Destiny - Remember Me

di hirondelle_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Destiny I ***
Capitolo 2: *** Destiny II ***
Capitolo 3: *** Destiny III ***
Capitolo 4: *** Destiny IV ***
Capitolo 5: *** Destiny V ***
Capitolo 6: *** Destiny VI ***
Capitolo 7: *** Destiny VII ***
Capitolo 8: *** Destiny VIII ***
Capitolo 9: *** Destiny IX ***
Capitolo 10: *** Destiny X ***
Capitolo 11: *** Destiny XI ***
Capitolo 12: *** Destiny XII ***
Capitolo 13: *** Destiny XIII ***
Capitolo 14: *** Destiny XIV ***
Capitolo 15: *** Destiny XV ***
Capitolo 16: *** Destiny XVI ***
Capitolo 17: *** Destiny XVII ***



Capitolo 1
*** Destiny I ***


Autore: Macareux
Titolo: Destiny – Remember me.
Titolo del capitolo: Destiny I
Genere: Erotico, Introspettivo.
Avvertimenti: AU, Violenza, Contenuti Forti,presenza di avvenimenti sovrannaturali… Don’t like, don’t read.
Rating: Arancione (tendente al rosso)
Pairing: Hiroto/Midorikawa, accenno alla Hiroto/Shirou e alla Endou/Natsumi.
Desclaimer: I personaggi presenti in questa fanfiction non mi appartengono ma sono proprietà del rispettivo Autore. Questa fanfiction è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. Gli avvenimenti descritti in questa fanfiction non sono mai esistiti, ogni avvenimento a fatti o persone reali è puramente casuale (… ci mancherebbe)
Attenzione!:Chiunque plagerà e/o prenderà ispirazione indebitamente da questa fanfiction verrà perseguitato dal sommo regolamento di EFP (?). Insomma, se volete scrivere qualcosa di simile avvisatemi, non vorrei che si creino dispiaceri come è già successo in passato.
Si ringraziano: Le Beta-Reader (KS. D. Destiny, Marts e Lau) e tutti i lettori che attendevano questa fanfiction. Sono stata assente a lungo, è vero, ma spero che questa fanfiction segni il mio cambiamento verso una concezione della scrittura più matura e consapevole.
Note 1: Il fatto che questa fanfiction sia a rating arancione e tra i generi ci sia anche scritto “Erotico” non significa affatto che ci saranno scene a tematiche sessuali particolarmente esaltanti, anzi. Note 2: Sono ovviamente gradite le recensioni, anche se non penso di meritarle dato che io stessa non recensisco mai… comunque provateci, non fate i timidotti :3

C-117 guarda le pareti spoglie della sua stanza, con le braccia a circondare le gambe strette al petto, immerso nella penombra. Solo la luna gli illumina il viso, di tanto in tanto, quando le nuvole non la nascondono alla vista. Rimane fermo, ma a volte si mette ad ascoltare, appoggiando un orecchio alla parete, le agonie di compagni dei quali non ha mai visto il volto. A volte sono risate sguaiate, altre pianti disperati: C-117 non si chiede mai nulla.  
È sempre notte, sempre tutto buio.
Nella sua vita è sempre stato tutto molto buio e confuso. Lui è lo schiavo numero C-117, ed è l'unica cosa che sa. Non sa come siano i suoi occhi, non ha idea del colore dei suoi capelli, che sono cresciuti nel tempo. Non sa come siano fatte le sue labbra, non capisce che cosa sia il liquido vischioso che cola inesorabilmente giù per le tempie appena il padrone, la sagoma scura che compare sulla soglia pure nei suoi incubi, lo picchia con ferocia.
Lui non lo sa, ma non intende scoprirlo: sapere è sbagliato. Sapere significa botte, dolore, fame.
Si apre la porta, la luce esterna fa vedere a C-117 la sua stanza. Cos’è quella macchia rossa sul muro? È sempre stata là? E quando ci è arrivata?
Una voce. Ma è davvero una voce o uno dei suoi incubi peggiori? C-117 trema: a cosa è dovuto il suo tremore? Alzati. Alzati, una seconda volta, urlata. Una sberla, qualche schiaffone. C-117 li sente, ma non fanno male.
È davvero dura portarsi dietro le pesanti catene. Eppure lui lo fa, lo fa e basta. Si alza in piedi, piano, e una forza bestiale lo schiaccia al muro. C-117 non dice nulla. L’uomo gli tira i capelli, gli fa alzare lo sguardo verso il soffitto, con tanta forza da fargli male. Ed ecco: odore di alcol, profumo da donna, forse qualche puttana che ha incontrato giù al bar prima di salire. Allo schiavo bruciano gli occhi mentre il padrone lo dilania con le sue dita grassocce, schiacciandolo al muro, senza neanche aver sfilato gli anelli: se n’è dimenticato. E i suoi grugniti all’orecchio, quell’ansimare, il puzzo del suo fiato sul collo: C-117 è consapevole di tutto ciò, ma ora si trova incredibilmente distante. Sente il solito liquido colargli giù dalle guance, per le gambe, infrangendosi sul pavimento, dove già si sono create macchie scure. Lo schiavo cede, il padrone non molla: gli graffia un braccio ossuto, C-117 si chiede come faccia, dato che la carne praticamente non ce l’ha, eliminata da giorni di digiuno.
È la sua voce a spaventarlo: roca, possente, cattiva. Ehi C-117, li hai fatti i lavori di casa? Se n’è occupato C-115 suppongo. E cos’è quella faccia? Va’ a lavarti. Lurido. Fra poco vengono a prenderti.
C-117 guaisce: è stato venduto.
Il padrone si scosta, lui cade bocconi. Il corpo gli duole, inizia a tossire, gli occhi gli bruciano, la gola si secca. Il padrone gli tira un calcio, lui mugola, come sempre. Prepara le tue cose gli dice, prima che arrivino gli ospiti. La porta si chiude, C-117 sa che ora passerà nell’altra stanza, dove C-118 dorme profondamente. Lo sveglierà con un ceffone, lo immobilizzerà al letto, gli farà male. Ma nessuno lì sa nulla.
Rimane lì, lo schiavo, immobile nel freddo della stanza. Sente lo strillo acuto di C-118. C-117 pensa sia una donna, ma non ne è sicuro, lui non ha mai visto una donna veramente. Non sa neanche di che razza è: razza pura, meticcia? Lo schiavo  se lo chiede, ma non vuole scoprirlo.
Lentamente si alza in piedi, aiutandosi dalla parete, sebbene gli ci voglia un po’, e le catene pesano e fanno male. C-117 si alza e cerca il bagno a tentoni perché non se lo ricorda, è da così tanto che non si lava. Appena apre la porta scosta le ragnatele, chiude la finestra, fa freddo. Entra in doccia perché lui è già nudo, e non può togliersi le catene. Guaisce appena alza la leva, l’acqua è gelida e inaspettata: scroscia giù per la schiena come piccole scariche di dolore. Ma C-117 si lava lo stesso perché verrà venduto, e vuole andarsene da lì.
Prepara le tue cose, ma quali cose si chiede C-117? Non ha cose, lui. Eppure deve trovarle perché il padrone ha ordinato di prepararle: deve trovare qualcosa.
C-117 guarda vacuo il suo letto sfatto da anni, intriso di sangue. Prende un lenzuolo, lo spezza coi denti e se lo mette alla vita. E poi? Lì non c’è niente: c’è la sua ciotola per mangiare, il bicchiere sbeccato per bere. Sono cose che deve assolutamente prendere.
E poi c’è la luna. La luna è palesemente sua: è lì da sempre, è ovvio che è sua; ma non può prenderla. Lo schiavo inizia ad agitarsi, le parole del padrone gli rimbombano nella testa: Prepara le tue cose. Non può prepararle, verrà picchiato? C-117 si trascina verso l’angolo, dove sa che c’è la frusta. Quella non è sua ma del padrone, gli servirà.
Lo schiavo si guarda ancora in giro: è tutto buio, non vede niente. Ma si ricorda di una cosa, anche se non sa bene cos’è: sa solo che è sotto il letto, e deve prenderla perché è sua.
Appena preso l’oggetto la porta si spalanca di nuovo, il padrone entra e lo prende rudemente per i capelli, trascinandolo giù. C-117 i capelli ce li ha lunghi, lo scopre solo ora, e trova abbiano un colore inusuale anche se non sa cosa sia usuale lì fuori. La luce per poco non lo acceca, il padrone sbraita qualcosa, lo strattona e lo porta al piano di sotto, poi lo trascina in un’altra stanza. E lì C-117 sgrana gli occhi: ci sono due figure che forse sono donne, lo pensa perché vede che sono diverse dagli altri due, che sono simili al padrone e quindi devono essere maschi. C-117 fa appena in tempo a pensarlo che viene sbattuto sul pavimento immacolato, coperto da un bel tappeto persiano. Sta’ zitto e cerca di non sporcare in giro, gli dice il padrone. Lo schiavo gli porge la frusta, ma lui sbuffa e dice che non ha tempo.
C-117 abbassa lo sguardo, la luce gli dà fastidio, e poi non sta bene fissare la gente. Il suo padrone torna su, dice agli ospiti che va a prendere gli altri due.
Poi, quando lui se ne va di sopra, C-117 li sente: gli uomini iniziano a conversare. Lui non può far altro che alzare il capo su di loro, sbalordito: quegli uomini sanno parlare! Credeva che solo il suo padrone fosse in possesso di tale potere. E invece quelle persone parlano, gli occhi puntati su di lui, un sorrisetto che affascina. A C-117 quelle persone piacciono tantissimo.
- Ma che bello schiavetto. – osserva uno. – Chissà di che razza è.
- È un meticcio, a mio parere. – fa una delle donne, guardandolo maliziosa da sopra il ventaglio. – Ha un nasino così grazioso.
C-117 non capisce i commenti successivi, ma resta a guardare incantato quei meravigliosi esseri: sembra risplendano di luce propria. I loro abiti luccicano sotto il lampadario a gocce, le donne vestono suntuose gonne ornate di diamanti: C-117 sa cosa sono, perché ha lavorato in miniera da bambino e ne ha viste tante di pietre come quelle, quando le puliva e le portava alla luce della lampada. E loro poi hanno collane di perle, d’oro e d’argento: C-117 vorrebbe toccarle, ma non può, non si fa.
Gli uomini portano vestiti eleganti, una rosa nel taschino: uno ce l’ha rossa, rossa come i suoi capelli, l’altro ce l’ha bianca, come la sua pelle. C-117 li guarda in una sorta di ammirazione, perché sono così belli, così eleganti e con modi così raffinati… Non ricorda di aver mai visto creature così meravigliose.
- Ha due occhi bellissimi. – mormora a un certo punto uno di loro. C-117 lo guarda, smarrito: vorrebbe chiedergli di che colore sono, ma non si può e non vuole. Rimane incantato dal suo sguardo, dal suo sorriso che appare più luminoso della luce soffusa della stanza.
Subito entra il padrone, tiene in entrambe le mani ciocche di capelli. Gli schiavi vengono scaraventati a terra, e C-117 può osservarli meglio: uno è C-118. Lo capisce, anche se non sa leggere, perché anche lui ha il suo nome marchiato sul braccio a fuoco, indelebile. L’altro deve essere C-115, ma non ne è sicuro, perché lui non l’ha mai sentito. Entrambi sono nudi, tengono in una mano la propria ciotola, nell’altra il bicchiere, le catene fanno male ai loro polsi, e hanno graffi e lividi sul viso. Lo guardano sgomenti, anche se C-117 non lo sa perché lo fissino in quel modo, e si sente turbato.
Bene signori, la partita comincia, dice il padrone. C-117 sposta lo sguardo sul tavolo del salotto, dove i nobili si accingono a giocare una partita a carte. Li osserva, anche se ha già visto cose del genere, ogni volta che doveva passare a un nuovo padrone. Sente il desiderio di andare da uno di loro, sussurrargli all’orecchio e dirgli quali mosse deve compiere per prenderlo, perché lui vuole andarsene da lì, perché non vuole più stare con il padrone cattivo.
Lui fa un gesto elegante e butta la carta al centro del mazzo, sorride trionfante e mostra le sue carte: sono tutte dal punteggio alto. Una donna sbuffa stizzita, lasciando cadere le sue e iniziando a sventolarsi con il ventaglio, storce il naso perché ha perso. Anche l’uomo con la rosa rossa lascia stare, e C-117 osserva gli altri nobili, perché vuole sapere cosa hanno loro. L’altra donna ha gli occhi corvini che saettano, ha perso ma non vuole darlo a vedere: sbuffa infastidita, pesca una carta per vedere se le cose cambiano, ma niente da fare. Anche lei si arrende e si apparta con l’amica, lanciando sguardi infuocati ai due uomini che restano, parlando da dietro i ventagli spiegati.
Rimane l’uomo con la rosa bianca, e C-117 trema di curiosità, vorrebbe sapere che carte ha ma non le vede. Lo sguardo del nobile non trema, né esulta: è freddo ed immobile, e C-117 si agita. Per un attimo teme che abbia perso, e si fa sfuggire un singhiozzo, che nessuno nota. Poi il nobile mostra le carte, impassibile, e nessuno si muove.
C-117 sente il suo cuore che esulta: potrà andarsene da lì, se il nobile sceglierà lui. Lo schiavo non sa il suo nome, ma poco gli importa, dovrà chiamarlo padrone e basta, perché è questo che vogliono i padroni, che tu li chiami così. C-117 trema, mentre lo sguardo dell’uomo si posa su loro tre. “Prendi me!” vorrebbe urlare, ma non può, non si fa. Ma il nobile sembra leggergli nel pensiero, lo guarda e sorride rassicurante. - Prendo quello schiavo lì. Ha degli occhi meravigliosi.
C-117 esulta nel suo animo, ma non può sorridere. Dentro di lui si scatenano emozioni contrastanti, il suo cuore accelera i battiti  perché se ne andrà da lì, anche se sa che forse starà peggio di prima.
Il padrone grugnisce, ma non dice nulla. Dà un calcio allo schiavo e gli ordina di raccogliere i suoi oggetti, e di andare dritto filato a baciare i piedi al nobile che l’ha scelto, che non merita tutto ciò perché è lurido. C-117 si affretta trascinandosi fino all’uomo, lo guarda e gli bacia le scarpe lucide, sanno di cuoio. Lui non lo guarda più, fissa il suo vecchio padrone con freddezza e chiede se è pulito, e C-117 non sa cosa intende dire  perché in fondo si vede che si è appena lavato. Rimane lì, seduto sulle sue stesse gambe, e guarda smarrito tutti i presenti. Improvvisamente la felicità di un attimo prima scompare, C-117 sa che non sarà mai libero. E gli occhi del suo nuovo padrone, quell’uomo dalla pelle diabolica e l’aria austera, ora anziché rassicurarlo lo inquietano. C-117 squittisce impaurito, ma sa che è troppo tardi per tornare indietro.
E senza rendersene conto, è già stato chiuso in una gabbia dalle sbarre di ferro.
 
La casa del padrone è grande, dai colorati arazzi e le scalinate di mogano. Appesi alle pareti stanno quadri dall’aria severa, che non piacciono a C-117. Si ferma un attimo davanti a uno dei numerosi specchi della grande stanza, perché riesce a vedersi per la prima volta, e rimane totalmente spiazzato. Non somiglia a uno dei nobili, ma non sembra neanche a C-118: lui è diverso. Lo avverte dall’espressione del viso, dai suoi lineamenti delicati e quasi femminili, e dagli occhi che il padrone ha definito “meravigliosi”, una parola che C-117 non conosce bene, ma che crede di capire.
- Cammina. – fa secco il padrone, e gli dà uno strattone tirando il ferro delle catene. C-117 si sbilancia in avanti ma non dice niente, e lo segue continuando a guardarsi attorno: è diversa dalla piccola e buffa casa del vecchio padrone, quella dell’uomo dalla rosa bianca è molto più grande. Il soffitto è alto e decorato di pietre preziose e oro, le cornici sono in puro argento. A un lato della stanza vi è un camino, e il fuoco scoppietta mandando sordi borbottii. Chissà cosa starà dicendo, pensa C-117, ma in realtà è troppo preso ad osservare le poltrone di un rosso acceso. Ma sarà davvero rosso, pensa C-117? Non si sbaglia, per caso? Il colore non gli interessa comunque: ha ben visto che sono prive di molle che spuntano dalle cuciture. Il tavolo è rotondo, al centro vi è posto un singolare centrino ricamato e un bel vaso di fiori freschi.
Il padrone lo tira perché ha rallentato: subito C-117 lo segue in un’altra stanza. Questa è diversa, ma C-117 non ha il coraggio di stare a guardare perché i polsi iniziano a fargli male. L’uomo dalla pelle bianca non si volta a fissarlo, si ferma davanti a una porticina che a C-117 appare familiare, tanto è scrostata e malmessa. Apre una donna, gli occhi grandi e castani si fissano sul padrone. Fa una piccola riverenza, poi si alza e resta composta.
C-117 pensa che sia una donna molto bella: i fianchi sono magri, i capelli ondulati hanno il colore del legno. Profuma di buono, non veste male come lui e non porta catene: non è una schiava, ma nemmeno una nobile. La guarda incuriosito, senza sapere cosa dire.
- Sfamalo. È osceno. – si limita a dire il padrone porgendo le catene alla donna, e lei si limita ad annuire, squadrando il nuovo arrivato dall’alto in basso. Il padrone se ne va di fretta, e sale le scale: C-117 trova abbia modi molto eleganti e sicuri, ma ne è impaurito.
Si volta a guardare la donna: e lei? Anche lei è un padrone? C-117 non sa come comportarsi. Ma subito si tranquillizza quando lo conduce dentro, con più delicatezza del padrone, e lo fa sedere presso un tavolo dall’aria consunta. Lo schiavo non può far a meno di guardarsi attorno, perché è curioso: è una stanza molto meno lussuosa delle altre, l’intonaco del muro è scrostato e pieno di scritte, ma C-117 non ha mai imparato a leggere. Vi sono credenze dall’aria vecchia e decrepita, piatti sbeccati e piatti di alta qualità, posate di legno e posate d’argento, mestoli e stoviglie. Il tavolo è ingombro di roba: borse della spesa, verdure, carne. Anche lì c’è un camino, ma è spoglio e freddo, e il muro è tanto annerito. C’è una porta aperta sull’esterno, e C-117 non può fare a meno di guardare con meraviglia quelle graziose tonalità di verde e rosso.
La donna se n’è andata in un’altra stanza, perciò non può vederlo: C-117 si alza e si appoggia allo stipite della porta e guarda fuori: com’è grande il mondo esterno! Non ha mai visto nulla del genere: un’enorme distesa verde si apre davanti ai suoi occhi, delle contadine sono piegate sugli orti e zappano la terra, i cappelli ampi e variopinti e i vestiti dai colori scuri ma forti. Lo schiavo fa qualche passo in avanti, ma subito viene richiamato: la donna lo guarda, severa, e C-117 torna umilmente al suo posto, il capo chino. Lo alza solo quando la donna appoggia davanti al naso un gustoso piatto di zuppa.
C-117 la guarda negli occhi, sbarrando i suoi, senza capire. Lei si limita a sorridergli, e C-117 si agita, perché nessuno gli ha mai sorriso né offerto un pranzo del genere. Si allontana svelto, perché non si fida, e trema tutto. La donna smette di sorridere, lo guarda preoccupata, poi prova ad appoggiargli una mano sulla fronte, ma lui si ritrae di scatto. Cerca una via di fuga con gli occhi, è spaventato da tutto ciò: può scappare dal campo di fiori rossi e dalle contadine piegate sugli orti, ma ecco entrare da lì un ragazzo anche lui senza catene, e C-117 lo fissa ad occhi sbarrati, inizia a squittire: se c’è una cosa che odia quella è la trappola. Non c’è nulla di peggio della trappola, C-117 lo sa bene: prima fanno tutti i buoni buonini e poi ti picchiano, questo ha imparato, e ha imparato che non ci si può fidare di nessuno e obbedire al proprio padrone.
Il ragazzo gli parla, ma lui non risponde. Fa il giro del tavolo e si nasconde in un angolo dove fanno il nido i ragni, guardandoli con puro terrore e una grande voglia di piangere.
- Chi sei? – fa ora il ragazzo tutto serio, non sorride come la donna.
È ora lei a parlare: - Questo è il nuovo maggiordomo, il padrone l’ha appena vinto.
Il ragazzo non risponde, si limita ad annuire. C-117 inizia a tranquillizzarsi, perché vede che nessuno gli sta facendo male, ma non abbassa la guardia. La donna prova a porgergli la mano, ma lui non l’accetta, inizia  a nascondersi il viso con le mani, perché chi alza le mani di solito vuole dare sberle.
- Lascia fare a me, idiota. – dice ora il ragazzo, e la scosta con il braccio e si accuccia davanti a lui. C-117 scosta appena le dita per fissarlo, ma le chiude subito quando lui gli tira uno schiaffo, forte, sulla guancia. C-117 fa un singhiozzo e lacrima, ma non dice nulla. Il ragazzo gli ordina di alzarsi, e lui lo fa, lo fa perché ha capito che anche loro sono padroni, dei padroni meschini che amano le trappole. Il ragazzo lo tira per i capelli, la donna grida qualcosa, e C-117 viene sbattuto sulla sedia.
- Mangia.
C-117 ubbidisce, non sa fare altro: prende la posata sporca e inizia a mangiare, veloce, e quasi la zuppa gli va di traverso. La donna guarda male il ragazzo, gli chiede perché lo abbia fatto, e il ragazzo risponde così: - Non sono umani, non possono essere trattati come tali.
C-117 nota che c’è qualcosa di strano nella sua voce, ma non dice nulla, del resto gli schiavi non dicono mai nulla. La donna resta in silenzio, si limita a sedersi accanto a lui e a guardarlo apprensiva, e C-117 non sa cosa fare con quello sguardo puntato addosso: istintivamente stringe più forte la sua borsa, non sa ancora cosa contiene ma sa che è sua.
- Io… io sono Natsumi. – attacca discorso la donna, guardandolo con occhi lucidi.
- Nelly, ti prego. – sbuffa quasi spazientito il ragazzo.
- Ma tu puoi chiamarmi Nelly. – continua imperterrita la donna. – Quello lì invece è Atsuya. Non è una persona cattiva, sai? Lui è buono, e anche io sono buona. Non vogliamo farti del male, sai?
C-117 li guarda, ma non dice nulla. Non si fida, perché delle persone non bisogna mai fidarsi. Si è sporcato la bocca, perché la zuppa è buona ed è bello mangiarla, e poi lui è da anni che non mangia una zuppa, sempre solo bucce di patate.
- Tu invece? Tu come ti chiami? – prova a chiedere la donna, ha un tono di voce dolce e soave. Atsuya sbuffa, si è appartato in un angolo e ora li guarda con un’occhiata losca. C-117 lo osserva meglio: ha capelli che sembrano fuoco, e gli occhi sono grigi e gelidi. Ha la faccia lurida, come se si fosse sporcato a fare qualcosa, e braccia muscolose e possenti. Lo vede sputare per terra con disprezzo, ma non dice niente.
- E allora? Come ti chiami?
Lo schiavo non sa se rispondere o meno, ma loro sono padroni e allora bisogna rispondere: - C-117.
Natsumi lo guarda preoccupata, aggrotta le sopracciglia. C-117 trova sia molto bella anche così, con le sopracciglia aggrottate. – Il tuo vero nome? – fa lei, ma lo schiavo non sa cosa vuole dire, perché lui è sempre stato C-117: ha forse un altro nome?
- Non hanno veri nomi. – fa notare il ragazzo, e C-117 gli è grato anche se gli ha tirato una sberla.
- Insomma, un vero nome ce l’avrà, è comunque un essere umano! – sbotta spazientita la donna, sembra irritata dall’atteggiamento di Atsuya, e C-117 non la trova più così tanto bella.
Il ragazzo la guarda fisso, improvvisamente più che cattivo è arrabbiato: se ne va fuori dalla porta, da dove è entrato, e C-117 spera che non torni più. Lui comunque non se lo ricorda, il suo vero nome, forse non ha neanche un vero nome. Si stringe alla borsa e guarda la zuppa che se ne sta ferma, nel piatto, a raffreddarsi. La padrona non dice nulla.
 
Angolo di Macareux
Come promesso, eccomi a riscrivere la mia vecchia e bitorzoluta (?) fic “Destiny”. Non so se ne avete mai sentito parlare (?) Boh, chissà, magari sì.
Questa versione mi soddisfa comunque quanto la prima (ovvero, non mi soddisfa -.-“), ma non dovrei stare qui a lamentarmi dopo due mesi di assenza, non credete? :”)
Insomma, questi due mesi qui li ho passati a riscrivere completamente questa fic. Una fic che verrà postata però a periodi regolari, entro qualche mese sarà già composta tutta: il tempo per riscrivere completamente anche il Re dei Ladri ;)
Ho cambiato alcune cose, la trama è leggermente modificata: come vedrete l’atteggiamento di alcuni personaggi sarà diverso, appunto per approfondire di più la psicologia di ogni singolo carattere. Ho eliminato però molte comparse inutili, e unito capitoli: per questo la fic non supererà mai i… 18? Sono pochetti, ma spero vorrete apprezzarla lo stesso. Anche l’ambientazione è diversa: mi sono ispirata al periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale (ovviamente essendo un’AU molte cose sono cambiate rispetto a quel periodo).
Lo stile non penso sia cambiato, ma di certo la narrazione è differente: ho adottato questo registro scomodo per dare la soggettività del nostro povero malcapitato, e direi che me ne pento, non si capisce un cavolo :”)
Volevo ringraziare coloro che hanno seguito la mia vecchia carcassa ambulante (?). Un giorno mi spiegherete cosa vi fumavate per farla arrivare addirittura al terzo-quarto posto nelle popolari :”)
Va bene. Mi sono impegnata tanto per raggiungere lo scopo di emozionarvi maggiormente e di non buttare la trama lì alla caaaaaaa- (ci siamo capiti).  Che io ci sia riuscita è tutt’altro discorso XD
Ma ormai Destiny mi ha stufato, basta, non la riscrivo più. Ha una trama abbastanza banale e noiosa, penso converrete con me :”) Ora finalmente potrò dedicarmi al Re dei Ladri, che è una cosa informe pure quella, non si può vedere. Giuro che proverò a scrivere la morte dei personaggi senza alcun errore.
Awn. Sono felice di essere tornata ♥ Mi siete mancati ♥
Ci si vede fra….. fra non so quanto :”) Au revoir ♥
Fay
 

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Capitolo 2
*** Destiny II ***


C-117 si sveglia di soprassalto, vede che è ancora nella stanza di ieri. Per quanto ha dormito? Non lo sa con precisione. Sa solo che la porta per il giardino è ancora aperta, e fuori è buio: non ci sono più le donne chine sugli orti, il rosso dei fiori è scomparso. La sua luna splende ancora nel cielo, C-117 è felice perché dopotutto l’ha seguito. E i padroni? I padroni non si vedono, forse sono a dormire. C-117 si alza, si accorge che sta facendo rumore con le catene e si blocca. Sente un fruscio e subito si agita, perché appena si volta non vede nulla, solo la spettrale ombra della notte. Dove sono i padroni? C-117 non riesce a sentirli.
- Chi sei tu?
È una voce da donna, ma diversa da quella della padrona. È soffocata, un po’ roca, lenta e cadenzata. C-117 ha sempre avuto paura degli spettri, non è mai riuscito a sopportarli, nemmeno quando da solo si ritrovava a fare i conti con il buio.
- C-117 – risponde lo schiavo, del resto se si tratta di un’altra padrona farà bene a farsela amica. Eppure sente a un certo punto un tintinnare di catene, il tipico rumore di chi se le porta dietro, e una ragazza appare dall’ombra. C-117 la guarda, è preoccupato e ha paura: ha le braccia candide abbandonate sui fianchi, il suo sguardo viola lo fissa senza sfumature, il volto pallido è scavato e consunto, e i capelli violacei sono sciolti sulle spalle. La schiena è un po’ curva e il vestito blu che porta largo, perché le cade sulle spalle e si adagia mollemente sul pavimento. – Io sono Fuyuka. – sussurra lei. - È così che mi chiamano. Fuyuka. Tu sei quello nuovo, no?
C-117 annuisce, è tranquillo ora: Fuyuka è una schiava come lui, non gli farà del male. Le catene la tengono stretta per le caviglie e i polsi, ma porta anche il collare e anche una cintura di ferro alla vita, le balla un po’: è spaventosamente magra.
– Tu… da quando sei qui? – La sua voce è roca, non ha mai parlato molto con nessuno: ora dire quelle poche parole pare quasi un reato capitale.
- Io? Io sono qui da tanto. Non so da quando. Da tanto. Tu quanto resisterai?
C-117 non capisce, perché del resto la sua vita non ha tempo né età. Lui esiste e finché esiste campa. Non sa quanto resisterà, e in fondo non gli importa. – Tu cosa fai qui?
- Io ballo. Un tempo ero una prostituta, ma ora non più, nessuno mi vuole più. Tu invece cosa sei?
- Io non lo so.
- Cosa vorresti essere?
È una domanda strana, quella di Fuyuka: gli schiavi non possono decidere cosa essere, loro sono schiavi e basta. C-117 non sa se fidarsi o meno, e non risponde. Rimane lì, in piedi, nudo davanti a quella figura smunta, e non parla. Fuyuka non avanza e non arretra, resta ferma, e sembra davvero uno spettro. Poi fa un passo, e C-117 può vedere un piede bianco e nudo spuntare da sotto la veste, sporco e sanguinante, prima che esso venga ancora coperto dal morbido tulle.
- Tu non mangi più? – gli sussurra, indicando con un gesto del capo la zuppa che ormai si è raffreddata nel piatto, e C-117 la guarda e si limita a fare un segno di diniego. Fuyuka avanza, le catene stridono sul pavimento ma lei non vi fa caso: si siede e inizia a mangiare ciò che resta, senza lasciare neanche una goccia. C-117 si limita a fissarla, e non può fare a meno di essere curioso: è la prima volta che ha un contatto del genere con una donna, anzi forse l’unico contatto umano che abbia mai avuto. Si sente elettrizzato, ma non felice: è una sensazione strana che parte dal cuore e fa rabbrividire il resto del corpo. – Perché esci di notte? I padroni ti lasciano?
- Il padrone non si interessa più di me, forse mi ha dimenticato. Nelly invece è gentile con me, è tanto gentile. Tanto gentile. – Fuyuka ripete quelle parole, e C-117 le ripete subito dopo, hanno un suono così strano. Lei riprende, si mette a guardare fuori dalla finestra: - Atsuya non mi parla. È un po’ scorbutico, ma non è malvagio. Non è malvagio.
- E perché nessuno ti vuole?
Lei si volta di scatto, i suoi occhi vuoti e tristi lo fissano, il labbro trema leggermente. Guardandola da vicino, C-117 vede che porta al collo una collanina di perle, ma è nascosta dal collare di ferro e non si vede bene. È una collanina bella, dai riflessi azzurri, ma forse è finta.
- Sono malata. – fa Fuyuka guardandolo negli occhi. – Sono tanto malata. Malata.
C-117 è stato più volte malato, e sa cosa significa. Subito un brivido gli corre giù per la schiena ripensando alle notti di agonia, a tremare di freddo sotto le coperte, e poi di caldo fuori. Eppure Fuyuka non sembra aver freddo, non sembra aver caldo: C-117 la sfiora e si sorprende nel constatare che la sua pelle sembra marmo, tanto è dura e gelida. Subito ritrae le dita, e alza gli occhi su di lei, sui suoi occhi senza espressione, sulla collana finta.
- Tu sei mai stato malato, C-117?
- Non conosco la tua malattia. Sei così bianca e fredda.
- Nessuno conosce la mia malattia. È tanto brutta e incurabile. È tanto brutta.
Fuyuka riprende a fissare il prato fuori dalla porta, e C-117 si allontana da lei e va a sporgersi ancora fuori, verso l’esterno. Non ci sono più contadine chine sugli orti, il silenzio spacca l’anima come una freccia. Solo i grilli friniscono da qualche parte, lontani, sembrano voler fare a gara con le rane. C-117 ne ricorda il suono, sa cosa sono, i grilli e anche le rane: sembra di tornare indietro nel tempo, lontano da lì, tanto vicino a casa. Troppo vicino al cuore.
C-117 si volta, ma Fuyuka non c’è più, anche se non ha sentito il rumore delle catene o il fruscio della sua veste. Ma riprende a guardare fuori, rimanendo in silenzio, senza voler muoversi di un passo: le lacrime gli salgono agli occhi e piange, piange perché ricordare è meraviglioso  ma fa  male. Sarebbe bello, pensa lo schiavo, un po’ di calore in tutto quel freddo.
Si appoggia allo stipite, rimane lì. Poi scivola giù, a toccare il pavimento, mentre il cielo si tinge di sfumature rosate e giallognole. C-117 fissa le sfumature, e vorrebbe tanto toccarle con la punta delle dita: le tende verso quelle nuvole, ne traccia i contorni invisibili, e poi ancora e ancora. Chiude gli occhi, e quando le riapre il sole come per magia è già sorto per metà.
Si volta di scatto quando sente un altro rumore, ma non è Fuyuka, lei è molto più leggera e i suoi passi sono piccoli. Questo baccano invece è fatto di passi pesanti, di qualcosa di rovesciato (forse un vasetto di vetro, o un bicchiere), e di imprecazioni sibilate fra i denti. Ed ecco il padrone Atsuya che entra nella stanza portandosi dietro una cesta di roba pulita, e lo squadra da capo ai piedi: - Che fai ancora qui? Non hai preparato la colazione?
Lui fa cenno di no, del resto non ha mai imparato a cucinare. Si alza in piedi, tremando, vorrebbe farglielo capire ma è proibito parlare a un padrone senza essere interpellati. Ma subito il suo cuore perde un battito quando la padrona con una piroetta entra dietro il padrone spostandolo con un gesto del braccio. C-117 nota che oggi ha una bella veste, semplice ma consona, e porta sul capo un bel cappello di paglia come le contadine chine sugli orti. Sembra di buon umore, il sorriso è radioso e avvolgente, scalda il cuore, e C-117 non sente più freddo. – Buongiorno ragazzi! È una splendida mattina a quanto vedo.
Lo schiavo non può far a meno di arrossire: nessuno si è mai rivolto a lui in questo modo. Sbatte le palpebre, è confuso, ma poi ricorda che a questi padroni piacciono le trappole.
- Splendida, davvero. – borbotta Atsuya. – Potrei farti notare che il nuovo maggiordomo non ha ancora preparato nulla?
La padrona non lo bada, appoggia la cesta di vimini che ha in mano sul pavimento polveroso, e gli si avvicina. C-117 indietreggia. Sa che non dovrebbe farlo, è proibito sottrarsi alle botte, ma non può fare a meno di compiere quei pochi passi: odia le trappole, con tutto se stesso.
La padrona invece di picchiarlo gli prende i polsi stretti dalle catene, e C-117 la fissa rimanendo spiazzato. Lei lo conduce fino al tavolo, con delicatezza, e poi lo lascia: prende dal cesto di vimini alcuni oggetti, li posa sul tavolo con cura: sono oggetti in porcellana e in argento, decorati con sfumature dorate. Una teiera, delle tazzine, piattini e cucchiaini, una zuccheriera e un contenitore per il latte. Mette tutto in perfetto ordine, poi facendo una giravolta su se stessa va alla credenza e prende un sacchetto di tela. Atsuya e C-117 la osservano, senza sapere cosa fare, e il padrone non replica in alcun modo: sembra quasi studiare il comportamento gioioso e spensierato della donna.
- Non sai cucinare? – chiede infine lei girandosi verso C-117, ma il suo tono non è brusco o cattivo, ma dolce e rassicurante, e lo schiavo fa cenno di diniego con la testa, ha capito che lei non vuole fargli del male.
Natsumi gli sorride, poi gli si affianca e apre la borsa di tela. Vi sfila dei biscotti dall’aria gustosa, forse un po’ bruciacchiati e deformi. Ne posa alcuni su un piattino, poi torna alla credenza e prende un barattolo di zucchero. Ne versa un po’ nella zuccheriera vuota, e impreca tra sé quando ne rovescia un po’ sul tavolo. Poi dal cesto prende un vasetto di marmellata e del burro avvolto in un panno, infine un vassoio molto ampio. Prende la teiera, vi versa dell’acqua presa dal rubinetto e poi l’appoggia su un gancio sospeso sul camino. Infine accende il fuoco, e C-117 si sente rincuorato da quelle fiamme allegre e calde che scoppiettano poco lontano da lui.
- Vedi? Sto preparando il tè. Se vuoi dopo ti insegno a fare i biscotti!
Atsuya, che è rimasto in silenzio per tutto il tempo, corruga le sopracciglia: - Dopo non abbiamo tempo per insegnargli un bel nulla. Dobbiamo lavare tutte le scale.
- Oh Atsuya, c’è tempo per tutto. – fa l’altra risoluta. C-117 ha notato che per ora nessuno lo picchia, e si sente tranquillo. Poi quando il padrone esce con la bacinella della roba pulita si rilassa maggiormente. Si siede automaticamente e la padrona sembra apprezzare, perché gli sorride come al solito.
- Voi non siete come gli altri padroni. – osa dire dopo un attimo di pausa, la sua voce è roca perché non parla di solito. La donna, intenta a togliere la teiera dal fuoco con un grande guanto di stoffa, si gira e lo guarda sbalordita, quasi si brucia le mani delicate. Si affretta ad appoggiare la teiera sul tavolo, prima di scottarsi, e infine lo fissa con stupore: - Noi non siamo padroni!
C-117 non può fare a meno di confondersi: se non sono padroni allora cosa sono?
Natsumi si accorge del suo smarrimento e riprende a sorridere: C-117 non ha mai visto persona più sorridente di lei. Per la verità, sono poche le persone che ha visto mentre sorridevano e che ricorda con chiarezza, si possono contare sulle dita di una mano.
- Noi siamo… colleghi.
Colleghi? Per C-117 questa parola è rara e sconosciuta, e sembra quasi una presa in giro: Natsumi non ha catene a bloccargli i polsi e le caviglie, non ha il proprio nome marchiato a fuoco sulla guancia, conosce il suo vero nome e può andarsene quando gli pare. C-117 storce il naso, si sente offeso, ma non può dire nulla.
Natsumi smette di sorridere, ora sembra preoccupata e ansiosa. Gli si avvicina, fa il giro del tavolo per raggiungerlo, e gli prende le mani, le stringe tra le sue. Il contatto gli mette i brividi, il primo istinto è quello di ritirarsi. Si costringe a fissare gli occhi della donna, quei grandi occhi color caramello, ma subito abbassa i suoi, guarda le sue mani strette tra quelle di lei, si stupisce del contrasto: le sue sono scure, macchiate e piene di tagli, goffe e ruvide, mentre quelle della donna sono candide e delicate, ma non rigide e sporche quanto le proprie.
- Noi non siamo i tuoi padroni. – ripete Natsumi dolcemente. La sua voce riporta alla mente di C-117 tanti pensieri brutti, tante cose che nella sua vita lo hanno fatto stare bene ma che ora bruciano, fanno male, impazziscono dentro la sua testa. Non piange, ma si abbandona nell’abbraccio silenzioso di Nelly.
 
