Rapimento e riscatto

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Abbiamo un'emergenza ***
Capitolo 3: *** Merce di scambio ***
Capitolo 4: *** L'appuntamento ***
Capitolo 5: *** Il tre è perfetto ***
Capitolo 6: *** L'Arizona Memorial ***
Capitolo 7: *** Victor Hesse ***
Capitolo 8: *** Il curioso caso di Benjamin Lee ***
Capitolo 9: *** Evasione ***
Capitolo 10: *** Piscina coperta ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ecco la mia seconda fanfiction su Hawaii Five-0.
É il primo lavoro che ho scritto ma è cronologicamente successivo a Makani, già pubblicato.
Auguro a te che sei arrivato qui BUONA LETTURA!
E se vorrai recensire, te ne sarò grata!



L’oceano era stranamente calmo, come se vi fosse stato versato sopra dell’olio. La luna si rifletteva su quella tavola blu creando un lungo nastro d’argento che sembrava condurre direttamente in una dimensione di sogno.
Eppure c’era chi, a quell’ora antelucana, non dormiva e non sognava affatto.
Due figure scure, avvolte in pesanti abiti neri nonostante il caldo di quella serata, scavalcarono il muretto che delimitava la proprietà di Danny.
Il detective Danny Williams era arrivato alle Hawaii tre anni e mezzo prima. La sua ex moglie si era risposata e trasferita con il proprio compagno in quell’angolo di Oceano Pacifico. Per Danny non sarebbe cambiato nulla, sennonché la donna aveva portato con sé Grace, la bambina avuta durante il loro matrimonio. A quell’epoca la bambina aveva poco più di otto anni e Danny le aveva seguite proprio per starle accanto. Adorava la bambina – e non era difficile volerle bene perché sapeva farsi amare da tutti – e non sarebbe mai stato capace di resistere lontano da lei.
Perciò aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento ed aveva cominciato la propria attività nel 50° Stato. Pochi mesi più tardi si era ritrovato ad indagare su un caso di omicidio. La vittima era John McGarrett. Ciò che Danny non poteva sapere era che quell’indagine gli avrebbe cambiato la vita.
Il figlio di John, Steven McGarrett, era rientrato in fretta e furia dalla missione che stava comandando ed era stato subito avvicinato dal Governatore delle Hawaii. La donna, che aveva visto l’impressionante curriculum di Steve (cinque anni nell’Intelligence della Marina e sei nei Navy SEAL) gli aveva chiesto di formare una task-force con libertà di movimento su tutto il territorio per combattere il crimine.
Steve, dopo un iniziale rifiuto, aveva accettato e aveva chiesto a Danny di affiancarlo. La squadra si era poi completata con altri due elementi: Chin Ho Kelly, ex poliziotto sbattuto fuori dal Dipartimento a causa di una storia di corruzione per la quale lui si diceva innocente, e Kono Kalakaua, giovane e brillante recluta, cugina di Chin, che aveva fatto il primo lavoro per i Five-O (come loro amavano definirsi) quando ancora non si era diplomata all’Accademia di Polizia. Otto mesi più tardi, un ultimo membro aveva fatto il suo ingresso nel team. Era Nicole Kalea Knight, l’esperta informatica della squadra.
Le due figure avanzarono nel buio, chine in avanti. Giunte ai lati della porta di servizio si fermarono e scrutarono intorno. Quando furono certi che era tutto tranquillo, il più basso dei due fece un leggero cenno del capo e l’altro si inginocchiò davanti alla serratura. Trasse di tasca un piccolo taccuino da cui prese gli attrezzi necessari ad aprire la porta. Armeggiò per qualche istante finché, con un leggero scatto, la porta si aprì.
Estrassero velocemente le loro armi ed entrarono in casa. Si trattava di un piccolo appartamento che Danny occupava da quando era arrivato a Honolulu. La porta di servizio si aprì su un piccolo cucinino. Sul tavolo c’era un cartone della pizza vuoto e nel lavello c’erano delle stoviglie sporche, resti della cena della sera precedente.
Sul lato opposto, una porta conduceva nell’altro locale, un piccolo salotto in cui era sistemato il divano letto su cui Danny dormiva.
I due uomini sbirciarono il letto. Danny dormiva con i soli boxer addosso e in quel momento era a pancia in giù, con il lenzuolo attorcigliato alle gambe. Era muscoloso anche se non atletico come Steve e sapeva cavarsela senza troppi problemi anche in un corpo a corpo.
Si avvicinarono silenziosamente alla figura dormiente e rimasero contrariati nel notare che la ragazzina non c’era. Secondo le loro informazioni, Grace avrebbe dovuto trascorrere il week-end con il padre, eppure non era lì. Uno dei due sbirciò nel bagno che era vuoto. No, la ragazza non c’era. Avrebbero dovuto accontentarsi del padre.
I due uomini sobbalzarono quando Danny si girò nel letto, sospirando nel sonno, ma l’uomo non si svegliò e i due si avvicinarono di nuovo al letto. Nel buio, uno dei due inciampò in una delle scarpe che Danny aveva lasciato in giro e perse l’equilibrio. Si appoggiò al comodino per sostenersi, rovesciando la piccola lampada che c’era posata sopra e mandandola in frantumi.
Danny si svegliò di soprassalto, e vide immediatamente l’uomo che si frapponeva fra sé e la finestra. E, chiarissima, distinse la forma della pistola. Non aveva tempo per pensare né per chiedersi chi fossero quei due, ma ringraziò Dio che Grace non fosse venuta quel weekend. Benedetta la febbre che l’aveva costretta a rinunciare alla visita!
Con una mossa improvvisa, Danny scalciò verso l’uomo che aveva davanti a sé, colpendolo alla bocca e spaccandogli un labbro contro i denti. Per il dolore, l’uomo perse la presa sull’arma. La pistola cadde a terra e Danny fece per alzarsi. Ma non aveva visto l’uomo alle sue spalle. Prima che Danny potesse rotolare giù dal letto, il secondo uomo gli si gettò contro, schiacciandogli la pistola contro la nuca e premendo il grilletto.
La scarica elettrica bloccò Danny che cadde a terra di schianto, privo di conoscenza.

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Capitolo 2
*** Abbiamo un'emergenza ***


A due chilometri dall’appartamento di Danny Williams, Steve e la moglie Nicole stavano dormendo tranquillamente nel loro letto.
Nicole indossava un completino giallo, pantaloncini cortissimi e canotta. Steve indossava soltanto un paio di pantaloncini. Dormivano abbracciati nonostante il caldo, le gambe di Steve avvinghiate a quelle lunghe e brune di lei e lui le circondava la vita con un braccio. Diceva sempre che non riusciva più a dormire senza Nicole.
L’intesa fra loro era stata immediata. Nicole era arrivata per essere il loro supporto informatico ma era bravissima nelle missioni sotto copertura e Steve non ci aveva messo molto a capire le sue potenzialità. D’altronde, dal primo momento in cui aveva messo piede nella loro base operativa, Steve l’aveva marcata molto stretta.
Nicole aveva abbastanza sangue hawaiano nelle vene da parte di madre per sfoggiare due splendidi occhi a mandorla, di uno strabiliante colore viola, e una pelle del colore dell’ambra scura. Ci aveva messo poco più di una settimana per conquistarsi l’affetto dei suoi colleghi e poco meno di un anno per mettere l’anello al dito al comandante McGarrett che l’aveva portata all’altare in un assolato mattino d’estate.
L’iPhone4 di Steve prese a strepitare sul comodino. Nicole spalancò immediatamente gli occhi: erano piuttosto abituati alle sveglie notturne, ma erano ormai un paio di mesi che la situazione pareva abbastanza tranquilla. Evidentemente la tregua era finita.
Alzò la testa per controllare che non fosse il suo cellulare mentre Steve si girava nel letto per afferrare l’apparecchio prima che cadesse dal comodino. Sbirciò il display.
«È Danny» esclamò con voce assonnata, aprendo la comunicazione. «Ma lo sai che ore sono, razza di un delinquente? Sto pensando di farti arrestare» sbraitò Steve, mentre Nicole sorrideva.
Il rapporto tra i due uomini risultava ancora strano a Nicole che pure li conosceva da un po’. Come erano diversi fisicamente, così erano differenti nel carattere. Steve era impulsivo e precipitoso. Era portato a cercare di risolvere tutto con la forza e non disdegnava di utilizzare mezzi e modi al limite del consentito per ottenere ciò che voleva.
Danny era l’opposto. Era riflessivo e sempre molto cauto, il compagno perfetto per tenere a bada l’irruenza di Steve. Nonostante le differenze però erano una buona squadra, si equilibravano a vicenda; si stimavano profondamente e si volevano molto bene.
La battuta scherzosa confermava infatti la loro grande amicizia. Solitamente, Danny rispondeva a tono ma stavolta Steve non udì la solita replica al vetriolo del suo compagno. Il telefono era stranamente muto tanto che Steve osservò il display per capire se fosse caduta la linea.
«Ascolta bene ciò che ho da dirti, comandante McGarrett» disse all’improvviso una voce chiaramente contraffatta.
Steve si rizzò su un gomito, improvvisamente allarmato.
«Chi sei?» domandò.
Nicole capì che doveva essere successo qualcosa e accostò l’orecchio per poter sentire anche lei.
«Le domande le faccio io, chiaro?» rispose di nuovo quella voce.
Steve tacque, attendendo che l’altro proseguisse.
«Bene, McGarrett. Le capisci in fretta le cose. Ascoltami attentamente perché non mi ripeterò. Ho bisogno che tu faccia una cosa per me. E per essere sicuro che la farai, il detective Williams starà un pochino in compagnia mia e dei miei ragazzi. Se farai ciò che richiedo, lo rilascerò senza torcergli un capello. Ma se mi deluderai o proverai a fregarmi, potrebbe passare momenti poco piacevoli. Sono stato chiaro?».
«Sì» sospirò Steve. «Cosa vuoi che faccia?».
Risuonò una risata metallica.
«Tutto a suo tempo, mio caro Steven. Ti chiamerò tra un paio di giorni per darti maggiori informazioni. Se avvisi la polizia, Danny è un uomo morto. Però sono un uomo magnanimo e quindi ti permetto di parlarne con la tua squadra di tirapiedi, considerando soprattutto che probabilmente avrai bisogno anche del loro aiuto. Ma per tutti gli altri dovrai inventare qualche scusa per giustificare l’assenza di Danny. Immagino che ovviamente l’affascinante signora McGarrett sia lì al tuo fianco e abbia sentito tutto. Tutto chiaro?».
«Come faccio ad essere sicuro che tu non l’abbia già ammazzato? Fammi parlare con lui, dimostrami che è vivo».
L’altro ridacchiò di nuovo.
«Ecco, questo è proprio l’atteggiamento che vogliamo evitare. Ti dovrai accontentare della mia parola, almeno per ora».
La situazione non era per nulla rosea. Steve non poteva permettere che facessero del male a Danny e in quel momento non aveva gli strumenti per poter fare niente. Ma giurò a se stesso che avrebbe fatto di tutto per salvare il suo amico.
«Aspetto la tua chiamata» mormorò Steve rassegnato.
«A presto, comandante McGarrett».
Non appena il rapitore tolse la comunicazione, Steve e Nicole balzarono in piedi, gettando di lato le lenzuola.
«Penso che non troveremo nulla, ma un giro a casa di Danny lo facciamo. Mentre siamo per strada chiamiamo Chin e Kono».
Nicole si infilò una maglietta e un paio di jeans.
«Meglio non parlarne al telefono. Evitiamo di lasciare tracce».
«Hai ragione, ovviamente. Gliene parleremo di persona dunque».
Steve finì di prepararsi e aprì il primo cassetto del comodino. Prese la pistola e si allacciò la fondina al fianco. Nicole fece la stessa cosa con la propria arma.
«Metti il giubbotto antiproiettile» ordinò Steve. «Non voglio sorprese».
Entrambi indossarono la protezione e si precipitarono giù dalle scale.
Steve afferrò le chiavi della macchina sul mobiletto e schizzarono velocissimi fuori di casa. Dato che il garage era occupato dalla Mercury Marquis del ’74 del padre di Steve (che si riproponeva più o meno ogni weekend di finire di costruirla), l’auto della polizia, una scintillante Chevrolet Camaro argentea, dormiva in strada, parcheggiata davanti al vialetto.
Appena furono saliti, Steve partì a razzo. Nicole adorava la velocità quanto lui ed era altrettanto spericolata. Tuttavia si aggrappò alla maniglia della portiera.
Ci avevano messo di più a prepararsi che ad arrivare davanti all’appartamento di Danny. Steve imboccò il vialetto in derapata e, a pochi centimetri dalla porta d’ingresso, pestò sul pedale del freno e la macchina si arrestò bruscamente. Una Camaro identica alla loro ma color grigio topo, l’auto di Danny, era parcheggiata di fianco.
Steve caricò la pistola, imitato dalla compagna, e accese la piccola torcia sotto la canna.
«Io vado avanti, tu coprimi. Occhi aperti, Nicky» raccomandò, e la donna annuì, aprendo la portiera.
Si acquattò al riparo della portiera, puntando l’arma attraverso il finestrino aperto. Steve scivolò fuori dall’auto e corse verso la porta che era solo accostata.
Lì giunto, spalle al muro, fece un cenno del capo verso la moglie che annuì di rimando. Steve spalancò la porta con un calcio, entrando con l’arma spianata davanti a sé. In quel momento Nicole abbandonò il proprio posto per seguirlo.
Il divano letto di Danny era sfatto ma l’appartamento non era stato messo a soqquadro. Controllarono in fretta tutta la casa, coprendosi a vicenda, ma era ovviamente deserta.
Nicole accese infine la luce e si avvicinò al letto. Notò una macchia di sangue sul pavimento e si accosciò, chiamando il marito. Quando Steve si affiancò, gli indicò il pavimento.
«Dobbiamo analizzarlo e controllare se è di Danny. Non è molto comunque. Forse l’hanno solo colpito per metterlo fuori combattimento».
Lavorarono velocemente controllando che non ci fossero prove. Steve constatò che la porta di servizio era stata forzata e nel giardinetto posteriore trovò le impronte di due uomini. Quando si resero conto che non c’era nient’altro per loro, tornarono verso la macchina. Steve lanciò le chiavi a Nicole.
«Guida tu. Lasciami alla base e prosegui. Vai a prendere Max e portalo qui, ho bisogno che faccia dei rilievi e delle analisi su quel sangue. Voglio sapere se è di Danny».
Max Bergman era il medico legale che li assisteva nella loro attività.
«Ok. Appena ho finito con Max ti raggiungo in ufficio. Voglio provare a rintracciare i rapitori».
Mentre parlava, Nicole avviò il motore e fece retromarcia immettendosi in strada.
«Pensi di poterlo fare?» chiese Steve.
«Tempo fa, da quella volta che perdemmo le tue tracce sulle montagne, ho installato un GPS su tutti i nostri telefoni. Proverò a rintracciare il segnale di Danny».
«Funziona sempre? O devi aspettare che mi chiamino?» indagò Steve.
«È questo il bello: non è come rintracciare un segnale di chiamata. Il GPS funziona sempre. Non mi serve nemmeno che il cellulare sia acceso. Mi basta che la batteria sia collegata».
«Bel lavoro!» la complimentò Steve. «È in momenti come questo che capisco perché ti ho sposata».
Nicole sorrise. «Sono io che ho sposato te, comandante. Non scordarlo».
Erano arrivati davanti allo Iolani Palace e Steve si protese verso Nicole, baciandola teneramente.
«Sbrigatela presto con Max. Ho bisogno di averti vicina».
Nicole sorrise. «Farò talmente in fretta che non ti accorgerai nemmeno della mia assenza» mormorò.
«Ne dubito» la contraddisse Steve prima di scendere dall’auto.
Nicole raggiunse in fretta l’abitazione di Max e lo tirò giù dal letto. Gli spiegò quanto era successo e lo pregò di prendere tutta l’attrezzatura necessaria per le analisi.
Max raccolse un campione di sangue dal pavimento.
«Farò un’analisi del DNA per vedere se si tratta del nostro Danny. Speriamo di no».
Max lavorò meticolosamente, chiedendo di tanto in tanto l’aiuto di Nicole che se ne stava in disparte per non intralciare il suo lavoro. Ispezionò la casa intera, ma non trovò nulla di particolare. Alla fine prese anche le misure delle impronte in giardino ma non trovò alcuna impronta digitale.
Nicole lo riportò a casa chiedendogli di mettersi al più presto al lavoro sul sangue che aveva prelevato e raccomandandogli la massima discrezione.
«Certo, non devi preoccuparti» la rassicurò Max.
«Quando hai gli esiti, chiamami che vengo all’Istituto così ne possiamo parlare».
Erano ormai passate le sette quando Nicole parcheggiò la Camaro nel posto riservato. La moto di Chin era nel posto accanto e mentre Nicole slacciava la cintura arrivò anche la Cruze rossa di Kono.
«Ehi, sorella!» esclamò Kono con uno sguardo all’abbigliamento dell’amica. «Sembra che tu abbia passato la notte a dar la caccia a qualcuno».
Lo sguardo di Nicole fece sparire il sorriso dalle labbra di Kono.
«No, non dirmi che c’ho preso».
Nicole la prese sottobraccio e si avviarono insieme verso l’ingresso.
«Abbiamo un grosso problema, Kono. Qualcuno ha preso Danny».
Kono sussultò sorpresa ma Nicole la trattenne.
«Attenta, ci sono occhi e orecchie indiscrete. Vieni».
Nicole e Kono entrarono nell’edificio. Avevano legato molto, essendo le due donne della squadra. Si erano piaciute dal primo momento perché ognuna aveva visto nell’altra i valori di professionalità e senso del dovere che reputava fondamentali. Ormai lavoravano insieme da anni e avevano raggiunto un bellissimo affiatamento ma ciò che contava davvero era l’amicizia che legava la squadra intera.
La sede dei Five-O era l’ultimo ritrovato in fatto di tecnologia. Al centro della stanza centrale c’era un’enorme scrivania il cui piano era un immenso e sofisticato touch screen. Da lì si potevano richiamare tutte le informazioni necessarie ad un’indagine e poi mandarle sui monitor collegati per metterne a parte tutta la squadra.
Sui lati si aprivano poi i vari uffici, tutti delimitati da pareti di vetro. Quello di Danny era il primo a destra dell’ingresso, vicino a quello di Kono. Chin occupava un piccolo spazio sull’altro lato, ma lo usava poco perché preferiva essere impiegato sul campo.
Nicole aveva avuto uno degli uffici più grandi ma l’aveva riempito con tutte le sue apparecchiature informatiche e ora si faceva fatica a passare in mezzo ai computer e ai cavi.
Steve aveva il grande ufficio in fondo alla stanza, le cui finestre si affacciavano direttamente sulla piazza. A destra si apriva invece un corridoio che portava a un paio di stanze per gli interrogatori e all’area ristoro.
Quando entrarono, Chin stava posando la borsa sulla propria scrivania.
«Sono arrivato da meno di un minuto e il capo mi ha già convocato nel suo ufficio» borbottò Chin, rivolto a Nicole. «Si può sapere che gli hai fatto stanotte?» aggiunse poi maliziosamente.
Ma notò subito l’espressione allarmata delle due donne e si fece serio.
«Ahi, ahi. Stavolta è grossa».
Si diressero tutti e tre verso l’ufficio in fondo la stanza. Quando entrarono, Steve alzò gli occhi e si appoggiò indietro sulla sedia. Chin e Kono si sedettero sulle due poltroncine di fronte alla scrivania mentre Nicole si appollaiò sul mobile dietro di lui, a gambe incrociate.
«Ragazzi, abbiamo un’emergenza» esordì Steve.
«Non aspettiamo Danny?» domandò Chin.
Steve si alzò in piedi e chiuse la porta dell’ufficio.
«Il problema è proprio questo. Danny è stato rapito» disse secco.
La reazione sorpresa di Chin non fu molto diversa da quella della cugina.
Steve raccontò in fretta della telefonata ricevuta durante la notte e di come lui e Nicole fossero stati a casa di Danny trovando però solo una pista fredda.
«Purtroppo non abbiamo alcun elemento, quindi dovremmo aspettare che ci chiamino di nuovo». Poi si rivolse alla moglie. «Controlla il sistema GPS, vedi se riesci a darmi qualche informazione in più».
Nicole annuì e saltò giù dal bancone. Si mise alla propria scrivania e accese i suoi computer.
Mentre aspettava che si caricassero tutti i sistemi, le cadde l’occhio sulla cornice che teneva sul tavolo. Era il giorno del suo matrimonio e lei aveva voluto che si facessero una foto tutti insieme, i Five-O al completo. Danny sorrideva felice con il braccio di Steve attorno alle spalle.
«Ti ritroviamo, Danny» mormorò alla foto.
Digitò alcuni comandi e lanciò il programma per rintracciare i segnali dei loro cellulari. Il potente computer cominciò ad elaborare i dati e ben presto comparvero tutti i loro segnali. Le coordinate coincidevano, visto che si trovavano tutti nello stesso luogo. Ma di Danny non c’era traccia.
Steve si fermò sulla soglia.
«Trovato qualcosa?» domandò speranzoso.
«No, purtroppo» rispose lei, ma il suo tono mise sull’avviso Steve.
«Però c’è qualcosa che non torna, vero?» notò l’uomo. «Spiegati» ordinò Steve, avvicinandosi alla scrivania.
«Quando i rapitori ti hanno chiamato, l’hanno fatto con il telefono di Danny. Ora, sarebbe normale che l’avessero spento, per fare in modo che non riusciamo a rintracciarli. Però, perché staccare anche la batteria?».
Steve ci pensò su un attimo.
«Forse si sono liberati del cellulare, in fondo ora il mio numero ce l’hanno».
«Sì. Probabilmente è così» convenne Nicole. «Dobbiamo aspettare la prossima telefonata».
La giornata trascorse tranquillamente anche se, ad ogni squillo dell’iPhone, tre paia di occhi schizzavano verso l’ufficio di Steve che puntualmente scuoteva il capo prima di rispondere.

