo da sempre, come se quel gioco di pelli ed iridi, ci avesse autorizzato ad essere intimi, non più due estranei. Io ti ho guardato un po’ perplesso, rapito dal rossore intenso che i lampioni accentuavano sui tuoi zigomi appena pronunciati e coi denti ho dovuto trattenere un sorriso, perché l’imbarazzo ti divorava, era palese, ma lo stesso avevi deciso di venire lì, a parlare con me.

“Il mio nome è Liam, Liam Payne.” hai continuato, facendoti sempre più piccolo, vedendo che io non ti davo corda.

Col senno di poi, adesso che sono passati quasi cinque anni da quella sera, mi rendo conto che se ti avessi ignorato, Liam, se non ti avessi porto la mano, afferrando saldamente la tua, tutto sarebbe stato differente, meno bello, sì, ma anche meno complicato. Ci vorrebbero dei segnali nella vita, non credi Liam, una cosa qualsiasi che ti dicesse chiaramente, in determinate occasioni, che da quel momento in poi tutto sarebbe cambiato, tutto avrebbe preso un’altra piega, una svolta inaspettata; così puoi decidere, puoi avere il tempo di valutare le opzioni e capire se il salto valga veramente quella fottuta candela.

Ma tu il tempo non me lo hai dato, Liam e la fottuta candela io non solo l’ho ingoiata, ma ho persino lasciato che mi ustionasse le viscere.

“Zayn Malik” ho snocciolato quasi in un sussurro, spicciolo e laconico come in futuro mi avresti sempre rimproverato.

“Vieni anche tu dall’Africa come Giselle?”

Ho fermato il passo.

Ti ho guardato.

Io non avevo afferrato una parola di quella bionda figura accanto a me nel tavolo, il suo accento marcato mi era scivolato addosso come pioggia d’estate, eppure tu l’avevi ascoltata attraverso di me, per me, nel frastuono, mentre io ero rimasto intento ad osservarti come un animale raro.

Hai retto il mio sguardo sorpreso col tuo di rovere giusto pochi secondi, poi hai fatto un sorriso timidissimo e sei scappato sui tuoi piedi, sul marciapiede franato.

Avrei potuto farti notare che avevi ascoltato la nostra conversazione, farti sentire impertinente, maleducato, ma pensandoci bene lo avrei fatto solo per rivedere le tue guance colorarsi di porpora, quindi decisi che ti avrei risparmiato.

“Perché me lo chiedi?” ho fatto, un po’ brusco.

“La tua pelle…” hai risposto senza esitazioni “La tua pelle ha il colore della terra bagnata…”

Ricordo che non riuscii più a trattenerlo quel dannato sorriso.

Tu sei così, Liam, io non lo sapevo ancora quella notte, ma lo avrei scoperto, presto, tra lotte e vittorie, fiori ed armi. Tu sei semplice, diretto,
istintivo, non hai paura di niente, non ti spaventa parlare col cuore, anche se questo vuol dire mettersi in gioco, mostrarsi nudi e diventare vulnerabili. Sei una spina di rose, Liam, non temi che un dito umano ti schiacci, tu cresci lo stesso, stai lì, fiera e sporgente in attesa di penetrare nella pelle e bagnarti di sangue.

Non te l’ho mai detto questo, Liam, ma la differenza tra le nostre pelli io l’ho contemplata così tante volte, così tante che ne ho perso il conto.

La mia mano sulla tua pancia, sul tuo collo, sulle tue gambe…

Pietra lavica ed oro.  

Spettacolo straordinario…

“Io non vengo dall’Africa, ma dal Pakistan, la terra dei puri di cuore…” (*)

 “E che ci fai qui, allora?”

“Ho il cuore sporco, come il sangue… mia madre è inglese.”

Mi hai guardato intensamente, gli occhi che ti luccicavano.

Sembravano d’ebano.

“Sei sempre così?” hai domandato,

“Così come?” ti ho fatto, già offeso.

“Disperatamente realista…”

Ed era vero, Liam.

Cazzo, mi avevi già capito in una conversazioni di sì e no quattro battute.

Ti ho detto che nella vita ci sarebbe bisogno di avere dei segni per prendere determinate decisioni, ti ricordi Liam? Adesso che ci penso è probabile che mi sia sbagliato. Il problema non è che i segni non arrivano, quelli ci sono ovunque, sempre, siamo noi che non li cogliamo! I segni del destino sono come i passanti, ci camminiamo affianco, a volte li salutiamo con la mano, eppure dopo qualche metro, ci rendiamo conto di non ricordarci neanche una virgola del loro aspetto reale.

Sai, penso che la vita a me, di segni, quella sera, me ne abbia mostrati tremila, ed io non ne abbia colto neanche uno. 

Che mi avresti cambiato la vita, Liam, io l’ho capito subito, dal momento in cui ti sei seduto accanto a me sulla panca, ma il problema è che lo facevo inconsapevolmente, senza farci caso. Il mio corpo, i miei gesti avevano già deciso, erano la mia testa, il mio cuore, che ancora lo dovevano accettare.

“Ti va di camminare? La notte è tiepida e la cucina italiana è stata davvero pesante…”

Ho esitato.

Non lo sapevo, Liam, non lo sapevi neanche tu, ma mi avevi appena messo di fronte ad un burrone gigante.

Saltare o non saltare?

Una sillaba e tutto sarebbe cambiato.

Forse ho tremato, forse lo stomaco mi si è chiuso, probabilmente le mie mani hanno cominciato a sudare, vorrei dirtelo e non lo ricordo, ma sono sicuro, certo, di essermi girato verso di te, lentamente, e di averti guardato.

Tu hai sorriso, Liam.

La tua bocca si è sciolta in una risata di stelle e mi sei esploso dentro, nella pancia, come una supernova.

Non ho avuto più dubbi.

Non ho avuto più paura.

“Sì, andiamo!” ho risposto.

E sono saltato.
 


*(Si dice che il significato della parola Pakistan sia derivato da “pak”, che significa puro di spirito, aggiunto a “stan” che significa terra.)
 

Salve, miei cari! Ringrazio tutte le persone che hanno letto il prologo, commentato o inserito la storia tra seguite, preferite e ricordate. La vostra fiducia e i vostri complimenti mi commuovono!

Vorrei però specificare una cosa doverosa: io, questi baldi giovani dei One Direction, li ho conosciuti da poco. Questo vuol dire che probabilmente nel corso della lettura potreste incappare in qualche imprecisione da parte mia! Sto cercando ovunque notizie specifiche su di loro, ma non ne trovo di così complete , per questo vi metto in guarda da miei possibili strafalcioni. Spero che comunque questo non comprometta la vostra lettura e la vostra opinione riguardo la fan fiction!

Alla prossima, bimbe!

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. ***


2.


Quella notte è stata la più breve della mia vita, sai Liam.

Non la più bella, quella sarebbe giunta più avanti.

Non la più lunga, perché il tempo funziona così, non c’è via d’uscita: la felicità dura poco più di uno starnuto, ma quando sei nella merda, ogni minuto si diverte a diventare un’esistenza intera.

La nostra passeggiata era diventata un viaggio.

Una parola tirava un passo e Londra era nostra, solo nostra e dei nostri respiri condensati nel gelo. I vicoli ci nascondevano dalle stelle come fossero le dita di una mano e le piazze ci squadravano indignate, frantumando le nostre voci in echi che correvano, e correvano e si infrangevano contro i vetri spessi dei palazzi antichi.

Io di me non ti ho detto molto, ma la tua storia l’ho ascoltata bene. Mi hai raccontato di te, della tua vita, delle tue giornate prima di X Factor e di quella sera, della città dove vivevi, Wolverhampton, di quanta strada dovevi fare ogni giorno per arrivare in orario a scuola; e ti sembrerà assurdo, adesso, sdolcinato, ma mentre parlavi, Liam, gesticolando e ridendo, a me sembrava di esserci stato con te in quei luoghi, di essere vissuto con te, dentro di te, guardato il mondo con gli occhi tuoi.

A Londra ci siamo tornati tante volte, tu lo sai, coi One Direction, da soli, coi nostri familiari, eppure mi sembra sempre che alcune strade, alcuni tragitti li abbiamo visti solo noi, non li ho più trovati. Quando cammino su quello o su quell’altro marciapiede, subito la mia mente associa quella porzione di spazio ad una tua piccola avventura e sulla pelle mi sento la tua voce arrochita dal freddo e un po’ più bassa del normale, come se quel giorno tu avessi voluto fare una cortesia alla città e lasciarla dormire o far sì che la tua storia fosse un segreto solo mio, solo mio e di nessun altro.

Hai intonato un motivetto, ad un certo punto, quello di una canzone che ti aveva colpito e avevi ascoltato per radio…

Ho ripensato a quel momento tante volte, Liam, eppure la canzone non la ricordo più.

Ti stavano brillando così tanto gli occhi in quel momento, che sono diventato sordo e Londra intera per me era sparita.

Ci accorgemmo d’un tratto che si erano fatte le sei del mattino, nessuno dei due sapeva come. Avevamo parlato per ore e avremmo continuato, ne sono sicuro, se il sonno non ci avesse impastato le voci.

“Mi accompagni in albergo?” hai chiesto, tremando leggermente nel cappotto.

Sembravi un bambino con le guance graffiate dal gelo e la felpa arrotolata fin sopra le dita.

“Certo, fammi strada.” ti ho risposto senza esitare, e via un altro viaggio, un’altra avventura.

Mi sentivo un turista insieme a te nella città intorpidita, per ogni luogo avevi una storia, un consiglio, un aneddoto particolare. Mi hai mostrato un negozio di dischi a poco prezzo, uno di libri, dove avevi acquistato un Cyrano con la copertina sdrucita. Abbiamo attraversato Hyde Park tra la rugiada e il muschio, fiori raccolti e odore di linfa, alla fine hai insistito per fermarci in una di quelle caffetterie più mattiniere ed io ti ho accontentato, perché le tue mani screpolate reclamavano un po’ di calore e le tue labbra pronunciate si erano fatte quasi viola.

Ci siamo seduti, io ho ordinato un caffè nero, tu un dolce. Me lo ricordo bene, Liam, non ho dubbi, perché usciti da lì, avevi la guancia sporca di zucchero ed io ridendo te l’ho strofinato via, arricciandoti appena la pelle un po’ arrossata.

Tu mi hai guardato.

Tu mi hai guardato ed io sono rimasto incastrato nella ragnatela di legno che è lo sguardo tuo, lo stomaco mi si è chiuso in una morsa e le dita che avevo ancora sul tuo viso hanno cominciato a bruciare come se le avessi immerse in un mare di lava. Era la prima volta che ci toccavamo, che i nostri corpi entravano in collisione, e dalla paura io mi sono allontanato quasi di scatto e ho distolto gli occhi dai tuoi, riprendendo a camminare in cerca di salvezza.

Dentro di me era la rivoluzione, ma non ti ho lasciato scorgere nulla.

Vedi, Liam, di quel giorno io ricordo tutto, anche i più insignificanti particolari. Non è una cosa che ho scelto, non è una cosa che ho desiderato, è solo che mi è sgusciato dentro, nella testa, ed è rimasto lì, non si è mai mosso, crescendo lentamente di importanza e significato.

Ricordo il silenzio che ci ha accompagnato da quel momento fino all’hotel, ad esempio, un silenzio imponente, fatto di discreto imbarazzo e malcelata paura.

Ricordo che tremavo, ma avevo le mani sudate, il corpo caldo.

Ricordo che non riuscivo a guardarti, perché il mio cuore batteva così forte che temevo ne potessi avvertire il suono.

Ricordo che arrivati alla porta dell’hotel, tu hai fatto quel sorriso timidissimo, tirando appena un angolo della bocca ed io ti ho saluto, cercando di non guardarti troppo, di non prestare a te e ai tuoi occhi lucidi troppa attenzione.

Ma tu mi hai fregato lo stesso, Liam, volevo andarmene, volevo scappare, invece non ho fatto un passo.

All’improvviso mi hai afferrato il braccio, lo hai tenuto stretto, tra le tue dita lunghissime, mi hai messo in trappola col tuo odore di albicocca e non mi hai più lasciato.

Non so se ho cercato di combattere, non so se ho cercato di resistere o di lottare.

Ma so che ti sei chinato verso di me e mi hai baciato.

Mi hai baciato, Liam.

Hai appoggiato le tue labbra sulle mie e hai dato loro un morso dolcissimo, che un po’ sapeva di te e un po’ sapeva di sale.

È stata questione di due secondi, davvero, un battito di ciglia ed io ti avevo già scansato, spinto via, stavo già correndo senza una meta, cercando di allontanarmi da te e da tutto ciò che di strano mi avevi inculcato in una serata… eppure, Liam me la sentivo già nel petto, la tua bocca morbida e il tuo sapore di mare, le tue dita, per me, stavano ancora sul braccio, non si erano mai spostaste.

Con te è sempre stata questione di interno, Liam, mai di esteriorità. Hai sempre avuto questa capacità di finirmi dentro, questo talento naturale nell’abbattere le mie barriere e arrivare dove nessuno era mai stato capace di arrivare, ed è per questo che io ancora temo ogni tuo piccolo gesto, perché tu non te ne rendi conto, io non lo do mai a vedere, ma anche con una parola tu sei capace di ferirmi e rendermi vulnerabile.

Ti ho sempre detto che quel bacio è stato un errore madornale, qualcosa che doveva essere tenuto nascosto come una colpa ignobile, vergognosa, ma la verità, Liam, era che io lo urlavo a te per convincermene per prima io.

Perché quello che non ti ho detto è che il giorno seguente ho fumato venti sigarette, una dopo l’altra, nella speranza che il tabacco mi levasse via il tuo sapore dalla lingua. 

Perché quello che non ti ho detto è che ancora adesso, a cinque anni di distanza, se chiudo gli occhi, sento la tua bocca, sopra la mia.
 


Ragazzi miei, che capitolo difficile! Non so perché ma ho trovato difficoltà nel partorirlo e non a caso sono stata costretta a ristenderlo circa tre volte! Spero che il risultato sia gradevole, questo è davvero un passaggio importante nella storia, perché c’è il primo avvicinamento fisico di Zayn e Liam.
Non vi preoccupate, come potete intuire, c’è molto altro sotto, di certo non ho intenzione di correre e bruciare le tappe!
Zayn e Liam dovranno farne ancora molta di strada…
Grazie come al solito a tutti coloro che hanno recensito, letto, collocato la storia tra preferiti, seguiti e ricordate!
Siete un amore <3
Fiby_elle
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. ***


3.

Piove, Liam.

Piove ininterrottamente da due giorni.

L’acqua scorre sui tetti e sui palazzi, allaga le scarpe e l’asfalto, a piccoli colpi si abbatta sui parabrezza trasparenti e gli ombrelli colorati delle formiche che come pazze si affannano e corrono giù da qui.

Io la pioggia l’ho sempre amata, sai Liam, fin da quando ero bambino. Mi piaceva posizionarmi di vedetta accanto al vetro e guardarla scorrere goccia dopo goccia, lacrime di cielo che piangevano per me e non mi sfinivano, non mi coinvolgevano nella loro dolorosa discesa. Mi lasciavano integro, non mi toglievano nulla.

