Hunters Games

di La X di Miria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Marta ***
Capitolo 2: *** 'Fanculo. ***
Capitolo 3: *** Rapita ***
Capitolo 4: *** Nuovi compagni ***
Capitolo 5: *** Un centro perfetto ***
Capitolo 6: *** Di nuovo insieme. ***
Capitolo 7: *** Mai troppo giovani per morire ***



Capitolo 1
*** Marta ***


Dal cielo grigio del mattino, sembrava una giornata depressa come tante altre.

Quelle giornate in cui il sole rimane avvolto nel suo letto di nuvole soffici e non ne vuole sapere di alzarsi in cielo.

Quelle giornate in cui hai solo voglia di infilarti un maglione caldo e di sorseggiare una cioccolata, magari con una rivista. Un libro no, si potrebbe macchiare. E poi le riviste sono così colorate, ti fanno pensare alla primavera. Puoi leggere solo quello che t'interessa, puoi strappare le pagine, ci sono persino i campioni-profumo in omaggio!, e sì, puoi avere finalmente la tua personalissima vendetta contro quelle acciughe denutrite delle pubblicità.

Stavo dando un'occhiata a un reportage su una delle tante isole della Polinesia, uno di quei classici posti da sogno che non visiterai mai, quando mi accorsi che la tizia di Dior mi fissava con la solita espressione da “non-vali-un-cazzo”. Ne avevo viste di facce odiose, ma questa le stracciava tutte.

Estrassi una penna e, senza badare ai mille sobbalzi dell'autobus (è normale per le vie del centro), mi dedicai a una delle mie occupazioni preferite. Le ripassai la bocca più volte fino a farle assumere un sorriso ebete, le allungai le occhiaie fino agli zigomi e la tempestai di brufoli su tutta la faccia. Per finire le aggiunsi cinque chili per fianco e le riempii la gamba scoperta di peli scuri. Ecco qua: non era uno dei miei capolavori, ma mi aveva soddisfatto.

Le immagini migliori le tenevo appese al muro di camera mia: la sera prendevo le freccette e la vodka dal comodino e miravo a quella che mi stava più sulle balle. Quando sbagliavo, tracannavo un sorso: così era più difficile, più esaltante. Alla fine mi risvegliavo in posizioni assurde e con un mal di testa da stendere un cammello.

Sì, potrà sembrare un comportamento da pazza sclerata, o di una con seri problemi d'autostima, ma quando hai a che fare con quella gente ogni santo giorno, diventa una reazione più che normale.

L'autobus fermò nei pressi del teatro, una costruzione color ocra con una porta a due ante alta due metri. Già m'immaginavo la calca dei fotografi e dei giornalisti pressare, agitarsi, tendere i microfoni e spintonarsi per guadagnarsi l'esclusiva, per essere i primi ad entrare. Non avrei mai capito il perché di tanta foga: in fondo era solo una sfilata di moda come tante, eppure ogni volta la stessa storia.

Ma la verità era un'altra. La verità era che io avevo un terrore innato per i fotografi.

Una fifa blu, perché la paura è blu, come i flash di quelle dannatissime macchine, che scoccavano all'unisono, tutte dirette verso un singolo obiettivo: tu.

Non ero una modella, perché il mio corpo non era perfetto.

Non ero una modella, perché non avevo il portamento adatto.

Non ero una modella, perché odiavo essere svestita e rivestita, truccata, infilare dannatissimi tacchi a spillo, ridurmi ad acqua e insalatine e non potermi strafogare di gelato.

Ma soprattutto, non ero una modella, perché odiavo le macchine fotografiche.

Uno dei miei incubi ricorrenti mi vedeva in un camerino claustrofobico, circondata da truccatrici, stiliste, sarte, giornaliste, tutte appiccicate. Mi infilavano un vestito strettissimo e giallo (io odio il giallo!), mi riempivano la faccia di cerone fin dentro la bocca, mi spingevano i piedi dentro scarpe di due numeri più piccole, con la punta stretta e i tacchi a spillo. Mi alzavano, mi strattonavano, mi trascinavano verso la passerella: cercavo di divincolarmi, le giornaliste mi placcavano, mi tempestavano di domande, i microfoni stridevano (o erano i tacchi a spillo sul pavimento?).

Cento paia di mani mi spingevano fuori e per dei lunghissimi attimi mi sembrava di essere sola... fotografi vigliacchi, emersi dall'ombra, mi mitragliavano di scatti, facevano fuoco su quel briciolo di dignità che mi era rimasto. Mi giravo, mi rigiravo, mi coprivo la faccia, accecata dai bagliori, scoppiavo a piangere, non sapevo come difendermi, gridavo, muggivo come un animale goffo e inutile, mi montava l'ansia, l'ansia, l'ansia!! Smettetela, smettetela, basta, basta, basta!! Perdevo l'equilibrio, non sapevo più dov'era il sopra, dov'era il sotto, cadevo nel buio e mi risvegliavo rintanata sotto le coperte, in fondo al letto.

«Ciao Marta! Siamo presto oggi!»

Come sempre, Ale arrivava prima di tutti.

Stava sistemando file di abiti per la sfilata e non s'era nemmeno tolta il cappotto. L'aiutai a mettere in ordine e feci la spola almeno dieci volte, da bravo attaccapanni ambulante.

«Mannaggia, questo ha uno strappo.»

Era un abito da sera color verde acqua con un lungo strascico bordato di perle.

«Passami l'ago, Marta.» Si sistemò sul naso gli occhiali stile John Lennon e spinse la sciarpa multicolore dietro le spalle. Mi piaceva quando faceva così, aveva un'aria molto professionale.

Sgarfai nella mia borsa delle meraviglie ed estrassi l'astuccio con dentro tutto il necessario: ago, filo, forbici, spille, bottoni a caso. E quelle che prima erano le quinte di una sfilata, si trasformarono in una sala operatoria a tutti gli effetti.

Ale stese il vestito sul tavolo e prese a rammendarlo con mosse rapide e decise. Riattaccò il filo di perle sotto i miei occhi alla velocità di una cucitrice.

Ale era una maga con i vestiti, riusciva a sistemarli e a valorizzarli come mai nessuno avevo visto fare, aveva sangue freddo, riusciva a mantenere la calma anche nel bel mezzo della sfilata, quando il fermento era palpabile.

«E questo è fatto! Bene, il prossimo!»

 

Le sei arrivarono in un battibaleno. Dalla sala giungeva il vocio dei critici, dei fotografi, dei giornalisti, di tutta quella gentaglia buona a nulla, capace solo di campare con qualche scritto idiota su un'ancora più idiota sfilata di moda. Un brusio interminabile, che ricordava il sordo rumoreggiare della risacca del mare. Già mi veniva ansia.

Ed ecco le prime ragazze entrare dietro e quinte, ondeggiando su tacchi vertiginosi come i palazzi di Tokyo durante un terremoto.

«Salve a tutti, gente!» La prima era Jacqueline, che faceva rima con plin-plin, con la sua immancabile coda di cavallo e il sorriso da cihuahua messicano. Dietro di lei spuntò una massa di capelli biondi e il fisico asciutto, anzi prosciugato, di Carolina Insalatina, seguita dal viso aguzzo di Luciana la Poiana, che ruotò la testa come un rapace e ci squadrò crudele.

«Oh, oggi non ho nemmeno avuto il tempo di risistemarmi il trucco!» disse a voce alta Carolina: sfarfallò le ciglia appesantite dal mascara e socchiuse le palpebre impestate di ombretto. Si specchiò sulla superficie di un armadio «Guarda qui, è tutto sbavato... ».

Ma sarà il tuo cervello sbavato!

Jacqueline e Luciana poggiarono le borse su un tavolino. «Avanti, mettiamoci all'opera, belle care. Voglio essere perfetta stasera.» Jacqueline ghignò e si avviò nella sala trucco sculettando.

Mi stava salendo l'omicidio. Ed erano appena arrivate.

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Capitolo 2
*** 'Fanculo. ***


La soglia di guardia della mia pazienza fu raggiunta quando Léon Garcia Murquiero Seledon blà blà blà entrò trionfale dalla porta secondaria. Il famoso stilista, più famoso per la sfilza di nomi che per le sue creazioni. Secondo molti, i suoi tanti nomi erano chic. Secondo le riviste, aveva un talento incalcolabile. Secondo me, doveva solo impiccarsi.

