Parola tremante nella notte (Fratelli)

di suni
(/viewuser.php?uid=4130)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Solo Peter (il bambino che volava e non voleva crescere) ***
Capitolo 2: *** II. Sincerità (per quanto questa ti trasformi in un freak, e tuo fratello con te) ***
Capitolo 3: *** III. Cinque secondi (il tempo necessario a ricordare chi sei) ***
Capitolo 4: *** IV. Vernice (mentire e distruggere opere d'arte genera ampi sensi di colpa) ***
Capitolo 5: *** V. Apri gli occhi (...) ***
Capitolo 6: *** VI. Un povero pirla ( ***



Capitolo 1
*** I. Solo Peter (il bambino che volava e non voleva crescere) ***


Parola tremante nella notte (Fratelli)

 

Serie di istantanee incentrate su Nathan e Peter, durante tutta la prima stagione di Heroes, legate ad alcuni momenti particolari del loro burrascoso rapporto. L’intenzione è di andare in ordine cronologico, ma si vedrà.

Titolo tratto da Ungaretti, l’avrete tutti notato ma è meglio specificare per correttezza: è un verso –in realtà due versi- della poesia “Fratelli”,  che è anche citata tra parentesi.

Spero possano risultare di vostro gradimento.

suni

 

I. Solo Peter

(il bambino che volava e non voleva crescere)

 

 

Da bambino gli piaceva farsi lanciare in aria. Si gettava tra le braccia del suo fratellone prendendo la rincorsa, e quel ragazzo tanto più grande di lui lo scaraventava su e lo riprendeva  al volo appena prima che lui toccasse terra.

Era come volare. Strillava d’euforia strizzando appena gli occhi e ascoltava i suoi polmoni comprimersi in quel momento del salto in cui si sentiva precipitare.

Dieci anni di differenza d’età non permettevano ai loro mondi d’incontrarsi davvero: Nathan era già ragazzino, aveva i suoi amici, la scuola, i passatempi da grande. Ma in quei momenti in cui non aveva di meglio da fare che giocare con lui, tutto il suo mondo diventava più luminoso.

Volava.

E crescendo tutto era rimasto uguale. Tra i sei e i ventisei anni il suo rapporto con Nathan non era granché cambiato, da quel punto di vista. Per certe cose s’erano avvicinati, quando anche lui aveva smesso d’essere un bambino. Per altri versi, la vita invece li aveva allontanati. La politica, il successo, il potere, l’immagine. Il mondo di Nathan. Così lontano e diverso dal suo, profumato di malattia, di medicinali, di silenziose agonie. Con una tracolla in spalla e una giacca spiegazzata, i capelli sempre in faccia e la scarsa voglia di apparire, di essere visto.

Timido, schivo, imbranato, silenzioso, sognatore, la lista degli aggettivi con cui veniva etichettato in famiglia poteva prolungarsi all’infinito, ma il significato era il medesimo, ed era che mentre Nathan era fatto per le luci della ribalta, lui aveva un destino silenzioso e invisibile, come uno qualunque. A lui bastava il suo lavoro da infermiere, la sua famiglia su cui contare e da aiutare, il suo pugno di amici e il suo alloggio qualunque. Peter, niente di più.

Era vero. Tutto questo poteva sembrare ben poco ad occhi esterni, ma lui ci credeva. Era il suo mondo, e il punto non era che non bastasse, perché bastava. Il punto era che non stava scritto da nessuna parte che dovesse essere così per sempre. Il punto era che un bel giorno lui poteva benissimo svegliarsi e decidere che no, che non era semplicemente Peter, che era speciale. Niente lo impediva.

E quel giorno era arrivato.

Sollevò gli occhi verso il cielo pallido e nuvoloso, finalmente sgombro delle sagome squadrate dei palazzi. C’era una leggera brezza molto poco metropolitana che gli sembrava di buon auspicio. Sorrise tra sé, inspirò per mantenere la calma, e allargò appena le braccia.

Da bambino, il solo sentirsi rivolgere la parola da suo fratello lo riempiva d’orgoglio. E quando il suo rapporto col padre s’era incrinato, fino a spezzarsi irrimediabilmente –non era nemmeno venuto alla festa, la sera dell’incidente di Nathan- si era istintivamente appoggiato sul fratello maggiore. Ed era stato brutto percepire via via il suo distacco.

Perché Nathan non era come lui, non lo era mai stato. Nathan non avrebbe fatto granché se fosse stato in un guaio serio, probabilmente. Anche se amava ripetere a se stesso il contrario, se amava dirsi che suo fratello lo considerava importante almeno quando faceva lui, Peter cominciava a non riuscire più a crederci. Cominciava a dubitare che in caso di pericolo lo avrebbe aiutato più di quanto fosse strettamente necessario per non essere accusato d’indecenza.

Era un pensiero triste, forse il più triste che potesse venirgli in mente. Era doloroso vedere suo fratello sempre più lontano, era terribile scorgere nei suoi occhi quella scintilla d’indifferenza e di vago compatimento di chi osserva un perdente. Ma non poteva più far finta che fosse solo la sua immaginazione. Non dopo questa storia dei sogni, non dopo essersi praticamente fatto dare del povero pazzo inutile da Nathan senza tanti complimenti.

Gli voleva bene, suo fratello?

Sì, questo sì. Gli voleva bene perché era il piccolino e perché erano fratelli. Era un legame che anche volendo non avrebbero mai potuto cancellare. Come quando aveva sognato l’incidente proprio mentre avveniva, con sua cognata che si schiantava con la macchina. O più banalmente come quando Nathan si accorgeva che lui aveva fatto un brutto sogno anche prima di sua madre, da ragazzino, ed arrivava per primo accanto al suo letto stringendogli la mano senza dire niente.

O forse gli voleva bene perché doveva farlo, appunto, perché erano fratelli. Forse era l’unica ragione per cui ancora, se non lo appoggiava nei fatti, per lo meno non gli negava il proprio sostegno; non ancora. Ma lui non valeva, comunque, quanto una campagna elettorale.

Lui di campagne elettorali ne avrebbe mandate a monte a dozzine, se fosse stato lui quello da votare e Nathan ad avere bisogno d’aiuto. Avrebbe staccato dal muro il cartellone con la propria fotografia sorridente e sarebbe corso a casa di suo fratello a vedere che poteva fare per lui, e tanti saluti al Congresso. Ma Nathan era diverso. Nathan era Nathan, e a lui andava bene così com’era. Solamente, ogni tanto avrebbe voluto che anche per il fratello valesse lo stesso principio.  Invece no: per il primogenito dei Petrelli, non si trattava del fatto che Peter era Peter ed andava bene così, no; Peter era solo Peter e quindi andava bene così.

O forse no. Forse stava pensando troppo. Ma era confuso, spaccato tra un nervosismo spaventato ed un’ansia febbrile ed euforica, da giorni. Tutto si faceva nebuloso, a pensarci così, attraverso il filtro dell’aspettativa che ormai non riusciva più a tenere sotto controllo.

Sentì il motore della macchina che si avvicinava e sorrise istintivamente, vittorioso; era arrivato il suo momento. Finalmente Peter non sarebbe stato più soltanto Peter e Nathan avrebbe dovuto ammettere la realtà dei fatti. Badando a rimanere a filo oltre il bordo del tetto, per non essere ancora visto –anche se Nathan non era proprio il tipo da perdere tempo a guardare per aria- si sporse appena per guardare verso il basso, e vide il fratello scendere dal taxi con il cellulare incollato all’orecchio. E immediatamente il suo telefono vibrò silenzioso contro il suo fianco.

Lo trasse dalla tasca della giacca, con calma, e premette il tasto della ricezione.

“Ok, sono qui,” lo informò Nathan attraverso l’apparecchio. Annoiato, impaziente di tornare ai suoi doveri di candidato, probabilmente.

“Bene,” rispose lui tranquillo.

E non stette a sentire la risposta, ma allungò la mano al di sopra del baratro e lasciò cadere il proprio telefono nel vuoto, in cuore la ruggente certezza che in quello stesso momento la sua vita stesse per cambiare per sempre.

“Cosa vuoi che faccia adesso?... Peter?”

Suo fratello sollevò lo sguardo verso l’alto nell’udire il rumore dello sfortunato oggetto che andava in frantumi schiantandosi a terra; l’idea di poter fare la stessa fine sfiorò la mente di Peter solo per un secondo e ne fu ricacciata con sicurezza, mentre lo sguardo di Nathan correva sempre più in alto fino a raggiungere la sua sagoma sul cornicione del palazzo.

“Sono rimasto sveglio tutta la notte a pensare a questo. A pensare al mio destino,” urlò il più giovane con sfida, guardando verso il basso trionfalmente.

Nathan Petrelli non era più il candidato del Congresso, d’improvviso, e Peter se ne rese conto con istintiva soddisfazione: la maschera di compostezza era andata in frantumi, lo sguardo spaventato e atterrito del maggiore era fisso su di lui con urgenza e paura.

Paura per il suo fratellino, troppo preso dagli eventi per rendersene conto.

“Cosa stai facendo, Pet?” domandò ansioso, febbrilmente riflettendo su cosa fare e come fermarlo, impotente.

“È il mio turno di essere qualcuno, Nathan.”

Una constatazione. Un velo che si apriva mostrando al Congress man quel che non aveva mai saputo vedere, immerso nel rincorrere il trionfo e la posizione favorevole al successo.

“Dai, Peter, smettila di fare l’idiota,” intimò cercando in qualche modo di trattenere la paura, che diventò terrore muto e totale nel momento in cui Peter spalancò le braccia e chiuse gli occhi, la testa appena sollevata verso l’alto.

Solo per un istante, per prendere fiato e calmare il proprio cuore infiammato, Peter tenne le palpebre serrate e rimase immobile, ignorando il fratello giù in strada, ignorando tutto quel che non era lui stesso. Riaprì gli occhi e sporse il piede nel vuoto, poi si lasciò cadere.

Il suo momento.

Nathan lo vide venir giù come un fantoccio di stoffa, a volo d’angelo. Per un istante lo rivide bambino, quando si faceva lanciare per aria e gli franava addosso come una slavina, facendosi afferrare, e pensò soltanto che lo doveva fare di nuovo, in qualche assurdo modo, che non poteva stare a guardare mentre suo fratello si sfracellava al suolo e gli moriva davanti, perché non l’avrebbe potuto sopportare e sarebbe andato in pezzi anche lui, dentro.

L’istante dopo era per aria, di nuovo, sfrecciava addosso a Peter e lo afferrava con tutte le sue forze, prima ancora di aver capito esattamente come, solo pensando che per nessuna fottuta ragione al mondo doveva lasciarlo andare, e lo chiamò, con tutta la rabbia e la paura che il suo gesto gli aveva fatto esplodere addosso, unite al sollievo di vederlo ancora respirare.

“Peter!”

“Stai volando, Nathan,”

Stupore, voce quasi infantile. Peter lo guardava con gli occhi sgranati, appeso alle sue braccia col vuoto sotto i piedi.

Non era lui quello che volava. Era Nathan. Suo fratello volava, era meraviglioso.

“Stai volando,” ripeté allibito. “Come fai?”