Il vassoio pesa, e le sue braccia sono fragili e deboli. Le catene gli si impacciano tra le gambe ad ogni passo, e C-117 deve stare bene attento a non inciampare per non ruzzolare giù dalle scale. Il tappeto rosso è pulito e sembra quasi nuovo, il legno non ha neanche il più sottile strato di polvere: C-117 si sente estraneo a quel mondo, lui è sempre stato nella sporcizia della sua stanza, tra i topi e gli scarafaggi come compagni di sventura e i pidocchi a tenerlo sveglio la notte. Cammina a passo svelto per non sporcare, i suoi piedi nudi sono luridi e non vuole passare guai. Quando arriva in cima tira un sospiro di sollievo, appoggia i piedi per terra perché non si regge più, e avanza per il corridoio che gli ha indicato Natsumi.
È lungo e stretto, il corridoio: ai lati vi sono candelabri dall’aria consumata ma lussuosa, che emanano un bagliore vacuo sulle pareti rivestite dalla carta da parati rosa antico. Vi sono porte ogni tre metri, l’una uguale all’altra, ma C-117 sa che quella che deve aprire è in fondo a destra. Rimane a contemplare i quadri curiosi che stanno appesi come trofei, l’uno più bello dell’altro: non più visi austeri e donne pompose come nel salone d’entrata, ma delicati paesaggi di campagna, stelle, cieli, mari ignoti, nuvole dalle dolci sfumature. È uno spettacolo tanto meraviglioso che a un certo punto lo schiavo si ferma, incantato da quei colori. A un certo punto può quasi sentire una musica soave diffondersi nella sua mente, ma gli ci vuole poco per capire che non è frutto della sua immaginazione. Segue la provenienza di quella musica, ma si blocca bruscamente quando Atsuya esce da una porta sbarrandogli la strada, il capo chino su un grande e pesante fagotto, forse la roba sporca. Lo guarda di sottecchi e quasi ringhia: - Ma guardalo, tranquillo lui. Muoviti.
C-117 ha deciso che Atsuya non gli sta per nulla simpatico: l’ha picchiato pur non essendo un padrone, e la cosa non gli piace. Però ha ragione, è in ritardo, e non può farsi attendere.
Lo schiavo si affretta, percorre velocemente gli ultimi tratti del corridoio. Quando arriva davanti alla porta del padrone fa un sospiro profondo e bussa, tre colpi con le nocche. Il padrone non lo sente, sta componendo una melodia che stordisce C-117: non ha mai sentito un suono tanto malinconico e al contempo brillante, puro, come se riuscisse ad esprimere tutta la forza del mondo.
C-117 bussa ancora, il padrone smette di suonare e lo schiavo quasi si strugge per aver interrotto quell’incantesimo. Non entra però prima di aver sentito la voce del suo superiore.
Quando questi lo invita con un calmo “Avanti”, lo schiavo apre la porta cercando di non rovesciare il vassoio e cautamente entra, spiando il suo padrone con la coda dell’occhio: egli è ancora in vestaglia, una lunga vestaglia rossa che gli sfiora le caviglie. I piedi sono nudi, i capelli ancora scompigliati. Non si è girato verso di lui, forse è arrabbiato perché lo ha interrotto: C-117 ormai si rassegna a un’amara punizione e avanza nella stanza.
Non si tratta della camera da letto, ma sembra quasi un salone per gli svaghi: vi sono poltrone e divanetti di uno splendido colore, simile al blu di certi vasi cinesi. Le finestre sono aperte, le tende tirate, e i raggi del sole mattutino illuminano giocattoli dall’origine sconosciuta. Non vi sono caminetti, ma c’è una grande credenza dall’aria antica. Ora il padrone è seduto su un sgabello nero, davanti a quello che C-117 sa essere un pianoforte: è lucido e scuro, incute un certo timore.
Le catene tintinnano quando C-117 avanza verso di lui, ma rimangono entrambi in silenzio. Lo schiavo appoggia il vassoio sul tavolino accanto allo strumento e non dice nulla, lo guarda in una sorta di mutismo, osserva la sua pelle candida e quei capelli rossi come i fiori del giardino. Non sembra voler guardarlo in volto: è intento a segnare qualcosa su un quadernetto, la penna stilografica che scorre veloce a creare piccoli segnetti su righe sottili. C-117 è infatuato dai suoi gesti morbidi, dal muoversi del polso, gli occhi attenti di quel colore simile al riflesso dell’acqua nelle giornate d’estate.
Sussulta quando una sua mano si allunga a prendere un biscotto: lo morde con i denti bianchissimi, le labbra rosee passano dolcemente sulla lunghezza, gli occhi si socchiudono appena. C-117 sente le guance imporporarsi e il cuore battere veloce: non ha mai visto creatura più bella e aggraziata.
- Adoro i biscotti di Natsumi. – sussurra poi, e la sua voce è bassa ma non sgradevole, anzi. Lo schiavo sente le catene farsi più pesanti mentre quegli occhi acquamarina si posano su di lui, e il sorriso si trasforma in un ghignetto di compiacimento. Incredibilmente allo schiavo quel sorriso infido e quasi crudele piace, piace da morire, lo percepisce per il fatto che sente i brividi scendere giù per le costole e infrangersi sulle sue ginocchia che rischiano di cedere.
- Come sei carino. -  fa il padrone come a contemplare attentamente un animaletto esotico, e i suoi occhi si soffermano sulla sua pelle, sul suo corpo, e C-117 si sente esposto. La vestaglia di lui è appena aperta sul davanti, lascia intravedere il petto nudo e perlaceo: lo schiavo sente una scossa di adrenalina partire dal cuore e ucciderlo lentamente.
- Girati un po’. Ecco, così, bravo. Nulla da dire, sei davvero delizioso. – E si passa la lingua a umettare le labbra, come se il suo corpo fosse veramente qualcosa di dolcissimo e desiderabile.
Poi il padrone smette di guardarlo, prende con grazia una tazzina, vi versa del tè caldo. Fa scivolare all’interno tre cucchiaini di zucchero, uno ad uno, senza degnarlo di attenzione. Se lo porta alle labbra e continua a studiare il quaderno, prende la stilografica e vi fa sopra qualche ultimo segno. C-117 non sa cosa deve fare, come comportarsi: il padrone non sembra voler congedarlo,anzi si rimette a suonare, e lo schiavo perde completamente il senso del tempo: in breve è già seduto per terra, e lo ascolta, guarda ammirato le dita percorrere ogni centimetro del pianoforte, sicure e abili, lunghe e sottili.
A un certo punto può sentire un fruscio proveniente dalla finestra: è forse Fuyuka? C-117 guarda fuori, ma non vede nulla. Il padrone sembra accorgersi della sua distrazione, perché smette di suonare e lo schiavo ne è di nuovo dispiaciuto. Guarda con tristezza lo strumento abbandonato, poi alza gli occhi sul padrone, e ne rimane inquietato: l’uomo sorride, ma gli occhi sembrano voler divorarlo. C’è una strana luce, uno strano suono in ogni cosa che fa, ogni cosa che dice: C-117 ne è rapito e al contempo ne prova timore. Si alza frettolosamente in piedi, inciampa nelle catene goffo come al solito e si avvia verso la porta dopo essersi congedato.
Prima di uscire guarda per un attimo ancora la figura dell’uomo: ha ripreso a suonare, forse più tristemente di prima, ma riscuotendo comunque un grande fascino nel suo animo. C-117 è stupito perché finora non l’ha ancora picchiato nessuno, a parte Atsuya che ha voluto fingersi un padrone e alla fine non è neanche un padrone ma gli ha tirato una sberla comunque. 
Si abbandona alla melodia per gli ultimi folli attimi: si appoggia allo stipite della porta e rimane in silenzio a contemplarlo, senza riuscire a smettere di pensare al colore dei suoi occhi e al suono melodioso della sua voce.
Sente una strana sensazione nascergli nel petto mentre ripercorre il corridoio per tornare nelle cucine, dove Natsumi lo aspetta per insegnargli a fare i biscotti. Sente Atsuya emettere un gemito in una delle stanze, forse è la camera da letto, e incuriosito spia all’interno guardando dallo spiraglio della porta: ora Atsuya è seduto sul letto, gli dà le spalle, sembra che pianga. C-117 non sa bene cosa fare: se entrasse Atsuya capirebbe che l’ha spiato, e quindi non vuole altre sberle da lui.
Se ne va in punta di piedi, perché è lurido, e non vuole macchiare per terra.
Il tragitto verso le cucine è più lungo di quanto immaginasse. E il pianto di Atsuya continua, nella sua mente, a tormentargli i pensieri, come un tarlo che rosica il legno senza smettere mai.  

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Capitolo 3
*** Destiny III ***


C-117 si rimira allo specchio, è confuso: non si riconosce più. Fa un giro su se stesso, si sposta di lato per scomparire e torna al suo posto meravigliandosi ancora. È un altro, uno schiavo completamente diverso.
- Sei davvero carino.
C-117 si volta, arrossisce perché a parlare è stata Natsumi; non sa come comportarsi. Alla fine le sorride sincero, perché tutto questo lo deve a lei, anche se mentre lo lavava e cercava di pettinargli i capelli ribelli gli ha fatto male. Eppure si trattava di un dolore diverso da quello cui era abituato: un dolore non compiuto con cattiveria.
Osserva i capelli raccolti, verdi come l’erba del prato dai fiori rossi: Natsumi li ha legati in una coda alta, così non senti caldo, ha detto. Rimira le braccia brune, sfiorandole con le dita: ora la pelle è liscia e perfetta, quasi come quella di Fuyuka, ma il colore gli piace di più, non incute paura. E i suoi occhi, ora li vede, sono neri e grandi, come il buio delle stanze. Lo inquietano, ma C-117 crede che abbiano un certo fascino. “Meravigliosi”, ha detto il padrone: C-117 si sente così, Meraviglioso.
Tutto ha un nome e non lo sai, C-117. Ma non lo sai..
È di nuovo la voce di Natsumi a distrarlo dai suoi pensieri: si volta ancora una volta a guardarla. – Ti piaci? Ne sono felice, ma ora devi andare: Lord Hiroto ti aspetta.
È così che si chiama in realtà il padrone: Lord Hiroto Kira. Lo schiavo sa che lui dovrà sempre chiamarlo “padrone”, ma è incuriosito da questo nome, perché richiama la volta celeste, con i suoi colori freddi e le stelle bianche e irraggiungibili. Sorride a Natsumi, annuisce ed esce dalla lavanderia, facendole appena un gesto della mano prima di scomparire oltre la soglia.
Natsumi sorride a sua volta, ma quando lo schiavo è abbastanza lontano s’incupisce: è consapevole della verità che presto scoprirà anche C-117.  
Il ragazzo intanto è già sulle scale. Le catene si lamentano ancora, ma sembrano quasi più leggere: C-117 si sente rinato, come se avesse passato tutto il tempo chiuso in un mondo di oscurità… e in effetti è così. Com’è bella la luce della casa, come sono colorati i mobili e le poltrone, com’è bello il cielo fuori dalla finestra!
Bussando però alla porta della camera da letto, non riceve risposta. Si limita quindi ad aspettare, dondolandosi sui piedi avanti e indietro, avanti e indietro. Quando sta per bussare di nuovo, una mano candida gli prende il polso e un viso si appoggia sulla sua spalla, un braccio gli cinge la vita. È la prima volta che C-117 ha un contatto fisico del genere e un sussulto lo fa tremare. Ha capito che si tratta del padrone, può sentire la sua risata bassa e roca e il respiro caldo e morbido sfiorargli un orecchio. – Ma come siamo belli quest’oggi.
C-117 rabbrividisce: il padrone è completamente nudo, lo avvolge con il suo corpo caldo e umido. Subito gli vengono in mente dita tozze e ruvide e anelli d’oro, un liquido dal colore rosso. S’irrigidisce, perché ricordare ciò porta alla mente stanze buie, topi scarafaggi e pidocchi. Ma le dita del padrone non sono così: queste sono fini, lunghe e femminili, e C-117 si sente del tutto smarrito lì, in piedi, con il corpo del padrone che aderisce perfettamente al suo. Guarda il polso scuro fra le sue dita nivee, e pensa che tutto ciò sia semplicemente bellissimo, anche se non sa perché. Si fa condurre all’interno della stanza, il padrone lo lascia un secondo per andare verso il suo guardaroba. E C-117 si ferma a guardarlo mentre si veste, incurante della sua presenza.
- Oggi si va a cavallo! – esordisce il padrone con un gran sorriso, abbottonandosi la camicia di lino. C-117 guarda assente la sua pelle nivea sparire sotto il tessuto.
Lord Hiroto Kira è molto più giovane dell’ex padrone: non ci sono rughe a deturpare la sua pelle perfetta, il sorriso smagliante illumina la stanza, il suo corpo dimostra tutto il suo vigore. E soprattutto la pelle sarebbe perfetta, se non fosse per pochi insignificanti nei, uno sulla clavicola e uno sul basso ventre. Gli occhi sprizzano vitalità, energia. Eppure C-117 avverte che c’è qualcosa di insolito in lui, qualcosa di surreale che lo inquieta.
Il Lord si volta, ben vestito, i capelli ancora umidi per il bagno. C-117 li preferisce quando sono arruffati e puntano verso l’alto. Si accorge dello sguardo malizioso che ha assunto il suo padrone, come di un gatto che ha tutte le intenzioni di giocare con un topo indifeso. Abbassa lo sguardo sul suo corpo nudo, sulle catene dure e fredde, sulle piaghe all’altezza dei suoi polsi e le ferite della prigionia, l’artrosi delle dita. Si chiede come tutte quelle attenzioni siano possibili, e corruga la fronte. Quando alza lo sguardo si spaventa, il Lord è ancora terribilmente vicino. Egli porta le mani ai lati del suo viso, poi si china lentamente a baciargli il collo sopra il collare di ferro: è un contatto talmente ambiguo che C-117 non sa cosa fare, non sa cosa pensare.
- Ho deciso. Ti chiamerò Reize. – gli soffia il padrone a pochi centimetri dall’orecchio. Lo schiavo ha un brivido: un altro nome, che non è il suo, ma quello di un altro. Una lacrima gli solca il viso decorandola di pioggia: un nome. C'è qualcosa di più importante di un nome? Quasi può sentire la voce di sua madre perdersi nei meandri della sua memoria. Madre.
Il Lord si scosta ancora, va di nuovo verso il guardaroba, il passo sicuro: da un cassetto sfila una mantellina color sangue: è strana e C-117 non sa cosa pensarne gli ricorda un po' la prigionia, ma ha il sapore della libertà. Quando il padrone gli si avvicina di nuovo indietreggia di un passo, ma lui non lo picchia, anzi si limita ad annodare la mantellina all’altezza della vita. Poi sussurra ancora qualcosa al suo orecchio, una risatina: - Così non ti ritrovi troppi sguardi addosso.  Sei mio e nessuno deve guardarti tranne me.
 
Passeggiare accanto al padrone è una sensazione strana e surreale. C-117 tiene forte le briglie del cavallo, non ne ha mai visto uno. È agitato: si guarda bene dal non strattonarlo troppo, tanto che ad un certo punto il Lord gli ordina di allentare un po’ la presa, di non fargli troppo male. L’animale ad un certo punto emette un brontolio, come se volesse rimproverarlo, e lo schiavo un po’ tremante ubbidisce, ma resta rigido.
Stanno camminando per la strada sassosa che percorre il giardino, in mezzo al prato dai fiori rossi: le contadine sono chine sugli orti, il sole inizia a calare sotto l’orizzonte, tutt’attorno è un esordire di canti dei più diversi uccelli. C-117 si sente in pace con se stesso, anche se gli fanno male i piedi, il cavallo lo intimorisce e le catene pesano.
- Che giornata stupenda. – commenta ad un tratto il Lord, emettendo un delicato sospiro di sollievo. Allo schiavo ricorda il frusciare delle tende nelle giornate di pioggia leggera. – Non è vero Reize? Quest’oggi è davvero una giornata stupenda. Sarebbe davvero bello se fosse ogni giorno così. Potrei uscire di più con Stardust.
Stardust è il cavallo: un Hackney di una certa età, il mantello fulvo e liscio, il passo regolare ed aggraziato. C-117 pensa che il cavallo e il suo padrone formino una coppia praticamente perfetta. Il Lord si sofferma a spiegargli che sebbene abbia in possesso diversi altri cavalli, Stardust è il suo preferito, perché si sente affine. Lo schiavo si gusta il suono di quella parola: chissà cosa significa? Affine. Non ha il coraggio di chiederlo, in fondo uno schiavo non può chiedere nulla.
Rimangono in silenzio a lungo, si può udire solo il passo regolare e ritmato di Stardust percorrere la via sassosa. Un vento nuovo accarezza piano i capelli del Lord, che già si sono asciugati, e Reize rimane per molto tempo a fissarlo, senza nemmeno sapere il perché. Nota il suo sguardo distante, l’insicurezza delle sue dita fini che reggono la cinghia dello stallone e ci giocherellano, nervose. C-117 chiude gli occhi, non importa se inciampa, alle botte è abituato. Ed eccole. Le dita del padrone che si soffermano sui tasti bianchi del pianoforte, la melodia malinconica, il dolce diffondersi nella stanza dalle poltrone blu. Lo schiavo può sentire il calore delle dita sfiorarlo per prendere un biscotto, può ancora vedere i suoi occhi socchiudersi piano, il suo sorriso enigmatico sulle labbra fini e rosee.
- Vorrei tanto andare in un posto. Vuoi venire con me?
Reize alza lo sguardo sul padrone, stupito dalla domanda che gli è stata rivolta. Gli occhi del Lord brillano, il sole illumina le sue lacrime. Non le aveva notate. C-117 vorrebbe allungare una mano e asciugargliele, perché i padroni non devono mostrarsi deboli con gli schiavi, è una regola che non può essere infranta. Ma annuisce, annuisce perché non ha null’altro da fare, e poi ha paura delle trappole, non può sopportarle. Lord Kira piega le labbra, è un sorriso dolce che scioglie qualcosa in Reize, un nodo al petto doloroso rimasto affogato nella memoria, ma che non fa più paura.
Il Lord ferma Sardust, gli tende la mano, lui l’afferra e sale con un po’ di fatica: le catene s’impigliano alle staffe, l’uomo però non osa arrischiarsi a scioglierle. C-117 si tiene forte al padrone, lo abbraccia stretto e affonda il viso nella sua schiena. Sente che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in quello che sta facendo, non capisce il comportamento del nuovo padrone.
Stringe la camicia del Lord, lo sente ridacchiare mentre dà una frustata a Stardust, e già gli zoccoli percorrono con il loro tamburellare la strada sterrata. C-117 ha paura, non ha mai fatto nulla del genere, e subito lancia un grido, stringendosi forte. Eppure il padrone è sicuro e va veloce, e lo schiavo si stupisce nell'udire la sua risata liberatoria. È tutto così surreale da somigliare a una di quelle fiabe che da piccolo ascoltava volentieri, accoccolato tra le braccia di sua madre, davanti al camino acceso, il buio della notte che non riusciva ad entrare dalle finestre chiuse.
Percorrono tutto il giardino, poi si addentrano in una boscaglia. Il sentiero è lungo e tortuoso, le ombre della notte improvvisamente si dipingono davanti agli occhi di Reize, ombre dagli occhi piccoli e cattivi. Dov’è la sua luna? Il frusciare delle foglie lo distrae dal sentimento di puro smarrimento che lo attanaglia le viscere. Alti alberi li circondano con le loro mani voraci.
- Cerca di non strapparmi i vestiti di dosso, Reize-chan~
Lo schiavo allenta bruscamente la presa, ma continua a tenersi: con la coda dell’occhio spia la stradina di ciottoli che passa veloce sotto gli zoccoli del cavallo, i rami fitti, oscuri e bui, come nei peggiori dei suoi incubi.
- Ci siamo quasi mh? – lo rassicura il padrone con un sussurro. – Porta pazienza Reize-chan.
C-117 pensa che tutto ciò sia strano. Ora sente una morsa allo stomaco, la stessa che sente quando sa che verrà punito, ormai è un’amica.
- Eccoci qui.
Reize quasi non se n’è accorto: il Lord ha fermato Stardust, ora stanno fermi. Apre gli occhi, perché li ha chiusi per tutto il tragitto. Il padrone gli dice che ora può mollarlo, e Reize ubbidisce. Quando smonta la catena è impigliata alle staffe, le libera senza sforzo. Si volta verso il Lord, ma lui gli dà le spalle.
Sono arrivati in una radura insolitamente trascurata, Reize non ne ha mai visto nessuna prima d’ora. È un grande spiazzo verde circondato dagli alberi. Non non ci sono fiori rossi, ma morbide e candide campanelle.
Guardando oltre le spalle del Lord, vede un ponticello ad arco, sospeso sui binari di una vecchia ferrovia. Questa continua oltre la proprietà del Lord, infilandosi in una galleria buia e fredda dai quali provengono cupi rumori. C-117 ha paura di quel posto, e rabbrividisce. Oltre il ponticello si trova una casetta, una piccola casetta umile e mezzacadente, nulla a che vedere con la residenza lussuosa del padrone. Eppure Lord Kira sembra dirigersi lì, il passo lento, le braccia lungo i fianchi, come sotto ipnosi. C-117 ad un tratto sente la sua voce, sembra stanca e molto triste: - Lega il cavallo. Arrivo subito.
Lo schiavo è inquieto, non sa bene come comportarsi. Lega Stardust alla ringhiera del ponte, limitandosi a guardare la figura del suo padrone che sparisce nell’ombra. Entra nella cascina, le tende sono tirate ma C-117 vede la luce di una candela accendersi.
C-117 si siede, tra i brividi della notte e della paura: è solo, lo schiavo, non c’è più la presenza di Lord Kira a proteggerlo dai fantasmi. Ma alzando lo sguardo al cielo vede la luna, lassù, che lo fissa: si sente travolgere da un senso assoluto di quiete.
Eppure ad un certo punto è stanco di stare lì, ad aspettare il Lord.
Attraversa il ponte in punta di piedi, perché il cemento è freddo e fa rabbrividire. Arrivato a metà si volta un attimo verso la galleria, il tunnel è buio e sembra una grande bocca pronta a divorarlo. E improvvisamente Reize ha paura, lì, solo, e nemmeno la luna riesce a fermare il suo terrore. Rimane immobile, gli occhi fissi sull’enorme bocca nera, non osa neppure respirare. Il silenzio lo avvolge per numerosi attimi e sente la paura divorarlo quando sente un rumore forte, estremamente vicino. Una luce si accende nel fondo della bocca, C-117 urla e corre. Il cavallo nitrisce, ha paura anche lui, lo schiavo quasi rischia di essere colpito dai suoi zoccoli quando l’animale s’imbizzarrisce e s’impenna, scuotendo la criniera color pece.
Chiude gli occhi, calde lacrime gli scendono dalle guance, si tiene la testa con le mani e urla, forse per sovrastare il frastuono, per sentirsi al sicuro. Può vederlo, l’enorme mostro, incombere su di lui con i denti affilati pronti per divorarlo. È uno dei suoi incubi, Reize se ne rende conto.
- Neh Reize-chan… Non dirmi che non hai mai visto un treno in vita tua.
Lo schiavo improvvisamente alza lo sguardo sul padrone, senza parole. Il frastuono è scomparso, il mostro pure, e ora lui è accucciato tra l’erba alta, il cavallo ancora scalcia, ma il Lord sembra non badarlo. Ha occhi solo per lui, e il suo sorrisogli riempie l'anima con il suo calore. Reize non capisce, non capisce davvero: è il padrone più bizzarro che gli sia mai capitato.
- Su, vieni. Faremo tardi a cena.  – Il Lord gli porge la mano, C-117 però non si sbilancia, non l’afferra. Sa che è una trappola e che non deve cascarci. Si alza da solo, le catene pesano e fanno male ai polsi, le cicale e le rane iniziano a fare la gara, il vento scompiglia i rami degli alberi. C-117 guarda fisso il suo padrone, non sa come comportarsi. Poi avanza nell’erba alta, va verso la boscaglia.
Lord Kira non capisce subito. Non ha ancora afferrato cosa gli passi per la testa, ma vorrebbe scoprirlo. Lo guarda assente strappare un ramo da uno degli alberi, spinoso e dai rametti sottili. Viene verso di lui, ora, gli occhi inespressivi che riflettono la luce della luna tanto sono scuri e liquidi. Eccolo, ora si china ai suoi piedi, alza le braccia e gli porge il ramo. Lord Kira non sa cosa pensare di tutto ciò.
- La prego. Ne ho bisogno.
È la prima volta che sente la sua voce. È roca e bassa, tremante e debole. Kira pensa che non abbia mai sentito una voce del genere, nemmeno da S-144.
Il Lord prende la frusta improvvisata e osserva il suo schiavo, a capo chino, i pugni chiusi. Esita prima di fare quel gesto, lo studia un attimo prima di muovere forte il braccio. Gli colpisce forte la pelle, lasciando un lungo segno rosso. Poi un altro, più a fondo. C-117 mugola, ma sorride. Per lui ora non ci sono più dubbi.
- Ti senti realizzato, ora? – gli chiede freddo il Lord. Ha abbandonato il braccio lungo il fianco, lo guarda con muta austerità: così diverso da prima, così reale. Ora C-117 non ha più paura delle trappole. Alza lo sguardo su di lui, annuisce prima di ricevere un’altra frustata. E infine qualche lacrima gli scende lungo il viso, calma, dolce: Reize si sente stranamente felice, tutto è tornato normale, tranquillo e chiaro.
Il Lord si volta, scaglia il ramo lontano, furioso. Percepisce lo schiavo alzarsi piano e venire verso di lui.
Kira lo aiuta a salire su Stardust, ma ora il contatto è freddo. A C-117 non importa: va bene così. Ora si sente meglio, i suoi dubbi si sono dissipati: Lord Kira è un padrone come tutti gli altri, non è cambiato nulla. Si stringe a lui mentre il cavallo prende velocità, e volano verso la residenza.
Lord Kira rallenta solo quando arrivano al prato: le donne chine sugli orti se ne sono andate, i fiori rossi si sono incupiti. La seconda sera, pensa Reize, questa è la mia seconda sera.
Ascolta il feroce cicalare immerso nell'erba alta. C-117 guarda assente il prato immerso nell’ombra degli alberi, poi alza la testa di scatto, vedendo delle luci fluttuanti. Cosa saranno? Si muovono lente, tremano, si accendono e si spengono.
- Sono stelle? – chiede, e quasi si morde la lingua: uno schiavo non può parlare se non interpellato. Ma il Lord sta in silenzio, non risponde e non lo guarda neanche. Stardust procede al passo, e Kira non sembra voler accelerare.
Reize si immerge  nel silenzio, così tanto amico e così sconosciuto. Si appoggia alla schiena del Lord e ascolta il suo battito regolare. Si rende conto di aver sonno.
- No, non sono stelle. – sussurra piano il padrone. Sembra sovrappensiero, come se parlasse a qualcuno che appartiene al suo stesso ceto. – Sono lucciole. In questa stagione escono per trovare la compagna.
C-117 non risponde, toglie le mani dalla sua vita. Anche Kira esce per trovare la compagna? È un pensiero che lo fulmina automaticamente: il padrone è forse una di quelle stelle fluttuanti? Del resto è un uomo molto solo, di questo C-117 se n’è reso conto.
Si chiede se anche tutti quanti loro siano, in fondo, stelle fluttuanti.
 
È strano cenare con Atsuya e Natsumi: loro discutono sul prezzo del latte che si alza, sui vestiti da cucire, sulle tasse da pagare. C-117 non ha niente di cui discutere e rimane zitto, ad ascoltarli tra un cucchiaio di zuppa e l’altro. La porta per il giardino rimane aperta e a volte si volta a fissarla, sperando che compaia Fuyuka a tenergli un po’ compagnia. Ma Fuyuka non arriva, e Reize si rassegna.
- C-117, ti ha picchiato?
È la voce di Nelly. C-117 si volta e la guarda, smarrito: perché sorprendersi? Eppure lei sembra preoccupata, gli prende le mani piene di spine e osserva spaesata i suoi lividi e le sue ferite. Alza gli occhi su di lui e sembra non voler capire.
Anche Atsuya sembra sorpreso. E Reize guardandolo riesce a rivederlo nella sua memoria: lui che piange, solo, nella camera da letto del padrone. Così come allora, i suoi occhi diventano lucidi.
Ma nessuno dice più nulla. 

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Capitolo 4
*** Destiny IV ***


DESTINY IV
 
Il mattino arriva caldo e puntuale, lo sveglia con i suoi primi raggi e i tenui cinguettii degli uccelli. C-117 alza il capo dalla tavola, è ancora insonnolito. Le ferite gli fanno male e le catene pesano da morire, ma è abituato a tutto ciò, non ha paura di soffrire.
La cucina è immersa nel silenzio, tutto è cupo e privo di fascino. Reize guarda fuori dalla porta: le contadine sono già al lavoro, statue eterne che, nella sua immaginazione, hanno la stessa effimera bellezza delle farfalle. Sta sognando? No, eccola lì, china insieme a tutte le altre, eterea nel suo vestito di luce. Gli rivolge un sorriso dolce, sembra felice. I capelli sono lunghi e  vaporosi: sembra una dea, tanto è diafana. Gli tende la mano, Reize vorrebbe afferrarla. Ma non può, si rassegna all’idea di essere incatenato al suolo, impotente: non ha più la forza per divincolarsi dalla stretta delle manette. Urla, vuole raggiungerla: “Mamma”, ruggisce, cerca di attirare la sua attenzione. Poi si accorge che la donna non guarda lui: guarda oltre. C-117 si volta di scatto, ha paura, perché sua madre ha sempre sorriso a tutto, persino alla morte. Quello che vede, però, non è morte, non terrore: è qualcosa di diverso, qualcosa di umano. Volge lo sguardo sull’uomo che si è materializzato alle sue spalle, la pelle scura come l’ebano e gli occhi di vetro. Sorride anche lui, guarda sua madre. Le va incontro, gli sfiora una spalla senza notarlo. Cammina, nel suo vestito color pece, i piedi nudi piagati dai segni delle catene. Cammina, e sorride. Avanza piano, C-117 lo segue silenziosamente con lo sguardo: teme il momento in cui varcherà la soglia e scomparirà davanti ai suoi occhi. E invece non continua a camminare verso sua madre: lei allunga tutte e due le braccia, lo accoglie nella sua stretta. C-117 fissa ammutolito quel contrasto, il nero accanto al bianco, come se volessero fondersi e formare un unico essere.
Uno sparo squarcia l’aria. La creatura si macchia di sangue.

Reize sussulta, apre gli occhi di scatto: le sue gote sono bagnate di lacrime. Natsumi è china su di lui, una mano sulla sua spalla, il viso distorto dalla preoccupazione. Atsuya invece è in piedi, fermo e vicino alla porta, lo guarda penetrante. – Sei sveglio?
Reize annuisce, gli fa male la testa e gli bruciano gli occhi. Per quanto tempo ha pianto? Per quanto tempo ha dormito? Si appoggia allo schienale della sedia, fissa un punto dritto davanti a sé. Il pensiero di non aver raggiunto quelle due persone lo divora, ma chi erano realmente? C-117 non se lo ricorda. Ma ricordare fa male, ricordare uccide. Non vuole sapere, non può sapere. 
- Tutto bene? – gli chiede Nelly appoggiandogli una mano sul capo. Reize chiude gli occhi e annuisce lentamente. Le ferite bruciano davvero, ma non vi dà peso e si alza: deve fare il tè, preparare il vassoio con i biscotti, prendere il latte. Non può fermarsi, non può cadere. Non ora.
Si annoda meglio la mantellina al fianco, poi prende la teiera dalla credenza. Lo travolge un inquietante senso di quiete: non ha pensieri, non sente dolore. Se uno schiavo comprende di provare dolore non ha più speranze di sopravvivere. E Reize lo sa. 
- Sicuro?
Non risponde, si limita ad afferrare i biscotti di Natsumi, in una dimensione a sé stante. Prende lo zucchero, le tazzine, i cucchiaini. In meno di un minuto il vassoio è pronto, ma da qualche parte, lì nel suo cuore, piange ancora e trema nell’incrociare gli sguardi che gli vengono rivolti.
Sparisce dietro la soglia, sale i gradini facendo attenzione a mantenersi in equilibrio, trascinando le catene su per le scalinate coperte dal velluto rosso. Sente il rumore del metallo, i dolori delle ferite brucianti, il salato delle lacrime che di nuovo riprendono a scivolare lungo le sue guance e s’infrangono sulle sue labbra.
Il corridoio è buio, non vi sono candele: i quadri sono confusi, non sono riconoscibili. Ma C-117 non deve perdere l’orientamento, non può permettersi di inciampare e cadere: aiutato dalla flebile luce che proviene dalle finestre, trova la camera del Lord e si ferma davanti per pochi attimi, il tempo di asciugarsi le gote.
 Bussa una volta, poi un’altra. Il padrone non risponde, non sente il suono del pianoforte. Esita, come sempre, come al solito, quindi entra piano, schiudendo appena la porta. Il suo cuore batte fermo e regolare. 
Lo trova ancora sotto le coperte, il suo corpo si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro. È bello il letto del Lord, così piccolo, a baldacchino, con quel stile così antico e vissuto, le decorazioni su ogni colonna di legno, le lenzuola blu scuro. C-117 avanza nella stanza, si guarda attorno, avanza verso il Lord e appoggia il vassoio sul comodino. Le sue catene fanno troppo rumore, è impossibile che sia ancora addormentato. Eppure non si alza, sta ancora sotto le coperte e non si muove. C-117 vede solo un po’ dei suoi capelli rossi spuntare tra le lenzuola bianche, un contrasto che lo fa letteralmente rabbrividire, tanto lo riporta al suo incubo. 
Si allontana verso le finestre e tira le tende: il sole non è ancora sorto del tutto, non c’è abbastanza luce. Si perde a guardare l’orizzonte, quella sottile linea arancione che separa il cielo dalla terra come una lama invisibile capace di fendere l’oscurità. Ora che è uscito dalla sua gabbia non c’è buio, non c’è luna, eppure nulla è cambiato. Ma che si aspettava, del resto, da un destino come il suo?
D’un tratto rabbrividisce: il Lord lo abbraccia da dietro, prepotente e caldo. C-117 può sentire il suo profumo: odore da uomo, di tabacco, di cuoio, d’inchiostro, di trappole. Può sentire il suo calore, denso come l’aria, il suo respiro calmo e regolare sul collo, le sue labbra che sfiorano la sua pelle in un muto sorriso di compiacimento. – Ma come siamo belli quest’oggi. Forse un po’ turbati?
C-117 alza il capo, lasciando che il Lord scivoli per tutta la lunghezza del suo collo. È una sensazione strana, ambigua e spiacevole, umida e cattiva. Ma uno schiavo deve ubbidire anche agli ordini più segreti e impliciti. 
Il padrone lo afferra, lo stringe a sé in una morsa famelica: non c’è più il contatto dolce di poco prima, le sue mani si artigliano ai suoi polsi come a frantumarli: Reize soffoca un brivido, immagini terribili corrono davanti ai suoi occhi spaventati: dita grassocce, anelli d’oro, liquido rosso. Buio, scarafaggi, topi, pidocchi. Luna, freddo, caldo, malattia, fame. 
E la sua voce, così suadente e al contempo cattiva al suo orecchio: - Lascia che ti mostri il trattamento che riservo ai miei schiavi. Ti va? 
Quasi agonizza, mentre sente la mantellina rossa cadere per terra e il corpo del Lord premuto contro il suo. Gli tremano le gambe mentre lo strattona: lo allontana a forza dalle finestre, lo butta sul letto. Sulle labbra ha un sorriso maligno e perfido che non  ha nulla a che fare con la sua dolcezza abituale. Reize lo ha già intuito: Lord Kira ama le trappole. Ha paura, e inizia a trattenere i singhiozzi, cerca di mantenersi lucido: il terrore lo assale, gli divora il cuore, lo sventra lasciando in fin di vita. Soffre un panico indescrivibile che non ha mai provato fino ad ora, così vivido da far male. 

Sente il suo profumo dolce, le dita sottili che gli accarezzano la pelle, percorrendo gentilmente tutta la lunghezza del suo corpo. Chiude gli occhi, percepisce i brividi ad ogni singolo tocco, un solletico malefico e ripugnante penetrare attraverso la pelle e andare dritto ai nervi: Reize sente una parola nella sua testa. Una parola che non si sarebbe mai azzardato a pensare: nella sua mente è pronta per uscire e distruggere il mondo. La pronuncia, sbarrando gli occhi.
… no.
Improvvisamente è tutto calmo. Le mani del Lord scivolano lente sui suoi fianchi, un sorriso bugiardo, i primi raggi del sole entrano dalla finestra e distruggono le pareti vuote come lame taglienti. Reize è tranquillo, il suo cuore batte piano e a ritmo regolare. Mentre il Lord lo tocca e lo bacia guarda il soffitto, gli accarezza piano i capelli rossi, abbandonandosi completamente a lui, le loro gambe si intrecciano in una complicità conosciuta e senza bisogno di ordini. 
E all’improvviso Reize gli tira i capelli. Forte. E lo fa con tanta rabbia che sente appena il lamento dell’uomo, ma non dice niente e continua a guardare in alto. Gli tira i capelli e gli fa male, e in attimo le sue mani sono già artigliate sui suoi polsi per smorzare ogni singolo gesto di replica. Reize abbassa lo sguardo sul suo padrone, incredulo e gli occhi sbarrati, poi sorride. - No – ripete semplicemente, e gli dà un calcio forte fra le gambe. In un attimo è già su di lui e lo picchia, un pugno sulla mascella, un altro all’altezza dell’orecchio. Prova una certa soddisfazione nel farlo, un sorriso gli si dipinge sulle labbra. Ma l’ebbrezza dura poco, perché il padrone è molto più forte di lui e, con maggiore ferocia, reagisce a quell’imprudente vendetta senza trovare resistenze.
I pugni si susseguono senza fine, il ghigno dell’uomo lo fa impallidire e piangere. C-117 si fa pestare per un po’, poi inizia a mordere e a scalciare: pensa ai topi, al buio e agli scarafaggi, pensa al dolore delle catene e la loro pesantezza, pensa alle torture, ai sogni, agli incubi. Urla, ringhia, graffia, è una belva e non si riconosce più.
È il padrone  a vincere, alla fine. Lo sbatte forte sulla testiera del letto e lo schiavo si accascia con uno spasmo, si porta una mano alla nuca e se la ritrova macchiata di rosso, quasi non riesce a vederla tanto è rintronato. La voce del Lord si fa lontana e indistinguibile in mezzo alla moltitudine delle altre voci: quella è forse di Fuyuka? C’è anche quella di Atsuya. C-117 non capisce più nulla.
- Forse non abbiamo ben capito chi è che comanda, qui.  
Lo schiavo sente il suo respiro farsi mozzo, la vista annebbiarsi, il sangue salirgli alla testa. Pure la figura del Lord si fa sfocata e irriconoscibile, sagoma perlacea in mezzo alla penombra. Si staglia nel nero del suo animo, malefica, ombra assassina della lucidità. 
Il dolore che ne consegue gli strappa un urlo atroce. 

Atsuya ha sentito il grido. Alza la testa, s’immobilizza, ma non sente altro. Anche Natsumi si fa attenta, è ferma sulla soglia della cucina e guarda tetra in alto, consapevole che ciò che sta avvenendo sul letto sfatto del Lord è una cosa che si ripete. Da anni.
Fubuki non si scompone. Resta immobile e dopo un po’ fissa Natsumi negli occhi. Nessuno dice nulla. Entrambi sanno e sapevano, tacciono pervasi dai sensi di colpa. La donna avanza e prende in mano lo  straccio che Atsuya tiene mollemente nella mano, si mette a pulire il corrimano al posto suo, senza dire nulla, abbassando lo sguardo. L’uomo pensa con lei, ma non si muove: è forte ora. Ha imparato a superare il dolore: stavolta non se ne andrà, non scapperà in cucina a piangere lacrime amare come ha sempre fatto. L’urlo era quello di Reize, non più quelli di S-144.
Scosta bruscamente la donna e gli strappa lo straccio dalle mani: - Vai a preparare il pranzo, forza.
Natsumi lo guarda, ma non dice nulla. Rimane immobile, e lo osserva salire per le scale lucide. 
- Tutti gli volevano bene. – sussurra infine. – Tutti, anche lui.
- Lui è un politico bastardo, uno dei tanti. Ha amanti sempre diversi, e non se ne ricorda nessuno. Con una semplice parola sarebbe capace di lasciarci tutti quanti sul lastrico, Natsumi. No, Lord Kira non gli voleva bene. Non vuole bene a nessuno.
Lei sa che il collega ha ragione. Distoglie lo sguardo e sospira, ammirando il bel tappeto orientale che copre tutto l’atrio tanto è grande. Il lampadario di vetro proietta ombre scure sul pavimento, maligne e pronte ad azzannarli, terribili nella loro innocuità. Niente spaventa Natsumi più del suo posto di lavoro.
Si volta e torna in cucina. Sente un singhiozzo, due, ma non si volta per guardarlo in viso, non ne ha il coraggio. Scoppierebbe a piangere pure lei, se solo fosse nella sua natura farlo. 
Si chiude la porta della cucina alle spalle, giusto in tempo per sentire un altro grido, più flebile del precedente. Natsumi prende il suo cesto di vimini e tira fuori la verdura fresca, cercando di mantenere la calma con piccoli gesti, mentre le urla si susseguono piangenti, stridono nella sua mente come unghie trascinate sulla lavagna. È soltanto il cigolio sinistro della porta.
Alza gli occhi, e la vede: davanti a lei, Fuyuka la fissa con occhi vuoti e spettrali. Sembra apparsa dal nulla, avvertendola della sua presenza con pochi rumori percepibili.  Natsumi non si stupisce più di nulla.
- Hai fame? Ti prendo qualcosa. – mormora stancamente. La schiava annuisce, non parla, del resto non l’ha mai sentita pronunciare parola da quando è morta. Non fa più caso alla sua presenza spettrale, inconsistente come una visione: quando le prepara da mangiare il piatto rimane sempre vuoto. 
- Soffre.
Natsumi si volta, guarda gli occhi vacui e spenti del fantasma. È la prima volta che sente la sua voce dopo anni, quindi sa che il bisogno che la preme è urgente. A chi si riferisce? A Reize, ad Atsuya?
- Soffre. – ripete Fuyuka, come una cantilena. – Soffre più di quanto immagini. 
- Chi? – chiede lei. – Chi soffre? Atsuya, Reize? Lo so, anche io soffro.
L’anima fa cenno di no con la testa, enigmatica. – Non solo voi. Soffre anche lui. 
Natsumi sembra capire, è esterrefatta dalla rivelazione dell’anima. Fuyuka non sembra voler dire altro, ha finito di parlare: si alza, le catene tintinnano lievi, poi avanza verso la porta dandole le spalle: Nelly può vedere le orme che lascia, nere come l’inchiostro, assorbite prontamente dal pavimento di legno scuro e d’un tratto inesistenti.
 Un tempo erano state amiche. Ora sono l’anima e la donna.
- E… non vuoi mangiare? – chiede dunque piano senza sapere cosa dire.
L’anima si volta, è già sulla soglia pronta a sparire nel giardino. Il vestito di tulle è mosso leggermente dalla brezza mattutina. La guarda incerta, un sorriso ebete e trasognato, lo stesso di sempre. – Non ho fame. – si limita a dire semplicemente, ed esce accompagnata dal suono orrendo. 
Natsumi sente l’impulso di correrle dietro, ma quando si affaccia verso l’esterno la ragazza è già sparita. Ill giardino è deserto. E  Fuyuka non c’è, inghiottita dai raggi del sole.
Lo spettro se n’è appena andato quando il grido di Atsuya le fa accapponare la pelle. Le urla di aprire la porta, e fa appena in tempo ad ubbidire che l’uomo si precipita dentro, un corpo di sangue e carne viva tra le braccia, seguito da una scia rossa che Nelly non riuscirà più a dimenticare.