«Mmmmh! Macciao, mia bella principessa!» Allargò le braccia in direzione di Jacqueline e insieme protesero il collo l'uno verso l'altra, strofinandosi teneramente i nasini. Lui, con lo smoking rosa confetto, i guanti bianchi, il bastone in ebano e i capelli impomatati, faceva la figura del fenicottero stordito. Lei, stretta in un vestitino nero attillato, con i denti bianchissimi, le rughe disegnatesi lungo il naso e ai lati della bocca, pareva una iena cretina.

«Ma come siamo belli stasera!» Léon rifilò una carezza sul volto di Alessia, si passò il bastone sull'altra mano e toccò il fianco di Carolina.

Io ero indaffarata a sistemare un abito indosso a quell'ammasso di ossa, muscoli e legamenti che era Luciana. Le avrei regalato volentieri un po' della mia pancetta, che ora sorrideva e faceva capolino sotto la maglia. Era perché dovevo stare sulle punte, per vestire quella giraffa.

«Ahi! Così mi prendi i capelli!» si lamentò.

«Oooh, ma cosa succede qui?!» gloglottò Léon «Non starai mica facendo male alla mia piccola stellina?!» Mise i pugni sui fianchi e chinò il busto sopra di me. Voleva sembrare minaccioso, ma con quello smoking faceva solo ridere. Il suo naso da fenicottero arrivava proprio sulla mia fronte. Ma perché qui sono tutti così schifosamente alti?

«No, mi scusi... » borbottai.

«NO! Niente “mi scusi”, carina! Qui siamo gente seria, gente che lavora, gente qualificata che suda il proprio stipendio» Tutte le quinte si erano zittite di colpo, tutti si erano fermati, tutti mi osservavano. Ansia. «Non siamo mica qui a scambiare borse di Chanel per borse di Armani, chiaro il concetto?! O lei non sa che differenza c'è tra una borsa di Chanel e una di Armani? Eh? È così? Risponda!»

Ero viola di vergogna e tenevo lo sguardo basso, consapevole di essere la star involontaria di quel teatrino umiliante. «Sì, be', io... .»

«Oh no, niente giustificazioni insulse, please! Veda di fare bene il suo lavoro altrimenti carina, be', quella è la porta! Fa' le sue valige e se ne va fuori dalla mia sfilata, capito?!»

Alzai timidamente gli occhi. Erano lucidi perché le zaffate del suo profumo me li avevano irritati, insieme alla gola. Per questo dovetti sembrargli abbastanza contrita da decidere di lasciarmi stare.

«Va bene» gli dissi e lui se ne andò senza calcolarmi, sistemandosi i ciuffi ribelli e il colletto della camicia che si erano scomposti nell'accesso di rabbia.

«Sentito? Vedi di fare attenzione» mi rimbeccò Luciana.

Volevo una pistola. Per fare fuori loro o me? Non lo sapevo, ma alla fine era uguale, avrei trovato la pace in entrambi i casi. Incontrai lo sguardo di Ale, che mi sorrise e mi diede forza: scosse la testa e accennò un sorriso sarcastico. Se non ci fosse lei, sarei persa.

Questo però aveva solo ritardato l'esplosione dei miei nervi: alla fine la mia pazienza non ci vide più, si mise in sciopero, fece le valige, serrò la porta del mio animo e se ne volò alle Bahamas, sopra un aereo targato 'Fanculo.

 

 

La sfilata era iniziata. Alcune sarte e truccatrici sbirciavano il proseguimento della serata e dai loro commenti sembrava che filasse tutto liscio. A me non importava un fico secco. Vedere quelle oche su trampoli vertiginosi sculettare lungo la passerella mi faceva venire il prurito alla pancia e le luci dei fotografi mi abbagliavano. Ripensai al sogno del vestito giallo e mi allontanai decisa dal gruppetto che stava seguendo la serata.

Pochi secondi dopo, la pausa per il cambio vestiti.

«Oh, ho bisogno di un po' d'acqua. Sto morendo di sete!» Jacqueline si sventolava il viso con la mano. Qualcuno le porse un bicchiere e, invece di bere, si avvicinò a me con una luce maliziosa negli occhi.

«Ciao, tesoro.»

Non la guardai nemmeno e continuai a cercare tra le file di appendini.

«Léon si è proprio arrabbiato con te... possibile che tu sappia solo combinare pasticci?»

Marta, 'sta calma, questa iena ha qualcosa in mente, e non è niente di buono. Sii impassibile, non fare nulla che la urti, non...

«Cos'è, t'hanno tagliato la lingua?» Poggiò un gomito sopra il carrello degli appendini e si protese verso di me «Sai che sembri un cagnetto peloso? Un cagnetto peloso senza lingua.» Snudò la chiostra di denti assassini.

Io la fulminai con lo sguardo pieno d'odio ed ira repressi.

E così accadde: lei non smise di sorridere e mi rovesciò l'acqua sulla testa. Freschi tentacoli liquidi si sparpagliarono tra le ciocche castane ed esplorarono l'intrico della mia chioma ondulata, raggiunsero la cute e precipitarono ai lati del capo, scivolarono sulla nuca e sul collo, mi sciolsero la matita, s'insinuarono sotto la maglia e trovarono rifugio nel reggiseno.

Non dissi nulla. Raggiunsi la porta, spinsi il portellone e urlai un grande, sonoro, liberatorio: 'FANCULO!

(Ciao Pazienza mia, fa' buon viaggio e allaccia le cinture)

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Capitolo 3
*** Rapita ***


L'aria era frizzante e mi fece drizzare i capelli sulla nuca. L'umidità mi si appiccicò al viso e alle mani: per questo ci misi tanto ad accendere quella dannata sigaretta. Sfregai così tanto la rotellina che mi rimase il segno violaceo sul pollice. Tirai tre boccate alla velocità della luce.

Quando mi prendeva l'ansia, mi accendevo sempre una sigaretta. L'aroma dolciastro delle Camel mi rilassava, diffondeva un teporino nel mio corpo.

Ma adesso ero davvero su di giri.. Pestai la terza cicca fumata a metà sulla stradina di porfido e me ne accesi un'altra. Le mani mi tremavano e questo mi faceva imbestialire ancora di più. Mi calmai un poco, ma ecco il ghigno di Jacqueline ricomparirmi in testa e presi a percorrere la stradina a grandi falcate. Ero una locomotiva impazzita, sbuffavo, fumavo e mi fischiavano pure le orecchie.

Prega Jacqueline, prega di non incontrarmi per strada! Ti spezzo quel sorriso da iena! Ti rompo quelle gambe da giraffa! E anche a quel fenicottero impomatato! Vi torcerò il collo! Vi riempirò di così tanti pugni che non riuscirete più a stare in piedi!!

Mi fermai, non perché mi ero infradiciata il piede in una pozzanghera, né perché avevo il fiatone. A forza di camminare e di lanciare anatemi, mi ero persa.

Feci il giro di me stessa tre volte, ma non riuscii a capire in che posto fossi finita: ero in un piccolo spazio su cui si aprivano un vicolo strozzato tra due schiere di case e due strade di porfido, una illuminata e una no. Non avevo idea da dove fossi sbucata.

Una folata di vento mi ricordò che ero uscita senza il cappotto, fece stormire le fronde di un grosso albero solitario e cigolare degli scuri decrepiti. Il tutto, unito alla luce tetra della mezza luna, era giusto un po'... inquietante. Optai per la seconda strada. Era più larga della prima ed illuminata, a differenza della terza.

I passi risuonavano lenti e strascicati, mi rigiravo nell'oscurità, spaesata, temevo di incontrare il coltello di un ladro, o peggio, il flash di un fotografo. No, no, i fotografi erano tutti là, in quel sudicio teatro e i ladri... be' per il momento pareva non ci fosse nessuno... .

«Aiuto! Aiutatemi...! Aiuto!»

Raggelai sul posto.

«Aiuto! Ah!» La voce fu troncata di colpo.

Scappa. Muoviti.

Ma i miei piedi si mossero in direzione della voce.

C'era rumore di passi concitati. Svoltai un angolo e in una frazione di secondo saltai dietro il muro appena superato. Appoggiai la schiena, respirai forte, i denti mi tremavano, e non per il freddo.

Sporsi appena la testa: un furgone, parcheggiato in un vicolo strettissimo, e uomini, almeno sette, vestiti di nero col passamontagna. Uno aveva in spalla un ragazzo svenuto, un altro raccolse una ragazza stesa a terra, svenuta. Forse era sua quella voce, forse aveva tentato di scappare. Gli uomini caricarono i due sul furgone. Strinsi gli occhi: c'erano altre sagome all'interno. Trattenni il fiato: gli uomini avevano pistole, alcuni imbracciavano fucili.