La pioggia è forse l’unica cosa giusta ci sia rimasta a questo mondo, ci hai mai pensato? Cade dappertutto, non è razzista: cola sui terreni aridi e su quelli che di altra acqua proprio non avrebbero bisogno; bagna uomini e donne, giovani e vecchi; non trova differenza tra un capo firmato e uno straccio sporco di sudore e miseria. Quando piove, l’acqua scende indisturbata e imparziale, non ha a cuore nessuno, ci punisce tutti alla stessa maniera.

Eppure oggi sembra arrabbiata, sai Liam? La pioggia apatica e neutrale oggi sembra quasi furiosa, dà l’idea che voglia sradicarli, i palazzi; bucarla, la carrozzeria delle macchine; schiacciarle una ad una, quelle formiche che brulicano inosservate.

Fa un rumore di pazzi, batte sul vetro, ruggendo come un animale.

Lo sta facendo per te, Liam.

Ti sta chiamando.

Vuole che ti svegli.

“Io qui ho finito.”

Distolgo l’attenzione dal mondo esterno e ritorno nel nostro piccolo inferno personale, giusto in tempo per vedere Mary Anne lasciare la stanza.

Mary Anne è la tua infermiera, Liam, una donna stanca con le gote rosse e il ventre gonfio di figli, le mani sgraziate dalla fatica e il volto indurito di chi ne ha viste tante e ha posto tra sé e gli altri un muro che ormai non è capace ad abbattere più.

Tu non lo vedi, ma ogni giorno ti cambia garze e flebo, si prende cura di te con gesti spicci e bruschi, ti scruta duramente coi suoi occhi scuri, eppure di tanto in tanto ti sistema i capelli, ti accarezza la pelle con la stessa tenerezza con cui una bambina cullerebbe al petto la sua bambola rotta. Quando mi vede la sera, la sua ultima ronda, mi dice sempre la stessa cosa: “Devi mangiare, non siete inversamente proporzionali, distruggerti non gli ridarà la vita.”

L’altro giorno gli ho risposto, “Lo so, ma illudersi non costa nulla.”

Mi ha guardato, la testa di cenere inclinata, gli occhi di pozzo incuriositi, “Cosa ti lega a lui, ragazzo? Siete fratelli? Migliori amici?”

Ho distolto lo sguardo.

“Nessuno dei due…”

Mary Anne ha annuito.

Il giorno dopo mi ha lasciato la cena.

“Malik, devi smetterla con tutti questi monologhi! Scommetto che Liam si sveglierà con un gran mal di testa!”

Mi giro verso la porta sorridendo, perché ho già riconosciuto le voci: Louis ed Harry sono appoggiati contro lo stipite di legno, un bel sorriso luminoso, gli occhi asciutti, ma ancora gonfi di pianto.

“Ragazzi…” riesco solo a dire, prima che Louis mi raggiunga in pochi passi e mi coinvolga con le sue braccia forti in un abbraccio che ha il coraggio di parlare più di noi.

Non sono mai stato uomo di slanci, Liam, lo sai bene anche tu, soprattutto quando si parla di affetto io tendo a nascondermi, ad evitare i contatti. Le carezze mi intimidiscono, le strette mi sanno di claustrofobia, ho sempre temuto che i baci trovassero qualcosa al mio interno, nelle mie viscere e me lo rubassero senza che io potessi opporre resistenza. Mi sento a disagio perfino ora, quando a toccarmi è un amico, un fratello, un confidente, la mia testa grida già al fastidio, tuttavia il mio corpo non risponde, non accetta, non si muove.

La mia fronte improvvisamente cade sulle spalle immense di Louis ed io mi accorgo di aver aspettato quell’abbraccio da secoli, di averne avuto bisogno da sempre e che il mio corpo è un mappamondo di ferite che sanguinano e hanno bisogno di un po’ di tregua.

Mi volto verso Harry che ormai è seduto accanto a te sul letto e vorrei che tu lo vedessi, Liam, perché è davvero di una dolcezza infinita. Ti sta osservando coi suoi occhi da bambino in un misto di curiosità e pena, ti sfiora solo con la punta delle dita come potesse romperti da un momento all’altro e ogni tanto ti lascia un bacio che schiocca nell’aria, sui graffi e sui lividi, sul cuore coperto di garze e la bocca ancora spaccata a sangue.

Lo so che si sta trattenendo dal piangere, Liam, lo so perché lo sto facendo anche io.

“Dov’è Niall?” chiedo, più per distrarci, che per saperlo davvero.

Niall è più fragile di noi, ha bisogno di tempo.

“È a casa,non ti preoccupare. Non lo lasciamo mai da solo...” risponde Louis, staccandosi da me e indicandomi un borsone appoggiato alla porta. “Piuttosto ti abbiamo portato il cambio e qualcosa da fare… Hai già mangiato?”

“No, ma non fa nulla. L’infermiera mi lascia la cena quando ha l’ultimo turno.”

Louis si siede accanto ad Harry e gli accarezza i capelli, stringendoglieli possessivamente tra le mani. Mi da le spalle, ma dalla sua voce intuisco senza dubbio quella che deve essere la sua espressione facciale. Louis è così, è empatico, scherza tanto, ride troppo, ma a volte sembra che se li senta addosso gli stati d’animo delle altre persone.

“Devi uscire da questa stanza. Rischi di impazzire…”

“Sto bene così.”

“Vai a fumare una sigaretta, Zayn. Ci siamo noi a tenergli compagnia…”

Io sorrido, ma lo so che sta mentendo, Liam, so che le sue parole sono una bugia, perché ciò che Louis vorrebbe dire veramente in questo momento è: non aver paura, Zayn, ci siamo noi qui a impedire che Liam se ne scappi, siamo in due, lo teniamo fermo, non gli
permetteremo di volare via.

Ed io voglio credergli, Liam, ho bisogno di credere in qualcosa per una volta, perciò aspettami qui, ti prego, non andare da nessuna parte.

Non ti muovere, Liam, io torno subito.
 


L’aria fuori è fredda, punge sulle guance con la leggerezza assassina di una scatola piena di spilli.

Guardando distrattamente il mio riflesso sul vetro, il cuore mi si è fermato dalla sorpresa e dalla pena. Non sono io quell’uomo dalla barba incolta e gli occhi cerchiati di nero; non sono io quell’essere con le guance scavate e le ossa sporgenti come uno scheletro; quel mostro non sono io, Liam, eppure Dio solo sa quanto mi assomiglia.

Il fumo esce pigramente dalla mia bocca e va a coprire il riflesso del mio estraneo. Sono sempre stato un tipo attento all’aspetto, sono consapevole che il mio peggior difetto sia la vanità, ma te lo assicuro, te lo giuro proprio, che se qualcuno, un diavolo, mi chiedesse in questo momento di scambiare la mia cura e la mia giovinezza per la tua vita, io lo farei, lo farei senza alcun rimpianto.

Dalla a me la tua malattia, Liam, dallo a me il tuo male, io sono pronto.

La cenere scivola dalla mia sigaretta e muore affogata nei piccoli torrenti in strada, formati dalla pioggia. Hai sempre odiato l’idea che fumassi, chiamavi le mie Marlboro “chiodi di bara”, ma non me la sono dimenticata la volta in cui mi hai chiesto di provare.

Eravamo su un letto di suite in California, i tuoi occhi erano un’alba, anche se fuori era il tramonto. Mi stavi disteso addosso, caldo e nudo, il sole aranciato che ti colorava soltanto i polpacci.

Avevamo appena fatto l’amore, avevo il tuo profumo ovunque, anche in bocca.

Pensavo ti fossi addormentato, invece mi stavi osservando in silenzio, mentre davo un tiro lungo e lento alla mia Marlboro rossa: ti sei sollevato sulle braccia e col volto crucciato, ti sei arrampicato fino a me.

“Cosa c’è?” ti ho chiesto io, divertito dalla tua espressione concentrata. Tu non hai detto una parola, ma hai rubato la sigaretta dalle mie labbra e l’hai appoggiata alle tue.

Eri uno spettacolo, Liam, ancora adesso a quel tenue ricordo mi tremano i polsi. Più che stringerlo quel filtro ambrato, gli stavi dando un bacio, le tue dita lunghe tenevano la cartina con una delicatezza di vetro e le tue ciglia infinite stavano socchiuse come al principio di un sogno.

Hai fatto appena in tempo ad ingoiare il fumo, che già lo stavi sputando fuori.

Prevedibile: non avevi aspirato.

“Vieni qua…”

Mi sono seduto sul materasso in modo da averti più vicino, in braccio, ti ho tolto la sigaretta dalle mani e mentre facevo un tiro, ti ho preso il viso tra le dita.

Un bacio di fumo, ti ho aperto la bocca e te l’ho soffiato giù, fino ai polmoni.

I tuoi occhi nei miei facevano male.

“Ancora… voglio fumare ancora…”

Ed io ti ho accontentato, Liam, una, due, mille volte, finché la mia lingua non si è fatta gelosa del fumo ed è venuta incontro alla tua, cercando un contatto più autentico, al pari delle tue unghie che mi raschiavano la pelle e i nostri sessi che strusciavano bisognosi. Quando le tue labbra mi sono scivolate addosso, fino ad ingoiarmi, il mio cuore si è fermato un minuto, poi ha cominciato una corsa furiosa.

La Marlboro rossa si è spenta nel posa cenere, mentre i nostri gemiti si sono alzati sotto le lenzuola.

È incredibile quanto male possano farti i ricordi, Liam, più vado avanti, più mi rendo conto che sono le cose incorporee quelle che maggiormente uccidono. La felicità passata dovrebbe riempirmi il cuore, invece mi sfinisce, mi svuota.

Butto il mozzicone per strada e mi avvio sulle scale per tornare all’inferno. Sto per imboccare la porta della tua camera quando delle voci in coro giungono fino a me. Mi affaccio incuriosito e quello che vedo mi fa venir voglia di svegliarti, Liam, per condividere quello spettacolo insieme a te.

Louis ed Harry sono al tuo capezzale, seduti compostamente uno di fronte all’altro, tra loro soltanto un Ipod poggiato sul tuo busto fasciato, da cui partono come rami tre paia di cuffie, due per loro, uno per te. Le vostre mani sono intrecciate, strette, un cerchio in tutto simile a un girotondo se non fosse per quelle maledette lacrime che scendono imperterrite sui loro visi vivi e scenderebbero, ne sono certo, anche sul tuo, se fossi qui.

Cantano “How to save a life.”

La cantano per te, Liam, tentando invano di sorridere e modulando le parole lentamente come una preghiera.

Ascoltala, Liam, apri gli occhi e canta con loro, tu sei Daddy Direction, tu sei quello che si prende cura degli altri, che comincia tutte le
canzoni, che ci protegge e ci guida. Resta qui, ti prego, non te ne andare, solleva le palpebre e sorridi di tutto questo cieco affetto.

Svegliati, Liam.

Svegliati, Daddy Direction.

Svegliati e guarda quanto ti amano i tuoi figli.
 


Ragazzuoli, scusatemi per il ritardo tremendo, ma ho avuto alcuni impegni con l’università. Come avrete visto questo è un capitolo di passaggio, serve a viaggiare un po’ nella testa di Zayn, introdurre il personaggio di Mary Anne, marginale, ma lo stesso basilare per i sentimenti del nostro Malik (vedrete in seguito) e soprattutto per osservare le reazioni degli altri ragazzi e il loro affetto verso Liam! Nel prossimo capitolo avremo la formazione dei One Direction e le reazioni di Zayn e Liam, visto e considerato “l’inconveniente” del bacio.

Vorrei farvi a questo proposito una domanda: sapete per caso dirmi il giorno o il mese esatto in cui è avvenuta la loro formazione?


Vi ringrazio in anticipo e soprattutto vorrei dire “Ti amo!” ad ognuno di voi che mi fate venir ancora più voglia di scrivere e mi fate arrossire coi vostri complimenti! Tanto, ma proprio tanto amore <3

Alla prossima :) 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. ***


4.

I One Direction sono nati il 23 Luglio del 2010, alle 8 e 22 precise di una serata particolarmente uggiosa.

Mi sento uno stupido sentimentale a ricordarmi in questo modo assurdo giorno e minuti, ma sono dell’avviso che quando una cosa ha il potere di cambiarti l’esistenza in positivo, glielo devi almeno lo sforzo di imprimertela nella memoria.

Le speranze, io, le avevo già perse per strada, una ad una: il mio sogno sarebbe rimasto un sogno, ormai lo avevo accettato. Pensavo che il rifiuto dei giudici mi avrebbe ucciso, invece la mia mente e il mio cuore erano occupati da un solo pensiero.

Tu.

Tu e il tuo coraggio fatto di tremori e guance arrossate.

Tu e il tuo sorriso dolcissimo, collana di perle appena pescate dal mare.

Tu e la tua bocca morbida, lava calda che mi aveva gelato il sangue, nelle vene.

Da quella notte famosa ti avevo evitato in qualsiasi modo e in qualsiasi maniera. Per me eri un ago fastidioso, una malattia, un contagio, il solo vederti mi procurava un subbuglio di viscere, cercavo di coprirmi gli occhi, di non pensarci, ma il peso delle tue labbra, Liam, io ce l’avevo impresso addosso, sulla pelle, come un punto di sutura.

La notte chiudevo le palpebre e la prima cosa che mi trovavo innanzi era il tuo sorriso timido illuminato dal lampione; osservavo i ragazzi, i miei coetanei e d’un tratto i loro volti assumevano le tue sembianze, i tuoi lineamenti, i tuoi colori.

Non avevo mai visto gli uomini in maniera differente da possibili amici e questa pulce insana che mi avevi piantato nel cervello mi confondeva, ma più di tutto mi terrorizzava.

Il tuo gesto mi aveva sorpreso, sì, mi aveva scombussolato, ma mai quanto la mia reazione a lui: non lo avrei facilmente ammesso all’esterno quanto infondo tu fossi riuscito quella notte ad arrivare; che ti sognavo, ti pensavo e ti cercavo nel volto altrui, non lo avrei confessato a me stesso nemmeno sotto tortura.

Non poteva succedere a me, Liam.

Non doveva.

Io ero quello che la gente comune definiva “acciaio”, potevi colpirmi un milione di volta senza cambiarmi la forma. Io ero quello invincibile, quello che se ne fregava, quello che non conosceva le debolezze, perché non ne aveva avute mai nessuna. Io ero quello che al posto della pelle aveva il guscio, una corazza spessa e lucente contro la quale schiantarsi col solo risultato di perdere.

Ma tutte le corazze hanno un punto cieco, Liam. Io non lo sapevo, ma ognuna di esse tra le falde metalliche porta un frammento di luce, uno squarcio invisibile, insignificante, che se viene trafitto tuttavia distrugge il suo scheletro in mille piccoli pezzi.

