Elisabeth Warren correva con la
macchina lungo la Extension, all'altezza dell'aeroporto di Derry. Il
suo pick-up sembrava quasi urlare nel silenzio della strada. Il sole
rosso del tramonto illuminava l'asfalto davanti e dietro di lei.
Fermò la macchina sulla pista ciclabile. Probabilmente si sarebbe
presa una multa da record, con tanto di rimozione del veicolo. Ma in
quel momento non le importava. Adorava la sua auto, di norma.
Appunto, di norma. Ora odiava tutto e tutti. Odiava la sua vita,
odiava se stessa. Chiuse a chiave l'auto e si avviò a piedi verso lo
slargo dove normalmente si mettevano i venditori con le loro
carabattole. Adorava camminare in quella zona. Beh, in generale,
adorava guidare per un po', e poi sgranchirsi le gambe prima di
rimontare in macchina e tornare a casa dal suo neo-marito. Elisabeth
aveva venticinque anni compiuti da tre mesi. Aveva sposato Damian
Warren un mese dopo il suo compleanno. Dio, come amava il suo Damian!
Ma allora, perché quella sensazione così opprimente al petto?
Avrebbe dovuto essere contenta come una pasqua, e invece, giusto due
settimane prima, era andata da uno psichiatra perché “si sentiva
un po' strana”. E lo psichiatra le aveva diagnosticato una malattia
mentale “dovuta probabilmente ad una questione irrisolta”.
Bastava scoprire qual era il problema da risolvere e il più era
fatto. Già, semplice... come no? Una cosina da nulla! Di una cosa,
almeno, era sicura: Damian non c'entrava con la sua “depressione”,
come la chiamava lei, anche se continuava a comportarsi come se fosse
colpa sua. Elisabeth stava facendo l'impossibile per calmarlo, e
fargli capire che il problema era dentro di lei. Lui si calmava per
un po', e poi ricominciava a chiederle scusa. Era come un gatto che
si mordeva la coda: avevi un bel dire che non doveva morderla, lui
comunque continuava.
“Buonasera, signorina!”. Elisabeth
si fermò di colpo. Assorta com'era nei suoi pensieri, non si era
accorta di essere arrivata allo slargo delle “bancarelle”. A
salutarla era stato un uomo di mezz'età, piuttosto tozzo e con
l'aria amichevole, seduto sotto ad un ombrellone giallo, dietro ad un
tavolino da pic-nic.
“Oh, buonasera! Signora, a proposito!
Sono sposata.” chissà come mai, ci teneva sempre a fare questa
precisazione. Prima di sposarsi, ci teneva a farsi chiamare
signorina. Ora ci teneva a farsi chiamare signora. Paradossalmente,
prima di sposarsi la chiamavano signora. Ora che era sposata,
ovviamente, signorina.
“Sposata, ed è qui senza il suo bel
maritino?” l'uomo sghignazzò. Ed Elisabeth si mise automaticamente
sulla difensiva. Non sapeva perché, ma era certa che quell'uomo
fosse decisamente pericoloso. Anche se, ed era certa anche di questo,
non l'avrebbe aggredita. Non sapeva perché avesse quella certezza,
eppure non le veniva in mente di metterla in dubbio neanche per un
secondo.
“Mi piace stare un po' per conto mio,
a volte.” ammise. Poi allungò la mano “Elisabeth Warren, molto
piacere.”
“George Elvid, per servirla.”
Gli occhi di Elisabeth corsero al
cartello che stava appoggiato al tavolino da pic-nic del signor
Elvid.
“'Le giuste estensioni'?” domandò,
incuriosita. Si sedette sulla vecchia sedia malridotta di fronte al
tavolino e a quello strano uomo.
“Eh, già.”
“Mi scusi, ma di cosa si tratta,
esattamente?”
Elvid fece un movimento strano, quasi a
volersi mettere più comodo sulla sedia. Poi incrociò le mani sul
tavolo, come se dovesse iniziare una conferenza.
“Diciamola così” disse, con un
sorriso che a Elisabeth sembrava più un ghigno “lei è giovane,
carina... scommetto che le piace fare shopping!”
Elisabeth annuì vagamente, prima di
pigolare qualcosa tipo “sì, ogni tanto...”. In verità era una
ragazza molto sobria, da quel punto di vista. Non amava andare per
negozi a vedere cosa comprarsi, se andava in un negozio,
genericamente sapeva già cosa prendere. Andare a fare compere senza
sapere di cosa aveva bisogno la faceva innervosire, il più delle
volte non comprava nulla, oppure qualcosa di completamente inutile
che la faceva sentire... frustrata! Come un bambino a cui si promette
un giocattolo che alla fine non arriva mai.
