Winning a Battle, Losing the War

di elsie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


WaBLtW1

Disclaimer: Tutti i personaggi di questo racconto, a parte Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox. Io li ho solo presi in prestito per un po’.

Come ho scritto nel riassunto, in questo racconto si parla di aborto. O meglio, delle scelte a cui una persona si trova davanti quando ha a che fare con una gravidanza non programmata. Dopo un lungo dilemma interiore, ho deciso di non scegliere il rating rosso perché, in tutta onestà, non ho scritto niente che giustifichi un rating così alto. Non mi sembra che questo racconto contenga nulla di offensivo o provocatorio, ma capisco che è un tema di cui qualcuno potrebbe non voler sentir parlare. Mi sembra giusto mettere le carte in tavola prima, anche se questo significa dare qualche anticipazione sul racconto.

Bene, sistemata questa questione possiamo passare a cose più leggere. Come forse qualcuno si sarà accorto, “Winning a Battle, Losing the War” è il titolo di una canzone dei King of Convenience. Mi sembrava carino continuare con la “tradizione” inaugurata da “Into the Fire” e usare anche per questo racconto il titolo di una canzone.

Spero che questo racconto vi possa piacere. Ora basta con le chiacchiere, passiamo ai fatti!

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La luce del sole nascente illuminava la stanza numero 109 del motel Stardust, appena fuori Philadelphia. Indumenti di vario tipo erano sparsi alla rinfusa sul linoleum verde bottiglia del pavimento, e una valigia ancora mezza piena era abbandonata aperta ai piedi dell’armadio, sul fondo della stanza. Accanto alla porta c’era quello che sembrava essere una pesante zaino da campeggio nuovo di zecca, già colmo di tutta l’attrezzatura necessaria. Su un tavolino accanto alla finestra giacevano una serie di passaporti di varie nazionalità, mazzi di chiavi, bigliettini strappati via da angoli di quaderni con appuntati indirizzi e nomi, un pacchetto di chewing-gum e uno di sigarette, accanto ad uno Zippo con il disegno di uno squalo.

Un ragazzo biondo dormiva a pancia in giù sul letto matrimoniale, occupandone la metà di destra. Nell’altra metà il letto era sfatto e le lenzuola erano gettate indietro, come se il suo occupante si fosse alzato in fretta e di nascosto.

Dietro la porta del bagno, Meredith St.Clair, che aveva passato gli ultimi quattordici mesi con il nome di Medusa, camminava nervosamente avanti e indietro davanti al mobile del lavandino, gli occhi fissi all’orologio che vi era posato sopra con il quadrante rivolto verso di lei. Accanto all’orologio c’era quello che sembrava essere un lungo e sottile bastoncino di plastica bianca.

La lancetta dei secondi ticchettò, e Medusa cominciò a rosicchiarsi l’unghia del indice sinistro. Erano almeno dieci anni che aveva smesso di mangiarsi le unghie, ma quella era un’occasione particolare. La lancetta dei secondi si mosse di nuovo. Tac.

Settantanove... Settantotto...

Medusa arrivò di nuovo fino alla doccia, troppo lontano per vedere a che punto fosse la stramaledettissima lancetta dei secondi, poi tornò in fretta sui suoi passi. Si fermò davanti all’orologio e fissò la lancetta. E muoviti, schifosa, pensò. Tac.

Settanta...

Passò a mangiarsi l’unghia del pollice. Fece un paio di passi verso la doccia, poi si sentì improvvisamente una stupida per quel ridicolo balletto e si sedette bruscamente sul water, proprio davanti all’orologio. Tac.

Sessantaquattro... Sessantatre...

Sbuffò e, senza accorgersene, cominciò a battere nervosamente il piede sul pavimento freddo. Novanta secondi. Cristo santo, non possono essere così lunghi. Si tratta di un misero minuto e mezzo. Afferrò l’orologio e lo guardò attentamente, come se cercasse di capire se si stesse prendendo gioco di lei. La lancetta dei secondi rimase ferma tremante al suo posto, come se volesse rifiutarsi di procedere. Tac, disse infine.

Medusa gettò l’orologio sul mobile, furiosa, e si alzò di scatto. Poi si ricordò che doveva fare piano, che per nessun motivo al mondo doveva svegliarlo, e guardò con ansia la porta del bagno, cercando di carpire un qualsiasi rumore che potesse provenire dalla camera da letto. Non sentì nulla, e dopo qualche secondo ricominciò a camminare avanti e indietro.

Cinquanta... Quarantanove...

Scorse di sfuggita la sua immagine nello specchio del bagno e quello che vide non le piacque per niente, una ragazza con i capelli castano ramato raccolti in una coda mezza sfatta e il viso grigiastro per il nervoso. Sembrava malata. Ma se non altro, pensò con un certo sollievo, di certo non sono ingrassata. Di colpo si sentì irritata dall’inutilità di quel pensiero, e si portò alle labbra l’unghia dell’indice destro. Tac.

Trentatrè... Trentadue...

Ormai mancava poco. Mezzo minuto non era poi così tanto, no? Tra poco sarebbe finito tutto. L’ansia, i sotterfugi, la preoccupazione. Sarebbe sparita ogni cosa e lei avrebbe potuto tornare alla sua vita normale, senza più angosce e paure e notti insonni passate a fissare il soffitto. Sarebbe passato tutto.

Ventuno... Venti...

Si sedette nuovamente sul water, poi si alzò, poi si sedette di nuovo. Si guardò intorno, passando velocemente in rassegna le piastrelle bianche, i sanitari di porcellana a buon mercato e il mobile di legno laccato, con la vernice che ormai si scrostava attorno al lavandino, dove veniva più spesso a contatto con l’acqua. Afferrò l’orologio che vi giaceva sopra.

Sette... Sei...

Il cuore cominciò a martellarle nel petto e la lancetta dei secondi, che fino a qual momento aveva proceduto con una lentezza esasperante, tutto di un tratto si mise a correre come un ossessa. Medusa trattenne il respiro e senza nemmeno accorgersene scattò in piedi, elettrizzata e atterrita allo stesso tempo.

Tre... Due... Uno...

Tac.

Medusa si scagliò in avanti e afferrò il bastoncino di plastica bianca che fino a quel momento se ne era rimasto trascurato e dimenticato sul mobile. La sua superficie era liscia e intatta, senza nessuna finestrella scavata nella plastica. Confusa, si accorse che era sottosopra e con le dita che le tremavano lo girò.

Blu.

Medusa fissò la finestrella sul bastoncino, la bocca impastata e asciutta, il cuore impazzito di paura. Chiuse gli occhi per un paio di secondi, poi li riaprì.

La finestrella era sempre blu. Il test era positivo.

Le ginocchia le cedettero e lei si sedette sul pavimento freddo, aggrappandosi al mobile con una mano per non cadere rovinosamente a terra, la mano destra che stringeva ancora convulsamente il test di gravidanza. Un singhiozzo le salì alle labbra e lei si affrettò a soffocarlo con la mano libera. E’ positivo, è positivo, è positivo! le gridò il suo cervello. Cosa farai adesso? Cosa farai?
Senza che potesse opporvisi, grosse lacrime calde le riempirono gli occhi fino ad offuscarle la vista, pronte a riversarsi a fiume sul suo viso da un momento all’altro. Sapeva bene che se si fosse messa a piangere in quel momento non sarebbe più riuscita a fermarsi.

No, le disse una voce risoluta nella sua mente, proveniente, ne era quasi certa, dall’ultimo centimetro quadrato del suo cervello che ancora non era stato invaso dall’angoscia e dal terrore. Non devi piangere. Cristo, sei già abbastanza nella merda senza che ti metti anche a frignare. Sai che se ti metti a piangere farai un casino d’inferno e sveglierai John, e il fatto che lui ancora non sospetti niente è l’unico aspetto positivo di questa faccenda. E anche se per un qualche miracolo non lo svegliassi, quando avrai finito di piangere avrai tutta la faccia gonfia e gli occhi rossi e il naso che gocciola, e lui si accorgerà subito di quello che è successo e vorrà sapere perché piangevi. Quindi datti un contegno e ricaccia subito indietro quelle lacrime.

Medusa annuì e si affrettò ad ubbidire, prendendo un paio di profondi respiri ad occhi chiusi e tirando su col naso finché non riuscì a riguadagnare il controllo di sé stessa. Ma per quanto autoritaria e risoluta, la voce nel suo cervello non aveva alcun potere sul suo stomaco, e un’ondata di nausea la travolse con violenza, costringendola ad aggrapparsi al bordo del water mentre conati di vomito la scuotevano dalla testa ai piedi.

Disgustata da sé stessa, strappò un pezzo di carta igienica e si pulì la bocca, poi si alzò sulle gambe che ancora le tremavano, tirando lo sciacquone con un movimento stanco. Raccolse da terra il test di gravidanza, (Blu, blu, blu! continuò a gridare una voce nella sua testa, ma Medusa la ignorò) e lo infilò nel pacchetto degli assorbenti insieme alla sua scatola e alle istruzioni per l’uso, accuratamente piegate, poi sbattè il pacchetto nel suo beauty case e lo richiuse. Se ne sarebbe liberata non appena John fosse uscito. Prese il suo spazzolino, ci mise sopra un’abbondante dose di dentifricio e cominciò a risciacquarsi la bocca.

La maniglia della porta si abbassò violentemente, e Medusa sobbalzò.

“Meredith, sei lì dentro?” chiamò una voce maschile dall’altro lato della porta. Con un ultimo, frenetico sguardo attorno per accertarsi che fosse tutto in ordine, Medusa girò la chiave nella toppa e aprì la porta.

Pyro stava in piedi dall’altra parte con indosso solo un paio di boxer neri, i capelli corti e biondi tutti arruffati e un’espressione sonnolenta sulla faccia.

“’giorno...” biascicò chinandosi a baciarla.

“Mm, menta...” disse quando si staccarono, leccandosi le labbra. Nonostante tutto quello che era appena successo, Medusa non riuscì a trattenere un sorriso.

Pyro si appoggiò alla porta puntellandosi allo stipite con l’avambraccio sinistro, e la guardò con gli occhi socchiusi.

“Tutto bene?” chiese.

Il cuore di Medusa saltò un paio di battiti. “Sì, sì, tutto bene.” rispose, il più convincentemente che poteva. “Perché?”

Pyro alzò le spalle. “Non ti chiudi mai a chiave in bagno.”

“Scusa.” rispose lei, cercando di nascondere la tensione. “Dovevo essere soprapensiero.” Appena la pronunciò, Medusa si rese conto che era una scusa davvero pessima, ma con suo grande sollievo Pyro non sembrò farci caso.

“Come mai in piedi a quest’ora?” le domandò, ma non c’era traccia di sospetto nella sua voce; più che altro, sembrava semplicemente curioso.

“Non riuscivo a dormire.” rispose Medusa, più rilassata.

Lui sorrise e le cinse i fianchi con un braccio. “Potevi svegliarmi.” disse con un sussurro. “Avremmo sicuramente trovato qualcosa di interessante da fare.”

“Non ne dubito.” rispose Medusa mentre lui si chinava a baciarla.

Mentre le labbra di Pyro si posavano sulle sue, sentì una fitta di rimorso stringerle lo stomaco. Bella ipocrita che sei. Hai appena scoperto di essere incinta di suo figlio e ti comporti come se niente fosse.

Il braccio di Pyro che era ancora appoggiato allo stipite si spostò e la mano strinse uno dei suoi seni, massaggiandolo attraverso la canottiera che indossava. Medusa gli prese il mento nell’incavo della mano e gli spinse delicatamente la testa indietro, ponendo fine al bacio.

“Prima fatti la barba.” disse con un lieve sorriso, strofinandogli la guancia ispida con l’indice. “Dopo vedremo.”

Pyro sospirò e alzò gli occhi al cielo.

“E va bene.” rispose passando una mano tra i suoi capelli ossigenati, imperitura memoria di quella notte in cui avevano giocato a “verità o pegno” dividendosi una bottiglia di Jack Daniels. Quando la mattina dopo Medusa gli aveva detto ridendo che non avrebbe preteso che lui pagasse il suo pegno, se non se la sentiva, Pyro era sceso al supermercato all'angolo ed era tornato con una scatola di tinta bionda, troppo stupidamente orgoglioso per tirarsi indietro da una sfida che aveva sottoscritto per gioco e da ubriaco.

Pyro entrò nel bagno sbadigliando e aprì il suo beauty case, frugandoci dentro alla ricerca del rasoio. Medusa cominciò a spogliarsi, intenzionata a farsi la doccia e lavarsi via di dosso tutta l’angoscia e l’incertezza, e sì, anche quella sensazione di sporcizia che si era sentita sulla pelle dal momento in cui John era apparso sulla porta del bagno, assonnato e dolcissimo.

“Che stai facendo?” le chiese ad un tratto, fissandola come se non l’avesse mai vista prima senza vestiti.

Lei alzò le spalle, spiazzata dall’ovvietà della domanda. “Mi faccio un doccia.” rispose.

Pyro posò il rasoio sul lavandino. “Guarda che non puoi fare così.” disse. “Non puoi negare il sesso al tuo ragazzo e poi spogliarti nuda davanti a lui. E’ molto, molto scorretto. E anche molto crudele.”

Medusa sorrise e si sfilò le mutandine. “Allora sbrigati a farti la barba ed entra.” gli rispose chiudendo dietro di sé le pareti scorrevoli della doccia.

****

Medusa rientrò in camera dal bagno dopo aver finito di asciugarsi i capelli. John era mezzo sdraiato, mezzo seduto sul letto disfatto, un cuscino sistemato dietro la schiena, e stava guardando il notiziario alla tv.

...la Cura, che, come ha assicurato Warren Worthington, presidente della Worthington Pharmaceutics, è in grado di reprimere il genere mutante, sarà presto disponibile gratuitamente in tutta la nazione, per ogni mutante che ne faccia richiesta...

“Bastardi fottuti.” ringhiò Pyro.

Medusa lo raggiunse e si accoccolò accanto a lui nel letto, appoggiando la testa sul suo petto.

“Riguarda questo, l’uscita che tu e Magneto dovete fare stasera?” gli chiese.

“Penso proprio di sì.” rispose lui mentre le grattava la schiena. “Non mi ha dato molti dettagli. Sai come fa.”

“Sì, lo so.” Alzò la testa dal suo petto e lo guardò. “Vuoi che venga anch’io?”

Pyro scosse la testa. “Naaa. Da quel che ho capito non sarà niente di che. Si tratterà di imbucarsi ad una riunione di mutanti e guardare le spalle al vecchio mentre cerca di convincerli ad unirsi alla Confraternita. Niente di pericoloso o eccitante.” Sorrise e indicò lo zaino da campeggio che aspettava vicino alla porta. “E poi è meglio che almeno uno di noi due si goda l’ultima notte in albergo. Da domani è finita la pacchia.”

Medusa guardò lo zaino. “Se Magneto vuole che ci trasferiamo tutti nella foresta significa che tra un po’ ci sarà qualcosa di grosso.” disse, rivolta più a sé stessa che a Pyro.

“Già. E’ diventato un filo paranoico, da quando Mistica è stata catturata.” sbadigliò Pyro.

Medusa sorrise. “E’ vero, Mistica. E’ stata una vera sorpresa sapere che si era fatta arrestare. Un genio come lei. Ed io che avevo sempre pensato che avesse più tette che cervello.” disse sarcastica.

Pyro scoppiò a ridere. “Sei una iena.” le disse, dandole un bacio.

Di nuovo Medusa si sentì sporchissima, e di nuovo ebbe voglia di scoppiare a piangere. Per un istante fu sul punto di staccare le labbra da quelle di lui e raccontargli del test di gravidanza che era diventato blu, ma poi si trattenne. Non fare la vigliacca, la rimproverò la voce. Non c’è bisogno di far star male anche lui.

Pyro pose fine al bacio e le sorrise. “Fame?” le chiese, scostandole con delicatezza i capelli dalla fronte.

Medusa annuì. “Direi.”

Pyro sorrise di nuovo, afferrando al volo la sua allusione alla recente performance nella doccia, e si alzò dal letto.

“Che vuoi mangiare?” chiese mentre cercava le scarpe. “Il solito?”

Medusa annuì e si mise seduta a gambe incrociate sul letto. “Sai, forse dovrei andare io.” disse. “I tuoi capelli non passano esattamente inosservati.”

“I miei capelli vanno benissimo.” replicò lui allacciandosi gli anfibi. “Perché? Cos’hai contro i miei capelli? Sei stata tu a dirmi di tingerli.”

Medusa alzò gli occhi al cielo. “Ero ubriaca, John.”

Lui alzò le spalle. “E allora? Lo era anch’io.”

Medusa scoppiò a ridere. “No, tu eri perfettamente sobrio quando sei andato a comprare la tinta. E’ questa la parte più triste di tutta la faccenda.”

Lui frugò nel cassetto del comodino accanto al letto e tirò fuori una specie di bracciale con attaccato un piccolo lanciafiamme. Medusa lo guardò mentre se lo infilava al polso destro.

“Nemmeno quel coso passa molto inosservato.” disse.

“E’ più comodo dell’accendino.” rispose Pyro con una alzata di spalle.

Il lanciafiamme era stato uno dei molti doni di Magneto. Quando erano entrati nella Confraternita, Medusa e Pyro possedevano solo i vestiti che avevano indosso. Magneto provvedeva a loro per qualunque necessità: i documenti falsi, le stanze d’albergo in cui dormivano, il cibo, i viaggi (negli ultimi quattordici mesi si erano spostati con Magneto più o meno in tutto il mondo, in cerca di nuove leve per la Confraternita), persino i vestiti e le sigarette. A pensarci bene, anche il test di gravidanza era stato comprato con i soldi della diaria mensile che Magneto corrispondeva loro. Si trattava di cifre più che dignitose, ma andava detto che Pyro e Medusa avevano sempre speso i soldi che ricevevano in maniera responsabile e oculata.

Una volta Medusa aveva chiesto a Magneto da dove veniva tutto quel denaro, dato che la Confraternita non aveva entrate, o almeno non aveva entrate di cui lei fosse a conoscenza. Magneto le aveva sorriso con dolcezza. “Non preoccuparti dei soldi, mia cara.” le aveva risposto. “Considerali uno stipendio per i servigi che tu e Pyro offrite alla Confraternita.” Medusa non aveva fatto altre domande.

Pyro raccolse un paio di jeans che giacevano sul pavimento, vicino alla porta del bagno, e frugò nelle tasche in cerca del portafoglio, senza trovarlo. Mormorando sottovoce qualche imprecazione, si mise a cercare tra le cianfrusaglie che giacevano sparpagliate sul tavolino accanto alla finestra. Alla fine trovò un biglietto da venti dollari infilato in un passaporto canadese (Medusa vi figurava con il nome di Claire Handersen) e se li infilò in tasca con un espressione soddisfatta.

“Questa stanza fa schifo.” disse Medusa guardandosi in giro. In ogni motel in cui soggiornavano allungavano sempre cinquanta dollari alla cameriera perché si tenesse alla larga dalla loro camera, ma l’effetto collaterale era che vivevano in un porcile.

“Fregatene.” rispose John mentre si infilava il giubbotto. “Domani ce ne andiamo.”

“Dobbiamo raccogliere le cose che ci servono. I documenti, soprattutto.” disse Medusa, alzandosi dal letto. Forse si era messa in piedi un po’ troppo velocemente, perché per un secondo ebbe le vertigini e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Fortunatamente Pyro stava sistemandosi i capelli davanti lo specchio del bagno e non se ne accorse.

“Il resto lo possiamo lasciare.” continuò Medusa, cercando di parlare con il tono più tranquillo e rilassato che le riusciva. Le stava tornando la nausea e dovette sedersi di nuovo sul letto.

Pyro aprì la porta della camera. “Sì, ma dobbiamo ricordarci di distruggere quelle cose.” disse indicando i foglietti scribacchiati sul tavolino accanto alla finestra. Sorrise e alzò la mano destra, dove il lanciafiamme luccicava minacciosamente. “Ci penso io quando avremo finito di fare colazione. E’ un po’ che non uso questa bellezza.”

Medusa aspettò che i suoi passi si allontanassero in corridoio, poi corse in bagno e vomitò di nuovo. Almeno adesso puoi essere sincera con te stessa, si disse. Se vomiti alla mattina, non c’è più bisogno che tu dia la colpa alla cena che era avariata. E se hai il mal di testa e le vertigini, non potrai più raccontarti che Magneto ti ha fatto lavorare molto e sei esausta. Se hai la nausea e l’emicrania è perché sei incinta, e ora non puoi più scappare.

****

Quella sera, quando Pyro uscì per accompagnare Magneto alla riunione, Medusa gettò il test di gravidanza nel bidone dell’immondizia che si trovava nel cortile del motel, poi tornò nella sua stanza e si spogliò nuda davanti allo specchio del bagno, esaminando con attenzione il suo corpo.

Il seno le si era già ingrossato, non di molto, certo, ma era gonfio e duro al tatto, e le faceva male. Le sembrò anche che le areole avessero preso un colorito leggermente più scuro, ma non sarebbe stata pronta a giurarci. Si soppesò i seni con le mani, premendo delicatamente i capezzoli turgidi, ma rimosse immediatamente la pressione quando sentì il dolore aumentare leggermente. Massaggiò con attenzione attorno alle areole, cercando un nodulo, ma poi pensò, sentendosi un po’ ridicola, che probabilmente il dolore era dovuto alle ghiandole del latte che cominciavano a gonfiarsi.

Si mise la mano aperta sul ventre, appena sopra il triangolo del pube, e si accarezzò con attenzione la pancia. Non c’era alcun dubbio. Si era arrotondata. Non c’era bisogno di guardare nello specchio per vederlo; lo poteva sentire, senza alcuna possibilità di errore, sotto il suo palmo.

Medusa guardò in basso la mano appoggiata delicatamente sul grembo. C’è davvero qualcosa dentro di me, pensò. Un piccolo, minuscolo, insignificante esserino che nuota e cresce nella mia pancia.

Cercò di immaginarsi come potesse essere, quel cosino microscopico che se ne stava tutto rannicchiato dentro di lei, ma proprio non aveva idea di che aspetto avesse. Deve essere proprio qui, si disse passando la mano sul punto in cui il suo ventre era più tondo. E siamo stati John ed io a farlo.

Improvvisamente una serie di immagini le attraversarono la mente. Vide il suo grembo ingrossarsi sempre più, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Vide sé stessa appoggiarsi una mano sul ventre gonfio, e sentire un piedino minuscolo premere contro il suo palmo. Vide John sdraiarsi accanto a lei sul letto, e posare un soffice bacio sul suo pancione...

Basta.

Guardò il suo volto nello specchio. Basta. Sai che non sarà così. Queste cose succedono solo nelle pubblicità dei biscotti. Nella realtà ci sono i conti da pagare, e la parcella del pediatra, e i pannolini, e tutto il resto... Credi che Magneto sarà altrettanto generoso con voi, quando scoprirà che non sei più in grado di lavorare per la Confraternita? E che succederà allora? Dove vivrete? Come vi procurerete i soldi per mangiare? Come sfamerete il vostro bambino? Come?

Una lacrima le rigò il viso. E se anche per un miracolo Magneto vi permettesse di restare, saresti davvero così infame da condannare il tuo bambino ad una vita da fuggiasco, da reietto, rischiando di farlo diventare orfano, o figlio di carcerati, ad ogni piè sospinto? Che ne sarebbe di lui, se voi foste catturati o uccisi? Chi si occuperebbe di lui? Un'altra lacrima scese dai suoi occhi.

Sai bene cosa gli succederebbe. Vuoi che faccia la tua fine, rimbalzare da un orfanotrofio all’altro, da una famiglia affidataria all’altra, alla mercè di qualunque Alex Hagen che si senta in diritto di tirargli del fango e di chiamarlo mostro? Un singhiozzo le scuotè il corpo e Medusa si coprì una mano con la bocca, orripilata dal pensiero che si era appena formato nella sua mente.

Vuoi che faccia la fine di Evie?

Si sedette per terra e finalmente si concesse di piangere.

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Siamo arrivati alla fine di questo capitolo. Allora, come lo avete trovato? Fatemi sapere.

Secondo voi, come reagirebbe John se sapesse che Meredith aspetta un bambino? Si farebbe prendere dal panico, oppure accetterebbe le proprie resposabilità? E soprattutto, sarebbe felice all'idea di diventare padre? Come pensate che evolverà la cosa?

Un bacio a tutti e alla prossima!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


WaBLtW2

Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto, a parte Meredith St.Clair/Medusa, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Salve a tutti! Ecco il secondo capitolo di "Winning a Battle, Losing the War". Ad essere sincera, viste le critiche favorevoli che avevo avuto per "Into the Fire", mi ero aspettata un esordio un po' più brillante. Vedete? Così imparo a montarmi la testa; il Karma non perdona mai.
Se qualcuno volesse lasciarmi anche solo due righe per dirmi che ne pensa di questa fanfic ne sarei felicissima. Anche "fai schifo, ritirati" andrebbe bene, almeno so se continuare a postare oppure no.

Ad ogni modo, adesso basta pippe mentali e parliamo di cose inerenti al racconto. I nomi dei mutanti che si uniscono alla Confraternita la sera in cui Magneto e Pyro partecipano alla riunione nella chiesa (la ragazza con i capelli neri e il bustino di pelle che percepisce i poteri degli altri mutanti e i suoi due amici, tanto per intenderci) non vengono mai pronunciati nel film X Men 3, così ho fatto una ricerca su Wikipedia, Dio la benedica. Se sono sbagliati, prendetevela con i redattori di Wikipedia, non con me. ^__^

C'è un po' di lemon verso la fine del capitolo. Come al solito, niente di esplicito o dettagliato, ma tanto per farvelo sapere.

Buona lettura!

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Medusa guardò preoccupata il cielo plumbeo all’orizzonte. Probabilmente ci sarebbe stato un temporale entro il tramonto, e sperò ardentemente che la tenda giù all’accampamento reggesse all’acquazzone.

Brava, molto professionale, si rimproverò. Sei nel bel mezzo di una missione e tu pensi alla tenda. Ringrazia dio che Magneto non è in grado di leggere nel pensiero.

Medusa fissò il suo capo che se ne stava in piedi a qualche passo da lei, intento anche lui a scrutare l’orizzonte. Sapeva bene che non stava guardando il cielo. Stava aspettando che il convoglio militare apparisse da oltre la curva, così avrebbero potuto entrare in azione e liberare il suo braccio destro, da ormai quattro mesi nelle mani del governo degli Stati Uniti d’America.

Medusa sbuffò impaziente, e fortunatamente nessuno se ne accorse. Tra lei e Mistica non era mai corso buon sangue, ma Medusa non avrebbe potuto spiegare il perché. Si detestavano e basta, fin dal primo giorno in cui lei e Pyro si erano uniti alla Confraternita. Questione di carattere, forse. O di rivalità tra donne.

Pyro si appoggiò ad uno degli alberi che offrivano loro riparo, e si accese una sigaretta. Medusa cominciò a sentirsi addosso una certa stanchezza. Ormai stava in piedi ad aspettare da quasi quaranta minuti, e provò il desiderio di sedersi per terra, ma poi si trattenne. Non voleva fare la figura della debole davanti ai nuovi acquisti della Confraternita. In fondo, lei era pur sempre Medusa, una delle guardie del corpo di Magneto e, ora che Mistica era impegnata altrove, tanto per usare un eufemismo, anche uno dei suoi luogotenenti.

Magneto aveva chiesto a lei e a Pyro di occuparsi dell’inserimento dei ragazzi nuovi, reclutati, come le aveva raccontato il suo fidanzato, a quella riunione in cui lui e Magneto avevano fatto irruzione. Il suo sguardo scivolò su di loro: Kid Omega, il ragazzo asiatico con gli aculei a porcospino, Archlight, con il suo sguardo arcigno e i suoi guanti viola, e il loro capo, Callisto, che aveva trovato Mistica su ordine di Magneto.
Non avrebbero partecipato all’azione oggi, ma si sarebbero limitati a guardare. Sul campo di battaglia sarebbero scesi loro tre: lei, Pyro e Magneto, i veterani.

Non era la prima volta che partecipava ad uno scontro. Da quando aveva lasciato la scuola le era capitato più volte di usare i suoi poteri, sia per difendersi, sia per attaccare. Ormai piegare le persone alla propria volontà e trasformarli in burattini di cui lei teneva i fili non le faceva più né caldo né freddo. Non ne provava piacere, ma nemmeno la disturbava come succedeva un tempo: era routine, ordinaria amministrazione. Era semplicemente quello che faceva per sopravvivere. E sopravvivere era tutto.
Si era però imposta di non uccidere, a meno che non fosse strettamente necessario. Per fortuna, controllare la volontà delle persone per il momento si era rivelato sufficiente, e non si era mai trovata nella situazione di dire “o me o loro”.

“Sono vicini.” disse Callisto. “Un chilometro, non di più.”

Magneto la guardò brevemente ed annuì. “Aspettate finché non mi sarò liberato del convoglio.” disse rivolto a Medusa e Pyro. “Poi raggiungetemi.”

Si gettò il lungo mantello nero oltre le spalle e si incamminò verso la strada, a circa un centinaio di metri da loro. Medusa sapeva quello che stava per succedere. Era un copione già visto. pensò. Stupidi umani, pensò. Troppo pieni di sè per imparare dai propri errori.

Pyro schiacciò la sigaretta contro la suola del suo stivale e si mise a fianco della sua fidanzata. “Lavoretto facile?” disse guardando Magneto, ormai solo una figurina ferma nel centro della strada.

“Assolutamente sì.” rispose lei.

“Guardie?”

Medusa alzò le spalle. “Due o tre, se Magneto si libera della scorta.”

Pyro annuì pensieroso. “Se ne libererà.”

“E noi che facciamo?” si intromise improvvisamente Kid Omega.

Medusa e Pyro si voltarono a guardarlo. “State di guardia.” rispose lei.

Le piacevano quei tre ragazzi, le sembravano in gamba. Se fosse stato per lei li avrebbe fatti partecipare alla missione, ma gli ordini di Magneto erano stati chiari: il loro ruolo sarebbe stato puramente d’osservazione. Dovevano ancora imparare come lavorava la Confraternita.

Kid Omega alzò le spalle, incredulo. “Ma se non verrà nessuno!” protestò.

“Beh, tanto meglio per voi.” gli rispose Pyro. “Potrete godervi con comodo lo spettacolo.”

“E a proposito di spettacolo.” disse Callisto indicando la strada. “Guardate là.”

Una colonna di auto era appena spuntata da dietro la curva. Due fuoristrada neri con i lampeggianti della polizia precedevano un enorme tir, che trainava quello che sembrava essere un container d’acciaio. Dietro il tir, altri due fuoristrada chiudevano il convoglio.

Pyro rise. “Cristo santo, c’è metallo ovunque!” esclamò. “Ma come fanno ad essere così cretini?”

Medusa si limitò a sorridere mentre i primi due fuoristrada venivano spazzati via da Magneto con un semplice gesto della mano. Sentì Callisto e gli altri mormorare stupefatti, esattamente come aveva fatto lei la prima volta che aveva visto Magneto all’opera.

Anche gli altri due fuoristrada carambolarono nel prato, uno da una parte e uno dall’altra, e a quel punto il container si staccò dal tir che lo trainava e scivolò sull’asfalto, sollevando una cascata di scintille. Il tir, ormai fuori controllo, procedette a folle velocità verso Magneto. Dietro di lei, Medusa sentì Archlight trattenere il respiro.

“Porca puttana, guardate che roba!” gridò Kid Omega a metà tra l’elettrizzato e l’atterrito, mentre il tir si librava in aria e poi si sfracellava sull’asfalto alle spalle di Magneto.

“Te l’avevo detto che si sarebbe liberato della scorta.” disse Pyro rivolgendosi a Medusa.

Magneto alzò una mano, e il container rallentò la sua corsa sull’asfalto fino a fermarsi a pochi passi da lui.

“Andiamo.” ordinò Pyro, e i cinque ragazzi corsero in direzione del loro capo, in attesa tra i rottami delle auto. Medusa evitò accuratamente di guardare i cadaveri degli agenti stritolati tra le lamiere.

Raggiunsero il retro del container e Medusa ordinò a Callisto, Kid Omega e Archlight di rimanere di guardia all’esterno.

“Non riesco a credere di essere venuta fin qui solo per restarmene con le mani in mano.” protestò Callisto.

“Fidati.” le disse Medusa. “Quando conoscerai Mistica sarai felice di essere rimasta fuori.”

Callisto le sorrise, e Medusa ne fu contenta. Voleva farsi rispettare, ma non voleva essere una stronza piena di boria come era Mistica, che guardava tutti dall’alto in basso solo perché era così in confidenza con Magneto da potersi permettere di chiamarlo con il suo vero nome. Per essere una che si dà tutte quelle arie, non ha fatto una gran figura facendosi catturare come una rubagalline qualsiasi, pensò Medusa ridacchiando malignamente dentro di sé.

Si piazzò davanti al portellone d’acciaio del container. Magneto, alla sua destra ma leggermente più arretrato rispetto a lei, la guardò negli occhi. “Pronta?” le chiese.

Medusa guardò il portello e si concentrò. Sentiva il cuore pomparle l’adrenalina in circolo battendo ad una velocità folle, ma sapeva benissimo che non era paura, solo eccitazione. I muscoli delle gambe si fletterono leggermente, pronti a scattare. Sapeva quello che doveva fare. Era una tecnica collaudata.

“Pronta.” rispose, e in quel preciso istante il portellone d’acciaio si staccò dai suoi cardini e volò via, e Medusa saltò nel container, gli occhi spalancati davanti a sé.

Una pistola le si puntò immediatamente contro la faccia, e dietro la pistola c’era un agente sudato e con l’uniforme tutta spiegazzata che ansimava spaventato. La guardò negli occhi.

La guardavano sempre tutti negli occhi. Possibile che non avessero ancora capito?

“Che vuoi fare, burattino?” chiese all’agente con tono di scherno, e quello abbassò immediatamente la pistola, le braccia che ciondolavano mollemente lungo i fianchi come se non avessero ossa nella carne.

“Ecco, bravo, a cuccia.” gli disse guardandolo sdraiarsi faccia a terra.

Il rumore di un applauso le fece alzare la testa. Mistica era in fondo al container, davanti alla porta spalancata di una cella. Il corpo di una guardia giaceva esanime ai suoi piedi.

“Brava.” le ghignò. “Erano anni che non mi divertivo così.”

Medusa alzò le spalle con finta indifferenza, ma dentro di sé bruciava dalla rabbia. Mistica era davvero bravissima a farla andare fuori dalla grazia di dio.

“Sai com’è.” rispose. “C’è stato parecchio da fare in questi mesi. Peccato che tu te lo sia perso.” Mistica aprì la bocca, il volto contorto dalla rabbia, e Medusa esultò per essere riuscita a colpirla sul vivo.