In quel momento, la mia mente si ricordò che dovevo scappare. Scappare e chiamare la polizia, subito. Mi voltai, ma il mio naso colpì qualcosa di duro.

«Ma bene... »

Sgranai gli occhi, il respiro mi si chiuse in gola, le ginocchia traballarono.

«No, la prego... » farfugliai. Due occhi di fuoco sfavillarono sotto il passamontagna.

«Tu vieni con noi.»

Il cuore si arrestò per due infiniti secondi: ebbi l'impressione di cadere e non sentii più il mio corpo.

 

 

 

Riaprii gli occhi nella stessa oscurità che mi opprimeva la mente. Sbattei le palpebre: aperte o chiuse, faceva lo stesso. La testa mi girava come una giostra e la nuca pulsava. Ero su un mezzo in movimento, incastrata tra due corpi stesi, inerti. Le mani e i piedi legati così stretti che non me li sentivo. L'aria era impregnata di sudore.

Piano piano, rimisi insieme il puzzle dei miei ricordi. Le lacrime mi premettero agli occhi, l'angoscia mi strinse lo stomaco e tentai con tutte le mie forze di liberarmi, ma era inutile, ero impotente come un pesce sulla terra ferma.

Nessuno aveva accennato un rumore alla mia disperazione: erano tutti svenuti. Non sapevo quanti fossimo là dentro, ma a giudicare dalla maniera in cui ero stipata, non dovevamo essere pochi. Cosa volevano quei tizi? Non sono mica una terrorista, io! O forse i terroristi erano loro. Ma perché prendere me? Nessuno avrebbe pagato un riscatto per me. Forse era perché ho visto...? Oh, ma sarei stata zitta, non avrei aperto bocca, muta come un pesce, perché non mi avevano permesso di spiegare? Chi vuoi che creda a una povera sarta? Anche se l'avessi raccontato, chi mi avrebbe presa sul serio? Ma perché? Perché? Sono brutta, bassa, grassa, stupida, incompetente, inutile, fifona, fumo, bevo, butto il mio tempo a scarabocchiare modelle e a prenderle a freccette.

Perché mi hanno presa? A cosa gli servo...?

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Capitolo 4
*** Nuovi compagni ***


Ci fermammo.

Avevo dormito per non so quanto ed ero ancora lì, intorpidita e dolorante.

Le ante del furgone si aprirono con uno schiocco secco, e la luce fioca dell'alba rischiarò l'interno. Contro la parete opposta, distinsi una sagoma salire e prendersi un corpo sulle spalle. Lanciai una rapida occhiata attorno: c'erano al massimo venti persone, alcune stese sopra altre.

Un mugolio attirò la mia attenzione: la persona che l'uomo aveva preso si stava svegliando. Lui la girò e la colpì sulla nuca, questa grugnì e si accasciò. Credetti l'avesse uccisa. La portò fuori e lo stesso fece con altre quattro persone. Il furgone ripartì.

 

Quando toccò a me trattenni il respiro per secoli. Non osavo socchiudere gli occhi nemmeno di un millimetro. Venni presa e buttata sull'erba.

«Questi vanno nel terzo settore.»

Altre mani mi afferrarono (erano diverse perché non portavano i guanti) e venni caricata sulle spalle di qualcuno. Mi teneva davanti, perché con un braccio mi sosteneva le gambe, con l'altro mi circondava la schiena. Il furgone ripartì e io cominciai il viaggio all'interno del bosco. Sì, perché mi trovavo in un bosco: lo capivo dall'odore acre della resina di pino, dal fatto che il tizio procedeva a zig zag, urtando rami e cespugli, e perché le foglie scricchiolavano sotto i suoi piedi. Non era uno di quelli armati, indossava indumenti più leggeri.

«Ancora questa e poi non se ne riparla più fino in estate» disse.

«Sì» rispose uno di fianco. «Certo che come regalo di compleanno, mi pare un po' eccessivo. Voglio dire... non è una cosa adatta a un ragazzo. Oh be', nemmeno ad un adulto... .»

«Nemmeno ad un essere umano, se è per questo» intervenne un terzo. Queste parole mi fecero drizzare i peli della schiena.

«Ah! Quando sei ricco e non sai come spendere i tuoi soldi,» proseguì il tizio che mi portava «, cerchi sempre di spenderli in maniera originale.»

Gli altri assentirono a questa perla di saggezza, seguirono attimi di silenzio, interrotti dal loro avanzare tra la vegetazione.

«Certo che questa,» le mani dell'uomo mi sistemarono «, pesa un bel po'.»

«Mai come questo qui!» rantolò una voce che non avevo udito prima. «È così grosso... che sembra... un cinghiale!» Gli altri risero. Erano cinque.

«La mia invece è una piuma. La tengo con un braccio!»

«Tieni il mio... con un braccio!» esclamò quello che portava il cinghiale. Stava per schiattare sul posto.

«Eccoci qua.»

Fui scaricata accanto a un cespuglio. «Sogni d'oro, mi raccomando. Non ne farete più, purtroppo.»

Ci fu un breve sghignazzo e il respiro pesante di quello che aveva portato il cinghiale non accennava ad attenuarsi. Sorrideva e ansimava: «Ehi... dammi... dammi il pennarello.»

«Che ci vuoi fare?»

Pochi istanti e i tizi tornarono a sghignazzare, questa volta più forte.

«Ah! Andiamo, prima che si sveglino... » disse uno, ricomponendosi un poco.

Si allontanarono e io rimasi in ascolto, finché le voci e i passi non si confusero con il cinguettio degli uccellini e lo stormire dei pini.

 

 

Eravamo in una radura. Sulla mia testa volteggiavano tre corvi e si posavano di tanto in tanto su qualche ramo. Insieme a me c'erano due ragazze, una bionda, coi capelli corti e magra come un palo, una coi capelli lunghi e mori che le coprivano la faccia, un po' più in carne. C'erano anche due uomini, uno robusto e abbronzato, sui trent'anni, e un altro con la testa quasi calva e grosso come una porta-container. Sulla maglia bianca e sudaticcia aveva disegnati tre cerchi rossi, uno dentro l'altro.

Mi misi seduta e mi graffiai nel cespuglio di agrifoglio. Poggiai la testa su un tronco e ci sfregai contro le corde dei polsi. Dopo dieci minuti il movimento divenne automatico e quasi non ci pensai. Per questo, quando le corde allentarono la loro presa sui miei polsi sofferenti, rimasi stupita. Poi toccò alle gambe: le mani mi formicolavano e i nodi erano piccoli e pestiferi, ma con l'aiuto di un sasso appuntito li sciolsi tutti.

Appena fui in piedi, vidi quello abbronzato contrarre il volto e muovere il busto.

«'Sta fermo, ti aiuto io.»

«Ho... un coltello... nella tasca.»

Frugai nella tasca destra dei suoi pantaloni ed estrassi un coltellino svizzero. Mi chiesi come mai i tizi armati glielo avessero lasciato in tasca, ma non m'arrovellai troppo, niente aveva molto senso ormai.

«Mhmh... dove siamo?»

«In un bosco. Ci hanno rapiti.»

L'uomo rimase in silenzio e fece scorrere freneticamente gli occhi: stava ricordando. Alla fine emise un profondo sospiro.

«Ero uscito a bermi qualcosa... non ricordo altro... solo... un colpo alle spalle. Se ce lo avessi avuto davanti... a quest'ora sarebbe in ospedale col naso fracassato.»

Gli guardai le mani: erano il doppio delle mie. A giudicare dal fisico pareva un pugile o che so io. Uno che andava in palestra sul serio, che non lasciava scadere la tessera, come la sottoscritta.

Si guardava attorno frenetico e quando gli liberai le mani si ritrasse, si sedette e con un “Lascia, faccio io” si mise ad armeggiare con le caviglie.

Avevo un ragazzo simile tempo fa. Non nel senso che era abbronzato o palestrato, ma nel senso che si comportava alla stessa maniera: quando era in difficoltà, non voleva mai essere aiutato, come se farsi aiutare da una donna fosse vergognoso. Quest'orgoglio machista non m'andava proprio a genio.

«Io sono Marta.»

Lui annuì: «Giacomo.»

Non ci dicemmo altro, anche perché gli altri erano ancora legati.

Lui si fiondò subito sulle ragazze, mentre a me rimase da sbrogliare il ciccione.