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Capitolo 3
*** Merce di scambio ***


Furono i sobbalzi a riportare Danny alla soglia della coscienza.
Quando aprì gli occhi pensò di essere diventato cieco ma si accorse subito di avere la testa infilata in un cappuccio. L’aria era stantia e il sudore gli copriva il viso con un velo sottilissimo.
Era disteso su quello che con tutta probabilità era il pianale di un camioncino. Il tratto di strada che stavano percorrendo doveva essere sterrato, in quanto il mezzo procedeva a bassa velocità, sballottando Danny senza pietà.
Aveva le braccia legate dietro la schiena da sottili fascette di plastica che gli segavano i polsi, ma le gambe erano libere. Mentre provava a muoverle per verificare di non essere ferito, il camioncino si fermò.
Danny sentì che si spalancava un portello e l’aria fresca del primo mattino che gli accarezzava le gambe nude.
Il furgone oscillò e Danny avvertì una presenza accanto a sé.
«Siamo arrivati, bellezza» ghignò l’uomo, afferrandolo per le braccia e costringendolo a smontare.
Sotto i piedi nudi, Danny avvertì terra e sassi. Doveva cercare di capire dove si trovava. La zona era abbastanza silenziosa, segno che doveva trovarsi lontano dalla città perché non ne sentiva il mormorio tipico. Eppure un rumore c’era: era lo sciabordio delle onde sulla battigia. Doveva essere vicino ad una spiaggia.
Nonostante il cappuccio che gli copriva la testa, percepì l’odore di salmastro e un altro, tipico, di terra e foglie morte. Capì che si trovava nei pressi della giungla, che ammantava buona parte dell’isola. Ma forse non c’erano molti posti in cui poter trovare tanto la spiaggia quanto la giungla. Doveva tenerlo presente.
«Credo che non viaggerò più con questa compagnia, il trasporto ha lasciato molto a desiderare in quanto a comodità», mormorò ironico.
L’uomo che l’aveva trascinato giù dal camion lo colpì violentemente al fianco, facendolo piegare su se stesso.
«Ecco il trattamento a cinque stelle per il detective Williams» borbottò l’uomo che l’aveva colpito e un secondo rispose con una risata sadica.
Lo fecero raddrizzare di nuovo e lo spinsero avanti.
Mentre camminava sentì il verso di un uccello che non gli suonò per nulla nuovo. Il verso, che somigliava ad un “iiih-oh”, si ripeté una seconda volta ma non fu sufficiente per stimolare del tutto la sua memoria.
La terra e i sassi lasciarono il posto all’erba finché Danny fu fatto entrare in un edificio. Avvertì le lisce piastrelle sotto i piedi e poi fu spinto giù per una scala, finché le piastrelle lasciarono il posto al freddo cemento.
«Ecco la tua stanza d’albergo, Williams» disse di nuovo lo stesso uomo che aveva parlato prima. «Ci starai per un po’. Spero che sarà di tuo gradimento».
«Dipenderà tutto dal servizio in camera, credo. Come devo chiamarti, garzone, quando ho bisogno di te?» lo provocò di nuovo Danny, beccandosi un altro violento pugno all’addome.
Cadde sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato.
«Ora basta!» intimò una voce che Danny non aveva mai sentito. Capì che un terzo uomo aveva dato ordine di non colpirlo più.
«Slegatelo e toglietegli il cappuccio» ordinò.
Le mani furono liberate in fretta ed egli resistette all’impulso di portarle al petto per massaggiarle e far riprendere la circolazione. Anche la testa fu liberata e Danny si ritrovò in una specie di scantinato privo di finestre, rischiarato da una nuda lampadina appesa al soffitto. Probabilmente era sottoterra visto che i muri trasudavano umidità e una rozza scala di cemento saliva verso la porta su cui si stagliava una figura scura.
I due uomini, il cui volto era coperto da un passamontagna, lo lasciarono e salirono la scala. La porta fu chiusa e Danny rimase solo.
Esplorò in fretta la sua cella. In un angolo c’era un bugigattolo in cui era stato ricavato un piccolo bagno e Danny vi entrò con sollievo, svuotando la vescica.
Quando uscì, continuò l’esplorazione. Nell’angolo opposto c’era una brandina su cui era distesa una ruvida coperta che l’uomo si mise sulle spalle. Indossava ancora soltanto i boxer e cominciava ad avere freddo. L’unico altro arredo della stanza era un rozzo tavolo di legno con una sedia.
Tutto sommato, non era poi messo male. E a parte i lividi che gli si stavano formando dove l’avevano colpito, non aveva subito danni significativi. L’uomo in cima alla scala aveva ordinato perentoriamente di non colpirlo quindi poteva significare che, almeno al momento, non avevano intenzione di farlo fuori.
Doveva cercare di capire dove si trovasse, anche se non poteva comunicare con nessuno. All’improvviso si ricordò del verso dell’uccello e gli tornò in mente dove l’aveva sentito.
Giusto un paio di mesi prima, lui e Grace avevano passato un weekend sull’isola di Hawaii. Erano andati a visitare il Parco Nazionale e la guida gli aveva fatto sentire lo stesso verso, spiegandogli che si trattava della poiana delle Hawaii. Danny ricordava che l’uccello nidificava solamente sull’isola di Hawaii, la maggiore dell’arcipelago.
Gli avevano lasciato l’orologio al polso e lo controllò, notando che segnava le sei passate da pochi minuti. Calcolò un po’ i tempi e capì che non potevano essere le sei di sera. Doveva essere giorno, quindi.
E di certo non poteva trovarsi sull’isola di Hawaii perché era passato troppo poco tempo tra il suo rapimento e l’arrivo in quel luogo. Eppure era sicuro che quello udito fosse il verso della poiana.
Si stese sulla branda, cercando di dormire. E doveva aver preso sonno perché si svegliò quando la porta in cima alle scale fu aperta. Uno dei suoi rapitori, sempre a viso coperto, entrò con una bracciata di indumenti che scaricò in mezzo al pavimento. Poi, senza proferire parola, uscì.
«Sembra che l’eloquenza non sia il loro forte» mormorò Danny fra sé, alzandosi per esaminare i vestiti. Erano tutti logori ma puliti. Li indossò e gli andavano quasi bene.
«Beh, al Waldorf Astoria non mi faranno entrare così conciato, ma è meglio di niente».
L’orologio gli disse che erano le otto e venti. Quella domenica aveva il giorno libero, quindi era improbabile che Steve e gli altri si accorgessero del suo rapimento. E se anche l’avessero scoperto, era certo che i tipi che l’avevano preso fossero troppo esperti per aver lasciato tracce a casa sua.
Doveva attendere e capire come si sarebbe evoluta la situazione e, cosa importante, doveva capire cosa voleva quella gente da lui.
Poteva trattarsi di un rapimento per soldi? Danny pensava di no, anche se l’attuale marito di Rachel era un facoltoso imprenditore. Ma aveva poco senso: perché rapire lui per arrivare a Stan?
Era più probabile che si trattasse di vendetta. Nel suo lavoro, Danny era stato a contatto con i delinquenti peggiori e poteva darsi che qualcuno avesse il dente avvelenato. Però, in quel caso, sarebbe stato più comprensibile che l’avessero fatto fuori subito.
In effetti, nemmeno questa ipotesi era plausibile. Ma allora, perché?
Non gli veniva in mente nulla, perciò lasciò perdere e passò il resto della giornata sonnecchiando sulla branda.
Nessuno venne a disturbarlo ma gli furono serviti regolarmente i pasti. Il cibo non era certo una specialità ma era mangiabile e Danny non si lamentò: avrebbe potuto andargli molto peggio.
I suoi carcerieri giravano sempre con il passamontagna e non rispondevano mai alle sue domande. Verso sera, l’uomo che aveva dato ordine di non picchiarlo scese le scale.
«Ho parlato con il tuo amico Steve» annunciò.
Danny rimase in silenzio, elaborando l’informazione. Dovevano avergli preso il cellulare e su quello avevano trovato il numero di Steve. Se avevano contattato Steve era possibile che fosse per il riscatto. Che, a questo punto, forse non era da intendersi in termini di denaro.
«Gli ho chiesto di fare una cosa per me, anche se non gli ho detto ancora cosa. Se la farà, tu sarai libero. Se mi deluderà, morirai».
La calma con cui quell’uomo parlava rese la minaccia ancor più spaventosa.
«Non abbiamo intenzione di farti del male, tu non ci interessi, Danny. Sei solo merce di scambio».
Danny rimase zitto e dopo un momento in cui si fissarono negli occhi, l’uomo col volto coperto girò sui tacchi e si allontanò.

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Capitolo 4
*** L'appuntamento ***


