Chapter Five
Chapter Five
“Just
A Moment…”
andide nuvole
ovattate screziavano il cielo del tramonto.
Il blu reale
si stemperava nel viola inteso, per poi sfumare in macchie vermiglie, lì dove il
sole stava calando.
Oltre le luci
della città.
Oltre
l’orizzonte.
Oltre quella
nuova realtà.
Hermione
osservava quel sublime spettacolo seduta sul divano del suo salone.
Quello
davanti all’immensa vetrata.
Il sua
angolino prediletto, dove amava rifugiarsi quando tutto – vivere –
diventava insostenibile.
Quell’angolo
in cui tutto era ricominciato in un momento.
Una lettera
ritrovata per caso.
Scritta da
lei.
Indirizzata a
sé stessa.
Il calore
della casa l’avvolgeva in un appagante abbraccio.
Il fuoco
scoppiettava allegramente nel camino.
La sua luce
si rifletteva nella semioscurità della camera, illuminando con i suoi riverberi
le decine e decine di foto che tappezzavano le pareti ed occupavano immensi
scaffali.
Frammenti di
quel tormentato passato che – con lacrime e sorrisi – era riuscita a
ricostruire.
Nodo che era
riuscita a sciogliere.
Manici di
scopa che si rincorrevano all’interno delle inquadrature.
Sorrisi che
apparivano e scomparivano per magia.
Paesaggi
incantati che si illuminavano di spettacolare.
Ricordi che
non esistevano, ma che con il tempo erano diventati suoi, aggiungendo
nuovi tasselli a quel mosaico variopinto.
Il suo
presente.
Il futuro.
La sua vita.
Ed eccolo lì
l’ultimo capitolo di quella favola.
Al suo
fianco.
“Mamma?” –
mugugnò il piccolo fagotto di appena cinque anni, avvolto in una coperta
verde.
Sbatté più
volte le palpebre, ancora intorpidita per il sonno o forse per il freddo
pungente di metà gennaio inoltrata..
Allungò le
braccia per scaldarsi nel morbido abbraccio della madre.
“Ben
svegliata!” – le sussurrò, portando le labbra all’altezza dell’orecchio e
rispondendo alla stretta.
Per quanto
fosse cresciuta, Hermione conservava lo stesso tono di voce che l’aveva
piacevolmente inebriata al suo risveglio.
Rassicurante
in ogni sua sfumatura.
“Amore,
alzati. La mamma tra un po’ deve andare via.” – la informò allontanandosi dalla
piccola.
Sua figlia.
La loro
bambina.
L’avevano
chiamata Andrea.
Un nome
insolito, ma le piaceva il suono che emanava.
Così
armonioso nel pronunciarlo.
Così caldo
nell’ascoltarlo.
La bambina,
però, per tutta risposta si era nascosta sotto la coperta, tirandola fin su alla
testa.
“Andrea!” –
l’ammonì la donna con tono di falso rimprovero, scoprendole il volto.
La piccola
arricciò le labbra in un buffo broncio, mostrando tutta la sua disapprovazione.
La donna
stava per rialzarsi, quando la tenera manina tonda andò a stringere la sua,
richiamando l’attenzione della madre.
“Prima di
andare via, mi racconteresti di nuovo la storia?”
Le sue iridi
speranzose si specchiavano nelle materne pozze bronzee.
Hermione
stava per ribattere…
Trepidante
per l’attesa, Andrea aveva iniziato a mordersi il labbro inferiore.
Le guance
paffute infondevano un tenero rossore al volto diafano.
I serici
capelli castani ricadevano lisci fino alle spalle.
Erano
incredibilmente morbidi e sottili.
Setosi al
tatto.
Spesso una
ciocca più ribelle ricadeva fino sfiorarle fastidiosamente il naso.
Si
somigliavano molto.
Madre e
Figlia.
Come il
padre, però, la piccola era oltremodo brava nel trovare tutti i modi migliori
per poterle far cambiare idea.
Come dire di
no a quegli occhi così grandi?
…invece,
semplicemente le sorrise, tornando a sedersi accanto a lei.
“E va bene.”
– fece rassegnata.
Gettò uno
sguardo all’orologio alla parete.
Per fortuna
aveva ancora un po’ di tempo.
Proprio quel
giorno non poteva permettersi di tardare.
Non ancora
una volta.
La bambina,
dal canto suo, in preda all’euforia, si raggomitolò nuovamente sul divano,
sprofondando nel racconto della madre.
Lentamente –
in un attimo – il mondo che le circondava iniziava a svanire,
disperdendosi nei meandri di quella vicenda che finalmente prendeva vita.
Attraverso le
sue parole.
Costruita con
le sue decisioni.
Creata da lei
stessa.
Con una gomma
ed una matita – forza d’animo e coraggio – aveva scritto il suo C’era una
volta…
***
Hogwarts.
5 anni prima.
Camminava
Hermione.
Attraversava
vecchie aule, oramai abbandonate.
Si aggirava
per bui e disastrati corridoi.
Con il fiato
sospeso, seguiva quel filo invisibile che l’avrebbe dovuta legare a quei
luoghi.
Scenari di
indimenticabili avventure.
Ripercorreva
un percorso apparente, all’interno di quel fatiscente castello.
Non le
risultava difficile vagheggiare ed immaginarsi fiera ragazzina, dai capelli
ricci e ribelli, camminare per quegli stessi corridoi con un carico di libri
stretto al petto.
Oppure
affiancata dai suoi amici, mentre si recavano a pranzo.
Harry e Ron.
Fedeli
compagni con cui avrà trascorso felici serate, riuniti intorno al fuoco sulla
Torre di
Griffyndor.
Fantasie ed
illusioni,
tanto vivide da sembrare quasi reali.
Certo, la
magia di quel luogo faceva sì che le riuscisse complicato scindere la realtà
dell’immaginazione, eppure la ragazza avvertiva la differenza.
La sentiva
quasi palpabile.
C’era sempre
un dettaglio – una nota sfocata ed insicura – che sottolineava il divario.
A braccia
conserte e passo stanco, si era recata verso il parco che circondava la scuola.
Alzò gli
occhi verso il cielo.
Nuvole buie e
minacciose offuscavano l’orizzonte, preannunciando un’imminente tempesta.
Ancora neve.
Morbida ed
ovattata, silenziosa come un sogno.
O, forse,
qualcosa di peggio.
Era giunto il
momento di effettuare volontariamente un passo indietro.
Di certo quel
posto non le sarebbe mancato.
Era
perfettamente in grado di voltare pagina.
Anzi, poteva
chiudere quel libro e riporlo sullo scaffale più alto delle libreria della sua
vita.
Il tempo
avrebbe risolto ogni cosa, ricoprendolo con un folto strato di polvere.
Sicuramente
sarebbe stato facile.
Semplice
come mentire a sé stessa.
La ragazza
sorrise mesta.
In realtà,
avrebbe conservato quel ricordo per sempre.
Gelosamente custodito nella sua mente.
Mai come
quella volta, però, avrebbe preferito dimenticare ogni cosa.
Socchiuse gli
occhi e tirò un lungo e profondo respiro, rannicchiandosi nelle spalle.
Improvvisamente la disarmante intensità di quel luogo la colpì con tutta la sua
forza, turbandola più di quanto non fosse.
Una strana
sensazione – acuta e lancinante – la trafisse poco sopra lo stomaco, all’altezza
del petto per poi diffondersi lentamente in tutto il corpo.
Non le faceva
del male, ma la infastidiva.
Avvertiva il
fastidio per aver trovato un luogo che le infondesse un senso di familiarità, ma
non poterlo chiamare casa.
Hogwarts,
realmente parlando, non esisteva, così come quella parte di sé – e del suo
passato – ad esso legata.
Aveva ancora
gli occhi chiusi, quando una lacrima scesa sulle guance pallide.
Era così
presa di suoi pensieri, che non si era accorta di aver iniziato a piangere.
Al primo
rivolo, si aggiunse una nuova goccia, ancora più fredda e pesante.
Hermione
dischiuse lentamente gli occhi.
Non erano le
sue lacrime a bagnarle il viso, ma una cascata d’acqua che aveva iniziato a
riversarsi senza sosta, rendendo tutto uniformemente grigio e acquoso.
Confuso.
“Dannazione!”
– imprecò prima di addentrarsi nel parco, cercando riparo tra gli alberi.
Aveva
iniziato a correre, con la vista ancora appannata a causa della pioggia.
Le palpebre
erano diventate incredibilmente pesanti.
Minacciavano
di chiudersi da un momento all’altro.
Un piede dopo
l’altro, si dirigeva chissà dove.
Sapeva,
però, che doveva seguire quella direzione.
Un momento
prima l’acqua scandiva i suoi pensieri ed un istante dopo la sua mente si
trovava al riparo in una radura.
Piccolo ed
irregolare, lo spazio completamente isolato dalla vegetazione.
Rispetto al
buio antro che aveva attraversato, risplendeva di un tenue calore.
Hermione
faceva scorrere lo sguardo su ogni dettaglio.
Steso sul
manto d’erba, c’era un tronco d’albero abbattuto.
Doveva
trovarsi lì da molto tempo, a giudicare dallo strato fitto e ombroso di muschio
di cui era ricoperto.
La giovane
portò meccanicamente una mano alla tasca del giaccone, incredula.
Era lì che
era stata scattata la foto che aveva ritrovato con la lettera.
Osservava la
diapositiva immobile e le labbra si sciolsero in sorriso sereno.
Il cuore le
batteva all’impazzata.
Il respiro
era ancora affannoso.
Sicuramente
per la corsa.
Il tempo
sembrava aver immortalato quello scenario.
Lo aveva
conservato perfettamente.
Tutto sembra
essere rimasto come allora.
Come quella
fotografia.
Cercava di
ricostruire quella scena, disegnandone mentalmente le minuzie di quello che si
era imposta di accettare come ricordo.