La prima a riprendere i sensi fu la ragazza bionda. Giacomo l'aveva presa tra le braccia, ma lei schizzò via.

Si chiamava Erica e stava tornando a casa dal lavoro quando era stata aggredita vicino alla sua macchina. Aveva un naso importante, occhi celesti e viso affilato. Parlava senza guardarci troppo in viso, quasi l'annoiassimo: mi metteva un po' in soggezione.

L'altra ragazza si riebbe qualche ora dopo: aveva un modo di fare molto dolce e nonostante avesse un po' di pancetta, la trovai molto bella, anzi, forse era proprio la pancetta a renderla graziosa. Mi meravigliai di me stessa: ormai mi ero convinta che le belle donne avessero tutte come minimo la quaranta. Quarantadue, per essere buoni. Questo mi mise di buon umore e mi sentii meno brutta del solito.

Disse di chiamarsi Serena: con un sorriso così accogliente, quel nome le stava proprio a pennello.

Mi allontanai da Erica per sedermi accanto a lei. Erano proprio l'opposto: la prima magra e spigolosa, con un modo di fare altezzoso che mi ricordava troppo Jacqueline & co., l'altra morbida e simpatica, con la quale sarei diventata presto amica.

Mi disse che stava aprendo il portone del condominio in cui abitava, quando qualcuno l'aveva tramortita. Era ancora cosciente mentre la caricavano sul furgone.

Giacomo intanto stava perlustrando la zona: i cellulari non prendevano e non c'era il benché minimo segno di civiltà, non un'indicazione, né un insegna.

Io non dissi nulla dei tizi che ci avevano portato qui, né tanto meno che ero stata sveglia. A cosa sarebbe servito? Con tutto quello zigzagare nel bosco non avrei saputo tornare indietro. In più avevo tenuto gli occhi serrati e la mente attanagliata dalla paura: ero stata troppo impegnata a capire dove stessimo andando.

Il ciccione dormiva ancora, assieme ad Erica, che si era poggiata su un tronco ed era crollata in pochi minuti. Appena Serena vide i tre cerchi sulla maglietta, dalle sue labbra affiorò una risata gorgogliante : «Lo immagino già che saltella: “Fate centro nel mio pancione! Oh, oh! Non è così semplice!”» Ridemmo entrambe.

Verso le otto e un quarto del mattino, si svegliò anche lui. Rotolò da un lato, si mise seduto e ammiccò più volte dietro agli occhialini di ottone. Aveva quarantadue anni, ma ne dimostrava cinquantatré. Si chiamava Giovanni e assisteva alle partite di rugby del nipote ogni domenica mattina. L'ultima era stata un'amichevole e perciò l'avevano giocata di mercoledì sera. Era andato a far scorta di ciambelle per la partita ed era stato portato via (come, nessuno glielo chiese).

«Bene! Adesso che abbiamo fatto tutti conoscenza suggerirei di muoverci. Voglio uscire al più presto da questo posto e spaccare il naso a chi mi ha portato qui.» Giacomo si avvicinò a grandi passi verso Erica: «Sveglia, principessa. Ci aspetta una bella camminata. Lunga o breve, dipende da quanto vi muovete.» Le porse una mano.

Trovai che non stessero male insieme: entrambi mi stavano antipatici a pelle, entrambi avevano quell'atteggiamento arrogante ed altezzoso, la stessa faccia da “non-vali-un-cazzo”. Avrei voluto scarabocchiarli e prenderli a freccette.

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Capitolo 5
*** Un centro perfetto ***


Decidemmo, o meglio, Giacomo decise di andare a ovest. Camminava vicino ad Erica, ma non accennavano a parlarsi. Dietro venivamo io e Sere. Ancora più indietro il povero Giovanni.

Con Sere parlai di tutto: venni a sapere che era cassiera in un negozio per animali, che aveva due gatti, un cane e tre canarini, ma avrebbe voluto anche un criceto, quattro pesci rossi, due pappagalli, e pure un'iguana, se solo l'amministratore del condominio gliel'avesse permesso. Era appassionata di ippica e pattinaggio su ghiaccio, aveva la camera tappezzata da poster di Jhonny Deep, Tom Cruise e Avril Lavigne, che amava alla follia. Le piaceva la pizza, la cucina messicana e thailandese, avrebbe denunciato a piede libero i venditori di pellicce e faceva collezione di miniature di edifici importanti. Le piacevano le persone gentili, carismatiche e coraggiose, odiava i tipi noiosi e intellettuali. Amava fare passeggiate e jogging, ma avrebbe dato fuoco a tutte le palestre del mondo... udimmo un gemito: Giovanni si era impigliato la maglia in un rovo.

«Andate ad aiutarlo» ordinò Giacomo e si voltò senza darci possibilità di replica. Erica ci guardò inespressiva e proseguì.

Li mandai a quel paese con gran piacere.

Tornammo indietro a liberare quel tonno di Giovanni, guidate dai suoi richiami.

«'Sta fermo! Altrimenti ti strappi la maglia!» mormorai seccata.

«Ma per quanto... dovremo andare... avanti? Sono due ore... » sbuffò.

Due ore? Non mi ero nemmeno accorta.

«Finché non ne usciamo» dissi. Lo liberammo e posi fine al discorso tirandolo per il braccio.

A mezzogiorno ci fermammo accanto a un masso incastonato sul fianco di una collina, per far recuperare le energie a Giovanni. Invidiavo Erica e il suo cappotto ogni volta che una folata di vento mi passava sul collo. Era di tessuto blu scuro, con bottoni in legno e un cappuccio con l'interno in lana. Non osavo chiederglielo: uno perché mi stava antipatica, due perché mi era stretto, tre perché non me l'avrebbe mai dato.

Per una cosa o per l'altra, mi trovavo sempre ad invidiare quelle odiose col fisico da modella.

Guardai Giacomo che pontificava su posizioni solari, ore del giorno, orbite planetarie, congiunzioni astrali e robe del genere. Disegnava in cielo linee con la mano, neanche fosse stato Galileo Galilei o l'astronomo di re Atahualpa, e assicurava che avremo ritrovato la strada in quattro e quattr'otto. Mentre si gonfiava il petto con nozioni di astronomia, lanciava svelte occhiate ad Erica, che non lo calcolava per nulla. Stava appoggiata al masso con quell'aria a metà tra l'assorto e l'annoiato: chissà cosa le frullava nel cranio.

«... quindi sono convinto che questa sia la via giusta.»

Silenzio: ci sarebbe stato bene un applauso, ma nessuno applaudì.

Giacomo lo prese come un assenso e s'incamminò ancora verso ovest, ma il mio sento senso diceva di tornare indietro, come se ci stessimo avvicinando a un pericolo.

Ora che Serena era rimasta ad aiutare Giovanni, ebbi modo di riflettere.

La giornata stava procedendo come una gita in montagna relativamente tranquilla. Uomini armati avevano rapito delle persone solo per portarle a fare una gita in montagna un po' estrema? Dai racconti dei miei compagni, pareva prendessero persone a caso, niente ci accomunava. Ci avevano scaricati cinque alla volta.

Questi vanno nel terzo settore. Se noi eravamo nel “terzo settore”, voleva dire che ce n'erano almeno altri due. Eravamo di sicuro almeno in quindici a vagare senza meta in questa foresta.

Certo che come regalo di compleanno, mi pare un po' eccessivo. Compleanno? Questo davvero non mi quadrava. C'era una festa nel bosco? Eravamo stati invitati? E quando? Dovevamo trovarla come in una caccia al tesoro? Dalle parole del tizio, era come se fossimo noi il regalo. Regalo per chi? Qualcuno di ricco di sicuro, lo avevano confermato anche gli uomini in mezzo al bosco. Forse qualche ricco annoiato aveva rapito persone a caso per la sua festa nel bosco per fare nuove conoscenze? No, no, no! Uno che assolda gente armata, che rapisce le persone, non ha intenzioni amichevoli.

Non è una cosa adatta nemmeno ad un essere umano, se è per questo. Mi venne la pelle d'oca. Presi a guardarmi attorno spasmodica. Di sicuro, questo non era un posto tranquillo, una cosa, no, no, adatta, sarebbe successo qualcosa di brutto, nemmeno, dovevo avvisare subito, ad un essere, gli altri, prima che... umano...

Un tuono esplose dietro di me e mi uccise anche il più piccolo grido di sorpresa.

Serena invece gridò l'anima.

