La Rosa dei Venti

di ClarinetteM
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

rosadeiventi1

Era il mare dei sogni nella terra delle favole e questo lo sapeva anche lui.
Nonostante fosse un uomo senza onore. Nonostante fosse il Capitano senza onore. O almeno così gli piaceva lasciar credere.
Era comodo, dopotutto.
Era il mare dei sogni nella terra delle favole, anche se la bonaccia durava ormai da sei giorni.
Bran, il Capitano senza onore, si passò una manica sulla fronte. Alle sue spalle gli uomini giacevano inermi, abbandonati sul ponte, le gole arse dalla sete. Solo il vecchio cambusiere passeggiava ancora sotto il sole cocente. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Un pendolo.
Guardò il cielo di un azzurro incredibile. Nemmeno una nuvola all’orizzonte. Si dondolò sulla gamba destra, quindi sulla sinistra. Incerto.
Forse sarebbe stato meglio scendere sottocoperta, lì rischiava un’insolazione. D’altra parte, al chiuso, l’aria sarebbe stata irrespirabile. Non che ce ne fosse molta anche all’aperto, di aria. Anzi, nemmeno un alito.
Sospirò, pronto a voltarsi. Chiuse gli occhi. Li riaprì.
La vide.
Una nave a tribordo solcava la superficie piatta del mare a vele spiegate. Vele gonfie da fare invidia alla sua povera Miss Jones, la cui maestra giaceva da giorni afflosciata su se stessa: una madre sul figlio moribondo.
Nessun marinaio sul ponte, ma a poppa...
Eccola. Allora non era solo una sciocca fola da tavernaccia di porto.
Una donna. Vicina e lontana al tempo stesso, in quello che doveva essere uno strambo gioco di luci. Doveva.
Non poteva essere altrimenti.
Solitaria e dritta come un fuso, le braccia protese in avanti e i palmi rivolti alle vele, mentre la brezza prodotta dalla scia della nave le scompigliava dolcemente la chioma di seta nera. Creava un boccolo. Giocava.
Eppure la bonaccia circondava anche lei. Perfino l’acqua si increspava appena al suo passaggio, come se a sfiorarla fosse un leggero fuscello, nulla di più.
Bran rimase a guardarla incantato, mentre le labbra aride gli si schiudevano in un riflesso involontario.
Esisteva. E lui l’aveva vista con i suoi occhi. La stava vedendo con i suoi occhi, diamine. Non lo sfiorò nemmeno per un attimo l’idea che potesse trattarsi di un miraggio.
Come se la donna potesse avvertire su di sé quello sguardo di pece si volse nella sua direzione e, nonostante la distanza che ora gli sembrava quasi infinita, Bran avrebbe giurato su sua madre, l’unica donna che avesse mai meritato il suo rispetto, di aver visto uno scintillio negli occhi di lei e la sua mano sinistra raggiungere le labbra.
Fu allora che il soffio di un’aria che alla sua pelle parve gelida gonfiò le vele. Un’onda andò a infrangersi contro la vecchia Miss, musica per le orecchie di tutti quei lupi di mare risvegliati dal loro letargo come d’incanto.
Il Capitano senza onore tornò a guardare, ma lei e la nave stavano già svanendo all’orizzonte, volte a nord. Veloci.
Lei che, regalandogli il vento, aveva commesso l’errore più grande della sua vita.
L’avrebbe raggiunta. Presa. Sarebbe stata sua.
Lei e il suo potere.
La Rosa e i suoi Venti.


___

Buondì!
Qualche precisazione: si tratta di una storia (un romanzo? Mboh!) che giace nel mio cassetto (o meglio, nella memoria del mio pc) da anni. Ho già scritto un po' di capitoli, ma mi sono bloccata, così ho deciso di pubblicare qui. Spero che, il fatto di dover aggiornare, mi invogli a continuare a scrivere.
E' una prima stesura, ciò vuol dire che è tutto provvisorio, a partire dai nomi. Se avete suggerimenti o critiche ben vengano! Non nascondo di tenere davvero molto a questa idea, quindi vorrei svilupparla nel modo migliore possibile e, per farlo, credo siano fondamentali le opinioni di chi legge.
Visto che è un "work in progress", avverto già che potrebbero esserci delle modifiche "in corsa", nel caso vi avvertirò.

Quanto allo stile... quello del prologo diciamo che è a sé. Non scrivo mai periodi troppo lunghi, ma nemmeno così brevi e frammentari. Semplicemente, come introduzione volevo qualcosa di breve e incisivo.
Vi anticipo solo che questa scena tornerà alla fine della prima parte, tra qualche capitolo, e probabilmente sarà scritta in modo diverso (il contenuto, però, rimarrà lo stesso). Quindi, per farla breve, prima di sgridarmi per il fatto che i personaggi non sono approfonditi e nemmeno le descrizioni&co., aspettate il prossimo capitolo, con il quale entreremo nel pieno della narrazione ^__*

Ah, un'ultima cosa (poi me ne vado prima che inizi il lancio dei pomodori, visto che la spiegazione è più lunga del prologo xD): tra i generi della storia c'è anche quello "romantico". La storia d'amore c'è, ma si svilupperà più in là (quindi non disperate, cari lettori dal cuore tenero!). Per ora mi concentrerò sulla parte fantasy/avventura. Poi, man mano che i personaggi si svilupperanno, vedremo cosa succederà...

