Katyusha.

di miss potter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***



Capitolo 1
*** I ***


Author's Corner

Gentile fandom,
chiedo umilmente perdono per le tempistiche da lumaca zoppa con cui sto scrivendo l'ultimo capitolo di "Dancing Star" ma sono nel pieno dei miei esami e credo di riuscire a pubblicarlo solo verso metà giugno.
Intanto presento il primo capitolo di quella che spero sia la mia prossima storia a capitoli, capitoli più brevi questa volta ma credo più intensi.
Periodo: Grande Terrore
Ambientazione: URSS, lager GULAG
Argomento, questo, che sto studiando la cui particolarità mi affascina. Il mio intento è quello di presentarvi un periodo storico parecchio buio, terribile, di cui secondo me si parla sempre troppo poco a scuola e ci tengo a precisare che assolutamente non mi voglio improvvisare storica nè esperta in materia. Per questo chiedo scusa a chi si dovesse sentire offeso e per le eventuali inesattezze. Cercherò di attenermi il più possibile alle informazioni derivatemi da appunti e due libri di 600 pagine l'uno che ho dovuto studiare.
Più che probabile presenza di OOC e di tematiche delicate. Fandom avvisato, mezzo salvato (ritenetevi liberi di farmi cambiare il rating).

miss potter



















1937.

Non proprio una bella annata, come si dice.

Fermentiamo a mollo di questi tempi duri, i miei, i nostri, tempi mordaci in cui è quasi meglio mangiarsi la lingua piuttosto che prendersi l’autorizzazione di parlare, anche perché sembra che ci sia rimasta solo quella ormai da mettere sotto i denti quando questi non battono per il fottuto freddo.

È il 1937 quando mi ritrovo seduto con le chiappe atrofizzate ficcate nella neve, la lana della divisa logora che gratta la pelle rinsecchita e giallastra, ammalata, e l’odore acre del grasso del fucile che mi brucia dentro le narici e mi sale alla testa. Quasi meglio della vodka appena distillata, calda, incandescente giù per la gola e nello stomaco, la piacevole e quasi orgasmica sensazione dell’alcol che entra in circolo così deliziosamente presto perché, da medico militare lo so, non ho mangiato niente da stamattina.

È il 1937 quando le scorte di speranza stanno finendo un po’ per tutti insieme a quelle delle patate e del liquore, ed è ancora il 1937 quando mi rendo conto che, tra una bestemmia ed un’imprecazione, sto pregando di morire adesso, in questo sputo chilometrico di terra ghiacciata, piuttosto che restare un altro secondo in più immerso in questa merda.

«Quanti?» mi chiede ad un tratto il compagno Michail seduto al mio fianco, tremando tutto mentre si strofina le grandi mani robuste inghiottite dagli spessi guanti di cuoio e pelliccia.

È un buon soldato, Michail, leale e dal temperamento mansueto, con abbastanza grasso nel ventre ed intorno al collo da farmi ben sperare per la sua incolumità anche in balia di questi trenta gradi sotto lo zero e dei proiettili vaganti. Laureati in Medicina nella stessa università, ci siamo ritrovati a fare i soldati. Non potrei fidarmi di nessun altro al campo.

Dalle sue labbra sottili e violacee fuoriesce una cortina di vapore densissimo che si disperde nell’aria gelida di questo grigio ed infausto pomeriggio di principio dicembre ed io m'incanto, osservandola sfumare tra i flutti del vento che se la porta via, lontana, tra le molecole d’ossigeno, azoto e carbone.

Chissà com'è essere vento. Chissà che sapore ha la libertà.

«Duecento unità e qualcosa» rispondo distratto, e mi sistemo il fucile sulla spalla buona per tirare fuori il mio taccuino e verificare con esattezza il numero.

All’orizzonte, oltre le alte reti di filo spinato, oltre il muricciolo appena eretto di paglia e fango, una lunga serpentina di straccioni, martoriati dal freddo, procede lenta come uno sciame di anime all’inferno, pallidi cadaveri riesumati coperti di terra e croste che marciano e marciscono a piedi nudi nella neve in fila indiana, il capo basso, piangendo silenziosamente mentre i miei uomini li tengono in riga coi calci delle armi.

Questi miscredenti, traditori, rifiuti della società si lamentano se li insultiamo, se li battiamo... Oh infelici, non ci si riconoscono affatto, loro, perché mordono i capezzoli della loro stessa Madre, e scalciano e urlano come deformi creature partorite dal grembo oscuro del Demonio, questi esseri brutali dalle mani ruvide e dal cuore troppo puro.

Devono morire, morire tutti, urla la vodka e la mia parte meno antropica mentre li guardo cadere carponi nel ghiaccio e storcersi le rotule, e scuoto il capo.

Bastardi. Meritate questo e peggio.

Odo le grida sempre più vicine dei miei sottoposti, le timide proteste dei più giovani, i pianti strazianti dei vecchi, secchi e nodosi come rami morti, che si aggrappano ai calzoni dei loro aguzzini supplicando di essere lasciati a morire nella neve ed invece vengono strattonati bruscamente per le braccia graffiate e fatti rialzare.

Probabilmente sono reduci di un viaggio in treno di qualche decina di ore e di una marcia altrettanto lunga nella steppa. Niente di che, niente di diverso dalla routine.

Nemici del Partito, li chiamano. Li chiamo. Sempre la solita storia da qui a circa dieci anni.

Che gli costa?

«Capitano» mi fa cenno col capo un giovane soldato semplice, porgendomi il saluto militare. «Il contingente.»

Tossisco un paio di volte, risvegliando i sensi intorpiditi, e mi sembra di vomitare i polmoni e il cuore tutto assieme. Mi faccio forza e, aiutato dal compagno Michail, mi rialzo da terra, barcollando.

«Sì…»

«Signore, si sente bene?»

Sembra preoccupato, il soldato. In realtà sto meglio, molto meglio di qualsiasi prigioniero costretto in piedi sotto le sferzate di questo freddo letale, in riga davanti ai miei occhi con le ginocchia sbucciate e tremanti, ma mi piace far preoccupare la gente, farla sentire inadeguata proprio come mi sento inadeguato io ogni istante in questo limbo di occhi vitrei e suppuranti paura puntati addosso sia che vegli sia che dorma, l’incredibile meraviglia di quando si è consapevoli di avere delle vite in pugno e di poterne decidere il destino.

Sì o no. Che mi costa?

«Benissimo.»

Li guardo a malapena: ai miei occhi sono tutti uguali, perché ogni volta è sempre tutto uguale, davvero. Non ce n’è mai uno di minimamente esclusivo, di più bravo, di più alto, di più basso, di più malridotto, di più… speciale.