“Signore, vi prego.” le richiamò la voce di Magneto prima che Mistica riuscisse a dire qualcosa.

Medusa si voltò. Lui e Pyro erano saliti sul container e ora si guardavano in giro con curiosità, facendo vagare lo sguardo dall’agente sdraiato accanto al portellone a quello morto vicino alla cella di Mistica, alle porte numerate che si trovavano sulla parete destra del container.

La cambiaforma avanzò verso il suo vecchio amico, la disputa con Medusa già dimenticata. “Era ora.” disse rivolta a Magneto. Probabilmente il tono voleva essere risentito, ma più che altro suonò sollevato.

“Sono stato occupato.” replicò Magneto con un tono di scusa. “Che cosa hai scoperto?”

Mistica alzò le spalle. “La fonte della Cura è un mutante. Un ragazzo dei laboratori Worthington.” rispose. “Senza di lui non hanno niente.”

Magneto annuì con aria soddisfatta. Fece volare una cartelletta d’acciaio che giaceva sul pavimento fino a Pyro, che l’afferrò al volo. “Leggi la lista degli invitati.” gli disse.

Pyro obbedì. “Detenuto 1475, James Madrox .” lesse indicando la prima cella.

Magneto scardinò via la porta. Dentro c’era un uomo con i capelli scuri, una maglietta colorata e un giubbotto di pelle. Fece un passo avanti e improvvisamente c’erano due uomini con i capelli scuri e la giacca di pelle, uno dentro la cella, l’altro appena fuori. Poi un’altra copia si staccò da quello che era rimasto nella cella e si piazzò davanti ai mutanti della Confraternita, poi si staccò un’altra copia, e un'altra ancora, e un’altra ancora. Alla fine anche l’uomo della cella fece un passo avanti, e tutte le copie (ormai ce n’erano una mezza dozzina) si riunirono al corpo originale, che sorrise serafico ai suoi liberatori.

Medusa lo fissò a sua volta. Aveva degli splendidi occhi verdi e adesso che lo guardava meglio, il suo sorriso non era serafico, tutt’altro. Era un sorriso sexy. Davvero molto, molto sexy. Che gran bel pezzo di...

La voce di Mistica la distolse brutalmente dai suoi pensieri. “Ha rapinato sette banche.” spiegò. “Contemporaneamente.”

Per la prima volta da quando si erano conosciute, Medusa provò un’ondata di gratitudine per la cambiaforma. Dentro di sé stramaledisse gli ormoni che le erano impazziti a causa della gravidanza, e che la portavano dalla depressione alla ninfomania compulsiva almeno sei o sette volte al giorno.
Le era capitato altre volte di fare pensieri su qualche uomo che incontrava, e che non era John. Beh, non era mica di legno. Ma mai fino al punto di sentirsi sessualmente attratta da lui.

Magneto squadrò Madrox dalla testa ai piedi. “Mi farebbe comodo uno con il tuo talento.” disse.

Lui alzò le spalle. “E va bene, ci sto.” rispose.

“Benvenuto nella Confraternita.” gli disse Magneto, e Madrox si incamminò verso il portellone, ma non prima di essersi voltato a squadrare Mistica. Medusa dovette girarsi di scatto e fissare la parete di fondo del container per impedire ad una serie di pensieri molto sexy e molto sconci di riversarsi nel suo cervello.

Passarono alla cella successiva. “Detenuto 3982, Cain Marko.” lesse Pyro. Mentre scorreva con gli occhi il contenuto della cartelletta, qualcosa sembrò catturare la sua attenzione. “Ehi, sentite questa: “Il detenuto deve essere tenuto sempre sottochiave.” citò. “Se si mette in moto, niente può fermarlo.”

Magneto piegò leggermente la testa di lato, genuinamente incuriosito dalla nota che le guardie avevano aggiunto al suo profilo. “Che cosa interessante.” bisbigliò, e la pesante porta d’acciaio di spalancò di colpo.

Alla parete della cella era legato un uomo gigantesco, i muscoli del torace e dall’addome gonfi come quelli di un pugile, o di un culturista. Aveva decisamente le spalle più larghe che Medusa avesse mai visto. Rimase in attesa di qualche pensiero a luci rosse, ma grazie a dio non ne ebbe nemmeno uno. Non poteva esserne sicura al cento per cento, dato che indossava un elmo di ferro simile a quello di Magneto, ma il tizio, per quanto muscoloso, non era certo né bello né sexy. Meno male che ancora non sei caduta tanto in basso, pensò con un certo sollievo.

“Come ti chiamano?” chiese Magneto all’uomo nella cella.

Lui alzò il mento in una posa d’orgoglio. “Il Fenomeno.” rispose.

Magneto sollevò un sopracciglio con aria vagamente schifata. “Mi domando il perché.”

Il Fenomeno non sembrò cogliere il sarcasmo nella voce di Magneto. “Fatemi uscire, devo fare pipì.” disse semplicemente.

Le morse di ferro che lo tenevano imprigionato si spaccarono in due e il Fenomeno uscì dalla cella, guardando uno per uno i suoi liberatori.

“Bello il tuo elmo.” disse Pyro quando lo sguardo del Fenomeno si posò su di lui.

Medusa cercò con una certa ansia del sarcasmo nella voce di Pyro. Voleva molto bene al suo ragazzo e sapeva che era imbattibile con il suo lanciafiamme, ma il Fenomeno, a giudicare dalla stazza, sarebbe stato capace di metterlo al tappeto con una sberla.

Per fortuna il Fenomeno, forse anche lui indeciso come Medusa, optò per la strada della non violenza. “Mi dona, vero?” rispose.

Poi accadde, e accadde molto in fretta. Medusa sentì un click, come un caricatore che viene infilato in una pistola, e un urlo.

“No!”

Si voltò di scatto e vide che l’agente si era rialzato e puntava la pistola verso di loro. Il suo cervello fu, per un istante, annebbiato dalla paura, ma la sua mano destra si mosse veloce e per conto suo, senza bisogno di alcun ordine o autorizzazione, e si posò sul suo grembo per fare da scudo al bambino dentro di lei.

Mistica scattò in avanti, e il proiettile che era diretto a Magneto la colpì poco sotto la spalla sinistra. Prima che la guardia potesse sparare di nuovo, prima ancora che riuscisse a capire cos’era successo, Magneto gli fece volare via la pistola dalle mani e Pyro lo investì con una potentissima fiammata.
Il poliziotto cadde a terra senza un lamento (più tardi, quando ripensò a quello che era successo nel container, Medusa ringraziò dio per questo: era sicura che se lo avesse sentito gridare sarebbe impazzita), il corpo avvolto dalle fiamme. L’odore dolciastro della carne bruciata si diffuse nel container, e immediatamente Medusa fu travolta dalla nausea.

Si aspettò di vedere il sangue colare copioso dalla ferita di Mistica, ma invece, quando la cambiaforma cadde a terra, Medusa potè vedere che aveva una fiala conficcata nella carne. Il liquido che vi era contenuto si iniettò rapidamente dentro il corpo di Mistica, che cominciò a tremare, squassata dalle convulsioni.

I suoi capelli furono i primi a cambiare, passando da rosso fuoco a nero corvino. La sua pelle perse rapidamente il colorito blu scuro e le scaglie che ricoprivano il suo corpo furono inghiottite dall’epidermide, che divenne liscia e rosea. Alla fine una Mistica completamente diversa, una Mistica che Medusa non conosceva, li guardò terrorizzata e tremante, sdraiata nuda sul pavimento d’acciaio del container.

“Grazie per avermi salvato.” le disse Magneto, distogliendo lo sguardo.

Mistica sollevò la testa, i suoi occhi azzurri (azzurri, non gialli, come erano stati fino a quel momento) pieni di lacrime. “Eric...” chiamò con un filo di voce.

Lui tornò a guardarla. “Mi dispiace, mia cara.” disse. “Non sei più una di noi ormai.”

Medusa si voltò a guardare Magneto, incapace di credere a ciò che aveva appena sentito. Fu proprio questo, il fatto che lui cacciasse via il suo miglior luogotenente dopo anni e anni di fedele servizio, che si liberasse della sua unica amica dopo che lei aveva rischiato la vita per salvarlo dalla Cura, a stomacarla maggiormente in tutta quella giornata, ancor più del cadavere della guardia che ancora bruciava a pochi passi da lei.

“Che peccato.” Medusa sentì dire da Magneto mentre si allontanava insieme a Pyro e al Fenomeno. “Era così bella.”

Si tolse la giacca e l’appoggiò sulle spalle di Mistica, cercando di coprirla meglio che poteva, detestandosi per non averci pensato prima, per averla lasciata nuda ed esposta sotto gli occhi di tre uomini, per non averle risparmiato almeno quella degradazione.

Mistica la guardò senza parlare, incapace di smettere di tremare. Non si erano mai piaciute, anzi, avrebbero potuto tranquillamente dire che si odiavano, eppure Medusa non aveva mai voluto questo, non glielo aveva mai augurato, mai.

Avrebbe voluto dirlo a Mistica, avrebbe voluto dirle che le dispiaceva, che era tutta colpa sua se aveva perso i suoi poteri, era colpa sua se Magneto l’aveva abbandonata, se quella guardia era morta in maniera orribile...

Ma la nausea ormai era diventata troppo forte, e Medusa si voltò e corse fuori dal container, cercando di non guardare il cadavere carbonizzato del poliziotto. L’aria pura e fresca le fece guadagnare alcuni secondi preziosi e riuscì a fare il giro del container, arrivando alla parte anteriore, e lì cadde in ginocchio e vomitò con violenza.

Si rimise in piedi, ma improvvisamente il pensiero di aver lasciato dentro Mistica, di non averla aiutata ad alzarsi e ad uscire, di non aver neppure provato a contraddire Magneto quando l’aveva buttata fuori dalla Confraternita le provocò un'altra serie di conati. Si aggrappò al metallo contorto e annerito del container.

“Ehi, va tutto bene?”

Medusa alzò gli occhi e vide Callisto che la guardava con aria sospettosa.

Si pulì la bocca con il dorso della mano. “Sì, sì, certo.” rispose cercando di darsi una contegno.

“Sicura?” insisté Callisto. “Perché non sembra che tu stia bene.”

Medusa cercò di controllare il tremito che le impediva di reggersi in piedi senza appoggiarsi al container.

“Sto bene.” ripeté, e mosse qualche passo verso Callisto.

“Ma che è successo là dentro?” chiese la ragazza.

“Non importa.” rispose Medusa. “Andiamocene via di qui.”

****

“E’ colpa mia. E’ tutta colpa mia.”

Medusa e Pyro erano seduti per terra davanti alla loro tenda, nell’accampamento che la Confraternita aveva stabilito nella foresta. Medusa guardò il falò che scoppiettava a qualche metro da loro, guardò le fiamme che rischiaravano debolmente la notte, e rabbrividì ripensando al poliziotto che era morto bruciato. Distolse in fretta lo sguardo prima che la nausea potesse tornare ad assalirla.

Aveva passato quasi un ora sotto la doccia, nel bunker sotterraneo che Magneto usava come rifugio privato, eppure non riusciva a togliersi di dosso quell’odore stomachevole di carne bruciata. John le aveva assicurato che se lo immaginava, che lui riusciva solo a sentire il profumo del bagnoschiuma e dello shampoo, eppure Medusa non si dava pace.

“Non è stata colpa tua.” ripeté Pyro per l’ennesima volta quella sera. “Sai bene che non è così.”

“Avrei dovuto stare più attenta.” insisté lei testardamente. “Ordinare alla guardia di gettare la pistola.” Scosse la testa, frustrata. “Come ho potuto essere così stupida?”

“Non era mai successo che qualcuno riuscisse a liberarsi dal tuo controllo prima d’ora.” replicò Pyro. “Non lo potevi prevedere.”

“Beh, avrei dovuto.” obiettò lei stizzosamente.

Sospirò e diede un calcio al terriccio polveroso e secco ai suoi piedi. Non c’era stato alcun temporale e la terra implorava acqua. “E’ che mi era sembrato così debole e spaventato... Pensavo che l’energia che avevo utilizzato bastasse per tenerlo sotto controllo.”

“Appunto.” disse Pyro. “Hai fatto tutto quello che dovevi.” Allargò le braccia. “Senti, Meredith, facciamo una vita pericolosa. Non sempre possiamo controllare tutto quello che succede durante le nostre missioni. Ci sono dei rischi. Questo lo sappiamo noi, lo sa Magneto e lo sapeva anche Mistica.”

Medusa scosse la testa e guardò il gruppetto che sedeva attorno al falò poco distante. C’era un uomo sulla quarantina, con i capelli scuri lunghi fino alle spalle e la pelle olivastra, che teneva banco raccontando qualcosa agli altri mutanti che erano lì con lui.

“... e allora io mi giro verso il ciccione,” Medusa sentì l’uomo dire. “e gli faccio: Se ti piace così tanto, perché non te lo sposi?”

Il suo pubblico, di cui faceva parte anche Kid Omega, scoppiò a ridere di gusto.

“La odiavo, la odiavo davvero, sai?” disse Medusa a bassa voce. “E adesso mi sento una merda. Come se le avessi sparato io.”

Pyro la guardò. “Hai ordinato al poliziotto di alzarsi e sparare?” chiese.

Medusa lo fissò scioccata. “No!” esclamò. “No, certo che no! Come puoi solo pensare...”

“Allora ho ragione io.” la interruppe Pyro. “Non è stata colpa tua.”

Medusa scosse la testa e appoggiò il mento sulle ginocchia, cominciando a piangere. Incolpò di nuovo i suoi ormoni impazziti, ma la verità era che si sentiva troppo stanca e troppo sconvolta per lottare ancora contro le lacrime, e questa volta il pensiero che uno dei veterani della Confraternita non potesse mostrarsi debole davanti ai suoi sottoposti non servì a niente.

Pyro le mise un braccio attorno alle spalle e le girò il viso verso di lui. “Non è colpa tua.” ripeté, e si chinò a darle un bacio sulle labbra. Era la prima volta da quando era iniziata la loro relazione che John si lasciava andare ad una simile dimostrazione di affetto in pubblico, e Meredith ne fu così sorpresa e così felice che la sua voglia di piangere scemò.

John le sorrise. “Andiamo a dormire?” chiese indicando la tenda.

Meredith annuì e si alzò in piedi. In quel momento le giunse dal falò la voce di Kid Omega.

“Che cos’è quello, amico, un rosario?” chiese al tizio con i capelli lunghi.

“Questo? Ah, sì.” rispose lui. “E’ una strana storia, pensa. Me l’ha dato anni fa una ragazza che avevo incontrato a Chicago. Io non lo volevo neanche, ma lei continuava a dire che aveva abbandonato la sua bambina sulle scale di Saint Mary of Grace a Detroit e che ora non era più degna di tenere Dio su di sé, e allora...”

Medusa si girò di scatto. “Come hai detto?” chiese all’uomo con i capelli lunghi.

Tutto il gruppetto attorno al fuoco si gelò immediatamente quando vide la luogotenente di Magneto avanzare a grandi passi verso di loro. L’uomo con i capelli lunghi deglutì e la fissò con uno sguardo spaventato.

“Beh,” iniziò cauto. “si parlava di questo...”

Si interruppe, evidentemente insicuro su come procedere, e alzò la mano sinistra. Attorno al polso portava avvolto quello che sembrava essere un lungo rosario di pietre scure. La croce d’argento che pendeva dalla catena brillava alla luce del fuoco.

Medusa fissò la croce. “Hai detto che te l’ha dato una ragazza?” chiese. “Dove?” Sentì Pyro arrivarle alle spalle e fissare anche lui il rosario avvolto attorno al polso dell’uomo.

“A Chicago.” ripeté lui. “E’ stato...” Corrugò la fronte nello sforzo di ricordare. “Sì, alla mensa dei poveri di Joliet Street. Non è che io mangiassi lì, avevo un amico che ci lavorava, quindi capitava spesso che andassi a...”

“Ed è lì che hai incontrato quella ragazza?” lo interruppe Medusa. “Che aspetto aveva?”

L’uomo scosse la testa. “Non ricordo. E’ successo... mah, una quindicina di anni fa, più o meno.”

“Sei sicuro che abbia parlato di Saint Mary of Grace, a Detroit?” lo incalzò Medusa. “Proprio sicuro?”

“Sì, su questo non posso sbagliarmi.” rispose l’uomo. “Lo ha ripetuto almeno un migliaio di volte.”

Medusa guardò di nuovo il rosario che luccicava riflettendo debolmente la luce del falò. Poi, con un rapido sguardo a Pyro, si incamminò verso gli alberi che costeggiavano l’accampamento, lasciando dietro di sé il gruppetto di mutanti che la guardarono nervosi e stupiti.

Il cuore le batteva impazzito nel petto, e Medusa si mise a camminare avanti e indietro tra gli alberi come aveva fatto quando aspettava il risultato del test di gravidanza. Un tumulto di emozioni le si rimestava nello stomaco, e Medusa non avrebbe potuto dire, nemmeno sotto tortura, quale fosse la prevalente in lei.

Pyro la raggiunse e le rivolse uno sguardo interrogativo. Solo la parte destra del suo viso era distinguibile nel buio, illuminata dal chiarore del falò. Il resto del suo corpo era in ombra.

Medusa lo guardò in silenzio. “John, credo che quella donna fosse mia madre.” sussurrò quando riuscì a racimolare il fiato che le serviva per parlare.

Lui spalancò gli occhi. “No, aspetta, aspetta un momento.” disse alzando una mano. “Come fai a sapere...”

“La chiesa.” rispose Medusa. “E’ per questo che il mio secondo nome è Grace, perché mi hanno trovata sulla scalinata di Saint Mary of Grace a Detroit. John, e se...”

“Non puoi esserne sicura. Si tratta di una chiesa, chissà quanti bambini, negli anni, sono stati lasciati lì davanti. Voglio dire, si sentono di continuo storie del genere.” disse Pyro.

Medusa considerò per un po’ le sue parole. “Sì, questo è vero. Ma la chiesa corrisponde, e la città, e anche il periodo, più o meno.” Fissò di nuovo Pyro, cercando di distinguere i suoi occhi nella penombra. “John, potrebbe essere lei.”

Pyro le restituì lo sguardo e rimase in silenzio. “Andiamo a dormire, adesso.” disse piano, dopo un po’. “Domani ci penseremo.”

Tornarono nella loro tenda e si prepararono per la notte. Medusa si spogliò dei vestiti che indossava e si mise la maglietta di John che utilizzava come pigiama. Nonostante fossero ormai in maggio, la temperatura non era molto alta di notte, ma il sacco a pelo che avevano comprato era abbastanza grande per tutti e due, e se Meredith sentiva freddo le bastava stringersi a John per scaldarsi.

Quando si voltò, Medusa vide che Pyro era già nel sacco a pelo e la stava fissando con un sorriso sulle labbra.

“Sono felice di averti ceduto quella maglietta.” le disse facendo correre gli occhi sulle sue gambe nude.

Medusa sorrise a sua volta. “Dovrai indossarla di nuovo, qualche volta.” rispose indicando la maglietta. “Ormai ha quasi del tutto perso il tuo odore.”

Pyro annuì e le tese le braccia. “Quando vuoi, ma adesso vieni qui.”

Medusa obbedì e si infilò nel sacco a pelo insieme a lui, avvolgendogli le braccia attorno al corpo e attirandolo a sé per un bacio. John rispose con altrettanta passione, le sue mani che vagavano libere sul corpo di lei finchè non furono entrambi nudi, e Meredith dovette premere forte la bocca contro il suo petto per soffocare il gemito che le salì alle labbra quando raggiunse l'orgasmo. Alla fine crollarono uno a fianco all'altra, stremati e coperti di sudore.

“Da dove viene Meredith allora?” chiese improvvisamente Pyro mentre l’abbracciava.

“Il paramedico che mi portò in ospedale mi diede il nome di sua madre.” rispose lei appoggiando la testa sulla sua spalla. “O almeno così mi hanno detto.”

Rimase a lungo sveglia a guardare la luce del falò che filtrava attraverso il telo della tenda, sempre più fievole, sempre più fievole, finché non si spense completamente e tutto fu buio.

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Spero di non aver offeso nessuno, ma ho voluto fare un omaggio a Eric Dane, che in X Men 3 interpreta James Madrox (alias Multiple Man), e che secondo me è l'uomo più sexy della galassia. Non per niente in Grey's Anatomy ha ricevuto il soprannome di "Dottor Bollore"...
Comunque non vi preoccupate: la fantasia di Meredith su Madrox rimarrà, appunto, una fantasia senza alcuno sviluppo.
Se ci riuscite, non ve la prendete troppo con Meredith, non è stata del tutto colpa sua. A parte il fatto non trascurabile che sono io, il suo burattinaio (Buahhahhahh, risata malvagia), Meredith è in preda agli ormoni della gravidanza, e Eric Dane è, oggettivamente, un gran bel pezzo di gnocco, tanto per usare un francesismo che fa molto chic.
E poi a chi non è capitato di fare pensieri sconci su qualcuno che non è il proprio ragazzo? Allora? Nessuno? Forse c'è una mano alzata là in fondo... No, nessuno.


Forse il ruolo di Medusa e Pyro nella Confraternita potrebbe a prima vista sembrare eccessivo, ma se ci pensate bene, nel film Pyro è con Magneto ovunque vada, e sull'isola di Alcatraz è proprio lui a trasmettere l'ordine d'attacco al resto della Confraternita. Non mi sembra eccessivo affermare che, a causa anche della "demutantizzazione" (lo so, andrei picchiata per quest'orrore che ho appena scritto) di Mistica, Pyro diventi il braccio destro di Magneto.

Bene, anche per questa volta è tutto. Un saluto a tutti e a presto!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


WaBLtW3 Disclaimer: Tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Ecco a voi il terzo capitolo. Godetevelo!

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Arrivarono davanti alla mensa per i poveri di Joliet Street, a Chicago, quando le campane della chiesa lì accanto suonavano le due del pomeriggio.

“E’ questa?” chiese dubbioso Pyro, guardando l’edificio grigio e malmesso che sorgeva davanti a loro.

Tutta Joliet Street, a dir la verità, aveva l’aria di essere poco raccomandabile. Molti dei palazzi che vi si affacciavano avevano alcune delle loro finestre sbarrate con assi di legno, e graffiti dipinti con le bombolette spray decoravano i muri, che erano scrostati in più punti. C’erano alcuni bambini che giocavano a guardie e ladri in un vicolo buio, e li avevano guardati con diffidenza quando Pyro e Medusa li avevano avvicinati per chiedere informazioni.
Non si faceva fatica ad immaginare che Joliet Street non fosse certo nella parte “rispettabile” della città.

Medusa lesse l’insegna situata sopra la porta a vetri. “Sì, è questa.” disse.

Esitò per qualche istante, poi si avvicinò e cercò di guardare all’interno della mensa attraverso la vetrata, ma erano troppo opaca per la polvere per riuscire a distinguere qualcosa. Si girò a guardare Pyro, e lui le si mise a fianco. Medusa mise la mano sulla maniglia della porta e spinse.

Una piccola parte di lei fu delusa quando la porta si aprì. Non sapeva se era più ansiosa o più spaventata di scoprire qualcosa su sua madre. Aveva cercato di non farsi troppe illusioni, ripetendosi che erano passati troppi anni da quando l’uomo che aveva incontrato all’accampamento era stato qui, e che probabilmente la ragazza del rosario non era nemmeno sua madre. Una parte di lei sperava ardentemente che non lo fosse.

Durante il viaggio aveva continuato a chiedersi cosa avrebbe fatto e detto se per uno strano caso del destino quella donna fosse stata davvero sua madre, e si fossero incontrate. Sapeva bene che esisteva una probabilità su un milione che questi due avvenimenti si realizzassero contemporaneamente, eppure non riusciva a smettere di pensarci, atterrita ed elettrizzata allo stesso tempo.
Cosa avrebbe fatto? Si sarebbe voltata e sarebbe andata via, oppure sarebbe andata da lei per parlarle? E in questo caso, cosa avrebbe potuto dire? “Ciao, io sono la figlia che hai abbandonato, ti va di parlarne?”

Pyro e Medusa attraversarono la porta a vetri e si ritrovarono in una grande sala con le pareti chiare e il pavimento a piastrelle bianche e nere. Tre lunghi tavoli, ognuno da circa cinquanta posti, erano disposti perpendicolarmente nella stanza, e un lungo bancone costeggiava la parete di fondo, piatti e bicchieri ordinatamente impilati sopra. Non c’era anima viva.

Medusa si stava chiedendo cosa fare quando una porticina di legno accanto al bancone si aprì e apparve una donna di mezza età con una lunga gonna a fiori e una camicia rosa, i capelli grigi raccolti in una crocchia sulla testa.

“Mi dispiace, adesso la mensa è chiusa.” disse rivolta a Medusa e Pyro. “Tornate alle sette.”

Ad un tratto si fermò e impallidì. “Santo cielo, Danielle!” esclamò fissando Medusa. “Come è possibile?”

Medusa sentì il suo respiro bloccarsi nei polmoni. “Cosa? Come mi ha chiamato?” chiese alla donna avanzando rapidamente verso di lei.

La donna prese un paio di occhiali da vista dal taschino della camicia e li inforcò, esaminando attentamente Medusa attraverso le lenti. “No, tu non sei Danielle.” mormorò, parlando più a sé stessa che alla ragazza in piedi davanti a lei. “Eppure...”

“Sto cercando una persona.” disse Medusa. Il sangue le rombava talmente forte nei timpani che faticava a sentire il suono della sua stessa voce. “Un uomo mi ha detto che, circa quindici anni fa, incontrò qui una ragazza che diceva di aver abbandonato la sua bambina davanti alla chiesa di Saint Mary of Grace a Detroit.”

La donna guardò Medusa, e sembrò capire qualcosa che a lei evidentemente sfuggiva. Chiuse gli occhi e scosse debolmente la testa. “Allora è vero...” disse. “E io che pensavo fosse solo uno dei suoi vaneggiamenti...”

Per un momento, Medusa fu certa che il suo cuore stesse per esplodere, talmente batteva forte. “Allora esiste davvero questa ragazza? Lei la conosce?” chiese con un filo di voce.

La donna annuì gravemente. “Prego, sedetevi.” disse indicando a Medusa e Pyro uno dei tavoli della mensa. Mormorando qualche parola di ringraziamento, i due ragazzi si sistemarono uno a fianco all’altra, e la donna si sedette di fronte a loro.

“Sai, le somigli davvero moltissimo.” disse improvvisamente. “E’ per questo che ti ho chiamato Danielle quando ti ho vista. Sei il suo ritratto.”

“E’ così che si chiama? Danielle?” chiese Medusa. Ha detto che le assomiglio, sussurrò una voce nel suo cervello. Ho una madre a cui assomigliare, adesso...

La donna le rivolse un mezzo sorriso. “Sì, Danielle. Danielle Alvarez.”

Alvarez, ripeté Medusa dentro di sé. Si era sempre chiesta, fin da bambina, da dove venissero la sua carnagione scura e le sue labbra piene. Ora lo sapeva. Sua madre aveva origini latine.

“C’è ancora una sua fotografia, di là.” disse la donna. “Posso andare a prenderla.”

Il cuore di Medusa le fece una capriola nel petto. “Sì, la prego.” rispose con un sussurro.

La donna si alzò. “Torno subito.” disse, ed uscì dalla stessa porta da cui era entrata, la sua lunga gonna a fiori che ondeggiava dietro di lei.

Medusa si voltò verso Pyro, elettrizzata. Aveva così tante cose da dirgli, così tante emozioni da descrivergli, eppure la sua bocca si rifiutò di emettere un qualunque suono. Non sapeva proprio da che parte cominciare.

Lui se ne accorse e le sorrise, prendendole una mano tra le sue. Senza staccare mai i suoi occhi da quelli di lei, si portò lentamente la mano alle labbra e ne baciò il dorso. Meredith gli sorrise a sua volta e gli accarezzò una guancia con la mano libera, grata per tutto il sostegno che le stava dando in quella situazione. Era venuto con lei fino a Chicago senza protestare per un viaggio che, a ben guardare, avrebbe avuto buone probabilità di risolversi in niente, sopportando senza mai fiatare il suo silenzio e i suoi mugugni distratti durante tutto il tragitto in treno. E ancora le teneva la mano fra le sue, sapendo bene, senza bisogno che lei aprisse bocca, in quale stato si trovasse ora che stava per vedere sua madre, seppure in fotografia, per la prima volta in tutta la sua vita.

La porta si riaprì e la donna riapparve con un bricco di limonata ghiacciata e due bicchieri.

“A proposito, il mio nome è Rachel Edmond.” disse versando la limonata nei bicchieri. “Faccio volontariato qui da ormai trent’anni, ed è così che ho conosciuto Danielle. Ecco, prendete.” disse porgendo a Pyro e Medusa i loro bicchieri colmi. “Avete tutta l’aria di aver fatto un lungo viaggio.”

Medusa la ringraziò e si portò alle labbra il bicchiere, rendendosi conto di quanto fosse assetata solo quando il primo sorso di limonata le scese giù per la gola.

Rachel la guardò e le rivolse un sorriso. “Ecco.” disse porgendole una fotografia. “Questa è Danielle.”

Una ragazza di non più di vent’anni, con la carnagione ambrata e lunghi capelli neri era seduta ad uno dei tavoli della mensa, forse proprio il tavolo in cui Medusa era seduta ora. I suoi vestiti erano logori e male assortiti, con un lungo cappotto di panno grigio che copriva una maglietta azzurra di cotone e una paio di jeans stracciati. Le sue labbra carnose erano leggermente dischiuse e i suoi occhi sembravano fissare un punto lontano, situato da qualche parte alla sua sinistra. Dal suo collo pendeva un rosario di pietre scure con al centro una croce d’argento. Medusa scrutò attentamente ogni dettaglio. Se non fosse stato per i capelli neri e gli occhi nocciola avrebbe anche potuto essere lei la ragazza della foto.

“Come vedi, ti somiglia molto.” disse Rachel. “Non avrei mai creduto che ci fosse veramente una bambina. Come ho detto prima, pensavo si trattasse solo di una delle sue farneticazioni.”

Medusa alzò gli occhi dalla fotografia. “Farneticazioni?” chiese. “Farneticazioni in che senso?”

Rachel esitò, a disagio.

“La prego.” la incalzò Medusa. “Ho bisogno di sapere. Mi dica la verità.”

Rachel esalò un lungo sospiro. “Danielle è malata di mente. Una qualche forma di schizofrenia, o almeno credo.” Medusa sentì Pyro stringerle forte la mano fra le sue. “Non saprei darti il suo esatto quadro clinico, ma posso dirti che aveva dei gravi problemi quando arrivò qui.”

Medusa si lasciò andare contro lo schienale della sedia. La parte di lei che già immaginava lunghe chiacchierate con Danielle, o almeno sognava la possibilità di chiederle perché l’avesse abbandonata, giaceva al suolo colpita a morte.

“Apparve qui da un giorno all’altro.” continuò Rachel. “Nessuno fu in grado di cavarle una parola sensata riguardo a dove venisse. Ogni giorno, per circa un anno e mezzo, venne alla mensa a mangiare, cascasse il mondo, a pranzo e a cena.”

“Lei...” iniziò Medusa, in realtà senza avere la minima idea di quello che voleva domandare.

“Una brava ragazza, proprio una brava ragazza.” disse Rachel con affetto. “La maggior parte del tempo se ne stava per conto suo a mormorare versetti della Bibbia e preghiere, senza dare fastidio a nessuno. Era tanto buona. Qui le volevamo tutti molto bene. Ogni tanto, quando si sentiva un po’ meglio, dava una mano a pulire e aiutava gli altri ospiti. Ma capitava di rado, purtroppo.”

Medusa guardò di nuovo la fotografia davanti a lei. Non guarda da un'altra parte perché il fotografo l’ho sorpresa mentre era distratta. Chissà cosa sta credendo di vedere mentre scruta in quel punto lontano. Si vergognò immediatamente per quel pensiero.

“Era molto religiosa?” chiese, cercando di ignorare il dolore che sentiva nel petto.

“Oh sì, molto.” rispose Rachel. “Portava al collo il suo rosario come se fosse una reliquia. Poi un giorno si presentò qui senza, e non fummo capaci di farci dire che fine avesse fatto. Molto probabilmente l’aveva perso da qualche parte.”

Medusa scosse la testa sorridendo tristemente. “Non poteva più portare Dio su di sé perché aveva abbandonato la sua bambina.” mormorò. Rachel Edmond la guardò sconcertata.

“Ho incontrato l’uomo a cui Danielle diede il suo rosario, circa quindici anni fa.” spiegò Medusa, indicandolo nella foto. “Lo pregò di prenderlo dicendo che lei aveva abbandonato sua figlia davanti alla chiesa di Saint Mary of Grace a Detroit. E’ così che sono risalita a questo posto.”

“Sì.” disse Rachel. “Lo ripeteva sottovoce migliaia di volte al giorno. Ma dato il suo stato mentale, nessuno ha mai immaginato che fosse vero.”

Medusa fissò a lungo la fòrmica verde pisello del tavolo, incapace di sentire nulla che non fosse quel dolore nel petto, come la ferita di un pugnale. Alzò lentamente lo sguardo su Rachel. “Signora Edmond.” iniziò, cercando di tenere la voce ferma. “Sa dirmi dove si trova Danielle ora?”

Lei annuì tristemente. “E’ ricoverata all’ospedale psichiatrico di St. Louis.” disse con un sospiro. La ferita nel petto di Medusa si fece più dolorosa.

“Come ti ho detto, è rimasta con noi per circa un anno. Poi un giorno è sparita misteriosamente come era apparsa.” continuò Rachel Edmond.

“Se è scomparsa come fa a dire che è in manicomio a St. Louis?” domandò Pyro.

“Per dieci anni non abbiamo saputo più niente di lei.” rispose Rachel. “Quando sparì abbiamo provato a cercarla per un po’, ma non ne trovammo traccia da nessuna parte. Passammo in rassegna gli ospedali, le case di cura, i ricoveri per senzatetto, persino gli obitori, Dio non volesse. Niente. Poi, cinque anni fa, uno dei volontari della mensa è andato a trovare suo cugino che era stato ricoverato nell’ospedale psichiatrico di St. Louis, e ha riconosciuto Danielle in una delle pazienti.”

La signora Edmond fece una nuova pausa e guardò Medusa, indecisa se continuare o meno. “Sai, sono andata anch’io a trovarla, ogni tanto.” disse infine. “E’... L’ho trovata molto peggiorata, da quando stava qua. Povera bambina. Anni fa era ancora lucida, anche se solo a tratti. Con un po’ di pazienza si riusciva a farla ragionare. Ma adesso...” Scosse la testa con gli occhi lucidi. “E’ completamente persa nel suo mondo. Non credo neanche che si renda conto di dove si trova, o di quello che le accade attorno, povero angioletto. E’ come se il suo corpo fosse ancora su questa terra, ma la sua mente è altrove. Mi dispiace moltissimo.”