“Bene, in quel caso, potrei farle
un'estensione di credito. Così potrebbe spendere tutti soldi che
vuole.”
Elisabeth fece un vago ghigno. “Intende
dire che mi regalerebbe soldi?”
Elvid la fissò con evidente disprezzo.
“Niente è gratis, a questo mondo, signora. Logicamente chiederei
qualcosa in cambio.”
La sensazione di pericolo si acuì.
'Forse perché quest'uomo è un pazzo furioso... chissà se a Juniper
Hill manca un paziente?'... fu in quel momento che si accorse di
essere sola con quell'uomo. Dove di solito c'erano una decina di
bancarelle, si vedeva lo spiazzo deserto. 'Perfetto! Una ragazza di
venticinque anni e un tizio da manicomio soli in una zona isolata!
Complimenti, Elisabeth! Bel colpo!' pensò istericamente.
“Quindi lei è... un usuraio?”
Elvid la guardò un attimo, sorpreso,
poi scoppiò a ridere. Rideva così forte le pancia sussultava, aveva
praticamente le convulsioni. E aveva anche le lacrime agli occhi...
'ma sbaglio' si ritrovò a pensare Elisabeth 'o quelle lacrime sono
rosse? Sembrano sangue... e i denti... com'è che mi sembrano i denti
di uno squalo?'
Ci mise un po', ma Elvid smise di
ridere, e si asciugò le lacrime.
“No, signora, non sono un volgare
usuraio! Non vengo a pignorare i mobili in caso di mancato pagamento,
non alzo gli interessi sulle rate della restituzione... diciamo pure
che non lavoro solo sull'umile denaro.”
“E allora, mi può spiegare in cosa
consiste il suo lavoro?” ma perché diavolo non si alzava e
scappava a gambe levate? Quel tizio le metteva i brividi!
“L'ho già spiegato, signora.”
rispose pazientemente Elvid “estensioni. Io allungo qualsiasi cosa
voglia il mio cliente. E intendo qualsiasi. Anche il pene, volendo.
In cambio chiedo un piccolo pagamento.”
Elisabeth comprese, di colpo, il motivo
reale per cui quell'uomo le sembrava così pericoloso. Non era mai
stata molto abile nei giochi di parole, per esempio Ruzzle la faceva
impazzire dal nervoso. Eppure il suo cervello, così scarso in giochi
simili, forse comprendendo ad un livello profondo il pericolo in cui
si trovava, aveva scomposto il nome Elvid e lo aveva ricomposto in...
“Mi sta dicendo che vuole la mia
anima?” esalò la ragazza, sbiancando. Tuttavia rimase seduta lì.
“Ma perché mi pensano tutti così
squallido? Anche un suo concittadino, qualche anno fa, mi fece la
stessa domanda! No, no, signora, le pare che camperei di anime, di
questi tempi?”
“Un mio concittadino? E chi?”
chiese Elisabeth, sorpresa, pur immaginando che non avrebbe ottenuto
risposta.
“Non fornisco i nomi dei clienti,
signora. Le basti sapere che gli ho dato un'estensione di vita. Ora,
veniamo a lei” rispose Elvid, puntandole contro l'indice grassoccio
“lei ha bisogno di un'estensione?”
A Elisabeth venne una sorta di
vertigine. Era sempre lì seduta, a guardare Elvid con aria
perplessa, ma si sentiva precipitare in un baratro. Se aveva bisogno
di un'estensione? Magari un'estensione di felicità...
“E perché le servirebbe?”
Elisabeth batté le ciglia. Non si era
resa conto di aver parlato a voce alta.
“Beh, vede... mi hanno diagnosticato
una malattia mentale... una brutta forma di depressione.”
“Aah... gran brutta bestia, quella!”
esclamò Elvid, con aria solidale.
“Già. Dicono che se non prendo
psicofarmaci e non comincio una cura psichiatrica al più presto, il
rischio che io mi ritrovi idee suicide a perseguitare la mia già
fragile psiche è molto alto...” il tono della giovane era
incredibilmente amaro.
“Se mi è concesso dirle una mia
opinione personale, il medico che le ha dichiarato una cosa simile è
un criminale! Le malattie psichiche sono argomenti incredibilmente
delicati da trattare, e dirle così aumenta solo la possibilità che
lei peggiori!”
