Death is only a revival.

di _Maisha_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Distretto 1-Yellow like... a banana? ***
Capitolo 3: *** Distretto 2-Red like...a Payne? ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


prologo hungergames
Death is only a revival


ºPrologoº





Il sole non è mai stato così brillante.
La luce mi avvolge, un calore sconosciuto si diffonde in tutto il corpo.
Com'è piacevole, la vita.
Un uccello cinguetta alla mia destra, su di un'alta quercia.

I capelli bagnati dalla rugiada che ricopre il prato verde.
Ma cos'è questo formicolio?
Il calore diventa insopportabile, sudo, il respiro si affanna.
Una mano tra i capelli e quel che vedo non è acqua.
Mani rosse, rosse come un papavero, come quello che mi diede papà.
"– È per te, piccola mia. Il rosso è il colore della passione, della forza. Tu sei forte. Portalo con te e starai bene."
Mani rosso sangue.
Sapore metallico in bocca, provo a deglutire ma non riesco e così sputo.

Sputo il colore, sputo la forza e la passione. Sputo la mia vita.
No, no. Non posso perdere il Rosso. Il Rosso deve far parte di me, mi serve per...per stare bene.
Dolore, dolore ovunque.
Ecco, il Rosso è dappertutto ora, ma perchè sto male? Mi hai mentito papà?
La vista è annebbiata, le orecchie fischiano, come se il canto di quell'uccello si ripetesse all'infinito.
C'è il buio intorno a me.

Ma no, ecco, vedo qualcosa. Giallo.
Lo vedo con il corpo, con il naso, con la bocca, con le orecchie.
Lo sento. Il colore della rinascita.
Sorrido.
Un colpo di cannone e il Giallo mi divora.

Com'è piacevole, la morte.












Martina's mohogany corner:
Ssssssssssssssalve gentaglia.
In teoria quest'interattiva non era in programma, ma il destino (o meglio, Arianna lol) ha voluto che la cominciassi, e così sia.
Non sono brava con i prologhi, quindi non linciatemi già da ora ç_ç
Se qualcuno è interessato a un tributo (non tutti sono disponibili!) chieda pure nelle recensioni e sarà un piacere rispondervi :3
Premetto che la storia inizierà a Marzo, causa troppi impegni D:
Pace e bene, fratelle e sorelli.
Tanti pony a tutti voi :3

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Capitolo 2
*** Distretto 1-Yellow like... a banana? ***


mietitura distretto 1

Distretto 1 - Yellow like… a banana?

 

 

Shamyra

— Benvenuti, abitanti del Distretto 1! — squittì una capitolina dalla parrucca dai boccoli biondi, o meglio, gialli, dall’immenso palco montato in occasione della Mietitura. — Quanta meravigliosa gente! Così mi piacete, belli carichi, — continuò la riccia, agitando i fianchi qua e là, infagottata in un tubino color porpora, — voglio un grande sorriso collettivo prima dell’annuncio della nostra signora!  Su, coraggio!
Sarebbe stata una cosa ridicola in qualsiasi distretto, o, addirittura, in qualsiasi luogo del mondo sorridere per qualcuno che sta andando a morire, ma non nel Distretto 1. Nella regione più lussuosa e ricca di Panem i Giochi della Fame erano un momento per festeggiare. Ne godevano, gli abitanti, quasi quanto i capitolini. Quasi, perché due famiglie comunque sarebbero state private dei loro figli, due ragazzi dei loro fidanzati, tanti, invece, avrebbero perso un amico. Eppure, ancora una volta, come succedeva da ben 36 anni, il popolo dell’1 sorrise, per la gioia della buffa donna sul palco, degli infami capitolini spaparanzati sui loro divani di pelle di coccodrillo,  ma, soprattutto, per quella del presidente Snow; per fargli provare nuovamente il piacevole brivido di detenere il potere, di avere tutto in pugno, come un dio.
Quando la donna, che più che tale sembrava, invece, un ibrido tra una banana e una bambola, inserì la mano nella boccia di vetro contenente i nomi delle ragazze tra i 12 e i 18 anni del distretto, però, l’aria si fece elettrica e i sorrisi scomparvero anche dalla bocca dei più sprezzanti. Se mentre la capitolina stava per leggere il nome della malcapitata - o fortunata, a seconda del colore di capelli degli spettatori in quel momento - si sentiva solo il ronzio del microfono, quando dalla fila delle tredicenni una testa biondo pallido, quasi come la luce sprigionata dalla luna, che superava tutte quelle delle sue coetanee, lanciò un urlo, il tempo si fermò. Non che i volontari non ci fossero nel Distretto 1, anzi, sarebbe stato strano il contrario. La particolarità stava proprio nella volontaria, però, quell’anno. Mentre la ragazzina saliva sul palco, quasi eterea, con passo fiero e sguardo truce, neanche la capitolina parlò. Quegli occhi non ammettevano parole, non mentre colei che li possedeva si prendeva il suo momento di gloria, non mentre si avvicinava alla vendetta.
Solo quando la ragazzina salì sul palco, posizionandosi di fianco alla capitolina, quest’ultima si riscosse, chiudendo il più velocemente possibile la bocca, ancora incantata dagli occhi ipnotici di quella - se così si può considerare un’assassina – bambina.
— Una volontaria! Magnifico, davvero magnifico. Come ti chiami tesoro?
Come se quella parola fosse stata un coltello, sulla bocca della biondina si formò una smorfia. Chiamarla tesoro, come osava, una stupida, brutta, infame capitolina chiamarla in quel modo. Mentre i suoi occhi si iniettavano di sangue, la tredicenne girò lievemente il capo verso la forestiera, senza rispondere alla sua domanda. Non serviva rispondere, in effetti. I suoi occhi è come se la stessero uccidendo e non solo la capitolina sembrò accorgersene, ma anche tutto il pubblico, che cominciò a creare un seccante brusio di sottofondo. La fanciulla dai capelli color della luna, infastidita, di scatto tornò a guardare fisso davanti a sé, con gli occhi vitrei. Doveva resistere per pochi minuti, per la sorella, la sua Zoe.
— Shamyra, — sussurrò la tredicenne.
— Shamyra, che splendido nome! Bene Shamyra, perché ti sei offerta volontaria? Cosa ti aspetti dal risultato di questi giochi? — blaterò la capitolina, finalmente tranquillizzata dopo lo sguardo assassino e leggermente, pensò, instabile, che le aveva riservato la concorrente.
— Vincerò.
A tutti sembrò un sintomo di sicurezza, forza, convinzione. Quello che non sapeva la capitolina, né la gente che tanto osservava terrorizzata quella bambina - che tutti inevitabilmente conoscevano, almeno per aver sentito il suo nome in giro - era che quella era una promessa. Una promessa tra lei e Zoe. E lei era lì per mantenerla.