Quindi do una rapida occhiata alle cifre del mio taccuino e scribacchio e sottoscrivo e cancello. Tutto uguale. Mediocre.

«Problemi?» chiedo al soldatino dritto davanti a me, senza guardarlo.

«Nessuno.»

Trema come una foglia, lo sento. L'odore della paura mi è stranamente familiare e me ne inebrio.

«Perdite?»

«Da duecentocinquantasei a duecentotrentotto, signore. Sette nei vagoni e undici in marcia.»

Arrotondo scribacchiando un duecentoquaranta sotto la colonna dei superstiti e no, adorato lettore, non mi sento in colpa per questo.

«Abili al lavoro?»

«Tutti, signore.»

Sorrido.

Finisco il rapporto, chiudo il quadernetto e lo consegno al compagno Michail. La Madre sarà fiera.

«Esattamente» sussurro, congedando il soldatino con un buffetto sulla spalla. «Esattamente.»
  
 

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Capitolo 2
*** II ***





Dovrei esserci abituato, ormai. Ma ci sono sere in cui me lo chiedo ancora, se può fare più freddo di così.

Ci sono sere, lunghe ed estenuanti notti, in cui, disteso supino sul materasso alto cinque centimetri che alcuni si allargano a chiamare letto, cerco di concentrarmi su questa temperatura estrema nella speranza di dimenticare di chiudere gli occhi e congelare prima, o di impazzire.

Sarebbe una consolazione e no, non è una contraddizione, per me, pensare alla possibilità di perdere la testa definitivamente. Perché arrivi ad un certo punto, a fare questa vita, in cui ti chiedi cosa sia meglio tra il restare svegli coi crampi per la fame e delle fitte alla spalla che ti demoliscono dal primo all’ultimo nervo e l’addormentarsi, sapendo ancor prima di serrare le palpebre che probabilmente ti risveglierai tra due, tre ore con un attacco d’asma in piena regola e i vestiti madidi di sudore per l’ennesimo incubo. E sarà comunque un giorno in meno allo scoccare del 1938.

Sono interessanti, i miei incubi. Fanno parte di quella particolare razza di sogni angosciosi che, dalle mie parti, se fossero persone in carne ed ossa non ci penserebbero due volte prima di promuovere a commissario del popolo agli Affari Interni, quell’incantevole, infame categoria di incubo che ti perseguita anche quando non vuoi, che sa cosa stai pensando, ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, per quanto tempo lo stai pensando e, soprattutto, perché lo stai pensando, plasmandolo in orrende visioni di macabre facce sfigurate dal dolore fisico e psicologico che se ne stanno a guardare senza dire niente, fluttuandoti intorno come mosche su una carogna a ventre scoperto mentre ti contorci tra le lenzuola bagnate del tuo male e invochi il sonno eterno.

Sei cadavere e non lo sai, sei cadavere e non è rimasto più nessuno per chiuderti gli occhi.

Me le ricordo tutte, le mie facce. Perché qui, da queste mie parti, tutti quelli come me con un briciolo di memoria a lungo termine hanno le proprie facce da ricordare e da sognare la notte. Solo che alcuni, di quelli come me, quelli che non si scaricano la pistola d’ordinanza su una tempia, semplicemente si girano dall’altra parte, sostituendo le terribili allucinazioni con eteree immagini di bionde nude che fanno loro cose sicuramente più piacevoli di un tiro a segno con le teste bendate dei prigionieri, inginocchiati sul margine dei fossi.

Questa di oggi, per evitare di proseguire in questo grottesco sproloquio, è una di quelle notti, tanto per cambiare. Precisamente, una di quelle notti in cui speri con tutti quanti i tuoi frammenti di cuore che tutto passi il più velocemente possibile. Ma vado talmente tardi a dormire ultimamente che non è raro il caso per me di guardare il sole sorgere e dipingere di rosa e indaco la immensa distesa bianca e verde scuro che s’intravede oltre le grate della mia finestra.

Ed è allora che so che un altro giorno è passato, che sono sopravvissuto ai mostri del buio, che sono ventiquattrore in meno verso una forse troppo utopistica redenzione a questo schifo che alcuni si allargano a chiamare esistenza.

Ma è davvero esistenza, questa, mentre mi stropiccio gli occhi e cerco di ignorare la crescente emicrania che pare volermi aprire in due il cervello, e mi chiedo che effetto mi farebbe se fossi alba, quale sensazione si prova ad essere liberi di levarsi e riposare quando si vuole?

«Jan» mi chiama una voce robusta e pacata che conosco bene.

«Sì, sì… Sono sveglio.»

Con un occhio mezzo aperto, noto Michail sorridere mestamente da dietro le sbarre della finestrella della porta, e scuote il testone mezzo calvo con una certa aria rassegnata mentre si trascina in camera sua dopo una notte passata di guardia, e non dice niente.

Ho ancora la vista appannata per poterlo garantire al cento per cento ma, da quello che mi è parso di vedere, ha la pelle dello stesso colore dall’acqua da sterilizzare, grigia e macchiata.

Richiudo in fretta gli occhi, stravolto, un po’ perché ho dormito – se ho dormito – venti, venticinque minuti, un po’ perché non ho nessuna intenzione di preoccuparmi della salute dei miei uomini, già che devo provvedere alla mia e a quella delle decine di detenuti che ogni giorno bussano alla porta dell’ambulatorio coi pollici mezzi staccati e la dissenteria.

Ma io, Jan, non sono sempre stato così.

Prima di diventare soldato, ero un ragazzo – perché anch’io un tempo lo fui – e come ogni ragazzo vergine della guerra adoravo la mattina, svegliarmi col canto degli uccelli nelle orecchie, il gatto di mia sorella raggomitolato sui piedi e l’amaro del caffè che, gentile, mi solleticava il naso.

Ma, più di tutto, adoravo mia madre, quella fatta di carne e lunghi capelli dorati e non quella adottiva, di metallo e bandiere.

S’alzava presto e cantava in giardino cogliendo fiori, il vestito arrotolato fino le ginocchia e un fazzoletto azzurro sul capo.

Cantava canzoni che narravano di popoli, finalmente padroni di se stessi, liberi di passeggiare per strada senza il timore di potersi esprimere, di tenersi la mano, il sorriso fuori e dentro il cuore.

Cantava di una terra vastissima e florida, una terra tanto grande e bella da far sentire immuni i suoi figli a qualsiasi tipo di sofferenza, persino alla morte.

