Spine

di Benoit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Evi ***
Capitolo 2: *** Direttore d'Orchestra ***
Capitolo 3: *** Vetri rotti ***
Capitolo 4: *** Morto al quarto piano ***
Capitolo 5: *** per il Desiderio digitare 666 ***
Capitolo 6: *** Breathe ***
Capitolo 7: *** In punta di dita ***
Capitolo 8: *** Del tutto bianco o del tutto nero ***
Capitolo 9: *** Cercasi Principe ***
Capitolo 10: *** La Ballata del giardino di seta rossa ***
Capitolo 11: *** Virgo che uccide ***
Capitolo 12: *** Anamorphia ***
Capitolo 13: *** Fumo negli occhi ***



Capitolo 1
*** Evi ***


                                                                                                                                                                    1.EVI


La prima volta che la vidi era fradicia. Bagnata come una camiciola appesa ad un albero e sferzata dal vento di una tempesta. Camminava a piedi nudi sull’asfalto, con le gocce di pioggia che le scivolavano lungo il collo, intorno alle clavicole e giù dentro lo scollo del vestito e poi pian piano cadevano a terra, tuffandosi dalla punte delle sue unghie fino ad acquietarsi in terra, nella fanghiglia di quella giornata fetida e calda di fine luglio. Era un piccolo quadro a tinte tenui dipinto con cura, con un’adorazione tale da rendere unico ogni minimo dettaglio, tale da rendere impossibile per qualsiasi essere umano distogliere lo sguardo.

La prima volta che la vidi ero ancora alle prime armi con i drum, il tabacco non faceva altro che incollarmisi alle dita o scivolare per terra. Non riuscivo ancora a comprimerlo bene e il più delle volte, piuttosto che chiedere aiuto a mia sorella per averne uno decente, ero costretto dal mio orgoglio a fumarmi degli enormi salsiccioni affumicati o delle misere sogliole di carta semitrasparente. Ben Harper mi strimpellava la sua chitarra nelle orecchie e rendeva la luce più calda, rendeva tutto più fumoso e dolce. Mi solleticava quelle corde dell’anima che solitamente restavano sopite sotto liti familiari, studio caotico e un cuore che era un vero casino. Sulla strada deserta di fronte a me, eccezion fatta per quelle quattro stoiche Jaguar arrugginite e sporche, non passava un’anima; anche il sole tardava a farsi vedere, sospingendosi dolcemente tra un ramo e l’altro degli alberi che costeggiavano il marciapiede. Solo le gocce di pioggia si sentivano ticchettare, tra un accordo di chitarra e una singola, malinconica, lasciva nota di banjo. La pioggia, Ben Harper ed io. L’ennesima sigaretta sfatta, se proprio vogliamo essere pignoli.  E poi, improvvisamente un piede. Un piede bagnato che atterrava sull’asfalto bitorzoluto come stesse volando. Un piede che deformando le arcate dei rami per scivolare via, si tirava dietro un corpo leggero. Era una donna. Sì, proprio una donna in carne e ossa. Cosa ci facesse in cima ad un albero me lo chiesi io per primo. Girai le pupille verso il drum acceso e fumigante con aria interrogativa: sì, era decisamente tabacco, niente allucinogeni.  E lei era proprio una donna. E che donna! Formosa e solida spostava il peso da una gamba all’altra con una tale leggerezza da ipnotizzare le pupille. Lasciava le mani sospese ai lati del corpo e con gli occhi guardava in terra, saltellando da una radice all’altra. Mi passò accanto, fradicia e sorridente, con il viso paffuto rivolto in terra. Io non riuscivo a smettere di guardarla, con la fiammella del drum che mi pizzicava l’incavo tra le dita, i capelli sospinti dal vento che mi solleticavano il naso e gli occhi spalancati. Lei mi sorpassò senza guardarmi ed io avevo la gola talmente secca da non riuscire ad esclamare nemmeno mezza parola. Ero impalato, impietrito, fulminato. Lei fece in tempo a sparire oltre la salita e non la vidi più. Credetemi, l’aspettai tanto.