 

 

Shamyra si era svegliata presto quel giorno. Era il suo giorno; il suo e quello di Zoe. Andava festeggiato, e quale modo migliore se non un omicidio?
La biondina si preparò con più cura del dovuto, voleva conquistare qualcuno di nuovo e invitante, qualcuno che non sapesse ancora del “ponte del terrore”.
Camminava tra le strade del distretto, Shamyra, col suo solito alone fascinoso e al contempo angosciante, che si rifletteva chiaramente negli occhi dei suoi concittadini. Erano terrorizzati da lei, la evitavano, ma ogni volta che la vedevano, come una droga, si fermavano a fissarla. A sole quattro ore dal raduno in piazza, il tempo stringeva e bisognava trovare una vittima. Le imprecazioni provenienti da un vicolo, urlate con un accento straniero, diverso da quello cupo e chiuso del Distretto 1, irradiarono il corpo di Shamyra di una sensazione di benessere indicibile; forse la sua ricerca, anche per quel giorno, era finita. Un uomo sulla quarantina d’anni smanettava con cavi e viti, cercando forse un modo per sistemare una telecamera o qualcosa di simile.
Si vestì di un sorriso d’angelo, la bambina bionda, e si avventò sull’uomo che ancora non immaginava cosa l’aspettasse.
— Serve una mano, signore?
L’uomo sembrò sorpreso nel vedere quella giovane donna dal viso angelico sbucare in quel vicolo, ma aveva davvero bisogno d’aiuto, e chiedere non poteva nuocere a nessuno. O almeno credeva.
— Oh, grazie piccola. Conosci per caso qualcuno che venda o che abbia cavi elettrici? Ho preso quelli sbagliati, e se torno al treno rischio una strigliata.
— Certo signore, mio nonno faceva l’elettricista, ne ha un bel po’! Purtroppo però non cammina, quindi deve venirli a prendere da solo, — mentì la ragazzina.
Bugiarde come Shamyra ne esistevano poche, di persone. Negli anni aveva affinato talmente tanto la tecnica da rendere quasi impossibile capire che mentisse. Solo una cosa poteva incastrarla, i suoi occhi perennemente desiderosi di sangue. Ma nessuno sembrava farci caso, nascosti sotto la morbida chioma bionda e il sorriso angelico.
Non ci volle poi molto  a convincere l’uomo, originario probabilmente del Distretto 3, a seguirla sotto il “suo” ponte. Se n’era accorto troppo tardi che la via che stavano percorrendo era quasi impraticabile, troppo lontana dal centro abitato.  Il terrore prese vita nei suoi occhi solo quando vide il sorriso dell’angelo biondo divenire un ghigno malvagio. I riflessi dello straniero non erano stati abbastanza pronti, svegli, così, non appena  provò a scappare, si ritrovò con un tendine calcaneale reciso.
E finalmente Shamyra poté iniziare i festeggiamenti.
Solo dopo tre ore e mezza di agonia, la ragazzina si decise a recidere l’aorta dell’uomo e porre fine alla sua vita; la cosa, inoltre, scocciò non poco la biondina, che avrebbe voluto continuare con piacere a scuoiare l’uomo. Aveva lasciato il lavoro a metà, mancavano ancora il petto e il viso, le parti migliori, tra l’altro. Amava guardare la disperazione negli occhi delle sue vittime, Shamyra, mentre toglieva loro pian piano lembi di pelle, la faceva sentire indistruttibile, potente. Non appena il segnale dalla piazza arrivò, però, il suo sorriso svanì dal perfetto visino sporco di sangue, e l’uomo dovette essere finito in un modo banalmente “normale”. Prima di togliersi il sangue dal corpo e dal viso, però, l’assassina, assaporò bene quell’odore acre e metallico, quel profumo che la mandava in trance. Avrebbe dovuto resistere per qualche giorno, e poi avrebbe potuto risentirlo, più e più volte e finalmente l’avrebbero ammirata per la sua sete.
L’avrebbero acclamata, e sua sorella avrebbe vinto finalmente, insieme a lei.
L’angelo biondo camminava verso il centro del luogo che le aveva portato via la sorella, i genitori, l’infanzia. Ora voleva riprendere tutto ciò che le spettava.
Il sorriso insolitamente disarmante con cui la spietata assassina si incamminava nella città riuscì quasi a far credere alla gente, che conosceva bene le sue abitudini sanguinarie, che fosse davvero un angelo. Ma cos’è un demonio, se non un angelo con due ali di scorta?

 

 

 

Nadel

—Bene, bene, Distretto 1, è il turno dei signori! Vediamo insieme quale coraggioso giovane affiancherà la nostra Shamyra.
A quelle parole la ragazzina ebbe un fremito, ma ben presto si rasserenò, tornando a guardare il vuoto dinanzi a sé, impassibile.
Quella stupida capitolina, che si scoprì chiamarsi Sioux, doveva misurare meglio i termini che usava, soprattutto in un distretto come l’1, dove il più delle volte i ragazzi erano violenti e per nulla inclini a parole affettuose. Certo, cosa ci si poteva aspettare da una donna con una parrucca gialla, probabilmente più pesante di lei? Nulla. E infatti il sorriso demenziale con cui pescava all’interno dell’enorme urna di vetro con i nomi maschili era la prova che nella testa di quella donna non vi fosse granché, a parte vestiti dai colori bizzarri o nuovi interventi chirurgici per deformare – o abbellire, che dir si voglia – il proprio corpo. Dopo due minuti buoni di ricerca all’interno del calderone, la strega si decise a estrarre uno dei migliaia di bigliettini bianchi, annunciando estasiata, col solito accento stridulo e insopportabile, proprio dei capitolini: —
Il nostro lui è Nadel Des Giftes. Nadel, caro, vieni sul palco!
Nella voce della donna era palpabile l’emozione, spesso, in quel distretto, non riusciva neanche a leggere i nomi dell’estratto, che qualcuno si offriva. Era così meravigliosamente toccante guardare un tributo incredulo essere invaso dalla disperazione e dalla presa di coscienza. Cercò, quindi, con lo sguardo il ragazzo, magari un dodicenne…
E invece dalla fila dei diciassettenni, dopo un misero attimo di titubanza, dato più che altro dalla sorpresa,  si staccò un giovane di bell’aspetto, dalla corporatura asciutta ma allenata, a giudicare dalle spalle larghe più del bacino.
Mentre attraversava il corridoio di persone che lo avrebbe condotto al palco, un vociare sommesso si innalzò dalla fila delle ragazze, e non era difficile da capire il motivo. Nadel era di una bellezza particolare, a primo impatto sarebbe potuto sembrare il classico ragazzo snob, di famiglia prestigiosa, troppo viziato e riverito - e in effetti era così - ma ad un più attento sguardo si sarebbe potuto capire cosa lo rendeva così dannatamente affascinante; sotto una scompigliata capigliatura riccia e ramata,  vi erano due occhi impenetrabili; come se avessero vita propria, le due iridi cremisi scrutavano quello intorno a loro con attenzione e avidità. Nadel capiva le persone solo guardandole, ma si asteneva dal dirlo; l’unico a saperlo era suo fratello, Tolstoj. Mentre si dirigeva verso il palco con la sua tipica camminata rigorosa, quasi come un marcia, Nadel aveva già capito chi aveva di fronte. Shamyra aveva un non so che di strano; il suo corpo non tradiva emozioni, ma era di fattezze così angeliche da risultare inquietante. Quella bambina doveva avere un passato particolare alle spalle, poiché tutto in lei era un chiaro segno che non era da sottovalutare. Una tredicenne volontaria o è una suicida, o un’assassina; e gli occhi, la freddezza della biondina comunicavano solo una cosa, sangue.
Quando si sistemò di fianco a Sioux, Nadel la superava di un bel po’ in altezza e la donna, ancora scontenta per l’estrazione di un diciassettenne, ma decisamente sedotta dalla bellezza del giovane, dovette alzare il braccio il più possibile per consentire al ragazzo di parlare.
— Allora, Nadel, vuoi dirci qualcosa?
— Oh, beh Sioux, — cominciò il tributo, con un particolare bagliore negli occhi, quasi intraducibile a parole; vi si poteva intravedere determinazione, arroganza, invulnerabilità, — ne vedrai, anzi, ne vedrete delle belle, stanne certa.
Un ghigno sprezzante, conferente un’espressione dannatamente sardonica al suo viso, concluse la brevissima risposta, e quasi costrinse Sioux ad abbassare il microfono e a riportarselo alla bocca.
— Distretto 1, ecco i tributi che vi faranno onore nella trentaseiesima edizione degli Hunger Games! Incoraggiamoli con un applauso! — concluse la capitolina squittendo. Non erano due tributi spauriti - ma del resto era ovvio nel Distretto 1 – però quando i due si strinsero la mano, la donna, con ormai quindici anni di carriera alle spalle, riuscì a scorgere nei loro sguardi altezzosi una caratteristica fondamentale, quasi quanto la forza fisica o l’astuzia: la fiducia in se stessi.
E mentre Sioux bramava una nuova vittoria per il distretto alla quale era assegnata, e quindi un’altra ventata di successo, Nadel pensò che sarebbe tornato, in fondo uccidere un ragazzino era come bere un bicchiere d’acqua per lui, un sicario.