Steve sembrava davvero un leone in gabbia. Ad intervalli di pochi minuti, Nicole lo vedeva passare davanti alla porta del proprio ufficio.
Nicole sapeva che era un uomo d’azione e restare bloccato in quel buco d’ufficio ad attendere una telefonata da cui dipendeva il destino del suo migliore amico era qualcosa che lo mandava fuori di testa.
All’ennesimo passaggio, Nicole alzò gli occhi.
«Steve, devi calmarti» proruppe.
Steve si bloccò ed entrò.
«Non ci riesco, Nicole. È più forte di me, mi sembra che mi manchi un braccio. Potevano farmi più male solo prendendo te».
Nicole abbandonò la sua poltrona, facendo cenno al marito di sedersi.
Steve sedette, chinando la testa in avanti e coprendosi gli occhi con una mano.
«Almeno mi chiamassero e mi dicessero cosa vogliono che faccia. Così è proprio uno strazio».
Nicole lo attirò a sé, e cominciò a massaggiargli le spalle. Avvertiva sotto le dita i nodi dei muscoli aggrovigliati dalla tensione, nodi che si sciolsero progressivamente mentre Steve si rilassava e si abbandonava. Appoggiò delicatamente il capo sul petto della moglie che gli accarezzò teneramente i folti capelli castani.
«È dura per tutti, Steve. Ma vedrai che si risolverà tutto per il meglio».
«Sì» consentì Steve ad occhi chiusi. «Ma chissà cosa dovremmo concedere per riaverlo».
«Steve, un problema alla volta» mormorò lei e si chinò per baciargli la testa.
Max li trovò così quando si affacciò nell’ufficio di Nicole.
«Scusatemi, non volevo disturbare» disse timidamente, ed entrambi sollevarono il capo.
«Ciao Max» lo salutò Nicole, invitandolo ad entrare con un cenno della mano.
«Se sei venuto fin qui per portarci i risultati, immagino che non ci siano buone notizie» constatò Steve bruscamente. «È di Danny?» domandò.
«No, non è del nostro amico».
Entrambi tirarono un sospiro di sollievo.
«Bene. È una prima buona notizia. Cosa sai dirmi?».
«Purtroppo non molto. Ho potuto solo constatare che nel sangue c’erano leggere tracce di eroina. Però ho mandato il campione ad un mio amico. È specializzato in una nuova tecnologia che pare riesca ad isolare il ceppo genetico del sangue, in modo da capire la nazionalità della persona a cui appartiene. È una tecnica sperimentale ma ho pensato che fosse meglio di niente».
Steve annuì pensieroso.
«Hai fatto bene. Speriamo che ci dia qualche risultato. Magari restringerà il campo delle ricerche».
Mentre Nicole accompagnava fuori l’amico medico legale, l’iPhone di Steve squillò. Era di nuovo il numero di Danny e il cuore gli sobbalzò dolorosamente nel petto.
«Kono, chiama Nicole. Subito!» urlò, mentre il telefono continuava a suonare.
Gli lasciò fare ancora due squilli e poi, quando vide Nicole correre in ufficio e sedersi alla scrivania, aprì la comunicazione. Chin e Kono li raggiunsero.
«McGarrett» abbaiò, ma gli rispose soltanto, beffardo, il segnale di linea libera.
«Maledizione, ha riattaccato» imprecò, e affiancò la moglie le cui dita volavano sulla tastiera del computer. «Riesci a trovarlo?».
Dopo un momento di esitazione, la donna scosse il capo.
«Devono aver staccato di nuovo la batteria. Questa cosa comincia a puzzare, Steve».
McGarrett stava per chiederle spiegazioni quando il telefono trillò di nuovo. Stavolta però, sul display apparve la dicitura “numero sconosciuto”.
«McGarrett».
«A che gioco stiamo giocando, comandante?» disse la solita voce metallica.
Steve schioccò le dita e, quando ebbe attirato l’attenzione di Nicole, le indicò il telefono. La donna capì che voleva che provasse a rintracciare la chiamata.
«Di cosa stai parlando?» domandò Steve.
«Come mai ci hai messo tanto a rispondere? Tua moglie non era abbastanza vicina da poter trafficare con i suoi computer? Non provare a fregarmi, McGarrett. Ne va della vita del tuo amico».
Steve non si diede pena di smentire l’affermazione e affiancò Nicole, osservando lo schermo del computer. La donna gli fece cenno di continuare a farlo parlare mentre le sue dita brune battevano freneticamente sulla tastiera.
«Non puoi pretendere che io me ne stia qui con le mani in mano ad aspettare che tu mi chiami».
«Sì, lo so che non sei un tipo sedentario» rise la voce. «Per questo ho deciso di darti qualcosa da fare».
«Prima voglio parlare con Danny» affermò Steve.
La voce dall’altro capo del telefono tacque per qualche istante.
«No. Fai ciò che ti ordinerò e ti permetterò di parlare con lui» rilanciò.
In quel momento, Nicole scosse la testa. Aprì il programma di videoscrittura e digitò velocemente: “Non riesco a rintracciarli, stanno facendo rimbalzare la chiamata su più hub di quanti io riesca a tracciare, sono bravi”.
Steve le strinse la spalla per farle capire che aveva inteso e si raddrizzò.
«Non mi muovo se prima non mi fai parlare con lui» esclamò.
Sapeva che i rapitori non avrebbero ucciso Danny, almeno finché non gli avessero dato ciò che volevano. Danny era merce di scambio preziosa e, se lo avessero ucciso, non avrebbero avuto più nulla con cui far leva su Steve.
Il rapitore tacque di nuovo. Poi imprecò.
«Sei testardo, McGarrett. E sia, resta in linea».
Steve mise una mano sul microfono.
«Stai registrando tutto, vero Nicole?» domandò e la donna annuì di rimando.
«Steve». Finalmente la cara voce di Danny.
«Ehi, fratello. Come stai?».
«Potrei stare meglio. Mi manca la mia cravatta».
Danny era l’unica persona sull’isola che, nonostante il caldo, indossasse sempre la cravatta. E probabilmente era anche l’unico che preferisse asfalto e grattacieli a spiagge e sole.
Ora Steve sorrise alla battuta dell’amico.
«Ma stai bene? Ti hanno fatto del male?» sondò.
«No, non mi hanno toccato. Mi sento molto Julie Masters. Quelle maledette poiane, ricordi?».
Nicole gli lanciò uno sguardo perplesso a cui lui rispose con una scrollata di spalle.
«Certo che le ricordo, impossibile scordarle. Cerca di stare tranquillo e goderti la vacanza, Danny. Ti rivoglio al lavoro al più presto, ok?».
«Va bene. E pensare che amo così tanto la spiaggia» disse Danny prima che il telefono gli fosse portato via.
Seguì un lungo momento di silenzio in cui Steve chiamò più volte l’amico, senza avere risposta.
«Allora, McGarrett: soddisfatto?» intervenne il rapitore.
«Sarò soddisfatto quando riavrò Danny» replicò Steve.
«Molto bene, allora. Ecco le tue istruzioni. Fatti trovare domattina alle dieci all’Arizona Memorial. Solo e disarmato. Se ho anche solo il sospetto che tu abbia addosso una pistola o che uno dei tuoi scagnozzi sia lì, ammazzo Danny. Hai capito?».
«Ho capito. Ci sarò. Cosa devo cercare?».
«Non preoccuparti, comandante. Ti troveremo noi. A domani, Steven» disse allegramente il rapitore prima di spegnere il telefono.
Steve si rivolse immediatamente a Nicole.
«Niente?» chiese e la donna scosse la testa.
«Niente» confermò. «Questi maledetti mi stanno prendendo in giro. Presumo che non utilizzeranno più il cellulare di Danny, quindi non ho possibilità di rintracciarli con il GPS. E utilizzano un programma molto sofisticato che non mi permette di localizzare il loro segnale. Devono avere un tecnico informatico molto in gamba, però ancora non è nato quello che mi frega. Mi ci metto subito al lavoro».
«Aspetta» la fermò Steve. «Prima fammi risentire la telefonata. Danny ci ha dato degli indizi».
«Hai ragione, ha detto delle cose strane, prive di senso. È probabile che stesse cercando di mandarci un messaggio in una sorta di codice» disse Kono.
Nicole digitò alcuni comandi e regolò il volume degli altoparlanti in modo da poter sentire chiaramente la voce di Danny. Riascoltarono la telefonata e Nicole si fermò alla seconda frase di Danny.
Mi sento molto Julie Masters. Quelle maledette poiane, ricordi?
«Questo ad esempio. Chi è Julie Masters? Di che sta parlando?» domandò.
«È stato prima che tu ti unissi a noi. Julie era il testimone chiave di un’importante indagine per un caso di omicidio. Faceva parte di un programma di protezione testimoni ma chissà come i cattivi la ritrovarono e uccisero l’agente di scorta. La donna fuggì nella giungla dove la ritrovammo io e Steve. Però…»
Era stato Chin a parlare e aveva lasciato la frase in sospeso e Nicole lo sollecitò: «Però cosa?».
«Però è strano che Danny abbia tirato fuori proprio questa indagine. Lui non partecipò nemmeno perché lo stesso giorno, l’auto su cui viaggiavano Rachel e Grace fu fermata da un paio di delinquenti e rubata. E mentre noi cominciavamo a cercare Julie, Danny raggiungeva l’ex moglie alla stazione di polizia» finì Steve per lui.
Nicole ci pensò su un po’.
«Cos’è che caratterizzò quell’indagine? Rispetto alle altre dei Five-O, intendo».
«L’inseguimento nella giungla, direi». Chin e Kono confermarono le parole di Steve con un cenno.
«Ecco il collegamento: Danny è tenuto prigioniero nella giungla o in un posto del genere».
Gli occhi di Steve si illuminarono. «Potresti avere ragione».
«E l’accenno alle poiane?» domandò Kono.
«Ah, quello è oscuro anche per me. Avevo capito che si trattava di un codice e quindi gli ho detto che me ne ricordavo. Ma penso di non aver mai visto una poiana in vita mia».
Il silenzio calò nella sala.
«Ok, lasciamo stare le poiane, per il momento» tagliò corto Nicole. «Ascoltiamo il resto della telefonata».
E pensare che amo così tanto la spiaggia.
«Se c’è una cosa che Danny odia, sono proprio le spiagge» constatò Nicole.
«Esatto. Quindi vuol dire che l’ha detto per farci capire che è vicino alla spiaggia» esclamò Chin.
«Spiaggia e giungla? Conosci un solo metro di spiaggia che sia nelle vicinanze della giungla? Qui ogni metro, anzi ogni centimetro di sabbia, è di proprietà di qualche albergo per turisti» obiettò Kono.
«Non conosciamo tutta l’isola però. Occorrerà fare una ricerca» sentenziò Steve.
«E le poiane?» domandò Nicole.
«Già, le poiane. Credo siano un elemento fondamentale, dobbiamo saperne di più. Guarda su Google».
Nicole aprì il motore di ricerca e digitò le parole “poiana” e “Hawaii”. Immediatamente visualizzarono una lunga serie di risultati. Nicole cliccò sul primo e lesse: «La poiana delle Hawaii è un rapacedel genere Buteoendemico delle Hawaii. Questo uccello è l'unica specie di rapacedell'intero arcipelago e nidifica solo sull'isola di Hawaii».
Steve la guardò sorpreso.
«Sull’isola di Hawaii?».
«Così sembra»
Steve scosse la testa.
«C’è qualcosa che non quadra. Secondo me Danny è ancora qui, sull’isola di Oahu. Che senso avrebbe portarlo così distante?».
«Anche secondo me. Però tutti i siti confermano che questa specie vive solo sull’isola di Hawaii» segnalò Nicole.
Steve si alzò in piedi.
«Allora, procediamo così. Kono, cerca qualsiasi tipo di edificio – casa privata, baracca, non mi interessa – che sia sulla spiaggia, ma nei pressi della giungla. Dovrebbe trattarsi di qualcosa di isolato. Non è molto, lo so. Vedi cosa riesci a trovare».
«Sì, capo» assentì la ragazza e sparì nel suo ufficio.
«Nicky, tu e Chin andate all’Istituto di Scienze Naturali. Cercate un ornitologo e raccogliete informazioni su questa benedetta poiana. Escludo categoricamente che Danny sia stato portato sull’isola di Hawaii. Vedete cosa riuscite a scoprire».
Chin si diresse nel suo ufficio e prese pistola e distintivo che appese alla cintura. Nicole invece si chiuse in bagno e ne emerse cinque minuti dopo. Aveva indossato un paio di jeans e una maglietta e si era legata i capelli. Dato che diverse volte erano stati costretti ad arrivare in ufficio di corsa, magari in pigiama, tenevano sempre qualche capo d’abbigliamento nello spogliatoio.
«Guidi tu, Kalea?».
Chin era uno dei pochissimi che la chiamava con il suo nome hawaiano che significava “gioia”.
Ci misero una decina di minuti per arrivare all’Istituto e Nicole parcheggiò davanti all’ingresso, mettendo in bella vista il contrassegno della polizia. Entrarono affiancati e si fermarono alla reception.
Una giovane donna bionda li accolse con un sorriso.
«Buongiorno, che posso fare per voi?».
Nicole fece scivolare il distintivo sul tavolo.
«Sono l’agente Knight e questo è l’agente Kelly. Stiamo conducendo un’indagine e abbiamo bisogno di parlare con un esperto di ornitologia».
La donna consultò un registro.
«Dunque, il professor Garvey sta tenendo una conferenza in questo momento».
«Si tratta di una questione di estrema importanza. Siamo costretti a chiederle di interrompere la conferenza».
La giovane parve voler controbattere ma poi sorrise e uscì da dietro il bancone.
«Vi prego di seguirmi» disse educatamente.
Seguirono la ragazza in tailleur nero lungo i corridoi fino ad una porta davanti alla quale si fermò.
«Attendete qui, per favore».
Bussò e il brusio all’interno della sala si interruppe. Un perentorio “avanti” risuonò dall’interno e la ragazza entrò. Dopo pochi secondi ne uscì accompagnata da un uomo di mezza età con i capelli bianchissimi. Indossava un vestito nero con panciotto, una camicia candida e una cravatta nera a pallini bianchi.
«Buongiorno, professor Garvey. Agente Knight, Five-O» si presentò Nicole tendendo la mano. «Il mio collega, l’agente Kelly» disse poi, quando il professore le strinse la mano.
«Buongiorno a voi. Come posso aiutarvi?».
«Mi scuso per aver interrotto la sua conferenza, ma stiamo conducendo un’indagine molto importante e abbiamo necessità di sapere se sull’isola di Oahu è presente una particolare specie di uccello. Si tratta della poiana delle Hawaii».
Il professore si sistemò i gemelli prima di rispondere.
«La poiana è un rapace che per secoli ha nidificato soltanto sulla nostra isola maggiore. Ma negli ultimi dieci anni, ci sono stati alcuni casi in cui questi rapaci si sono stabiliti anche sulle altre isole. Sono piuttosto rari, però ci sono alcune coppie che hanno figliato e stanno popolando anche questa zona».
La notizia era confortante. Se gli uccelli sull’isola erano relativamente pochi, potevano cercare di capire con ragionevole certezza dove fosse stato portato Danny.
«C’è modo di sapere esattamente dove hanno fatto i nidi?» domandò Chin.
Garvey rifletté per qualche istante. Poi parve illuminarsi e frugò nella tasca interna della giacca, estraendo un piccolo taccuino ed una penna stilografica.
«Ho un amico al Centro per la Tutela dell’Ambiente che sicuramente saprà aiutarvi. Si chiama Jeremy Adams, vi lascio il suo recapito telefonico».
Il professore scribacchiò il numero su un foglietto che poi strappò e porse a Nicole.
«Spero di esservi stato di aiuto».
«Moltissimo, professore. La ringrazio della collaborazione e scusi ancora per l’interruzione».
«Oh, non c’è problema».
Nicole e Chin salirono di nuovo in macchina e, mentre Nicole programmava il navigatore, Chin chiamò Adams e lo mise in vivavoce.
«Buongiorno, signor Adams. Sono l’agente Kelly della Squadra Five-O. Io e la mia collega Knight stiamo conducendo un’indagine e avremo bisogno di scambiare due chiacchiere con lei. Ci ha dato il suo nominativo il professor Garvey, dell’Istituto di Scienze Naturali».
Adams gli disse che potevano passare anche subito e che li avrebbe aspettati nel suo ufficio.
«Benissimo, saremo lì in dieci minuti».
Il dottor Adams si dimostrò cordiale e collaborativo quanto il professor Garvey. Di nuovo, Chin e Nicole spiegarono la loro situazione e l’uomo li ascoltò con attenzione.
«Sì, Garvey ha ragione. Alcune coppie di Buteo solitarius si sono stabilite effettivamente qui. Non sono molte, però le teniamo monitorate perché vogliamo vedere come si comportano».
Adams ruotò sulla poltrona e si mise davanti al computer. In breve trovò ciò che cercava e girò il monitor per far vedere anche a loro ciò che aveva davanti. Era una mappa dell’isola su cui apparvero progressivamente dei puntini rossi.
«I punti evidenziati in rosso sono i nidi conosciuti delle poiane. Cerchiamo di tenere questi dati il più aggiornati possibile quindi vi potete fidare. Tutte le poiane dell’isola sono censite in questo file».
«Ci può fare una stampa?» domandò Chin.
«Sì, certo. Vi posso mandare anche il file via mail».
Chin diede il proprio indirizzo e Adams gli consegnò la stampa che aveva fatto.
Nicole fece scivolare il proprio biglietto da visita sulla scrivania.
«Se le viene in mente qualcos’altro, non esiti a contattarci».
Tornarono velocemente in ufficio. Kono era nell’ufficio di Steve e i due stavano discutendo proprio dell’indagine.
«Mi spiace» stava dicendo la ragazza. «Non riesco a filtrare più di così».
Steve alzò gli occhi proprio in quel momento.
«Eccovi, finalmente» esclamò all’indirizzo dei due.
«Abbiamo trovato la tua poiana. Anzi, le tue poiane» proruppe Chin e mise il foglio sulla scrivania del suo capo.
«La cara poiana ultimamente sta snobbando l’isola natale e ha deciso di trasferirsi qui. Questi sono tutti i siti in cui ha nidificato».
Steve guardò sconsolato la miriade di puntini rossi. La maggior parte erano situati nel raggio di pochi chilometri da Honolulu.
«Sarà bello vedere i Five-O impegnati nel bird-watching!» esclamò Chin.
«Aspetta un secondo» intervenne Kono, sfilando la stampata dalle mani di Steve. «Danny ci ha fatto capire che è sulla spiaggia. Alla luce di questa informazione, possiamo escludere un bel po’ di questi puntini».
Kono prese una matita dal portapenne di Steve e disegnò una croce su tutti i puntini situati nell’entroterra. Più di metà vennero quindi depennati ma ne restavano ancora una cinquantina.
«Non possiamo controllare tutti questi siti, sono troppi per noi quattro» osservò Steve. «Nicky, riesci ad aiutarci con qualche trucchetto?».
La donna ci pensò su un attimo.
«Adams ci ha mandato il file per e-mail. Potrei provare ad incrociare questi dati con quelli estratti da Kono» mormorò in tono dubbioso.
«Pensi che funzionerà?» chiese Steve.
«Sì, posso creare un programmino. Però stiamo andando alla cieca».
«Lo so. Ma sono gli unici elementi che abbiamo in mano e su questi dobbiamo lavorare».
Stava per congedarli quando il cellulare squillò.
«È Rachel» mormorò Steve, passandosi sconsolato la mano fra i capelli. «E adesso cosa le dico?».
Steve accettò la chiamata e portò il cellulare all’orecchio.
«Ciao Rachel» esclamò, con tono volutamente allegro.
«Ciao Steve. Scusa se ti disturbo, ma è da stamattina presto che provo a contattare Danny e non mi risponde. Il cellulare sembra sempre spento. Ne sai qualcosa?».
«Sì… però non potrei parlartene».
«È successo qualcosa, Steve?» domandò Rachel allarmata.
Improvvisamente gli venne un’idea.
«No, Danny sta bene» finse di pensarci un momento e poi riprese: «È in missione sotto copertura. È un caso molto delicato e quindi Danny starà fuori per un po’. Ma sta tranquilla, siamo in contatto e non è in pericolo. Però non posso darti altre informazioni».
Rachel si rasserenò subito.
«Ok, allora. Poteva almeno avvisarmi, comunque».
«Gli avevamo chiesto esplicitamente di non farlo. Speravamo di poter risolvere tutto in poche ore e che quindi non fosse necessario. Ma a quanto pare dovrà star via qualche giorno almeno».
«Ah, ok. Mi contatterà lui allora, quando tornerà. Ti ringrazio, Steve. E scusa ancora per il disturbo».
«Nessun disturbo, Rachel. Scusaci tu se non abbiamo pensato di avvisarti. Ti raccomando la massima discrezione, è molto importante. A Grace, o a chi te lo chiederà, dì che è fuori per lavoro, ok?».
«Non preoccuparti».
«Grazie, Rachel. Dà un bacio a Grace».
«Certo. A presto, Steve».
Steve tolse la comunicazione e alzò lo sguardo verso i compagni.
«Mi sentivo uno schifo a mentirle in questo modo, ma non avevo scelta».
Chin assentì: «Sei stato bravo. Hai mentito per il bene di Danny. Non preoccuparti».
«Speriamo che questa brutta storia si concluda presto» sussurrò Kono.

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Capitolo 5
*** Il tre è perfetto ***