La seconda volta la vidi solo nella mia testa. La immaginai coma la mia piccola musa personale e questo perché la seconda volta non ci fu mai. Passai giorni ai piedi di quello e di molti altri alberi, aspettando invano di vederla scendere con quel piede bianco proteso verso terra e con la pioggia che le cavalcava addosso, infrangendosi in terra, come fosse lei stessa un albero o uno stelo d’erba. La cercai ogni giorno dalla notte all’alba, al giorno intero fino a che non persi la vista. È probabile che l’avrei persa comunque, ma fatto sta che se tanto non avrei più potuto rivederla tanto valeva renderla mia comunque e in un modo in cui nessuno avrebbe mai potuto togliermela. La chiamai Evi nella mia mente, non so perché… forse perché mi ricordava la pioggia, quella pioggia che sento ancora cadermi sul viso ma che non posso più vedere, quella pioggia che è diventata la mia vista. Ora nessuno rolla i drum meglio di me. Con la punta delle dita ho imparato a capire la giusta quantità di tabacco da inserire nella cartina e ho memorizzato i movimenti corretti e matematici con cui compattarlo e chiuderlo. Riesco solo a fumare, infatti, e ad immaginare i ghirigori danzanti che il fumo compie facendosi largo tra le gocce fino a formare dei contorni precisi. Quelli di Evi. Quelli ci Evi che ho immaginato e idealizzato, quella Evi che nella mia mente è diventata la mia donna e poi mia moglie e la madre dei miei figli. Quella Evi che è mia madre, che è mia nonna e mia sorella. Quella dolce, formosa piccola Evi che mi  ha incatenato il cuore ad un sogno che non esisterà mai.

Mia nonna si siede accanto a me; alle volte lo fa mia madre, alle volte mia sorella, tutte con lo stesso identico stupido inutile fine. Ingannarmi, o salvarmi forse. Si siedono accanto a me che ho la barba lunga, i capelli sporchi e compatti e che me ne sto a girare drum e fumare sulla veranda davanti ad una finestra che non posso vedere. Mia nonna mi legge un servizio su un giornale che parla di un’ambientalista ossessionata dal verde. Una donna che ha girato mezza Roma, dormendo e vivendo mesi interi sugli alberi per proteggerne i diritti contro lo smog e lo sfruttamento urbano. Cos’è, vogliono convincermi che fosse lei? Ma per favore! Neanche tra cento anni ci potrei credere. Evi un’ambientalista? Una stupida ambientalista con la sua vita? una donna qualsiasi che adesso magari starà vivendo la sua mezza età insieme a qualche altro uomo brizzolato e prestante e con due occhi vigili che potranno scrutarla da vicino, che potranno vederla a differenza mia. Una donna che magari avrà una casa sua e dei bambini e quel cane che avevamo progettato di comprarci insieme per il nostro trentesimo anniversario di matrimonio. Ma dai, non può essere! Alle volte però mi fermo. Mi blocco. Il mio cervello mette la marcia indietro e pensa. Pensa che sta andando fuori di testa. Mia nonna mi fa scivolare un bacio sulla fronte e mi accarezza la testa sporca. Sento le sue lacrime silenziose da qui. Mi dispiace. Mi dispiace perché a volte non capisco più dov’è la realtà e dove si ferma. Non capisco se ho buttato la mia vita per una donna che forse ho sognato, che forse mi sono immaginato, che forse più realisticamente era una donna qualunque anche lei in cerca di qualcosa che ha trovato. E io ho passato la vita a gioire di qualcosa di ignoto, cercando di trovare una spiegazione valida per i miei genitori ai loro perché: perché non ho voluto continuare a vivere,  perché sono voluto affogare e andarmene lontano pur non essendo morto…

“Marco, hai visite.”, mi dice un giorno mia nonna. Accidenti! Nemmeno il tempo di sistemarmi la barba e i capelli, di dare una stirata alla vestaglia. No, aspetta. Dimenticavo che io in realtà non voglio vedere nessuno.
“ciao. Tu devi essere Marco. I tuoi occhi li viviamo insieme, d’accordo? Ci penso io.”
Chi sei? Che diavolo vuoi da me? Biascico come un vecchio sdentato. Sono anni che non spiccico mezza parola, più che cieco ora sembro sordo muto. Io sto bene da solo, non ho bisogno di nessun altro.
“Marco sono io. Evi.”
“Cosa?”
“Ho detto che mi chiamo Evi.”
“Sei tu? Quella dell’albero? Quella Evi lì? La mia Evi?”
Non ci posso credere. Per la prima volta nella mia vita ringraziai Dio o chi per lui d’essere cieco. Ringraziai mia madre e mia nonna e tutto il mondo. E mentre le lacrime scendevano dai miei occhi spenti e vivi allo stesso tempo, mentre non riuscivo a smettere di far tremare le mani e non riuscivo a smettere di sorridere e di parlare con Evi e di pronunciare il suo nome, mia nonna, mia sorella e mia madre mi guardavano dalla soglia della veranda e piangevano. Quel povero ragazzo invecchiato col posacenere pieno di sigarette mezze consumate, col tabacco sbriciolato, coi piatti sporchi, col plaid sulle ginocchia magre e la sedia a dondolo che oscillava. Quel povero bambino vecchio, con gli occhiali scuri storti sul naso, che ora parlava anche da solo. Perché quel pomeriggio sulla veranda io ero solo come lo ero sempre stato.
 