Lei era lì,
accanto a quell’arbusto e guardava esattamente...
Ripercorreva
con la punta delle dita la traiettoria del suo sguardo, quando lento
crepitio dissolse la magia di quel momento, facendola sussultare.
Non era in
grado di capire da dove provenisse, ma sembrava che giungesse dalle sue spalle.
Si voltò
lentamente, mantenendo il dito a mezz’aria.
“C’e
qualcuno?”
La domanda,
però, ebbe come risposta solo il suo eco.
Rimase ferma
per qualche istante, scrutando l’ombra della foresta.
In un primo
momento aveva pensato che si trattasse dello sfrigolio delle foglie calpestate,
ma oltre gli alberi sembrava non esserci nessuno.
Forse si era
sbagliata e la cosa era alquanto probabile.
A causa dell’euforia
per aver ritrovato quel posto, la testa aveva iniziato a girare senza sosta,
rendendo tutto più vago e precario.
Quando tornò
a focalizzare la sua attenzione verso lo spiazzo, il suo sguardo ambrato si
perse in un paio di iridi adamantine, dilatate dallo stupore.
Avvolto in un
elegante cappotto nero, un ragazzo la osservava insistentemente dal lato opposto
della radura.
Le braccia
ricadevano inermi lungo il corpo snello e le mani chiuse a pugno tremavano di
ansia sommessa.
Sul volto
esangue e le fattezze marcate, risaltavano i crini dorati.
Incredibilmente lisci e sottili.
Intanto, una
lieve brezza si era alzata, portando con sé il profumo della pioggia e dell’erba
bagnata, ma, tra essi, Hermione riusciva a distinguere dell’altro.
Un aroma
frizzante e pungente.
Fresco come
la menta.
Inspirò
profondamente ed allungò inconsapevolmente il braccio, cercando di afferrare
quella piacevole sensazione in cui si era immersa.
Ciò che
ghermì, però, fu solo il Nulla.
Il calare del
vento aveva portato via con sé quella fragranza.
“Granger?” –
chiese esitante lo sconosciuto.
Quel sussurro
spezzato aveva fatto capolinea tra la miriade di dubbi, pensieri e domande che
nuovamente stavano affollando la emnte della ragazza..
Si
intrufolava in quell’antro buio, strisciando tra le parole ed immagini sconnesse
che la confondevano.
Chi era quel
ragazzo che la conosceva?
Che ci faceva
lì ad Hogwarts?
Perché le
lacrime iniziavano a pretendere di scorrere lungo le sue guance?
Perchè
provava l’irrefrenabile voglia di scappare?
Fuggire non
da quel luogo, ma tra le sue braccia e desiderare di sprofondare in esse?
“Hermione!” –
ripeté davanti all’espressione smarrita della ragazza.
Questa volta
non si trattava di una domanda, ma di una certezza.
Certezza di averla finalmente ritrovata.
Dopo essere
stato rilasciato da Azkaban, il primo ed unico pensiero di Draco Malfoy era
stato quello di ritrovare la Granger.
Non gli
interessava se la questione richiedesse costi spropositati, notti insonni o la
necessità di altri generi di risorse. Per fortuna, nonostante la disgrazia
che aveva colpito la sua illustre famiglia, il Principe Serpeverde poteva
godere ancora di uno smodato benessere.
In tutti i
sensi.
Le prime
ricerche, però, si erano rivelate dei veri e propri fallimenti.
Dopo l’ultima
battaglia, in cui lo Sfregiato aveva sconfitto Tom Riddle, sembrava che la
Mezzosangue fosse sparita.
Dileguata,
come la speranza di ritrovarla.
Grazie alle
numerose conoscenze che poteva ancora vantare, era venuto al corrente che
nemmeno i reduci dell’Ordine ne avevano più notizie.
D’altro
canto, nemmeno loro si erano dati tanto da fare per cercarla.
Se non si
avevano notizie della Granger, tanto meglio: nessuno avrebbe dovuto fornirle
spiegazioni su quello che era accaduto.
Sicuramente,
dopo tutto che era successo, avrebbe avuto tutte le ragioni per voler restare da
sola.
La situazione
faceva comodo a tutti.
Tranne che a
lui.
Non sapeva
perché si era recato ad Hogwarts quel giorno.
Si era
svegliato quella mattina, sentendo il dovere di andare lì.
Nessuno era a
conoscenza delle sue intenzioni, quindi nessuno poteva sapere della sua presenza
al castello, tuttavia, quando aveva sentito qualcuno aggirarsi nei dintorni, non
si era allarmato.
Si era
semplicemente limitato a seguire quell’istinto, come se sapesse che quella
fosse certamente la cosa migliore da fare.
Non quella
giusta, certo, ma aveva imparato che, spesso, le due cose non coincidevano.
Nel momento
in cui l’aveva scorta nella radura, per un momento – un istante – aveva
pensato di trovarsi ancora nell’antico Maniero di famiglia.
Non era ad
Hogwarts.
Quella non
era la realtà.
Ma trattava
di un Sogno…o di un Incubo.
Uno di quelli
che avevano accompagnato la sua agonia ad Azkaban, dove la distinzione tra l’uno
e l’altro – sogno ed incubo – perdeva la sua importanza, divenendo
insignificante.
L’importante
era, in un modo o nell’altra, riabbracciarla.
Illudersi di
poterlo ancora fare.
Lasciarsi
vincere da quell’apparente calore.
Affogando in
quella fantasticheria l’ultimo ricordo che aveva della sua Mezzosangue.
Le sue deboli
braccia che cercavano di strapparlo dalla presa degli Aurors che lo portavano
via.
La voce
ridotta ad acuti ed increduli sussurri.
Gli occhi
vacui e delusi.
Disperati.
Aveva visto
la disperazione attanagliarla nel momento in cui il suo sguardo era
caduto sul corpo di Potter a terra con la sua bacchetta accanto.
Disperazione
perché il suo migliore amico era morto.
Disperazione
perché pensava che fosse stato lui.
La verità?
Aveva poca
importanza, ormai.
Il mondo
pensava che fosse un assassino, colui che aveva ucciso il Bambino-che-era-Sopravvissuto
a Voldemort?
La gente è
libera di pensare ciò che più gli fa comodo, a lui non poteva importare di meno.
Ma Hermione
non era la gente.
Era Lei.
Aveva il
diritto di sapere come le cose erano realmente andate.
Era per
quello che la stava cercando.
Non per
offrirle una nuova vita insieme – le aveva solo donato menzogne e
preoccupazioni in passato – ma per concederle la serenità che le
spettava.
Avanzò di
qualche passo, avvicinandosi alla ragazza, che ricambiava il suo sguardo.
C’era troppo
stupore che brillava nei suoi occhi, ma questo Draco non poteva scorgerlo.
“Per Merlino
Granger!”
Ogni parola
scandiva un suo passo.
“Si pu…”
“Chi sei?” –
lo interruppe.
Con la gola
improvvisamente secca, l’ex Slytherin non riuscì a terminare ciò che aveva
intenzione di chiederle.
D’un tratto
si era irrigidito, schiacciato dalla pesantezza di quella domanda che aveva
ostacolato la sua avanzata.
Un ostacolo
che sembrava crescere sempre di più sotto i suoi occhi, divenendo
insormontabile.
Con una calma
che non gli si addiceva, si schiarì la voce.
Si inumidì le
labbra.
“Cosa?”
Pensava a
tante cose in quel momento, ma la prima cosa che aveva detto gli era
sembrata banale l’istante dopo averla pronunciata.
Boccheggiò
più e più volte, alla ricerca di qualcosa di più sensato da dire.
Mai e poi mai
Draco Malfoy avrebbe pensato di trovarsi in difficoltà un giorno.
A causa di
una Mezzosangue, per di più.
Se solo
qualcuno glielo avesse detto, tempi addietro, lo avrebbe schiantato seduta
stante per l’assurdità della cosa.
Proprio le
cose più assurde, però, erano diventate vere grazie a quella
Mezzosangue.
Vero,
ad esempio, era l’amore che provava nei suoi confronti.
Un sentimento
tanto reale da sembrare ingannevole.
Cercò di
scrollarsi di dosso il peso del timore, avanzando di un altro passo.
“Hermione,
sono io! Draco.” – chiarì, cercando di mantenere fermezza nella sua voce.
Una freddo
brivido attraversò la schiena di Hermione.
Sinistro e violento come il suono di quel nome.
Al sono di
quel nome, la riccia spalancò ulteriormente gli occhi.
Le parole di
Tonks tornarono a rimbombare nel vuoto della sua testa.
“Nessuno sa
con precisione quello che successo. Accanto a voi c’era Draco Malfoy, un
Mangiamorte.”
Quel
Draco?
Iniziò ad
arretrare di qualche passo..
Almeno uno,
per quanto le risultasse quasi impossibile.
Con un
incantesimo Reversus hanno scoperto che la sua bacchetta a scagliato un Anatema
che uccide, probabilmente quello che ha ucciso Harry.
Lo stesso
Malfoy causa della morte di Harry Potter?
…Il piede
stava per toccare terra…
Ancora un
istante e poteva ritenersi al sicuro.
“Hermione,
aspetta!” – si affrettò a dire il biondo, allungando un braccio per cercare di
fermarla.
…solo uno e
avrebbe saggiato il calore della salvezza..
Il tono usato
dal ragazzo, però, ebbe il potere di far crollare quell’ultima labile difesa.
Un’ancora di
salvezza devastata dal fruscio di un sussurro.
Debole come
il sibilo del vento tra le foglie degli alberi.
Lo hanno
interrogato… e sotto Veritaserum ha dichiarato di non essere stato lui, così è
stato scagionato.
Perché
mettersi in salvo da qualcosa – qualcuno – che non conosceva?
…Hermione
decise do non fare quel passo indietro.
Nel silenzio
che era caduto, Draco tirò un respiro do sollievo, approfittando immediatamente
della situazione.