A presto!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

Vanità.
Tutto quel che le era rimasto.
La sua vita.
Perfino la luna, enorme contro l’orizzonte d’ebano, sembrava rinfacciargliela. Illuminava la corte tirata a lucido per l’occasione e le carrozze impolverate dalla troppa strada. Illuminava i torrioni e le mura, le guardie armate e l’ingresso sbarrato. Sbarrato anche per lei che presto ne sarebbe stata la regina. Al di là di quei torrioni, di quelle mura, di quell’ingresso, la sua vita non esisteva. Non più.
«Non avete onorato le danze, Principessa.» Una voce ad arrestare l’ondata di ricordi che stava per invaderle la mente. Una voce fin troppo conosciuta.
Con un riflesso che ormai le era divenuto familiare, Nora Ainwen, principessa ed erede dei Reami dell’Ambra, si stampò un sorriso sulle labbra.
«Non vi ho udito arrivare cugino, perdonatemi» e, così dicendo, si volse all’uomo che si stagliava contro la luce della sala proiettando un’ombra scura di fronte a sé, il tono pieno della stessa ironia che le era stata riservata.
«Troppe cose non udite in questi giorni, Nora» la stuzzicò Lorcan. «O non volete udire.» 
Nora non reagì. Prese nuovamente a dare le spalle alla sala in cui si stava festeggiando il suo ventesimo compleanno, insensibile alla musica che guidava le danze.
La serata era piacevolmente calda e il vestito di seta cobalto che le sarte avevano confezionato per l’occasione si lasciava accarezzare da una brezza leggera, richiamando il colore di un paio di occhi persi nell’oscurità.
«Per gli Dei!» Lorcan raggiunse la cugina alla balaustra. La sua voce era poco più di un sussurro: un grido soffocato. «È la tua festa, Nora! Tuo padre andrà su tutte le furie se non ti farai vedere, lo sai» incalzò.
Per tutta risposta Nora si strinse nelle spalle continuando, imperterrita, a scrutare l’orizzonte.
Lorcan sospirò, mentre la sua mano destra andava a raggiungere la spalla di lei e a sfiorarla in una carezza leggera. Lo stemma della Guardia Reale sulla pettorina catturò un raggio di luna per poi rispedirlo indietro, sfuggente.
«Fingi almeno di essere felice» le soffiò in un orecchio.
Non fece nemmeno in tempo a scostarsi che Nora volse di scatto il viso verso il suo, catturandone gli occhi celesti.
«Come se facessi altro.» Un lampo le attraversò lo sguardo e, sollevato un lembo della lunga veste, oltrepassò la soglia del balconcino e rientrò nella sala gremita di gente lasciandosi alle spalle sia il cugino che la notte.
Le piaceva Lorcan. Non come avrebbe dovuto, visto che ben presto si sarebbero sposati, ma le piaceva comunque. Eppure, da qualche giorno non riusciva a sopportare nemmeno lui. Non che fosse mai stata un modello di gentilezza, a dire il vero, ma con il cugino aveva sempre avuto un rapporto speciale, amichevole quasi. Il che, per quella che in tutto il Regno veniva soprannominata la Principessa dell'Aceto, dati i suoi modi "gentili", era già qualcosa.
Una volta dentro, Nora riprese fiato. Alla sua destra cantori e musici intrattenevano gli ospiti guidando le danze, mentre un’enorme tavolata imbandita si intravedeva sul fondo, poco distante da un fuoco improvvisato su cui sfrigolava la carcassa di chissà quale animale.
L’odore della carne semicruda e il caldo opprimente le mozzarono il fiato, tanto che Nora fu costretta a fermarsi e a lasciarsi cadere in un angolo, su un basso sgabello posto accanto a un bacile ricolmo d’acqua.
Entrambi gli oggetti, a ben pensarci, stonavano completamente con il resto dell’arredamento, degno della dimora di un re. Dovevano essere stati dimenticati da qualche vecchio servo, si convinse Nora, non c’era altra spiegazione.
Si chinò sul bacile lasciando che i lunghi capelli neri scivolassero sulle spalle e prese ad ammirare la sua immagine riflessa.
Sorrise, compiaciuta e rincuorata da quanto vedeva. Era bella, non c’era alcun dubbio. Aveva lineamenti così perfetti da sembrare l’opera di un pittore tanto superbo da pretendere di poter ritrarre Afrodite in persona. Il suo incarnato altro non era che candida tela. Le sue labbra avevano rubato il colore a una rosa pallida e in boccio. Gli occhi erano di un blu tanto profondo da confondersi con gli abissi del mare invernale. Senza tempo.
Lentamente, Nora immerse una mano nell’acqua tiepida per poi portarla alla fronte, in cerca di sollievo. Chiuse gli occhi, godendo per un istante della sensazione che i polpastrelli bagnati regalavano alla sua testa che pareva dover scoppiare da un momento all’altro.
Li riaprì.
Sulla superficie dell’acqua, ancora increspata dalla breve intrusione della mano, non era più solo il suo volto a riflettersi: altre due donne si specchiavano racchiudendo la sua immagine tra le loro.
La prima, alla sua destra, sembrava essere uscita da poco dall’infanzia. Non più bambina, non ancora donna. Portava una coroncina di fiori sul capo color sabbia e muoveva le labbra sottili come se stesse canticchiando tra sé. Solo gli occhi rimanevano in ombra, come quelli della sua compagna.
Quest’ultima, alla sinistra di Nora, aveva un viso rotondo e capelli neri intrecciati sulla nuca. Mormorava anche lei.
Nora rimase a fissarle, meravigliata. Doveva essere una lingua diversa dalla sua, quella parlata dalle donne, perché non riusciva, leggendo le loro labbra, a coglierne il significato.
«Chi sie…» Non concluse la sua domanda. Si era voltata per porgerla, ma alle sue spalle non c’era nessuno.
Tornò a guardare nel bacile. Le due donne avevano smesso di mormorare e sorridevano. Sorridevano a lei, non c’era alcun dubbio.
D’istinto, Nora portò entrambe le mani a cingere i bordi dello sgabello quasi infilando le unghie nel legno, come se temesse di cadere da un momento all’altro.
“Auguri, Nora Ainwen.” Un sibilo che risuonò nella sua testa.
Nora fece per girarsi di nuovo, ma un’altra voce, più dolce, le riempì la mente e sovrastò lo strepitare di uomini e donne che ancora la circondavano, incuranti. Non rappresentavano altro che un insignificante brusio di sottofondo. Solo l’arpa che accompagnava le danze continuava a far sentire le sue note in un ritmo quasi ipnotico. Il suono di un sogno.
“È inutile, Nora” le disse la figura dai capelli neri. Muoveva le labbra sulla superficie dell’acqua perfettamente immobile mentre l’altra, la fanciulla, continuava a sorridere.
“Siamo dentro di te” continuò a spiegarle la donna, materna.
Nora scrollò la testa, stordita.
«Fa troppo caldo qui» mormorò a se stessa mentre con le mani stringeva ancora lo sgabello, così tanto che le nocche spiccavano, bianche, sul legno tarlato.
Respirò lentamente, a fondo. Chiuse gli occhi ancora una volta.
Inutile.
Quando tornò a guardare, la donna e la fanciulla la scrutavano con i loro occhi fatti d’ombra.
Nora inclinò il capo da una parte ricambiando i loro sguardi, irritata con se stessa per la sua incapacità di controllare quelle che, dopotutto, erano solo visioni partorite dalla parte più folle e sfinita della sua mente. Tutto qui. Non era impazzita, non poteva essere impazzita. Era solo stanca, nulla di più.
Come avvertendo il suo scetticismo, tuttavia, la fanciulla scosse la testa. Aveva, notò Nora, un’espressione alquanto divertita.
“Tutto avrà fine” tornò a dire la dolce voce della donna.
“Tutto avrà inizio” le fece eco la giovane compagna in una lenta cantilena.
Attorno a Nora regnava il silenzio più assoluto. Perfino il suono dell’arpa sembrava essere svanito nel nulla.
Deglutì a fatica fissando con occhi sbarrati lo specchio d’acqua che le stava di fronte.
Come se una mano invisibile l’avesse toccato, un piccolo cerchio si formò là dove si riflettevano le labbra di Nora per poi muoversi, allargando il proprio diametro, verso i bordi del bacile. Fu solo il primo. L’acqua si mosse ancora e le immagini di Nora e delle due donne si incresparono, distorte.
Nora rimase immobile, incapace di parlare. Quattro luci, intanto, si erano accese nell’acqua, dove gli occhi della donna e della fanciulla uscivano, finalmente, dalla loro ombra. Erano bianchi, senza alcuna traccia d’iride o pupilla, scintillanti come stelle nella notte.
Pian piano anche il riflesso di Nora accennò a riprendere forma.
Un viso affilato incorniciato da una rada capigliatura bianca. Decrepito, tanto che l’acqua pareva ancora increspata, mentre in realtà era tornata immobile. Perfetta.
Nora ricambiò lo sguardo di un paio di occhi infossati, dello stesso blu delle profondità marine.
Liberò lo sgabello dalla stretta della mano destra e portò il riflesso di una mano avvizzita a sfiorare, lieve, un viso disprezzato dal tempo.
Il suo viso.
“Tutto avrà fine” ripeté la Fanciulla.
“Tutto avrà inizio” ribadì la Madre.
Scossa da un brivido, Nora vide le sue labbra riflesse, petali appassiti, schiudersi in un ghigno nero.
«Stanotte.» Il roco gracchiare della Vecchia le ferì la gola. Si portò le mani a coprire la bocca ancora socchiusa, consapevole che quell’ultima parola era stata pronunciata ad alta voce. Dalla sua voce.
Rinati dal nulla, i rumori della festa tornarono a riempire la stanza.
Nora si guardò attorno, come svegliandosi da un sonno profondo e agitato. Nessuno dava segno di aver visto o udito qualcosa di strano. Le danze proseguivano e così il banchetto.
Lasciandosi sfuggire un respiro tremulo, Nora tornò a scrutare nel bacile ricolmo d’acqua. Il suo riflesso la osservava con espressione stravolta.
Ma era lì. Bellissimo e perfetto.
L’opera di un pittore superbo che aveva osato ritrarre una dea.