Ti faccio i miei complimenti, Liam Payne, a te è bastato un solo colpo, per ridurmi in briciole.

“Niall Horan, Louis Tomlinson, Zayn Malik, Liam Payne ed Harry Styles con me, per favore!”

Il tuo nome nella stessa frase del mio, panico, aspettativa.

Salimmo su quel palco che eravamo bombe ad orologeria, ci stringemmo l’un l’altro per sentirci meno piccoli e spaesati, ma la paura era una scarica elettrica che correva lungo le vertebre, era adrenalina pura che ci faceva fremere e al contempo esaltare. In quel momento non eravamo altro che formiche di fronte alle scarpe di un bambino, il nostro destino, il nostro futuro, dipendevano dalle scelte capricciose di tre giudici disinteressati: fuggire era impossibile, sottrarsi non sarebbe stato dignitoso, potevamo solo star lì, immobili, con la speranza di non venire brutalmente schiacciati.

Mi voltai leggermente e mi resi conto, col cuore a mille, che tra di noi non vi erano poi che un paio di gambe.

Cercavo di concentrarmi su ciò che stavo per affrontare, ma le mie pupille, come la prima volta, venivano automaticamente calamitate verso di te. L’ansia per le parole dei giudici mi mangiava dentro, come un tarlo infame, ma la vertigine che mi faceva tremare i polsi era dovuta, lo so per certo, alla vicinanza estrema, ormai inusuale, che il caso aveva istaurato fra te e me.

Quando ci annunciarono la nascita dei One Direction, l’inizio del nostro sogno, i miei occhi sfuggenti avevano appena incontrato i tuoi e lo stomaco, chiuso in un pugno, aveva fatto una capriola.

Mi ero scordato cosa fosse perdermi in quel mare di cioccolato, rimanere intrappolato nei legni sbucciati dello sguardo tuo.

“Benvenuti ad X Factor, ragazzi!”

L’urlo di gloria attorno a me scoppiò come un vulcano. Alcuni si inginocchiarono, alcuni esultarono, alcuni addirittura piansero tutta la loro gioia.

Io avrei voluto alzare le mani al cielo, stringere l’aria nei pugni, buttarla fuori con la voce e ringraziare il destino per quell’opportunità unica che mi era stata regalata senza che la meritassi davvero.

Non mi reputavo una brava persona, Liam, non ero mai stato un santo, né un angelo: avevo ferito ed ero stato ferito a mio volta, sotto le ossa avevo un mucchio di errori e dietro le spalle portavo ancora le cicatrici pulsanti di peccati madornali che andrebbero solo taciuti.  

 Volevo muovermi ed infettarmi dell’entusiasmo degli altri, lasciare andare quel grido liberatorio che finalmente avrebbe reso quel sogno una realtà costante, eppure non riuscivo, non potevo, il mio respiro era bloccato in gola.

Tu eri lì che mi guardavi, ricambiando il mio sguardo incastrato tra i tuoi rovi. Eri un laccio emostatico che mi fermava il sangue e i pensieri, con te la vita frenava il suo corso, prendeva a scorrere a rallentatore, quasi ti dava l’illusione di poterla afferrare per la gola, rigirartela tra le mani e capirne il senso, studiarla nelle sue stranezze e nei suoi cambi d’umore.

Non lo compresi in quel momento, ma ne ebbi già il sentore.

Non potevo sfuggirti, Liam, non più.

Il destino non mi aveva fatto un regalo immeritato, anzi, al contrario. Mi aveva fregato, mi aveva imbrogliato, mi aveva infilato a tradimento un cappio al collo: da quel momento avrei potuto fuggire il più lontano e il più veloce possibile, ma sarei sempre stato orientato inevitabilmente verso di te.

Tu eri il mio futuro Liam, che io lo volessi o meno nell’arco di mezzo secondo, eri diventato la mia unica scelta.

E Dio solo sa, quanto questo mi facesse paura.

Scendemmo dal palco che ancora le gambe tremavano, gli altri chiamarono a casa, io scappai fuori con la Marlboro in mano. L’accesi rapidamente col mio accendino mezzo scarico, ma questo rotolò sulle mattonelle e poi giù dal balcone, quando improvvisamente ti ritrovai dietro di me.

Le tue guance arrossate. La tua voglia sul collo. La tua espressione caparbiamente intimorita.

Quanto mi eri mancato…

“Non ci siamo ancora presentati. Piacere, Liam Payne…”

Ricominciò a piovere.

La sigaretta mi scivolò dalle labbra e andò a raggiungere, in un rivolo di scintille, il mio accendino.

Volevi cancellare tutto. Volevi prendere il passato e renderlo un sogno inconsistente. Volevi ricominciare daccapo, far finta di niente, renderci di nuovo due estranei. Volevi prendere il mare in un secchiello e nascondere con l’acqua le nostre impronte vicine sulla sabbia.

Afferrai la tua mano e la strinsi nella mia.

Mi stavi dando la possibilità di dimenticare la mia vergogna, obliare tutto ciò che temevo, quei pensieri malati che mi facevano rigirare la notte, non cogliere quell’occasione mi sembrava una follia.

Ma ci illudevamo, Liam.

Ci raccontavamo un sacco di bugie.

La verità non sparisce se chiudi gli occhi e fai finta di non guardarla. La realtà delle cose è come la luce del giorno: puoi star lì a chiudere porte e inferriate, tapparelle e buchi, finestre e vetri, puoi bearti del buio se vuoi, goderti il momento e credere che la vita sia la notte, ma ciò non significa che oltre il tuo castello di carte incollate di menzogne, il sole non ci sia. 

Prima o poi i muri ammuffiranno, invecchiarono dentro, faranno crepe minuscole e quando non avrai più verità comode per coprirle tutte, sporco di luce, cadrai a terra, rendendoti conto, finalmente, di quanto il genere umano possa essere stupido.

Dicono che la verità sia tanto più dolorosa quanto più a lungo la si è celata.

Hanno ragione, Liam.

Alla fine, la nostra verità, mi ha distrutto.

“Piacere, Zayn Malik.”
 


Ragazze mie, che ritardo clamoroso! Non aggiorno da tempo immemore, ma come ho già detto in Knife, ho avuto problemi con Calliope e i suoi capricci da pagina bianca! Scrivere due fan fiction nello stesso periodo, oltrettutto, non è stata proprio una genialata, ma visto che non sono famosa per la mia scaltrezza, sono sicura che dopo Knife ci sarà un’altra Ziam che mi implorerà di essere scritta e mi prenderà del tempo.

Comunque, nuovo capitolo, la storia va avanti. Liam ha dato la possibilità a Zayn di far finta di niente, ma le cose sono destinate a precipitare, lo sappiamo io, voi e loro.

A proposito!! Vi informo che ho finalmente ideato il finale definitivo di What I haven’t said! Per arrivarci ci vorrà un pochino di tempo, ma se state gioendo è bene che vi avvisi che sarà un finale davvero, davvero inaspettato!

Vi ho messo curiosità? Eccellenteeeee!!

Per sapere a che punto sto con le storie o per chi volesse semplicemente saperne di più su cosa frulla nella mia testolina bacata, vi consiglio di seguirmi su
http://calliopaelle.tumblr.com/

Alla prossima bimbe <3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. ***


5.

Un embolo, stanotte, ha cercato di ucciderti.

Il tuo corpo si è irrigidito, il sangue ha visto deviato il suo corso e la macchina metallica a cui è attaccata la tua flebile vita, ha preso a suonare, d’improvviso, come se stesse chiedendo “aiuto” per te.

Lo sai cos’è un embolo, Liam?

A me lo hanno spiegato i medici, o meglio le infermiere, perché i primi sono troppo dubbiosi, troppo boriosi, non capiscono cosa ci leghi e il loro vizio di professione li porta naturalmente a diffidare di ciò che nella logica non trova un perché.

Per quei bastardi non ho diritto di sapere le tue condizioni, sono un estraneo qualunque, un passante tra tanti, anche se nella tua stanza ci passo il doppio del tempo e il tuo corpo, le tue cellule, io le conosco a memoria.

Un embolo, Liam, è una particella minuscola, una cosetta infinitesima, quasi invisibile, che se si viene a incastrare tra le tue arterie sottili, inceppa tutto il sistema, manda in tilt il corpo.

Ti rendi conto?

Io sono qui, ogni giorno, ogni notte, con l’illusione di proteggerti dal mondo e tenerti in vita, col desiderio di scorgere la Morte dal primo corridoio e nasconderti da lei nel mio esistere costante e poi quell’unghia mancata, quel frammento di niente, rischia di portarti via da me.

Ho paura, Liam.

Non ne ho mai avuta tanta in vita mia.

“Sei ancora qui.”

Mary Anne è affacciata alla porta e mi squadra coi suoi occhi di falco, da capo a piedi. In mano ha le tue garze e le tue coperte, la mia cena riposa su un vassoio sbeccato, mentre il suo camice è già aperto sul petto avvizzito, pronto per essere tolto e restituire la sua padrona alle mura domestiche di una qualche catapecchia in rovina.

La sua frase non era una domanda, me ne rendo conto, eppure “sempre” le rispondo, perché so che questa mia speranza disperata a lei risulta stupida, incomprensibile, quasi un puntare di piedi infantile per qualcosa che, in effetti, non dipende da me.

Tra di noi c’è una silenziosa lotta, Liam, ormai l’ho capito.

Lei è arida, cocciuta, disillusa, una lupa scarna che ha imparato a non credere nei miracoli, a diffidare delle bugie degli uomini, a vivere nel grigio limbo degli ignavi senza scelta. Il suo intento è quello di strapparmi la fiducia di dosso, rendermi un miserabile come lei ed io vorrei solo alzarmi da questa sedia, puntarla dritto negli occhi e dirle: Cara Mary Anne io sono già un miserabile; la mia unica salvezza, la mia vera speranza è quella lì che tu stai accudendo nel letto, quell’esserino che respira a fatica, che non riesce a muovere un dito, che è bello anche così, distrutto e spaccato, malato e inerme. Se muore lui, Mary Anne, io sono finito. Se lui smette di esistere in questo mondo, per me cadono tutti gli alberi e tutti le pareti e tutti i fiumi e tutti gli astri e tutte le stelle e tutto ciò che di bello, di brutto, di meraviglioso e di infame sia mai stato creato.

Mi dispiace Mary Anne ma io sono più lupo di te in questo momento, la mia umanità non è al di là delle mura di casa, si chiama Liam Payne ed è una bambola addormentata su di un letto, attaccata a un mucchio di tubi sottili.

“Mi dici la verità se ti faccio una domanda?”

La mia bocca emette suoni, ma è come se non fossi io realmente ad utilizzarla. Non capisco perché le ho rivolto la parola, perché le ho porto una richiesta di cui conosco la risposta a prescindere. Lei non si gira, mi dà le spalle e senza smettere un attimo di sistemarti le flebo, col suo silenzio pesante mi concede di continuare. Non comprendo quale sia la mia meta, non so nemmeno io dove voglio andare a parare, la mia voce modula da sola, incontrollabile.

Sto tremando, Liam, non me ne ero accorto.

“Lui sta morendo, non è vero? Sto parlando ad un cadavere…”

“Torneresti a casa o smetteresti di fare quello che fai, se ti dicessi di sì?”

“… Mai…”

Mary Anne scuote appena la testa e in un gesto istintivo, quasi materno, ti accarezza la pancia rilegata nelle garze pallide e ruvide. Per un attimo il suo sguardo si perde nel tuo volto, facendosi lontano, come alla disperata ricerca di un ricordo.

Siamo due naufraghi alla deriva.

“È debole, ci sono molti organi compromessi. L’impatto gli ha fatto perdere litri di sangue, le trasfusioni aiutano, ma non basta. La ferita all’addome non riesce a cicatrizzarsi, fa fatica, sintomo di una…”

“Non cerco un parere medico, Mary Anne, ne voglio uno umano.”

Lei si volta.

La corsia è silenziosa, personale e pazienti cercano la propria pace nel sonno, tra le ombre della notte ci siamo solo io e questa donna fatta di scorza, i nostri sguardi sbiaditi che si incontrano a metà strada come due nemici rispettosi. Rimaniamo così, a lungo, senza riposo, pupilla contro pupilla, paio di anime in tormento che contano le ferite l’un dell’altra, cercando un punto debole, non trovandone uno sano.

Dal nulla, d’un tratto, non interrompendo mai il contatto visivo, Mary Anne si porta una mano ai bottoni e dopo averli slacciati, sfilati dalle asole sfrangiate, corre con la mano lungo le spalle per lasciare che il camice ingrigito le scivoli lentamente lungo il corpo, fino in terra.

Eccola la carne sotto il velo.

Eccola la povera donna senza scudo.

Distoglie gli occhi dai miei in religioso silenzio e li porta nuovamente su di te, con una tenerezza e una misericordia sconosciute che mi stringono il petto. Alza le dita aride all’improvviso e ti accarezza la guancia con le nocche, appena appena, quasi non volesse romperti con un gesto inconsulto.

Sembra una madre, Liam, una madre in pena per il suo bambino.

“Non mi capita spesso di avere giovani in ospedale… almeno non in queste condizioni. La terapia intensiva puzza di morte, cosa che dovrebbe essere estranea a quelli come voi. Ti sembrerà singolare, ma i giovani in ospedale non rimangono mai troppo tempo, hanno fretta anche in questo: o se ne tornano a casa sulle proprie gambe, o finiscono in una tomba, trascinati su una barella. Non voglio dirti bugie, ragazzo, ne ho abbastanza delle verità ipocrite nella mia vita, ne avrai abbastanza anche tu, arrivato alla mia età: l’ultima volta che un giovane come il tuo amico è stato così a lungo in questa corsia, non ne è uscito vivo…”

Uno sparo in mezzo agli occhi, Liam, quello avrebbe fatto meno male.

Cerco di non morire.

“Chi era questo ragazzo, Mary Anne?”

Ti bacia la mano, le sue palpebre si stringono in una morsa dolorosa.

“Mio figlio…”

Ora capisco tante cose.

Mary Anne non è un lupo, Liam, è un licantropo, il suo pelo cresce solo quando ha indosso il camice protettivo. Sotto di esso non vi è altro che una cagnetta colpita, disillusa dalle sue stesse illusioni, una donnetta che sarebbe povera anche vestita di diamanti, perché le è stato strappato ciò che di più prezioso le avesse invero donato la vita.

Quanto dolore può contenere un essere umano, Liam?

Quanto le assomiglierò, se tu muori?

“In questo piccolo affranto d’inferno, ragazzo, io ho visto tante tragedie, quanti miracoli. Gente in fin di vita che ora corre per la maratona di New York, ma anche gente con la luce negli occhi che ora è pasto per vermi di terra. Non so cosa accadrà al tuo amico, questa è la realtà: i medici possono fare tutti i loro splendidi pronostici, lui è giovane, bello, forte, non si meriterebbe di morire, non sarebbe leale nei suoi confronti spezzargli la vita, ma né io né tu né loro abbiamo facoltà di decidere.”

Ti lascia la mano, ti accarezza un’ultima volta il mento, poi si riprende la corazza vuota e fa per andarsene.