Medusa abbassò di nuovo lo sguardo, il dolore al petto più forte che mai. Tutto questo tempo, e non ho niente, pensò.

Fin da piccola aveva cercato di immaginare chi fosse la donna che l’aveva messa al mondo. Una parte di lei la odiava per averla abbandonata, condannandola ad una vita di solitudine negli orfanotrofi, mentre gli altri bambini avevano una mamma e una famiglia che si prendesse cura di loro.
Ma voleva anche disperatamente sapere perché l’avesse rifiutata, lasciandola appena nata sulla scalinata di una chiesa. Quando aveva visto la foto di Danielle la parte di lei terrorizzata dall’idea che sua madre non l’avesse voluta perché era una mutante aveva esultato. Sembrava così giovane. Forse era per quello che l’aveva abbandonata, perché era ancora una ragazzina e non sapeva come provvedere a sua figlia. Ma ora non avrebbe mai potuto parlare con sua madre, sapere da dove veniva, chiederle se da qualche parte aveva dei nonni, degli zii, o cose simili. Danielle era malata, e se Rachel aveva ragione non sarebbe stata in grado di dirle nemmeno una parola.

La mano di John strinse più forte la sua, e Medusa si voltò a guardarlo brevemente, poi si alzò. La signora Edmond le rivolse uno sguardo indulgente. “Ti ho dato solo brutte notizie, mia cara. Non sai quanto mi dispiace.”

Medusa scosse la testa, il suo pensiero lontano anni luce da lì. “Non è colpa sua. La ringrazio per tutto il tempo che mi ha dedicato.” disse lentamente.

“Non c’è di che, cara.” le rispose Rachel. “A proposito, ancora non ti ho chiesto come ti chiami.”

Medusa esitò. La signora Edmond le piaceva, e non le andava di mentirle. Oh, andiamo, si disse infine. Chi mai potrebbe collegare te a questo posto?

“Meredith.” rispose, ignorando lo sguardo di rimprovero di Pyro.

Rachel sorrise. “Meredith.” ripeté. Indicò la fotografia che giaceva sul tavolo davanti a loro. “Prendila pure, se vuoi.”

Medusa scrutò attentamente la ragazza che vi era rappresentata, e che aveva i suoi stessi identici tratti, la sua stessa identica carnagione, le sue stesse labbra, perfino la sua stessa corporatura. Sorrise.

“No, grazie.” rispose. “Non ne ho bisogno.”

****

Appena tornarono al campo Medusa andò al bunker ad incontrare Magneto. Era stata via tutto il giorno, e anche se ai membri della Confraternita era solitamente concessa una certa libertà di andare e venire lei aveva pur sempre delle responsabilità. Quella mattina, quando era andata dal capo a dirgli che lei e Pyro si sarebbero assentati per motivi personali, si era aspettata che lui le negasse il permesso o almeno che le chiedesse dove stavano andando. Una parte di lei desiderava che lo facesse, così avrebbe avuto un buon motivo per discutere con lui. Invece Magneto si era limitato a sorriderle e a dirle: “D’accordo, mia cara.”

Lo trovò nella sala principale del bunker, seduto al tavolo di acciaio che occupava gran parte della stanza. La pistola che il giorno precedente Magneto aveva tolto alla guardia sul container, prima che Pyro la uccidesse, giaceva sulla superficie lucida della tavola. Medusa distolse rapidamente lo sguardo e lo posò su Magneto.

“Ci sono stati dei nuovi arrivi oggi.” disse lui.

Medusa annuì. “Sì, li ho visti montare le tende mentre venivo qui.”

Magneto le mostrò dei fogli che teneva in mano. “Archlight ha trascritto i loro nomi e le loro abilità.”

Medusa guardò il suo capo, cercando del rimprovero nella sua voce. Di solito, la registrazione delle nuove leve era un compito che spettava a lei; tutto ciò che riguardava la gestione della truppa era sotto la sua responsabilità. Ma Magneto non sembrava né irritato, né deluso; semplicemente, la stava informando.

“Posso?” chiese Medusa.

Magneto alzò le spalle. “Certo.”

I fogli che aveva in mano volarono verso Medusa, che li afferrò mentre erano a mezz’aria e cominciò a scorrerli velocemente, grata di avere una scusa per non guardare Magneto negli occhi. Aveva scoperto di non avere affatto voglia di guardarlo, dopo quello che era successo il giorno precedente.

“Stiamo diventando numerosi.” disse Medusa senza alzare gli occhi dai fogli. “Ci serviranno più provvigioni.”

“Non c’è problema.” rispose Magneto.

Medusa sorrise continuando a scorrere distrattamente i fogli. “Sì, immaginavo.” disse. Cominciò a fare rapporto, ma rifiutò di alzare gli occhi su Magneto. “Il morale della truppa è ancora piuttosto alto. Un paio di persone si sono lamentate per la sistemazione nel bosco, ma si sono dati una calmata quando ho fatto loro presente che questo non è il camping delle Giovani Marmotte. La situazione sanitaria è piuttosto buona. Un paio di raffreddori, ma per il momento niente di preoccupante. Finché il tempo tiene non credo che avremmo preoccupazioni su quel fronte. Ah, dimenticavo. La ragazza bionda che sa mimetizzarsi, Kharmaleon, si è lamentata per un mal di denti. Le ho dato un paio di analgesici, ma credo che presto dovremmo mandarla in città a vedere un dentista. Servono le solite cose, tessera sanitaria falsa e tutto il resto. Comunque non penso ci saranno problemi, è una dormiente.” Nel gergo della Confraternita, il termine “dormiente” indicava chi non aveva ancora partecipato ad una missione.

“Quando gliene parlerai?” chiese improvvisamente Magneto.

“Parlare con chi a proposito di cosa, Magneto?” rispose Medusa senza alzare lo sguardo dalle carte.

“Dovrebbe poter prendere parte a questa decisione. E' anche figlio suo.”

Le carte che Medusa teneva in mano caddero a terra, e lei fissò Magneto con un misto di terrore e di ansia. Il capo della Confraternita la guardò con tenerezza, e Medusa si lasciò cadere su una sedia.

“Non...” iniziò debolmente, senza nemmeno sapere cosa voleva dire.

Lui le sorrise. “Mia cara, quando ieri quella guardia ci ha puntato addosso la sua pistola, tu ti sei messa una mano sul ventre. Lo so, probabilmente non ti sei nemmeno accorta di averlo fatto.” le disse con un tono comprensivo. “Credo sia quello che viene comunemente definito “istinto materno”. E' una legge di natura, non lo si può controllare. Ogni madre difende il proprio piccolo.”

Le ultime parole di Magneto furono come una pugnalata al cuore. Pensò all’esserino annidato dentro di lei che dormiva cullato dai battiti del suo cuore, sicuro che la sua mamma l’avrebbe protetto sempre.

“Certo, Pyro non poteva accorgersene, visto che ti dava le spalle.” continuò Magneto. “E se ancora non gli hai detto niente significa che questo bambino tu non lo vuoi tenere. Ma è pur sempre il padre, e ha il diritto di dire la sua.”

La vergogna e il senso di colpa tornarono a colpirla in tutta la loro potenza. Guarda che cosa ha fatto John per te, disse una voce maligna nella sua mente. Ti ha tenuto per mano, ti ha rassicurata quando più ne avevi bisogno, e tu ti libererai del vostro bambino senza che lui nemmeno sappia della sua esistenza. Senza che abbia, almeno una volta, la possibilità di metterti una mano sulla pancia.
Di colpo si odiò. Non riusciva a sopportare l’intensità di quella sensazione rivolta contro di sé, perciò diresse la sua collera e il suo disprezzo verso Magneto.

“E tu che ne sai?” gli disse rabbiosamente. “Com’è che adesso ti metti a farmi la predica?”

Lui non si scompose per quella mancanza di rispetto. “Hai ragione.” rispose. “Io non ne so nulla di figli. Ma nella mia vita ho imparato una cosa o due sul mentire. O sul nascondere la verità, che poi, credimi, mia cara, qualunque scusa tu ti voglia raccontare sono la stessa identica cosa. Se vuoi accettare un consiglio da un vecchio, posso dirti che se deciderai di non dire niente a Pyro prima o poi questa scelta tornerà a tormentarti. Qualunque cosa tu voglia fare a proposito del bambino, è meglio per tutti e due voi se prendete questa decisione insieme.”

Medusa rise sarcastica, ancora scossa dall’odio e dallo sdegno. “Decisione? E cosa c’è da decidere?” chiese all’uomo che la guardava dall’altro capo del tavolo. “Come dovremo sfamare questo bambino, secondo te? Perché, se ho capito bene da quello che è successo a Mistica ieri, per quelli che non sono più utili alla Confraternita la faccenda suona un po’ come: “grazie di tutto, adesso levatevi dai coglioni.” Non credo che ci permetteresti di restare se avessimo un neonato di cui occuparci, ho ragione?”

La frase su Mistica le era sfuggita di bocca prima che avesse il tempo di capire quello che stava dicendo, e appena ebbe terminato la sua sfuriata Medusa pensò che Magneto l’avrebbe colpita, o le avrebbe gridato contro, o l’avrebbe buttata fuori dalla Confraternita. Invece si limitò a rivolgerle uno sguardo impassibile.

“Sì, hai ragione.” rispose.

Medusa lo guardò a sua volta, cercando di riacquistare la calma. Poi abbasso lo sguardo. “Allora non c’è nessuna decisione da prendere.” disse piano. “Non c’è niente da discutere.”

Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui Medusa continuò a fissare il tavolo lucente dinnanzi a lei. Non c’è nessuna possibilità di scelta, si disse amaramente. E’ una strada obbligata, perciò non c’è bisogno che John lo sappia. Lo farebbe solo soffrire. Puoi portare questo peso da sola, e sai che è l’unica cosa da fare. Non la migliore, solo l’unica.

Alzò lentamente gli occhi su Magneto. “Non dirgli niente.” sussurrò.

Lui scosse la testa. “Certo che non lo farò. Non spetta a me.” disse con calma. “Se tu hai deciso di non parlargliene, non è compito mio intromettermi.”

Medusa annuì leggermente, sempre guardando altrove. “Ok.” mormorò.

Sì alzò e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle Magneto ancora seduto al tavolo, i cui occhi, ne era sicura, erano fissi sulla sua schiena mentre si allontanava.

Quando uscì dal bunker il sole stava già calando oltre le cime degli alberi. Guardò attorno a sé l’accampamento che si preparava per la notte, e si incamminò verso la sua tenda.

Ripensò al viaggio a Chicago, alla fotografia di Danielle, e si rese improvvisamente conto di non aver pensato, neppure per un momento, all’uomo che era suo padre. Si era concentrata solo su Danielle, senza considerare che doveva pur esserci una controparte maschile coinvolta nel suo concepimento. Forse l’ha lasciata quando Danielle gli ha detto di essere incinta, pensò. Non sarebbe la prima volta che si sente una storia del genere.

Alla sua destra, Callisto e Archlight stavano sistemando un telo di plastica sopra le casse che contenevano gli approvvigionamenti per il campo. Quando la videro passare interruppero per qualche istante il loro lavoro e la salutarono. Oppure, chissà, continuò Medusa tra sé e sé. Quell’uomo non ha mai saputo di aver avuto una figlia. Una rondine si gettò dall’alto di un abete e planò a volo radente sull’accampamento, sfrecciando come un missile a pochi passi da lei. Sarebbe bello chiederlo a Danielle, pensò.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


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Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Ben ritrovati con il capitolo 4 di questo racconto. Come vi sarete sicuramente accorti, sto seguendo la trama di X Men 3. A differenza del film precedente (sul quale ho incoscientemente basato "Into the Fire") questa volta X Men 3 l'ho guardato. Anzi, ce l'ho in DVD, quindi le differenze di trama saranno davvero minime. Qualche dettaglio sarà diverso, ma è una scelta cosciente.

Comunque, godetevi il capitolo.

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Medusa era inginocchiata nella tenda che lei e Pyro occupavano, e stava riempiendo una piccola borsa con un po’ di cibo, bottigliette d’acqua e altre cose che le sarebbero servite per il viaggio a St. Louis. Seduto davanti all’entrata, Pyro la guardava severamente.

“Non servirà a niente.” disse ad un tratto.

Medusa non alzò lo sguardo. “Sì, probabilmente è vero.” rispose.

“Hai sentito quella donna.” continuò Pyro, sempre più contrariato. “Sta male, non è neppure in grado di capire dove si trova. Non ti dirà niente di utile!”

“Questo lo so.” replicò Medusa infilando il suo pacchetto di sigarette nella tasca esterna della borsa.

“E allora perché ci vuoi andare?” esclamò Pyro, esasperato. “Non ha senso!”

Medusa alzò lentamente gli occhi dalla borsa e li fissò in quelli di lui. “Voglio andare.” disse piano.

Pyro alzò la mano destra in un gesto di stizza. “Sì, ma perché?” disse, questa volta quasi gridando.

Prima che Medusa avesse il tempo di rispondere, sentirono qualcuno che si schiariva rumorosamente la voce appena fuori dalla loro tenda. Entrambi guardarono l’ombra scura che il sole proiettava sul telo, poi Pyro tiro giù l’apertura lampo dell’uscita e scivolò fuori. Medusa lo seguì.

Kid Omega li guardò a disagio, passando rapidamente lo sguardo dall’uno all’altra. Probabilmente li aveva sentiti litigare e ora non sapeva come comportarsi.

“Che vuoi?” lo aggredì Pyro.

“Mi dispiace disturbare.” rispose Kid Omega. “Ma Magneto vi vuole a rapporto. Dice che è urgente.”

Pyro e Medusa si scambiarono un’occhiata. “Andiamo.” disse nervosamente lui, e i tre si incamminarono verso il bunker di Magneto, il silenzio tra i due fidanzati pesante come un macigno. Kid Omega li seguiva distanziato di qualche passo, cercando di evitare di fissare lo sguardo sui due che lo precedevano e che aveva evidentemente interrotto durante una discussione privata piuttosto accesa. Medusa fu quasi sicura di averlo sentito tirare un sospiro di sollievo quando cominciarono a scendere le scale del bunker.
Kid Omega si fermò in una delle stanze d’anticamera insieme a Callisto e al Fenomeno, mentre Medusa e Pyro proseguirono verso la sala principale.

Trovarono Magneto seduto al grande tavolo d’acciaio che dominava la stanza.

“Callisto ha percepito una forza imponente.” disse il capo della Confraternita quando Pyro e Medusa si avvicinarono. “Una mutante che io credevo perduta molto tempo fa.”

Medusa si limitò a restituirgli lo sguardo senza chiedere ulteriori spiegazioni. Ormai si era abituata alle frasi criptiche di Magneto.

“Portarla nella Confraternita sarebbe un grosso punto a favore della nostra causa.” continuò. “Dobbiamo andarla a prendere subito e portarla qui, prima che qualcun altro arrivi a lei.”

“Qualcun altro chi?” domandò Pyro. “Xavier e la sua banda di senza spina dorsale?”

Magneto annuì. “E’ vitale che Xavier rimanga lontano da lei.” disse. “Sarebbe un grosso problema per noi, se la Fenice cadesse sotto la sua influenza.”

“Fenice?” chiese Pyro. “E’ così che si chiama?”

“Sì.” rispose Magneto. “Vi spiegherò tutto mentre siamo in viaggio. Adesso andate a prepararvi.”

Pyro annuì e si voltò per uscire, ma Medusa rimase immobile. Quando era sulla porta John si accorse che la sua ragazza non lo seguiva, allora si voltò e la guardò sorpreso. “Meredith.” la chiamò.

Magneto la fissò con uno sguardo interrogativo. Ora o mai più, si disse lei.

“Mi dispiace, Magneto, ma non posso venire.” disse con calma, restituendogli lo sguardo.

Lui scosse la testa. “Mia cara, sono costretto ad insistere. Oggi mi servi al mio fianco.”

“Te lo ripeto, oggi non posso venire con te.” rispose lei. “Puoi portare uno dei ragazzi nuovi. Mi sembrano in gamba, e sono sicura che saranno all’altezza della situazione.”

Magneto si alzò in piedi; la sua pazienza sembrava essere sul punto di esaurirsi. “Non voglio portare qualcuno che non ho mai visto combattere, Medusa, voglio te. Non credo che tu ti renda conto di quanto è importante questa missione.”

Lei si sforzò di reggere lo sguardo di ghiaccio che sembrava voler bucare la sua anima. “No, capisco benissimo, credimi. Ma non posso aiutarti comunque.” disse, tenendo la voce più ferma che le riusciva. “Porta i ragazzi nuovi. Normalmente ti avrei consigliato di portare Mistica, ma considerata l’attuale situazione....”

Il gelo cadde nella stanza. Magneto e Medusa continuarono a guardarsi negli occhi in silenzio, nessuno dei due disposto ad abbassare lo sguardo per primo.

“Mi dispiace, Magneto, non voglio mancarti di rispetto.” disse lentamente Medusa. “Ma oggi ho un impegno altrove. Tornerò in un giorno, un giorno e mezzo al massimo.”

Aspettò che lui replicasse, ma non lo fece. Si limitò a guardarla accigliato.

“Comunque,” continuò Medusa. “se vorrai espellermi dalla Confraternita, è tuo pieno diritto farlo.”

Si voltò e si incamminò verso l'uscita della stanza. Quando passò di fianco a Pyro lui la afferrò per un braccio e la costrinse a seguirlo oltre la soglia, chiudendo poi la porta dietro di sé.

“Meredith, ti ha abbandonata.” disse piano, guardandola negli occhi.

“E’ vero.” rispose lei. “Ma rimane comunque mia madre.”

Fece per incamminarsi verso l’uscita, ma Pyro non la lasciò andare. Improvvisamente furiosa, lei gli diede una spinta e liberò il braccio dalla sua stretta. “Non ho chiesto il tuo permesso, John, e nemmeno la tua compagnia.” gli sibilò, la voce carica di rabbia. “Se vuoi andare con Magneto, allora va’ con Magneto. Io comunque vado a St. Louis.”

Si voltò e uscì dal bunker senza un guardarsi indietro.

****

Medusa camminava per le strade di St. Louis cercando di non pensare a niente. Non al suo futuro nella Confraternita, né al bambino, né a John, nemmeno a cosa avrebbe fatto e detto una volta che si sarebbe trovata di fronte a Danielle.
Adesso il suo obiettivo era trovare l’ospedale psichiatrico, poi avrebbe affrontato ogni cosa a piccole tappe. Una volta trovato l’istituto, sarebbe dovuta arrivare fino a Danielle, e solo quando sarebbero state faccia a faccia Medusa avrebbe deciso cosa fare. E una volta finito con sua madre, avrebbe affrontato tutto il resto. Ma per il momento, proprio non ci voleva pensare, anche se sapeva che doveva pensarci.

A domani ci pensiamo domani, si era detta. Aveva letto quella frase in “Trainspotting” e le era piaciuta tantissimo.

Aveva chiesto indicazioni appena era arrivata in stazione, e per fortuna le avevano detto che l’ospedale non era lontano. Avrebbe potuto prendere un taxi, ma la verità era che in questo momento si sentiva troppo nervosa e inquieta per intessere relazioni sociali con un altro essere umano. Solitamente le piaceva parlare con i taxisti, rispondere alle mille domande che le facevano; spesso lei e Pyro inventavano storie pazzesche quando salivano sui taxi e si mettevano a chiacchierare con gli autisti. Più che altro, era lei a coinvolgerlo in questo gioco.
Non lo considerava proprio mentire: non si può mentire a una persona che incontri una volta nella vita e solo per dieci minuti. Più che altro, lo considerava un esempio di “realtà creativa”. Ma stavolta non aveva voglia di pensare a niente, nemmeno ad una storia inventata da raccontare ad un estraneo.

Improvvisamente le venne una voglia pazzesca di fumare. Frugò nella tasca esterna della borsa e tirò fuori le sue sigarette. Poteva sentire il peso del suo accendino dentro il pacchetto, e sorrise mentre lo faceva scivolare fuori. Era un piccolo accendino usa e getta di plastica verde, con disegnato sopra un alce stilizzata con un maglione di lana e gli occhiali da sole. Pyro la sfotteva sempre per quel coso, pavoneggiandosi con il suo preziosissimo Zippo, ma a lei piaceva e si era rifiutata di cambiarlo. Tirò fuori una sigaretta.

A onor del vero, anche lo Zippo era passato in secondo piano da quando Magneto aveva regalato a Pyro il lanciafiamme che teneva al polso. Lui lo adorava e non se ne staccava mai. Ad un certo punto, Medusa aveva dovuto impuntarsi e pretendere che se lo togliesse almeno quando andavano a letto, sostenendo che la loro storia stava diventando una cosa a tre: lei, lui e il suo amatissimo lanciafiamme.

“Un giorno ti sorprenderò mentre ci fai sesso.” gli aveva detto Medusa ridendo.

John l’aveva afferrata e l’aveva buttata sul letto, facendole il solletico, e cinque minuti dopo si stavano già sfilando i vestiti, il lanciafiamme abbandonato sul pavimento della camera.

Stava per portarsi la sigaretta alle labbra, ma qualcosa la bloccò. Non puoi e lo sai, la rimproverò una vocina nella sua mente. Glielo devi.

Abbassò la sigaretta e la rinfilò nel pacchetto insieme all’accendino, poi gettò il tutto in un cestino dell’immondizia senza nemmeno fermarsi. Finché può, si disse, questo bambino ha il diritto di essere sano e felice. E’ tutto quello che posso offrirgli.

Scorse in lontananza un grosso cancello di ferro battuto, e lo riconobbe per quello che le avevano indicato come l'entrata dell’ospedale. Appoggiato ad uno dei piloni di mattoni rossi che sostenevano il cancello c’era un ragazzo biondo che fumava con aria impensierita. Medusa non si chiese neppure se era lui. Era un copione già visto, qualcosa che era già successo tempo fa. Lei che passa in macchina e lui che la saluta appoggiato ad un albero.

Pyro la guardò in volto mentre lei si faceva sempre più vicina. Medusa si fermò a qualche passo da lui, guardandolo a sua volta senza dire una parola.

“Credevo che fossi con Magneto.” disse lei infine.

Pyro alzò le spalle e gettò a terra la sigaretta. “Credevi male.” rispose.

Medusa guardò il mozzicone ruzzolare vicino ai suoi piedi e non disse nulla.

“Ti si spezzerà il cuore.” le disse improvvisamente Pyro. “Qualcuno deve pur raccogliere i pezzi.”

Lei alzò gli occhi da terra e lo fissò.

“Ti si spezzerà il cuore, Meredith.” ripeté Pyro, la sua voce triste ma rassegnata.

Medusa annuì. “Lo so.” disse con un sussurro. Pyro la guardò in silenzio.

“Quando ero bambino, e sentivo mio padre tornare a casa ubriaco e con una gran voglia di menare le mani, io mi nascondevo.” disse dopo un po’. Medusa lo fissò stupita: era la prima volta che le parlava della sua infanzia e di suo padre. “E rimanevo nascosto mentre lui mi chiamava e mi cercava ovunque. Sapevo che nascondersi era una cosa stupida, perchè prima o poi sarei dovuto uscire fuori e allora mio padre mi avrebbe beccato e me ne avrebbe dato il triplo, ma non potevo farci niente. Non riuscivo mai a stare fermo ad aspettare che lui arrivasse e mi riempisse di botte.” Fece una pausa e fissò i suoi occhi in quelli di lei. “Le persone fuggono sempre dal dolore, Meredith. E' l' istinto di sopravvivenza. Invece tu stai per buttartici in mezzo. Perché?”

Improvvisamente gli occhi di lei si riempirono di lacrime. Aprì la bocca per rispondere, ma si rese conto di non avere niente da dire. Si limitò a guardarlo in silenzio, pregando che lui la capisse comunque.

Pyro distolse lo sguardo. “Andiamo.” disse indicando con un movimento della testa il palazzo che sorgeva al di là del cancello.

Attraversarono il giardino, punteggiato qui e là di aiuole ordinatamente potate e di grossi alberi di pioppo, alla cui ombra erano seduti uomini e donne che si guardavano in giro straniti oppure parlavano a bassa voce tra sé e sé. A pochi passi da loro, infermieri con le uniformi candide sorvegliavano i pazienti sulle panchine.

Il palazzo che ospitava l’ospedale era un vecchio caseggiato in stile liberty, probabilmente risalente all’inizio del secolo o giù di lì, e Medusa sentì il cambiamento di temperatura non appena lei e Pyro varcarono la porta d’ingresso e si ritrovarono nella portineria.

Se non fosse stato per gli infermieri e i medici che si affaccendavano qui e là, consegnando cartelle al banco dell’accettazione o spingendo pazienti in carrozzina, sarebbe stato difficile indovinare che si trattava di un ospedale. La sala era rimasta probabilmente com’era in origine: le luci provenienti da un grosso lampadario di cristallo si riflettevano sul pavimento di marmo scuro, tirato perfettamente a lucido. Gli arzigogolati telai di ferro delle finestre proiettavano artistiche ombre sui color grigio chiaro, e in fondo alla sala, dietro il banco dell’accettazione, Medusa poteva vedere una scalinata di marmo che si arrampicava verso il piano superiore, il corrimano di ferro battuto e mogano elaborato quanto i telai delle finestre. Accanto alle scale c’era un vecchio ascensore, le cui porte di acciaio di tanto in tanto si aprivano facendo uscire dottori in camice bianco e persino qualche paziente in vestaglia.

Forse fu a causa degli spifferi che ci sono sempre in un vecchio palazzo, ma mentre si guardava attorno Medusa rabbrividì. Quel posto le ricordava un film dell’orrore che aveva visto anni prima e l’aveva terrorizzata, in cui un gruppo di persone passava la notte in un ex manicomio, situato in un antico palazzo più o meno come quello in cui si trovava ora. L’ospedale era stato chiuso dopo che i pazienti erano insorti e avevano massacrato il personale medico, morendo poi nell’immane incendio che loro stessi avevano appiccato. La cosa che l’aveva spaventata di più era la figura inquietante e maligna del primario del manicomio, un sadico pazzo che si divertiva a torturare i suoi pazienti e che era misteriosamente scomparso nel nulla dopo la notte dell’incendio.
Pensò che non l’avrebbe troppo stupita se le porte dell’ascensore si fossero aperte e ne fosse uscito il dottore di quel film, con il suo sguardo malvagio e il suo sorriso diabolico.

Si impose di smetterla e si diresse verso il banco dell’accettazione, Pyro che le camminava a fianco. Un infermiere sui trent’anni, con il pizzetto e i capelli castani dritti sulla testa stava trafficando con delle cartelle.

“Ehi, George, sistemami la cartella della Ross quando hai tempo.” gli disse un dottore mentre si dirigeva verso le scale.

L’infermiere alzò lo sguardo dalla cartella che stava compilando e annuì. “Certo, dottor Petersen.” rispose, e in quel momento si accorse dei due ragazzi davanti a lui.

“Posso esservi utile?” chiese.

Medusa sentì il proprio cuore aumentare i battiti. “Cerco Danielle Alvarez.” disse.

Lui la guardò sospettoso. “Siete parenti?” domandò.

“Una specie.” replicò lei.

L’infermiere riprese a compilare la cartella che aveva sottomano. “Allora mi dispiace, ma non potete vederla.”

Medusa gli afferrò il polso, e lui la guardò. “Va tutto bene.” gli disse lei con calma fissando i suoi occhi grigi in quelli dell’infermiere. “Dimmi solo dov’è Danielle Alvarez.”

Lui la guardava senza vederla, la testa lievemente ciondolante sul collo. “Terzo piano, reparto di media sicurezza.” disse con un tono piatto e monotono.

Medusa gli rilasciò il polso. “Molto bene.” gli rispose sempre guardandolo negli occhi. “Ora noi saliamo. Va tutto bene. Torna a fare il tuo lavoro.”

L’infermiere annuì e abbassò la testa, segnando di tanto in tanto qualcosa sulla cartella con un movimento stanco della mano. A uno spettatore distratto poteva sembrare immerso nel suo lavoro.

Questa volta Medusa aveva usato parecchia energia per essere sicura che l’infermiere non si liberasse dal suo controllo almeno per un’ora, e sperò che nel frattempo nessuno si accorgesse dello strano comportamento dell’uomo, o almeno non lo attribuisse ai due ragazzi che ora attraversavano l’atrio, diretti verso l’ascensore.

Pyro e Medusa evitarono di guardarsi mentre aspettavano che le porte si aprissero e l’ascensore li caricasse, portandoli al terzo piano. Ora che l’incontro con Danielle si avvicinava, Medusa cominciava a sentire l’agitazione crescere in lei, ma si rifiutò ostinatamente di cominciare a pensare a cosa avrebbe fatto una volta arrivata davanti a quella donna che era sua madre.

La verità è che non lo sai, disse una voce dentro di lei. Non sai perché sei venuta fino a qui. John ha ragione. Non ricaverai nulla da questo viaggio, se non dolore e rimpianti. E sai bene che in questo momento dolore e rimpianti sono la cosa di cui hai meno bisogno. Ne hai già in abbondanza.

Alzò lo sguardo verso Pyro, che stava appoggiato alla parete di fondo dell’ascensore con le mani nelle tasche dei jeans e lo sguardo rivolto verso il soffitto, e aprì la bocca per dirgli che voleva tornare indietro, ma proprio in quel momento le porte dell’ascensore si aprirono e Pyro la guardò negli occhi, e Medusa non se la sentì più di parlare.

Uscirono dall’ascensore e si trovarono di fronte a un lungo corridoio con le pareti candide e il pavimento di linoleum color panna, sul quale si affacciavano, a intervalli regolari, porte di acciaio con delle finestrelle di vetro rinforzato situate più o meno all’altezza del volto di una persona di media statura. Incerti su dove cercare Danielle, Medusa e Pyro cominciarono a inoltrarsi nel corridoio, ma dopo qualche metro furono fermati da un’infermiera con una cascata di capelli ricci e rossi che era spuntata da una delle porte.

“E voi dove state andando?” chiese squadrandoli accigliata.

Medusa la guardò, indecisa se usare o meno i suoi poteri su di lei. Alla fine decise di optare per la strada della menzogna. Se andava male, c’era sempre tempo di fare retromarcia. “Siamo qui per vedere Danielle Alvarez.” disse. “L’infermiere giù all’accettazione... George, mi pare... ha detto che potevamo salire.”

Fissò l’infermiera negli occhi, pronta ad usare i suoi poteri in caso non avesse abboccato, ma lei si limitò a scuotere la testa. “E figurati se ne combina una giusta... Quel deficiente...” mormorò. Alzò lo sguardo su Pyro e Medusa. “Qui non potete girare da soli.” disse. “Venite, vi accompagno io.”

Medusa ringraziò e si incamminò dietro di lei, Pyro che la seguiva distanziato di un passo. Mentre percorrevano il corridoio, Medusa riuscì a intravedere dai vetri delle porte alcune persone all’interno delle stanze, sedute sui letti o per terra. Distolse in fretta lo sguardo.

“Pensavo che Danielle non avesse parenti.” disse ad un certo punto l’infermiera con i capelli rossi.

“Siamo cugini alla lontana.” rispose Medusa. L’infermiera non replicò.

“Mi hanno detto...” iniziò Medusa, incerta. Non era sicura di aver voglia di sapere. “Mi hanno detto che sta molto male.”

La rossa alzò le spalle. “E’ completamente dissociata dalla realtà, questo sì.” rispose. “Ma ho visto di peggio. Lei almeno è calma, per la maggior parte del tempo.”

“E quando non è calma?” domandò Medusa.

“A volte ha delle crisi, e diventa pericolosa.” disse l’infermiera “Non per gli altri, per sé. Abbiamo notato che è più tranquilla nella saletta della televisione, chissà per quale motivo, visto che non la guarda mai. Si agita meno che in camera.”

Arrivarono ad una grande finestra di vetro da cui era possibile vedere l’interno di una stanza. Le pareti erano candide e asettiche come il resto del corridoio, ma il pavimento era coperto da un grosso tappeto colorato e qui e là erano appesi disegni e fotografie. C’erano alcune poltrone, tutte di colore diverso, e su una di esse c’era seduta una infermiera di colore sulla cinquantina che guardava distrattamente la televisione. Su un’altra poltrona, nel lato opposto della stanza, stava una donna di circa trentacinque anni, i lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo. Indossava un cardigan di lana marrone sopra a quello che sembrava essere un pigiama azzurro. Aveva le braccia avvolte attorno al corpo, come se cercasse riparo dal freddo, e si dondolava lentamente avanti e indietro, mentre le sue labbra si muovevano senza sosta.

L’infermiera con i capelli rossi guardò la donna sulla poltrona, poi si girò e fissò insistentemente Medusa, evidentemente insospettita dalla straordinaria somiglianza tra le due. Pyro si voltò a guardarla, scoccandole uno dei suoi sguardi più minacciosi, e la rossa impallidì e si allontanò dal corridoio da cui erano venuti.

Medusa guardò la donna che si muoveva avanti e indietro sulla poltrona. Era questo il momento di pensare a cosa fare e a cosa dire, ma non le venne in mente nulla, come se la sua mente si rifiutasse di fare il proprio lavoro. Pyro la guardava con un’espressione indecifrabile, e lei gli restituì lo sguardo per alcuni secondi. Poi avanzò verso la porta che era alla sinistra della vetrata, abbassò la maniglia ed entrò.

Appena la sentì, l’infermiera spense la televisione e le sorrise amichevolmente.

“Ciao.” disse.

“Salve.” rispose Medusa. Si accorse di stare tremando. “Sono...”

L’infermiera annuì. “Lo so.” disse. Si voltò verso la donna seduta sull’altra poltrona. “Guarda chi è arrivato, Danielle.”

Lei non si mosse. Continuò a mormorare senza sosta, il viso rivolto verso la parete.

Senza nemmeno rendersene conto, Medusa si avvicinò a Danielle. Alcune striature di grigio si distinguevano tra i suoi capelli corvini, e gli angoli della bocca e degli occhi erano segnati da qualche piccola ruga, ma a parte questi dettagli era identica a com’era nella fotografia che Rachel Edmond le aveva mostrato a Chicago.

Identica a me, si disse Medusa.

Danielle si dondolò avanti e indietro lentamente. Le sue parole erano poco più di un sussurro, e Medusa riusciva ad afferrarne solo alcune. Le giunse all’orecchio quello che sembrava essere una preghiera: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito... salva gli spiriti affranti.” mormorò Danielle, stringendosi nelle spalle. A Medusa sembrò che stesse rabbrividendo, e inconsciamente si inginocchiò di fronte a lei, a non più di una ventina di centimetri di distanza.