Deciso a
recuperare il tempo perso, eliminò la distanza che li separava con un’unica
falcata.
La strinse al
suo petto, affondando le mani nei suoi ricci.
“Quanto ti ho
cercata.”
La ragazza,
però, non udì mai quelle parole.
Trasportata
da quell’abbraccio, Hermione si sentì morire.
Le gambe
avevano iniziato a tremare, minacciando di cedere da un momento all’altro.
Le palpebre
erano inverosimilmente pesanti, come il suo respiro.
Sentiva
l’aria venire meno.
Bruciare
attraverso i polmoni.
L’ultima cosa
che avvertì, prima di perdere i sensi, fu l’acre aroma di menta corrodere
troppo velocemente quel mondo che non avrebbe mai più voluto abbandonare.
Quello stesso
mondo che sarebbe andato avanti senza di lei.
Che avrebbe
continuato a girare, mentre per lei il tempo smetteva di scorrere.
Nessun
sibilo, né un rumore la infastidiva, disturbando quella tediosa quiete.
Il Nulla
l’aveva accolta nel suo muto candore.
Non le
restava altro da fare che abbandonarsi a quella sensazione.
A breve, il
gelo l’avrebbe accolta tra le sue infide braccia, fino a penetrarle dentro.
Lo avrebbe
sentito scorrere di nuovo dentro di sé.
Tanto forte
da intorpidirla totalmente.
Avrebbe
sconvolto la sua vita.
La sua
mente.
I suoi
Ricordi.
Avrebbe
dimenticato il tocco gentile di sua madre.
La profonda
voce di suo padre tremare di gioia nel pronunciare il suo nome.
Non li
avrebbe più potuti ringraziare per aver cercato di proteggerla.
Non avrebbe
più riso della goffaggine di Tonks o dell’espressione buffa del piccolo Harry
nell’immergere il suo nasino nella tazza di cioccolata.
I pochi
ricordi dei suoi amici già iniziavano ad essere solo delle immagini sfocate.
Prive di
significato.
Non avrebbe
mai più sentito quel calore tanto intenso da sembrare assurdo, stretta tra le
braccia di quel ragazzo biondo che stava velocemente diventando uno sconosciuto.
No.
Non voleva
tutto ciò.
Hermione non
voleva dimenticare.
Voleva andare
avanti.
Era ancora
persa nell’orrenda sensazione dei suoi pensieri quando avvertì il tremore delle
ciglia lungo le guance tiepide.
Quasi come se
i suoi occhi pretendessero di aprirsi a tutti i costi.
Sbatté più
volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco il luogo in cui si trovava.
Era stesa su
di un comodo letto, tra morbide lenzuola azzurre, con ricami di aredesia.
Le stesse con
le quali sua madre aveva risistemato il letto il giorno prima che tutta quella
storia avesse inizio.
Quelle che
avevano cullato le sue notti insonni.
Erano quelle,
ne era certa, tuttavia c’era qualcosa di diverso.
Tutto era
diverso.
Il sole
filtrava attraverso la finestra alla sua destra.
Illuminava la
stanza con la sua luce.
Non era
accecante ed intensa, ma fievole e piacevole.
Fece forza su
braccia e gambe per alzarsi.
Non era stato
per nulla faticoso.
“Non dovresti
alzarti.”
Draco era
apparso sull’arco della porta come dal nulla.
Indossava un
paio i pantaloni neri, da taglio classico, su cui aveva abbinato un maglione a
collo alto.
Era grigio.
Più scuro
rispetto ai suoi occhi cinerei.
Con una calma
misurata, il ragazzo si avvicinò al letto, sedendosi sul bordo esterno.
Un po’
distante dalla ragazza.
Sempre in
silenzio, con estrema cura, soffiava contro la nuvoletta di fumo fuoriuscente
dalla tazza che stringeva nelle mani.
Il suo
intenso profumo la colpì con tutta la sua dolcezza.
La dolcezza
di quel gesto.
“Bevi, ti
farà bene.” – le consigliò porgendogliela.
Hermione
aveva seguito ogni suo movimento.
La sua
disinvoltura nel muoversi in quella casa era a dir poco inconcepibile.
Sembrava che
vi si trovasse lì da molto più tempo di lei.
Ogni sua
azione, poi, qualunque spostamento non le sembrava insolito.
Tutto era
così familiare.
Portò la
tazza alle labbra e con la punta della lingua ne saggiò il contenuto.
Era tiepido e
forte.
Frizzantino.
Quel profumo
che sembrava essere diventato suo.
O come se lo
fosse sempre stato.
Qualcosa che
faceva parte di lei e che – finalmente – tornava a suo posto.
Thè alla
menta.
Ancora.
Connubio
perfetto tra due gusti diversi.
Opposti che
sembrano cercarsi l’un l’altro, mescolandosi alla perfezione, fino a quasi non
poter più distinguere dove termina il penetrante aroma della menta ed inizia il
gradevole gusto dell’infuso.
L’acre e il
dolce.
Bene e male.
Giusto e
sbagliato.
Un’unica e
perfetta essenza.
“Dove lo hai
trovato?” – chiese sorpresa.
Strano,
nemmeno sapeva di averlo in casa.
Forse non ci
aveva mai fatto caso da quando era tornata, scambiandolo per semplice thè.
Probabilmente
era stato riposto su un altro ripiano…
Draco
aggrottò le sopracciglia.
“Dove lo
abbiamo sempre riposto.” – rispose con sufficienza e facendo spallucce.
La Granger si
impensierì all’istante.
…o quasi
certamente il suo inconscio si rifiutava volontariamente di farci caso.
Il ragazzo
cercava di mantenere la calma, mettendo a tacere il senso di impotenza che
l’aveva pervaso quando Hermione gli si era accasciata tra le braccia.
L’aveva
subito riportata a casa, raggirando gli incantesimi di protezione che loro –
insieme – avevano attivato.
Inizialmente
aveva pensato che si trattasse di un semplice e banale malore, dovuto ad
eccessivo stress.
Aveva pur
sempre perso i suoi migliori amici.
Durante
l’attesa si era concentrato sul loro incontro.
Ripensato
alle parole della ragazza.
Al fatto che
non lo riconoscesse.
Il timore che
pian piano aveva iniziato ad invaderlo, però, lo aveva privato di un’adeguata
lucidità per poter arrivare ad una conclusione.
Più le
lancette dell’orologio poggiato sul mobile accanto al letto giravano, più
Hermione non mostrava segno di voler riaprire gli occhi.
Avvertiva il
fiato del Panico gravargli sul collo.
Lo
accompagnava, mentre misurava la camera da letto con falcate ansiose.
Non sapeva a
chi rivolgersi, né a chi chiedere aiuto e l’idea di Aberforth
portarla al San Mungo era la cosa migliore da fare.
Aveva deciso
di attendere l’ultima mezz’ora, quando si era alzato per la prima volta dalla
poltrona di fronte al letto, per concedersi una tazza di thè per cercare di
distendersi.
Solo trenta
minuti.
Magari si era
allarmato per nulla.
Potevano
accadere tante cose.
Hermione
poteva svegliarsi
Trenta
minuti, però, a volte possono essere troppi.
A volte
possono bastare pochi attimi.
Un battito di
ciglia e al suo ritorno Hermione aveva incominciato a muoversi.
Le sua
palpebre a tremare leggermente.
Le sue dita a
tendersi per liberarsi dal fastidioso torpore.
Draco era
rimasto fermo sull’entrata.
Spaventato e
sollevato al tempo stesso.
Con il fiato
sospeso per l’attesa.
Il cuore a
mille per il timore di aver preso un abbaglio.
Poi la
ragazza aveva aperto gli occhi e cercato di alzarsi.
A quel punto
la sua agitazione sarebbe dovuta calmarsi.
Il suo cuore
doveva ricominciare a battere regolarmente.
Invece, si
era fermato.
Per un
secondo aveva smesso totalmente di battere, per poi scoppiargli nel petto,
insieme la gioia immensa che provava in quel momento.
Hermione
buttò giù ciò che restava della bevanda ambrata.
Socchiuse gli
occhi, sorseggiando lentamente aspettando con trepidazione che la sensazione
della rivelazione la colpisse nuovamente come nella caffetteria.
Questa volta
voleva concentrarsi con tutte le sue forze, cercando di afferrare quel ricordo
che le sfuggiva.
Ma non
accadde nulla.
Quando riaprì
gli occhi, incontrò solo il volto di Draco voltato verso la finestra, illuminato
dalla luce aranciata del sole.
Non rimase
delusa, anzi.
In quel
momento avrebbe voluto che fermare il tempo.
Congelarlo in
qualche modo.
Uno
qualunque.
Bloccare
quell’istante, per poterlo vivere ancora e ancora.
Abbassò il
volto, poggiando la tazza sul mobile accanto al letto.
Che stupida!
Nemmeno la
magia avrebbe potuto fare tanto.
Provò
nuovamente ad alzarsi.
Prontamente,
l’ex Slytherin le posò una mano sulla spalla, facendola ristendere.
C’era
apprensione nel suo gesto, ma anche gentilezza.
“Per la barba
di Salazar, Granger!” – sbottò contrariato –“Sei sempre la solita testarda.”
Portò
l’indice all’altezza del naso della riccia, i cui occhi saettavano dallo sguardo
preoccupato di Malfoy alla punta del suo dito che le sfiorava appena le labbra.
Senza trovare
una ragione, si trovò a trattenere l’aria.
“Ti ho detto
che no devi muoverti.”
Si era
agitato così tanto, che delle ciocche gli erano ricadute sulla fronte.
La ragazza
annuì con la testa, coprendo con una mano un piccolo risolino divertito, poi si
bloccò.
Era tutto
così vero e naturale.
Tutto ad un
tratto – in un baleno – si trovò ad immaginare un meraviglioso sorriso
dipinto su quelle labbra.