Cantava di questa terra un po’ mamma, un po’ nonna, saggia e benevola, di come ci sarebbe stato spazio per tutti, un giorno, e di come tutti avremmo camminato a testa alta, un cesto di spighe sottobraccio e le scarpe di feltro. E i bambini avrebbero giocato coi cavalli selvatici, i vecchi rugosi ma esperti avrebbero fumato la pipa seduti pigramente sulle verande, raccontando storie e riposando nell’abbraccio del tiepido sole mentre l’estate avrebbe lasciato spazio all’autunno, la melodia di una solitaria balalaika ad accompagnare il calare del giorno, stemperando nota dopo nota la fatica del vivere.

Adesso, nel silenzio umido e duro di questa cella, sono ancora Jan, ma di anni e dolori ne ho accumulati fin troppi, perché avere trentun anni nel 1937 è un po’ come averne avuti ottantacinque quando mia madre era ancora viva e ancora se ne sentivano in giro, di canzoni, e la gente sapeva dare amore a figli e sposi, ragioni per vivere prima ancora che ideali per cui perire.

Penso all’amore, che un po’ ideale lo è, e scaccio questo pensiero dalla testa prima che me ne ubriachi, come si farebbe con un moccioso affamato con le manine tese e gli occhi lucidi di bisogno.

Ordinario. Banale. Mediocre. Futile. Invisibile.

Questo è il Gulag, e l’unico sentimento che ci si può permettere qui è l’apatia. Ed è così appagante aver perso la capacità di importarsene…

Che cosa costa? Che cosa ci costa? La vita, qui, non costa niente.

La terra, fuori dalla mia finestra, è secca, soffocata dal gelo, e i lupi ululano lontani, affamati, i falchi gridano, l’odore pungente della pasta per il cuoio che si mischia a quello nauseabondo dello scarico dei motori, e non potrei desiderare una realtà diversa da questa.

Non c’è più profumo, né fiori, né spighe, né nota.

Non c’è una realtà diversa da questa. 

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Capitolo 3
*** III ***




La neve scrocchia e cede un po’, orme tondeggianti di pochi centimetri sotto le spesse suole degli stivali tirati a lucido, e mi basta battere un po’ i palmi, sfregare le mani avvolte nei guanti di pelo di lupo e soffiarci dentro per trovare un po’ di conforto a questo gelo.

È una mattina come un’altra in questo sputacchio di terra arida ai piedi degli Urali, gelida e calma, proprio come piace da queste parti, e il fumo sale già alto dai camini, disperdendosi in fretta e liberando nell’aria il vago aroma del carbone gettato a bruciare insieme agli sterpi secchi.

Gli aspri ed intermittenti rantolii dei colpi di tosse e il rumore sordo dei passi lenti, intervallati da altri più svelti nella neve, si confondono alla perfezione con il lagnoso ronzio delle vecchie caldaie e dei motori dei camioncini messi a riscaldare, creando un potpourri di suoni metallici e naturali in cui ben presto il fastidio lascia spazio ad una più corroborante assuefazione.

Sono particolari come questi che ti danno la forza di mettere un piede davanti all’altro, la mattina, poiché quando il naso continua ad annusare, pur colando, le orecchie a sentire, pur fischiando, e gli occhi a vedere, pur lacrimando, sai che la vita non ne ha avuto ancora abbastanza di te e che si è ancora abbastanza umani in questo traboccante calderone di disumanità e nefandezze d’ogni genere da poter ben sperare di avere ancora una minima possibilità con chiunque se la stia ridendo, lassù, del suo atroce e vigliacco Creato.

«Capitano compagno Jan!» esclama l’uomo massiccio e brizzolato seduto in solitudine a un tavolo sulla destra alla mensa degli ufficiali, e rabbrividisco per il palese sbalzo di temperatura dall’esterno all’interno.

Mi tolgo il cappello e gli sorrido freddamente mentre mi fa segno di prendere posto al suo fianco.

«Compagno Grigoriy» lo saluto, laconico, e mi accomodo di fronte a lui soffocando un lamento.

La mia povera testa…

«Come stai, compagno?» chiede portandosi alle labbra una tazza di latta contenente un limaccioso liquido biancastro e fumante.

Rido basso. Rido per l’ovvietà della domanda e della risposta che sa già.

Povero diavolo. È un buon cekista, pluripremiato, una moglie a Leningrado – che lo tradisce costantemente – ma un pessimo osservatore delle bufere dell’animo umano.

«Domanda di riserva?»

L’odore aspro che suppura da quella tazza mi fa rivoltare lo stomaco. Gli vomiterei sul vassoio se avessi mangiato qualcosa.

«Come fai a bere quella roba?» dico buttandola sul ridere, e storco il naso.

 «Ancora incubi?» cambia discorso, ma posa la tazza e lascia che la melma si raffreddi.

I suoi occhi sono due spilli grigi, affilati, e mi scalfiscono l’anima. Poche persone ne hanno la capacità e il diritto, a questo mondo.

«Fosse solo per quelli, compagno, a quest’ora avrei già risolto, te lo assicuro.»

«Jan, Jan… Sempre così tenebroso e criptico. Da quanto tempo è che siamo amici, hm? Lo sai che con me non hai segreti.»

Perché l’emicrania non mi lascia in pace? Ed ora comincia anche la gamba.

Chiudimi gli occhi, Grig, chiudimeli ora, ti prego…

«Di questi tempi, compagno, non se ne ha per nessuno. E non è necessario essere amici per sapere questo» sospiro, e lui con me.

Resa.

«Ti vedo pallido, compagno» dice dopo un silenzio ancor più nauseante della sua colazione, lentamente, assottigliando lo sguardo.

Che qualcuno mi chiuda questi fottuti occhi!

«Io… Io non…» balbetto.

Sono invisibile.

«Io… non ho dormito, stanotte.»

«Devi lasciartela alle spalle, compagno Jan, altrimenti ti soffocherà. E tu non vuoi soffocare, non è così?»

Sono una pietra. Non muovo un muscolo.

«Non voglio… soffocare.»

Accecami.

«Così, esatto. Respira. Non ci possiamo permettere di soffocare, noi.»

Lo faccio, lo sto facendo, continuo a respirare e, Dio, quand’è che ho cominciato a sudare con cinque gradi di temperatura ambiente?

«Ora,» continua, la voce bassa «ora chiudi gli occhi e ascolta attentamente le mie parole, Jan.»

Lo faccio, lo sto facendo, chiudo gli occhi e poi inspiro, espiro, inspiro, espiro

«Mi senti, Jan?»

«Sì.»

Dentro, fuori, dentro, fuori… Perché non sta funzionando?

Apnea.

«Io so di cosa tu hai bisogno in questo momento» dice, e sembra sicuro di sé. «Lo sai, Jan, di cosa hai bisogno adesso?

Ha la voce lontana, roca, quasi un sussurro. Le orecchie fischiano, le mani tremano.

Dentro, fuori. Si trema.