“Danielle...” chiamò, ma lei continuò a guardare altrove. Aveva un’espressione talmente triste e addolorata negli occhi che per qualche secondo Medusa si sentì sul punto di scoppiare a piangere. C’era talmente tanta sofferenza in quello sguardo che le sembrava di non riuscire a sopportarlo. Mormorando ancora qualche parola, Danielle si portò la mano destra alla bocca e si mise tra i denti l’unghia del pollice. Medusa sorrise.

“Mi mangiavo anch’io le unghie da piccola, sai?” le disse, cercando di tenere la voce ferma.

Danielle si tolse improvvisamente la mano di bocca e strinse i pugni. “Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia.” mormorò, questa volta ad un tono più alto. Alzò lo sguardo verso il soffitto e si mise a dondolarsi con più forza. “Cancella il mio peccato...”

Una lacrima scese sulla guancia di Medusa, e lei si affrettò ad asciugarla con il dorso della mano. Danielle sembrò calmarsi, e tornò a stringersi le braccia attorno al corpo, i suoi occhi pieni di sofferenza di nuovo rivolti verso la parete. “Riconosco la mia colpa.” sussurrò Danielle cullandosi avanti e indietro.

“Danielle.” chiamò Medusa.

Lei continuò a dondolarsi avanti e indietro, guardando la parete senza vederla davvero. “Il mio peccato mi sta sempre dinnanzi.” mormorò.

“Danielle.”

“Santa Maria, madre di Dio... La mia bambina è davanti a te. Saint Mary of Grace, aiutami.” sussurrò lei.

Medusa sentì una lama conficcarsi nel suo cuore e per un istante fu sul punto di correre fuori dalla stanza, tornare alla sua tenda nella foresta e dimenticare tutto quello che aveva scoperto su sua madre. Invece rimase ferma, le sue gambe incapaci di obbedirle
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“Danielle.” chiamò di nuovo, cercando di controllare la voce. “Ti prego, guardami.”

Lei non lo fece. Medusa si concentrò più che poteva. Era parecchio tempo che non tentava più di utilizzare la telepatia, ma arrivati a questo punto era la sola cosa che potesse funzionare.

Danielle.

Questa volta, la donna seduta sulla poltrona sobbalzò e gridò spaventata. Per una frazione di secondo, gli occhi di Danielle incrociarono quelli di Medusa, e la ragazza ebbe l’impressione che sua madre si rendesse conto della sua presenza. Ma durò solo un istante, poi Danielle riprese a fissare il nulla davanti a sé sedendo dritta e rigida sulla poltrona, i pugni serrati accanto alle cosce. “Pietà, pietà, pietà di me, mio Dio.” disse ad alta voce ansimando terrorizzata.

L’infermiera si era avvicinata non appena aveva sentito Danielle gridare, e ora le accarezzava dolcemente le schiena e i capelli. “Su, su, Danielle, non è niente.” le bisbigliò con un tono calmo e rassicurante. “Calmati, mia cara, non è niente.”

Medusa era balzata in piedi senza accorgersene, e ora fissava Danielle che continuava a tremare e boccheggiare, pazza di terrore. Cercò di ignorare la figura di Pyro, che osservava la scena attraverso il vetro. Il dolore nel suo petto si fece più acuto.

“Mi dispiace.” disse, la sua gola di nuovo serrata dal pianto.

L’infermiera scosse la testa. “Non è colpa tua.” disse. “Capita, di tanto in tanto. Vero Danielle, cara? Ma non è niente. Adesso passa tutto. Non è vero che passa tutto?” chiese rivolta alla donna che ancora sedeva rigida sulla poltrona. “Certo che passa. Su, fai un bel respiro. Non serve la medicina, vero tesoro? Puoi calmarti da sola. Un bel respiro, Danielle, avanti. Ecco, brava, così.” Lentamente, Danielle smise di ansimare e il suo corpo divenne meno rigido. Cominciò a mormorare una preghiera. “Padre nostro, che sei nei cieli...”

“Brava la mia Danielle, proprio brava.” le disse con affetto l’infermiera. “Sei proprio una brava ragazza. Non devi spaventarti, sai?” continuò, questa volta rivolgendosi a Medusa. “Ogni tanto perde la testa, ma la maggior parte delle volte basta trattarla con un po’ di dolcezza per farla stare meglio, anche se i dottori preferiscono passare direttamente ai tranquillanti.” Accarezzò con tenerezza i capelli di Danielle. “Ti ha aspettato tanto. Parla di te in continuazione.”

“Credevo che non si accorgesse di niente.” replicò Medusa, la ferita nel suo petto ormai ridotta ad una piaga.

L’infermiera sorrise. “Il suo mondo è diverso dal nostro. Per lei certe cose non sono mai accadute, e altre accadono in continuazione. Io credo che Danielle si accorga delle cose di cui vuole accorgersene, solo che lo fa in maniera differente da come lo facciamo noi. Solo perché non ti guarda, non significa che non ti vede.”

Medusa fissò la donna davanti a lei. Era di nuovo calma, e aveva ricominciato a dondolarsi avanti e indietro bisbigliando sommessamente, così indifesa, così vulnerabile. Improvvisamente, ebbe un’illuminazione riguardo al suo concepimento. Le lacrime cominciarono a scenderle lungo le guance.

“Lei crede,” chiese rivolta all’infermiera. “che è colpa mia se è così? Voglio dire, lei mi sembra...” si interruppe, cercando di domare le lacrime. No, no, no, non chiedere! urlava la sua mente. Scappa!

“Insomma, sarebbe stato facile farle del male, no?” continuò Medusa. Sapeva che avrebbe sofferto, eppure non riusciva a smettere. “Forse qualcuno si è... approfittato di lei, e allora...”

Non riusciva a terminare la frase a cui stava pensando nemmeno nel suo cervello. Era un ipotesi talmente orribile che non riusciva a gestirla.

L’infermiera alzò lo sguardo e la guardò con aria interrogativa. “Non posso darti delle certezze.” rispose. “Ma io non credo che tu sia nata da una violenza, e nemmeno che tu abbia fatto impazzire tua madre. Da quello che ho imparato di Danielle in tutti gli anni in cui è stata qui, ti posso dire che per qualunque ragione ti abbia lasciata davanti a quella chiesa, di certo non è stato perché non ti voleva bene.”

Medusa si avvicinò di nuovo a Danielle, che ora stava mormorando un Ave Maria con lo sguardo fisso sul pavimento. C’era un modo di sapere per certo tutta la verità, anzi, per sapere ogni cosa che si era chiesta in tutti gli anni che era vissuta fantasticando sulla donna che l’aveva messa al mondo. Sapeva di poterlo fare; quello che non sapeva era se lo voleva fare.

“...prega per noi peccatori...” mormorò Danielle cullandosi lentamente.

Medusa alzò una mano e la avvicinò al suo volto, in quella che poteva sembrare una carezza. Stava per sapere tutto, ogni cosa, ogni piccolo dettaglio su Danielle e su come era nata, e del perché era stata abbandonata. Quelle cose che desiderava sapere da tutta la vita.

Improvvisamente ritrasse la mano e indietreggiò chiudendo gli occhi. L’infermiera le rivolse un sorriso comprensivo. “Non ti preoccupare.” disse. “So che è difficile. Non sentirti in colpa se vuoi prenderti del tempo.”

Medusa rivolse un ultimo sguardo a Danielle, che continuò a dondolarsi e a mormorare sottovoce, e uscì dalla stanza. Solo quando la porta si chiuse dietro di lei si rese conto che avrebbe dovuto per lo meno salutare, ma non ebbe la forza di tornare indietro.

Pyro stava ancora guardando Danielle attraverso il vetro. Lentamente, staccò lo sguardo dalla donna nella stanza e lo posò su Medusa, che stava in piedi davanti a lui con lo sguardo basso.

“Andiamo a casa.” disse piano.

Troppo stanca e sofferente per pensare che erano in un ospedale psichiatrico in cui erano entrati illegalmente, che sarebbero stati visibili dalla saletta e dal corridoio, in caso fosse arrivato qualcuno, troppo addolorata persino per ricordare di avere un orgoglio che ora le stava strillando che John l’aveva avvertita fin dal principio, e che lei lo aveva trattato di merda quando lui aveva cercato di impedirle di farsi del male, nonostante tutto questo Medusa si gettò tra le braccia del suo ragazzo e scoppiò a piangere.

John la strinse a sé per qualche secondo, poi le mise un braccio attorno alla vita e si incamminarono insieme verso l’uscita. Medusa appoggiò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi, esausta, lasciando che fosse lui a guidarla fuori da quel posto.

****

Arrivarono all’accampamento nella prima mattinata del giorno successivo. Mentre camminavano verso la loro tenda, incontrarono Callisto che li salutò sorridente.

“E’ stato da non credere ieri.” disse. “Peccato ve lo siate persi. Quella tizia,” Indicò verso la cima di una collinetta che dominava il campo. “è una cosa spaventosa.”

Medusa e Pyro alzarono lo sguardo verso il punto indicato da Callisto. Accanto a Magneto stava in piedi la dottoressa Jean Grey, i suoi lunghi capelli rossi che rilucevano sotto il debole sole che filtrava tra i rami degli alberi.

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Alcune precisazioni:

1. Il film a cui Medusa pensa nell'atrio dell'ospedale psichiatrico è "La casa sulla collina". L'ho visto qualche anno fa e ho ancora i capelli dritti in testa dalla paura.

2. Le preghiere che Danielle mormora all'inizio del suo incontro con Meredith sono versetti presi dai Salmi 19 e 50.

Tra l'altro, vorrei ringraziare e salutare Gertie che ha recensito la conclusione di "Into the Fire". Forse non leggi questo racconto, ma non so in che altro modo dirti quanto sono felice che la conclusione ti sia piaciuta. Un grossissimo bacio!!!

Bene, ho detto tutto e adesso vi saluto. Spero di poter aggiornare presto. Un bacio a tutti!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


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Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Come vedete ho già aggiornato. Per fortuna l'ispirazione non mi abbandona, anzi, al momento mi sento piuttosto prolifica. Spero che duri fino alla fine del racconto.
A proposito, non sarà lungo come "Into the Fire", anzi, in un paio di capitoli, al massimo tre, penso di chiudere la storia.

Comunque ecco il capitolo cinque. Spero tanto che sia di vostro gradimento!

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Medusa stava camminando nella foresta, cercando un po’ di tregua dalle sue responsabilità di veterano della Confraternita. La gestione della truppa stava diventando sempre più impegnativa man mano che altri mutanti si univano alle loro schiere, ma non era quello a disturbarla maggiormente.

La gravidanza le stava dando parecchi problemi. Le bastava rimanere in piedi per più di dieci minuti per sentirsi esausta, e raramente riusciva a terminare una giornata senza che l’emicrania arrivasse a tormentarla.
La cosa più dura, comunque, non era sopportare questi disturbi, ma fare in modo che nessuno si accorgesse che stava male. Era diventata bravissima, ormai, a rimanere impassibile quando aveva la nausea e poi correre a vomitare non appena John era impegnato a fare altro.

Si fermò di fianco a un cespuglio di more, e ne colse una distrattamente. Da quando erano tornati, il giorno prima, lei e John avevano accuratamente evitato di parlare di St. Louis o dell’arrivo di Jean Grey nella Confraternita. Uno dei principali argomenti di discussione tra di loro era l’imminente attacco ai laboratori Worthington. Magneto non l’aveva ancora menzionato, ma entrambi sapevano che era prossimo a venire.

Medusa esaminò la bacca scura sul suo palmo, chiedendosi se fosse poi davvero una mora. Dopotutto, quando andava a scuola era sempre stata una frana in scienze. Meglio di no, si disse. Manca solo un’intossicazione alimentare alla tua lunga lista di acciacchi. La gettò via e ricominciò a camminare.

Era tornata da St. Louis con la certezza che Magneto l’avrebbe cacciata via non appena avesse messo piede al campo, invece non era successo nulla. Non era andato a cercarla e non l’aveva fatta chiamare al bunker. Era dal giorno prima, da quando lei e Pyro erano tornati all’accampamento e avevano visto il loro capo sulla collinetta insieme alla Grey che di Magneto non c’era più traccia. Sapeva che probabilmente era al bunker a preparare l’attacco, oppure a decidere come utilizzare i poteri di Jean Grey.

Era rimasta molto sorpresa quando aveva scoperto che la misteriosa Fenice era in realtà la vicedirettrice della sua vecchia scuola, uno dei pilastri degli X Men. Se glielo avessero raccontato probabilmente non ci avrebbe creduto, Jean Grey che abbandona la squadra di Xavier e si unisce al suo mortale nemico. Forse anche la dottoressa, alla fine, si era resa conto di quanto fosse ridicolo il credo che si ostinavano a sostenere nella scuola di Salem Center. Vivere con gli umani è possibile, certo, come no. Costruire insieme un mondo migliore in cui ci sarebbe stata pace e mutua comprensione.
Medusa sorrise sarcastica. Salve, mi chiamo Charles Xavier e vivo in una casa fatta di zucchero filato accanto al fiume di melassa, nel Paese delle Mele Caramellate.

Ridacchiò compiaciuta della sua stessa arguzia, e le dispiacque che non ci fosse stato nessuno lì con lei che potesse ascoltare. Era una battuta divertente, e decise di riciclarla alla prima occasione. Era sicura che John avrebbe riso. Questo pensiero, per qualche motivo, la rese malinconica.

Rivedere Jean Grey le aveva riportato alla memoria ciò che erano stati. Non che avesse dei ripensamenti: no, sapeva che il suo posto era qui nella Confraternita e non con gli X Men. Erano passati appena quattordici mesi da quando lei e John avevano infranto la loro promessa ed erano corsi via dal jet, eppure sembrava essere passato un millennio intero. A volte, quando si guardava indietro, le sembrava di rivedere la vita di una altra persona. Perché quella era effettivamente un'altra persona, si disse. Tu sei Medusa, la ragazza che frequentava l’Istituto era Meredith St.Clair.

Un rumore proveniente da una siepe alla sua sinistra la distolse bruscamente dai suoi pensieri. Si voltò, e da dietro i rami verde scuro spuntò Jean Grey, i lunghi capelli rossi che le incorniciavano il viso serio e tirato.

Per un istante Medusa dubitò che quella donna fosse davvero la dottoressa Grey. Cioè, riconosceva il volto e i capelli e tutto il resto, ma c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi verdi, un ombra scura che Medusa non aveva mai visto prima d’ora. Ripensò alla prima volta che si erano incontrate, alla fattoria dei Jackson a Baltimora, e la dottoressa le aveva spiegato con un sorriso gentile che se voleva c’era un posto per lei nell’Istituto Xavier per Giovani Dotati, dove avrebbe imparato ad utilizzare i suoi poteri nel modo giusto.

“Il modo giusto” pensò. La gente utilizza sempre a sproposito quest’espressione.

Medusa fissò il suo sguardo sul volto indecifrabile di Jean Grey, chiedendosi per l’ennesima volta quale fosse il motivo che l’aveva spinta a lasciare il suo posto tra gli X Men. Forse aveva qualcosa a che vedere con quell’ombra nei suoi occhi.

“Salve, dottoressa Grey.” disse Medusa infine.

Lei le sorrise. “Ciao Meredith.” replicò. “ Sono felice di vederti. Ti trovo bene.”

“Grazie.” rispose Medusa. Una parte di lei le disse che avrebbe dovuto contraddirla e avvisarla che Meredith non era più il suo nome, ma la ignorò.

Si chiese, per la prima volta da quella notte, come avessero reagito i suoi professori alla notizia che lei e John si erano allontanati dall’X-Jet e si erano uniti a Magneto e Mistica. Dolore? Rabbia? Delusione?

Perché non ci hanno mai cercati? disse una voce dentro di lei, adirata. Perché non hanno mai provato, in tutti questi mesi, a riportarci a scuola?

Si stupì. Da dove veniva quel pensiero?

“Non avrei mai immaginato di rivederla, dottoressa Grey.” disse Medusa. “Soprattutto non avrei mai immaginato di rivederla qui.”

L’ombra negli occhi di Jean Grey si fece più profonda. “Molte cose sono cambiate, Meredith.” disse. C’era qualcosa nella sua voce che Medusa non aveva mai sentito prima. Di certo era qualcosa che non apparteneva alla Grey che aveva conosciuto alla scuola. “Non sono più la dottoressa Grey.”

“E io non sono più Meredith.” replicò lei. Le sembrò che gli occhi di Jean perdessero un po’ della loro ombra.

Rimasero in silenzio qualche secondo. Il vento increspò leggermente le falde del lungo cappotto color porpora di Jean, e Medusa si domandò nuovamente chi fosse quella donna lì in piedi davanti a lei. Era davvero la stessa persona che, circa un anno e mezzo prima, le aveva detto che se non si fosse staccata da John lui l’avrebbe trascinata sotto con sé?

“Ho fatto la mia scelta.” disse Medusa.

“Sì, anche io” rispose Jean Grey.

“Lei lo aveva predetto.” continuò Medusa. “Sapeva fin dall’inizio che sarebbe finita così.”

Jean annuì. “Sì, è vero. Ma speravo non succedesse.”

Medusa ripensò a quella notte ad Alkali Lake, quando era corsa nella foresta a cercare John, e lo aveva trovato mentre stava per andarsene insieme a Magneto e a Mistica. Si rese conto per la prima volta che, se fosse arrivata solo qualche minuto più tardi, l’avrebbe perduto per sempre senza nemmeno una parola di addio.

“Ovviamente non poteva andare che in questo modo.” continuò Jean Grey. La sua voce suonava bassa e stanca. “Ognuno insegue il proprio destino.”

Medusa sentì un confuso senso di abbandono e di tristezza alle sue parole. Avrebbe preferito che gridasse, che le chiedesse perché aveva infranto la sua promessa e si era allontanata dall’X Jet, qualunque cosa tranne “ognuno insegue il proprio destino.” La faceva sentire inutile, e la faceva sentire come se tutti i mesi passati all’Istituto, tutti i vari “siamo una famiglia” e i “siamo qui per aiutarti” non fossero altro che un’orribile, disgustosa menzogna.
Di nuovo si chiese da dove venisse quel pensiero. Perché la fai così lunga? si chiese. Che ti importa di Xavier e della sua scuola?

“Mi dispiace averla delusa, dottoressa.” disse Medusa. Si accorse che la voce le aveva tremato, ma scoprì che non le importava più di tanto.

Jean sorrise. “Non mi hai delusa, Meredith.”

Medusa avrebbe voluto aggiungere qualcosa, qualunque cosa, ma non le venne in mente nulla da dire. Avrebbe voluto che la Grey la rimproverasse, o le rinfacciasse di averle mentito e di averle voltato le spalle dopo tutto quello che aveva fatto per lei, ma Jean si limitò a distogliere lo sguardo e incamminarsi verso il campo, situato da qualche parte oltre gli alberi alla loro sinistra. Fu allora che Medusa parlò.

“Aspetto un bambino.”

Jean Grey si voltò e fissò i suoi occhi in quelli della ragazza di fronte a lei. In quel momento Medusa si rese conto della frase che aveva appena pronunciato, e le prese il panico. E non solo perché aveva detto una cosa così intima e privata a quella che ora per lei non era altro che una perfetta estranea, se non una potenziale nemica; ma soprattutto perché dirlo ad alta voce tutto ad un tratto lo rese reale.

La potenza di questa rivelazione la investì come l’onda di uno tsunami. Non si trattava più di una cosa astratta, di qualcosa che non riusciva ad afferrare, no: qui si trattava del suo bambino, del figlio suo e di John che lei portava nel suo grembo, e si rese conto per la prima volta ciò che comportava prendere una decisione riguardo questo bambino, sia in un senso che nell’altro. Fu troppo per lei e, prima che potesse anche solo provare a controllarsi, le lacrime le stavano già inondando il viso.

Jean rimase in silenzio a guardarla piangere per qualche secondo. “Perché lo stai dicendo a me, Meredith?” chiese infine, il suo tono privo di qualunque emozione.

Medusa si rese conto di non avere nessuna ragione. “Non lo so.” sussurrò tra le lacrime. “Forse volevo solo dirlo a qualcuno.”

Si lasciò cadere su un tronco abbattuto e fissò il terreno ai suoi piedi, cercando di controllarsi. Era sicura di quello che doveva fare, ma ora era più difficile andare avanti e portare a compimento la sua decisione, ora che sapeva, ora che riusciva a sentire quella piccola vita germogliare dentro di lei, ora che quel minuscolo ammasso di cellule che galleggiava da qualche parte nel suo corpo era diventato l’estensione di lei, di loro due, di lei e John insieme. Si chiese se sarebbe davvero riuscita a fare ciò che doveva fare, e poi continuare a comportarsi come se il loro bambino non fosse mai esistito, neppure per un istante, dentro di lei.

La voce di Jean Grey la distolse dai suoi pensieri. “Non lo vuoi?” chiese.

Medusa alzò la testa di scatto. “Non lo voglio?” ripetè incredula. Le parole le uscivano di bocca da sole. “Crede che io non terrei questo bambino, se potessi?” Le lacrime, che prima si erano fermate, ritornarono a bagnarle il viso. “Io lo vorrei, davvero. Vorrei tanto un bambino da John, ma come...” Allargò le braccia in un gesto disperato. “Come dovrei fare, come posso farlo crescere così? In mezzo al nulla, senza soldi, senza niente. Io non...”
Faticava a trovare le parole, a mettere insieme qualcosa di coerente per spiegare quello che sentiva dentro di sé. “E allora ho pensato... Se John lo sapesse, il suo primo istinto sarebbe quello di tenerlo. Ma poi comincerebbe a farsi delle domande, a chiedersi come fare, e alla fine si troverebbe davanti ad un muro, esattamente come mi ci sono trovata io adesso. E allora capirebbe che non ci sono altre soluzioni se non quella di... di...” Non riuscì a terminare quella frase; non voleva rendere reale anche quello. Si asciugò velocemente le guance con il dorso della mano e fissò i suoi occhi grigi in quelli verdi di Jean Grey. L’ombra sembrava quasi del tutto scomparsa.

“Gli si spezzerebbe il cuore.” mormorò Medusa. “Ed io mi sono detta...” Prese un lungo respiro. “Mi sono detta che questa volta non c’è bisogno di entrare entrambi nel fuoco. Posso farlo da sola, e risparmiare a John questo dolore. Non ha senso, soffrire in due, se io posso portare a termine quello che...” Chiuse gli occhi. “...deve essere fatto.”

Il vento agitò lievemente le foglie degli alberi sopra la sua testa, e Medusa si rifiutò di riaprire gli occhi. Finché rimaneva con gli occhi serrati, forse esisteva ancora una qualche occasione di sfuggire alla realtà dei fatti, di non affrontare ciò che si stava avvicinando. Come la neve, che non si cura mai di ciò che le succede attorno, pensò, piuttosto incoerentemente. Di nuovo la sua mente tornò a quella notte ad Alkali Lake, quando aveva corso a perdifiato nella foresta alla disperata ricerca di John.

Rimase ad occhi chiusi così a lungo che alla fine era sicura che Jean Grey se ne fosse andata. Invece sentì dei ramoscelli spezzarsi e delle foglie secche scricchiolare, come se qualcuno ci stesse camminando sopra. Aprì gli occhi, perplessa, e vide Jean avvicinarsi a lei e sedersi al suo fianco sul tronco. Il suo viso era serio, ma i suoi occhi erano tornati ad essere quelli di sempre, gli occhi che Medusa aveva imparato a conoscere tanto tempo prima.

“Sai che potresti tornare alla scuola, Meredith.” sussurrò. “Sai che vi riprenderebbero. Tutti e tre.”

Medusa scosse la testa. “No.” disse con forza. “No, mai. Come potrei affidare mio figlio a qualcuno che si rifiuta di lottare contro coloro che vogliono fargli del male? Qualcuno che non è in grado di combattere per lui?” L’impeto della sua rabbia la costrinse ad alzarsi in piedi, e fissò Jean ancora seduta sul tronco, le sue mani bianche e sottili appoggiate l’una sopra l’altra sui pantaloni color porpora. Lei la guardò a sua volta, e Medusa distolse lo sguardo, temendo che volesse leggerle nel pensiero.

“E’ per questo che te ne sei andata?” domandò Jean Grey. “Per combattere?”

Medusa posò nuovamente gli occhi sul suo volto. “Sì. Io non potevo più aspettare che le cose accadessero, mi capisce?” Desiderava davvero che Jean Grey capisse, e che la giustificasse per aver tradito il giuramento ed essersi allontanata dall’aereo. “Io non posso accettare ciò in cui voi credete, rassegnarsi a ciò che ci fanno e sperare in un futuro migliore. Mi dispiace, ma io voglio poter lottare.”

Aveva pronunciato le sue ultime parole come una sfida. Sentì di nuovo scorrere dentro di sé la rabbia e il dolore che aveva provato per mesi dopo la morte di sua sorella, che si era tolta la vita perché non riusciva a sopportare di essere considerata un mostro. Se ciò che doveva fare era tradire e uccidere perché non capitasse mai più ciò che era successo ad Evie, perché finalmente i mutanti potessero avere rispetto che meritavano dagli umani, allora era pronta a farlo.

Jean Grey si alzò lentamente dal tronco e fissò i suoi occhi verdi in quelli di Medusa. L’ombra era tornata e aleggiava, scura e minacciosa, dietro le sue pupille.

“L’hai detto tu stessa.” disse con un filo di voce. “La tua scelta è stata quella di combattere, e tutto quello che posso dirti, Meredith, è che né io né nessun altro poteva impedire che le cose andassero diversamente da come sono andate.” Si fermò per un istante. “Né potrebbe impedire quello che sta per accadere.”

Medusa la guardò senza parlare, sentendo un miscuglio di orgoglio e di dolore che si agitava nel suo cuore. Provava disprezzo per ciò che era stata quando faceva parte della squadra di Xavier, eppure una parte di lei rimpiangeva di avervi rinunciato. Jean Grey distolse lo sguardo e fissò le foglie che stormivano sugli alberi, mosse dolcemente dal vento, poi posò una mano sottile sulla spalla di Medusa e si incamminò verso il campo. Medusa rimase immobile a guardare gli alberi di fronte a lei.

“Ad ogni modo mi ha fatto piacere rivederti.” disse la voce di Jean Grey da qualche parte oltre le sue spalle.

Medusa non si mosse. Dentro di sé rivide la foresta innevata ad Alkali Lake, e risentì il gelo della notte mentre correva tra gli alberi guidata solo dalla luce della luna piena e dalla voce di Evie. Con un brivido, si rese conto che le cose avrebbero potuto andare in maniera totalmente opposta: avrebbe potuto non trovare mai John, e rimanere nella scuola. Dopotutto, la foresta era enorme, e lei era solo stata fortunata ad aver sentito quel rumore di rami spezzati che la aveva guidata fino a lui. E’ stato il caso a decidere il mio destino, si disse. Solo il caso e niente più di questo.
Che cosa avrebbe fatto allora? Avrebbe lasciato lo stesso la scuola, e si sarebbe unita alla Confraternita? Oppure alla fine si sarebbe messa l’anima in pace e avrebbe deciso che, in fondo, la strada della persuasione pacifica e del compromesso era quella da seguire?

Medusa si sforzò di trovare le risposte dentro di sé, ma scoprì che non né aveva alcuna, o forse non voleva trovarle affatto. E’ meglio così. Bisogna sempre fuggire dal dolore, non è vero?

In quel momento un rumore la distolse dai suoi pensieri. John camminava tra gli alberi e si stava avvicinando a lei con un lieve sorriso che gli piegava le labbra sottili. La sua espressione rilassata, tuttavia, svanì in fretta quando vide lo sguardo negli occhi di Medusa. Pyro si fermò a qualche metro da lei, fissandola preoccupato.

“C’è qualche problema?” chiese scrutando il viso della sua ragazza, in cerca di un qualche indizio che potesse suggerirgli cosa la stesse turbando.

Medusa fissò i suoi occhi grigi in quelli blu scuro di Pyro. Ci conosciamo così bene, si disse. Abbiamo camminato insieme nel fuoco talmente a lungo che possiamo leggere l’uno dentro l’altra in un istante.

Lasciò che il vento muovesse di nuovo le foglie prima di parlare. “Ti ricordi la notte ad Alkali Lake?” chiese. Una ruga segnò la fronte di Pyro mentre aspettava che Medusa continuasse.

“Mi avresti lasciata senza nemmeno dirmi che te ne andavi.” disse lei fissandolo negli occhi. “Senza nemmeno salutarmi.”

Pyro scosse la testa con forza. “No, questo non è vero.” rispose, sulla difensiva. “Sarei tornato a prenderti.”

Medusa sorrise tristemente. “A prendermi? E se io non avessi voluto venire con te?”

Pyro la guardò perplesso per qualche istante; evidentemente non riusciva a capire da dove uscisse quell’interrogatorio. “Pensavo che tu ci credessi.” disse, allargando le braccia ad indicare il campo della Confraternita da qualche parte dietro agli alberi.

“Sì, infatti è così.” rispose Medusa. “Io credo in tutto questo. Io voglio tutto questo, John, sono sicura di volerlo.” Fece una pausa e cercò gli occhi di Pyro. “Ma se non lo avessi voluto, se avessi voluto rimanere, tu saresti rimasto per me?”

John si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, irritato e a disagio. Distolse velocemente lo sguardo e fissò un punto indefinito da qualche parte alla sua sinistra, mentre il vento portava fino a loro il rumore di un grido, forse il richiamo di un uccello rapace o forse qualcos’altro.

“Sai che farei qualunque cosa per te.” mormorò Pyro infine.

“Non è quello che ti ho chiesto” replicò Medusa. Una parte della sua anima si era commossa per la risposta che Pyro le aveva dato, eppure ancora non le bastava.

John tornò a fissare il suo sguardo su di lei. “Perché vuoi litigare?” domandò, la sua voce piena di collera.

“E perché no?” replicò Medusa.

Ci fu un attimo di silenzio, poi Pyro diede un calcio rabbioso ad un sasso che si trovava per terra davanti a lui, scagliandolo lontano di qualche metro.

“Lo sapevo. Lo sapevo! Chi è che ti mette in testa queste stronzate, eh? Chi?” gridò furioso contro Medusa. “E' stata lei, vero? Quella dannata Jean Grey! Ti sta mettendo contro di me! Lo sapevo che ci avrebbe portato solo guai!”

Medusa si limitò a scuotere la testa con calma. “Ti sbagli, John. Jean Grey non c’entra nulla.”

Lui la guardò in viso. “E allora da dove viene questo mare di cazzate? Che ti prende tutto ad un tratto? Ci stai ripensando?”

“No, assolutamente no.” replicò Medusa.

“E allora cosa?” domandò lui, rifilando un calcio al tronco su cui poco prima Medusa sedeva insieme a Jean. Alcune scaglie di legno marcio si staccarono e caddero a terra.

Medusa le fissò, cercando di distinguerle dalle foglie secche su cui erano cadute e che avevano un colore molto simile alle schegge di legno, e non parlò. Sopra le loro teste, il vento riprese a giocare con le foglie degli alberi.

“Ah, al diavolo.” disse Pyro.

Medusa sentì i suoi stivali spezzare i rami e le foglie secche che giacevano in terra mentre si allontanava da lei. Riconosceva quella camminata: John pestava sempre i piedi a terra con eccessiva forza quando era furibondo, o turbato da qualcosa. Davvero ci conosciamo bene, ripeté a sé stessa. Non abbiamo segreti l’uno per l’altra.

Rendendosene conto a malapena, sollevò la mano destra e se l’appoggiò sul ventre.

****

Tornò all’accampamento solo quando il sole stava già cominciando a nascondersi dietro le cime degli alberi più alti. Sapeva bene di aver trascurato i suoi compiti quel giorno, eppure, stranamente, la cosa non la faceva sentire poi così in colpa.

Non sarà certo questo a distruggere la Confraternita, pensò Medusa mentre si avvicinava alla sua tenda, desiderando solo scivolarvi dentro e dimenticare quella giornata. Sperò ardentemente che Pyro fosse altrove, altrimenti sapeva che ci sarebbero state altre discussioni, altre liti, e lei non aveva davvero la forza per affrontare una cosa del genere. Voleva solo rannicchiarsi nella sua tenda e dormire.

Le mancavano ormai pochi passi quando Medusa vide, a circa venti metri da lei, Magneto attraversare il campo a passo spedito, discutendo ora con Callisto, che insieme ad Archlight lo seguiva distanziata di qualche passo, ora con Pyro, che avanzava al fianco del capo della Confraternita. Ad un tratto, John disse qualcosa e Magneto gli mise una mano sul petto, guardandolo fisso negli occhi. Pyro smise immediatamente di camminare.

Medusa non riuscì a sentire quello che Magneto disse a John, ma doveva essere qualcosa di molto serio, perché quando l’anziano comandante della Confraternita riprese a camminare Pyro rimase immobile a guardarlo allontanarsi, il viso segnato da un’espressione di stupore misto a mortificazione.
In quel momento Magneto si accorse che Medusa stava osservando la scena a qualche metro da loro, e lasciandosi alle spalle Callisto e Archlight si diresse verso la sua seconda guardia del corpo. Medusa rimase immobile ad aspettare che Magneto si avvicinasse e le dicesse quello che doveva dirle (e si aspettava fosse l’espulsione dalla Confraternita), invece quando fu abbastanza vicino lui l’afferrò per un braccio e la trascinò verso gli alberi, dove nessuno avrebbe potuto ascoltare la loro conversazione.

“Charles Xavier è morto.” disse severamente Magneto, fissando i suoi occhi d’acciaio in quelli di Medusa. Lei rimase in silenzio mentre qualcosa nel profondo della sua anima, probabilmente ciò che restava di Meredith St.Clair, sussultava per la sorpresa e il dolore.

“La tua unica fortuna è che se anche ci fossi stata tu con me lui sarebbe morto comunque.” continuò Magneto, scrutando attentamente dentro gli occhi di lei. “Questa volta è andata così, Medusa, ma non azzardarti mai più a voltarmi le spalle in quel modo.” Fece una pausa e le sue dita sottili si strinsero più forte attorno al braccio della ragazza. “Sei con me oppure no?”

Medusa non abbassò lo sguardo. “Certo che sono con te.” rispose.

“E allora comportati di conseguenza.” le ringhiò Magneto lasciandole andare il braccio e allontanandosi senza più degnarla di un’occhiata.

Medusa lo guardò camminare velocemente tra le tende e sparire in fondo al campo, seguito come un ombra da Callisto e da Archlight, che avevano pazientemente atteso il ritorno del loro comandante. Non appena le loro figure scomparvero oltre gli alberi che costeggiavano l’accampamento e lo dividevano dalla entrata del bunker privato di Magneto, Medusa si voltò a guardare Pyro, che aveva osservato l’intera scena dal punto in cui si era fermato quando Magneto gli aveva posato la mano sul petto.

