Gimme Shelter di Meahb (/viewuser.php?uid=19354)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sing the blues ***
Capitolo 2: *** Look over there ***
Capitolo 3: *** Cold hands, cold feet ***
Capitolo 4: *** Violin ***
Capitolo 5: *** Did you see what I've done? ***
Capitolo 6: *** Tomorrow is something we remeber ***
Capitolo 7: *** A drinking song ***
Capitolo 1 *** Sing the blues ***
“GIMME SHELTER”
Salve a tutti! Quella che vi accingete a leggere, più che una storia, è uno strano esperimento che mi è uscito fuori di getto stanotte. Mentre bazzicavo in un forum americano, mi sono imbattuta in questo strano gioco chiamato “Sevenspell”: all'autore vengono dati sette titoli intorno ai quali costruire una storia che abbia un minimo di senso compiuto. Ora, non so se questa storia abbia un senso compiuto, ma spero che riusciate a vederci qualcosa di buono.
E' la mia prima storia in questa sezione, quindi non siate troppo cattive!
Con questa storia chiaramente non intendo offendere Johnny Depp, né chiunque abbia la fortuna sfacciata di conoscerlo. L'ho solo preso in prestito per sognare un po'!
“Sevenspells” set:
1. Sing the blues
2. Look over there
3. Cold hands, cold feet.
4. Violin
5. Did you see what I did?
6. Tomorrow is something we remember
7. A drinking song
*Sing the blues*
“Di tutte le parole scritte o pronunciate
queste sono le più tristi: "Avrebbe potuto essere!"
-Whittier-
Lou si accovaccia ai piedi del letto. In una mano la sigaretta accesa, nell’altra un foglio bianco, intonso. Lo guarda come si guarda qualcosa da iniziare, con la stessa paura e lo stesso rammarico che prova chi, come lei, decide di scegliere piuttosto che di farsi scegliere.
Lo guarda e pensa che un paio di occhi neri non possono essere l’unico motore che manda avanti il mondo. Non davvero. Ci dev’essere qualcos’altro, qualcosa d’altro, qualcun altro che sia in grado di accendere i motori e far partire la vita. Inspira il fumo, socchiude gli occhi e lascia che quel pesante groppo alla gola decida di fare quel che meglio crede. Scoppiare a piangere, a ridere, prendere a calci la porta…andrebbe bene tutto, a patto che quel groppo se ne vada. Riapre gli occhi e li punta dritti davanti a se, come se avesse un punto da guardare. Ma in realtà il punto non c’è. C’è uno stereo. Muto. Fermo, immobile come lei ai piedi del letto. Acciuffa il telecomando e lo accende, ascolta le note che si diffondono nell’aria, ascolta quella voce che conosce così bene impadronirsi dei suoi pensieri. Quali pensieri, poi? Non li riconosce neanche più, quei pensieri. Mentre la musica riempie la stanza e le sue orecchie, crede di non riconoscere quello che le gira nella testa.
“I walk and cry while my heartbeat, Keeps time with the drag of my shoes. The sun never shines through this window of mine. It's dark at the Home of the Blues”
Pensieri…solo pensieri…cosa dovrebbe farne Lou di quei pensieri? Cosa? Sputa il fumo, a guardarla bene sembra indispettita. Infastidita. Probabilmente non si rende conto che quello che ha dovrebbe bastarle. Dovrebbe bastarle sapere di aver fatto tutto il possibile, di aver amato, di aver pianto e di aver poi lasciato andare. Quando non c’era più nient’altro da fare. Lasciarsi per non lasciarsi mai, diceva qualcuno no? E allora, forse non è del tutto sbagliato abbandonare la strada vecchia per intraprenderne una nuova. Si, è spaventoso, ma è una scelta. Ogni scelta è spaventosa. Ogni volta che i nostri piedi poggiano su qualcosa che non riconosciamo ci sentiamo atterrire dall’eventualità che le cose possano, inaspettatamente, disarcionarci e sbatterci violentemente a terra. Lou questo lo sapeva. Lo aveva intuito quando aveva camminato lontana dal suo Joh, lo aveva immaginato quando Sam l’aveva presa per mano portandola a sentire un cd in un disc store. Aveva avuto paura in entrambi i casi. Paura davvero. Nel primo caso, perché sapeva che la sua strada, senza Joh, non sarebbe stata più la stessa. Come se qualcuno avesse tolto il cinguettio degli uccellini, il prato verde ai bordi della strada e quel laghetto che tanto amava. Andandosene, aveva come avuto l’impressione che un Dio capriccioso avesse preso il pennello e avesse cominciato a impiastricciare il quadro della sua vita. Così, per gioco. E Lou non riusciva davvero a capire come fare per sistemare i colori, salvo poi scoprire che quell’ammasso di tinte cangianti, avevano la loro ragione d’essere. Forse, con mille dubbi e mille ripensamenti, quel pennello di quel Dio capriccioso, era stata la miglior cosa che le fosse capitata. Forse, quella forza che stentava a riconoscersi, ce l’aveva davvero. Ce l’aveva avuta quando Sam, sorridendo, le aveva detto che era ora di cominciare a camminare insieme. Cominciare a camminare insieme e in avanti, senza aver paura. “Se dovremmo cadere, cadremmo Lou. Però diamoci la possibilità di camminare”. E Lou gli aveva creduto. Aveva afferrato la sua mano, come una bambina incuriosita e spaventata e si era incamminata lasciandosi indietro il marchio infuocato del suo Joh. Ma non aveva fatto bene i conti, Lou. Non aveva considerato che i ricordi non si dissolvono nemmeno quando uno lo desidera così tanto da aver male allo stomaco. Anzi. Soprattutto quando uno lo desidera così intensamente, così forte, con così tanta passione. Lou non aveva preso in considerazione l’eventualità che un giorno, forse lontano, quei ricordi le sarebbero potuti scoppiare in faccia come una gomma da masticare, impiastricciandole il viso, i capelli e le mani.
“Oh, but the place is filled with the sweetest mem'ries, mem'ries so sweet that I cry. Dreams that I've had left me feeling so bad, I just want to give up and lay down and die”
E ora, seduta sul pavimento della sua stanza, con una scatola rossa accanto, e un foglio bianco in mano, cerca di farci i conti. Solleva il coperchio, adesso, si sporge e sbircia dentro quella scatola rossa. Ci sono dei post it, dei fogli scritti, alcune foto, un pacchetto di sigarette accartocciato, un accendino e un sottobicchiere. Guarda tutto con espressione corrucciata, indecisa se ridere o se prendere quell'ammasso di ricordi e buttarli via lontano, dandosi la possibilità di costruirne di altri, di nuovi, ma sempre con lo stesso marchio a fuoco. Ma mentre fissa quei pochi oggetti, riconosce perfettamente la sensazione di calore che si impadronisce del suo stomaco, riversandole nella mente vecchi ricordi. La foto insieme. Il pacchetto delle sigarette: “Tieniti qualcosa che ti ricordi questo momento”. “Tipo?” Lui accartoccia il pacchetto e glielo porge, “Tieniti questo. Conservalo. Me lo devi promettere Lou. Mettilo da qualche parte, un giorno te lo ritroverai davanti e penserai esattamente a questo momento”. L’accendino nero, quello piccolo, quello che gli aveva rubato una notte, mentre usciva di casa, “Prometto che te lo ridò, parola di tesoriere degli scacchi”. E invece non glielo aveva mai ridato, Lou. Se lo era tenuto per mesi, fin quando non era finito e aveva deciso, assurdamente, di gettarlo in quella scatola rossa. E ora ce lo aveva di nuovo tra le mani. “Mi devi un accendino”. “Tu mi devi un mucchio di cose, ma non sto qui a rinfacciartele ogni minuto”, aveva scherzato, una sera. E adesso, a distanza di mesi, Lou sa che in passato lui le aveva davvero tolto un mucchio di cose. La fiducia che aveva perso, la spontaneità, la voglia di correre a braccia spalancate per la strada, la voglia di cantare girando su se stessa. Neanche Sam era riuscito a renderle indietro quello che Joh le aveva tolto con audace maestria. Aveva sperato che ci pensasse quel Dio capriccioso di cui tanto andava lamentandosi ma…chissà…in quel momento invece, non era sembrato dell’avviso. Le aveva dato Sam, questo si, ma le aveva comunque tolto qualcosa che Sam, nei mesi trascorsi insieme, non era riuscito mai a darle: la voglia di credere nell’amore, quell’amore così assurdo e forte e potente e prepotente che solo con l’altro aveva provato davvero. Solo nelle braccia dell’altro aveva sentito la pelle infiammarsi e il cuore accelerare di colpo, senza motivo. Solo con l’altro aveva sentito l’assurdo bisogno di gettarsi tra le sue braccia per sentirsi protetta da quel grande mondo che la circondava, salvo poi capire, in sua assenza, che il mondo non è grande. Il mondo è piccolo come una stanza da letto con le pareti zeppe di cartoline, con il computer sempre acceso e con il posacenere che trasborda di sigarette. Il mondo è piccolo come la gente che lo abita. Tutti così presi dal loro bozzolo di egoismo da uscirne fuori solo per ricordare a chi è felice, che la felicità non dura sempre. Ma Lou sa che questa è una balla. Una favola della cattiva notte costruita da chi non ha mai veramente avuto né palle né coraggio per costruirsela, quella felicità. Perché è così, la felicità è come una casa. Va costruita mattone per mattone, un giorno per volta, senza fretta e senza paura. Ci vuole pazienza, ci vuole audacia, ci vuole perseveranza. Non serve a nulla abbattersi di fronte ad un calcinaccio che cade, ad una parete che sembra storta, a una ringhiera che si regge per miracolo. Sarà proprio l’imperfezione a renderla assurdamente perfetta. Sarà la voglia di fare che porterà quel costruttore maldestro a commettere degli errori, e sarà, probabilmente, la voglia di entrarci in quella felicità, a farlo inciampare proprio dinanzi alla porta d’ingresso. Ma un vero coraggioso, non si abbatte di fronte ad una caduta. Un vero coraggioso si rialza, si pulisce i pantaloni, scuote la testa e continua a camminare. Perché è così che va il mondo. Non ci si può fermare e sperare che il mondo si arresti e ci aspetti. Si deve camminare sempre. Sempre avanti. Sempre forte. Sempre con la faccia rivolta verso il sole, con i difetti e con i pregi che ci fanno sentire di meritare quel poco di buono che abbiamo. Questo lo sa, Lou. E sa anche che probabilmente, quella lunga separazione che li ha visti lontani, è stata necessaria per far si che le cose, in un modo o nell'altro, cambiassero. Il passato, che passato non era, si era cullato al suono di pianti e recriminazioni e menzogne, per poi esplodere nuovamente nel presente, più forte e prepotente di quanto non fosse mai stato. Così si alza, Lou. Si alza in piedi, cammina lentamente verso la finestra, con in mano una foto di un passato che non è mai stato così presente. Mette fuori la testa e inspira forte. C’è odore di estate, di sole, di caldo e di speranze dure a morire, là fuori. C’è odore di vita. Vera vita. E c’è odore di buon presagio, come il suono di una risata lontana che, inaspettatamente, mette allegria. E allora Lou, lancia via quel bacio. Lo soffia forte, consapevole che dovrà fare molta strada, dovrà attraversare tempeste e venti sfavorevoli e perigli e sole cocente. Ma sa che arriverà a destinazione. E lo sa, perché la persona a cui è destinato quel bacio, non è troppo lontana per sentirne il sapore. “Just around the corner there's heartache, down the street that losers use. If you can wade in through the teardrops, You'll find me at the Home of the Blues”
E allora Lou, raccontami questa tua storia. Raccontami queste emozioni grandi che hai soffiato verso il tuo amore insieme ad un bacio nel vento.
NOTA:
La canzone che avete letto in corsivo, si intitola “Home of the blues” ed appartiene all'unico, grande Johnny Cash. Non chiedetemi come mai, ma i Johnny, nella mia vita, hanno sempre avuto un posto speciale nel mio cuore. Comunque, per i meno ferrati, di seguito la traduzione.
“Ho camminato e pianto al ritmo del mio cuore, tenendo il tempo con rumore delle mie scarpe. Il sole non brilla mai da questa mia finestra, è buio nella casa della tristezza”.
“Oh ma questo posto è così pieno di ricordi, ricordi talmente dolci che mi commuovono. I sogni che ho fatto mi hanno ferito così tanto che vorrei soltanto mollare tutto e sdraiarmi e morire”
“Proprio appena l'angolo c'è un cuore sofferente, lungo la strada dei perdenti e potrai camminarci attraverso una lacrima e mi troverai alla casa della tristezza”.
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Capitolo 2 *** Look over there ***
lookoverthere
*Look
over there*
“Rimani a bocca aperta
dalla meraviglia. L’entusiasmo è forte e perdura a lungo nella memoria, come
una consolazione per tutte le traversie, le incertezze e l’infelicità della
vita. Questi incontri fortuiti, queste coincidenze, fanno brillare di più le
stelle. Ti convincono che il mondo non ti ha dimenticato. Che non sei
sprofondato nell’oblio, che ogni tanto la fortuna può sorridere anche a te”
- C. Boxer-
* Lou Pov *
Ricordo
perfettamente la sera che lo vidi.
E non parlo
della prima volta in cui i miei occhi si soffermarono sulla sua figura, quello
era accaduto molto tempo prima, tra i sedili imbottiti di un cinema. Sto parlando della notte in cui mi voltai,
incontrai i suoi occhi e lo vidi. Lo vidi come si vedono le cose che ti
colpiscono per la loro semplicità, per come ti entrano dentro sottilmente,
gentilmente. Tu ti volti e, all’improvviso, vedi. Come se non avessi mai visto
niente prima di allora. E capita poche volte nella vita, sai? Quella sensazione
di riconoscimento, quell’emozione che ti solletica la pelle quando ti rendi
conto di aver gli occhi aperti su qualcosa che, nel peggiore dei casi, ti
rivoluzionerà la vita, rendendola comunque meravigliosa.
L’insana
abitudine umana che ci permette di vedere del buono anche quando sembra che di
buono sia rimasto poco più che mezzo sorriso accennato. Ma quella sera lo vidi,
e tutto questo, tutte queste domande, tutti questi dubbi, si dipanarono in un
secondo. Puff. Come una nuvola…dissolte. C’era lui, i suoi occhi, la sua mano
tesa e il mio sorriso. In quel momento, pensai che non si poteva chiedere di
più….
E non si
possono mandare eserciti contro le idee. Quando un pensiero decide di essere
reale, niente e nessuno può farci qualcosa.