“Non lo so,”

Non lo sapeva, no. Non era proprio che si fosse messo a rifletterci su, in quella situazione, o a chiedersi se fosse il caso di fare a pezzi allegramente ogni legge fisica e spararsi per aria alla faccia della forza di gravità: aveva pensato solo che lo doveva salvare, il suo Peter.

Quello stesso Peter che in quel momento perse la presa e, nonostante la mano di Nathan stretta spasmodicamente su di lui, precipitò di nuovo verso terra.

“NOO!”

L’urlo di disperazione del fratello fu l’ultima cosa che Peter sentì. Curiosamente gli parve d’impiegare molto tempo a toccare terra, ma quando lo fece doveva essere già svenuto.

Nathan invece lo guardò andare giù con la morte negli occhi, nel sangue, nei polmoni  nello stomaco. E gli si spezzò il fiato con un gemito incredulo quando lo vide rallentare la caduta, a pochi metri da terra; come se avesse aperto il paracadute Peter planò quasi delicatamente a terra, anche meglio di quanto avrebbe potuto fare lui che, a quanto pareva, volava.

Raggiungendo il suolo più in fretta che poté gli si precipitò addosso, singhiozzando di sollievo nel constatare che effettivamente era vivo.

“Fottuto pazzo,” sibilò tra i denti perdendo la calma e lasciando affiorare la tensione e l’angoscia provate in quei momenti di terrore. “Sei fuori di testa, maledizione,” mormorò con voce spezzata, stringendo la mano sulla spalla del fratello incosciente con più forza di quanto si rendesse conto e soprattutto con un’urgenza che lasciava pochi dubbi sull’effettiva natura del suo sbotto, non d’ira ma di sollievo.

Recuperò il proprio cellulare, affrettandosi a chiamare un’ambulanza.

E poi si sedette a terra, la mano ancora poggiata non più sulla spalla ma sulla testa di Peter, tra i capelli. La lasciò lì immobile mentre studiava il volto assente del ragazzo, facendo mente locale.

Volava, anche lui.

Gli sfuggì un sorriso incontrollato, cento volte più vero di quello del manifesto elettorale.

Era proprio suo fratello, quel demente.

 

 

 

 

 

 

 

Note di chiusura:

Il dialogo tra Peter e Nathan probabilmente è diverso da quello che conoscete: me ne scuso, ma io non ho visto il telefilm in italiano e ho tradotto direttamente dalla versione originale, probabilmente in modo diverso da quello dei doppiatori. L’ultima parte, invece, è ovviamente farina del mio sacco. E, per la precisione, anche il “bene” che Peter esclama al telefono è roba mia: ho pensato che ci stava bene che dicesse almeno una parola, e del resto nella puntata non si capisce bene se non risponde o se noi non sentiamo la risposta attraverso il telefono di Nathan.

Anche l’episodio dei giochi infantili dei due fratelli è mia invenzione, e mi sembra abbastanza verosimile. Io quel gioco con mio fratello lo facevo in continuazione, come quello di farmi roteare intorno a lui tenendomi alle sue mani; una volta mi ha quasi ammazzata perché ha perso la presa e io mi sono andata a schiantare contro il muro. Eh, i fratelli…

Commentini?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II. Sincerità (per quanto questa ti trasformi in un freak, e tuo fratello con te) ***


 

II. Sincerità

(per quanto questa ti trasformi in un freak, e tuo fratello con te)

 

 

Nathan allungò nervosamente un braccio, senza osare avvicinarsi per paura che il fratello facesse un altro passo indietro.

“Hey…hey, smettila. Ci siamo già passati. Abbiamo già giocato a questo gioco, ricordi?” chiese allarmato, cercando di mostrarsi padrone di sé. “Lasciamo…lasciamo stare, ok?” aggiunse con un sorriso troppo nervoso. Un sorriso nato non per conquistare ma per difendere. Lui. Il suo fratellino.

Peter lo guardò senza rispondere, negli occhi una luce dura e decisa che il fratello non ricordava di avergli mai visto prima. Stava lì, immobile e serio, fissandolo con tranquillità.

“Dimmi cosa è successo. Quando ho saltato. Dimmi che hai volato,” ingiunse con sfida, sospeso sul vuoto oltre il cornicione. Nathan contrasse appena il viso in un a smorfia. “Voglio sentirti dire che hai volato ,” ripeté Peter fermo, guardandolo negli occhi.

Suo padre si era suicidato perché era un depresso cronico. Nessuno si era mai disturbato a farglielo sapere, né ad informarlo che aveva già tentato di togliersi la vita due volte, prima.

Bene.

La malattia si presentava inizialmente con manie di grandezza e complessi da superuomo. Come il ritenere di avere capacità speciali, ad esempio volare.

Bene.

Non era pazzo. Lui non aveva volato, ma Nathan sì. L’aveva visto, se ne ricordava perfettamente. Lui si era gettato dal tetto del palazzo e Nathan aveva spiccato il volo e l’aveva afferrato a mezz’aria, impedendogli di schiantarsi a terra e rimanerci secco. Non era stupido, nonostante suo fratello sembrasse essere fermamente convinto del contrario. E adesso se ne usciva fuori dicendo che si era immaginato tutto e che in realtà era caduto sulla scala antincendio e per questo non era morto. Lui si era limitato ad arrampicarsi lassù e recuperarlo dopo la caduta.

Balle.

“Dimmelo, Nathan. O salterò di nuovo,” minacciò con sfida, muovendosi di qualche centimetro indietro verso l’abisso. “Buona fortuna per la tua campagna elettorale, quando mi sarà sfracellato in mille pezzi là sotto,” augurò sarcastico continuando ad arretrare, i piedi già per metà protesi nel vuoto. Nemmeno si diede la pena di fingere di avere qualche dubbio sul buttarsi di sotto. Non era questione di imprudenza o di temerarietà: si trattava di una cosa tra loro due, di un principio che andava messo in chiaro fra lui e suo fratello. Non poteva sopportare le menzogne di Nathan; che sprecasse il suo tempo a raccontare comode frottole agli altri, se ci teneva, ma non a lui: perché lui non era gli altri e non era chiunque. Era suo fratello.

Fece il gesto di spingere il busto indietro, pronto a precipitare.

“Va bene!” cedette Nathan di soprassalto, tendendo le dita verso di lui in un muto appello e chinando lo sguardo. “Vuoi la verità?”” chiese tornando a guardarlo.

Il viso di Peter si distese impercettibilmente.

“Sì,” rispose fermo.

Nathan prese un lungo respiro, esitando, e lo studiò esasperato. Era testardo, il ragazzo, quando ci si metteva. Ma sapeva che Peter si sarebbe davvero lanciato giù dal cornicione se la sua spiegazione non gli fosse parsa convincente. Sarebbe riuscito di nuovo a volare e salvarsi? E lui, avrebbe fatto in tempo a raggiungerlo e aiutarlo? E se qualcuno li avesse visti? Candidato al Congresso emula Superman. Proprio quel che ci voleva per rovinarlo definitivamente.

E se questa volta si fosse spiaccicato davvero? Sarebbe morto soltanto perché lui insisteva a mentirgli, perché era disonesto con lui.

Peter, che lui ricordasse, non gli aveva mai mentito. Non ci aveva mai nemmeno provato. Dio, com’era pulito suo fratello. Veniva da lui e gli raccontava qualunque cosa gli passasse per la testa, anche i suoi dannati sogni sul volo e tutto il resto, e si confidava con cieca fiducia perché lui era Nathan e quindi non l’avrebbe tradito. Così ingenuo, Pet. Non poteva mentirgli di nuovo, sarebbe stato troppo ingiusto: l’evidenza del pensiero abbatté le sue ultime resistenze.

Lo guardò ancora per un istante, stagliato contro il cielo notturno, agguerrito e serio. E il suo fratellino non c’era più, d’improvviso, ma subito si chiese da quanto tempo doveva essere cambiato senza che lui se ne rendesse conto. C’era un uomo fatto, lì davanti a lui, che non si sarebbe fermato fino a che non avesse raggiunto il suo scopo. Ebbe un moto d’ammirazione involontario.

“Abbiamo volato entrambi,” ammise grave. Peter levò gli occhi al cielo espirando rabbioso, scettico. “Ti ho preso e ho perso il controllo,” spiegò lui enfatico, per convincerlo delle sue parole. “Peter, sei troppo pesante,” ammise controvoglia, a disagio, mentre un sopracciglio di Peter si aggrottava all’idea che suo fratello non l’avesse salvato. “Abbiamo cominciato a cadere verso terra e proprio prima di…schiantarti, hai volato. Tu,” concluse deciso, guardandolo con sincerità.

Peter lo guardò freddo.

“Stai mentendo?” chiese deluso.

Nathan sgranò gli occhi, stupefatto. Assurdo, proprio quando finalmente iniziava a dirgli la verità, suo fratello dubitava di lui. Doveva esserci qualche grosso problema di comunicazione tra loro due, perché era impossibile che riuscissero sempre, in qualche modo, a fraintendersi. Eppure sapeva che Peter ci provava da anni a far funzionare le cose. Da quand’era adulto.

Aprì la bocca, scuotendo la testa per diniegare, ma Peter non gli lasciò il tempo per spiegare, socchiuse gli occhi con ira e dischiuse le labbra in una smorfia sprezzante.

“Lo stai facendo!” lo accusò irato, con la delusione che gli correva nel sangue dolorosamente. “Mi stai dicendo quello che pensi io voglia sentire!” urlò infuriato, incamminandosi verso di lui con aggressività. “Mi stai mentendo di nuovo!” precisò, esasperato e amareggiato, chinandosi sul fratello con ferocia.

Ancora, lo stava facendo di nuovo, lo stava trattando come uno stupido ragazzino con la testa sulle nuvole. Gli era davvero così difficile avere rispetto per lui? Sembrava non riuscire a comprendere il suo bisogno di fiducia. Il fatto era che anche su di lui si poteva contare. Non c’era solo il grande Nathan e il piccolo Peter.

Ma suo fratello in quel momento non stava guardando il suo viso tremante, ma un punto molto più in basso. Aveva gli occhi leggermente sgranati, con stupore ed inquietudine, e allungò timidamente un dito, quasi avesse avuto paura che lui glielo staccasse, indicando qualcosa senza parlare. Peter abbassò lo sguardo istintivamente, senza capire.

Dal cornicione era avanzato senza pensarci, dimenticato che il terreno si trovava un metro più in basso. Lui però non era sceso: aveva camminato allo stesso livello e in quel momento levitava a mezz’aria senza nemmeno rendersene conto. Fece appena in tempo a spalancare gli occhi e la bocca, sbalordito, prima di perdere l’equilibrio e atterrare con un balzo scomposto.

Nathan lo guardava con la stessa espressione allibita e spaesata che avrebbe potuto riservare a ET, se mai gli fosse capitato davanti. Ma lui non ci fece caso. Si permise giusto il lusso di riprendere fiato, mentre il cuore gli rimbalzava fin nel cervello e la sua mente si faceva confusa, e gettò le braccia al collo del fratello, estatico. Gli si aggrappò addosso come se altrimenti il pavimento avesse potuto inghiottirlo.

Nathan rimase immobile per qualche secondo, troppo allibito per ragionare, poggiandogli appena la mano sulla schiena quasi col bisogno istintivo di verificare che fosse reale.