I loro occhi si incrociarono per qualche istante, poi lui si voltò e si incamminò verso la parte opposta del campo. Medusa rimase a guardarlo allontanarsi finché non riuscì più a distinguerlo tra le tende colorate e le figure dei loro compagni della Confraternita che si affaccendavano per prepararsi alla notte, ormai prossima a calare.

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Oscure nuvole di tempesta si stanno avvicinando per i nostri eroi. Come proseguirà la storia? Se siete curiosi, non vi resta che aspettare.

Penso di farlo presto, se questa ispirazione non mi abbandona. Un bacio a tutti quelli che seguono questa storia e a presto.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


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Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Salve a tutti e ben ritrovati. Ecco il capitolo 6.

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Medusa sedeva a gambe incrociate sul terreno umido di rugiada, in una piccola radura nascosta nel cuore della foresta. Da lontano le giungevano i rumori dell’accampamento, che proprio in quel momento si stava lentamente svegliando e si preparava per il suo ultimo giorno nel bosco. L’attacco all’isola di Alcatraz, sede della Worthington Pharmaceutics, era ormai alle porte.

Medusa stese le gambe e appoggiò la schiena contro il tronco di un albero, guardandosi in giro. Amava molto quella radura. L’aveva scoperta il giorno in cui un violento attacco di nausea l’aveva costretta ad abbandonare di corsa la tenda, mentre Pyro era impegnato a discutere con Madrox a proposito di qualcosa a cui lei non aveva fatto attenzione. Aveva corso a perdifiato tra gli alberi, cercando di allontanarsi quanto più poteva dal campo, ma alla fine non ce l’aveva fatta più a trattenersi ed era caduta in ginocchio, vomitando ai piedi di un albero di quercia. Quando aveva alzato la testa si era resa conto di trovarsi ai margini di una minuscola radura coperta di muschio verde e di felci nane. La cosa che l’aveva sorpresa di più, però, era un grosso cespuglio di rose selvatiche che cresceva accanto ad una piccola pozza di acqua piovana.

Ricordava di essersi avvicinata piena di stupore e di meraviglia, e di aver accarezzato con delicatezza i petali setosi di una delle piccole rose scarlatte. Aveva desiderato coglierla e portarla con sé alla tenda, ma qualcosa l’aveva bloccata, dicendole che non era giusto deturpare una cosa tanto bella e tanto pura.

Da allora era tornata spesso alla radura, eleggendolo a suo rifugio personale. Tutte le volte che si era sentita stanca e depressa mollava tutto e veniva a sedersi accanto alle rose selvatiche. Le ricordavano una vecchia canzone di Nick Cave che suo padre ascoltava sempre quando lei ed Evie erano piccole.

From the first day I saw her I knew she was the one
She stared in my eyes and smiled
For her lips were the colour of the roses
That grew down the river, all bloody and wild…

Medusa staccò gli occhi dalle rose e guardò il foglietto spiegazzato che si rigirava nervosamente tra le mani. Vi era riportata sopra una data (corrispondente ad un giorno della settimana seguente), e un orario, le dieci e trenta del mattino.

Chiuse brevemente gli occhi e sospirò, il suo cuore saturo di dolore e di lacrime non piante, poi si passò lentamente una mano sul volto prima di tornare a guardare il biglietto. Il giorno precedente era scesa in città di nascosto ed era andata al consultorio pubblico. Un paio di giorni prima aveva telefonato ed aveva preso appuntamento usando una delle sue false identità.

Aveva aspettato per quasi un’ora in una sala d’attesa gremita di donne e ragazze, seduta in silenzio su di una scomoda poltroncina di plastica verde. Quasi nessuno parlava. In fondo alla sala, una donna sulla quarantina piangeva sommessamente, stringendo la mano della ragazzina seduta al suo fianco. Medusa aveva pensato che non potesse avere più di tredici anni.

Di tanto in tanto un’infermiera grassa usciva da una porta bianca situata dietro il bancone dell’accettazione, inforcava gli occhiali da vista che teneva appesi al collo con una catenella dorata e chiamava un nome che stava scritto su una cartelletta. A quel punto una delle donne seduta in sala d’attesa balzava in piedi e spariva insieme all’infermiera grassa dietro la porticina bianca.

Medusa aveva guardato in terra, cercando di non ascoltare il pianto della donna seduta in fondo alla sala. Era stato un sollievo quando l’infermiera era ricomparsa e aveva letto un nuovo nome sulla cartelletta, e madre e figlia erano entrate nella stanza al di là del banco dell’accettazione. Finalmente libera di guardare in giro senza il timore di incrociare lo sguardo sofferente della donna o quello distaccato della ragazzina, Medusa aveva esaminato le pareti bianche della stanza e il lampadario al neon, punteggiato dai minuscoli cadaveri neri degli insetti che vi erano rimasti imprigionati dentro. Pessima igiene per essere uno studio medico, aveva pensato. Si era augurata che le condizioni sanitarie negli ambulatori e nelle sale operatorie fossero migliori.

Aveva scacciato quel pensiero e si era concentrata sui poster colorati appesi qua e là sui muri, che illustravano vari metodi di contraccezione. Medusa aveva sorriso amaramente. Forse cercano di evitare che chi viene qui compia di nuovo lo stesso errore. O magari si tratta solo di un rimprovero. Si era accarezzata la pancia ed era riuscita a sentirne il calore attraverso il tessuto pesante del giubbotto che indossava. “Chi è causa del suo male pianga sé stesso.”, come diceva la mamma.

In quel momento la porta bianca si era aperta di nuovo e la tredicenne era uscita quasi di corsa, seguita a ruota dalla madre che ora singhiozzava ad alta voce premendosi un fazzoletto sulla bocca. L'infermiera grassa aveva chiamato il nome che non era in realtà il suo nome, e Medusa si era alzata e l’aveva seguita oltre la porta bianca.

Si era ritrovata in una piccolo ambulatorio con le pareti candide e il pavimento di mattonelle verdi. Di fronte alla porta da cui erano entrate Medusa e l’infermiera c’era una scrivania su cui erano impilate due colonne di cartelle, e dietro la scrivania si trovava un grosso armadio con le ante di vetro, molto simile agli armadietti che Medusa aveva visto più o meno una vita fa nell’infermeria dell’X-Jet.
In un angolo della stanza si trovava un lettino d’ospedale, e accanto ad esso c’erano alcune apparecchiature mediche e un piccolo tavolino d’acciaio su cui era appoggiato un vassoio di plastica sigillato in un sacchetto di cellophane, che conteneva, o almeno così era parso a Medusa, una serie di strumenti chirurgici. Fu molto sollevata di vedere che tutto sembrava pulito e asettico.

L’infermiera grassa le aveva indicato la sedia che si trovava di fronte alla scrivania e Medusa si era seduta. L’infermiera aveva preso posto dall’altra parte del tavolo e aveva preso la cartella che si trovava in cima alla pila di sinistra. Senza neanche degnarla di un’occhiata aveva iniziato a compilare i fogli che vi si trovavano all’interno.

L'infermiera le aveva chiesto la sua data di nascita, e Medusa aveva cambiato il giorno e il mese ma non l'anno. Si era aspettata uno sguardo di disprezzo o perlomeno di stupore per la sua giovane età, invece l’infermiera non si era scomposta davanti al fatto che aveva appena diciassette anni. Probabilmente ha visto di peggio, si era detta Medusa, e aveva ripensato alla tredicenne che sedeva indifferente in sala d’aspetto.
Diede anche un indirizzo e un numero di telefono falsi, sperando che nessuno controllasse.

“Sai di quanto sei incinta?” le aveva chiesto l'infermiera.

“Otto settimane, se è vero che si conta dal primo giorno dell'ultima mestruazione.” aveva risposto Medusa. L'infermiera aveva annuito senza alzare gli occhi dal foglio.

Le aveva fatto ancora qualche domanda, poi si era tolta gli occhiali e l’aveva guardata.

“Svestiti e sdraiati lì.” le aveva detto indicando il lettino. “Il dottore arriva subito.”

Poi, mentre Medusa si stava sfilando il giubbotto per appenderlo sull’attaccapanni d’acciaio che si trovava in un angolo, l’infermiera si era alzata dalla scrivania ed era uscita dalla stanza, lasciandola sola.

Dopo qualche minuto il dottore era arrivato e l'aveva visitata. Medusa aveva fissato il soffitto, sforzandosi di pensare ad altro, e quando il dottore aveva acceso il monitor dell'ecografia aveva chiuso gli occhi e stretto i pugni.

“Puoi rivestirti.” le aveva detto infine il dottore mentre tirava la tendina che separava il lettino dal resto della stanza.

Medusa aveva obbedito e poi aveva scostato la tenda. Il dottore era seduto alla scrivania, e stava scrivendo qualcosa sulla cartella che l’infermiera grassa aveva iniziato a compilare.

“Sei già piuttosto avanti.” le aveva detto severamente.

Medusa l’aveva guardato senza farsi intimidire. “E' stata una decisione difficile.” aveva risposto.

Il dottore aveva posato la penna e le aveva restituito lo sguardo, annuendo gravemente. “Sì, lo immagino.”

A Medusa era sembrato sincero, e questo l’aveva spinta ad abbandonare un po’ dell’astio che aveva provato per il dottore mentre lui l’aveva visitata e si era seduta sulla sedia di fronte alla scrivania, guardandolo in silenzio mentre lui continuava a compilare la sua cartella.

“Hai nausea alla mattina?” le aveva chiesto.

“Sì.”

Il dottore si era voltato e aveva preso una scatoletta di pastiglie dall' armadio alle sue spalle. “Prendi queste. Una al giorno dovrebbe bastare. Due, se le nausee sono persistenti.” aveva detto a Medusa mentre le porgeva la scatola.

Medusa aveva infilato la scatola nella tasca del giubbotto. “Grazie.”

“Emicranie?” aveva continuato il dottore.

“Solo se sono molto stanca. Di solito se mi metto a dormire mi passa.”

Il dottore aveva annuito, poi era uscito dalla stanza. Medusa aveva cominciato a domandarsi se dovesse andarsene anche lei, ma in quel momento la porta si era aperta di nuovo ed era rientrata l’infermiera grassa. Mentre la guardava incedere dondolando verso la scrivania, Medusa aveva pensato che l’uniforme rosa che indossava la faceva assomigliare ad una gigantesca caramella gommosa al lampone.

L’infermiera aveva preso la cartelletta che il dottore aveva lasciato sulla scrivania e vi aveva scritto sopra ancora qualcos’altro. Medusa era rimasta zitta per un po’, ma poi non era più riuscita a sopportare tutto quel silenzio.

“Perchè la visita?” aveva chiesto.

“Per assicurarci che vada tutto bene.” aveva replicato l’infermiera, continuando imperterrita a compilare i fogli contenuti nella cartella.

Medusa l’aveva guardata stupita. “Mi prende in giro?”

L’infermiera aveva posato la penna e finalmente aveva alzato gli occhi. “Se tu o l'embrione presentate condizioni particolari, è necessario che il dottore lo sappia e lo prenda in considerazione durante l'intervento.” le aveva spiegato.

Medusa non aveva detto più nulla, e l’infermiera aveva scritto ancora qualcosa sulla cartella. Poi l’aveva richiusa e l’aveva posata in cima alla pila di destra. Si era tolta gli occhiali e si era appoggiata contro lo schienale della sedia, scrutando attentamente il viso di Medusa.

“Sai cosa succederà?” le aveva chiesto.

“Non lo voglio sapere.”

C’era stato qualche istante di silenzio. “L'intervento è in anestesia locale.” aveva iniziato l’infermiera, con il tono di qualcuno che si ritrova per la millesima volta a spiegare la medesima cosa. “Potrai tornare a casa nel giro di un paio d'ore, ma non sarai in grado di guidare.”

Medusa aveva alzato le spalle. “Non verrò in macchina.”

“Ad ogni modo, sarebbe meglio che ci fosse qualcuno con te, nel caso ti sentissi male dopo l'intervento.” aveva continuato l’infermiera. “Non hai un'amica che ti possa accompagnare?”

Medusa aveva scosso la testa. “Abito appena fuori città.” aveva replicato. “E sto con delle persone.”

L’infermiera l’aveva guardata per qualche secondo, poi aveva alzato le spalle a sua volta. “D’accordo.” aveva detto. Aveva scribacchiato qualcosa su un foglietto e l’aveva porto a Medusa. “Ecco il giorno e l'ora del tuo intervento. Vieni un’ora prima, e a digiuno.”

Medusa si era infilata il biglietto nella tasca del giubbotto insieme alle pastiglie che le aveva dato il dottore, e si era alzata in piedi. L’infermiera l’aveva accompagnata fino alla porta, e mentre aveva già la mano sulla maniglia si era voltata a guardare Medusa.

“Puoi cambiare idea quando vuoi.” le aveva detto con dolcezza. “Non saresti la prima. Se non ti presenterai all’appuntamento, nessuno ti verrà a cercare.”

Medusa aveva fatto scivolare la mano nella tasca del giubbotto e aveva stretto il biglietto tra le dita. “No, non succederà.” aveva risposto senza guardare l’infermiera.

E’ tutto deciso ormai, si disse Medusa rileggendo per l’ennesima volta la breve serie di numeri sul pezzo di carta che teneva in mano. Era talmente stropicciato e sgualcito che l’inchiostro blu aveva cominciato a sbavarsi e scomparire. Un ultimo sforzo e potrai uscire dal fuoco.

Strinse il foglio nel pugno con tutta la forza che aveva fino a ridurlo ad una pallina dura e compatta, ma poi si rese conto che non era il metodo migliore per distruggerlo. Lo riaprì con cura, poi lo piegò a metà e cominciò a farlo a pezzettini minuscoli. Le lacrime cominciarono a segnarle il viso e Medusa le asciugò con rabbia mentre le sue dita continuavano a sminuzzare il foglietto. Una parte di lei ricordò qualcosa di simile che era successo tanto tempo prima, quando si era trovata a lottare non contro della carta indifesa ma contro la neve e il gelo.

Allora c’era John al tuo fianco, le ricordò una voce nel suo cervello mentre si accaniva sul foglio come se fosse lui la causa di tutta la sua disperazione. Lo ridusse in pezzetti così piccoli che le sue dita faticavano a trattenerli e volavano via, disperdendosi tra le felci e planando delicatamente sulla superficie dell’acqua.

Alla fine gettò rabbiosamente lontano gli ultimi angolini di carta e si passò le mani tra i capelli. Adesso basta piangere, si rimproverò con astio. Non cambierà proprio niente e lo sai benissimo. Tirò su col naso e fissò lo sguardo sul cespuglio di rose selvatiche davanti a lei. Ora come ora non puoi proprio permetterti di mostrarti debole. Non con quello che sta per succedere.

“Medusa?”

Per una frazione di secondo sperò con tutto il suo cuore che fosse stato Pyro a pronunciare il suo nome, ma poi si rese conto che quella voce doveva appartenere ad una donna.

Medusa si voltò e si alzò lentamente in piedi. Di fronte a lei, Callisto la guardava con un espressione a metà tra il curioso e il preoccupato, poi i suoi occhi passarono ad esaminare i minuscoli pezzettini di carta sparsi qua e là nella radura.

“Che cosa c’è?” chiese Medusa. Il suo tono di voce era talmente fermo e autoritario che Callisto sobbalzò e tornò immediatamente a fissare il suo sguardo su di lei.

“Magneto ti cerca.” disse. “Sta per annunciare al resto della Confraternita l’attacco ad Alcatraz e vuole che i luogotenenti appaiano tutti al suo fianco mentre parla.”

Medusa annuì e si incamminò verso il campo. “ Andiamo.” ordinò rivolta a Callisto, che si affrettò ad obbedirle.

Presto sarà tutto finito, si disse Medusa mentre marciavano tra gli alberi. Presto ogni cosa tornerà al suo posto.

****

Quando Medusa e Callisto arrivarono alla collinetta gli altri, escluso Magneto, erano già lì. Il Fenomeno, Kid Omega, Madrox e Archlight si tenevano a qualche metro di distanza dalla sommità, evidentemente intimiditi dalla folla che vociava sotto di loro.

Più avanti di qualche passo rispetto al gruppo stava in piedi Pyro, lo sguardo fisso davanti a sé. Un paio di metri a sinistra c’era Jean Grey, il suo volto bianco teso e sofferente. Per un istante i suoi occhi offuscati dall’ombra incrociarono quelli di Medusa, poi tornarono a contemplare qualcosa che la ragazza non riuscì a scorgere. Medusa ebbe l’impressione che Jean stesse lottando per trattenere dentro di sé qualcosa che non vedeva l’ora di erompere fuori. Ricordò le parole che proprio Jean Grey le aveva detto, tanto tempo prima, a proposito delle eruzioni vulcaniche, e per qualche motivo la cosa la fece sentire stranamente inquieta.

Callisto prese posto accanto ad Archlight, anche lei evidentemente a disagio per un rituale a cui assisteva per la prima volta, mentre Medusa si fermò davanti al Fenomeno, avendo cura di trovarsi più o meno alla stessa altezza di Pyro ma lasciando qualche metro di distanza, in modo che Magneto potesse trovarsi nell’esatto centro del gruppo. Le cose cambiano così in fretta, si disse. Qualche mese fa eravamo io e John a starcene indietro di qualche passo mentre Magneto e Mistica arringavano la folla, ed ora eccoci qua. I comandanti in seconda, le fidate guardie del corpo. Magari, chi può dirlo, ancora un paio di mesi e saranno Callisto e Kid Omega a fare scena a fianco del capo, ed io e John chissà che fine avremo fatto.

Medusa si voltò a guardare Pyro e, per qualche strano motivo, le tornò in mente un'altra strofa della canzone.

On the second day I brought her a flower
She was more beautiful than any woman I'd seen
I said, "Do you know where the wild roses grow
So sweet and scarlet and free?"

Lei e John non si erano più parlati dal giorno della lite nel bosco. Il giorno successivo a quell’episodio, Medusa era tornata nella loro tenda e aveva scoperto che tutte le cose di John erano scomparse. Sospettava che dormisse all’addiaccio, da qualche parte nella foresta. Qualche volta aveva scorto una luce andare e venire tra gli alberi di pioppo che proteggevano il lato sud del campo.

Pyro staccò gli occhi dalla folla e diresse per qualche istante uno sguardo gelido verso Medusa, poi tornò a fissare le persone che chiacchieravano e si agitavano ai piedi della collinetta. Medusa lo fissò ancora a lungo dopo che lui ebbe distolto lo sguardo, ma Pyro non si voltò più.

Ancora più dei silenzi e degli sguardi gelidi, la faceva a pezzi non sapere se la loro relazione esisteva ancora, oppure se era oltre ogni tentativo di aggiustare le cose. Era fin troppo cosciente che l’unica soluzione era quella di affrontare l’argomento e parlarne insieme, eppure le possibili risposte la terrorizzavano. Andare da John e sentirsi dire che non esisteva più niente in grado di salvare il loro rapporto era qualcosa che davvero non sarebbe stata in grado di affrontare, specialmente in quel momento.

Tutte le volte che tornava nella tenda e si sdraiava da sola nel sacco a pelo le tornava in mente la discussione che lei e Pyro avevano avuto nel bosco, il giorno in cui lei aveva confessato a Jean Grey di essere incinta, e si malediceva per avergli fatto quella domanda. John ha ragione, si rimproverava. Perché hai voluto rivangare il passato? Che cosa ne hai guadagnato? Tu sei l’unica persona al mondo che si getta tra le braccia del dolore, invece che tentare di sfuggirgli come fanno tutti.

In quel momento Magneto salì la collinetta e si sistemò nello spazio vuoto tra Pyro e Medusa, guardando la folla sotto di lui come un monarca osserva i suoi sudditi dal balcone della sua residenza imperiale. Immediatamente un silenzio pieno di riverenza cadde sul campo, e ogni sguardo si impresse fermamente sul capo della Confraternita. Magneto lasciò passare ancora qualche secondo, poi alzò entrambe le braccia verso il cielo, lasciando che il lungo mantello nero gli scivolasse oltre le spalle. La gente accalcata sotto la collinetta trattenne il respiro, e Medusa vide le labbra di Magneto piegarsi in un impercettibile sorriso, talmente leggero e veloce che difficilmente qualcun altro avrebbe potuto notarlo. Si va in scena, pensò.

“Membri della Confraternita!” chiamò Magneto. Dalla folla eruppe un grido, e a Medusa tornò alla mente una scena che aveva visto tempo prima alla televisione. Un uomo in doppiopetto grigio parlava da un podio e il pubblico lo incitava con il canto “No-ai-mutanti! No-ai-mutanti!”. Scacciò con forza quel pensiero.

“Loro vogliono curarci.” continuò Magneto, poi fece una piccola pausa. Medusa guardò Pyro, e lui le restituì lo sguardo. La sua mano sinistra stringeva il polso destro e Medusa sorrise brevemente prima di intimare a se stessa che doveva ricordarsi dov’era e mantenere un contegno solenne. Pyro metteva sempre le mani in un certo modo, e camminava in un certo modo, quand’era nervoso.

“Ma io dico che la cura siamo noi!” concluse Magneto, e dalla folla che aveva atteso trepidante di sentire il resto della frase si alzò un grido di gioia misto ad orgoglio. Un altro sorriso, questa volta chiaramente visibile, apparve sul volto di Magneto. Si possono dire molte cose di lui, pensò Medusa mentre osservava il capo della Confraternita. Ma non che non sia un grande showman.

Magneto disse ancora qualcos’altro e la folla esultò di nuovo, ma Medusa smise di ascoltare. Sapeva benissimo come Magneto avrebbe concluso il suo discorso, e provò un certo fastidio al pensiero di essere anche lei una specie di addobbo per quella ridicola sceneggiata.
Era talmente infastidita che quando Magneto disse, indicando Jean Grey, “Abbiamo le nostre armi!”, e la folla applaudì di nuovo, lei si voltò dall’altra parte, ma poi il suo senso del dovere intervenne e le intimò di smetterla di fare la bambina. Medusa obbedì e si rimise a guardare la folla sotto di lei con l’espressione più neutrale che le riusciva, ma con la coda dell’occhio vide che Pyro la stava fissando. Il suo gesto di stizza non gli era sfuggito.

“E se qualche mutante si metterà sulla nostra strada, noi useremo questo veleno contro di lui!” esclamò Magneto, con una tale rabbia che Medusa sobbalzò per la sorpresa, temendo, per qualche istante, che il capo della Confraternita ce l’avesse con lei per la sua mancanza d’attenzione. Oddio, ucciderei per una spremuta d’arancia, sospirò una vocina dentro di lei, e Medusa chiuse brevemente gli occhi imprecando a bassa voce. Ecco, adesso sono veramente a posto, pensò rassegnata. Niente di meglio che avere le voglie dispersa nel bel mezzo del nulla.

Cercò di lottare contro quel pensiero e di concentrarsi sulle parole di Magneto, ma non c’era niente da fare. Aveva talmente voglia di bere un bel bicchiere di succo d’arancia che le sembrava quasi di sentirne il profumo. Nella sua mente apparve l’immagine di una brocca di vetro piena di spremuta appena fatta, con alcuni cubetti di ghiaccio che vi galleggiavano in mezzo, e le venne l’acquolina in bocca a pensare a quanto sarebbe stata fresca e dissetante... Certo, con l’aggiunta di un paio di biscotti alla cannella sarebbe stata assolutamente perfetta...

Di nuovo il suo senso del dovere la pungolò con forza, e Medusa si riscosse da quella fantasia culinaria proprio nel momento in cui Magneto raggiungeva l’acme del suo discorso. “Andremo sull’isola di Alcatraz per impossessarci della Cura, e distruggeremo la sua fonte!” esclamò il comandante della Confraternita, e le sue parole furono quasi soffocate dal ruggito estatico ed entusiasta della folla. Medusa si girò a guardare il suo capo. Adesso lo fa, si disse. Proprio in quel momento Magneto sollevò entrambi i pugni, come aveva fatto all’apertura del suo discorso, e fece lentamente correre lo sguardo sulla folla in attesa sotto di lui. Medusa sapeva, per esperienza diretta e personale, che ognuna delle persone ai piedi della collinetta avrebbe avuto l’impressione di sentire gli occhi del capo della Confraternita scrutare dentro i suoi.

“E poi niente potrà più fermarci!” concluse Magneto tra le grida di giubilo del suo pubblico in delirio. Medusa rimase immobile con le mani lungo i fianchi, il suo sguardo severo e impassibile. Era andato tutto come previsto, ma questo pensiero, invece di renderla felice, la fece sentire ancora più depressa e irritata. Magneto, invece, sembrava molto soddisfatto dell’effetto che il suo discorso aveva sortito sul resto della Confraternita; guardò soddisfatto la folla che esultava sotto la collina, poi si voltò e si diresse verso il bunker seguito dal resto dei suoi luogotenenti, ma non da Jean Grey, che a quanto pareva era scomparsa.

Medusa, al contrario, rimase ferma al suo posto. Aveva la vaga sensazione che Magneto non volesse averla attorno, ma la cosa la disturbava meno di quanto avrebbe desiderato; anzi, se doveva essere totalmente sincera, era quasi felice di essere stata sollevata dal suo incarico di seconda guardia del corpo, anche se ciò aveva praticamente ridotto a zero le sue occasioni di incontrare Pyro.

John fu l’ultimo ad abbandonare la collina. Lui e Meredith si ritrovarono faccia a faccia per la prima volta dopo settimane, così vicini che Medusa riuscì a sentire l’odore del suo profumo. Si morse le labbra per non scoppiare a piangere. Improvvisamente, si era ricordata che nella canzone c’erano due voci, una maschile ed una femminile. La prima strofa cantata dalla donna faceva più o meno così:

When he knocked on my door and entered the room
My trembling subsided in his sure embrace.
He would be my first man, and with a careful hand
He wiped at the tears that ran down my face.

Ebbe l’impressione che Pyro stesse per dire qualcosa, e attese con ansia che lui parlasse. Invece, dopo qualche secondo, John distolse lo sguardo e si allontanò da lei, incamminandosi lentamente verso il bunker. Medusa rimase ferma a guardarlo scendere dalla collina con le lacrime che le pizzicavano gli occhi.

E’ finita, si disse mentre sentiva il suo cuore frantumarsi in mille schegge. E’ tutto finito ormai.

****

Era ormai notte fonda quando Medusa si svegliò di soprassalto e accese la piccola torcia elettrica che teneva accanto a sé la notte da quando Pyro se n’era andato. Si passò una mano sulla fronte umida di sudore e allungò una mano verso lo zaino, cercando qua e là una bottiglietta d’acqua che non fosse già vuota. Alla fine ne trovò una ancora sigillata avvolta in una maglietta e bevve a grandi sorsi, non tanto perché avesse sete ma perché il suo cuore stava correndo all’impazzata, e prendere qualche sorso d’acqua di solito la calmava.

Sgusciò fuori dal sacco a pelo e si mise a sedere sul sottile telo di nilon che la separava dal terreno duro e freddo, strofinandosi gli occhi con la mano che ancora le tremava leggermente. La maglietta che un tempo era appartenuta a John era zuppa di sudore, e i capelli le scendevano sul viso tutti annodati ed in disordine. Se li scostò dal collo e rabbrividì a causa del freddo della notte contro la sua pelle umida.

Aveva avuto un incubo. Per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare a proposito di cosa, ma sentiva che c’entrava la canzone, e anche John ed Evie. La voce della donna nella canzone si ostinava testardamente a vorticarle nel cervello, insistente e sgradita come un ospite inatteso.

On the second day he came with a single red rose
Said: "Will you give me your loss and your sorrow?"
I nodded my head, as I lay on the bed
He said, "If I show you the roses, will you follow?"

Medusa alzò lentamente lo sguardo, e notò che c’era una debole luce che brillava attraverso il telo della tenda. Durò solo qualche istante, poi si spense subito. Medusa continuò a guardare il punto in cui aveva visto il riflesso scomparire, e infatti dopo qualche secondo la luce tornò, ma solo per spegnersi nuovamente. Senza staccare gli occhi dal bagliore intermittente, Medusa indossò velocemente un paio di jeans, una maglietta a maniche lunghe e una felpa pesante, e, dopo essersi allacciata le scarpe e afferrato la torcia elettrica, abbassò la chiusura lampo che chiudeva la tenda e si avventurò fuori.

****

Non fu difficile trovare il suo rifugio. Le fiamme che si accendevano e si spegnevano le indicarono il punto in cui doveva dirigersi, e la torcia elettrica le permise di raggiungere gli alberi senza inciampare in una delle tende.

Trovò Pyro sdraiato sull’erba in una piccola radura tra gli alberi, un braccio ripiegato dietro la testa a fargli da cuscino e l’altra mano che faceva scattare nervosamente lo Zippo. Le vampe di fuoco che si alzavano, troppo grandi per essere generate da un accendino così piccolo, permisero a Medusa di vedere lo zaino di Pyro appoggiato contro il tronco di un albero. Allora è vero, si disse tristemente. E’ davvero qui che dorme.

Quando la sentì arrivare, John smise di far scattare lo Zippo e per quasi mezzo minuto tutto fu buio. Gli alberi erano troppo fitti perché il debole chiarore lunare potesse penetrare tra le foglie e illuminare la radura, e per qualche istante Medusa ebbe paura che lui scivolasse via nella notte e la lasciasse lì da sola.

“John.” sussurrò.

Improvvisamente sentì il click dello Zippo, e una grossa palla di fuoco si formò tra le mani di Pyro e poi si librò in aria, rimanendo appesa al nulla qualche metro sopra le loro teste come un enorme e fluorescente lampadario da discoteca. Medusa vide che ora John era in piedi davanti a lei, un’espressione grave sul viso pallido e la mano destra che stringeva con forza l’accendino. Non c’era traccia del lanciafiamme.

Medusa cercò i suoi occhi e chiuse lentamente i pugni. Una parte di lei tremava terrorizzata per quello che stava per chiedere, ma non ce la faceva più a vivere in quello stato di perenne incertezza. Doveva sapere senza il minimo dubbio se tra loro due era tutto finito.

“John, se vuoi chiudere con me, è un tuo diritto.” La voce le usciva tremante e smozzicata, ed ogni parola era come una lama incandescente che le bruciava la carne. Si avvolse le braccia attorno al corpo come aveva visto fare da Danielle all’ospedale, anche se non era il freddo a farla rabbrividire: aveva corso abbastanza nella notte per ricordarsi, questa volta, di infilarsi una felpa per proteggersi dalla bassa temperatura delle ore crepuscolari. Lasciò che un altro tremito le percorresse la spina dorsale prima di concludere. “Ma se vuoi farlo, me lo devi dire in faccia.”

Pyro abbassò lo sguardo e si infilò lo Zippo nella tasca dei jeans. Rimase in silenzio qualche secondo prima di alzare la testa e guardare Medusa negli occhi, e ogni istante che passava fu per lei come un ago piccolo e appuntito che le si infilava sotto le unghie.

“Non so dirti se sarei rimasto, Meredith.” disse infine Pyro, i suoi profondi occhi blu fissi in quelli di lei. Trasse un lungo respiro prima di continuare. “Ma, pistola alla testa, ti risponderei che me ne sarei andato comunque.” Distolse lo sguardo e serrò gli occhi con un’espressione di dolore misto a rabbia. “Mi dispiace.”

Medusa annuì. “Sì, lo so.” rispose con un bisbiglio roco. Sorrise tristemente. “Non saresti davvero tu, se non scegliessi sempre di combattere.”

Pyro la guardò con un’espressione perplessa, indeciso se considerare l’ultima frase come un rimprovero oppure come un’affermazione. I suoi occhi brillavano alla luce del fuoco che bruciava tra i rami degli alberi sopra di loro.

“Ed io non ti amerei tanto.”

Gli occhi di Pyro si spalancarono non appena l’ultima sillaba lasciò le labbra di Medusa, e lei esitò, spaventata dalla sua reazione. Non aveva avuto intenzione di pronunciare ad alta voce quella frase, ma oramai era troppo tardi per tornare indietro e rimangiarsela.

“Comunque, questo non cambia le cose.” sussurrò Medusa mentre le lacrime cominciavano di nuovo ad offuscarle la vista. “Se mi vuoi lasciare, John, allora fallo, e fallo in fretta. Io non ce la faccio più a stare così, fa troppo male.”

Un singulto la scosse dalla testa ai piedi e cominciò a piangere, indifferente al fatto che doveva sembrare davvero patetica e triste. Il dolore era troppo forte per continuare ad occuparsi di dettagli futili come quello.

Pyro non si mosse; continuò semplicemente a fissarla con un espressione illeggibile sul volto. Medusa singhiozzò più forte.

“Ti prego, John, ti prego.” implorò con un sussurro. Voleva solo che finisse, così avrebbe potuto tornare alla tenda e raccogliere i cocci del suo cuore in frantumi. Era così stanca e dolorante che non le importava più di nulla e di nessuno.

John avanzò lentamente verso di lei, la luce delle fiamme sopra le loro teste che si riflettevano nei suoi occhi blu profondo e facevano risaltare i suoi capelli biondi. Prima che Medusa avesse il tempo di abbassare lo sguardo, e offrire così il collo alla scure che era certa stava per darle il colpo di grazia, lui le prese il viso tra le mani e premette le labbra contro quelle di lei.

Per cinque o sei secondi Medusa non riuscì proprio a capire cosa stesse succedendo. Perché non parla? si domandò inebetita, prima di rendersi conto che John stava già rispondendo alla sua domanda. Ancora esitante, come se temesse che fosse solo un bel sogno pronto a svanirle tra le dita, avvolse le braccia attorno al corpo di lui e il suo cuore ebbe un piccolo sussulto di gioia quando fece correre le mani aperte sulla sua schiena senza che lui si trasformasse in fumo. Chiuse gli occhi, pazza di felicità ma ancora incredula nel sentire dopo tanto tempo il sapore del suo ragazzo, un sapore che aveva creduto perso per sempre.

Pyro staccò la bocca da quella di Medusa e la guardò negli occhi, appoggiando la fronte contro quella di lei. E’ così che vi siete baciati la prima volta, ricordi? sussurrò una vocetta emozionata da qualche parte nel suo cervello. Tu gli stavi tamponando i tagli sulle mani e lui ha premuto la fronte contro la tua.

“Ti amo, Meredith.” lo sentì dire contro le sue labbra, poi ci furono solo i suoi baci, e le loro mani che afferravano vestiti e li gettavano da parte, e il corpo di John sul suo mentre le loro bocche ripetevano all’infinito quelle due parole.

...................................................................................

Uhm... Vedete, la mia idea iniziale prevedeva che Meredith e John si lasciassero. Ma quando ho scritto la scena, proprio non ce l'ho fatta... E ho deciso di dar loro una seconda possibilità. Forse, nel tentativo di cambiate le carte in tavola, Meredith mi è diventata un po' Mary Sue, ma con tutto quello che sta passando, poverina, si può permettere di essere un po' debole e fragile. Ormai mi sono affezionata troppo a lei per serbarle rancore...