Bisogna
accettarlo per quello che è.
Un pensiero
reale, una realtà pensante o comunque qualcosa che si fissa nella testa,
piegando tutto il corpo al proprio volere.
Un
comandante despota, forse si.
Forse è per
questo che qualche notte dopo che lo vidi, lo seguii senza troppa esitazione.
Capitan
Pensiero aveva parlato ed io non potevo fare a meno di obbedire ai suoi ordini.
E non lo
rimpiango, no.
Non l’ho
mai rimpianto, neanche quando sembrava quasi ovvio che lo facessi. Quando
sembrava doveroso che la mia rabbia e la mia frustrazione, si sfogassero contro
una decisione presa mesi addietro con il cuore leggero.
E invece
no.
Perché
ricordo quel momento con assoluta tenerezza, nonostante dopo, i momenti che lo
hanno seguito, non hanno mai raggiunto quell’armonia perfetta.
Ma forse è
per questo che continuavamo imperterriti su quella strada, chissà.
Dovrebbero
insegnarci questo, nei libri.
Dovrebbero
dirci che l’amore è come una droga, qualcosa che ti renderà dipendente e che, ne
peggiore dei casi, ti rendirà inumano, sprovvisto di qualsiasi altra necessità.
Dovrebbero
dirci che il primo momento perfetto non si ripeterà mai più e che è inutile
sbattersi tanto per tentare di ritrovarlo. Si sarà già perso una volta passato.
Ma forse è
di quel momento che vivono le persone, chissà.
Io si.
Io c’ho
vissuto di quel momento.
Un momento
che ha cristallizzato tempo e spazio, gettandomi fin sopra il cielo, e
facendomi cadere miseramente a terra con le ossa rotte e il cuore sanguinante.
Ma di quel
momento abbiamo vissuto per mesi. Per anni.
Giorni su
giorni a correre in tondo come bambini capricciosi, rinfacciandoci errori e
facendone altri, solo con l’obbiettivo di ritrovare quel momento. Il nostro
momento perfetto.
Un momento
di una notte di qualche estate fa.
L’aria
frizzante, i nuvoloni carichi di pioggia che ci guardavano minacciosi, e i
nostri occhi che si scrutavano a vicenda, come due cowboy western pronti a
studiare il nemico. Salvo poi accorgerci che non eravamo nemici.
Eravamo
semplicemente due combattenti, pronti a scatenare la guerra pur di aversi.
“Lou se non
acceleri ci bagneremo tutti”.
Lo guardo
con una smorfia, “Poco male. Sono giù inzuppata come una spugna, dubito mi
potrei bagnare di più”.
Lo sento
che ridacchia, quindi mi prende la mano e mi trascina lungo la strada che ci
porterà a casa.
Canticchia
una canzone, sembra divertito, o forse stupito come lo sono io.
Sono le due
di notte, un acquazzone sta inondando la città e noi due ce ne stiamo
tranquilli a camminare sotto la pioggia come se l’intera faccenda non ci
riguardasse.
“Deo
gratia!”, grido correndo verso un garage rimasto incautamente aperto.
Lui rimane
indietro, mi guarda scuote la testa e mi raggiunge.
Le gocce di
pioggia gli imperlano il viso, la luce dei suoi occhi sbatte contro il nero
della notte, sento forte il
suo profumo sebbene gli sia lontana e la cosa, inopportunamente, mi da i brividi.
“Non
possiamo rimanere qui tutta la notte…”, borbotta guardando fuori.
“Magari
potremmo aspettare che il temporale si calmi”, propongo io, guardandolo di
sbieco.
La luce del
lampione gli illumina mezzo viso, lasciando l’altra metà all’ombra, come un
chiaroscuro disegnato da un sapiente pittore.
Mi sembra
bello, e mi sembra strano pensare a lui in certi termini. Proprio lui,
un uomo che ammiro da da tanto, ma che conosco da una manciata di
giorni e che fino a qualche ora fa, mi sembrava
semplicemente uno dei tanti.
“Oddio
guarda!”, esclama, facendomi sobbalzare dallo spavento, “Guarda
laggiù Lou!”
Mi sporgo
anch’io, cercando di capire di cosa diavolo va cianciando.
“Cosa
dovrei vedere?”, domando senza capire.
“Una doccia!”,
prosegue lui, divertito come un bambino, “C’è una doccia!”
Spalanco
gli occhi, continuando a non capire.
“Una…
cosa?”
Ma non
faccio in tempo a finire la frase che lui mi ha trascinato di nuovo sotto la
pioggia. Cammina a passo svelto, sicuro, tenendomi saldamente per mano.
E poi lo
vedo gettarsi tutto compiaciuto sotto lo scolo di una grondaia.
“Visto? Una
doccia!”, mi spiega,fingendo di insaponarsi il petto.
E non so
perché, ma la scena mi scoppia dentro, facendomi ridere.
Lui, lì
sotto, completamente a suo agio che mi guarda sorridendo, senza mollare un
attimo i miei occhi.
Finchè mi
prende una mano, “Forza Lou, vieni a fare la doccia anche tu”, e mi trascina lì
sotto, finge di insaponarmi i capelli, ride, mi guarda sospettoso, aspettandosi
forse un diniego, una reazione infastidita, un qualcosa che non ci sarà.
Perché
anche io, adesso, sto ridendo con lui.
Anche io
fingo di sciacquarmi i capelli e lo schizzo con quel getto d’acqua così forte
da far quasi male quando cade addosso.
Così mi
sposto, mentre lui continua a starsene lì sotto, fischiettando una canzone.
E mentre lo
guardo mi viene in mente che, eoni prima, quella canzone era appartenuta a
qualcun altro, mentre da questo momento, rimarrà sua. Per sempre sua. E la
verità di tale affermazione mi fa quasi vacillare.
Lui mi
sorride però. Continua a sorridere con una strana luce negli occhi.
E so
perfettamente cosa sta accadendo, so perfettamente dare un nome a
quell’emozione che mi sta scaldando lo stomaco, eppure rimango immobile.
Ferma a
guardare lo scorrere del tempo e il compiersi del mio destino.
Un destino
che ora mi afferra per mano e mi bacia.
Mi bacia
come se stesse assaggiando qualcosa che gli piace, mi bacia come se non ci
fosse nient’altro da fare sotto questa pioggia battente che sembra volersi
mischiare a noi e alle nostre sensazioni.
Mi bacia e
si sposta e mi guarda negli occhi.
Le mani
intrecciate alle mie, nello sguardo una domanda che galleggia tra me e lui e a
cui nessuno, almeno adesso, vuole dare una risposta, 'cosa ne sarà, domani, di tutto questo?'
Nessuno
vuole buttare via parole, ragionamenti o spiegazioni.
Nessuno dei
due vuole interrompere la magia che si è creata sotto quel cielo burbero.
E allora
sono io questa volta a baciarlo.
Gli tengo
il viso tra le mani e lo guardo come si guarda qualcosa di mai visto prima. Una
scoperta, una verità nuova eppure probabilmente presente già da tempo. Fin da
quando né io né lui avevamo ancora incrociato i nostri destini.
“Forse
stiamo facendo una stronzata”, mormoro sulle sue labbra.
“Forse…o
forse no”, ribatte lui, baciandomi ancora.
“Potremmo
pentircene”, continuo.
Ma lui non
sembra ascoltarmi. Mi sposta una ciocca di capelli bagnati e mi sorride.
“Mi
sarei pentito se non lo avessi fatto”.
Gli
sorrido. Me ne sarei pentita anche io, probabilmente.
E non mi
importa se il mondo la fuori ci chiederà il conto. Non mi importa se le
contingenze ci allontaneranno facendoci finire ai lati opposti di dove siamo
adesso.
In questo
momento di incredibile perfezione, l’unica cosa che conta siamo noi, quello che
sprigioniamo e quello che i nostri occhi si stanno sussurrando senza parole.
Mi prende
la mano e comincia a camminare, “Andiamo, altrimenti ci verrà una polmonite”,
ridacchia.
“Casa mia è
dalla parte opposta”, osservo indicando con la mano un punto imprecisato
nell’aria.
“Lo so”,
dice lui sporgendosi per baciarmi.
“E allora
perché stiamo andando da questa parte?”, domando.
“Perché
casa mia è da questa parte”, risponde lui con un sorriso.
“E cosa
andiamo a fare a casa tua?”.
Si ferma.
Mi guarda con un sorriso malizioso e si china a baciarmi nuovamente. E’
incredibile la semplice perfezione con cui le sue labbra si incastrano alle
mie, con cui il suo corpo aderisce perfettamente al mio.
Sembra
siano nati per questo, per incastrarsi come pezzi di un puzzle creduti persi e
infine ritrovati.
“Ci andiamo
ad asciugare, no?”, mormora poi.
“Anche io
ho gli asciugamani”, bisbiglio divertita.
“Si, ma i
miei sono più belli”.
Mi zittisce
con un bacio facendomi ridere e continua a camminare sotto la pioggia,
canticchiando la sua canzone.
“I tell you, love, sister, it's just a kiss away, a kiss away…”
Fu così che
il destino mi mise tra le mani la mia pietra preziosa.
“Fra le mie dita tenevo un gioiello/ Quando
mi addormentai/La giornata era calda, era tedioso il vento/ E dissi:
“Durerà”/.”
E durò.
Duro il
tempo caldo dell’estate, quando sembrava ad entrambi impossibile contrastare la
necessità di viverci.
Durò il
tempo freddo dell’inverno, quando i nostri corpi erano un rifugio caldo al
quale tornare.
Notti su
notti, trascorse ad impararci a vicenda, ad imparare il ritmo dei nostri
respiri, le sfumature dei nostri occhi, la consistenza delle nostre pelli. Il
sesso come una febbre, il sesso che assumeva i contorni dolci dell’amore.
Un uragano
di emozioni che cozzavano le une contro le altre senza darci neanche il tempo
per capire, per fermarci ad osservare quello che maldestramente stavamo
costruendo.
Era questo quello che nel medesimo momento mi elettrizzava e mi atterriva.
Lo stesso identico principio di quando ti trovi all’ultimo piano di un grande
palazzo e guardi in basso. Se da un lato ti senti il padrone assoluto di tutto
ciò che sta sotto i tuoi piedi, dall’altro sei anche impaurito dalla
possibilità di volare nel vuoto e sfracellare il tuo prezioso cervello
sull’asfalto sottostante.
Ma la
paura, in quei momenti, ci sfiorava appena.
Seducente
come la carezza di un amante esperta e impercettibile come la brezza che soffia
leggera nelle notti d’estate.
Eravamo noi
e ci bastavamo.
Ci saremmo
bastati a lungo se avessimo avuto il coraggio di rispondere a quella domanda
che, la notte del nostro primo bacio, non avevamo avuto il coraggio di porci.
Ma le
domande insolute tornano sempre. Come un boomerang. Ti convinci, errando,
che più le scaglierai lontano più sarà difficile trovarle di nuovo. E invece
quelle, testarde, se ne ritornano indietro con ancora più forza di quando le
avevi scagliate.
E quella
domanda rimbalzò tra di noi per mesi.
Per notti,
ore, giorni, minuti.
Rimbalzava
dalla mia pelle alla sua, dai miei umori ai suoi, dalle mie labbra alle sue. Ce
la scambiavamo come se fosse un sentimento autentico, senza renderci conto che,
invece, era semplicemente una malattia.
Un cancro
che andava ad occupare lentamente ogni recesso e che prima o poi sarebbe
esploso come una bomba H, cattiva e insolente.
Avrebbe
contagiato tutto senza lasciarci via di scampo.
Non subito.
Non in quel
momento.
Ma…dopo.
Nell’istante
perfetto in cui non c’è luce né buio.
Nell’imperfezione
che porta la perfezione dell’amore vero. Quello oscuro e ottenebrante che ti
prende e ti avvolge e ti ammalia come lo sguardo conturbante di un demone. Di
un diavolo. Di un vampiro cattivo e pronto a succhiare via tutto il tuo sangue.
Il tuo sangue innamorato.
Il sangue
di lui che scorreva nelle mie vene.
Il mio
sangue che scorreva nelle sue.
Era l’alba
quando avvertii la verità di quell’affermazione.
La terribile
consapevolezza che io non ero sua e che lui non era mio. Semplicemente, eravamo
vicini ma non ci appartenevamo.
Lo fissai
mentre dormiva: un bambino
esposto, indifeso, con i capelli arruffati e il mio profumo addosso. Una mano
allungata verso di me, l’altra intrecciata alle mie dita, l’espressione
serena, sazia.
Lo guardai
e un buco si aprì nel mio stomaco.
E pensai di
amarlo. In quell’istante in cui la notte non era più notte e il giorno non era
ancora giorno, pensai di amarlo.
Amarlo sul
serio.
E mi
spaventai.
Scappai
via, raccogliendo le mie cose sparse per la camera, infilandomi i vestiti con
perigliosa mestizia, sapendo, intimamente, che me ne sarei andata per non
tornare.
Perché
quell’amore non potevo provarlo da sola. Dovevo condividerlo altrimenti ne
sarei morta. Morta ammazzata.
E non
potevo morire.
Non così.
Non per amore.
Mi allungai
a sfiorargli il viso e gli sorrisi. Nella notte che non era più notte e nel
giorno che non era ancora giorno gli sorrisi e gli sussurrai che l’amavo.
Ma che non
potevo restare.
L’amore,
quello vero, ti esplode nello stomaco e non per forza è per sempre.
Ma lì, in
quel momento di sincronia perfetta in cui i mondi sembravano incastrarsi e in
cui le sensazioni sembravano essere così vere da far male, lo amavo.
E me ne
andavo.
Lasciandolo
solo in quel letto che troppe volte aveva ospitato i nostri corpi caldi.
Solo a
stringere con le dita l’aria. L’aria che prima avevo riempito con il mio corpo.
Lo lasciai
e non mi voltai indietro.
Uscii nella
strada, dove la notte non era più notte e il giorno, imperioso, si faceva
largo.
Uscii in
strada e lo lasciai solo.
Senza
rendermi conto che, nel medesimo istante, avevo lasciato sola anche me stessa.
“Fra le mie dita tenevo un gioiello/ Quando
mi addormentai/La giornata era calda, era tedioso il vento/ E dissi: “Durerà”/
Sgridai al mio risveglio le dita inconsapevoli/ La gemma era sparita/ Ora solo
un ricordo d’ametista a me rimane/.”
NOTA:
Ecco qua un pò di credits! La canzone che fischietta e canta
Johnny nel primo capitolo è, ovviamente, "Gimme Shelter" degli
Stones.