“Hai visto?” mormorò Peter con voce spezzata, ritraendosi appena e guardandolo negli occhi senza staccarsi da lui. “Hai visto? Ho volato,” continuò spaesato. Aveva la voce rotta e gli occhi quasi lucidi, le mani che tremavano. A Nathan sembrò di nuovo terribilmente piccolo e fragile ed ebbe un moto inspiegabile di paura. Tutta quella situazione era assurda, anormale. Non poteva portare a nulla di buono. Se li avessero scoperti ne sarebbe scaturito un polverone che avrebbe distrutto non solo la sua carriera, ma probabilmente le loro stesse vite.

“Sh, shh… Lo so, lo so,” mormorò confortante, stringendo Peter a sé. E non sapeva se lo stava abbracciando per calmarlo o perché era lui ad avere paura, perché l’aveva. Non era una che riguardasse gli umani, il volo, era malsano, probabilmente pericoloso. Poteva degenerare? Diventare una malattia, modificare il loro fisico? E Peter, matto com’era, sicuramente si sarebbe comportato da incosciente. Avrebbe cominciato ad abusarne o ad utilizzare in modo pericolo quella strana facoltà, mettendosi in pericolo per tirare giù i gatti dagli alberi e fesserie del genere. Non era capace di tenersi le cose per sé, se potevano risultare utili a qualcuno.

Si sarebbe fatto del male, e lui non avrebbe potuto fare nulla.

Stretto contro la sua spalla, il viso attraversato da un sorriso di pura gioia e d’incredula euforia, Peter vagava con la mente a milioni di chilometri di distanza dai pensieri del fratello.

Era vero, lui, Peter Petrelli, poteva volare. Era la cosa più affascinante e più meravigliosa che riuscisse a concepire, lui volava. Come nei giochi di bambino, com’era nei sogni dell’uomo da centinaia di anni, come narrato in innumerevoli libri, film, leggende. Il grande limite dell’umanità, la dipendenza dal suolo, non aveva più significato per lui e Nathan. Insieme. Potevano volare, per davvero, senza nessun ausilio, senza strumenti, soltanto con i loro corpi, semplicemente, Era qualcosa di speciale, questo, più di qualunque Congresso, di qualunque lavoro, li rendeva diversi. Dava un altro senso alle loro vite, a loro stessi. E li univa, in qualche modo, come niente da anni aveva più potuto fare. Poteva essere la loro nuova occasione.

Non era spaventato. Era commosso, forse incredulo, sicuramente felice. Cercava di impedire ai propri occhi di appannarsi per evitare che suo fratello, che sembrava appena aver finalmente deciso che lui non era un poppante a cui raccontare fesserie, non riconfermasse la sua precedente opinione. Ma non poteva smettere di sorridere, né poteva far caso al corpo di Nathan rigido, teso vicino al suo, bloccato dalla preoccupazione. Sentiva la sua mano sui capelli ma non poteva vedere, dal nido che s’era fatto nel suo collo, l’espressione rassegnata e addolorata del suo volto, l’angoscia e la preoccupazione. Che nascevano dal pensiero della sua elezione, dalla necessità di non creare scandalo intorno a sé, ma anche dal timore per Peter. Peter  che, lui se ne rese conto in quel momento, sarebbe sicuramente riuscito ad attirare l’attenzione sul problema. Era matematicamente certo che avrebbe fatto in modo di cacciarsi in qualche guaio e farsi vedere da qualcuno che l’avrebbe riconosciuto. Sempre che, ovviamente, in qualche spericolata evoluzione non si andasse a schiantare contro un elicottero. Non sarebbe stato poi così strano, conoscendo il soggetto in questione.

Doveva fare in modo che tenesse la cosa per sé. Che la piantasse di cercare spiegazioni e cause almeno fino a quando lui non fosse stato sistemato sulla sua poltrona. In fondo, non chiedeva altro che qualche settimana prima di mettersi pensare a come risolvere la faccenda. Forse c’era un modo per curarli.

Peter rise silenziosamente, sussultando appena. E Nathan avrebbe voluto sorridere a sua volta, trovare tutta quella storia divertente o entusiasmante come sicuramente il suo giovane fratello sognatore stava facendo nella propria mente, ma non riusciva a farlo: a lui sembrava solo un dannato problema. Si limitò ad ascoltare il respiro spezzato di Peter, augurandosi senza troppe speranze che la sua allegria immotivata avrebbe presto contagiato anche lui.

 

 

 

 

 

 

 

Questa parte rispetto alle altre è molto legata alla scena del telefilm, che io trovo assolutamente stupenda. Sono invidiosissima di Peter nel momento in cui si rende conto che vola davvero e mi fa scassare del ridere che cada subito a terra. In realtà Peter passa l’intera serie a cadere da qualche parte, doveva fare lo stuntman, non l’infermiere. Credo anche che sia uno dei momenti in cui risulta più evidente la spiccata differenza caratteriale dei due fratelli, perché Nathan sembra tutto fuorchè felice.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III. Cinque secondi (il tempo necessario a ricordare chi sei) ***


III. Cinque secondi

(il tempo necessario a ricordare chi sei)

 

Lo ucciderebbe, in questo momento. Vorrebbe stringergli le mani intorno al collo e ammazzarlo, o prenderlo a calci fino a spaccargli la colonna vertebrale. Comunque lo vorrebbe morto.

E’ uno stronzo, è soltanto un dannatissimo pezzo di merda a cui non interessa altro che se stesso. Come, come può suo fratello essere così schifosamente egoista? Dargli dell’aspirante suicida, davanti ai giornalisti, davanti a Simone, chissà cos’ha pensato quando l’ha sentito, si sarà detta che lui è un pazzo, che un giorno tenta di togliersi la vita e il giorno dopo dichiara amore alla prima ragazza che gli capita a tiro. E lo ha detto con quella faccia, poi, come se la sua sorte gli stesse a cuore, come se fosse stato preoccupato di non farlo soffrire, di stargli vicino. Ipocrita, maledetto bugiardo approfittatore.  Peter sa che se crepasse adesso suo fratello non se ne accorgerebbe neanche.

New York gli sembra vuota mentre cammina sotto la pioggia scrosciante, fradicio d’acqua e infreddolito. Ma non è precisamente la temperatura esterna a mettergli il gelo nelle ossa, e nemmeno il fatto di essere marcio di pioggia fino al midollo. Gli sembra deserta e cupa la sua bella città, mentre marcia a casaccio lungo la via, senza riuscire a convincersi di allontanarsi definitivamente, di smettere di accarezzare l’idea di tornare indietro e fare pubblicamente al fratello una scenata da film, rovinandogli l’elezione. Se lo meriterebbe. Tanto ormai la gente pensa che sia uno psicolabile, quindi una piazzata da isterico non gli rovinerebbe nemmeno più l’immagine, per quel poco che gli importa: ci ha già pensato Nathan a farlo. Davanti alla donna di cui lui è perdutamente innamorato, ovviamente.

“Grazie, Nathan.” Il pensiero lo infiamma talmente che mormora le parole sottovoce. Tanto è appurato che è pazzo, no? Per cui può benissimo parlare da solo. “Grazie, fratellone, per la premura che dimostri sempre nei miei confronti. Per come sai darmi sempre tutto il tuo sostegno e per come riesci a sacrificarti per me. Grazie per essere sempre pronto a venirmi in aiuto e per le tue continue dimostrazioni di stima nei miei confronti. Grazie, Nathan, perché mi usi come un oggetto per i tuoi scopi e della mia dignità non te frega minimamente. Grazie per il rispetto. Grazie perché mi ricordi ogni giorno che voglio così bene a un bastardo senza morale. Grazie perché mi fai sbattere il naso contro la mia ingenuità e grazie perché ogni volta che comincio a pensare che dopotutto non sei così meschino tu mi dimostri inequivocabilmente che sono un povero illuso. Grazie perché almeno su di te so di poter sempre contare, specialmente se il mio scopo è sentirmi sminuito, cosa che a te riesce tanto bene di fare: rendermi ridicolo. Sul serio, grazie. Per fortuna ho un fratello in cui avere fiducia.

Continua a bisbigliare ingiurie e recriminazioni, ondeggiando tra un marciapiedi e l’altro senza meta. Potrebbe davvero tornare indietro e fare la famosa scena da psicopatico al signor congressista davanti a tutti, potrebbe buttarlo nella merda in cui Nathan si diverte a far cadere lui e rendergli il favore. Per un istante decide che sì, è quello che farà immediatamente.

La sua sicurezza dura tre passi: cinque secondi in cui la sua parte peggiore prende il sopravvento su di lui, cinque secondi in cui si volta e fa per tornare alla sala, stringe i pugni pensando a cosa dirà. Cinque secondi prima che si fermi, immobile in mezzo al marciapiede, e abbassi la testa verso terra. Cinque secondi per ricordarsi che lui non è così. Che non si sentirebbe meglio, dopo, ma peggio. Che anche se Nathan se lo merita, un colpo basso, lui lo stesso si sentirebbe colpevole, sporco.

Cinque secondi, il tempo di un respiro, perché gli torni in mente che lui è Peter. E Peter queste cose non le fa: non è nella sua natura. Non è vendicativo, non è meschino e non è egoista. Peter forse è un cretino, osserva mentalmente con un sospiro di sconfitta, perché non sa farsi valere e perché, dannazione, lui a suo fratello vuole bene lo stesso. Anche se lo tratta in questo modo, se lo fa sentire minuscolo, insignificante e privo d’importanza.

La pioggia continua a cadergli addosso, a inzupparlo senza far caso a lui: come Nathan. Le macchine che gli passano di fianco scivolano silenziose schizzando acqua fin quasi ai suoi piedi e la città intera in quel momento pare completamente dimentica della sua esistenza. Nathan starà festeggiando la riuscita della serata, si sarà dimenticato di lui che non è più lì, avrà già rimosso dalla propria mente la cattiveria avuta nei suoi confronti. E’ troppo egoista, Nathan, troppo preso da se stesso. Non gli va più così bene, adesso, è stanco, demoralizzato.

Si sente così solo che quasi respirare gli è difficile; quei cinque secondi gli hanno sbattuto addosso la propria incapacità di colpire a sua volta e l’ampiezza di un affetto che non è, definitivamente, ricambiato. Non lo sarà mai. Per quanto Peter si sforzi di acquisire dignità ai suoi occhi, Nathan non lo stimerà mai, non ci prova neanche.

Qand’era bambino era diverso. Nathan aveva fatto una scena da celebrazione mondiale, quando lui aveva imparato ad andare in bicicletta, sembrava che fosse diventato l’eroe nazionale a cinque anni. Si era persino dimenticato per un’ora dei suoi amici che lo aspettavano a Manhattan e aveva tirato fuori la sua vecchia bici per fare qualche giro dell’isolato con lui, incoraggiandolo con esclamazioni trionfali.

Adesso Nathan non farebbe niente del genere: gli lancerebbe un’occhiata di sbieco e osserverebbe con disinteresse che non serve poi a molto, a livello pratico, il saper andare in bicicletta; non porta nessun vantaggio e non dà risultati. Commenterebbe che lui è sempre così, passa la vita correndo dietro a cose che non portano da nessuna parte, senza calcolare cosa invece gli guadagnerebbe prestigio. E’ un ragazzino che non vuole crescere.