Vidi Giovanni trascinare Serena con la forza di un pachiderma imbizzarrito: barrì terrorizzato e travolse tutto ciò che si trovò sul suo cammino. Balzai in avanti e corsi a perdifiato lungo la discesa.

«Ci ammazzano!! Ci ammazzano!!» strillava Serena.

Giacomo ed Erica se ne accorsero troppo tardi e io ero già dietro di loro: allargai le braccia e li scaraventai oltre un pendio ricoperto di aghi. Mi gettai con loro, cercai di restare in piedi, ma il pendio era troppo scosceso: rotolai, sbattei le costole, mangiai aghi fino a uno spazio erboso.

«Di là, di là!!» sbraitarono delle voci.

Due spari, uno sibilò accanto al mio orecchio.

La paura cieca mise a tacere la ragione e mi spronò in mezzo all'erba.. Pensai solo a correre, correre e correre più veloce di un lampo. Spostavo e strappavo l'erba come una furia, ero troppo lenta, mi avrebbero presa, di sicuro, mi avrebbero presa!

Giacomo ed Erica uscirono dall'erba, non li vidi più. Uscii anche io: erano spariti! Ma dove, ma dove...?

«Ehi! Qua!» La mano di Erica spuntò da un tronco cavo. Mi fiondai in quella direzione, ricacciando le lacrime che mi erano salite agli occhi. Continuavo a sorridere, non ero mai stata tanto felice di vedere due persone che detestavo! Quasi li abbracciavo entrambi!

«Li abbiamo... eh-eh... seminati...?» chiese Giacomo.

. I miei nervi, appena rilassati, si contrassero all'unisono.

Fuori era tornata di colpo la calma . Oltre ai gorgheggi di qualche uccellino, non c'era alcun rumore.

Osservai da un apertura nel tronco. Il prato che ci eravamo lasciati alle spalle era una distesa uniforme. Eppure era come se non fosse realmente tutto a posto, come se mancasse qualcosa...

Erica trasalì: «Dove sono... gli altri due?»

Guardai a destra. A sinistra.

«No! Li hanno presi!» urlai, ma Erica mi tappò svelta la bocca.«Zitta!» Mi fisso con le pupille contratte dal terrore. Le lacrime tornarono a bruciarmi.

«Dobbiamo tornare indietro» concluse.

Giacomo rise nervoso: «Ma sei pazza? Non possiamo fare nulla per loro. Tornare indietro è un suicidio.»

Erica deglutì. «Non possiamo lasciarli. Dobbiamo restare uniti... al loro posto, vorresti essere abbandonato là fuori?»

«Ehi, no, senti bella, è una follia, ok? Una follia bella e buona, io là non ci torno per salvare l'ippopotamo e la sua amica pappagalla.»

Razza d'idiota. Razza di ectoplasma mal formato. Serena non è un pappagallo; ed è la mia amica. La mia!

Erica scosse il capo stizzita.

Forse aveva più paura di tutti, forse avrebbe voluto scappare il prima possibile, forse era stata la prima a pensare di abbandonare i nostri compagni, eppure fu l'unica a tornare indietro: sgattaiolò fuori dal nostro rifugio e s'immerse tra gli steli danzanti del prato.

Me ne stavo lì, guardandola avanzare e torcendomi le mani. Ok che la trovavo odiosa, ma non potevo lasciarla sola. Ma non volevo neanche morire. E dentro di me sapevo già che Giovanni e Serena...

«Oh, diamine!» bisbigliai. Entrai in apnea e raggiunsi Erica, che stava scomparendo nel folto.

Arrivò anche Giacomo: un uomo tutto d'un pezzo come lui non poteva certo starsene in disparte!

«Vedi qualcuno?» chiesi ad Erica.

«No...» alzava il collo sopra l'erba e scrutava intorno come una marmotta. Giurai di aver visto il suo naso muoversi su e giù.

Avanzammo ancora e non ci volle molto prima che trovassimo dell'erba piegata e tracce di sangue. Seguimmo la scia con molta cautela. Giacomo se ne stava dietro e si guardava bene dal pontificare sul da farsi: teneva gli occhi bassi e si muoveva quasi a gattoni.

Raggiungemmo un torrente melmoso, sulle cui sponde crescevano canneti sussurranti e saltellavano rospi marroni grossi quanto un pugno. Degli insetti saltellavano sul pelo dell'acqua – libellule, tafani o che so io- e un grosso serpente nero s'immerse sibilando.

«Eccoli!» sussurrai.

Giovanni giaceva sulla riva, madido di sudore e con una mano viscida di sangue; Serena gli stava fasciando il polpaccio con la sua sciarpa. Appena si accorse di noi, Serena fece un salto e io corsi ad abbracciarla, neanche ci fossimo ritrovate dopo un secolo. Non riuscivo a respirare da quanto ero felice – e anche perché Serena mi stringeva come una pressa - ! Era viva! Viva! Ma come aveva fatto?

«Spostatevi» ci ordinò Erica. Si mise ad armeggiare con la gamba di Giovanni che intanto guaiva.

«Per fortuna ti hanno ferito di striscio. Non è grave, tuttavia è bene tenere la fasciatura stretta.» Diede uno strattone deciso e lo aiutò ad alzarsi, ma lui si rifiutò: «Mi fa male, mi fa male. Non riesco ad alzarmi, voglio stare qui!»

No, no, no! Ci mancava solo che si mettesse a frignare!

«Avanti! Ti aiutiamo noi! Non piangere, altrimenti tornano quelli!» bisbigliai. Lui sgranò gli occhietti da maiale e ammutolì. Così mi tornarono utili i tre mesi da baby-sitter fatti l'anno scorso. Io ed Erica lo tirammo su per le braccia, tutto sgocciolante di fango e acqua putrida. Giacomo era impegnato in faccende ben più importanti, come consolare Serena dalla brutta esperienza.

«Ce la fai a reggerti?»

«S-sì.» Giovanni zoppicava vistosamente, così io ed Erica dovemmo sorreggerlo.

Ci muovevamo a una lentezza snervante.

«Avanti, un passo alla volta.» La voce di Erica era calma e comprensiva, come se non fossimo in piedi, totalmente allo scoperto.

«Non ce la faccio, non ce la faccio!»

«Sì che ce la fai! Guarda, dobbiamo arrivare fino a quegli alberi laggiù. È vicino. Forza!»

Giacomo ci corse accanto senza nemmeno calcolarci, stringendo la mano di Serena: «Là saremo al sicuro!» indicando gli stessi alberi.

Feci schioccare la mascella. Giovanni mi pesava, era sporco, guaiva per la sua stupida gamba e per di più puzzava di sudore. Odiai Giacomo. Odiai Serena. Odiai tutti e due.

Ci trovavamo ancora nei pressi del torrente, quando qualcosa si mosse tra i canneti. Strinsi gli occhi: pareva un animale che annusava il terreno. Avanzava piano verso di noi, da sinistra. Stavo per avvisare Erica, quando vidi un bagliore ghignare tra i canneti e di nuovo pensai solo a correre, correre e correre, più veloce di un razzo.

Uno sparo.

Corri, corri, corri!!

Un altro.

Ci ammazzano, ci ammazzano!!

Un altro.

No...

Mi voltai e l'angoscia mi sciolse e guance. Li avevo lasciati...

Giovanni era svenuto, Erica stringeva i denti e lo trascinava, mentre attorno a loro sibilavano i proiettili ed esplodevano in acqua. Urlò, pianse, inveì contro di me, ma non capivo nulla di nulla, ero fissata a terra come un dannatissimo chiodo. Successe troppo in fretta, troppo veloce.

Erica inciampò e un colpo penetrò la spalla di Giovanni. Poi un altro, sul petto: lo vidi inarcarsi e levare le mani come un orso che tenta una difesa disperata. Un'ultima esplosione mandò il tempo in frantumi, segnò il confine tra passato e presente: lo colpì proprio lì, al centro dei tre cerchi rossi.

Un attimo prima era accasciato su Erica. Un attimo dopo, morto, sulla riva del torrente.

Un centro perfetto.

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Capitolo 6
*** Di nuovo insieme. ***


Raggiunsi Erica, strisciando tra i canneti. Era a terra e il suo pianto sommesso mi guidava. Ogni tre secondi guardavo a destra, con il terrore di trovarmi un fucile puntato alla tempia. La paura mi torceva le budella, l'angoscia mi serrava il cuore in una morsa bianca, non pensavo a nulla. Trovai Erica stesa su un lato, il bel cappotto blu scuro tutto infangato: si teneva il volto tra le mani e lacrime copiose scorrevano tra le dita. La toccai piano, con la punta delle dita: quando mi vide rifugiò la testa accanto al mio collo. È morto, è morto, ripeteva.