Una fragorosa
risata illuminare quel volto innaturalmente scarno.
Di lì a pochi
istanti lui l’avrebbe cinta a sé e lei avrebbe affondato il viso nell’incavo del
suo collo.
Ne era
sicura.
Era sempre
così che accedeva.
Discutevano.
Lui faceva
finta di arrabbiarsi, poi finivano con fare la pace, abbracciandosi.
Lo sapeva.
Ma cosa
sapeva esattamente?
Di cosa era
così certa?
Si trattava
solo di una semplice fantasia.
“Dove lo
abbiamo sempre riposto.”
Loro.
Insieme.
Hermione si
rabbuiò all’istante.
Forse tutto
quello, le sensazioni che stava vivendo, non erano frutto della sua mente.
Della volontà
di voler ricordare per forza qualcosa.
“Come facevi
a sapere dove avevamo riposto il thé?” – chiese a bruciapelo.
“E tu come
mai non lo sapevi?” – sputò di rimando il biodo, inarcando le sopracciglia e
assottigliando le labbra nel solito ghigno.
“Malfoy, non
si risponde ad una domanda con un'altra domanda, non lo sai?” – ribatté l’altra.
“Granger!” –
esalò nervosamente –“Un Malfoy non bada a queste formalità. Lo sapresti, se
solo…”
Non voleva
dirlo.
Non voleva
nemmeno pensarlo.
“…ricordassi!” – terminò, invece, Hermione in un sussurrò.
Il tardo
pomeriggio si stava aprendo nelle prime luci della sera.
La luce
iniziava a scarseggiare.
“Non ricordo
nulla, Draco.” – ripeté stringendo le coperte tra le dita per reprimere la
voglia di urlare.
Il risolino
sarcastico stava lentamente svanendo dal volto del biondo.
Si stava
spegnendo
Un sogghigno
Fiero e sprezzante.
Falso e
menzognero.
Cosa
nascondeva dietro quella maschera di arroganza?
Paura.
Per il
ragazzino che non era mai stato.
Costretto a
pagare una colpa che non aveva mai commesso, cercando di uccidere il preside
della sua scuola.
Timore.
Per il
ragazzo che aveva deciso di essere.
Deciso a
vivere sull’orlo del baratro ed aspettare di compiere un passo falso da un
momento all’altro, pur di effettuare una scelta.
Quella
giusta.
La sua.
Quella di
restarle accanto.
Terrore.
Per l’uomo
che era diventato.
Incapace solo
di pensare alla realtà.
Per quello
che stava vivendo.
Perché tutto
quello non poteva essere vero.
Nella mente
di Draco – nei suoi pensieri – aveva iniziato a risuonare solo il vuoto.
L’ipotesi che
la Mezzosangue avesse perso al memoria, in qualche modo, gli era balenata in
testa, ma l’aveva immediatamente scartata, scacciando quell’idea fin troppo
concreta.
Erano passati
tanti mesi da quando si erano visti l’ultima volta.
Era
assolutamente normale che non lo riconoscesse, del resto, Azkaban lo aveva
cambiato e anche la Granger era cambiata.
Forse
anche lui avrebbe stentato nel riconoscerla.
Vane speranze
e ragionamenti contorti ai quali aveva cercato di aggrapparsi, chiudendo
prepotentemente gli occhi per non credere.
Approfittando
di quel silenzio, Hermione aveva iniziato a raccontare la storia del suo
risveglio.
Ogni
parola, ogni dettaglio le lasciava in bocca l’amaro retrogusto della menzogna e
della finzione.
Draco, dal
canto suo, si limitava ad ascoltare quel fiume di parole.
Era in grado
di coglierne ogni sfumatura.
Sofferenza.
Delusione.
C’era anche
riconoscenza in quelle lacrime invisibili che lui aveva imparato a
riconoscere.
Di cui spesso
ne era la causa primaria.
Durante sere
in cui, rincasando a notte fonda, la trovava seduta nel mezzo del letto cercando
di trattenere le lacrime e di non sprofondare nel dubbio, era solito avvolgerla
nella calda sicurezza dei suoi sentimenti.
Avvinghiarsi
al suo corpo, mentre lei rispondeva all’abbraccio con movimenti insicuri
ed impacciati.
Incerti.
Ambigui.
Sospetti.
Come avrebbe
reagito la ragazza, se lo avesse fatto ora?
Come avrebbe
reagito, se l’avesse stretta tra le sue braccia?
Forse doveva
chiedersi, piuttosto, come avrebbe reagito la sua Hermione?
Dannazione!
Non lo
sapeva.
Era assurdo.
Non poteva
aver dimenticato il tutto che avevano costruito.
Quel loro
che era nato.
“Poi” – la
mezzosangue, intanto, continuava il suo racconto –“pochi giorni fa, ho trovato
una foto e da quella sono arrivata a Grimmauld Place.”
Qualcosa
colpì Draco, convincendolo ad aguzzare l’udito più di quanto non stesse già
facendo.
“Quale foto,
Hermione?”
La ragazza lo
scrutò incuriosita, colpita da quell’improvviso tono allarmato.
“Una foto
scattata ad Hogwarts, è nel cappotto. Puoi..”
Cosa diavolo
stava facendo?
Stava per
dirgli di prenderla.
“Puoi
portarmelo qui?” – aggiunse, invece.
Insieme alla
diapositiva, nella tasca del soprabito c’era ancora la lettera.
Sebbene tutto
fosse ormai finito, non voleva che qualcuno ne venisse a conoscenza, tanto meno
Malfoy.
Non era per
una questione di sicurezza, come si era trattato per Tonks.
Non si
sentiva in colpa, davanti a lui.
Era il peso
dell’imbarazzo a bloccarla questa volta.
Non voleva
che Draco Malfoy scoprisse quella parte di lei troppo intima che per sé stessa.
Non voleva
assolutamente che il ragazzo riuscisse a percepire i sentimenti che animavano
quella lettera.
Afferrato il
giaccone che le aveva porto, lo poggiò al suo fianco per estrarre la diapositiva
ed allungarla al ragazzo.
Il volto del
biondo rimase impassibile.
I lineamenti
contratti in una maschera di profonda e seria indifferenza.
I suoi occhi,
invece, sembravano sorridere, brillando di una luce a metà tra la mestizia e
gioia.
Li rabbuiava
e ravvivava al tempo stesso, rendendoli ancor più intensi.
Come un pozzo
senza fondo in cui Hermione stava precipitando.
Non aveva
paura.
Non era come
cadere, ma aveva l’impressione di volare, sospinta da un leggero soffio
di vento.
Un tocco
gentile che ti avvolge, fino a farti perdere al cognizione del tutto,
smarrendosi in una piacevole immensità.
Draco non
battè ciglio.
Non aggiunse
una parola.
Quasi gli
sembrava di non poter più respirare.
Senza
staccare gli occhi dalla giovane Gryffindor immortalata accanto ad uno violento
strappo che lacerava lo sfondo verdeggiante con un’irregolare venatura bianca,
poggiò quella metà sull’angolo del letto.
Portò una
mano alla tasca posteriore dei pantaloni e tirò fuori quello che sembrava un
pezzo di carta troppo vecchio e lacero.
Su più punti
era increspato e spiegazzato spigolosamente.
Il retro era
semplicemente bianco, mentre il fronte era lucido e scuro.
Le grinze
ondulate e spigolose si sperdevano tra il fogliame di quella che sembrava una
foresta.
No, Hermione.
Quello non è
una foresta, né un bosco.
E’ un parco.
“Ma quella…”
Le parole
della ragazza persero il loro senso, davanti al doloroso stupore di cui si era
gonfiato il petto.
Anche
quell’ultimo pezzo aveva trovato il suo posto.
Il quadro
era, finalmente, completo.
“Come fai ad
avere l’altra metà?” – cercò di rincarare.
Le parole
arrancarono per l’ansia.
Ogni lettera
quasi bruciava per la fatica che costava nel pronunciarla.
Draco fissava
la foto nella sua totalità, quando le sue labbra si corrugarono in un amaro e
malinconico sorriso.
Quanto tempo
era passata da allora?
Anni?
Secoli?
Quante cose
erano cambiate?
Quella era la
prima fotografia babbana che lo ritraeva.
L’unica
scattata ad Hogwarts.
Una delle
tante accanto ad Hermione.
“Il nostro
settimo anno ad Hogwarts.”
Scandiva ogni
parola con greve calma e lentezza, come se dovesse focalizzarle nella sua mente,
prima di pronunciarle.
Parlava più a
sé stesso che alla ragazza.
“Questa foto
fu scattata da quell’ impiastro di Canon. Aveva usato quell’aggeggio babbano
modificato dal padre della Donnola…oh”
Ricordatosi,
improvvisamente, della presenza della Granger, si voltò verso di lei per
osservare la sua reazione davanti ai nomignoli rifilati ai suoi amichetti.
La
mezzosangue di un tempo lo avrebbe schiantato seduta stante.
La ragazza
davanti ai suoi occhi, invece, assorta ne silenzio, osservando l’altra metà
della foto.
La ammirava
con sospetto.
La scrutava
con stupore.
La sua
confusione turbava oltre ogni limite il povero Draco.
Dannazione,
Granger!
Cosa diamine
ti è successo?
Cosa ti ho
fatto?
Socchiuse gli
occhi, passando una mano tra i biondi capelli.
Lo faceva
sempre quando era nervoso ed ultimamente accadeva spesso.
Non che da
ragazzino fosse più calmo, ma allora si sfogava su Potter.
Le
scazzottate con lo Sfigato erano sempre un toccasana per il suo umore
perennemente sotto terra.
Dopo si
sentiva decisamente meglio.
Come quella
volta!
“Io e Potty,
come al solito, si stavamo prendendo di mano. La causa? Il campo da Quidditch. I
nostri orari di allenamento coincidevano il più delle volte.”