Nathan non sa cogliere le differenze che ci sono tra loro; non considera suo fratello semplicemente differente, lo considera inetto, incapace di perseguire risultati concreti. Non si sforza di prendere atto del fatto che per Peter è importante essere un comune infermiere, si disinteressa del fatto che per lui saper volare è immensamente più importante di un’elezione, anche se è una pazzia. Perché per lui è questo che conta: volare, non vincere. Chiunque con qualche sforzo può vincere; ma volare? Questa non è una cosa che puoi fare semplicemente perché ti viene in mente. Peter ha passato un pomeriggio intero a buttarsi giù da una struttura del parco giochi cercando di rifarlo, sotto lo sguardo perplesso di un ragazzino che deve averlo preso per un pazzoide. Come tutti, del resto: dargli del malato di mente sta diventando lo sport più diffuso negli U.S. e la gente sembra fare a gara per riuscirci; ovviamente Nathan ha vinto di nuovo perché l’ha fatto in un’occasione pubblica, con un microfono davanti. Bel colpo, Nate. Per un attimo, quando tutti hanno cominciato a bisbigliare e fissarlo, dopo l’annuncio del tentato suicidio, Peter si è sentito come quando era talmente piccolo che a stento camminava e non era in grado di fare assolutamente nulla, si è sentito riempire di rabbia e d’impotenza e ha pensato che sarebbe esploso.

Quella rabbia gli rimane nello stomaco attorcigliando le interiora, anche se pensa già che non dirà niente, che quando lo vedrà, suo fratello si comporterà come se niente fosse e lui non riuscirà a sfogare quella cosa nera che si sente dentro e che gli fa male in tutto il corpo.

Aggrotta la fronte, sollevando appena la testa verso il palazzo al suo fianco, e  fa qualche altro passo avanti. L’esasperazione gli sta dando una brutta sensazione di freddezza, di…odio.

Potrebbe odiare Nathan? Sì, forse adesso potrebbe. Forse è così stufo, annoiato e sdegnato della piccolezza del comportamento dell’altro che non ha più voglia di faticare, di cercare di dimostrargli qualcosa che nemmeno lui sa cos’è, forse semplicemente il fatto che lui esiste e che è fatto a modo suo. Tanto a Nathan non interessa. E allora che se ne vada al diavolo. Gli dà noia avere un fratello? Bene, allora il fratello si leva dalla scatole, chiusi i ponti, arrivederci e grazie.

Ridacchia silenziosamente tra sé, amaro.

Non è vero. Non è vero che il fratello si leva dalle scatole, non potrebbe mai. Anche se a Nathan non interessa molto loro sono fratelli, se mai il maggiore avrà bisogno di lui Peter sarà lì pronto al suo fianco. Con l’ira schiacciata nella gola, risentito ma sarà lì. Frustrato, deluso e amareggiato, ma sarà sempre lì. E’ fatto così: sono bastati cinque secondi perché si rendesse conto che lui non rovinerebbe mai il sogno di Nathan. Anche se ce l’ha con lui e se sa che quel pezzo di merda lo farà incazzare ulteriormente alla prima occasione, anche se vorrebbe prenderlo a pugni e urlargli in faccia che è un miserabile e che non dovrebbe fargli questo, che un fratello è qualcuno che incoraggia e non che svilisce. Sarebbe facile ripetere ininterrottamente a Nathan che disprezza i suoi valori, che la sua vita da politico d’alta classe gli fa pena e gli sembra solo finta e vuota, fatta d’apparenze senza niente dentro. Ma a cosa servirebbe? Nathan ci crede, in quella vita, e lui vuole che Nathan si senta realizzato, perché è suo fratello. Non gli sembra molto difficile da capire.

M per Nathan evidentemente lo è, visto che ricambiare il gesto non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Probabilmente perché non porta a nulla. Si limita schernirlo con le sue frecciate condiscendenti, continue. Lo fa costantemente, come questa stessa mattina, quando lui ha detto di aver tentato l’esperimento al parco e di essersi quasi rotto il collo. “Almeno avremmo risolto uno dei nostri problemi, ha commentato Nathan senza nemmeno spostare lo sguardo su di lui. Come sempre.

Lui, Peter, fa finta di niente. Sa che le cose tra loro stanno così, e sotto sotto spera che dietro quell’apparente disinteresse Nathan almeno lo stia a sentire. Si accontenta del fatto che lo lasci semplicemente parlare, perché tanto non può chiedere di più, e continua a fingere che quelle frasi maligne non lo sfiorino neanche.

Sospira di nuovo, si volta. Lo sfiorano eccome, invece. Lo fanno sentire trasparente e stupido. Lo fanno sentire lo zero assoluto che si è sentito essere anche stasera, davanti a tutta quella gente che commentava la sua depressione immaginaria, il nuovo metodo ideato da Nathan per conquistare l’elettorato. Stronzo. L’immagine di Nathan, serio e composto, che sciorina alla platea la sua commossa pappardella sulla sua malattia e il suo bisogno di aiuto gli esplode nuovamente nella testa, nitida, gli fa scorrere nel sangue un’ira cieca e totale. Non è molto bravo a mantenere la calma, Peter. E’ onesto anche con i sentimenti negativi. Per questo marcia verso il parcheggio come un indemoniato, i pugni stretti e l’odio –anche se non è vero odio- che lo spinge come un automa verso l’auto di suo fratello, tremante di collera, furioso. E’ un maledetto bastardo, è un calcolatore cinico e menefreghista.

Non deve nemmeno aspettare molto prima che Nathan arrivi con i suoi gorilla, chiacchierando soddisfatto. Vederlo fa moltiplicare la grandezza del mostro scuro che gli comprime i polmoni, il suo viso sovrapposto al ricordo dell’espressione partecipe sfoggiata durante il discorso lo porta alla rottura, per un attimo la vista gli si annebbia e quando torna alla normalità il suo pugno sta cozzando con violenza contro la guancia del fratello maggiore.

“TU, FIGLIO DI PUTTANA!” urla, mentre i gorilla lo sbattono contro il muro brutalmente.

“Lasciatelo andare,” intima Nathan, accasciato contro la macchina con una mano sul viso, là dove Peter lo ha colpito. “Calma, Peter, è di nostra madre che stai parlando,” aggiunge prendendo fiato e sorreggendosi al veicolo.

Quello sbeffeggiamento non fa che accrescere lo sdegno del più giovane, già fuori di sé.

“Non c’era nessun giornalista sulla mia storia!” grida incollerito e impotente, con la dolorosa consapevolezza di aver ragione, di essere stato solo una pedina del gioco di Nathan.

“Prima o poi ci sarebbe stato,” osserva Nathan semplicemente, ancora con la mano al viso. “Ho dovuto prendere in mano la situazione prima che succedesse qualcosa…” spiega, alzandosi e avvicinandosi a lui. Peter non lo sta nemmeno più a sentire, ha perso la testa e la sua finta premura non lo inganna più. Carica un altro pugno prendendo lo slancio, Nathan rimbalza di nuovo contro la macchina con un gemito di dolore e i suoi lacchè bloccano Peter un’altra volta, mentre suo fratello si rialza, guardandolo con vaga minaccia.

“Lo capisci, vero?” chiede strizzando gli occhi per il dolore, e lo indica ammonitore.

Peter lo ucciderebbe davvero, adesso. E’ ancora tutto una questione di apparenza, di immagine. Della realtà delle cose Nathan se ne frega. E’ dura da sopportare.

“Sì,” risponde con un fremito di rabbia, sfidandolo con lo sguardo, “sì, lo capisco,” aggiunge, col tono di chi chiaramente farebbe a pezzi qualcosa.

“Bene, bello,” replica Nathan sollevando il pollice verso l’alto con intesa.

Ma Peter già ha smesso di ascoltarlo. Sta uscendo di nuovo fuori sotto la pioggia, barcollando impotente, allunga il braccio per fermare un taxi. Sì, lo capisce. Capisce benissimo che lui per suo fratello non è niente, che lo venderebbe per un pugno di voti. Fa venire voglia di piangere o di sparire dal mondo.

E invece il mondo gli fa un regalo, inaspettato, in quel momento orrendo e deprimente.

Un ombrello. Rosso.

Simone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di chiusura:

Quello del discorso di Nathan alla serata è stato un momento che mi ha fatta troppo incavolare. Se fossi stata Peter in quel momento avrei preso una pistola e gli avrei sparato in testa. Penso che se mio fratello facesse a me una cosa del genere gli toglierei anche il saluto. Ma io non sono buona come Peter.

Questa scena di riflessioni sotto la pioggia ovviamente è tutta una mia immaginazione. Nella puntata (la terza, mi pare) vediamo Peter che se ne va dalla sala quando Nathan finisce di parlare, e poi lo ritroviamo nel parcheggio, fradicio d’acqua, che prende giustamente a pugni il fratello. Io mi sono limitata a ipotizzare quel che fa nel frattempo: si inzuppa e si piange addosso, incazzato, finché la rabbia non lo porta a sfogarsi sull’oggetto della sua collera. Quei due pugni per me sono stati una soddisfazione quasi impareggiabile. ^__^

 

 

DIMENTICAVO!!!

Ringrazio sentitamente Shari_Aruna per la gentile gentile recensione. Grazie per l’apprezzamento, mi fa piacere che l’introspezione ti sia parsa convincente. Quanto all’incesto, anche per quello sono contenta che approvi. Sinceramente è una tematica che a parer mio non adrebbe presa troppo alla leggera. Ognuno è libero di fare quello che vuole, ma nelle mie storie preferisco non parlarne.

A presto

suni

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV. Vernice (mentire e distruggere opere d'arte genera ampi sensi di colpa) ***


IV. Vernice

 (mentire e distruggere opere d’arte genera ampi sensi di colpa)

 

 

Mi dispiace, in un certo senso.

Quello che sto per fare è scorretto, ma indispensabile. E so che tu non capiresti e penseresti che sono il solito bastardo arrogante, che non ho rispetto per le tue decisioni né fiducia nelle tue capacità. Per questo una menzogna è molto più semplice da raccontare, Peter.

“Non te lo lascerà. Hey, dai, lascia perdere. E’ solo un quadro,” te lo dico con espressione desolata e uno sguardo fatalista. Il modo in cui  aggrotti la fronte e mi guardi, contrito e indispettito, mi dà una sensazione spiacevole. Solo per un istante. Sono Nathan, dopo tutto.

“E’ molto di più, Nathan! Ha a che fare con quello che ci sta succedendo,” inizi deciso, con insistenza. “Quel dipinto è…la chiave. Con quello possiamo fare la differenza,” continui speranzoso, con enfasi.

“Io provo a fare la differenza, Peter, nel miglior modo che conosco,” osservo con decisione, interrompendoti.