Secondo voi va bene così, o avrei dovuto farli lasciare? E' un po' patetica come scena, vero? Fatemi sapere che ne pensate.

N.B.: La canzone che compare nel capitolo è "Where the Wild Roses Grow" di Nick Cave, appunto. Le strofe sono in alternanza maschile/femminile, ma dato che nel testo appaiono tutte scomposte ho deciso di rispettare, per la traduzione che compare qui di seguito, la sequenza in cui vengono riportate nel racconto, così da non creare confusione.

VOCE MASCHILE: "Dal primo giorno in cui l'ho vista ho saputo che era quella giusta
Mi ha guardato negli occhi e ha sorriso
Le sue labbra erano del colore delle rose
Che crescono vicino al fiume, rosse come il sangue e selvaggie"[..]

VOCE MASCHILE: [...]"Il secondo giorno le ho portato un fiore
Era più bella di qualsiasi altra donna avessi mai visto
Ho detto: "Lo sai dove crescono le rose selvagge
Così dolci e scarlatte e libere?"[..]

VOCE FEMMINILE: [...]"Quando bussò alla mia porta e entrò nella stanza
I miei brividi si calmarono nel suo forte abbraccio
Sarebbe stato il mio primo uomo, e con una mano amorevole
Asciugò le lacrime che mi solcavano il viso."

VOCE FEMMINILE: [...]"Il secondo giorno venne con una sola rosa rossa
Ha detto: "Vuoi darmi le tue perdite e il tuo dolore?"
Ho annuito, e mente mi sdraiavo sul letto
Ha detto: "Se ti mostrassi le rose, mi seguiresti?"[...]

Da ultimo, grazie di cuore a joey_ms_86 per la sua recensione. Mi ha fatto molto piacere leggerla, soprattutto per il fatto che non consideri Meredith una Marie Sue: era la mia preoccupazione principale! Davvero grazie per le tue parole.

Ecco fatto. Ciao e a presto!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


WaBLtW7

Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Bentornati! Ecco il nuovo capitolo di questo racconto. Mi auguro con tutto il cuore che vi possa piacere.

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La baia di San Francisco luccicava di mille riflessi dorati, illuminata dal sole del tardo pomeriggio.

Era una splendida giornata di fine primavera, e perfino in città era possibile sentire il profumo mellifluo che si sprigionava dai fiori e dalle piante di oleandro che crescevano sulle colline attorno alla baia. Un leggero vento tiepido e salmastro soffiava dal mare, increspandone la superficie con migliaia e migliaia di piccole onde che andavano ad infrangersi dolcemente contro i piloni di cemento armato che sostenevano il Golden Gate, percorso come ogni giorno da decine di auto che procedevano in fila, sia in un senso che nell’altro. Di tanto in tanto dalla colonna di macchine si alzava la strombazzata di un clacson, ma per la maggior parte del tempo il traffico scorreva senza intoppi, dato che l’ora di punta era ormai passata da un pezzo.

Improvvisamente, una Subaru nera sbandò e andò a tamponare una delle auto che provenivano dal senso opposto. Ci fu uno stridore di freni, e poi altre due auto cozzarono l’una contro l’altra, e ben presto tutto il Golden Gate si trasformò da un capo all’altro in un’enorme pista d’autoscontro, con le auto che inchiodavano facendo stridere i pneumatici e andavano a sbattere tra di loro e contro i parapetti d’acciaio del ponte. Gli occupanti delle macchine, terrorizzati, aprirono gli sportelli e si misero a correre in preda al panico verso la terraferma, mentre i cavi d’acciaio che assicuravano la parte calpestabile del Golden Gate ai piloni si strappavano e frustavano l’aria minacciosi, e grossi bulloni di ferro piovevano dall’alto e si schiantavano sulle macchine ferme e sull’asfalto.

La Confraternita avanzò sul ponte, Magneto in testa. Alla sua sinistra, indietro di non più di un passo, seguivano Medusa e Pyro, l’uno a fianco all’altra. A destra di Magneto camminava Jean Grey, rigida e trattenuta come se ogni singolo passo le costasse un’immane fatica. Poco più indietro c’erano Kid Omega, Callisto, Archlight e il Fenomeno, e poi tutto il resto dell’armata, truce e nerovestita. Le auto ferme si spostavano a destra e sinistra al loro passaggio, andando a sbattere contro le pareti del ponte. Medusa pensò che era un po’ inquietante vederle muoversi senza nessuno a bordo, lanciate come giocattoli qui e là dal potere di Magneto. Fissò lo sguardo sul comandante della Confraternita, che camminava con le mani alzate all’altezza del petto e i palmi rivolti in avanti, il viso completamente rilassato e tranquillo, come se si trovasse a passeggiare sul lungomare invece che in mezzo a quel disastro di lamiere contorte e di vetri infranti.

Per qualche istante, le venne in mente l’immagine di quei santi benedicenti all’ingresso delle chiese, ma poi cambiò idea. No, più che altro sembra Mosè che guida il suo popolo attraverso il Mar Rosso, si corresse, e subito quel pensiero la fece sentire vagamente a disagio. Non era mai stata molto religiosa, ma le sembrò che quella riflessione suonasse un po’ blasfema.

Quando furono più o meno nel centro del ponte, Magneto si fermò e lasciò che tutto il suo esercito lo sorpassasse e si sistemasse alle sue spalle. Quando anche l’ultimo uomo fu passato, Magneto fece qualche passo in avanti, si sistemò meglio i guanti di pelle nera che gli coprivano le mani e tese un braccio davanti a sé. Medusa sentì l’intero ponte tremare e gemere, come se una forza invisibile lo stesse stritolando, poi ci fu una sorta di esplosione, anzi, una serie di esplosioni, davanti e dietro di loro, e anche sotto di loro. Si guardò attorno spaventata, ma poi si rese conto che era il rumore del cemento e dell’acciaio dei piloni che si frantumavano e cadevano in acqua. Vide, da lontano, della polvere densa e pesante alzarsi dal punto in cui il Golden Gate si congiungeva con la terraferma e poi, con una specie di ruggito che sembrava provenire dal ponte stesso e che fece tremare il terreno sotto i loro piedi, il Golden Gate si librò in aria.

Medusa fu quasi sul punto di cadere quando Magneto fece lentamente piroettare il ponte e lo diresse verso l’isola di Alcatraz, che spuntava dal mare a qualche miglia dal punto in cui si trovavano loro in quel momento. Medusa la guardò perplessa: si era aspettata una sorta di scoglio nero e fosco su cui sorgeva un lugubre edificio simile al castello del conte Dracula, invece l’isola era coperta di vegetazione verde e rigogliosa da cui spuntava un palazzo dalle mura bianche. E’ davvero bella, pensò piena di ammirazione. Peccato che abbiano rovinato un posto tanto incantevole mettendoci un carcere prima e poi la sede della Worthington Pharmaceutics.

La brezza del mare le spostò sul viso quelle sottili ciocche di capelli ricci che non era riuscita ad infilare nella treccia, e lei se li sistemò dietro le orecchie con un movimento noncurante, anche se sapeva benissimo che erano troppo corte per stare al loro posto e ben presto sarebbero tornate a caderle sulla fronte. Si voltò a guardare gli altri, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole. A parte Jean Grey, che aveva la stessa espressione stanca e sofferente di sempre, il resto della Confraternita si stava guardando in giro con la medesima espressione di sbigottimento misto a timore reverenziale. Il Fenomeno aveva addirittura la bocca spalancata, e Medusa trattenne a stento una risatina. Il suo sguardo incrociò quello di Pyro, in piedi a qualche metro da lei, e per un istante anche il volto di John fu attraversato da un sorriso. E’ un sollievo aver sistemato le cose, si disse Medusa mentre il suo cuore accelerava leggermente i suoi battiti. Non credo che sarei riuscita ad affrontare tutto questo se lui non fosse stato al mio fianco.

In quel momento il ponte si abbassò bruscamente, e Medusa barcollò cercando di non perdere l’equilibrio. Sentì Magneto mormorare qualcosa rivolto a qualcuno che lei non potè vedere, e poi la parte anteriore del Golden Gate, o quel che ne rimaneva, atterrò con fragore sulle mura che proteggevano l’edificio dell’ex prigione sull’isola di Alcatraz, sbriciolandole come pane secco, mentre la parte posteriore si schiantava da qualche parte sulla terraferma. L’urto fu talmente violento che Kid Omega e Archlight, insieme a molti altri della Confraternita, caddero a terra, e lo stesso sarebbe successo a Medusa se Pyro non l’avesse afferrata per il polso e non l’avesse attirata a sé, cingendole fugacemente la vita con un braccio prima di lasciarla andare. I loro sguardi si incrociarono di nuovo, e Medusa fece scivolare la mano sinistra in quella di lui e ne accarezzò il palmo con la punta delle dita. Lo sentì trattenere brevemente il respiro.

Magneto si voltò e tornò verso i suoi uomini con un’espressione compiaciuta che gli aleggiava sul viso. Kid Omega e Archlight si rialzarono e cominciarono a scrollarsi la polvere dai vestiti, imbarazzati, mentre il resto dei luogotenenti, inclusi Pyro e Medusa, si avvicinavano al loro comandante attendendo di ricevere ordini.

“Sferreremo il nostro attacco quando farà buio.” disse Magneto. “Fino ad allora manterremo le postazioni. Non credo che qualcuno sarà così temerario da avventurarsi sul ponte, ma meglio non rischiare. Non si può mai sapere fin dove può spingersi la stupidità umana.” Dai luogotenenti si sollevò una risatina, e Magneto sembrò compiacersene.

“Pyro.” chiamò il capo della Confraternita, di nuovo serio. Lui fece un passo in avanti. “Con me. Medusa, tu occupati della sicurezza del lato est.” ordinò Magneto, indicando con un movimento della testa l’estremità del ponte che poggiava sulla terraferma.

Medusa annuì e fece cenno a Callisto di seguirla. La ragazza le obbedì ed insieme si incamminarono verso la direzione opposta a quella in cui si trovava l’isola di Alcatraz. Mentre attraversavano il ponte, Medusa radunò tutti i mutanti i cui poteri l’avrebbero aiutata a creare una barriera tra la loro postazione e la terraferma e ordinò loro di seguirla. Anche se credo proprio che Magneto abbia ragione, si disse. Se ci saranno guai, verranno dall’isola. Il pensiero non le piacque per niente.

“Non capisco.” disse improvvisamente Callisto mentre camminavano. “Tu sei in grado di ipnotizzare le persone, no?”

Medusa annuì. “Sì, si può dire così.”

“E allora perché andare tutti? Perché fare a pezzi il Golden Gate?” domandò Callisto. “Sarebbe bastato che tu ti infiltrassi sull’isola e saresti riuscita a prendere il ragazzino in un baleno.”

Medusa scoppiò a ridere. “Sì, ma io non avrei fatto la millesima parte del rumore che ha fatto il Golden Gate librandosi in aria e schiantandosi su Alcatraz.”

Callisto la guardò aggrottando la fronte.

“Qui non si parla solo di distruggere la Cura.” le spiegò Medusa. “Se vogliamo costringere il mondo intero a prestarci attenzione, allora dobbiamo agire in modo che nessuno possa ignorarci.”

Callisto sollevò una sopracciglio, ancora dubbiosa. “Vuoi dire che tutto questo macello è solo pubblicità?”

Medusa alzò le spalle. “Sì, in parte è così. Come avrai certamente notato, Magneto sa come farsi notare.”

“Dire così mi sembra sminuirlo.” replicò Callisto e Medusa sorrise, ma dentro di sé sospettava che la ragione principale fosse un'altra. Magneto non si fida più di te, ecco perché non ti ha mandato a distruggere la Cura. Ai suoi occhi i tuoi privilegi sono terminati. Scoprì che questo pensiero la preoccupava più di quanto si sarebbe aspettata.

“Ehi, scusami!”

Medusa si voltò in direzione della voce, e vide che a chiamarla era un uomo sulla quarantina con i capelli lunghi fino alle spalle e la pelle scura. Lo riconobbe come l’uomo del falò, il tizio che possedeva il rosario di Danielle e che l’aveva indirizzata sulle sue tracce. Si voltò a guardare Callisto.

“Porta gli altri alla nostra postazione.” le disse. “Io arrivo subito.”

Guardò la ragazza e il resto della loro guardia allontanarsi in direzione della terraferma, poi i suoi occhi tornarono sull’uomo che le stava di fronte. Lui le rivolse un vago sorriso intimidito.

“So che non è il momento migliore, ma non ho ancora avuto occasione di dartelo.” disse frugando nella tasca del suo giubbotto militare. “Credo che questo dovresti tenerlo tu.”

Allungò la mano a coppa verso di lei, e Medusa vide che nell’incavo del palmo teneva il rosario di pietre nere, con il crocefisso d’argento che scintillava sotto il sole del tardo pomeriggio. Si sentì improvvisamente in colpa per non aver reclamato prima quell’oggetto che in passato era appartenuto a sua madre.
Ricordò quello che le aveva detto l’infermiera dell’ospedale psichiatrico: “Solo perché non ti guarda, non significa che non ti vede.” Le tornò in mente che era corsa via senza salutare, e il pensiero la fece vergognare come una ladra.

“No, non posso.” disse senza staccare gli occhi dal rosario nella mano dell’uomo. “E’ tuo.”

Lui le sorrise di nuovo, questa volta con maggiore convinzione. “Non conosco le tue motivazioni, ma credo che per te significhi molto, molto più di quello che significa per me.” rispose. “Avanti, prendilo.”

Quasi senza rendersene conto, Medusa allungò la mano destra e l’uomo fece scivolare il rosario nel suo palmo. Si accorse che il crocefisso era graffiato e qui e là aveva perso la cromatura, e che alcune delle pietre nere erano scheggiate. “Grazie.” mormorò infilandoselo nella tasca dei jeans.

“Di niente.” rispose l’uomo, poi si voltò e tornò tra gli altri mutanti della Confraternita, seduti a gambe incrociate sull’asfalto e sui cofani delle auto in attesa che calasse la notte. Medusa riprese a camminare verso la sua postazione, dove Callisto e gli altri la stavano aspettando in attesa dei suoi ordini. Mentre marciava, fece scivolare una mano nella tasca dei jeans e si mise a giocherellare distrattamente con i grani del rosario.

****

Esattamente come Magneto aveva previsto, le barriere erette per proteggere il ponte si rivelarono totalmente inutili: nessuno, né dall’isola né dalla terraferma, tentò di sfondare le linee della Confraternita e scatenare una battaglia per il possesso del Golden Gate. Probabilmente vogliono aspettare la nostra prima mossa, e poi reagire di conseguenza, si disse Medusa mentre, seduta sul cofano di una Ford Fiesta grigia, osservava gli ultimi raggi del sole morente riflettersi debolmente sulle onde dell’oceano.

Si infilò una mano in tasca e le sue dita accarezzarono le pietre lisce e fredde del rosario, e provò un vago senso di inquietudine stringerle lo stomaco. Non va bene. Anche un bambino si accorgerebbe che la nostra posizione è indifendibile. Un drappello di un centinaio di uomini sarebbe riuscito a buttarci in mare in non più di un’ora. Il polpastrello dell’indice tracciò il contorno di una spaccatura su uno dei grani del rosario, mentre un grosso uccello bianco, probabilmente un albatro, scese in picchiata e planò con grazia sulla superficie dell’acqua, a circa una cinquantina di metri da dove si trovava lei in quel momento.

Come sarebbe bello essere come lui, pensò Medusa mentre l’albatro riprendeva quota e spariva nel cielo, dove avevano cominciato ad apparire, ancora offuscate dall’estrema luce del tramonto, le primissime stelle. Nessuna guerra da affrontare, nessuna lotta da portare avanti, solo il cielo sopra le mie ali e l’oceano su cui scivolare. Si ricordò di aver letto da qualche parte che in spagnolo la parola “alcatraz” significa proprio “albatro”, e la cosa le sembrò di buon auspicio.

Callisto le si avvicinò e si sedette accanto a lei sul cofano della Ford. “Ho fatto ancora un giro.” disse. “Non sembra che qualcuno abbia intenzione di avvicinarsi, ma ho ordinato a Puck e Dustgirl di rafforzare la barriera ogni mezz’ora, tanto per stare sicuri.”

Medusa annuì. “Molto bene.” Osservò il cielo, percorso dagli ultimi riflessi dorati e rosei del tramonto. “Non ne avremo ancora per molto. Appena cala la notte ci spostiamo tutti dall’altro lato del ponte.”

Callisto sembrò perplessa. “Ma non sarebbe meglio lasciare qualcuno di guardia?” chiese.

Medusa non rispose subito. Anche lei aveva pensato la stessa cosa, ma Magneto era stato categorico: tutti i mutanti della Confraternita, che avessero o non avessero esperienza sul campo di battaglia, dovevano partecipare all’assedio dell’isola. “La nostra potenza d’impatto dovrà essere tremenda.” aveva spiegato il capo della Confraternita.

“Gli ordini sono ordini.” disse infine, sperando che Callisto non notasse la sfumatura diffidente nella sua voce.

Rimasero ancora per qualche istante in silenzio mentre il cielo si faceva scuro. Ora che il sole se ne era andato le stelle si ereno fatte più temerarie, stagliandosi con le loro luci tremolanti nel blu profondo del firmamento. Chissà che stella è, si chiese Medusa fissando il puntino più luminoso di tutti. Sirio, forse. O forse Orione. Cavolo, come vorrei essere stata attenta mentre il professor McCoy spiegava il sistema solare.

La voce di Callisto la riportò alla realtà. “Medusa?”

“Sì?”

“Ci saranno guai?”

Medusa si voltò a guardare la ragazza seduta al suo fianco, non sapendo bene cosa dirle. Sapeva che il suo dovere era quello di sostenere sempre e comunque Magneto, e se lui aveva detto che la Confraternita avrebbe raso al suolo la sede dei laboratori Worthington e distrutto la Cura lei non avrebbe dovuto mai e poi mai contraddirlo. Però Callisto le piaceva, e non voleva insultare le sua intelligenza mentendole e dicendole che sarebbe andato tutto benissimo.

Annuì lentamente. “Sì, Callisto. Credo che ci saranno guai.”

Callisto abbassò lo sguardo e non disse niente, e Medusa guardò un’ultima volta la stella senza nome prima di balzare giù dal cofano dell’auto.

“Vieni.” disse. “E’ ora.”

Cominciarono a radunare la loro squadra di mutanti e, armati di torce elettriche e lampade tascabili, si misero in cammino per raggiungere l’altra parte del ponte. Le auto fracassate e abbandonate che costellavano il Golden Gate avevano un aspetto ancora più spettrale illuminate fugacemente dai deboli fasci di luce delle pile, e Medusa si mise di nuovo la mano in tasca e strinse brevemente il rosario mentre guidava il suo gruppo attraverso quel disastro di vetri infranti e lamiere contorte. Ancora più inquietante fu il fatto che non incontrarono anima viva finché non raggiunsero la metà ovest del ponte: tutti i membri della Confraternita, infatti, si erano raggruppati vicino all’estremità più vicina all’isola di Alcatraz, aspettando che venisse dato l’ordine di attaccare. Medusa congedò la sua squadra e, insieme a Callisto, si avvicinò a Pyro, che, appoggiato ad un furgone, giocherellava pensieroso con il suo amato lanciafiamme. Quando vide arrivare le due ragazze spense immediatamente la vampata che aveva appena lanciato e sorrise all’espressione corrucciata di Medusa, che stava osservando il lanciafiamme con un vago sguardo di odio.

“Tutto bene dall’altra parte?” domandò.

“Non si è fatto vedere nessuno.” rispose Medusa alzando le spalle. “E qui?”

Pyro si infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans. “Stessa cosa. Sono rimasti rintanati là dentro per tutto il giorno.” disse indicando con un cenno della testa l’edificio bianco sull’isola, il cui cortile era illuminato da numerosi fari elettrici. Era tutto talmente pacifico da sembrare che non ci fosse anima viva in tutta Alcatraz.

Di nuovo Medusa sentì l’inquietudine morderle le viscere. Non mi piace, non mi piace per niente, si disse osservando il cortile deserto dell’ex prigione. Pyro si accorse del suo turbamento e fece per parlare, ma Callisto lo precedette.

“E il capo?” domandò.

Pyro indicò la figura alta e distinta di Magneto che si stagliava contro le luci artificiali dei fari, a pochi passi dall’estremità del ponte. Qualche metro dietro di lui c’erano Kid Omega e il Fenomeno.

“Credo che sia arrivato il momento.” disse Medusa osservando il capo della Confraternita scrutare meditabondo il profilo chiaro del palazzo.

Pyro annuì e si staccò dal furgone. “Archlight!” chiamò rivolto alla ragazza che stava seduta sul parapetto del ponte a qualche passo da loro. Appena sentì la voce di Pyro scattò immediatamente in piedi.

“Va ad avvisare gli altri.” le ordinò Pyro. “Si comincia.”

Archlight si affrettò ad obbedire e sparì in mezzo alla massa anonima degli altri mutanti della Confraternita. Pyro, Callisto e Medusa, invece, si diressero verso l’estremità del ponte, dove Magneto era in attesa.

Ci furono delle voci, e il rumore di portelloni di ferro che venivano spalancati. In pochi istanti un gruppo di soldati uscì dall’edificio e si riversò nel cortile, piazzandosi sulle torrette e davanti alle entrate con i loro inutili fucili spianati, mentre i comandanti correvano qua e là urlando cose come “Ai posti di combattimento!” e “Caricate le armi!”.

Medusa sorrise. Che razza di imbecilli, pensò. Dureranno sì e no quaranta secondi, con Magneto.

Callisto camminava spedita verso il capo della Confraternita, che ancora osservava assorto il palazzo dell’ex prigione e gli uomini con le uniformi verdi che si affannavano nel suo cortile, e Medusa fece per accelerare il passo e raggiungerla. Pyro, però, le prese la mano e la tirò leggermente verso di sé, facendola rallentare. Medusa si girò a guardarlo.

“Finirà presto.” disse Pyro mentre camminavano. Medusa abbassò lo sguardo.

“Finirà presto.” ripeté lui dandole una stretta alla mano, come aveva fatto quella notte ad Alkali Lake, quando Meredith aveva gettato via il suo nome ed il suo passato e aveva detto a Magneto di chiamarsi Medusa.

Lei non disse niente. Esattamente come aveva fatto allora, intrecciò le dita con quelle di John.

Pyro esitò un istante, come se fosse indeciso se pronunciare a no le sue prossime parole. “E quando sarà finita, voglio portarti via di qui. Almeno per un po’.” disse cautamente. Cercò gli occhi di Medusa e fece una breve pausa. “Verrai con me?” le chiese, la sua voce piena di timore e di speranza insieme.

Lei annuì. “Sì, John, certo.” rispose. Improvvisamente ripensò a quello che le aveva detto l’infermiera il giorno in cui aveva fatto la visita al consultorio: “Puoi cambiare idea quando vuoi. Se non ti presenterai all’appuntamento, nessuno ti verrà a cercare.” Scacciò quella voce dalla sua testa. Non adesso. Davvero questo non è il momento adatto.

Erano ormai vicini all’estremità del ponte, e la mano di Pyro scivolò via da quella di Medusa. Le sembrò che qualcosa dentro di lei avesse sussultato quando le dita di lui si erano staccate dalle sue, e Medusa spalancò gli occhi per la sorpresa. No, no, devo essermelo immaginato, si disse. E’ troppo piccolo perché io possa sentirlo muoversi.

“John?” chiamò improvvisamente.

Lui la guardò. “Cosa c’è?”

In quel momento Magneto si voltò e lanciò un breve sguardo verso i suoi due più vecchi luogotenenti, che ancora si attardavano ad un paio di metri da lui.

Medusa scosse la testa. “Niente.” rispose. “Te lo dico quando sarà finita.”

Si avvicinarono a Magneto e si piazzarono alla sua destra. I soldati nel cortile correvano qui e là come formichine impazzite, e Medusa sentì il Fenomeno ridacchiare, ma quando scrutò il volto di Magneto vide che era serio e impassibile.

“Il ragazzo è nel lato sud-est dell’edificio.” disse Callisto, che se ne stava in piedi qualche metro a sinistra di Magneto.

Il capo della Confraternita annuì. “Bene, allora.” disse guardando Pyro.

Lui si voltò verso i mutanti in attesa dietro di loro. “Buttiamolo giù!” gridò.

Dalle schiere della Confraternita si levò un grido di battaglia che assomigliava ad un ruggito, poi Medusa vide una folla di persone correre in avanti e balzare dal ponte al cortile della prigione. In qual momento le porte dei laboratori Worthington si spalancarono e decine e decine di soldati uscirono dall’edificio in pieno assetto da battaglia. Medusa li vide accucciarsi dietro i camini dell’impianto di ventilazione che spuntavano qui e là nel cortile, puntando i loro fucili verso le persone che ora correvano verso di loro con l’intenzione di sfondare le loro file e fare irruzione nel palazzo.

Il Fenomeno fece per scendere dal ponte e prendere parte alla battaglia, ma Magneto lo bloccò.

“Negli scacchi vanno avanti i pedoni.” disse con un tono neutrale, senza staccare gli occhi dalla scena che si svolgeva nel cortile davanti a lui. A Medusa tornò in mente la figura di Mistica sdraiata nuda sul pavimento del container, ferita e terrorizzata, e ad un tratto ebbe una rivelazione.

La canzone che le era venuta in mente quando si trovava nella radura delle rose selvatiche, la canzone che suo padre ascoltava sempre quando era bambina, non era affatto una canzone d’amore. Raccontava di un omicidio. Ricordò improvvisamente l’angoscia che l’assaliva quando la voce della donna cantava il ritornello, e lei se ne stava seduta al tavolo della cucina con gli occhi sbarrati, presagendo l’orrore che stava per essere narrato ma incapace di smettere di ascoltare.

…They call me The Wild Rose
But my name was Elisa Day.
Why they call me it I do not know
For my name was Elisa Day…

Il vento portò fino a loro il rumore dei proiettili che venivano messi in canna, e Magneto scosse la testa beffardamente. “Gli umani e le loro armi.” disse, e alzò una mano per strappare i fucili dalle mani dei soldati.

Non successe niente.

Medusa vide il volto di Magneto impallidire, poi si sentì il rumore di uno sparo, e un grido. Uno dei mutanti della Confraternita cadde a terra scosso dalle convulsioni, mentre la sua pelle passava da rosso acceso ad un colorito olivastro. Qualcosa di argentato luccicò sul suo petto, e per un secondo Medusa pensò che si trattasse di un crocefisso simile a quello che ornava il rosario di Danielle. Ma poi si rese conto che non era sul suo petto, ma nel suo petto. Una fialetta uguale a quella che il poliziotto aveva sparato contro a Mistica nel container era conficcata nella sua carne. Ecco perché non ci hanno attaccati prima, si disse. Ci stavano aspettando.

Ci furono altri spari e altri corpi che cadevano sulla ghiaia del cortile. Magneto tentò di nuovo di usare i suoi poteri su quelle armi, e di nuovo le armi rimasero al loro posto.

“Plastica.” disse il capo della Confraternita. Il suo tono era a metà fra il casuale e l’ammirato, e a Medusa venne voglia di gridare. “Hanno imparato.”

Si sentì una serie di esplosioni che coprirono il rumore degli spari, e Medusa vide che alcuni soldati ora brandivano dei lanciagranate. Migliaia e migliaia di dardi contenenti la Cura piovevano sui mutanti che si trovavano nel cortile, e molti di loro cominciarono a arretrare, pazzi di terrore, e a camminare gli uni sugli altri. La maggior parte delle persone che avevano preso parte alla battaglia erano dei dormienti che non avevano la minima esperienza di combattimento.

“Per questo motivo vanno avanti i pedoni.” disse Magneto rivolto ai suoi luogotenenti.

Medusa si voltò a guardarlo ammutolita dalla sorpresa, dicendosi che di certo aveva capito male. Kid Omega e Callisto stavano osservando la scena con la stessa espressione orripilata sul volto, ma il viso di Pyro era tranquillo e impassibile come quello di Magneto.

Ci fu un grido acuto e Medusa vide Lizard, un mutante che aveva la capacità di arrampicarsi sui muri, precipitare dalla torretta che aveva scalato e schiantarsi al suolo una decina di metri più in basso. Il suo corpo rimbalzò con un tonfo raccapricciante sulla ghiaia, e poi rimase immobile.

“Questa è follia.” mormorò Medusa, e senza nemmeno rendersene conto fece un passo avanti. Vide un soldato puntare il fucile contro una ragazza bionda che riconobbe come Kharmaleon, e usando la telecinesi strappò l’arma dalle mani dell’uomo con una violenza tale che il soldato perse l’equilibrio e cadde a terra, disorientato. Le parve che Magneto le gridasse qualcosa, ma lei non si prese il disturbo di dargli retta. Continuò ad usare la telecinesi sui soldati e i loro fucili, ma erano davvero troppi, e ogni volta che riusciva a disarmarne uno un altro prendeva il suo posto.

Improvvisamente dal campo di battaglia si levò il grido “Fuoco!” e qualcosa esplose sopra la sua testa. Le lamiere di ferro su cui stava in piedi si sfilarono da sotto di lei e Medusa perse l’equilibrio, cadendo all’indietro. Pyro l’afferrò per un braccio e la tirò verso di sè, mentre migliaia e migliaia di dardi si infrangevano contro le lastre di ferro che Magneto faceva fluttuare a mezz’aria di fronte a loro come scudo.

Mentre Pyro l’aiutava ad alzarsi in piedi, Medusa vide il capo della Confraternita rivolgerle uno sguardo pieno di astio e di rimprovero prima di girarsi verso Archlight.

“Usa le onde d’urto.” le ordinò. “Devi mirare a quelle armi!”

La ragazza avanzò verso l’estremità del ponte sfilandosi i guanti viola. Non appena fu pronta, Magneto fece cadere a terra le lamiere e Archlight picchiò insieme i palmi delle mani, generando un’ondata di energia che investì tutto il cortile della prigione. Le armi di plastica e gli scudi esplosero come giocattoli nelle mani dei soldati, e Medusa si ricordò con una punta di gelosia che quella era la tecnica che un tempo Magneto usava con lei. Era lei che si piazzava davanti alle porte d’acciaio e si scagliava nelle stanze non appena il capo della Confraternita faceva saltare via i cardini, pronta ad affrontare chiunque si trovasse al loro interno. Davvero le cose sono cambiate, si disse, e accarezzò il profilo del rosario che teneva in tasca attraverso il tessuto dei jeans.

Ormai liberi di attaccare, una seconda ondata di mutanti della Confraternita si riversò dal ponte al cortile dell’isola, desiderosi di vendicare i compagni feriti e uccisi. Medusa vide i soldati gettare a terra quello che restava delle loro armi e guardarsi attorno terrorizzati, mentre la fiumana di persone avanzava verso di loro e li travolgeva. Alcuni militari vennero investiti da una vampa di fuoco sputata da uno dei mutanti e si rotolarono per terra cercando di spegnere le fiamme, e dalla parte opposta del cortile un gruppo di soldati strisciava a terra tossendo e cercando invano di ripararsi gli occhi dalla nube di sabbia in Dustgirl li aveva avvolti.

In quel momento il rumore di un motore a turbina si diffuse sopra il campo di battaglia. Medusa, insieme alle altre persone che erano con lei sul ponte, alzò la testa cercando di individuare l’origine di quel rumore, ma non riuscì a scorgere nient’altro che le stelle, ricamate nella seta del cielo, e la luna piena spuntata chissà quando. Per un momento le sembrò di scorgere una luce posarsi sul tetto dei laboratori, ma poi ritornò a guardare il cortile, dove le forze della Confraternita stavano ormai per avere la meglio. Ancora qualche minuto e sarebbe finito tutto.

Ad un tratto un lampo si scaricò sul campo di battaglia, e Medusa sobbalzò. Non c’è una nuvola in cielo, pensò. Ma da dove diavolo... Poi un altro fulmine e un altro ancora colpirono le file della Confraternita, diffondendo il panico, e a Medusa bastò alzare la testa per vedere la fonte di quello strano fenomeno. Ororo Munroe, la sua ex insegnante di storia e membro degli X Men, volteggiava a mezz’aria sopra il cortile, scagliando fulmini dalle mani. Hank McCoy, abbigliato con una tuta di pelle e lattice troppo stretta per lui, saltò giù dal tetto e ruggì in direzione del ponte. Probabilmente farebbe paura, pensò Medusa, se quella cosa fosse una taglia o due più grande.

Due figure abbracciate si lanciarono nel cortile e sparirono inghiottite dal terreno, mentre quello che Medusa riconobbe come Piotr Rasputin atterrò sulla ghiaia scavando un piccolo cratere. Infine ci fu una cascata di scintille che si sprigionarono in uno degli angoli del tetto, e Wolverine balzò nel cortile, cominciando a dare ordini ai soldati perché mantenessero le posizioni e si schierassero dietro di loro. Gli X Men si misero in fila nel centro del campo di battaglia, separando i militari dalle orde della Confraternita, pronti a difendere i laboratori Worthington. Medusa sentì un’onda di disgusto e di disprezzo verso di loro. Infami codardi, traditori del loro stesso sangue. Si trincerano dietro i loro bei discorsi di fratellanza e di pace, ma la realtà è che sono semplicemente troppo vigliacchi per battersi contro gli umani.

Fece correre un’occhiata piena di disdegno su di loro, e riconobbe Bobby, in piedi di fianco ad una ragazzina bassa e bruna che di certo non era Rogue. Al centro della fila stava Wolverine, gli artigli di adamantio sguainati e un’espressione di collera ferina sul viso. Medusa ripensò al giorno in cui Logan era andato a prenderla all’aeroporto, quando lei tornava dal funerale di Evie, e si era sforzato di trovare alla radio una canzone che non fosse troppo allegra, per non urtare i suoi sentimenti in quello che per lei era un giorno di lutto e di dolore.

Le tornò improvvisamente alla mente tutta la sofferenza e la rabbia che aveva provato per la morte della sua sorellina, e come l’aveva straziata sentire da Daniel, il fidanzato di Evie, il messaggio di addio che lei aveva lasciato: “La guerra è finita.”

Nel cortile, McCoy ruggì di nuovo e la Confraternita, ripresasi dal primo istante di spiazzamento, si lanciò all’attacco dei nuovi arrivati.

Ti sbagli, Evie, pensò Medusa mentre osservava la battaglia infuriare nel cortile. La guerra è appena cominciata, e sopravvivere è un dovere per ognuno di noi. Quello che facciamo qui stanotte è proprio questo, sopravvivere, e non c’è niente di buono, o di bello, o di nobile nella sopravvivenza, d’accordo. Facciamo quello che facciamo perché quelli che verranno dopo di noi vedano riconosciuto il loro diritto all’esistenza, e non debbano più lottare con le unghie e con i denti per ogni misero centimetro di sole che riescono ad accaparrarsi. Ma finché non arriverà quel giorno, Evie, il nostro dovere è quello di lottare, e io credo, anzi, sono sicura, che sarà esattamente la volontà di sopravvivere che alla fine ci permetterà di sopravvivere.