Non sono mai riuscito a spiegare alla mia famiglia che io volevo vivere per la pioggia.

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Capitolo 2
*** Direttore d'Orchestra ***



2. Direttore d'Orchestra
 

“quattro ore, cinquantadue minuti e quindici secondi” La stanza era una minuscola cappa di buio.  E la voce di Eriq era come un filo  robusto e sottile che da quel muro impenetrabile di oscurità l’afferrava per i fianchi, come il torero che ghermisce il toro con il lazo, e la trascinava in avanti. Lentamente. Era una voce profonda e strascicata, con un leggero accento francese.
“avevi detto tre ore al massimo.” Quelle erre smangiucchiate, quelle finali tronche che sembravano precipitare in un abisso senza fondo, quel raschiare della gola ad ogni inizio di parola era come se  le piantassero una craniola di pugni nel petto. Perché ogni volta le ricordavano qualcosa che non aveva più il diritto di ricordare, qualcosa che assomigliava molto a quel posto lontano che si era lasciata dietro le spalle quando aveva posato i piedi su di un traghetto sudicio che, caracollando sulle onde, l’aveva sbarcata su una spiaggia che non sapeva di casa neanche un po’. Cercò di scandagliare la stanza con lo sguardo, di infilare gli occhi in mezzo agli impercettibili corpuscoli di oscurità che veleggiavano intorno al suo viso fino ad offuscarle la vista. Sentiva la sua voce. Sì, la sentiva fin troppo bene, ma non vedeva altro che un paio di iridi verdi e nere che apparivano e sparivano di tanto in tanto di fronte a lei. 
“Cominciavo a pensare che non tornassi più.” Contava i suoi passi.
 
Toc Toc Toc

Lo sbattere dei tacchi smaltati sul pavimento scandiva gli istanti che separavano il suo cervello dal diradarsi della nebbia. Poi finalmente l’avrebbe visto, e non avrebbe più saputo distogliere lo sguardo. Rise a denti stretti, con gli occhi all’ingiù e un germoglio di panico che cominciava a crescerle nello stomaco.
“Andiamo, non essere stupido! Sai che non lo farei mai...” Sentiva le lacrime moltiplicarsi nella pancia, gorgogliare e fremere, venire a galla tra i succhi acidi delle budella. Avanzò a piccoli passi e poggiò il sacchetto trasparente su una mensola.  Fuori dalle grate della finestra i profili delle case vomitavano in alto un fievole pallore lunare e la luce, che tratteneva il fiato per passare tra una sbarra e l’altra del lucernaio sul soffitto, illuminò la fitta polverina bianca che c’era ammassata dentro. Droga. Droga finissima, droga pura, droga…
 
“…perfetta.” Johana immerse l’indice nella bustina trasparente e se lo passò sulle gengive. Con gli occhi girati all’insù e le narici dilatate si girò verso quella merda ambulante di Teddy Branch e gli rivolse un sorriso sghembo.
“è perfetta.”
 