Si ferma sulla soglia, mi guarda con occhi di brace.

“Non lo so se il tuo amico sopravvivrà, ragazzo, ma so dove rimarrà se andrà via.”
 
 


Allora, questo capitolo nasce da uno sfogo profondo per alcune situazioni che nell’ultimo periodo stanno interessando la mia vita. Delusioni su delusioni, rabbia su rabbia, veleno su veleno. È un capitolo un po’ di cazzo, voglio essere brutalmente sincera: non fa andare avanti la storia e sono più che altro chiacchiere, ma ci tengo lo stesso moltissimo, in quanto Mary Anne è e sarà un personaggio molto importante al fine della storia, ma soprattutto del finale.

Ringrazio come al solito tutte le persone meravigliose che mi seguono e mi sostengono, vi avviso che non so ancora cosa farò perché vorrei tanto togliermi Knife di mezzo, ma l’ispirazione mi porta sempre qui.

Vedremo, vedremo, vedremo…

Un bacio a tutte voi e alla prossima ;)
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. ***


Capitolo 6.

Ho sognato il palco di X Factor questa notte, tra un dormiveglia e l’altro ho aperto gli occhi e mi sono ritrovato lì con te. Eravamo a pochi passi di distanza, un soffio e le nostre pelli sarebbero venute a collidere, gli sguardi lucidi si incontravano con casualità calcolata e tu cantavi Viva La Vida con una voce grezza e melodiosa, ancora un po’ grattata dall’adolescenza, ma sempre così calda e accogliente da far venire i brividi.

Eri vivo.

Eri splendente.

Eri tu.

Non ci crederai, Liam, ma io il periodo di X Factor me lo ricordo come uno dei più complicati della mia vita, fatto di giorni felici e notti avvilenti, passate a scacciare la voglia tacita che avevo di te.

Fin da quando ero bambino, la musica aveva sempre ricoperto una parte importante nella mia esistenza: le note erano le parole che mi soffocavo dentro, dicevano quello che io vigliaccamente cercavo di nascondere e mi facevano scoprire parti di me che non conoscevo, che cercavo di occultare allo specchio come i lividi di uno stupro indelebile.

Essere catapultati in quel mondo colorato e scintillante fatto di palchi, luci e fans accanite, era un paradiso terreno, uno di quei sogni magnificamente fragili di cui hai la costante paura di allontanarti sollevando le palpebre appena, ma… ciò che davvero riempiva il mio cuore di gioia, per la prima volta, era la speranza di avere la possibilità di trasformare la musica, il mio unico conforto, in un lavoro stabile, nel pane quotidiano che mi avrebbe dato da vivere.

L’idea di un gruppo all’inizio, non mi aveva particolarmente entusiasmato.

Non ero persona da branco, Liam, io ero abituato a vedermela da solo, c’era così tanto contro cui lottare dentro di me, che avere a che fare coi miei simili, con le imperfezioni e i problemi degli altri, mi spaventava a morte.

Trovavo Louis troppo caotico, Niall troppo timido, Harry troppo sfacciato e tu… tu eri il mio chiodo fisso, il mio coltello e la mia malattia.

Ben presto con gli altri divenne facile convivere, giorno dopo giorno scoprii in loro dei compagni validi. Capii che ero stato uno sciocco a fermarmi alle apparenze, soprattutto a chiudermi nel mio muro invalicabile di sguardi sospettosi e pensieri criptici: Louis nascondeva nell’euforia, una maturità incredibile, la capacità di penetrare negli altri e prendersi cura di loro; Niall era buono come il pane, così affettuoso e attento anche verso chi non lo meritava, da portarmi a chiedere molto spesso se fosse nato davvero nel mio stesso mondo indegno e se non fosse invece caduto dal cielo per sbaglio, per un regalo distratto di Dio ai bisognosi; Harry aveva il dono della verità nel sangue, il potere di essere brutalmente sincero, sempre, con se stesso e con gli altri: un potere che l’uomo aveva confuso da tempo nelle bugie e nelle apparenze e un coraggio che io avevo perduto con gli anni.

Affezionarmi a loro fu incredibilmente semplice, quasi naturale, non mi accorsi neanche di diventare parte di un insieme, da bravo lupo cercavo la solitudine, il silenzio, ma quelli non me la lasciavano vinta, mi trascinavano nel loro entusiasmo come un fiume coi detriti. Mi volevano ugualmente, anche se io combattevo contro di loro.

Sai Liam, ho sempre pensato che forse, dopotutto, io mi illudevo soltanto di arginarli.

La realtà era che io bramavo, inconsciamente, di diventare parte di qualcosa: una retta si guarda nel suo complesso, i punti che la formano si annullano ed escono fuori di sé.

“Il tuo tatuaggio… è molto bello…”

Ho sollevato lo sguardo. Eravamo nel camerino pronti per esibirci, io avevo tolto la maglietta e tu eri di fronte a me, rosso in viso, le labbra torturate dai denti e gli occhi già in difetto di coraggio, già più lucidi, meno arditi.

Eri bellissimo.

Eri bellissimo nella tua timidezza, nella tua imperfezione, nei piedi che ballavano di imbarazzo come quelli dei bambini e nei tuoi pugnetti stretti, un po’ arrossati, lungo le ginocchia.

Sarei rimasto a guardarti per ore, avrei voluto spaccare il tempo in mille pezzi e ripetere quel momento per secoli in eco, ma il mio sguardo sul tuo viso bruciava gli organi, prendeva il sangue e lo buttava in circolo all’indietro.

Era la prima volta che ci rivolgevamo direttamente la parola, Liam. Giocavamo a fare gli estranei di solito, ci scrutavamo di nascosto come vittima e carnefice, cercavamo di evitarci il più possibile perché la vicinanza, a lungo andare, ci dava le vertigini.

Quanto dovevi aver penato prima di arrivare ad alzare la voce.

Quanto dovevi aver penato prima di riuscire a guardarmi negli occhi.

“Quale dici?” ti ho chiesto io un po’ troppo perentorio, con la fretta di liberarmi dalla tua ghigliottina.

Volevo che qualcuno ci interrompesse e mi salvasse. Volevo che qualcuno ti rubasse e mi impedisse di mangiarti la bocca, ma ero un povero illuso, Liam, nel tuo piccolo, nei tuoi occhi di miele tu mi avevi già condannato.

Con passo malfermo, fissandoti i piedi come potessero tradirti da un momento all’altro, all’improvviso sei avanzato verso di me a rallenti, quasi ti costasse una fatica immane e mi hai tolto il respiro tutto, perché ti sei ritrovato accanto a me tremante come non eri mai stato, caldo e timido come ti avevo visto una volta sola, qualche tempo prima.

Hai alzato il braccio lentamente, ogni centimetro una conquista meravigliosa.

Il tuo dito si è librato nell’aria, coraggioso tra le mani e si avvicinato pericolosamente a me.

Lo hai appoggiato alla mia pelle, al mio torace, pochi centimetri dal cuore in cancrena.

Mi sono sentito morire, mi hai massacrato con la forza di un’unghia.

“È arabo, non è vero? Cosa dice?”

“È un nome… quello di mio nonno…”

“Come si chiamava?”

Ho immerso gli occhi nei tuoi e non sono più riuscito a rispondere.

Il tempo intorno a me passava rapido, lo sentivo vorticare forte, velocissimo, eppure non avevo la forza di muovere un dito, di fermarlo e riprenderlo tra le mani.

Tutto è sempre iniziato e finito con te, Liam, la tua bocca è sempre stata l’ombelico del mio universo, ci sarebbero voluti anni per riconoscerlo, secoli per ammetterlo a me stesso ad alta voce, ma il mio corpo ne aveva già il sentore, ti venerava già come suo Dio in modo del tutto istintivo e naturale.

D’un tratto la porta si è aperta di scatto ed Harry e Louis sono entrati nella stanza, ridendo. Tu hai tolto il dito come scottato ed io sono fuggito quasi correndo, ancora a petto nudo, con la bruciatura delle tue impronte fissata a livido sulla cute.

Sono arrivato in bagno e ho buttato la testa sotto il getto d’acqua gelido, ho cercato nelle tasche il pacchetto di Marlboro e ne ho fumate a ripetizione, almeno cento, sperando che il tabacco mi occludesse i vasi sanguigni e non permettesse a quelle sensazioni agrodolci, ammatassate, di arrivare al cervello, confondermi e farmi cadere di nuovo.

Fu inutile, una perdita di tempo.

La notte, stretto nel mio letto, avevo in bocca il tuo sapore, negli occhi la tua meraviglia e le mani strette intorno allo stomaco chiuso in una morsa.

Tutto quello che avevo cercato di obliare sei mesi prima era tornato a travolgermi con la potenza di un’eruzione vulcanica. I ricordi mi avevano dato solo l’illusione della tregua, Liam, in realtà si erano nascosti dietro al pancreas, tra le vertebre e le terminazioni nervose, in attesa che io abbassassi la guardia in modo da colpirmi meglio, con più precisione.

La cena. La tua bocca sul bicchiere. Il tuo calore sulla gamba. Il lampione. La tua voce. Londra. Il viaggio. La colazione. Il bacio. Le sigarette. Di nuovo il bacio. Che si ripeteva all’infinito. Ovunque. Sempre. Senza speranza.

C’era tutto, Liam, all’appello del mio cuore non mancava proprio niente.

Mi alzai dal letto in un bagno di sudore e in mutande mi avviai verso la cucina.

Avevo bisogno di una birra, magari di una vodka forte che mi annebbiasse e cancellasse quei pensieri tortuosi.

Uscii dalla mia stanza nel grande corridoio, tutto era buio e silenzioso, ero io l’unico figlio della notte che disobbediva alle sue leggi quiete. Mi guardai intorno distrattamente, come a riflettere sul da farsi, poi i miei piedi si mossero da soli, in autonomia.

Con mia stessa sorpresa, io, in cucina, non arrivai mai.

Le mie gambe tradirono il cervello, si affidarono al cuore in un ammutinamento silenzioso e seguirono i suoi ordini sconosciuti, trascinando con loro tutto il resto del mio corpo, egoiste fino all’ultimo nella loro coraggiosa iniziativa.

Arrivai dinanzi alla porta socchiusa della tua stanza, la ragione diceva di fermarmi e tornare indietro al porto sicuro che era la mia meta iniziale, ma il mio essere tutto oramai aveva smesso di ascoltare.

Ho appoggiato le dita alla superficie liscia e l’ho spinta lontano.

Non mi sono nemmeno guardato intorno, sono scivolato nel buio della camera lentamente, ma senza esitazione, uno spicchio di luna mi colorava le gambe e i piedi immersi nella moquette polverosa, mentre le figure dei mobili andavano delineandosi piano piano.

Tu sei apparso in quello scenario onirico quasi per caso, un fiore nell’asfalto coperto di rugiada e fuliggine.

Il piumone ti mangiava le gambe, soffice come una nuvola paffuta, il tuo petto ondeggiava al ritmo del respiro regolato dal sonno e i capelli lunghi ti ricadevano un po’ sul viso, dispettosi, lasciando scoperta la linea del collo elegante e teso.

Non stavi fermo un attimo.

Ti agitavi nell’incoscienza peggio di un puledro: la tranquillità che ti accompagnava di giorno, ti imbrogliava di notte, abbandonanti in balia delle ombre cattive e voraci.

Eri uno spettacolo straordinario.

Non riuscivo a toglierti gli occhi di dosso, la tua bocca schiusa invitava baci, la tua pelle morbida istigava denti e unghie, in pochi secondi si annidò in me la fredda consapevolezza del desiderio, il mio corpo si tese come quello di una bestia pronta all’attacco.

Desiderai di morderti la giugulare a sangue, infilarmi tra le tue cosce e abusare del tuo cesto di ossa fino allo spasmo, tirarti i capelli, divorarti la bocca, fartela pagare perché mi stavi annientando, mi stavi strappando di dosso la mia facciata perfetta e mi stavi facendo scoprire l’uomo meschino che in realtà ero.

Crollai sulla poltrona accanto al tuo letto, afferrandone saldamente i braccioli.

Non mi fidavo più di me stesso, Liam.

Solo ti guardavo e già ti mancavo di rispetto col pensiero.

Ti odiavo.

Ti odiavo perché ti avevo amato fin dal primo momento e non volevo.

Ti odiavo perché avevo male al petto, alle mani, ma non riuscivo ad andarmene da lì, a trovare la forza di alzarmi e chiudere gli occhi.

Rimasi a guardarti tutta la notte.

E anche quelle successive.

Non ti sei mai svegliato. Non lo hai mai scoperto.

Sei stata la vittima di cento pensieri impuri, milioni di fantasie perverse e sporche, ma hai continuato a sorridermi, innocente, purissimo, ignaro.

Una volta sola, la sera prima della finale, la paura che quella sarebbe stata l’ultima notte per noi, mi ha spinto ad avvicinarmi più del consentito, forzando le regole e rischiando la vita.

Sono avanzato verso il tuo letto lentamente, la pioggia intensa che avvolgeva i miei passi di ladro, il buio più totale che mi nascondeva agli sguardi, complice una luna assente.

Ho sollevato il braccio, mi sono avvicinato pericolosamente al tuo viso e ti ho coperto gli occhi con la mano, fortissimo, neanche volessi romperti le ossa del cranio con la mia morsa.

Ti ho sentito trattenere il respiro. Abbandonare l’incoscienza e ritornare alla vita vigile. Ti sei agitato appena, il fiato rotto, hai sollevato i polsi per liberarti da quella presa soffocante, ma sono rimasti a mezz’aria, a pochi centimetri dal mio viso, quando io ti ho zittito, sfuggendo alla tua presa e colmando quella distanza invitante con un bacio.

Ho spinto le labbra sulle tue.

Le ho pigiate a forza come se volessi farti del male e la mia mano all’improvviso è scivolata sul tuo petto nudo, ancorandosi alla tua pancia e graffiandola appena pur di frenarsi nella sua voglia deviata.

Quando tu hai liberato un lamento, io mi sono ricordato chi fossi e spaventato, sono corso in camera mia.

Sono entrato in bagno.

Ho chiuso la porta a chiave.

Non ho acceso la luce.

Quella fu la prima volta che mi masturbai pensando a te.
 


Salve miei piccoli bimbi! Zia Fiby è tornata nonostante l’ispirazioni ogni tanto le giochi brutti scherzi. Stavo lì carina e coccolosa a scrivere Knife e poi ecco qui il tanto atteso capitolo di What.

Che dire? Questo lo considero un pezzo importantissimo della storia: Zayn comincia ad accettare, seppur lentamente e non di buon grado, i suoi sentimenti verso Liam. Si sta rendendo conto finalmente dell’attrazione che lo lega al ragazzo e nonostante cerchi di scappare in tutti i modi da se stesso, sta cedendo un po’ alla volta.

Spero che vi sia piaciuto e soprattutto che fili liscio perché l’ho riletto poco e non sono del tutto sicura di alcune parti.

Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. ***


7.