«Di cosa ho bisogno?»

Prende il respiro, i polmoni si gonfiano e il tempo si ferma. Meglio di una sessione di ipnosi profonda.

«Tu hai un disperato bisogno di una sana, galattica, fenomenale… scopata

Credo che quel pugno sul braccio se lo meritasse, dopotutto. Non fosse che quasi mi feci più male io.

Cristo se era muscoloso!

«Ma che vi fanno fare all’addestramento, me lo dici?» ridacchio aprendo e chiudendo la mano dolorante.

Lui scoppia a ridere e il suono della nostra macabra felicità risuona per tutto il locale. Contraddizione.

«In realtà è il risultato di svariate sessioni di… autogestione della libido, non so se mi spiego…»

«Dio, ma sei un maiale…»

«E da quando, sentiamo, ti saresti convertito alla miserabile setta del perbenismo? Dovresti farlo anche tu, compagno! Aiuta a passare il tempo.»

«Sì, e a ridursi le diottrie…»

Dopo una sessione di virili cazzotti e di maturi scambi delle rispettive avventure sessuali – discorso per buona parte monodirezionale – sotto lo sguardo più perplesso che sospettoso dei presenti, ci alziamo da tavola imbacuccandoci per far fronte alla tempesta ventosa che imperversa fuori, e un po’ più sollevato lo sono.

«Non hai messo niente sotto i denti, capitano» mi fa notare il compagno Grigoriy ficcandosi il cappello di pelliccia sul capo.

«Ho lo stomaco chiuso.»

Non domanda altro, a riguardo. Sa che non è una buona giornata per farlo, una delle tante mie giornate in cui non vale la pena farlo.

«D’altra parte il latte era una vera merda quindi meglio per te. Hai sentito dei nuovi prigionieri?»

«Ah, ah.»

«E sai anche che al magazzino da Andersov hanno iniziato tre interrogatori da circa…» getta un’occhiata all’orologio da polso. «…dieci minuti?»

«E questo dovrebbe interessarmi perché…?»

Sorride, ed è dai tempi della rivoluzione che non lo vedo ghignare in quel modo. O forse l’abitudine di ghignare non gli è mai passata.

La Madre è fiera, e ghigna con noi.

«Amico mio,» mormora basso, e mi circonda le spalle con un braccio facendo attenzione a non pesarmi su quella offesa «ti porto a fare la tua colazione.»

Mi lecco le labbra.

Adoro che la gente si preoccupi per me. 

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Capitolo 4
*** IV ***




«Ah, dottore!» esclama l’idiota in divisa in un angolo dello stanzone, alzandosi repentinamente da una sedia di ferro. «Bella giornata, non trova?»

Se potessi provare qualsiasi sentimento diverso dall’odio, in questo momento, mi prenderei a schiaffi da solo invece di ripercorrere mentalmente le mie conoscenze sui metodi di tortura medievali da scaricare su questa specie di furetto antropomorfo, invece di sforzarmi a reprimere l’ennesimo conato di vomito.

Perché non è concepibile per un essere umano assistere a certe cose, sentire certe cose, essere costretti a sopportare certe cose, e persone, arrivando a farne addirittura un mestiere, testimone impotente ed omicida al tempo stesso, collega del Demonio in persona.

Inebriante dicevano che sarebbe stato, e un po’ lo è se non fosse per questo retrogusto amaro di coscienza che muore.

La Madre non mente. Lei ama, a suo modo, ma ama come nessun’altro ha il diritto di fare.

Che poi al sangue ti ci abitui, prima o dopo, come pure alle atroci urla di dolore mentre scemano in fretta insieme ai pianti inconsolabili confondendosi perfettamente con la infinita babele di altri suoni indefiniti rimbombanti nella testa, passeggeri come leggere piume di rapace cullate dalla brezza, caduchi nella stessa violenza ed indifferenza dei proiettili sparati a bruciapelo mentre gli amici cadono e pensi di non poter essere più solo di così.

Vorrei non aver perso la capacità di importarmene così tanto, io.

Cos’è coscienza?

Vorrei non aver perso così tanto, io.

«Compagno Andersov, finché sto a questo mondo per te sono ancora capitano, se non ti dispiace» ringhio basso mentre maledico la sua bella giornata e il suo naso terribilmente adunco, la sua pelle cinerina e porosa e quel suo paio d’occhietti color fango che userei volentieri come portaspilli.

Forse un giorno mi deciderò a non importamene davvero e di farmi semplicemente i fatti miei. E poi cosa dovrei farmene di un idiota come portaspilli?

Grugnisce e punta il suo sguardo da suino sulle tre ombre a forma di uomini sedute su tre seggiole sgangherate al centro di questo magazzino spoglio e fiocamente illuminato che odora di sangue rappreso e alcol, mentre intreccio le dita dietro la schiena e il compagno Grigoriy passa il tempo mangiandosi l’unghia di un pollice, sputandola poi a terra.

Non ci abitua mai, in realtà, al fetore di tutta questa umanità che incarognisce.

Sono due uomini sui quaranta, quelli che sto osservando, forse uno un po’ più anziano perché ha già i capelli grigi, radi sulle tempie e fin troppe rughe intorno agli occhi ridotti a due tagli in mezzo alla faccia consumata, i tratti irriconoscibili, imbrattati di sofferenza e lividi, lividi ovunque, i polsi stretti nella morsa di un filo di ferro arrugginito dietro lo schienale delle sedie, i vestiti leggeri e logori su ginocchi e gomiti, violacei dalla troppo lunga esposizione alle intemperie.

Il loro silenzio mi uccide.

E poi… e poi c’è un ragazzo. Non è legato come gli altri, le mani le tiene dentro le maniche troppo lunghe del maglione di lana troppo largo, ma è altrettanto immobile, così immobile e pallido che se non fosse per il quasi impercettibile alzarsi e abbassarsi del torace lo lascerei direttamente ai corvi. O al resto dei deportati, che sono un po’ la stessa cosa a parte le piume e la possibilità di volare via di qui.

Chiudi gli occhi, Jan, e respira.

«Perché lui non è legato?» chiedo indicandolo con un rapido scatto del mento, e gli occhi mi bruciano.

Chiudili, maledizione.

«Chi? Questo pulcino?» sghignazza Andersov afferrandolo per i capelli e tirandogli la testa indietro bruscamente. «L’abbiamo pescato nella steppa ieri pomeriggio, munito di una sola valigia contenente una camicia e un sacco di scartoffie… e una custodia di cuoio per violino.»

Il ragazzo dalla carnagione lattescente e i capelli d’ebano ha la pelle sporca di fango ed incrostata di sangue vecchio, e una ciocca gli ricade umida e piatta sugli occhi gonfi, chiusi, contratti dal dolore per la posizione scomoda del collo e sicuramente per qualcos’altro che non ha la forza di dire.