Di seguito la traduzione: "L'amore, sorella, è lontano solo un bacio, è lontano solo un bacio".
Mi sembrava particolarmente azzeccata per l'occasione.
La poesia in corsivo sotto, è invece della meravigliosa Emily
Dickinson e si intitola 'Fra le mie dita tenevo un gioiello'.
Spero che questo capitolo vi piaccia e mi auguro che decidiate di lasciare un segno del vostro passaggio!
Am
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Capitolo 3 *** Cold hands, cold feet ***
3coldhands
*Cold
hands, cold feet*
“I guerrieri della
luce non sempre sono sicuri di ciò che stanno facendo. Molte volte trascorrono
la notte in bianco, pensando che la loro vita non ha alcun significato. Per
questo sono guerrieri della luce. Perché sbagliano. Perché si interrogano.
Perché cercano una ragione: e certamente la troveranno.”
-Paulo Coelho-
Mi ricordo
di te, Lou, in quel freddo novembre.
Mi ricordo
il tuo sguardo spaesato e quel modo strano che avevi di guardarti intorno. Era
come se fossi uscita da una gabbia oscura e per questo il timido sole invernale, sembrava ferirti dolorosamente gli occhi.
Ricordo che
vestivi sempre di nero e che sorridevi quasi a comando. Ti impegnavi in una
guerra che non avevi idea di dove ti avrebbe portata. Non sapevi che stavi combattendo
contro te stessa, non sapevi che non ti sarebbe bastato fingere che tutto
andava secondo i piani. Non sapevi che non era la guerra che stavi combattendo.
Era una battaglia.
Breve, se
non altro. Dolorosa si, ma breve.
E non avevi
idea che ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora e un’altra ancora.
Non lo
sapevi o forse non volevi saperlo.
Rimanevi
lì, nel tuo mondo, mordendo la vita per non vedere quello che non c’era più.
Ti ho vista
quella sera, Lou.
La sera che Kevin, il tuo amico migliore, ti ha presa per mano, trascinandoti per le strade della notte.
Una notte
che conoscevi fin troppo bene, perché appartenevi a quell’oscurità.
Quella
mattina, la mattina in cui eri scappata dal tuo amore, ti eri convinta di
essere uscita nella luce, ma non avevi trovato nient’altro che buio.
Buio pesto
e disperante.
Lo dicesti
a Kev, ricordi?
Dicesti: “E’ tutto buio. Tutto incredibilmente buio. Mi domando, ora, se non
fossero i suoi occhi a rischiarare tutta questa tenebra. Hai presente no? Per
settimane, mesi, forse anni, ti sembra di non vedere la luce e ti ci abitui
anche. Sviluppi i sensi collaterali, il tatto, l’udito, il gusto, ma non la
vista. La vista no. Non vedi nel buio. Non puoi. Finché un giorno qualcuno
spalanca una porta da troppo tempo chiusa e…boom! La luce ti inonda e ti fa
quasi male agli occhi. Alle viscere, all’anima. Perché riesci a vedere tutto.
Milioni e milioni di dettagli che prima avevi solo intuito e invece adesso sono
lì, davanti a te, in tutta la loro magnifica piccolezza. Dimmi un po’, Kev,
sono patetica? Pensi che sia patetica?”
“No, non
penso che tu sia patetica Lou. Penso che stai soffrendo”.
Avevi
ridacchiato. Un suono sinistro.
“Si, Kev.
Sto soffrendo. Incredibile no?”
E no, Lou.
Non era incredibile. Dopotutto non sei un supereroe, anche tu hai sangue nelle
vene ed anche tu, se qualcuno di ferisce, puoi sanguinare fino a morire.
Kev ti
guardava come se non sapesse cosa dirti. Ma lo sapeva. E sapeva che ti avrebbe
fatto male. Ancora.
“Lou,
guardami adesso”, ti disse, “Guarda quello che tengo tra le mani. Cos’è?”
E tu
guardasti, Lou. Ma non vedesti nulla.
“Aria”, gli
hai risposto.
“Aria,
esatto. E’ quello che pensi di avere tutto intorno: aria. E ti sembra di non
riuscire a respirarla quest’aria, non è così?”
“E’ densa”,
hai commentato.
“Densa, si.
Hai ragione. Ma è pur sempre aria, Lou. E di aria ci si vive, non ci si muore,
vai tranquilla. Respira la tua aria, Lou. Non smettere di respirarla e spalanca
ancora quella porta. Dagli un bel calcio e lascia che la luce entri di nuovo.
Riguarda i tuoi dettagli, le piccolezze, le cose che all’apparenza ti sembrano
insignificanti. Guardali bene, a fondo, con perizia. Non lasciarti sfuggire
nulla Lou. E quando senti di essere pronta, racconta a te stessa quello che hai
visto”.
Tu gli hai
sorriso, annuendo.
“Se conosci
bene quello che è fuori, riuscirai a conoscere anche quello che è dentro, non è
così?”
Kevin ti ha
sorriso abbracciandoti.
E io vi ho
visti così. In silenzio, le tue braccia gettate sul suo collo e una sensazione
di intimo rapimento. Stavi tornando a galla Lou.
Tornavi a
galla lentamente e avevi paura dell’aria densa che ti circondava. Eppure,
inaspettatamente, adesso sapevi come respirarla.
E respiravi
talmente bene, Lou.
Respiravi
con tutto il corpo, non solo con i polmoni.
Ti muovevi
nel buio con sinuosa allegria e giocavi nella luce come una bambina divertita
dal mondo e dai suoi innumerevoli dettagli.
Qualche
volta ti fermavi a ridere, altre volte te ne stavi seduta a guardare la tua
porzione di cielo, impaurita dall’eventualità che qualcuno potesse
strappartela.
Ma non
avrebbero potuto Lou. Tu non glielo avresti permesso. Eri diventata un
guerriero della luce e del buio. Della tua luce e del tuo buio.
Combattevi
giorno dopo giorno, respirando la tua aria densa.
Combattevi
le tue battaglie e ti preparavi per la guerra.
Una guerra
che eri convinta di dover combattere da sola, senza renderti conto che, invece,
tutto intorno avevi un plotone di gente che timidamente ti aiutava.
Come Sam.
Sam che era
entrato con discreta riverenza nella tua vita, regalandoti una magia che temevi
potesse dissolversi in un battito di ciglia.
Per questo
ne avevi paura. Avevi paura della semplicità con cui si muoveva nel tuo buio,
come se fosse suo. Come se lo conoscesse a menadito e fosse in grado di uscirne
a suo piacimento. Eri convinta che a te, quell’opportunità, non ti fosse
consentita.
Eri
convinta di dover camminare eternamente sospesa tra il tuo buio e la tua luce
senza affondare completamente né in uno, né in un altro.
Me lo
dicesti una sera, ricordi?
“Sam mi ha presa per mano e mi ha trascinato sotto il sole. Incredibile come
sia bello il sole d’inverno. Sembra mascherare discretamente tutta la sua
potenza, non credi?”
“Come fanno
gli uomini”, ti risposi.
Tu hai
sorriso e ti sei accesa una Camel blu. Con calma. Non avevi fretta quella sera.
“Già…gli
uomini. Non si finisce mai di imparare dagli uomini. Guardati intorno…ognuno ti
insegna qualcosa. La cattiveria, la vendetta, l’invidia…eppure se non ti fermi
alla prima impressione, se vai oltre, se ti spingi al di là dell'apparenza, ti renderai conto che
tutti ti insegnano ad amare. Chi nel modo più oscuro che ti viene in mente, chi
nel modo più dolce e teneramente romantico che conosci. Siamo strani noi
umani…molto, molto strani”.
“Soprattutto
quando consapevolmente beviamo dall’oscurità che ci circonda. Tu ne sei un
esempio più che calzante Lou”, ti sbeffeggiai.
“Perché?”
“Perché sei
l’unica donna che conosco che teme la luce più del buio”.
Mi faceva
impressione parlare con te in quel modo. Sembravamo due protagonisti di un film
dark.
Ma sei
scoppiata a ridere.
Mi hai
guardato scuotendo la testa, “Non ti confondere. Non ho paura della luce, ho
solo paura degli abbagli”.
“Sai
riconoscerli?”
Hai
guardato Sam e hai sorriso. Lui ti ha strizzato l’occhio e tu hai annuito.
“Si”, hai
aspirato una generosa boccata di fumo, “Ora si”.
Eri pronta
per la tua battaglia.
Con le mani
fredde e i piedi gelati, eri pronta a muoverti per andare incontro alla tua
battaglia. Quella finale.
L’ultima.
Quella che
avrebbe sancito la fine ufficiale della guerra.
Raccontamela
Lou.
Raccontami cosa successe quando hai preso in mano l'ultima parte ancora
intatta del tuo cuore, ed hai deciso di sbriciolarla di fronte allo
sguardo sbigottito del tuo amore.
NOTA!
Rieccomi!
So che questo è un capitolo piuttosto breve e triste, ma vi
prometto che il prossimo sarà un pò più corposo.
Con la tristezza, invece...beh...penso dobbiate farci i conti anche la
prossima volta!
Come al solito ringrazio tutti quelli che hanno letto e anche quanti
vorranno lasciare un segno del proprio passaggio! Non è un
obbligo, ca va sans dire, ma aiuterebbe me a capire se la storia vi
piace così com'è, o se c'è qualcosa che secondo
voi stona!
Un abbraccio
Am
|
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Capitolo 4 *** Violin ***
didyouseewhat
* Violin *
“Chi cerca di
possedere un fiore, vede la sua bellezza appassire, ma chi lo ammira
in un campo, lo porterà sempre con se. Perché il fiore si fonderà
con il pomeriggio, con il tramonto, con l'odore di terra bagnata e
con le nuvole all'orizzonte.”
-Paulo Coelho-
* LOU POV *
Ho semplicemente corso.
Come se avessi il diavolo alle
calcagna.
Correvo verso la mia
personalissima battaglia, conscia che sarebbe stata l’ultima e che
nonostante la mia risolutezza, avrei potuto essere ferita a morte.
Bizzarro.
Sapevo di aver vinto, dentro di
me ne ero consapevole, ma sapevo anche che vincere avrebbe potuto
significare morire.
E non mi sbagliavo, o almeno, non
su questo.
Una parte di me è morta quella
notte, mentre parlavo, mentre spiegavo e raccontavo. Una parte di me
è morta e non tornerà in vita mai più.
Perché quella parte di me
apparteneva a qualcuno che stavo cacciando dal mio selciato, con la
forza dei guerriero e la paura della preda.
Ma sapevo di doverlo fare.
Sapevo di dover dire quello che
stavo per dire, perché solo così avrei ritrovato qualcosa che
temevo di aver perso per sempre.
“…non importa se dovrò
mandarmi in cenere per ritornare a vivere…”
Lo meritava anche Sam. Lo
meritava davvero. Era entrato nella mia vita in punta di piedi, mi
aveva osservato paziente, in attesa che fossi pronta per lui. E in
quel momento lo ero. Davvero. Ne ero convinta. Sam era un ragazzo
eccezionale, con una sensibilità unica e una tenerezza sconfinata.
Insieme a lui, nonostante mi sentissi priva di qualcosa, sapevo che
avrei potuto tornare ad amare. Ma per farlo, dovevo compiere l'ultimo
viaggio verso il mio destino. Dovevo viaggiare a ritroso per
permettermi, in futuro, di poter viaggiare in avanti.
Talvolta è meglio perdersi sulla
strada di un viaggio impossibile piuttosto che non partire mai.
Ed io stavo partendo. Sprovvista
di tutto tranne che del mio paio di certezze.
E mi bastavano.
Dio solo sa se mi bastavano….
Lui era seduto sulla sponda del
letto. Teneva la testa bassa, le mani intrecciate sul grembo e mi
scrutava, di tanto in tanto, come se volesse tentare di leggere i
pensieri che mi giravano in testa.
Non ci riusciva, ma non si
arrendeva. E mi resi conto che era stata la sua cocciutaggine a farmi
innamorare di lui. La sua tenacia, la sua voglia di avere quello che
pretendeva, sempre e comunque. A qualunque costo.
Su questo eravamo simili. Quasi
uguali.
Ma io dalla mia avevo mesi di
elucubrazioni, lui no.
Lui aveva solo la realtà dei
fatti. Non era andato oltre. Non si era spinto al di là e non aveva
visto l’amore.
“Perché mi stai dicendo
questo?”, mi domandò, fissandomi negli occhi.
Già, perché?
Perché improvvisamente lo avevo
chiamato alle una di una notte qualunque, nella voce una nota d’urgenza, ed ero piombata a casa sua
balbettando qualcosa che, io stessa, stentavo veramente a
comprendere?
Già perché?
Sospirai.
“Dobbiamo chiudere questo
balletto. E stavolta, ti avviso, guido io”.
Ridacchiò, scuotendo la testa.
Forse convinto che la mia fosse una profferta maliziosa, qualcosa
che, nel peggiore dei casi, ci avrebbe condotti di nuovo a quel letto
scaldandolo con i nostri corpi. Si sbagliava. Si sbagliava di grosso.
E mi sbagliavo anche io a credere
che resistere alla malìa del suo sguardo sarebbe stato facile.
Nonostante Sam, nonostante le mie
convinzioni, sapevo che sarebbe bastato poco, pochissimo, per cedere
di nuovo alle lusinghe di quella passione che stentava ad
abbandonarci completamente.
Ma non mi intimorii.
“Lascia fuori il sesso da
questo discorso”, lo redarguii, “Non sono arrivata qui con
l’intenzione di farmi una scopata”.
Mi guardò di traverso, lo
sguardo arrabbiato.
“Pensi che quello che abbiamo
condiviso io e te fosse solo una scopata?”.
Scossi la testa. No, non lo era.
Non solo. Ma non volevo dargliela vinta.
“Statisticamente no. Non è
stata solo una scopata. Sono state un numero tutt’altro che
trascurabile di scopate”.
Mascherai un sorriso. Lo stavo facendo
arrabbiare.
“Non essere insolente, Lou. E
non farmi usare questi termini da medioevo”.
Ridacchiai.
“Che vuoi dire?”
“Non sei di certo la
donzelletta in pericolo, mi pare. Sei venuta qui per attaccare, te
l’ho letto in faccia non appena hai varcato quella porta. Dunque
attacca”, allargò le braccia, un timido segno di resa, “Attacca
sul serio. Non ti servire dei mezzucci”.
Attaccare, già.
Senza servirmi dei mezzucci, già.