___

Eccoci qui, alla fine del primo capitolo. Le carte iniziano a scoprirsi e, almeno per il momento, abbiamo messo da parte Bran. Vi anticipo che il pirata tornerà nel prossimo capitolo e che, in generale, alternerò i punti di vista di Bran e Nora (un capitolo a testa). Come penso abbiate capito, rispetto al prologo abbiamo fatto un salto indietro nel tempo, per comprendere come le loro strade si sono incrociate.
Hanno fatto la loro prima comparsa anche quelle tre simpaticone delle dee. Il richiamo alla Tripla Dea Madre è abbastanza ovvio, ma non sarà il solo per quanto le riguarda. Ho intenzione di attingere anche a una mitologia un po' più vicina a noi (vale a dire quella greco-romana)... non vi anticipo altro, se non che tutti i riferimenti che farò sono studiati a tavolino, anche se magari sembrerà che non ci azzecchino un cavolo. Fidatevi, spiegherò strada facendo.
Ho preferito pubblicare già oggi il primo capitolo perché il prologo era breve e ben lontano dall'entrare nel vivo della storia. Gli aggiornamenti non saranno sempre così ravvicinati, ma conto di inserirne almeno uno a settimana. In caso di rallentamenti vi avviserò.

Per concludere, grazie infinite a Netmine e a LoveForHachi che hanno recensito il prologo!