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Finito anche questo. Spero vi sia piaciuto.

Ecco la traduzione della parte di canzone (ovviamente è sempre "Where the Wild Roses Grow") che appare nel testo:

[...]"Mi chiamano La Rosa Selvaggia
ma il mio nome era Elisa Day.
Non so perchè mi chiamino così.
Il mio nome era Elisa Day."[..]

Mi rendo conto che adesso è un po' criptico, ma vi posso assicurare che andrà meglio nel prossimo capitolo.

Per Lia: non ci posso credere! Hai scritto una recensione per ogni singolo capitolo... Io non so che dire, se non che sei straordinaria!!!!! Poche persone avrebbero avuto la pazienza, e il buon cuore, di andare a recuperare i capitoi "vecchi" e scrivere un commento per ognuno di loro invece che scrivere un'unica recensione "riassuntiva" nel capitolo più recente. Davvero, quando ho visto la mia pagina delle recensioni mi sono commossa!! Volevo rispondere ad alcuni dei tuoi commenti:

1. Per il capitolo 13 di "Into the Fire": Immagino che la scena a cui ti riferisci sia quella della "furia incendiaria" sul portico dei Drake. Ho recuperato e visto X Men 2 qualche giorno fa, e devo dire che quella scena è davvero splendida. Per la musica, le inquadrature, la straordinaria interpretazione di Aaron Stanford (chapeau, ragazzo mio). Senza voler togliere nulla al bravissimo regista o agli sceneggiatori, io quella scena l'avrei scritta così anche se avessi visto il film prima di iniziare a scrivere il racconto; mi serviva Wolverine in piedi, e soprattutto mi serviva che John stesse molto male per innescare l'attacco di rabbia di Meredith (quel "Ma si può sapere da che parte stai?" che serviva a far scattare un campanello d'allarme). Senza contare che un bello svenimento, beh, fa scena.

2. Per il capitolo 1 di "Winning...": Ho cercato di trattare il tema dell'aborto più delicatamente possibile, sapendo bene che non è un argomento da usare per fare melodramma a buon mercato. Mi sono sforzata di immaginare le emozioni che una giovane donna può provare in una situazione simile, senza giudicare quello che Meredith pensa o fa. Sono felice e anche molto sollevata di aver raggiunto questo risultato. Grazie per avermi rassicurata!

3. Per il capitolo 2 di "Winning...": Sono felice di dividere con te la passione per quel figo (pardon, l'ho fatto di nuovo!) di Eric Dane! Per quanto riguarda la scena sul container e la reazione di Magneto, lasciami dire che Mistica è il personaggio per me più "indigesto" (a parte Kitty Pride, che è una fuoriclasse) dei tre film. Non la sopporto, non ci posso fare niente, e non è un caso che lei è Meredith proprio non si piglino. Ma il modo in cui Magneto la scarica quando non gli è più utile, e la scena in cui lei se ne sta nuda,tremante e umiliata sotto lo sguardo di tre uomini mi ha fatto davvero pena. Per me Magneto è molto simile a molti capi di movimenti politici e sociali nella Storia: una volta che hanno raggiunto un certo potere, diventano ingrati, crudeli e presuntuosi. Meredith se ne accorge e la sua fede in lui vacilla, anche se rimane fedele agli ideali della Confraternita in sè.

4. Per il capitolo 6 di "Winning...": Che vuoi che ti dica? Forse un taglio netto era molto meglio, ma proprio non ce l'ho fatta! Si vogliono troppo bene... Però quando Meredith dice "ti prego, John" non intende "ti prego non mi lasciare". E' talmente convinta che John voglia chiudere con lei che lo implora di sferrarle il colpo di grazia il più velocemente possibile, perchè la seppur lontana speranza che la loro storia esista ancora la sta distruggendo. Quello che intende suona più meno come "ti prego, uccidimi" (Jean Grey: "ehi, qualcuno mi ha chiamato?"), o meglio, come "ti prego, lasciami e basta".

In conclusione, voglio solo dirti che ti ringrazio per ognuna delle parole meravigliose che hai scritto sul mio stile, i miei personaggi e le mie storie. Sai che mi sono un po' commossa leggendole? E' un piacere scrivere per persone come te. Va beh, adesso basta sennò faccio la figura della leccaculo, ma ti assicuro che mi viene davvero dal cuore! Un affettuosissimo saluto, Lia, e spero che vorrai leggere anche il proseguimento di questa storia.

Come probabilmente avrete capito, ormai siamo agli s
goccioli. Il capitolo 8 sarà il capitolo finale. Se fino ad ora "Winning a Battle, Losing the War" vi è piaciuto, vi invito ad aspettare ancora un paio di giorni e scoprire come si concluderà. Sarò puntuale questa volta, ve lo giuro. Ho già quasi finito la stesura definitiva.

Un bacione a tutti e a presto!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


WaBLtW8

Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Benvenuti! Ecco il capitolo conclusivo di "Winning a Battle, Losing the War". E' spaventosamente lungo, lo so, ma non sono riuscita a fare altrimenti. Anche volendo dividerlo in due parti, non ho trovato un punto di stacco da cui tirare fuori un eventuale capitolo 9 senza ridurlo ad uno schifo. Se arrivate vivi fino alla fine ^^ vi aspetto per gli ultimi saluti... sigh...

Buona lettura!

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Gli X Men si stavano battendo con valore, e il fatto di trovarsi in una posizione di marcata inferiorità numerica rispetto alle schiere della Confraternita non sembrava metterli in difficoltà. Medusa vide Wolverine tagliare in due uno dei lampioni che si trovavano nel cortile con i suoi artigli di adamantio, e farlo cadere su alcuni degli uomini che avanzavano minacciosi verso le file serrate degli X Men e dei militari dietro di loro. Ci furono altre urla, più acute, e Medusa riconobbe il suono di una lama, anzi, di tre lame, che venivano conficcate nel corpo di un altro essere umano. Eccola, la pace di Charles Xavier e dei suoi degni tirapiedi, si disse distogliendo lo sguardo. Noi saremo anche dei criminali, ma almeno non siamo dei criminali ipocriti.

Tornò a guardare il cortile quando sentì il ruggito di Hank McCoy risuonare nuovamente sul campo di battaglia. Nonostante la tuta stretta, che senz’altro doveva essergli quanto meno d’impiccio, riuscì a stendere a pugni e calci almeno quattro mutanti della Confraternita contemporaneamente, e un altro gruppetto (Medusa non potè contare esattamente quanti fossero) finì a terra quando McCoy si lanciò contro un palo e lo utilizzò come perno per volteggiarci attorno e colpire con i calci chiunque o qualunque cosa si trovasse nel suo raggio d’azione. Per qualche istante, Medusa ammirò stupefatta e meravigliata quella mossa. Cavolo, e pensare che ad insegnare scienze era pallosissimo.

Si girò ad osservare il volto di Magneto e vide che ormai il comandante della Confraternita era oltre la rabbia. I tratti del suo viso pallido, reso ancora più bianco dalla luce della luna piena e delle stelle, era talmente deformato dall’ira e dallo sdegno che per qualche secondo Medusa ebbe paura di lui. Era sicura che Magneto avesse preso in considerazione l’intervento degli X Men, perciò aspettò che lui parlasse e spiegasse ai suoi luogotenenti cosa fare per trarre le loro schiere da quel brutto impiccio. Invece il comandante della Confraternita rimase muto; si voltò verso Archlight e Kid Omega, che stavano anche loro osservando in silenzio la battaglia, e rivolse loro uno sguardo significativo. I due ragazzi annuirono, e poi cominciarono ad inerpicarsi sulle lamiere del ponte, cercando un luogo abbastanza buio e discreto per poter scendere nel cortile senza essere visti da uno degli X Men o dai militari. Medusa non conosceva il loro compito, ma era certa che aveva qualcosa a che fare con l’edificio bianco in fondo al cortile, o con una delle persone al suo interno. Forse è il piano B, si disse.

Magneto non spiegava mai tutti i dettagli dei suoi piani ai suoi sottoposti. Ognuno conosceva solo i propri compiti o poco più, e per il resto doveva sbrigarsela da solo, o aspettare gli ordini diretti di Magneto quando la missione era già in atto. Era una tecnica lacunosa, certo, e anche pericolosa, perché non c’è niente di peggio al mondo che trovarsi nel bel mezzo di una battaglia e non sapere cosa fare. Medusa sospettava che ci fosse dietro una filosofia del tipo “divide et impera”, un modo per tenere ancora più legati a sé i propri sottoposti.. Si chiese se Magneto intendesse affidarle qualche compito quella notte, o se l’avrebbe semplicemente fatta rimanere sul ponte finché tutto non fosse finito. Tutto dipendeva dalla possibilità che Magneto avesse o meno ancora fiducia in lei. Guardò Pyro, che stava osservando assorto i loro ex compagni di scuola e i loro ex professori combattere per difendere coloro che desideravano la sparizione dei mutanti dalla faccia della terra.

Chissà come Magneto prenderà la nostra richiesta di congedo, si domandò scrutando il volto pallido e impassibile del suo ragazzo. Chissà dove andremo, quando sarà finita. Si infilò di nuovo la mano sinistra nella tasca dei jeans, stringendo il rosario tra le dita, mentre la mano destra accarezzò distrattamente il suo grembo.

Glielo dirai?

Quella voce non identificata, proveniente da qualche parte in uno degli angoli più remoti del suo cervello, la colse totalmente di sorpresa. Allora, glielo dirai o no? Vorrei ricordarti che per la prossima settimana hai già un appuntamento programmato per... beh, hai capito, no? Le dita di Medusa si serrarono talmente forte attorno al rosario che potè sentire il profilo delle pietre e del crocefisso penetrare nella sua carne.

Cercò dentro di sé una risposta da dare alla voce. Io... Io non... Beh, ma che cos’è che è cambiato, poi? Niente, proprio niente. Anche se per un po’ lasciassimo la Confraternita, i soldi non è che comincerebbero magicamente a crescere sugli alberi.

Con un movimento rapido e pieno di stizza si tolse dalla fronte un paio di ciocche che le erano di nuovo scivolate sugli occhi. Quella conversazione con sé stessa non le piaceva affatto, anzi, la metteva molto, molto a disagio, ed era desiderosa di chiuderla il più presto possibile. Era molto stanca. Voleva che tutto finisse, e che finisse subito.

Si avvicinò con discrezione a Pyro, il più silenziosamente che le riusciva, abbastanza vicino per sentire l’odore del suo profumo. Aveva sempre adorato il profumo di John; lo trovava buonissimo, e sexy, e incredibilmente virile. Ispirò a pieni polmoni quell’odore, e per un istante fu tentata di appoggiare la testa sulla sua spalla e pregarlo di farla addormentare così, tra le sue braccia. Voleva dormire, ed ignorare quel fracasso che veniva da sotto di loro, le urla e il rumore della lotta, e soprattutto voleva ignorare quelle domande assillanti che le stavano facendo venire il mal di testa.

La voce, però, non sembrava disposta a gettare la spugna. Beh, ma questa non è affatto una risposta, replicò. Andrai o no all’appuntamento?

Prima che Medusa potesse anche solo iniziare a pensare a cosa dire, fu investita da una violenta e improvvisa ventata che la costrinse a ripararsi gli occhi. Con una fitta di adrenalina che le faceva correre il cuore a mille e contorcere lo stomaco, alzò il viso verso l'alto, pronta a fronteggiare l’attacco della Munroe, invece si accorse un po’ sconcertata che sopra di lei c’era solo il cielo, con il suo ricamo di stelle tremolanti e dorate e la luna piena che brillava.

Un velocissima macchia scura che si muoveva nella zona periferica del suo campo visivo le fece voltare la testa verso il tetto dell’edificio in fondo al cortile, appena in tempo per vedere Callisto gettarsi su Tempesta e trascinarla al suolo. Mentre guardava le due donne lottare nel cortile, Medusa si disse sorpresa che difficilmente lei avrebbe avuto una reazione pronta e decisa come quella di Callisto. Sarà un’eccellente sostituta mentre io e John saremo via, pensò. Un sorriso eruppe sulle sue labbra quando le venne in mente ciò che aveva pensato mentre stava in attesa sulla collinetta nel bosco, aspettando che Magneto arrivasse e annunciasse al resto della Confraternita l’imminente attacco ai laboratori Worthington: “Ancora un paio di mesi e saranno Callisto e Kid Omega a fare scena a fianco del capo”. Questa volta ci ho preso in pieno.

Intanto, nel cortile, un gruppo di mutanti della Confraternita si scagliò contro Bobby, e lui alzò le mani producendo uno spesso muro di ghiaccio che bloccò brutalmente la corsa dei suoi assalitori. Sbatterono violentemente contro la parete e caddero al suolo storditi dall’urto. John scattò in avanti, fissando il suo ex amico con un espressione rabbiosa e decisa sul viso, ma Magneto lo fermò.

“Non ancora.” gli disse, e Pyro gli rivolse uno sguardo stupito.

Anche Medusa era un po’ perplessa: perché il capo non voleva che combattessero? D’accordo, non si fidava di lei, questo le era ormai chiaro. Ma perché impedire a Pyro di partecipare alla battaglia, oltretutto in un momento in cui le truppe della Confraternita erano evidentemente in difficoltà? Che motivo aveva di dubitare di John, quando lui... Forse ha capito che dopo stanotte ce ne andremo. Forse John gliene ha già parlato. Forse...

In quel momento Magneto si voltò verso di lei e le fissò il suo sguardo gelido addosso, e il ghiaccio dei suoi occhi piantato sul suo volto la fece rabbrividire dalla testa ai piedi. Per la seconda volta in quella nottata, Medusa ebbe paura del suo capo.

“Va’ là dentro.” le disse Magneto. La sua voce suonava autoritaria e pericolosa. “Trova il ragazzo e uccidilo.”

Medusa rimase qualche istante immobile e in silenzio, incapace di credere all’ordine che aveva appena ricevuto. Sì, sapeva che erano andati fino ad Alcatraz per distruggere la fonte della Cura, e sapeva che la fonte della Cura era un ragazzino, ma non si era mai soffermata a pensare a come avrebbero compiuto quella missione. Soprattutto, non aveva mai pensato che Magneto avrebbe affidato proprio a lei, di tutte le persone, il compito di uccidere il ragazzo.

Lo sguardo di Pyro era altrettanto scioccato; evidentemente nemmeno lui si era aspettato che di quella parte della missione fosse incaricata Medusa. I suoi occhi passarono dalla sua fidanzata a Magneto, come se volesse chiedergli di esentare Medusa da quel compito, ma lo sguardo del comandante supremo della Confraternita era fisso sulla ragazza di fronte a lui. Medusa si ricordò del giorno della lite con John, lo stesso giorno in cui Magneto le aveva detto che se era veramente con lui allora si sarebbe dovuta comportare di conseguenza. E’ un test. Mi sta offrendo un’ultima chance per rientrare a pieno titolo nella Confraternita. Per una frazione di secondo si domandò cosa doveva fare, obbedire all’ordine oppure ignorarlo e mandare tutto quanto al diavolo.

Ricordati di Evie, disse una voce nel suo cervello. Lottare per sopravvivere è un dovere per ognuno di noi.

Staccò gli occhi da quelli di Magneto e guardò John, cercando di comunicargli con lo sguardo tutto ciò che non poteva dirgli a parole, per via di tutta quella gente che era lì con loro, poi si voltò e cominciò a scendere dal ponte, cercando lo stesso punto buio e riparato da cui erano passati Archlight e Kid Omega. Il trucco è non pensare, si disse. Affrontiamo questa cosa un passo alla volta, come con Danielle, e presto sarà tutto finito, e potrò tornare da John.

Si appoggiò con la mano sinistra a quello che un tempo doveva essere parte delle mura di difesa del complesso, prima che il Golden Gate ci atterrasse sopra, e balzò sulla ghiaia. L’urto fu più violento di quel che si era aspettata, e sentì una fitta alle ginocchia che le risalì lungo il corpo fino a stemperarsi nel ventre. Qualcosa dentro di lei sussultò di nuovo.

Medusa si impose di ignorare quella sensazione, e cominciò ad esaminare attentamente la battaglia che si svolgeva di fronte a lei. Gli X Men, da soli, stavano affrontando le orde della Confraternita, ora in seria difficoltà, mentre i soldati sopravvissuti alla prima ondata di attacco erano raggruppati davanti all’entrata dell’edificio, bloccandola completamente. Di lì era impossibile passare; doveva fare il giro del cortile e trovare un’entrata secondaria, possibilmente senza farsi vedere da uno degli X Men o dai militari. Certo, avrebbe potuto provare a marciare attraverso il cortile e ipnotizzare chiunque fosse così coraggioso, o stupido, da mettersi sulla sua strada; ma c’era davvero troppa gente lì, e lei non aveva mai utilizzato il suo potere su così tante persone contemporaneamente. Decise di optare per un’entrata che fosse un po’ meno ad effetto.

Scivolò nell’ombra gettata dai resti di una jeep caduta dal ponte e cominciò a seguire il perimetro esterno del cortile, tenendosi quanto più possibile lontano dalla luce dei lampioni e dei falò che bruciavano qui e là nel bel mezzo del campo di battaglia. Vide qualcosa luccicare nell’estrema sinistra del cortile, a circa una cinquantina di metri da lei, e Medusa si fermò di colpo e si accucciò dietro la carcassa accartocciata di una delle torrette, cercando di capire se si trattasse del lanciafiamme di Pyro che entrava in funzione. Guardando meglio, però, si accorse che era la pelle di acciaio organico di Colosso a causare quel barlume di luce che aveva visto. Toccò di nuovo il profilo del rosario attraverso la tasca dei jeans.

Medusa riprese a camminare cercando di fare il meno rumore possibile, per non attirare su di sé l’attenzione di uno degli X Men. Sapeva che i suoi poteri funzionavano anche sui mutanti, ma si rese conto che preferiva di gran lunga non trovarsi ad affrontare uno degli appartenenti alla squadra del defunto Charles Xavier.

Cinica, la rimproverò Meredith St.Clair da qualche parte dimenticata della sua anima. Medusa le ingiunse di stare zitta.

Guardò verso l’edificio bianco, e si accorse che per aggirare il gruppo di soldati di guardia alla porte principali avrebbe dovuto correre allo scoperto per almeno una decina di metri. L’angolo di cortile che doveva attraversare era piuttosto lontano dal punto in cui si stava svolgendo il grosso della battaglia, ma era ben illuminato dalle luci artificiali che spuntavano dai muri del palazzo, e se qualcuno avesse guardato da quella parte proprio nel momento in cui Medusa lasciava il suo nascondiglio nell’ombra per correre verso l’edificio difficilmente sarebbe riuscita a passare inosservata.

Medusa guardò verso il centro del cortile, e vide Wolverine e McCoy che combattevano fianco a fianco, e di nuovo si stupì per la destrezza e l’agilità del suo ex professore di scienze. La Munroe volteggiava a qualche metro dal suolo, scagliando fulmini a destra e a manca, e Colosso era ancora dove l’aveva visto l’ultima volta, nel punto più lontano del cortile, impegnato a lottare contro un gruppetto piuttosto numeroso di mutanti della Confraternita. Non riuscì però a scorgere né Bobby né la ragazza bassa e bruna. Dopo un attimo di esitazione, decise di tentare comunque. Aveva già perso abbastanza tempo.

Balzò fuori dal buio e si mise a correre più velocemente che poteva verso il muro laterale dell’edificio, pronto a inghiottirla nella sua ombra e a offrirle riparo. Se riesci ad arrivare a quel maledetto muro è fatta, si disse. Scommetto che tutti i soldati di guardia all’edificio si trovano ora nel cortile principale. Chissà per quale motivo, le venne in mente Danielle.

Mancavano non più di sei o sette passi alla sua meta, quando qualcosa di duro e gelido, molto simile ad una palla di neve, la colpì con forza su una spalla. L’urto non fu tanto violento da farla cadere, ma la costrinse a fermarsi per non perdere l’equilibrio, e Medusa fece una giravolta su se stessa, più veloce che le riusciva, per fronteggiare il suo assalitore.

Bobby era in piedi di fronte a lei, ad una distanza di circa quindici metri. Indossava una di quelle tute aderenti di pelle nera che costituivano l’uniforme degli X Men, e che lei trovava talmente kitch. Millenni prima, quando ancora frequentava l’Istituto e aveva partecipato al programma di inserimento negli X Men (dio, l’aveva fatto, l’aveva fatto davvero, era stata sul punto di diventare a pieno titolo una di loro, ma com’era possibile?), non le era mai piaciuto indossarle. La facevano sentire parte di una sorta di ballo in maschera.

“Ma perché non possiamo andare in giro vestiti come diavolo ci pare?” ripeteva ogni volta che uscivano dagli spogliatoi e si dirigevano alla camera speciale. “Mica siamo l’esercito.”
Bobby la fissava come se avesse appena bestemmiato. “Siamo una squadra, Meredith.” le rispondeva.

Stanotte, invece, Bobby non la guardava affatto. Teneva gli occhi bassi, e per un momento Medusa non capì il perché. Santo dio, ma come è possibile che gli faccio così paura? si domandò. Poi ricordò che Bobby sapeva, e di certo non era uno stupido.

“Ciao, Meredith.” disse, sempre fissandosi le scarpe. Medusa esaminò il suo tono. Non c’era nessuna sfumatura di ostilità, per cui si sentì in diritto di fare un po’ di conversazione.

“Dov’è Rogue?” domandò. Anche se era rivolto verso il terreno, Medusa vide il viso di Bobby contorcersi in una smorfia di rabbia.

“Non è divertente, Meredith.” le ringhiò.

“Beh, non voleva essere divertente, voleva essere una domanda.” replicò lei, colta di sorpresa dalla reazione di Bobby. “E comunque io non sono Meredith.”

Il ragazzo bruno di fronte a lei fece per alzare gli occhi, ma poi tornò a fissare la ghiaia ai suoi piedi. Medusa maledisse l’occasione che aveva perso. Andiamo, Bobby, andiamo. Sai bene che non puoi farcela.

“Va bene, Medusa, allora.” disse Bobby, la sua voce di nuovo calma e ferma, e serrò per una attimo le mani. “Medusa, vieni via di lì.” le ordinò.

Medusa rimase qualche secondo a fissarlo in silenzio. “No, Iceman, credo proprio che rimarrò dove sono.” rispose infine. “Anzi, sei tu che dovresti andartene.”

“Non se ne parla proprio, Meredith.” La voce di Bobby era leggermente più alta questa volta, e Medusa provò una ondata di stizza a sentirlo rivolgersi di nuovo a lei con il suo vecchio nome. Gli occhi di lui si spostarono da un punto all’altro sulla ghiaia, e Medusa si domandò che diavolo stesse facendo. “Non ti permetterò di entrare in quel edificio.”

Le sfuggì un sorriso. “E come pensi di fare, Bobby? Io ti posso guardare, tu no. Direi che è un bello svantaggio.” Bobby sembrò di nuovo seguire con gli occhi qualcosa sul terreno, e Medusa capì. Stava seguendo la sua ombra.

Improvvisamente prese coscienza del peso del rosario nella tasca dei suoi jeans, dei suoi grani duri e tondi premuti contro la carne della coscia, e sentì l’urgenza di andarsene da quel luogo. “Ascoltami Bobby, se non te ne vai immediatamente, ti giuro che ti farò del male. Non moltissimo, perché un tempo siamo stati amici, ma te ne farò abbastanza da impedirti di seguirmi. Mi hai capito?”

Bobby non replicò. Si limitò a stringere i pugni, lo sguardo ancora basso, e a muovere velocemente gli occhi sul terreno, cercando ogni più piccolo spostamento della sua ombra. Medusa sentì di nuovo l’adrenalina scorrerle nel corpo, e i muscoli delle gambe e delle braccia che si flettevano da soli. Un secondo prima che Bobby la investisse con un’ondata di ghiaccio, Medusa riuscì a balzare via dal punto in cui stava e rotolare a terra fino alla torretta che giaceva abbattuta al suolo. La colpì con la spalla sinistra, producendo un rumore piuttosto forte, e Bobby si voltò verso di lei, lo sguardo sempre basso, e di nuovo le diresse contro un getto di ghiaccio, questa volta però mancandola di due o tre metri buoni.

Medusa ne approfittò per strisciare dietro la torretta e pensare a come liberarsi di Iceman. Il ragazzo era in gamba, più in gamba di quello che si era aspettata: era riuscito ad assestare due colpi pericolosi facendosi guidare solo dall’ombra che Medusa gettava e dal rumore che lei aveva fatto quando aveva sbattuto contro la torretta d’acciaio. Ma è cieco. Non può alzare gli occhi se di te, perché sa bene che se lo facesse sarebbe la sua fine.

Bobby, evidentemente cercando di farla uscire allo scoperto, cominciò a gettare ondate di ghiaccio a caso. La mano di Medusa si appoggiò nuovamente sul suo ventre, e lei provò un’ondata di furia travolgente contro di lui, un odio che non aveva mai provato prima in vita sua. Portalo accanto al muro del cortile, dove c’è buio e lui non potrà vedere la tua ombra. Portalo là e fallo a pezzi.

Si alzò in piedi, incurante del rumore che avrebbe potuto attirare Bobby dalla sua parte, e gli diresse contro un’onda di energia psichica. Il ragazzo, però, l’aveva sentita muoversi ed era riuscito ad individuare la sua posizione. Riuscì a gettarsi di lato ed evitare il grosso del colpo scagliatoli contro da Medusa, ma lei si accorse che era comunque riuscita a ferirlo, seppure di striscio, ad una gamba. Si mise a correre e lasciò il suo rifugio dietro la torretta prima che Bobby avesse il tempo di riprendersi dal suo attacco e potesse rispondere a sua volta, e mentre era ancora in movimento lanciò un’altra ondata di energia psichica, che fu fermata da Iceman grazie ad uno spesso muro di ghiaccio.

Medusa colse l’occasione al volo. Vide un grosso pezzo di lamiera, probabilmente un tempo parte del parapetto del Golden Gate, giacere abbandonato accanto al muro del cortile, dieci o quindici metri dietro Bobby che ancora si faceva scudo con la sua parete di ghiaccio. Troppo occupato a seguire i movimenti di Medusa attraverso la superficie translucida e deformante del muro, non si accorse del pezzo di ferro che viaggiava verso di lui ad altissima velocità. L’impatto fu così violento che Iceman fu scagliato attraverso la parete che lui stesso aveva creato e rimbalzò un paio di volte sulla ghiaia del cortile, prima di fermarsi a pochi passi da dove stava Medusa. Lei avanzò verso il corpo insanguinato del ragazzo, decisa a sferrargli il colpo di grazia.

Bobby giaceva sulla ghiaia con il viso rivolto verso il terreno, il volto e le mani tagliuzzati in più punti. Quando sentì la sua avversaria avvicinarsi tentò di tirarsi su appoggiandosi sui gomiti, ma poi ripiombò a terra, ansimando per la sofferenza che quello sforzo gli aveva causato. Provando una sorta di disgusto a vederlo steso al suolo così vulnerabile e inerte, Medusa gli sferrò un calcio nelle costole e lo voltò sulla schiena. Bobby gemette ad occhi chiusi e rimase immobile, come se solo respirare assorbisse tutte le sue energie. Medusa fece di nuovo librare in aria il pezzo di lamiera che giaceva a qualche metro da loro, vicino ai frammenti del muro di ghiaccio che già cominciavano a sciogliersi, e lo portò sopra il punto in cui giaceva Iceman. Lui tenne gli occhi chiusi, ma voltò la testa di lato, come se sentisse il peso della lastra di acciaio che galleggiava nell’aria qualche metro sopra di lui. Medusa alzò la lamiera ancora di qualche centimetro. Addio, Bobby.

Tutto ad un tratto si rese conto che il suo cuore aveva rallentato, e che i muscoli del suo corpo non erano più in tensione. Si sentiva stanca adesso, certo, e anche un po’ ammaccata, ma sapeva che quelle sensazioni erano dovute più che altro all’adrenalina che si ritirava dal suo sistema nervoso. Il suo corpo sapeva che il combattimento era finito. Fissò di nuovo Bobby, vide uno spesso rivolo di sangue colargli dai capelli sulla ghiaia, e sentì, non immaginò di sentire, proprio sentì, il rumore che avrebbe fatto quel pezzo di lamiera quando sarebbe caduto sul corpo del ragazzo e gli avrebbe sfondato il cranio.

Sopraffatta dall’orrore, Medusa girò di scatto la testa di lato e fece posare dolcemente la lastra a terra, vicino al muro del cortile. “Vai a casa, Bobby.” disse al ragazzo disteso di fronte a lei, poi gli voltò le spalle e si mise a correre verso il muro laterale dei laboratori. Mentre si allontanava, Medusa sentì Bobby mormorarle qualcosa, ma lei non si fermò a dargli retta. Aveva altre cose a cui pensare. Sembrava che nessuno avesse fatto caso al combattimento tra lei e Iceman, ma presto o tardi uno degli X Men si sarebbe accorto del corpo che giaceva inerte in quell’angolo remoto di cortile, e si sarebbe messo a darle la caccia. Doveva trovare il ragazzo più in fretta che poteva.

Medusa girò l’angolo dell’edificio, e tirò un sospiro di sollievo quando l’ombra l’avvolse di nuovo, offrendole rifugio. Vide, a circa venti metri di distanza, una luce proveniente dall’interno della costruzione trafiggere l’oscurità della notte, e vi si diresse di corsa. Fu felice di constatare che aveva visto giusto: la luce proveniva da una porta spalancata, probabilmente utilizzata da Archlight e Kid Omega per penetrare nel palazzo dell’ex prigione. Sulla soglia giaceva il cadavere di un militare, il corpo e i vestiti trafitti da migliaia e migliaia di piccoli buchi. Assomigliava ad un grosso puntaspilli. Kid Omega è di certo passato di qui, si disse Medusa.

Appena varcata la porta, però, sentì una fitta tremenda all’addome, talmente forte che dovette afferrare lo stipite d’acciaio dell’entrata per non crollare a terra. Medusa si mise una mano sul ventre, spaventata, e improvvisamente tutto davanti ai suoi occhi divenne nero. Le ci volle tutta la sua forza di volontà per non svenire. Poi, improvvisamente come era apparso, il dolore scemò e lei potè tirarsi su, perplessa e impaurita. Con la punta delle dita si massaggiò delicatamente il grembo, cercando di capire cosa era successo, ma le sembrò che fosse tutto come prima. Fece cautamente un passo in avanti, aspettandosi che il dolore l’assalisse di nuovo, ma non accadde niente di simile e Medusa si incamminò lungo il corridoio illuminato.

Si guardò intorno: i muri di cemento armato erano grigi e spogli, e le lampade al neon che pendevano dai soffitti assomigliavano molto a quelle che Medusa aveva visto nella sala d’attesa del consultorio. Probabilmente si trovava in una zona secondaria dei laboratori, l’area dei magazzini o qualcosa di simile. Ricordò Callisto riferire a Magneto che il ragazzo si trovava nell’ala sud-est del palazzo, ma in questo momento lei non aveva la più pallida idea di quale fosse l’orientamento dell’edificio, figurarsi se sapeva dov’era l’ala sudorientale. Quando arrivò ad una biforcazione del corridoio, Medusa decise con un’alzata di spalle di inoltrarsi nella parte di sinistra, che le sembrava portasse verso il cuore dell’edificio. La gente nasconde sempre le cose più importanti nei luoghi più difficilmente raggiungibili dall’esterno.

Bingo, si disse quando il cemento armato lasciò spazio ad un delicato stucco color panna. Anche le condizioni del pavimento e dei lampadari le sembrarono migliorare man mano che camminava, e Medusa cominciò ad aprire le porte bianche che si affacciavano sul corridoio, sperando di trovare la stanza in cui tenevano il ragazzino. Trovò solo laboratori e uffici, e stava cominciando a innervosirsi seriamente quando da dietro l’angolo arrivò un grido.

“No! No! Vi prego, non lo fate!”

Medusa corse in direzione di quella voce e vide Archlight, che insieme ad un’altra mutante della Confraternita, la ragazza asiatica con le extension viola nei capelli che si chiamava Psylocke, stava trascinando un uomo alto e con i capelli bianchi lungo il corridoio. Appena videro arrivare Medusa si fermarono di colpo, e da dietro il gruppetto sbucò Kid Omega, un sorriso che gli illuminava il volto da orecchio a orecchio.

“Ehi, indovina?” disse il ragazzo indicando l’uomo che tremava stretto tra Archlight e Psylocke. “Questo stronzo è il fenomeno che ha inventato la Cura.”

Medusa studiò con attenzione l’uomo in completo blu scuro che stava in piedi davanti a lei. I suoi vestiti, che pure avevano l’aria di essere molto costosi, ora gli pendevano addosso stazzonati e sgualciti, e i suoi capelli bianchi erano incollati alla testa dal sudore che gli colava copioso sulla fronte. I suoi occhi castani, ingigantiti dalla paura e dall’ansia, si muovevano come impazziti, cercando di leggere il volto della ragazza di fronte a lui.

Medusa sorrise. “Ma non mi dire.” sussurrò, e mise la mano destra sugli occhi dell’uomo.

Migliaia e migliaia di immagini appartenenti ad una vita non sua cominciarono a vorticarle nel cervello. Era come cercare di distinguere qualcosa guardando fuori dal finestrino di un’auto che corre lungo l’autostrada a trecento chilometri all’ora. Medusa vide un’enorme grattacielo di vetro formarsi davanti ai suoi occhi, il sole che si rifletteva nelle sue finestre lucide, poi l’immagine cambiò, e apparve un bambino biondo che singhiozzava davanti ad un grosso specchio, e in un istante il bambino divenne un ragazzo in piedi nel centro di quello che sembrava uno studio medico, e santo dio, erano ali quelle che spuntavano dalla sua schiena? Medusa cercò di trovare l’informazione che le serviva in mezzo a quella sequela di forme e di colori, ed infine nella sua mente si formò l’immagine del corridoio in cui si trovavano ora. Galleggiò a mezz’aria sopra le piastrelle verde pisello del pavimento come se fosse priva di corpo, poi volò in avanti, veloce, sempre più veloce, finché il corridoio non si biforcò. Prese a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra, le pareti color panna che le sfrecciavano accanto come confuse macchie di colore, e si trovò di fronte a una porta bianca.

Jimmy.