“Sai…”, incamerai aria.
Aria densa. “Una notte di qualche tempo fa mi sono svegliata di
soprassalto, scossa da un terribile incubo. Mi sembrava di non
riuscire a respirare, così mi sono alzata ed ho preso a camminare
innervosita per la camera, cedendo al peso di quelle paure che,
improvvisamente, sembravano così grevi da schiacciare anche quello
che provavo per te”.
Mi guardò interessato,
giocherellando con il bordo della coperta.
“Ero convinta che quello che ci
univa”, tossicchiai, “Che quello che mi univa a te”, mi
corressi, “Fosse qualcosa di grande e inattaccabile e che nessun
pensiero, meno che mai un pensiero notturno, avrebbe potuto far
crollare. Ero chiusa nei miei sentimenti, gli stessi che qualche mese
fa, mi avevano spinto a scappare da te, ma che comunque non si
decidevano ad andarsene. Rimanevano gloriosamente lì, fermi come
statue, quasi volessero deridere i miei tentativi di lasciarti
indietro”.
“Mi hai lasciato indietro,
infatti”, borbottò lui, senza abbassare lo sguardo.
“Non me la renderai facile,
vero?”, gli chiesi.
Lui sospirò, si alzò in piedi e
prese a camminare per la stanza. Una stanza che conoscevo centimetro
per centimetro, una stanza in cui qualche tempo fa mi ero
assurdamente sentita a casa.
“Cosa c’è da rendere facile,
Lou?”, ridacchiò. Una risata vuota e amara che mi colpì come uno
schiaffo, “Te ne sei andata di notte senza aver neanche il coraggio
di svegliarmi e di salutarmi. Ho provato a cercarti, a chiamarti, ma
ogni volta che lo facevo era come sbattere consapevolmente contro un
muro. Un muro che avevi eretto tu, beninteso”, mi guardò in
tralice, “E dopo un paio di mesi ti vedo con quel tizio e mi dico che
allora te ne eri andata per un motivo. Contenta tu, contenti tutti. E
invece eccoti qui, di nuovo”, mi accarezzò con lo sguardo, “Sei
venuta a rinfacciarmi cosa, esattamente?”
Scossi la testa, “Non ti sto
rinfacciando nulla. Niente di niente. Voglio solo farti capire il mio
punto di vista”.
“Ah già…io sarei quello che
ti cercava per farsi una sana e piacevole scopata”, mi guardò di
traverso, “Fammi il piacere Lou…”
“No, fammelo tu il piacere”,
obbiettai, “Fammi il piacere di ascoltare. Non me ne frega un cazzo
se per te quello che condividevamo era una semplice scopata o no. Non
mi interessa. E non mi interessa perché per me era molto di più”,
ansimai sotto il peso di ciò che stavo per dire, “Tu hai avuto una
parte di me di cui gli altri a malapena sospettavano l’esistenza.
Ti ho dato il mio cuore e te l’ho dato perché ti amavo. Un anno
con te è valso come dieci con chiunque altro. Non credevo
nemmeno che un essere umano potesse provare quelle emozioni, figurati
se potevo immaginare che a provarle fossi proprio io”, mi puntai il
dito sul petto, “Io capisci? Io! Cristo Santo!”
“E chi ti dice che quello che
provavi tu non lo provavo neanche io?”.
M’infuriai. Come era
prevedibile.
“Tu. Me lo dicevi tu. In ogni
istante che trascorrevamo insieme mi ricordavi di quanto fossi meno
coinvolto di me. E non potevo permettertelo. Non potevo darti
l’opportunità di succhiare il mio amore senza averne altro in
cambio. Mi avresti prosciugata. Mi avresti uccisa. E morire per mano
tua non era tra i piani della mia vita”.
“Tu devi essere impazzita!”,
esclamò, allargando le braccia “Ma ti senti quando parli? Hai idea di quante cazzate ti
stai raccontando?”
"Non giocare con me”, lo
ammonii, “Non ti conviene”.
“Non sto giocando. Ti sto solo
dicendo che ti stai convincendo di qualcosa che non si avvicina
neanche lontanamente alla realtà”.
Sospirai lentamente, cercando di
ritrovare una parvenza di equilibrio. Se avessi vacillato, lui
avrebbe colpito facendomi crollare a terra e non potevo
permetterglielo. Non ora.
“Io sono scappata è vero”,
mi massaggiai le tempie con le mani, “Sono stata una vigliacca
probabilmente, ma non me la sentivo. Non riuscivo a portare avanti la
nostra relazione da sola. E tu potrai dire che avrei potuto
parlartene, ma non sarebbe servito. Sei bravo con le parole, sai
girare i discorsi a tuo favore come in pochi sono in grado di fare,
ma non sai mentire a me. E non mi sbagliavo, no? Io sono scappata è
vero, ma tu non hai fatto nulla per riprendermi. Mi hai semplicemente
lasciato andare…”.
“Non dire cazzate Lou. Ti ho
cercata eccome”.
“Due telefonate e un tentativo
di abbordaggio valgono poco più di niente, lo sai anche tu”.
“Un tentativo di abbordaggio?”,
sembrava sorpreso, o ferito, “Lou…”, sospirò, quindi si mise
seduto di nuovo sul bordo del letto, “Hai detto che mi ami”,
osservò, “Sei qui per questo? Perché mi ami?”
Annuii mestamente, “Si, sono
qui perché ti amavo e credo che meritavi di saperlo”.
Allungò una mano, fino a
sfiorare la mia.
La consuetudine di quelle
carezze…i suoi occhi…iniziava sempre così la nostra danza
d’amore, con lui che mi afferrava per mano e mi portava in giro per
un mondo che aveva creato appositamente per noi. Non vi era nessun
altro in quel mondo. Nessuno se non noi.
Lo fissai negli occhi e pensai che con quello sguardo avrebbe potuto far innamorare il mondo.
Fu questione di una manciata di
attimi; in meno di un secondo me lo trovai addosso, la sua bocca
sulla mia, le sue mani che viaggiavano per la mia schiena, il suo
profumo che mi stordiva portandomi indietro nel tempo, in
quell’attimo in cui la notte non era più notte e il giorno non era
ancora giorno.
L’attimo del dolore. L’attimo
dell’amore.
C’è poi una grande
differenza?, mi chiesi mentre cadevo sul materasso e sentivo il peso
del suo corpo sopra il mio.
Si, mi risposi.
C’è una grande differenza.
Abissale.
Con un gesto gentile lo scansai,
quindi mi misi a sedere con le spalle poggiate alla testiera del grande letto.
“Non costringermi a scappare
via un’altra volta, ti prego…”.
“Non devi più farlo”,
sussurrò lui, tornando sulle mie labbra.
Labbra che dovevano appartenere a
qualcun altro.
Qualcuno che non aveva paura di
restituirmi quello che mi portavo dentro.
Qualcuno che non aveva bisogno di
costruire un mondo per noi, ma che anzi, era in grado di trovare un
nostro spazio all’interno del mondo che era di tutti.
Qualcuno che mi avrebbe
riacciuffata in capo al mondo, se avessi avuto intenzione di
scappare.
“Dovrei, invece”, obbiettai
alzandomi in piedi e sistemandomi la maglia, “E sai bene perché”.
Lo fissai un istante negli occhi,
quindi mi voltai e uscii.
L’alba era già arrivata e il
sole risplendeva sopra di me.
Ero nella luce.
"...e sono nudo per strada, da quando non mi copre il tuo sguardo..."
E nella luce c’era qualcuno che
mi aspettava.
Qualcuno che, non appena mi vide
varcare il cancello in ferro battuto della mia villetta, mi guardò
come un animale ferito.
“Hai visto cos’ho fatto?”,
disse solo, indicando con un cenno della mano il giardino.
Mi voltai e quello che vidi mi
fece sorridere.
“Adoro le colazioni
all’aperto. Tipo quelle dei film, hai presente? Lei si sveglia, non
lo trova, esce in giardino e…sorpresa! C’è una tavola imbandita
di qualunque cosa, rose rosse e un bel pacchetto con un regalo
dentro. Così…senza motivo. Qualcuno quella mattina le ricorda che
lei è importante”.
Glielo avevo raccontato una sera
e lui, il mio Sam, quella mattina aveva apparecchiato in giardino.
Una colazione come quella dei film. Per me.
Per me che cinque minuti prima
avevo rischiato di tradirlo. O forse lo avevo fatto davvero…i
confini sono così labili a volte.
“Sono senza parole”,
mormorai.
“Mi auguro che comunque, questa
notte, tu ne abbia avute a sufficienza”.
Lo guardai colpevole. Era chiaro
che lui sapesse. Ero stata proprio io ad informarlo che avrei dovuto
parlare con una persona. Non avevo fatto il nome di Joh, ma tutti
sapevano che solo per lui avrei corso nella notte per raggiungerlo. E
Sam, nonostante tutto, me lo aveva lasciato fare. Forse in cuor suo
sperava che quell'incontro, avrebbe definitivamente sancito la fine
di quella storia tortuosa.
Ah, che presunzione! Che presuntuosi
eravamo entrambi!
“Ne ho avute”, mi decisi a
rispondere, sedendomi al tavolo.
Mi prese una mano, sorridendo,
“Lou non farmene pentire”.
Gli sorrisi.
“Non lo farò”.
Chissà, forse l’ho fatto,
forse non l’ho fatto.
I confini sono così labili a
volte.
Labili come la strada che percorrevo a perdifiato, verso casa di
Johnny. Ancora, di nuovo. La stessa casa che avevo lasciato pochi giorni
prima, convinta delle mie azioni, certa di aver compiuto la scelta
giusta salvo poi accorgermi che la scelta giusta era lui. Lo era sempre
stato.
Labili come il destino, che testardo, si impegnava a fermare la mia dannata corsa.
Labili come il rumore dello stridio dei freni sull'asfalto, prima del
colpo assordante dello schianto: il suono ferito di una corda di
violino che si spezza.
NOTA:
Rieccomi
con un nuovo capitolo. Ammetto che mi è piaciuto molto
scriverlo, anche se non nego che è stato un pò triste!
Siamo a metà storia, vi avviso: quello che succederà da
qui in avanti, sarà meno angosciante!! :D
Ah,
quasi dimenticavo! La citazione in corsivo che avete letto nel primo
paragrafo e alla fine del secondo, appartiene al Maestro Vinicio
Capossela e, nello specifico, alla canzone "Orfani ora", che è
un pò la soundtrack che mi ha aiutata a scrivere questo
capitolo! Mi auguro vi piaccia e ringrazio chiunque avrà voglia
di lasciare un commento!
Salut!
Am
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Capitolo 5 *** Did you see what I've done? ***
violin
*Did you see what I've done?*
“Pectus
est enim quod disertos facit”
-Quintiliano-
Chissà cosa devi aver pensato
Lou, quando lo stridio dei freni dell'auto ha anticipato il rumore
agghiacciante della botta.
Chissà se in quel momento,
mentre il tempo si cristallizzava interrompendo, seppur
momentaneamente, il flusso della vita, avevi in mano le risposte che
cercavi.
Chissà se in quel momento eri
felice. Almeno un po’.
Mi ricordo il tuo viso Lou.
Tutti noi, lì fermi ad attendere
un verdetto che non arrivava e il tuo viso sullo sfondo. Nessuna
espressione. Nessun mutamento.
Immobile come una Venere scolpita
nel marmo, te ne restavi algida in un mondo al quale noi non potevamo
accedere.
Ci lasciavi lì, in pena,
ansimanti e terrorizzati a paventare una fine che non si rivelò mai.
Non davvero.
Tu, così piena di vita, eri
ferma immobile ad aspettare che il tuo destino si compisse. Ti
immaginavo discutere col tuo Dio capriccioso, agitata, nervosa,
pronta a spiegare il perché saresti dovuta rimanere, il perché non
era ancora giunto il tuo tempo di andare.
Eppure, mentre ti guardavo
distesa su quel letto, avevo come l’impressione che ci avresti
lasciati davvero.
Pensavo, a torto, che ormai la
tua guerra l’avessi combattuta e che nulla ti legava ancora a
questo dannato mondo terrestre.
Forse, come me, lo pensavano
anche gli altri.
Lo stesso Sam che se ne stava
seduto per terra con le gambe incrociate, i riccioli scuri a
coprirgli il volto e le mani piene d’aria. Aria leggera, non densa,
stavolta. Non era più la tua aria e questo lui lo sapeva benissimo.
Ma c’era qualcun altro che non
era pronto a vederti andar via. Qualcuno che, inaspettatamente,
conservava un po’ della tua aria densa tra le mani. Pronto a
restituirtela nel momento in cui ne avresti avuto più bisogno.
Lo vidi incedere per il corridoio
del reparto d'ospedale, con quel suo modo discreto e timido che ti ha
sempre affascinata. Lo sguardo saettava a destra e sinistra, carico
di una tensione che stentava a nascondere.
Era in imbarazzo, ma il terrore
lo muoveva come un burattinaio, ed era affascinante assistere al
mutamento delle emozioni sul suo viso.
Mi guardò, accennò ad un vago
sorriso, conscio forse che tutti quegli sguardi che lo puntavano,
erano tutt’altro che benevoli. Segretamente, tutti pensavano fosse
sua la colpa. Colpevole di averti spinto troppo vicino alla fine.
Ma io, come te Lou, sapevo che
lui non c’entrava. Sapevo esattamente che, invece, sarebbe stato
quello per cui avresti continuato a lottare per riaprire gli occhi e
trovartelo davanti. Come sognavi spesso, come la realtà ti negava.
Si torceva le mani nervosamente,
camminava lento, forse impaurito dal dover sentire un verdetto che
per lui stesso sarebbe stato inaccettabile.
“Come sta?”, mi chiese con un
filo di voce.
Sam lo guardò per un momento,
incapace di alzarsi in piedi e spingerlo via lontano, dove non
avrebbe potuto più farti male. Dove però, non avrebbe potuto
nemmeno guarirti.
Lo guardò poco più che per un
istante, quindi tornò a fissare il pavimento, conscio che era a lui
che spettava l’ingrato compito di entrare in quella stanza e
riportarti un po’ della tua aria. Aria densa.
Lo guardai Lou, e per la prima
volta compresi come sono complessi i sentimenti.
“Sta male”, gli risposi
accennando al vetro della tua stanza.
Ci sbirciò dentro, portandosi
una mano alla bocca e sospirando. Il tutto con una lentezza
straordinaria, come se muovendosi piano avesse potuto rallentare il
tempo che minacciava di portarti via.