Elisabeth si asciugò una lacrima. Si
sentiva come se avesse un macigno enorme posato sulle spalle. Aveva
tentato di non far preoccupare nessuno, con la sua malattia. In
fondo, era solo “depressione”, con un po' di forza di volontà
l'avrebbe superata. Non voleva ammettere, soprattutto con Damian, di
essere terrorizzata.
“Almeno le hanno detto in cosa
consisterebbe la sua terapia?”
“Oh,” biascicò lei “anni di
psicoterapia nella vaga speranza che le cose migliorino. Il medico
l'ha fatta molto più semplice di quello che è, pare che basti
capire cosa mi ha fatto ammalare, e lavorare per risolverlo. Ma ho
fatto qualche ricerca sulla forma della mia depressione, e pare che
in realtà non ci sia nessuna garanzia che la terapia funzioni. Non
so se guarirò mai, a questo punto.”
“Certo che lo farà.”
“Come?” Elisabeth era sbalordita.
Davvero aveva fatto un patto con... con...
“Le ho appena fornito
un'estensione... beh, un'estensione di realtà, più che di felicità.
Avrà una percezione migliore di quanto le accade intorno.”
“Ah.” cadde il silenzio. “Tutto
qui?”
“Ovviamente no!” Elvid prese
un'aria da 'non dirmi sciocchezze!' “Ci sono due cose da fare
perché il patto sia valido. La prima è scaricare la negatività che
le ho tolto da qualche altra parte.”
“Come?”
“Signora, ha mai sentito parlare di
equilibrio? Ecco, il male e il bene sono in perfetto equilibrio. Per
ogni gesto malvagio, ce n'è uno buono a fare da contrappeso. Per
ogni fatto positivo, ce n'è uno negativo a mantenere questo
equilibrio. Non si può cancellare del tutto una parte di negatività
o di positività, toglierebbe l'equilibrio. La negatività che ho
tolto a lei, deve andare da qualche parte. Deve andare da qualcuno,
per la precisione.”
“E chi? Insomma, non si può fare in
modo che vada a qualcuno che non conosco?”
“Naaa, la formula dello scaricabarile
anonimo è già stata tentata, e non funziona. Questo è un genere di
patto per cui ci si deve assumere le proprie responsabilità. È
troppo comodo scaricare a chi non si conosce un carico di negatività,
rende troppo semplice il lavarsene le mani. No, deve scaricarlo su
una persona che conosce. Rende più facile il tutto se la odia.”
Elvid sorrise. E la sua bocca prese ancora l'aspetto delle fauci di
uno squalo. Elisabeth rabbrividì.
“Coraggio, Elisabeth. Te lo leggo
negli occhi, che hai qualcuno a cui scaricare il tuo peso.”
La ragazza si sentiva come in trance,
distante dal tavolino, dalla strada, dal suo stesso corpo. Quando
parlò, la sua voce risuonò come da lontano.
“Odio... il mio ex. Ramon Lopez.”
Elvid sogghignò “un cliché,
insomma.”
“Dubito che ci siano tante persone
che odino i loro ex. Magari lo fanno, in un primo momento, ma poi
passa. Io invece lo odio profondamente da cinque anni, ormai.”
“Non sei così sola come pensi, a
provare questi sentimenti. Coraggio, spiegami come mai odi il tuo
ex.”
“Perché.. perché...” oh,
dannazione, una volta tanto poteva anche sputare il rospo! “È un
bastardo!”
“Oh, andiamo! Lo dicono tutte le
donne, sugli ex!”
“Sì, ma lo dicono sull'ex traditore,
e spesso non lo sentono più!”
“Ragioni per luoghi comuni.”
“Chissenefrega!” strillò lei “non
credo siano tante le donne con un ex che non solo le tradiva, ma
rigirava la frittata in modo da dare la colpa a loro! Era così che
funzionava! Era giusto scoparsi un'altra, se ci restavo male era solo
colpa mia! Perché credeva in quell'enorme stronzata della legge
dell'attrazione! Anzi, no, non proprio, credeva che la legge
dell'attrazione valesse solo per gli altri! Se lui scopava un'altra
donna, era colpa mia che attraevo quella situazione!” Elisabeth
singhiozzò.
“Ah, un gran bel caso di narcisismo
patologico, insomma!” Elvid fece un sorriso di comprensione.
“Ero arrivata al punto che ormai
alzavo le mani su di lui. Ma non per aggressività mia. Cioè, sì,
suppongo di essere piuttosto energica, di mio. O forse no, vista la
mia malattia. Ma non avevo mai alzato le mani su nessuno, in tutta la
mia vita. Solo su di lui, che pretendeva di sapere tutto di me, di
poter curare le mie paure. Di sapere cose in più di me!”