E’ inutile insistere, Peter, anche se continuiamo a parlare. Non puoi avere quel dipinto, fine della questione. Tu continui a correre dietro ai tuoi sogni e all’idea di cambiare il mondo, ma è un’idea che si dovrebbe abbandonare intorno ai sedici anni, Peter, invece ne sono passati altri dieci e tu continui come allora. Mi costringi a frenarti, non è che mi piaccia farlo, è solo che tu non sai importi dei limiti e bisogna che ci pensi io per te. Tu non fai altro che clamore e io ho bisogno di discrezione. Dovresti tenere a mente, Peter, che io non ho solo te a cui pensare. Io non faccio l’infermierino grunge coi capelli in faccia e non gioco all’eterno ventenne, ho una moglie, due figli, una carriera e tutta la nostra famiglia a cui pensare. Io ho delle elezioni da vincere e non ho la minima intenzione di andare in giro con un costumino attillato e svolazzare sui tetti dei palazzi in fiamme per salvarne gli occupanti. Lo lascio fare ai pompieri.

Senza costumino attillato e con normalissime scale.

Io ho un obiettivo, Peter, e non ti permetterò di privarmene. Io siederò al Congresso e tu la pianterai con questa storia di salvare il mondo ed eviterai di metterti nei guai; non ho tempo per starti appresso, adesso, quindi cerca di crescere.

E non ho intenzione di discutere.

Per cui, Peter, anche se mi spiace lasciarti lì con la faccia sbattuta e i pugni stretti per l’impotenza, lo faccio. Anche se il tuo sguardo deluso mi brucia sul viso, me ne vado.

C’è una cosa che non hai capito, Peter, tu che professi di conoscermi meglio di chiunque altro. Ed è che per me i doveri vengono prima dei desideri. E io devo fermarti, per un sacco di buone ragioni.

Perché mi stai rovinando le elezioni col tuo comportamento assurdo.

Perché stai tirando pomodori marci sulla mia immagine pubblica con questa storia di saper volare; non ti disturbi nemmeno ad abbassare la voce quando ne parli.

Perché stai diventando pazzo, Peter.

Perché stai buttando il tuo tempo nel cesso e tiri da solo la catena. E anche il mio tempo, tra l’altro:

credimi, non ne ho davvero da sprecare. Non so se te ne sei accorto, ma mentre tu lasci il lavoro –che già non era quel mestiere particolarmente prestigioso- e corri dietro a sedicenti genetisti, io cerco di condurre avanti una campagna elettorale.

Perché le tue pretese sempre più assurde mi stanno stancando, Peter.

Per tutte queste ragioni e per altre ti ho lasciato solo in casa, dopo averti mentito. Perché sì, l’ho fatto. Un’altra volta, diresti tu. E adesso sono qui, con questa donna che, alle mie spalle, mi sta probabilmente guardando senza capire, mentre mi infilo i guanti.

Un lavoro pulito. Io non sono come te, Peter, non faccio baccano e svolgo il mio dovere in modo discreto, impeccabile. Per questo sono io quello credibile, Peter. Per questo io la faccio sempre franca e tu dai l’idea di essere fuori di testa: è una questione di stile, di dare alle cose le giuste priorità. Io devo entrare al Congresso e tu me lo stai impedendo, e per questo non rispondo a questa donna che mi guarda perplessa.

“Cosa stai facendo?” chiede ripetutamente, mentre con calma, attento a non farla sgocciolare, apro la latta della vernice. “NO!” esclama con dolore intuendo dove voglio arrivare, e mi si avventa addosso per fermarmi. Troppo tardi.

Guardo la colata di colore che dal secchio compie una breve parabola in un’ondata di blu e si va a depositare sulla tela con un suono simile ad un bel ceffone. Il disegno di Mendez sparisce sotto il muro di vernice che gli ho lanciato contro, mentre Simone geme dispiaciuta e delusa.

Vedi, Peter, non credo che capiresti il mio punto di vista. Per questo è molto più semplice tenerti all’oscuro di tutto e fingere che quel che mi hai chiesto non rientri nelle mie possibilità.

La vernice cola lungo la tela e gocciola giù, a terra, come se il dipinto la stesse piangendo. Sta versando le lacrime che verserei io se si avverasse quel che vi è rappresentato, Peter, ed è per questo che vedere quegli spruzzi di colore blu che precipitano sul pavimento mi dà tanto sollievo.

“No…” ripete Simone contemplando quello sfacelo.

Non mi riesce proprio di condividere il suo dispiacere, Peter. E nemmeno il tuo, onestamente, perché i tuoi vaneggiamenti hanno poco a che fare con me, e no, non mi dispiace di averti mentito.

“Gli sto salvando la vita,” rispondo semplicemente. “Perché? Gli credi? …Salva la cheerleader, salva il mondo?” ripeto con sarcasmo, e queste tue parole mi fanno venire da ridere.

 Sì, ti dovevo un favore, lo so. Ma credo di avertene fatto uno molto più grande, adesso, cancellando questo disegno. Lo so, contavi su di me perché ti aiutassi, per trovare la tua cheerleader.

Te lo dovevo, è vero.

E adesso, mentre me ne vado, mentre getto un’ultima occhiata a quella vernice che cola in terra, mi rendo conto che mi dispiace un po’. Pensi che non abbia sentimenti perché non ti assecondo. Adesso penseresti di essere stato stupido ad aiutarmi con Dennison, penseresti che non ho riconoscenza e che non ho dato peso al tuo gesto. Ma non è vero, Peter, l’ho fatto.

Ti sono riconoscente per esserti sputtanato un’altra volta e aver coperto la mia scappatella a Las Vegas. Non sapevo davvero più cosa dire quando quello stronzo ha parlato della bionda, e poi tu hai inventato quella storia della clinica e della dottoressa e sei stato magnifico. Mi hai salvato il culo, e io non l’ho ignorato come penseresti tu. Hai buttato nel cesso la dignità, per me, come fai sempre quando qualcuno che ami ha bisogno di aiuto.

E’ molto bello, Peter, lo penso davvero. La tua capacità infantile di sacrificarti, con questi tuoi gesti meravigliosi, è quasi commovente, ma non ti porterebbe molto lontano. Quindi era necessario il mio intervento. E adesso non credere che io sia qui per strada davanti alla porta di Simone ed esiti ad andarmene perché mi sento in colpa: non è così.

Non mi sento affatto in colpa, Peter. Ti ho mentito, è vero. Ho distrutto questo progetto a cui tenevi tanto con una secchiata di vernice, lo so. Ma non mi sento in colpa. Anche se non riesco a levarmi dalla mente il tuo sguardo ferito, i tuoi occhi delusi e la tua rabbia. Anche se continuo a pensare a quanto ti starai sentendo sconfitto, in questo momento, e io non sono lì con te ma anzi ho appena fatto a pezzi i tuoi sogni di grandezza. Anche se non riesco a togliermi dalla testa la tua voce che racconta della clinica vicino a Las Vegas e di quanto io sia pronto a rischiare la mia elezione per te. So che lo vorresti, Peter, e so che l’hai detto per farmi capire che ti faccio del male. Era un messaggio ed è arrivato a destinazione anche se magari sei convinto del contrario. Ma non mi sento in colpa, anche se non pensare a quanto sarebbe stato luminoso il tuo sorriso se ti avessi fatto avere quel quadro mi è difficile. Però ho dovuto agire diversamente, Peter, e deludere le tue aspettative un’altra volta.

Ma tu stavi distruggendo tutto quello per cui io lavoro duramente, e cazzo, dovevo fare qualcosa. No, non mi sento in colpa.

Ma vaffanculo, Peter!

Perché mi costringi a farti questo? Perché mi metti sempre nella posizione di doverti ferire? Non lo vedi che mi obblighi? Dovresti provare a renderti conto che non mi lasci molta scelta, che non lo faccio perché sono cattivo o meschino o preso da me stesso, lo faccio per limitare i tuoi danni. Se tu la smettessi con questa storia di voler essere speciale, e ti limitassi ad essere solamente Peter, io non ti farei nulla del genere. E’ colpa tua se adesso io sono qui per strada e mi sento una merda, e non riesco a tornare a casa e so che sarà difficile guardarmi allo specchio. Ma lo farò lo stesso, perché so che era la cosa giusta quella che ho fatto.

E se la tua faccia ferita non se ne va dalla mia mente ora, io appena ti vedo ti restituisco quei due pugni che mi hai tirato la sera del discorso. E’ colpa tua se sono qui e ho davanti agli occhi l’immagine della vernice che cola sul tuo sogno, ed è colpa tua se ho dovuto infrangere quel sogno.

Peter, cazzo, tu sei già speciale, sei mio fratello. Non hai bisogno di salvare il mondo.

Mi fai anche sospirare, e non mi succede spesso.

E’ che continuo a ripensare a quella tua frase su di me che metto a rischio le elezioni per te, e al modo in cui mi hai guardato mentre lo dicevi. Strafottente e ostile, solo negli occhi puntati su di me. L’hai detta pensando che io non farei nulla per te.

E’ colpa mia se non pensi di essere comunque speciale, vero?

Ma io non ti trascuro perché non ti stimo, Peter. Lo faccio perché ho un grande obiettivo e tu mi ostacoli. Nemmeno tu sei un fratello perfetto, anche se sei indubbiamente più disponibile di me. E’ che io sono diverso da te. Io ho delle ambizioni. Sensate. Ed è il motivo per cui ho cancellato il quadro.

Perché, ripeto, tu mi stai ostacolando. E io non tollero ostacoli, non adesso che mi manca così poco al successo. Io sono uno squalo, Peter, non guardo in faccia nessuno, lo sai benissimo. Te l’ho detto centinaia di volte. Quindi niente faccia ferita.

Sei libero di odiarmi, se non ti sta bene. Ma io avrò la mia sedia al Congresso e tu la pianterai di mettermi i bastoni tra le ruote. Niente quadro.

Peter.

C’eri tu in quel quadro.

Tu. Morto.

Al mio posto non ti saresti comportato diversamente, Peter. Ti sto parando il culo esattamente come hai fatto tu.

Non ti lascerò morire per le tue fantasie. Non starò a guardare mentre ti vai ad ammazzare seguendo uno strano quadro e una cheerleader che magari non esiste neanche. Non puoi pretendere che ti aiuti a farti ammazzare, io, tuo fratello. Tu pensi di essere l’unico di noi due a ritenere che questo sia importante, tu credi che conti qualcosa solo per te. Ma ti sbagli.

Sto cercando di salvarti la vita, Peter.

Se vuoi che ti uccidano chiedi l’aiuto di qualcun altro. E se pensi che mentirti per salvarti mi disturbi, ti stai sbagliando. Mento tanto spesso che non ci faccio neanche più caso, non me ne rendo quasi conto; hai mentito anche tu, del resto, a proposito di Las Vegas. Sì, non hai mentito a me ma è la stessa cosa. Non mi pesa aver detto una balla, lo faccio sempre, fa parte del gioco. Non si diventa Presidente con la sincerità, Peter.

Ho dovuto mentirti.

Non riesco nemmeno a immaginare che tu possa morire. La mia mente si rifiuta di formulare un pensiero simile, lo rifugge con orrore. Perchè non riesce a concepire me senza di te, razza d’idiota, sei il mio fratellino e non posso sopportare l’idea che ti succeda qualcosa di brutto, non me lo perdonerei mai. E se non ci arrivi è perché non hai capito molto di me, del resto io non te l’ho permesso, e ho sbagliato.

Ma non mi sento in colpa.