Mi prese per un braccio e mi
guido oltre gli altri. Quegli amici che
non lo avevano mai davvero capito, perché non capivano quanto lo
amassi te.
“Quanto male?”, mormorò a
voce bassa.
“Molto”.
“Sentimi bene Gwen, posso
accettare di non aver più niente a che fare con lei, ma non posso
accettare che lei non sia più parte di questo mondo. Dio sa se non
posso…”.
Lo disse piano Lou. Con calma.
Con una dolcezza infinita che minacciò di spezzarmi il cuore già
dolorante.
Lui che dolce non lo era mai
stato, lui che non ti aveva mai voluto davvero, sembrava si stesse
sbriciolando al pensiero di non averti più neanche sotto lo
stesso cielo. Come quella buffa canzone che gli cantavi quando era
all'estero e ti telefonava, la ricordi? "keep in mind, we're under the same sky..."
Gli consigliai di venire da te,
Lou.
Sapevo che ti avrebbe fatto bene.
Lui sorrise, annuì, scosse la
testa, poi camminò verso la tua stanza. L’ultima immagine che ho
di voi due è questa: tu sdraiata in un letto d’ospedale e lui con
te, che ti tiene la mano e ti bisbiglia qualcosa all’orecchio.
Lo rimproveravi sempre di non
parlare mai abbastanza. Lo incolpavi di non avere il coraggio di
dirti quello che pensava e chissà come devi esserti sentita quando
le sue parole ti hanno sommersa come un fiume in piena….
Chissà che cosa hai provato
quando, nel suo modo contorto, ti ha detto che ti aveva amata e che
se ne era reso conto troppo tardi.
Chissà se adesso lo ricordi,
quel momento.
Il momento in cui eri sospesa tra
la notte che non era più notte e il giorno che non era ancora
giorno.
Ogni tanto me lo chiedo, Lou, e
penso che se solo avessi saputo prima quello che le sue parole ti
sussurravano incessantemente all’orecchio, forse oggi non avresti
qualcosa da ricordare, bensì da vivere.
O forse no, chissà.
Ma posso solo dirti con certezza,
che quel giorno, quegli occhi scuri che tanto avevi amato, non hanno
smesso neanche per un secondo di ripeterti che ti amavano a loro
volta. In un modo strano, incomprensibile, sbagliato e paradossale
loro ti amavano. Come non avevano amato nessuno. Come avrebbero
voluto amarti ancora se solo gliene avessi dato la possibilità.
E quelle mani, quelle mani che ti
stringevano con forza Lou, erano il cruccio di Sam. Lui vi guardava
dalla parte opposta del vetro e sentiva tutta la forza di quel legame
che ti univa all’altro. L’altro a cui era stato affidato il
compito di salvarti da quel momento in cui la notte non era notte e il
giorno non era ancora giorno.
L’altro che sarebbe rimasto il
tuo grande amore, anche se il tempo sembrava averlo sbiadito come un
vecchio ricordo.
Sam vi guardava e forse, chissà,
si sentiva inadeguato.
Ma non ti ha lasciato mai, pur
sapendo che in quel momento era dell’amore dell’altro che avevi
bisogno.
Pur sapendo che solo l’amore
dell’altro avrebbe potuto salvarti.
E dimmi, Lou, è stato l’amore
di quegli occhi scuri a salvarti?
E’ stato davvero quello, Lou?
NOTA:
Rieccomi! Sono finalmente riuscita a dare un nome alla
narratrice in terza persona! Ringraziamo tutte insieme la deliziosa
Gwyneth Paltrow che ieri sera mi ha fatto compagnia e mi ha convinta ad
usare il suo nome...beh, almeno un pezzo! ;)
Prometto che i prossimi due capitoli saranno finalmente in
discesa e che l'ultimo sarà un POV di Joh...se lo meritava,
povero tesoro!
Ecco i credits: la canzone di cui parla Gwen è la
struggente 'Kiss the rain' di Billie Mayer e mi sono divertita ad
immaginare Lou che la canticchia a Joh mentre si parlano al telefono.
Mi considerereste una cretina se vi dico che ci ho anche scritto una
brevissima one shot?! :) Spero di no!
La traduzione della citazione di Quintiliano, in apertura
è invece: "E' infatti il cuore che rende eloquenti", e mi
sembrava incredibilmente azzeccata per questo capitolo molto molto
silenzioso.
Come al solito, ringrazio le ragazze che hanno recensito: Elvi
e Lola...a quest'ultima va il merito di avermi spinto a rimediare agli
errori di Lou, molto prima di quanto avessi preventivato!
Un abbraccio circolare a tutta la fascia in lettura!
Vostra Am (con un nuovo nome molto più difficile da abbreviare -.-")
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Capitolo 6 *** Tomorrow is something we remeber ***
tomi
*Tomorrow
is something we remember*
“Eravamo
nello stesso amore in quel momento -
non
abbiamo fatto altro, per anni.
La
sua bellezza, i suoi pianti, la mia forza, i suoi passi,
il
mio pregare – eravamo nello stesso amore.
La
sua musica, i miei libri, i miei ritardi,
i
suoi pomeriggi da solo – eravamo nello stesso amore.
L'aria
in faccia, il freddo nelle mani, le sue dimenticanze,
le
mie certezze- eravamo nello stesso amore.”
A.
Baricco
* LOU POV *
La prima cosa che vidi furono gli
occhi chiari di Sam.
La seconda il suo sorriso.
La terza la sua mano che
stringeva la mia.
Mi sembrava di aver dormito una
vita intera eppure il mondo attorno a me non era cambiato. Ogni
minimo dettaglio era rimasto al suo posto, come se dovesse
attendermi.
Sam mi diceva qualcosa che il mio
cervello non registrava, presa com’ero a guardare tutti quei volti
intorno a me. Volti modellati da un intimo sollievo che seguiva
momenti di puro panico.
Credo di essermi sentita in colpa
per aver fatto spaventare tutti a quel modo.
Credo che se ne avessi avuta la
possibilità, avrei evitato di dormire per una vita intera e lasciare
che tutta quella gente si preoccupasse per me.
Credo che….
Non lo so che cosa credo adesso,
ma so a cosa credevo in quel momento.
Credevo al fiato caldo di Sam che
mi carezzava il viso, alla sua mano nella mia, ai sorrisi di tutti i
miei amici che erano intorno a me e che non mi avevano abbandonato.
Credevo all’ottimismo dei
medici, ai pareri legali di quell’avvocato così alto e con così
tanto profumo che mi rassicurava sulle sorti del tipo che mi aveva
investita.
Credevo al fischiettio di Kevin
mentre si allontanava abbracciando stretta Gwen.
E credevo, tuttavia, che mancasse
qualcosa. Ancora qualcosa.
Credevo di essermi svegliata per
un motivo ma facevo fatica a ricordarmi quale fosse.
Non sono mai stata brava a tenere
a mente le cose che contano. Mi hanno sempre fregata i dettagli
apparentemente insignificanti.
Sono poco più che immagini,
stralci di ricordi che mi si conficcano in testa quando sono convinta
di averli dimenticati. Ma arrivano sempre con una puntualità
imbarazzante, perfetti nel loro stravolgermi la vita, quando mi
convinco di aver trovato un equilibrio.
Ero spaparanzata sul divano di casa mia, quando accadde. Avevo vicino
Gwen che trangugiava pop corn davanti alla televisione e Kevin che
beveva una birra, lanciandomi di tanto in tanto qualche occhiata
curiosa. Avevo l'impressione che loro sapessero qualcosa che a me era
sconosciuta e la sensazione si acuiva ogni volta che il discorso cadeva
su Sam. Sam, già.
Era passata una settimana dal mio ritorno a casa e gli avevo chiesto di
lasciarmi un pò di tempo e di spazio, per abituarmi di nuovo
alla quotidianità. Non so neanche io perchè lo feci, ma
sapevo che la sua presenza, li, con me, sembrava del tutto
inappropriata. Doveva essere successo qualcosa che non ricordavo,
qualcosa che me lo aveva reso estraneo, spingendomi ad allontanarlo
dalla mia vita, come se non ci fosse più davvero posto per lui.
Ed era strano. Incredibilmente strano. Non capivo da dove nascessero
quei sentimenti, eppure li sentivo radicati dentro di me, come se prima
dell'incidente, avessi preso una decisione di cui lui non era a
conoscenza. Possibile?
Sbuffai, rannicchiandomi di lato e guardai fissa il viso di Gwen. Lei
si voltò e mi sorrise, nello sguardo una luce segreta, "Tutto
ok?", mi chiese.
Decisi che non ci avrei girato intorno. Lei e Kevin erano i miei migliori amici e, di sicuro, erano a conoscenza di ogni cosa.
"Cosa sai?" le chiesi.
Kevin si voltò a guardarmi a sua volta. Bevve una lunga sorsata di birra e rispose al posto di Gwen.
"Cosa ricordi?"
Corrugai la fronte, senza capire, "Tutto", gli risposi sicura.
"Tutto?", s'informò Gwen stupita, sedendosi composta e girando il busto verso di me, "Tutto davvero?"
La guardai sorpresa, ma Kevin mi incalzò, "Dove stavi andando quando l'auto ti ha investita Lou?", mi chiese.
Ecco, questo non lo ricordavo, ma ricordavo il punto esatto in cui
l'auto mi aveva colpita. Non ero distante dal mall del quartiere,
quindi probabilmente stavo andando a fare comprere.
"Andavo a fare la spesa?", buttai lì incerta.
"Era una domanda?", continuò lui.
Mi strinsi nelle spalle, "Ha importanza?"
Lui ridacchiò, "Ne ha", soffiò, "Davvero non lo ricordi?"
Scossi la testa, sorridendo poi a Gwen che mi stava carezzando una
spalla comprensiva. Loro sapevano ed io no. La sensazione che ne
scaturiva era di totale straniamento. Sapevo, e lo sapevo con una
certezza quasi dolorosa, che il luogo dove stavo andando, c'entrasse
con il fatto che non volevo più Sam in mezzo ai piedi. Stavo
scappando via? Andavo a comprare un biglietto aereo per volare lontano?
Dopotutto, pochi giorni prima, avevo tagliato i ponti con Joh, quindi
la cosa era altamente probabile. Ma era possibile, davvero? Abbandonavo
tutto?
"Voi lo sapete, non è così?", chiesi, con una smorfia.
Annuirono entrambi e la cosa non mi stupì. Mi stupiva il motivo
per cui continuavano a tenermi nascosta quella verità, "Che
senso ha non dirmelo?", domandai, infine.
Kevin bevve dell'altra birra, "Nessun motivo in particolare. Qualcuno
mi ha chiesto di aspettare ed è quello che sto facendo".
Le sue parole non avevano senso, per me.
"Chi ti ha chiesto di aspettare?"
"Non è importante, questo", ribatté lui, cocciuto.
"Oh Cristo!", sbottai, "Certo che lo è. Lo è per me".
Gwen aumentò la presa sulla mia spalla, convincendomi a voltarmi
verso di lei. Mi guardava con una strana espressione, un'espressione
che non le avevo mai visto prima.
"Ricorda con me", disse lentamente, "Raccontami quello che ricordi", mi spronò.
"Correvo", attaccai, "Correvo e...", sbuffai, "Non lo so. Ho come la
sensazione che stessi correndo da qualche parte. Come se avessi preso
una decisione importante e stessi andando a dirlo a qualcuno", la
guardai negli occhi, "Venivo da voi?"
Lei scosse la testa, con un sorriso dolce.
"Stavo scappando da Sam", dissi poi. Un frammento di ricordo si
conficcò esattamente al centro dei miei pensieri. Lui era in
casa che dormiva ed io lo avevo guardato e qualcosa di troppo simile al
pentimento, si era fatto strada nel mio stomaco, fino ad esplodermi nel
cuore. Non era lui, il mio amore no. Non era davvero lui.
"Scappavi da Sam si", mi confermò Gwen.
E un altro ricordo. Uscivo di casa, il telefono in mano. Parlavo con
lei, le dicevo qualcosa, ero agitata, nervosa, camminavo veloce verso
il parcheggio custodito delle auto, quello dove lasciavo sempre la mia,
a una manciata di metri da casa.
"Ti ho chiamata", ansimai, "Parlavamo al telefono"
Gwen annuì, "Si, parlavamo al telefono. Ricordi cosa mi dicesti?"
Sospirai, lasciandomi cadere contro lo schienale del divano. La
televisione accesa, mandava le pubblicità degli ultimi film
usciti nelle sale. L'adocchiai, annoiata, finché un paio d'occhi
familiari non mi costrinsero a socchiudere i miei, per metterli a
fuoco. Era lui. Joh.
E ricordai la sua voce "Devi
svegliarti e ricordare questa conversazione...".
"Allora
facciamo un patto, ti va? Io smetto di fare cazzate e tu ti svegli,
ci stai?"
Mi portai una mano alla bocca e fissai prima Gwen, poi Kevin con un'espressione di puro stupore.
"Andavo da lui, non è così?", domandai, la voce rotta,
"Era in ospedale...lui...lui è venuto in ospedale...io....".
Gwen si avvicinò e mi abbracciò stretta, "Sshhh", sussurrò, "Va tutto bene"
Scossi la testa, in preda ad un vero e proprio attacco di panico, "No,
non va tutto bene. Lui lo sapeva? Perchè cazzo non è qui?"
Gwen si staccò, per guardarmi negli occhi, "No Lou, calma. Lui
non lo sapeva. Sono stata io a chiamarlo, mentre eri in ospedale. Non
ne sapeva niente, te lo giuro", incamerò aria, scegliendo le
parole più giuste da dire, "Solo io sapevo quello che avevi
deciso e mi perdonerai se non mi sono presa la responsabilità di
avvertire né lui, né Sam", accennò ad un sorriso,
"Non era compito mio, dopotutto".
La osservai con attenzione, quindi spostai lo sguardo su Kevin che mi
fissava con un sorrisino divertito. Si alzò in piedi e mi tese
la mano. L'afferrai e mi alzai a mia volta, senza capire.
"Ti accompagno io", disse solo.
In un attimo mi fu chiaro dove stavamo andando e perchè. In un
attimo ricordai tutto. In un attimo tornai a sentire quell'amore, come
se non se ne fosse mai veramente andato. L'unico amore possibile.
L'unico che conoscevo. L'unico motivo per cui mi ero svegliata,
sottraendomi al mio infausto destino o, più probabilmente,
andandogli semplicemente incontro.
Quando aprì il
portone, aveva dipinta in volto un'espressione che faticavo a capire.