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2


  Semmai qualcuno avesse osato gettare un occhio sulle strade di Città Vate, quella notte, avrebbe potuto ammirare uno spettacolo a dir poco indimenticabile. Nessuno, tuttavia, trovò il coraggio di affacciarsi alle finestre, tanto più che ogni porta, ogni abbaino, ogni singola fessura che dava sul mondo esterno era stata sigillata quella stessa mattina, quando la nave pirata era stata avvistata all'orizzonte.
  Così non un cittadino riuscì a vedere quel che Bran e la sua ciurma combinarono, assistiti dal cielo stellato e dalla luna che, enorme, si stagliava contro l'orizzonte.
  Razziarono il razziabile, distrussero il distruggibile e naturalmente, una volta occupata la locanda, bevvero molto più del bevibile. Non un bicchiere di rum sfuggì a quelle gole arse dalla salsedine e nemmeno grog, vino e birra furono risparmiati.
  Era appunto finita l'ultima pinta quando Joe, detto Il Guercio per via della benda che gli copriva l'occhio sinistro, decise di scendere nelle cantine per raccattare gli ultimi rimasugli di alcol, lasciando i suoi scellerati compagni a godersi fuoco e rognone arrostito.
  Era una ciurma che nulla aveva di straordinario, una tipica accozzaglia di lupi di mare avidi di ricchezze. Un insieme, insomma, di uomini un tempo di bella presenza e ancor più belle speranze ora ridotti ad avanzi di galera abbruttiti e senza l'ombra di una fede o di un futuro degno di questo nome.
Se ne stavano spanciati nella penombra, piedi sul tavolo e boccale ormai prosciugato ancora sotto al naso. C'era chi già dormiva, chi affilava coltelli, lama su lama, chi raccontava, come ogni volta, la solita storia. Stesso tono. Stesse parole. Stesso finale.
  C'era poi un'ombra solitaria seduta nell'angolo più remoto della sala. Fumava una lunga e scura pipa da cui si levavano densi rivoletti di fumo mentre, spingendosi con un piede contro il ripiano di un tavolo, si dondolava pigramente. Fu proprio questa figura che, al contrario delle altre, non reagì al trambusto che si scatenò nel giro di un istante.
  Un tonfo. Un grido di dolore. Un urlo di vittoria.
  Joe risalì le scale vecchie e scricchiolanti della cantina spingendo davanti a sé quello che a prima vista sembrava un ragazzo molto magro, da poco uscito dall'adolescenza.
  «Guardate, ho trovato un topolino» disse dando un ultimo spintone al giovane uomo che, avendo entrambe le mani impegnate a reggere un grosso involto contro il petto, rischiò di cadere gambe all'aria nel bel mezzo della locanda. Si guardò attorno, la capigliatura color paglia tutta arruffata e gli occhi nocciola sbarrati.
  «STATE LONTANI DA ME, CANI!» gridò, ansimante, puntando su ciascun pirata uno sguardo spavaldo. Lo sguardo di una tigre presa in gabbia. Tuttavia, la sola cosa che riuscì a ottenere dalla sua scellerata platea fu un coro di risate e di ironiche urla di terrore.
  «Ma che paura che ci fai, bel biondino!» lo canzonò Joe, aggirandone la figura. «Questa sera mi sento generoso» riprese a dire, il volto bruciato dal sole a una spanna da quello del ragazzo. «Perciò ti offrirò la possibilità di uscire da questo postaccio sano e salvo.» Incrociò le mani dietro alla schiena. Squadrò il ragazzo da capo a piedi. Fece un passo indietro, quindi proseguì: «A patto che tu mi offra qualcosa in cambio della tua vita, s'intende.» E sorrise, quasi indulgente.
  Al vedersi posta di fronte la faccia del pirata, priva di un occhio com'era e portatrice di una tale proposta, il giovane s'irrigidì senza tuttavia perdere la sua espressione agguerrita.
  «Non ho nulla da barattare con la mia vita» prese a dire con la voce che nascondeva a stento un fremito fatto di rabbia e frustrazione. «Nulla che gente come voi potrebbe considerare degno d'interesse, comunque» aggiunse, sprezzante.
  «O be’, allora...» Joe si strinse tra le spalle e, alzata la mano destra, fece cenno d'avvicinarsi a un uomo dalla pelle color dell'ebano. Un omone, a dirla tutta. Grande e grosso, tutto muscoli, la testa rasata, un anello d'oro al naso e, cosa più interessante per la sorte del ragazzo, una lucida sciabola stretta nella sinistra.
  «Ti avevo promesso un premio per la presa del fortino di questo pomeriggio» gli disse Joe, già muovendo verso il resto dei compagni seduti ai tavoli, pronti a godersi lo spettacolo. «Divertiti col topolino.»
  Come non aspettando altro il pirata nero grugnì, si piazzò di fronte al giovane e levò la sciabola, pronto a colpire quella piccola preda accartocciata contro il muro.
  Il ragazzo chiuse gli occhi, come pronto all'impatto. Impatto che, però, non avvenne.
  Fu una voce a sostituirne il taglio. Una voce graffiante e morbida assieme, dai tratti baritonali, simile all'infrangersi del mare in tempesta contro la scogliera.
  «Basta così» disse. Un imperativo che veniva dall'angolo più remoto della sala, là dove una sedia aveva smesso di dondolare. Il suo occupante si era alzato e aveva preso, pian piano, a uscire dall'ombra. Prima la mano sinistra, che poggiò la pipa su uno sgabello, quindi il busto e infine il volto.
  Fu sufficiente un suo cenno perché la sciabola venisse abbassata e uno sguardo per intimare al padrone della stessa di tornare al suo posto. Nella locanda scese il silenzio.
  «Cos'hai lì?» la testa di Bran indicò l'involto che il ragazzo ancora stringeva contro il petto mentre, intorno, la ciurma taceva.
  Forse rincuorato dalla scampata morte, il ragazzo riprese a respirare e alzò gli occhi nocciola sul Capitano senza onore.
  «Un libro » rispose, senza però staccare il grosso volume dal petto. «Sono uno scrittore.»
  «Uno scrittore» Bran masticò la parola senza troppa convinzione. «Facciamo così, scrittore» riprese a camminare diretto verso lo sgabello già occupato dal Guercio. Quest’ultimo, senza nemmeno attendere un suo cenno, gli lasciò il posto.
  «Ora tu ci leggerai una delle tue storie» un ordine, più che un invito. «Se sarà di mio gradimento, avrai salva la vita. Altrimenti...» la ciurma si rianimò a quella minaccia tutt’altro che velata. Il Capitano senza onore, dal canto suo, si mise a cavalcioni dello sgabello. Un eloquente cenno della mano indicò al ragazzo che poteva cominciare. Questi si morse l’interno della guancia come se, per la prima volta da quando Joe l’aveva trascinato su per le scale, fosse incerto sul da farsi. Chiunque, al vedersi di fronte quella marmaglia, avrebbe obbedito e iniziato a leggere con voce tremante. Chiunque.
  Non lui. Lui sorrise e il viso pallido gli si imporporò appena. «Ai vostri ordini» si esibì addirittura in un inchino prima di liberare il volume dagli stracci in cui era avvolto e sedere per terra, a gambe incrociate, senza degnare ulteriormente della sua attenzione il resto della sala. Si prese del tempo per sfogliare le pagine poggiate sulle brache di tela rossa quindi, individuata quella che doveva essere una storia di suo gradimento, cominciò a leggere:

  «C’era una volta un paese fatto di mare, barche, reti e pescatori. E di una spiaggia.
  Lì viveva una bella fanciulla con i capelli color della sabbia e due occhi verdi di muschio. Era solita, ogni mattina prima dell’alba, passeggiare sulla riva del mare in compagnia dei gabbiani, in attesa del giorno.
  Fu proprio una di quelle mattine che il giovane Timoth la vide per la prima volta. E fu proprio una di quelle mattine che egli se ne innamorò. La vide mentre sedeva sulla riva del mare, le gambe seminude a giocare con la risacca. La vide mentre disegnava col dito indice fantasie inconsistenti sulla sabbia, effimere o forse così profonde da indurre il mare a portarle con sé.  La vide al crepuscolo, in quell’attimo di infinita incertezza tra il buio e la luce: quando la notte indugia e il giorno ancora dorme.
  Le si avvicinò, confondendo le sue orme con quelle dei gabbiani. La baciò. Fu sua.
  Quando, tuttavia, Timoth andò a chiedere in sposa la sua bella fanciulla, fu un no secco quello che ricevette in risposta.
  “Mia figlia porta con sé una ricca dote” gli disse, infatti, il padre di lei. “Tu non sei altro che un poveraccio, indegno e avido di denaro altrui. Va’ a cercarti altrove un bel pollo da spennare.”
  E così, Timoth e la fanciulla dagli occhi color muschio continuarono a incontrarsi ogni giorno al crepuscolo, di nascosto.
  Passò un mese. Giunse una nave di ricchi mercanti. Cercavano un mozzo.
  “Andrò con loro!” Disse Timoth alla sua amata. “Farò fortuna e tornerò per sposarti. Tu aspettami e vedrai, costruirò la nostra felicità.”
  Così fece. Partì.
»