C-117 sente dolore. Vasto, parte dal ventre e si dirama per tutto il corpo, fino alla testa, alle dita, alle gambe. Non riesce a muoversi, sente lontana la voce di Atsuya che gli dà dell’idiota. Eppure sente un’infinita pace, un incredibile senso di tranquillità che non si sarebbe mai aspettato. 
- Idiota. – gli ripete il compagno per l’ennesima volta, schiaffandogli il panno umido che ha usato per pulirlo sugli occhi che non riesce ad aprire. – Che ti aspettavi eh? Che cosa pensavi di fare? Non ricordavo che educassero così gli schiavi di Pierre.
E così, lui è uno schiavo di Pierre. Che cosa strana. Apre gli occhi, la luce lo acceca, forse è già pomeriggio. Ha fame, gli brucia la gola. Sente in bocca il gusto del sangue. 
- E mi hai pure imbrattato tutte le scale, razza di stronzo. – continua sbuffando Fubuki. – Hai idea di quante volte ho dovuto ripassare, stamattina? Tre. Tre volte tutta la lunghezza delle scale. Per non parlare delle lenzuola, erano più rosse che bianche. Hai idea di come si faccia il bucato? Un giorno ti farò ingoiare tutto quanto, così imparerai a fare il creti-
Reize allunga il braccio debole, raggiunge la sua bocca e vi appoggia sopra il palmo, a zittirlo. Poi passa a sfiorargli una guancia, è umida. – Hai pianto.
Segue un silenzio fatto di sguardi, entrambi tacciono segreti. Poi Atsuya si riprende, alza le spalle e lo guarda torvo: - Non certo per te.
Reize si chiede allora per chi altri.
 Si guarda attorno, si trova in una stanza sobria e sconosciuta. Ci sono pochi oggetti: uno specchio rotto, una foto sbiadita attaccata alla parete con un chiodo, uno sgabello sul quale ora Fubuki è seduto, una finestrella, e il letto dove ora giace, incapace di muoversi. 
- E’ la mia stanza, nel caso te lo stessi chiedendo. – borbotta Atsuya. C-117 ora pensa che, nonostante non lo voglia dare a vedere, è una persona molto generosa. 
- Che ore sono? – chiede piano, sente la lucidità riportarlo lentamente alla realtà.
- Le sei del pomeriggio.    
A quelle parole C-117 prova ad alzarsi sui gomiti e ricade con un tonfo fra le lenzuola. Guardandole con la coda dell’occhio vede tracce di sangue.
- Eri vergine, vero? 
Reize lo guarda, non riesce a decifrare la sua espressione. – Dipende da che cosa significa. – sussurra solo. Gli gira ancora la testa.
Fubuki non gli risponde, volta lo sguardo verso la foto. A quella distanza, con la vista appannata, Reize non riesce a vederla bene. Si sorprende quando l’uomo bisbiglia qualcosa a denti stretti, ma le sue parole non sono rivolte a lui. – Pezzo di merda, lui e quelle dita che si ritrova. 
Allo schiavo ci vuole un po’ di tempo per capire che sta parlando di Pierre. Si rilassa sul letto di Atsuya, è morbido anche se piccolo e rozzo. Forse, se ci pensa, non sono così diversi come pensava: anche lui sa un sacco di cose che agli schiavi tocca sapere.
- Oh sì, è un grande figlio di puttana. – sussurra in risposta. – Ma ti abitua facilmente ad essere schiavo. Io ho imparato da lui.
- Non hai imparato abbastanza, a quanto vedo. – osserva acido l’altro guardandolo torvo. – La prossima volta non fare cazzate, che poi mi tocca pulire.
Reize sorride: sa che dietro quelle parole c’è molto altro. 
- L’hai visto il Lord?
- No, è partito per il ministero stamattina presto.
- Gli ho cacciato un pugno in un occhio. Dubito che il livido scomparirà facilmente.
Atsuya lo fissa, rimane muto. Guarda il sorriso sornione e sfrontato dello schiavo e non può fare a meno che pensarlo e dirlo: - Scemo. - Poi ride, e vorrebbe farlo anche Reize ma non ne ha la forza. Il domestico esce dalla stanza, scuotendo la testa. Forse lo schiavo ha davvero battuto la testa. – Sei proprio scemo.

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Capitolo 5
*** Destiny V ***


DESTINY V
Quando Reize si guarda allo specchio, quasi non si riconosce. Le ferite sono guarite, Natsumi gli ha fasciato quelle più gravi, le slabbrature, i morsi di sangue. E C-117 non riesce davvero a riconoscersi, rimpiange l’immagine che ha visto solamente la scorsa mattina. 
“Il quarto giorno” pensa automaticamente guardando una nuova alba fare capolino da dietro la finestra. Le nuvole la coprono, come a nasconderla con delicati veli di rosa: presto pioverà.
È seduto sul letto. Prova a mettersi in piedi, le catene fanno gridare i polsi doloranti e il corpo ulula e stride, i piedi vacillanti troppo deboli per sorreggere il resto del corpo. Ma Reize sa che deve alzarsi e preparare il vassoio per la colazione, nel solito rito mattutino.
Una volta in piedi, cade e sbatte contro il muro. Si appoggia con le mani tremanti, fa leva sulle gambe, si appoggia alla parete. Si volta e guarda in silenzio le lenzuola intrise di sangue e poi tutto il pavimento, dove imperversa una scia rossa che macchia persino la porta. È possibile lavare via il sangue dal legno, dopo che questo l’ha già assorbito? È difficile. Reize si morde le labbra, frastornato.
D’un tratto il suo sguardo si sposta sulla foto incolore. È sbiadita, vecchia, consumata: non l’aveva mai notata fino a quel momento. C’è un gruppo di ragazzini di strada addossati a un muro di qualche povera fabbrica: uno è seduto su un secchio rovesciato, i capelli lunghi e sciolti, le gambe divaricate, lo sguardo di sfida e una sigaretta accesa fra le labbra di bambino. Un altro è seduto a terra, di fronte a un altro ragazzino, stanno giocando? No, ora lo vede: stanno barattando delle bottiglie di alcolici, ancora le etichette bene in vista, forse appena rubate. Uno di loro è Atsuya, ma sarà poi vero? Dietro, la schiena appoggiata alla parete, c’è un ragazzo identico: gli occhi che sembrano fissarlo da sotto il cappello da operaio, una bottiglia di alcool in una mano callosa, il sorriso di scherno, eppure l’inesperienza della sua fanciullezza. Reize si sente giudicato da quello sguardo, è talmente intenso che a un certo punto perde pure la cognizione della realtà. Le labbra del ragazzo ad un certo punto si muovono in poche parole che non riesce a capire.
- E allora, ci muoviamo? – È la voce di Atsuya a riportarlo bruscamente alla realtà. C-117 si volta,  il domestico sembra  livido di rabbia: avrà forse notato i suoi occhi puntati sulla foto? Probabilmente sì, e ora lo vuole cacciare fuori, non vuole che veda. Reize si chiede come possa tenere ancora quel lembo del suo passato attaccato alla parete: lo sanno tutti che ricordare uccide. 
Non gli risponde, lo segue tentennando fuori dalla stanza, verso la cucina: Natsumi sta sfornando i biscotti che basteranno per una settimana. Alza lo sguardo su di lui e impallidisce, il ricordo del pavimento di sangue vivido nella sua memoria. – Mangia qualcosa. – e più che un invito pare un ordine. Reize non replica, ha fame e quindi mangia, la spaccatura al labbro inferiore che brucia ad ogni sorsata di zuppa. Nelly lo fissa intensamente, sembra intenzionata a portare lei il vassoio con la colazione, ma C-117 è consapevole che non può farlo anche se vorrebbe. Il vassoio deve portarlo lui. 
Finisce la zuppa e sta per un attimo in silenzio. Poi gli sorge una domanda, una domanda che non centra niente con niente. – Chi è Fuyuka? – Reize si chiede all’ultimo momento se usare il passato sarebbe stato meglio.
Non ottiene risposta.

Le scale ora sono pulite, lucide e passate con la cera. Reize non vi trova alcuna traccia di sangue, tanto che l’episodio del giorno prima sembrerebbe quasi lontano anni luce, se non fosse per il dolore che sente indistintamente per tutto il corpo. Mai il vassoio gli è sembrato più pesante, eppure seppur faticosamente giunge alla stanza del Lord senza rovesciare niente.  
Bussa una prima volta già pronto per la seconda, ma sorprendentemente la voce del Lord lo invita dall’interno. Quando entra le tende sono tirate, il padrone è seduto sul letto ancora in camicia da notte, un libro fra le mani bianche. Le lenzuola sono pulite, tutto è in perfetto ordine, non sembra quasi esserci stata la lite del giorno prima. Ma appena Kira alza lo sguardo Reize lo vede e rabbrividisce: un livido viola gli circonda l’occhio pesto.
Il Lord lo guarda e sorride a mo’ di scherno: - Ma come siamo belli quest’oggi – mormora come sempre, ma il tono è ironico, perché C-117 non è più bello così, con le fasciature e le bende a coprirgli la pelle. Lo schiavo non si muove, le gambe iniziano a tremargli.
Ma il padrone non si muove. Non si muove, resta fermo, e lo fissa con quegli occhi tanto stupendi eppure così temibili, cattivi, da gatto. Poi un gesto, un invito con un cenno delle sue dita fini, delicate. Il Lord si stende, abbandona il libro sul ventre, e gli sorride calmo. E C-117 avanza, piano, le gambe che rischiano di cedere e il dolore che lo opprime. Appoggia il vassoio sul comodino, sa che il Lord non toccherà cibo. Si limita a fissare i biscotti di Natsumi, ben fatti, dolci, con macchie di cioccolato, prima che una mano lo trascini giù, a sedersi sulle lenzuola. 
- La mattina è sempre un bel momento. – gli sussurra Kira da steso, mentre una mano passa a sfiorargli le cicatrici e i residui di sangue. Reize le sente bruciare, ora più che mai, ma non dice nulla. Una mano del Lord lo prende e lo trascina  distendersi, C-117 ubbidisce senza protestare. Non ne ha il coraggio, la paura è troppa.
- Tremi, Reize-chan? Sono stato cattivo? – gli mormora il Lord, piano, all’orecchio. – Non ne avevi forse bisogno? E me lo avevi anche riferito.
Reize sente un’inspiegabile voglia di mettersi a piangere. Percepisce il corpo del suo padrone aderire al suo, calmo, la calma prima della tempesta. Non gli piacciono le trappole, nemmeno ora che le conosce così da vicino. Sente la mano del padrone accarezzargli piano i capelli, scendere giù per la guancia, il viso, il collo, la spalla, il fianco, l’inguine, giù. E fa tutto con così tanta delicatezza e grazia che C-117 si sente quasi morire: un lieve gemito gli muore in gola, deglutisce, mentre Kira già lo volta supino e lo sovrasta, guardandolo fisso negli occhi.
Reize osserva la camicia aperta appena, sfiora con l’indice la pelle nivea, un gesto quasi automatico. Guarda le sue dita scure appoggiate a quella morbidezza calda e bianca, e rabbrividisce: non ha visto mai qualcosa di più innocuo e terribile assieme. E allo stesso tempo non capisce perché il Lord sembra tanto tranquillo e non vuole fargli del male: i suoi gesti sono lievi, calmi, caldi, le sue carezze mettono i brividi e sembrano quasi teneri baci tanto sono sensuali. Sospira piano quando si china a baciargli ogni singolo centimetro delle ferite del viso, semplicemente, quasi a chiedergli perdono.
- Farò piano stavolta. Ieri non mi sono divertito, non mi piace alzare le mani. – gli confessa poi ad un orecchio, il suo respiro è già grosso e irregolare, i suoi movimenti più veloci. C-117 non fa niente, non dice niente, ma sente il fiato mancargli sempre di più, sotto il suo corpo già nudo. E d’un tratto gli viene in mente la donna e l’uomo, lì nel giardino, il nero e il bianco, il rosso a separarli, e vede loro in un contesto diverso, in un luogo diverso.
Una fitta di dolore gli fa emettere un mezzo urlo, bloccato sul nascere dalle sue labbra morbide. È la prima volta che il padrone lo bacia, è la prima volta che qualcuno lo bacia, e la sensazione è quasi disgustosa in un primo momento. 
- Piano, piano… - dice ora il Lord, ma C-117 si rende conto che sta parlando a se stesso, non a lui. – Piano…

Si sveglia con lo sbattere di una porta. Gli ci vuole un po’ per riprendersi, per capire: fumi di un sogno scarlatto e acquamarina, caldo che brucia, freddo che graffia. Poi c’è Atsuya, in piedi davanti al letto del Lord. Lo sta guardando, sembra irato, ma C-117 non capisce perché. – Vestiti, idiota.
Reize si guarda attorno confuso, prendendo sempre più famigliarità con la realtà: è nudo sul letto del padrone, le lenzuola attorcigliate alle caviglie. Appena le guarda è quasi felice di non vedere così tanto rosso, ma sono sporche comunque. Nota distrattamente il libro che è lì lì per cadere dall’orlo, lo prende e lo appoggia sul comodino, dove il vassoio è praticamente vuoto. 
- Alzati forza, devi aiutarmi. – Atsuya gli toglie bruscamente le lenzuola di dosso e le mette nella cesta. Sembra a dir poco irritato, ma C-117 non fa domande. Si alza vacillando, prende la mantellina e se l’annoda al fianco: giù per le gambe scorre un liquido denso, le ferite bruciano da impazzire, la testa gli gira e perciò è costretto a sedersi di nuovo sul letto. Sente lo sguardo di Fubuki posarsi su di lui, Reize trattiene un conato di vomito. Poi la sua voce, roca, bassa. – Stai bene?
Lo schiavo scuote lentamente la testa a destra e sinistra, sente le lacrime salirgli agli occhi. Atsuya gli si avvicina piano, si siede accanto a lui e lo osserva, anche se C-117 non ha il coraggio di voltarsi a guardarlo a sua volta. E i suoi occhi lo turbano, più di mille schegge di vetro: vorrebbe sbarazzarsene ma non può.
- Sarà sempre così? Ogni mattina?
- Sempre. Fin quando non ti avrà consumato, mente e corpo. 
- Mente e corpo?
- Mente e corpo. – si limita a ripetere il domestico. Gli sfiora la fronte in un gesto calmo. – Qui. – dice prima di passare al petto. – E qui. A S-144 è successo così.
Reize alza di scatto la testa e fissa intensamente gli occhi grigi del domestico, mille domande che premono per venire fuori. L’uomo soffre per il suo passato, non riesce a staccarsene, eppure non osa sfuggirgli. – Chi è S-144? 
Lo sguardo di Atsuya lo sorprende: è vacuo, spento, come se una patina di ghiaccio si fosse posata sui suoi occhi. E ad un tratto C-117 capisce, ascolta le parole del domestico senza neanche fiatare: - Non me lo ricordo. È morto.
All’improvviso Reize ha un brivido: è davvero meglio dimenticare? Lasciarsi andare all’oblio? Non si soffre magari come ricordare, non ne ha forse la prova concreta? O magari è la stessa morte a far scordare, a far soffrire?
Atsuya si alza bruscamente, senza una parola: prende la cesta senza guardarlo ulteriormente. Reize si alza appena in tempo e il domestico prende le lenzuola sporche cacciandole dentro alla rinfusa, per poi uscire sbattendo la porta. Lo schiavo rimane fermo e immobile per diversi secondi, poi si accoccola piano sul letto sfatto, guarda il soffitto e chiude gli occhi. Le finestre sono spalancate, una brezza leggera spira all’interno alzando le tende nivee. I raggi del sole gli accarezzano il viso con le loro dita magre e immortali, sfiorano le sue lacrime bollenti. Reize ha quasi la sensazione che un’ombra ci sia davvero, lì, seduta sul davanzale, che allunga il braccio e distrae i suoi pensieri.
Poi una voce, una voce di ragazzo, sibilante quanto il vento, tagliente più della tempesta: - Ucciderò i tuoi sogni.
C-117 si alza di scatto, sbarra gli occhi sull’ombra che scivola via dalla finestra, quasi l’avesse evocata lui dalla profondità del suo dolore: l’unica traccia che ne rimane è la risatina cupa e orme d’inchiostro sul davanzale fino a prima immacolato.

La carrozza del Lord sa di cuoio, ferro, sigari e limone. C-117 non è abituato a tutto questo, preferirebbe uscire da quel posto. Il padrone è seduto di fronte a lui, guarda fuori, non sembra voler badarlo: studia con indifferenza la fila interminabile di edifici e villette della città; a un certo punto sbadiglia, sembra volersi addormentare. Poi quando si accorge del suo sguardo gli sorride al suo solito: - Porta pazienza Reize-chan: ancora qualche ora.
Lo schiavo abbassa lo sguardo, poi si mette a guardare fuori anche lui: stanno uscendo dal centro abitato, presto attraverseranno campagne e villaggi sconosciuti. È  quello che di solito accade quando lasci una città e vai ad abitare in un’altra, da un altro padrone, in un’altra villa.
Possibile che Kira voglia già sbarazzarsi di lui? Reize non sa davvero cosa pensare, ma già si è rassegnato all’idea. Certo, il padrone non gli ha detto niente, ma agli schiavi non si dice mai nulla. 
- Sei triste Reize-chan?
C-117 si volta verso il Lord, muto. Lui sorride come sempre, rilassato sul sedile di pelle scarlatta, il vestito da sera che secondo lo schiavo gli dona moltissimo, il cilindro nero e il fazzoletto bianco nel taschino. Sembra che si sia preparato apposta per un incontro galante. 
Scuote la testa rispondendo alla domanda, si stringe le ginocchia al petto. È  strano stare seduti su una carrozza del genere, non gli era mai capitato: sempre in una gabbia, o sul pavimento come i cani. 
- Nakamura mi ha invitato nella sua Residence per una battuta di caccia. Non trovi sia stato un pensiero gentile? 
C-117 annuisce, perché del resto non sa cosa dire: Nakamura, sarà questo il nome del suo futuro padrone? Non ha certtezze se non il silenzio assorto che cala tra di loro, fatto di sguardi.
- Hai davvero degli occhi meravigliosi. – sussurra poi il Lord osservandolo più intensamente, tanto che Reize cerca di distogliere l’attenzione da lui. Subito volta lo sguardo sulle campagne ormai deserte, mentre la sera si avvicina con il suo vestito bianco e nero, la luna a fare da spilla. E d’un tratto la vede, splendida con i suoi orecchini di perla: è nera, perché la notte non può essere bianca, ha la pelle e i capelli scuri come la cenere. Gli sorride, ma è un sorriso tetro, fatto di morte.
Si sveglia non ricordando nulla di lei, se non proprio quel sorriso, la morte che si avvicina e allunga le sue dita nodose per accarezzargli una guancia. Ma la campagna già non c’è più, sostituita da boschi cupi e macabri, occhi giallognoli che li spiano da dietro le creature frondose. C-117 si ritrae dal finestrino, e sobbalza quando va a sbattere contro il Lord, addormentato accanto a lui: eppure prima era lì di fronte, dev’essersi spostato.  C-117 lo guarda per lunghi attimi, prima di spostare di nuovo lo sguardo sul mondo esterno. Si sente quasi al sicuro nella carrozza, lontano dalle ombre nemiche della paura
Lasciano la foresta nel giro di pochi minuti, arrivando infine davanti a una bella villa borghese dallo stile raffinato eppur cupo e spoglio: il giardino è poco curato e piante rampicanti si aggrappano al muro con le loro mani nodose, mentre le finestre aperte fanno intravedere tende dall’aria malinconica.. 
La carrozza si ferma e C-117 si sente in dovere di svegliare il suo padrone, scuotendolo leggermente per una spalla. Lui appena si sveglia sbadiglia, lo guarda pigramente e sorride al suo solito. Scende dalla carrozza con il suo fare elegante, le scarpe di cuoio si posano aggraziate sulla strada polverosa. Il cocchiere si appresta a prendere i bagagli sul tetto della carrozza, e Reize scende cautamente, guardandosi bene dall’inciampare sulle catene.
- Allora, che ne pensi? – gli sorride Kira guardando un punto in lontananza. C-117 volta lo sguardo e quasi gli viene un capogiro: un’enorme, immensa distesa scura appare in tutta la sua bellezza davanti ai suoi occhi ammirati. Reize è sicuro di non aver visto una cosa del genere: il telo nero si piega e si distende a formare piccole increspature, e la luna si specchia a formare una lunga scia bianca, solitaria e sfumata. Tanta è la meraviglia che rimane indietro a fissarla, ma il padrone è già entrato dai cancelli principali seguito dal cocchiere, che porta un'unica grande valigia dalle rifiniture in oro. Appena se ne accorge C-117 si affretta a percorrere i metri che li separano, affiancandosi al Lord. Egli si accorge della sua presenza e gli sorride come sempre: - Spiacente Reize-chan, temo che dovrai seguirmi da dietro: sei uno schiavo.
Tanta è la sorpresa che si blocca di colpo, guardandolo con non poco imbarazzo. Il Lord prosegue senza badarlo, allunga il braccio e gli afferra le catene: lo tira, e lo schiavo fa una fatica terribile a tenere il passo senza incespicare nei suoi stessi piedi. Entrano nella residenza affiancati da due maggiordomi, l’uno alto e ben piazzato, l’altro più giovane e mingherlino. 
Ad accoglierli c’è un uomo non molto più giovane del Lord, la pelle abbronzata e i capelli raccolti. C-117 si sente in soggezione davanti a quello sguardo cremisi, il monocolo bordato d’oro che riflette la luce delle poche candele. Ma ciò che lo terrorizza è il relitto umano che sta ai suoi piedi, le catene che lo divorano come spire intrecciate, i capelli lunghi e crespi tanto da sembrare ricami di sottili ragnatele, la pelle ambrata segnata da lividi e ustioni. Se ne sta a capo chino, seduto sulle gambe scheletriche, le braccia smunte lungo il corpo: Reize ha un brivido quando vede il codice marchiato sul braccio, un nome che ha visto solo una volta ma che ora che è tanto vicino da fargli paura: C-118. 
I Lord si parlano come amici di vecchia data: l’uno commenta il bel tempo, l’altro la meravigliosa villa, poi l’argomento cade su di loro, i nuovi acquisti. La voce di Lord Nakamura è lasciva e strascicata, a volte si può notare la sua erre moscia. – Su Yuki… saluta Hiroto. 
Appena lo schiavo alza lo sguardo, Reize non può trattenere un verso di terrore nel vedere il suo volto sfregiato, l’occhio chiuso per sempre. Si trascina fino ai piedi del suo padrone e gli bacia entrambe le scarpe, l’occhio color delle fiamme che lo fissa sgranato. C-117 fa un passo indietro, ma Lord Kira lo strattona per le catene e lo fa cadere in avanti, sulle ginocchia già sbucciate; appena Reize alza lo sguardo su di lui gli fa un gesto col capo: dovrà fare lo stesso. E lo schiavo ubbidisce tremando, baciando le scarpe di quella persona ripugnante senza tuttavia riuscire a guardarlo in viso. 
- Lo tratti bene… - mormora piano il nobile senza trattenere una nota di disprezzo. Reize non ha il tempo di ritrarsi che una scarpata lo colpisce in pieno viso: lo schiavo arretra spaventato mugugnando di dolore, tenendosi la faccia già intrisa di sangue. Lord Kira non si muove, guarda assente il proprio collega che si è messo a ridere, una leggera smorfia a deturpargli il viso pallido.
- Ora avrei sonno, Nakamura. 
La voce del padrone è talmente stanca e fredda che pare abbia bisogno di dormire davvero.  C-117 ancora con le mani sul viso fissa sgomento il suo stesso sangue macchiare il parquet. 
Lord Nakamura si scusa più volte, bonario, poi lo conduce su per le scale di marmo bianco, senza degnare né lui né C-118 di un solo sguardo o ordine. Reize ci mette un po’ per riprendersi, soffoca i singhiozzi e le lacrime che minacciano di scendere. Non si è neppure accorto che Yuki intanto si è alzato faticosamente in piedi e gli porge la mano raggrinzita.
- Ti tratta bene. – mormora soltanto, e Reize alza gli occhi e scoppia a piangere come farebbe un bambino piccolo. Si crede uno stupido a sentirsi così.
Afferra la mano dello schiavo, callosa e rovinata quanto la propria, e si fa aiutare a rimettersi in piedi. Yuki non è forte, né particolarmente robusto, sembra piuttosto che il minimo refolo di vento possa trascinarlo via: perciò è Reize a sorreggere lui lungo le scale, il minimo cedimento lo farebbe cadere. 
- Prenderà te. – sussurra ad un tratto C-118, e Reize ha un brivido. – Prenderà te e mi ucciderà. Ti ha già adocchiato. Probabilmente ora starà provando a contrattare con il tuo padrone.
C-117 ascolta quelle parole mormorate con voce roca come se si parlasse di qualcun altro: è il destino degli schiavi del resto, il destino al quale vanno incontro tutti loro: lo scambio, l’oblio, la morte. Fa male pensarlo, ma del resto ricordare e sapere non vanno mai d’accordo.
- Non mi reggo in piedi. Prenderà te. – sussurra ancora Yuki, come una cantilena, e Reize sente il bisogno di posargli una mano sulla bocca per zittirlo, ma non lo fa. – Con lui non resisterai per molto nemmeno tu, forse qualche giorno. Prenderà te. Prenderà te.

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Capitolo 6
*** Destiny VI ***


DESTINY VI
La camera del Lord è bianca: bianche le tende, le lenzuola di lino, il pavimento piastrellato, l’intonaco del muro, i mobili di legno. C-117 si sente in soggezione: il bianco è il colore dei fantasmi e degli spettri, della luna, dei sorrisi inquietanti nella penombra. Guardandosi attorno può scorgerle: mute bocche ghignanti immerse nell’orrore di una notte di sangue e luce. Si stringe le gambe al petto, seduto sul grande letto matrimoniale, attendendo che il padrone esca dal bagno, la fronte a toccare le ginocchia. Ha paura, non ce la fa più, non vuole più sapere nulla, non vuole più ricordare le parole di Yuki, il profilo di sua madre, quello di suo padre, la macchia rossa nel bianco e nel nero.  
Un giro di chiave, il Lord gli si presenta davanti, i capelli che gocciolano e l’accappatoio aperto sul petto che mostra appena la pelle candida. Gli sorride, si siede accanto a lui e infine, come ogni volta che lo bacia, lo sovrasta con il proprio corpo caldo e umido. È una notte afosa, densa, tipica dell’estate. Reize guarda intensamente gli occhi del Lord, la vista gli si appanna per le lacrime, eppure non riesce a reagire, non riesce a fare nulla. Kira percorre le pieghe dei suoi zigomi, traccia una linea invisibile e C-117 sa che sta percorrendo le cifre del suo nome. 
- Ti ha fatto male? – sussurra ad un tratto il nobile, raccoglie una goccia del suo sangue con l’indice e se lo porta alle labbra. Reize non replica, chiude gli occhi e sente ad un tratto il tocco dolce del Lord percorrergli buona parte del viso, per poi giungere alle sue labbra trasformandosi in un bacio che sa ben poco di casto, bensì di sangue e passione. – Ho sistemato le cose con lui.
La domanda giunge spontanea. È pur vero che un padrone vale l’altro, ma le parole di Yuki lo hanno scosso davvero. – Mi ha venduto?
Kira irrompe in una risatina roca e maliziosa; Reize può sentire l’odore del suo corpo tanto è vicino: ha il profumo fresco della lavanda, del giardino dai fiori rossi, d’inchiostro e di carta. E un’irresistibile voglia assale lo schiavo, quella di poter percorrere interamente  il suo corpo con le labbra: una sensazione che sa di proibito e che lo terrorizza, tanto da indurlo a scostarsi di poco. 
- Oh, no. – spiega il Lord ridacchiando ancora. – Io una volta che ho marchiato uno schiavo non lo lascio più. Gli ho spiegato che solo io posso toccarti, io e nessun altro. Deve essere chiaro.
E dette queste poche e semplici parole inizia la sua tortura voluttuosa, un susseguirsi di baci e morsi che lasciano il segno, dita che sfiorano e afferrano, in un susseguirsi di emozioni e dolore che a C-117 appare infinito: chiude gli occhi, inarca la schiena e spera che presto tutto finisca, anche se non fa più male come le prime volte.
- No, Reize. Apri gli occhi. 
E lo schiavo ubbidisce, spalanca le sue iridi color pece mentre si trattiene dal supplicare il suo nome, mordendosi le labbra fin quasi a far uscire il sangue… E poi li vede, gli occhi opachi e azzurri del suo padrone, la sua espressione persa mentre lo guarda, i capelli umidi che gocciolano sulle sue guance fondendosi con le sue lacrime, e le sue mani umide che si appoggiano sul suo nome come a volerlo liberare dalla sua maledizione, le catene che vengono tirate verso l’alto come se fosse una marionetta. Reize non resiste, ha bisogno di liberarsi: un gemito, poi un altro, sempre più forti e alti, Kira, Kira, Kira…
Il Lord si abbandona pesantemente sul suo corpo, gli stringe ancora la mano callosa e gli bacia ancora il collo per un po’, e infine si addormenta dopo essersi girato d’un fianco. Reize no, lui non riesce ad addormentarsi, i suoi occhi fissano il soffitto, sbarrati e inebetiti, il suo respiro ancora forte ed irregolare. D’un tratto si volta verso la porta, emette un flebile lamento: c’è una donna, in controluce, che li sta guardando con le sue iridi argentate, le braccia lungo i fianchi, il sangue che si allarga a formare una grande chiazza ai suoi piedi, e il riflesso verdastro dei suoi capelli vaporosi. C-117 allunga una mano verso di lei, una muta richiesta sulle labbra, perché la porta dovrebbe essere chiusa a chiave, ma tutto si confonde e diventa nero.
L’unica cosa che sente è un nome sussurrato che non è il suo: - Ryuuji…

La notte non riesce a dormire, si sveglia più volte e fa fatica ad addormentarsi. Aspetta l’alba, seduto sul davanzale legnoso, osserva dalla finestra l’enorme distesa screpolata: inizialmente pensa sia parte del cielo, ma al chiarore dei primi raggi del sole capisce. La distesa se ne sta tranquilla e immobile, eppure nello stesso momento in grande movimento, con le sue piccole pieghe dolci e il frenetico volo dei volatili in cerca di cibo. Si alzano e si abbassano, infrangono la distesa con le loro abili zampe, e poi volano lontano. 
È tutto così strano. Sembra di stare in un’altra dimensione, pensa Reize, mentre il rumore ritmico e piacevole della distesa che si abbatte sulla terra gli rimbomba nelle orecchie. Lo schiavo si sistema una ciocca di capelli, che ora sono sciolti e ricadono morbidi sulle spalle nude. Ha perso sia l’elastico che la mantellina nella foga della passione, ma non vuole svegliare il suo Lord nel cercarle. Prova uno strano senso di innaturale libertà, ma le catene ci sono come sempre e scorticano i polsi già feriti: Reize se li guarda assorto, chiedendosi se mai un giorno le mani si staccheranno dal suo corpo. È un pensiero che ha avuto più volte, nei suoi pensieri sinistri. 
Sussulta quando una mano va a posarsi sulla sua pelle bruna, la stessa mano pallida e cadaverica che ha visto qualche giorno prima, a fare da contrasto. Rabbrividisce ma non osa muoversi, anzi, quando sente il mento del Lord appoggiarsi sulla sua spalla lo lascia fare e piega appena la testa da un lato. – Quello è l’oceano, sai?
Oceano, che parola strana. Reize vorrebbe chiedere che cos’è, ma non lo fa, resta in silenzio. Si fa avvolgere dal suo corpo caldo e si abbandona a quella dolcezza soffice quanto crudele. C’è una strana calma nell’abbraccio, così diversa dalla notte. – Vieni a dormire? 
Reize trema appena, ha paura, s’irrigidisce contro il corpo del padrone. Non vuole, sente di non volere tutto questo, ma deve ubbidire… E di nuovo quell’odore di lavanda e tabacco, inchiostro e sangue gli riempie le narici e lo confonde, trascinandolo in un vortice di emozioni e sensazioni che gli danno alla testa. Di nuovo quel desiderio impuro, quella voglia di toccarlo, di baciarlo. 
- Guarda che non ti faccio niente, sono troppo stanco. Ma voglio tenerti accanto a me.
E detto questo il Lord lo prende dolcemente per il polso e lo trascina verso il letto: lo schiavo non oppone resistenza e si fa cullare dalle sue braccia nivee. In breve tempo è steso accanto al corpo nudo e caldo del Lord e si fa baciare piano, stretto per la vita, e si limita ad accoccolarsi di più contro il suo petto. Non c’è fretta, non c’è passione. Non c’è amore. - Perché lo fa?
Dal padrone non giunge risposta all’inizio, ma poi ecco un frusciare di lenzuola, il muoversi pigro del bacino, un sussurro impastato dal sonno: - Perché sei mio.
Ovvio. È la legge naturale, lo schiavo è del padrone e il padrone può farci quello che vuole: ma Reize questo già lo sapeva da tempo. Vuole sentire qualcosa di diverso e di semplice, una risposta che lo soddisfi. Tremando porge un’altra domanda, non osa guardarlo negli occhi. – Ma perché? … Per quale motivo? Perché mi ferisce in questo modo e poi fa come se niente fosse?
Kira non risponde, un braccio abbandonato sugli occhi chiusi, già il suo respiro è diventato regolare. Reize sente di voler sapere, di avere la certezza che tutto ciò che stanno facendo è inusuale e strano. – Ho il diritto di saperlo! – aggiunge ad un tratto, e quasi si morde la lingua per l’impertinenza. 
Il padrone scosta il braccio e apre gli occhi, il suo sguardo è penetrante e lo gela sul posto. E la sua voce è calma, glaciale, terribilmente veritiera, alla quale C-117 non sa davvero come reagire. - Sei uno schiavo. Non hai nessun diritto.
Rimane paralizzato a guardarlo negli occhi, il respiro che si mozza. Perché il Lord ha ragione: è vero, non ha nessun diritto, non potrebbe nemmeno rivolgergli la parola in questo modo. C-117 abbassa gli occhi sulle candide lenzuola, non replica se non con un pallido sussurro: - Scusi.
La mano di Kira si sposta dal suo fianco al suo torace, il braccio lo stringe di più contro di sé, la voce stanca come se non avesse provato nemmeno, a dormire. – Non importa. Anche S-144 faceva così. 
Il cuore dello schiavo perde un battito. – Che gli è successo? – sussurra piano, cauto, attento a non stringerlo troppo, ascoltando il battere ritmico del suo cuore di ghiaccio. Sente di appartenergli davvero, lì, abbracciato a lui come a volersi fondere con il suo corpo, le mani del Lord che lo accarezzano piano, il suo odore e il sapore della sua pelle al contatto con le labbra.
- Era uno schiavo buono. Quando è morto... Ho pianto tantissimo. Non volevo.
S’irrigidisce, il tempo sembra quasi fermarsi e il suo cuore perde un battito. Reize lo avverte e non può fare a meno di chiedersi quale pensiero lo abbia fermato. Non è raro che i padroni uccidano i propri schiavi appena essi diventano un peso: lui stesso ha visto più volte i suoi compagni morire davanti ai suoi occhi. Non può fare a meno di pensare che presto o tardi toccherà a lui annegare in un lago di sangue sotto lo sguardo impotente e rassegnato dei colleghi, toccherà a lui agonizzare in mezzo alle urla, sotto i colpi del bastone, gli occhi sbarrati alla ricerca d’aiuto.
Rabbrividisce contro il corpo dell’altro, un sospiro mozzato e freddo contro il suo petto. Si chiede davvero che cosa voglia Kira da lui, cosa pensa di ottenere. Circonda la vita del Lord, le catene si muovono silenziose e lente sulla sua pelle bianca, fredde e metalliche: gli strappano un mugugno sottile, ma non dice niente e si limita a stringerlo a sé. Reize si assopisce presto tra le sue braccia, in quel calore così infido e innaturale, carico di inconsapevole paura per il destino, e il sole presto sorge del tutto spazzando le tenebre dagli angoli della stanza. 
Lo schiavo apre gli occhi, spia silenziosamente l’uscio: l’ombra immobile è ancora là. I contorni non sono delineati, resta una maschera di oscurità sui suoi vestiti e il suo volto. Ma gli occhi argentini sono ben visibili in mezzo al grumo di sangue e carne viva, il respiro si condensa nell’aria in nuvole vive di morte e disperazione nonostante la temperatura torrida, le braccia scorticate abbandonate lungo i suoi fianchi da donna.
Reize la fissa in silenzio per lunghi e interminabili attimi, socchiude gli occhi e semplicemente si lascia cullare dal sonno. Mugugna qualcosa, qualcosa che il padrone sente solo per metà.
- Cosa.
- Niente.
Si fa baciare, abbandonandosi nell’oblio di una musica suonata al pianoforte, lontana dal tempo e dallo spazio; le ombre e le luci si fondono nei suoi pensieri, l’incubo ritorna vivido a farsi spazio nella sua mente. Sente il respiro del Lord farsi regolare contro il suo collo, gli accarezza piano i capelli lasciandosi trasportare dal suo calore. E finalmente gli bacia la pelle dietro l’orecchio, un contatto talmente lieve che il padrone non avverte neanche.
Il suo sonno è agitato da incubi. Nel suo inconscio si formano fiori rossi che sbocciano nel verde, stelle fluttuanti che sfiorano l’erba con le loro piccole luci, distese immense e imperiose dalle tonalità oro e rosa, sangue che spicca nel nero e nel bianco senza nuocere, come una rosa senza spine; poi odore di lavanda, intenso, puro. Un sussurro che è anche il suo nome.
 
Reize è talmente intontito dai fumi del sogno che non sente neanche il suo padrone alzarsi e buttare all’aria le lenzuola sfatte. Si sveglia pigramente, apre gli occhi impastati e guarda distrattamente la sagoma nuda del Lord che si veste in gran fretta. C-117 abbandona il capo sul cuscino, chiudendo ancora gli occhi, beandosi del calore delle lenzuola. In quell’attimo di silenzio, può percepire lo sguardo del Lord puntato su di lui, prima che la porta si apra e si chiuda. Sente voci, passi, e poi di nuovo la quiete. La brezza estiva entra dalle finestre e  scuote appena le tende, come se fossero pallidi fantasmi. E si sta così bene in quel tepore sordo, quel calore inumano, con quei baci invisibili che ancora sfiorano la pelle.
Sta quasi per addormentarsi quando bussano di nuovo, C-117 apre un occhio spiando di sottecchi la porta chiusa. Poi sorride quando ad entrare è Yuki: forse la presenza di uno dei Lord lo avrebbe turbato. Ma il collega ha uno sguardo serio, quasi assente, mentre se ne sta dritto come un fuso davanti a lui e mormora: - Aiutami.
Reize si mette seduto trattenendo a malapena uno sbadiglio, cerca la mantellina e la trova, si lega i capelli con l’elastico, incurante dello sguardo di C-118. – Devo aiutarti a sistemare le stanze?
Yuki ha un attimo di esitazione nel rispondere, poi inclina leggermente la testa, lo sguardo perso nel guardarlo. – Sì. – sussurra poi, trasognato.  Gli occhi di Reize si alzano su di lui e si perdono nei tagli e nei graffi della schiena, nei segni violacei all’altezza della giugulare. Anche così, pensa, è uno schiavo affascinante. Tutto ciò che non è lui. Lo guarda smarrito, non sapendo decifrare la sua espressione.– Come posso aiutarti?
Yuki d’improvviso lo afferra per un polso e lo trascina fuori, tanta è la foga che Reize si stupisce della sua improvvisa forza. Lo conduce per corridoi lunghissimi e intricati, la carta da parati color rubino risalta nel buio dell’ombra. C-117 è quasi sorpreso della mancanza di personale, in fondo Lord Nakamura deve essere di gran lunga più potente di Kira: eppure i due schiavi non trovano anima viva, immersi nel silenzio attonito in cui è piombata da anni la Residenza. C’è solo il risuonare delle loro catene e il calpestio dei loro piedi nudi sul pavimento freddo.
- Dove stiamo andando? – chiede Reize al collega, ma non riceve risposta. Yuki si limita a guidarlo per una scalinata in ferro battuto, i fiori freddi e scuri li osservano salire. C’è una porta in cima: Yuki la apre e ci si fionda dentro senza una parola.
La camera di Nakamura è strana e mette i brividi. Il lampadario illumina fiocamente il letto sfatto, le pareti scarlatte, la scrivania immersa nelle carte e il pianoforte nell’angolo, il tavolino accanto alla finestra chiusa. C’è un odore acre nell’aria, Reize starnutisce immediatamente un paio di volte.
- Incenso. – spiega Yuki distrattamente. – A Lord Nakamura piace bruciarlo quando mi punisce, dice che gli inebria i sensi.
C-117 vorrebbe dire qualcosa, anche se non sa bene cosa. Il suo sguardo si posa sulla moltitudine di catene e oggetti affilati sparsi sul letto, un’immagine che gli gela il sangue nelle vene. Sposta subito lo sguardo sulle tende cremisi, le tira con un gesto semplice, spalanca le finestre e fa entrare l’aria. Uno schiaffo, un’esclamazione concitata, le finestre si richiudono. Il Lord non vuole mai che le finestre vengano aperte senza il suo consenso.
Yuki si allontana da lui, si mette a cercare qualcosa in uno dei tanti cassetti dell’armadio. – Cosa cerchi? – gli chiede Reize incuriosendosi, avvicinandosi piano.
- La chiave.
Gli occhi neri e liquidi di C-117 si spalancano di muto terrore, le parole fanno fatica ad uscire. La chiave, lui cerca la chiave. Cerca la chiave per liberarsi. È un pensiero talmente incosciente e terribile che non passerebbe mai per la testa a nessuno, nemmeno ai più temerari. Eppure più volte Reize ha visto i suoi compagni perire, divorati dalla follia, uccisi per la loro imprudenza…
- Sei pazzo?! – ulula in preda al panico: non può, non può permettere che anche lui cada nella trappola, non può permettere che lui muoia. Ma quando Yuki si volta, quando gli occhi focosi incontrano i suoi, C-117 capisce: sì, C-118 è pazzo. È pazzo perché la morte lo ossessiona, è pazzo perché ricorda: improvvisamente C-117 comprende quanto possa essere doloroso sapere, evocare alla mente eventi passati e dolcemente malefici. 
Lo sguardo di Yuki è terribile, pare farsi d’oro e d’argento: inizia ad urlare, la voce roca che quasi si spezza. Grida che prenderà lui, che è lui che vuole, e che non può sopportare l’idea di venire ucciso, non può, perché sua madre voleva una vita serena… suo padre sapeva troppe cose… sua sorella non poteva mantenere… Reize si rende conto che più Yuki ricorda meno riesce a ragionare, a mettere in fila le parole, e guardando le sue lacrime e il suo occhio di fuoco non può fare a meno di arretrare verso la porta, tremando, portandosi le mani alle orecchie per non sentire.
C-118 si volta, sventra i cassetti uno a uno, con la forza della disperazione li rivolta senza tregua. Continua ad piangere: “non voglio morire, non voglio morire”, dice con voce rotta, le lacrime scorrono giù per le sue guance. I sussurri di C-117, accucciatosi in un angolo, non si sentono neanche tanto sono flebili: lo supplica di tornare in sé, di smetterla, che fa male. Improvvisamente le immagini dell’incubo sono tornate vivide a mordergli la memoria, bestie fameliche: sua madre, suo padre, il bianco e il nero, e poi il rosso che dilaga tra i loro petti e inizia a  macchiare iloro vestiti. E allora anche Reize si mette a singhiozzare più forte: “basta, basta”, come una preghiera.
C-118 trova la chiave. Se la porta febbrilmente ai polsi: ne libera uno, la catena cade a terra con un tintinnio sordo. C-117 fa un ultimo tentativo per dissuaderlo, ma sa che ormai per Yuki non c’è più niente da fare.
È uno sparo a rompere quella follia: macchie di sangue schizzano sui vetri della finestra e colano giù, lente e pigre. Reize le fissa ad occhi sbarrati per silenziosi secondi eterni, non ha il coraggio di spostare lo sguardo sul corpo che ora imbratta il pavimento in una liquida e dilagante  pozza di petrolio rosso. E sulla soglia, l’uno armato di pistola e l’altro di frusta, stanno Lord Nakamura e Kira.
C-117 non fa in tempo a ritrarsi che una frustata del padrone lo colpisce in pieno viso, poi sui polpacci, il ventre, la schiena, ogni lembo di pelle scoperto non ha scampo. Mugola, squittisce, cercando di difendersi più che può, e ulula quando un colpo raggiunge il labbro inferiore facendolo sanguinare copiosamente. Poi la punizione finisce, Reize apre tremando gli occhi per spiare silenziosamente C-118, il cuore che sembra voglia saltar via dal petto. Nakamura è chino sul corpo dello schiavo, l’espressione corrucciata, gli sputa addosso con disprezzo.
- Sapevo che non sarebbe stato un buon acquisto. – constata solo. – Li abbiamo lasciati soli il tempo di far colazione. Stai attento con il tuo. 
C-117 alza gli occhi sul padrone, il suo sguardo è uno dei più freddi che gli abbia mai visto assumere. Poi fissa cadavere, i capelli tinti di rosso e gli occhi sbarrati e vacui, come se fosse morto sotto l’ipnosi di un pensiero inconscio. Reize non può far altro che stringersi le ginocchia al petto, e soffocare un singhiozzo. 