Quindi smettila di fare quella faccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di chiusura:

Nathan non mi è mai stato molto simpatico. Perché è un politico e perché è un arrivista. Ma è anche un personaggio estremamente complicato e contorto, a suo modo affascinante nella sua complessità –e l’attore è forse il più bravo della serie; le sue scene con Hiro fanno scompisciare. Qui, in questo solitario monologo mentale, ho cercato di dar voce a quello che mi sembra essere il suo lato più invisibile, quello di un uomo che ha molto amore da dare e poche capacità di dimostrarlo. Conosco gente così. Apparentemente non valgono un granché, ma sotto sotto potrebbero.

Suni

Ah… Scusatemi, mi sento abbastanza cretina a chiederlo così, ma non è che vi andrebbe di farmi sapere cosa ne pensate? Solo due paroline a tempo perso, non chiedo un articolo sulla Stampa… Grazie.

 

Grazie a LadyFedora, a questo proposito. Mi fa molto piacere che questi Petrelli ti risultino credibili. Peter, povera bestia, mi ha sempre fatto tanta tenerezza. Se c’è una disgrazia che vaga nell’atmosfera in cerca di un obbiettivo, quasi sicuramente finirà per scegliere lui. Poverone…

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V. Apri gli occhi (...) ***


 

V. Apri gli occhi

(la “verità” fa male proporzionalmente all’intensità dell’ignorarla)

 

 

Il Texas pareva insopportabilmente lontano. Stare seduto a guardare il mondo fuori dal finestrino, microscopico là in basso, gli sembrava una perdita di tempo inutile e il pensiero assilante di cosa avrebbe potuto o dovuto fare quando fosse giunto a destinazione rendeva i minuti eternamente lunghi. Trovare Hiro Nakamura, trovare la scuola, rintracciare la cheerleader prima dell’assassino e fermarlo in qualche modo. Come era un’incognita di cui si sarebbe occupato sul momento.

Ah, sì, c’era un’altra cosa: opzionalmente, rimanere in vita.

Aveva il battito cardiaco accelerato da tutta la giornata e il suo cervello continuava a ribattere freneticamente quei pensieri, mentre correva all’aeroporto per carcare un aereo, mentre aspettava in sala d’attesa, mentre insomma si apprestava a raggiungere Odessa: il giapponese, la scuola, la ragazza, l’assassino; velocità, efficienza, prontezza, decisione, questo era quanto gli occorreva al momento.

E dopo un’eternità, o così gli pareva, che rimuginava sui medesimi pensieri, la sua mente sfinita cominciò a rallentare il ritmo, per quanto l’impresa che lo attendeva rimanesse prepotentemente presente, e si spostò con vaghezza. Chissà che aspetto aveva il Nakamura del presente, ad esempio. O la ragazza, doveva farsene un’idea se voleva trovarla. Sapeva che era bionda, il che non era un grande indizio, considerando la percentuale di bionde presenti nel paese. Oppure l’assassino: chi poteva essere e perché intendeva uccidere un’adolescente.

E Simone, che aveva voluto credere in lui ed era stata disposta ad aiutarlo per raggiungere l’obbiettivo cui teneva così spasmodicamente, anche se aveva paura per lui, anche se non voleva che corresse pericoli.

Anche l’idea che di lì a poche ore avrebbe potuto essere un cadavere occupava, in effetti, un certo spazio nei suoi pensieri. Non ci teneva particolarmente a morire, e sicuramente non sarebbe stato piacevole. Era davvero inevitabile o poteva riuscire a modificare anche questo?

Morto. L’idea gli metteva i brividi, rendeva spezzato e affannoso il suo respiro. Non voleva morire, voleva vivere. Non voleva soffrire, essere fatto a pezzi o cos’altro, e avrebbe decisamente desiderato che il suo sangue restasse tutto al sicuro nelle sue vene. Era anche irreale, come pensiero, non riusciva realmente a concepirlo.

Ma se andava fatto, non si sarebbe tirato indietro. Lui avrebbe salvato quella ragazza a qualunque costo, perché ne andava della sicurezza del mondo. E la sua vita non era assolutamente nulla a confronto, era completamente sacrificabile. Il suo aiuto era stato richiesto e lui sarebbe andato fino in fondo, indipendemente dalle conseguenze individuali.

Simone era stata magnifica a fargli vedere la foto e a indicargli dove trovare la scuola. Nonostante la paura di non vederlo ritornare aveva accettato la sua volontà.

Simone, sì. Non Nathan.

Gli tornò in mente solo in quel momento, mentre si accampava sul sedile del taxi che l’avrebbe portato dritto all’appuntamento con Nakamura, e sussultò di rabbia. Era stato tutto troppo rapido e precipitoso, perché il tempo stringeva, e non aveva avuto modo di fare mente locale fino ad allora.

Nathan gli aveva detto che Linderman non aveva accettato di fargli avere il quadro; cosa del tuto falsa. Aveva avuto intenzione di impedirgli di ottenerlo fin dal principio ed era arrivato al punto di cancellare il disegno piuttosto che lasciarglielo vedere.

Nathan era l’essere più abbietto del pianeta.

La sua falsità poteva raggiungere picchi inimmaginabili. Ricordava perfettamente il dispiacere dimostrato dal fratello nell’annunciargli che non avrebbe avuto il dipinto. L’aveva guardato negli occhi con quell’aria addolorata, apparentemente franco, mentre gli mentiva spudoratamente con tutta tranquillità. Non aveva la minima fiducia nella sua capacità di discernimento.

Poteva anche essere che Nathan fosse preoccupato per lui. Ma non credeva alla storia dei quadri che mostravano il futuro, no? Pensava che fosse un’idea da squilibrati, una sua mania fantasiosa dovuta al bisogno di rivalsa sul mondo. Per cui non era l’ansia per la sua salute a muoverlo, ma semplicemente il desiderio di evitare scandali che potessero rallentare la sua corsa verso il Congresso.

Non si era minimamente interessato al fatto che questa per lui fosse la cosa più importante di tutta la sua vita: si era limitato a non prenderlo sul serio. L’aveva fatto anche con i suoi studi infermieristici. Aveva ripetuto per mesi che si sarebbe stufato da un momento all’altro e che avrebbe presto rimpianto il tempo sprecato appresso a ospedali e malati. E quando si era reso conto che invece lui era davvero determinato a diventare infermiere e non mostrava il minimo segno di cedimento, allora aveva cominciato con la solfa di quanto fosse un mestiere umile e noioso, una cosa da donne, del tutto priva di interesse.

Persino la sera della festa per il suo diploma da infermiere si era presentato con un paio di stupide ciabatte bianche come regalo. Si era messo a commentare quanto ridicola fosse l’idea di dedicarsi all’assistenza negli ospizi e come il tutto fosse deprimente. E lui, come un idiota, aveva fatto finta di niente, gli aveva riempito il bicchiere e si era sentito appagato di un abbraccio come contentino.

In cambio, aveva accettato di testimoniare per lui contro Linderman, e quindi conto suo padre. Si era offerto come strumento.

Era un imbecille che si immolava agli scopi di suo fratello. Era un mezzo che Nathan usava a suo piacimento e poi sbatteva in un angolo fino a che non gli fosse tornato utile.

Perché era così, lui c’era sempre.

C’era stato come testimone di nozze.

C’era stato in ospedale quando Heidi era sotto i ferri, era lì per abbracciare suo fratello e stargli vicino, e vedersi trattare come un mongoloide perché aveva sognato l’incidente, e non aveva reagito perché lui stava male e aveva bisogno del suo appoggio. Era rimasto lì a guardarlo parlare con il medico e a calmarlo, dopo, perché sua moglie aveva perso l’uso delle gambe, e aveva sofferto come un cane perché Nathan soffriva.

E aveva detto che sì, era disposto a tradire anche il suo stesso padre per aiutarlo nel processo, e mentre quello si ammazzava lui, Peter, era a casa in maniche di camicia, davanti allo specchio, a provare il discorso che avrebbe pronunciato in aula contro di lui, l’uomo che gli aveva dato la vita e l’aveva cresciuto.

Era lì ogni volta che suo fratello cedeva alle proprie umane debolezze. L’aveva coperto a proposito della bionda di Las Vegas, si era fatto dare del pazzo alla serata elettorale, reagendo con due miseri pugni. Avrebbe fatto meglio a spaccargli la testa.

Ogni volta, ogni misera volta che Nathan aveva bisogno di qualcosa, era da lui che si aspettava appoggio. Ricorreva a Peter quando non si bastava da solo, e tutte le volte Peter era lì. Un cenno, un appello, una telefonata o a volte addirittura solo uno sguardo, come quello feroce e disperato che gli aveva rivolto attraverso il vetro mentre il primario gli annunciava che sua moglie non avrebbe più camminato, e Peter si precipitava e lo sorreggeva di fronte a qualunque problema, anche a un suo proprio errore. Perfettamente logico e normale, a parer suo: si trattava di suo fratello, in fin dei conti, e riteneva naturale il sostegno totalmente incondizionato che gli forniva. Non stava a lui giudicare il proprio fratello, il mondo intero era già abbastanza brutale verso i suoi abitanti senza mettersi a darsi addosso anche tra consanguinei.

Ma tutto questo in cambio di cosa?

Di sdegnosa condiscendenza, al momento di ricambiare. Di commenti al vetriolo e indifferenza, nel migliore dei casi. Non era egoista, Peter, non faceva le cose allo scopo di ottenere un tornaconto e non si aspettava che la gente fosse generosa con lui solo perché era lui il primo ad esserlo. Ma Nathan non era “la gente”. E qui stava tutta la differenza, perché invece per Nathan lui non era più di chiunque altro: un voto nell’urna e un oggetto da usare. Che stesse bene, che si sentisse realizzato o che avesse un problema per suo fratello non faceva differenza, fintanto che si lasciava manipolare e che non creava difficoltà.

Non aveva mai capito. Era rimasto accanto a quell’uomo egocentrico e profittatore ripetendosi storielle buoniste e svenevoli sulla grandezza del loro legame e la stima reciproca, quando tutto era sempre e soltanto a senso unico, si era rinchiuso nel pensiero infantile in base al quale il suo fratellone era una persona straordinaria –qualunque bambino lo pensa- e un eroe inarrivabile.

Ma non c’era nessun eroe. C’era solo un uomo che sapeva quanto lui lo amasse e che ne approfittava meglio che poteva. Ed era giunto il momento di affrontare la verità, ovvero che Nathan utilizzava consapevolmente il suo affetto senza davvero ricambiarlo.

Per qualche istante riuscì persino a dimenticarsi che stava per morire, che alle otto e dodici di quella sera sarebbe stato accartocciato su un pavimento, privo di vita. L’interezza della sua persona fu attraversata dalla consapevolezza che tutto l’amore che da ventisei anni riversava su Nathan era una sua costruzione mentale totalmente univoca, e forse la cosa peggiore era che per tutto quel tempo aveva volutamente ignorato la realtà dei fatti. Il senso di solitudine lacerante che ne conseguì lo portò a ripiegarsi su se stesso, rannicchiato sul sedile dell’autobus.