«Un violino.»

È così magro che non ho alcuna difficoltà a distinguere le striature blu scuro delle vene sulla gola ed ogni singolo osso e cartilagine che la maglia lascia scoperti in uno zibaldone di dettagli tanto insignificanti quanto splendenti che, nonostante la sporcizia e le estese ecchimosi, riesco a notare subitamente come se ne avessi una precisa mappa in testa, dalla nascita: dalla curva elegante del collo sottile, al neo solitario nella zona della giugulare, dalla linea aristocratica della mandibola a quella più dura degli zigomi, scavati dalla fame. E poi le labbra, tagliate in più punti e morbidamente socchiuse in un respiro leggerissimo, impalpabile come questo mio inspiegabile trasporto verso un qualcosa che ho il timore di non esser degno neppure di guardare.

Non deve avere più di diciassette anni, la creatura, ma sotto le palpebre e sulle larghe spalle scarne sembra portare tutti i millenni di questo nostro mondo anziano e perverso la cui bellezza, poca ma pur esistente, pare coagularsi tutta in essa, ed in lei guastarsi come capita a un delicato fiore, nato nell’asfalto e morto calpestato.

Come si fa ad abituarsi? Come possono chiedercelo?

«Capitano. Capitano?» chiama Grigoriy alle mie spalle.

Sospiro e scuoto il capo. Incanto?

«Hm?»

«Abbiamo requisito le sue cose ma non sappiamo nulla di lui. Nome, provenienza, età… Sembra che l’abbia vomitato la steppa. Sbucato fuori dal nulla.»

«Vuoi dirmi che non ha alcun documento appresso?»

«Nessuno. Sappiamo solo che deve interessarsi di musica e chimica. Nella sua valigia, oltre al violino e ad un indumento, abbiamo rinvenuto un paio di spartiti scritti a mano e un quaderno di formule e di resoconti di esperimenti.»

«E pare che sia muto, per giunta» interviene Andersov lasciandogli andare la testa che ricade pesantemente in avanti.

Per un attimo credo che stia quasi per svenire.

«Ragazzo,» lo chiamo «ragazzo!»

A nulla sembra servire alzare la voce, perché quest’individuo ha gli occhi chiusi, il respiro corto e par che dorma. O che stia prendendo un tè con la Morte.

«Rispondi al capitano, pezzo di imbecille!» urla il più imbecille di tutti quanti noi messi assieme, mentre gli assesta un manrovescio e poi un altro, e un altro ancora finché dentro di me qualcosa si spezza e mi fa protendere una mano verso la sua, impiastricciata di sangue, fermandola a mezz’aria.

«Credo possa bastare, compagno» e questa voce qui, lo so, non è la mia. Non più.

Il detenuto barcolla per qualche secondo prima di accasciarsi su un lato e, in un gemito basso, stramazzare al suolo, mentre da quelle labbra infantili cola un rivolo scuro e denso che gli screzia una guancia e macchia il cemento.

«Stupido asino, non sarebbe capitato nulla di tutto questo se l’avessi legato!» ringhia Grigoriy al sottoposto mentre gli altri due uomini sulle sedie sussultano e singhiozzano.

Poi, s’inginocchia vicino al ragazzo e comincia a dargli dei leggeri schiaffetti sul viso mentre dentro di me urlo ed insieme rido perché, insomma, è comica la cosa.

«Ragazzo, ragazzo mi senti?»

«Non voleva parlare!»

«E questo cosa c’entra?» chiedo e sento il gelo pervadermi le membra.

«Non voleva sciogliere la lingua, il cucciolo bastardo! Io…»

«Jan…»

Mi volto verso Grigoriy e spero nel peggio. Ma questi si limita solo a sollevare le maniche del ragazzo e a mostrarmi le sue mani: le dita sono completamente storte, graffiate e livide, i polsi segnati e innumerevoli bruciature di sigaretta deturpano la pelle dei dorsi.

«Andersov, sparisci» riesco solo a dire quando in verità dovrei complimentarmi con lui per aver cercato di far confessare un sospettato.

La Madre sarebbe fiera, Jan. Che diavolo ti succede?

E ancora, questa qui, non è la mia voce, perché l’imbecille esce e si sbatte dietro la porta bestemmiando mentre mi chino su un ginocchio e raccolgo questo fiore schiacciato, prendendolo tra le braccia.

«Grig, assicurati che gli altri due abbiano mangiato e portali al cantiere. A lui ci penso io.»

«Ha speranza?»

Mi avvio verso l’uscita e non lo guardo nemmeno mentre spalanco la porta con un calcio e mi chiedo da dove venga tutta questa mia forza se non ho neanche mangiato.

A uno disabituato ad importarsene gli importa solo di una cosa alla volta.

«Nessuno di noi ne ha.» 


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Capitolo 5
*** V ***



Dovrò decidermi a ripulirlo questo posto, un giorno.

È un minuscolo ambulatorio medico ricavato da quella che una volta era la stanza delle caldaie, poco più che uno sgabuzzino dall’intonaco scrostato intriso del puzzo delle feci di ratto e della muffa agli angoli del soffitto. Giusto lo spazio per un piccolo armadio per l’attrezzatura, una barella di fortuna e una poltroncina, sfondata.

L’ho rimesso un po’ in ordine da quando mi hanno trasferito qui, ed è anche un po’ il mio rifugio.

Non sarei mai stato capace ad abbandonare del tutto la professione medica, già acquisita con somma fatica e sacrifici inenarrabili in un tempo in cui trovare un’università aperta era come passeggiare nel deserto di Aral sperando di scorgere un pozzo come si fa in città con un negozio di tabacchi, o coi bambini randagi.

Non ci sono nato per fare il soldato, eppure… eppure eccomi qui, le braccia conserte e lo sguardo e il cuore vuoti che man mano sento riempirsi e liberarsi allo stesso tempo dell’immagine opalescente di questo esserino tutto pelle e ossa, e capelli bruni e labbra secche, mentre penso che in realtà avrei fatto davvero meglio a gettarlo nel bosco e lasciare che le bestie affamate là fuori facessero il proprio lavoro invece che starmene qui imbambolato permettendo che suddetta immagine mi invada il cervello e lasci fuori tutto il resto.

Non ci sono nato per uccidere persone perché il mio lavoro è guardare mentre muoiono, come adesso, mentre senza anestetici né antibiotici credo di poter salvare loro la vita quando me lo si ordina, armato di un ago da cucito storto, un filo strappato da una vecchia giacca appartenuta a chissà chi e un po’ di ghiaccio per lavare via il sangue incrostato e sgonfiare gli ematomi.