- Non farlo mai più.
Lo schiavo alza gli occhi su Kira, il suo è un lieve movimento del capo. Stavolta non è seduto sul sedile, ma per terra come i cani, perché altrimenti macchierebbe la carrozza. Il Lord invece lo fissa da mezz’ora seduto scompostamente in un angolo della vettura, mentre il paesaggio scivola dietro di lui in un muto susseguirsi di immagini. Non sembra irato né felice, sembra piuttosto volersi limitare alla semplice osservazione del suo corpo ferito. – Ti fa male? – mormora ad un certo punto, forse riferendosi al labbro. Di nuovo sì, ma Reize non parla. 
Allora il Lord si alza e si accuccia davanti a lui, per poi passare un dito magro e raccogliere un po’ del suo sangue. Se lo porta alle labbra con un unico gesto, gli occhi inespressivi. Ma C-117 si accorge di altro, si accorge della sua stanchezza, e istintivamente porta una mano sulla sua fronte candida. – Scotta. – sussurra semplicemente, ma non fa in tempo a dire altro che il padrone si avventa sulle sue labbra facendole bruciare. Reize sbarra gli occhi e quasi si mette a piangere per il male. 
Non vanno oltre: il Lord si accascia su di lui, stremato dalla febbre, e C-117 rabbrividisce. Lo prende e cerca di sorreggerlo come può, lo stende piano sui sedili e lo osserva apprensivo.
Sotto lo sue palpebre, crede di vederle, ci sono immagini di morte. 

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Capitolo 7
*** Destiny VII ***


DESTINY VII
Ryuuji, anche quel mattino, si appresta a salire le scale con il vassoio in mano. Ma sopra l’oggetto argentato non vi sono biscotti al cioccolato, latte e zucchero, burro e marmellata: è da tempo ormai che al posto di una buona colazione Lord Kira assume farmaci e tisane curative.  Quanto tempo sarà passato? Una settimana, dieci giorni? Reize sa solo che né Natsumi né Atsuya sopportano più questa situazione, e che da qualche tempo è solo lui a vegliare sul Lord.
Silenziosamente entra nella camera immersa nella penombra, si guarda attorno constatando che l’odore non è esattamente dei migliori. Dopo aver appoggiato il vassoio sul solito tavolino si avvicina alle finestre e le apre piano, anche se la luce del sole ancora non ha scalfito il colore della notte.  Respira la brezza estiva, facendosi sfuggire un sorriso rilassato: è da tempo che, senza dover subire punizioni, si sente meravigliosamente bene, dimentico di tutto.
Una voce stanca e impastata lo chiama, roca dal mal di gola. C-117 si avvicina al letto: il Lord da steso allunga un braccio verso di lui. - Reize-chan… Reize-chan, sto tanto male…- piagnucola con voce da bambino. Lo schiavo s’inginocchia e passa una mano sulla fronte ancora calda, per poi appoggiarci sopra un panno intriso di acqua fresca. – Ben svegliato. Si sente ancora male? – chiede gentilmente, prendendogli una mano come a rassicurarlo, e Kira si limita ad annuire, il volto pallido come la morte e le labbra viola. Non ha per niente una bella cera. 
Dal vassoio prende un bicchiere contenente uno strano intruglio che personalmente non berrebbe mai, glielo porta alle labbra cercando di fare il più delicatamente possibile. Il nobile deglutisce, è già a conoscenza del sapore disgustoso, e non può fare a meno che guardarlo implorante, le labbra serrate e gli occhi che gli diventano quasi lucidi. Reize sospira come al solito: è evidente che, come tutte le altre volte, dovrà costringerlo. – Su, lo faccia, è per il suo bene. – mormora stancamente, sono notti che non dorme come si deve. – Non mi costringa a usare le maniere forti…
Kira a quelle parole lo fissa morente per attimi interminabili, sorride e si mette seduto, gli prende il bicchiere dalle mani e beve il medicamento senza indugiare, per poi sussurrargli: - Tanto anche da malato sono molto più forte di te.
C-117 in fondo è sollevato che Lord Kira non si senta più molto male: e pensare che una settimana prima non riusciva nemmeno a muoversi. Ma le sue condizioni di salute continuano a preoccuparlo, tanto sono gravi: il medico ha parlato di una malattia molto violenta che potrebbe rivelarsi, tra l’altro, anche fatale. Lo schiavo pensa a quando sarà il momento, a quando –forse- lo troverà morto, steso sul letto, e non può far altro che rabbrividire. 
- Reize-chan, fa tanto freddo… Mi scaldi un po’?
C-117 tentenna, la paura di venir contagiato è troppo forte. Il contatto con lui lo terrorizza, infilarsi sotto le stesse coperte appare impensabile. Kira sembra leggergli nel pensiero e sbuffa, stendendosi e guardando corrucciato il soffitto: mette il broncio e incrocia le braccia come farebbe qualsiasi bambino. – Voglio coccole.
Reize prova quasi tenerezza per lui, tanto che gli sfugge un sorriso. - Quando sarà guarito avrà tutte le coccole che vorrà… Ma ora è meglio che si riposi. 

I lineamenti dell’uomo si distendono. Lo sguardo che gli rivolge all’improvviso è talmente intenso che lo paralizza. Appare dolce, e terribilmente sincero. È uno sguardo che dice tante cose, forse un grazie, forse una dimostrazione d’affetto… Ma no, si dice Reize, è impossibile. Eppure quelle che escono fuori da quelle labbra violacee sono parole che non ha mai sentito da nessun altro: - Ci sei solo tu. 
È un attimo di silenzio, una lieve e calda carezza. Reize sente il suo cuore accelerare: quella voglia, ancora, insistente, di affondare il viso nell’incavo del suo collo, di poterlo baciare dietro l’orecchio e di potergli dire che andrà tutto bene, che resterà lì per sempre, fin quando vorrà, anche se fa tanto male. 
Dopo un attimo di confusione si alza e prende il secchio dell’acqua per le spugnature, gli fa un sorriso forzato. – Si riposi. Torno subito con l’acqua fresca.
Il Lord annuisce, i suoi occhi si chiudono lentamente, abbandona il capo sul cuscino. Reize non se ne va subito, resta lì ad osservarlo per un po’, in attesa che si addormenti. Quando vede il respiro farsi più regolare si decide a uscire, non prima di avergli dato un’occhiata apprensiva dall’uscio. E poi se ne va, verso il bagno, a riempire il secchio con l’acqua fredda.
È strano pensare che solo qualche giorno prima temeva la sua persona, le sue punizioni e il suo sguardo freddo, e che ora si trovi nelle condizioni di curarlo amorevolmente. Sente anche che la questione ha un che di comico, come se non sapesse che quando guarirà –se guarirà- le cose torneranno come prima. Eppure Reize si sente in dovere di proteggerlo, di saperlo vivo, e nel pensarlo si sente incredibilmente stupido, perché sa che tutto ciò che sta facendo è inutile e abbastanza incomprensibile.
Sussulta, l’acqua è straripata dagli orli del secchio: chiude il rubinetto per evitare sprechi, ma è costretto a lasciar cadere un po’ di acqua nel lavabo. Sentendosi un po’ in colpa, asciuga il secchio con un panno per non lasciare gocce ed esce dalla lavanderia. Il pensiero ritorna al suo Lord. Ha quasi paura che, nel brevissimo tempo durante il quale è stato lontano da lui, le sue condizioni possano essere peggiorate. Istintivamente affretta il passo, l’acqua quasi trasborda per la velocità assunta, le catene si trascinano troppo lente dietro di lui. 
Quando apre la porta, però, il secchio gli cade dalle mani, l’acqua dilaga sul pavimento. 
Perché sul letto del Lord ora c’è anche un’altra persona. Una persona che non è Natsumi, non è Fuyuka, non è nemmeno Atsuya. Una persona che non è umana, fatta d’ombra, di morte e di pensieri tristi, di ricordi trepidanti che scendono dagli occhi come lacrime, di bugie, di cose non dette. Una persona che sa di marcio, di putrefazione, di dolore e di cattiveria. Una persona che non è lui.
L’ombra parla all’orecchio del Lord, sussurra segreti tra sorrisi macabri e zuccherosi, tra carezze diafane e irreali. Non sembra essersi accorta della sua presenza nonostante il rumore, eppure Reize è sicuro di sentire la sua voce, roca e bassa, come se non fosse usata da tempo, ma non è quella degli schiavi e nemmeno quella di Fuyuka. Reize lo sa, quella è la Morte. Quella è la Morte.
Non osa muoversi. Resta paralizzato sulla soglia, guarda il ragazzo d’ombra stendersi sul corpo addormentato del Lord e stuzzicargli le labbra coi denti, le gambe che sbarazzine ciondolano per aria. Può sentire le sue parole, ma vorrebbe non ascoltarle, perché fanno male e lo terrorizzano. “Mi ami?” dice l’essere con voce infantile. “Mi ami sul serio? Dillo, mi ami sul serio. Sono solo tuo, Kira…”
E ad un tratto li vede: i capelli di Atsuya. Solo che non sono suoi, non possono essere suoi, perché questi hanno il colore della luna, delle stelle, della luce notturna sulle ragnatele di rugiada. Vede pian piano delinearsi la schiena pallida e nuda, come se la creatura prendesse forma e colore, sembianze umane. Può scorgere tra le lenzuola lunghe catene arrugginite, cigolanti e piangenti, ogni suo movimento uno stridore. E d’un tratto Reize capisce che quegli occhi grigi e lucenti appartengono a S-144, ma appartengono anche al ragazzo nella foto di Atsuya. Capisce che se Atsuya piange non è un caso, capisce che S-144 e lui sono strettamente collegati, troppo collegati, un ricordo che non si può spezzare e che continuerà a persistere nella mente del domestico fino al momento della sua morte. Capisce e arretra, perché ciò è terribile: un ricordo che non si può dimenticare.
Reize avanza dopo minuti che sembrano non finire mai. Sono passi incerti, cauti, tremanti. Le catene scivolano sul pavimento come una veste, e il rumore lo rassicura, senza un motivo. Si avvicina talmente tanto da udire nitide le parole di S-144, e pure quei flebili lamenti che escono dalle labbra addormentate e viola del padrone, parole che fanno venire i brividi. S-144 non si accorge di lui. Kira è pallido, trema, si gira e si rigira senza pace, la fronte corrugata e le gocce di sudore che gli imperlano la fronte.
“Ripetilo” dice la voce inumana. “Ripetilo ancora”. E come un automa il Lord ubbidisce, gli dice di amarlo, di amarlo follemente, la testa che scatta come quella di un serpente, incubi orribili ad oscurargli i pensieri, brividi lo intrappolano nella morsa gelida della morte, sempre di più. S-144 gioisce silenziosamente, un largo sorriso scarlatto e disumano sul volto cadaverico, la mano passa a sfiorargli la guancia, il suo corpo d’ombra aderisce perfettamente alla sua pelle. Lo bacia piano, e Reize rimane disgustato da quel gesto, perché quando ritrae le labbra ad unirli c’è un filo nero e liquido  di tenebra. “Ripetilo”. Mormora la creatura. “Ripetilo di nuovo, Kira”.
C-117 chiude gli occhi mentre il Lord lo dice di nuovo, incapace di nascondersi dai suoi incubi: “Amami...  Reize…”
Lo schiavo sbarra gli occhi, il suo nome che rimbomba nella sua testa, e sussulta vedendo l’espressione che ha assunto l’ombra: gli occhi sono sgranati all’inverosimile, le labbra sono piegate in una smorfia, disgustosi serpenti neri di sangue gocciolano dalla fronte come se si fosse aperta una brutta ferita, e il suo corpo sembra dilagare di nuovo in sbuffi di nebbia macabra. Per un attimo il silenzio e l’immobilità, poi il dolore folle del tradimento: il mostro apre le fauci, come se volesse azzannarlo. Reize può vedere i lunghi e sottili denti acuminati, una ventina di centimetri di puro terrore, il suo corpo fa un salto verso di lui senza indugiare: vorrebbe gridare qualcosa, ma la sua voce è paralizzata, la gola secca. 
S-144 si accorge di lui, il suo sguardo scatta come quello di un cobra. – Lui è mio. – sibila, il corpo inumano, l’ira rossa nei suoi occhi cerulei. L’ombra lo attacca, Reize s’abbassa appena il tempo. Non s’è nemmeno accorto di star lacrimando, ma nulla ha più senso, nulla ha importanza. Guarda gli artigli della bestia, lunghi e acuminati come rasoi, e non può fare a meno di pensare al ragazzo che aveva visto nella foto, quello con la bottiglia di alcool tra le mani piene di calli, lo sguardo che rapisce e rende il mondo tetro. Sa che quel ragazzo non tornerà mai più.
Reize prova a scansare un altro colpo, quando prova a fermare l’ombra si ritrova la mano sporca di sangue. Eppure prova ancora a lottare, lo sguardo si posa sul moribondo: pare abbia smesso di sognare, di dormire, di respirare. Lancia un grido e gli scende una lacrima, S-144 ferma la sua follia, ora anche lui guarda il Lord. Nella stanza cala un silenzio innaturale, Reize non si è nemmeno accorto di essersi rintanato in un angolo, non si è reso conto della pozza di sangue che si è formata ai suoi piedi.
L’ombra emette un sospiro. Lo lascia stare, come se si fosse dimenticato di lui, e avanza piano verso il letto dove il Lord giace, pallido e spettrale, tra le lenzuola macchiate dal suo pianto nero. Si stende piano accanto a lui, vi resta per numerosi minuti, e C-117 non sa davvero cosa dire. Vede la figura del ragazzo tremare appena sotto i baci della luna, di tanto in tanto sfiora teneramente il Lord con le dita pallide. Improvvisamente prova solo pena per quella creatura sofferente, quel ragazzo che ha visto solo in una vecchia fotografia ma che ora gli sembra più vicino che mai. Ad un certo punto, dopo tanto tempo, S-144 prende le sembianze della sua vita, strofina il viso sulla guancia del padrone, gli sussurra qualcosa che Reize non riesce a capire… per poi dissolversi in cenere, che si disperde nell’aria in un unico sbuffo di fumo, un lamento terribile che si prolunga nel tempo e nello spazio, riempie e confonde ogni suono.
Sulla guancia del Lord ora vi sono vistose macchie di pianto color delle tenebre.
C-117 appoggia la testa alla parete dietro di lui, incapace di pensare. Sente il torpore del sonno avvolgerlo nel suo abbraccio rassicurante, e tutto si fa gelido e spento, mentre anche le ultime ombre della notte se ne vanno, sparendo dietro una coltre di luce.

Il risveglio è abbastanza brusco: scatta in piedi, le mani che tremano, gli occhi sbarrati che cercano freneticamente di mettere a fuoco la situazione, la testa che non riesce a ragionare e pulsa di sangue. Ma quando abbassa gli occhi, del liquido rosso non c’è traccia.
Il tempo di regolarizzare il respiro, Reize prova a calmarsi: le immagini dell’alba sono nette, fin troppo precise per poter essere il frutto di un incubo. Eppure lui si trova lì, in un angolo della stanza, le mani indolenzite e il capo che fa male, ma non vi è assolutamente la presenza di sangue. 
Lo schiavo guarda il Lord, steso fra le lenzuola pulite e immacolate, la pelle bianchissima che viene colorata dal sole del mezzogiorno. Sembra dormire serenamente, ma dorme sul serio? Reize gli va vicino, cautamente, come se S-144 potesse arrivare ancora. Si siede sul letto e poi, la mano tremante e un vago senso di proibito, gli sfiora i capelli rossi e la fronte ancora calda. No, respira, sta bene. Reize quasi sorride, una lacrima gli sfugge da una palpebra a va a posarsi sulla mano del padrone.
Quando lo vede agitarsi un poco C-117 capisce che si sta svegliando. Si asciuga gli occhi lucidi per il sollievo, è incredibilmente felice che Lord Kira sia ancora vivo. Sente la sua voce roca e stanca, il segno della malattia gli mette i brividi: - Reize-chan… Fa tanto freddo…
C-117 si stende piano accanto a lui, sotto il suo sguardo offuscato dagli incubi. Sente le mani gelate di Kira avvolgerlo in un abbraccio, silenziosamente ricambia quel muto gesto. E forse è vero che conta qualcosa per lui, forse è vero che è molto più importante di quello che pensa… Ma tutto ciò non dovrà essere mai rivelato, un padrone e uno schiavo non possono stare così vicini. 
- Lo sa MiLord? – fa ad un tratto lo schiavo, le sue iridi color pece che si confondono con quelle acquamarina di lui. – Stamattina ha delirato: diceva cose senza senso. Temevo stesse per morire.
Un ghigno stanco, gli occhi che si chiudono. – Ma che dici? Ho te. E che dicevo poi?
- Faceva discorsi… bizzarri.
Kira apre di nuovo gli occhi, lo fissa con tanta intensità che Reize si sente rabbrividire. – Qualunque cosa io abbia detto… - mormora, la voce affaticata. – Qualunque cosa io abbia detto… dimenticalo, per favore.
Anche lo schiavo lo sa, il ricordo di questa mattina lo ucciderebbe. Annuisce piano, obbediente, stringendolo di più nella sua stretta dolce e calda. Affonda il viso nella sua spalla nuda, sente il suo respiro sul proprio collo e si rilassa contro il suo corpo, incurante delle possibili conseguenze.
Pensa a S-144, alla sua assurda follia, alla sua ossessione, alle sue lacrime. Tutti lo sanno, ad innamorarsi dei propri padroni si diventa pazzi… ma Reize non credeva che ciò fosse realmente possibile. Stringendosi di più al Lord pensa semplicemente che non dovrà fare lo stesso errore, non dovrà innamorarsi di lui se tiene alla vita. Eppure qualcosa dentro il suo cuore si muove, inizia a palpitare, e il solo pensiero che ciò stia realmente avvenendo lo induce ad allentare la presa. 
Ci sono tante domande senza risposta, una più tetra e oscura dell’altra. Vorrebbe poter scoprire cos’è l’oceano e vedere il ballo delle stelle fluttuanti, sapere la storia di S-144 e Atsuya, vorrebbe scoprire il segreto del Lord, vorrebbe poter sentire ancora il suo vero nome – Ryuuji-, poterlo dire a voce alta, vorrebbe poter entrare nella casa segreta in mezzo al bosco, e ascoltare in silenzio una melodia al pianoforte, di quelle calme e rassicuranti, oppure tristi e malinconiche come piacciono al Lord.
- A che pensi?
Reize sussulta, ma non osa staccarsi per incrociare lo sguardo di Kira, le sue labbra viola incrinate pigramente verso l’alto. – Perché me lo chiede?
- Stai piangendo… - mormora soltanto lui, un soffio leggero sull’orecchio, uno frusciare di coperte, le loro gambe che s’intrecciano. – Sulla mia spalla…
 C-117 non risponde, sente solo le sue labbra percorrergli sensualmente il collo, senza malizia, un contatto che, stranamente, più che terrorizzarlo lo rassicura. Chiude gli occhi e si lascia cullare, semplicemente, senza rimorsi e senza resistenze, in quei baci che sanno sempre di più di proibito. 
- Quanto sei erotico… - si lascia sfuggire d’un tratto il nobile prima di scivolare nell’oblio della passione, la sua mano candida che scende a sfiorargli il corpo e le cosce nude, la frenesia che costringe Reize a girarsi e a trovarselo sopra, a gemere sotto i suoi tocchi, i suoi baci incandescenti e bluastri, i suoi morsi e le sue più voraci manie. Gli appoggia le mani sul petto glabro, rimane per un secondo incantato da quel contrasto feroce e dolce allo stesso tempo, sente il battito adrenalinico di quel cuore spietato, quasi si fa coinvolgere in quell’euforia.
- No. – mormora piano da sotto i gemiti. – No, deve riposare… No…
Il Lord riesce a controllarsi, crolla stremato per la febbre. Scivola su di un fianco e rimane lì, con il fiatone, a guardarlo. – Quando guarirò voglio che tu ti occupi di me a dovere. – esordisce poi. – Sono stanco.
C-117 quasi ride, lo guarda negli occhi: - Sì.
- Ma sul serio, non sto scherzando. 
- Sì, sì.
Kira appoggia il capo sul palmo, il gomito sprofonda nel materasso, lo sguardo divertito: - Sembri di buon umore, che ti succede?
Reize sorride. È incredibile quanto si senta stupidamente bene. Scuote la testa come se ciò basti in risposta e chiude gli occhi, le braccia del Lord che l’attirano a sé un’altra volta, la sua risatina accattivante e quel profumo di lavanda sulla sua pelle nivea.
C-117 sta quasi per addormentarsi quando di nuovo le parole di lui lo sorprendono e lo fanno rabbrividire come ogni volta: - Sai? Mi sento meglio. Sono sicuro che tra un paio di giorni sarà tutto finito. Devo a te tutto questo.
- Dovere. – mormora pigramente lo schiavo, già sta scivolando tra le braccia di Morfeo. 
- No. Tu non sei stato obbligato a far niente, in realtà: avresti potuto abbandonarmi e non l’hai fatto. Ora te lo devo chiedere, perché ciò che hai fatto non ha senso e lo sappiamo entrambi: perché?
Ora è Reize a rimanere in silenzio, immobile. Non sa rispondere e non deve rispondere, anche se lui è il suo padrone e dovrebbe farlo. Si limita a stringersi di più a lui, l’immagine dell’ombra che si staglia nitida nella sua mente. 
“Per il suo stesso motivo” vorrebbe rispondere, ma non ce la fa, si addormenta con il capo appoggiato sul suo petto e le mani intrecciate alle sue, la fronte leggermente corrugata e le labbra piegate un po’ all’ingiù, come se un pensiero gli fosse appena sfuggito dalle labbra. Ma non l’ha fatto.
Kira si limita a baciarlo sulla fronte, la dolcezza del suo sguardo viene catturata dai raggi del sole. Si accoccola meglio tra le lenzuola, abbandona il capo sul cuscino.
- Ma come siamo belli quest’oggi… - si limita a mormorare, prima di cadere di nuovo in un sonno profondo.
Seduto sul davanzale una figura nera osserva in silenzio, le lacrime scorrono lente sul suo viso di pietra.

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Capitolo 8
*** Destiny VIII ***


DESTINY VIII
Sembra quasi che dopo l’incontro con S-144 la salute del nobile sia  migliorata, pensa C-117  mentre percorre come sempre il corridoio che porta alla sua stanza: riesce a stare in piedi, mangia volentieri, sorride di più e il suo pallore, per quanto ancora abbastanza inquietante, inizia pian piano a scivolare via dalle sue gote. Reize si sente sollevato dalla sua ripresa, ma al contempo non può che tremare.
Trema perché ha paura. Del resto la paura è una delle sue più care e terribili amiche, accompagnata dal silenzio e dalle bugie, sorelle dell’ombra. Non ha mai smesso di provare paura, quasi fosse una sorta di allerta premonitrice.
Sono cauti i passi che lo portano lentamente da lui. Ogni tanto esita, si ferma, si lascia un attimo cullare dalla pace del corridoio, tra mari lontani e i cieli stellati che sembrano rincuorarlo: eppure sembra solo un’illusione, una mera e subdola illusione per ucciderlo in tutti i sensi. Reize pensa che in fondo dev’essere stata la stessa identica pazzia che aveva colto S-144 quando era in vita… e che continua a persistere inesorabilmente nei suoi incubi peggiori.
Già, C-117 non ha mai smesso di fare orribili sogni di sangue, di tenebra e pallore di luna, non ha smesso di piangere nelle notti che si sono susseguite, non ha smesso di pensare a quegli occhi, quei maledettissimi e inquietanti occhi d’argento. E al tempo stesso inizia a dimenticare chi è, da dove proviene, che cosa deve fare… e le azioni sono diventate sempre più meccaniche, inespressive. Incrocia gli occhi di Natsumi ed Atsuya e vorrebbe solo dimenticare.
Bussa piano alla porta, non ottiene risposta. Uno, due, tre, altri tocchi con le nocche ruvide, e alla fine l’ordine del Lord, la conferma che può entrare.
È seduto sulla poltrona di velluto accanto alla finestra, la vestaglia rossa come il sangue aperta appena sul petto, la luce del giorno entra nella stanza e fa risplendere la sua pelle bianca. Le tende sono tirate. Legge un libro dall’aria raffinata, gli occhiali da lettura mandano il riflesso dei raggi del sole. Non alza gli occhi su di lui, non un cenno o una conferma: Reize si limita ad appoggiare il vassoio sul comodino accanto al letto e lo guarda, il silenzio specchiato nei suoi occhi d’ossidiana.
- Devo ancora bere quella cosa? – mormora contrariato Kira appena nota la bevanda appoggiata sul vassoio d’argento. Storce le labbra come un moccioso.
Reize inizialmente non replica. Si limita ad osservarlo, poi fa sentire la sua voce arrochita, bassa: - È per il suo bene, MiLord. Le consiglio di riposarsi, non mi sembra molto in forma.
Un sorriso da gatto si dipinge sulle labbra sottili del nobile, la lingua voluttuosa che passa per la loro lunghezza, lo sguardo furbo e perverso che si posa sul suo corpo: - Non mi sono mai sentito meglio di così, credimi Reize-chan.
C-117 lo scruta, si chiede se sia veramente guarito. È vero, le sue labbra non sono più viola, i suoi occhi hanno ripreso quel vivido colore che gli piace tanto, ma sembra ancora così debole… Reize abbassa lo sguardo sulle lenzuola, perdendosi nel loro candore: - Il medico dice che la cura finirà domani.
- Ti aspetterò, allora.
Lo schiavo resta immobile, di nuovo lo guarda, la paura pesante nel cuore incattivito dal tempo. Certo, è curiosamente felice che lui si sia ripreso, che lui stia bene e riesca a sorridere, è felice che S-144 non se lo sia portato via, è felice che non se lo sia preso la Morte. In un attimo le sue preoccupazioni si fanno incerte, il suo sguardo si fa cauto, come se avesse davanti un perfetto sconosciuto. Eppure lo conosce, lo conosce meglio di chiunque altro, lo sa per certo ormai… ormai…
Chi è Lord Kira?
Cammina lentamente verso di lui, appoggiandogli cautamente una mano sulla fronte: no, è ancora caldo, anche se in modo lieve. – Deve riposare.
- Prima baciami.
- Sta delirando. 
- Ti ho detto di baciarmi.
Reize non fa in tempo ad opporsi, il Lord si alza di scatto e preme con forza le labbra sulle sue, le mani strette sui suoi fianchi. C-117 sbarra gli occhi, raggelato,  e in un attimo Kira lo guida e lo spinge sulle lenzuola già sfatte, gli occhi languidi che percorrono il suo corpo centimetro per centimetro: - Non resisto più.
Le sue labbra scivolano sul suo collo bruno, le sue mani cercano le sue: c’è foga nel suo sguardo di fuoco, la lingua bramosa di pelle. Reize sa che non può opporsi, non può reagire. Flebili lamenti, qualche lacrima, le catene che si muovono al ritmo dei movimenti del suo padrone, lo sguardo che si offusca, il grido che si lascia sfuggire quando arriva al limite della sopportazione. E non è ancora finita, non finirà mai, ogni momento gli sembra eterno e indomabile. Inizia a singhiozzare piano, poi sempre più forte, gli occhi gli si chiudono, il dolore atroce in ogni fibra del suo corpo.
- No, guardami. – gli ordina il Lord, la voce roca dal desiderio. – Guardami. Amo i tuoi occhi.
C-117 allora li sbarra, incosciente, le lenzuola attorcigliate alle sue caviglie. Sa che mente, deve convincersi, o morirà. Il grido che ne sussegue è fatto più di disperazione che di dolore: le carni bruciano come tizzoni ardenti, la follia prende una parte di sé, sempre di più, sempre di più… 
Le parole escono da sole, come spinte dalla pazzia più nera e oscura: - Uccidimi, uccidimi se puoi… - mormora mentre il dolore si fa più intenso. Le lacrime scottano come il sangue più bollente -lo stesso che ribolle nelle vene del nobile- la vista gli si appanna. Ha paura, Reize, ora ha seriamente paura di lui, come se davanti avesse un assassino: e in effetti è così, sopra di lui c’è un assassino, omicida dei suoi pensieri, e della sua anima. 
Il Lord gli morde il collo, come se volesse scacciare quelle parole, nasconderle, cambiarle, travestirle con nuove frasi bugiarde. – No, no... – mormora, e non lo ascolta. – Tu lo vuoi... Lo so che lo vuoi...
Reize smette di combattere con le sue paure. Afferra la mano del Lord e la stringe forte, mordendo con forza la federa del cuscino.

Appena Atsuya lo vede, rimane immobile sulla soglia della cucina. C-117 si limita ad alzare lo sguardo e sorridergli appena, un cenno debole della mano, nessuna voce per salutare.
- Ha già iniziato? – gli mormora solo, guardandolo impassibile. Reize fa un cenno calmo con la testa, sorride ancora come in estasi, eppure le lacrime continuano a scendere. Si siede esausto, ogni centimetro del suo corpo protesta..
Il domestico tentenna prima di uscire. Gli dà un’altra occhiata e infine sparisce nella sua stanza per prendere le bende e i medicamenti necessari, ne esce con l’intera cassetta del pronto soccorso. Si avvicina lentamente, si china sul suo corpo ferito e inizia a versare l’alcool sulla pelle viva. Reize non può fare altro che gemere, ma ha imparato a distinguere il dolore che uccide da quello che fa bene e scalda il cuore.
- Si è dato alla pazza gioia, a quanto vedo.
C-117 annuisce di nuovo, un sussurro che Fubuki capisce a malapena: - Era felice.
Il rosso alza lo sguardo su di lui, smette di medicarlo e lo guarda dritto negli occhi: c’è qualcosa di decisamente strano e drastico nel suo modo di fare, e improvvisamente ha un brivido nel constatare che quello di Reize è lo stesso sguardo che ha visto in altri occhi. – Tu… - inizia col dire, ma abbassa il capo quasi subito. 
Non si dicono altro: Atsuya si limita a medicarlo e a fasciarlo. Gli prepara un buon tè, poi gli dice che andrà a mettere a posto di sopra, che non deve affaticarsi. Reize annuisce piano, poi ci ripensa: ferma Atsuya prima che si allontani da lui, lo prende per la manica e lo guarda in silenzio. Vorrebbe parlargli di S-144, ma ora non se la sente di fargli una cosa simile. – Grazie. – gli dice all’ultimo secondo, ed è sincero: capisce che portarsi dietro un tale peso comporta uno sforzo mentale enorme, che è lui la causa di tutto, e apprezza il fatto che Atsuya nonostante tutto voglia sopportarlo.
Fubuki sbatte le palpebre, ma rimane serio. Appena lo schiavo lo lascia andare esce dalla porta silenziosamente, non una parola, sparendo al piano di sopra. C-117 lo segue con lo sguardo, poi quando scompare alla sua vista riporta lentamente l’attenzione alla superficie della tavolata, percorrendo le sue macchie e le vene scure del legno. Segue il loro percorso con un dito, descrivendo cerchi concentrici che si perdono distrattamente nella sua mente vacua, offuscata dai pensieri.
Il suo sguardo si sposta meccanicamente sulla borsa nell’angolo della stanza, come se rispondesse a un richiamo. È sempre rimasta lì, nessuno l’ha toccata dal sua arrivo, quasi fosse un oggetto temibile e inviolabile. Si alza lentamente dalla sedia ignorando il dolore, si avvicina piano, una carezza. Sa che le risposte che cerca sono riposte lì dentro. Non sa perché sente il desiderio di ricordare. Un’immagine di donna, il fiore rosso tra il bianco e il nero, la luce e l’ombra… Reize sa che non può aspettare, e anche se sapere e ricordare faranno terribilmente male, lo uccideranno, lo dilanieranno completamente… non può rimanere senza conoscere, senza capire.
Febbrilmente spezza la cinghia di cuoio e rovescia il contenuto sul tavolo, gli occhi che cercano indizi, il cuore che batte, quel nome sussurrato nel riflesso di un ricordo.
Niente.
Una spilla e un libro polveroso, del cibo rancido si è appiccicato sulla copertina e Reize non riesce a coglierne il titolo. Ma in fondo non avrebbe importanza, lui non sa leggere.
Scruta la spilla, un oggetto di scarso valore: lo porta ai raggi del sole come una perla rara; è malridotto, sporcato dalla fuliggine del carbone, rovinato dal tempo, il pizzo è strappato e consumato. Eppure è la cosa più speciale che C-117 abbia mai visto: è così bello ammirarla alla luce del mattino…
Se la gira tra le mani, notando la scritta a caratteri eleganti incisa sul metallo nel retro. Al centro c’è una piccola pietra nera dalle sfumature azzurre, e Reize sente che c’è qualcosa di vagamente familiare in quell’oggetto apparentemente sconosciuto.
Sobbalza quando dalla porta che dà sul giardino entra Natsumi, la cesta piena di biancheria stesa e asciugata al sole, il cappello di paglia che non riesce a nascondere gli occhi castani cerchiati di nero. Gli sorride candida, appoggiando la cesta accanto alla credenza e asciugandosi la fronte dal sudore. Quando si accorge delle sue ferite il suo sguardo cambia, corruga la fronte con apprensione. Reize le fa un gesto calmo, come a rassicurarla, ma Natsumi non muta atteggiamento. Poi nota gli oggetti sul tavolo e si avvicina, vinta dalla curiosità: - Che stai facendo?
C-117 non risponde, si limita a mordersi il labbro inferiore, a scrutare la spilla. Il solo pensiero che quegli oggetti siano suoi lo fa impazzire. – Tu sai leggere?
- Mi dispiace, no… - mormora un po’ risentita la donna, prendendo la spilla dalle mani dello schiavo e guardando il libro. – So solo alcune lettere: qui deve esserci una “m”.
- Oh. – sussurra quello in risposta, ma non dice altro. È deluso e a tratti triste che non possa capire di più delle sue origini, ma del resto forse è meglio così. Abbassa lo sguardo sul libro e sta per togliere la poltiglia che ricopre la copertina quando la proposta della serva lo fa rabbrividire: - Potresti chiedere al Lord di leggere per te.
Reize la guarda fisso, prima di abbassare ancora lo sguardo su quegli oggetti… i suoi oggetti. – Se sapesse che possiedo queste cose non me le farebbe tenere, non è un mio diritto… - mormora affranto, e si lascia andare in un sospiro di commiserazione.
- In compenso potresti conoscere qualcosa di più sul tuo passato.
- Non voglio sapere.
- Perché?
- Non posso.
Natsumi resta a lungo in silenzio, si siede accanto a lui e si limita a guardarlo. Reize a un certo punto si rende conto che non comprende: lo  sguardo della donna è vacuo e risentito, sulle labbra una domanda implicita. Lei non sa cosa significa ricordare per persone come lui: del resto è probabile che lei abbia una famiglia. Dei figli, magari. E poi… lei è libera.
- Natsumi… tu hai figli?
La donna sussulta, continua a guardarlo assente. Poi un sussurro, qualche parola: - Sì, due gemelli. È stato un parto difficile, dicevano che non sarei sopravvissuta. Eppure eccomi qui.
Lo schiavo porta lo sguardo oltre la porta che dà sul giardino, resta in silenzio per numerosi attimi. Quanto sarebbe bello avere una famiglia, pensa, come sarebbe bello poter averla veramente. Giocherella con la spilla, si ferisce con l’ago acuminato, ma non si muove. Le parole quasi escono da sole, come in un sogno: – Deve essere molto bello…
Natsumi a quel punto gli sorride, gli prende entrambe le mani e le stringe nelle sue. – Domani sarà il loro compleanno. Mi piacerebbe se tu festeggiassi con noi!
Lo sguardo di C-117 è vacuo, quasi si vergogna di rispondere. Sì, piacerebbe molto anche a lui, ma non può e non sa. – Cos’è un compleanno? – chiede cauto, mordendosi nervosamente le labbra: festeggiare? Lui non ha mai festeggiato in vita sua. Cosa vuol dire festeggiare? E poi, Kira lo lascerà andare?  
- Vedi, ora hanno sei anni. È una festicciola per loro, ma nulla di speciale, te l’assicuro. Viene anche Atsuya. Torneremo prima che il Lord ritorni, non si accorgerà della tua assenza.
Passano numerosi secondi, durante i quali Reize non risponde subito. Poi un sorriso un po’ forzato, mite, incerto: - Sarebbe davvero un piacere.

Lo sguardo indagatore del Lord si posa su di lui appena apre la porta. Quando glieli porge, scruta il libro sudicio e la spilla, poi aggrotta le sopracciglia come invaso da un senso d’inquietudine e chiude il libro al quale si è dedicato per tutti quei giorni: ormai è quasi alla fine, mancano poche pagine.
Reize intanto si avvicina, lo sguardo che vaga su tutti gli angoli della stanza, i passi incerti e cauti. Quando arriva davanti al letto del Lord una bolla d’ansia gli scoppia nel petto, come se il mondo avesse iniziato a girare troppo velocemente per lui.
- Che succede Reize-chan? Qualche problema? – sussurra piano il Lord, accomodandosi tra i cuscini: i capelli si spargono sul loro candore come rivoli di sangue.
C-117 lo guarda vacuo, poi gli porge la spilla un po’ tremando e un po’ agonizzando nel terrore di una nuova punizione. Non riesce a parlare, ma Kira sembra intuire comunque: osserva la scritta argentata con perplessità, poi corruga le sopracciglia e rimane in una sorta di mutismo, anche se Reize non riesce a capirne il motivo. Quasi si morde la lingua pesante mentre glielo domanda: - Può leggere per me?
Il Lord si è sistemato gli occhiali da lettura, come se la leggera miopia gli impedisse davvero di vedere. Poi il suo sguardo si posa su di lui, quasi accusandolo: - Come sei entrato in possesso di questi oggetti?
C-117 abbassa la testa colpevole, ma non può mentirgli. – Sono miei.
Dà un senso strano pronunciare queste parole: del resto, nulla può essere suo veramente. Eppure quegli oggetti sono sempre stati nella sua borsa, nascosti dagli sguardi di tutti.
- Li hai rubati da Natsumi, di’ la verità.
Reize alza la testa di scatto, sbarra gli occhi e quasi si sorprende della sua idiozia: - Non è vero, sono miei! Glielo posso giurare!
Lo sguardo di Kira è uno dei più cattivi e gelidi che gli abbia mai rivolto: C-117 se ne rende conto e rabbrividisce. Nonostante ami i suoi occhi, ora vorrebbe non averli mai incrociati. – Ciò che è tuo è solo ed esclusivamente mio. – mormora il nobile tagliente, giocherellando con la spilla. – Dovresti saperlo.
C-117 deglutisce, non osando guardarlo negli occhi. Odia questo silenzio, improvvisamente vorrebbe che il Lord lo picchiasse per la sua imprudenza, che lo sbattesse ferocemente sul letto e… e…
No…
Reize si accarezza nervosamente un braccio abbandonato lungo il fianco come se sentisse freddo: ma forse è l’imbarazzo che lo spinge ad avvicinarsi e a stendersi accanto al Lord tra le lenzuola immacolate. Si limita a fissarlo negli occhi e poi, a un suo segnale di permesso, si accoccola appoggiando la testa sul suo petto coperto dalla camicia da notte.
- C’è scritto Midorikawa. – mormora piano Kira, sembra essersi fatto più dolce, quasi le attenzioni dello schiavo lo avessero tranquillizzato. Gli accarezza distrattamente i capelli e scioglie la coda come soprappensiero, per poi scostare senza riguardi la mantellina. Reize dal canto suo non può far altro che sgranare gli occhi, assente, sentendo un altro nome sconosciuto farsi spazio nella sua mente.
È una sensazione strana avere le sue mani addosso, ma ormai non più spiacevole. In un certo senso è come se quelle mani facessero parte del suo corpo, una parte che ormai è diventata quasi indispensabile. C-117 sa di essere solo suo, e ciò che è gli appartiene completamente: non c’è posto a cui appartenga più di quel luogo orribile..
– Mi può leggere anche il libro? – chiede a un certo punto, socchiudendo gli occhi con fare aggraziato: lo sa, con lui basta solo giocare. E infatti non passa troppo tempo che il Lord prenda il libro facendo ben attenzione a non sporcarsi la mano, mentre con l’altra si perde in carezze audaci. – Si tratta di un libro di fiabe. Per bambini. – mormora. – C’è anche una piega, chiunque l’abbia letto è arrivato a questo punto qui. – aggiunge poi aprendo il libro sulla pagina, e la scruta piano. 
- Che fiaba è? – chiede C-117 nel modo più suadente e sensuale che conosce: ormai ha capito che per ottenere qualcosa da lui basta tentarlo, per quanto imbarazzante possa sembrare.
Kira non lo guarda, si limita a scendere sulle cosce magre e a leggere lentamente senza una parola. – Il Principe e il Povero. – mormora poi, quasi assente, e dopo aver chiuso il libro sposta meccanicamente lo sguardo sul suo schiavo, steso accanto a lui e inevitabilmente alla sua portata. Si accorge però che i lividi e le ferite che gli ha lasciato quella mattina sanguinano ancora, e il senso di riluttanza gli opprime il petto.
Si stupisce quando una mano ambrata dello schiavo scivola sul suo volto, gli occhi color ossidiana si riflettono nella luce diurna prendendo sfumature metalliche. Ha uno sguardo tanto suadente quanto impossibile, quasi innaturale… sbagliato. Non può far altro che chiedersi, a questo punto, quali siano le sue intenzioni.
- Me lo leggi, allora? – sussurra piano lo schiavo accoccolandosi sul suo petto. – No. – risponde automaticamente, e quasi gli fa male mentre lo graffia. Reize mugola, affonda il viso sulla sua spalla e gli posa le labbra sul collo: - Un riassunto?
Kira sospira. Inizia a raccontare affidandosi alla sua memoria, ma improvvisamente si blocca di colpo proprio a metà. C-117 alza lo sguardo su di lui e corruga la fronte: il Lord ha preso un’espressione pensierosa, gli occhi fissi sul soffitto. Poi chiude gli occhi e si lascia andare ad un sospiro, Reize sussulta nel vedere le lacrime scendere per le gote. Allunga una mano e le asciuga, accarezzandogli la pelle bianchissima, come a confortarlo.
La voce di Kira si fa sempre più debole, fino a ridursi in un sussurro. La fine della fiaba è quasi un sibilo.