Il taxi frenò stridente, riscuotendolo dal torpore oscuro in cui si era avvolto. Gettò fuori lo sguardo e constatò che era solo per via di un semaforo rosso, non era ancora arrivato; meglio così, perché non era sicuro che le sue ginocchia l’avrebbero retto perfettamente, in quel momento, e non voleva presentarsi a Nakamura con l’aria di tenersi a stento in piedi: non sarebbe stato molto rassicurante, in vista di quel che progettavano di fare.

Poteva anche morire, quella sera. Non sarebbe importato molto a nessuno.

Seppe che era falso nel momento stesso in cui formulò quel pensiero, e fu come rinsavire tutt’a un tratto. E non solo perché sua madre, gli amici, Simone e alcuni altri avrebbero effettivamente sofferto, ma perché gli era tornata in mente l’espressione del volto di Nathan nel momento in cui, fermo in strada, aveva capito che lui stava per buttarsi giù dal tetto.

Perso.

L’aveva guardato con un terrore tale da superare persino la sua immaginazione.

Sorrise vagamente tra sé, osservando la sua immagine riflessa nel vetro.

Nathan aveva un suo modo di amare, l’aveva sempre saputo e pensato ed era per questo che non se l’era mai presa per le sue piccole meschinità. Ma gli voleva bene, nella sua strana maniera contorta da pescecane d’alto bordo.

Era un’idea infinitamente più rassicurante. Tanto che, tutto sommato, se anche la verità fosse stata invece la sua “illuminazione” precedente, preferiva lo stesso questa. S’era appena detto che ventisei anni passati a fingere di non vedere come stavano le cose erano un dolore immenso. Ma se c’era riuscito per tutto quel tempo poteva tranquillamente continuare.

Posto che non stesse un tantino esagerando, preso dalla foga di quella giornata fatidica.

Il sorriso sincero ed emozionato di Nathan, anni prima, gli balenò in mente smagliante.

“Le chiese mi mettono a disagio,” diceva lui imbarazzato in quel ricordo lontano.

“Sei l’unico uomo al mondo che accetterei come testimone. Se ti tiri indietro, falsifico la tua firma,” rispondeva suo fratello maggiore con la massima tranquillità.

Nathan aveva solo paura che gli succedesse qualcosa.

Questo non faceva male.

Ridacchiò silenziosamente, mentre lo sguardo gli cadeva distrattamente sull’orologio.

Non s’era reso conto che fosse già così tardi. Il tempo passa in fretta, nel proprio ultimo giorno di vita. E lui ancora non aveva idea di come poteva salvare una ragazza sconosciuta da un killer ignoto. Le sue personalissime autocommiserazioni, forse, potevano essere riservate ad un altro momento.

Chissà se Nakamura aveva con sé quella spada che gli aveva visto indosso quando era giunto dal futuro. Poteva anche risultare utile, in casi estremi…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi sono sempre chiesta come si sentisse Peter durante il viaggio verso il Texas, aspettando di morire. Ho tentato di immedesimarmi, e mi è sembrato plausibile che ad un certo punto delle frenetiche riflessioni sula serata imminente, la testa partisse semplicemente. Le rare volte che mio fratello fa qualcosa contro di me, o che mi sembra tale (mio fratello, a differenza di Nathan, è un tesoro), ho sempre l’impressione che la mia vita perda buona parte del suo significato e mi sembra che una delle mie grandi certezze svanisca nel nulla, salvo dopo qualche minuto rendermi conto che sto un tantinello ingigantendo le cose. Ma quel pugno di secondi in cui mi convinco di non essere mai stata importante per lui sono la cosa più desolante di sempre.

 

  X Ladyfedora: quanta saggezza… Ed è vero, Nathan è uno stronzetto. Anche se… Ultimamente mi è quasi simpatico. Sarà che a forza di psicanalizzarlo mi faccio delle ide… Grazie.

  X Crazy Dark Queen: lietissima di incontrare il tuo favore. In effetti preferire Nathan a Peter non mis embra solo strano, mi sembra inconcepibile. Ma de gustibus eccettera. ^__^. Grazie, spero continuaranno a piacerti queste finestrelle su di loro.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI. Un povero pirla ( ***


VI. Un povero pirla

(“troppo tardi” è un concetto insopportabile)

 

      Tuo fratello sta dormendo.

Tuo fratello sta dormendo, lì, in quel letto bianco e impersonale, con quei maledetti tubi che gli s’infilano nel corpo, anche nel naso per fargli scendere l’aria fino ai polmoni.

Vorresti poter respirare tu al suo posto, e passargli per osmosi la vita e la salute che ci sono dentro di te, vorresti strapparti via i polmoni e darli a lui per farlo sopravvivere meglio. Vorresti anche  alzarti ed urlare fino a quando non rimarrai senza fiato e ti brucerà la gola, e tirare pugni ai muri tanto da spaccarti le dita e i polsi, e fare a pezzi tutto quello che vedi, spezzare la gamba di quella dannata sedia e i vetri delle finestre, avventarti su quei maledetti schermi che mostrano attraverso stupide linee elettriche la lenta morte di tuo fratello, come se fosse lo schifoso grafico del tuo gradimento nei sondaggi tra gli elettori, e ridurli a un cumulo di merdose componenti elettroniche sbriciolate.

Ma non riesci a fare niente, nemmeno a pensare di muoverti. Come se non potendosi muovere lui fossi immobilizzato anche tu. Non riesci a smettere di guardarlo e sentirti morire lentamente anche tu, e di pensare che, cazzo, lo avevi detto a quella ragazza che non doveva dirgli dove andare. Che se gli voleva davvero bene doveva lasciar perdere o lui si sarebbe fatto ammazzare, che per la salute di tuo fratello lei poteva anche far finta di non sapere più nulla del quadro e la faccenda sarebbe morta lì, meglio evitare di assecondarlo. Ma no, invece lei ha dovuto andargli appresso e mandarlo a cercare la cheerleader – che poi quando mai si è visto un eroe salvare il mondo salvando una ragazza ponpon, che razza di idea assurda, proprio tipica di Peter, il re dei castelli in aria.

Beh, che ti potevi aspettare da lui? E’ Peter, se si è trovato una donna se la sarà trovata matta come un cavallo, come lui. Almeno così andranno d’accordo, sempre se riescono a sopravvivere l’uno all’altro per più di due settimane.

Sopravvivere.

Tuo fratello deve sopravvivere. Non può morire così, a ventisei anni, perché è svenuto.  Non può farti questo, non lo perdoneresti mai: proprio lui, che ha sempre messo gli altri prima di se stesso, te in particolare, non può volerti fare così tanto male, in modo così assoluto e irrimediabile, non riesci a credere che stia facendo questo a te. E’ anche se ti rendi conto che è un pensiero mostruosamente egoista non riesci a smettere di ripeterlo nella tua mente, come una preghiera: non farmi questo, non farmi questo.

Sei arrabbiato con lui, per quello che riesce a farti, che ti ha sempre fatto: con questa dannata storia che lui è più simile a papà hai sempre avuto paura che si scoprisse malato anche lui, un depresso. E ogni volta che sta male stai male, ma fai finta di niente perché non vuoi che lui lo veda, non vuoi che si accorga che sei debole anche tu e che smetta di guardarti con quell’ammirazione che gli spunta negli occhi ogni volta che ti vede, e che ti fa sentire l’uomo più potente del mondo.

Ma adesso Peter non ti può vedere, nemmeno volendo. E tu non ti sei mai sentito così solo.

Non t’importa più di mostrarti tutto d’un pezzo, di essere l’uomo brillante e ambizioso che tutti sanno, lo squalo che ami professare di essere: perché Peter forse sta morendo e qualunque altra cosa nel mondo è priva di significato. L’unica cosa che esiste è il volto bianco e spento di tuo fratello, occupa tutto il tuo campo visivo e ti schiaccia a terra facendoti troppo male. Non sei niente, non puoi fare niente. Se continuerà così a lungo diventerai pazzo, perché questa lenta impotenza ti sta facendo saltare i nervi e persino tua madre che continua a rivolgersi a tutti i grandi medici che le capitano a  tiro comincia a farti venire voglia di spaccarle qualche osso.

Sei arrabbiato. Sei arrabbiato con Simone perché non ti ha dato retta, ed ha fatto vedere a Peter la foto del quadro, dopo che tu ti eri dato tanta pena per entrarne in possesso e distruggerlo per evitargli guai, anche se questo ha significato il dover tradire la fiducia che lui riponeva in te e che adesso ti brucia addosso come veleno, perché non la meriti. Continui ad essere arrabbiato, anzi  furioso con lui e avresti voglia di dargli due belle sberle come quand’era piccolo, perché è un’incosciente, perché per te la sua vita è una delle cose più preziose che siano mai esistite e non riesci ad accettare che la metta a rischio così alla leggera, e se dovessi scegliere tra salvare il mondo e salvare Peter tu sceglieresti Peter. Ma lui no, per lui gli altri contano di più. Non si vuole molto bene, ed è anche colpa tua. Per questo quello con cui sei più incazzato sei proprio tu: tu che te ne freghi dei suoi problemi o fai di tutto per farglielo credere, tu che spesso dimentichi quanto la tua famiglia sia più importante della tua carriera, per poi trovarti qui a piangerti addosso come un povero pirla perché te la sei presa con tuo fratello rimproverandogli di volerti rovinare le elezioni, quando lui poteva solo più andare in giro con un maxischermo e sopra scritto “aiutami, Nathan”, ché in nessun altro modo è riuscito ad attirare la tua attenzione. E sei incazzato con te stesso perché quando sei arrivato alla polizia e lo hai visto, lì seduto su quel lettino, sconvolto e con la tosse, la maglietta bianca tutta sporca di sangue –Dio, era suo, quel sangue? Il tuo ha smesso di scorrere, a quella visione, e ti sei chiesto se era intero o se l’avevano ferito e nessuno te lo voleva dire- invece di ridere di gioia come è stato il tuo primo impulso fare, ti sei dovuto mostrare acido e scostante per restare nel fottuto personaggio che ti sei cucito addosso. E ti sei messo a fare il superiore e trattarlo come uno spostato o come un matto, mentre lui era lì che tossiva e barcollava –perché, perché stava a stento in piedi? Come mai sul momento non ci hai quasi fatto caso? Fai schifo, come fratello sei una totale nullità.

E te lo sei portato via mostrandogli per bene che in qualche modo ti vergognavi di lui e che lo consideravi un povero squilibrato, e soltanto svenendo è riuscito a farti smettere di delirare con le tue manie di grandezza. Ha dovuto andare giù a terra come un sacco perché tu ti rendessi conto che non stava bene, e sì che non aveva davvero una bella cera, perché tu smettessi di concentrati su te stesso e capissi che ad avere bisogno di appoggio era lui e non tu. Ti odi, vorresti prenderti a pugni fino a romperti la mascella o il naso, e poi ancora, perché questa è l’immagine di te che forse gli hai lasciato, quella di uno stronzo arrogante che di lui se ne sbatte. Complimenti, Nathan, davvero un ottimo lavoro.

E adesso ti tormenti, e ti sta bene, e continui a vederlo lì per terra, appoggiato alle tue braccia, smarrito e senza fiato, terrorizzato mentre tu balbettando gli chiedi di respirare e lui già non ti sente più. Lo rivedi così fragile, boccheggiante, che si regge in piedi a fatica mentre tu ironizzi sulle sue parole, e quelle confidenze che ti fa cercando di spiegarti la storia assurda che ha in testa non le stai nemmeno ad ascoltare, lo schernisci in un momento in cui lui è così debole –Cristo, non riusciva nemmeno a camminare, perché dovevi essere così stronzo? Perché non gli hai dato una mano? Cazzo, è tuo fratello.