 

 

Il sole si intravedeva appena nascosto ancora dietro le montagne del Distretto 1. Nadel amava l’alba, c’era lui, solo con il sole e il silenzio. Aspettava, il ragazzo, il giorno della sua sesta Mietitura, appostato come un avvoltoio, su un tetto, che un certo Jhon Trends passasse di lì, in quella stretta viuzza, dove si trovava il suo negozio di antiquariato; per cosa? Per ucciderlo, naturalmente. Il sindaco aveva pagato lui e Poe una discreta sommetta per eliminare quest’uomo, doveva essere qualcuno davvero sconveniente, per il primo cittadino, che nel distretto quasi sembrava un tiranno; credeva gli fosse tutto dovuto, che tutti dovessero sottostargli; ora, per esempio, quest’uomo stava per morire e probabilmente un vero motivo neanche c’era… 
Quando il rumore di una camminata rapida sull’asfalto, seguita dal tintinnare di un mazzo di chiavi si avvicinò, Nadel si riscosse dai suoi pensieri; il lavoro andava portato a termine, sempre.

Non ci mise poi molto, il diciassettenne, a scendere dal tetto, il suo corpo snello ma forte era l’ideale per movimenti che necessitavano di una sorta di preparazione ginnica e, silenzioso come un fantasma, si parò dietro l’uomo che smanettava con la saracinesca del suo negozio. Una mano sulla bocca a impedirgli di urlare e a spingerlo contro la spalla di Nadel bastò a non far muovere il signor Trends e a offrire il meraviglioso spettacolo del suo collo nudo al ragazzo. Un solo istante e tutto finì; la lama del coltello recise precisamente la gola dell’uomo, che vide la sua ultima speranza di vita svanire negli occhi gelidi, rosso rubino di quel giovane bello e dannato.
Anche per oggi il lavoro era stato compiuto e Nadel non doveva più niente a nessuno. Era libero.
Avrebbe voluto riposarsi, Nadel, tornato a casa per lavarsi del sangue della sua ultima vittima, ma non fu possibile. Casa Des Giftes era tutt’altro che tranquilla, o meglio, lo era troppo. Quel troppo che ti fa pensare che c’è qualcosa che non va.
Difatti, intento ad abbuffarsi, prima di scendere in piazza per la Mietitura, fu raggiunto dai gemelli, meglio conosciuti come “guai”. Agatha e Christie avevano preso il suo posto come sicario interno del distretto. L’uno era la mente, l’altro il braccio. Era una squadra perfetta, una macchina da morte.
— Ehi, Naddy, vuoi sapere Agatha che ha creato? E’ un genietto, nostra sorella.
—No, non mi interessa, Christie, — rispose svogliatamente il maggiore, addentando un grosso panino.
— Beh, ha praticamente piazzato un filo, il tizio di oggi ci è inciampato e si è tagliuzzato in due parti. E’ stato incredibile, incredibile davvero! Ma io non ho potuto fare niente, dannazione.
Nadel ancora si sorprendeva come due bambini di soli tredici anni potessero essere così desiderosi di sangue e così contenti nell’uccidere. Probabilmente erano incoscienti, o probabilmente avevano solo preso dalla sua famiglia; in fondo, anche per lui uccidere non era questo gran problema.
— Complimenti Agatha, ora però levatevi dai coglioni che siete ancora sporchi di sangue e io starei mangiando, okay?
I due gemelli, sbuffarono e se ne andarono scherzando tra loro, complici come al solito. Erano due facce della stessa medaglia, un po’ come lui e Tolstoj. Certo, quest’ultimo era più piccolo di lui, ma lo completava, solo lui riusciva a far emergere la sua parte peggiore, quella sensibile, permalosa, ribelle.
Mancava poco meno di un’ora alla Mietitura, quando Poe si degnò di dare al fratello la sua paga; ovviamente, però, non desiderava solo quello, non si sarebbe scomodato, se così fosse stato.
— Nadel, la figlia del sindaco vuole vederti.
Per il diciassettenne poteva significare solo una cosa, e, in quel momento, poco prima di partecipare nuovamente alla Mietitura, non ne aveva minimamente voglia.
— Quale? Christal o Diamond? — chiese Nadel, con il guizzo negli occhi tipico di quando riceveva un ordine.
— Christal, e ti vuole ora, vedi di sbrigarti e non dimenticare il compenso. Ci vediamo a casa dopo la Mietitura, — rispose Poe, rigido, tornando nel suo studio e lasciando lì il fratello senza aggiungere altro.
Era stato fortunato, Nadel. Christal era una ragazza carina, gentile e decisamente meno ninfomane della sorella, che era, come dire, insaziabile. A diciassette anni odiava vendersi. Non che non gli piacesse avere rapporti, ma per una volta avrebbe voluto qualcuno che lo facesse con lui non solo per il bel culo che si ritrovava.
Avrebbe voluto… ma non era successo. Così, mezz’ora dopo era nel letto di Christal, a fare quello che aveva fatto altre decine di volte. In fondo capiva la figlia del sindaco, era una ragazza che non aveva mai visto un’arma, una palestra, almeno così, se fosse andata in arena, prima di morire avrebbe ricordato qualcosa di positivo; insomma, lui era Nadel Des Giftes, uno dei più fighi del distretto!
Non avrebbe voluto compenso, stavolta, quasi compassionevole per quella ragazzina, ma Poe aveva detto chiaramente di portare i soldi a casa, e così avrebbe fatto.
— Sì, ehm, grazie Nadel, buona fortuna per la Mietitura, — disse la ragazza, porgendo il denaro all’amante, con ancora le gote rosse e gli occhi lucidi.
— Già, ci si vede Christal, — concluse il ragazzo, guardandola seccato, con gli stessi occhi che fino a poco prima scrutavano il suo corpo e bruciavano di passione. Aveva portato a termine il suo dovere, era ora di andare in piazza, e, francamente, trovava insulso augurare buona fortuna a una sconosciuta; il suo lavoro non era la sua vita, e, quindi, quella ragazzina non lo riguardava più.
Si incamminò da solo verso la piazza, il diciassettenne, con i soldi in tasca, pensando che forse, avrebbe potuto comprare un regalo a Tolstoj. Pensava a cosa avrebbe potuto acquistare quando fu estratto. Beh, era chiaro, ormai,quando gli si formò quel sorrisetto sadico, che gli avrebbe regalato la sua vittoria.