Non è colpa tua, non è colpa tua, le dissi io, mentre il rimorso mi pungeva la coscienza

Non è colpa tua. È colpa mia... Mia.

...

Dobbiamo raggiungere gli altri.

 

Ci dirigemmo nella direzione in cui erano scomparsi Giacomo e Serena, o almeno così ci pareva. Il fango ci arrivava fino al naso e io dovetti inghiottire almeno qualche insetto. Erica non piangeva più: aveva chiuso tutta la sua paura dentro alla cassaforte del suo cuore e ne aveva gettato la chiave. I sentimenti spingevano per uscire, lo si notava dall'espressione un po' contrita, ma i suoi occhi erano vigili.

Proprio nel momento in cui credevamo di essere quasi fuori dal canneto, udimmo lo scalpiccio di passi nell'acquitrino. D'istinto le strinsi la mano.

«Sono andati di qua, mi sa. Li ho visti che correvano... »

«Ora che li abbiamo alleggeriti di quel grassone, andranno più veloci.»

«Vero! Hai visto che centro?! Gli altri due devono essere qua attorno.»

Erano vicini al torrente. Noi, circa venti passi più in là. Ci avrebbero trovate, me lo sentivo, e anche Erica, perché spalancò gli occhi e strinse la mia mano ancora più forte.

«Cerchiamo un po'. Tu va' di là!»

Così cominciò il conto alla rovescia.

Venti. Diciannove. Diciotto. Diciassette. Sedici. Quindici.

«Con il grassone fanno otto. Alex mi ha detto che nel primo settore ne hanno ammazzati tre dopo un paio d'ore.»

«Alex è un demente. Dovrebbe lasciar loro il tempo di ambientarsi. Così non c'è nemmeno gusto, vedrai che farà finire tutto in un paio di giorni.»

«Hai ragione, forse non avrei dovuto invitarlo. Ah! Non glielo permetterò! Mio padre ha speso una fortuna per organizzare tutto, non lo lascerò vincere.»

Quattordici. Tredici. Dodici. Undici. Dieci.

«Vorrei sapere come se la sta cavando Flavia. S'è presa un fucile alto quasi quanto lei, il mio amore! Le ho detto che non era un'arma da donne, ma lei no, sempre i pezzi grossi!» Risate sguaiate.

Nove. Otto. Sette. Sei. Cinque.

«Sai, dopo questo, mio padre ci ha organizzato una vacanza. In uno di quei soliti posti del cazzo, spiaggia bianca, mare blu... la cosa figa è che m'ha dato il suo yacht. Vedrai che bomba!»

Quattro. Tre. Due. Uno.

Stop.

«Oh, oh, guarda cos'abbiamo qui... »

Rimasi con la faccia immersa nel fango.

«Ehi, Marco! Qui non c'è nessuno!» urlò l'altro.

Marco sorrise. Il suo fucile mi accarezzò la nuca, risalì fino alla tempia. Si spostò su quella di Erica e premette sulla sua guancia. Nei suoi occhi celesti si specchiò un limpido terrore. Marco fece pressione. Erica strinse gli occhi. Il grilletto fece clic... e basta.

«Solo perché sarebbe uno spreco ammazzarvi così e solo perché sono molto galante. Alle donne concedo sempre una seconda possibilità» bisbigliò. «No, Luca, nemmeno qui! Cerchiamo da un'altra parte, forse hanno strisciato di là!»

Si allontanò a grandi passi nella direzione opposta a quella da cui era venuto.

Ci mettemmo qualche minuto a capire che eravamo salve. Forse avremo dovuto piangere e disperarci? Nei film fanno sempre così. Avremo dovuto abbracciarci per ore, mentre la telecamera faceva un bel primo piano? E poi? Sarebbe davvero finita? Titoli di coda e ognuno alla sua vita? No, perché per quanto potesse essere assurdo, quello non era un set cinematografico. Il fango era reale, i personaggi erano reali, la canna del fucile sulla mia nuca era reale, la paura, il dolore, la morte, lo erano. E noi, come da copione, facemmo ciò che era più logico, nella realtà.

Corremmo, più veloci di un proiettile.

 

 

 

Trovammo un'apertura in un costone di roccia che faceva proprio al caso nostro. Era coperta da arbusti e rami e situata in un luogo rialzato. Dentro faceva tre volte più freddo: mi strofinai le braccia e incassai la testa tra le spalle.

«Forse è troppo umido qui... » notò Erica, ma io scossi la testa: «Va bene, va bene, non è un problema.» La bugia più grande del mondo, ma piuttosto che incontrare quelli... .

«Tieni.» Erica si slacciò il cappotto e me lo porse. Spalancai gli occhi e guardai prima il cappotto, poi lei, poi il cappotto.

«Avanti, prendilo.»

Se solo fossimo state in una qualsiasi altra circostanza, l'avrei ringraziata mille volte e ancora mille, sorridendo a piena bocca. Il fatto era che non ne avevo voglia: vedevo ancora Giovanni morire e Marco che mi puntava il fucile addosso. Gliene fui grata comunque.

Era ancora caldo. Lo abbottonai e mi tirai su il cappuccio: mi stava stretto sulle spalle, ma poco importava.

«Sarà bene riposarci un po'» dissi. Per fortuna il terreno era in terra battuta e qua e là macchie di muschio punteggiavano le pareti. Erica era ancora provata dall'inseguimento e non ci pensò due volte a stendersi vicino a me.

«Forse... forse è meglio che anche tu stia al caldo» le dissi e le feci intendere di usare i cappotto come coperta. Fu un gesto spontaneo, ma me ne pentii un secondo dopo: lei era una super-modella taglia quaranta, simpatica come una carie al premolare destro; stare appiccicata a una come me le avrebbe fatto schifo, se non peggio.

«Ti ringrazio.» Si rannicchiò sotto il cappotto e si addormentò prima che potessi dire alcunché.

Il suo respiro sulla gola mi metteva agitazione e ruotai gli occhi per la caverna, anche se non ci trovavo nulla d'interessante. Alla fine gli lo sguardo mi cadde sul suo viso e provai un brivido proprio dietro le orecchie: dormiva così profondamente che pareva morta.

Scacciai quel pensiero e mi misi a dormire. In fondo non era poi così antipatica, voglio dire, mi aveva prestato il suo cappotto, dormiva vicino a me... una iena come Jacqueline mi avrebbe lasciata ibernare piuttosto che fare cose simili. Era giusto un po' distaccata, ma non odiosa. Anzi, in quel momento odiavo più Serena, perché era scappata senza voltarsi indietro. Ok, di Giacomo non mi stupivo più, ma lei mi aveva proprio deluso!

Poi ripensai a me stessa, dopo i primi spari nel canneto, e mi accorsi di aver fatto la stessa cosa, lasciando Erica da sola. La rividi, così gracile, trascinarsi dietro tutto il peso di Giovanni, mentre quei bastardi giocavano al tiro a segno.

La strinsi, non volevo farlo davvero, ma lo feci lo stesso, e poi mi venne da piangere. Mi trattenni: non volevo svegliarla e di piangere non ne avevo proprio voglia.

Alla fine mi addormentai, perché riaprii gli occhi sulle labbra di Erica che dicevano: Sveglia! Ehi!

Mi scosse e mi diede ben quattro schiaffi: «Eh? Sì, sì, ci sono. Ma...»

«Taci! C'è qualcuno... fuori» mormorò e al “fuori” la voce le si accasciò.

Mi voltai verso l'entrata, ma era già buio e non si vedeva una ceppa: dovevano essere le cinque o giù di lì. Sentii dei sussurri sempre più vicini e dei passi sull'acciottolato fuori dal nostro nascondiglio.

Erica si diresse verso l'entrata.

«Ehi! Dove vai? Sei matta!»

Aveva in mano un legno lungo un braccio e lo brandiva come una mazza da baseball. I bisbiglii si avvicinavano: colsi qualche imprecazione e dei respiri affaticati; ora erano proprio davanti alla caverna, stavano illuminando l'entrata e... SBAM!

Una sagoma cadde ai piedi di Erica; lei stava già per colpire di nuovo, quando un “Nooooo!” la pietrificò. Era Serena, china su Giacomo che si contorceva a terra.