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Capitolo 9
*** Destiny IX ***


DESTINY IX
È strano uscire all’aria aperta dopo lunghi, interminabili anni. La piazza del mercato è gremita di gente, e Reize si sente stordito da tutti quei rumori, odori e colori… Spezie di alta qualità sono esposte tra le bancarelle, gustosi frutti dall’aria esotica fanno capolino nelle cassette di legno, venditori di tappeti aspettano pazientemente clienti con cui trattare. È tutto talmente nuovo e confuso che Reize è costretto a farsi guidare dalla mano di Atsuya, che già da tempo ha smesso di borbottare frasi sconnesse. 
Silenziosi e gelidi sguardi si posano sulle sue catene, qualche donna mormora qualcosa alla vicina con fare cospiratorio, ma C-117 è fin troppo occupato a guardare dove mette i piedi per accorgersene. Sembra che il domestico voglia uscire il prima possibile da lì, e lo esprime chiaramente infervorandosi ogni qualvolta si scontra con qualcuno.
Natsumi cammina al suo fianco, tra le mani un grande cesto di vimini. Gli sorride ogni tanto, cercando di tenere il passo del collega, spesso incespica nei suoi stessi piedi e C-117 l’aiuta prima che si schianti al suolo. Fubuki cammina fin troppo veloce per i suoi gusti, ma non ha il coraggio di farglielo notare. D’un tratto il domestico si mette quasi a correre, e Reize ne intuisce il motivo: stanno passando davanti al mercato degli schiavi. 
Se ne stanno lì, in piedi e silenziosi in mezzo al vociare della gente e agli strilli striduli del mercante che scandisce il procedere dell’asta: gli uomini con la pelle cosparsa di olio rilucente per evidenziare i muscoli, le donne magre e ripulite dalla sporcizia delle miniere. I bambini se ne stanno in un angolo a lacrimare e a gridare, e C-117 quasi si mette a piangere con loro quando un grido unanime squarcia l’aria dilaniandogli il cuore: una delle madri è stata appena venduta.
Non ha il tempo di pensare: Atsuya esce dal mercato come inseguito da ombre voraci, rallenta solo quando le voci della folla si fanno indistinte. Quasi tira un sospiro di sollievo, mentre Reize si accascia a terra stremato dal trambusto. Natsumi arriva poco dopo, miracolosamente intatta, e sorride bonariamente: - Molto bravi, siete arrivati primi.
A C-117 viene da sorridere: è tutto così calmo e tranquillo, così innaturale. Non può ancora credere di essere veramente fuori, tra la gente, apparentemente libero sotto quelle catene. Alza gli occhi al cielo, il grigiore delle nuvole si riflette nel nero in una muta e indescrivibile magia. – Non vedevo tanti colori tutti assieme da anni. – mormora piano. Chiude gli occhi e sorride, semplicemente, accarezzando distrattamente ricordi lontani e perduti, che tuttavia stranamente non gli fanno male, ma sembrano scaldargli il cuore. Natsumi gli porge la mano, Reize l’afferra e si fa aiutare ad alzarsi. Non è più solo, non ha più paura del buio.
Procedono per una stradina scoscesa, appena ombreggiata dai grandi alberi dalle cime frondose. Reize non ricorda di averne mai incontrati, e la loro vista lo affascina: quante cose ci sono da scoprire, lì fuori. Sbircia con la coda dell’occhio attraverso una porta semi-aperta, ascolta il soave canto degli uccelli che si nascondono tra i rami, fa ben attenzione a non scivolare sui ciottoli umidi di pioggia. Quelle abitazioni non hanno nulla a che vedere con le ville lussuose alle quali è abituato, eppure C-117 si sente perfettamente a suo agio. Lì non è nessuno,  non dipende da nessuno, non è schiavo di nessuno. Semplicemente libero.
D’un tratto arrivano nei pressi di un borgo: case sbilenche li osservano passare silenziosamente, il fruscio del vento li accoglie in un gelido benvenuto scuotendo leggermente i panni stesi ad asciugare. Reize si guarda intorno, rabbrividendo per il freddo improvviso, e a un tratto li vede: presso un pozzo vecchio e malmesso, due bambini giocano con piccole pezze e spaghi intrecciati a formare una lunga corda. Non sembrano essersi accorti della loro presenza tanto sono presi dal gioco, le mani intente a strappare o deformare quelle stoffe consumate.
- Il principe lo faccio io! – esclama convinto uno di loro, portandosi la corona di carta sulla testa e il mantello dietro le spalle. – Perché sono il più grande.
- Non è giusto! – ribatte l’altro. – Abbiamo solo cinque minuti di differenza! Dai qua! Non voglio fare il povero!
C-117 sente un groppo in gola: ha la netta sensazione che la storia raccontata nel suo libro coincida almeno in parte a quel gioco innocente. Ma com’è possibile, e perché? In un attimo si ritrova a fissare quei bambini come se facessero anche loro parte del suo passato. Ha brivido di terrore al pensiero.
È la voce di Natsumi a riportarlo alla realtà: - Guardate che la vostra torta ce la mangiamo tutta noi!
I gemelli alzano la testa, e lo schiavo si sente invadere da una strana energia incrociando i loro occhi: blu e intensi come il cielo diurno, profondi e vasti più dell’oceano, freschi e sbarazzini come l’erba mossa dal vento pigro. Sono forti, determinati, mozzano il fiato per la loro crudele e spietata innocenza. E in un attimo sono già tra le braccia della loro madre, felici come non mai di passare un po’ di tempo con lei: Reize si sente invadere da una terribile nostalgia.
Natsumi ride, cercando di camminare pur intralciata dai loro passetti piccoli e dalle loro manine aggrappate alla gonna. Alza la cesta fino a portarla dove i bambini non possono arrivare ignorando gli strilli eccitati di pura aspettativa, ed entra nella casetta più piccola, riparata da un’enorme quercia che sembra quasi compensare la mancanza di un tetto resistente.
Reize rimane là, intento sul da farsi: da un lato pensa che vorrebbe far parte di quell’allegria, di quella dolcezza, di quella nostalgia; dall’altro però pensa che tutto ciò non sia giusto. Teme quelle persone, così lontane da lui, teme tutto ciò che gli sta attorno: d’un tratto vorrebbe essere sul letto del Lord, lì dove è sempre stato, nella sua condanna e nel suo rifugio. Solo.
Atsuya è già sulla soglia, non sembra volersi preoccupare di lui. Quando si volta, il suo sguardo ha un che di gelido e strano, ma non sprezzante. – Entri?
E C-117 se ne sta là, a fissarlo intensamente, non una parola. D’un tratto una goccia di pioggia gli bagna il viso e si fonde con una lacrima, poi arriva una seconda, una terza, sempre più numerose… finché Reize non alza gli occhi al cielo e constata che, di lì a poco, verrà giù un acquazzone senza precedenti. Atsuya non dice niente, è Natsumi invece ad uscire dalla casetta per prenderlo per mano: - Reize, ma che ci fai qui sotto la pioggia? 
C-117 non risponde, si fa portare dentro, un debole sorriso sulle labbra e gli occhi lucidi di pianto. Ma non vuole darlo a vedere, si asciuga come può con un braccio. Passa davanti ad Atsuya senza che lui dica nulla, Natsumi lo molla solo quando si ritrova all’interno. 
Reize ci mette un po’ per abituarsi all’oscurità appena contrastata da una fioca candela sul tavolo e dal bagliore fumoso di una sigaretta accesa, ma presto riesce a riconoscere i visi dei presenti. E con questi, gli occhi. Duri e spezzati.
- Chi diavolo hai portato, Nats? Non ti sembra pericoloso?
C-117 rabbrividisce e si volta: a parlare è stato un ragazzo alto, sulla ventina, i capelli lunghi raccolti in una coda e il viso sporco di terra. Stringe tra i denti una sigaretta quasi del tutto consumata, con la mano giocherella  pigramente con poche monete d’argento. L’uomo accanto a lui è nelle stesse condizioni, al contrario gli sorride allegro come se fosse un raggio di sole. Eppure quell’atteggiamento tanto pacato non lo rassicura affatto, al che istintivamente fa un passo indietro… e lo sente, il rumore delle catene che strisciano sul pavimento di legno, il suo simbolo, la sua condanna. 
- Non dire sciocchezze Kazemaru! – esclama indignata Natsumi, l’altro uomo gli fa cenno di tacere, ma è troppo tardi: già Reize è indietreggiato verso la porta.
Atsuya non lo afferra appena gli passa davanti, non prova nemmeno a fermarlo a parole. E C-117 allora corre fuori, corre nella pioggia che gli sferza il viso come una frusta, inciampa nelle sue catene e si rialza. Presto la vista gli si offusca, non capisce dove sta andando ma continua a correre finché le gambe non gli tremano e il fiato non gli si mozza. 
Si ferma, ma è ben lontano dalla casa. Si guarda attorno smarrito, non ben conscio della sua situazione, ma il luogo gli è subito familiare: si trova nel cuore del mercato. Le strade sono deserte, le tende chiuse, il silenzio invadente. Reize trova riparo sotto delle vecchie travi appoggiate a una casa nelle vicinanze, si accuccia e si guarda ancora attorno: non fa freddo, ma si sente scosso dai brividi, e le lacrime continuano a scendere irrefrenabili. 
Non vuole essere un pericolo per nessuno, non vuole far star male a nessuno, non vuole vedere nessuno. Sa solo che deve arrivare a casa prima che il Lord si arrabbi, perché è vero, non gli ha chiesto il permesso convinto di tornare prima del suo rientro. E ora si sente così terribilmente solo e mortificato che fa quasi male: vorrebbe poter averlo accanto, vorrebbe essere ferito, ucciso, dilaniato dalle sue mani. 
Affonda il viso sulle ginocchia e singhiozza piano, poi si appoggia alla parete e resta lì. Le sue mani scivolano sul suo viso, sul labbro gonfio, sulle cicatrici e poi su per i capelli bagnati: ora singhiozza più forte, non gli importa di essere sentito, non gli importa più di niente. E forse sarebbe meglio se fosse davvero pericoloso, e morisse lì, proprio lì, dove nessuno lo può trovare…
- Anche per me è stato difficile. 
C-117 alza lo sguardo e la trova: eccola là, sotto la pioggia battente, una figura se ne sta immobile e paziente, eppure asciutta. Il morbido tulle è appena sporcato di fango, i capelli viola sono raccolti in una crocchia: Fuyuka ha l’aria più povera che abbia mai visto, ma c’è una cosa che la rende bella e soprattutto donna, la rende forte come una dea. E forse lo è davvero.
- Ti conviene trovarti un riparo anche tu. – sussurra solo tra i singhiozzi, e si rannicchia in parte per farle posto. Lei scuote la testa, inespressiva come al solito, allunga il braccio ossuto e gli porge una grande e morbida coperta color della notte. Reize la prende senza fiatare e sente una scarica invadergli il cuore, sollevandogli in qualche modo anche il morale: è calda, è vellutata, e com’è bello affondarci il viso e sentire il profumo di lavanda! Sa di casa, sa del Lord, sa della madre che non ha mai conosciuto. E sembra davvero un pezzo di notte, come se l’avesse strappato al cielo solo per lui. 
- Resisti.
- Grazie. – si ritrova a mormorare con un sorriso, e socchiude piano gli occhi abbandonandosi a quel tepore. Quando alza lo sguardo però Fuyuka non c’è più, divorata dalle ombre che fanno capolino dalle case: che ore saranno, le tre del pomeriggio? Reize non lo sa, non ha mai imparato lo scandire del giorno. 
Quando alla fine smette di piovere, se ne sta in silenzio e immobile ancora per un po’: la gente inizia a uscire dalle case, potrebbe vederlo. E allora si alza, avvolto nella coperta, cercando di nascondere il più possibile le pesanti catene di ferro, e inizia ad avanzare per le vie già affollate. Cammina lentamente, quasi timoroso, cercando di non incrociare lo sguardo di qualsiasi persona gli passi accanto: la regola del Lord è ancora chiara e ferrea nella sua mente, non riuscirebbe a trasgredirla. 
Si ferma solo quando è nei pressi del borgo, qualcosa gli ha ferito il piede. Reize lancia un lamento, osservandosi i piedi sanguinanti: è stato un coccio di vetro, forse appartenente a qualche bottiglia spaccata. C-117 lo guarda con una smorfia di dolore, si china sulla ferita e prova a fermare il sangue come può, appoggiandoci sopra pure la coperta, ma sa che è troppo profonda per poter fare qualcosa. Istintivamente strappa un lembo del pezzo della notte e se lo fascia, sospirando piano.
Quando alza lo sguardo, Atsuya è ancora sulla porta della cascina. C-117 lo raggiunge senza una parola, zoppicando tra le pozzanghere, non lo guarda nemmeno negli occhi. Lo supera senza dire nulla e quando si ritrova dentro la casa si limita a guardare il pavimento di legno, rovinato dall’acqua e dal tempo. Natsumi gli salta letteralmente al collo, gli dice che non deve farlo mai più, che si è preoccupata. Reize si chiede se dica sul serio o pensa solo alle possibili punizioni del Lord se lo avesse perso: ma no, i servi non ricevono punizioni. Ricambia l’abbraccio quasi temendola, e improvvisamente sente uno strano calore doloroso e forte invadergli il petto.
Kazemaru si scusa subito, un po’ mortificato.  Endou lo saluta con un cenno placido del capo. Sono contadini che lavorano per Lord Gouenji, dall’altra parte della città. Endou è il marito di Natsumi. 
Si sente  a disagio mentre stringe loro la mano: per quanto abbiano molte cose in comune, la differenza che li separa è abissale e indistruttibile. Non li guarda negli occhi, non lo farebbe mai, se ne sta in silenzio senza far nulla. Poi si volta piano verso i gemelli, intenti ad abbuffarsi con la torta: non sembrano essersi accorti della sua presenza. Si toglie di dosso la coperta, scrutandola attentamente: incredibilmente non c’è traccia di sangue o strappo. 
Si avvicina a loro e si accuccia, li fissa per un po’ e poi sorride, porgendo loro il pezzo di notte: - Perché non giocate entrambi a fare i Principi?
Uno di loro, il maggiore, lo guarda stupito: ha grandi occhi color cielo e capelli che ricordano la criniera di un leone tanto sono scompigliati; sembra quasi il sole, il sole caldo e luminoso che arroventa il suolo con i suoi raggi nelle giornate d’estate. Gli si avvicina e lo studia attentamente, il suo sguardo è gentile e Reize non si sente temuto: è strano, ma non spiacevole.
L’altro osserva la coperta, guardandola con quegli occhi color del mare: la gira tra le mani sempre più estasiato, poi lancia uno strillo: - Taiyou, si vedono le stelle!
Taiyou si volta verso il bambino e gli prende dalle mani la coperta. Sorride eccitato pure lui, prima di lanciarsi in un gridolino eccitato: - Guarda, una stella cadente!
I genitori li guardano stupiti, i loro sguardi si posano prima sullo schiavo e poi sui gemelli, non sapendo come commentare: a loro sembra solo una mantellina nera. 
- Oh sì, è magica. – prosegue Reize sorridendo calmo. – Nonostante l’abbia strappata e sporcata, è ancora asciutta e intatta… Me l’ha donata una dea.
- Una dea? – chiede raggiante uno dei gemelli voltandosi verso di lui. È talmente tenera la sua spontaneità che C-117 non può far altro che annuire. Si sente leggero, felice come non lo è mai stato: è bellissimo poter donare qualcosa a qualcuno, e vederlo sorridere. C-117 sente che vorrebbe poter avere molte più cose solo per regalarle.
Il pomeriggio passa velocemente, e i bambini non sembrano turbati dai tuoni al di fuori della finestra: C-117 si sente quasi a suo agio in quell’universo così lontano eppure incredibilmente vicino. 

- I bambini ti adorano! – esclama Natsumi procedendo per la via sassosa, portando la cesta già più leggera. – Dovrei invitarti più spesso, sai?
Reize sorride, cammina un po’ dietro cercando di mantenere il loro passo, per quanto le catene possano permettergli di avanzare. - È  stato molto divertente. – mormora pacificamente. In realtà è stato strano tornare indietro nel tempo e giocare come un bambino qualsiasi… strano, crudele e doloroso. Ma non vuole far sapere niente né a Nelly né ad Atsuya, entrambi troppo intenti a conversare tra di loro sui prezzi che si alzano e il tempo che, come al solito, non è dei migliori.
- Scusami Reize, chi ti ha dato la coperta? Oh, ma tu zoppichi! Che ti è successo?
Reize ignora le domande di Natsumi e scrolla le spalle, si controlla distrattamente i polsi rovinati. E poi è troppo intento a guardare dove mette i piedi, le strade sono buie e a malapena illuminate da fioche lampade appese ai muri. È già tardi: il Lord sarà già arrivato dal lavoro, lo punirà, ma ormai si è talmente abituato all’idea che quasi non se ne preoccupa.
Quando arriva davanti alla residenza del suo padrone, agli alti e austeri cancelli in ferro e le mura di pietra che sembra vogliano sovrastarlo, una sorta di ansia lo pervade, inquietandolo: è strano, è come un presentimento inconscio dell’imminenza di qualcosa di ben più terribile delle punizioni. Per questo guarda i suoi compagni entrare senza muoversi, e quando questi se ne accorgono lo osservano a loro volta con sguardo interlocutore.
- Vi devo rivelare una cosa. – mormora ad un tratto lo schiavo, il cuore sembra volergli uscire dalla gola tanto batte forte. – Non ho mai chiesto il permesso al Lord.
I due colleghi non sembrano aver una reazione particolare: Natsumi lo fissa un po’ apprensiva, Atsuya si limita ad alzare le spalle e a commentare con un “Masochista” appena mormorato. Eppure Reize sente che qualcosa di lì a poco avrebbe stravolto completamente le loro aspettative. Anche quando si voltano non osa varcare i cancelli e un giramento lo costringe a crollare seduto sulle gambe, lo sguardo perso a fissare la strada di sassi.
- Insomma, muoviti! – esclama ad un tratto Atsuya, ma solo Natsumi accorre in suo aiuto: - Ma che cos’hai, sei così strano… e sei anche tanto pallido. Meglio se vieni dentro, così ti scaldi un po’…
Reize annuisce: le sue paranoie non lo porteranno a nulla. Le sorride e si alza, lentamente entra dal retro senza dire una parola, passando per il campo deserto e immobile. Si siede su una delle sedie e Natsumi inizia a preparare un po’ di tè caldo per tutti: sembrerebbe quasi una scena naturale e quotidiana, ma a quell’ora dovrebbero essere già a dormire: si è fatto davvero tardi.
C-117 ascolta le parole di Natsumi come se le sentisse per l’ultima volta. È tardi, è spaventosamente tardi… - Ti chiedo ancora scusa per Kazemaru, a volte è un po’ indiscreto… - mormora distrattamente la donna buttando un po’ di foglie nella teiera. – Però è un bravo ragazzo, aiuta molto mio marito e sono grandi amici. Non devi essere arrabbiato con lui…
- Non lo sono…- sussurra piano Reize, e si accorge di star piangendo. Se ne accorge anche Nelly, tanto che si volta verso di lui e lo guarda stupita: - Ma che hai?
C-117 scuote piano il capo, prova ad asciugarsi le lacrime ma non ce la fa. Sorride triste e si limita a poche parole. Le ultime. – Sta arrivando.
Pure Atsuya sembra stupito, lo guarda accigliato dallo stipite. – Ma che hai…?
D’un tratto la porta della cucina si spalanca: Natsumi sussulta per lo spavento. Prova a balbettare qualcosa ma è davvero troppo tardi, non fa in tempo a dire nulla che già Lord Kira si è avventato sullo schiavo buttandolo giù dalla sedia con un calcio talmente forte da farlo sanguinare. 
E quando C-117 alza lo sguardo su di lui ha un brivido: nei suoi occhi, la stessa follia che ha percepito solo tempo addietro. Quando il freddo della morte lo aveva avvolto per la prima volta.

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Capitolo 10
*** Destiny X ***


DESTINY X
È strano.
Per la casa si sentono solo le grida di Natsumi, e nient’altro. Nessun gemito da parte di Reize, ora svenuto, nessun lamento da parte di Atsuya, immobile sulla porta. Solo le grida di Natsumi, e i passi lenti e misurati del Lord che sta salendo le scale, trascinandosi dietro il corpo apparentemente senza vita dello schiavo. Lo tiene per i capelli già imbrattati di sangue, con l’altra mano tiene la frusta che ha usato per picchiarlo. E nonostante  tutto ciò, il mondo è immobile.
Atsuya prova intanto a ricordarsi se qualche episodio del genere è accaduto anche con il suo gemello, ma davvero, non ricorda. Pensa che dovrà lavare le scale, e più di tre volte. Pensa che dovrà lavare le scale più spesso di quanto credeva.
Le scale. Quasi non si distingue il sangue dal colore del tappeto, eppure ce n’è tantissimo. Cola giù per le tempie dello schiavo, scivola per le braccia, esce dalla bocca e si infrange in piccole gocce calde e salate. E intanto Nelly urla, più forte, prova a fermare il Lord stringendolo per la manica e non ci riesce. 
Era troppo tardi.
Fubuki se ne sta in piedi invece, non si è ancora mosso. Guarda la scena ad occhi sbarrati e non osa dire nulla, non capisce nulla: sente solo le grida di Natsumi e i passi del Lord, ogni singola goccia di sangue che s’infrange sulle scale che scricchiolano e il corpo di Reize che viene trascinato su,  forse morirà davvero…
-   Proprio quello che si merita.
Sa che non è stato lui a parlare, ma quella è la sua voce. Forse un po’ roca, forse troppo inquieta per essere sua, ma la voce gli appartiene. Atsuya si volta lentamente verso S-144, in piedi sul tavolo della cucina, gli occhi vitrei e un ghigno scarlatto sulle labbra diafane. Fubuki non si muove, si limita a guardarlo: non è la prima volta che lo vede.
- È quello che si merita. – ripete lo spirito. Non guarda il gemello, fissa zuccheroso la scena che gli si presenta con impassibile gioia. – Ora morirà, e lui sarà mio.
Atsuya non commenta e si costringe a guardare in alto, in cima alle scale, dove Kira ora imbocca il corridoio, non una parola. È quasi felice che non possa vederlo in volto, non ci riuscirebbe. – Dici che accadrà così?
Le urla di Nelly ora cambiano, si fanno flebili lamenti, fino a scomparire del tutto. Atsuya sente S-144 scendere dal tavolo e sedersi su una sedia con pacata leggerezza, il tintinnio delle sorde catene è l’unico suono nella sua testa. Per un attimo vorrebbe voltarsi e trovare Reize al suo posto, Natsumi china sulla teiera e se stesso appoggiato allo stipite della porta, esattamente come qualche minuto prima. Ma quando si volta, nella stanza non c’è anima viva: anche S-144 è sparito.
Natsumi scende qualche minuto dopo, in lacrime. Non osa alzare lo sguardo, le braccia e le mani sono coperte di sangue nel vano tentativo di riprendersi C-117. – Si è chiuso in camera. Non ce l’ho fatta. – singhiozza forte, e Atsuya respira piano. L’accoglie fra le sue braccia e non dice nulla, si limita a stringerla a sé. E inizia a piangere anche lui, silenziosamente, perché fa davvero male.
Nelly invece piange forte, non riesce davvero a controllarsi: trema convulsamente e poi crolla sulle ginocchia, Atsuya l’afferra appena in tempo prima che si accasci al suolo e l’adagia piano sul pavimento. È quasi un sollievo vederla perdere i sensi, almeno quando si sveglierà sarà tutto finito.
La prende tra le braccia e sospira, portandola fino alla sua stanza e adagiandola sul letto. Le asciuga piano le lacrime che ancora scendono nonostante tutto, poi si siede accanto a lei e resta ad osservarla per silenziosi attimi. Attimi che diventano minuti, minuti che diventano ore. E più il tempo passa più Atsuya si sente pervadere da uno strano senso di pace, come se il silenzio anziché inquietarlo lo confortasse. È lo stesso silenzio che ha sentito una sola volta, sperando fosse l’ultima.
Sposta lo sguardo verso la vecchia foto appesa alla parete. – Non l’ha mai fatto con te. – mormora, come se il gemello potesse ascoltarlo attraverso quella patina di carta. – Non l’ha mai fatto con nessuno.
Dal ragazzo interpellato non giunge risposta, e Atsuya si ritrova a fissare intensamente la foto quasi volesse riportare alla vita dolorosi ricordi… riportare alla vita tutti loro. Se solo potessi raggiungerli si ritrova a pensare, e chiude gli occhi cercando di ricordare i loro volti, i loro occhi, i loro sorrisi sinceri e spensierati, l’odore di alcool e fumo gli riempie le narici come un fiume in piena, e tutto si confonde. Fabbriche abbandonate, ronde di poliziotti, blu, bianco, cielo, mare, puttane, madri, oppio, dormiveglia, sangue, spari, morte, grida, rosso nel grigio, biondo vermiglio,  risate, follia, follia, follia, follia, follia...
Atsuya viene svegliato da un grido rauco che lo fa scattare in piedi e gli fa venire la pelle d’oca. Non capisce: non è ancora morto?
Il lamento continua in un richiamo straziante e disperato, scivola giù per le scale in rabbiosi serpenti di tortura. Atsuya si volta verso la finestra, il respiro affannato per il brusco risveglio: è già l’alba. Poi guarda Natsumi, pallida come se dovesse morire, gli occhi sbarrati e fissi su di lui. 
Non osano muoversi per un tempo che a loro pare infinito: occhi negli occhi, si scambiano taciti ammonimenti e promesse. E non è uno sguardo d’amore, non è uno sguardo d’odio, è semplicemente consapevolezza di essere preda della stessa angoscia, dello stesso terrore, della stessa ansia, degli stessi ricordi.
Solo lo sbattere della porta li riscuote dai loro pensieri, segno che il Lord è uscito per andare al Ministero. Sanno che non tornerà prima di cena.
- Vado da lui. – dice subito il domestico, Natsumi annuisce e prova ad alzarsi, ma Fubuki la trattiene a letto, dicendole che non deve affaticarsi. Lei annuisce semplicemente, e chiude gli occhi ricominciando a piangere. 
Fubuki la osserva per qualche minuto, guardandola mentre si addormenta. Poi esce cautamente, come un bambino che teme il ritorno del mostro che ha visto nell’incubo appena sognato. Sale piano le scale e rabbrividisce quando, dopo essersi appoggiato al corrimano, si ritrova macchiato di sangue. Si blocca e non riesce ad avanzare, le gambe iniziano a tremargli: mai, mai avrebbe pensato che sarebbe potuta accadere una cosa del genere, e invece Reize lo sapeva, lo sapeva benissimo.
Sospira profondamente e inghiottisce un singhiozzo, pensa che non deve pensare, non deve pensare, non deve pensare… Lentamente sale anche gli ultimi gradini, e si ritrova all’imboccatura del corridoio. Un nuovo brivido percorre la sua schiena mentre constata le impronte sui muri e il pavimento incrostato; può quasi sentire l’eco delle grida che si ripercuote eterno nella sua testa. L’odore diventa insopportabile man mano che avanza, si blocca di nuovo e quasi crolla: si appoggia alla parete per sorreggersi, con una mano si tiene il ventre cercando di non vomitare. Poi inizia a lacrimare, e più prova a frenarsi più lacrima. Non si è mai sentito più vuoto in vita sua.
Percorrere gli ultimi passi, guidato dalla scia rossa, è quasi una tortura. Atsuya si ritrova davanti alla porta con il cuore che batte violentemente quasi volesse uscirgli dal petto. E l’eco è solo nella sua testa: non c’è il minimo suono, nessun lamento, nessun grido d’aiuto. Fubuki ascolta il rumore del suo respiro che si fa sempre più pesante, sempre di più, finché non riesce quasi a controllarlo: ansima forte, rumorosamente, il terrore si fa strada  nei suoi occhi grigi che saettano da una parte all’altra del corridoio. Una è rossa e l’altra bianca
- Reize, Reize di’ qualcosa. – si ritrova a mormorare. – Reize, parla. 
Il silenzio che si forma è quasi atroce, tanto che il domestico si ritrova a supplicarlo: di dire qualcosa, qualsiasi cosa, di fargli sapere se è in grado di reggersi in piedi, se sta bene, se riesce a muoversi. Eppure dall’interno della stanza del Lord non proviene risposta, e passano attimi interminabili prima che un lieve singhiozzo, appena udibile, dilani lo spazio e il tempo.
La mano di Atsuya freme sulla maniglia sporca di rosso, prova ad asciugarsi le lacrime ma non ci riesce tanto scendono copiose. È vivo, ed è la cosa che lo spaventa di più.
Scopre che la porta è stranamente aperta, al di là di tutte le sue convinzioni. La schiude piano, ma davvero, non riesce ad entrare: c’è un ricordo indelebile nella sua mente che fa troppo male per ignorarlo. Fubuki prova a regolarizzare il respiro, ma il panico continua a pervaderlo nella sua morsa famelica. Riesce a malapena a ragionare, a mettere in fila quelle semplici parole: - Reize, non ce la faccio, non ce la faccio ad aprire. Non… - Un singhiozzo - il suo - la mano che scivola verso il basso e il corpo che crolla sulle ginocchia. – Reize… - mormora piano, cercando di non tremare. – Io ho paura…
- Non credi sia illogico avere paura della propria paura?
Atsuya si volta di scatto verso la voce. Ed eccolo lì, in perfetto equilibrio su un vecchio attaccapanni di legno, quasi non sentisse la forza di gravità: le gambe incrociate e il palmo della mano delicatamente appoggiato a una guancia, il gomito sulla gamba. 
Impossibile dimenticare quegli occhi rossi: Atsuya sussulta sul posto e fissa i suoi capelli lunghi, lunghissimi, come se fossero cresciuti in tutti quegli anni e non li avesse mai tagliati. 
Il morto ride con fare disinvolto, portando al viso una mano inanellata, ricurva e deformata dalla fatica, le unghie sporche del carbone delle miniere. Poi ad un tratto il riso diventa un sorriso dolce e triste, un sorriso che Atsuya conosce perfettamente. Afuro allunga un braccio ossuto verso di lui e lo indica, ma non è per colpevolizzarlo di qualcosa, è solo per provare a raggiungerlo invano con un dito. Poterlo toccare.  – Da quanto tempo..
E solo per un attimo Atsuya vorrebbe tirare giù dall’attaccapanni il compagno, buttarlo per terra e abbracciarlo forte. Sarebbe davvero bello dimenticare tutto e rotolarsi con lui sul tappeto ridendo come un cretino. 
Ad Atsuya piacerebbe tutto questo, ma non può far altro che osservarlo mentre scende da solo e posa i suoi piedi nudi e delicati sul pavimento. Solo in quel momento si accorge che i capelli di Afuro Terumi arrivano a sfiorare persino il pavimento. 
È davvero strano averlo davanti di nuovo, un ricordo lontano e pungente, del veleno mortale e comunque irresistibile. Atsuya sente di volerlo, di desiderarlo più di ogni altra cosa: sfiorarlo. Gli basterebbe un tocco. Eppure, così come con Shirou, il domestico sa che gli è proibito farlo. 
Fubuki abbassa gli occhi sul pavimento macchiato: così come in passato, non riesce a sostenere lo sguardo di quello che un tempo è stato il suo amico e  compagno. – Non voglio che accada di nuovo. Non voglio vederlo. – sussurra in risposta alla domanda invisibile dei suoi occhi. – Voglio solo andarmene e lasciarlo lì. So che è egoistico, ma non posso farci nulla… è come…
Uno schiaffo forte. Sulla guancia. Inumano e doloroso, come mille scosse elettriche, come la forza di un uragano distruttore, come il pianto di bambini senza madre, come la neve che scende leggera posandosi su corpi senza vita. Suoni, ricordi, odori. Inumano e doloroso: Atsuya cade a terra e non prova neanche a muoversi.
Solo quando si riprende dallo shock il suo sguardo torna a fissarsi su quello del biondo. Crede di non averlo mai visto più serio e austero di così, con gli occhi che lo scrutano dall’alto come a volergli leggere l’anima. – Che delusione che sei. – mormora soltanto prima di voltarsi. E Atsuya si alza in piedi, lo guarda allontanarsi nell’ombra per un po’ prima di rispondere: - Che cosa credi che dovrei fare allora?
Sente il sospiro calmo e pacato di Terumi, lo fissa mentre si prende una ciocca di capelli e inizia a giocherellarci piano. Non si muove quando lo vede voltarsi e avvicinarsi lentamente a lui, gli occhi chiusi, quel sorriso semplice sulle labbra perlacee. – Non abbandonare i tuoi amici. – gli soffia all’orecchio Afuro quando arriva abbastanza vicino. – Ne hai persi abbastanza, non credi?
"È come morire", si ritrova a pensare Atsuya mentre lo bacia. È come morire tra atroci torture". Eppure è una morte lenta e dolce, fa male come spine acuminate di una rosa. Fubuki si sente soffocare da quel bacio dato personalmente dalla Morte stessa, come un lungo pianto straziante, come graffi dilanianti; eppure non riesce davvero a separarsi da lui. Non lo farebbe mai.
Quasi non si accorge che Afuro si è già allontanato da lui contro ogni sua volontà. È già in fondo al corridoio di sangue quando si volta e lo guarda con uno sguardo tanto dolce da farlo crollare sulle ginocchia: - Ho tutto il tempo del mondo: ti aspetterò, non avere fretta.
E mentre Terumi si accartoccia nell’ombra, tracciando orme d’inchiostro tra il sangue del pavimento, Atsuya pensa che nessuno dei due potrà attendere l’altro allo stesso modo. 

Quando Atsuya apre la porta, gli appartamenti del Lord sono immersi nel silenzio più assoluto. Nella camera da letto non c’è traccia dello schiavo: eppure il domestico è più che sicuro che Reize si trovi lì. Si guarda attorno, ma può notarne soltanto il sangue: impronte di mani sulle tende bianche nell’invano tentativo di opporre resistenza, il pavimento nello stesso stato pietoso del corridoio. Fubuki ha quasi paura di guardare il letto, decide di distogliere lo sguardo dalle testimonianze della furia del Lord. Si limita invece a guardarsi attorno e fissare quasi con paura quella stanza degli orrori.
- Reize? – chiama ma non urla, quasi temendo l’improvviso arrivo di Kira. – Reize, per favore, fatti sentire…
Forse un debole lamento, un singhiozzo, una supplica. Atsuya si volta di scatto verso la porta che dà nella Stanza degli Svaghi, sa che la voce proviene da lì. – Ma certo… - mormora, più a se stesso. – Tu sei uno svago per lui. Quindi è normale che ti abbia messo lì.
Avanza lentamente, appoggia la mano sulla maniglia ma come sospettava la porta è chiusa a chiave. – Reize, mi senti? Sono io. Ti tirerò fuori da lì… 
La voce proveniente dall’altra parte è talmente pacata e tranquilla da sembrare quasi innaturale in una circostanza simile… ma Atsuya sente anche una nota d’inquietudine e di terrore, un tremore appena trattenuto, qualche momento di esitazione. – Sto bene, non preoccuparti per me… Non voglio che tu entri, sarebbe troppo doloroso ricordare.
- Tu sai… - mormora solo il domestico, appoggiando un orecchio alla superficie e mordendosi il labbro. – Da quanto?
- Da un po’ di tempo. 
Fubuki ora appoggia solo la fronte, gli tremano le mani ma la voce non vacilla: - Che ti ha fatto? Cosa ha intenzione di farti?
Reize esita prima di rispondere, e Atsuya può sentirlo distintamente vomitare. Lo chiama con fervore, fregandosene delle sue paure, e stringe forte la maniglia quasi potesse distruggerla. Il pensiero che il suo compagno è dall’altra parte, privo di forze e chissà, magari in fin di vita, gli fa perdere completamente il controllo. – Reize!
Un brivido gli percorre tutta la lunghezza della schiena quando lo schiavo continua a parlare estremamente calmo, sembra quasi voglia fargli capire che va tutto bene… ma non va tutto bene, Fubuki lo percepisce nel lieve tremore del suo sussurro. – Ha detto che vuole tenermi qui... Finché...
Dallo schiavo non giunge più risposta. Atsuya si ritrova a indietreggiare, il cuore in gola, nell’invano tentativo di calmarsi… o di scappare. Sa che non può farlo, e invece deve. Le domande escono in una raffica improvvisa e disperata, quasi avesse perso del tutto la razionalità: vuole vederlo uscire vivo, magari in parte vegeto, ma soprattutto vivo. – Ti fa mangiare? Che significa tutto questo? Che ti vuole fare? È impazzito?
Il silenzio più atroce dissipa i suoi dubbi: Reize non parlerà, non quel giorno. Può sentire solo le sue lacrime sgorgare a fiotti giù per le guance e i suoi singhiozzi forti e irregolari che coprono ogni respiro.

Ha pulito l’intera residenza, da cima a fondo: eppure il sangue non se ne va via. Atsuya si sente impazzire mentre passa più volte lo strofinaccio sull’ennesima macchia vermiglia, tra le lacrime, mentre il mondo gli vortica attorno e gira spaventosamente. Urla, impreca, si autocommisera, ma davvero le macchie non scompaiono alla sua vista. È come se l’intero edificio si fosse cosparso del liquido rosso, come se la sua testa vedesse solo quel colore ovunque volti lo sguardo. Non sente nemmeno la voce di Natsumi che dalla soglia della cucina gli sussurra di smetterla, le risponde con urli sempre più rauchi e forti. 
Il ricordo è difficile da sopportare.
- Atsuya, ora puoi smetterla per favore? 
Fubuki si ferma, ammonito dalle parole del suo datore di lavoro, rientrato in quel momento da una dura giornata. Non osa guardarlo, né voltarsi verso di lui: lascia cadere lo strofinaccio a terra e rimane lì, in piedi sulle scale, a guardare la macchia che non se ne va, non se ne va perché non se n’è mai andata da quel giorno lontano, è sempre rimasta lì, nell’ombra…
- Hai cambiato le lenzuola? 
- Ho fatto il possibile per rimettere in ordine Milord, ma temo servirà del tempo… - mormora Atsuya guardando il vuoto, come se quelle parole in realtà non gli appartenessero. Kira sale le scale e gli passa di fianco. - Già, del tempo… - mormora soltanto, quasi pigramente. Sembra davvero una serata normale, ma Atsuya sa che tutto ciò è un’illusione terribile. – Cos’ha intenzione di fargli? – mormora soltanto senza muoversi di un millimetro.
L’uomo sembra davvero pensarci: si porta un dito all’altezza delle labbra e lo passa per tutta la loro superficie, infine lo alza in aria e si volta verso il domestico con una strana nota incrinata  nella voce: - Credo che non lo ucciderò, ma dovrà imparare a comportarsi bene d’ora in poi.
Gli occhi del Lord sono la cosa più diabolica e oscena che abbia mai visto, Atsuya ne è follemente certo: crolla sulle ginocchia ancora una volta, facendo rovesciare il secchio colmo d’acqua, e lo guarda in una sorta di trance dal quale non riesce davvero a liberarsi: un ricordo che non si può dimenticare tanto è forte… e fragile…
- Auguro una buona nottata a entrambi! – esclama Kira sparendo per il corridoio. – Ci vediamo domani alla solita ora…
Fubuki piange. Piange lacrime che non ha mai versato, ma che ora escono fuori divorate dal rimorso, dalla consapevolezza che nulla sarà come prima, dal bisogno disperato di farsi male e ricordare, ricordare, ricordare…
Pensa che dovrà lavare le scale, e più di tre volte. Pensa che dovrà lavare le scale più spesso di quanto credeva.