Il ragazzo si
perse nel lontano piacere della spensieratezza di quei momenti.
Giorni
in cui le discussioni con il Trio dei Miracoli movimentavano le sue tediose
giornate, solitamente scandite dal monotono suono dei pensieri che lo
accompagnavano fin da bambino.
Istanti
passati sul suo manico di scopa, volando alto, fino a sentire il profumo del
cielo. Avvertire il tocco freddo dell’aria sulla pelle e sentirsi un tutt uno
con essa.
Libero.
“Penso che
San Potter non si sia mai accorto che occupassi di proposito il campo. Piton,
poi, chiudeva volentieri un occhio sulla cosa, trovando sempre ottime scuse da
propinare ai Gryffindors.” – celiò con distacco.
Poi, tutto
cambiò improvvisamente.
Si accorse
che non serviva toccare il cielo con un dito per sentirsi felice, ma bastava
fermarsi anche poco più in giù.
Forse era
iniziato proprio quel giorno.
“Mi duole
ammetterlo, ma qual giorno fu Potter ad attaccar briga per primo. Il tempo di un
destro ben piazzato ed arrivaste tu e Lenticchia per separarci.”
Ghignò
divertito per poi riprendere.
“Stavo per
sfoggiare una delle mie gloriose battute, ma mi precedesti. Scaricasti sullo
Sfregiato una serie di epiteti poco eleganti. Dopo la gloriosa lavata di capo,
lo mandasti in infermeria con Weasley.”
Di colpo, il
tono di voce si era affievolito.
Era di poco
più udibile di un sussurro ed aveva perso tutta la sua cadenza euforica,
divenendo greve e malinconica.
“Ti voltasti
verso di me e, indicando il labbro sanguinante, mi chiedesti come mi sentivo.”
Anche il
biondo aveva preso a fissare la foto.
Le immagini
si susseguivano nella sua mente, cose se le osservasse scorrere su di una
diapositiva magica.
I pugni
saldamente serrati intorno al manico di scopa, cercando di aggrapparsi per non
cadere nell’improvviso vuoto che si era aperto sotto i suoi piedi. Perché era
così che si sentiva qual giorno.
Svuotato di
tutto.
Certezze.
Obiettivi.
Idee.
Era stata
quella domanda inaspettata a mandarlo in confusione o forse aveva da sempre
vissuto così e la Mezzosangue non aveva fatto altro che aprirgli gli occhi?
Questo non lo
sapeva e, a dirla tutta, nemmeno gli importava. Né allora, né a distanza di
anni.
Hermione non
trovava il coraggio di interromperlo, frastornata e allo stesso tempo atterrita
dal dolore che traspariva dal tono di voce del ragazzo.
Lo stesso
sentimento che appannava gli occhi del ragazzino nella foto.
Lo sguardo,
vacuo e smorto, dava l’impressione che chiedesse aiuto.
E lei?
Cosa aveva
fatto?
“Cosa è
successo dopo?” – chiese freneticamente, ridestandosi dai suoi pensieri.
Era stata la
curiosità a costringerla ad aprir bocca, non la ragione. Questa sembrava ancora
vagare a vuoto dopo l’ultimo mancamento e sicuramente avrebbe preferito rimanere
all’oscuro di tutto.
Avrebbe
preferito barcollare nel dubbio e crogiolarsi in quella illusione, perché
queste, a volte, sono più vere del mondo che ci circonda.
“La scuola
terminò ed entrambi ci perdemmo di vista.” – sghignazzò amaramente.
“D’altronde
le nostre strade erano già segnate.
Voi,
l’inseparabile Trio di Silente, siete diventati Aurors.
Io, Draco
Lucius Mafloy, Mangiamorte.”
Sputò quel
paragone, tanto scontato per il mondo, con tutto il risentimento che aveva
covato con il tempo. Con irrequieta calma, aveva alzato la manica sinistra del
dolcevita fin sopra al gomito.
Un segno di
morte si specchiò nelle iridi dilatate dell’ex Griffyndor, insieme ad un
timoroso scintillio.
“Che..” –
espirò lentamente – “che cos’è?”
“E’ il
Marchio Nero, Hermione.”
La ragazza
allungò l’indice e il medio, delineando le spire di quel serpente che
fuoriusciva dalla bocca di un teschio nero che risaltava sulla sua pelle
diafana.
Quell’immagine non imbrattava quel candore, non si sovrapponeva al suo braccio,
ma lo completava.
Il Marchio
Nero era parte di sé stesso e gli spettava di diritto.
Hermione
sembrava non mostrarsi minimamente turbata dalla presenza di un Mangiamorte in
casa sua e non uno qualunque, ma quello che aveva ucciso il suo migliore amico.
Per quanto
cercasse un minimo di paura dentro di sé, non ne trovava traccia.
Avrebbe
dovuto essere spaventata, gridare aiuto e cercare di scappare, invece si sentiva
fin troppo calma. Forse era questa la cosa che più la preoccupava.
In qualche
modo, sapeva che Draco Malfoy non le avrebbe fatto del male.
“E’ vero, sei
stato tu ad uccidere Harry?”
I battiti del
silenzio accompagnarono quella breve attesa, poi Draco rispose “Tu cosa credi,
Hermione?”
Il tono non
voleva essere enfatico o ansioso, ma con il tempo aveva dimenticato come celare
i suoi sentimenti.
La colpa, o
il merito, era proprio della ragazza davanti ai suoi occhi.
Piangere,
temere, sognare e amare non era da deboli, ma umano.
Sorrise nel
puntare gli occhi in quelli di Hermione. Sentiva la loro intensità sondarlo nel
profondo, alla ricerca di certezze e risposte.
Fu la ragazza
a cedere per prima, abbassando lo sguardo perché abbagliata dalla luce della
consapevolezza del non sapere.
“Quando è
iniziata la guerra abbiamo combattuto su fronti diversi.”
Lentamente,
si allontanò da letto, dirigendosi verso la finestra.
“Due
ragazzini che combattevano per valori diversi. Sai quale era la differenza? Sono
stato cresciuto come un opportunista e non potevo fare altrimenti: non credevo
in ciò per cui combattevo. Tu, invece, sì e per questo ti ammiravo.”
La riccia
rimase di stucco dinanzi a quelle parole.
No per il
tono solenne con cui erano state pronunciate, ma per l’aurea veritiera di cui
erano avvolte.
Vere e
sofferte.
Una dolorosa
ammissione, certo, ma sincera.
“Le cose per
Riddle, però, iniziarono a complicarsi. Voleva distruggere Potter lentamente,
partendo dalla sua emotività. Colpendo le persone che li stavano accanto. La sua
mente geniale, però, non aveva tenuto conto di due piccoli dettagli.
Uno: Potty,
per quanto sfigato, non era di certo uno stupido.
Due: Dopo lo
scherzetto al quinto anno al Ministero, non si sarebbe fatto cogliere
impreparato, cadendo nella trappola.”
La ragazza
seguiva il suo ragionamento, annuendo ad ogni deduzione.
“Poi” –
continuò –“l’idea che tu potessi essere coinvolta, mia dava tremendamente ed
inspiegabilmente fastidio.”
Pronunciava
quelle parole come se fossero la più scontata delle convinzioni, sebbene allora
– nel buio dei suoi pensieri – bruciassero come uno strappo.
Un lungo
squarcio che divideva a metà la sua persona e che minava i fondamenti di una
vita, rendendo tutto vano ed insignificante.
Inutile, come
quella guerra.
“Poco dopo
decisi di rivolgermi all’Ordine. In fondo Silente si era sempre mostrato
disposto ad aiutarmi. Chiesi a Potter di incontrarci in un luogo sicuro e quello
scelse quella vecchia bettola della Testa di Porco.”
Portò due
dita al mento, meditando su quel ricordo che considerava ancora assurdo.
“Certo che
tenere un incontro segreto in un pub in piena Hogsmeade alla luce del giorno non
rientrava nei mie canoni di sicurezza, ma cercai di sorvolare su questo punto.”
– arricciò le labbra sarcasticamente. “Aberforth mi condusse verso un tavolo più
appartato e lì, ad aspettarmi c’era una vecchiaccia rugosa.
La ragazza si
sciolse un una ilare risata davanti alla faccia sdegnata del biondo.
“Non ti
conviene ridere, Mezzosangue. Eri tu la vecchia.”
Come
scottata, Hermione si bloccò di colpo.
Il sorriso
sulle labbra si rabbuiò e guardò il ragazzo in tralice.
“Suvvia
Granger! Non fare quella faccia. Lo stile da acida zitella ti donava.” –
sghignazzò di gusto.
La mora,
però, non rimase interdetta per l’assurdo travestimento, quanto per
l’appellativo che il biondo aveva usato.
Quella parola
– Mezzosangue – le risultava sempre più familiare.
Così
fragorosa e spensierata, come la risata di Draco.
“Purtroppo,
lo Sfregiato non riusciva nemmeno a decidere cosa mangiare a colazione se prima
non chiedeva il vostro parere. Tuo e di Weasley. Quel giorno, però, il rosso non
c’era. Accanto a te c’era solo Potty, nascosto sotto il Mantello
dell’Invisibilità. Io parlavo, lui ascoltava e tu ponevi le domande.
Da quel
giorno abbiamo iniziato ad incontrarci regolarmente ogni tre giorni e funzionava
sempre allo stesso modo. Vi passavo diverse informazioni, per quanto mi era
possibile. Vi tenevo al corrente degli spostamenti di Voldemort e dei suoi
piani. Vi aiutavo ad organizzare le imboscate agli altri Mangiamorte per
interrogarli. All’inizio la faccenda si mostrava più semplice del previsto, ma
la situazione non si discostava di molto poi le cose iniziarono a cambiare. A
complicarsi.
Il Signore
Oscuro aveva capito che c’era qualcuno a remargli contro e che questo qualcuno
agiva dall’interno.