“Chiamami stupido un’altra volta, Johana, e non avrai più una lingua per farlo ancora.” Il viso di Eriq emerse da quel muro di oscurità, in tutta la sua atroce perfetta imperfezione.  I capelli arruffati gli disegnavano lunghe strisce d’ombra sugli occhi, lo sguardo era immobile, talmente chiaro da sembrare incolore e le labbra erano incurvate all’insù,  ma senza gioia. Johana inorridì alla consapevolezza di quanto suo fratello in realtà non le assomigliasse per niente.
“Eriq, mi dispiace. È che abbiamo avuto un paio di casini e...” Johana si morse la lingua.
Dio, quanto sei stupida!
Strinse gli occhi per vedere attraverso il buio “abbiamo?” l'afferrò per un braccio e le affondò le mani nei capelli, strattonandole il viso a pochi centimetri dal suo. Johana si morse il labbro a sangue, affondando gli incisivi nella carne e pregando dentro di sé che il tempo per un attimo scorresse all’incontrario.
“Sei uscita di nuovo con loro...” era difficile capire se nel suo tono ci fossero più inquietudine o più disprezzo. Le strattonò i capelli e la tirò a sé. Johana sentì il suo alito forte contro il viso, contro gli occhi strizzati fino a vedere lampi giallastri incisi sotto le palpebre. Si costrinse a rimanere in silenzio, mentre il suo corpo non riuscì a fare altrettanto. Strinse le mani contro il petto; il labbro inferiore prese a tremarle, con il mento contratto e ghirigori di rughe che le attraversavano la fronte, tra un sopracciglio e l’altro.
“rispondimi...” ringhiò. Il suo francese era diventato all’improvviso tagliente come il filo di una lama. Eriq le sollevò il viso, stringendole il mento in una morsa di ferro. E Johana ebbe paura. Tanta paura. Come tutte le volte. Come tutte le volte sentiva contro i polsi il ruvido grattare del suo maglione di lana grossa, sentiva le unghie in mezzo ai capelli, sentiva quelle mani gonfie che le si poggiavano sul viso e spingevano come a volerle entrare dentro, sentiva gli occhi spiritati fremere puntando la sua nuca, sentiva il respiro caldo, sentiva quel suo profumo francese del cazzo; sarebbe stata pronta a giurare di poter percepire persino il fumo uscire dalle sue narici, dai suoi polmoni attraverso la carne, di poter percepire la sua rabbia nell’aria. Aveva così tanta paura che sarebbe voluta scomparire, eppure se avesse dovuto scegliere tra la fuga, tra una porta spalancata dalla quale poter fuggire per sempre lontano da quel posto di merda… se avesse potuto scegliere tra questo e restare, prendersi i colpi pesanti, le parole, quelle parole che fendevano la carne come sassi appuntiti, lo sapeva troppo bene, non se ne sarebbe andata mai. Era così terribilmente innamorata, forse.  Innamorata dei ricordi che il corpo e il profumo di Eriq potevano regalare alla sua memoria, seppure a suon di colpi inferti all’improvviso. Colpi che facevano un male del diavolo, che ogni volta la lasciavano più morta che viva. Ma quello era centinaia di volte meglio che sentire il vento di casa sventolare lontano, sentirlo fremere e bestemmiare  e sciabordare sulla pelle di un’altra.
“non sono uscita con loro. Ero sola.”
 
Sciaff.
La colpì un manrovescio in pieno viso. Johana barcollò trattenendo un gemito soffocato.
“Non capisci che ti leggo nella testa? Stupida!” Eriq l'afferrò per l'orlo del vestito e la sorresse. La trattenne a sé, legata, imprigionata da un paio di mani che sarebbero arrivate fino in fondo, che avrebbero preferito staccarsi dai polsi piuttosto che lasciar perdere. Piuttosto che lasciarla andare.
“è per me che ti sei vestita così elegante?”  Johana annuì impercettibilmente, coprendosi la bocca con una mano. Sentiva i conati di vomito fare a gara con i fiotti di saliva e gli spruzzi di sangue per uscire fuori e bagnare il cemento grezzo sotto i suoi piedi.
 
Sciaff.
Un altro schiaffo e Johana finì a terra sbattendo il fondoschiena e le ginocchia.Le parole le gridavano nella testa. Si prendevano a calci e spintoni, urtando contro le pareti nude del suo cranio.
 
Smettila, smettila... ti prego...smettilasmettila non smettere, smettila ti prego perdio non smettere…
 
La testa cominciò a farle male. Ogni volta era una lotta con se stessa. Una lotta che non sarebbe finita mai. Una lotta tra la parte di lei che chiedeva di potersi afferrare il vestito con le mani e fuggire, quella parte di lei che implorava disperatamente di ricevere una carezza; e l’altra che invece chiedeva silenziosamente che quel supplizio non finisse mai. Che Eriq non smettesse mai di picchiarla, che non smettesse mai di affogarla di brutte parole, che non smettesse mai di dimostrare a suo modo quanto tenesse a lei. Johana si accasciò a terra e cominciò a singhiozzare. Piano, rannicchiandosi contro il muro e cercando di coprirsi le gambe con il vestito. Eriq rimase in silenzio per un attimo, passandosi una mano tra i capelli, camminando come una bestia silenziosa da una parete all’altra della stanza. Si passò una mano sul viso e fece saettare di sottecchi lo sguardo su di lei. Strinse le labbra alla vista delle sue lacrime e si tirò uno schiaffo al viso. Un altro. Mentre la guancia diventava paonazza sussurrò:
“ti chiedo scusa” distese le mani contro il muro, senza mai distogliere lo sguardo da davanti a sé.
“ti chiedo scusa.” per lui era molto più facile cancellare quel silenzio. Ora, con il senso di colpa, con le sue lacrime, con la sua guancia gonfia e sanguigna, loro due erano quasi uguali. E a lui bastava chiedere scusa per risolvere ogni cosa.
“Quante volte devo spiegarti che se tu vai con loro io poi dovrò…” Sospirò, fissando dal lucernaio i tetti bassi e spioventi delle case.
“Quante volte, Johana?” Lei singhiozzò più forte, sfregandosi il naso e leccandosi le lacrime con la lingua.  
 