Medusa tolse la mano dagli occhi dell’uomo e fece un passo indietro. “Jimmy.” mormorò senza nemmeno rendersene conto, mentre gli ultime immagini provenienti da quella mente estranea le si riverberarono nel cervello prima di scomparire del tutto. Quando sentì la voce di Medusa pronunciare quel nome, l’uomo con il completo blu spalancò gli occhi e cercò di lanciarsi verso di lei, ma Psylocke e Archlight glielo impedirono. Kid Omega iniziò a ridacchiare: con tutta evidenza non aveva capito un accidente di quello che era appena successo, ma gioiva nel vedere che stava procurando così tanta angoscia al loro prigioniero.

“Lascialo stare!” gridò l’uomo rivolto a Medusa. “E’ solo un ragazzino!”

Medusa dovette reprimere la voglia di mollargli un ceffone. “Come se te ne fregasse qualcosa.” sibilò guardandolo dritto negli occhi, e l’uomo tacque di colpo. Il suo corpo si rilassò completamente, e dal suo volto teso scomparve ogni espressione. Archlight e Psylocke le rivolsero uno sguardo pieno di stupore, ma Medusa non riuscì proprio a sentirsi lusingata. Le prime fitte della sua emicrania da gravidanza stavano cominciando ad assalirla.

“Hai ancora bisogno di lui?” chiese Kid Omega, ancora ghignando. “E’ in ritardo per la sua lezione di volo.”

Medusa chiuse gli occhi e alzò la mano destra per massaggiarsi la tempia. “No, potete portarlo via.” rispose stancamente. “Non ho utilizzato molta energia, perciò fate attenzione. Si risveglierà presto.”

Sperò che i tre se ne andassero in fretta, così lei avrebbe potuto trovare il ragazzino (Jimmy, così si chiamava), e farla finita con tutto quanto. Kid Omega, però, non si mosse. “Stai bene?” le domandò.

Medusa si sentì improvvisamente esasperata. “Sì, sì, maledizione!” gli gridò contro. “Te ne vuoi andare?”

Kid Omega la guardò offeso, poi si voltò verso le due ragazze, che avevano osservato l’intera scena senza dire una parola, e mormorò loro qualcosa. Il gruppetto si mise in marcia verso la direzione dalla quale proveniva Medusa, l’uomo col vestito blu che trascinava fiaccamente i piedi e guardava per terra con la testa che gli ciondolava sulle spalle, e Kid Omega lanciò un ultimo sguardo risentito verso Medusa mentre le passava a fianco.

Lei si mise a correre ancora prima che i tre giovani e il loro prigioniero voltassero l’angolo, decisa a trovare Jimmy il prima possibile. Sapeva che con tutta probabilità anche gli X Men presto avrebbero avuto la stessa idea, sempre che uno dei loro non fosse già dentro l’edificio.

E cosa farai quando avrai trovato il ragazzo, eh? Quello che stavi per fare a Bobby? le domandò una voce maligna invadendo i suoi pensieri. Medusa continuò a correre, cercando di ignorare quella sensazione di orrore e paura che le stava opprimendo il petto, ma non ci riuscì. Aveva quasi ammazzato Bobby, uno di quelli che neppure troppo tempo prima era stato uno dei suoi migliori amici, anzi, uno degli unici amici che aveva avuto in tutta la sua vita.

Voltò bruscamente a sinistra, seguendo il corridoio, e davanti agli occhi le balzò l’immagine di Bobby in piedi nell’atrio della scuola, il giorno in cui lei era arrivata all’Istituto da Baltimora. Le era andato incontro e le aveva stretto la mano con un sorriso. “Benvenuta nell’Istituto Xavier.” le aveva detto, e poi l’aveva accompagnata a visitare la villa. Quando aveva visto la sua espressione disorientata all’ennesimo corridoio che si divideva, Bobby aveva riso e le aveva messo una mano su una spalla. “Non preoccuparti, Meredith, tutti noi ci siamo persi all’inizio. Ma poi ti ci abitui.” le aveva detto con un sorriso rassicurante. “Se dovessi avere bisogno di qualcosa, puoi sempre chiedere.”

Medusa continuò a correre lungo il corridoio color panna dei laboratori Worhington, il peso sul suo cuore sempre più intollerabile; era talmente opprimente, ormai, che le sembrava di non riuscire a respirare. Aveva quasi ammazzato Bobby schiacciandogli la testa sotto una lamiera di acciaio di due quintali. Bobby, che era stato il primo ad alzarsi per abbracciarla quando aveva saputo della morte di Evie.
Alex Hagen aveva ragione su di te. Tu sei un mostro, le disse di nuovo la voce mentre il corridoio svoltava bruscamente a destra, e Medusa vi si gettò senza pensarci due volte. Sapeva di essere vicina alla sua meta ora. Un essere orribile come te non se la merita una cosa bella e pura come un bambino.

Girò di nuovo a sinistra quando il corridoio si biforcò, e appena sorpassò l’angolo la vide. Sul muro in fondo alla stanza, a circa venti passi da lei, c’era la porta bianca che aveva scorto nella mente di Worthington. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata, ancora più violento e rapido che durante il suo combattimento con Iceman. Medusa si fermò di colpo, ansimante e sudata per la corsa, e rimase immobile a fissare la porta. Avrebbe dovuto gettarsi nel fuoco ancora quest’ultima volta, sopportare il calore delle fiamme e il bruciore delle ustioni e arrivare fino all’altra parte, dove avrebbe potuto riabbracciare John.
Si infilò la mano in tasca e strinse il rosario con tutta la forza che aveva. Il dolore la risvegliò, delineandole di nuovo lucidamente la sua missione. Doveva eliminare il ragazzino, se voleva che tutto quel delirio della Cura avesse fine, e che gli umani non si sognassero mai più di creare qualcosa in grado di cancellare i mutanti dalla faccia della terra. La sua mano rilasciò lentamente il rosario e Medusa trasse un lungo respiro senza staccare mai gli occhi dalla porta bianca davanti a lei. Jimmy doveva morire, se voleva che il giorno in cui finalmente i mutanti avrebbero potuto smettere di lottare per sopravvivere fosse un po’ più vicino. La voce che le aveva parlato poco prima tentò di controbattere, ma Medusa non glielo permise. Zitta! Zitta, stai zitta! le ingiunse, e quella si ritirò senza più pronunciare una sillaba.

Cominciò ad avanzare verso la porta provando dentro di sé una nuova sensazione. Si sentiva calma e risoluta ora, come se quello che stava per fare fosse stato già deciso millenni prima della sua nascita da qualcuno più in alto di lei e facesse parte di una sorta di piano cosmico che trascendeva la sua comprensione, ma in cui Medusa aveva cieca fiducia.

Raggiunse la porta bianca e alzò la mano destra per aprirla. Appena le sue dita toccarono il metallo della maniglia, però, una voce che le suonava famigliare, anche se lei non la riconobbe immediatamente, le parlò da dentro la sua anima. Questa volta camminare nel fuoco ti farà molto male, Meredith. Molto, molto più di quanto ti abbia mai fatto finora. Questa volta la cicatrice ti rimarrà addosso, e sfigurerà il tuo volto per sempre.

Medusa spalancò gli occhi. Sei davvero tu, papà? domandò, ma non ebbe risposta. Rimase in attesa ancora qualche secondo, aspettando che quella voce le parlasse ancora, ma ci fu solo silenzio. Togliendosi di nuovo una ciocca o due di capelli ricci dalla fronte, Medusa abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.

I muri, il soffitto, persino il pavimento erano coperti di lucidi pannelli di plastica bianca. Solo una piccola e stretta finestra, simile alla feritoia di un castello medioevale, si apriva nella parete di destra; per il resto, erano solo le lampade al neon che pendevano dal soffitto a dare luce alla stanza. Davanti a lei c’era un letto con una vivace coperta gialla e verde, e, a fianco del letto, rispettivamente a sinistra e a destra, c’erano una cassettiera colorata e un comodino con sopra una lampada a forma di cane. Vari giocattoli erano sparsi sul pavimento immacolato, e in un angolo c’era un piccolo televisore e l’ultimo modello della Playstation. Guardandosi in giro, il primo pensiero di Medusa fu che quella stanza le ricordava la gabbietta di un criceto.
“Non fargli del male.” le aveva gridato quel vecchio ipocrita bastardo di Worthington. Una cavia da laboratorio, ecco che cos’era questo Jimmy. Una cavia da laboratorio che gioca con i videogame, d’accordo, ma pur sempre un animaletto su cui fare degli esperimenti. Un sorriso sarcastico piegò le labbra di Medusa. Lo credo bene, che Worthington era così disperato all’idea di perdere il ragazzo, si disse. Chissà quanti soldi ci avrà fatto, vendendo al governo quella dannatissima Cura.

Improvvisamente qualcosa che si muoveva accanto al comodino catturò la sua attenzione. All’inizio non l’aveva notato, perché indossava una specie di tuta dello stesso colore del muro e del pavimento, ma c’era un ragazzino che si acquattava contro la parete e tremava come un ossesso. Medusa lo guardò mentre si metteva le braccia sopra la testa in cerca di protezione, e la sua memoria le proiettò davanti agli occhi l’immagine di un soldato che puntava il suo fucile in faccia ad un bambino, nei corridoi dell’Istituto Xavier. Scacciò quel pensiero dalla sua testa e fece un passo avanti.

“Jimmy.” chiamò.

Il ragazzino alzò la testa dalle ginocchia e la guardò, evidentemente sorpreso che quella donna nemica conoscesse il suo nome. Non sembrava avere più di dodici o tredici anni, e Medusa sospirò. Aveva sperato che fosse più grande. Gli occhi verdi di Jimmy erano spalancati per il terrore, e le labbra gli tremavano come se stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro. Notò che lo avevano rasato a zero, e Medusa si rammaricò di non aver schiaffeggiato Worthington. Era davvero il minimo che meritava.

Decisa a non sprecare altro tempo, avanzò veloce verso il ragazzo e Jimmy tornò a coprirsi il viso con le braccia, in cerca di un riparo che comunque non gli sarebbe servito. Medusa lo afferrò per la maglietta e lo scosse, obbligandolo a guardarla, e Jimmy alzò gli occhi su di lei, troppo terrorizzato per tentare di scappare o anche solo per implorarla di non ucciderlo. Rimase muto, i suoi enormi occhi verdi fissati in quelli grigi di Medusa, e una lacrima gli rigò il volto.

Medusa strinse più forte i pugni nella sua maglietta. “Vattene.” gli disse. Un’espressione di vago stupore si mischiò alla paura nel volto di Jimmy, e le sue labbra si dischiusero, forse cercando di dire qualcosa, ma Medusa non gliene lasciò il tempo. Lo scosse di nuovo. “Vattene.” ripeté, la sua voce piena di collera e di astio. “Sparisci per sempre. Dico sul serio. Emigra in Antartide, arruolati nella Legione Straniera, ritirati in un monastero sull’Himalaya, suicidati, se devi, ma non farti mai più vedere. Giuro se dio, Jimmy,” cercò gli occhi del ragazzo. “se ti incontro un'altra volta, o se anche solo sento qualcuno sussurrare il tuo nome, ti vengo a cercare e ti uccido. Sono stata chiara?”

“Sì.” mormorò il ragazzino in un soffio. Sembrava stesse per svenire da un momento all’altro.

Medusa si alzò lentamente in piedi, i suoi occhi grigi sempre fissi sul ragazzino davanti a lei. Jimmy, ancora rintanato nel suo cantuccio, le restituì lo sguardo in silenzio, il viso dello stesso colore dei suoi vestiti. Non c’era il minimo dubbio che avesse compreso la serietà della promessa fattagli da Medusa.

Lei si voltò lentamente e si incamminò verso la porta, la mano destra infilata nella tasca dei jeans. “Ti auguro ogni bene, Jimmy.” disse mentre attraversava la soglia.

Non si diede nemmeno la pena di richiudere la porta una volta tornata in corridoio, occupata com’era a tenere a bada quella sensazione di panico mista a rabbia verso sé stessa che l’aveva assalita non appena aveva lasciato Jimmy a tremare nel suo cantuccio. Come avrebbe potuto spiegarsi davanti a Magneto, e soprattutto davanti a John? Come avrebbe potuto guardare in faccia i suoi compagni della Confraternita, e dir loro che i loro commilitoni vittime della Cura e assassinati dai loro nemici erano caduti invano, e solo perché lei era troppo vigliacca per affrontare il fuoco e portare a termine la missione per la quale erano venuti fino ad Alcatraz?

Che fine hanno fatto tutti i tuoi bei discorsi sull’obbligo alla sopravvivenza e sulla necessità di combattere per un domani migliore? si rimproverò mentre, senza nemmeno pensare a dove volesse davvero dirigersi, si incamminava nel lungo corridoio color panna che l’aveva portata fino alla stanza di Jimmy. Una fitta di angoscia e di paura le attraversò lo stomaco, e Medusa si appoggiò con una mano alla parete, sentendosi improvvisamente troppo spossata per procedere ulteriormente. Chiuse gli occhi per qualche istante e la mano che non era impegnata a sorreggersi al muro si alzò fino a sfiorare le sue palpebre chiuse, scendendo poi sulle guance e sul collo. Una polverina sottile le coprì le dita, e Medusa aprì di scatto gli occhi per esaminarla con cautela, strofinando insieme i polpastrelli di indice e pollice.
Si rese conto che doveva essere la polvere che le era rimasta addosso quando si era rotolata a terra, per sfuggire al getto di ghiaccio che Bobby le aveva diretto contro. Questo è sopravvivere. Quella frase le balzò nel cervello senza alcun preavviso, e Medusa smise di occuparsi della polvere per seguire il filo dei suoi pensieri, curiosa ed insieme spaventata per come la cosa avrebbe potuto evolversi. Rifiutarsi di entrare nel fuoco per non farsi consumare il corpo dalle fiamme è un atto di sopravvivenza piuttosto deciso.

Quella frase sembrò infondere nuova energia nel suo corpo esausto. Medusa alzò la testa, raddrizzò le spalle e ricominciò a camminare lungo il corridoio, decisa a lasciare prima che poteva quell’edificio. Worthington è morto, si disse Medusa mentre svoltava nella sezione di corridoio in cui aveva incontrato Kid Omega e le ragazze. E gli X Men verranno a prendersi il ragazzo. Lo porteranno al sicuro nell’Istituto e non permetteranno che il governo lo usi ancora per la sua guerra contro i mutanti. Medusa sorrise di nuovo pensando a quanti mutanti terrorizzati e abbandonati la scuola di Salem Center aveva offerto rifugio. Concesse all’immagine di Meredith St.Clair di apparire un’ultima volta nella sua mente così com’era il giorno in cui era scesa dall’auto che l’aveva portata da Baltimora all’Istituto, la vide nei vestiti che i Jackson le avevano comprato al discount per pochi dollari, mentre stringeva la maniglia della sua valigia e guardava nervosamente le pareti esterne della villa, coperte da uno strato spesso di edera verde scuro. Medusa si meravigliò per tutta la strada che aveva percorso da quel giorno: chi avrebbe potuto dire, a quel tempo, che le cose sarebbero andate così? Eppure eccomi qui, si disse. E forse, magari in un giorno non troppo lontano, potrò tornare ad essere Meredith.

I muri color panna del corridoio scomparvero per lasciare spazio al nudo cemento e Medusa esultò, sapendo di trovarsi vicina ormai alla porta che aveva utilizzato per entrare nell’edificio, quando improvvisamente quella che sembrava essere una scossa di terremoto percorse il palazzo, facendo tremare i muri e il pavimento. Una sottile polvere di cemento e scaglie di intonaco si staccarono dal soffitto e caddero a terra a pochi passi da dove si trovava Medusa, e lei alzò gli occhi verso l’alto, preoccupata. Certo, siamo in una zona sismica, ragionò. Ma ehi, un’invasione di mutanti e un terremoto nella stessa sera? Qui siamo ben oltre il calcolo delle probabilità. Di nuovo la costruzione dei laboratori tremò, e da fuori provenne, chiaro e distinto, il rumore di un’esplosione, seguito da quelle che avrebbero potuto essere grida, oppure una fortissima raffica di vento.

Si mise a correre più che poteva, cercando di guadagnare l’uscita, il cuore che le batteva impazzito nel petto e lo stomaco ormai ridotto ad un nodo inestricabile. Raggiunse la porta e praticamente saltò via il cadavere del soldato che ingombrava la soglia, ritrovandosi nel tratto tranquillo e buio di terreno che costeggiava la parte laterale dei laboratori. Sentì dei rumori provenire dal cortile principale, urla ed deflagrazioni unite al cigolio sinistro dell’acciaio che si piegava e si spezzava, e Medusa si diresse di corsa da quella parte. Il suo primo pensiero fu che Magneto aveva perso la testa e stava distruggendo ogni cosa.

Mentre correva, si rese conto però che c’era dell’altro, oltre le urla e le esplosioni e il gemito del metallo. Era qualcosa che assomigliava al fruscio della sabbia trasportata qua e là dal vento; Medusa non l’aveva mai sentito prima, ma lo collegò al rumore di un tornado, o di un uragano, ma subito cancellò quell’idea, dicendosi che non si trovavano né nella zona né nella stagione adatta per quei fenomeni.

La prima e ultima cosa che riuscì a vedere appena arrivò nel cortile, attraverso l’inferno di polvere e terra che mulinavano trasportati dal vento, fu il profilo di Jean Grey che si librava a mezz’aria nel punto in cui Medusa aveva visto per l’ultima volta Pyro e Magneto. L’angoscia e il terrore la stritolarono, e senza nemmeno rendersene conto scattò in avanti, intenzionata a raggiungere il ponte. Riuscì a fare un passo soltanto, poi l’uragano la investì e la scagliò lontano. Medusa chiuse gli occhi quando sentì il suo corpo librarsi in aria, e cercò di portarsi una mano al volto per impedire al pulviscolo di entrarle nel naso e nella bocca, ma fu tutto inutile. La violenza del vento le impediva di respirare, e Medusa cominciò a farsi prendere dal panico, temendo di morire soffocata, ma poi il suo volo finì (una parte del suo cervello le disse che dovevano essere passati solo pochi secondi, ma a Meredith sembrò che quel supplizio fosse durato una vita) quando sbattè contro qualcosa e il suo corpo rotolò a terra.

Il dolore dell’impatto fu talmente forte che Medusa non riuscì nemmeno a gridare. Una sensazione di bruciore si diffuse nel suo addome, così atrocemente dolorosa che Medusa pensò di essere caduta su uno dei falò che punteggiavano il campo di battaglia. Tutti i nervi del suo corpo si contrassero mandando un unico messaggio al cervello che, forse sovraccarico per tutti i segnali che gli arrivavano nello stesso istante, non riuscì a concepire una reazione diversa dal raggomitolarsi in posizione fetale. Quando Medusa ci provò, tuttavia, il dolore all’addome fu talmente forte che rinunciò immediatamente, e rimase sdraiata su un fianco, così come era caduta. Aprì lentamente gli occhi e la prima cosa che vide fu il terreno, marrone e polveroso, e non la ghiaia che ricopriva il cortile principale dei laboratori. Doveva essere stata scagliata lontano da quella forza misteriosa che era esplosa dal corpo di Jean Grey, e probabilmente ora si trovava da qualche parte vicino alle mura esterne, dove la ghiaia non arrivava. Guardò più in basso, verso il punto da cui proveniva il dolore, e vide qualcosa di nero e appuntito spuntare dal suo corpo. Incapace di capire cosa fosse e cosa ci facesse in lei, accarezzò quella cosa con la punta delle dita, e solo quando sentì il freddo del metallo lasciare posto al tepore del suo corpo capì che una scheggia d’acciaio, forse proveniente da una delle torrette abbattute che giacevano qua e là nel cortile, le si era conficcata appena sotto lo sterno. Qualcosa di caldo e viscoso le imbrattava le dita, e Medusa si domandò da dove provenisse tutta quell’acqua prima di rendersi conto che la maglietta e la felpa che indossava erano intrisi di sangue, e dai suoi vestiti ormai zuppi grosse gocce di liquido denso colavano sul terreno.

Oh mio dio, pensò Medusa portandosi una mano alla ferita, nel vano tentativo di fermare l’emorragia. Mi sto dissanguando.

Spaventata, alzò la testa alla frenetica ricerca di qualcuno che la potesse aiutare, ma tutto ciò che riuscì a scorgere nella penombra fu l’immagine distante di Jean Grey, le falde del suo lungo cappotto porpora che le svolazzavano attorno come la coda di un uccello. Il vulcano è esploso, pensò Medusa, ricordando una conversazione che lei e la dottoressa Grey avevano avuto tempo prima, quando ancora frequentava l’Istituto e tutto era l’opposto di come era ora. L’eruzione non può più essere fermata.

Una fitta all’addome le fece digrignare i denti per il dolore e Medusa guardò di nuovo la scheggia di metallo che le perforava lo stomaco, ma non era la ferita il punto dal quale si irradiavano le fitte. Era più in basso, e lei si posò una mano sul grembo, spaventata. Un altro crampo le tolse il respiro, e poi un altro, e Medusa sentì qualcosa sussultare e contorcersi dentro di lei.

No, no, ti prego, no! pensò in preda al panico. Ti prego, fa quello che vuoi a me, ma non fare del male al mio bambino.

Lo sentì staccarsi da lei e scivolare via. Cercò di opporsi, di trattenerlo in qualche modo, ma fu tutto inutile. Mentre una lacrima le solcava una guancia, un’ultima contrazione spinse via dal suo grembo quello che restava del suo piccolo, e poi tutto dentro di lei fu vuoto, buio e freddo. Medusa chiuse gli occhi e la sua mano strinse convulsamente il rosario che teneva nella tasca dei jeans. Ti prego, ti prego, ti prego aiutami! implorò, senza sapere a chi si stesse rivolgendo con quella preghiera, se fosse una qualche divinità, o sua madre, o John, o chiunque altro volesse accogliere quella disperata richiesta d’aiuto.
Non sapeva di avere ancora la forza di piangere finché altre lacrime non si unirono a quella che aveva solcato il suo volto pochi secondi prima, e la sua mano destra emerse dalla tasca con il rosario di Danielle avvolto attorno al palmo. Medusa la fece correre delicatamente sul ventre, cercando il suo bambino, ma il gelo che vi sentì le confermò che lui non era più lì con lei.

Sentì la testa vorticarle terribilmente e il sapore del sangue risalirle fino in bocca. Ogni residuo di forza l’abbandonò e Medusa chiuse di nuovo gli occhi, troppo stanca e troppo debole per lottare ancora contro quella sensazione di freddo che le stringeva il corpo. Non sentiva più dolore, ma si disse che persino la sofferenza atroce che aveva provato era preferibile al ghiaccio che ora stava ricoprendo il suo corpo centimetro dopo centimetro, irradiandosi dal suo grembo vuoto. La sua mano strinse di nuovo il rosario, o almeno ci provò, e mentre un’altra lacrima sfuggiva alle sue palpebre ed andava a mischiarsi al sangue sul terreno Medusa pensò che non aveva mai sopportato il freddo, mai. Però sono stata fortunata ad aver incontrato nella vita qualcuno che mi ha dato la sua felpa per scaldarmi, si disse con un sorriso. Una sensazione di gratitudine e di gioia l’attraversò, difendendola per qualche secondo dal gelo che l’attanagliava.

La sua testa ricadde lentamente di lato e lei sospirò. Qualcosa le costringeva la gabbia toracica, impedendole di espandersi in maniera efficiente, e respirare si stava facendo più difficile. Merda, morire fa proprio schifo, pensò, e con sorpresa si rese conto che non provava rabbia a quel pensiero, solo rimpianto. Ho diciassette anni. Diciassette. Ci sono ancora così tante cose che avrei dovuto fare. Così tante cose che avrei potuto dire. Di nuovo si stupì di non essere infuriata all’idea di morire a diciassette anni, ma poi pensò che forse era perché l’ira è un sentimento che richiede una certa quantità di energie, e lei non era sicura di averne ancora. Anche le lacrime che fino a poco prima le solcavano il volto si erano esaurite, o forse il freddo che la stringeva nella sua morsa le aveva congelate dietro le sue palpebre.

On the third day he took me to the river
He showed me the roses and we kissed
And the last thing I heard was a muttered word
As he stood smiling above me with a rock in his fist…

“Papà, papà, corri!” gridò Evie. “Meredith piange!” Medusa aprì di scatto gli occhi, sobbalzando alla voce di sua sorella. Migliaia di luci le danzarono nelle pupille come se stesse guardando attraverso un caleidoscopio, e lei richiuse le palpebre. Evie era in piedi di fronte a lei e la fissava con uno sguardo preoccupato, i suoi grandi occhi verdi pieni di lacrime e il labbro inferiore spinto in avanti, come faceva sempre quando stava per mettersi a piangere. Aveva otto anni, ma quell’espressione la faceva sembrare ancora più piccola e fragile.

Meredith continuò a singhiozzare, senza nemmeno curarsi di asciugare quel fiume di lacrime che le inondava le guancie e le bagnava la maglietta. Le sue mani strinsero convulsamente il copriletto dei Looney Tunes, mentre dallo stereo del soggiorno arrivava fino alla cameretta che divideva con Evie l’ultima strofa della canzone.

On the last day I took her where the wild roses grow
And she lay on the bank, the wind light as a thief
And I kissed her goodbye, said, "All beauty must die"
And lent down and planted a rose between her teeth.

Suo padre apparve sulla soglia, il volto teso in un’espressione preoccupata. “Meredith...” disse, e poi fece una cosa che lei non si sarebbe aspettata nemmeno in un milione di anni. Attraversò velocemente la stanza, scavalcando le Barbie che giacevano qui e là sul tappeto, si sedette accanto a lei sul letto e la prese in braccio. “Shhh, tesoro mio, shhh...” le sussurrò mentre la cullava, accarezzandole i capelli con una mano e serrandola contro il suo petto con l’altro braccio. “Non è niente... Vuoi dire a papà perché piangi?”

Meredith singhiozzò più forte, e premette la fronte contro la spalla di suo padre. Era arrivata a Phoenix da due mesi, e aveva cercato in tutti i modi di farsi mandare via. Aveva rotto tutte le bamboline di ceramica che sua madre teneva sul caminetto con un’onda di energia psichica. Aveva preso a calci la siepe di rododendro che cresceva accanto alla porta finché il tronco non si era spezzato. Aveva spinto Evie in una pozzanghera. Due volte. Ma i Barrymore la sgridavano, la mettevano in castigo e si ostinavano a tenerla con loro. Lei li odiava.

“E’ stata la canzone, papà.” disse Evie, la sua voce rotta dal pianto. Meredith sentì la mano di sua sorella accarezzarle delicatamente il braccio. “Non piangere, non piangere Meredith...” la implorò.

“Ti avevo detto di non mettere quell’album quando ci sono le bambine, John.” Meredith non la poteva vedere, ma immaginò che sua madre fosse da qualche parte nella stanza, forse vicino alla porta.

Suo padre la strinse più forte contro di sé. “Tesoro mio, non devi piangere.” le sussurrò nell’orecchio mentre le sue mani le accarezzavano dolcemente la testa e la schiena, cercando di calmare i singhiozzi che ancora la scuotevano. “E’ solo una canzone, non è una cosa reale. Non avevo idea che ti avrebbe sconvolta tanto. Non la metteremo mai più, d’accordo piccola?”

Meredith scosse la testa con forza. “No, non è... Io non...” mormorò tra i singhiozzi. Non voleva che rinunciasse a qualcosa per colpa sua, ma non sapeva come dirglielo. Sollevò le braccia, che fino a quel momento erano rimaste abbandonate lungo i suoi fianchi con i pugni serrati, e le avvolse attorno al collo di suo padre. Lui le diede un bacio sulla tempia.

“Va tutto bene, amore mio. Papà è qui con te, e anche la mamma, e la tua sorellina...” disse spostandole dagli occhi una ciocca di capelli zuppa di lacrime. Meredith strinse più forte le braccia attorno al suo collo, pregando che lui non la lasciasse andare mai. “Papà...” sussurrò con gli occhi ancora chiusi. Era la prima volta che pronunciava quella parola. Suo padre le baciò la fronte, poi la punta del naso e le palpebre, e Meredith aprì piano gli occhi. Il viso di suo padre era a pochi centimetri dal suo, e la stava guardando con un sorriso sulle labbra. Le prese il volto tra le mani e spinse indietro i capelli che le cadevano sulla faccia, poi la attirò a sé e le baciò nuovamente la fronte. “Sono qui con te, piccolina. Sarò sempre qui con te.”

“Papà.” chiamò piano Medusa, sdraiata sul terreno freddo e duro del cortile dei laboratori Worthington, sull’isola di Alcatraz. Aveva talmente freddo ora che non riusciva a sentire più il suo corpo; le sue braccia, le sue gambe, erano solo dei monconi intorpiditi, e per un istante Medusa si domandò cos’erano quelle cose molli e pesanti attaccate a lei. Aprì le palpebre, ma questa volta nessuna luce ballò davanti ai suoi occhi: c’era solo un velo grigio e impalpabile che copriva ogni cosa, impedendole di vedere. No, non così, si disse. Voglio morire guardando il cielo.

Medusa spostò la mano che ancora era posata sul suo grembo a terra, o almeno dove presumeva ci fosse la terra, e spinse, gettando contemporaneamente indietro la testa per buttare tutto il suo peso dietro di lei. Atterrò sulla schiena e aspettò di sentire di nuovo il dolore irradiarsi dalla ferita come una lingua di fuoco, ma invece non successe nulla. Le dita della mano sinistra, che non erano legate dalla catena del rosario, si piegarono e artigliarono la terra, cercando un appiglio che le consentisse di sollevare il suo peso e appoggiarsi al grosso frammento di muro che giaceva a terra pochi centimetri dietro di lei. Si ricordò della buca che lei e John avevano scavato per Evie ai piedi della rosa, nel cortile dietro le cucine giù alla scuola, e sorrise pensando che nessun altro al mondo conosceva quel segreto, solo loro tre: lei, sua sorella e John.

John. chiamò Medusa in silenzio. E’ maggio ormai. Chissà come sono belle le rose bianche, là nel nostro posto segreto. Una lacrima solitaria sfuggì alla prigionia del ghiaccio e percorse la sua guancia, andando a morire sulle sue labbra ancora piegate in un sorriso. Sarebbe stato tanto bello vederle con te un’ultima volta.

La sua schiena colpì il cemento grezzo del muro più duramente di quanto si era aspettata, ma stranamente non sentì alcun dolore, solo la sensazione di avere qualcosa di duro e scomodo che le urtava le vertebre. Medusa non ci fece caso. Riscaldata dalla mano di John che stringeva la sua, mentre osservava insieme a lui il cespuglio di rose bianche ai cui piedi giaceva Evie, Medusa aprì gli occhi. Il velo che ricopriva le sue pupille era diventato più buio e più fitto, immergendo tutto quel che restava del suo mondo nelle tenebre, e lei utilizzò gli ultimi grammi di forza e di coraggio che le restavano per strappare quell’oscurità dai suoi occhi e gettarla lontana, dove non avrebbe più potuto tenerla prigioniera.

Ed eccole, finalmente. Le stelle. Medusa dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di riuscire a metterle a fuoco e scorgerle nella seta blu scuro del cielo, lucenti e piene di grazia come migliaia di piccole farfalle di fiamma. Sembravano osservare dall’alto la ragazza insanguinata che giaceva in un angolo remoto del campo di battaglia, e quando le ammiccarono tremolanti Medusa pensò che forse era il loro modo di dirle che partecipavano al suo dolore, e che stessero cercando di consolarla. Cercò il disco dorato della luna piena, e quando lo trovò si strinse forte al petto il rosario di Danielle. Non voleva rischiare di perderlo quando il suo corpo si sarebbe rilassato, e le sue dita avrebbero perso presa.

“Papà.” chiamò rivolta verso il cielo, così piano che nessuno, anche se fosse stato inginocchiato accanto a lei, avrebbe potuto sentire. “Tienimi stretta adesso.”

Stremata da quello sforzo, Medusa richiuse gli occhi. Un involontario sospiro le fuggì dalle labbra mentre la sua testa si reclinava lentamente di lato, poggiando la guancia contro il cemento ruvido del frammento di muro.

La guerra era finita.

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Ok. Ok. Calma, adesso.

Prima di sommergere la mia casella di posta con email di insulti, prima di rendermi cieca e storpia con devastanti maledizioni vudoo, prima di assoldare una banda di killer ucraini per farmi gambizzare, lasciate che vi spieghi le mie ragioni.

Non è stato facile fare questo a Meredith. L'ho creata io, le ho dedicato due mesi della mia vita, e le voglio bene.
Vi giuro che mentre scrivevo l'ultima parte del capitolo mi veniva da piangere. Ma io non credo nei lieto fine, e a volte la vita può essere davvero davvero bastarda, e fregarsene se hai diciassette anni, tutta la vita per rimediare ai tuoi errori e un bimbo che nascerà fra sette mesi. Ho cercato un modo per salvarla, ci penso ormai da tre giorni, ma sono giunta alla conclusione che questa storia non possa avere un finale differente. Non so spiegarvi il perchè, sento che deve essere così e basta. Cercate di non odiarmi troppo, se ci riuscite, e non siate troppo tristi per Meredith.

E poi, gente, stiamo parlando degli X Men, avete presente? Rogue che risorge quando Wolverine l'abbraccia? Jean Grey che emerge miracolosamente dalle acque di Alkali Lake? E poi, se ci fate caso, la parola "morta" non compare da nessuna parte.

Forse Meredith non è morta affatto. Qualche idea mi frulla in testa, troppo labile per costituire una storia, ma in futuro chissà? Magari qualche pezzo in più si unirà al puzzle, e potrò cominciare a scrivere qualcosa di sensato. Credetemi, anch'io desidero ardentemente che Meredith non muoia.

Comunque, passiamo per un momento a cose pratiche. Ecco la traduzione delle ultime due strofe di "Where the Wild Roses Grow":

VOCE FEMMINILE: [...]"Il terzo giorno mi ha portata al fiume
Mi ha mostrato le rose e ci siamo baciati.
E l'ultima cosa che ho sentito è stata una parola mormorata
mentre lui stava sopra di me con una pietra stretta nel pugno..."

VOCE MASCHILE: [...]"L'ultimo giorno l'ho portata dove crescono le rose selvagge
Lei si è sdraiata sulla riva, il vento leggero come un ladro.
Le ho dato un bacio d'addio, ho detto: "Ogni bellezza deve morire"
Poi mi sono chinato e le ho messo una rosa tra i denti"

Inquietante, eh?

Voglio salutare tutti quelli che hanno letto questo racconto, in particolare joey_ms_86 e Lia, che hanno avuto la bontà di recensire.
Lia, come al solito non so cosa dire, tranne che sei un mito. Grazie per tutto l'incoraggiamento che mi hai dato. Spero che questo finale non ti abbia lasciato troppo con l'amaro in bocca.

Ora è arrivato davvero il momento degli addii. Un grosso bacio a tutti e buona vita! Se la mia vena creativa farà la brava e si metterà a suggerirmi qualcosa di decente, magari ci sentiremo ancora.

Un bacione!!!!!

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