La porta della sua cella si spalancò di nuovo e Danny si alzò dalla branda.
«Ehi, che modi!» protestò. «Non si riesce ad avere un po’ di privacy qui!».
Il capo della banda scese velocemente le scale e gli porse un cellulare.
«È il tuo capo. Ti ascoltiamo, sta attento a ciò che dici», mormorò.
«Steve» disse Danny a mo’ di saluto.
«Ehi, fratello. Come stai?», rispose l’amico.
«Potrei stare meglio. Mi manca la mia cravatta».
Sentì che Steve sogghignava. «Ma stai bene?» domandò poi. «Ti hanno fatto del male?».
Danny capì subito che era la sua occasione per dargli quei pochi indizi che era riuscito a raccogliere.
«No, non mi hanno toccato. Mi sento molto Julie Masters. Quelle maledette poiane, ricordi?».
Lui non aveva partecipato al caso Masters e ricordò con un brivido il perché. Rammentava con assoluta chiarezza il momento in cui Rachel gli aveva telefonato, spiegandogli che due tizi l’avevano fermata armi in pugno e minacciata finché non era scesa dall’auto con Grace. Poi i due erano fuggiti a bordo della sua auto.
Mentre Steve e la squadra raggiungevano Kahuku, lui partiva a razzo per raggiungere le due donne che ancora erano le più importanti della sua vita. Però sapeva che in quell’occasione Steve e Chin si erano addentrati nella giungla e sperò che l’amico cogliesse il collegamento. Di certo comunque Steve non era solo in quel momento e l’intera squadra stava ascoltando e registrando la telefonata.
Il riferimento alla poiana doveva sembrargli molto strano, ma Danny era certo che Steve sarebbe andato a fondo alla faccenda.
Si rendeva conto di rischiare parecchio: se i rapitori avessero intuito che stava parlando in codice gli avrebbero senz’altro tolto il cellulare e magari l’avrebbero anche picchiato. Però le sue affermazioni non scatenarono alcuna reazione.
«Certo che le ricordo, impossibile scordarle» disse Steve: doveva aver compreso che nelle parole di Danny erano celati alcuni indizi e gli teneva bordone. «Cerca di stare tranquillo e goderti la vacanza, Danny. Ti rivoglio al lavoro al più presto, ok?» concluse.
«Va bene» assentì. C’era un’ultima cosa che doveva fargli sapere. «E pensare che amo così tanto la spiaggia» disse, ma a quel punto l’uomo con il passamontagna si insospettì e gli tolse il telefono di mano.
Risalì velocemente le scale e sparì, chiudendosi la porta alle spalle.
Danny rimase di nuovo da solo ma era strano pensare come quelle due parole scambiate con Steve l’avessero confortato così tanto. Erano girate alcune voci su loro due, nei primi tempi. La gente li vedeva sempre insieme e aveva equivocato la familiarità con cui si parlavano e si scambiavano battute. Il matrimonio di Steve con Nicole aveva fatto ricredere tutti ma ancora oggi Danny si domandava come la maggior parte della gente avesse pensato che loro due fossero omosessuali.
Danny non provava alcuna pulsione di tipo sessuale per l’amico. Il rapporto che li legava era più profondo, più potente. Quasi come fratelli; anzi, forse più di fratelli. Danny aveva un fratello di sangue che pure l’aveva deluso in un modo che Steve non avrebbe mai fatto.
I primi momenti insieme erano stati difficilissimi. Danny ricordava ancora un commento fatto tra sé e sé il giorno in cui aveva conosciuto Steve: «Lo odio, lo odio a morte». Sorrise al ricordo e ritornò con la mente a quel soleggiato mattino di più di tre anni prima.
A quei tempi, Danny indagava sull’omicidio di un agente di polizia, John McGarrett. Mentre stava accompagnando la piccola Grace a scuola, un agente gli aveva segnalato movimento attorno alla casa di John. Un uomo era entrato nella zona posta sotto sequestro.
«Ok, vado a controllare» disse Danny al telefono e, quando l’agente gli aveva chiesto se avesse bisogno di rinforzi, Danny aveva rifiutato. «Sono sicuro che si tratta solo di qualche curioso».
Così, dopo aver lasciato la bambina a scuola, aveva raggiunto la casa in cui si era consumata la tragedia. Il nastro giallo della polizia tremolava nella leggera brezza che veniva dal mare.
Danny aveva parcheggiato a poca distanza e aveva deciso di fare un giro intorno alla casa e di entrare dal retro. Durante l’ispezione non aveva trovato nulla di anomalo ma, giunto nei pressi del garage sul retro, aveva sentivo del movimento.
Aveva estratto lentamente la propria pistola e, mentre pensava che l’idea dei rinforzi non era poi così male, era entrato nel garage.
Un uomo stava armeggiando accanto al bancone degli attrezzi.
«Tu! Mani in alto. Non muoverti!» aveva intimato, puntando la pistola.
L’altro, un uomo bianco con i capelli castani e gli occhi chiari, vestito di una camicia blu e un paio di pantaloni grigi, gli aveva risposto spianandogli contro un’arma.
«Chi sei?» aveva domandato.
«Chi sei tu!» aveva risposto. «Io sono il detective Danny Williams».
«Capitano di corvetta Steven McGarrett».
Danny aveva capito che aveva di fronte il figlio dell’uomo che era stato ucciso. Steve aveva fatto un paio di passi verso di lui. Nonostante la poca luce, Danny aveva notato che era molto agitato ma reggeva la pistola con mano ferma. Gli aveva urlato di posare la pistola e identificarsi ma Danny non era disposto a cedere tanto facilmente.
«Abbassa quell’arma e fammi vedere il distintivo».
Ma Steve aveva scosso nervosamente la testa. «Non abbasso la pistola» aveva detto semplicemente.
«Nemmeno io» aveva ribattuto Danny.
Steve l’aveva squadrato per un attimo.
«Hai una mano libera, tira fuori il distintivo» aveva concluso.
A quel punto Danny aveva mosso leggermente la pistola.
«Prego, dopo di te» aveva detto, invitando Steve a mostrare il proprio distintivo.
Era una situazione di stallo: nessuno dei due era certo di chi avesse davanti e non si fidava abbastanza da abbassare la guardia.
Steve aveva sollevato leggermente la testa.
«Lo faremo insieme» aveva stabilito.
«Vuoi farlo insieme?» aveva chiesto Danny, incredulo.
«Sì, contemporaneamente».
«Cioè? Contiamo fino a tre?». Ma chi diavolo era questo tipo? La situazione era sempre più ingarbugliata.
«Sì certo, il tre è perfetto».
A Danny sembrava di sognare, però la soluzione proposta da Steve era l’unica possibile.
«Uno».
Danny aveva staccato una mano dalla pistola e, come di fronte ad uno specchio, Steve aveva imitato il gesto.
«Due».
La mano di entrambi era arrivata alla propria tasca posteriore, afferrando il portafoglio con il distintivo.
«Tre».
Entrambi avevano teso il braccio in avanti, mostrando all’altro il proprio documento identificativo.
Gli animi si erano subito raffreddati, Steve aveva fatto un passo indietro rimettendo la pistola nella fondina. Anche Danny aveva abbassato l’arma e gli si era avvicinato.
«Senti, mi dispiace molto per tuo padre ma non dovresti essere qui. Questa è una scena del crimine attiva».
Ad un paio di metri da lui, Steve aveva appoggiato una mano su una vecchia cassetta degli attrezzi rossa.
«Non mi sembra tanto attiva» aveva obiettato.
L’ultima cosa che gli serviva era qualcuno che ficcasse il naso nella sua indagine. Con un gesto stizzito della mano si avvicinò un po’ di più a Steve.
«Non posso darti nessuna informazione» aveva detto, ma l’altro non aveva perso la propria compostezza.
«Hesse non era qui da solo quando ha ammazzato mio padre» aveva sbottato. «Qualcuno sedeva alla scrivania dello studio e ha fatto spazio ad un portatile da tredici pollici. Mio padre odiava i computer».
Bene, era chiaro che Steve aveva anche curiosato in casa e ciò accrebbe l’irritazione di Danny.
«Te lo chiedo di nuovo: esci di qui. D’accordo?».
Con gesto repentino, Steve aveva afferrato la cassetta sui cui aveva posato la mano e aveva cercato di arrivare all’uscita, mormorando un «D’accordo» a mezza voce passando di fianco a Danny.
«E quella cassetta, rimettila dove si trovava. Lo sai che è una prova».
Steve l’aveva ormai superato e Danny si voltò a guardalo. Si era accorto in quel momento che Steve era più alto di lui – lo superava di tutta la testa – e che i pettorali riempivano in maniera preoccupante la maglietta bianca che indossava sotto la camicia aperta. I muscoli delle braccia spiccavano con fierezza dalle maniche arrotolate.
Steve aveva guardato la cassetta, sfoggiando un’espressione innocente degna di un cherubino.
«L’ho portata qui io» aveva mormorato, e aveva mostrato una chiostra di denti bianchissimi, sorridendogli sfacciatamente.
Danny aveva raggiunto il bancone su cui fino a pochi secondi prima era appoggiata la cassetta.
«No, non l’hai portata tu. Si vede la sagoma senza polvere qui sul bancone» aveva fatto notare. «Che ci hai messo, che c’è dentro?».
Steve aveva sorriso di nuovo, strafottente.
«Da quanto sei in questo dipartimento?» aveva chiesto, evitando la domanda.
Ma che faccia tosta!
«Non sono fatti tuoi. Chi sei? Barbara Walters?».
«No. Sono fatti miei se sei tu a indagare sulla morte di mio padre».
Ormai la pazienza di Danny aveva raggiunto il limite.
«L’indagine è mia e vorrei poterla svolgere. Prima te ne vai e prima ricomincio» aveva sbottato, gesticolando e facendogli cenno di sparire.
«Come vuoi tu» aveva risposto Steve, allontanandosi verso la porta, sempre con la cassetta in mano.
«Lascia quella cassetta o ti arresto» aveva ordinato Danny, scandendo bene le parole. «Va bene?».
Steve si era voltato con la solita espressione insolente. «Chiami i rinforzi?».
«Un’ambulanza» aveva precisato Danny.
Un improvviso gelo era calato tra i due. Si erano osservati per un lungo istante e poi Steve aveva posato la cassetta sul cofano posteriore della macchina di suo padre.
«Grazie» aveva detto Danny, ma l’altro l’aveva bloccato subito.
«Aspetta a ringraziarmi» e aveva pescato un cellulare dalla tasca.
«Che stai facendo?» aveva chiesto Danny, ma Steve non aveva risposto, portando il telefono all’orecchio.
Aveva chiesto del Governatore Jameson e aveva messo il vivavoce, in modo che anche Danny sentisse.
«Ma bravo!» aveva mormorato Danny quando il Governatore aveva dimostrato di conoscerlo. Si era voltato, arrabbiato per la piega che aveva preso quell’incontro imprevisto, continuando ad ascoltare la telefonata con l’orecchio teso.
«Governatore, accetto l’incarico» stava blaterando Steve. «Diciamo che ho trovato qualcosa che mi ha fatto cambiare idea».
Danny sentiva solo metà telefonata perché Steve aveva tolto il vivavoce, ma il Governatore doveva avergli chiesto di passare nel suo ufficio perché Steve gli aveva risposto precipitosamente.
«No, no. Subito. Mi faccio mettere in riserva per guidare la sua task force».
Task force? Ma di che diamine stava parlando?
Steve aveva allora abbassato la voce e si era voltato. Danny non sentiva ciò che stava dicendo, ma l’aveva visto passare il telefono nell’altra mano e sollevare la destra.
«Io, Steven J. McGarrett, dichiaro solennemente sul mio onore e in tutta coscienza che agirò in ogni occasione al meglio delle mie capacità e conoscenze, in maniera confacente ad un pubblico ufficiale».
Pazzesco! Quel tipo aveva appena fatto il giuramento al cellulare.
Aveva ringraziato il Governatore e si era girato verso Danny.
«Ora è la mia scena del crimine» aveva concluso, afferrando la cassetta e uscendo senza degnarlo più di uno sguardo, lasciandolo lì a braccia conserte a chiedersi se si trattasse di un incubo.
Danny sogghignò. A quei tempi non avrebbe mai pensato che da quel primo incontro sarebbe nata un’amicizia profonda. Gli screzi con il suo compagno non erano mancati neanche in seguito perché Steve era diversissimo da lui. Eppure si erano sempre coperti le spalle e si erano più volte salvati la vita a vicenda.
Nella sua mente si fece strada l’ipotesi che avessero rapito lui proprio per arrivare a Steve. Rabbrividì all’idea di cosa avrebbe dovuto fare l’amico per salvarlo e si incupì quando considerò che stavolta non sarebbe stato lì a proteggerlo e a frenare la sua impulsività.

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Capitolo 6
*** L'Arizona Memorial ***


«Non se ne parla nemmeno, Steve» proruppe Nicole.
Il sole del pomeriggio filtrava dalle imposte socchiuse e circondava la donna di un alone dorato.
Kono alzò la testa e incrociò lo sguardo di Chin che le fece una smorfia, della serie “adesso sono guai”.
Steve scosse la testa.
«L’hai sentito anche tu. Se non sarò solo e disarmato, uccideranno Danny. Mi hanno chiesto di recarmi in un posto pubblico, che cosa vuoi che possano mai fare?».
Nicole sbuffò, battendo un piede sul pavimento. Steve riconobbe i segni della catastrofe, come si riconosce uno tsunami nel momento in cui il mare si ritira dalla spiaggia.
«Steve, non ti manderò allo sbaraglio senza armi e da solo. Sappiamo entrambi che non ammazzeranno Danny».
Steve si alzò dalla scrivania, battendo le mani sul piano di legno.
«Non posso rischiare la sua vita così, Nicole».
La donna alzò gli occhi al cielo, esasperata.
«Ti è mai passato per la testa che forse vogliono solo arrivare a te? Ti stanno attirando sì in un posto pubblico, ma che in questa stagione non è poi così frequentato. E, sarà una coincidenza, ma è proprio il posto dov’è morto tuo nonno». Nicole vide che Steve si rabbuiava. «Non voglio perderti, McGarrett», aggiunse con un filo di voce.
«Non mi accadrà niente, Nicky» mormorò Steve con dolcezza.
«Lo so che non ti accadrà niente. Perché io sarò lì a proteggerti» ribatté sommessamente.
«No, assolutamente no».
«Prova a fermarmi» lo sfidò lei.
Steve ciondolò la testa.
«È un ordine, Nicky».
«Non obbedirò» replicò la donna. «Mandami pure davanti alla Corte Marziale».
Steve si raddrizzò in tutta la sua statura e la guardò in quei favolosi occhi viola.
«Da quando non obbedisci agli ordini del tuo superiore?».
Nicole avvertì la rassegnazione nel tono del marito e capì che aveva vinto. Quasi.
«Hai perso la possibilità di darmi ordini quando ci siamo sposati» esclamò.
Steve sorrise della battuta ma ritornò subito serio.
«Corriamo un rischio tremendo, Nicky. Io sarò sorvegliato, se ti vedono insieme a me…» ma Nicole non gli permise di finire la frase.
«Nessuno mi vedrà, se io non vorrò farmi vedere».
Steve rimase in silenzio per un centinaio di battiti del cuore e Nicole non abbassò mai lo sguardo.
Sapeva che la moglie aveva ragione e il pensiero che lo volessero attirare sul loro terreno per farlo fuori l’aveva effettivamente sfiorato. Ma c’era in ballo la vita del suo migliore amico. D’altro canto, sapeva che Nicole era maestra nei travestimenti e che se si fosse camuffata, persino lui avrebbe faticato a riconoscerla.
«E sia» capitolò infine. «Adesso chiama il resto della squadra e vediamo di organizzarci».
Si riunirono tutti attorno alla scrivania. Nicole richiamò sul piano la tastiera e digitò velocemente alcuni comandi. Apparvero alcune foto che ritraevano il luogo in cui i rapitori gli avevano dato appuntamento.
«Eccolo qui, l’Arizona Memorial».
Con un gesto della mano “lanciò” le immagini sui monitor. Apparve una veduta dall’alto del museo dedicato alle vittime della portaerei Arizona, affondata nel 1941 a seguito dell’attacco giapponese su Pearl Harbour. La delicata struttura bianca poggiava sui resti della nave visibile a pelo d’acqua.
Il posto era una delle mete fisse di Steve. Ogni anno, il sette dicembre, Steve visitava il luogo e rendeva onore alla memoria del nonno, il cui corpo riposava ancora – con altri millecento – nelle viscere di ferro del gigante affondato. Da quando erano sposati, Nicole lo accompagnava nel suo pellegrinaggio.
«Si sono scelti proprio un bel posto» notò Chin.
«Che intendi?» indagò Steve.
Chin fece un gesto circolare, spostando la loro attenzione nei dintorni del museo.
«Non c’è nulla lì intorno. Nessun posto su cui potremmo piazzare dei tiratori. Se ti avessero detto di presentarti in qualche altro luogo, avremmo potuto mescolarci con la folla. E invece il Memorial è in mezzo al mare e non è mai un posto affollatissimo».
«Non sarà solo» intervenne Nicole. «Lo accompagno io».
«L’appuntamento è per domattina alle dieci» prese la parola Steve. «Io sarò lì per le nove, così avrò tempo di prendere il biglietto e seguire il filmato dell’attacco, prima di prendere il traghetto. Potrei anche mostrare il distintivo ed evitare questo passaggio, ma credo sia meglio non attirare l’attenzione».
Nicole e gli altri annuirono. Steve si rivolse alla moglie.
«Nicky, io vado con la Camaro, tu dovrai arrivare per conto tuo. Dovrai camuffarti e con molta cura. Non voglio mettere Danny più in pericolo di quanto già non sia».
«Può prendere la mia Cruze, ce ne sono abbastanza sull’isola da non destare sospetti» disse Kono.
Chiunque avesse visto le loro macchine non avrebbe mai pensato che fossero auto della polizia, eppure tutte erano dotate di sirena e lampeggianti, anche se abilmente nascosti.
«Mi sembra una buona idea» evidenziò Nicole. «Ti terrò d’occhio con discrezione, senza mai avvicinarti. Ma sarò armata, quindi nel caso la situazione dovesse mettersi al peggio, potrò intervenire».
«Ricorda che non potrai entrare con la borsa» le rammentò Steve.
«Sì, lo so. Mi nasconderò la pistola addosso, non preoccuparti».
«Userete gli auricolari?» s’informò Chin.
Era un bel problema. Nessun mezzo di supporto li avrebbe accompagnati, e la distanza tra la loro sede e la Baia delle Perle era eccessiva.
«Useremo quelli piccoli, a portata ridotta. Serviranno soltanto a noi due per stare in contatto» spiegò Nicole.
Dedicarono ancora qualche minuto per sistemare gli ultimi dettagli e alla fine, Steve fece un passo indietro.
«Ragazzi, domani – spero – ci comunicheranno cosa dovremo fare per riavere Danny. È probabile che sia un’azione molto al di là del lecito, quindi non obbligherò nessuno di voi a seguirmi. Se mi seguite, sappiate che le vostre carriere nel dipartimento sono a rischio e non credo di potervi proteggere, se scoppierà un casino».
Li fissò negli occhi uno ad uno. La prima a parlare fu Nicole.
«Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, comunque io sono con te. Quel giorno ho giurato “nella buona e nella cattiva sorte”. Questa è la cattiva sorte. E quel giuramento che ho fatto quando ti ho messo l’anello al dito è più importante di qualsiasi altra cosa. Intanto salviamo Danny, alle conseguenze penseremo dopo».
Steve ne prese atto chinando il capo e si voltò verso Kono.
«Concordo in pieno con Nicole. E poi siamo una squadra. So che Danny farebbe lo stesso per me. Io ci sto, capo».
«Grazie, Kono» le disse Steve con un sorriso, prima di incrociare lo sguardo di Chin.
«Oh, andiamo. Non vorrai farmi questa domanda, vero? La mia carriera era già finita prima che tu e Danny arrivaste a movimentare questa isola. Se ho un lavoro, lo devo a voi. Se devo rimettercelo, meglio perderlo per Danny che per qualcos’altro».
Steve sorrise, scuotendo la testa.
«Non mi aspettavo una risposta diversa, in effetti» mormorò. «Ora andiamocene a casa, credo che abbiamo tutti bisogno di riposare. Domattina voi venite regolarmente al lavoro. Io porterò qui Nicky e poi andrò al mio appuntamento».
Durante il tragitto verso casa, Steve e Nicole rimasero in silenzio. Lei guardava fuori dal finestrino finché Steve le accarezzò la coscia.
«Tutto bene, piccola?» domandò.
«Sì» mormorò Nicole voltandosi verso di lui. «Va tutto bene».
Steve le sorrise dolcemente.
«Ti ho visto lavorare sotto copertura e so che sei brava a mentire. Ma non puoi mentire a me, Kalea. A che pensi?».
«Pensavo a Grace. Dobbiamo fare di tutto per farle riavere suo padre».
«Tranquilla. Lo riporteremo a casa».
«Lo so» replicò lei. «Ma a che prezzo?».
A quella domanda Steve non seppe rispondere e finirono il resto del viaggio in silenzio.
Appena entrati in casa, Steve propose alla moglie di fare una nuotata e lei acconsentì. Si cambiò in fretta indossando un bikini verde acido che era il preferito di Steve.
Uscirono dal retro, direttamente sulla loro spiaggia semiprivata, lasciando accesa la luce della veranda. Entrarono in acqua tenendosi per mano, mentre le onde lente si infrangevano dolcemente su di loro. Nicole si tuffò per prima e dopo poche bracciate si voltò a guardare Steve. I capelli bagnati scintillavano di riflessi rossastri nella luce del crepuscolo e le lunghe ciglia erano imperlate di goccioline che scintillavano come piccoli diamanti. Steve pensò che non aveva mai visto spettacolo più bello.
«Andiamo, pigrone» lo incitò Nicole ridendo e anche lui si tuffò, nuotando sott’acqua.
La raggiunse e l’afferrò per la vita, trascinandola giù con sé. Le cercò la bocca e riemersero abbracciati, baciandosi con tenerezza.
«Ehi, comandante» sussurrò sulle sue labbra. «Ma non eravamo entrati in acqua per una nuotata?».
«Sì, ma non avevo calcolato che eri così bella» disse lui con voce roca e le cercò di nuovo la bocca.
In acqua erano entrambi agili e senza peso e si sentivano perfettamente a proprio agio, perché l’oceano era una costante nella loro vita. Entrambi erano nati alle Hawaii ed erano cresciuti proprio in quell’elemento.
Nicole era più piccola di lui perciò la spinse al largo, dove lui solo riusciva a toccare il fondale. Lei gli si aggrappò, stringendogli le braccia intorno al collo e lo circondò con le gambe. Si strinse a lui, continuando a baciarlo. La tenerezza di quel bacio divenne in breve passione e Nicole sentì la lingua di lui saettare nella sua bocca.
Gli si strusciò contro come una gatta e sentì la sua eccitazione contro di sé. Allora sciolse l’abbracciò e la presa tentacolare delle sue gambe e nuotò via, lasciandolo solo e disorientato.
Steve ci mise qualche secondo a riprendersi e nel frattempo Nicole aveva preso un discreto vantaggio. Si lanciò all’inseguimento.
La bracciata potente di Steve sollevava spruzzi che scintillavano nell’ultima luce del giorno e tuttavia non guadagnava terreno sulla moglie che scivolava sull’acqua alla stregua di un delfino, con una bracciata sinuosa e regolare. Nicole arrivò per prima alla grossa boa di segnalazione che era il loro punto di riferimento.
Girò attorno alla boa e continuò a nuotare verso casa. Il sole tramontò e la luce si affievolì. Ogni tanto Nicole alzava la testa per orientarsi senza perdere il ritmo della bracciata e continuava a puntare verso la luce della veranda, che avevano lasciato accesa proprio per quel motivo.
Era quasi arrivata a riva ma Steve, più alto, già aveva posato i piedi sul fondale e la rincorreva. Si alzò dunque anche lei, con l’acqua che le ruscellava sul corpo snello. Corse verso la battigia ma le onde la intralciavano.
Steve la raggiunse e l’afferrò per la vita.
«Presa!» esultò e ruzzolarono insieme nell’acqua bassa.
Nicole finse di arrendersi e nel momento in cui lui abbassava la guardia gli sfuggì di nuovo ridendo. Steve cercò di fermarla ma l’acqua di mare rendeva il suo corpo scivoloso come quello di un pesce, sicché la donna raggiunse la veranda e s’infilò in casa.
«Piccola peste» mugugnò, mentre la seguiva.
Sapeva come sarebbe andata a finire quella serata perché non era la prima volta che Nicole lo accendeva in quel modo. Perciò, appena entrato in casa, mise il chiavistello.
Salì le scale tre gradini alla volta ed entrò in camera da letto come un ciclone, solo per trovarla deserta.
«Qui, comandante» mormorò suadente una voce dietro di lui.
Si girò e Nicole era lì. Si era liberata del bikini ed era completamente nuda. La osservò avidamente nella poca luce che filtrava dall’esterno. Lei gli si fece incontro a passi lenti, ancheggiando voluttuosamente, ben consapevole dell’effetto che aveva su di lui.
Quando gli fu vicina, si avvinghiò a lui, premendogli sul petto il seno nudo. Steve abbassò le mani sui suoi fianchi vellutati e lei si sollevò in punta di piedi per baciarlo. Steve sentì le mani di lei che gli scioglievano l’elastico dei pantaloncini da bagno e, mentre il suo unico indumento finiva a terra, si abbassò per prenderla fra le braccia. La adagiò di traverso sul letto e si protese su di lei per accendere la piccola lampada sul comodino.
«Voglio guardarti» le mormorò, osservando come la tenue luce desse al suo corpo nudo una burrosa tonalità caramello.
Nicole gli sorrise e sollevò le braccia sopra la testa, stiracchiandosi maliziosamente, i capelli bagnati sparsi sul lenzuolo come alghe mosse dalla risacca. Steve abbassò la testa e la baciò sulla spalla, risalendo verso il collo. Le sfiorò la mandibola e poi scese a lambire la curva morbida del seno, sentendo sulla lingua la salsedine del bagno nell’oceano.
Nicole sospirò e intrecciò le dita nei suoi capelli, cercando di attirare la testa verso la sua, per poterlo baciare. Ma Steve resistette e scese più in basso, arrivando a baciarle l’ombelico. Poi, inaspettatamente, risalì e le baciò la gola che vibrava dei suoi respiri strozzati, salendo verso l’orecchio e mordicchiandole delicatamente il lobo.
Il respiro di Nicole si era fatto più affannoso e Steve si sollevò su un gomito per osservarla. Lei gli restituì lo sguardo, le pupille dilatate in quel momento di passione, e lui annegò in quelle profondità di ametista.
Fin dalla prima volta, fare l’amore con lei era sempre stato così. Passione sfrenata e abbandono totale. Nicole gli si era donata completamente e, nonostante non fosse certo la sua prima esperienza, era lei che l’aveva fatto diventare un uomo. L’aveva completato come nessun’altra prima di lei. Tutte le altre, Catherine compresa, erano state nulla più di un’avventura. Nicole era la donna della sua vita e a quella consapevolezza la desiderò.
Di nuovo, lei gli donò il suo corpo e la sua anima. Sprofondò nel suo calore e tenne lo sguardo fisso nei suoi occhi. Sentì il proprio sentimento per quella donna crescere come un’onda e mentre si muoveva su di lei, che emetteva il mugolio soddisfatto di un cucciolo, si abbassò per bisbigliarle qualcosa all’orecchio.
«Anch’io ti amo, Steve» sussurrò Nicole e l’onda s’infranse sulla spiaggia, lasciandoli scossi e tremanti, come naufraghi attaccati ad un relitto.
Fu Nicole la prima a riemergere da quel senso di beatitudine. Riaprì gli occhi lentamente, assaporando quella sensazione di morbidezza: si sentiva come cera fusa alla fiamma della passione e rimodellata per adattarsi a Steve. Riprese consapevolezza del proprio corpo e avvertì il peso di Steve sopra di sé. Aveva la testa appoggiata sulla sua spalla e lei prese ad accarezzargli teneramente i capelli, cullandolo come avrebbe fatto con un bambino.
Steve si rannicchiò al suo fianco, infilando la testa nell’incavo del collo, soffiandole il suo respiro sulla pelle accaldata.
«Ehi, mi fai il solletico» protestò Nicole. Lo spinse indietro, rotolandogli sopra e baciandolo sulla bocca. Steve sospirò soddisfatto, accarezzando con dita da pianista le due salde colonne di muscoli ai lati della spina dorsale.
«Tu non hai fame?» domandò Nicole interrompendo il bacio e facendolo sorridere.
Fare l’amore le faceva sempre venire fame e capitava che girasse seminuda in cucina alle tre del mattino, intenta a far sfrigolare due fette di pancetta nelle quali poi strapazzava un paio di uova.
«Va bene. Io mi faccio una doccia, ti raggiungo in cucina».
Nicole indossò una maglietta di qualche misura più grande della sua per coprire la propria nudità e uscì. Steve la guardò e sentì un nuovo fremito di desiderio agitargli il sangue.
«Sarà meglio farla fredda, la doccia» mormorò a se stesso.
Quando la raggiunse in cucina, stava rovesciando il cibo nei piatti. Mangiarono in silenzio e quando ebbero finito Nicole lavò velocemente i piatti. Poi fece la doccia e quando uscì dal bagno, Steve la stava aspettando e tese le braccia verso di lei.
Nicole si accoccolò sul suo petto e rimasero in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri.
«Chissà dov’è Danny in questo momento» mormorò ad un certo punto Steve e Nicole non seppe cosa rispondere perciò lo strinse forte e così si addormentarono.
 