 

 

 

 

 

 

 


Martina’s yellow corner:

Donne! Non ci credo ancora che ho scritto la prima mietitura, piango, o meglio, come dico io, piangio C’:  Bene, che c’è da dire, Arianna mi sta stalkerizzando per pubblicare, quindi ringraziate lei. Pooooi, siccome ho visto che l’idea dei colori è piaciuta, ogni distretto ne avrà uno e come vedete, all’1 è toccato il giallo. (amate Sioux, che è una tenerella). Spero di aver reso bene i baldi giovani, se così non fosse vi chiedo di perdonarmi ç_ç INVITO CHI NON MI HA CONSEGNATO LA SCHEDA, O CHI DEVE COMUNICARMI QUALCOSA A FARLO IL PIU’ PRESTO POSSIBILE. Ancora, chiariamo il concetto di sponsorizzazione. In QUESTA interattiva ogni recensione (prologo incluso) vale 50 punti. Con i punti che riuscirete ad accumulare potete aiutare O il vostro tributo O il tributo di un altro (o prima il vostro, poi in caso muoia aiutare un altro). I punti sono i vostri e decidete voi come sfruttarli, insomma. PERO' nel bagno di sangue terrò conto del punteggio, quindi se tutti i concorrenti hanno ad esempio 500 punti, e poi ce n'è uno che ne ha solo 50, significa che quest'ultimo non ha partecipato granché alla storia, quindi c'è un'alta probabilità che muoia. Tutto chiaro? Se avete dubbi non esitate a chiedere. ^^
Vi bacio e vi taglio una vena,

Martina :*

Shamyra Lopez

              


Nadel Des Giftes
 

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Capitolo 3
*** Distretto 2-Red like...a Payne? ***


cap 3 interattiva mietitura d'2


Distretto 2 - Red like… a Payne?

 

 

 

Red

L’aria del Distretto 2 era metallica. Tutto, nella regione delle armi, dei soldati di Capitol City - i pacificatori - rimandava alla guerra, al sangue, alla forza. Anche il vestito della capitolina, grigio e lucido come il rivestimento di un proiettile, sembrava voler comunicare voglia di scontro. Le facce degli abitanti, del resto, erano non fraintendibili; su ogni volto dell’immensa piazza si leggeva preparazione, coraggio, forse ansia, ma non paura, neanche sui dodicenni, che in qualsiasi distretto - forse anche nell’1 - avevano negli occhi un guizzo di terrore mentre si pescava il bigliettino. Era per questo che Lio, la capitolina adibita all’estrazione dei tributi nel distretto delle armi, amava il suo ruolo. Se c’era una cosa che odiava erano i piagnucoloni, gli spaventati, i drammatici; amava la forza e la tenacia e lì la potenza era nell’aria, si respirava a pieni polmoni. Proprio dopo un lungo respiro di quell’aria così pesante, ma in un certo senso così pura, la capitolina, dalla folta chioma intrecciata color verde mela esordì: — Salve Distretto 2! Benvenuti alla Mietitura dei trentaseiesimi Hunger Games.
Si fermò volutamente, osservando con più attenzione il suo pubblico, che, come prima, non mostrava alcun segno di preoccupazione o angoscia.
— So che qui nessuno di voi vuol perdere tempo, vero? Allora bando alle ciance e vediamo insieme chi sarà la fortunata ragazza a venire estratta!
Proprio mentre la donna stava per aprire la grande urna di vetro, dalla fila delle diciassettenni si levò una voce chiara e forte. Una testa rosso carota si distingueva tra quelle quasi tutte nere delle sue coetanee mentre procedeva tra la folla, fino a sbucare al centro del corridoio umano costituito dal lato dei ragazzi e da quello delle ragazze. Erano inevitabili i brusii tra le file, in fondo tutti conoscevano quella ragazza; vuoi per la sua bellezza estremamente particolare e affascinante, vuoi per il carattere pungente, vuoi per la fama della sua famiglia, la rossa, o meglio il rosso, non era una novità nel distretto.
Mentre la ragazza si avvicinava al palco con passo svelto e fiero, fissando i mentori dietro la capitolina, seduti vicino al sindaco, con i penetranti occhi marroni, Lio, sbigottita per tanta mancanza di rispetto esclamò in tono stupito, ma più che altro infastidito: — Mai in nove anni di carriera avevo visto una tale mancanza di educazione! Ragazzina, avresti potuto darmi il tempo di pescare.
La rossa, ormai salita sul palco, dopo un cenno con la testa a Knife, il mentore più vecchio del distretto – se vecchio si può chiamare un uomo ancora così dannatamente affascinante, seppur di mezza età, sia per le capitoline, sia per le donne comuni – guardò accigliata la buffa donna dai capelli verdi scoppiando in una fragorosa risata: — Io mancare di rispetto? Ma dai, Lio, ti sei vista? Tu sei una mancanza di rispetto alla natura!
La capitolina rimase interdetta, quasi non credesse alle parole di quella miserabile ragazzina.
— Ragazzina, come osi? Sei solo un mis…
Non finì di parlare, la donna-proiettile, che la rossa la interruppe, stavolta adirata: — Ma stai zitta un po’? Ti conviene non parlare, idiota, tanto sono io che vado a morire, mica tu… purtroppo per la società.
Lio era ancora a bocca aperta, con una faccia da vera ebete, che la diciassettenne prese il microfono, o meglio, glielo strappò dalle mani, portandoselo alla bocca.
— Ehi Capitol, sono Red Payne e vincerò. I rossi sono tornati.
Un sorrisetto, o ghigno, che dir si voglia, accompagnò la risposta di Red, decisa a mostrare il lato forte del suo carattere. Avrebbe vinto, portandosi dietro quel tocco di classe; in fondo era una Payne e, in qualche modo, doveva essere ricordata.
Fu un sospiro, il sospiro del padre, a convincerla a rilanciare il microfono in mano a Lio, che, ancora stordita dalla baraonda in cui era finita, finì per farlo cadere, facendo scoppiare tra le file addirittura qualche risolino.