Più muoiono, più noi falliamo. E non ci è permesso soffocare, non qui.

Devono lavorare per guadagnarsi il pane e noi dobbiamo farli lavorare per guadagnarci un posto al mondo.

«Malchik [1]…» lo chiamo, e così due, tre volte, e penso che quasi quasi mi sento in colpa, non so perché, non so come, ma forse è solo perché è giovane, troppo tenero per starsene come sta, ancora acerbo per cadere ed essere raccolto, per marcire, o che sono io quello che si fa troppe domande o che sono semplicemente troppo vecchio per sopportarne il peso su un’anima in pensione, ma certe sensazioni ti colpiscono con la forza di un mattone scagliato in piena faccia indipendentemente dall’età che hai e che non dimostri, e tu non puoi far altro se non porgere l’altra guancia.

Com’è messo male…

Ma chi è messo peggio?

Te lo meriti, un po’ di sano senso di colpa, e lo sai. Oh sì, è propedeutico per andare avanti. La chiamano catarsi e tu, eretico, ti ostini a chiamarla semplicemente merda. Ma questo è anche un po’ l’esistenza, l’eterna prigione che si sconta vivendo per i propri peccati.

Avanti, ne hai visti tanti come lui se non di più piccoli, se non di messi peggio. E non sarà diverso, questa volta, no.

Perché dovrebbe esserlo, maledizione?

Approfitto dell’unico anestetico che circola detassato ultimamente, e che è anche il migliore e il più efficace, la sua incoscienza, per scoprirgli le dita ed appoggiarmele sui palmi: probabilmente, se non gliele raddrizzo, quel suo violino non potrà più tornare a suonarlo. E ora che ci penso il grammofono si è rotto la settimana scorsa e mi farebbe piacere sentire un po’ di buona musica…

Perché no?

Non è difficile. Non sente nulla. Io, invece, rabbrividisco un po’ perché dovrei essere abituato al rumore cartilagineo delle ossa che scivolano di nuovo dentro alle loro articolazioni, ai legamenti e ai tendini che tornano sui loro binari, e invece è così fottutamente eccitante, come alla prima volta, questo suono di materia che si accartoccia e stride e langue sotto una carne particolarmente levigata e giovane, e sai che non hai perso la manualità di un tempo per le cose vive oltre che per i meccanismi del fucile.

Soprattutto se sono queste mani a produrre il concerto organico di cui hai disperatamente bisogno adesso, tu, medico militare che, Cristo Santo, sei una contraddizione vivente e l’unico calore di cui disponi e nel quale affonderesti piacevolmente il naso è quello del sangue che ti scorre tra le dita, che ti macchia la giacca da ufficiale pluripremiato, e tu non dici niente.

È un attimo. Poi, qualche goccia di mercurio cromo, ovatta e benda. Come nuovo.

Come un moccioso a cui piace rompere i propri giocattoli per avere la soddisfazione di saperli poi riaggiustare.

Sarà una lunga giornata, questa, su questa mia poltrona e vita sfondate, le gambe e i sentimenti accavallati mentre lo guardo dormire a labbra sbocciate e respirare piano, tranquillo, come se, per un attimo, avesse il potere di infondermi la pace che non merito e a tendermi la mano verso una luce che non vedo, contagioso come la più desiderabile delle epidemie che passano e vanno, facendoti solo che un favore.

Mi chiedo come debba apparire dopo un bagno, liberato di tutto il sudiciume che gli imbratta i tratti evidentemente armoniosi.

Mi chiedo cosa penserà quando riuscirà ad aprire gli occhi e vedrà il mondo che lo circonda, e cosa dirà quando si deciderà a far parlare quelle labbra.

Io, intanto, mordo le mie forte tra i denti, perché non è possibile che questa volta sia davvero diverso, o almeno così diverso.


 
Com’è possibile? Com’è possibile che mi sia addormentato?

Da quanto era che non dormivo così? Su una poltrona sfondata poi, in questo buco in cui sono costretto a lavorare?

E cos’è questo strano bagliore che mi acceca e mi sveglia dal torpore che da tempo non mi cullava?

Sobbalzo al ritmo del mio cuore che perde un battito quando me ne rendo conto appieno, del fatto che qualcuno mi sta fissando da vicino, a pochi centimetri dal naso, curioso come un cucciolo di lince che ha perso la madre e che sta imparando suo malgrado a cacciare in solitudine, guidato dall’istinto e dalla fame che gli scava i lombi e gli annerisce i pensieri.

Questo qualcuno ce l’ha lo sguardo, della lince, e, quando da stravaccato con un colpo di reni mi metto dritto, questi fa un balzo indietro inciampando sui lacci sciolti delle sue stesse scarpe, e cade a terra.

«Che cazzo stavi facendo?!» esclamo, e so che non dovrei prendermela, che dovrei riderci su e prenderlo semplicemente a calci per essersi mosso, per averci anche solo provato a fare qualsiasi cosa avesse in mente di fare, perché chi non sa stare al proprio posto qui viene preso a bastonate, come un cane disubbidiente, a ceffoni come un bambino ribelle, e solitamente le botte bastano per rimetterli in riga.

Qui sono capaci di tutto. Di soffocarti nel sonno, di rubare… ed è nostro compito impedire che tali nefandezze vengano compiute facendo immediatamente rapporto ai primi segnali d’inquietudine.

Ma quest’individuo, più che un banale assassino o ladruncolo, sembra una minuscola margherita appena fiorita, che trema e impallidisce considerevolmente nella sua gracile corolla quando alzo la voce, indietreggiando sul pavimento facendo leva sui polsi martoriati e sui talloni e andando infine a sbattere con la schiena contro il muro alle sue spalle.

Ha i pantaloni strappati e le ginocchia sbucciate e, quando mi alzo, non ha nemmeno la forza di proteggersi dallo scatto della mia mano sulla sua gola.

«Dimmi» sussurro, ma è quasi un ringhio il mio. Deve sapere chi è che comanda qui. «Perché mi stavi fissando?»

Subisce passivo la mia stretta, come io il suo sguardo che mi annienta pezzo dopo pezzo ma questo, lui, non lo sa.

Non può vedere la rabbia, l’arroganza, la brama di sottomissione che lentamente si sgretolano, dentro di me, per quanto mi sia vicino ed io così scontroso, l’uomo che subordina per una volta il soldato e il cuore che cola.

Ma questo è tutto quello che conosco, tutto ciò che mi è stato insegnato e per cui ho fatto giuramento, e non posso calare la guardia.

«Parla, dannazione!»

Stringe gli occhi e ha paura e no, no!