Gli ospedali sono un limbo terreno, Liam, una sala d’attesa infinita, piastrellata di preghiere che di essere ascoltate, non hanno alcuna possibilità. Puzzano di medicinali e minestra, cantano il sangue che fluisce o che cola, di notte hanno il sapore furtivo di una donna struccata, un passo nel buio, un sussurro nel nulla.

È singolare.

Sono qui da tre settimane, piccolo mio, ventuno lunghissimi giorni, eppure, tolta la tua cameretta ingiallita, le balconate di vento disseminate della mia disperazione, non avevo mai trovato il coraggio di avventurarmi tra i corridoi silenziosi del Cassie Hospital.

Una strana paura mi coglieva, un ambiguo rammarico.

E ora che sono qui nella mensa, seduto a un tavolo sbilenco col cappuccio tirato fino all’orlo estremo della testa, capisco perfettamente perché.

Intorno a me c’è tanta gente, Liam. Ogni cucchiaio ha una mano che lo stringe, ogni seggiola un corpo caldo che la tiene occupata, ogni bicchiere ha un respiro condensato sul bordo di vetro, tuttavia di esseri umani pensati e sensibili, io osservo, osservo, ma non ne trovo neanche l’ombra.  

Sono manichini.

Sono gusci di plastica che sopravvivono in quel perenne confine tra la vita e la morte, avanzano a testa bassa come bestie in un recinto elettrificato, qualche volta tremano, sussultano come se l’avessero toccato davvero quel maledetto filo spinato, ma subito ritornano nella loro incoscienza, in quell’inerzia pericolosa che non uccide, ma logora impietosamente il sistema nervoso.

Mi guardo intorno. Noto alla mia destra un surfista col sole ancora intrappolato nei capelli, i suoi occhi sono mare d’inverno, tavola colorata tradita da un’onda impossibile. Poco più avanti c’è un uomo d’affari, di quelli composti, sai, eleganti, di quelli che riescono nel proprio lavoro perché non conoscono moralità, sono un po’ degli squali. Me lo immagino seduto nel suo studio scintillante col sigaro in bocca, una segretaria accovacciata sulla patta dei suoi pantaloni, il mondo fuori che trema a un minimo sguardo di lui.

I suoi sudditi dovrebbero vederlo adesso: sembra il cadavere di un pesciolino a galla in un acquario.

Nella bocca tesa ha il piglio della superbia, nell’orologio costoso, l’intelaiatura arida del denaro, nelle iridi la beffarda sconfitta della vita, che non si fa comprare e ride, puttana, sfuggendo dalle mani.

Osservo d’istinto il mio riflesso sul vetro sporco del bicchiere.

Il mio viso è distorto in un mostro senza senso, i miei occhi sono macchie di buio, grandi quanto una spilla.

Dovrei avere paura di quell’obbrobrio insensato.

Dovrei temere quella immagine di me distorta, imbestialita, imbruttita.

Eppure sento di non essermi mai guardato in uno specchio con altrettanta chiarezza.

Quanta importanza diamo al dolore del corpo, Liam?

Un osso spezzato, una lama nella carne e subito il mondo si mette a strillare. Un medico arriva, si affanna, benda, cuce, strappa, finché del male che c’era prima, non rimane soltanto che un tenue ricordo, facile da sopprimere come una mosca.

Ma chi si cura dell’anima umana, me lo dici piccolo mio?

Di un cuore graffiato, un sentimento reciso, un occhio che piange senza versare lacrime, dimmi Liam, chi se ne occupa, chi li medica, chi ne ha riguardo?

Una cicatrice sulla pelle è solo un ricordo corporeo di un dolore che fu, si copre con una manica lunga, un trucco marcato.

Una cicatrice sul cuore è un pugnale conficcato tra le scapole, una ferita infetta. Puoi conviverci, puoi far finta di nulla, ma basta una scossa, un soffio d’aria immobile, per farla di nuovo sanguinare.

“Tu sei Zayn Malik?”

Sussulto.

La voce che mi ha chiamato sale così nitida in quel covo di moribondi, che mi servono alcuni minuti per riprendermi e rendermi conto dell’esistenza che è ripresa a camminare.

Sentire il mio nome pronunciato nel limbo, mi ha messo i brividi: non pensavo di averne ancora uno, credevo di essere diventato anch’io un cadavere senza volto ammatassato tra gli altri.

“Sì.” rispondo e finalmente osservo l’interlocutore che mi ha salvato da quel vortice di pensieri infelici.

Innanzi a me ho una ragazzina, i capelli rossi fin oltre le spalle, gli occhi neri profondi come due bottoni. Ha l’adolescenza intrappolata nei vestiti sdruciti, nelle spalle un po’ troppo curve e nelle gambe sottili come le braccia degli alberi.

Sembra un miracolo che si tenga in piedi, una gloriosa conquista che non si spezzi così, da un momento all’altro.

Indietreggia, si vergogna del mio sguardo indagatore.

“Posso aiutarti?” provo a dirle, per toglierla dall’imbarazzo, farle recuperare un po’ di quell’impeto incosciente che l’aveva condotta fino a me.

Sorride, ma dentro al suo sorriso ci trovo sofferenza e paura della mia misericordia.

La pietà è un sentimento, orribile Liam, ti auguro di non subirlo mai.

Ti fa sentire braccato e trasparente, un libro aperto nella quale ognuno può leggere le tue ferite.

“Volevo dirti che si sveglierà. Si sveglierà Liam, Zayn. Io ne sono sicura.”

No. No. No.

Ti prego.

Non farmi questo, ragazzina.

Non sporcarmi della tua speranza.

“Perché nei sei così certa?”

Si illumina, i bottoni che diventano spille di madreperla.

“Da quando ho saputo che era in ospedale, ho pregato ogni giorno, un po’ per la mamma, un po’ per lui. Ho pensato che Dio dovesse saperlo, dovesse conoscere la loro situazione, in modo da averli a cuore, da poterli salvare… e ieri sera mia madre finalmente si è svegliata! Ha aperto gli occhi! Dopo un coma di sei mesi! Il prossimo è Liam, Zayn. Dio lo aiuterà…”

Accuso il colpo.

Copro la fronte con la mano.

Non voglio che mi veda sull’orlo delle lacrime.

“Come ti chiami?”

“Natalie.”

“Mi dispiace, Natalie, ma tua madre si è svegliata grazie alle cure dei dottori. Dio non esiste.”

Tra di noi scende uno strano silenzio.

Alzo lo sguardo incuriosito e trovo un sorriso ad attendermi, di quelli che fanno paura.

Natalie scuota appena la testa, è lei ora ad avere misericordia di me.

“Certo che esiste, Zayn Malik. Per quale altra ragione, tu dovresti essere qui…”

 

Ho fumato tre sigarette, prima di trovare la forza di ritornare nella tua camera.

Le parole di quella ragazzina ancora mi tuonano insistentemente nel cervello, ma il loro significato, credimi, non l’ho trovato.

Avrei potuto fermarla, ne sono consapevole, avrei potuto prenderla per quei polsi fragilissimi e costringerla a spiegare il suo arcano, eppure mi è bastato uno sguardo per capire che non sarebbe servito a nulla, che il suo piccolo segreto da vergine cristiana, lei, non lo avrebbe mai svelato.

I miei passi malfermi risuonano tra le mattonelle della corsia.

Qualche infermiera si volta a scrutarmi, io ne vedo solo i piedi. Ho il capo chino, le spalle basse, le mani ficcate nelle tasche sfondate dei jeans scuciti.  

Le mie orecchie raccolgono sussurri, gente senza volto mi urta, più volte, si arrabbia, mi insulta, ha ragione, non guardo dove vado, non posso, non ne ho la forza.

Ho troppa paura di porre l’attenzione sul mondo circostante, Liam, mi dispiace.

Cosa succederebbe se in una di quelle barelle coperte, io dovessi riconoscere la tua sagoma?

Cosa succederebbe se in una di quelle pupille smorte, io dovessi ritrovare i tuoi occhi belli, ora vuoti di vita?

Cosa succederebbe se in uno di quegli arti pendenti, slegati dal corpo come quelli di un burattino, io dovessi distinguere il tuo tocco, la mano nella quale mi sono sempre rifugiato? 

Vedo la tua porta poco lontano.

Tra poco sarò al sicuro, affretto il passo in un moto di panico da ultimo minuto.

Non faccio caso alla voce estranea che proviene da dentro, forse avrei dovuto perché quando sono sulla soglia, il mio cuore salta per la figura alta che non mi aspetto di trovarti al fianco.

I capelli biondi le ricadono mollemente sopra le orecchie, il suo corpo è teso come al principio di un assalto, ma la testa è inclinata, addolcita, quasi il collo fosse stanco di reggere diritti i pensieri.

Non credevo sarebbe venuto così presto.  Devi capirlo, il suo cuore è fragile, Liam, ha bisogno di più tempo per trovare il coraggio di rimettersi in piedi.

“Niall…”

Si gira.

La sua bocca di ciliegia si scioglie in un sorriso e il suo volto tutto lo accompagna, accartocciandosi in tante piccole rughe. Si sta sforzando, Liam, lo sento, lo vedo dagli occhi, due vagabondi sorpresi da un acquazzone, due soldati reduci di una guerra combattuta nel pianto.

Mi avvicino, lui non si muove, ha le mani annodate in un groviglio difficile insieme a quei lacci immobili che sono le dita tue. Lo cingo da dietro, per non disturbare il vostro drammatico abbraccio e lui poggia la testa stanca sul mio collo, mi bacia una guancia come un santo la fronte di un bisognoso.

Schiude appena le labbra.

Trema.

Non è sicuro di ricordarsi come si fa a parlare.

“Lo sapevo che saresti tornato…”

“Cosa?”

“Ho chiesto all’infermiera dov’eri, lei mi ha risposto che finalmente dovevi essere scappato… non le ho creduto, non le ho creduto neanche per un minuto…”

Lo sento ridere contro il collo.

La voce traballa sull’accento irlandese.

“Tu non puoi scappare da Liam, Zayn. Non potresti neanche volendo…”

Lo stringo più forte, ho bisogno di aggrapparmi a lui perché sto cadendo in un burrone pericoloso.

La mia mente rotola giù tra ricordi violenti come uno schiaffo, quelle notti d’autunno dove le tue dita si posavano sul mio sterno e il mio cuore si posava sul tuo palmo, quei crepuscoli troppo rapidi in cui i tuoi occhi di sonno, di sesso, belli da fare gelose le stelle, mi legavano a loro con catene che sembravano tenaglie, corde che pungevano, ma erano meravigliose.

Oh io lo sapevo di non poter fuggire, Liam, l’ho sempre saputo e forse per questo, come un cane al guinzaglio, ho sprecato il mio tempo ad odiarti, insultarti, a cercare nel mondo una via d’uscita.

A quanto pare i miei tentativi non sono stati che goffi tumulti: Niall cerca il mio sguardo, tenta invano di indirizzarmi il volto con una carezza lievissima, eppure per la prima volta non ce la faccio, mi sembra che riesca a leggermi nel pensiero senza che io possa difendermi.

È così palese il bisogno che ho di te, Liam?

Davvero mi si legge negli occhi tutto lo sgomento che mi provochi nel cuore?

“Da cosa lo hai capito?” chiedo, insicuro di voler sentire la risposta.

Niall prende ad accarezzarti il viso, l’espressione serenamente pensosa di chi sta raccontando una formula chimica, un teorema.

“È il modo in cui lo guardi…” dice “Tu forse non te ne accorgi, ma è unico al mondo, alle volte è talmente intenso che noi altri ci sentiamo inadeguati. Hai presente quando uno è costretto alla cecità per un lungo periodo di tempo? Tanto lungo che finisce per dimenticarsi le sfumature di tutti i colori? Ecco, Zayn, tu guardi Liam proprio così, come un cieco cui tolgono le bende e può di nuovo ammirare i raggi del sole: la luce brucia all’inizio, sembra che ti ustioni la retina, ma è uno spettacolo così bello quella palla infuocata che se anche dovesse far male da morire, tu non potresti smettere di adorarla.”

Mi stringe la mano, le sue unghie penetrano nella pelle tesa delle nocche.

Non riesco a parlare, il fiato resta chiuso in gola, uscendo in profondi singhiozzi che sembrano riempire della loro monotonia tutta la stanza.

D’un tratto, Liam, mi pare che la grandezza dei miei sentimenti verso il tuo essere spaccato, il peso assassino della tua assenza, mi stiano investendo con la potenza di un treno, sfracellandomi le ossa.

Non sono sicuro di riuscire ad andare avanti, afferro Niall più forte che posso, ficco la testa nell’incavo pallido del suo collo e gli arpiono la pancia, accorgendomi, solo in quel momento, di stare stringendo un telaio di carne fin troppo tesa.

Accarezzo quei fianchi ossuti che non riconosco, brandisco tra le dita un polso sottile, da bambino povero.

Sospiro, l’evidenza è orribile.

“Da quanto tempo non mangi, Niall?”

Il suo corpo resta immobile, è solo il mento a crollare verso lo sterno.

“Da un po’...”

“Allora vedi di smetterla. C’è già Liam in ospedale, non serve che…”

“Ho smesso… ho già smesso, non ti preoccupare…”

Ride. Una sfilza tristissima di denti irregolari.

“Volevo solo sapere cosa si prova… volevo solo sapere quanto fa male…”

“Che cosa?”

“La mancanza di qualcosa di cui hai follemente bisogno…”

Una lacrima si addensa sulle sue pupille di cielo, altre ancora la raggiungono, finché le palpebre non diventano un acquario troppo pieno che cola silenzioso e inesorabile.

Ti prego, Liam. Ti prego svegliati, culla Niall nel tuo abbraccio, rassicuralo, digli che andrà tutto bene, fallo tu perché io non ce la faccio. Tu sei suo padre, tu sei la roccia, io sono una clessidra rotta che perde frantumi, non è la mia forza a tenerci in piedi in questo momento, ma la speranza stupida che tu apra gli occhi e ci sorrida.

“Non dovrebbe andare così…”  balbetta tra le lacrime “Le persone come Liam non dovrebbero morire su un letto d’ospedale, non dovrebbe essere concesso loro di andarsene in questa maniera! Perché nessuno si ribella, Zayn! Perché nessuno si arrabbia! Perché il mondo non si ferma! Perché ci sono pedofili, assassini che camminano per la strada e lui è qui, in bilico tra la vita e la morte! Chi lo ha deciso? Chi lo ha scritto? Chi lo ha permesso?”

Gli tappo la bocca col palmo della mano, lui continua ad urlarci dentro, le lacrime scendono a secchiate, si agita ed io lo volto faccia a faccia, circondando con le braccia quel piccolo maremoto.

Niall si aggrappa alle mie scapole, poi alla mia maglietta, piange sul mio petto squarciato dalle sue parole, lo tengo stretto, ma non mi muovo, sono immobile come una statua.

So che basterebbe un solo dito, una sola goccia di sangue in circolo, per potermi sbriciolare.