  Lo scrittore si interruppe per qualche istante e Bran, che fino a quel momento lo aveva fissato con una punta di vago interesse nello sguardo, ne approfittò per guardarsi attorno. La sua ciurma taceva, intenta ad ascoltare quella storia che, ben lungi dall’essere originale, sembrava comunque averla incantata. Doveva essere la voce di quel ragazzo, si disse Bran: pacata, ipnotica quanto quella di una madre tutta presa a raccontare una sciocca fiaba della buona notte. E, inspiegabilmente, i suoi duri compagni si erano quietati man mano che l’improvvisato cantastorie proseguiva nel narrare quegli eventi che sapevano di mare e forse, per qualcuno, di ricordi. Solo due volti non erano stati conquistati da un’espressione rapita: quello di un uomo bruno in prima fila che fissava corrucciato il ragazzo e, neanche a dirlo, quello del Capitano senza onore che esibiva una smorfia contratta, quasi dolorante. Irritata. La sua mano destra tamburellava, nervosa, sull’elsa della spada che gli pendeva, nel fodero dorato, dal fianco sinistro.
  «Continua.» Intimò in un ringhio basso e il giovane scrittore, schiaritosi la voce, proseguì nella sua lettura, col sorriso sulle labbra:

  «A nulla valsero le suppliche della fanciulla, Timoth prese il mare e lei lo attese, giorno dopo giorno, sulla spiaggia, dritta come un fuso, l’abito bianco drappeggiato dall’aria salmastra e gli occhi verdi fissi sull’orizzonte.
  Ci fu una notte di tempesta. La nave su cui si era imbarcato Timoth fece naufragio. Si capovolse, ingoiata dai flutti. Nessuno sopravvisse.
  Passarono, intanto, le settimane. I mesi. Gli anni. La fanciulla era ancora lì, sulla spiaggia, ad aspettare quel suo innocente amore che non sapeva di aver ormai perduto. Pian piano, la sabbia e il sale le coprirono la pelle. Conchiglie si annodarono fra i capelli. Alghe le cinsero le braccia. Il vento catturò le morbide pieghe della sua veste.
  Le rubò il respiro.
  Fu di ritorno dalla battuta notturna che i pescatori trovarono, nel bel mezzo della spiaggia, una roccia. Aveva la forma di una giovane donna rivolta al mare. Gli occhi, fatti di muschio, ancora fissi sull’orizzonte.
  Ad attendere il loro amore, per sempre.
»


  Si udirono, nel breve istante che seguì la conclusione della storia, parecchi nasi tirare su, impegnati a ricacciare in gola lacrime inappropriate per quella sfilza di vecchi lupi di mare.
  Bran si guardò intorno, di nuovo. Fece scorrere gli occhi di pece sui suoi uomini per poi piantarli sul ragazzo seduto a terra.
  «Alzati» gli disse, la voce colma di una tranquillità ostentata.
  Il giovane obbedì. Tornò a stringere al petto il suo tesoro fatto di pagine e mosse verso il Capitano senza onore. Proprio nello stesso istante in cui un suono secco annunciava la chiusura del libro, il gigante nero armato di sciabola si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato che non sfuggì al ragazzo, il cui sorriso si fece più largo.
  «Che diavoleria è mai questa?» Bran si alzò dallo sgabello e guardò, inorridito, quel pezzo d’uomo sciogliersi in lacrime. E non era l’unico. «Che cos’hai fatto alla mia ciurma, ragazzino?» Gli ci volle un attimo per sguainare la spada e puntagliela alla gola.
  «È interessante vedere che anche i pirati hanno un cuore, non è vero?» domandò il giovane scrittore per tutta risposta, per nulla spaventato dalla lama che gli sfiorava l’incavo della gola. Continuava a sorridere, irriverente, la testa color paglia inclinata da un lato, il viso rilassato in un’espressione saccente e alquanto divertita, nonostante la situazione.
  «Chiunque sappia amare rimane incantato dalle mie storie e a quanto pare...» portò l’indice della sinistra a sfiorare la punta della spada, «il Capitano senza onore non ne è capace.»
  «Mi conosci.» Bran mosse la spada a scacciare il dito dello scrittore, infastidito dalla sua insolenza. «La mia fama mi precede.» Spinse delicatamente contro il collo e una goccia scarlatta macchiò il metallo. Il gemito del ragazzo si perse in una risata.
  «Uccidimi, uccidimi pure» lo spronò, sordo al vociare dei pirati. «Ma ti avverto, Bran Il Senza Onore: se mi torcerai anche un solo capello, una terribile maledizione si abbatterà su di te e sui tuoi uomini.» Il tono del ragazzo era già di per sé una minaccia, un sibilo pericoloso e suadente. Questa volta toccò a Bran ridere. Un suono gutturale, teso.
  «Tu? Tu osi minacciare me
  «Se mi uccidi, Bran Il Senza Onore» continuò lo scrittore lasciandogli a malapena il tempo di porre la sua domanda, «non vivrai più un solo giorno di pace finché il tuo cuore non sarà toccato dall’amore. Se mi uccidi...» e nel dirlo compì un mezzo passo in contro alla punta della spada che penetrò con più sicurezza nella pelle morbida, «sarai condannato a portare avanti quella che, fino ad oggi, è stata la mia maledizione: scrivere su questo libro, ogni giorno, una storia che parli d’amore.» La voce del ragazzo assunse una nota sprezzante nel pronunciare quell’ultima parola che si perse tra le risa sguaiate dei pirati, divertiti da quel ragazzino che osava minacciare in maniera tanto infantile il loro capitano.
  Anche il sorriso di Bran si riaccese, ma lo scrittore non gli diede il tempo di ribattere: «Se passerà anche un solo giorno senza che una storia venga scritta di tuo pugno, questi avanzi di galera ti si rivolteranno contro e la tua nave verrà distrutta, pezzo dopo pezzo» spiegò, serafico, sporgendosi ancora un po’ in avanti, verso il Capitano, «prima che tu abbia il tempo di dire ammutinamen...»
  Neppure lui ebbe il tempo di finire. In uno scatto Bran affondò la spada. Recise la testa del ragazzo, di netto.
  «Lo spettacolo è finito, torniamo in mare.» Le labbra, innaturalmente rosse per via del sangue che gli aveva macchiato il viso, andarono a riflettere lo stesso ghigno che sfigurava i volti dei suoi degni compari. Finalmente, non poté trattenersi dal pensare al ricordo di come erano ridotti fino a qualche minuto prima. Rimase a osservarli uscire dalla taverna. Attese di rimanere solo, quindi si chinò: accanto alla testa bionda giaceva il libro, la copertina immacolata nonostante fosse immerso in una pozza di sangue.
  Bran lo raccolse. Lo aprì. Sfogliò le pagine: erano bianche.