Aprili, ti prego. Aprimeli, perché nei tuoi riesco a vedere il buono che ci potrebbe essere in me.

Questa volta il passo indietro lo faccio io, scostandomi repentinamente da quel mostro in cui mi sto trasformando, e allontano la mano.

Il blu incastonato nel verde e nell’ambra della lince torna per divorarmi, ancora e ancora, frammento dopo frammento mi cerca e mi lascio trovare.

Si passa la lingua sul labbro inferiore, spaccato, e io ne seguo i movimenti fluidi.

Dio, sì.

«Parli russo?» gli chiedo accucciato di fronte a lui, ancora le spalle al muro.

Mi guarda serio e sembra non capire, che è l’unica spiegazione per questo silenzio che mi fa bollire il sangue nelle vene. Ma c’è quella sottile scia di saliva che abbraccia un angolo e l’altro della bocca che ben presto arriva in soccorso per raggelarmelo, e ho i brividi.

«Deutsch? Français?» e nemmeno con finlandese, polacco, armeno funziona.

Mi sta prendendo in giro. Evidentemente pensa che basti quel suo sguardo limpido da agnellino braccato e il voto al silenzio per farmi desistere.

Ma un soldato che desiste non è un soldato e non sono io, che di pazienza ne ho da vendere ma che i ragazzini indisciplinati li sopporto poco e dei cuccioli di lince, lui non lo sa, ma io di solito mi ci faccio un colbacco.

Sospiro. Così non si può andare avanti.

«Alzati» dico fermo, e lo tiro su per un braccio perché tanto so già che questo qui è stupido e che non farà mai niente che non derivi dalla sua più spontanea volontà. «Mettiti seduto e stai fermo.»

Rigido come un pezzo di legno, nonostante tutto ubbidisce e si appollaia sulla barella dalla quale fa penzolare le gambe magre, e un’espressione amareggiata gli segna il volto mentre riunisce le mani fasciate sul grembo e le osserva, in silenzio.

«Ti hanno quasi rotto le dita. Ho dovuto raddrizzarle, sai… perché so che suoni il violino. L’ho fatto quando eri svenuto, così non hai sentito niente.»

Quante lingue possono parlare, gli occhi? I suoi più di quelle umane, soprattutto quando sembra domandare ma al contempo non chiedere nulla, solo… osservare, e ricoprire di bellezza tutto ciò su cui posa lo sguardo, annientandolo.

«Ovviamente non sei ancora in grado di lavorare con le mani in queste condizioni. E non parli, dunque non puoi renderti utile in alcun modo. Sai cosa significa questo, hm?»

Osserva. Osserva tutto, e mi sento spogliare sempre di più ad ogni battito di quelle lunghe ciglia nere.

«Significa che la tua presenza qui non vale niente, se non come cibo per i maiali. Mi capisci?»

Come si fa a spiegare la morte a qualcuno che ha tutta la vita davanti a sé?

«Tuttavia, non credo che qualcuno farà problemi se ti porto negli alloggi degli ufficiali a lucidare stivali. Non è complicato né così faticoso. Poi, ti verrà dato un violino se il tuo è stato perso o distrutto e suonerai per me, almeno finché non ti sarai rimesso del tutto e non sarai in grado di guadagnarti da vivere come tutti gli altri. Siamo intesi?»

E decido di prendere l’ennesimo battito di ciglia come un sì. 

















Note:

[1] in russo, ragazzo/ragazzino.




Author's Corner:

Ce la farà la nostra Johnlockiana ora che ha dato tutti gli esami che doveva dare *parte un concertone di trombe reali* a terminare l'ultimo capitolo di Dancing Star? Abbiate fiducia, sono ufficialmente entrata in travaglio XD

miss potter (che vi adora)

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Capitolo 6
*** VI ***





Mi lascio lo sgabuzzino e il cucciolo alle spalle, invitandolo a mettersi comodo mentre esco di qui e il mio è poco più che un mormorio, confuso col rombo lontano di un motore. Ripiombo così, con tale facilità, nel gelo e nella consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono e di terribilmente sbagliato per me e per chi mi sta attorno, e mi controlla.

Non avrei potuto dirgli e fargli altro. Nemmeno sostenere quel silenzio e quella particolare razza di sguardi per un attimo oltre.

In Direzione, incontro Grigoriy il quale, non appena mi scorge, getta a terra una cicca calpestandola sotto l’alta suola di uno scarpone e s’allarga in un magro sorriso di circostanza mentre torna su alcuni documenti, firmando senza leggerli.

«Allora?» chiede sospirando, simulando operoso tedio.

Mi tolgo il cappello e mi abbandono sulla prima sedia comoda che trovo, niente di meglio che un fantoccio gonfio e sporco. Ho le mani ancora sporche di sangue. Tutti le hanno notate, tranne me.

«Allora cosa?» dico, e allungo il collo per nulla interessato alle carte sulle quale sta fingendo di lavorare.

«Il ragazzo muto.»

Mi passa un paio di fogli, ridacchiando. Li prendo, ma non li sto guardando davvero.

«Non è muto. È solo furbo.»

«Ingenuo…” sospira. “Non sa che fine fanno qui i furbi?»

«Gli ho raddrizzato le dita, comunque. Ho pensato di metterlo al servizio degli uomini, sai… lucidare stivali, spazzolare giacche. Cose di questo genere.»

L’aria paradossalmente distesa del mio compagno viene improvvisamente spintonata da una prepotente espressione perplessa, dura, di leggero e levitante sospetto che poco dona ad un animo originariamente abulico, un placido felino che si sforza a ruggire mal reprimendo, dietro un paio d’occhi scuri ma incredibilmente trasparenti, tutto il suo smarrimento.

«Perché lo fai?» mi chiede, e mi sento inspiegabilmente braccato.

Ma se avessimo la forza e l’ardire di guardarci allo specchio e se predisponessimo di tale privilegio materiale, al campo, vedremmo più che uomini perduti, probabilmente. O forse nulla, solo ombre e il riflesso guizzante di bambini ignoranti che non hanno mai smesso di giocare a guardie e ladri, come se la guerra non fosse mai iniziata, o finita, e le nostre madri dovessero uscire da un momento all’altro ammonendoci per esserci sporcati i vestiti nuovi di fango.

Pateticità, la chiamano.

«Perché faccio cosa

Non devo giustificarmi. Non ho giustificazioni.

«Lo sai… Questa cosa, insomma…» stringe gli occhi, scostandoli dai miei solo per un secondo, e scuote appena il capo come se non riuscisse a trovare le parole per le quali si è persa l’abitudine, di questi tempi, insieme all’affabilità. «Dell’importartene.»

«È solo un ragazzo. Non tormentarmi.»