Rimaniamo così, due detriti peregrini nella tempesta, finché il sole non cade oltre la linea del globo.  Sulla poltrona dove l’ho tenuto in braccio fino a quel momento, Niall stira i muscoli e scrosta dal viso paonazzo quelle dispettose lacrime trasparenti che gli si sono seccate all’angolo delle palpebre.

È tardi, dice che deve andare via, dopo tutta quella baraonda di disperazione, il nostro saluto è silenzioso, un tacito accordo a resistere nonostante le ferite che colano.

Vedo le sue spalle curve allontanarsi, ti si ferma accanto giusto un attimo, rivolgendoti un ultimo sorriso lungo e triste, da bambino cresciuto. È mentre ti bacia la bocca che un pensiero amarissimo sembra coglierlo dietro le spalle.

“Sai, Zayn, ieri il management mi ha fatto una richiesta proprio strana… Mi ha pregato di venire qui, guardarti negli occhi e spiegarti che i giornali sanno essere davvero poco carini quando c’è di mezzo uno scandalo. Il fatto è che loro parlano, non capiscono, traggono conclusioni, si stanno insospettendo perché va bene essere molto amici, va bene essere come fratelli acquisiti, ma… la tua veglia costante… la tua devozione… vanno molto aldilà del consentito. Mi ha chiesto di farti ragionare, di ricordarti quali sono le priorità e soprattutto che un bacetto non vale una carriera milionaria. Mi ha ordinato di riportarti a casa…”

“E tu cosa hai risposto, Niall?”

Mi guarda.

Le sue iridi sono cielo terso, innocenza d’estate.

“Che tu sei già a casa…”
 


Scritto su un aereo, questo capitolo viene dopo giorni e giorni di buio totale. Spero che sia di vostro gradimento, che lo troviate scorrevole e soprattutto che il dialogo tra Zayn e Niall e Zayn e Natalie abbia su di voi l’effetto sperato, visto che ne ho buttate giù circa diecimila versioni differenti senza successo :P

Vi consiglio di leggere molto attentamente perché tra le frasi sono disseminati degli indizi importantissimi! ;)

Alla prossima  <3
 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. ***


Ad Aleck, Ilaria, Clara, Boo
Gloria, Gaia, Giorgia, Elena, Chantal, Jordi
E a tutti coloro che mi hanno “minacciato”, coccolato
Ma non hanno mai perso le speranze.

 
 


8.

Ho rovistato nel borsone che mi aveva portato Louis, questa mattina.

Ho lasciato che le mie mani vagassero tra camice e calzini; ho permesso che un dito si ferisse accidentalmente, colpendo di striscio un pezzo di carta; in un moto di rabbia ho rovesciato tutto, una pioggia di stoffe versata sul pavimento, in quel disordine asettico ho sfogato la rabbia che mi tuonava nel petto e solo in un secondo momento, quando la pace mi è tornata nel cuore, ho trovato la forza di rialzarmi.

Con calma asfissiante ho raccolto un coccio dopo l’altro, ho trascorso un’ora, forse due, a riporre i nostri panni, in ordine maniacale, tra i ripiani e la borsa.

Non chiedermi perché l’ho fatto, Liam, non saprei rispondere, non lo so neppure io cosa dico e cosa faccio con questo involucro di ossa e pelle che muovo a fatica.

Forse mi illudo ancora che aver cura degli oggetti, ricollegare tutti i pezzi, possa lenire anche questo mio dolore che bolle e cuoce al centro della pancia.

Forse mi illudo che se metto a posto il mondo, lo ordino e lo riequilibrio, a te viene voglia di viverci di nuovo, apri gli occhi e facciamo l’amore finché la morte non ci coglie entrambi.

Ti vengo vicino, ti prendo la mano e bacio i tuoi polsi viola e sottili come una striscia di raso.

Dove sei in questo momento, Liam? Dov’è il tuo spirito? Mi senti? Mi vedi? Cosa fai?

Mi piace pensare che siano le mie parole a tenerti in vita, ad ancorare i tuoi piedi al suolo, sia la curiosità per le mie confessioni ad essere più forte della tua voglia di scappare lontano.

E quando finirò le mie patetiche storie?

Dimmi, Liam, come facciamo?

Se è la mia voce a portarti in salvo, se è lei ad allontanare la morte, urlalo ti prego, fai in modo che io ne venga a conoscenza, perché giuro, piccolo mio, te lo prometto, perderò il sonno, il peso e il fiato pur di legarti alla vita.

Con le labbra ti accarezzo i palmi gelidi, fremo alla ricerca di quel battito cardiaco che corre troppo piano.

È lento il tuo, è lento il mio.

Il cuore che hai dentro appartiene a tutti e due, il mio l’ho adagiato dentro il tuo la prima volta in cui i nostri respiri si sono intrecciati.

Te la ricordi quella notte, Liam?

A me è rimasta impressa nel cervello, come uno spillo nella carne.

Siamo a Roma.

Siamo famosi.

Siamo i One Direction.

Siamo in tour.
 


In Italia abbiamo una data soltanto, tre giorni in quella penisola chiassosa bruciata dal sole che odora di salsedine e cibo, verdure fresche appena raccolte, buone e sane come un sorriso, da mangiare all’ombra di un ulivo, col succo che cola pericolosamente oltre gli angoli delle labbra.

Io questa terra non la sopporto, Liam, mi sta stretta, mi confonde con tutti questi suoi colori, questi suoi difetti, le sue grida da strada.

Guardo Roma e tremo della sua sanguinaria potenza, mi sembra che i palazzi ruggiscano, le statue si contorcano dal dolore, nelle colonne pallide vedo la stessa porosa consistenza delle ossa degli innocenti e nelle pietre del suolo i cadaveri di quegli spietati imperatori, mercenari egoisti così votati alla guerra.

Qui la gente non ha freno, non ha pace, non ha rispetto.

Strilla, spinge, gesticola, bacia, abbraccia, si fida a prescindere di ciò che le dice il cuore, mette se stessa in tutto, ma non ha cura di niente, non sa cosa sia la diffidenza.

Questa felicità mi stordisce, questo sangue che bolle mi affascina e mi fa paura, questa sincerità non la concepisco, la invidio, la voglio, ma so di non poter farla mia.

Da quella notte prima della finale di X Factor, io non ti ho più toccato, Liam, né in qualche modo ho cercato di avvicinarmi. Siamo tornati al punto di partenza, due parallele che giocano a inseguirsi in una corsa sfiancante, disseminata di piccoli gesti, cortesie bugiarde piene di vergogne taciute che ci logorano pezzo a pezzo, poco a poco.

In questa città di sole ci confondiamo nella folla di turisti, ci nascondiamo dietro cappucci e occhiali da sole ed io ti guardo, Liam, non perdo un gesto, come fossi nato per questo, per osservare la tua bocca schiudersi al pari di un fiore, ma sto zitto, non lo dico, l’imprudenza italiana non mi appartiene e questo segreto me lo tengo dentro, lo celo anche a me stesso, aspetto che muoio di fame chiuso a chiave nella sua dimora.

Tu sei diverso da me, Liam, sei più puro, meno vigliacco, ti sei innamorato dell’Italia e di Roma nel momento stesso in cui le hai respirate.

A me questa confusione avvilisce, tu ti ci perdi dentro, la rendi armonia.

In questa città di marmo io vedo solo il sangue, tu invece ti guardi intorno come un bambino alle giostre, ogni cosa ti stupisce, ti riempi gli occhi delle sue meraviglie e tutto diventa spettacolo irresistibile attraverso le tue pupille scure.

Io odio questa gente, il loro entusiasmo di zingari, tu ami il calore che si portano dentro, la loro arte di vivere e quella originalità delle piccole cose, gridi con loro, ti piace ridere forte, fortissimo, scrollare tutta la piazza, senza neanche motivo e se te lo chiedono, dici che è un gioco, un rito, serve a strapparti di dosso la malinconia.

Guardo quel cielo azzurro, terso, perfetto e mi chiedo se la bellezza del mondo non sia solo questo: il tuo sorriso che mi buca il petto, quel rossore meschino che ti colora le guance, quando, per sbaglio, ti becco a fissarmi.
 


Il concerto è andato bene, siamo stanchi, soddisfatti, abbiamo finito da poco.

Nel camerino ci stiamo tutti e cinque, chiacchiere fatte ad alta voce con le orecchie che ronzano, carcasse di birre già vuote abbandonate un po’ dappertutto, l’adrenalina ancora in circolo, che stona, come una droga.

Dal fondo del mio bicchiere ti osservo.

Non vedo l’ora di arrivare in albergo, Liam, di infrangere quel muro di mani laccate che ci attende all’esterno e chiudermi dentro, al sicuro, a doppia mandata. Non è colpa tua piccolo mio, è colpa di questo corpo infame e traditore, che ti vuole e ti cerca come un segugio, ho paura che se abbasso la guardia qualche arto scappa e ti tocca, fracassa questa barriera di ipocrisia che con tanta fatica abbiamo cercato di issare.

Sul palco sta diventando difficile, le parole dicono troppo: cantiamo Little Things e non riesco a non guardarti, a illudermi che ogni sillaba non racconti con cura spaventosa ciò che non riesco a esprimere.

Your hands fits in mine like it’s made just for me, but bear this in mind it was meant to be and I’m joining up the dots with the freckles on your cheeks and it all makes sense to me.

Quante volte il mio sguardo ha indugiato sulla tua pelle, Liam? Quante volte la mia mente ha viaggiato, è corsa via, ti ha spogliato lentamente e ha fatto l’amore col tuo corpo, senza che tu riuscissi a capirlo, ad oppormi resistenza?

Le hai sentite le mie mani sul tuo collo, Liam? Hai avvertito il mio fiato sulle tue cosce pallide?

Nei miei sogni sei così consistente, piccolo mio, così tangibile che ti graffio e ti sfregio e dopo ho il sapore del tuo sangue che mi brucia la gola.

Bussano alla porta.

Recupero una bottiglia di vodka da quel cimitero di latta che è il pavimento, ne bevo un sorso per ingoiare insieme all’alcol quei brutti pensieri e la vista si appanna un attimo, la stanza gira forte, i suoni diventano indistinti e ritmici eppure la avverto nitida lo stesso, quella voce che mi irrita, un fischio terribilmente fastidioso che mi trapassa i timpani.

Alzo gli occhi. Incontro la sua figura. Una parte di me si irrigidisce e ringhia.

Dylan Atwood.

“Dove sono i miei pargoli? Dove sono i sogni erotici di milioni di ragazzine?” grida rubando una birra dalle mani di Niall e tutti ridono della sua presa in giro, del suo sorriso beffardo.

Dylan è uno dei nostri manager, il più importante, il filo diretto con la casa madre, la Modest!, quella che ci porta al successo, che ci muove e ci vincola come un branco di burattini.

È giovane, non ha più di trent’anni ed è bello, di quella bellezza che ti farebbe girare la testa se la incontrassi per strada, con quei capelli corvini e lucidi, gli occhi celesti e brillanti quanto due piscine. Ha carisma, col filo di perle che si ritrova incastrato in bocca sorride e gioca con tutti; è così epatico che capisce subito come prenderti e dopo è facile che ti imbambola con tutte quelle sue moine, quell’entusiasmo ostentato che tanto puzza di bugia.

Con noi è bravissimo, Liam, quasi impeccabile.

Capisce le nostre esigenze ancor prima che gli vengano poste, ha imparato come siamo, perché lo siamo, sa esattamente dove colpirci.

A me non si avvicina, sa che sono allergico alla gente, che il suo inganno l’ho visto, l’ho colto e non ho alcuna intenzione di cambiare opinione sulla sua persona; con Niall è paterno, un po’ adolescente, lo coccola e lo guida tra videogame e abbracci; con Louis si diverte a fare lo sciocco, con Harry gioca a fare il mentore, la roccia cui poggiarsi e chiedere consiglio e con te è gentile, Liam, garbato, premuroso... così premuroso che non si fa problemi ad accarezzarti la guancia, mentre parlate; così premuroso, che ogni tanto ti sistema i capelli, ti tira su i pantaloni, ti stringe la mano, ti accarezza una coscia, ti afferra i fianchi e ti sussurra segreti all’orecchio perché state architettando uno scherzo ai danni di Louis o di Niall.

Quando lo fa mi guarda.

Non so perché, ma mi guarda.

Lo odio, Liam.

Gli staccherei a morsi le mani...

“Allora, One Direction, come intendiamo festeggiarla questa ultima notte italiana?” riprende Dylan scompigliando i riccioli di Harry e lasciandosi cadere accanto a te sulla poltrona.

Le vostre gambe sono vicine.

Mando giù un altro sorso di vodka.

Louis ha sonno, vorrebbe tornarsene in albergo; Harry e Niall cercano un club non troppo affollato; tu sorridi e basta, non hai preferenze, lasci che scelgano gli altri, non vuoi essere un peso per nessuno.

“E a te Zayn? Che andrebbe di fare?” mi chiede tranquillo Dylan, inchiodandomi però coi suoi occhi cerulei come pezzi di ghiaccio.

Dico che sono stanco, sono della stessa idea di Louis, preferirei tornare in albergo, ma me ne pento, Liam, me ne pento immediatamente, perché il volto di Dylan alle mie parole si sfregia in un sorriso sinistro, che mi inquieta, mi confonde, non mi piace.

Ti guardo, hai appoggiato la testa sulla sua spalla per farti coccolare.

Non ti sei accorto di nulla.

“Bene! Allora siamo d’accordo!” dice alzandosi e donandoti una mano per aiutarti a fare lo stesso.“ Io, Liam, Harry e Niall ci andiamo a divertire in un localino che conosco, il club privato più elegante di Roma. Invece i nostri due poltroni se ne torneranno in albergo a riposare i piedini come due sessantenni, dico bene?”

Louis annuisce tranquillo, abbozzando un sorriso pieno di rughe allo scherno di Dylan, io invece resto immobile, Liam, non parlo, non mi muovo, fisso semplicemente il volto di quell’uomo che adesso rivolge a me la sua totale attenzione e di nuovo disegna con le labbra perfette quel ghigno, quel maledetto ghigno, che a tratti mi fa gelare il sangue, le vene.

Abbasso le pupille un istante.

La tua mano è ancora dentro il suo palmo, Liam, nella tua innocenza non ci hai fatto caso, non hai pensato all’errore, non ti rendi conto di quanta arroganza quel bastardo ci metta nello stringerti le dita.

Ma io ho capito, Liam, ormai non ho più dubbi.

 “No, vengo con voi.” dico laconico, meritandomi gli sguardi attoniti di tutta la stanza, tranne quello di Dylan Atwood che si lecca le labbra e ride, un giocatore che guarda la sua preda cadere esattamente in trappola.

Dovrei avere paura.

Non mi importa.

“Andiamo allora, che stiamo aspettando...” dice, voltandosi.

È un istante.

Mi guardi.

Ti guardo.

Sono pronto per la guerra.
 