«Siete voi!» gridai. Serena cadde in ginocchio e pianse. Io ed Erica trascinammo Giacomo dentro l'apertura: «Cazzo, cazzo!» ripeteva. «Non hai visto che ero io? Idiota che non sei altro!» Ma sapevo benissimo che se l'era fatta sotto dopo essere finito a terra. Di sicuro stava ringraziando il cielo per averci trovate.

«Ehi, fa' vedere» gli disse Erica.

«Merda, mi ha rotto il naso!»

Gli spostò la mano. «Marta, ce l'hai un fazzoletto?»

Le porsi tutto il pacchetto ma appena Erica tentò di pulirlo, lui schizzò via imbizzarrito. «Ma vaffanculo! Sai dove te lo puoi mettere quel bastone? Sai dove?!»

Uno schiocco secco e Giacomo finì k.o. contro la parete: fine del secondo round.

Ora si sentiva solo Serena che piagnucolava in un angolo.

Erica si sedette accanto a me, mentre Serena sgattaiolò al fianco di Giorgio: «Ti sei fatto male? Posso aiutarti?» sussurrò.

«No, tranquilla, tranquilla... »

Erano così... così schifosamente vicini, così schifosamente coppiettari... da torcerti le budella. Lei gli puliva il naso e rideva mentre lui le sussurrava le sue idiozie. Ero caduta anche io in una trappola simile, e non biasimavo Serena perché stava commettendo lo stesso errore. Però ero delusa. Delusa da quella che credevo fosse un'amica e che ora nemmeno mi aveva rivolto la parola. Mi aveva detto che amava le persone carismatiche e coraggiose: solo che Giacomo era falso e codardo. Volevo disilluderla, ma quanto sarebbe stato giusto? Si sentiva al sicuro con lui e questo era quello di cui aveva bisogno: sicurezza in un luogo d'inferno. Magari saremo morti tra due giorni, domani o persino stanotte: trovavo crudele metterla di fronte alla fredda verità quando poteva avere il conforto di un caldo abbraccio. Non importava se sincero o meno.

Ricordo che presero a sbaciucchiarsi proprio mentre pensavo a queste cose, poi il mio cervello si rifiutò di rimanere sveglio.

 

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Capitolo 7
*** Mai troppo giovani per morire ***


Uscimmo dal nostro nascondiglio verso le prime luci: io ci sarei rimasta tutta la vita, ma dovevamo trovare l'uscita di questo posto.

Camminavo vicino ad Erica, mentre gli altri due seguivano dietro: Giacomo teneva Serena per i fianchi e le raccontava le solite balle, senza curarsi del suo naso fracassato né che stesse camminando in zona di guerra. Tornai a guardare avanti: Serena che rideva vicino a lui mi faceva imbestialire, ero gelosa.

«Qualcosa non va?» buttò lì Erica.

«No. È tutto apposto.»

Non era da me essere così fredda, ma non mi andava di parlare.

Ora era Erica il capo. Non c'erano state né elezioni, né scontri, né niente, comandava lei e basta: decideva dove andare e quando fermarsi, se allungare il passo o avanzare piano. Giacomo pontificava, lei agiva.

Pensai che fosse una buona cosa: da qualche parte avevo letto che chi, come Giacomo, era costretto a ribadire di essere il capo, non lo era davvero. Forse qualche massima buddista o un proverbio di zia Pina, comunque sia, con Erica mi accorgevo che ciò era vero di passo in passo.

 

«Senti... dato che è da un po' che camminiamo, hai idea di dove stiamo andando?» La calma di Erica mi rendeva tranquilla, ma camminare a caso un po' meno.

«Da qualche parte ci sarà un confine.»

«E... e quindi tu... mi stai dicendo che stiamo camminando verso un “confine” che non sappiamo nemmeno dove sia??»

Erica mi sorrise come una bambina con le guance piene di dolci: «Sì che lo sappiamo: è tutt'intorno.»

Mi afferrai i capelli. «Ma hai almeno idea di quanto sia grande questo bosco, sì o no?! Potremmo metterci giorni e giorni!»

«O forse è questioni di ore, magari di minuti. Chi lo sa? Scusa, ma è l'unico modo che conosco per uscire da qui.»

«Oh... oh no, se pensi che io continui a girare come un'idiota, col rischio che quei tizi...»

«E cosa vorresti fare? Metterti qui, seduta, ad aspettarli? Andiamo.»

Il sole cominciava a scaldare quando giungemmo ad una cascatella. Bevemmo fino a soffocarci.

«E così, stiamo cercando una recinzione o qualcosa di simile?» Giacomo si sedette su un masso e si asciugò la bocca. Doveva aver ascoltato il nostro discorso ed era pronto ad illuminarci con un'altra delle sue orazioni: evidentemente voleva ingaggiare Erica in uno scontro verbale per riprendersi il tacito titolo di “capo”.

«Sì, è così. Hai qualche idea migliore?»

«Ah, no, no. Mi chiedevo soltanto cosa avessimo fatto, una volta arrivati là. Ci saranno uomini armati a presidiare il perimetro, suppongo.»

Era la prima cosa sensata che avesse detto.

Erica prese a raschiare l'erba con un bastone: «Non su tutto il confine, è chiaro.»

«Saranno in movimento. Di certo non vogliono correre il rischio che qualcuno sopravviva.»

«E allora cosa suggerisci?»

Giacomo ci guardò tutte negli occhi: se solo non avessi saputo che razza di uomo era, mi sarei sciolta come cioccolato sul termosifone.

«Dobbiamo procurarci delle armi.»

Silenzio. Sconcertato silenzio.

Le labbra di Erica si contrassero, ma non riuscirono ad arginare una sonora risata: «E sarai tu ad andare a rubarle? Da loro? Senza nessuna difesa?»

«Ti ricordo che è l'unica possibilità che abbiamo.»

«Ti ricordo che al primo sparo te la sei data a gambe come un coniglio.»

Tra tutte le cose che Erica poteva dirgli, questa era la peggio del peggio: Giacomo si rabbuiò, gli spuntarono le vene sulle tempie, stava per diventare verde, quando un tocco di fata arrestò la trasformazione: Serena fece gli occhi dolci e mister Hulk frenò le radiazioni.

«E va bene, e va bene.» sbuffò « Ho... sbagliato... ma il fatto è che...» gli occhi gli brillarono«che c'era Serena vicino a me!» Le allungò una nervosa carezza sul capo. Dannato. «Non potevo far correre dei rischi a questa splendida creatura. Piangeva, non è vero?» Lei annuì appena e senza alzare gli occhi. «Lo so, ho sbagliato, mi sono comportato da incivile, ma ho fatto tutto questo per lei. Io...» , si scambiarono un'occhiata talmente mielosa che la glicemia mi schizzò allo zenit, «Io la amo.»

Bleah.

Mi voltai tutta verso Erica, che scuoteva la testa con una mano sulla fronte. Provai schifo, schifo immenso per quei due che si slinguazzavano senza pudore, quasi mi misi a piangere.

Il fatto che Serena mi avesse declassato in maniera così clamorosa mi faceva star male, era come se non ci fossi, non mi aveva più parlato, neanche un monosillabo. E io che facevo progetti per il futuro, che già vedevo me, lei e Ale sedute al bar davanti una tazza di caffè: io la presentavo ad Ale, lei diceva molto piacere, prendeva un caffè macchiato, si preparava per il terzo grado della mia amica... tutto sfumato.

Volevo una sigaretta. Ma dai pantaloni estrassi solo un ammasso di tabacco, fango e telefono. Lo gettai a terra e ci pestai sopra i piedi finché non divenne un tutt'uno con la melma brulicante di vermi, girai su me stessa, mi grattai le braccia, i capelli, il viso e di nuovo le braccia, ora anche le gambe!, ma possibile che non la smettessero di pomiciare?!

Forse, se non fossi stata così agitata, mi sarei accorta prima di un uomo che avanzava a pochi metri da noi. Mi gettai dietro i massi. Era di spalle, era di spalle, non poteva avermi vista, no, nel modo più assoluto!

«Cosa succede?» bisbigliò Erica allarmata.

«Uomini!» sussurrai.

Si acquattò al mio fianco, seguita a ruota dai due colombi.

«Cosa hai visto?» chiese Giacomo.

«Un pelato. Di spalle. Con la tuta mimetica.»

Erica fiutò la situazione oltre il nascondiglio: guardava a destra e a sinistra come quei cosi dei sottomarini.