“E invece?”
“Era ignorante come una zappa! Non
sapeva neanche scrivere il suo nome senza errori grammaticali! E mi
trattava come se fossi l'ultima ignorante sulla faccia del pianeta!”
Elvid sollevò un sopracciglio, con
un'espressione indecifrabile.
“Dannazione” continuò Elisabeth,
con la netta sensazione di aver appena fatto esplodere un bubbone “io
sono laureata! In letteratura inglese! Non dico di essere una
cervellona, ma neanche l'ultima stupida degli stupidi! Ed ero
arrivata all'esasperazione più totale. Alzavo le mani su di lui
perché non riuscivo più a controllare la mia rabbia nei suoi
confronti. George, hai una vaga idea di cosa vuol dire avere un
idiota che sghignazza come un matto mentre gli urli che non ne puoi
più di essere trattata come una merda?”
“Ma perché non l'hai lasciato?”
“Perché sono stupida io, ed
estremamente abile lui. C'era la combinazione di tre fattori a
tenermi legata a lui. Il primo era il mio bisogno di amore. Il
secondo era il fatto che, nonostante tutto sapevo che tipo era. Come
lo sapevano i miei, che mi rinfacciavano ogni giorno l'aver scelto un
uomo sbagliato. E io volevo mostrare loro che avevano torto.”
“E il terzo?”
“La sua abilità a sfruttare i primi
due fattori e a farmi credere che aveva bisogno di me.”
“Magari ce l'aveva davvero.”
“Certo. Aveva bisogno di me per
sentirsi il migliore. Ma a discapito mio, e della mia salute
mentale.”
Elvid si passò la mano sul mento, con
un sorriso compiaciuto.
“Poi, di colpo, è sparito! Se n'è
andato! Non aveva più bisogno di me! Con tutto quello che ho fatto
per lui, all'improvviso ha deciso che non gliene fregava un cazzo! Ha
avuto problemi legali, è stato accusato di truffa, ma pare che in
realtà fosse il suo migliore amico ad essere la causa di quel
problema. E lui doveva fare una sintesi dei fatti, in modo tale da
sottoporla ad un giudice. Ma, come ho già detto, la sua grammatica
era estremamente scarsa. Così l'ho aiutato a riscriverla. Settimane
intere sul computer a riscrivere quello schifo di relazione. Poi, ha
avuto problemi sul lavoro, e ogni giorno mi chiamava lagnandosi. E io
ad ascoltarlo. E via discorrendo! Poi, puff! Sparito! E lo avesse
fatto dicendomelo! No!” Elisabeth praticamente urlava, il respiro
affannoso. Inghiottì saliva, prima di continuare, con voce più
tranquilla, anche se spezzata “Vedi, George, ho diverse amiche.
Alcune di esse si lamentano perché sono state lasciate dai loro ex
via sms. Mi sono ritrovata a pregare di trovarmi al loro posto!
Almeno i loro ex hanno avuto abbastanza rispetto per loro da
informarle che era finita. Io neanche quello ho avuto.”
“C'è dell'altro, vero?” Elvid
sembrava quasi leggerle nella mente.
“Sì. C'è dell'altro. Anni fa, stavo
passando un brutto momento. Ero in rotta con i miei, Ramon mi
trattava come spazzatura. Dove lavoravo c'era questo ragazzo...
bello, ma... non potevo immaginare che fosse così bastardo da...”
“Da?”
“Da tendermi una sottospecie di
trappola. Avevo bevuto troppo, e quel tizio mi ha portata a casa sua.
E ho trovato la 'bella' sorpresa. C'era anche un suo amico, lì.”
“Oh. Stupro?”
“Quasi. Non sono stata malmenata,
nessuno mi ha costretta a fare niente. Solo ero confusa, in cerca di
un qualsiasi conforto. Quando ho capito che intenzioni avevano, mi ha
preso il panico. Mi sono bloccata, di conseguenza non me ne sono
andata e, peggio, non mi sono opposta. L'ho vissuto come uno stupro,
ma in realtà non era uno stupro. Solo l'errore estremamente
umiliante di una ragazzina stupida e disperata.”
“E questo cosa c'entra con il tuo
ex?”
Elisabeth inghiottì forte, nel
tentativo di rilassare la gola dolorante. “Dopo quello che è
successo, non avevo il coraggio di rientrare in casa. Come avrei
potuto guardare in faccia i miei dopo quella sera? Così sono andata
da lui. Da Ramon. Sapevo che non mi amava, ma si dichiarava mio
amico. E speravo che, da amico, mi desse il conforto di cui avevo
bisogno. Ovvio che mi sbagliavo...”