«Solo un ragazzo? Jan, ti prego. Non macchiarti del suo stesso peccato.»

«Di essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato?»

«D’innocenza.»

Uno spiffero alle mie spalle sembra volermi segare il collo in due, benché ben riparato dal colletto della giacca di lana e da un fazzoletto, ma non è per il freddo che tremo. Non proprio, no. Non è più il freddo dell’al di fuori a farmi così male.

Credo, piuttosto, che sia la consapevolezza della solitudine, che è un gelo ben diverso, più sferzante e assassino di questo, al quale sto cercando un possibile ma poco probabile rimedio.

Credevo di trovarlo tra chi, come me, si ripara a suon di divise di lana e medaglie e buoni propositi, mentre fuori la tempesta imperversa e si ride in faccia a chi ne resta travolto.

È davvero inevitabile tutto questo?

«Non è… niente, d’accordo? Non è nessuno.»

«Nessuno, capitano. Esatto.»



 
 
La giornata si trascina al solito, lenta e cristallizzata nella sofferenza, e ha iniziato a nevicare.

Un leggero e quasi impalpabile manto candido si posa ovunque, su ogni cosa che stia allo scoperto, macchine, tronchi segati, capannoni, uomini e cibo marcio, senza discriminazioni, sciogliendosi al contatto dei fumi che eruttano le ciminiere o al fiato caldo dei fantasmi che si vede gironzolare qua e là. E sono dettagli come questi su cui uno s’appoggia, qui, aggrappandosi con unghie e denti per non crollare definitivamente sotto il peso di questa insopportabile realtà che trascina, malefica, nell’abisso cieco della monotonia.

C’è una coda di una decina, o forse più, di persone fuori dall’ambulatorio, in piedi nella tormenta: chi si tiene un braccio, probabilmente rotto, chi la testa con le dita violacee immerse nei capelli unti di sangue, chi altri lo stomaco, piegato in due dalle fitte del colera.

Alzo un mano e grido il mio nome, e tutti si girano con le lacrime agli occhi, luminosi di speranza o semplicemente irritati dal vento ghiacciato che solleva loro gli stracci.

Entro lasciando il primo della fila ancora fuori, e quasi sobbalzo ricordandomi solo all’ultimo momento del mio piccolo ospite.

Il ragazzino è dove l’avevo lasciato, accucciato sulla barella con le ginocchia piegate contro il petto e le braccia smilze ad abbracciarsele.

Trema dalla punta dei capelli a quella delle povere scarpe. Ed è più cereo del normale.

«Ragazzo, devi andartene. Ho delle visite da fare» dico semplice e freddo come solo un medico militare riuscirebbe a fare, indossando sopra la casacca da capitano il camice da dottore.

«Ragazzo? Mi hai sentito?»

Trema, quello, trema come una marmitta appena avviata. Solo che la sua pelle ha la temperatura di un ghiacciolo e non del ferro surriscaldato, no affatto.

«Stai congelando.»

Alza lo sguardo e mi guarda stranito. Certo, mi merito un premio per l’ovvietà della mia affermazione.

Lo prendo per un braccio e lo faccio scendere, indicandogli la mia poltrona.

«Resta fermo lì, d’accordo? Non muovere un muscolo, non una parola mentre visito. Ma ti sarà piuttosto facile, no? Non proferire parola…» borbotto, quasi tra me e me, dirigendomi verso la porta.

Mi volto troppo in fretta per poterlo dire con certezza ma credo di avergli visto nascere un mezzo sorriso sulle labbra screpolate e rosse e, bizzarro ma vero, quest’allucinazione mi dà la forza per inaugurare l’ennesima giornata di visite mediche con la consapevolezza che, per sette su dieci di loro, dovrò firmare più certificati di decesso che ulteriori prescrizioni farmaceutiche.


 
 
I malati non l’hanno nemmeno notato, se non di sfuggita. Troppo occupati a non svenirmi tra le braccia e preoccupati per se se stessi e per il proprio referto per accorgersi della sua presenza sullo sfondo di quella tragedia umana in cui si susseguivano comparse in costumi da scheletri in una danse macabre sempre uguale in cui parlare di finale infelice si sarebbe probabilmente potuti scadere nell’eufemismo più agghiacciante.

Congedato l’ultimo infermo, affondo le mani insudiciate nella neve appena fuori dalla porta e me le strofino sul camice. Più che in un ambulatorio, così conciato darei meno nell’occhio se fossi in un mattatoio.

«Spero di non aver urtato troppo la tua sensibi… Ehi! Giù le zampe!»

Lo sorprendo a sfiorare lo stetoscopio, abbandonato su un bracciolo della poltrona, ma, a differenza di qualche ora prima, non sussulta né indietreggia. Semplicemente non stacca gli occhi dallo strumento, come incantato o in una sorta di trance mentre passa le lunghe dita rozzamente fasciate sullo strumento, e quell’abbozzo di sorriso ora per me è reale e tangibile verità, come un delicato acquerello rosato su una tela immacolata che si espande, silente, bagnando a poco a poco la carta e penetrandone i pori.

Lo osservo accarezzare il microfono e gli auricolari, in muta adorazione di un oggetto tanto comune quanto arrugginito e datato, e mi lascio trasportare per un attimo cullato dal momento.

Annego in un impercettibile sospiro a tratti strozzato se penso da quanto tempo è che qualcuno non mi tocca in quel modo…

«Smettila.»

Gli strappo lo strumento da sotto le dita e ne segue con gli occhi i movimenti metallici per tutto il gesto di riallacciarmelo intorno al collo.

«Sei davvero così appassionato di scienza?»

Non mi aspetto alcun tipo di risposta, semmai un cenno o un piccolo spostamento degli occhi.

I suoi mi dicono che sì, ne è affascinato, ed io rispondo che, forse, non mi nuocerebbe un assistente.

«Devi lavarti, ragazzino. Non puoi andare a letto lercio come sei» e capisco che più che una barella e una poltrona senza molle non ha visto, da quando è qui. «Dormirai nella cella d’isolamento vicino ai dormitori degli ufficiali. Non ti ho ancora visitato, tecnicamente, e… potresti avere qualche malattia trasmissibile, ecco.»

Non credo nemmeno io alle parole che dico.

Perché importarsene?

«Lo farò domattina, visitarti. E poi, dopo la colazione, inizierai a lavorare per i miei uomini, come prestabilito. Sarai sotto la mia responsabilità ma ubbidirai a loro come faresti con me, è chiaro? Niente giochetti, niente… iniziative. Tu lavori, continui col tuo mutismo, mangi quando devi mangiare, riposi solo quando noi ti diamo il permesso di farlo. Mi sono spiegato?»

Ovviamente.
 
 

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