Iniziò a
passare in rassegna tutti, alla ricerca dello stupido che si era fatto colpire
da un Imperius o, peggio, di colui che si era venduto.”
La sua voce
tremava, ma non per lo sforzo.
Quanta fatica
c’era nel raccontare quella vicenda?
Nessuna.
Temporeggiava, cercando di non lasciarsi sopraffare dalla disperazione che
accresceva nel suo animo.
Pause e
parole si ricorrevano a vicenda, nascondendosi l’una dietro le sfumature
dall’altra.
Sfuggivano
dalla paura provata davanti alla figura agonizzante di Theodore Nott o
nell’ascoltare le invocazioni di morte di Goyle, la cui mente veniva
letteralmente invasa e frantumata dalla prepotente furia del loro Signore.
No, non c’era
dolore.
Solo
terrore.
Un sentimento
che oramai gli apparteneva.
Intrappolato
nella plumbea prigione del suo sguardo spavaldo, lo avrebbe accompagnato per
sempre.
La notte,
quell’apprensione, si divertiva a tenerlo sveglio, scivolando lungo i suoi nervi
tesi.
Ululava
insieme al vento, durante le tempeste.
Il giorno
rimbombava nella sua testa, mentre attendeva il suo turno.
Prima o poi
il suo Signore avrebbe convocato anche lui.
Certo, con il
tempo, grazie alla cara zia Bellatrix, era diventato un abile Legilimens
ed aveva fatto dell’Occlumanzia uno dei capisaldi della sua vita, tuttavia, per
quanta determinazione poteva impiegare per sigillare la sua mente, risultava
ugualmente troppo debole per opporsi al Lord Oscuro.
L’idea di una
fuga lo aveva sfiorato più e più volte, ma equivaleva ad offrirsi su di un
piatto d’argento, accompagnato da una pergamena con su scritto COLPEVOLE.
Era bizzarro,
ma essere il figlio di Lucius Malfoy, in quel frangente, non gli era di nessun
aiuto.
Anzi.
Il suo
fallimento nell’Ufficio Misteri aveva compromesso l’intera famiglia.
Grazie a suo
padre, quindi, non rientrava nelle grazie di Voldemort, ma doveva ammettere che
egli stesso aveva contribuito ad alimentare l’astio nei suoi confronti con il
mancato “omicidio” del vecchio preside.
In sostanza,
non aveva alternative.
Potter era
stato abbastanza furbo da tenergli nascosto il luogo in cui l’Ordine aveva sede.
Nel momento
in cui l’Oscuro avrebbe violato la sua mente si sarebbe imbattuto nei suoi
galanti incontri con una vecchia megera.
Non serviva
la presenza dello Sfergiato per incastrarlo, ma bastava la sua parola, i loro
discorsi.
Sarebbe stata
la fine per lui e lui soltanto.
Non sapeva
quali fossero i membri dell’ordine.
Non sapeva
nemmeno che Piton ne facesse realmente parte. Aveva sempre creduto che la sua
fosse solo una copertura, un giorno, però, lo aveva sottratto dalle grinfie del
suo destino.
“Abbiamo un
aggancio per trovare il luogo in cui Potter si nasconde.” – aveva detto, mentre
Draco seguiva suo padre, dirigendosi al cospetto del loro Signore.
Lucius
nascose l’improvviso attacco di bile che lo aveva colpito dietro un sorriso
sghembo e tirato.
Voleva essere
lui a scovare il Bambino Sopravvissuto, riacquistando un minimo di prestigio,
invece si ritrovava costretto a rinchiudersi nell’antico Maniero, sperando che
la spia che stavano cercando non si nascondesse nella mente di suo figlio.
I lineamenti
del volto gli si rilassarono appena, quando Severus gli rivelò che il ragazzo
gli serviva in laboratorio.
“Devo
lavorare ad una pozione e ho bisogno del suo ausilio. Lui ne è già al
corrente ed ha acconsentito.”
Entrambi –
padre e figlio – tirarono un silenzioso respiro di sollievo.
Draco aveva
salva la vita.
Lucius
conservava quel poco di prestigio che gli restava.
Ammantati e
in silenzio, entrambi abbandonarono la dimora dei Malfoy.
Il ragazzo si
era limitato a seguire il suo ex professore, senza far domande.
Una volta
abbastanza lontani, Piton lo aveva smaterializzato di peso.
Si strinse al
braccio dell’uomo al suo fianco, sentendo improvvisamente la terra franare sotto
i suoi piedi.
L’aria iniziò
a vorticare intorno ai loro copri.
Chiuse gli
occhi per qualche istante e, quando li riaprì, si ritrovò in un quartiere della
Londra babbana.
Si sentiva a
disagio in mezzo a quella gente così comune.
Non era per
gli sguardi incuriositi che lanciavano loro mentre percorrevano un breve tratto
di strada a piedi.
Nonostante le
continue sparizioni di cui sentivano parlare, anche se non ne conoscevano la
causa, tutti loro sembravano felici, cose che per lui risultava quasi
sconosciuta.
Forse,
pensandoci bene, era per questo che li odiava così tanto e non per il loro
sangue.
Completamente
immerso nelle sue considerazioni, non aveva fatto caso il loro tragitto era
finito e ce si erano fermati davanti all’ingresso di un enorme edificio bianco
ad angolo.
Piccole ed
eleganti arcate si affacciavano sulla strada principale.
Non era molto
alto e sulla sua sommità la struttura terminava con un’ampia vetrata.
Severus gli
dava le spalle, osservando nervosamente il portone in vetro e ferro battuto.
Sulla
facciata si rifletteva la luce gialla del semaforo dall’altra parte della
strada, quando il battente più ampio dell’ingresso si spalancò.
Senza ombra
di dubbio sapeva che quella non era la sede dell’Ordine.
Potter e la
sua combriccola non erano tanto sprovveduti da scegliere un posto tanto vistoso
come quartier generale, mai si sarebbe aspettato di trovare lei.
La Granger.
Era riduttivo
dire che rimase stupito nel vederla.
Da quando
aveva iniziato a passare loro informazioni, l’aveva sempre vista sotto le
spoglie di una bisbetica quasi sdentata e i suoi ricordi di Hogwarts non lo
aiutavano per nulla e non coincidevano con la donna che si trovava
davanti.
Che fine
aveva fatto la So-tutto-io dentona?
Che ne era
stato dei suoi ricci crespi e ribelli?
Quella
meravigliosa creatura non poteva essere Hermione Granger.
Si era
sentito piacevolmente frastornato davanti a quelle iridi dorate.
Tanto
intontito da non capire come si fosse ritrovato spinto dall’altra parte del
portone.
La
Mezzosangue lo aveva condotto fino all’ultimo piano, fornendogli le spiegazioni
su cui Piton aveva sorvolato.
“Credevi sul
serio che ti avremmo lasciato lì alla mercè di Voldemort?” – pronunciava quel
nome, temibile per molti, con tono fiero, ma altrettanto rispettoso.
“Hai una
pessima concezione dell’Ordine, allora.” – ridacchiò, mentre con uno scatto
apriva l’unica porta presente sul pianerottolo.
Gli aveva
spiegato che quella era casa sua, ma preferiva stanziarsi a Grimmauld Place con
i suoi amichetti. Per questo motivo non aveva avuto problemi a metterla a sua
disposizione.
Gli aveva
offerto un rifugio.
Aveva
iniziato a recarsi lì quasi tutte le notti.
Solo...
A volte
dormiva, ma la maggior parte del tempo la trascorreva a pensare.
...con i suoi
pensieri.
Poteva farlo
liberamente, senza dover stare continuamente in allerta, vigile per sfuggire a
sguardi indiscreti.
Spesso si
perdeva nei suoi vaneggiamenti fino ad addormentarsi senza rendersene conto.
Il mattino
seguente si svegliava con i raggi del sole che si sperdevano tra i suoi capelli
biondi sparsi sul bracciolo del divano.
Il calore del
mattino riscaldava le sue guance fresche, ripercorrendo i lineamenti rilassati
del suo viso. Gli baciava le palpebre, invitandolo a svegliarsi.
Quando si
avvicinava alla vetrata del salone, il mondo si tingeva di nuovo, brillando di
mille e mille colori.
Il fatto che
si fosse trasferito lì non aveva cambiato o semplificato le cose tra lui e
l’Ordine.
Continuava a
passare informazioni sui piani dei Mangiamorte sempre allo stesso modo.
Nello stesso
luogo.
E la
Mezzosangue si presentava sempre con lo stesso travestimento.
Da quando si
era recato al suo appartamento, non si erano più incontrati, ma il ricordo di
quel giorni lo teneva compagnia.
Lo scintillio
dei suoi occhi illuminava i suoi sogni.
Il profumo
dei suoi capelli lo accompagnava mentre terminava di essere solo Draco e tornava
ad essere un Mangiamorte.
Appena
metteva di nuovo piede tra le fila dei servitori dell’Oscuro, il suo buon umore
si atterriva.
Il mantello
nero, la maschera che era costretto ad indossare.
Tutto stava
diventando troppo stretto.
Durante le
battaglie cercava di darsela a gambe appena poteva.
Qualche
Stupeficium deviato, Cuciatus mal piazzati e, arrivato al primo angolo, si
smaterializzava nei pressi dell’imponente edificio bianco.
La Granger
aveva già pensato ad installare diversi incantesimi di protezione e sicuramente
aveva aggiunto trucchetto per tenerlo sotto controllo.
La fiducia
non è mai troppa.
Tuttavia, si
trattava di tutte cose che poteva facilmente raggirare per accedere direttamente
nell’appartamento, ma preferiva non mettere a repentaglio quel piccolo Paradiso
e raggiungerlo facendosi quattro passi a piedi.
Durante gli
scontri, era solito tener sott’occhio Hermione
La osservava
contrattaccare, respingere gli incantesimi ed atterrare i Mangiamorte.