 

 

Quella mattina Red si era svegliata presto. Aveva pianto quella notte e il cuscino si era inzuppato, come al solito. Andava cambiato e asciugato prima che si svegliassero tutti, così era stata costretta a dormire meno del dovuto; poco male, Morfeo non aveva proprio voglia di cullarla quel giorno. Se solo Knife avesse saputo che la figlia aveva dormito meno delle otto ore stabilite si sarebbe arrabbiato non poco, costringendola a qualche sorta di strana punizione fisica; strana poiché farle fare qualche flessione, o qualche giro di corsa era inutile, per il suo corpo allenato. Dopo aver sistemato il cuscino, così, la rossa si decise a far finta, nuovamente, di dormire, in attesa della sveglia che, in casa Payne, suonava alle sette in punto. Quasi come in una caserma ognuno si svegliava, si preparava ed iniziava ad allenarsi per fortificare ancora di più il proprio spirito e il proprio corpo, come se non lo fossero già abbastanza. Il giorno della Mietitura, il suo giorno, Red decise di allenarsi da sola, o meglio, di non allenarsi. Si era allenata tutta una vita e un giorno in più di allenamento non avrebbe cambiato la sua sorte. Decise, così,  di salire su un albero - il suo albero - la grande quercia nell’immenso giardino di casa Payne; da lì era possibile vedere i ragazzi dell’Accademia allenarsi e lei si divertiva un mondo a osservare la gente, capire come era fatta, analizzarla e poi… disegnarla. Stranamente, infatti, una delle più grandi passioni della bellicosa, sanguinaria Red Payne era il disegno, e, difatti, non appena vi era un momento libero cacciava il taccuino dalle tasche del suo immancabile parka, cominciando a disegnare qualunque cosa la ispirasse in quel momento; sempre, naturalmente, nascosta dagli sguardi di fuoco della sua famiglia.
Quel giorno, lì sull’albero, con una leggera brezza che sapeva di primavera, Red era ispirata da un soggetto particolare: la sua famiglia.
Subito cominciò a muovere la matita sul foglio e semplici tratti presero vita.
A destra, imponente si stagliava Knife Payne, il primo vincitore del Distretto, o meglio, il primo ancora in vita. Vittorioso nei noni Hunger Games, ideatore della prima alleanza tra i primi distretti, i futuri Favoriti, uomo duro, severo, rigoroso. L’uomo da cui Red avrebbe dovuto prendere esempio, o meglio, da cui aveva sempre cercato di prendere esempio, senza, però, mai riuscirci appieno. Lui era il suo burattinaio, lei la sua marionetta; il problema era uno, Red voleva a tutti costi spezzare i fili e scappare, viva, libera delle proprie scelte ed azioni. Knife, insomma, era colui che le aveva tarpato le ali. Vicino a Knife, prese forma la figura di una donna, bella e giovane, dalla folta chioma rossa: Cruz Michaels, sua madre. Tatuatrice e piercer, anche della stessa figlia, che, però, per lei, figlia non era. Red, infatti, era troppo simile a Knife: sadica, crudele, arrogante, acida. Il suo opposto insomma; come Cruz infatti, plasmata praticamente dalla sua stessa carne, vi era solo Cross. L’immagine della riccia – caratteristica unica, nella famiglia Payne – ventitreenne malinconica Melcross era appena sbucata accanto a quella di Cruz, nel disegno che ora iniziava a prendere forma. Red voleva bene a Cross, la capiva, in fondo. Forse. Perché Red ancora non aveva vinto, non aveva ucciso, ma sapeva cosa significasse perdere qualcuno a cui si vuole bene. Melcross aveva vinto a soli quindici anni; spronata dall’amore verso il suo ragazzo, Esteban, aveva trovato la forza di uccidere anche il suo ultimo avversario, il suo compagno di distretto, nonché fratello dodicenne di Esteban, Make. Era tornata per amore e aveva trovato morte. Poichè Esteban, che aveva perso la persona più cara per lui, - che non era Cross, ma bensì il proprio fratellino, il piccolo Make, il bambino che la  sua ragazza aveva giurato di difendere… per poi uccidere - si era tolto la vita. Red pensò alla tristezza della sorella per il proprio gesto, pensò a quanto soffrisse, a quando nei suoi occhi vedeva buio, gelo, a differenza dell’arroganza e della presunzione intrinseci nelle iridi degli altri vincitori di casa Payne. Così decise di cancellare la sorella, e con rabbia raschiò via il colore, perché lei non avrebbe mai dovuto essere coinvolta nella lunga catena di dolore dei rossi del distretto 2. Quando la diciassettenne ebbe finito di grattare, però, il foglio era ancora rosso, rosso sangue. Non sentiva nemmeno più il dolore se le facevano male, Red, quindi quando le unghie, premute così violentemente sul foglio, si erano spezzate, non se ne era neanche accorta. In effetti ci mise qualche secondo a capire da dove venisse il sangue che aveva macchiato il viso del perfetto Knife disegnato, non che gliene importasse, comunque; infatti, una volta pulitasi dai residui rosso vermiglio che sporcavano le esili dita,subito riprese il carboncino e, seppur con più sofferenza - non per il dolore fisico, ma per la tortura interna che si auto infliggeva pensando al destino che aveva avuto la sorella- riprese a muoverlo con foga sul foglio. Proprio mentre continuava, con sguardo triste, o truce - come poteva sembrare se osservato dall’esterno-  a disegnare, sul foglio presero forma  due figure maschili, i due fratelli di Red. Stab e Unber furono entrambi vincitori a quattordici anni, entrambi rossi, entrambi forti, entrambi non coscienti, almeno secondo la sorella. Unber era un vincitore recente, di appena tre anni prima. La sua fortuna erano stati gli sponsor, che gli avevano concesso di vivere lontano dall’alleanza dei favoriti. Aveva vinto