Angolino di hirondelle_
Non faccio mai delle note d'autore per questa fanfiction, ne sono consapevole: questo non perché non ne abbia l'intenzione, ma sono troppo pigra per farle. Anche perché pubblicando da iPad diventa un po' difficile.
Mi sembra doveroso ringraziarvi per seguire questa fic: il capitolo è abbastanza prematuro, questo perché ho ritardato quello precedente e poi... Poi... Beh, non potevo lasciarvi in questo modo. Così ho mostrato subito cosa Hiroto abbia fatto a Ryuuji.
Come avrete notato: niente scene di sesso. Solo tanta violenza. Credo che al decimo capitolo molti di voi si saranno silenziosamente fatti un'idea del tipo di fic che sto portando faticosamente avanti, quindi per molti non sarà così soprendente.
Dalle ultime recensioni ho notato però che molte di voi tendono a giustificare e commentare alla leggera le azioni del Lord: questo all'inizio mi aveva shockata, ma ora mi rendo conto che  non è di certo una cosa scontata disapprovare le azioni di questo personaggio. Del resto, la vecchia Destiny era davvero una storia romantica. Ci mettevo dentro scene semi-erotiche, la storia finiva bene. Qui invece ho voluto riadattarla a qualcosa di molto, molto più concreto... E attuale. Io stessa all'inizio della ristesura non sapevo cosa stessi facendo: avrei seguito il filo conduttore preimpostato e tutto sarebbe andato per il meglio.
Ma la cosa ha avuto un risvolto inaspettato.
Vi prego di seguirmi fino alla fine e di giudicare con i vostri occhi cosa sto cercando di comunicare. Anche se, da questo capitolo, dovrei aver iniziato a scatenare qualcosa in voi! O almeno questo era l'obiettivo.
Vi ringrazio infinitamente per il vostro supporto: ben 19 persone hanno messo questa fanfiction tra le preferite, e non potrei essere più grata. Grazie mille a tutti coloro che mi recensiscono di frequente. 
I prossimi capitoli purtroppo non sono completi, e sono anche più corti. Spero comunque di fare un buon lavoro e chissà, magari finire la fic entro l'anno.
Vi ringrazio ❤️ Buona lettura ❤️

Fay


 

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Capitolo 11
*** Destiny XI ***


DESTINY XI


- Secondo te che ha intenzione di fargli del male ancora per molto? – mormora Natsumi, seduta a un lato del tavolo. Sbuccia le patate con la stessa inesperienza di una bambina, tanto che presto si ritrova con le mani gonfie di tagli. Atsuya non l’ha mai vista lavorare così.
Lui non risponde, sospira piano e continua con il suo lavoro, muovendo magistralmente il coltello quasi fosse una parte del suo corpo. Si limita ad alzare le spalle mentre un nuovo grido atroce si propaga per la residenza facendogli venire la pelle d’oca: è quasi impossibile abituarsi all’agonia, eppure sono passati due giorni da quella sera. Atsuya è quasi sicuro che non riuscirà a dimenticarsela. Spia con la coda dell’occhio la donna, pallida e sofferente dopo giorni di digiuno e insonnia: sembra quasi malata. Sa che ogni tentativo per distrarla o aiutarla sarà vano, almeno finché il Lord non avrà liberato Reize.
Si propaga un silenzio che Atsuya conosce bene, ma che non riuscirà mai a superare. È il silenzio della Morte, lo stesso che si crea tra le ombre oscure di terrore create dalla luna, lo stesso che si posa immondo nel loro cuore turbato. Atsuya lo sente, pesante e immobile, dietro le sue spalle: è come se Shirou lo stesse osservando, come se sapesse, come se lo studiasse cercando di capire le sue intenzioni… è un’immagine talmente forte che alla fine diventa reale e lo costringe ad alzarsi in piedi appena un nuovo gemito lo fa gelare: - Non ce la faccio più ad aspettare.
Natsumi alza lentamente lo sguardo su di lui: non sembra volerlo fermare, ma Atsuya capisce che non ci riuscirebbe: è troppo debole anche solo per alzarsi. – Aspettiamo il mattino… il Lord uscirà per il lavoro e noi potremo fare le cose con calma. Per ora è meglio aspettare…
Atsuya annuisce suo malgrado: la donna ha ragione, è inutile fare azioni avventate. Si siede e non può far altro che fissare assorto il lavoro già completato, poi osserva le mani di Natsumi piene di cicatrici e il suo goffo tentativo di sbucciare tutte le patate che ancora le rimangono. – Se vuoi finisco io, è meglio se vai a riposare. Usa pure il mio letto. – mormora piano, e la donna lo guarda tra lo stupefatto e l’assonnato prima di annuire e sussurrargli un ringraziamento.
Solo quando rimane finalmente solo Fubuki chiude gli occhi e respira piano l’odore famigliare e semplice della cucina. Riaprendoli, può scrutare i tenui bagliori di una nuova alba, coi suoi colori rassicuranti e dolci. Eppure si sente nuovamente turbato, come se qualcosa ancora non andasse per il verso giusto: certo, approfitteranno dell’assenza del Lord per tentare di liberarlo, ma poi? Come faranno ad aprire la porta, liberarlo dalla prigionia, portarlo giù, pulire il tutto? Cosa avrebbero fatto qualora il Lord se ne sarebbe accorto?
Inizia a sbucciare le patate rimanenti con un vago senso di impotenza ad attanagliarli la gola. Ma sa che stavolta non potrà sfuggire al suo destino, non potrà scappare da quelle catene: dovrà affrontare la cruda realtà e prendersi le responsabilità che non ha mai accettato del tutto.
- C’è qualcosa che ti turba… - mormora piano una voce alle sue spalle. Atsuya non risponde alle parole del gemello, sa che sono frutto della sua immaginazione e che non deve ascoltarle. – Mi dici cos’è? Sono pur sempre il tuo fratellone…
Il domestico allora alza lo sguardo verso il cielo plumbeo, lo fissa tanto intensamente che ad un certo punto il suo dolore sembra sparire, spazzato via dalle lacrime silenziose che ora scivolano lungo le sue guance come pioggia autunnale.
È così strana l’alba.

È un lieve rumore a svegliarlo, un bussare sommesso e poi una voce calda. Atsuya sussulta quando ne comprende le poche ed essenziali parole, ma aspetta numerosi attimi prima di muoversi: solo quando il Lord chiude la porta di ingresso si alza di scatto dalla sedia e raggiunge Natsumi, ancora profondamente addormentata. La scrolla prendendola per la spalla non curandosi del suo sonno, le sussurra quelle parole con fare concitato, lei si sveglia di soprassalto e spalanca gli occhi.
Ha finito.
È una mera illusione quella che porta i due domestici a salire a grandi falcate le scale di mogano, attraversare il corridoio superando in rapida successione i quadri finemente lavorati. Quando aprono la porta della stanza del Lord quasi non credono ai loro occhi: è tutto talmente pulito che forse, nella remota possibilità, il rancore nei confronti dello schiavo si è diradato completamente.
È aprendo la porta che dà nella Stanza degli Svaghi che le loro speranze si tramutano in puro terrore. Natsumi grida spaventata ritraendosi di scatto, volta lo sguardo ponendosi le mani davanti al viso come a proteggersi da un’arma letale; Atsuya si limita a sbarrare gli occhi e a fissarli sulla parete davanti a lui.
Mobili rotti, poltrone rovesciate, argenteria e bicchieri di cristallo ridotti in mille pezzi, quadri di inestimabile valore in frantumi, macchie di sangue sul pavimento lacero, brandelli di vestiti: sembra che nella stanza si sia appena compiuta la più terribile delle carneficine.
E proprio davanti ai loro occhi, sporco di sangue, sta lo schiavo C-117: li guarda ad occhi sbarrati e quasi folli, come se non riuscisse a riconoscerli e si fosse dimenticato completamente di loro. Se ne sta accucciato in un angolo remoto del letto, incatenato alla testiera, incapace di divincolarsi. Atsuya lo guarda e un brivido gelido gli corre giù per la schiena fulminandolo sul posto: quelli che lo stanno guardando sono occhi che fanno paura tanto sono spalancati, circondati da occhiaie talmente profonde da sembrare finte, e rivoli di sangue gli scivolano veloci dal volto ferito infrangendosi sulle lenzuola.
Natsumi fissa C-117 senza saper cosa dire, lacrima silenziosamente tenendosi una mano davanti alla bocca… ma quegli occhi fissano Atsuya, tremanti e divorati dalla pazzia, il suo corpo
si contorce lentamente smuovendo piano le catene e la bocca è alla ricerca continua di aria, come se non ne entrasse abbastanza. Il tutto nel più completo e assordante silenzio, come se non avesse più voce per gridare. Quando Atsuya gli si avvicina sobbalza come a voler fuggire dal suo tocco, come un animale in trappola e senza via di fuga terrorizzato dal cacciatore.
- Calmo… stai calmo… - mormora piano il domestico sfiorandolo, Reize caccia un urlo e prova invano a ritrarsi. – Vogliamo aiutarti… siamo tuoi amici… ti ricordi di noi?
C-117 caccia un altro urlo più forte del precedente, nel terrore più profondo e disperato della sua inesistente lucidità. “Non è cosciente” pensa Fubuki provando a prendergli delicatamente il polso scheletrico. “Ha perso totalmente la testa”. – Me l’ha ordinato il Lord. – mormora infine, e a quell’affermazione come previsto Reize si calma, lasciandosi andare come una vecchia marionetta di pezza.
“È tutto finito” vorrebbe dirgli con gli occhi offuscati dal pianto, “è tutto finito Reize, puoi tornare a casa”. Sa che comunque lo schiavo non gli risponderebbe, sa che non riuscirebbe neppure a sentirlo. Trova la chiave delle catene in bella vista, già infilate dentro la serratura. Lo libera in pochi attimi e se lo carica sulle spalle forse con un gesto troppo brusco, dato che si ritrova in breve con la camicia sporca di vomito.
Avanza nella sporcizia con le gambe che gli tremano e tanta voglia di piangere e urlare, quasi si stupisce per il suo sangue freddo. Natsumi è sulla soglia che lo guarda silenziosamente, senza saper cosa dire o fare, immobile nella disperazione dello scenario macabro.
- Prepara il bagno Natsumi. – mormora lentamente il domestico prima di passarle accanto.
Si blocca improvvisamente quando sente un sussurro sommesso all’altezza dell’orecchio, come una litania o una preghiera: rabbrividisce quando ne comprende le parole, fredde e terribili, che scivolano dalle labbra dello schiavo. – Sono tuo, sono tuo, sono solo tuo…

Atsuya entra piano all’interno della stanza, un secchio colmo d’acqua gelida tra le mani per le spugnature: - Come sta? – sussurra piano, osservando il moribondo sul suo letto.
- Ha vomitato sangue fino a qualche minuto fa, ora si è addormentato. Trema di febbre.
Fubuki appoggia il secchio a terra buttandoci dentro un panno, annuisce piano e continua a sussurrare per non svegliare Reize: - Io ho quasi finito di mettere a posto la stanza, ma sarà dura pulire tutto.
Natsumi dopo minuti di silenzio si volta verso di lui, gli occhi gonfi. – Non riesco a smettere di piangere. È quasi patetico ma non riesco a smettere di piangere. È tutto così assurdo…
Atsuya la guarda asciugarsi le lacrime, poi si siede sul letto e resta in silenzio a contemplare il viso di Reize, fasciato per quanto possibile e ancora sporco di rosso. Basta, basta sangue vorrebbe urlare, ma non può, non riesce a farlo, perché sa che quel sangue resterà impresso nella sua mente per tutta la vita insieme a tanti volti noti e perduti per sempre.
- Secondo te perché si è comportato così? – mormora ad un certo punto la domestica, e Atsuya alza lo sguardo su di lei sussultando per lo stupore. In effetti, non si è mai fatto una simile domanda, ma del resto non sarebbe stato sensato. Eppure tutto improvvisamente ha un senso, prende forma, come se ogni cosa fosse ben definita nella sua mente. Sposta ancora lo sguardo sullo schiavo, ripensa alle parole ascoltate poco prima, si chiede se siano state opera del dolore e della disperazione ma non riesce a crederci. – Gelosia. – mormora infine, senza smettere di fissarlo. – Pura gelosia. Non sopportava l’idea che lui fosse andato in giro senza il suo permesso, ma non propriamente perché gli avesse disubbidito… il suo è un desiderio possessivo e quasi folle, lo divora. Sapere che il suo giocattolino ha incontrato altre persone evidentemente l’ha mandato fuori di testa.
- Gelosia?! – grida stupita la donna ignorando il lamento del malato al suo tono di voce. – Stai dicendo sul serio? Diamine, era una festicciola di famiglia!
- Lui non lo sapeva.
Natsumi si blocca a quelle parole, si siede anche lei e sussulta quando Reize sputa altro sangue, vischioso come la morte. Si affretta a ripulirlo e a mettergli la pezza gonfiata dall’acqua sulla fronte bollente, ma capisce che non potrà fare altro per lui: dovrà semplicemente aspettare. Il senso di impotenza improvvisamente la opprime, la consapevolezza che tutto ciò è accaduto per causa sua la riduce al totale silenzio. Solo le cupe considerazioni di Atsuya la riportano alla realtà, ad alzare lo sguardo su di lui: - Se non chiamiamo un medico questo qui ci resta secco.
È vero, non possono fare più niente per lui… ma la domestica dubita fortemente che un medico acconsentirebbe di curare uno schiavo come lui. – Non accetterà mai. – mormora fissando il veloce e ritmico respiro di C-117, e una bolla d’ansia le scoppia nel petto: va troppo veloce, si fermerà.
- Lo pagherò io. – ringhia Atsuya, sembra determinato ma forse troppo fragile: un vaso di coccio pronto a cadere e rompersi al minimo scossone.
- Con quali soldi? – sospira piano lei limitandosi a guardare lo schiavo.
- Con il mio stipendio. Tre mesi basteranno?
Lei si volta verso di lui, sbarra leggermente gli occhi: - Stai parlando sul serio?
- Mai stato più serio in vita mia.
Ad un certo punto lo nota: un luccichio nei suoi occhi di perla. È convinzione, è paura, è puro rimorso, è un uragano di emozioni e sentimenti, una stella che brilla incessante nel cielo più buio pronta per spegnersi. Natsumi ha quasi paura di lui.
Lo guarda sul serio come se fosse la prima volta: i capelli scompigliati e sempre ribelli tendenti al rosso, la pelle chiara e giovane ma le occhiaie fonde dovute a notti insonni, mani rovinate dai calli, tanta voglia di vivere, troppa di piangere, davvero troppa per contenerla; occhi grigi di tempesta, corpo esile pronto per essere spazzato via dal minimo refolo di vento. Lo fissa mentre si infila il giaccone sgualcito, pronto per uscire nella pioggia di fine estate. Non si sorprenderebbe se non lo vedesse mai più, eppure sa che questa volta non scapperà.
- Ti aspetto. – mormora sorridendo tra le lacrime, e Atsuya la guarda in silenzio per numerosi attimi prima di uscire dalla stanza. Natsumi conta i passi che lo portano fuori dalla porta della cucina, uno per uno: otto.

Natsumi sussulta dal suo dormiveglia, fissa attentamente il corpo dello schiavo: sembra stare meglio, ma non si è ancora svegliato. Atsuya pensa che morirà, perché ha il respiro corto e le ossa rotte, ma nessuno ci crede veramente… e forse sentire il suo nome a malapena sussurrato da quelle labbra gonfie è stato frutto della sua speranza vana. Eppure lei resta in attesa, fissa le sue labbra e il suo flebile respiro, e ne ha la certezza: Reize si sta svegliando. Lo capisce dal muoversi impercettibile delle palpebre e dai piccoli sussurri che sente appena impercettibili, lo spasmo delle dita.
Ecco che due occhi neri, pure ossidiane, fanno capolino. Tanta è la gioia che Natsumi si precipita da Atsuya, gridando forte e ridendo quasi. Il domestico si alza dalla sedia della cucina e lascia il lavoro a metà, pensa che in fondo la cena del Lord può decisamente aspettare. E quando vede C-117 muovere appena la testa ogni suo dubbio si dissolve: sopravvivrà, sopravvivrà davvero.
Lo guarda assorto mentre solleva una mano fasciata e se la contempla, quasi stupito, in una sorta di muta stupidità, e il domestico prova a parlargli… ma C-117 non sembra voler rispondergli, tanto è preso dalla sua osservazione. A un certo punto li fissa inespressivo, poi mormora qualcosa che nessuno dei due riesce a comprendere. Solo qualche minuto dopo sembra riacquistare lucidità.
Si passa una mano sulla fronte fasciata e infine prende a respirare, piano, con un sospiro grande e liberatorio. Atsuya sorride sollevato: è davvero tutto finito.
- Che cosa brutta. – si limita a mormorare lo schiavo lasciando scivolare il braccio sugli occhi. - È stata davvero una cosa orrib-
I domestici si allarmano appena si accorgono sella sua espressione vacua, la frase troncata a metà come se le forze lo avessero abbandonato per sempre, ma C-117 sembra riprendersi dalla trance con rapidità fulminea.
- Come ti senti? – gli chiede cauta Natsumi fissandolo con attenzione. Reize fa un sorriso bieco e chiude gli occhi, non risponde.
- Mancava davvero poco e lasciavi questo mondo. – borbotta soltanto Fubuki guardandolo storto, incrociando le braccia al petto.
C-117 continua a sorridere, gira la testa d’un lato e sospira: - Avrei preferito, a dire il vero…
Atsuya si è accorto che c’è ancora qualcosa che non va: ogni tanto il suo sguardo torna vacuo e inespressivo, talvolta lascia le frasi a metà. Non è ancora nel pieno delle sue facoltà, gli ci vorrà del tempo per riprendersi. - Hai ancora quattro giorni per tornare in te, cerca di tenerlo a mente. – sbotta cercando di mantenere un atteggiamento distaccato, ma non ci riesce e si ritrova a sospirare di sollievo: è finita, davvero finita.
- Quanto tempo sono rimasto incosciente? – chiede piano lo schiavo, la vista che a tratti gli si appanna.
- Una settimana e tre giorni. – gli risponde Natsumi, è felice e si vede, anche se un po’ preoccupata.
- Quindi mi ha dato due settimane…
- Inizialmente te ne aveva data una, ma abbiamo protestato. – spiega la donna con un sorriso. – Ora però stai meglio. Riposati ancora un po’, devi recuperare le forze. Per festeggiare vado a preparare un po’ di zuppa! – esclama poi determinata, e si fionda in cucina. Reize è felice per lei, vorrebbe poter vederla sorridente sempre.
Si rende conto di non essere in grado di muoversi, il minimo gesto gli strapperebbe un urlo di dolore e preferisce evitare. Si abbandona tra le lenzuola familiari del letto di Atsuya e lo guarda di sottecchi, concentrandosi sul suo respiro come se non fosse in grado di reggerlo. Il silenzio che si forma è inequivocabile.
- Smettila di fare il cretino. – sussurra piano Atsuya. – Non sai quanto ci hai fatto tenere sulle spine. Pensavamo che saresti morto. E smettila anche di fingere, si vede benissimo che stai male.
Reize a quel punto stende le labbra, lo guarda e si limita a un sussurro: – Anche tu dovresti smette-… - inizia, ma di nuovo le ombre lo assalgono, il buio prende forma e da incubo diventa realtà. La sensazione scompare così com’è arrivata, si ritrova di nuovo nella stanza di Atsuya. È come morire e tornare indietro, pensa distrattamente, stropicciando le lenzuola con le dita fasciate.
- Cosa ti diceva mentre… mentre ti torturava?
La domanda è esitante, cauta, come se Atsuya non volesse davvero una risposta. Reize lo fissa attentamente, l’altro non osa guardarlo e posa i suoi occhi sulla foto appesa al muro. – Diceva… che sono suo. Che sono suo e di nessun altro… Nessuno può toccarmi tranne lui. È stato… difficile. – mormora soprappensiero. – Piangeva e… sembrava davvero triste.
Fubuki a quelle parole si volta di scatto, sorpreso ma non irritato da quelle parole preoccupate.
C-117 sospira e torna a fissare il soffitto con le sue macchie di muffa. – Lo guardavo e… mi sentivo vuoto. È stato indescrivibile. – sospira poi, chiudendo gli occhi e lasciando che una tenera e debole lacrima scivoli lungo il suo viso ferito. – E… lo sai? Mi implorava di amarlo.
A quelle parole Fubuki sbarra gli occhi sbalordito e confuso, in parte addolorato: - Lui… cosa? – mormora senza comprendere, troppo esterrefatto per arrabbiarsi davvero con lui.
- Lo so, è strano. Mi implorava di amarlo, piangeva, mi dilaniava e io gridavo sempre più forte. Continuavo a dirgli che non era possibile, e lui si arrabbiava con me e… - Reize si passa distrattamente la mano sulla guancia, dove il suo nome è ormai sparito, coperto da una ferita profonda. Entra nella trance e torna indietro, come un’onda che s’infrange sugli scogli e poi si ritira lasciando dietro di sé pozzanghere di spuma. - È stato così triste… non so dirti chi dei due stesse più male.
Il silenzio scivola nella stanza come un serpente dalle voraci spire, pronto a divorare e dilaniare qualunque cosa: sentimenti, dubbi, segreti… tutto. E mentre Atsuya guarda Reize può sentire distintamente una sensazione spiacevole nascergli nelle viscere, lasciandolo solo e immune all’atroce dolore. – Tu gli hai detto di sì? – mormora piano, non riuscendo a trattenersi. – Hai detto di amarlo? È per questo che ti ha lasciato andare?
- Io non lo amo. Come posso amare una persona tanto meschina? E al contempo sento di appartenergli più di ogni altra cosa al mondo. – sussurra piano lo schiavo, si passa una mano sulle labbra come a voler portare alla mente quei baci incandescenti e possessivi. – No, non gli ho mai detto nulla.
Fubuki si alza, la sedia cade sul pavimento con un tonfo sordo. Reize comunque non osa voltarsi verso di lui, fissa il soffitto macchiato di muffa e sospira, annebbiato dai pensieri. Non sposta lo sguardo sulla porta quando questa sbatte violentemente, si limita a sussurrare tra sé quella vecchia e dolorosa cantilena.

 

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Capitolo 12
*** Destiny XII ***


DESTINY XII


Atsuya ricorda.
Ricorda con una facilità opprimente.
È un meccanismo mentale semplice, in realtà: un suono, un odore, un colore. Qualsiasi essenza sia insita nelle cose, è compito della memoria strappargliela e ricucirla in un pensiero. E i pensieri del domestico non sono felici, si perdono anzi in un passato oscuro e tormentato, immerso nella penombra di una vecchia fabbrica dimenticata, non lontana dal porto.
Ecco che l’uomo non è più accanto al capezzale dello schiavo, ma si è già immerso in quell’atmosfera leggera e delicata tipica del risveglio. Forse si è addormentato, perché in un attimo i suoi occhi dalla fissità muta sulla foto sbiadita hanno preso a viaggiare per luoghi che credeva perduti per sempre. E si risveglia con la semplicità dei suoi sedici anni e con lo stesso rito quotidiano: Afuro che lo bacia, assaporando lentamente le sue labbra, che gli sorride divertito e poi si piega a baciare sulla fronte anche suo fratello. – Buongiorno. – ridacchia, i capelli biondi sfiorati appena dalla brezza marina che entra da uno squarcio del muro alle sue spalle. – Avete dormito bene?
È ancora notte. Atsuya può sentire il rilassante suono delle onde arrivare alle orecchie e precipitarsi a capofitto nel suo cuore, mentre Shirou si sveglia più lentamente di lui, lamentando un vago senso di fame. Nell’oscurità, si mette seduto riconoscendo a tentoni lo scomodo ammasso di reti sul quale ha avuto la malaugurata idea di coricarsi. – Insomma. – risponde, ma ha affrontato situazioni anche peggiori e non si lamenta.
Afuro si alza in piedi e Atsuya scorge appena il profilo verniciato dal pallore lunare: lo guarda raccogliersi i capelli sensibilmente lunghi nella sua crocchia imperfetta e lo sente ridere lieve, anche lui un po’ assonnato, rivolgendogli un’occhiata come al solito divertita. – Quando vi svegliate avete la stessa identica espressione da rincoglioniti. Siete proprio due gocce d’acqua.
Atsuya si toglie una scarpa solo per tirargliela dietro e il ragazzo imita una buffa fuga, caracollando sulla banchina, i piedi nudi e pallidi di freddo. Ha un fascino particolare mentre si volta e rivolge loro una smorfia di sfida. – Sbrigatevi, vi aspetto al molo!
I gemelli fanno appena in tempo a stiracchiarsi e a infilarsi i primi vestiti puliti che trovano prima di uscire, cercandolo con lo sguardo: Terumi è già salito sulla scassata scialuppa abbandonata che hanno adottato senza burocrazia. Afferrano le canne da pesca appoggiate al muro, il barattolo delle esche e due casseruole di plastica rigida, raggiungendolo tra sbadigli e mugolii.
Afuro rivolge loro un’occhiata di disapprovazione, ha già sistemato le reti e il motore che hanno montato nella parte posteriore scoppietta allegro riempiendo il silenzio con il suo borbottio. Atsuya prende il timone, l’espressione ancora corrucciata dal sonno, e Shirou si accuccia accanto a Terumi, il quale non manca di palesare la natura del loro rapporto appoggiando la testa sulle gambe del rosso e avvicinando a sé il maggiore dei gemelli. – Dormi in piedi. Ti sei intrattenuto troppo con quella prostituta francese, non è così? Shirou è troppo buono per aspettarti fuori dal bordello ogni volta.
Il minore dei Fubuki, punto sul vivo, si limita a guardarlo truce: il sesso è una debolezza che ha scoperto da poco, guidato da quelle stesse mani che ora accarezzano teneramente la capigliatura argentea di suo fratello. – Non sei la mia balia. – afferma, perché in un certo senso è lui che di solito deve dargli un’occhiata.
Afuro ghigna. È quasi sicuro di sapere cosa sta per dire. – Oh no. Io sono il tuo amico speciale. Non è così? Quelli li so fare meglio io di una prostituta francese.
Shirou ride ancora mezzo assonnato, e Atsuya vorrebbe solo tirargli l’altra scarpa e sbollire la testa sott’acqua. – Sta’ zitto e prepara l’esca.
Afuro si limita a ridere sguaiatamente, stringendo a sé il maggiore dei gemelli come se l’altro non esistesse. – Ah, Shirou! Come faremmo senza la tua proverbiale pazienza?
Al più piccolo dei Fubuki non sfugge la risata del fratello a quelle parole: un po’ assonnata, un po’ intorpidita, ma anche un po’ triste. Lui del sesso non può saperne molto, perché semplicemente non ne è mai stato attirato. Non gli importa nemmeno di provarci, a farselo piacere, gli importa solo stare accanto a lui: a proteggerlo, a sorreggerlo, a consolarlo dalle litigate con Terumi.
Quando presentano il poco pesce al banco del porto l’espressione del pescivendolo è arcigna, ma pacata. Riescono, con qualche gioco di furbizia, a trattare la loro caccia infruttuosa con un pacchetto di sigarette e un paio di lacci per scarpe.
- Che schifo. - commenta sgraziato Terumi, una volta allontanatisi, quando accende uno di quei tubicini di carta ed espira solennemente una quantità generosa di fumo bianco. Anche Atsuya ne prova una, e arriccia il naso constatando che il compagno ha perfettamente ragione. “Brutto affare”.
Dopo pranzo, lui e Afuro fanno l’amore – sì, effettivamente è più bravo di quella prostituta francese, perché se di lei ricorda appena i gemiti esagerati di Afuro ricorda tutto: quel suo modo di muovere il bacino sul suo sesso, la pelle candida e imperfetta, i sospiri trattenuti e silenziosi, e l’espressione estatica dell’orgasmo. Quel suo sorriso sbarazzino quando finiscono e non ne hanno ancora abbastanza...
Shirou li aspetta fuori, come ogni volta: sorride quando li vede, senza imbarazzo. – Quanto vi invidio. – dice, alzando appena le spalle al suo rimprovero imbarazzato, lo sguardo distante e fisso sul mare calmo. A lui non è mai interessato il sesso. Lo ha sempre evitato con diffidenza e malinconia.
È la loro ultima giornata insieme: il loro ultimo bagno spensierato tuffandosi dal molo, i loro ultimi baci, le loro ultime risa.
È la loro ultima giornata prima di essere rapiti in una notte senza luna e separati per sempre, tra le lacrime e gli strepiti e le grida di dolore. Può sentire ancora la voce di suo fratello stringerlo in un ultimo abbraccio: forte, soffocante, immerso nel buio di una stanza sporca e umida. Afuro è stato appena strappato dalle sue braccia inerti. – Andrà tutto bene. Ci rivedremo ancora una volta. – E quella è la voce flebile di Shirou che cerca di coprire le sue urla disumane.
E chi se lo aspettava, pensa Atsuya aprendo gli occhi pieni di lacrime sulla sua vecchia stanza buia, chi se lo aspettava che lo avrebbe davvero rivisto, quattro anni dopo, incatenato e costretto da quell’orrenda follia bestiale, gli occhi colmi di orrore e inconsapevolezza?
Non smette di piangere, nemmeno quando nota che il letto accanto alla sedia è rimasto vuoto. Per una volta, vuole solo lasciarsi andare. Per una volta, vuole solo ripercorrere i suoi passi incerti.
Per una volta, vuole incontrare quello sguardo spento: non l’aveva neanche riconosciuto.

È una luce tremolante quella che si riflette sulla carta da parati, la luce della candela che si scioglie lentamente sotto il suo sguardo pigro, mentre con le dita candide e delicate sfoglia piano il suo libro preferito. Fuori i rombi della tempesta squarciano il silenzio con lame sottili e taglienti, come fruste pronte a fendere l’aria in luminosi e abbaglianti fari: i lampi si susseguono senza posa in un’orchestra diretta magistralmente, la pioggia batte forte sui vetri come a voler irrompere violentemente in casa. Kira sente di amare tutto questo, sente di adorare e conoscere perfettamente le urla e i pianti feroci del cielo, e sorride ogni qualvolta sente i brividi scendergli giù per la schiena: intensi, come scintille di emozione o scariche elettriche pronte a bruciare.
Quanto ama la notte, quanto adora i temporali: l’essenza del tormento, il caos, il buio, ma in un certo senso anche la rinascita dopo la morte. È come se fosse appena rinato, Kira, immemore delle notti di pianti e sangue appena trascorse. br /> Non si accorge quasi della figura che lentamente apre la porta e s’intrufola nella stanza lasciandosi la porta socchiusa alle spalle, ma quando un fulmine ne illumina il viso Kira sorride fra sé: - Ti sei svegliato. – mormora solo, prendendo dal comodino uno dei numerosi segnalibri. Hiroto ha sempre amato collezionare segnalibri, eppure non ne ha mai usati moltissimi. – L’ho detto io, che una settimana bastava. – continua piano mettendo il segno, e infine si volta a guardarlo, umettandosi le labbra con un guizzo della lingua.
Lo schiavo non risponde, si avvicina piano. Solo quando arriva accanto al matrimoniale sul quale Kira è semi-disteso si ferma e lo guarda negli occhi. Basta un cenno del Lord per farlo stendere accanto a lui, tra le lenzuola: Reize si fa avvolgere dal suo abbraccio caldo e non parla, lascia che le sua mani candide gli sfiorino il petto, le mani, le braccia, le garze ancora intrise di sangue. Può sentire la sua voce limpida sussurrare il suo nome, calma e dolce, eppure terribilmente atroce e cattiva. – Ti ho fatto tanto male… - constata solo il nobile stringendolo a sé con intima delicatezza, un contatto che C-117 non riceve da tempo. Si accoccola maggiormente tra le sue braccia nude respirando piano. – Atsuya non vorrebbe che fossi qui, dice che devo ancora recuperare le forze.
Hiroto ride, gli alza il mento e gli posa un bacio sulla fronte. – E tu sei venuto lo stesso? Mi sorprendi. Non me lo merito. – mormora piano, socchiude gli occhi e ride ancora. Poi si sporge oltre la sua spalla, prende dal cassetto un oggetto che tintinna piano: a quel rumore C-117 si irrigidisce e si stringe maggiormente al suo petto, rimanendo a contatto con la sua pelle fresca e nivea. Il Lord sembra accorgersi del suo tremore, perché gli sorride e lo bacia ancora, sensuale e mellifluo. – Ti devo rimettere le catene, altrimenti che schiavo saresti? – mormora piano, e gli accarezza qualche ciocca sfuggita alla benda che gli copre la fronte.
Lo schiavo non osa aprire gli occhi mentre sente il ferro stringersi sui suoi polsi, non respira quasi quando il collare si chiude attorno al suo collo. Suo, di nuovo, e stavolta per davvero. Gli sfugge qualche lacrima, ma non dice nulla quando Kira si appresta a baciarlo, stavolta sulle labbra, e la sensazione di proibito attanaglia Reize nella morsa dell’innocenza.
- Da quanto tempo… - sussurra piano il Lord, ma lascia cadere la frase, impossessandosi della sua pelle. C-117 chiude gli occhi e si lascia cullare, perché è vero, è passato troppo tempo dall’ultima volta. Lentamente si lascia cadere tra le lenzuola, su di lui l’immagine sfumata e confusa del Lord che dolcemente si spoglia della vestaglia. Ed è così strano guardarlo sotto un’altra prospettiva, con le parole di quelle notti accese luminescenti nella memoria, con le sue lacrime che ancora gli bagnano le mani. Reize si sente affogare in quel mare acquamarina ed è sicuro che mai, non vorrà mai tornare in superficie. Sospira piano quando sente le labbra del Lord sul suo collo, geme implorando il suo nome, gli prende i capelli e li tira leggermente, chiudendo gli occhi.
E di nuovo quelle parole lo feriscono da dentro, sussurrate appena, forse con più lucidità ma non con meno desiderio: - Amami.
Lo schiavo spalanca gli occhi, li punta sulle iridi dell’uomo. S’immobilizzano, il fiato corto e il cuore che batte forte: Reize appoggia una mano sulla guancia del padrone, delicatamente, come per non ferirlo. La sente bagnarsi di piccole lacrime, e può sentirlo a malapena mentre sussurra parole che fanno male, che lo intimoriscono perché sono incredibilmente grandi. – Amami. Non ce la faccio più, qualcuno mi ami.
Reize gli passa una mano tra i capelli, un gesto che rassicura il padrone e lo rilassa. Si accascia stremato sul suo corpo bollente, le mani che stropicciano le lenzuola e il fiato che viene a mancare, deboli singhiozzi soffocati sulla sua pelle bruna. Reize resta in silenzio, continua ad accarezzarlo e non dice nulla: è diverso da qualche sera prima, come se assieme alla follia fosse scomparsa ogni traccia di volontà, per far spazio a un barlume umano di disperazione. Ma le ferite bruciano ancora, vive come il fuoco, prive di compassione: oltre alla tristezza, si rende conto, c’è anche tanta rabbia. – E come posso amarti? – chiede, e il gelo lo pervade nella morsa dell’odio, - Come posso amarti, come puoi pretendere il mio amore dopo tutto ciò che mi hai fatto passare? Sono solo uno schiavo. Non capisci?
Kira sussulta nel suo abbraccio, si stringe a lui rincorrendo un pensiero disperato. – Io... Non sapevo cosa stessi facendo. Mi dispiace, Reize, mi dispiace così tanto...
C-117 sospira, chiude gli occhi e si abbandona tra le lenzuola: dai capelli passa ad accarezzargli il collo, le spalle, le braccia, fino a raggiungere le mani. Le stringe con delicatezza, un altro respiro, e con un colpo di reni lo sovrasta. Tanta è la sorpresa del Lord che quasi non riesce a riconoscerlo quando si specchia in quelle iridi grandi, occhi acquamarina che lo scrutano senza malizia, bensì con un’insolita e innaturale impotenza. Si chiede quante volte lui lo abbia visto così a sua volta, inerte e sottomesso, incapace di reagire. Lo schiavo gli sfiora una guancia imperlata di lacrime con il dorso della mano, scivolando tra le sue cosce come se fosse la cosa più naturale da fare in quel momento. Non se ne accorge neanche, semplicemente mantiene quella gara di sguardi deciso a vincerla.
La consapevolezza che Kira si stia fidando ciecamente dei suoi gesti lo fa rabbrividire di ribrezzo: è questo, per lui, l’amore? La sottomissione, la violenza? Cosa ha passato, si chiede, per pensare che questa cosa fosse del tutto naturale? Cosa lo ha spinto a tanto?
Reize assesta una prima spinta: l’agonia è breve, ma gli strappa un urlo atroce. Il Lord afferra le lenzuola con tutta la sua forza, mentre le lacrime scendono copiose: - Non lasciarmi… ti prego, anche tu... Non lasciarmi... Sono così solo, così solo...
Reize gli bacia una guancia, sente la sua pelle morbida e delicata sotto le sue labbra: ne esplora i contorni, le sfumature, lo sfiora con delicatezza. Viene travolto subito dal suo inebriante e indimenticabile profumo di lavanda. – Lascia che ti spieghi una cosa… - mormora, soffocando i suoi gemiti acuti con un bacio. Non ne avrà mai abbastanza, non sarà mai abbastanza. - … Amare non significa possedere.

Atsuya muove pochi passi verso la figura. La osserva, sembra riconoscerla, ma pare solo un’impressione. Fissa i suoi occhi grandi, terrorizzati, le catene inerti lungo il corpo nudo e segnato da cicatrici indelebili. I capelli grigi, strappati, scivolano giù lungo la schiena in unte ciocche disordinate, la bocca è contornata di lividi e chiusa nel mutismo. – Shirou... – sussurra, ma la creatura non si muove, limitandosi a fissarlo d’un lato, come un animale pronto a scappare al primo gesto affrettato. Cautamente, senza far rumore, si avvicina a lui fino ad arrivare a un passo di distanza. Un passo, basterebbe, un passo per stringerlo, afferrarlo e scappare dalla porta da dove è appena entrato, trascinato dalle viscide mani del suo nuovo padrone. È un regalo per il figlio. È questo che è diventato: un oggetto. Ed è inutile che provi a sperare di trovare nel suo sguardo una traccia di quello che era strato prima di essere soggiogato dalle droghe, dalle catene e dalle botte.
Ci vuole coraggio. Ci vuole coraggio per aprire le labbra in un sospiro muto, richiuderle e poi balbettare di nuovo, stavolta con un filo di voce. – Ciao. – trema, non rintracciando nessuna reazione. – Non ti ricordi di me?
Lo schiavo scuote la testa violentemente, nel terrore crudele nel quale è stato costretto a vivere per troppo tempo. Cerca un altro sguardo, quello dell’anziano padrone che lo sta per trascinare lungo le scale. Il tempo sembra fermarsi, Atsuya vorrebbe solo che lo facesse sul serio. – Sono io. Tuo fratello.
Di nuovo scuote la testa, pochi sussurri concitati, come se stesse parlando a se stesso in una sorda cantilena: no, no, no, no, no...
Lo vede salire le scale, incespicando sui suo stessi piedi, lo sguardo vuoto e catturato indissolubilmente al suo per l’ultimo messaggio, prima che venga di nuovo divorato dal guscio d’oblio nel quale è stato costretto a rinchiudersi.
Non posso.