Una sera –
una come tante – la ragazza aveva appena respinto con un Protego un incantesimo
di Dolohov, poco distante dal suo nascondiglio, quando un Auror lo aveva
intravisto e scagliato contro uno Schiantesimo.
Il colpo era
partito prima ancora che potesse accorgersene, troppo occupato ad esultare per
le capacità dell’ex Gryffindor.
Troppo tardi
per innalzare una barriera, aveva chiuso gli occhi in attesa dello schianto, ma
qualcosa di duro, invece, andò a scontrarsi contro il suo torace.
Ruzzolò a
terra, pochi metri più distante dal luogo in cui si era precedentemente
nascosto.
Dietro un
muretto appartato.
Il peso che
avvertiva sul suo petto si rivelò essere Hermione.
Inerme e tra
le sue braccia.
Quella
stupida doveva essere passata mentre l’incantesimo si avvicinava e ne era stata
travolta in pieno.
Forse non era
così intelligente ed acuta come tutti credevano.
Indeciso su
cosa fare, sentì le voci della Piattola e dei gemelli pezzenti avvicinarsi,
mentre cercavano la ragazza.
Non potevano
trovarli lì.
Nessuno,
oltre la Granger e Weasley, sapeva della sua collaborazione con Potter.
Avrebbero
pensato che fosse stato lui a farle del male.
Non poteva
accadere.
Così, decise
di smaterializzarla con sé.
Giunto a
casa, dritto in quella che aveva dedotto essere la camera della ragazza, la
distese sul letto e rianimata con un Innerva.
Il pallore
dell’unico raggio di luna che filtrava dalla finestra le illuminava il volto con
la sua luce. Si infrangeva contro le sue ciglia, bagnandole le palpebre, mentre
la ragazza cercava di riaprire gli occhi.
Non poteva
farle del male.
Da quando
Hermione era così bella?
Quando aveva
iniziato a chiamarla Hermione?
Da quando gli
importava conoscere la risposta a queste domande?
Aveva
aspettato che si riprendesse per spiegarle l’accaduto.
Quando la
ragazza gli aveva spiegato che non si era trattato di un incidente, ma che si
era frapposta volontariamente per intercettare l’incantesimo, le parole gli
vennero meno prima ancora di formularle, mentre la bacchetta gli andava di
traverso.
“Non lo
meritavi quello Schiantesimo, anche se non ti avrebbe fatto male.” – disse
facendo spallucce e ridacchiando.
Un sorriso
dolce e radioso.
Cristallino e
in grado di afferrarti l’anima.
Ancora una
volta aveva preso le sue parti, come quel giorno ad Hogwarts.
Al suono di
quel ricordo il sangue sembrò gelarsi nelle vene e il cuore perdere un battito.
Qualcosa si
mosse in lui facendogli tremendamente male.
Doveva essere
più pallido come un cencio, poiché la Granger gli si era avvicinato chiedendogli
come si sentisse.
Di nuovo.
Le mani della
ragazza, piccole ed aggraziate, corsero alla sua fronte.
Il loro
calore a contatto con il freddo del sudore che imperlava la sua fronte lo fece
rabbrividire.
Tremava
per la sola ebbrezza di averla così vicino.
Si guardò
attentamente intorno, tirando un lungo sospiro.
Respirava
profondamente l’aria di complicità che iniziava ad avvolgerli.
Il suo cuore
batteva all’impazzata, facendolo sentire vivo.
Aveva lo
sguardo fisso negli occhi della strega.
La sue iridi
mielate si erano fatte pericolosamente grandi e vicine.
Provava un
irrefrenabile desiderio di affondare le dita in quella cascata di ricci.
“Sto bene.” –
rispose piano.
Si sentiva
incomprensibilmente bene.
La bruna
dapprima rimase interdetta, poi sbuffò accigliata.
Stava per
ribattere, ma non potè formulare nessun pensiero, nessuna risposta tanto sagace
da zittirlo, che Draco poggiò le labbra sulle sue, reprimendo con un bacio
l’involontario ed inconsapevole sorriso che le stava nascendo.
Ebbe la
prontezza di afferrarla per i polsi, in modo da non farsi respingere, ma la
reazione della Mezzosangue fu totalmente inaspettata.
Sospirò e
mugugnò qualcosa di incomprensibile per poi arrendersi tra le sue braccia.
Come se
qualcosa l’avesse convinta che lottare era terribilmente inutile.
Non si
irrigidì, nè si oppose.
Stanca ed
appagata, si abbandonò alla pienezza delle sensazioni che accompagnavano quel
bacio, schiudendo le labbra ed avvicinandosi di più al corpo del ragazzo.
Le sue dita
all’altezza del petto si muovevano freneticamente.
Frugavano nel
suo animo.
Nel suo
cuore.
In ciò che
credeva di non possedere.
Meravigliato,
il biondo interruppe quel momento che aveva dell’incredibile.
Se la
risposta della ragazza al bacio l’aveva sconcertato, la decisione che le leggeva
negli occhi ebbe il potere di smarrirlo.
Quanto ancora
doveva stupirlo quella Mezzosangue?
Perché, tutto
ad un tratto, era diventata così speciale?
Con le labbra
scese a sfiorarle la fronte, mentre con il pollice le carezzava la guancia
rosea.
Se il mondo
aveva iniziato a girare al contrario, avrebbe fatto di tutto per far sì che
continuasse a farlo.
Il passo che
separa il bene dal male – il giusto da ciò che è sbagliato – è troppo breve e
Draco aveva superato quella soglia.
Forse lo
aveva fatto inconsapevolmente quando ancora era un ragazzino diciassettenne.
Magari lo
aveva oltrepassato proprio durante le notti passate con Hermione.
Incontri
scanditi dal suono dei loro ansimi e respiri che disperdevano nel silenzio che
li avvolgeva.
Insieme
avevano potenziato gli incantesimi di protezione e l’Auror Hermione Granger
aveva iniziato a trascorre meno tempo al quartier generale per potersi recare da
lui.
Lo faceva
sempre di nascosto, dicendo che non le andava di rispondere a domande assurde
sui suoi atteggiamenti, visto che nessuno era a conoscenza della sua
collaborazione.
C’era solo
una persona che sapeva di loro.
Potter.
Draco non
aveva mai avuto dubbi a riguardo, ma ne ebbe la certezza quando una mattina,
dopo una notte intera passata di pattuglia con li altri Mangiamorte, l’ex
Gryffindor si presentò al posto della ragazza.
Per la prima
volta entrambi avevano parlato senza che volassero pugni o incantesimi.
Lo Sfregiato
aveva mandato al diavolo la sua copertura, con la consapevolezza del rischio che
correva nel caso in cui Malfoy fosse stato scoperto, solo per conoscere le sue
intenzioni con la Granger.
“Malferret,
non ho tempo da perdere, quindi cerchiamo di tagliar corto.” – aveva detto
quella mattina Potter, poggiandosi all’arco della porta con braccia conserte.
Il biondo
sfoggiò un sorriso sghembo.
Non lo
avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma lo Sfregiato gli mancava.
“Non avrei
mai detto che la tua fosse una visita di cortesia, Potty.” – lo canzonò
marcatamente di rimando.
Il moro
sospirò con calma.
“Allora, cosa
vuoi?” – chiese in fine Draco.
“Hermione mi
ha parlato di voi.”
Entrambi
avevano abbandonato ogni tono sarcastico ed aggressivo.
Malfoy si
incamminò verso il salone, dritto verso il divano.
Quella
sarebbe stata una conversazione dura da sopportare.
Molto dura.
Harry rimase
fermo davanti alla libreria, fisso ad osservare il silenzio del ragazzo.
Non mostrava
la benché minima intenzione di voler rispondere.
In fondo,
però, si trattava solo di una constatazione gettata lì nel discorso.
Non gli aveva
rivolto nessuna domanda.
Non ancora.
“Posso sapere
quali sono le tue intenzioni?” – rimediò.
Maledetto
Sfregiato.
L’ex
Slytherin serrò la mascella, stringendo le mani sul bracciolo del divano.
Aveva cercato
di evitare di domandarselo da quando si era risvegliato per la prima volta nella
camera da letto di Hermione, con i suoi capelli riversati sul suo torace nudo e
il suo braccio che gli cingeva la vita.
Assolutamente
non voleva rispondere.
Con timorosa
calma, l’Auror si avvicinò nello stesso momento in cui il ragazzo si stava
voltando, trovandosi contro una bacchetta puntata alla sua fronte.
“Ma cosa
diamine significa?” – deglutì nervosamente.
“Mi spiace
Malfoy, ma i patti con Hermione erano chiari: se di fosse presentata l’esigenza
io ti avrei obliviato e lei ha accettato, sicura delle sue convinzioni. Siccome
tu non collabori, non mi resta altra scelta.” – chiarì con determinazione. “A
quanto pare, Hermione si era sbagliata.”
Quelle parole
tanto aspre lo accecarono.
Pizzicavano e
bruciavano, come gocce di limone che strisciavano su vecchie ferite.
Cosa lo
bloccava?
Il domani.
Pensare ed un
loro equivaleva a dover pensare al domani.
Aveva smesso
di farlo dall’estate del suo quinto anno, quando il futuro era diventato
appannato e precario.
In quei
giorni non sapeva nemmeno se avesse rivisto sua madre durante le vacanze
invernali.
Se la luce
del solo lo avesse nuovamente accompagnato mentre si dirigeva alle lezioni.
Non sapeva
nemmeno se sperare in un futuro.
“Non lo so.”
– dedusse mentalmente.
“Non lo so.”
– ripetè ancora.
Harry allentò
la presa sulla bacchetta e l’abbassò lentamente.
“Potter non
guardarmi così. Mi irriti.” – abbaiò davanti allo sguardo stranito del Bambino
Sopravvissuto.
“E tu prova a
spiegarti, invece di ripeterti.”