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Sono un po' in ritardo, lo so, ma la revisione di questo capitolo mi ha fatto impazzire. Ci sono un sacco di riferimenti che dovrò riprendere, man mano che la storia proseguirà, e stare attenta a tutti è stata davvero un'impresa ardua.
Ma comunque...
Abbiamo lasciato la bellissima e vanitosissima Nora (alias la Principessa dell'Aceto) a vedersela con le voci nella sua testa e siamo tornati da quell'adorabile pezzo d'uomo che è Bran.
Bran che viene maledetto per la prima volta da uno scrittore che, forse forse, non è (era, anzi) proprio quello che vuole (voleva) far credere. Se la sua maledizione avrà effetto o se si è trattato solo di un tentativo (non riuscito, n.d.r. U.U) di salvarsi il collo lo vedremo più avanti. Secondo voi?
Quel che è certo è che i suoi uomini si sono rimbambiti mentre ascoltavano il ragazzino e che il Capitano non l'ha presa molto bene.

Un appunto: la storia della ragazza abbandonata dal suo amore e trasformata in una statua è ispirata alla leggenda pugliese (di Vieste, a essere precisi) del Pizzomunno (se siete curiosi trovate l'originale qui.


Come al solito, mi farebbe piacere sapere se il capitolo vi è piaciuto e se avete consigli da darmi. A questo proposito ringrazio di cuore chi ha inserito la storia fra le seguite e, in particolare, LoveForHachi e Tess 36 per aver recensito il Capitolo 1.
A presto e grazie di aver letto!


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3


Aveva le braccia indolenzite. Uno in particolare, il destro, era abbandonato lungo il fianco, pesante come un macigno. Alla sua estremità il pugno era chiuso e stringeva qualcosa che, al tatto, aveva tutta l'aria di essere un pezzo di metallo intiepidito dal contatto con la pelle.
 Nora aprì gli occhi e si ritrovò a fissare un soffitto familiare. Ricordava di essersi messa a letto subito dopo la festa da cui era fuggita il prima possibile, accompagnata da una giovane guardia che, vedendola sconvolta per chissà quale motivo, le aveva offerto un bicchiere d’acqua e una spalla cui appoggiarsi lungo il tragitto fino alle sue stanze. Si era infilata sotto le coperte ancora vestita mentre le ancelle si affaccendavano per la stanza. Aveva chiuso gli occhi e tentato, invano, di scacciare dalla mente l’immagine della Vecchia. Il suono della sua voce. Eppure, si era addormentata subito. A quel ricordo le sfuggì un sospiro. 