Ti fai schifo. Stava delirando? Forse, anzi di certo. E allora? Sei comunque suo fratello e contava su di te, ha cominciato a parlare a macchinetta appena ti ha visto nonostante non avesse fiato, e anche se i suoi deliri su gente con strani poteri e poliziotti che leggono il pensiero erano folli, gli stavano a cuore. Dovevi starlo a sentire, Nathan, o almeno parlare con lui in modo normale. Ora te lo ripeti, ma è troppo tardi. Risenti le tue frasi feroci e cattive, sbeffeggianti. “Salvare il mondo? Per il momento mi accontenterei che tu camminassi dritto. Ti senti arrossire di rabbia e di vergogna. Era così debole, così fragile, e tu hai saputo soltanto dargli addosso.

Ti asciughi le lacrime, rendendoti conto che ti stavano sgorgando dagli occhi solo nel momento in cui senti le dita umide.

Quando ti sveglierai, Peter, tuo fratello ci sarà. Smetterà di pensare alle sue elezioni, davvero, si sforzerà di concentrarsi su qualcosa che non sia se stesso e ti darà una mano per venire a capo di questa storia. Ti stai sbagliando, Peter, tu non c’entri niente con questa bomba di cui parli. Tu non faresti male ad una mosca, sei talmente buono da sfiorare l’irrealtà e tuo fratello lo sa.

Gli ripeti questo, e tanto altro, stringendo la sua mano inerte nella tua. Gli ripeti che lo ami e che hai bisogno di lui, e non viceversa, gli riveli tutte le cose che da sveglio non potresti mai dirgli, che lo stimi e che sei orgoglioso di lui, che vorresti somigliargli di più. Che la sua generosità non è debolezza ma forza e che il fratello manchevole non è lui, ma tu. Quando si sveglierà e ritroverai la tua razionalità, negherai anche con te stesso di aver pensato cose del genere, ma adesso non hai tempo né energie da sprecare per banali questioni d’orgoglio e amor proprio.

Perché si sveglierà. Tu lo sai, si deve svegliare.

Si sveglierà

     E invece no.

I giorni passano e Peter non si sveglia. E dopo qualche altro giorno non hai più nemmeno la forza di essere arrabbiato, nemmeno con te stesso. Hai solo più la disperazione e la paura a sorreggerti. Cominci a guardare in faccia, davvero, l’ipotesi che tuo fratello non si sveglierà più, e ti senti annegare. Hai la barba da fare e l’aspetto di un cocainomane più che quello di un futuro membro del Congresso, ma quasi ti sei dimenticato del Congresso. Hai solo voglia di piangere, ma tua madre si tormenta già abbastanza senza che ceda anche tu. Stringi i denti, rimani composto e le intimi di non dire fesserie quando parla della morte di Peter, in modo aggressivo, rabbioso, perchè sono passate due settimane e le cose rimangono stazionarie.  Cominci a non sperare più nemmeno tu. Hai sonno, gli occhi cerchiati e gonfi di stanchezza, ma tanto sai che non puoi dormire.

E poi torna Simone. Con dei fiori che lascia a tua madre. Le ascolti parlare di febbre idiomatica cronica, di medici che non sanno che cosa lui abbia. Meccanicamente contraddici tua madre per l’ennesima volta quando accenna all’imminente morte di Peter e seccamente le suggerisci di lasciar lavorare i medici mentre lei ansiosa se ne va, probabilmente a richiedere un altro inutile consulto.

E’ la prima volta che rimani da solo con Simone. Tua madre non sa nulla e non potevi parlare liberamente in sua presenza. Di colpo ti torna la rabbia verso questa ragazza che ha mandato tuo fratello a morire. Pensi a qualcosa di maligno e sottile da dirle per rinfacciarle la sua colpa, come se questo potesse in qualche modo darti sollievo, ma lei ti previene e parla per prima.

“Se avessi saputo cosa sarebbe successo…” inizia, accarezzandogli il petto.

Ti senti svuotato, d’un tratto. Tu lo sapevi, ma nessuno ti ha dato retta. Invece l’unica cosa che sai adesso, è che tuo fratello sta morendo per una storia senza senso di poteri psichici e cheerleader che salvano il mondo.

“Appena prima di cadere in quello stato parlava del fatto che gli sembrava di stare assorbendo troppi poteri,” annunci, con calma ma senza celare una vena accusatoria. Hai la voce arrochita, strascicata.

Lei capisce a cosa ti riferisci, s’irrigidisce.

“Peter voleva vedere quel quadro,” ribatte tornando a voltarsi verso di lui.

“Avevo cercato di dirti di non farglielo vedere,” rispondi grave, spazientito. Tu lo conosci bene, Peter vuol fare spesso cose che la ragione imporrebbe di evitare. “Sapevi che avrebbe seguito quel quadro e che si sarebbe precipitato in Texas all’istante,” aggiungi freddamente. Lei ti guarda addolorata, e tu ti senti ribollire ulteriormente. “E’ mio fratello e gli voglio bene, ma sappiamo entrambi che non avrebbe dovuto essere lì,” specifichi con collera repressa.

“Era importante per lui,” ribatte Simone accarezzando il ragazzo con lo sguardo.

Daresti un pugno sul tavolo se ne avessi uno a portata di mano. Ma non ce l’hai. E allora ti sfoghi verbalmente, perché sì, cazzo, era importante per lui ma era una pazzia e bisognava impedirglielo, ma soprattutto, anche se non lo ammetteresti mai, perché ti fa rabbia che lei si sia accorta di quanto tutta la faccenda fosse davvero importante per Peter, mentre tu come al solito non l’hai preso sul serio. Lo tratti sempre come un ragazzino e questo è il risultato.

“Tu credi davvero a tutte queste cazzate?” la schernisci irato. “Pittori? Quadri?... La fine del mondo?” enumeri, calcando bene il tuo sarcastico scetticismo sull’ultimo punto dell’elenco. Lei si volta indignata vero di te. E la sua risposta ti fa sentire la più misera, schifosa tra tutte le creature che mai abbiano popolato il mondo.

“Io so che lui ci crede. E io credo in lui.

Un pugno nello stomaco. Ti accasceresti sulla sedia accartocciandoti su te stesso, se un ultimo barlume di dignità non te lo impedisse. Sbatti via il giornale che avevi in mano –nemmeno te n’eri reso conto- e ti alzi. Reagisci duramente per non mostrare quanto quella semplice frase ti ha fatto male. Perché chi se non tu, suo fratello, avrebbe dovuto credere in Peter? Non è questo essere fratelli, fornirsi appoggio incondizionato?

“Va bene. Dimostramelo,” la sfidi con sicurezza. “Siamo in ospedale da due settimane aspettando che succeda qualcosa. Impazzirei se dovessi ancora restare qui a guardare mio fratello morire,” le spieghi altero, con l’aria di non essere poi così distrutto. “Portami dall’artista. Voglio proprio vedere se ne è valsa la pena,” concludi infilandoti la giacca. Lei nemmeno risponde, si limita ad alzarsi a sua volta, annuendo appena.

Ti disinteressi per qualche secondo della presenza di lei accanto alla porta, pronta a fare quanto le hai chiesto. Ti avvicini a tuo fratello e ti chini su di lui, gli baci una guancia, fredda e immobile, vorresti abbracciarlo.

“Ti voglio bene,” lo saluti in un mormorio.

Dovresti dirglielo più spesso quando ti può sentire. Ti riprometti che lo farai.

E poi ti volti, sforzandoti di reagire al contraccolpo del dolore di staccarti da lui e non sapere con certezza che quando tornerai sarà ancora vivo. Ma già ti senti un pochino più leggero.

      Nascondilo pure a te stesso, se ti fa sentire meglio, ma il tuo proclama di voler verificare di persona è solo una montatura: quello che vuoi in realtà è entrare nel mondo di Peter, per poter credere in lui a tua volta. Quello che vuoi è riavvicinarti a tuo fratello e riguadagnarti la sua fiducia, e vederlo sorriderti quando sarà sveglio. Pensi che sarà semplice, Nathan. In qualche modo, pensi anche che comunque è tutto una fantasia, che lo farai ragionare.

Ti stai sbagliando, Nathan. E continuerai a sbagliare ancora.

Continuerai finché non vorrai davvero capire quel che Peter possiede, un altruismo spontaneo ed esente da ogni tipo di calcolo.

Avrai tempo per capire.

Forse.

O forse New York esploderà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di chiusura:

Questa volta mi sono di nuovo concentrata esclusivamente su Nathan e sul suo punto di vista. E’ una specie di arringa rivolta a se stesso, mentre le ultime righe sono una specie di commento di un presunto narratore onnisciente.

Non c’è molto da dire. Come al solito il dialogo vi sembrerà forse leggermente diverso da quello che conoscete, se l’avete visto in italiano. Sinceramente non ne ho idea. C’è una frase che nella versione originale ha una resa bellissima, ed è il saluto che Nathan rivolge a Peter uscendo: “I love you, man”. Non sapevo come rendere il tono affettuoso e confidenziale che assume nella lingua originaria, per cui mi sono limitata a tradurla con “ti voglio bene”, che mi sembrava l’espressione più semplice ma anche la più affine.

Inoltre, vorrei precisare che il titolo del capitolo non costituisce in alcun modo un’espressione del mio giudizio sul personaggio, ma riprende un’espressione che lui stesso si rivolge nel delirio. Volevo che fosse chiaro, perché se no se ne travisa completamente il significato.

E’ tutto, mi pare.

Suni

 

   X Crazy Dark Queen: Grazie. In effetti quel che volevo trasmettere era proprio quella sensazione esagerata di mondo che ti crolla addosso… Nathan e Peter mi piacciono molto come fratelli. Rendono bene l’idea dell’affetto e dell’incomunicabilità che regolano spesso i rapporti fraterni, quelle voragini di cose non dette e non capite volontariamente nonostante l’importanza reciproca. A presto.

   X Shari_Aruna:… Spero che Nathan non risulti melenso nemmeno qui. Non era mia intenzione renderlo tale, ma immagino non siano state due settimane piacevoli quelle del coma di Peter. E Nathan non è poi quel blocco di marmo, in fin dei conti. Grazie per tutti quei complimenti, spero non sarai delusa. Ciao

   X Elly:… Ma guaaaarda… Anche tu qui! E’ un piacere ritrovare i commentatori nei fandom diversi! Che bello che ti piaccia sempre come scrivo… Comunque, riguardo a Nathan ci tengo a specificare che capisco e condivido certi suoi atteggiamenti, soprattutto per quanto riguarda il lato più personale, quello del family man… Non sto scrivendo con l’intenzione di mettere Peter né nessuno dalla parte “della ragione” e se invece sembra così devo aver sbagliato qualcosa… Quello che non mi piace di Nathan è più che altro caratteriale. Anche se, garantito, non è assolutamente uno dei personaggi che mi piacciono di meno… Almeno ha un suo perché. A presto!

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=181853