“Io..io non
so quali intenzioni abbia. Fino a ieri non sapevo cosa sarebbe stato di me.”
Prese una
lunga pausa, per poi riprendere di nuovo, come se avesse riflettuto su quello
che gli era accaduto.
“Poi mi sono
ritrovato qui. Lei, poi…”
Lei poi…
Erano parole
sconnesse ed affannate quelle che pronunciava, ma, in fin dei conti, avevano
senso.
…era Lei.
Le sue labbra
si piegarono in un sorriso spontaneo.
“E’ così..”
“Così dolce,
gentile, sensibile, testarda, irrimediabilmente Gryffindor. Unica e
speciale.” – terminò l’Auror.
“Già.” –
convenne l’altro.
“Pensaci
bene, credi sul serio di meritarla?”
Pensaci
Draco.
No! Non aveva
fatto assolutamente nulla per meritarla.
Nulla.
Anni interi
passati ad insultarla, quando avrebbe potuto…cosa?
Conoscerla
meglio?
Anzi, no,
imparare a conoscerla?
Speranze.
Sogni.
Desideri.
Sciocchezze.
Pnesaci
Draco.
La meriti?
“Sì”
– disse
con convinzione.
Mentì con
fermezza.
Da quel
momento in avanti, avrebbe fatto l’impossibile per meritarla.
“”Bene,
Mafloy.” – sospirò il Prescelto, mentre riponeva accuratamente la bacchetta,
felice di non averla usata. “Stai meglio?”
“Credo di
sì.” – disse con titubanza.
“Ne sono
contento.”
Diede una
vigorosa pacca sulla spalla del biondo, guadagnandosi un’occhiataccia torva.
“Dici sul
serio?”
I due si
guardarono negli occhi per qualche istante, poi torsero le labbra indignati.
“Certo che
no, Furetto.”
Si diresse
verso l’uscita.
“Il mio
compito qui è terminato.”
Poggiò la
mano destra sul freddo pomo d’ottone della porta di ingresso e si voltò
nuovamente, mutando subito espressione, diventando da divertita a greve e seria.
“Ricorda
Malfoy: Hermione si fida di te ed io mi fido di lei. Falle del male – un solo
passo falso – e te la farò pagare.” – scandì per poi uscire.
Da quel
giorno, Potter non si era più fatto vivo.
Anche le
informazioni, oramai, le passava direttamente ad Hermione, evitando la solita
mascherata e continuando la loro vita tra vecchi film, libri disseminati sul
pavimento.
Ore
interminabili trascorse distesi su di una coperta, assaporando una tazza di thè
alla menta, in compagnia dei riverberi argentei della luna e dei silenziosi suoi
della città assopita.
Quello che
sembrava un vero idillio, però, ci mise poco a tramutarsi nell’ incubo che
stavano vivendo.
“Ero tenuto
all’oscuro delle vostre riunioni, tuttavia, quando avevi dei problemi, non
esitavi a parlarmene. Pian piano iniziasti a confidarti, raccontandomi del tuo
primo anno ad Hogwarts. Di come avevi legato con i tuoi amichetti. Mi mettesti
al corrente degli Horcrux e della missione che vi aveva affidato
Silente. Poi, iniziasti a rivelarmi i vostri piani.”
Ad ogni
parola, il suo tono di voce cresceva.
Spensierato.
Euforico. Inebriato.
Proprio come
si sentiva allora.
Hermione
continuava ad ascoltarlo.
Di tanto in
tanto alzava lo sguardo verso il ragazzo, per riabbassarlo l’istante dopo.
Troppe erano
le parole che avrebbe voluto dire, domande da rivolgere.
Tutte lì, a
fior di labbra, ma non appena apriva bocca, le parole venivano schiacciate dalla
tediosa atmosfera che aleggiava loro intorno.
Gravava su di
loro pesante come il piombo.
“Non mi ero
mai sentito così, mai provato tali sensazioni. Il solo fatto che ti aprissi con
me, che io avessi qualcuno che mi ascoltasse, mi faceva sentire
importante…” – ricominciò il biondo, ma senza terminare.
“Speciale.” –
sospirò la ragazza, cupa in volto.
Sapeva
benissimo cosa si provava quando si ha dentro qualcosa che risuona come un
allarme.
Un problema o
un pensiero che ci fa sentire unici.
Soli.
Invisibili,
perché non c’è nessuno al mondo in grado comprenderci.
“Un giorno
riuscii ad avvertirvi di un loro attacco con largo anticipo, così da permettervi
di coglierli di sorpresa, ma qualcosa andò storto.”
L’espressione
della riccia si allarmò di punto in bianco.
Il sangue
aveva abbandonato le guance per pulsare violentemente nelle tempie.
“Sta
tranquilla Mezzosangue!” – la tranquillizzò, percependo la sua preoccupazione
–“Voi Aurors aveste la meglio, ma Voldemort non era presente allo scontro, come,
invece, era stato previsto. Qualcuno doveva averlo informato della vostra
imboscata.” – spiegò con fin troppo assurda calma.
“E chi era
stato?” – finalmente chiese la Granger in un sussurro.
Malfoy
respirò lentamente.
Qualcosa gli
ostruiva la gola, impedendo all’aria di giungere ai polmoni.
Un brutto ed
intricato nodo alla gola che sembrava straziarlo.
O forse era
la risposta alla domanda di Hermione che lo tormentava così tanto?
“Io fui
l’unico a non prendervi parte, né con voi né con i Mangiamorte.” – ammise.
Chiuse le
mani a pugno, tenendole a stento ferme, tremando dalla voglia di colpire
qualcosa.
Le stringeva
vigorosamente, come se volesse reprimere qualcosa.
Schiacciarla
o negarla.
Qualcosa come
l’evidenza.
“Appena gli
altri si smaterialiazzarono, io ritornai qui. Ti aspettai tutta la sera.
L’intera notte. Ero sicuro che non ti fosse accaduto nulla – dovevo esserne
sicuro – ma tu non tornavi.
Alle prime
luci del mattino decisi di venirti a cercare. Non sapevo come, ma ti avrei
trovata.
Non appena
aprii la porta, però, tu eri lì.
Ad entrambi
parve di annegare.
Hermione
nella disperazione fin troppo familiare cui erano permeate quelle parole.
Draco
nel buio del ricordo della sua figura davanti alla porta.
Le braccia
esili che ricadevano lungo il corpo.
Stanche.
Il capo chino
e il corpo scosso da brividi convulsi.
Fragile e
vulnerabile.
Piangeva
sommessamente, cercando di reprimere i singhiozzi, ma le lacrime le rigavano il
volto, per poi cadere nel vuoto ed infrangersi sul marmo del pianerottolo.
Ognuna di
quelle gocce – di quei lievi lamenti – lo atterrivano, ma fu il suo sguardo a
straziarlo definitivamente.
Iridi dorate
in grado di donargli la vita per poi stapparla via un istante dopo.
Gemme che lo
schiacciavano sotto il peso della loro fosca luce.
Il peso
dell’ombra della delusione.
“Mi chiedesti
il perché della mia assenza, dove fossi stato e il tuo tono diveniva sempre più
accusatorio. Ti spiegai dell’idea di Piton, che per me fosse meglio non farmi
vedere. Non riuscii a mettertene al corrente perché lo avevo saputo solo dopo
essermi recato da lui.
Tu rimanesti
lì, immobile. Poi ti gettasti tra le mia braccia, Ma non mi credevi, Hermione.”
Non gli
credeva e lo notava dall’insicurezza dei suoi gesti, dalla sua improvvisa
assenza.
“In realtà
pensavi che fossi stato io ad avvertirli del vostro arrivo.” – terminò.
Quando lei
non c’era, durante la notte, si sentiva ancor più solo di prima.
Continuava a
dormire nel loro letto, sperando in un suo improvviso ritorno, ma si
addormentava mentre l’aspettava.
Si girava e
rigirava nel letto, stendendo un braccio verso la sua destra, ma Hermione non
c’era.
“Quando ci
incontravamo, anche se ti sforzavi per non farmelo notare, percepivo il tuo
disagio. La mia regale presenza non era più desiderata.” – rincarò con amaro
sarcasmo –“Così, un giorno decisi di andarmene definitivamente, approfittando di
una delle tante sere in cui preferivi tornare a Grimmauld Place. Portai via
tutte le mie cose. Trovai questa foto e la strappai portando con me la metà che
mi ritraeva. Cercai di fare in fretta. Non per paura che tornassi
all’improvviso, ma perché temevo di non riuscire a farlo. Dovevo scappare da
qui, da te.”
Prese una
lunga pausa, cercando di riordinare le idee.
“Ti stavo
abbandonando.”
Hermione si
sentì investita da un’ondata di aria fredda.
Una gelida
folata di vento l’aveva travolta, trapassandola da parte a parte con la sua
violenza, impedendole di muoversi, di parlare o di pensare.
Una raffica
di vento che le ululava nelle orecchie, portando con sé parole che conosceva e
che ora non le sembravano più tanto insensate.
Sono fuggita
da Grimmauld Place!
Per l’ultima
volta.
Avevo bisogno
di ritornare qui dove tutto è terminato.
Quando sono
arrivata, lui non c’era.
Era andato
via.
Era scappato
da me, che un tempo ero stata la sua salvezza.
Ancora una
volta, come solo pochi giorni prima, le parole di quella lettera che aveva
trovato le scorrevano davanti agli occhi.
Fluide.
Naturali.
Vere.
Sue.
Spazio autrice:
Questa
volta non mi dilungo nei singoli ringraziamenti, ma un paio di righe devo
scriverle.
Grazie sul serio, e di cuore, a tutti coloro che mi sono state vicine e che
mi hanno incoraggiata.
Grazie alla famigliaH, perché mi è sempre vicina.
Grazie a tutti voi che state leggendo e siete arrivati fin qui.
Abbiate
ancora un pizzichino di pazienza.
Grazie
mille,
La
Dea.
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