Mi sembrava di avere di fronte qualcosa che conoscevo a menadito ma
che, per qualche bizzarro motivo, non riuscivo a riconoscere.
Lui mi guardava senza
dire niente, scrutandomi come se mi vedesse per la prima volta,
cercando i segni di qualcosa di cui lui stesso non era sicuro ma che,
assurdamente, sapeva ci fossero.
Accennò con un cenno
timido del capo alla ferita ormai quasi rimarginata, sulla mia tempia. Un
piccolo souvenir di quell'incidente che, lungi dall'avermi cambiata,
mi aveva semplicemente fatta tornare me stessa.
“Rimarrà un brutto
segno?”, mi domandò in maniera totalmente illogica.
Mi strinsi nelle
spalle, “Non lo so”, mormorai, “Ma di certo non è l'unico
segno che mi porterò addosso”. Gli mostrai la mano destra, quella
che lui aveva stretto nelle ore in cui mi aveva convinto a non
mollare. A tornare. Tornare e basta, anche lontana da lui.
Mi guardò la mano e
notò la lunga ferita che percorreva la lunghezza del pollice. La
riconobbe, probabilmente. Riconobbe il punto che aveva accarezzato
tutto intorno, mentre mi raccontava del suo amore a cui io non avevo
mai creduto. Quello che non avevo visto o, forse, quello che non
avevo voluto vedere per paura delle immense conseguenze che si
portava dietro.
“Stai bene?”, mi
chiese poi, tornandomi a guardare negli occhi.
Notai in un momento che
eravamo ancora sulla soglia. Né dentro, né fuori, come nella nostra
migliore tradizione: quella di non voler mai prendere una decisione
vera, quella che ci aveva spinto, tempo addietro, ad essere
semplicemente caos. Ma si sa, è dal caos che escono fuori le forme
più belle.
Lo fissai e pensai che
lui, bello, lo era davvero. Bello come il tramonto che ti esplode in
faccia quando sei seduto in riva al mare a guardare l'orizzonte.
Bello come qualcosa che mai, negli anni, avrebbe smesso di stupirmi
per la sua meravigliosa magnificenza.
“Grazie”,
sussurrai, aggirando la sua domanda.
Lui mi guardò confuso,
sistemandosi gli occhiali con l'indice sulla punta del naso.
Riconoscevo quel gesto. Il gesto di quando era indeciso su cosa dire
o cosa fare.
“Non ho fatto nulla”,
balbettò imbarazzato.
Decisi di sorridergli.
“Mi hai riportata
indietro”, rintuzzai.
Fece una buffa smorfia
a mascherare la sorpresa. Anche lui sapeva che lì, su quella soglia,
nel momento del tempo in cui la notte non era ancora notte e il
giorno non era più giorno, si stava compiendo, di nuovo, il nostro
destino. Ma non sapeva cosa fare. Lo intuivo da come giocherellava
nervosamente con i suoi anelli, da come muoveva le dita, da come non
riusciva a guardarmi apertamente.
Io invece bevevo la sua
immagine come se non l'avessi mai visto prima. Come se in quel
preciso momento, proprio quello, mi rendessi conto che era suo il
viso che avevo dato all'amore, nonostante nei mesi passati avessi
cercato di convincermi del contrario. Lui sentiva il mio sguardo su di
se e faticava a sostenerlo. Cosciente, forse, che se l'avesse
fatto, non sarebbe tornato più indietro. Non quella volta.
“Non potevo privare
il mondo di cotanta arguzia”, scherzò. Mi accarezzò con lo
sguardo, “E bellezza”, sussurrò poi in un soffio.
Sorrisi divertita, “Per
quella basti tu”, ridacchiai.
Si grattò la testa
imbarazzato, in quel modo tipico di lui: con il collo piegato a
sinistra e gli occhi vagamente socchiusi.
Decisi di fare un passo
verso di lui, annullando la distanza che ci separava e prendendogli
la mano. Sussultò appena, forse sorpreso da quell'inaspettato gesto
d'affetto.
“Come si ringrazia
qualcuno che ti ha salvato la vita?”, gli chiesi, seria.
Lui mi guardò
stranito, “I medici amano il vino”, buttò lì, aggirando la mia
domanda.
Buttai gli occhi al
cielo, “Non parlavo di loro. E lo sai”.
“Non credo di potermi
prendere un merito così grande”, disse poi.
Decisi di parlare. Di
buttare fuori tutto e spiegargli, nuovamente, perchè certe emozioni,
certi sentimenti, non lasciano spazio ad altro per quanto si provi a
negarli. Era stato il suo amore a salvarmi e lo sapevamo entrambi, e
potevamo continuare a salvarci a vicenda, solo qualora l'avessimo
ammesso.
Gli afferrai anche
l'altra mano e la strinsi forte. C'era poca aria tra noi. Aria densa,
che per la prima volta, non faticavo a respirare.
“Joh”,
sospirai,
“Sai anche tu come sono andate le cose. Anzi, lo sai meglio di
quanto non lo sappia io, visto che nell'unico momento della mia vita
in cui avrei dovuto essere sveglia e attenta, mi trovavo persa in
chissà quale mondo. Ma sai qual'è la cosa buffa?”,
lui scosse la
testa, ascoltandomi interessato, “Appena ho aperto gli occhi, in
quella schifosa stanza d'ospedale, ho avuto subito l'impressione che
l'avessi fatto per un motivo. Un solo, stupido, motivo, che di sicuro
non era lì accanto a me in quel momento. Ci ho pensato per una
settimana. Mentre intorno a me le persone che amavo mi rovesciavano
addosso il loro più intimo sollievo, non riuscivo a ricordare
quale
fosse quel motivo. Eppure sapevo che anche loro ne erano a conoscenza
e lo sapevo dai loro sguardi, che mi fissavano come in attesa di una
reazione che, nonostante i giorni passassero, non arrivava”,
incamerai aria, scossa
dalla verità che stavo per dirgli, “Ma stasera, mentre me
ne stavo tranquilla sul divano a guardare la televisione, ho
ricordato”.
Sentii la sua stretta
sulle mie mani farsi d'acciaio.
“Cosa hai
ricordato?”, mi chiese.
"Insomma
Lou, ti sto dicendo che ti amo e qualcosa significherà pure, no?"
Gli sorrisi, “Ho
ricordato te”, confessai, “Ho ricordato la tua voce dire qualcosa
che mai ti avevo sentito dire prima”, ridacchiai, “Ho pensato che
fosse uno inverosimile scherzo del mio cervello. Sai com'è...le
botte in testa giocano strani tiri”.
“Era vero”, mi
confermò fissandomi negli occhi, “L'ho detto davvero”, aggiunse poi.
Slacciai la mano dalla
sua e gli sfiorai una guancia con le dita, sorprendendomi come sempre
dell'effetto che anche solo una piccola porzione della sua pelle,
aveva contro la mia. Impossibile resistere a quella malia.
“Lo so”, sussurrai,
“Anche se non riconoscevo le tue parole, avrei riconosciuto il tono della tua voce dovunque”.
Sorrise. Uno dei suoi
sorrisi. Di quelli appena accennati che ti fanno credere che solo un
essere perfetto possa creare tanta bellezza in un unico uomo.
“Come si ringrazia,
dunque, qualcuno che ti ha salvato la vita?”, domandai di nuovo.
Senza dire nulla mi
trasse a se e mi abbracciò. Come al solito, come ogni volta che mi
trovavo tra le sue braccia, fui investita dalla bizzarra sensazione
di sentirmi a casa. Ero scappata, questo si, ma avevo provato così
tanta nostalgia per quei luoghi che conoscevo talmente bene, da aver
avuto paura di non essere più in grado di ritornarci o, chissà, di
non riconoscerli una volta tornata o, peggio ancora, di non trovarli
più.
“Resta”, bisbigliò
tra i miei capelli, “Stavolta resta”, ripeté.
Sentii distintamente i
miei muscoli rilassarsi tra le sue braccia, il mio cuore correre
impazzito e il sangue circolare più forte nelle vene.
C'era qualcosa che mi
avrebbe potuto impedire di compiere, infine, il mio destino?
“Non ho
intenzione di andare da nessuna parte, stavolta”, mormorai e
alzai il viso, per guardarlo negli occhi, "Non senza di te".
Mi prese per mano e, sorridendo, mi
trascinò in casa. Chiuse il portone e si voltò a
guardarmi. Aveva un'espressione serena, il suo sguardo aveva uno
strano luccichio divertito negli occhi. Decisi di aver atteso
abbastanza, quindi colmai con un passo la distanza che ci separava, gli
presi il viso e lo baciai. Come se non lo avessi mai fatto, come se lo
volessi fare per sempre. L'amore
era ad un bacio di distanza, come diceva la canzone che spesso gli
avevo sentito canticchiare, ma ora, dopo quel bacio, l'amore era
lì. Nessuna distanza. Nessuna tempesta. Era il nostro unico
rifugio.
Fuori, il giorno non era più giorno e aveva
infine lasciato spazio alla notte.
Una notte illuminata dalla luna.
NOTA:
Ciao ragazzuole!
Rieccomi con un nuovo capitolo! Finalmente questi due testone si sono
ritrovati! E' stato divertente scriverlo ed è stato ancor
più divertente scrivere l'epilogo.
Come dicevo a Lola, non è facile riuscire a caratterizzare i
personaggi in uno spazio di tempo così breve, ma spero che
comunque le loro emozioni vi siano arrivate.
Manca un solo capitolo che, come promesso, sarà un POV di
Johnny. Non so quando arriverà ma non credo ci vorrà
molto per ultimarlo. Spero che vogliate lasciare un segno del vostro
passaggio anche stavolta! Ringrazio specialmente Elvi e Lola che lo
hanno fatto anche per il capitolo precedente!
Vi lascio e vi abbraccio
Am
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Capitolo 7 *** A drinking song ***
77
* A drinking song *
"Avevo dovuto perderla per capire che il gusto delle cose ritrovate
è il miele più dolce che possiamo assaggiare".
P. Coelho
* Johnny POV *
Lou suona la chitarra.
Lo fa spesso, specialmente quando sa che non sono nei paraggi. Si
vergogna, dice, che io me ne stia lì immobile come uno
stoccafisso a fissarla. Eppure mi piace guardarla mentre seduta a gambe
incrociate, comincia a canticchiare e suonare, con gli occhi socchiusi
ed uno strano sorriso. Si perde in mille mondi e mi sembra quasi di
riuscire a vederli tutti, uno per uno. So che in mezzo a tutti quei
pensieri ci sono anche io e questo mi rassicura.
Stasera è il mio compleanno, siamo in giardino sotto una calda luna brillante
con Gwen, Kevin, Keith e Damien, e Lou sta strimpellando la chitarra,
mentre ridacchia divertita con Keith.
Lo adora, letteralmente. Le volte che capita a trovarci, lo sommerge di
attenzioni e domande e curiosità. Lui l'abbraccia e se la porta
in giro per la villa, senza smettere di parlarle e sorriderle. Le
racconta anneddoti sconci e la fa ridere come una pazza, tutte le volte.
Mi piace quest'immagine che conservo di loro. Mi piace sapere che le persone che amo, la considerino speciale come faccio io.
Keith mi lancia un'occhiata divertita, indicando con un cenno del capo
Lou, "Se continua così diventerà molto più
brava di te", mi sfotte.
Mi siedo a mia volta, tra lui e Gwen, "Ti credo sulla parola. Non ho ancora avuto il piacere di ascoltare i progressi".
Lei butta gli occhi al cielo, facendo una smorfia, "Lo sai che mi vergogno", si lamenta, facendomi ridere.
"Non stasera", precisa Keith, "Stasera gli dedichiamo una
bella canzone. Una di quelle che si ascoltano con un bel bicchiere di
whiskey in mano!".
Gwen strizza l'occhio nella mia direzione, alzando il suo bicchiere, "Sono d'accordo", asserisce.
Lou mi guarda con una buffa espressione imbarazzata, poi sbuffa e si
sporge verso Keith, sussurrandogli qualcosa all'orecchio. Lui
ridacchia, annuisce e poi guarda me sornione, "Un gran bel blues,
Johnny boy"
Anche Lou mi guarda adesso, sorride nella mia direzione mentre comincia
a pizzicare le corde, "Non ti aspettare chissà che", mi
avverte. Neanche le rispondo, so che ogni mia rassicurazione andrebbe
miseramente a vuoto.
Quando cominciano a suonare, riconosco al volo la canzone che ha
scelto. E' molto più lenta di quella originale, un gran bel
blues davvero, da ascoltare con un bicchiere di whiskey in mano.
Adocchia Keith e lui annuisce con un breve cenno del capo, sorridendole incoraggiante. E lei, allora, comincia a cantare.
"Tonight you're mine, completely.
You give your soul so sweetely, tonight the light of love is in your
eyes, will you still love me tomorrow?"
Kevin
mi da di gomito, sorridendo. Già, è tipico di Lou.
Dichiarazioni d'amore che ti tolgono il fiato, buttate lì come
se ti stesse leggendo la lista della spesa.
"Is this a lasting treasure, or
just a moment's pleasure? Can i believe the magic in your sight? Will
you still love me, tomorrow?"
Mi guarda adesso,
non è imbarazzata, sembra semplicemente sicura di me e di lei e
di noi e di tutto. Un'espressione che non le ho mai visto addosso e che
mi rende finalmente sereno. Sazio. Le sorrido, di rimando, sillabandole
due parole che la fanno sorridere e scuotere la testa.
"Tonight with words unspoken, you
said that I'm the only one, but will my heart be broken, when the night
meets the morning sun? I'd like to know if your love is a love I
can be sure of. So tell me now and I won't ask again, will you still
love me, tomorrow?"
Glielo ripeto di continuo, in realtà.
Da quando ho davvero temuto di perderla, non faccio altro che ripeterle
quelle due piccole parole. Ed è proprio vero che ci accorgiamo
dell'importanza delle cose solo quando ci rendiamo conto di averle
perse. Perse sul serio. Io l'ho capito solo quando la voce di Gwen, al
telefono, mi strillava impazzita di correre, correre subito da lei,
"non sanno neanche se supererà la notte Joh" aveva gridato
isterica.
Non sanno neanche che se non supererà la notte, avevo pensato,
probabilmente non la supererò neanche io. O forse la
supererò, perchè è così che vanno le cose.
In avanti. Sempre e comunque. E se le cose fossero andate diversamente,
se Lou non avesse davvero superato quella dannata notte, probabilmente
non ne sarei morto, ma sarebbe morta quella piccola parte di me
che ancora ci credeva.
Per ben due volte, l'avevo lasciata andare.