Le rispose un gemito.
Non suo.
Si mise a sedere di scatto, con gli occhi che già cercavano la fonte del lamento appena udito.
Attorno a lei sembrava esserci stata un’esplosione: la porta era divelta, i muri macchiati di nero, le tende del baldacchino ridotte a brandelli, il grande armadio di legno accartocciato su se stesso, arso per metà. E silenzio. Fu proprio quel silenzio così innaturale a ricordarle il gemito appena udito. Si lasciò scivolare dal letto. Mosse qualche passo verso la finestra spalancata.
Accasciate contro la parete giacevano tre donne, le sue ancelle. Sgozzate e madide di sangue scuro. Una, giovane e dai capelli chiarissimi, sembrava ancora viva. Miria. La fissava con un paio d’occhi verdi e terrorizzati o meglio, fissava la sua mano destra.
Lentamente, con estrema fatica, Nora realizzò che le sue dita stavano ancora stringendo qualcosa, aggrappandocisi con forza. Vide lo sguardo della ragazza bionda seguire il movimento della sua mano. Fece altrettanto.
Tagliente e accusatorio, nei suoi occhi prese forma il riflesso di un pugnale e, per la seconda volta nel giro di poche ore, Nora si ritrovò ad ascoltare il grido sfuggito senza preavviso dalle sue labbra.
Lasciò cadere la lama e tornò a voltarsi, terrorizzata, verso la ragazza. Aveva ripreso a gemere, un suono lamentoso accompagnato dal gorgoglio del sangue che continuava a sgorgarle dalla gola impregnando la stanza dell’odore dolciastro della morte. Con le sue ultime forze stava alzando un braccio, il dito indice puntato nella direzione di Nora.
“Nora ha un pugnale! Nora ha un pugnale!” la voce di una bambina irruppe nella sua testa. “Nora ha un pugnale, le ancelle sgozzate, guarda e riguarda, le hai ammazzate!” proseguì la voce, cantilenante e allegra, per poi concludere con una risata che sembrò riecheggiare per tutto il palazzo, rimbalzando da un’ala all’altra.
Nora non attese oltre. Corse fuori dalla sua stanza, lanciandosi per il corridoio. Ovunque, macerie e corpi senza vita schiantati contro le pareti scrostate e ricolme di crepe. A differenza delle ancelle, tuttavia, i cadaveri che a tratti le sbarravano la strada non mostravano, almeno a prima vista, alcun segno di violenza. Non c’era sangue, non c’erano armi, nulla.
La risata, intanto, continuava, nella mente di Nora e ovunque. Alla voce della bambina se ne era unita un’altra, dolce e melodiosa: “Scappa Nora, fuggi.” Le stava ordinando. “Va’, prima che ti scoprano!” Sembrava estremamente divertita, felice e Nora, suo malgrado, dovette obbedire. Scese di corsa la scalinata che portava al salone d’ingresso, cercando di ignorare i corpi senza vita che continuava a incontrare lungo il suo cammino, finché non raggiunse il portone dischiuso. Lo aprì quel tanto che bastava per permettere al suo corpo di immergersi nella notte bagnata dalla luce della luna piena.
Tremante, con la fronte imperlata da un sudore freddo, Nora si spinse nell’oscurità padrona del lato est del cortile. Soffiava un vento forte, tanto violento che il suo fischio sordo era l’unico suono che riusciva a raggiungere le sue orecchie. Si fermò nell’ombra, spalle al muro di fredda pietra, capace solo di respirare. Di riprendere fiato. Di tentare di fare ordine fra i pensieri.
Disseminati sulla terra battuta del cortile c’erano decine di corpi senza vita, anch’essi privi di segni che potessero far almeno intuire la causa della loro morte, tutti con gli occhi spalancati, persi in una notte senza fine. Si costrinse a distogliere lo sguardo, mentre il panico dentro di lei saliva e un rumore di cavalli in corsa, sempre più vicino, prendeva forma. Si voltò, decisa a fuggire prima che la Guardia Reale potesse arrivare, ma dovette fermarsi quando le gambe minacciarono di non sostenerla oltre.
E fu proprio quando ruotò su se stessa per cercare una via d’uscita, la mano sinistra appoggiata a una grossa botte di legno, che si vide riflessa nel vetro di una finestra. Non era sola: due donne, una per lato, le sorridevano gentili. Al centro, dove avrebbe dovuto esserci il suo viso, c’era quello della Vecchia.
Non si voltò nemmeno a controllare se la presenza delle due donne fosse reale, impegnata a soffocare il grido che, era certa, le avrebbe graffiato la gola. Con le gambe che ormai le obbedivano a malapena, Nora fece un passo indietro, verso il rumore di cavalli e uomini che ormai si apprestava a varcare il portone d’ingresso.
“Fermati.” La Madre continuava a sorridere. Dolce. Vagamente protettiva, ma non abbastanza rassicurante perché Nora smettesse di allontanarsi.
“Fermati.” Ripeté questa volta la voce della Fanciulla, intenta a giocherellare con un fiore di campo, una bocca di leone che, gialla, spiccava contro il buio.
I cavalieri avevano varcato la soglia del cortile, li sentiva avvicinarsi. Suo cugino, insieme a parte della Guardia Reale, doveva aver trascorso la notte fuori dalle mura del castello, presso il forte vicino al mare. O in qualche locanda del porto. D’altronde, in quel Regno poco incline a guerre e sommosse, i soldati avevano ben poco da fare oltre a gozzovigliare tra vino e donne. Anche se le loro future spose non potevano lasciare il castello. Nonostante le circostanze, Nora si trovò a reprimere il solito moto di fastidio che quell’abitudine del cugino, per il resto tanto ligio al dovere, le provocava. Tornò nell’ombra, gli occhi puntati sulla Fanciulla, decisa a ignorare le rughe che deturpavano il volto centrale.
«Che cosa volete da me? Chi ha fatto tutto questo?»
“Ma sei stata tu ovviamente, gioiello mio.” Ancora una volta la Madre.
Nora scosse la testa, incredula. «Io stavo dormendo, qualcuno deve…»
La Fanciulla rise. “Sei stata tu, Nora. Hai sgozzato le tue ancelle e invocato gli Zefiri perché si prendessero le vite di questi miserabili.”
“E l’hai fatto maledettamente bene.” C’era una nota di orgoglio nella voce della Madre.
«No.» Poco più di un bisbiglio. Nora si rese conto una volta di più che le voci delle donne non erano reali. Facevano parte dei suoi pensieri. Erano i suoi pensieri. La sua mente veniva attraversata dalle loro parole senza che potesse fare nulla per controllarle né per far cessare il fischio di sottofondo, simile al rumore del vento che fino a poco prima spazzava il cortile e che ora sembrava essersi trasferito nella sua testa. Si portò entrambe le mani a tappare le orecchie. Chiuse gli occhi. Cadde in ginocchio. Non sentiva più nulla di quanto stava accadendo intorno a lei, dimentica per un attimo degli uomini che, poco distanti, fissavano impietriti il pavimento di cadaveri. In compenso il fischio nella sua testa era aumentato, accompagnato dalle risate trillanti della Madre e della Fanciulla e dal sibilo sordo della Vecchia.
Sua madre. Sua madre, prima di perdere del tutto la ragione, le aveva parlato di quello stesso fischio. Di quell’alito di vento che esisteva solo nei suoi pensieri e che la tormentava giorno e notte. Non le aveva creduto. Nessuno le aveva creduto. E nessuno avrebbe creduto nemmeno a lei. Si sentì invadere dal gelo.
«Voi. Siete state voi.» Si prese la testa tra le mani, sconfitta. Tremava tanto da battere i denti. Poco distante sentiva Lorcan impartire ordini, la voce spezzata dalla paura quasi quanto la sua. Lorcan l’avrebbe aiutata. Le avrebbe creduto. Avrebbero sistemato tutto. Si era quasi convinta a uscire dall’ombra, quando la Fanciulla tornò a parlare: “Dubito che ti crederà, con quel pugnale.”  La ragazzina si strinse nelle spalle mentre con noncuranza continuava a far ruotare il gambo tra le dita.
Per la seconda volta, Nora avvertì nella mano destra l’impugnatura di una lama che, lo sapeva senza aver bisogno di guardare, era macchiata di sangue ancora tiepido. La stessa lama caduta poco prima sul pavimento della sua camera, accanto al letto. La strinse più forte consapevole, in un lampo di lucidità, che se l’avesse fatta cadere sarebbe stata scoperta.
“Sta’ a sentire, dolcetto mio.” La Madre si intromise nel flusso di pensieri che aveva cominciato a vorticare nella mente di Nora insieme a una nuova ondata di terrore. “La tua scelta è molto semplice: puoi ascoltarci o puoi andare dal tuo affascinante cugino.”