Il mattino seguente, Steve si svegliò di buon mattino, come al solito. Indossò la tuta e, sfiorando con un bacio la schiena nuda della moglie ancora addormentata, uscì per la solita corsa mattutina.
Quando rincasò, Nicole si era già preparata e lo stava aspettando per la colazione. Terminarono i loro preparativi e salirono in macchina. Raggiunsero Iolani Palace in pochi minuti. Kono e Chin erano già in ufficio.
Nicole chiamò la collega e scomparvero entrambe in bagno. Ne emersero mezz’ora più tardi. O meglio, dalla porta uscì Kono in compagnia di una ragazza bionda. Indossava un paio di shorts bianchi e una maglietta nera. Ai piedi portava un paio di scarpe da ginnastica leggere.
Alzò sul capo un paio di grossi occhiali da sole, osservando uno Steve assolutamente esterrefatto con gli scintillanti occhi neri. Le lenti a contatto erano una costante dei suoi travestimenti: i suoi occhi viola erano troppo riconoscibili.
Di certo non poteva passare per una turista, perché si vedeva chiaramente che era hawaiana. Però sembrava una giovane ragazza che si stesse godendo un giorno di ferie.
«Se non ti avessi vista entrare in quel bagno con Kono, davvero non crederei che fossi tu».
«Bene» esclamò Chin. «Se non la riconosci tu, non ci riusciranno nemmeno i cattivi».
Steve sbirciò l’orologio: «È meglio che vada, non voglio fare tardi. Tu seguimi tra qualche minuto» disse alla moglie.
«Ehi, aspetta un attimo» disse lei e sparì nel suo ufficio, uscendone poco dopo con una scatolina fra le mani.
Ne estrasse un minuscolo auricolare. Lo accese e lo porse a Steve che lo infilò nell’orecchio.
«Hai il giubbotto antiproiettile?» domandò.
«Sì, e tu?» replicò Steve. Al che la donna sollevò la maglietta e mostrò la protezione in kevlar, abilmente dissimulata.
«Kono mi ha fissato la pistola alla schiena. In caso di bisogno sarò accanto a te».
«Ok, ci vediamo più tardi» mormorò Steve, chinando la testa per baciarla.
«Sta attento» gli sussurrò lei sulle labbra.
Steve salutò gli altri e uscì. Salì sulla Camaro e raggiunse Pearl Harbour. Il biglietto per il Memorial era gratuito e la ragazza al banco gli sorrise, allungandogli il tagliandino colorato. Steve si accomodò nella sala video, dove veniva proiettato il filmato dell’attacco kamikaze di settant’anni prima. Era arrivato per tempo ed era il primo avventore. Sedette in terzultima fila e si dispose all’attesa.
Pian piano la sala cominciò a riempirsi finché l’auricolare ronzò nel suo orecchio.
«Sono qui, Steve. Ultima fila».
Era Nicole che lo avvisava. Steve non diede cenno di aver inteso e continuò a scrutare con fare annoiato tutti coloro che entravano nella sala e prendevano posto. C’erano coppiette di fidanzati, famiglie in vacanza e, quando mancavano pochi minuti all’inizio della proiezione, entrò un’intera comitiva, circa una cinquantina di persone.
Il filmato durò poco più di mezz’ora ma Steve non riusciva a concentrarsi sulle immagini in bianco e nero. Avrebbe voluto approfittare del buio per scrutare intorno, ma non voleva attirare l’attenzione. Sperava che dietro di lui, Nicole avesse una visuale migliore.
Quando la tragedia dell’Arizona sfumò al nero, le luci si riaccesero e tutti vennero invitati ad alzarsi e a prendere posto sul traghetto che li avrebbe portati al Memorial. Alzandosi, Steve sfiorò con lo sguardo la figura di Nicole. Si era alzata gli occhiali sul capo e si guardava intorno incuriosita, come se fosse la prima volta che metteva piede in quel luogo.
Il battello attraccò in breve al piccolo molo e Steve fu spinto avanti dalla folla, desiderosa di osservare da vicino i resti della famosa nave da guerra affondata. Steve aveva sempre trovato ripugnante la curiosità morbosa che li spingeva ad affacciarsi alle grandi finestre per osservare il relitto e che traspariva in modo netto, nonostante il soldato che faceva loro da guida raccomandasse costantemente di portare rispetto per il luogo che si stava visitando. Ma stavolta non aveva tempo per queste considerazioni. Mancavano pochi minuti alle dieci e quindi al suo contatto.
Con la coda dell’occhio vedeva Nicole girargli intorno senza mai evitarlo sfacciatamente eppure eludendo ogni contatto. Steve si diresse verso la grande lapide in fondo al monumento, dove erano scolpiti i nomi di coloro che erano periti in quel triste mattino. Cercò il nome di suo nonno – il suo stesso nome, così che gli faceva sempre un po’ impressione leggerlo – e, come faceva sempre, accennò il saluto militare per rendergli omaggio.
«Non voltarti, McGarrett» mormorò una voce maschile dietro di sé.
Attraverso l’auricolare, anche Nicole sentì quella voce e, con estrema discrezione si avvicinò un po’ di più.
«Chi sei?» domandò Steve ma l’altro ridacchiò.
«Proprio non riesci a non fare domande, vero? Ora sta zitto e apri le orecchie» gli intimò.
Nicole si avvicinò ancora, sempre fingendo di osservare l’Arizona affondata. Un uomo stava alle spalle di Steve. Era vestito come un qualsiasi turista e portava un berretto da baseball. Aveva gli occhi coperti da un paio di occhiali da sole.
«Prima che tu lo chieda, Danny sta bene e ti manda i suoi saluti» disse, e Steve sospirò di sollievo. «Non è nostra intenzione fargli del male e, come ti ho già detto, non lo toccheremo se farai ciò che ti chiederemo», proseguì. «Ho visto che mi hai proprio preso alla lettera. Solo e disarmato. Ci tieni proprio al tuo amico, eh?».
Era evidente che non si era accorto di Nicole.
«Che cosa devo fare?» chiese Steve.
Lo sconosciuto allungò una mano verso di lui e Nicole si irrigidì, ma si rilassò immediatamente quando l’uomo spiegò le proprie intenzioni.
«Al deposito delle borse c’è una ventiquattrore che potrai ritirare con il biglietto che ti ho infilato in tasca. Lì dentro ci saranno tutte le tue informazioni».
Era un sollievo sapere che potevano finalmente passare all’azione.
«Ora mi allontanerò. Non voltarti finché il soldato non ci chiederà di risalire sul battello. Io non sono certo venuto qui da solo. I miei uomini ti stanno osservando e ci saranno immediate e spiacevoli conseguenze se non seguirai le mie istruzioni. Chiaro?».
Nicole trasalì. Non era solo e i suoi uomini stavano osservando la scena. Voltò lentamente le spalle ai due uomini e abbassò gli occhiali da sole. Perlustrò in fretta la sala ma non notò nulla di strano.
«A presto, comandante» mormorò la voce.
Nicole lo vide con la coda dell’occhio e lo seguì con lo sguardo. Steve infilò la mano in tasca ma non si voltò, come gli aveva ordinato.
Finalmente il soldato chiese di raggiungere l’imbarco e tutti si affrettarono verso l’uscita. Nicole teneva prudentemente d’occhio l’uomo che camminava sul molo.
Pensò che forse poteva fingere di urtarlo e cercare di togliergli gli occhiali, in modo da vederlo in viso. Ma abbandonò l’idea: ricordava che nel corso della prima telefonata nel cuore della notte il rapitore l’aveva definita “l’affascinante signora McGarrett”, e questo poteva significare che la conoscevano. Se l’uomo con il berretto era la stessa persona con cui avevano parlato al telefono, facendosi vedere troppo da vicino rischiava di essere scoperta. Perciò si limitò a seguirlo con indifferenza, ma sempre senza perdere d’occhio suo marito.
Quando raggiunsero la terraferma, Steve si diresse verso la luggage room per ritirare la valigetta. Nicole invece uscì, cercando di non perdere di vista il suo uomo. Si stava mescolando con la comitiva in vacanza ma, arrivato al parcheggio, si diresse verso un pick-up blu scuro.
«Steve, tutto ok?» domandò Nicole.
«Sì, sono in macchina».
Nicole raggiunse la Cruze e finse di cercare le chiavi in tasca mentre memorizzava la targa del mezzo. L’uomo, sempre da solo, salì a bordo e partì. O aveva bluffato dicendo di non essere solo, oppure i suoi complici se n’erano andati con un’altra macchina.
«Torna alla base, io provo a seguirlo».
«Nicky…» cominciò Steve ma lei lo bloccò subito.
«Non preoccuparti. Non tenterò alcuna azione. Voglio solo vedere dove va».
«D’accordo, io torno in ufficio. Ci vediamo lì».
Mentre parlavano, Nicole aveva avviato il motore e si era immessa nel traffico, cercando di non perdere di vista il pick-up. Nel frattempo chiamò Kono alla base.
«Kono, Steve sta rientrando. Io sto seguendo l’uomo che l’ha avvicinato. Controlla la targa, per favore». Le diede il riferimento e tolse la comunicazione.
Due macchine davanti a lei il pick-up attraversò un incrocio. Il semaforo passò all’arancio e la macchina che precedeva Nicole si fermò diligentemente allo stop.
«Maledizione» imprecò la donna ma non poté fare altro che osservare il pick-up svoltare in una strada laterale.
Quando finalmente scattò il verde, la macchina si era dileguata. Nicole fece un paio di giri a vuoto e poi tornò allo Iolani Palace, maledicendosi per il fallimento.
L’agente all’ingresso non voleva farla passare.
«Mi spiace, signorina. Non posso farla entrare».
«Andiamo, Tim. Sono io, Nicole».
L’uomo la osservò a bocca aperta ma, nonostante avesse riconosciuto la voce, stentava a fidarsi. Nicole dovette mostrargli il distintivo perché le credesse.
«Scusami, Nicole. Proprio non ti avevo riconosciuta così conciata».
Nicole rise. «Non importa. Significa che il mio travestimento ha funzionato».
Quando entrò in ufficio, erano tutti riuniti alla scrivania e alzarono la testa per osservarla.
«L’ho perso nel traffico» mormorò semplicemente Nicole. «Mi tolgo queste lenti e vi raggiungo» aggiunse.
Quando uscì dallo spogliatoio si stava sciogliendo i capelli sulle spalle, scuotendoli per ravviarli. Mentre raggiungeva la squadra staccò la pistola che Kono le aveva assicurato alla schiena con del nastro e la posò sul tavolo.
«Notizie della targa che ti ho chiesto di controllare?» domandò Nicole a Kono.
«La macchina è a noleggio. Ho chiesto che mi mandino tutti i dati e di non toccare la vettura finché non saremo passati noi. Può darsi che riusciamo a rilevare qualche impronta» rispose.
«Se la macchina è a noleggio sarà zeppa di impronte. Rischiamo di perderci un bel po’ di tempo» osservò Chin.
«L’avete aperta?» domandò poi Nicole, con un cenno del capo verso la valigetta.
«No, aspettavamo te» replicò Steve.
«L’ho già fatta controllare e non ci sono esplosivi» spiegò Chin. Da quando lui stesso si era ritrovato con una bomba attaccata al collo, privo di muoversi se non voleva finire al Creatore, aveva un sacro timore degli esplosivi.
Steve indossò un paio di guanti in lattice, fece scattare le serrature e sollevò lentamente il coperchio. Estrasse un fascicolo e il respiro gli si mozzò in gola.
«Steve? Che c’è?» domandò Nicole.
L’uomo girò la cartellina verso i compagni. Sul frontespizio c’era il logo del Dipartimento di Polizia delle Hawaii. Sulla diagonale c’era stampigliata la dicitura “Top Secret”. Quel fascicolo avrebbe dovuto stare nei loro archivi, non certo in mano ad un delinquente.
«Sapete cosa significa, vero?».
Steve non attese risposta e aprì l’incartamento. Lo lasciò immediatamente cadere, come se ci avesse trovato dentro un insetto velenoso. Le carte si sparsero sul piano lucido del tavolo e tutti videro ciò che aveva tanto turbato Steve. Riconobbero immediatamente l’uomo nella foto, anche Nicole che pure non faceva parte della squadra quando l’avevano catturato.
«Lo sapevo» sussurrò Steve. «Vogliono Hesse».