 
 
 


ATTENZIONE! AVVISO DOVEROSO PRIMA DEI SALUTI!
Da questo momento in poi, come vedrete, gli eventi e le situazioni si discosteranno completamente dalla realtà. Lo so che sembra ovvio (grazie a Dio, Liam è vivo e vegeto, non certo in un letto di ospedale!) ma non vorrei ritrovarmi commenti nei quali si dice: sì, ma i 1D non sono mai venuti a Roma (la mia città, non potevo non sceglierla!) sì, ma non è vero che è successo quello o quell’altro o quello si chiama così bibì bibù, d’accordo?
<3
Mia fan fiction, miei sogni, mia realtà! :D



SALVE!
Ehm… mi preparo al lancio dei pomodori? Ho già il giubbotto anti proiettile, non potete uccidermi! E nel caso stiate per mettermi una bomba sotto casa, ricordatevi che ho un marito e una figlia innocenti, sareste senza cuore :P
Signori e Signore, dame e cavalieri, What è tornata! C’è chi non ci sperava più, chi sarebbe venuta volentieri fino alla mia umile dimora e uccidermi… avete ragione tutti quanti, sono un pezzettino di cacca lo ammetto. Il problema, come ho già spiegato ad alcuni di voi, era l’ispirazione. Sapevo esattamente quale fosse la scena da descrivere, eppure ogni volta che buttavo giù qualche parola stracciavo il foglio. Quando scrivo What entro in uno stato d’animo particolare, non lo trovavo più e quindi tutto ciò che producevo mi sembrava orribile!

In realtà questo e il capitolo successivo sarebbero dovuti essere una cosa sola, ma un po’ per non farvi aspettare oltre, un po’ per non ammorbarvi con chilometri di carta web e dare il giusto peso alle varie scene, ecco che esce fuori la separazione.
Che ne pensate di Dylan Atwood? Io fisicamente l’ho immaginato come Ian Somerhalder, ma fossi in voi non mi ci affezionerei troppo… si dimostrerà un bastardo di dimensioni bibliche e spererete la sua morte peggiore già dal prossimo capitolo! :D

Mamma Fiby ama voi e ama gli Ziam, anche se è ritardataria lo fa per cercare, nel suo piccolo, di dare il meglio a voi e a loro!

A presto :D
 

 
 



 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9. ***



9.



Il locale è tranquillo, Liam, uno di quei club di periferia piccoli e curati riservato a pochi adepti, ragazzi già uomini in giacca e cravatta, bambole truccate dai vestiti invisibili.

La musica è forte, i corpi sulla pista oscillano seguendo il ritmo, sopra di loro c’è una cupola trasparente, di cristallo, dove il cielo di Roma si staglia bello come un dipinto, un fulgido manto di nuvole e stelle.

Il proprietario ci ha riservato le balconate, il privè più esclusivo, ci ha arenato su dei divanetti costosissimi quasi fossimo i Re Magi e pensando di farci un favore ha fatto salire un gruppetto di gente, una decina di bambine disinibite e qualche ragazzino, così, per sentirsi a posto con la coscienza.

A me si avvicina subito una bionda, la vedo che mi punta e ci mette pochi secondi a raggiungere la mia postazione con un bicchiere pieno alla mano. Dice di chiamarsi Dalila, parla un inglese un po’ stentato, ma si fa capire con gli occhi, le labbra, le mani, mi chiede come va la serata, se mi piace l’Italia, se penso di tornare.

Che ti frega, vorrei dirle, io per te sarò un nome da vantare con le amiche, da portare a spasso con superbia come un cagnolino di razza.

Mentre blatera, mi guardo intorno.

Harry e Niall sono circondati da donne luccicanti come Dalila e flirtano, bevono, ridono facendo un gran casino, senza pensieri scomodi a occludere loro la gola.

Perché questa è la normalità, Liam, quattro chiacchiere, mani che scivolano e sesso senza sostanza. È così che si fa, è così che gira il mondo, è esattamente così che giravo anche io prima di incontrarti, ma adesso guardo questa lucciola sperduta, le sue ciglia troppe lunghe, le sue braccia troppo candide, osservo la voglia che ha negli occhi, la malizia nelle sue labbra laccate e dov’è la tua innocenza, Liam, spiegamelo, dove sta la tua purezza, la tua audacia di piccoli gesti, la tua nuca spoglia e tesa, disegnata sulle vertebre per posarvi in mezzo un bacio?

Bevo, bevo tra le ciarle insignificanti della mia lucciola, mi gira la testa, sono ubriaco.

Non importa, Liam, non importa.

Tu sei seduto a un tavolo studiatamente appartato e Dylan ti fa ridere coi suoi sussurri all’orecchio, la sua fronte contro al tuo collo, la mano stretta casualmente intorno alla coscia.

Non importa, Liam, non importa.

Non so chi sono, non so cosa sto dicendo, balla pure con lui, lascia che i vostri fianchi si incontrino, non badare a questo vigliacco che ti osserva e ti scopa in silenzio, non ha il coraggio di ammettere il tuo pensiero neanche alla sua anima stupida.

Balla, piccolo mio, sorridi.

Io vado in bagno a fottere la mia lucciolina, questo volto senza senso in cui io imprimo, a forza, le tue sembianze.

Chissà se oltre a un bacio, ella non mi rubi anche il tormento.
 


Ho perso il senso del tempo.

Non so cosa sia successo in quel bagno, non ne ho ricordo.

L’ultima cosa che rammento è un vestito che scivola, forme che non ti appartengono, sigarette che si trasformano magicamente in canne.

Altro alcol, altro sesso.

Voglio morire.

Quando mi accorgo di star vagando senza meta, sono già al centro delle balconate. La testa gira così forte che ho le vertigini, le immagini di Niall ed Harry impegnati in incontri amorosi appartati sui divanetti scorrono passive nel mio cervello, ma sono distorte, superflue, le registro come un rumore di sottofondo e intanto i miei occhi girano ancora inquieti per la sala.

Il respiro si spezza alle possibilità che formula la mia testa.

Non ti vedo.

Non vedo Dylan.

La paura di voi insieme, aggrovigliati su di un letto, mi straccia a brandelli l’anima.

Vacillo un secondo, il mondo finisce e la voglia di distruggere tutto si annida nelle mie vene così intensa che mi tremano le mani.

È in quel momento che ti vedo.

Sei da solo, non ti sei mai mosso, appoggiato alla ringhiera di ottone, osservi pensieroso il formicaio che danza di sotto e sei talmente bello tra quelle luci psichedeliche, Liam, così bello che sembri un angelo appollaiato a curiosare tra gli umani.

Ti raggiungo in pochi passi, ti accorgi della mia presenza solo quando ti plano addosso come un avvoltoio e affondo il mio viso tra il tuo collo e le spalle.

Sussulti. Sei sorpreso. Lo sono anch’io.

Ma ho avuto così paura, Liam, così paura di averti perduto che se adesso il tuo odore non raggiunge subito il mio petto e mi rassicura il cuore, sento che il battito si ferma ed io ti muoio, qui, tra le braccia.

Provi a dire qualcosa, qualunque cosa.

Io ti bacio la nuca.

“Zayn…” sussurri.

Le mie mani scivolano tremando sui tuoi fianchi, sulla tua pelle nuda, sotto la stoffa.

Ti sta battendo il cuore così forte, Liam, che lo sento sul mio sterno, nel palmo della mia mano.

“Vieni via con me, Liam..” dice la mia voce, non so cosa abbia in mente.

“Dove?”

“Non lo so. Lontano. Fuori dal mondo. A Roma…”

Ti giri lentamente, nel mio abbraccio di ossa e carne.

Alzi il volto; i tuoi occhi liquidi incontrano i miei ed è come nascere, di nuovo, mille volte, senza fine.

“Sei ubriaco…” rispondi, ridendo di imbarazzo.

Ti prendo il viso tra le dita.

“E tu sei bellissimo, Zahir*…”

Ci perdiamo negli occhi l’uno dell’altro, ridiamo come due deficienti, sei un po’ brillo anche tu.

Poi la tua mano si intreccia alla mia, all’improvviso, e cominciamo a correre, insieme, non so bene dove, io con la testa che gira, tu coi capelli troppo lunghi, cresciuti questo inverno, che ti saltellano sulle spalle.

La sicurezza si accorge troppo tardi della nostra fuga, prova a prenderci, ma noi siamo furbi questa notte, Liam, ci perdiamo tra la folla e le luci ci nascondono, mentre quegli omaccioni rotolano sul primo gradino, noi siamo già alla porta di ingresso, un passo verso libertà.

Mi volto indietro solo un secondo.

Harry e Niall saltellano dai balconi, tenendosi su malamente i pantaloni calati, fanno un tifo da stadio.

Tra gli sguardi attoniti della gente, uno di ghiaccio, gelido, meschino.

Dylan.

 

Ci infiliamo in un taxi a caso, apriamo la portiera bianca della prima monovolume italiana che ci troviamo davanti e ci buttiamo dentro così all’improvviso che il povero taxista fa un balzo sul sedile, sfiorandosi teatralmente il cuore con la mano.

Ci guarda mentre ridiamo a squarciagola come due bambini, tenendoci la pancia, intrecciando ancora le dita. Rimane perplesso, ma poi scrolla la testa e con un sorriso parte, chiedendoci semplicemente la nostra destinazione.

Già, qual è la nostra destinazione, Liam? Cosa stiamo facendo? Dove stiamo andando?

Frugo tra i miei ricordi di storia, quel poco di scuola che ho fatto e “A San Pietro!” urlo e non so nemmeno di cosa sto parlando. Ci mettiamo poco a raggiungere la meta, probabilmente ho indicato senza volerlo un luogo vicino, l’autista ci indica una stradina, ci spiega di seguirla tutta per ritrovarci alle spalle esatte della piazza che cerchiamo.

Gli allungo una banconota di taglio troppo grande, vuole darmi il resto, ma noi stiamo già fuggendo nel silenzio di quella notte folle.

Stai tranquillo autista, mi stai regalando la notte più bella della mia intera esistenza. Ti assicuro che quella banconota, insieme a tutto il denaro del mondo, non sarebbe abbastanza.

Torniamo a correre. Mi stai avanti, Liam, sei più allenato, guardo le tue gambe mangiare centimetri in pochi passi e vorrei stringerti le ginocchia. Ogni tanto ci guardiamo negli occhi, nel buio non distinguiamo le immagini, i colori, eppure io sento i brividi mentre so che le nostre pupille, a tentoni, si cercano nell’oscurità.

All’improvviso ti fermi, mi fermo. Siamo arrivati.

Piazza San Pietro è enorme, così grande che noi ci confondiamo coi sampietrini incastonati al suolo, sotto le nostre scarpe; ci stringiamo l’uno all’altro perché ci sentiamo piccoli come stelle, schiacciati da quella magnificenza antica, austera.

Sei il primo a prendere coraggio. Ti avventuri, scivolando via dalle mie dita, giri la testa a destra e a sinistra, non sai di cosa sorprenderti per prima e con la luce di quei marmi, di quei lampioni caldi sulla tua pelle di sabbia ritorniamo alla prima sera che ti ho conosciuto, quell’alba meravigliosa in cui ti sei insinuato nei miei pensieri. Sei così bello, Liam, così bello e così innocente che ho paura di scoprire che tu sia fatto di marmo, che tu non sia altro che una di queste incredibili statue di angeli che ci osservano con le loro orbite cieche.

Lentamente arriviamo al centro della piazza. Fai un giro su te stesso, per bearti a pieno di quella bella visione, io invece mi avvicino a te in silenzio, coi passi delle scarpe che però risuonano, sorde, in tutta la piazza vuota.

Sono le quattro e trenta del mattino ed io ti prendo il polso.

Osservi la mia presa sulla tua carne, timidamente cerchi i miei occhi, barcollando un attimo subito dopo. Le tue guance si infiammano, colorandosi di rosso acceso ed io non resisto più, con uno strappo deciso, ti porto incontro al mio corpo e ti tengo, stretto, questa volta non ho voglia di abbandonarti.

Le nostre gambe si intrecciano, i nostri fianchi sono incollati, le mie mani indirizzano il tuo collo, raccolgono il tuo viso freddo e morbido; le nostre fronti, i nostri nasi, si sfiorano.

San Pietro è immobile, le statue zitte, c’è solo il suono dei nostri cuori che corre tra le colonne, tra le case della gente, sveglia tutta Roma.

Affoghiamo negli occhi l’uno dell’altro. Tremiamo così forte, le emozioni sono così intense che cerchiamo inconsciamente di avvicinarci ancora, fino a fonderci, miscelare le nostre sostanze, magari le nostre forze, per evitare di cadere al suolo.

Le nostre labbra schiuse poggiano l’una sull’altra senza muoversi.

E non lo so cosa succede, Liam. Davvero non lo so. So solo che sulla Terra l’ossigeno è finito tutto, non ce ne è più un grammo, non c’è più niente e se io non rimango lì, a respirare il tuo respiro, a nutrirmi del tuo alito caldo, con le nostre bocche che combaciano appena, ma immobili, io muoio, Liam, capisci, mi sembra che crolli il mondo.

E forse la mia vita è stata tutta un’apnea, piccolo mio, un lungo trattenere il fiato.

Finché non sei arrivato tu.

È un secolo.

Sono minuti in cui la vita ci passa davanti, tutta insieme, rapidissima.

Poi la bolla scoppia.

“Li ho trovati! Mario li ho trovati!”

Ci allontaniamo l’uno dall’altro di scatto e il calore sulle nostre giacche, sui nostri indumenti, quasi ci brucia per quel brusco distacco. È un poliziotto italiano quello che si avvicina a passi svelti verso di noi, ha la faccia assonnata, ma sta sorridendo; tra le mani inguantate stringe dei pezzi di giornale e osserva un paio di volte quelle e noi, prima di annuire deciso e illuminare il volto rugoso in segno di vittoria.

Gira il muso verso il suo collega e come stesse parlando di un giocattolo, un oggetto, squarcia l’aria un’altra volta per urlare: “Li ho trovati! Chiama in albergo! Sono sani e salvi!”

Ci chiede di seguirlo con gentilezza, ma lo stesso ci mantiene per i gomiti fino alla macchina. Ci butta dentro una Fiat, piccola, sgangherata, ci saluta con un cenno gentile, ma subito dopo chiede all’autista di partire e assicurarci la portiera.

Tu ed io restiamo in silenzio, non ci guardiamo, tutte quelle sensazioni ci hanno distrutto e siamo lontani da quella terra, in realtà, anni luce.

Ogni tanto l’autista ci scruta dallo specchietto retrovisore, si assicura di far bene il proprio lavoro, forse si chiede pure cosa abbiano di tanto speciale questi due ragazzini da costringerlo a star sveglio alle cinque del mattino, ma se pure mentalmente ci stesse maledicendo, non mi importerebbe comunque.

Nel trambusto della mia testa, volto il mio viso verso il tuo, intento a osservare la strada. Noti il mio riflesso nel vetro, appoggi come me la nuca al sediolino e poi restiamo a fissarci così, in silenzio, per un tempo che non si potrebbe umanamente calcolare.

 Le mie dita scivolano sul velluto, afferrano due a caso delle tue falangi, le tengono strette.