non sporcandosi nemmeno le mani, aveva vinto con il fuoco. Lo stesso fuoco che gli bruciava negli occhi se ci parlavi, lo stesso fuoco che, a guardare quel ragazzino, sembrava divorarti, una propagazione, quasi, della sua anima. Stab, invece, era un veterano oramai. Allenatore al Centro d’Addestramento a Capitol City, ufficialmente fidanzato con una delle vincitrici più acclamate del Distretto 1, Hemingway Des Giftes, vinse contro un gigante del Distretto 10 conficcandogli un orecchino in un occhio. Un colpo di fortuna, forse, o semplicemente bravura. Fatto sta che era un altro nome che si aggiungeva alla lista dei vincitori rossi del 2. Pensando alla storia d’amore del fratello Red non poté fare a meno di disegnare una figura slanciata, ma sbilenca: sua sorella Iphigenia. Iph aveva vinto barando, e se c’era qualcosa che Red odiava erano i falsi. La allora sedicenne Payne finse di amare un ragazzo dell’1 per poi scuoiarlo brutalmente e vincere. Eppure una ragazza così malvagia e perfida aveva in pugno ciò che di più prezioso avesse Red: il cuore di Rusty.
Mai Red era riuscita a conquistare il bell’istruttore dell’Accademia di suo padre - nonostante la sua bellezza, che molte persone ritenevano insuperabile - perché lui aveva sempre preferito Iphigeneia. E forse era proprio questo il motivo per cui Red odiava la sorella… forse, perché non l’avrebbe mai ammesso.  Prima di continuare a muovere la mano sul foglio, però, Red si bloccò. Una pausa di un solo istante, un solo attimo per capire, per riprendere lucidità, per auto controllarsi. Ogni volta che pensava a Rusty… cioè, al suo Joey, aveva un colpo al cuore. Stava male. Doveva fermarsi. E Red non poteva farlo davanti agli altri. Così negli anni aveva sviluppato un certo controllo di se stessa. Ogni volta che veniva distratta da qualcosa – qualcosa nella sua testa, sia chiaro. Qualcosa come le emozioni, che per suo padre erano totalmente inutili e debilitanti- annullava ogni suo ricordo, concentrandosi solo su quello che aveva intorno. Si legava, in perfetta simbiosi, alla natura. Ma con Joey che vorticava furiosamente nella sua testa non ci riusciva. Non del tutto. Quel dannato secondo le serviva sempre. Ed è per questo che evitava di pensarci. E per non pensarci l’unica soluzione era allontanare la sorella, allontanare Iphigeneia. Allontanarla non fisicamente, ma psicologicamente. Annullarla come persona, trasformarla in un fantasma. E, proprio come uno spettro, circondato da un’aura candida e quasi eterea,  comparve sul foglio la prima figura che di rosso non aveva i capelli –che in realtà erano bianchi come la neve - bensì gli occhi: Bloodie. Vincitrice dell’anno precedente, ad appena 12 anni, Bloodie era figlia di Poison e Zoe, zii di Red, entrambi morti, l’uno per disperazione, l’altra nei giochi. La pallida bambina dagli occhi cremisi, però non era solo la cugina della diciassettenne Payne, ma, probabilmente, la sua maggiore rivale. L’aveva sempre odiata, Red,  quella bambina malefica, forse perché aveva avuto più coraggio , più prontezza, più sfrontatezza di lei nel presentarsi ai giochi ancora così piccola. Forse quello Red provava era semplice invidia, ma non lo avrebbe mai ammesso,comunque, né agli altri, né tantomeno a se stessa. Quindi, quando il foglio fu riempito dall’esile corpicino tratteggiato della minuta Bloodie, Red non dubitò del sentimento che le saliva dalle viscere. La rossa era una guerriera senza mezze misure e, sicura come non mai, capì, sospirando e alzando finalmente la mano dal foglio, che quello che provava verso quella bambina dalle fattezze angeliche era semplice e puro, come l’aria a primavera o la risata di un bambino. Era disprezzo.
Quando un uccello decise di posarsi su un ramo vicino al suo e iniziare a cantare, finalmente Red si riscosse dalla sorta di torpore creativo che l’aveva presa. Quando capì che era finita, nulla le impedì di guardare la propria opera; realistica, perfetta nell’imperfezione dei personaggi rappresentatevi . Vi era tutta la sua famiglia, escluse Cross e le piccole Brenda e Blade. C’era, in basso, quasi in disparte, una piccola Red, mentre i vincitori della famiglia Payne brillavano di luce propria. E la rossa odiò quel disegno poiché rappresentava la sua miserabile vita, fatta di destini già scritti e scelte già prese; fatta di sangue, fatta di morte. Così, non appena Infinity, il suo cane, le corse incontro abbaiando forsennatamente, decise di distruggere tutto, di liberarsi da quelle catene imposte dal proprio sangue e di volare, finalmente, almeno prima di seguire le tracce che il destino aveva lasciato per lei. I pezzi della meravigliosa opera si dispersero nell’aria, tra quel vento primaverile, cullati dal canto dell’uccellino, dall’abbaiare di Infinity, dal silenzio destabilizzante di Red. Tra le pagine gialle del taccuino, però qualcosa, quasi con prepotenza,  bramava di uscire allo scoperto; un’immagine, disegnata da mani inesperte, tremanti, di una piccola artista; e quell’ artista era lei. Su quel foglio, tra colori pastelo, nuvole verdi e alberi blu era racchiusa tutta la sua felicità: c’era Valentine, il suo migliore amico, c’era Andra, l’unica ragazza a cui era legata,e c’era anche una piccola Infinity. La cosa che notò, però, era un’altra. Sul volto di un piccolo personaggio con tanto di chioma ramata ed efelidi vistose - che nonostante fosse così particolare era non meno importante degli altri, non meno bello e non meno strano - vi era qualcosa di cui aveva dimenticato da molto tempo la forma originale, la purezza; un sorriso, rosso. Come lei.