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Capitolo 7
*** Victor Hesse ***


Il tempo non passava veramente mai. La sua giornata era scandita dai brevi momenti in cui i suoi carcerieri gli portavano il cibo. Ma nessuno aveva fatto parola con lui che cominciava a soffrire di quell’isolamento.
E, più di ogni altra cosa, gli mancava Grace. Aveva una voglia matta di rivedere la sua scimmietta e pensava con sgomento a cosa sarebbe accaduto se l’influenza non l’avesse trattenuta quel weekend.
Lunedì pomeriggio ricevette una visita imprevista. Nonostante il volto coperto, riconobbe l’uomo che il giorno precedente gli aveva dato il cellulare per farlo parlare con Steve.
«Ho incontrato il tuo amico Steve» gli disse.
«Mi fa piacere che tu sia ancora vivo» replicò con il sorriso Danny.
L’uomo rise.
«Il tuo comandante ha le mani legate: non vuole rischiare di perderti. È commovente» mormorò ironico.
Danny non rispose alla provocazione. «Che cosa lo stai obbligando a fare?» chiese invece.
L’uomo sogghignò.
«Te lo ricordi… Victor Hesse?».
Danny indietreggiò di un passo, come se lo avessero colpito in pieno petto, e si ritrovò catapultato nel passato.
Steve stava guidando un’auto della Polizia, sfrecciando come un pazzo sulla strada che arrivava al porto. Guidava con una mano sola mentre con l’altra reggeva il cellulare.
«Sang Min ha imbarcato Hesse e Etienne su una nave cargo diretta in Cina, l’Emma Karl» stava spiegando e Danny aveva sentito chiaramente la risposta.
«Steve, non ci pensi nemmeno» aveva sbottato il Governatore.
«Governatore, voleva una task force per fare qualsiasi cosa fosse necessaria. Mi ha promesso immunità e mezzi» le aveva ricordato Steve.
«No! Non per provocare un incidente diplomatico. Lei vuole abbordare un mercantile cinese diretto in acque internazionali». La voce del Governatore era sempre più concitata ma Steve non aveva perso la calma.
«Se la Cina viene sorpresa a trasferire terroristi, creda a me, non diranno una parola».
Steve aveva sorpassato un camion bianco.
«Ho fatto il mio lavoro, Governatore. Ora lei faccia il suo: dica alla Guardia Costiera di bloccare il porto, quella nave non deve muoversi».
Steve aveva tolto la comunicazione prima che la donna potesse replicare.
Erano ormai arrivati al porto e, mentre Steve sgommava sulla banchina, il telefono di Danny aveva cominciato a suonare. Danny aveva capito dalla suoneria che si trattava della sua ex moglie.
«Miseriaccia infame» aveva imprecato, cercando il cellulare in tasca.
«Sì?» aveva risposto e Rachel gli si era subito scagliata contro.
«Non mi posso mai fidare di te, Danny».
«Rachel…» aveva provato a dire, ma la donna non l’aveva lasciato continuare.
«Dovevi andare a prendere la bambina. Si può sapere dove sei?».
«Rachel, non ricominciare, ti ho lasciato due messaggi per dirti che devi prendere Grace».
«Sì, appunto. Mi scombussoli tutta la giornata così» gli aveva risposto la donna.
«Non dirmi che hai dovuto cambiare i tuoi piani, tanto mandi quasi sempre l’autista a prenderla».
«Non è qui in questo momento. Ma perché non puoi andarci tu?».
«Non posso andarci in questo momento, sto lavorando. Per favore, mi ascolti un attimo? Vuoi farmi solo un favore?».
«Che cosa vuoi?» aveva chiesto, arrabbiatissima.
«Dì a Grace che Danno le vuole bene».
Si era voltato verso Steve che lo osservava con curiosità. Gli aveva già chiesto il perché di quel nome, Danno. Ma lui non aveva voluto rispondere. In quel momento, di fronte allo sguardo di Steve, aveva ceduto.
«E va bene. Grace aveva tre anni. Cercava di dire il mio nome e le usciva solo Danno. Non le usciva altro, solo Danno. Ok?» aveva spiegato.
«Tutto qui?» aveva chiesto incredulo Steve.
«Tutto qui. Tutto qui» aveva confermato Danny.
«È carino».
«Ma piantala!» aveva replicato.
«No scusa, perché? Non posso pensare che sia carino?» aveva domandato Danny.
«No, non voglio che tu pensi proprio niente al riguardo, è tra me e mia figlia, ok?».
«Va bene» aveva concluso Steve, frenando di colpo. Davanti a loro, la nave era accostata al molo.
«Eccola lì. La Emma Karl» aveva constatato Steve.
La nave era in procinto di salpare. Dovevano aver appena finito di caricarla perché una rampa era ancora abbassata sul molo.
«Sta salpando» aveva evidenziato Danny. «Come vuoi procedere?».
Per tutta risposta, Steve aveva estratto la pistola dalla fondina, controllando che ci fosse il colpo in canna.
«Va bene» aveva mormorato Danny con voce sconsolata.
«Reggiti» l’aveva avvertito Steve, ingranando la prima e lanciandosi a tavoletta verso la rampa di carico.
L’aveva imboccata a tutta velocità, tra le proteste di Danny che si aggrappava disperatamente alla maniglia, salendo a bordo della nave. Due uomini armati gli stavano sparando ma Steve ne aveva colpito di striscio uno, graffiando la macchina contro i container, e aveva investito l’altro mentre gli tempestavano l’auto di colpi.
«Coprimi, io cerco Hesse» aveva ordinato e Danny aveva aperto la portiera, usando la macchina per ripararsi dai proiettili.
L’uomo che Steve aveva bloccato tra i container gli aveva sparato contro con il mitra ma Danny era riuscito a colpirlo. Nel frattempo anche Steve era sceso, colpendo un terzo uomo, e correndo via.
Danny aveva recuperato il mitra del nemico e si era diretto cautamente tra i cassoni. Non aveva idea di dove fosse diretto Steve, ma sapeva con certezza che loro due erano troppo pochi per uscirne vivi. Si chiese perché mai si fosse fatto trascinare in quella follia.
Si era abbassato istintivamente quando alcune pallottole avevano colpito il metallo sopra la sua testa. Era indietreggiato precipitosamente, notando che i colpi venivano dalla sua destra, dall’alto. Con mossa fulminea si era sporto e aveva colpito l’uomo che, in piedi su un cassone, l’aveva preso di mira.
Il mitra era ormai scarico ma c’era un altro tizio che l’aveva inquadrato. Danny aveva preso la propria pistola e aveva cercato di colpirlo. Ma l’altro si era rifugiato dietro alcuni bidoni.
A quel punto, Danny si era gettato a terra, rotolando in avanti e fermandosi contro uno dei container. Aveva fatto fuoco due volte colpendo l’altro alla gamba e facendolo crollare a terra.
Sempre tenendo d’occhio l’uomo che aveva atterrato si era avvicinato e aveva visto, sul tetto di un container vicino, Victor Hesse. Stava guardando verso il basso, il mitra puntato. Danny aveva capito che Steve doveva essere in difficoltà e aveva alzato la propria arma. Ma prima che potesse far fuoco, il corpo di Hesse aveva sussultato due volte, al suono di altrettanti spari.
Victor era caduto all’indietro, e Danny aveva sentito uno scroscio d’acqua quando il corpo era piombato in acqua.
L’uomo ai suoi piedi si era mosso e Danny gli si era avvicinato, dando un calcio alla sua arma e mandandola lontano.
«Metti le mani dietro la schiena» gli aveva intimato, «sennò ti sparo di nuovo».
Mentre gli bloccava le mani con una fascetta di plastica, Steve l’aveva chiamato e lui aveva alzato la testa.
«Ehi, dì alla Costiera di ripescare quel corpo».
«Che cosa devo farne di questo qua» aveva chiesto Danny e Steve, il volto insanguinato per i colpi ricevuti, aveva sorriso.
«Arrestalo, Danno».
Era stata la prima volta che Steve l’aveva chiamato con quel nome. Ma molte altre erano seguite, sebbene Danny protestasse ogni volta.
«Ehi, Williams! Sei con noi?».
Danny si riscosse dai propri ricordi.
«Non puoi chiedergli questo. Non puoi chiedergli di liberare l’assassino di suo padre».
L’uomo lo guardò con occhi freddi e inespressivi.
«Fossi in te, comincerei a pregare. Se non lo farà, recapiterò il tuo cadavere alla sede dei Five-O».

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Capitolo 8
*** Il curioso caso di Benjamin Lee ***


Il silenzio era calato come una cappa. Nessuno osava muoversi e tutti osservavano Steve che fissava la foto di Victor sul tavolo.
Nicole fece un cenno con il capo ai due colleghi che si dileguarono in silenzio. Si alzò e si mise dietro a Steve, posandogli leggermente le mani sulle spalle.
«Avrebbero potuto chiedermi di tutto. Non mi avrebbe spaventato nessuna delle loro richieste. Ma questo…».
Gli mancarono le parole e tacque, chiudendo gli occhi. Nicole non sapeva come rispondere perciò rimase in silenzio e si chinò ad abbracciarlo.
«Nicky, devi trovarmi Danny. Rimettere in libertà Victor è da escludere, perciò dovrò liberare Danny. Trovamelo» ordinò e Nicole annuì.
«Mi metto subito all’opera».
Nicole sparì nel proprio ufficio e cercò di concentrarsi sul lavoro. Creò un programma che incrociava i dati raccolti da Kono con quelli forniti da Adams. Il computer cominciò ad elaborare i dati mentre Nicole tamburellava nervosamente sulla scrivania.
Sentiva Steve che discuteva con Kono. La donna aveva ricevuto i dati dall’autonoleggio. La macchina era stata presa a nolo da un certo Brian Grant.
«Dev’essere un nome falso, non c’è alcuna corrispondenza».
«Non mi aspettavo qualcosa di diverso» mormorò Steve e si diresse verso l’ufficio di Nicole.
«Novità?» domandò e la donna stava rispondendo che non era ancora giunta a nulla quando il computer emise un sonoro bip.
Il suo programma aveva isolato dieci possibili siti in cui poteva essere rinchiuso Danny. Si trattava di luoghi isolati nei pressi della spiaggia. Tutti i luoghi erano inoltre in prossimità della giungla, ma a discreta distanza l’uno dall’altro. Non sarebbe stato facile controllarli in breve tempo.
Stavano commentando insieme i risultati quando l’iPhone di Steve squillò.
«È lui» sussurrò.
Nicole strinse gli occhi e cominciò a battere sulla tastiera.
«McGarrett» ringhiò Steve nel microfono.
«Allora, comandante: hai qualcosa da fare, finalmente. Sei contento?».
«Non posso farti avere ciò che chiedi. Hesse è in un carcere di massima sicurezza, non posso farlo uscire».
La voce metallica ridacchiò e Nicole si lasciò andare indietro sulla sedia, stizzita, coprendosi gli occhi con una mano. Non riusciva ad isolare il segnale di quel maledetto cellulare.
«Oh, andiamo. Non penserai che io ci creda. Ma come? Tu che non puoi fare qualcosa? Non è credibile, per un SEAL. Per un SEAL come te, poi…»
Steve sbuffò. «Non ho questo potere. Hesse è condannato all’ergastolo, non sono previsti sconti».
«Ora basta, McGarrett. Sono stanco delle tue moine» sbottò.
Nicole si illuminò e fece cenno a Steve di continuare a farlo parlare. Aveva avuto un’idea.
«So bene che il Five-O gode di mezzi speciali. Il Governatore ha scelto un tipo con le palle come te per dirigerlo e tu hai tutta la libertà di movimento che vuoi. Sono sicuro che ti inventerai qualcosa. Hai dodici ore di tempo».
Steve strabuzzò gli occhi.
«Non posso farcela, in dodici ore. Devo organizzarmi, non è come andare a fare la spesa».
Il suo interlocutore rise di nuovo.
«Più tempo avrai e più tenterai di fregarmi. No, mio caro. Hai dodici ore a partire da adesso. Ti richiamerò tra sei ore per le ultime informazioni».
Un lieve sorriso apparve sulle labbra di Nicole. Era riuscita ad agganciare il segnale e stava cercando di risalire alla fonte.
«Dimenticavo: ogni ora, dopo le dodici che ti ho concesso, taglierò un dito al tuo amico Danny».
La minaccia, pronunciata con così tanta tranquillità, fece scorrere un brivido lungo la schiena di Steve.
«Ti troverò, bastardo. Ti ammazzerò in ogni caso, ma se solo ti azzardi a sfiorare Danny, lo farò molto lentamente. Finché mi implorerai di farti fuori e mettere fine al tormento» sibilò Steve.
«È sempre un piacere chiacchierare con te, comandante» replicò l’uomo tranquillamente e chiuse la comunicazione.
«Diamine!» inveì Nicole. «C’ero quasi, stavolta».
«L’hai trovato?» chiese Steve.
«Non precisamente. Però è nella zona di Diamond Head. Che è uno dei luoghi segnalati da Adams».
«Bel lavoro, Nicky. Riunione tra cinque minuti: abbiamo dodici ore per fare evadere Victor Hesse».
Nicole lo fissò per un lunghissimo momento.
«Far evadere Victor?» chiese incredula.
Steve sorrise.
«Tranquilla, ho un piano».
«Non so di cosa si tratti, ma leggo nei tuoi occhi che funzionerà» replicò lei.
«Certo che funzionerà. È un piano da SEAL… e mi servirà l’aiuto di un SEAL per portarlo a termine. Devo fare una chiamata importante» disse, e sparì nel proprio ufficio.
Nicole scosse la testa, sorridendo. Ora riconosceva il suo Steve, quello deciso e senza paura. Il SEAL.
Anche Chin e Kono notarono la differenza.
«Che ha in mente?» domandò Chin.
«Non ne ho la più pallida idea. Ma lo sapremo presto, abbiamo appena dodici ore per salvare Danny».
Steve uscì dal proprio ufficio e li convocò attorno alla scrivania.
«Bene. Il piano è questo, ed è semplice. Falsificheremo un ordine di trasferimento per il detenuto Victor Hesse. Lo preleveremo dal penitenziario e lo porteremo nel luogo dello scambio, che i rapitori ci indicheranno tra sei ore. La priorità sarà mettere in salvo Danny, perciò fileremo via non appena lo libereranno in cambio di Victor».
Tutti tacquero.
«E lasciamo libero Hesse?» domandò Kono, interpretando il pensiero di tutti.
Steve sogghignò.
«Ovviamente no. Ho contattato Ben Lee».
Nicole capì immediatamente la frase pronunciata da Steve poco prima: "mi servirà l’aiuto di un SEAL per portarlo a termine". Benjamin Lee era un SEAL, come Steve. I due si erano conosciuti in Afghanistan e proprio là, Steve gli aveva salvato la vita. Da quell’esperienza era nata una splendida amicizia. Benjamin, stanco della guerra, era tornato prima di Steve e si era trasferito alle Hawaii, reinventandosi una vita.
Faceva il detective privato, specializzato in casi di rapimento e riscatto. Aveva una sua squadra di uomini fidatissimi che lo aiutavano nei recuperi problematici degli ostaggi.
Anche Benjamin era sposato e aveva un bambino, Jason. Proprio due settimane prima Ben e la sua famiglia erano andati a cena da Steve e Nicole.
«Recupereremo Danny con l’aiuto di Ben?» domandò allora la donna.
«No, Danny lo recuperiamo noi. Ben mi serve per beccare Victor».
Steve spiegò in fretta chi era Ben e quale fosse il suo piano. Loro quattro avrebbero prelevato Victor dalla prigione. Si sarebbero recati all’appuntamento e avrebbero riscattato Danny. Ben poi avrebbe seguito i rapitori e bloccato loro e Victor.
«Semplice» constatò Chin.
«Per questo funzionerà» rispose Steve. Poi si mise a dare ordini: «Kono, procurati un furgone completamente chiuso, nero. Ci trasporteremo Hesse. Chin, prepara l’attrezzatura e le armi. Voglio essere sicuro e avere una potenza di fuoco degna di un commando militare. Nicole, occupati di falsificare il mandato per Hesse. Benjamin sarà qui tra un’ora, voglio avere qualcosa da mostragli per quando arriverà. Muoversi!».
Ognuno scattò per occuparsi della propria incombenza.
Cinquanta minuti dopo, Benjamin entrò nel loro quartier generale.
«Steve, carissimo!» esclamò, abbracciandolo.
«Ciao, Ben. Grazie per essere venuto così in fretta».
«Era il minimo che potessi fare. Sono ancora in debito con te, ricordi?».
Steve scrollò le spalle.
«Nessun debito, Ben. Lo sai. Come sta la signora Lee? Ed il piccolo Jason?».
«Stanno benone. Anzi, Julia mi chiede sempre di chiamarti. Tocca a lei offrirvi la cena, stavolta».
Nicole uscì dal proprio ufficio.
«Ciao, Ben! Sono contenta di vederti, anche se le circostanze non sono molto piacevoli».
«Nicole, sei sempre più bella» la complimentò Benjamin. «Julia ti manda i suoi saluti. Spero che possiamo trovarci presto per una serata tra amici».
«Appena finisce questa brutta storia, ok?».
Si fecero tutti seri e Ben si voltò verso Steve.
«Vuoi spiegarmi cos’è successo?».
«Vieni». Steve lo invitò nel proprio ufficio e, passando davanti ai colleghi, glieli presentò.
Benjamin strinse la mano ad entrambi.
«Insomma, è toccato a voi lavorare con questo pazzo» esclamò, strappando una risata a Chin.
«Così sembra» osservò Kono.
Ben sorrise e diede una pacca sulla spalla all’amico.
«Sarà anche pazzo ma è l’ideale ritrovarselo al fianco quando le cose si mettono al peggio. Non c’è situazione che non sappia gestire. È il miglior compagno che abbia mai avuto. E un ottimo amico. Mi ha salvato la vita, sapete?».
Steve accennò un gesto con la mano.
«Sì, ma me ne sono pentito. E adesso smettila, ti sei già guadagnato i tuoi cinquanta dollari, non serve che mi incensi oltre» scherzò.
Steve sedette alla propria scrivania e Ben prese posto di fronte a lui. Steve armeggiò un istante con l’iPhone e poi lo girò verso l’amico.
«Questo è il mio partner, Danny Williams. È il mio migliore amico».
Sul display c’era una foto di Danny assieme a Grace. L’aveva scattata una sera che erano usciti tutti insieme per andare a mangiare all’Hula Moons.
«Domenica mattina è stato rapito e attualmente è prigioniero in mano a non so chi. I rapitori mi hanno contattato chiedendomi la liberazione di un terrorista, Victor Hesse».
Steve fece scivolare sul tavolo la foto di Hesse.
«Il nome non mi suona nuovo» meditò Ben.
«È il bastardo che ha ucciso mio padre».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
«Santo cielo, Steve. Ti fanno scambiare la vita del tuo amico con quella dell’assassino di tuo padre?».
Steve non rispose alla domanda retorica e rimasero per un momento in silenzio.
«Cosa vuoi che faccia?» chiese infine Benjamin. «Vuoi che provi a negoziare con loro?».
«Le negoziazioni sono finite. Ho dodici ore – anzi no, undici ore adesso – per portargli Hesse. Se non lo faccio, cominceranno a farlo a pezzi».
«Sai dove lo tengono? Vuoi che io e la mia squadra lo recuperiamo?».
Steve scosse la testa.
«Non sono sicuro di dove sia. Abbiamo una pista ma non abbiamo il tempo per controllarla. Se è sbagliata, Danny è un uomo morto. Quindi, gli darò ciò che vogliono. Andrò all’appuntamento con i miei e gli porterò Victor».
«L’ho detto io che sei pazzo. E di certo ora mi spiegherai come intendi far uscire di prigione un ergastolano».
Steve spostò lo sguardo su Nicole che stava entrando in quel momento. La donna gli allungò un foglio che lui scorse attentamente prima di alzare la testa e sorriderle.
«Ben fatto, Nicky» esclamò. Poi si rivolse a Ben: «Farò di più, Ben. Ti mostro come si fa».
Porse il foglio all’amico che sbiancò quando capì cosa aveva tra le mani e rimase a bocca aperta di fronte al timbro e alla firma del Governatore della Hawaii.
«Sì, sei decisamente pazzo» mormorò scuotendo la testa. «E tu gli corri dietro, ragazza!» disse all’indirizzo della donna. «Lo sapete che cosa succederà quando scopriranno questa cosa?».
Steve si lasciò andare all’indietro sulla sedia.
«Quando lo scopriranno, io avrò già rimesso in carcere Victor e sarò seduto a bere birra con Danny nella mia veranda. Che potranno mai farmi? Il Governatore strepiterà un po’, come al solito. E poi mi perdonerà».
Ben sorrise, scuotendo la testa con rassegnazione. «E io cosa dovrei fare?».
«Loro si aspettano che io compia qualche mossa per fermare Victor. Io invece li lascerò andare. Lascerò a te il compito di fermarli».
«Ah, ma allora non hai bisogno del detective. Ti serve il SEAL!» proruppe Benjamin. «Potevi dirlo subito».
«Ti avviso: Hesse è molto pericoloso ed è maledettamente furbo».
«Non è un problema. Io e i miei uomini lo sistemeremo».
Steve lo fissò negli occhi.
«Significa che ci stai? Mi aiuterai?».
Ben si alzò in piedi e lo fissò di rimando.
«Certo che sì. Non fosse altro per vedere come finirà questo piano strampalato» dichiarò, tenendo la mano.
Anche Steve si alzò in piedi e gli strinse la mano.
«Non so come ringraziarti, Ben» mormorò, ma l’altro scosse la testa.
«È il minimo dopo che tu mi hai salvato la vita».
«Sì… ma me ne sono pentito» ripeté sorridendo Steve.