Stasera sono coraggioso, Liam, ho spento il cervello, seguo soltanto il cuore.

Stasera sono italiano.

“Li baci tutti? I ragazzi che conosci da una sera? Da una cena? Li baci tutti?” mormoro, vergognandomi di quella domanda, ma non riuscendo in alcun modo a liberare le pupille dalla tua presa.

Dimmi che sono l’unico, Liam, dimmi che nessuno ha mai forzato la tua purezza all’audacia, come ho fatto io.

Rimani un attimo interdetto, poi accenni un sorriso.

L’alba di Roma incastrata sul tuo volto.

“No.” Sussurri appena e solo questo riesci a dire Liam, solo questo perché l’attimo dopo io ti ho afferrato il mento e ti ho morso le labbra.

Ci baciamo. Ci conosciamo. Ci incastriamo. Le nostre lingue giocano insieme ai denti scomposte e disordinate. Non c’è verso, non c’è direzione, non c’è senso, ma dopotutto neanche in noi, Liam, soprattutto in noi e quindi chi se ne fotte, di che ci preoccupiamo.

L’autista sposta gli occhi in febbrile imbarazzo tra noi e la strada.

E che ci guardi pure, Liam, non fa niente, si metta pure a studiare la funzione delle nostre lingue, il suono delle nostre mani che premono, racconti ai suoi colleghi tutta la passione che ci corrode il sangue.

Io ti bacio e un pianeta da qualche parte sta esplodendo, ho un infarto, ne sto avendo cento, qualche osso s’è spezzato, poi si è ricomposto, la Terra ha interrotto il suo giro un solo secondo e poi ha ripreso, più veloce, ma dalla parte sbagliata.

Non importa, Liam, che ci bruci pure il sole, che ci cada addosso la luna, io sono qui e sono morto, la vita me la dai tu in questo momento, soffiandomela in gola.

La macchina si ferma all’improvviso, bruscamente, il modo poco galante dell’autista per dirci che siamo arrivati.

Le nostre labbra si staccano con uno schiocco sordo, ci guardiamo negli occhi due secondi e forse ci parliamo più così che in mesi di convivenza. Ti accarezzo la guancia; non usciamo da qui Liam, il mondo è cieco, fa spavento, io e te qui stipati in questa monovolume siamo un paradiso intoccabile, nessuno può farci del male.

Ma la portiera si apre lo stesso, l’aria fredda ci investe di colpo, in italiano sporco due uomini ci intimano di camminare.

È finita Liam, torniamo alla realtà.

La prima persona che ci viene incontro quando mettiamo piede in albergo è Paul. È così furioso che ha il volto paonazzo, temo che la pressione gli sia arrivata a trecento, ci sgrida non preoccupandosi di controllare il volume della voce, gesticolando in modo così brusco e nervoso che qualche poliziotto si allarma e cerca di calmarlo.

“Ma siete impazziti? Scappare in questa maniera? In piena notte! Ubriachi come siete! Poteva succedere qualsiasi cosa!” prende ad urlare, guadagnandosi qualche sguardo spaventato da parte delle signorine della reception.

Ha ragione poteva succederci qualsiasi cosa ed in effetti a me è successa, Liam, ho perso il cuore, me lo hai succhiato via dalla bocca a Piazza San Pietro e adesso te lo tieni dentro, avvolto dentro al tuo, come un embrione nella pancia.

Mentre quei rimproveri ci piovono addosso, le nostre teste si abbassano, i nostri occhi sono incollati alle scarpe, ma qualcosa in sordina, attira lo stesso la mia attenzione.

Con la coda dell’occhio, nel piccolo salottino di lettura, Dylan Atwood parla col poliziotto che ci ha trovati e quell’autista guardone, ringraziandoli con una stretta di mano e un sorriso cordiale fin troppo sincero.

In un attimo i suoi occhi cerulei cercano i miei, li trovano, li incatenato, sono due frecce avvelenate.

Con le mani affondate nelle tasche, si avvicina a noi ed io so già di dover avere paura.

“Paul, Paul! Ti verrà un infarto se continui a stressarti in questo modo, fai un bel respiro, avanti!” dice col suo tono suadente, portando un braccio intorno alla spalla della nostra guardia del corpo e stringendola forte.

“Ma… ma…” prova a balbettare, eppure la sua forza bruta non può niente contro quel sorriso disarmante, uno sguardo intenso e la bestia si ammansisce, diventa creta nelle mani del suo domatore.

“Siamo stati tutti adolescenti, Paul, non dirmi che non hai mai fatto una bravata. Zayn e Liam sono qui ora e stanno bene, questo è l’importante no? Non è successo niente, vero?”

E la sua espressione è dolce, Liam, paterna, imbambola tutti voi, ma il modo in cui pronuncia l’ultima domanda, quella voce che inchioda, sono i rintocchi di una condanna che io avverto sulla pelle, trasformati in brividi.

È in quel momento che capisco.

Dylan sa.

Dylan sa tutto.

“Che ne pensate se adesso ce ne andiamo un po’ a dormire? A mezzogiorno prendiamo l’aereo e tutta questa incresciosa faccenda ce la lasciamo alle spalle, sarebbe fantastico no?”

Tutti annuiscono molto più calmi e sorridono a quel demagogo sensuale senza accorgersi di essere un branco di pedine.

Muovo un passo verso l’esterno, sicuro di poter finalmente scappare, invece la sua voce tagliente mi raggiunge di nuovo.

“Paul perché non accompagni Liam alla sua stanza? Io penso a Zayn.”

Mi volto di scatto.

Paul annuisce, circonda le spalle di Liam e si avviano verso le loro camere, al piano terra.

Dylan mi si avvicina, mi stringe la spalla e “Andiamo?” chiede, trascinandomi con una presa leggera fino agli ascensori.

Non mi muovo, il mio respiro è pesante, scrollo la sua mano calda con uno scatto brusco.

Appena l’elevatore arriva ci saliamo dentro e quando le porte si chiudono io mi faccio in un angolo, deciso a non farmi toccare ancora da lui. Ma Dylan intuisce le mie intenzioni e mi blocca di nuovo, questa volta con più decisione, portandosi dietro di me.

Siamo soli, ma la sua voce è un sussurro malizioso all’orecchio, le dita strette sul mio fianco, sul mio gomito.

Alzo gli occhi verso lo specchio e rabbrividisco.

Dylan ha il viso incastrato sulle mie spalle e gli occhi talmente vivi di cinismo che mi fanno paura.

Provo a muovere un piede, lui mi inchioda facendo finire la mia fronte ad un soffio dallo specchio.

Ferma l’ascensore.

“È così divertente giocare con le bambole, vero Zayn? Un vero spasso…”

I miei muscoli si irrigidiscono.

Il mio riflesso nello specchio dell’ascensore ha gli occhi sbarrati per la sorpresa.

“Oh no, no, no! Non guardarmi così, cucciolo! Non c’è bisogno! Li ho avuti anch’io diciassette anni e lo so... lo so quanta voglia tu abbia di sperimentare... provare... toccare...”

La sua voce si assottiglia e una risata cattiva, un po’ isterica, gli riempie la bocca, scaldandomi il padiglione auricolare. Vorrei scacciarlo e correre via, invece sono così teso dalla rabbia che non riesco neanche a muovermi.

“Non so di cosa tu stia parlando…” riesco soltanto a dire e svio i suoi occhi di cielo, che si divertono a scavare dentro i miei.

“Oh ma sì che lo sai, Zayn. Lo sai benissimo, lo sappiamo tutti e due… e come darti torto dopotutto… Liam è così… così… perfetto…”

“Smettila!”

“La sua innocenza da sporcare… la sua pelle da sfreggiare… Liam è la bambolina più bella di tutte, vero Zayn? La più succulenta!”

Ed è un secondo.

La rabbia mi invade le vene con tale prepotenza che mi accorgo di aver reagito solo quando il collo di Dylan è tra le mie mani e la sua testa è contro le pareti dorate del nostro ascensore.

Stringo, stringo forte la sua pelle, la voglia incontrollabile di spezzargli le ossa.

“Non parlare così di lui…” sibilo, scandendo le parole tra il respiro rotto per l’impeto e il sangue che accelera.

Lui ride, tossisce, un po’ soffoca, ma ride.

“Mi hai capito?! Non nominarlo! Non parlare così di lui! Non provare nemmeno a…”

“A fare cosa di preciso, Zayn?! Dillo! Avanti! A toccarlo?! A scoparlo?! A fare esattamente quello che faresti anche tu se solo ne avessi il coraggio?!”

E la testa di Dylan sbatte contro la parete prima che la mia mano lo lasci, si nasconda dietro la schiena.

Mi ritraggo in un angolo, vigliacco e spaurito come un topo di fogna.

“Non è vero...” sussurro così piano che le mie labbra tra le parole si incollano “Non è vero... tu non sai niente...” dico a Dylan e forse lo dico anche un po’ a me stesso, a quella parte di me che ha paura che le accuse di Dylan siano vere, che la mia ossessione per te, per il tuo odore di rosa, non sia altro che l’egoismo di volere il tuo corpo, la tua distruzione, solo ed esclusivamente per me.

Dylan si rialza lentamente, tenendosi lo zigomo già un po’ livido, un po’ gonfio.

Mi osserva dal suo lato del quadrato e questa volta non ghigna, non ha niente di beffardo, ma il suo volto inclinato, se possibile, fa ancora più paura perché per un secondo, io ho l’impressione che cerchi qualcosa in me e dopo lungo scavare, la trovi.

D’un tratto mi sento nudo, è come se le sue iridi belle mi avessero sottratto qualcosa.

Scuote la testa facendo ciondolare i capelli corvini, un’espressione crudele si fa strada sul suo volto.

“Tu sei innamorato di lui…”

Mi rompo.

“Tu sei innamorato di lui!” ripete, come avesse scoperto l’America, la cura del cancro, un tesoro inestimabile.

Ed io mi faccio piccolo, Liam, vorrei confondermi con questa parete, prendendo alla sprovvista Dylan riesco ad arrivare al quadro di comando e far ripartire l’ascensore fermo, ma poi lui mi afferra, di nuovo, e questa volta mi sbatte la testa contro lo specchio che si infrange come la pelle mia all’altezza della tempia.

Sento il sangue che cola inesorabile lungo la guancia.

Non è vero che ti amo, Liam, non è possibile, io non posso amare nessuno che non sia me stesso, nessuna che abbia il potere di farmi del male. Io l’amore non lo conosco, non lo voglio, non posso nutrirlo per te, uomo, amico, alleato.

Ma allora cosa voglio?

Questa paura che mi prende, questo brivido che sento dentro mentre ti guardo, ti prego spiegami, dimmi cos’è.

“Sai qual è la differenza tra me e te, Zayn Malik? Che io, a differenza di te, non ho niente da perdere.”

Il suo corpo grava sul mio affondando la ferita nella spaccatura, togliendomi l’ossigeno premendo sullo sterno.

“Cosa penserà tuo padre, quando gli confesserai che hai voglia di fotterti un uomo? Cosa penseranno le vostre fans, quei milioni di ragazzine che vi seguono solo con la speranza di portarvi a letto, che baciano i vostri poster, che vi sognano la notte e si bagnano le mutandine? Eh, cosa penseranno loro quando scopriranno che sei frocio? Che ti piace il cazzo? Che non hanno speranze!”

Cerco di dimenarmi con tutta la forza che trovo, scalcio, urlo, premo sulla superficie dorata nel tentativo di allontanarmi almeno dal vetro, ma le sue parole sono pesanti, Liam, più pesanti del suo corpo e mi buttano a terra, ancora prima che lo facciano le sue mani serrate.

Rilasso i muscoli delle braccia, delle gambe, del collo.

Mi arrendo e sono un burattino nelle sue mani.

“Il contratto con la Modest parla chiaro: dovete curare il vostro aspetto, apparire sorridenti e disponibili, altrimenti non vendete, è un dato di fatto. Le bambine sono volubili, Zayn, non è colpa di nessuno, seguono quello che dice loro l’ormone e appena sapranno che avete infranto i loro sogni la maggior parte si arrabbierà con voi e vi abbandonerà. Alcune vi supporteranno, è logico, ma poi arriverà un’altra boyband di ragazzotti belli e soprattutto etero e anche loro, alimentate dai sogni, dalle speranze, se ne andranno via.”

Il corpo di Dylan si allontana dal mio, la sua stretta si allenta dai miei capelli ed io posso finalmente respirare. L’aria mi ferisce i polmoni, la testa mi gira e il sangue ormai mi bagna il colletto della camicia, trasformando il blu della stoffa in un ebano scuro.

Potrei, ma non riesco a oppormi alla sua carezza, ai suoi occhi che inchiodano il mio riflesso inanimato, il tono paterno della voce con cui continua a infliggermi martellate alla pancia.

Quanto può essere dura la verità, Liam?

Possibile che qualcuno sopravviva?

“È davvero a questo che vuoi condannare Louis, Harry e Niall? Per una scopata, per una cotta adolescenziale sei sicuro di voler far perdere loro tutto quello per cui hanno lottato?”

Le porte dell’ascensore si aprono e uno spiffero d’aria pura, come uno schiaffo, colpisce la mia pelle accaldata, ma restituisce un po’ di luce.

Dylan fa qualche passo verso l’esterno, senza smettere di guardarmi, sistemandosi la giacca e la cravatta come non fosse successo niente, come se non mi avesse appena aperto una voragine nella testa.

È già oltre il mio campo visivo nello specchio quando sento la sua voce offrirmi l’ultima stilettata.

“Ci hai messo così poco ad arrivare in cima, Zayn Malik, così dannatamente poco… quanto pensi che ci voglia a cadere al suolo e spaccarti le ossa?”
 
 



* Zahir: parola araba che indica un pensiero ricorrente, una sorta di chiodo fisso alla quale la mente non può smettere di pensare.

Sono quasi sicura che arrivata a questo punto la parte criminale di voi, sia già riuscita a formulare almeno 100 modi per uccidere Dylan. Lo so, lo so, tranquille, fate molto bene e vi assicuro che a lungo andare sarà anche peggio, credetemi. Vi dico soltanto che fino ad adesso lo stronzetto si è limitato alle parole, ben presto passerà ai fatti e vi assicuro che lo farà in maniera del tutto inaspettata.

Questo capitolo per me è uno dei più importanti: c’è il primo vero bacio di Liam e Zayn e la scena di Piazza San Pietro che mi sta particolarmente a cuore. È lì che io e quello che è il mio attuale marito ci siamo scambiati il primo bacio, quindi fate un po’ voi.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che questo famoso primo bacio Ziam nella macchina della polizia, vi sia piaciuto e sia riuscito ad essere abbastanza originale. La scena della piazza invece dovrebbe più o meno somigliare ad una cosa simile:

http://25.media.tumblr.com/71ee93c7562af42aabb891addc8fde52/tumblr_mfp89nl5Qc1r2w0iwo1_500.gif
 
Io vi lascio al nuovo Papa gente, un saluto benedetto a tutti voi! <3

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=980077