«Ho paura... » guaì Serena, stringendosi alla felpa del forte Giacomo: «No, no... 'sta tranquilla, vedrai che non c'è nessuno, 'sta tranquilla, piccola... »

Anche io avevo paura. Mi strinsi al muschio del grosso masso, solo che non mi disse nulla di carino.

«Merda.» Erica scattò in basso. «Ne ho visti due.»

Mia madre aveva detto la stessa cosa la prima volta che presi i pidocchi.

«Che facciamo?» chiese Giacomo.

«Nulla. Non sembrano averci visto: si stanno allontanando da tutt'altra parte, camminano tranquilli. Aspettiamo che passino e poi ce ne andiamo anche noi: è troppo scoperto qui.»

«No, dobbiamo seguirli.»

Per poco non sradicai la parete di muschio. Erica rimase senza parole e persino Serena intese che questa volta Giacomo l'aveva sparata fin troppo grossa.

«Pensate un attimo: potrebbero condurci all'uscita. Potrebbero essere la nostra salvezza!»

Erica rise secca: «Senti bello, frena l'entusiasmo: potrebbero condurci alla salvezza come potrebbero condurci alla morte. Loro dirigono il gioco, ok? Non sono stati così gentili da spiegarci le regole, ma se ce n'è una che forse ho intuito è che loro sono i cacciatori e noi le prede. Non ci vuole un genio per capire che dobbiamo starcene il più lontano possibile da quella gente!» Respirava forte ed era rossa in volto. I suoi occhi sfavillavano, dicevano “Tu non sai nulla, non hai vissuto quello che ho vissuto io.”

Giacomo la scrutò con calma, in silenzio. Poi, sospirando, parlò: «Per quanto il cervo corra forte, non potrà mai cambiare il suo destino. Noi sì, invece: da inseguiti a inseguitori, cambieremo il nostro destino.» Si erse alla luce splendente tra le fronde: «Bada alle ragazze, Erica. Le affido a te. Io vado a tirarvi fuori di qui.»

Balzò fuori dal riparo e trottò nel folto.

Erica si prese il volto tra le mani.

 

 

 

Naturalmente dovemmo seguire Capitan Scemo nella sua impresa.

Giacomo si avvicinava a quegli uomini con la disinvoltura di un gorilla in mezzo al bambù.

Ci tenemmo a distanza di sicurezza, come si fa con le foche monache durante l'accoppiamento: erano tre, due rasati e uno col cappello, tutti coi fucili in spalla. Procedevano in fila indiana e qualche volta uno si girava per parlare con quello dietro.

«Quello si fa scoprire, me lo sento. Si avvicina troppo!» ringhiò Erica.

«Io dico che non è stata una buona idea seguirlo. È troppo rischioso, se lo scoprono fanno fuori anche noi. E a me non va di morire per un babbeo come... » Serena prese a singhiozzare e io mi trattenni.

«No... ti prego... dobbiamo aiutarlo. È così dolce, un così bravo ragazzo... .» Quasi mi misi a piangere anche io, ma per la disperazione. Mi prendeva in giro, vero? Perché non lo diceva?

«Ehi, no...'sta calma ora, su, non piangere... » mormorai.

Pareva che quei tizi avessero una meta ben precisa, e infatti ce l'avevano. Nascoste tra i rami di due grossi alberi, addossate a un costone di roccia, si intravedevano le assi di una casetta. Doveva essere uno dei loro punti di ritrovo.

«Ma cosa fa?» bisbigliò Erica.

Giacomo era balzato fuori dal sottobosco e stava strisciando verso la casetta.

«Oh no, no, dobbiamo andarcene, ormai è spacciato.» Erica ci tirò indietro per i polsi.

«No, no, no! Non lascio Giacomo, io non lo lascio!»

«Serena, non fare cazz...»

«GIAC..!!» Erica le tappò la bocca e la sollevò di peso. Lei scalciò, muggì, frignò.

«Vieni... dai! Andiamo! Marta, cazzo, dammi una mano!»

Afferrai Serena per un braccio e la tirai forte, volevo farle male; ci affondai anche le unghie, nel suo polso. Erica la spingeva da dietro, ma quella scalciava e ragliava imbizzarrita, inchiodava, sgroppava, dovetti tirarla con due mani per farla muovere.

«Sere, ascolta: è per il tuo bene. Ti prego, ascoltaci, non fare così. Sono io... Marta... la tua amica... .» Questa volta piangevo sul serio, e mi stava lievitando l'ansia, tiravo..., un grido di dolore ci investì alle spalle.

«GIACOMO!!!»

Erica allentò la presa, rovinò a terra in un turbine di foglie secche e Serena sgusciò dalle mie mani.

«Noooo! Serena, torna qui!!» gridai.

«Marta, no, lasciala!»

Mi gettai a capofitto tra gli alberi, mentre la voce di Erica veniva risucchiata come un'eco al contrario. Correvo, correvo, eppure Serena era sempre più lontana, la persi di vista, no, eccola di nuovo! E c'era anche Giacomo che veniva verso di noi! Si teneva il braccio ma era vivo!

Qualcuno mi afferrò la spalla e mi scaraventò in un avvallamento ricoperto di edera e foglie.

«Sta' giù.» mi intimò Erica.

Serena aveva raggiunto Giacomo ma lui non parve nemmeno notarla. Si guardava indietro, emetteva versi acuti ad ogni respiro, il braccio destro era zuppo di sangue, sembrava essersi dimenticato anche di quello. Correva, camminava, inciampava: «Devo andarmene, devo andarmene di qui... mi hanno visto!»

«Giacomo, che è successo?!» Solo allora si accorse di Serena: si addossò a lei, l'abbracciò.

«Aiutami... aiutami, ti prego!»

«Ah! Eccoti qui!»

Di nuovo, quella voglia matta di scappare.

Serena lanciò un grido, Giacomo inciampò, si trascinò, si rialzò: «No... ti prego... ti prego, non uccidermi... no... .»

L'uomo striò la bocca: «Sì, continua a pregare, mi piace... » Caricò la pistola.

«No, no, cazzo, no!!»

«Non farlo! Ti prego!» urlò Serena e si nascose dietro Giacomo.

«Al nostro breve ma intenso incontro, amico mio.»

Non emise un lamento, non un guaito, nemmeno un minuscolo sibilo. Si accasciò in un lago di sangue, morta.

Erica mi prese la testa, mi soffocò contro il suo petto, non mi lasciò più guardare, piangeva e respirava forte: «Vigliacco, stronzo vigliacco... !!»

«Ma bene. Che galantuomo, farsi scudo con le signorine.»

«Ehi, no, ti ho detto di no, non puoi farlo!!»

«Se vuoi vivere, comincia a scappare. Ti do dieci secondi.»

Scricchiolio di foglie sotto i piedi, i versi acuti di Giacomo, sempre più rapidi.

«Dieci... .»

Inciampa, si rialza.

«Nove... due... .»

«No... noooooo!! Noooooo!!»

«Uno... .»

Uno sparo, un singulto, corpo che rotola, silenzio.

Mi strinsi forte a Erica, mi nascosi contro la sua gola, lì dov'era sporca di fango e la paura le ingrossava le vene: voglio sparire, non voglio più stare qui, cancellami e portami via...

«Dobbiamo andare.»

«Sì, portami via... .»

«Marta, ci hanno viste!»

Mi afferrò per i colletto della giacca: «Alzati! Alzati!» Mi agguantò per le ascelle, per i fianchi, le ginocchia mi cedevano, vai avanti, corri senza di me, anche io sono morta, «Marta!!!»

Un'ombra spiccò un balzo nel fossato ed Erica si schiantò a terra urlando. Scalciava, si contorceva e lottava e gridava. Mollai un pugno alle costole di quel bestione, lo tirai per la coda e ancora un pugno sul muso e un calcio sul ventre e un sasso in testa: il molosso nero si accasciò mezzo morto.

Corremmo tra gli schiaffi dei rami e i cespugli di rovi, che ci afferravano le caviglie e ci strappavano la pelle, tra le radici ricurve verso l'alto e gli spuntoni di pietra.

«Eccole! Ci siamo!!»

Risa, sghignazzi, abbaiare furioso, di cani, di uomini.

Erica mi prese la mano, ancora un ramo, e un altro, e... no!!

Saltammo inseme, ci mettemmo tutta la forza possibile, e per un attimo parve funzionare, cielo!, volavamo!, sopra il crepaccio, sopra le rocce, volavamo...! La spalla di Erica schizzò in avanti, persi la sua mano, cademmo uccise, colpite e smembrate, tra i flutti freddi e bui.

 

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