“E farti ammazzare.”
“E farti ammazzare, sì.” La voce materna confermò quella infantile.
«O posso andarmene e non ascoltare voi né cercare Lorcan.» Aveva respirato a fondo fino a placare almeno in parte la folle corsa del suo cuore. Si era addirittura alzata, ben attenta a non uscire dall’ombra e a non parlare a voce alta. Anzi. Il suo era ormai un mormorio. Muoveva sì le labbra, ma quello che sfuggiva alle stesse era poco più di un soffio. Non guardò i volti riflessi, le bastò udire la risatina trillante della più giovane fra le tre donne.
“Potresti, ma sei proprio sicura di volerlo fare?”
“Voltati.”
Non fu l’ultimo, rauco ordine della Vecchia a indurre Nora a guardare verso il cortile. Fu un sospiro d’aria fredda che le passò accanto, rapido e nato dal nulla. Furono un grido e il rumore di un corpo che crollava a terra. Un ragazzo che Nora riconobbe senza esitazione alcuna: era la giovane guardia che le aveva offerto da bere dopo il suo primo colloquio con le tre donne, alla festa. Il giovane che, nonostante lei l’avesse degnato a stento di un grazie e di uno sguardo, si era offerto di accompagnarla alle sue stanze.
«Fermi!» L’ordine di Lorcan ai suoi mentre lui solo si avvicinava, inginocchiandosi accanto al ragazzo impegnato a contorcersi, le mani al collo come se non riuscisse più a respirare. Era cianotico e annaspava nel tentativo vano di riempire i polmoni d’aria, con gli occhi che minacciavano di schizzare via dalle orbite da un momento all’altro.
Nessuno poté fare nulla per aiutarlo. Né Lorcan che, insieme ai suoi uomini, lo fissava impotente né Nora che sembrava aver perso lei stessa la facoltà di respirare. La morte per il giovane arrivò presto: mosse per un’ultima volta i piedi, in un calcio al nulla che lo stava trascinando con sé, per poi abbandonarsi sul terreno. Un cadavere come i tanti che lo circondavano. Sul volto non c’era più alcun segno di asfissia: era tornato a essere pallido, come se niente fosse successo.
“Questa volta abbiamo mirato in basso. Il prossimo sarà il Capitano.” Con la voce della Vecchia che le risuonava ancora nella mente, Nora guardò suo cugino, il promesso sposo di cui non era innamorata ma al quale era legata da un affetto fraterno.
“Non abbiamo già colpito qualcuno più in alto, nonnina?”
La domanda della Fanciulla, colma di un’ingenuità ostentata e fastidiosa, unita al grido di una delle guardie entrate in avanscoperta nel castello, costrinse Nora a distogliere lo sguardo da Lorcan e a portarlo in alto, sulle merlature.
«Sono tutti morti!» Stava urlando la guardia sporgendosi verso il cortile. «Il Re è morto!»
Nora fece appena in tempo a sentire il ringhio frustrato del Comandante prima di crollare di nuovo sulle ginocchia. Poggiò il pugnale a terra, mentre la mano sinistra correva a chiudere la bocca, a intrappolare per quanto possibile un singhiozzo e un lamento. Non aveva mai avuto molta stima di suo padre, un uomo severo che aveva costretto la moglie a vivere nella sua ombra e sembrava voler riservare lo stesso destino alla figlia. Eppure, la notizia della sua morte aveva privato Nora dell’ultimo rimasuglio di lucidità e, non fosse stato per la reazione rumorosa degli uomini, di sicuro il suo gemito, per quanto sommesso, l’avrebbe fatta scoprire. Non udì neppure Lorcan domandare di lei, presa com’era dai suoi singhiozzi.
“Su, su” la voce materna, accompagnata da un alito di vento che le sfiorava le spalle, tentò di quietarla. “A tutto c’è rimedio, Nora cara, perfino alla morte.”
“Ti basterà venire con noi!”
“O portarci con te, che dir si voglia.”
“Ti basterà obbedire.” La Vecchia pose fine a quello scambio. “Smetti di frignare e ascoltaci, piccola sciocca.”
Ancora singhiozzando Nora scivolò all’indietro, schiena contro il muro di pietra, rannicchiata su se stessa. Non dava segno di aver udito le rimostranze della Megera, eppure questa continuò: “C’è una terra circondata dal mare, a Nord. Portaci lì, compi il tuo dovere, e potrai dimenticare tutto questo.”
«D-dovere?» Gli occhi ora fissi sul cugino intento a dividere gli uomini in squadre, Nora non aveva potuto fare a meno di chiedere. Aveva formulato la domanda quasi senza accorgersene.
“Dovere.” Confermò la Vecchia. “Quella terra ci è stata sottratta e serve il Vento per riconquistarla. Tu puoi controllarlo, puoi dominarlo sotto la nostra guida...”
«Voi non esistete e io sto impazzendo.» Ancora una volta Nora portò entrambe le mani a coprire le orecchie. Prese a dondolarsi su se stessa, piano. «Non esistete e io...»
“... proprio come hai fatto stanotte.” La voce nella sua testa proseguì ignorando la sua cantilena.  Guardati intorno, ragazzina. Pensa a quello che hai appena visto. Fa’ come ti viene detto, per una volta nella tua inutile vita e ti garantisco che tornerai sana e salva da tuo cugino a da tuo padre. Redivivo.”
“Nora” era di nuovo la Madre, “non sei impazzita, bambina. Capirai tutto a suo tempo, per ora fidati di noi. E vattene da qui.”
Il popolo aveva cominciato a riversarsi nel cortile, in preda al panico per quello che vedeva. Follia o no, Nora doveva andarsene da lì, se non altro per evitare che la sua presenza provocasse altre morti.
“Indossa il mantello” questa volta era stata la Fanciulla a parlare, a indicare con il fiore giallo un mantello comparso dal nulla sulla botte che Nora aveva usato come sostegno poco prima.
Senza nemmeno rendersene conto, si trovò a sollevare il braccio e a farsi scivolare in grembo il pastrano scuro. Lo indossò, si calò il cappuccio su capo.
“E ora confonditi tra la folla, sfrutta il loro terrore a tuo vantaggio.”
Con le gambe miracolosamente salde, Nora si alzò e prese a muoversi, a uscire dall’ombra per raggiungere le decine di persone che ormai invadevano la corte. Si mischiò a loro, lasciandosi trascinare per un attimo dalla corrente di quei corpi pregni di paura, avvicinandosi pericolosamente a Lorcan.
Fu proprio suo cugino a salvarla.
«Fuori! Tornate alle vostre case!» Tentò di sovrastare il vociare del popolo, invano. «Fateli uscire da qui. Ora.»
E così, sospinta dalle guardie, circondata dalle urla di protesta dei suoi sudditi, Nora ebbe gioco facile a uscire dall’imponente portone e ad allontanarsi dal castello, ignorata da tutto e da tutti, avvolta dall’odore della paura che impestava ormai il borgo intero: un misto di sudore, cenere, mare e pane appena sfornato. Allungò il passo appena gli altri iniziarono a disperdersi, diretti alle loro case.
Si stava condannando da sola. Stava fuggendo, dichiarandosi colpevole di una strage che nemmeno ricordava di aver commesso. Ma non poteva fare altrimenti: era il borbottio delle Tre a confermarglielo, nella sua mente, insieme al movimento delle sue gambe che sembravano dotate di vita propria. Chiuse gli occhi per un istante.
«Dove?» Chiese solo.
“Al porto.” Il sibilo della Vecchia non le lasciò scampo.

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Eccomi!
Ci ho messo un po' (la puntualità non è proprio il mio forte), ma alla fine ce l'ho fatta.
Diciamo che le tre dee mi destabilizzano un po', ecco.
In questo capitolo, Nora si trova alle prese con il pasticcio combinato da lei (almeno, a quanto dicono le simpaticone) e ha un'unica possibilità perché tutto torni a posto: obbedire.
Ce la farà? In realtà è davvero impazzita? Chissà. Di certo, visto cos'è successo appena ha provato a correre da Lorcan (che a quanto pare non è poi 'sto stinco di santo, viste le scorribande al bordello U.U), non può tornare indietro.

Il prossimo capitolo vedrà Bran impegnato a fronteggiare le conseguenze delle sue malefatte. Nel frattempo, grazie a chi ha recensito, inserito la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate :)
Come sempre, mi fa piacere sapere cosa ne pensate, nel bene e nel male. Perciò, se avete consigli, bacchettate o lodi, vi invito a recensire.

Per chi fosse interessato a spoiler, anticipazioni, avvisi vari (soprattutto sui ritardi, ehm ehm...) ho aperto una pagina facebook e un profilo twitter.

Alla prossima!

 

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