Nel primo caso, non mi aveva neanche dato la possibilità di
provare a fermarla. Mi aveva lasciato da solo nel letto, mentre
dormivo, come fossi un amante scomodo. Uno di quelli di cui, la mattina
dopo, ti vergogni a morte.
La sensazione che avevo provato al risveglio, era stata di sottile
delusione mista a dolore. Ma poi, quando i giorni passavano e le mie
chiamate venivano costantemente ignorate, la delusione si era tramutata
in rabbia cieca. In furia.
Chi cazzo si credeva di essere?
Mi sentivo come, probabilmente, si erano sentite le innumerevoli amanti
che mi avevano scaldato il letto in passato. Usato e dimenticato, come
una vecchia maglia logora di cui non sai più cosa fartene.
Ricordo che la vidi tempo dopo sulla Sunset, per caso. Camminava per
mano con un tizio dai capelli ricci, che la fissava come se non ci
fosse nient'altro da vedere al mondo.
E la rabbia cieca, si era mischiata alla gelosia.
Mi aveva messo davanti il mio solito comportamento da figlio di puttana
e la cosa, manco a dirlo, mi mandava il sangue al cervello. Una delle
prime cose che mi ha insegnato Lou, è stata proprio questa:
siamo disposti ad accettare i nostri difetti, ma non sopportiamo di
vedere gli stessi difetti addosso a qualcun altro che non siamo noi.
Avevo quindi cercato di cambiare. Passavo il tempo con gli amici, con i
miei figli, con le persone di cui potevo fidarmi, facendo cose
assolutamente normali e noiose, con l'illusione che questo mi avrebbe
aiutato ad uscire indenne da quella strana storia che d'amore non era,
ma che ne aveva tutte le tediose caratteristiche.
Era durata poco, in realtà. Perchè poi, una notte, Lou
aveva chiamato chiedendomi di vederci. Erano passati quasi due mesi dalla sua stupida fuga e sentire nuovamente la sua voce al
telefono, aveva risvegliato qualcosa di bizzarro, che mi solleticava lo
stomaco.
L'avevo invitata a casa ed ero rimasta ad aspettarla, arrovellandomi la
mente in cerca di qualcosa di tagliente da dirle. Lei mi aveva ferito
ed io volevo ferirla a mia volta.
E invece non ero riuscito a dire una parola.
Averla lì, di nuovo, mi aveva ridotto ad un silenzio imbarazzato
e curioso che non mi permetteva di dirle quello che avevo pensato nella
precedente mezz'ora.
E così, invece di insultarla, mi ero trovato a tentare di convincerla che non era l'unica a provare qualcosa.
Era lì in piedi che diceva di amarmi, con la stessa frustrazione
e lo stesso dolore che avrebbe avuto se mi avesse comunicato che stava
per morire.
Riuscivo perfettamente a vedere lo sforzo che stava facendo per
non scoppiare a piangere, riuscivo a leggerle negli occhi la battaglia
interiore che stava combattendo e dalla quale, testardamente,
continuava a tenermi fuori.
Fu semplice, poi, afferrarla e baciarla. Aveva detto di amarmi, quindi,
stupidamente, pensavo che le cose fossero tornate al loro posto. Ma,
chiaramente, mi sbagliavo.
L'ho capito solo dopo, quando il tonfo del portone all'ingresso, mi avvertiva della sua ennesima fuga.
Cos'avevo fatto io, in realtà, per convincerla a restare?
Niente.
Già.
Mi ero limitato a seguire il classico copione dell'uomo menefreghista,
senza soffermarmi minimamente sulle implicazioni che le sue
parole contenevano. Voleva sentirmelo dire. Adesso mi sembra talmente
ovvio, ma in quel momento non mi ero neanche posto il problema. Voleva
solo sentirmi dire che l'amavo anche io, senza girarci troppo intorno,
e sarebbe stata disposta a mandare alle ortiche la sua storia
apparentemente perfetta con la quale si nascondeva da mesi.
Ed io, invece, per l'ennesima volta l'avevo lasciata andare via. Senza
neanche protestare debolmente. Ero rimasto sdraiato nel letto e l'avevo
osservata guardarmi, scuotere la testa, prendere la borsa e sparire
giù per le scale.
Che grand'uomo eh?
I cinque giorni successivi, li ricordo vagamente. Avevo bevuto tanto ed
avevo trascorso le mie giornate a fare tutto quello che un uomo della
mia età dovrebbe evitare di fare. Alcool, musica, donne
compiacenti.
Il ritmo del vecchio Johnny suonava impazzito, come prima e più di prima.
Non avevo intenzione di muovere un dito, coperto dal mio bozzolo di
egoismo e popolarità, me ne rimanevo beato a sfottere i deboli
tentativi che quella donna metteva in atto per liberarsi di me.
Tornerà, mi dicevo.
Tempo un paio di settimane e tornerà.
E invece non era tornata e rischiava di non tornare mai più.
"Non sanno neanche se supererà la notte".
La voce di Gwen mi aveva risvegliato da uno strano torpore.
All'improvviso, tutto mi era parso chiaro, come se qualcuno avesse
passato uno straccio su un vetro appannato da tempo.
Corsi da lei, ovviamente. E mentre lo feci, pensai che fosse la prima
volta in cui io, per primo, compivo un passo reale nella sua direzione
per andarmela a riprendere. Riprendere sul serio.
Avessi potuto, l'avrei portata via da quell'ospedale sia che fosse
sveglia, sia che non lo fosse. In quel momento non avevo la
benchè minima intenzione di lasciarla andare da nessuna parte.
Avevo il cuore sbriciolato. Mi sentivo immobile. E quando entrai nella
sua stanza, l'immagine che vidi, fu più efficace di un ceffone
in pieno volto. Lì c'era la donna che amavo ed io, in un modo o
nell'altro, dovevo riprendermela.
"Che ti avevo detto?"
La voce di Keith mi riporta al presente. Adocchio prima lui, poi Lou
che mi guarda come una bambina in attesa del giudizio del suo
professore.
"Non le hai dato il giusto merito", sorrido, "E' già diventata più brava di me!".
Lei si alza e si avvicina a me, mi toglie il bicchiere dalle mani e ne
beve una lunga sorsata. Gli altri, dietro a noi, chiacchierano
divertiti tra di loro. Lou sorride e si siede sulle mie gambe,
appoggiando la sua schiena al mio petto in una posa rilassata e felice.
Profuma di lavanda, di fiori lasciati al sole, d'estate. Profuma sempre
di un sacco di cose Lou. Di cose che sanno di libertà.
Le cingo la vita con un braccio, afferrandole la mano che giace
mollemente abbandonata sul suo addome. Le sfioro la lunga
cicatrice accanto al pollice e mi concentro sul ritmo cadenzato del suo
respiro.
E la mente, mi riporta indietro di qualche mese, quando tutte le sue
deliziose caratteritiche, sembravano scomparse lontano e minacciavano
di non tornare più.
Lou
era distesa nel letto. Accanto a lei degli strani aggeggi
elettronici, mandavano altrettanti strani rumori, cadenzati dal
soffio del respiratore automatico. Mi sembrava strano vederla lì
immobile, piena di tubi che senza delicatezza le spalancavano la
bocca e le ferivano le braccia. Sembrava una bambola rovinata,
abbandonata dalla dimenticanza di una bambina viziata in mezzo ad un
giardino. Non sembrava neanche l'ombra della donna che avevo
conosciuto e dalla quale avevo respirato talmente tanta vita da
sentire quasi i polmoni scoppiare.
Presi
una sedia e l'avvicinai al letto, stando attento a non fare troppo
rumore, come se quel silenzio sospeso dovesse, in qualche modo,
essere rispettato
Aveva
una benda che le copriva la tempia destra che con il bordo superiore
le sfiorava appena le sopracciglia, una fasciatura alla spalla
sinistra e un taglio che le correva per tutta la lunghezza del
pollice, sulla mano che rivolgeva alla mia parte.
Le
sistemai i capelli sulla fronte, anche se non ce n'era realmente
bisogno, ma avevo la necessità di compiere un gesto consueto che mi
ricordasse che sotto tutte quelle fasce e quei tubi c'era la Lou che
conoscevo io. Quella che quando dormiva aveva una bizzarra capacità
di scompigliarsi tutti i capelli.
Sospirai,
guardando le sue palpebre chiuse.
Quanto
tempo era passato, dall'ultima volta che ce l'avevo avuta accanto?
Tanto, troppo.
Avevo
lasciato che lei scappasse di nuovo, senza fare nulla di concreto per
fermarla, spaventato da quel sentimento che si portava dietro e che,
ogni volta che il suo sguardo si posava sul mio, non mancava mai di
riversarmi addosso.
Eppure
ora, mentre la guardavo, non sentivo più paura. Non ricordavo
nemmeno il motivo che mi aveva spinto a lasciarla andare e che poi mi
spingeva a maledire me stesso, quando nelle lunghe notti solitarie la
cercavo inconsciamente con una mano dal suo lato del letto.
Le
sorrisi, anche se non poteva vedermi e le afferrai la mano ferita,
carezzandola dolcemente tutta intorno. E mi decisi a parlare. Parlare
davvero, stavolta, Senza filtri, né paure, né reti ad attutire la
caduta.
“Ti
amo”.
Non
si mosse.
“E'
un po' vigliacco da parte mia dirtelo adesso, ne convengo. Insomma,
avrei potuto farlo quando sei venuta a casa mia per
informarmi della tua decisione di lasciarmi indietro definitivamente.
Non so neanche io perchè non l'ho fatto. Avevo paura? Si,
probabilmente avevo paura. Adesso non saprei neanche dirti di cosa,
però ero spaventato. Insomma Lou, mi conosci. Ci metto sempre più
tempo del previsto a dare alle cose un loro nome. A chiamare i
sentimenti nel mondo in cui andrebbero chiamati.
Però
ti amo.
Non
mi interessa se quando ti sveglierai correrai tra le braccia di
quella riccioluta testa di cazzo, mi basta sapere che ti sveglierai.
Perchè ti sveglierai Lou, non è vero? Non avrai mica l'intenzione
di lasciarmi davvero da solo, santo Dio! Posso accettare anche
l'eventualità che tu decida di passare il resto dei tuoi giorni con
un uomo che non sono io, ma non puoi essere così stronza da
lasciarmi totalmente sprovvisto di te, ti pare?"
Sospirai
"Insomma
Lou, ti sto dicendo che ti amo e qualcosa significherà pure, no? Non
puoi farmi uno scherzo del genere. Devi svegliarti e ricordare questa
conversazione e correre da me e trattarmi da stronzo quale sono, per
non averti confessato prima i miei sentimenti. Te la perderesti
un'occasione come questa? Hai la possibilità di rinfacciarmi una
cosa grandissima, capito?”.
Non
si mosse e scossi la testa.
“La
realtà è che mi manchi. Mi manchi tanto, Lou. Fatico sempre a non
cedere alla tentazione di cercarti e di convincerti che non è con
quello stronzetto che troverai la tua felicità. Perchè sai una
cosa? Io l'ho capito che la mia felicità sei tu e che devo smetterla
di andarla a cercare tra le gambe di qualche signorina compiacente.
Ho fatto un mucchio di cazzate in questi mesi Lou. Talmente tante che
sommate a quelle passate mi basteranno per le prossime cinque o sei
reincarnazioni. Ma ho deciso di darci un taglio. Allora facciamo un
patto, ti va? Io smetto di fare cazzate e tu ti svegli, ci stai?”.
Ma
lei continuava a rimanere immobile. Alzai lo sguardo verso il vetro
della sua stanza, vidi Gwen appoggiata di spalle e
Sam fissare il volto immobile di Lou. Stizzito tornai a guardarla anche io,
stringendo più forte la sua mano inerme.
“Senti
Lou, è inutile girarci troppo intorno. Ti amo e sono venuto a riprenderti. Quindi svegliati da questo
cazzo di torpore e torna da me. Se ti svegli, ti prometto che farò
tutto io. Parlerò con Sam e gli spiegherò come stanno le cose. Ci farò anche a pugni, se necessario. Ti
comprerò una bicicletta col cestino davanti e un cappello di paglia
da indossare quando arriverà l'estate. Mi prenderò cura dei tuoi
bisogni e non protesterò davanti alle tue manie. Giuro che ti
lascerò tenere i tuoi libri sparpagliati a terra e i vinili impilati
accanto allo stereo senza lamentarmi. Tu però svegliati Lou. Per
favore”
Notai
un movimento alla mia destra e mi resi conto che Gwen aveva preso
Sam per un braccio per guidarlo lontano, lungo il corridoio. Quella ragazza ha
sempre avuto un intuito notevole. Mi appuntai mentalmente di
ringraziarla, prima o poi, per quella piccola delicatezza che mi
aveva permesso di rimanere solo con Lou.
Con
un sospiro mi sporsi verso di lei e le depositai un lieve bacio
accanto alle labbra. Stupidamente, attesi trepidante una reazione che
non ci fu. Lou rimaneva immobile, con gli occhi serrati persa in un
mondo al quale io non avevo accesso.
“Torna
Lou. Torna e basta”.
Le
sfiorai la mano che avevo tenuto tra le mie per tutto quel tempo e la
lasciai sola, sperando in cuor mio che quelle parole non fossero
andate perse nei meandri di un tempo che sembrava sospeso.
Uno dei miei libri preferiti è "On the road" di Kerouak. Anche a
Lou piace molto e ricordo che durante i primi tempi della nostra
frequentazione, passavamo ore a letto a parlarne. Lei ha sempre un
punto di vista molto schietto e diretto, mentre io sono più
meditabondo ed introspettivo, quando si parla di commentare qualcosa
che mi è rimasto nell'anima.
I giorni successivi alla mia visita in ospedale, li avevo dunque
trascorsi a rileggere quel libro e a decidere cosa fare e come farlo.
Me ne stavo isolato nella mia grande casa di L.A. a leggere, ascoltare
musica e riflettere. Rimbalzavo ogni telefonata che mi arrivava,
aspettandone solo una: quella di Gwen. E' molto strano quando ti rendi
conto che la tua vita è appesa alla cornetta di un telefono. Io
sapevo perfettamente che la voce di quella ragazza avrebbe potuto farmi
tornare a vivere, o, per contro, uccidere anche me. Sapevo anche che
probabilmente avrei dovuto essere lì, ma non volevo imporre la
mia ingrombante presenza a nessuno, specialmente a quel bamboccio che
se ne stava immobile a fissarmi come se si aspettasse di vedermi
crollare da un momento all'altro. Beh, non avrebbe visto un cazzo di
niente, quello stronzetto. Ero già crollato da tempo, anche se
non lo avevo ammesso con nessuno, meno che mai a me stesso.