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Capitolo 13
*** Destiny XIII ***


DESTINY XIII


C-117 fissa senza espressione le macchie di sangue, come se appartenessero a una dimensione completamente estranea. Accarezza con il dorso della mano il suo fianco segnato dai graffi, piano, per non fargli male, e appoggia la fronte sulla sua schiena, respirando l’odore di sudore e sesso che ancora impregna i suoi capelli: vi affonda il viso, un bacio sulla cute, poi torna a posare il suo respiro sulla sua pelle candida. È incredibile il contrasto che la loro pelle rivela, come un tacito equilibrio.
- Fa male. – sussurra Kira di nuovo, coprendo i singhiozzi sotto le lenzuola. Reize gli bacia il collo e gli cinge la vita con le braccia, come a voler imitare il goffo tentativo di consolarlo. Ed è strano, perché è mortificato davvero e vorrebbe che tutto sparisse in un attimo: il dolore, la sua follia, le macchie di sangue, le lacrime del Lord. Lo stringe a sé e non sa bene cosa fare: è consapevole di quanto tutto ciò sia terribilmente sbagliato, ma Kira non sembra voler allontanarlo: anzi stringe convulsamente le sue mani, in una tacita richiesta di aiuto, mentre intreccia le gambe con le sue. Restano così, petto contro schiena, ad ascoltare respiro dopo respiro la notte che scivola via, ad assaggiare gocce di mare, a sentire l’odore dell’altro. D’un tratto il Lord tende il collo, come a voler chiedere silenziosamente un altro bacio: Reize sente una morsa allo stomaco quando posa le labbra sulla superficie bianca.
- Cos’è stato? – Un sussurro, una preghiera. – Cos’è stato, Reize?
Non parla. Non sa nemmeno lui la risposta. Gli sembra di essere sospeso tra due realtà differenti: è l’equilibrio che si è spezzato, lasciando solo i cocci con cui ferirsi mortalmente. – È quello che fai a me. Ogni notte. Ti piace? – Quasi non si accorge che le labbra si sono aperte da sole con quella frase provocante e terribile. Singhiozza, anche quando il Lord prova a divincolarsi dalla sua stretta disperata. – No, io non sono così. Vero Reize? Io non sono così. Non sono così. – Il sussurro si tramuta in un urlo. Reize stringe la sua vita sempre più forte, fino a fargli male. Sono entrambi troppo deboli per lottare, troppo sopraffatti dal dolore per reagire. Reize molla la presa e il Lord si rifugia dall’altra parte del letto, rannicchiandosi come se potesse bastare. Grida ferocemente, nella follia nella quale si è rinchiuso per sfuggire dalle sue mani. – Vattene via. Vattene via. Vattene via. – continua a ripetere, la voce affievolita e acutizzata dal respiro irregolare. Quando Reize prova ad avvicinarsi, Hiroto lo colpisce così forte da farlo cadere dal letto.
Si alza lentamente e lancia un lamento di dolore, crolla sui gomiti e stringe i denti, nell’amara consapevolezza che tutto ciò non può che essere un incubo. Calde lacrime scivolano dal suo volto sudato, le gambe gli tremano e non riesce ad alzarsi, non riesce ad andare via da lui.
E intanto Kira trema, trema e non riesce a controllarsi. Continua a lanciare urla disperate. Reize si trascina fuori dalla porta con gli occhi offuscati dal pianto, si appoggia alla porta e scivola giù, fino a rannicchiarsi su se stesso e piangere in completa libertà, senza curarsi dei singhiozzi che risuonano per il corridoio buio.
Le macchie di sangue coprono ancora la parete come mostri appostati nell’ombra.
E non sa per quanto resta in quella posizione, col timore di essere scoperto da Atsuya ed essere rimproverato. Vorrebbe urlare le sue paure al mondo, i suoi più atroci dolori, la sua più completa disperazione: sa di stare impazzendo, e non c’è più tempo ormai per lui.
Si alza barcollante, con le ultime forze che gli rimangono: si sente stordito, le immagini del Lord ancora indelebili nella sua mente, il suo volto straziato dalla sofferenza, le sue lacrime, la sua voce rotta. Il suo corpo latteo e ora imperfetto, deturpato, sporcato dalle sue mani callose e voraci. Reize durante tutto il tragitto se le guarda assorto, come se davvero potesse vedere quelle bocche divoranti.
Accompagnato dalla luce calma della sua luna, dal rumore dei suoi passi e dalle sue nuove catene che strisciano pesantemente sul pavimento, si sente totalmente sperduto. È strano come il terrore di poco prima sia sparito completamente, cancellato dall’indecisione. E ora? Verrà ammazzato? C-117 se lo chiede, osservandosi le dita ossute e storte dopo anni di lavoro in miniera. È davvero tutto finito per lui?
Scende le scale con calma glaciale, fino ad arrivare in cucina. La trova deserta, ma Reize non si stupisce: è probabile che Atsuya se ne sia andato, in qualche bar magari, per spendere le ultime monete che gli sono rimaste con una buona bottiglia di alcol.
Alza lo sguardo sulle stelle del cielo che si intravedono dalla porta che dà sull’esterno. Improvvisamente guardare fuori gli mette addosso un terribile senso di claustrofobia: si ritrova a fare qualche passo tra l’erba già alta, tra i fiori rossi quasi appassiti e le prime foglie che iniziano a morire e cadere. C-117 guarda quella desolazione come se in un certo senso gli appartenesse, sfiora quei fiori prossimi alla morte come se volesse curarli. È strano, continua a piangere: eppure è un pianto silenzioso e lento, di quelli semplici che ti fanno battere forte il cuore ma da fuori appaiono come una cosa semplice.
E mentre avanza in quel mare nero di morte, mentre si addentra tra le spire del bosco, mentre si rende conto che le stelle fluttuanti non sono più visibili nelle tenebre, capisce che per lui è arrivato davvero il momento di andarsene. Sa che sarà una morte dolce, calma, soffice. Sarà una morte color acquamarina, fatto di sorrisi biechi e di risate cristalline, di note al pianoforte e di lacrime nere. Reize quasi sorride mentre si fa avvolgere dall’abbraccio pacato della notte: si accuccia e rimane lì, lo sguardo fisso nel vuoto, per attimi interminabili. Non riesce a respirare. Cammina, si ferma, si rannicchia. Lo fa fin quasi a perdere la cognizione del tempo e dello spazio, come un rito.
Un fruscio alle sue spalle, una risata e un mormorio. C-117 si ferma e alza appena il capo, a fissare i maestosi alberi che proiettano ombre inquietanti sul terreno. C’è un’ombra ai suoi piedi che prima non era visibile. – Sei venuta a prendermi? – sussurra semplicemente, voltandosi appena senza volerla guardare. La creatura ghigna un po’, poi parla: è una voce da ragazzo, calma eppure ruvida come la sete, come la fame, come il freddo che attanaglia la gola dei poveri. – Dipende da te.
Reize si volta, osserva assorto la figura stesa su un ramo in precario equilibrio: i capelli lunghissimi e biondi splendono alla luce notturna e cadono aggraziati come a voler toccare terra, la pelle cadaverica e spettrale sembra sfaldarsi sotto le sue lacrime di petrolio. E quegli occhi, rossi come il sangue e terribilmente reali, come urli di morte nel più completo terrore di tenebra. Lo schiavo fa un passo indietro come accecato dalla sua luce: è dunque questa la morte?
Qualche singhiozzo attira la sua attenzione, provengono dalle radici dell’albero. C’è un’altra figura accucciata lì, come a voler cercare aiuto nella terra morbida, che piange piano. Gli ci vuole davvero poco per riconoscerla, e gli si stringe il cuore nel vedere quel viso distorto dal dolore e dall’irrequietezza: non c’è rabbia, c’è semplicemente il nero delle sue lacrime che s’infrangono a terra, dove si è formata una pozza liquida e vischiosa intoccabile.
- Non badare a lui: fa sempre così. – mormora la creatura sul ramo con voce flebile. – Tu piuttosto… cosa ti ha condotto qui?
C-117 lo fissa senza una parola: c’è qualcosa di innaturale e strano nell’ombra, qualcosa che non riesce a cogliere. – Tu chi sei? – chiede senza rispondere, e il solo pronunciare quella domanda gli fa salire le lacrime agli occhi: chissà, magari quella creatura non è più nessuno. Non è più niente.
Gli occhi vermigli sembrano spostarsi sul cielo, e l’ombra sembra quasi parlare tra sé: - Non mi hai risposto. Io odio la gente che non mi risponde, non mi è mai piaciuta.
Reize ad un certo punto lo nota, un movimento impercettibile della gamba. Ora ne ha l’assoluta certezza: è un ragazzo, poco più giovane di lui, un guscio vuoto senza più anima. Rabbrividisce quando i suoi occhi si posano ancora su di lui, gelidi e inespressivi, e le labbra dell’ombra si distendono in un sorriso. – Dovresti saperlo, in fondo mi hai già visto una volta. – mormora soltanto, arricciandosi una ciocca di capelli tra le dita.
- Non riesco a vederti bene… - si giustifica tremando Reize: si sente a disagio al cospetto di quelle anime. I singhiozzi di S-144 si fanno sempre più alti e acuti, qualche uccello notturno vola via spaventato dal rumore: tutto sembra perfettamente immobile e silenzioso, catturato da una strana e terribile magia.
- Mh, qui è tutto buio in effetti. Te lo concedo. – sussurra piano il ragazzo, e lascia cadere una gamba nel vuoto.
- Perché piange? – chiede C-117, puntando il suo sguardo sullo schiavo ai piedi dell’albero: il rumore delle sue lacrime diventa sempre più forte, sempre di più, al ritmo del suo cuore.
- Dovresti sapere anche questo. – risponde semplicemente lo spirito guardandolo di traverso. – Ti ha visto.
- M-me?! – balbetta spaventato lo schiavo, e solo in quel momento si accorge che il suo predecessore si è appena alzato e continua a piangere forte, senza fermarsi. Indietreggia al suo ricordo, ma non riesce a muoversi quando i loro sguardi si incrociano. Il volto distorto dalle lacrime scure si fa largo nella sua mente e l’accende di terrore.
- Tu… non puoi capirlo. – piange tristemente lo spirito, guardandolo. – Tu non puoi capirlo, solo io posso. Non sei degno del suo affetto.
Un rumore di catene, il movimento dell’ombra, del liquido scuro: C-117 si ritrova per terra, il sangue scivola lentamente giù per una tempia. Alza gli occhi al cielo, terrorizzato e confuso, e vede la figura sfocata del ragazzo biondo che si avvicina con pochi passi eleganti. Scosta l’ombra del suo predecessore, che si ritira calma nel buio denso. E l’unica cosa che sente prima di perdere i sensi è la voce del regno dei morti: - Buona fortuna, Midorikawa Ryuuji…

Si alza di scatto, ansante, le gocce di sangue e sudore che gli scivolano giù per le tempie infrangendosi sulle lenzuola. Midorikawa Ryuuji.
Si scosta le coperte di dosso, cerca freneticamente la candela e appena la trova finisce per rovesciarla al suolo, tanto trema convulsamente. Si tocca la fronte umida, sbarra gli occhi tastando nel vuoto del buio, chiama il nome di Atsuya. Eppure quando se lo ritrova davanti davvero non può far altro che guardarlo sbigottito, in una sorta di macabra follia: - Devo andare dal Lord.
- Tu non vai da nessuna parte. – replica stanco il domestico. È troppo buio, non riesce a vederlo, ma appena le sue mani si appoggiano sulle sue spalle per calmarlo si sente invadere da un’insolita pacatezza. Si stende piano sulle lenzuola, guardando confuso Fubuki, che si limita a sfiorargli una delle bende. – Va tutto bene. Vi ho sentiti.
Reize può sentire chiaramente il suo cuore stringersi nella morsa del senso di colpa: quanto ha veramente ascoltato, cosa ha effettivamente capito? Nulla, a giudicare dal suo sguardo calmo. Atsuya non ha capito proprio nulla.
- Per fortuna non ti ha fatto molto male. – mormora infatti iniziando a cambiargli tutte le garze. – Ti ho trovato nel giardino. Piangevi.
Reize gli afferra una manica, si aggrappa a lui disperatamente: Atsuya non sa. Non sa davvero niente. – Ho fatto una cosa terribile. – sussurra piano, ma non dice altro. Fubuki si limita ad annuire distrattamente, continuando con insolita delicatezza a medicarlo come un figlio. – Lo so, Reize. È per questo che sono qui.
Lo schiavo si aggrappa singhiozzando al suo petto, senza smettere di piangere, mentre la notte passa silenziosamente con il suo lugubre canto a confondergli le idee.
Sente distintamente la voce di una donna dai ribelli capelli verdi chiamarlo per nome. Ed è un suono talmente estraneo e sconosciuto da risultargli angosciante e terribile. – Vattene, vattene via! – strepita, il sangue che non vuole saperne di fermarsi e le lacrime che gli rigano le guance. Per tutta risposta Atsuya lo stringe di più a sé, come per proteggerlo dai divoranti e laceranti morsi del male. – Va tutto bene… - mente, ed è l’unica cosa che dice.
Ryuuji perde i sensi e prega che non possa svegliarsi più.

Quando Natsumi si siede sul letto il suo corpo sembra sprofondare maggiormente sul materasso sgualcito, pesante come un macigno. Si volta appena, la vista annebbiata e confusa, avvertendo appena il gelo delle sue carezze. Le stringe piano una mano, senza dire nulla, e la trova fredda come la Morte.
- Se la caverà?
- Solo il tempo può dirlo. È ancora in shock.
La donna si volta verso la porta, rivolgendosi a un’altra presenza. Lo schiavo vorrebbe richiamarla a sé, ma dalle sue labbra sfuggono goffi lamenti confusi: bastano a far riportare l’attenzione della domestica su di sé. – Devo andare Reize. Mi dispiace.
Con la poca forza che gli è rimasta il ragazzo si solleva e la stringe in un goffo abbraccio, avvertendo la sua resistenza e il bollore della sua fronte. Lotta con tutte le sue forze per trattenerla, in un disperato e terribile abbraccio febbrile. Non si scambiano nessun saluto, nessuna parola, disperati a tal punto da piombare in un pianto senza perché.
Quando si risveglia si chiede se sia in grado di distinguere il sogno dalla realtà: ma Natsumi non è più nella villa e lo schiavo ha paura di chiedere.

Si rilassa maggiormente sullo schienale della comoda poltrona del salotto, socchiudendo gli occhi e puntellando le unghie sui braccioli rubino. Il suo ultimo giorno di convalescenza può considerarsi concluso, a giudicare dai suoni sinistri della pendola che rintocca pigra la mezzanotte.
Non ha più rivisto il Lord da quella sera, se non si contano ovviamente tutte le volte che lo ha osservato di nascosto uscire ed entrare nella residenza. Era sicuro che, finita la convalescenza, avrebbe provato una sorta di panico al pensiero di incrociare ancora quegli occhi intensi come il mare, ma stranamente ora prova solo una sorta di glaciale calma.
Probabilmente non lo ucciderà, considerando che ha fatto passare i giorni senza degnarlo della minima attenzione. Di certo però la sua reazione si rivelerà terribile.
C-117 si guarda assorto le mani silenziosamente, sorridendo piano: ha un nome, ora. Il Lord non può saperlo, ma ha un nome. Midorikawa Ryuuji. Lo sussurra come un segreto proibito ed eccitante, chiudendo piano gli occhi. È la chiave della sua libertà.
Un rumore sommesso lo fa voltare di scatto, senza comunque stupirlo. Il Lord si blocca sulle scalinate guardandolo con gelida fissità, passano minuti prima che Ryuuji abbassi lo sguardo con fare sottomesso. Kira prosegue imperterrito, si avvicina a lui con il mento alzato, scrutandolo con occhi austeri e freddi dall’alto in basso. Poi, inaspettatamente, si siede accanto a lui abbassando a sua volta gli occhi sul pavimento. – Stai bene?
- Sì. – mormora piano lo schiavo, scrutandolo di sottecchi. Non ha davvero paura di lui, non più ormai. Sente di poter accettare benissimo ogni condizione che gli verrà imposta: ora ha un nome. È finalmente libero; implicitamente, scandalosamente libero. Fissa colui che ormai è un padrone a metà. – Lei?
Lord Kira non risponde subito. Semplicemente gli si avvicina e fa combaciare le loro labbra: un bacio dei soliti. Eppure Ryuuji si sente pervadere da una terribile malinconia, come se con quel bacio l’uomo volesse trasmettergli tutta la tristezza del mondo.
- Io sto favolosamente, ti ringrazio.
Lo schiavo guarda infelice quelle labbra carnose, fissa quella bugia come se fosse ancora lì, palpabile, a mezz’aria. Lo guarda con intensità, ma Kira non abbassa lo sguardo, semplicemente socchiude gli occhi. – Vieni qui.
Reize ubbidisce, appoggia il capo sulle sue gambe senza tuttavia smettere di guardarlo con serietà. Improvvisamente tutta la sua bellezza pare sfiorita, come se fosse invecchiato improvvisamente. Eppure non c’è traccia di rughe sul suo volto cadaverico, estremamente pallido alla luce della luna. Midorikawa allunga una mano e l’appoggia delicatamente sulla sua guancia, per poi ricevere un altro bacio. – Non è irato con me?
- Sì. – confessa l’uomo, socchiudendo gli occhi ma senza muoversi. – Non riesco a farti del male. Non più.
Reize lo guarda ancora immobile, gli occhi che gli si chiudono per il sonno. – Mi dispiace. – mormora soltanto, facendo scivolare la sua mano sulla spalla nivea del padrone. - È tutta colpa mia.
Hiroto lo guarda a sua volta, ma sul suo viso c’è solo una smorfia amara: - Tu dici?
A quel punto Reize chiude gli occhi del tutto, senza dire nulla. Sente le braccia forti del Lord sollevarlo e portarlo in braccio su per le scale, il suo viso tanto vicino da sembrare irreale. Si aggrappa al suo collo con la consapevolezza che nulla sarà mai come prima, nulla avrà più senso di esistere: si è rotto qualcosa, nella mente di Kira. Qualcosa di calmo, ed estremamente dolce. Qualcosa che nessuno, tantomeno lui, potrà mai riparare.

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Capitolo 14
*** Destiny XIV ***


DESTINY XIV

Si sveglia piano, chiudendo subito gli occhi appena la luce del sole penetra attraverso le palpebre accecandolo con il suo bagliore. Si gira dall’altra parte mugugnando, le catene tintinnano. Realizza solo in seguito di trovarsi sul letto del Lord: si mette seduto ancora assonnato, e cerca di focalizzare per bene la figura davanti a sé. Il Lord si sta vestendo, deve andare al lavoro: si sistema i gemelli con cura, si annoda piano la cravatta. A vederlo così, non sembrerebbe neanche il suo padrone. Lo schiavo si limita ad osservarlo nel suo aspetto elegante e curato: un ministro, così gli ha detto Atsuya. È per questo che ha sempre da fare. Chissà poi cos’è, un ministro.
Quando Kira si avvicina lo schiavo istintivamente si ritrae, affondando i gomiti sulle lenzuola pulite. L’uomo fa un sorriso di scuse, si ferma, poi si china su di lui appoggiando le mani sul materasso. – Posso?
Midorikawa non ha nemmeno il tempo di chiedere spiegazioni che il Lord lo bacia piano, assaporandolo lentamente. Sembra quasi stanco, senza energie, come se con quella notte Reize gli avesse strappato anche il cuore. 
- Hai visto? – mormora il rosso accarezzandolo piano, il viso tanto vicino che sembra volerlo baciare un’altra volta. – Ti ho lasciato qualche biscotto.
Ryuuji lo osserva confuso, poi il suo sguardo si posa sul vassoio sul comodino: è più grande. Senza capire, ne prende uno. Solo in quel momento si rende conto che non ne ha mai assaggiati in vita sua.
 - Puoi usare il mio bagno, se lo desideri. – sussurra il Lord voltandosi e camminando con muta eleganza verso la porta. – Torno presto oggi. Fatti trovare con il tè pronto, diciamo verso le cinque.
Reize annuisce anche se è consapevole che il Lord non può vederlo: è già uscito e lo schiavo può sentirne i passi affrettati lungo il corridoio e poi giù per le scale, come i piccoli rintocchi di un orologio immersi nel silenzio della notte. 
Non si alza subito. Lascia che il sole sorga e gli illumini la pelle, accarezzi gentilmente le lenzuola stropicciate e infine si rifletta nella specchiera nell’angolo. Socchiude gli occhi e li riapre, e sta immobile per secondi, minuti, ore interminabili. Pensa che si sveglierà presto dal sogno, eppure non può trattenersi dal piangere.
Quando Atsuya entra silenziosamente poco dopo, lo trova ancora seduto sul letto con le mani premute sugli occhi. – Che cosa gli è successo? –chiede singhiozzando, come se il ragazzo davanti a lui avesse una risposta.
Il domestico non dice niente e si limita a posargli una mano sulla nuca, accarezzandolo lievemente. – Ce l’hai fatta, credo. Mio fratello non c’era riuscito.
Reize non capisce. Glielo dice, tremando convulsamente, aggrappandosi forte a lui come se fosse l’unico appoggio su cui possa contare. Gli sembra tutto così assurdo, così sbagliato: piange e non sa perché. Piange e vorrebbe solo scomparire, pur di non vedere ancora quello sguardo svuotato di ogni umanità. 
La voce di Atsuya gli arriva calma e amica all’orecchio, ora più che mai. – Lo stai cambiando. Non so come, ma lo stai cambiando. Shirou ci sperava così tanto, di poter plasmarlo, di poter aiutarlo. Era sicuro che lo avrebbe trascinato via dal suo passato di violenza e dolore. Non ce l’ha fatta. Lui era troppo debole. Ma tu...
Un singhiozzo trattenuto sulla sua spalla lo fa tremare da capo ai piedi. Lo schiavo è sicuro di non averlo mai visto in questo stato, non davanti a lui.
Ricordare uccide, realizza sbigottito, ma è l’unica cosa che ci rende umani. 

Per tutto il tempo in cui il Lord è assente, Ryuuji rimane seduto sull’erba e fissa il cielo, incurante degli sguardi delle contadine. Si distende, distante, assorto, contemplando distrattamente il procedere lento e inesorabile del tempo sopra di lui. Per ore intere non sente altro che il frusciare leggero degli steli mossi dal vento e dalle mani avvizzite delle operaie. Lo sbuffare leggero dei cavalli rinchiusi nelle stalle arriva appena ovattato dal chiacchiericcio incomprensibile degli uomini al lavoro. Sconosciuti, come sconosciuta è la sua presenza in quel luogo: poche volte lo hanno intravisto nei suoi miseri mesi di permanenza nella villa. Sono occhiate curiose quelle che gli rivolgono, commenti frivoli alla sua mente sorda a qualsiasi minaccia. Ryuuji allunga le dita e gli sembra di poter toccare il cielo.
-    Non ci vediamo da un po’, mi sembra. 
Alza di scatto la testa, ma non avverte nessuna presenza. Per un attimo si chiede se a parlare è stata Fuyuka: la cerca con gli occhi gonfi, voltandosi da ogni parte. Girandosi, incontra invece gli occhi di Natsumi che lo spiano divertiti dalla porta sul retro; si alza di scatto, arrossendo senza motivo: si era completamente dimenticato di lei. - Natsumi! - esclama, sovrastando la sua risata divertita. - Natsumi... Io... Mi ero completamente dimenticato di te! 
La donna gli si avvicina si siede accanto a lui, continuando a sorridere. “Non posso certo fartene una colpa, è da tanto che non mi faccio vedere.”
Ryuuji annuisce, senza però nascondere la vergogna: non si è minimamente accorto della sua assenza e questo lo fa sentire addirittura peggiore. - Scusami. - sussurra abbassando la testa. – È che sono successe un sacco di cose... Non mi sento bene.
La domestica gli appoggia una mano sulla nuca, accarezzandolo con fare materno. - Atsuya mi ha detto tutto. - mormora, e Ryuuji avverte un brivido quando la donna lo stringe a sé e lo abbraccia senza bisogno di chiederglielo. - Quello che è successo... -comincia, ma lascia la frase a metà e Ryuuji ne è grato: ricambia la stretta e si fa avvolgere dal suo calore. - Vorrei non essere mai nato .- confessa, le lacrime che minacciano di fuoriuscire dai suoi occhi lucidi e il tremore che si fa sempre più intenso. - Non dirlo neanche per scherzo. - si sente rispondere, ed è a quel punto che Ryuuji crolla di nuovo e si mette a piangere sulla sua spalla.
Natsumi lo stringe per tutto il tempo. È calda e viva contro il suo corpo, talmente tanto che lo schiavo si sente morto dentro. - Non lasciarmi andare - mormora contro la sua spalla, e ci vuole davvero troppo tempo prima che si riprenda da tutto quel dolore.
-    Va meglio? - gli chiede, quando lo sente scostarsi un poco, a forza.
-    Sì - mente, e si asciuga gli occhi stanchi di pianto.
È quello il momento in cui Natsumi gli prende il viso tra le mani rovinate e gli appoggia le labbra sulla fronte in un bacio puro. - Sai, questo è il mio ultimo giorno qui. - mormora, scostandosi e sorridendo gentilmente.
Ryuuji sbarra gli occhi e la fissa. - Ma che stai dicendo? Ti ha licenziata?
-    Non proprio - Natsumi scuote i capelli rossi e fissa l’erba sulla quale è seduta. Strappa un filo d’erba, cupa. - Non proprio. Sai, credo ci sia un motivo preciso per il quale mi hai dimenticata così velocemente.
-    Non capisco.
-    Comprendo cosa provi. Nemmeno io ho ben capito la situazione.
Improvvisamente Ryuuji si sente scosso da un brivido. Il suo sguardo è puntato sulle mani della donna, che iniziano lentamente e sistematicamente a intrecciare fili d’erba tra di loro. Sembra totalmente assorta da quell’operazione. All’improvviso lo schiavo intuisce.
-    Natsumi?
-    Sì?
-    Tu sei morta.
-    Credo di sì.
Lo schiavo le alza delicatamente il mento, sfiorandolo appena con le dita. Le sono comparse profonde occhiaie e il viso sembra essersi fatto più scarno, violaceo. Dai suoi occhi iniziano a sgorgare scure lacrime di terrore. - Sono morta... Vero Ryuuji?

Si sveglia di soprassalto, consumato dal sudore e dalla paura. Il contatto con il legno duro del tavolo è l’unico contatto che lo riporta alla realtà. – Atsuya? – chiama, e non si accorge di star piangendo. – Oddio Atsuya, Atsuya!
La voce del domestico gli arriva alle orecchie quasi come una sorta di liberazione. Reize esce dalla cucina, tremante come una foglia. Nel buio, riconosce a malapena il profilo delle scalinate che gli si stagliano di fronte. – Atsuya dove sei?
-    Ti ho detto che sto lucidando l’argenteria. Non disturbare, poltrone!
Reize si affaccia all’interno della sala da pranzo, quasi totalmente inutilizzata, e in effetti il domestico si sta occupando degli oggetti impolverati accuratamente disposti sulla mensola. È un’azione che non gli vede mai fare. Confuso, osserva i suoi movimenti lenti e ipnotici, ascoltando il suono amplificato dei suoi gesti sui piatti d’argento.  – Atsuya, dov’è Natsumi?
Atsuya si volta nella sua direzione, rivolgendogli un’occhiata bieca. Sulle sue labbra si forma un sorrisetto strano, beffardo. – Tu dove pensi che sia?
Ryuuji si blocca per un secondo, l’espressione instupidita. È troppo confuso per parlare. Sbatte gli occhi, concentrandosi sull’immagine che si fa sempre più sfocata. – Come scusa?
Il domestico non risponde, o almeno non lo sente. L’immagine si fa sagoma, poi un indistinguibile fascio di colori scuri, inglobati dal buio opprimente. Lo schiavo si appoggia allo stipite della porta, la testa gli gira vorticosamente. – Io... Io non lo so. Non lo so più.
Non comprende quale istinto lo costringa a voltarsi dall’altra parte, attirato dal fragore di una miriade di cocci di vetro, e a riportare poi lo sguardo nella stanza deserta. Ma il domestico non c’è più. È come se in effetti non fosse mai stato in quella sala. Poi le nota: orme nere d’inchiostro imbrattano il pavimento fino alla porta dove è rimasto accasciato per tutto il tempo e continuano oltre, alle sue spalle. Un brivido gli percorre la spina dorsale, e un urlo gli irrompe in gola con la forza esplosiva della disperazione appena sente due mani premere con forza contro la sua bocca.

-    Cristo Reize, stai un po’ calmo!
È intrappolato tra le lenzuola da un bagno di sudore. Incontrollato, lo schiavo si rigira forsennatamente ancora per un po’ prima di realizzare che quello che ha gridato quelle parole pregne di spavento è stato Atsuya stesso. Calmandosi e incontrando il suo sguardo grigio, non può fare a meno che ricambiare terrorizzato.
Il domestico gli sta vicino fino a che non riesce davvero a riprendersi. Non lo tocca, non dice niente: piano, il respiro di Reize sembra farsi regolare e calmo. Cautamente, lo vede girarsi dall’altra parte, chiedendosi probabilmente se quella non sia la continuazione di un altro orribile incubo.
-    È tutto il giorno che stai così... – osserva solo Atsuya, ma non aggiunge altro e presto torna alle sue faccende, lasciandolo solo ad affrontare la pozza nera di terrore in cui è caduto e dalla quale sembra impossibile potersi rialzare.

-    Vieni qui.
La voce è calma, non perentoria. Non è un ordine ma lo schiavo lo esegue senza domande, avvicinandosi alla vasca fin quasi a sfiorare il volto del Lord, mollemente abbandonato sulla sponda come se non avesse un briciolo d’energia. Il tè, appoggiato sul comodino accanto al letto, è rimasto a raffreddarsi nella teiera senza che l’uomo accennasse il minimo sintomo di sete. Semplicemente, dopo aver chiesto con gentilezza a Natsumi di preparargli il bagno, si è chiuso nel mutismo.
Reize si appoggia un poco al bordo, chiedendosi cosa fare: non sarebbe la prima volta che il padrone ammette la sua presenza durante il bagno, di solito per un massaggio alle spalle o per la necessità di essere toccato dalle sue mani. Ma quel giorno non è come gli altri, lo avverte chiaramente dalla sua calma glaciale.
Non udendo comandi si limita ad appoggiare le mani ruvide sulle spalle bianche e nude, trovandole rigide come il marmo. Le accarezza lento, premendo piano, cercando di rilassare i punti nevralgici: dopo qualche minuto è costretto ad abbandonare il vano tentativo e rimane lì, con le mani che non sanno stare su o giù, sopraffatto da un vago senso di inquietudine. Aveva sempre dato per scontate le sue capacità in quel frangente.
Kira è rimasto in silenzio, il corpo abbandonato alla dolcezza dell’acqua e le braccia immobili, abbandonate sul grembo. Solo qualche volta ha inclinato appena il capo, per raccogliere qualche carezza sul collo irrigidito. La pelle tesa e i muscoli tirati, come pronto a reagire al minimo attacco, lo sguardo distante e fisso sulla schiuma che copre velatamente la superficie trasparente e che lo accoglie come un burattino lasciato a se stesso. – Allora è vero. – mormora appena, quando lo sente fermarsi. – Il tuo tocco... non provoca in me alcuna reazione.
Reize solleva le mani di scatto, allontanandosi dal suo corpo come ferito da una scheggia. Non riesce a scorgere lo sguardo del Lord, nascosto dai capelli, e l’uomo non si volge per mostrarglielo. – Ho provato a baciarti, stamani. – riprende piano, come una stilettata. – Anche guardandoti negli occhi, non provo più niente. Se non paura. 
Reize trattiene il respiro. Si alza e indietreggia, fermandosi solo sullo stipite. Trasalisce appena lo vede alzarsi, ignorando i residui di schiuma che scivolano lungo il suo corpo. – Ti sfioro e mi sento... disgustato. Da te, da me stesso. Che cosa mi prende? Non sono mai stato così infelice.
Lo schiavo non replica, semplicemente lo osserva infilarsi l’accappatoio e stringersi in un debole abbraccio. Esce dalla vasca alzando un po’ d’acqua, lentamente, curvo come un vecchio o un malato. Trema da capo ai piedi, un po’ per il contatto gelato con il pavimento, un po’ per le lacrime che lo fanno sussultare in ritmici singhiozzi. Gli passa accanto senza guardarlo negli occhi, schiacciato da una forza invisibile, ma appena esce nel corridoio crolla sulle gambe, in balia del pianto. Reize sta per chinarsi a sollevarlo quando il padrone quasi grida. Lo guarda con ferocia, il rimorso e l’odio dipinto in volto: – Che cosa mi hai fatto?! In cosa mi stai trasformando?!
Lo schiavo non riesce a trattenersi: stringe i pugni, mordendosi a sangue le labbra prima di urlare a sua volta. – In una persona migliore, vorrei sperare!
Improvvisamente si rende conto che il Lord in quelle condizioni non sarebbe in grado di fargli del male. È un pensiero che lo fa rabbrividire di una rabbia nuova, feroce e fredda, irrazionale. Per questo motivo quando Kira si alza in piedi faticosamente non indietreggia, non scappa. È talmente abituato al dolore che non lo sentirebbe quasi nell’eventualità che l’uomo alzi le mani. 
Si fissano a lungo, trattenendo a stento le lacrime. Reize ha appena il tempo di vedere lo sguardo acquamarina dell’altro addolcirsi prima che si volti e si avvii lentamente verso le sue stanze. Anche lo schiavo si rilassa, lasciandosi andare a un sospiro e sentendo l’adrenalina scemare piano, lasciando spazio a un debole barlume di preoccupazione. Lo vede voltare piano il volto verso di lui, prima di sentirlo sussurrare parole appena percettibili. – Mi sono sbagliato su di te. Mi sono sbagliato su un sacco di cose. 
Reize ha appena il tempo di allungare una mano verso di lui che il Lord si rifugia in camera, sfuggendo al suo sguardo interlocutore. Si morde a sangue il labbro e il rimorso lo assale come una marea fredda. L’anima del Lord ai suoi piedi è una distesa di cocci rotti.


Angolino di Fay
Non cantate vittoria troppo presto: il blocco è ancora là, e gli impegni scolastici non aiutano di certo. Tuttavia ho voluto pubblicare comunque il capitolo per fare un annuncio abbastanza importante.
Questa, come tutti sapete, è la ristesura di una fic vecchissima che fra poco non ricordo neppure io: all’inizio di questa fic mi era sembrato più che naturale, quindi, postarla nel fandom a cui la precedente versione era appartenuta. Tuttavia come penso tutti abbiate notato non solo la trama e gli scopi della fic sono cambiati durante la stesura, ma persino i personaggi si sono rivelati irrimediabilmente OOC e assolutamente incomparabili con l’opera canonica di Inazuma Eleven. 
Per questo motivo sono indecisa: eliminare la fanfiction una volta conclusa e “trasportarla” nella sezione delle originali, magari adattandola, mantenere tutto quanto com’è o creare due fic identiche e parallele (una nelle originali e una nel fandom di Inazuma Eleven)? 
Onestamente mi dispiacerebbe tantissimo perdere tutte le recensioni che avete avuto cuore di scrivere, e ci resterei davvero male se perdessi tutti i lettori per questa cosa. Ma onestamente nonostante la “casa” di Destiny sia stata effettivamente la sezione di Inazuma Eleven, di certo Destiny – Remember Me non può essere considerata più la sua “gemella cresciuta”. 
Per il momento intendo concludere la fanfiction, sperando che il blocco passi velocemente, e magari iniziare a “ripostarla” nella sezione “Drammatico” delle Originali. 
Vi ringrazio davvero per avermi seguita in questo viaggio terribile e nostalgico! Sarei davvero felice se voleste condividere con me qualche opinione in proposito.
Grazie!

Fay

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Capitolo 15
*** Destiny XV ***


DESTINY XV

È appena un’ombra: si muove con lentezza esasperante, innocua e terribile, come se fosse troppo pesante per quel mondo avverso. È appena china, ingobbita, e quindi i capelli le scivolano sul volto in ciocche scomposte, spettinate, sporche. Un occhio solo brilla nella penombra, rigido, di vetro, e lo scruta con passività, inerte. La donna si sposta piano, dal letto alla finestra, dalla finestra al letto, un percorso definito e risoluto, continuo, meccanico. I suoi passi sono appena udibili, come se non avesse quasi contatto fisico con il pavimento.
Ryuuji la guarda, immobile, tranquillo. L’ombra non lo assalirà, non finché non si muoverà: allora con passo spedito si avventerà su di lui, predatrice, pronta a lacerare la sua mente instabile e informe. Un rumore diverso distrae la sua attenzione, lo scricchiolio proveniente dalla finestra: un’altra ombra, accovacciata in controluce, lo sta fissando con occhi ardenti e spalancati. È più scura, più tetra, ma meno tormentata. Un sibilo miete l’aria, costringendolo a rabbrividire sotto il peso dell’inquietudine.
Atsuya apre la porta della stanza in quel momento- e le ombre non si muovono di un passo. Ma il domestico non le vede. Non sa. E non dice niente, nel momento in cui lo scopre a fissare il vuoto inconsistente dello stanzino. Midorikawa piega appena il collo verso di lui, gli occhi ancora sbarrati e resi lucidi dall’allucinazione. 
È una notte eterea, incorporea e senza tempo come tante altre, sempre più frequenti e voraci. E lui si è abituato a quel richiamo sottile, inconsistente, sempre più chiaro. 

L’immagine di sua madre torna a tormentarlo di frequente, nel sonno, come se si fosse infiltrata nei suoi pensieri e avesse deciso di presentarsi solo nel buio: dove la sua coscienza non può arrivare, dove i pensieri intorpiditi si fanno fumosi e incoerenti. 
C-117 la vede prima di addormentarsi, seduta rigida al suo capezzale, e al mattino, appoggiata alla finestra. È sempre a un passo dal vederla davvero, scorgere i lineamenti del suo viso, respirare il suo odore. È un attimo di distrazione, ed è già la semplice ombra immobile ed eterea della tenda. È un attimo di paura, e sempre di più gli capita di pensare che quella donna in realtà non abbia viso, né consistenza.
-    È il richiamo dei morti. – lo mette sull’attenti il domestico, intento a lavare i piatti sul lavabo. – Non farci caso, capita anche a me.
-    Anche tu hai visioni simili? – gli chiede lo schiavo, seguendo  con lo sguardo i suoi movimenti veloci. 
-    Non esattamente. È solo una leggenda, ma pare che chi abbia visto qualcuno morire avrà accesso al regno dei morti. – gli risponde, ma non aggiunge nient’altro, evidentemente indeciso a continuare. Ryuuji studia l’ombra che passa davanti al suo viso, eterea, e ne scruta i lineamenti: è diverso da Shirou. Più vecchio, forse, curvo, le prime rughe a solcargli il volto pallido, le occhiaie sempre più profonde e perenni. I suoi occhi, impazziti, vagano di qua e di là. Le mani gli tremano.
-    Ho visto i miei genitori morire. Molto tempo fa.
Atsuya si volta e per un tempo che appare infinito si guardano negli occhi. – Quando? Non dovresti nemmeno ricordare di avere una vita. – mormora il domestico. – Non dovresti neppure saper parlare. 
-    Eppure è così. – risponde flebile Reize, l’espressione assente e sciupata. – Mi sono reso conto da tempo di essere umano. Perché ricordo, Atsuya. Io ricordo la morte dei miei genitori. 
L’altro sembra trattenere il fiato, immobile: prende una sedia e si siede davanti a lui, esterrefatto. Ryuuji abbassa lo sguardo sulle venature del tavolo.
-    Non ricordo il calore di mia madre o la sua voce, non rammento le braccia di mio padre: l’unica memoria che ho del mio passato è la morte. – continua. – Non penso di essere mai stato schiavo per questo motivo.
Atsuya continua a fissarlo e Ryuuji coglie il movimento impercettibile delle sue spalle che si scuotono in un brivido. – No, non sei mai stato uno schiavo. Fin dall’inizio. – mormora. – Quando mio fratello giunse qui, era una persona completamente diversa. Non aveva niente che potesse definirlo un essere umano, nemmeno la facoltà di parola. Non era come te.
Reize rimane in silenzio, invitandolo a continuare con uno sguardo. – Non potevo intavolare una conversazione con lui. Non potevo dargli aiuto in alcun modo. Non potevo avvicinarmi senza che si ritraesse. Non dormiva con noi. 
Reize prova ad immaginarselo: tutto quello che ha visto di quel fantasma sono ombre sparpagliate, ricordi fumosi costruiti su una foto ingiallita. Gli occhi grigi vuoti, due pozze nere di disperazione e rabbia, a fissarlo in un angolo dei suoi incubi peggiori. 
-    Ho visto un sacco di ragazzi e bambini come voi: so cosa vi fanno. Non mi stupì il fatto che Shirou non fosse più umano: di certo ero scioccato, ma ero consapevole di cosa fosse successo. Tu invece... Sei arrivato qui e non eri come ci saremmo aspettati.
Atsuya fa una pausa e distoglie lo sguardo, sospirando come se il ricordo lo turbasse. Riprende piano. – In te era rimasto qualcosa che nessuno era riuscito a toglierti. Un difetto. Forse la tua salvezza. Forse... la mia. 
Lo sguardo di Reize si fa attento ad un tratto, non appena gli occhi del domestico si spostano su di lui. – Sono sollevato che tu non me lo ricordi costantemente. – conclude, un egoistico pensiero che sfuma nella certezza di quelle parole serie. 
Reize ricambia l’occhiata che il domestico gli rivolge: assente, poco lucida. Ha smesso di pensare da un sacco di tempo, e questo il domestico lo sa, ne è testimone. 
-    Vorrei solo morire. – sussurra, d’un tratto.
-    È quello che vogliono anche loro. – risponde l’altro.

Una figura di stracci si trascina nella prima nebbia autunnale, accartocciata su se stessa e ciondolante, come se potesse cadere da un momento all’altro. Atsuya ha il tempo di scorgerla dalla finestra prima di aprire la porta e scrutarla ancora, attento. - Quello è il marito di Natsumi -  dice poi, serio e pacato, attirando anche l’attenzione dello schiavo. Si sporge alle sue spalle, impassibile, osservando l’andatura ondeggiante di quell’uomo magro e spento. 
Il domestico si spinge oltre la soglia, senza però andargli incontro: quando l’uomo alza gli occhi su di lui, Midorikawa sente un brivido attraversagli la spina dorsale: quando lo sente parlare, si rifiuta di riconoscerlo. 
-    Sono venuto qui per incontrare il rispettabile Lord Kira: tuttavia non entrerò nella sua modesta dimora e non mi avvicinerò, perché sono malato. - esordisce, con voce rauca e spiritata. La faccia è pallida e segnata da piaghe, tremante, un orrore a vedersi. Una voce nella sua testa gli suggerisce che un essere così indegno potrebbe portare solo la morte, non dovrebbe essere ascoltato. 
-    Parla, ti ascolto - gli risponde invece Atsuya, tranquillamente.
-    Parlerò solo in presenza del Lord – Mamorou mormora, un fil di voce spezzato in gola. - Si tratta della sua governante.
Il silenzio riempie l’aria, nell’esatto momento in cui lo schiavo scivola verso la porta e si fa notare. L’uomo appena lo riconosce si irrigidisce, fissandolo tra lo smarrito e il preoccupato. È Atsuya a parlare, distogliendolo dai suoi pensieri sbigottiti. - Non è possibile incontrarlo in questo momento. Di qualsiasi cosa si tratti, può riferirla a me.
Ancora silenzio. Endou sbatte le palpebre appesantite, gli occhi gonfi di pianto e stanchezza, e abbassa il capo sulle sue scarpe lacere. Sembra deluso, vagamente intristito, come se non avesse minimamente pensato a una simile eventualità... Come se la presenza del nobile fosse di rilevante importanza. Ma quando alza di nuovo lo sguardo su di loro e si stringe nei vestiti sudici, i suoi occhi sono fermi. – Allora ditegli... Ditegli che Natsumi dopo anni di servigi gli porge i suoi saluti dal Regno dei Morti.
Un refolo di vento blocca quelle parole: le smorza, le sospende in aria, rarefatte, e poi le posa su di loro come se avessero il peso di un macigno. Ryuuji sbarra appena gli occhi, mentre la presenza oscura della governante si forma davanti ai suoi occhi, proprio dietro il marito: sembra fissare proprio lui, irrigidita e severa, gli occhi infossati e lucidi. Istintivamente fa un passo indietro, tremando, nascondendosi allo sguardo interlocutore e fermo di Mamorou. Distingue appena la voce di Atsuya, roca, che porge le sue condoglianze. Indietreggia fino alla porta delle cucine, ansimando pesantemente, e solo all’interno del calore famigliare della stanza ha la possibilità di riprendersi; ma la sensazione di sollievo dura poco nel momento in cui sente un vociare allegro alle sue spalle.
Si volta e le vede. Due dame bianche in abiti raffinati, mollemente sedute sulle indegne e scomode sedie di legno, prendono il tè in raffinate tazze di porcellana. Si accorgono di lui immediatamente: Fuyuka gli fa un cenno con la mano guantata, Natsumi si limita a sorridergli. Non c’è traccia di vecchiaia o stanchezza nei loro volti eterei, come se fossero rimaste eternamente giovani nella culla della vita e ora si fossero risvegliate nel mondo in un involucro di pace e purezza. “Quante zollette devo mettere nella tua tazzina, Ryuuji?”
Ammutolito, lo schiavo non si muove dalla sua posizione. Si limita a fissarle per un tempo infinito, immobilizzato sulla soglia. Si sente quasi attirato da quegli sguardi benevoli, come se delle forze antiche e nemiche lo stessero risucchiando verso un mondo di buio e di terrore. Chiude gli occhi e quando li riapre le due donne sono scomparse alla sua vista, in un evanescente sospiro freddo. Al suo posto, l’espressione scioccata di Atsuya che lo fissa ad occhi sbarrati, terribili. – Cosa stai facendo?
Non si è nemmeno accorto di essere a terra. Istintivamente si porta una mano al volto, scoprendolo bagnato di lacrime, e fissa il domestico: anche lui ha gli occhi lucidi, come se stesse per piangere. Prova ad alzarsi, ma la testa gli gira, ed è costretto a stendersi di nuovo. Solo dopo una decina di minuti riesce a riprendere il contatto con la realtà, ma non smette di lacrimare, nemmeno nel momento in cui realizza di essere di nuovo solo. 