 

 

 

 

Kwon Kim

Tutto ciò che Lio voleva, dopo la figuraccia cui era stata sottoposta da quella sfrontata ragazzina rossa, era finire quella cerimonia il più velocemente possibile. Nonostante i molti anni di servizio, in effetti, ancora si domandava come mai ci fossero le mietiture. Insomma, bastava prendere due ragazzini a caso in ogni distretto! Automaticamente, però, mentre infilava la mano nell’enorme urna di vetro contenente i nomi dei ragazzi, scosse la testa. A cosa serviva quell’assurda messa in scena? A fare spettacolo. Insomma, prima di diventare un’inviata alle mietiture si divertiva un mondo a guardare da casa le estrazioni; si intratteneva con piacere con la sua famiglia, seduti sul grande divano di pelle giallo canarino, per scommettere su se fossero stati estratti ragazzi pallidi e denutriti o ragazze robuste e feroci. Si giocava con le vite degli abitanti dei distretti come un gatto gioca con un gomitolo e questo non toccava minimamente nessuno, perché, alla fine, nessuno si poneva delle domande e lei d’altronde, chi era per porsele? Così, col più raggiante dei sorrisi, per il quale a Capitol City era famosa e amata, annunciò il nome del tributo di sesso maschile estratto.
—Bene signori e signore, dopo questo simpatico siparietto — disse la donna, fermandosi volutamente sul “simpatico”,  lanciando allo stesso tempo uno sguardo di puro odio a Red, — è ora di svelare chi sarà il fortunato tributo che entrerà nell’arena insieme alla nostra Red. — Dopo un altro sguardo truce tra la rossa diciassettenne e la donna dai capelli verdi, Red capì che era meglio evitare di prestarle ascolto, per non metterle le mani intorno al collo e strozzarla in meno di dieci secondi. Lio, però, a quanto pare non capì che quello che la rossa le stava facendo era un favore, anzi, pensò di aver vinto la battaglia di sguardi e di averla fatta tornare finalmente nei ranghi. Così, con sguardo divertito annunciò: — Kwon Kim Hyun, sali sul palco caro.
Nell’aria nulla si mosse. Tra la folla, niente. E poi, d’improvviso, dall’angolo destro dell’enorme quadrato di ragazzini, una testa bionda iniziò a incamminarsi verso il centro della grande piazza. Un pallido ragazzo si fece strada tra le centinaia di coetanei e, finalmente, dopo un’attesa estenuante, per quanto breve, giunse di fronte al palco. Mentre saliva le scalette di ferro che portavano in cima alla piattaforma, Lio non potè fare a meno di notare che,  seppure avesse un’aria innocente e tranquilla, il ragazzo aveva una buona forma fisica e l’altezza era dalla sua parte. Sotto il chiaro ciuffo biondo, spiccavano, inoltre, due inquietanti occhi scuri, a mandorla, che non tradivano emozioni, uniti alle labbra serrate e ai pugni stretti lungo i fianchi.
—Ciao Kwon. Posso chiamarti solo Kwon, vero?— Chiese Lio, non appena il  ragazzo le fu accanto. La risposta del tributo non fu che una misera scrollata di spalle. Kwon non aveva voglia di parlare, specialmente con quella tizia strana. Insomma, quale malato si tingerebbe i capelli di verde?
—Non sei molto loquace vedo. Beh Kwon, cosa vuoi dire agli abitanti del tuo distretto? — concluse Lio, ormai del tutto sfinita a causa di quei tributi particolari. — Che dovrei dire? Vedrete con i vostri occhi — concluse in breve il ragazzo, quasi annoiato dalla situazione. Sarebbe dovuto andare a Capitol City, che odiava addirittura più del proprio Distretto, quindi, di certo, non era una grande carica positiva a muoverlo. L’atmosfera sul palco e sull’intera piazza, dopo le poche parole del giovane, era divenuta insostenibile, ogni singola persona, Lio compresa, non voleva altro che tornare a casa. Così, il breve silenzio, rotto prima solo dal ronzio delle telecamere, venne completamente distrutto dalla voce squillante di Lio, che, per la gioia di tutti, annunciò: — Bene, Distretto 2, un applauso ai coraggiosi tributi che vi rappresenteranno in questi trentaseiesimi Hunger Games. E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore.
E mentre il popolo applaudiva con grinta, aspettandosi un altro anno di prosperità, se non per la vincita della rossa Payne - che aveva una lunga catena di vittorie alle spalle, nella propria famiglia – per quella di Kwon Kim Hyun, che seppure  non godeva della popolarità di Red, era comunque allenato e pronto a uccidere, Lio pensava che quell’anno si sarebbe divertita a veder morire quei ragazzini saccenti e avrebbe riso di gusto, proprio come prima avevano fatto quei poveracci prendendosi gioco di lei, guardando come avrebbero tagliato loro la gola.

 

 

—Non dovresti avere paura? Ormai il tuo nome c’è abbastanza volte ,—chiese il ragazzino dai folti capelli neri, addentando una fetta di pane. — Perché dovrei? Ci sono migliaia di nomi lì dentro. E io non ho mai preso neanche una tessera. Comunque, se dovesse succedere, sono allenato, Choi. — rispose Kwon Kim, sedendosi al tavolo, di fronte al fratellino. Quel giorno avrebbe partecipato alla sua prima mietitura, era normale che ponesse delle domande, la tensione si faceva sentire. Quando hai dodici anni e sai che potresti essere scelto per andare in chissà che genere di posto ad ammazzare o ad essere ammazzato, non importa da che distretto vieni, la paura ti stringe come un serpente. In quel preciso istante, varcò la porta della piccola cucina il resto della famiglia. —Sarebbe troppo chiederti di offrirti, vero Kwon? Hai diciassette anni e ancora non hai cacciato le palle per farlo!— Esordì Hana, sua sorella. — Avresti potuto farlo tu, dato che ci tieni tanto —ribattè Kwon, non degnandola nemmeno di uno sguardo, iniziando a giocherellare con un coltello e una mela. — Tua sorella, quando era ancora in età per essere estratta si occupava di me, ingrato che non sei altro. Lei si è spezzata la schiena e tu invece ti allenavi. Per cosa? Per non offrirti neanche. Spero Choi non venga su come te.
Mika Hyun, era appena entrata dalla porta del giardinetto sul retro e non aveva potuto fare a meno di interferire nella discussione dei figli. Kwon Kim era la sua maggiore delusione. Uno smidollato, un codardo. Anni di allenamento, di soldi pagati all’ Accademia per niente. Intanto, mentre sia sua madre che sua sorella prendevano posto, Kwon infilzava il coltello nella mela con più violenza. Le odiava. Nella loro mente vi erano solo soldi, Hunger Games e fama. La loro famiglia non era povera, andare ad aggiungere altri soldi al loro patrimonio, rischiando la vita di un figlio non era concepibile, almeno nella mente di Kwon. Eppure il padre, quell’ennesima mattina, si accaparrò in toto il disprezzo del figlio, una volta per tutte. — Mika, non c’è nulla di cui preoccuparsi — esordì, — se questo sciagurato  non si offrirà, né quest’anno, né il successivo, potrà sempre prendere il suo posto Choi, non appena avrà quattordici anni.
Kwon alzò lo sguardo, smettendo per un attimo di torturare la mela, ormai ridotta a brandelli, e lo portò sul volto del fratello. Choi era terrorizzato, gli occhi sbarrati. Non ce l’avrebbe mai fatta. Non a quattordici anni. Non prima che in Accademia gli insegnassero a uccidere una persona reale e non un manichino. Il che avveniva a quindici anni e mezzo. — Non puoi farlo. Non puoi obbligarlo. — sbottò Kwon, guardando il padre con aria glaciale. — E chi me lo impedirà? Tu? Siete i miei figli. Io vi ho dato la vita e, volendo — concluse urlando, — io ve la tolgo!
—Tu non sei un cazzo di nessuno! — rispose Kwon Kim a tono — Vacci tu a morire, fallito! E se proprio ti fa piacere, te la tolgo io la vita.
Non concluse neanche la frase che il coltello, prima infilato nella mela, fu alla gola del grasso e lento Lee Hyun — Vedi questo coltello, papà? Prova ad obbligare Choi ad andare lì dentro e finisce dritto dritto nella tua gola da porco.
Kwon riusciva a vedere negli occhi del padre lo stesso terrore che aveva visto prima in quelli del fratello. Paura di morire. E fu allora che lanciò il coltello,  facendolo conficcare nel tavolo di mogano*, lasciando finalmente libero di respirare il padre. Odiava quella famiglia. Non era sua. Lui non era come loro. Dopo quello che era successo nessuno parlò, né la madre, né l’acida Hana, forse troppo terrorizzate. Gli unici a parlare erano gli occhi vispi di Choi che dicevano tante cose: grazie, come hai potuto, non offrirti. Dicevano talmente tanto che Kwon non sopportò oltre e se ne andò, lasciando tutti lì, a bocca aperta. Avrebbe passato da qualche altra parte la sua giornata. Il posto che scelse era il suo preferito, seppur ci fosse stato solo una volta. Quello che scoprì dopo aver ucciso la sua prima vittima, a quindici anni. Era una donna, giovane, di forse vent’anni. Capelli rossi e occhi azzurro cielo. Era bella. Era una donna vera, di quelle senza muscoli, senza sguardi truci, con il senso del pudore e il senso di maternità. Era un essere quasi soprannaturale, nel Distretto 2. Non aveva avuto neanche il tempo di conoscerla, Kwon, che la sua istruttrice già gli aveva detto di ucciderla.