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Capitolo 9
*** Evasione ***


Mancavano due ore e mezza all’appuntamento con i rapitori quando Steve e la sua squadra si riunirono per gli ultimi dettagli.
I rapitori avevano dato loro appuntamento in una zona isolata. Dovevano portare Victor e consegnarlo vivo e incolume. A quel punto gli avrebbero restituito Danny. Steve ricordava perfettamente le parole del suo contatto: «Non vogliamo fare del male né a Danny, né a voi. Se non fate scherzi, risolveremo la faccenda pacificamente e tutti torneranno alla propria vita tranquilla».
Steve era molto scettico, ma non aveva altra scelta se non quella di fidarsi.
«È tutto chiaro, ragazzi?» domandò Steve dopo aver esposto di nuovo il piano. Gli altri annuirono.
Indossavano tutti il giubbotto antiproiettile e l’auricolare ed erano armati fino ai denti.
Steve richiamò sul cellulare il numero di Benjamin che rispose al primo squillo.
«Siamo in partenza» disse semplicemente.
«Ok. Alcuni dei miei sono già in posizione. Il resto seguirà come d’accordo».
Fu un contatto velocissimo, dopodiché Steve infilò il cellulare in tasca.
«Muoviamoci» comandò.
Lui, Nicole e Kono salirono sul furgone. Chin prese posto a bordo della Camaro e prese a seguirli. Erano le undici e mezza e il loro piccolo convoglio attraversò lentamente la città. Giunti a poco meno di un chilometro dal penitenziario di Oahu, Steve accostò a bordo strada. Chin si fermò dietro di lui e salì sul furgone.
«Adesso c’è la parte difficile» mormorò Steve ripartendo.
Al cancello della prigione, Steve mostrò il proprio distintivo e l’ordine firmato dal Governatore. Il soldato di guardia lo fece passare e Kono si lasciò sfuggire un breve sospiro di sollievo.
«Non è ancora finita, Kono» sussurrò Nicole.
Steve parcheggiò il furgone e tutti scesero.
«Chin, Kono, con me» ordinò. «Nicole, tu resta qui».
Entrarono nel penitenziario, mentre Nicole, mitra imbracciato, restava fuori. Steve chiese di parlare con il direttore. Questi arrivò trafelato.
«Comandante McGarrett! Non sono stato informato di questa visita» proruppe.
«Lo so, direttore. Si tratta di una missione della massima segretezza» spiegò Steve e gli porse l’ordine del Governatore. «La prego di far preparare il prigioniero».
Il direttore del carcere, che aveva un sacro timore del pluridecorato comandante che aveva davanti, annaspò.
«Dovrei sentire il Governatore prima. Spero che capisca, comandante» mormorò in tono di scusa.
Steve non batté ciglio.
«Se quell’ordine che ha in mano e la presenza dell’unità d’elite Five-O al completo non sono sufficienti, faccia pure».
Steve estrasse il cellulare dalla tasca e compose il numero del Governatore. Poi lo porse al direttore.
«È il cellulare privato del Governatore, non credo che sia ancora al lavoro, a quest’ora».
L’uomo non mosse un muscolo, continuando a scrutare Steve. Poi abbassò lo sguardo sul foglio che aveva in mano.
«Aspetti qui, le faccio portare Hesse» capitolò infine.
Steve rimise il cellulare in tasca e annuì.
«Grazie, direttore».
Trascorsero quaranta minuti prima che la porta elettrificata si aprisse.
Victor indossava la tuta arancione e polsi e caviglie erano bloccati dalle manette. Camminava a piccoli passi, impacciato dalle catene, scortato da due agenti. Uno di essi consegnò le chiavi delle manette a Steve, che prese in consegna il prigioniero. Victor non cambiò espressione e si nascose dietro uno sguardo vacuo.
Uscirono sul piazzale e spinsero Victor sul furgone. Questi finalmente alzò gli occhi, incrociando lo sguardo di Steve.
«Ci si rivede, Steve» mormorò mellifluo.
«Sta zitto Victor, o ti faccio saltare i denti». Poi si rivolse a Chin. «Sali con lui. Se trae anche solo un respiro più grosso degli altri, sparagli».
Chin annuì e prese il mitra dalle mani di Nicole. Steve chiuse personalmente il portellone e si mise al volante. Uscirono dal carcere e Steve tornò nel punto dove avevano abbandonato la Camaro. Lì giunti, si fermarono cinque minuti.
«Chin» chiamò Steve, «tutto bene, lì dietro?».
«Tutto tranquillo» rispose Chin nell’auricolare.
«Vai, Nicky» comandò e la donna scese dal furgone.
Li avrebbe seguiti con la Camaro. Steve voleva avere un’assicurazione, nel caso in cui gli avessero danneggiato il furgone.
Attraversarono le strade buie finché le case lasciarono il posto ai campi aperti. Imboccarono poi una strada sterrata: mancavano cinque chilometri al contatto. Ad un chilometro dal luogo dell’appuntamento, si fermarono di nuovo.
Nicole nascose la Camaro nella vegetazione, entrando nella macchia a marcia indietro. Steve e Kono l’aiutarono a mimetizzarla e cancellarono le tracce che uscivano dal tratturo sterrato.
Poi salirono di nuovo sul furgone e ripartirono. Il rapitore aveva detto a Steve di cercare un capanno abbandonato. Alla luce dei fari Steve lo vide e vi si fermò davanti. Lasciò acceso il motore e i fari, mentre le due donne scendevano e controllavano che non si trattasse di un’imboscata.
Tornarono dopo qualche istante, confermando che i rapitori non erano ancora arrivati. Ma non si fecero attendere molto. Meno di dieci minuti più tardi, Nicole avvistò i fari di tre auto che arrivavano dalla direzione opposta rispetto a quella da cui erano arrivati loro.
«Chin, arrivano» lo avvisò Steve ed estrasse la pistola. Le due donne lo imitarono.
«Occhi aperti, ragazze» mormorò Steve.
Tre jeep si fermarono lentamente ad una decina di metri da loro. Steve e le due donne le tennero sotto tiro. Le portiere si aprirono e Steve contò rapidamente gli uomini che smontarono.
«Dieci» sussurrò. Troppi, per loro quattro.
La situazione non era per nulla positiva. Sapeva che nei dintorni erano appostati alcuni uomini di Ben ma aveva espressamente ordinato loro di non intervenire per alcuna ragione.
«Buonasera, comandante McGarrett» disse uno dei rapitori e Steve riconobbe subito la voce di quello che l’aveva avvicinato al Memorial.
Steve gli puntò la pistola addosso. Al suo fianco, Nicole spostava la canna da un volto all’altro. Li teneva d’occhio tutti e si rendeva conto che erano decisamente troppi. Si muovevano come professionisti e li tenevano sotto tiro con armi di grosso calibro. Nicole si chiese oziosamente se i loro giubbetti avrebbero fermato i proiettili.
«Nemmeno mi saluti, Steven?» domandò l’uomo con il volto coperto e poi proseguì senza attendere riscontro. «Allora, hai fatto ciò che ti ho ordinato?».
«Sì, ma prima voglio vedere Danny».
Il suo nemico rise.
«Assolutamente no, Steve. Non credere che io sia così ingenuo. Fai scendere Victor da quel furgone».
Steve sapeva che doveva cedere alla richiesta. Erano in forte inferiorità numerica, non erano assolutamente nella posizione di poter dettare ordini.
«Steve? Chi devo abbattere per prima? La bella orientale o la tua splendida moglie?» urlò.
«NO!» gridò Steve. «Fermo. Ok, faremo a modo tuo».
«Molto bene».
«Kono, apri il portello».
La donna si mosse lentamente e, giunta sul retro del mezzo, ne spalancò il portello.
«Avanti» intimò Chin rivolgendosi a Victor che si alzò in piedi. Chin lo spinse con il fucile e Kono lo aiutò a scendere, dato che le catene lo rendevano goffo.
Lo trattenne per un braccio, mentre Chin gli puntava contro il fucile.
«Victor, che piacere rivederti» disse il rapitore.
Hesse non rispose, limitandosi a sorridere.
«Mi spiace interrompere la vostra allegra rimpatriata» disse Steve, «però direi di proseguire».
«Quanta impazienza, comandante» replicò l’altro in tono gioviale. «Fallo venire da me».
Steve si raddrizzò e si avvicinò a Victor, puntandogli la pistola la fianco. Lo spinse verso le jeep, ma venne fermato ancora una volta.
«No, non tu, Steve. Sei troppo pericoloso. Fallo accompagnare da tua moglie».
Nicole ebbe un fremito. Non era entusiasta all’idea di entrare in contatto con quei delinquenti, ma non poteva certo tirarsi indietro. Si avvicinò dunque a Steve e prese Victor per un braccio, spingendolo avanti. Ma non aveva fatto un passo che l’uomo parlò di nuovo.
«Disarmata, per favore».
«Non se ne parla» ruggì Steve, alzando la pistola. Gli uomini vestiti di nero sollevarono nervosamente le armi, ma non si mossero.
Nicole sollevò la mano che reggeva la pistola e la porse a Steve.
«Nicky…» cominciò lui, ma la donna scosse la testa.
«Armata o no, non farà differenza, Steve».
L’uomo prese la pistola dalle mani della moglie e l’infilò nella fondina sul petto. Nicole si mosse lentamente e coprì in breve lo spazio che li divideva, mentre Steve la seguiva con lo sguardo.
La paura era uno sciame di insetti che gli strisciava sulla schiena. Danny una volta gli aveva detto che era felice che lui non avesse alcuna paura, ma si sbagliava. Non è che non avesse paura, solo che riusciva a dominarla. Di solito. Ma stavolta, mentre la sua donna camminava lentamente verso la morte, si sentì stringere la gola in una morsa.
«Molto gentile da parte tua, Nicky» commentò Victor.
«Soltanto gli amici mi chiamano Nicky. Tu puoi pure chiamarmi agente Knight» mormorò con voce tagliente. Poi si rivolse al sequestratore. «E Danny?».
«Prima torna da tuo marito, dolcezza» replicò l’altro.
Nicole prese ad indietreggiare lentamente, evitando di voltare le spalle ai nemici. Quando arrivò nelle vicinanze di Steve tese la mano e lui le rese la pistola che la donna puntò immediatamente davanti a sé.
«Danny non è qui, Steve» mormorò Nicole nell’auricolare. «Ho l’impressione che ci abbiano imbrogliati».
«Ehi, comandante. Mancano le chiavi delle manette» disse l’uomo al fianco di Victor.
Steve le prese dal taschino e le lanciò. Caddero ai piedi di Victor che fu in breve liberato.
«Molto bene, Steve» esclamò Victor. «Credo che sia l’ultima volta che ci vediamo».
«Ma non mi dire. Non avrò più il piacere di rivedere la tua cara faccia?» sorrise Steve. Poi tornò mortalmente serio. «Ora basta giocare, Victor. Consegnami Danny e facciamola finita».
Victor sogghignò malignamente.
«Ci credi così ingenui, McGarrett? Credi davvero che l’abbiamo portato qui? Perché tu possa risolvere tutto al tuo solito modo, sparando all’impazzata e facendoci fuori tutti? No, avevamo bisogno di un’assicurazione sulla vita».
«Maledizione» imprecò Steve. «Io mi sono fidato di voi. Ho fatto tutto ciò che dovevo, compreso far evadere un ergastolano di prigione. Sono venuto solo, come mi avete chiesto, e ho messo in pericolo i miei. E ora mi sento dire che non avete nulla da scambiare».
«Suvvia, Steve. Non scaldarti».
Steve digrignò i denti.
«Danny è morto, vero? Abbiamo fatto tutto per niente?».
«No, Danny è ancora vivo. Per ora» replicò Victor.
«Che significa per ora?» domandò allora Steve.
«Sai, Steve, qual è la tentazione in questo momento? Sei in mano mia. Potrei far fuori in un colpo solo tutta l’unità Five-O. Ma, più importante ancora, potrei piantarti un paio di proiettili in corpo, come quelli che tu hai rifilato a me – magari mirando meglio. Potrei liberarmi di te, una volta per tutte».
«E perché non lo fai?» domandò Steve, alzando le mani e facendo un passo avanti, esponendosi completamente. «Avanti, sparami. Tanto lo farai comunque».
Nicole non disse nulla ma un velo di sudore freddo le coprì la schiena.
«Vacci piano, comandante. Potrei prenderti in parola» chiarì Victor. «Però ho in mente qualcosa di meglio. So che tu e Danny Williams siete molto più che colleghi». Victor sbirciò l’orologio da quattro soldi che aveva al polso. «Mi piace pensare che molto probabilmente lo vedrai morire».
Steve s’irrigidì. «Che stai dicendo? Che avete fatto a Danny?».
«Ci ho provato una volta con il tuo amico Kelly. E mi è andata male. Ma stavolta recupererai solo un cadavere, Steve. Non sei stato in grado di proteggere i tuoi, Steve. Chissà il rimorso che ti accompagnerà per tutta la vita».
«Che gli hai fatto, bastardo? Dov’è?» urlò Steve, facendo un altro passo verso di loro, ma Victor alzò una mano a bloccarlo.
«Calma, Steve» mormorò Nicole.
«Il mio amico ti sta inviando un messaggio. Lì c’è l’attuale indirizzo di Danny. Ti consiglio di affrettarti. Per quel che mi riguarda, tolgo il disturbo. È stato un piacere, Steve. Grazie di tutto» esclamò, salutandolo con la mano.
Il cellulare gli vibrò in tasca. Steve non si mosse e rimase ad osservare mentre i suoi nemici salivano sulle jeep. Gli sembrava impossibile che fosse finita così e stava per ordinare ai suoi di salire sul furgone quando, alla luce dei fari, scorse Victor che lo fissava con un ghigno malevolo.
«Giù, a terra!» gridò ai suoi, giusto un attimo prima che la notte venisse illuminata a giorno dagli spari.
Tutti reagirono fulmineamente e Steve vide sua moglie gettarsi a terra e rotolare per confondere le idee ai cecchini. Le pallottole colpirono il furgone, facendo esplodere il lunotto. Le schegge di vetro piovvero su di lui che cercava di farsi più piccolo per sfuggire alla sparatoria. Alzare la testa per rispondere al fuoco era improponibile.
I proiettili continuarono a tempestare il camioncino, mandando in pezzi i fanali e colpendo il motore che esplose con un sibilo acuto. Steve comprese che gli spari non erano rivolti a loro: i cattivi volevano soltanto appiedarli.
Finalmente gli spari cessarono e Steve si azzardò ad alzare la testa. Il convoglio di jeep si stava allontanando sobbalzando sullo sterrato e Steve si inginocchiò a terra, svuotandogli contro un intero caricatore. Anche Nicole si sollevò e sparò. Vide le scintille sprizzare dalla carrozzeria della macchina in coda, ma la distanza diventava eccessiva e il mezzo non si fermò, proseguendo la propria corsa.
Steve si alzò in piedi e cambiò caricatore.
«State tutti bene?» urlò.
«Sì» rispose Nicole, avvicinandosi a lui.
«A posto» gridò Chin, sbucando da dietro il furgone che aveva usato come riparo.
Attesero la risposta di Kono e Steve avvertì il primo brivido di allarme quando non venne.
«Kono?» chiamò allarmato.
«Qui!» rispose la donna con voce spezzata e Steve accese la propria torcia, girandola attorno.
«Kono!» urlò Chin quando la vide a terra. Lasciò cadere il fucile e si inginocchiò al suo fianco. Anche gli altri si avvicinarono.
Steve le puntò la torcia sul viso. Il lato destro del volto della donna era coperto di sangue.
«Nicky, presto» chiamò e la donna gli fu subito a fianco. Prese la torcia dalle sue mani e osservò attentamente l’occhio, notando una piccola lacerazione sulla cornea, provocata da uno dei frammenti di vetro.
«Tranquilla, Kono. Resta più ferma che puoi». Poi si rivolse a Steve. «Deve andare in ospedale, non posso fare nulla».
Steve annuì.
«D’accordo. Chin, resta con lei e chiama un’ambulanza». Gli consegnò il proprio iPhone. «Qui c’è il numero di Benjamin. Chiamalo e ragguaglialo. Raccomandati che non si faccia sfuggire Hesse. E se proprio non riesce a bloccarlo, mi va bene anche cadavere. Io e Nicky raggiungiamo Danny, sperando che non sia troppo tardi».
Chin annuì e Steve si chinò sulla donna.
«Mi dispiace ma devo lasciarti qui, Kono. Danny è in pericolo e mi serve la macchina per raggiungerlo».
Kono gli regalò un sorriso tirato. «Non preoccuparti. Ora vai e salva Danny».
«Brava ragazza!» la complimentò Steve e si alzò.
«Pronta?» chiese alla moglie che annuì.
«Chin, inoltra l’sms con l’indirizzo sul cellulare di Nicole» comandò Steve e partirono di corsa, al buio.
Entrambi avevano staccato la torcia dalla pistola e cercavano di illuminare la strada sterrata su cui correvano velocissimi. L’ultima cosa di cui avevano bisogno era che uno dei due si rompesse una gamba in una buca. Coprirono la distanza che li separava dalla macchina in poco più di tre minuti.
Strapparono le fronde che avevano usato per la mimetizzazione e Nicole lasciò le chiavi a Steve. Salirono e bordo e partirono.
«Che pensi di Kono?» domandò Steve. La corsa non l’aveva minimamente affaticato e respirava soltanto un po’ più profondamente del solito.
«Non lo so, Steve. Spero che riescano a salvarle l’occhio» mormorò Nicole che ansimava leggermente. La differenza di addestramento si faceva sentire: Steve era un SEAL, abituato alle condizioni più proibitive, e aveva imposto un ritmo bestiale alla corsa.
Nicole controllò il cellulare.
«È dall’altra parte della città, Steve. Proprio nella zona di Diamond Head. Avevo visto giusto, dunque».
Arrivarono infine sulla strada asfaltata e Steve accelerò bruscamente. Nicole allungò una mano e accese sirena e lampeggianti. Sfrecciarono velocissimi per la città, ignorando semafori e segnali di STOP.