Quel pomeriggio ero seduto in giardino, con il libro in una mano e un
bicchiere di vino rosso nell'altra. Leggevo con foga, con la speranza
di trovare le risposte che cercavo tra le righe di quel volume che mi
era così familiare e che, in un modo del tutto inappropriato, mi
sembrava l'unica cosa che mi legasse ancora a lei. Pensavo,
stupidamente, che continuando a leggere avrei ritardato il momento
della resa dei conti. L'ho detto no? Era un pensiero stupido. Ma era
l'unico pensiero che mi aiutava ad arginare quell'oceano di dolore e
frustrazione in cui ero precipitato qualche giorno prima, uscendo da
quel dannato ospedale.
Quando viviamo questi strani momenti di sospensione, quando attendiamo
immobili il nostro verdetto, facciamo sempre un numero considerevole di
cose stupide e apparentemente senza senso.
Rintracciamo nella memoria quei piccoli gesti che ci permettono di
sentire una persona ormai lontana, ancora vicina. Per me, sentire
vicina Lou, significava leggere Kerouac ed ascoltare blues. Significava
ripensare alla notte in cui l'avevo incontrata per la prima volta e
l'avevo vista sorridere di pura meraviglia. Significava ricordare il
sapore delle sue labbra durante il nostro primo bacio, sotto quella
pioggia battente, la consistenza della sua pelle durante le notti e i
giorni che avevamo trascorso insieme. Significava ricordare il modo
divertito con cui rideva, quando mi conciavo come un pagliaccio per
uscire e non farmi riconoscere dai paparazzi. Significava ricordare
come mi sentivo quando la guardavo dormire accanto a me, in lotta
perenne con le lenzuola e i cuscini, sempre in movimento, finchè
non si aggrappava alla mia mano e sospirava serena, senza rendersene
conto. Quei momenti, mi esplodevano dentro come milioni di fuochi
d'artificio, lasciandomi stupito a chiedermi cosa ci fosse in lei di
così conturbante e cose ci fosse in me che non riusciva a
lasciarla andare. Se fossi stato l'uomo che lei aveva immaginato
dall'inizio, le avrei detto subito che l'amavo. Il giorno stesso in cui
l'avevo conosciuta e avevo pensato, senza troppi dubbi, che era lei e
lei soltanto quello che avevo cercato per tutta una vita.
E invece non l'avevo mai fatto. Mai prima di adesso.
Volevo fare le cose per bene, mi dicevo, non volevo correre e volevo
vedere come andava, senza spingere in una direzione
piuttosto che in un'altra. La mettevo alla prova per riuscire a capire
se quell'enorme sentimento che le leggevo tutte le volte negli occhi,
fosse autentico o fosse semplicemente un'autentica montatura.
Probabilmente è per questo che non l'ho mai fermata quelle volte
in cui se ne era andata da me. E in quel momento me ne pentivo come non
mi ero mai pentito per qualcosa in vita mia. La
realtà era sapientemente scritta tra le pagine di quel libro che
mi ostinavo a tenere in mano, "a me piacciono troppe cose
e mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella
cadente all'altra, finchè non precipito. Questa è la
notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno,
eccetto la mia confusione".
In quel
momento mi sentivo finalmente conscio di me stesso. Come se solo
qualcosa di troppo vicino alla morte, avesse spalancato tutte insieme
le finestre della mia anima, lasciando passare un'afflato di
consapevolezza. Dolorosa, fastidiosa, ma pur sempre consapevolezza era.
E la consapevolezza che avevo raggiunto era semplice come i passi che
percorrevo verso la mia auto. Il cellulare in mano, la suoneria a tutto
volume per evitare di perdere le chiamate, e l'urgenza che mi spingeva
a tornare verso di lei. Di nuovo. Ero stufo delle stelle cadenti, stufo
della mia confusione. Quello che volevo aveva un nome e un luogo dove
raggiungerlo. Che senso aveva, dunque, rimanermene li in attesa che si
compisse il mio destino?
Uscii di casa frettolosamente, immettendomi nella strada e guidando
verso l'ospedale. Una manciata di chilometri dopo, il cellulare
squillò. Il nome Gwen lampeggiava ad intermittenza sullo schermo.
"Gwen?", sospirai.
"Ce l'ha fatta!", gridò lei, entusiasta, "Ce l'ha fatta! Si è svegliata! E' qui Joh! Ce l'ha fatta!".
Ricordo che accostai, promettendole di passare in ospedale quanto
prima. Rimasi lungo il bordo della strada con il motore spento e un
mucchio di pensieri che mi giravano vorticosamente in testa. Dopo un
tempo che mi parve infinito, tornai indietro, verso casa,
improvvisamente svuotato di tutte le emozioni che mi avevano animato
fino a poco prima.
Lei aveva vinto, si, e forse questo sanciva davvero la mia sconfitta.
Con Lou ho imparato a non dare nulla per scontato. Ho imparato che
quando sono convinto che lei abbia ormai preso la sua decisione, devo
stare attento perchè in quattro e quatt'otto potrebbe ribaltare
le sorti del mio destino un'altra volta. Di solito sono sempre stato io
quello che devideva cosa fare e come farla, ma con lei non solo non mi
riesce, non ne sono davvero capace. Mi ammalia, ecco. E non credevo che
essere ammaliati fosse così piacevole.
Una settimana dopo, me ne stavo ancora seduto su quella cazzo di sedia
in giardino, a cercare di capire cosa fare. Dovevo chiamarla? Dovevo
andare da lei? Si ricordava di me, seduto accanto a quel letto, mentre
le stringevo la mano?
Questo mi terrorizzava. Avevo ammesso di amarla, si, ma lo avevo fatto
quando lei non era nemmeno in grado di starmi ad ascoltare ed ora, la
probabilità che lei se ne ricordasse, mi gelava il sangue nelle
vene.
Cosa sarebbe successo, d'ora in avanti? Perchè non riuscivo a
fare quello che volevo fare e me ne restavo come un vecchio
rincoglionito ad aspettare qualcosa che non si compiva?
Ma Lou ha sempre avuto più tempismo di me.
Quando il campanello suonò e andai alla porta, me la trovai
davanti che si torceva le mani nervosamente e guardava a destra e
sinistra, sbattendo velocemente le palpebre.
Ricordava, lo sapevo. Ed io ricordai una frase di quel libro che mi
aveva fatto compagnia mentre attendevo che si svegliasse dal sonno
dell'oblio.
Mentre parlava -parla un sacco, Lou, ha sempre qualcosa da dire, da
spiegare, da sottolineare...-osservavo ogni più piccola
espressione che le modellava il volto. La fissavo brevemente negli
occhi, perchè sono convinto che più che le parole siano
gli sguardi a dire quello che non riusciamo ad esprimere con la voce. E
lei mi stava dicendo che mi amava.
"Grazie", aveva detto.
Era stato facile poi, stringerla a me e chiederle di restare. Cosa
c'era da fare di diverso in quel momento del tempo in cui la notte non
era notte e il giorno non era più giorno? C'era da cercare
qualcos'altro, ora che sapevo che la volevo e che non sarei stato
capace di
lasciarla andare di nuovo?
Quando entrammo in casa, mi tornò di nuovo alla mente quella
frase che, poco prima, mi aveva trafitto i pensieri. Lei era poco
dietro di me ed io mi voltai a guardarla, "e dopo dodici passi ci voltammo, perchè l'amore è un duello".
Quando sentii le sue braccia sulle mie spalle e le sue labbra cercare
avidamente le mie, pensai fugacemente che quel duello lo avevamo vinto
in due, nonostante entrambi avessimo una pessima mira.
"Sei qui"
Mi volto a guardarla e le sorrido.
E' a piedi nudi e la lunga gonna che ha indosso le disegna strane forme
attorno alle caviglie. E' stanca, di una stanchezza che va al di
là degli occhi rossi e del sospiro che rilascia mentre mi si
avvicina. Una stanchezza che, se possibile, la rende ai miei occhi
ancora più bella.
Mi deposita un lieve bacio sulla guancia e si appoggia con gli
avambracci allo schienale della poltrona in legno dove sono seduto.
I ragazzi se ne sono andati ormai e Keith è probabilmente nella camera degli ospiti a smaltire la sbornia.
"Ho una cosa per te", sussurra lei al mio orecchio, per poi
mettermi tra le mani una piccola busta azzurra. La guardo con la coda
dell'occhio e vedo che mi osserva divertita.
"Cos'è?", le domando, aprendo la busta.
"Ora lo vedi", borbotta.
Estraggo un cartoncino bianco, grande quanto una carta di credito, con
disegnato sopra uno strano ghirigoro e sotto, con la sua calligrafia,
una breve frase: "una macchina veloce, l'orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada". Ridacchio
perchè ora so perfettamente cos'è quello strano
scarabocchio al centro del cartoncino. Un disegno che ha fatto Lou,
tempo prima, mentre in giardino io leggevo per lei il nostro libro e
lei con la penna in mano, disegnava su un foglio di carta. Quando
lessi quella frase -la sua preferita, ora lo so- mi mostrò
quello strano disegno e disse, "guarda, questo sarà il nostro
futuro". A suo dire, quello scarabocchio confuso, rappresentava me e
lei in una strada, accanto ad un auto a guardare l'orizzonte. Credevo
di averlo conservato nel cassetto del mio studio, ma probabilmente Lou
me lo aveva sottratto di nascosto.
"Ho chiamato Jonathan e gli ho chiesto di farci una tavola", mi
spiega, aggirando la sedia e sedendosi sopra di me, "Nonostante gli avessi detto di fare in fretta, non
l'ha ancora finita, quindi per il momento, dovrai accontentarti di
questo cartoncino, come regalo di compleanno".
La bacio, mentre le sorrido e la sento arrendersi come sempre al mio
tocco. Mi piace sentirla così rilassata quando l'abbraccio o la
sfioro, mi piace sentirla mia. Mi piace che lo sia.
"Ho un'idea migliore", sussurro sulle sue labbra, quindi mi alzo
e me la trascino dietro, ridacchiando quando la sento incespicare per
il giardino, aumentando la stretta sulla mia mano.
"Sarebbe?", mi domanda curiosa, seguendomi verso il garage e guardandomi estrarre il cellulare e far partire una chiamata.
"A chi telefoni alle una di notte?", m'incalza.
"Ehy amico!", saluto Jonathan che mi ha appena risposto
dall'altro capo, "No. Si. Ascolta...ah grazie! Si, lo so, me lo ha
detto. In realtà sto venendo da te, penso che quel disegno stia
meglio sulla mia pelle che su una tela da pittore".
Lou si volta a guardarmi con gli occhi spalancati e mi osserva sconvolta mentre prendo gli ultimi accordi con Jo.
"Che c'è?", le chiedo, invitandola a salire in auto con un cenno del capo.
Lo fa lentamente, senza staccarmi gli occhi di dosso, "Un tatuaggio?"
Ridacchio, "Esatto, un tatuaggio"
"Un tatuaggio per me?", mi chiede, incredula.
"Oh no!", la contraddico, uscendo dal grande cancello in ferro
battuto che delimita la proprietà, "Un tatuaggio per me",
la sbirciò con la coda dell'occhio, "Com'è che cantavi
prima? 'dimmelo adesso e non te lo chiederò più: mi
amerai ancora domani'? Giusto?"
Annuisce, osservandomi come fossi impazzito. E forse lo sono. Lo dico
da una vita: non sarò davvero un outsider, ma sono ben lungi
dall'essere un insider.
"Bene. Con questo tatuaggio ti convincerai che sono disposto ad amarti non solo domani, ma molto più a lungo".
Sento il respiro che le si mozza in gola, quindi faccio appena in tempo
a registrare un suo movimento che me la ritrovo addosso che mi stampa
un'infinità di piccoli baci umidi per tutta la faccia.
"Tu sei pazzo!", esclama, ma è felice. Felice davvero. E
non c'è niente di meglio che vedere la persona che ami
così felice grazie a te.
Credo che ci debba essere qualche ragione per cui le cose vanno in un
certo modo, magari noi non riusciamo a comprendere quale sia, ma
è così. E forse -forse- la mia ragione è sempre stata
lei. E mentre la guardo sedersi di nuovo, penso che lo sarà
ancora a lungo.
NOTA:
Eccoci qua con l'ultimo capitolo! Innanzitutto mi prendo questo spazio
per ringraziare tutte le ragazze che hanno commentato: mi reputo molto
fortunata ad avere avuto delle lettrice acute e appassionate come voi,
lo ammetto.
Spero che quest'ultimo capitolo sia stato all'altezza dei precedenti.
Io mi sono divertita molto a cercare di immaginare il punto di vista di
Joh e spero che voi vi siate divertite a leggerlo.
Ammetto che mi dispiace un pò concludere questa storia
così, ma forse potrei riunire le diverse one shots che ho
scritto nel frattempo e che parlano di loro. Vedremo...ho in cantiere
anche un'altra storia, perciò vedo se riesco a rientrarci con i
tempi!
Vi ringrazio anche per le numerosissime letture, se avete letto
significa che avete apprezzato e questo, per me, è sufficiente.
Passiamo ai crediti.
La canzone che suonano Keith Mostro Sacro Richards e la nostra Lou,
è una vecchia ballad dal titolo "will you still love me,
tomorrow", la versione che vi consiglio -dato che è quella che
più si avvicina a quella che avevo in mente mentre scrivevo-
è quella di Norah Jones.
Ecco la traduzione:
< Stanotte
sei completamente mio, mi hai regalato la tua anima dolcemente e nei
tuoi occhi c'è la luce dell'amore, ma mi amerai ancora domani?
Sarà
un tesoro destinato a durare o solo un momento di piacere? Posso
credere alla magia del tuo sguardo? Mi amerai ancora domani?
Stanotte,
senza dire una parola, mi hai detto che sono l'unica, ma il mio cuore
si spezzerà quando la notte incontrerà il sole del mattino? Vorrei solo
sapere se il tuo amore è un amore di cui posso essere sicura. Allora
dimmelo e non te lo chiederò più: mi amerai ancora domani? >
Chiaramente le frasi in
corsivo nella penultima parte del capitolo, sono tutte citazioni dal
meraviglioso libro di Kerouak "On the Road", che vi consiglio
caldamente.
Bene, penso sia tutto!
Vi ringrazio per avermi seguito e, soprattutto, per avermi accolto con così tanto calore!
Ci leggiamo presto!
Un abbraccio
Am
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