“Magari ti ha cacciata definendoti
una puttana.”
“Magari! No. Mi sono fiondata tra le
sue braccia, piangendo. E lui ha borbottato qualche frase fatta,
stringendomi. Dopo un po' l'ho sentito tremare leggermente. Mi sono
discostata, e... e... rideva! Quel bastardo rideva!”
Elvid spalancò gli occhi “Quanto a
perfidia, questo Ramon potrebbe addirittura insegnarmi qualcosa!”
mormorò.
Elisabeth ormai aveva le lacrime agli
occhi. “Non mi ero mai sentita così umiliata. Mai! E l'aspetto
ancora peggiore, giusto perché non appena si raggiunge il fondo,
tanto vale cominciare a scavare, è stato non poter dire niente a
nessuno! Quanto avrei voluto dire ai suoi amici che merda fosse
quell'uomo! Ma, ovviamente, sarei risultata paranoica, sgradevole! Mi
hanno insegnato a non abbassarmi mai al livello del nemico! La frase
di Oscar Wilde, sai, “mai discutere con un idiota, ti trascina al
suo livello e ti batte con l'esperienza!' è praticamente il mio
stile di vita... ma mi spinge a tenermi tutto dentro! Lui ora ha un
ottimo lavoro, è sposato con una poveretta che non sa che tipo è,
ha pure un figlio, mentre io non posso neanche concepire l'idea di
averne uno, con la mia malattia! Che razza di vita gli darei? Così,
alla fine dei conti, Ramon è lo splendido, e io la malata di mente!”
La ragazza scoppiò in singhiozzi
affranti. Continuò a piangere per un pezzo, sentendo le spalle
rilassarsi sempre di più.
“Ottimo, Elisabeth, ottimo. Ora,
passiamo alla parte finale del patto.”
Elisabeth lo guardò, un po' sorpresa.
“Eh, già, carina... domani mi
porterai qualcosa che appartiene a Ramon.”
“È così necessario?”
“Certo che sì. Altrimenti il patto
si annulla, e tu ritorni al tuo mondo di psicoterapie e sogni
infranti. Portami qualcosa di suo, domani, e discuteremo anche dei
metodi di pagamento.”
Elisabeth annuì. Poi si alzò e si
avviò verso la macchina.
“Ah, signora Warren?”
Lei si voltò.
“Come mai non se l'è presa anche con
quei due bastardi di quella disgraziata sera?”
Elisabeth aprì la bocca per
rispondere. Poi la richiuse senza dire nulla e se ne andò.
In realtà, aveva tutta una serie di
scuse pronte per rispondere a Elvid. Ma gli aveva già detto troppo.
E non aveva voglia di dire altre scomode verità ad alta voce. In
realtà lei era furiosa anche con quei due. L'unico motivo per cui
non si sfogava era il puro e semplice fatto che era troppo impegnata
ad odiare Ramon. Oltre al fatto che era ancora molto arrabbiata con
se stessa per essersi lasciata trattare come il mero divertimento di
una sera. Al solo pensiero, lanciò un enorme grido che diede un
lieve rimbombo nell'abitacolo del pick-up. Aveva le lacrime agli
occhi, ancora. Aveva raccontato a Damian di quella sera. E grazie a
Dio, lui non l'aveva trattata come una sgualdrina. Ma comunque si
sentiva sbagliata. Non riusciva a liberarsi di quella sensazione.
Si fermò ad un semaforo, e approfittò
della fermata per guardarsi in giro. Ed ebbe un tuffo al cuore. Era
davanti al Monte Trashmore. La vecchia discarica, chiusa anni prima,
guardava Derry come potrebbe farlo un sovrano decaduto. Il suo
proprietario, Tom Goodhugh, era stato l'uomo più ricco di Derry, ma,
a seguito di diverse disgrazie, era praticamente diventato l'ombra di
se stesso. La madre di Elisabeth era stata molto amica della defunta
signora Goodhugh. E una volta l'aveva sentita parlare con suo padre
di come la vita a volte girava, visto che, mentre Goodhugh affondava,
il suo migliore amico, Dave Streeter, sembrava ricevere sempre più
grazie dal cielo. “O forse dall'inferno?” domandò Elisabeth allo
specchietto retrovisore della sua macchina. Nel silenzio
dell'abitacolo, la sua voce suonò sgomenta. “E ti credo!” sbottò
“Ho appena scoperto chi altri, nella mia città, ha fatto un patto
con George Elvid!” |