Lord Kira non esce dalla sua stanza. In un tempo illimitato e confuso come quello, a Ryuuji non importa: è come se nella sua testa non fosse mai esistito. 
Le ombre dei morti non l’hanno abbandonato per tutta la notte e si sono moltiplicate, viscide e silenti, occupando tutto lo spazio della stanza grigia, allungandosi sopra la sua testa, contorcendosi in cupi filamenti di terrore attorno alle sue braccia e alle sue gambe. Atsuya gli offre il suo letto, ma lui non può più sopportare la costrizione delle lenzuola attorno alle caviglie, lo spazio chiuso della stanza vuota. Rimane sveglio, seduto in cucina, fissando disperato quelle visioni sempre più consistenti e frequenti, come se la mancanza di sonno avesse un peso sempre minore. La porta che dà sull’esterno è aperta ogni notte, anche quando il freddo settembrino inizia a ghiacciare di brina le finestre consumate e il pavimento di legno. Nudo, immobile, attende che la morte lo colga nel momento in cui i suoi occhi si chiuderanno e non rimarrà di lui che un’immagine.
Il risveglio è assurdo, gelido, malato. Non riesce neanche ad avvertire la presenza di Atsuya di fronte a lui e il peso del vassoio tra le sue mani. Incespica sulle scale, in silenzio, solo il rumore delle catene a rompere la monotonia del suo passo: ogni volta hanno un rumore diverso. 
Midorikawa Ryuuji.
Cosa ci fa lì, se ha nome? Dove lo ha portato il suo destino crudele, infausto? La risposta sta forse in quei muri pallidi, squarciati ancora dalla follia? In quei quadri sereni, spenti, contraddittori? Si ferma davanti alla porta ma non muove un muscolo. Ha nel cuore una rabbia fremente e pulsante, che non sa dove indirizzare. 
Si costringe a battere due colpi con le nocche ruvide. Il silenzio dall’altra parte della stanza è inequivocabile: per un momento lo schiavo non si muove, attendendo un suono o un rumore che possa distoglierlo dai suoi pensieri cupi per un istante. Si decide ad entrare solo dopo aver atteso a lungo, nel momento in cui il vassoio con la colazione inizia a farsi sempre più pesante sulle sue mani coperte di piaghe.
La stanza è completamente vuota. Non c’è traccia dell’uomo né nella stanza da letto, né nello studio, né nella stanza degli svaghi. Non sembra aver dormito nei suoi appartamenti e un vago senso di inquietudine lo assale nel momento in cui realizza di essere solo, al buio.
Appoggia il vassoio sulla cassapanca nell’angolo e si guarda attorno, smarrito. Poi esce e scende le scale, prima con calma, poi trafelato. Incontra Atsuya a metà strada e gli lancia uno sguardo disperato d’intesa. - Il Lord non c’è più - dice, pallido, immobile.
Il domestico lo vede appena. Sale le scale con lui e non pronuncia una sola parola, non finché non entra lui stesso nella stanza per verificare con i propri occhi. 
Ryuuji si sente fremere. Un vago senso di irrequietezza gli attanaglia la gola, come se non riuscisse a respirare:  la routine quotidiana è l’unica cosa che lo ha mantenuto in vita fino a quel momento delicato. Bussare, entrare, appoggiare il vassoio sul comodino, stendersi, lasciarsi prendere. L’unica cosa ad avergli dato identità è stato il suo ruolo: ora che quell’unica certezza è svanita, il terrore lo assale come mai prima.
-    Potrebbe essere andato a lavoro presto. – mormora Fubuki, ma non ci crede. È stanco, lo si vede dal suo sguardo impassibile e lento, dai suoi movimenti goffi e troppo calmi. Aggira il letto intoccato, muovendo le dita sulle coperte immacolate, ma non lo guarda negli occhi.
È proprio lo schiavo ad avanzare verso la finestra, affacciandosi appena per scrutare il prato immerso in una quiete pesante, strana. In lontananza, oltre gli alberi, lì dove la proprietà del Lord perde i contorni e si confonde, gli sembra si scorgere una piccola luce- L’alba non ha ancora preso possesso della notte rigida e fredda, quasi tentennasse di fronte a quel luogo di tensioni e paure. 
-    Credo di sapere dov’è. 
Atsuya si volta appena, avanza verso di lui e infine segue il suo sguardo, oltre la finestra. 
-    Allora vallo a prendere. 
Insieme capiscono che la fine di quell’incubo è più vicina e dolorosa di quanto si aspettino.

Angolino di Fay
Ci avviciniamo verso la fine~
Approfitto di questo angolo per ringraziarvi delle bellissime recensioni e dei pareri che mi inviate, sono molto preziosi per me! La fanfiction sta volgendo al termine (mancano due capitoli) e conto di finirla entro l’anno... È stato molto difficile scrivere questo capitolo in particolare perché mi sono accorta di aver lasciato molti buchi all’interno della “trama” e li ho rattoppati meglio che ho potuto. Tuttavia essendo questo un capitolo di passaggio conto di scrivere gli ultimi due capitoli senza problemi- dannazione, è da due anni che aspetto questo momento!
Purtroppo ho combinato un bel casino con le caratterizzazioni, l’ambiente e tutto il resto ma spero che il messaggio arrivi lo stesso. Ci sono un sacco di cose ancora da spiegare! Il passato di Hiroto sarà esplicato tutto in questi due capitoli. Ho solo una richiesta per voi: so che sarà difficile, ma cercate di non “giustificare” le sue azioni non appena leggerete su di lui. In parte il suo passato ha condizionato davvero tanto il suo modo di stare al mondo, ma ciò non toglie che si è comportato in maniera abominevole verso Ryuuji. 
Seconda cosa: ho preso una decisione per quanto riguarda la fanfiction. Non la eliminerò, almeno non subito; al suo termine pubblicherò la stessa identica storia nella sezione delle “Originali”, magari variando poche cose (come i nomi ad esempio). Conto di riuscire a pubblicare nuovamente tutti i capitoli almeno in un anno- o magari potrei farlo tutto insieme. In ogni caso sento che questa fic non appartiene affatto al fandom di Inazuma Eleven! Se mai deciderò di eliminarla da qui, sappiate che salverò ogni vostra recensione, perché siete stati davvero molto importanti per me. 
Per ultimo: buon proseguimento di lettura! Mi auguro che riesca a concludere questa fanfiction nel migliore dei modi.
Vi prego di perdonarmi per gli errori, ma sono davvero stanca! Ovviamente siete tenuti a segnalarmeli tranquillamente qualora ne riscontraste qualcuno. 
Un bacio a tutti~

Fay

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Capitolo 16
*** Destiny XVI ***


Angolino di Fay
Ciao a tutti, scusate il ritardo :c purtroppo ho avuto alcuni problemi personali e non sono riuscita a seguire la tabella di marcia. Spero comunque che questo capitolo sarà di vostro gradimento, anche se avverto che è piuttosto pesante. Vi auguro buone feste (anche se forse dopo aver letto vorrete uccidermi-)
Fay

DESTINY XVI

L’alba ha il colore del sangue e il silenzio dei morti. Non sa da quanto tempo sta camminando lungo quella strada ghiaiosa, ma riconosce lo sforzo che i suoi muscoli indolenziti percepiscono ad ogni passo e il fiato inizia a mancargli dopo poco. Di tanto in tanto magri contadini lo superano con le loro carrette trainate da muli pigri, e gli lanciano un’occhiata incuriosita: nessuno sembra tuttavia disposto a concedergli un passaggio, nemmeno quando lo vedono inciampare e cadere rovinosamente a terra. Ryuuji ha già intrapreso in precedenza quella strada ostile, già all’inizio di quell’estate intensa, ma ricorda molto poco a proposito delle effettive distanze che lo separano ancora dal rifugio del Lord e del percorso da seguire. 
-    Non dovresti temere: è poco più avanti. – lo rassicura di tanto in tanto una voce mielosa, estranea. Ma la fine sembra davvero non giungere mai, mai mai. 
Per un attimo gli sembra che potrebbe camminare all’infinito: nel momento in cui si addentra nella foresta non riesce più a cogliere alcun punto di riferimento: gli alberi si stagliano immobili e regolari ai lati della strada che si fa via via più stretta, fino a farsi sentiero. Ricorda vagamente la forma che avevano preso una volta nei suoi pensieri: mostri ghignanti pronti a ghermirlo e a dilaniarlo. Ma in quel momento non lo accompagna più nessun sentimento in particolare, come se fossero tutti svaniti dalla sua mente. Il vuoto nel quale la sua mente è piombata è talmente vasto e assurdo da non riuscire a scorgere la fine: un baratro nero di distruzione e dolore, dove il rosso del suo sangue macchia infinite catene tintinnanti e scosse appena da un vento instabile. È un suono che lo accompagna anche ora, costante, e si ferma solo quando è lui stesso a smettere di camminare. Un bagliore soffuso e lontano si riflette sui tronchi degli alberi, oscurati dalla chioma fitta che nasconde i raggi del primo sole: procede, rallenta il passo, si ferma. Procede ancora, rallenta il passo, incespica, si ferma. Le azioni si fanno meccaniche, lente, inspiegabili. La vista si offusca, le braccia e le mani iniziano a tremare per il primo freddo autunnale e il terrore si insinua sotto la pelle, lungo i fianchi, attraverso la spina dorsale...
Attraversa silenziosamente il ponte di legno e si muove attorno al rifugio lentamente, con fare circospetto: dalle tende tirate si scorge la luce di un focolare e il suono dolce e triste di un pianoforte si propaga debolmente dall’interno. Ryuuji appoggia un orecchio alla porta e ascolta finché il suono non si affievolisce lentamente fino a sparire. 
Pochi rumori gli fanno intendere che il Lord è solo: Ryuuji si avvicina a una delle finestre e vede la sua sagoma alzarsi e salire su un materasso cigolante, abbandonandosi al sonno.
Quando bussa a distanza di mezz’ora non riceve risposta. Sembrerebbe un rito del tutto abituale, se solo non si trovassero all’interno della villa e le motivazioni dei loro gesti fossero ben più pesanti... Colto dal pensiero che non tutto sarà come prima, e per questo motivo lui non avrà più bisogno di agire come di consueto, schiude la porta lasciata aperta ed entra silenziosamente.
Sembra la stanza di un bambino: probabilmente lo è stata e lo è ancora. Vecchi giocattoli sono infatti sparsi per il pavimento polveroso o posti dentro una cesta lasciata aperta al centro della stanza; le tende bianche sono cosparse di nuvole disegnate e sui muri spiccano nitidi graffiti di inchiostro e carboncino compiuti da una mano maldestra, in un tempo lontano. Tutto è coperto da un leggero strato di polvere, ma sembra conservato perfettamente, come se nessuno avesse mai toccato nulla. In un angolo vi è un piccolo pianoforte a muro, vicino a un giaciglio dalle lenzuola consumate e sfatte. 
Il Lord è riverso sul letto, rannicchiato e premuto contro la parete. Gli dà le spalle, e non sembra essersi accorto della sua presenza, come se stesse dormendo. Lentamente, Ryuuji si avvicina al pianoforte e si siede sullo sgabello: esita  ancora per qualche istante, poi allunga la mano ruvida e gli sfiora i capelli morbidi.
Kira si accorge subito del suo tocco. Freneticamente afferra il suo polso, ma non si volta.  – Padre? – mormora, la voce rotta dal pianto e appena udibile. – Padre, sei tu? 
Midorikawa non riesce a trattenere un singhiozzo di sorpresa e paura, nel sentirlo così fragile. È in quel momento che Hiroto si volta e lo guarda con occhi gonfi di pianto. Lo stupore si tramuta in rabbia quasi nell’immediato. – Che ci fai qui? – ruggisce, fissandolo con uno sguardo denso e cattivo. 
Lo schiavo ritrae la mano e balbetta qualcosa di incomprensibile: forse non lo comprende nemmeno lui. Il Lord si mette seduto e si allontana a sua volta, ostile, ma nel momento in cui entrambi comprendono che non corrono alcun pericolo si rilassano impercettibilmente e si limitano a studiarsi reciprocamente, ansiosi. Kira è il primo a interrompere quel contatto visivo: abbassa lo sguardo, corrugando la fronte, e volta il capo. – Vattene. Voglio stare da solo.
Ryuuji a quelle parole rimane interdetto. Si alza, ma non si muove, e lo guarda coricarsi di nuovo e dargli le spalle con fare quasi da bambino. È la prima volta che lo vede comportarsi in questo modo. Nel suo cuore si mescola un sentimento di pena misto a disprezzo e preoccupazione. – Io credo che dovremmo parlare. – mormora infine, prendendo coraggio. – Sono qui per chiederti di liberarmi.
Inaspettatamente, da Hiroto giunge soltanto un amaro verso di scherno. Non è in grado di vedere il suo volto, ma Ryuuji non può fare a meno di sentirsi irritato. Ma prima che possa aggiungere qualcos’altro, è il Lord a parlare: - E dove potresti andare senza di me? 
Non è una domanda stupida. Sa davvero poco del mondo esterno al territorio della villa- non è nemmeno sicuro di conoscere perfettamente l’abitazione. La replica gli muore sul nascere: si siede di nuovo, colpito e senza parole, fissandolo quasi in attesa di una buona idea. – Voglio solo scoprire da dove provengo.
Hiroto lo studia con la coda dell’occhio: non sta ghignando, come inizialmente pensava. Semplicemente lo guarda, come se stesse soppesando un’idea. – E da dove pensi di partire? – Per un attimo assurdo la sua sembra curiosità. 
Anche lo schiavo alza gli occhi. – Troverò la via. – sussurra. 
Hiroto si mette di nuovo seduto, lentamente. Sta pensando. Per un momento rimangono in silenzio, colti da una tacita pace rotta solo dal crepitio delle ultime fiamme nel caminetto. Midorikawa osserva i lineamenti stanchi di Kira, cercando di comprendere quale sentimento lo pervade, senza successo. Quando parla, tuttavia, la sua voce tradisce insicurezza nell’autorità. – Non ti permetterò di andartene. 
-    Non me ne andrò se non lo vorrai. Permettimi solo di essere libero.
-    Menti. – ringhia Kira, afferrando un lembo di lenzuolo. – Vuoi abbandonarmi, lo so.
In quell’attimo comprende. Nel momento in cui Kira inizia a tremare, Ryuuji sbarra gli occhi e comprende. – Hai paura di rimanere da solo? È questo che ti spaventa? 
Il Lord risponde con un singhiozzo e Midorikawa sente un brivido correre giù per la spina dorsale. Quando le prime lacrime scorrono lungo le guance di Hiroto, si sente un po’ morire: una sensazione che non avrebbe mai pensato di provare in un contesto simile. Gli viene in mente un episodio lontano anni luce, il periodo passato ad accudirlo nella malattia. – Vuoi una persona che ti affianchi? È questo? – insiste, sporgendosi un poco. – Che ti ami? 
-    S-stai zitto. – sibila il Lord tra i singhiozzi, e si copre il volto con le mani, stropicciandoselo quasi con rabbia. – Stai zitto, tu non sai niente di me.
-    Tu invece? Sai qualcosa di me? – risponde lo schiavo quasi con rabbia. – Con che diritto ti ritieni padrone della mia vita? Io sono un uomo libero! Lo sapevi ancora prima di conoscermi! Me lo hai nascosto per tutto questo tempo!
Hiroto grida. – SARAI SEMPRE FIGLIO DI UNO SCHIAVO! – sputa con disprezzo, e Ryuuji si alza nel tentativo di reprimere la violenza che si è impossessata della sua mano e che nonostante gli sforzi si imprime sulla guancia dell’uomo con uno schiaffo feroce. Attonito, Hiroto si ritrae in un angolo e lo fissa nel terrore, incapace di reagire. 
Ryuuji urla con tutta la forza che ha. Le prime lacrime di tensione fanno capolino dagli angoli degli occhi, rendendogli la vista offuscata, - Lo vedi? Non mi manca nulla, ho persino l’innato istinto di fare del male! IO SONO UN UOMO! 
Kira ansima, immobile. Rosso in viso, osserva senza espressione il volto accaldato di Reize: nei suoi occhi scorge la follia, la stessa che lo ha colto troppe volte, la stessa di cui conosce la forma. Chiude gli occhi e si abbandona contro l’angolo, deglutendo a fatica, preda dello shock. – Vattene, vattene. – lo implora quasi, spaventato. - Io non so niente. Lasciami stare.
Ryuuji si siede sul letto, accanto a lui. – Non me ne andrò finché non mi avrai detto tutto quello che sai.
-    Mai! – risponde l’uomo, a bassa voce, appiattendosi contro il muro. – Mai, mai! – ripete un po’ più forte, e i singhiozzi lo scuotono così violentemente che non osa aggiungere altro. 
Lo schiavo si allontana bruscamente e prende a camminare per la stanza, incattivito. Nel furore che lo ha invaso, dà un calcio alla cesta disperdendo tutto il contenuto sul pavimento e facendola rotolare inerme per pochi istanti. Si siede in un angolo e aspetta di riprendere il controllo di sé, ascoltando i singhiozzi trattenuti dell’altro e regolarizzando il respiro. La stanza è ormai illuminata da un sole tremante, appena offuscato dalle chiome degli alberi, magro e consumato. Il silenzio viene spezzato dal passaggio di un treno, e per un attimo l’ambiente al di fuori viene annerito da una vampata di fumo denso e inquinante. L’uomo ha preso a piagnucolare sommessamente, nella calma ansiosa di quel luogo maledetto. Si agita tra le lenzuola per minuti interminabili, forse ore. Ryuuji perde la concezione del tempo e si affida al reciproco respiro, unica testimonianza che sono entrambi vivi.
-    Mai più! – grida ad un tratto il Lord, in un delirio penoso. – Non ti cercherò mai più in nessuno! 
Per un attimo a Ryuuji sembra che si stia riferendo a lui. Poi, d’un tratto, scorge l’ombra di morte che si allunga sul corpo rannicchiato di Kira e che lo avvolge quasi in un abbraccio: lo schiavo si alza di scatto, fremente, terrorizzato che Shirou possa fare del male all’uomo. Nel momento in cui lo spirito si materializza davanti ai suoi occhi e grava sul corpo del Lord, Ryuuji gli è già addosso e cerca stupidamente di afferrarlo, nella speranza di trattenerlo. 
La sostanza immateriale ed eterea dell’ombra si disperde in uno sbuffo di fumo ancora prima che lui possa intervenire. Senza fiato, lo schiavo volta il Lord in modo che sia appoggiato di schiena sul materasso e cerca i suoi occhi: d’un tratto sono più scuri e densi, come se Shirou si fosse insinuato nella sua anima e lo stesse guardando a sua volta da quel suo rifugio. Ma il Lord appare improvvisamente più calmo, come se il suo dolore fosse stato risucchiato. 
Ryuuji approfitta dell’occasione e si siede nuovamente accanto a lui, teso. – Se non ti ricordi di me, raccontami di te -  gli impone, ma con gentilezza e quiete. 
Sembra già un’altra persona quando chiude gli occhi e sospira, improvvisamente rilassato. Sorride, ma non in sua direzione. È come se ringraziasse qualcuno. Poi le sue labbra si serrano in un’espressione grave, fredda. Ricerca il suo tocco, gli stringe una mano, forse un tentativo di rimanere ancorato alla salda realtà. Ryuuji acconsente a quella sua implicita richiesta e non si muove. 
Hiroto inizia da un passato remoto, a lui inaccessibile. Non crede di comprendere tutte le parole: forse per ignoranza, forse perché non è sicuro di essere mai stato a contatto  con certe realtà. Il racconto si perde tra vie inconsce della sua fanciullezza, accarezzando memorie ormai perdute e raccogliendo a piene mani episodi frammentari, prediletti, marchiati a fuoco da un disordine mentale rassicurante. I ricordi di Hiroto non sono dissimili da quelli che ogni bambino del suo rango avrebbe potuto portare alla luce: accenni veloci a giocattoli perduti, spartiti e scartoffie buttate al vento e nel fuoco ancora prima di essere consegnate alle mani esperte di qualche maestro burbero, scomodi ed eleganti vestiti che puntualmente venivano macchiati se solo si azzardava a mettere piede in giardino. Sono memorie felici, con poche incertezze o paure. Per un attimo, Ryuuji invidia questa sua capacità di riportare alla mente episodi così sereni. Ma il tono di voce cambia non appena gli episodi più tristi iniziano a fare capolino attraverso l’età e si ricavano uno spazio sempre più ingombrante, come piccoli tasselli. Anche le frasi sono più veloci.
-    La schiava di mio padre era una bella ragazza. Mia madre non la sopportava, fu per questo che chiese la separazione. Però a me piaceva. Giocava con me. Era un po’ come una sorella maggiore, ma non era in grado di parlare. Ovviamente ero troppo piccolo per immaginare per quale motivo fosse in quella casa. Non ricordo più nemmeno il suo nome.
-    Fuyuka. – risponde prontamente Reize, ma non è lui a parlare. Colpito, stringe appena la mano del Lord, come a invitarlo a continuare.
Hiroto apre gli occhi, tornati al colore originario e d’un tratto più pacati e appena lucidi. Si stende su un fianco, senza però lasciare la stretta. Parla per frasi concise, veloci, quasi sconclusionate. La sua voce apparentemente distaccata tradisce una profonda tristezza. – Ero molto amico di Atsuya, una volta. Era appena un servetto all’epoca, ma era trattato bene da tutti e mi era permesso passare del tempo con lui. Mio padre mi regalò il primo schiavo quando ebbi vent’anni, ma io non volli saperne. Atsuya si allontanò da me senza motivo e mio padre morì improvvisamente di infarto... La sua schiava si suicidò: era malata e probabilmente il suo destino sarebbe stato peggiore della morte. Dovetti licenziare quasi tutti i dipendenti perché a mia insaputa mio padre si era caricato di debiti e io dovetti pagarne le conseguenze. Assunsi Natsumi solo qualche anno più tardi, una volta che riuscii grossomodo a ristabilire la situazione. E Shirou... lui fu l’unico che rimase al mio fianco.
C’è una pausa. Per un momento a Ryuuji pare che l’aria si stia muovendo attorno a loro, come se qualcuno li stesse ascoltando in silenzio. Voltando appena il capo scorge due pupille piccole e rosse osservarli immobile da fuori, affacciati a una delle finestre. Istintivamente ritrae la mano, come se fosse stato scottato, ma Hiroto non sembra accorgersi di quel gesto. 
-    Sai, ero molto... molto diverso rispetto a come sono adesso. E soprattutto ero diverso da mio padre. Non sopportavo l’idea dello schiavo in sé, non so come spiegare. – mormora. – No, non ho mai  pensato avesse dignità pari alla mia. Semplicemente... mi dava fastidio. 
Ryuuji vede le sue labbra distendersi in un sorriso amaro e dolce assieme, e avverte un nodo all’altezza della gola. Avrebbe da dire un sacco di cose in proposito, parole che fino a qualche settimana prima non avrebbe mai osato pronunciare... ma decide di non interrompere il racconto, intuendo la gravità di quanto sta per seguire. 
-     Mi era molto... affezionato. Non sapevo come comportarmi con lui. Ho passato momenti molto felici e intensi... Non mi era mai capitato con nessuno... Era così speciale... 
-    Che gli è successo? – insiste, ritraendo la mano. 
D’un tratto gli occhi di Kira tornano cupi, assorti. Ryuuji resta immobile, sente distintamente il cuore battergli nel petto. Non potrà mai comprendere lo stretto legame che aveva unito schiavo e padrone, di qualunque tipo fosse stato. Può solo immaginare: Shirou che gli prepara puntualmente la colazione, che si fa prendere senza una parola o un lamento, che lo rassicura con la sua sola presenza nei momenti di debolezza, che lo saluta con un bacio al mattino e lo accoglie con un sorriso la sera. 
Un brivido gli gela le ossa non appena si rende conto che la stanza è piombata in un’oscurità innaturale e ingombrante, come se sottili e infiniti filamenti invisibili li avessero avvolti in una ragnatela crudele e scricchiolante. Il rumore delle fronde scosse da un improvviso vento si confonde con le parole dell’uomo.
-    Fu una settimana tremenda. Ero stato appena nominato sottosegretario di un ministro con piccoli poteri,  ed ero entrato a far parte del Ministero a tutti gli effetti... beh, non mi aspetto che tu comprenda di cosa stia parlando. – continua il Lord, la voce sempre più debole e sottile. – Furono giorni frenetici. Non ebbi una carica molto rilevante ma mi impegnò per un certo periodo.. Lo trascurai... Beh, in realtà ne fui consapevole, ma non pensai affatto avrebbe influito sul nostro rapporto... 
Un’altra pausa. Ryuuji deglutisce e rimane in ascolto, teso. Sente appena un leggero sospiro all’altezza del suo orecchio, come se alle sue spalle ci fosse qualcuno, come se stesse ascoltando con la sua stessa attenzione. 
-    Non riuscivo a rientrare a casa nemmeno per la notte, tanto era il lavoro che avevo da svolgere. Poi una sera tornai. E come ogni giorno mi aspettai che ci fosse lui ad aspettarmi sulla soglia, ma non avvenne. Iniziai a preoccuparmi. Chiesi ad Atsuya e Natsumi dove fosse. Loro mi dissero che si era chiuso nella mia stanza da qualche giorno... Mi arrabbiai tantissimo, perché non avevano avuto l’accortezza di avvisarmi... 
I sospiri si fanno sussurri. Ryuuji comprende a malapena il loro significato. Gli è ormai chiaro che alle sue spalle c’è qualcuno, ma non osa voltarsi e anche il Lord ha lo sguardo puntato verso il muro. I brividi si fanno sempre più intensi e frequenti. 
-    Mi precipitai sulle scale e aprii la porta. 
I sussurri si fanno voci, di tonalità e lingua differente, sempre più prorompenti e incomprensibili. Ryuuji fa per girarsi, pallido, scorgendo appena una massa informe e nera allungarsi nell’oscurità.
-    Si era impiccato. 
Una lacrima si infrange sulle lenzuola lacere e il frastuono li travolge nella sua macabra assurdità.

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Capitolo 17
*** Destiny XVII ***


DESTINY XVII

Si risveglia nel buio totale da un incubo tremendo. Si mette seduto di scatto, ma nella stanza si espande solo un silenzio imperante: comprende appena che si trova sul pavimento, lontano dal letto, come se fosse stato sbalzato via da una forza innaturale. Cauto, si guarda attorno riuscendo a distinguere a malapena i contorni sfumati degli oggetti che avrebbe potuto riconoscere fino a un attimo prima. L’immobilità è atroce, al che persino lui fa fatica a compiere qualsiasi gesto: ma appena ci prova si accorge di un dettaglio spiazzante, che lo confonde per qualche secondo.
Le catene non ci sono più. 
Nell’ombra un movimento impercettibile gli fa alzare di nuovo la guardia. Il Lord lo fissa da un angolo, in piedi, e appena muove il capo il riflesso della debole luce che filtra dalla finestra rischiara appena i suoi occhi azzurri. Alle sue spalle una polverosa biblioteca, inutilizzata da anni. Sembra un manichino incapace di muoversi: le rughe pallide del suo viso giovane sono appena distinguibili nella penombra e Ryuuji le accarezza con lo sguardo, appena prima che scompaiano di nuovo. Si alza appena, tremante. 
- Cos’è successo? 
- Sei solo svenuto. – È una voce fredda, rauca. 
- Non ti credo.
La figura indistinta del Lord sembra agitarsi di nuovo, fremente e indecisa. Poi la sua voce si fa sentire di nuovo, estranea, quasi inumana. – Mettiamola così. – sussurra. – Lui mi ha perdonato. Ed è venuto a prendermi. 
Gli gira la testa. Istintivamente, a tentoni, si appoggia a una parete e si fa scivolare di nuovo a terra, senza staccare gli occhi da lui. Un singhiozzo gli spezza il respiro, poi un altro. I sospiri dei morti iniziano nuovamente a sibilargli dentro l’orecchio parole incomprensibili, come se ribadissero la loro presenza. 
Kira tentenna piano, ondeggia appena le braccia abbandonate lungo i fianchi e inclina piano il capo. – Sai Reize, gli avevo promesso che non ci sarebbe stato nessun altro al di fuori di lui. 
– Perché me, allora? – chiede in un tremito, premendo il viso contro il muro freddo per nascondere le lacrime. 
Hiroto risponde dopo attimi che gli sembrano interminabili: in quella dimensione, dove spazio e tempo si fondono, la sua voce sembra non provenire nemmeno da lui. - Sembravi un buon affare. Il figlio di uno scandalo venduto a una cifra discreta. Un’occasione da non perdere, dicevano tutti... 
Improvvisamente, comprende il perché di quell’oscurità opprimente, di quella immobilità innaturale: le ombre sono tutte lì, appostate negli angoli della sua mente, ad osservarlo con occhi invisibili. E quello non è Hiroto Kira, non lo è mai stato. E quello che sente è solo paura. E quella, soprattutto, non è la realtà.
- Tua madre era figlia di un ricco banchiere, ma ebbe la malaugurata idea di unirsi al suo schiavo. Non che ci fosse nulla di male, in realtà. Il problema fosti solo tu. 
Midorikawa preme la schiena contro la parete, terrorizzato. Le sente quasi scivolare silenziose attorno a lui e sfiorarlo con le loro dita gelide e invisibili. – I miei genitori mi amavano. – ha la forza di replicare, la voce tremula e gracchiante come quella di un bambino. . 
- Oh, sì, i tuoi genitori ti amarono. – Un sorriso velato, denti bianchissimi nelle tenebre torbide. – Fu tuo nonno a venderti e a uccidere la sua prole. Tanto aveva già un erede. 
Ryuuji ricorda il sogno di sangue e un altro singhiozzo, più forte degli altri, irrompe nella sua gola: è così debole  in realtà. Così libero e debole. Alza appena lo sguardo e improvvisamente la stanza diventa una massa compatta e nera di odio e disperazione: visi inconsistenti e lattei si presentano estranei alla sua vista e il freddo lo pugnala dall’interno della sua anima.
La voce prosegue, ma il Lord non è più nella stanza. Midorikawa si copre istintivamente le orecchie per non ascoltarla, ma questa si insinua nella sua testa e lo canzona ridente da dentro... In un attimo è se stesso a parlargli, da un angolo pericoloso e sconosciuto della sua mente. 
-     Ti ho preso.
Si sveglia in agonia, in un bagno di sudore e lacrime. Istintivamente si guarda attorno e si alza in piedi, nel panico totale, cercando di toccare con famigliarità ogni oggetto che gli si presenta nell’ombra. Non ci sono più catene a intralciarlo, ma Ryuuji si sente comunque prigioniero di una forza poco famigliare e ben più terribile: spalanca la porta, rivelandosi alla pallida luce lunare che riesce appena a penetrare attraverso la fitta chioma scura e a illuminare debolmente lo spazio attorno alla cascina, ma non la tetra boscaglia.  Si volta più volte, in tutte le direzioni, e realizza di essere solo: non c’è la minima traccia del Lord, né delle sue catene. Tuttavia il senso di inquietudine non lo abbandona, al che è costretto a distogliere lo sguardo dalla foresta e a chiudere la porta alle sue spalle, per poi precipitarsi vicino al fuoco e a ravvivarlo freneticamente con qualche libro preso dagli scaffali consumati. La fiamma prende vita e un fascio di luce illumina meglio la stanza nel suo caldo e confortante abbraccio. 
Il terrore si dissipa per poco tempo: le ombre che il fuoco proietta sulle pareti sono ben più terribili di qualsiasi cosa possa ancora attaccarlo. Istintivamente si rannicchia su se stesso, accanto alla fonte di calore, e inizia ad urlare.

Non deve dimenticare. L’unico contatto che può avere con la realtà è il ricordo che ha di essa. Si impone di tenere gli occhi aperti, perché a chiuderli e poi pretendere di essere lucidi sono bravi tutti. La fiamma si specchia nelle sue pupille rese enormi e dolorose per lo shock, il sospiro si appesantisce nella sua gola ad ogni secondo che passa.
Il tormento gli spezza le ginocchia ad ogni minimo tentativo di movimento. Grida quando gli sembra che un’ombra si stia avvicinando più delle altre. I singhiozzi servono a tenerle a bada: all’oscurità non piace il rumore.
Uno sparo riempie l’aria e Yuki si accascia sul pavimento, insozzandolo di sangue.
Se solo...

I passi irregolari risuonano sulla superficie ghiaiosa del sentiero. Stretto in vestiti che non gli appartengono, un ragazzo tremante si aggira per i campi per il momento disabitati e coperti da un lieve manto di brina. La luce tremula e accecante dell’alba fa capolino da dietro gli alberi e lo costringe a tenere lo sguardo basso e fisso sui ciottoli che scorrono sotto i suoi piedi nudi e feriti. 
La libertà ha un sapore crudele, ora. Come se non gli appartenesse pienamente, come se non l’avesse in realtà conquistata: è uomo, ed è prigioniero dei suoi pensieri. È come se sentisse ancora quell’estenuante e rivoltante tintinnio metallico seguirlo sempre... È coperto soltanto un tremendo picchiettio di dita nella sua testa, e un frastuono di voci e dolore che sembra non poter cessare. 
È un uomo. Lo è davvero? Non ha ancora incontrato nessuno per tutto il tragitto e per un attimo si chiede se semplicemente abbia smesso di esistere. 
Una figura indistinta si fa spazio nel suo campo visivo- è appena un puntino indistinto di colori che corre verso di lui, gridando parole che non riesce ad afferrare. Sbatte le palpebre, comprendendo appena che la sua vista è offuscata e inutilizzabile. 
Supera un gruppo di contadine senza realmente vederle: alle sue orecchie ovattate non giunge che un vago eco delle loro voci stupite e preoccupate, e le immagini dei loro visi stravolti non sono che sagome sfocate. Sente qualcuno toccarlo e prenderlo per mano: Ryuuji presta appena attenzione all’aiuto che gli viene dato, deciso ad uscire dalla proprietà del Lord. – Vi ringrazio, sto bene. – mormora lentamente, la lingua appesantita e i sensi confusi. 
Una voce si fa spazio tra altre mille e riconosce il grido che Atsuya gli rivolge, in lontananza. – Sto bene! – ripete. – Sto bene, sto bene!
Lo ripete nel momento in cui si inginocchia, stremato dalla fatica inconsistente e dallo shock delle mille sensazioni che improvvisamente lo hanno avvolto nella sua bolla irreale. Due braccia salde lo afferrano e lo costringono, lentamente, a riacquistare un barlume di lucidità. Nessuno schiaffone a rinsavirlo: solo la voce disperata e acuta di Atsuya che lo prega di resistere per un ultimo attimo. 
Alcune lacrime si infrangono contro le sue guance e per la prima volta percepisce i suoi sensi riaffiorare vividi.

Si muove per la stanza sentendo lo sguardo di Atsuya conficcato nella schiena, ma preferisce rimanere in silenzio. Alla fine, dopo alcune ricerche poco attente, riesce a trovare i suoi pochi averi sotto il letto di Atsuya. In una vecchia e piccola valigia di cartone, per la verità appartenuta a Natsumi, ha già inserito la mantellina con la spilla e alcuni tozzi di pane raffermo. Aggiunto il libro e alcuni stracci, chiude l’oggetto con una serratura ridicola. 
- Non sei nelle condizioni. – osserva Atsuya a braccia conserte, appoggiato su uno stipite. – Devo ancora capire se fai sul serio o meno. 
La risposta di Ryuuji è quasi immediata. – Non posso più stare qui. – sospira, controllando lo stato della valigia e preoccupandosi di fasciarla con un lembo di stoffa. 
– Potresti almeno riposare: ti sei visto? Da quante notti non prendi sonno? – prosegue scettico e diffidente il domestico. Da una parte crede di capirlo.
Midorikawa non risponde e appoggia lentamente la testa al muro. Chiude gli occhi, sospirando piano: si è un po’ ripreso, ma il terrore della notte appena passata non potrà svanire facilmente dalla sua mente, né l’intero periodo passato nella villa. 
Atsuya gli si avvicina in modo quasi furtivo e si pone davanti a lui. Si abbassa e appoggia una mano sul suo ginocchio: la sua voce è ruvida e decisa, quasi autoritaria. – Senti. Non so cosa ti è preso e non so cosa diamine è successo là fuori, ma hai bisogno di una dormita. Se hai paura del Lord, sappi che ti ha già dimenticato.
Ryuuji apre leggermente gli occhi: è vero, ha la testa pesante e gli risulta difficile anche solo riordinare i suoi pensieri, ma il bisogno di andarsene è così forte da essere una necessità al di là di ogni buonsenso o ragione. – Non so come dirtelo. Io devo andarmene. 
Atsuya gli lancia uno sguardo tra lo sconcertato e il furioso. Sembra scrutarlo per qualche secondo, poi si alza. – Bene – proclama. – Adesso andrò a prenderti un secchio d’acqua dove specchiarti: forse capirai cosa intendo dire quando dico che mi fai paura. 
Ogni tentativo o sforzo di fermarlo risulta fiacco e inconsistente. Cerca di afferrarlo per il polso, ma per un attimo è come se lo stesse semplicemente trapassando e si rende conto che la sua vista è ancora compromessa. – Atsuya, no... Non capisci... 
– No che non ti capisco! – esclama il domestico, già nell’altra stanza: il rubinetto a pompa, dopo qualche capriccio, inizia ad emettere un udibile scroscio d’acqua. – Non so un cazzo di quello che ti sta passando per la testa! Ma voglio almeno vedere se riesci ancora a spaventarti!
A fatica, Midorikawa cerca di raggiungerlo: lentamente entra in cucina e cerca di sorreggersi appoggiandosi alla parete. Si limita a guardarlo per alcuni istanti, ma nel momento in cui Atsuya si precipita verso di lui con un secchio colmo d’acqua tra le mani si ritrae. 
– Ora specchiati e dimmi cosa vedi! – gli impone.
– No! – si oppone Ryuuji, divincolandosi dall’insistenza del domestico: lo bracca, spargendo acqua da tutte le parti, come se il pazzo fosse lui.. – Tutto quello che vedrei...
Entrambi si fermano non appena entrano nella stanza di Fubuki e lo sguardo del domestico si posa per un attimo di distrazione oltre le sue spalle. A Midorikawa non servirebbe voltarsi per sapere che quella vecchia fotografia sbiadita è ancora là, e appesa a quel muro rimarrà sempre. – Tutto quello che vedrei... – mormora di nuovo, guardandolo negli occhi. – È un uomo. Un uomo segnato, ferito, provato, impazzito. Ma pur sempre un uomo. E questo basterebbe soltanto a convincermi ad andarmene.
Un istante di silenzio che dura una vita. Solo il fiato stanco di Ryuuji lo spezza.
– Allora suppongo che non potrò fare più niente. 
– Niente.

Procede verso la porta a passi lenti, quasi misurati. Si osserva appena i vestiti non suoi, già un po’ impolverati, sentendoli scomodi e innaturali sopra la pelle ruvida e segnata.
Atsuya non si è ancora mosso dalla porta della cucina, come se stesse attendendo qualcosa. – Dove pensi che andrai?
Ryuuji si ferma davanti alla porta e sospira. Non è in grado di alzare gli occhi contro il soffitto, non riesce a rivolgere un ultimo sguardo all’ambiente che è stato il suo rifugio e la sua condanna. – Rintraccerò mio nonno. – mormora, assente. – E mi vendicherò.
Le parole suonano terribili nell’aria per qualche istante futile: hanno un sapore patetico e amaro sulle sue labbra, mentre le pronuncia. Atsuya non replica: per un attimo è come se non esistesse più. 
Ryuuji alza gli occhi sulla porta e finalmente, con un singhiozzo che gli muore in gola, afferra la maniglia fredda e la preme tra le dita ossute con forza innaturale.
– Aspetta.
E Ryuuji Midorikawa obbedisce, quasi per riflesso condizionato. La voce del Lord giunge fredda e autoritaria dal piano di sopra, ma l’ex schiavo non ha il coraggio di voltarsi. Sente appena i suoi passi eleganti scendere le scale, come se fosse in una sorta di limbo indistinto. 
Kira non si avvicina troppo: si ferma a diversi metri di distanza da lui, come se avesse timore di sfiorarlo. – Ti do un consiglio: segui la ferrovia. Le proprietà dei Midorikawa si trovano a sud della regione. Non ti sarà difficile avere informazioni sulla famiglia, se chiederai un po’ in giro... ma presta attenzione. Il tuo marchio è ancora riconoscibile.
– Perché dovreste aiutarmi? – mormora lo schiavo, senza forze. Il silenzio che ne segue è più pesante di un macigno: appena un fruscio gli suggerisce che Atsuya è tornato in cucina. 
Si chiede se non sia semplicemente frutto della sua mente, come lo sono stati gli avvenimenti che lo hanno portato a quel punto. Tuttavia la consistenza della voce di Kira è una delle più umane che abbia mai sentito: d’un tratto tremula, appena udibile, nella più dolce delle paure. 
Ricordati di me.

E Ryuuji trattiene appena il respiro. Si volta piano, e Hiroto Kira è lì in piedi, sotto la pallida luce del sole che filtra da una delle finestre in un angolo, caldo nella sua vestaglia color rosso porpora, freddo nel cuore macilento. 
Un sussurro abbandona le sue labbra. – Lo farò.

L’uomo si volta e in un attimo non è più suo. 

Angolino di Fay 
È CONCLUSA. LA MIA BAMBINA È CONCLUSA.
Ringrazio ovviamente tutti i lettori per essere giunti fino a qui e avermi sopportata! Oltretutto un ringraziamento va anche alla mia Beta Reader (un po’ dispersa al momento) e ai miei amiki che hanno sopportato i miei scleri per tutto l’arco della stesura senza neanche mandarmi a Quel Paese.
È stato un vero e proprio parto trigemellare in vasca (whut) e mi ha molto provato psicologicamente (o è stata la fic a essere stata provata da me medesima???) quindi sono ultramegasuperfelice di aver concluso bene o male anche questo progetto. Questo capitolo è stato forse il più difficile di tutti! È stato tremendo dover descrivere lo stato psicologico di Ryuuji... 
Non so che ne sarà della trasposizione nel fandom delle Originali e non lo voglio neanche sapere, già mi viene male. 
Prossimo progetto... Death Mask! Ma prima penso che mi prenderò una piccola pausa. O forse no, io non vivo senza scrivere... lol. Spero che mi seguirete tutti anche là :,)
E... fatemi sapere come vi è sembrata! Anche chi mi ha sempre seguita in silenzio... Ora c’è poco da fare i timidi :((( A me non è piaciuta.
Auguro un BUON ANNO in supermegaritardo! Un bacione da parte mia a tutti voi e... Buona Epifania, a questo punto.
Au revoir~

Fay

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