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Capitolo 10
*** Piscina coperta ***


«Svolta a destra alla prossima» annunciò Nicole e si aggrappò alla portiera mentre Steve girava bruscamente facendo fischiare gli pneumatici sulla strada.
Davanti a loro apparve un cancello di ferro.
«Reggiti» ordinò Steve e gli lanciò contro la macchina a tutta velocità. Il cancello si spalancò e la Camaro proseguì la corsa. Steve seguì il vialetto fino ad una casa isolata nei pressi della spiaggia.
Frenò di colpo, e la Camaro si arrestò davanti al portico, con i fari puntati sulla porta d’ingresso.
Uscirono in fretta dall’auto e salirono i tre gradini del portico restando curvi per offrire il minor bersaglio possibile ad un eventuale cecchino appostato. Si fermarono spalle alla porta, con le pistole impugnate.
Nicole annuì e Steve sfondò la porta con un calcio, entrando con l’arma puntata davanti a sé.
«Danny!» urlò Steve, mentre Nicole lo seguiva all’interno.
Si divisero, controllando meticolosamente ma in fretta ogni stanza. Nicole entrò in una camera da letto e, alla luce che filtrava dall’esterno, vide una sagoma distesa sul pavimento. Fece scattare l’interruttore con timore.
«Ho trovato il proprietario» gridò la donna e si accosciò per tastare il collo e confermare il decesso. Anche se la macchia di sangue rappreso sul pavimento non lasciava adito a dubbi.
Steve la raggiunse.
«Lo devono aver colpito alla testa con una mazza. Poveraccio, che brutta fine» mormorò Nicole, allungando una mano per chiudere gli occhi sbarrati dell’uomo.
«La casa è completamente libera. Danny non è qui. Victor mi ha preso in giro» rifletté, ma Nicole scosse la testa.
«Victor l’ha detto chiaramente: vuole che tu veda Danny morire. È qui, da qualche parte».
Controllarono di nuovo la casa e alla fine si ritrovarono nel piccolo cucinino sul retro.
«Non c’è nulla, Nicky» esclamò stizzito.
La donna inclinò la testa facendogli cenno di fare silenzio.
«Lo senti questo rumore?» domandò, e anche Steve si mise in ascolto.
C’era un fruscio di acqua corrente, come se qualcuno avesse dimenticato un rubinetto aperto. Nicole si voltò. C’era una vecchia credenza appoggiata al muro ed il rumore di acqua corrente sembrava provenire da lì. La donna osservò il pavimento: il mobile era stato spostato da poco.
«Aiutami, Steve» intimò e insieme spostarono il piccolo armadio, scoprendo la porta dello scantinato. Nicole provò ad aprirla ma era chiusa a chiave.
«Indietro» ordinò Steve, puntando la pistola verso la serratura.
Lo sparo risultò assordante nello spazio ristretto e le schegge di legno si staccarono dall’intelaiatura della porta che si aprì. La scala che scendeva nello scantinato era quasi completamente allagata.
«Oddio, Danny!».
Si precipitarono giù per le scale, trovandosi ben presto con l’acqua alle ginocchia. C’era ancora una ventina di centimetri di aria intrappolata tra il soffitto e l’acqua che comunque saliva lentamente. Steve scese la scala e finalmente vide Danny.
«Danny! Sono qui, fratello. Arrivo».
Si liberò in fretta del giubbotto e Nicole fece lo stesso.
Si tuffò in acqua e raggiunse l’amico, riemergendo accanto a lui.
«Sono incatenato al muro, non posso uscire» spiegò Danny. Nonostante la situazione, conservava il suo proverbiale self control.
«Ci sono io qui ora, tranquillo» lo rassicurò Steve. Lo afferrò sotto le spalle, aiutandolo a tenersi fuori dall’acqua. Danny era stremato: non era un nuotatore e da un bel po’ si impegnava con tutte le forze per restare a galla.
L’acqua salì ancora, rubando altri centimetri di aria preziosa. Nicole li raggiunse.
«Nicky, resta con lui. Provo a liberarlo».
Steve si immerse, seguendo con la mano la catena che assicurava Danny al muro. Era nuova di zecca, di solido acciaio. Provò a puntare i piedi contro il muro e a tirare, ma era ovviamente inutile.
Mentre si guardava intorno in cerca di qualche attrezzo, l’acqua arrivò al soffitto. Mentre si voltava, vide Nicole avvicinarsi a Danny e posare le labbra sulle sue. Gli stava dando la propria aria. Quando si staccarono, Danny alzò il pollice. Nicole sfrecciò via per riprendere aria.
Steve gli strinse brevemente la spalla e seguì la moglie. Aggrappata all’ultimo gradino, Nicole ansimava per riprendere fiato, scostandosi i capelli fradici dagli occhi.
«Devi liberarlo. Non resisterà a lungo» constatò la donna.
«Lo so. Resta con lui, cerco qualcosa per spezzare la catena».
Nicole iperventilò e s’immerse. Di nuovo diede la propria aria a Danny, soffiandogli il proprio respiro nei polmoni, e tornò alla scala per rifornirsi. Mentre cercava di riprendere fiato, Steve le sfrecciò accanto. Aveva in mano un piede di porco.
«Dove l’hai trovato quello?» domandò.
«Nel bagagliaio. Un regalo di Danny».
Steve si tuffò ancora una volta. Nuotò fino a raggiungere l’anello infisso nel muro. Infilò il piede di porco e provò a fare leva ma non aveva alcun punto d’appoggio e non riusciva a fare forza. Ma Steve era determinato e continuò ostinatamente a provare.
Nicole svuotò ancora una volta i propri polmoni e li riempì di aria pulita per Danny. S’immerse nuovamente sentendo la testa leggera. Raggiunse Danny che la fermò prima che potesse avvicinarsi. Le fece capire di avere ancora della riserva e Nicole attese, fluttuando accanto a lui e cercando di sostenerlo.
Nel frattempo, Steve stava ancora cercando di spezzare la catena che bloccava l’amico. Sentiva i polmoni bruciare per mancanza d’ossigeno, ma non poteva mollare. Non avrebbe permesso a Victor di vincere, non avrebbe perso Danny.
Con un ultimo sforzo che gli riempì la testa di stelline luminose, fece leva ancora sulla catena che finalmente si ruppe. Ma non aveva più ossigeno e non aveva la forza per tornare indietro. Mentre scivolava nell’incoscienza, era consapevole di non aver permesso a Victor di fargliela però gli dispiaceva abbandonare Nicole.
Nicole cominciò a preoccuparsi quando non lo vide risalire. Era sotto da parecchio ed era da tanto che non facevano immersioni, Steve da molto più tempo di lei.
Danny attirò la sua attenzione e Nicole gli diede nuovamente aria. Si era appena staccata da lui e stava per tornare indietro quando Danny fu finalmente libero. Lo afferrò per un braccio e lo trascinò via finché riemersero accanto alla scala.
Nicole lo spinse ad aggrapparsi ai gradini, mentre Danny ansimava come un mantice.
«Stai bene, Danny?» boccheggiò lei.
Danny annuì, troppo debole per parlare, scosso da un violento accesso di tosse.
Nicole si voltò aspettandosi di veder riaffiorare la testa bruna di Steve. Quando ciò non accadde, si girò verso Danny.
«Ce la fai a salire?». Non attese risposta e s’immerse ancora una volta. Vide il corpo di Steve ondeggiare nell’acqua e lo raggiunse in fretta. Lo circondò con le braccia e scalciò per nuotare all’indietro.
Lo trascinò fino alla scala, cercando di tenergli la testa fuori dall’acqua. Danny era salito e Nicole si puntellò, sollevando Steve e trascinandolo nel piccolo cucinino. Steve giaceva privo di conoscenza nel cerchio delle sue braccia. Lo distese supino e si inginocchiò al suo fianco.
«Steve! Steve, rispondimi» lo chiamò, ma Steve non si mosse.
Veloce, Nicole gli lacerò la maglietta e avvicinò il volto al suo viso. Accostò la guancia alla bocca di Steve e si accorse che non respirava. Danny si avvicinò lentamente, ancora scosso dalla tosse.
Nicole si sollevò. «Non respira, ma il suo cuore batte ancora» mormorò la donna. «Danny, prendi il mio cellulare, chiama il 911».
Gli inclinò la testa all’indietro e cominciò con la respirazione bocca a bocca. Gli soffiò l’aria nei polmoni e vide con la coda dell’occhio il torace espandersi.
«Avanti, Steve! Respira» gli disse, insufflandogli altra aria.
Nicole attese qualche secondo ma Steve giaceva immobile.
«Dai, Steve!» esclamò Danny. «Non puoi morire».
Nicole alzò lo sguardo su di lui che vide le lacrime traboccare dalle palpebre. Fu un momento e Nicole si abbassò di nuovo su Steve.
«No che non puoi morire» esclamò decisa.
Gli chiuse la bocca con la propria e di nuovo gli riempì i polmoni di ossigeno. Lo sentì tossire e si staccò in fretta da lui. Steve rigurgitò un po’ d’acqua e Nicole lo girò sul fianco, in modo che non soffocasse, sostenendolo con dolcezza.
«Sì!» esclamò. «Così, Steve. Respira, amore».
Steve tossì di nuovo e, quando finalmente si calmò, Nicole lo fece distendere di nuovo. Si chinò su di lui, accarezzandogli il viso. Steve aprì gli occhi e la guardò.
Nicole gli sorrise, sospirando di sollievo.
«Mi hai spaventata davvero stavolta, sai?» gli disse.
«Danny?» mormorò lui con un filo di voce.
Nicole alzò il capo. «È qui, sta bene».
Anche Danny si chinò su Steve.
«Dirò al Governatore di farti fare un corso di immersioni. Finalmente abbiamo trovato qualcosa che non sai fare meglio di Rambo» scherzò lui.
Nicole sedette sui talloni, scuotendo sconsolata la testa.
«No, per favore. Non cominciate adesso».
Steve sogghignò e fu scosso da un nuovo attacco di tosse. Poi fece cenno a Nicole di avvicinarsi. La donna si accostò, abbassando la testa per sentire cosa aveva da dirle.
«Ci sono andato vicino stavolta» sussurrò.
«Sì. Ma non prenderci l’abitudine, ok? Non mi va di scendere ancora all’infermo per riprenderti» lo canzonò lei, sorridendogli di nuovo.
«Mi sono accorto di amarti, lo sai?» mormorò.
«Ti amo anche io, Steve».
Lo baciò a fior di labbra e lui la trattenne accanto a sé.
«Grazie… mi hai salvato la vita» bisbigliò.
«Sì… ma me ne sono già pentita» lo derise Nicole, riprendendo la sua stessa battuta.

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


Il sole sembrava un’enorme palla di fuoco che si stesse immergendo nell’oceano, spegnendosi progressivamente.
Nicole, Steve e Danny sedevano sulle poltrone di legno della spiaggia di casa McGarrett; i due uomini sorseggiavano una birra gelata mentre Nicole si godeva l’ultimo sole della giornata ad occhi chiusi. Erano trascorsi due giorni dal salvataggio di Danny.
«Sei stato dal Governatore?» domandò Danny e Steve annuì. «Che ti ha detto? Che ti leva l’incarico e mi mette a capo del Five-O?».
Nicole sogghignò e Steve sollevò un sopracciglio, girandosi verso l’amico.
«Ti piacerebbe!» esclamò.
«Beh, sai: mi piaceva l’idea di soffiarti il lavoro, visto che due giorni fa ho baciato tua moglie».
Steve non raccolse, rivolgendosi direttamente a Nicole.
«Nicky, la prossima volta lascialo annegare, ok?».
La loro risata risuonò sulle acque del Pacifico.
«Scherzi a parte, è tanto arrabbiata?» chiese Danny.
«Ha urlato e inveito contro di me per un’oretta almeno. Mi ha detto che sono un incosciente, che sono pazzo e che mi avrebbe sospeso, meravigliandosi di avermi affidato il Five-O».
«Ah, allora non ti ha comunicato nulla che non ti avesse già detto».
«Infatti. È quello che le ho detto anch’io. Oh, e ha anche minacciato di sbattermi in galera per aver falsificato l’ordine di trasferimento per Victor».
«A proposito di Victor: come sta?».
Sul volto di Steve comparve un sorriso da monello.
«È tornato nel suo alloggio di prima classe al penitenziario. Gongolava troppo pensando di avermi fregato ed è finito come un pollo nella mia trappola».
Mentre Steve era impegnato a salvare la pelle a Danny, infatti, Benjamin aveva svolto il suo compito senza intoppi. Aveva seguito Victor e i suoi scagnozzi con molta discrezione, riuscendo a bloccarli prima che salissero a bordo di un jet diretto sul continente.
C’era stata una breve sparatoria, ma nessuno degli uomini di Ben era rimasto ferito. La polizia locale, allertata dallo stesso Ben, aveva fatto il resto, rimettendo le manette ai polsi di Hesse.
«Immagino che la ricattura di Hesse abbia giocato a tuo favore» esclamò Danny.
Steve annuì, pensieroso.
«Ho giocato una partita pericolosa. Se Victor fosse scappato sarebbero stati guai. Ma mi fidavo di Benjamin e ho avuto ragione, a quanto pare. E poi» proseguì, allungando un pugno scherzoso sulla spalla di Danny «ne valeva la pena».
Nicole si raddrizzò sulla sedia. «Se avete intenzione di commuovervi, posso lasciarvi sole, bamboline».
I due stavano per replicare quando un grido li fermò.
«Ehi, c’è nessuno?».
«Siamo qui» urlò Steve di rimando e dall’angolo della casa comparvero Chin e Kono. La donna portava una benda nera sull’occhio. Fortunatamente la lesione si era rivelata solo superficiale. Portava la benda solo per precauzione ma i medici erano ottimisti sul fatto che non avrebbe riportato danni permanenti.
Steve accennò con la testa al sacchetto che Chin teneva in mano. «Hai tutto?».
«Certo. Mancano le birre ma avevi promesso di occupartene tu» rispose.
Nicole scosse la testa e si alzò dalla sedia.
«Ovviamente ho dovuto pensarci io» esclamò e Steve sorrise sfacciatamente.
«È questo il bello di essere il capo dei Five-O».
Gli amici rumoreggiarono e Danny lo colpì con uno schiaffo sulla nuca.
A quel punto Steve si alzò, stiracchiandosi.
«Bene, accedendo il barbecue» affermò, prendendo il sacchetto dalle mani di Chin e incamminandosi verso casa.
«Ma figurati!» esclamò Danny, rincorrendolo. «Da quando uno delle Hawaii è capace di preparare una grigliata?».
«Io faccio le migliori bistecche dell’isola, caro il mio detective».
«Ma lascia perdere. Lascia fare a quelli del New Jersey» replicò l’altro.
I loro screzi si persero in lontananza mentre Nicole li guardava scuotendo la testa con rassegnazione. Poi si voltò verso Chin e Kono.
«Dai, entriamo. A quei due servirà un po’ di tempo per decidere chi sia il mastro chef del barbecue. Ho preparato qualche aperitivo».
Si incamminarono verso casa, pregustando una serata a base di risate e allegria.

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