 “— Ucciderla? Perché dovrei ucciderla? Non ha fatto niente!— Protestò Kwon. Elle gli rise in faccia. — Devi ucciderla, perché devi, ragazzino. Credi che negli Hunger Games ucciderai solo perché ti hanno fatto qualcosa? Devi uccidere dei bambini, che probabilmente, proveranno addirittura a fidarsi di te. Devi uccidere perché funziona così. Vivi o muori. — detto questo, la bionda venticinquenne gli diede in mano una lancia, un coltello e una corda: — scegli tu.
Sorrise nel vedere il disagio negli occhi del ragazzo. Era divertente vedere un ragazzino, di quelli innocenti, diventare un assassino.
Conoscendo le abilità di Kwon con le armi da taglio, probabilmente avrebbe scelto il coltello. E  infatti così fu. Magari prima qualche tortura…
E invece no.  Kwon si avvicinò piano alla ragazza, che ora piangeva. Era una senza-voce, dalla sua bocca non uscivano parole, gemiti, ma solo suoni gutturali e strozzati. Capitol mandava i condannati a morte nei Distretti 1 e 2 ogni anno per liberarsene. Era gratis e in più quelle persone avrebbero sofferto. Nel 4, infatti, pur essendo un distretto favorito, non erano spedite persone da mandare al macello, perché, secondo Snow, ma anche secondo i primi due distretti favoriti, nel distretto 4 erano molto più smidollati – o molto più umani, secondo Kwon – di loro.
Quando la ragazza guardò Kwon negli occhi capì che non c’era speranza, ma capì anche che quel ragazzo non le avrebbe destinato una sorte troppo dolorosa e orribile, da portare nell’aldilà. — Mi dispiace. — Un sussurro del ragazzo dagli occhi a mandorla e la gola della ragazza venne recisa precisamente, con un taglio pulito e profondo. Il corpo della donna cadde a terra pesantemente e velocemente fu circondato da una pozza di sangue.
—Le hai tagliato la gola? Hai sprecato una donna così giovane solo per tagliarle la gola? — Elle era scioccata. — Cosa avrei dovuto fare Elle? — rispose Kwon —Torturarla? Per far godere una troietta sadica come te? No. E ora, se permetti, vorrei andarmene. Ah, e dì a qualcuno di pulire questo schifo, a meno che tu non voglia bere il sangue di quella povera ragazza.
Kwon corse per un tempo indeterminato nella sterminata campagna intorno all’Accademia. Solo al tramonto trovò un posto ideale, un paradiso in miniatura. Su una piccola collinetta si stagliava un grosso sperone di roccia che Kwon, un po’ per distrarsi, un po’ per curiosità, scalò in fretta e senza problemi. Il panorama che gli si parò davanti era fenomenale. Il sole, di un giallo aranciato, scompariva dietro alle innumerevoli luci dei palazzoni del distretto. Un venticello leggero gli scompigliava il ciuffo dello stesso colore dei capelli della madre e ogni cosa, lì intorno, era pura e semplice pace. Non c’era dolore, violenza, sangue. Kwon avrebbe voluto rimanere per sempre lì sopra, a pensare a tutto o a pensare a niente, a godersi i suoni della natura o, semplicemente, a vivere. Eppure non potè. E la sua vita riprese. Fino alla mattina della sua settima mietitura.”

 Kwon era stanco. Aveva camminato per molto tempo per ritrovare quel posto. L’erbaccia era cresciuta e non era stata tagliata e raggiungere la collinetta era stato abbastanza arduo da fargli raggiungere la cima del roccione ansimante. — Alla fine sono tornato qui, — disse all’orizzonte — speravo di non tornarci più, eppure mi son ritrovato di nuovo tra le mani l’occasione per uccidere. Sarò un assassino? No, no. Possono estrarmi, costringermi, ma deciderò io cosa fare. Sempre. Non saranno loro a scegliere per me, non questa volta. È una promessa.
La risposta dell’orizzonte, a sua volta, fu chiara. Una sirena. La mietitura stava per iniziare.






*riferimenti puramente casuali.





Martina's red corner: 

MARTINA IS BACK BITCHEEES. Okay, ho perso millemila lettori. Vogliatemi bene lo stesso. O ucciderò i vostri miseri tributi muahaha. 

Ah, ringraziate Arianna, che in questi mesi mi ha stalk... ehm, spronato a scrivere *^* Coomunque, che c'è da dire. Red e Kwon Kim. Sono fighi. Strani. Ma fighi. Per la mentore di Kwon, beh, spero non mi ucciderai per qualche piccola parolaccia :3 ( e per avergli fatto minacciare il padre...ehm) . Dunque dopo mesi me ne esco con un capitolo di cacca. Perchè no, non sono contenta, ma voi siatelo, tanto non lo cambierò muahaha. Come sono perfida. D'altronde sono una capitolina, zoccola [cit. Arianna]
Se non vi ricordate più come funzionano gli sponsor andate nel capitolo precedente :3 E RECENSITE. CAPITO? RECENSITE. *vi osservo*

                                 







Red Payne







Kwon Kim Hyun


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