Tutte le volte. Per favore, tutte le volte…
 
Quella fantomatica via di fuga che il suo cervello alle volte desiderava era esattamente alle sue spalle. Si sarebbe dovuta alzare, avrebbe dovuto aprirla e scattare via come un fulmine, certo Eriq avrebbe tentato di afferrarla, di afferrarla in tutti i modi; con le mani, e se non avesse avuto le mani con le braccia monche, e se quelle braccia monche non le avesse avute allora con le gambe, con  il busto, con la testa , con gli occhi, con l’anima. Certo Eriq non l’avrebbe mai lasciata andare via, no, ma lei con le sue gambe sottili sarebbe riuscita a sfuggirli e se l’avesse voluto anche solo un po’ ce l’avrebbe fatta. Ma non voleva. Non voleva farlo. Ogni volta che quel pensiero le si ripresentava in testa Johana lo rinchiudeva, lo soffocava in uno spazio sempre più piccolo, fino a farlo precipitare dalle pareti del suo cervello. Lo giustificava asserendo che Eriq in fondo non era cattivo. Dicendo che in fondo Eriq teneva a lei più della sua stessa vita, e che in virtù di questo lei gli apparteneva. Dicendo che se nessuno poteva toccarla, o guardarla, o tantomeno pensare a lei, era semplicemente perché lui l’amava.
Facile.
E non importava se Eriq aveva mandato al diavolo ogni genere di civiltà. Di umanità, anche. Non importava se Eriq aveva smesso di dare importanza alla vita delle persone. Lei sarebbe dovuta rimanere rinchiusa nella sua gabbietta spoglia, vicino a lui. L’avrebbe voluta far diventare un piccolo uccellino, per poterle legare una zampa alle sbarre e starla a guardare mentre si dimenava tutto il giorno. Poi aprire la gabbietta, farle cenno di scappare e vederla finalmente acquietarsi. Accovacciarsi giù e aspettare nient’altro che una carezza, un pezzo di malinconia lavato via. Un odore, una musica, un’illusione. Un bacio magari.
Non importava se Eriq era diventato un assassino. Se Eriq aveva cominciato a squartare corpi di giovani uomini. Tutti coloro che si avvicinavano a lei meritavano di morire, perché potevano avere il potere di allontanarla da lui. E Eriq non avrebbe mai voluto vedere il giorno in cui, aperta la sparuta gabbietta lei se ne sarebbe volata via. Lasciandolo solo con i cadaveri degli uomini uccisi a tenergli compagnia e le mani ancora inzuppate di sangue.
Tutto ciò non aveva importanza. Nessuno poteva toccarla. Nessuno poteva tentare di avvicinarsi a lei e sperare di farla franca. Andava eliminato dalla faccia della terra. Era lui che decideva ogni cosa. Era lui che dirigeva la sua vita.
Gemelli, sentono le stesse emozioni moltiplicate e amplificate nell’altro.


“che ci fai qua fuori, scemo?” bisbigliò Call. Roux arrossì fino alla radice dei capelli. Afferrò il blocchetto consumato che teneva nella tasca dei pantaloni e scrisse. Con le mani che tremavano. Si alzò di scatto, sotto gli occhi tristi di Call. Gli appoggiò il foglio strappato sul petto e si dileguò in tutta fretta. Nessuno doveva vederlo piangere. Call sospirò.
 
Non anche lui, per favore...
 
Pensò. Roux non se lo meritava. Non di soffrire così. Non era abbastanza forte. E lui sapeva bene che nessuno dei due avrebbe mai potuto avere speranze con lei. Almeno non con il fratello ancora in vita. Dovevano ritenersi fortunati di essere ancora vivi, questo era certo. Call accartocciò il foglietto e lo gettò per terra. Lame scheletriche di luce illuminarono due parole, tremolanti:
 
Fa male...

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Capitolo 3
*** Vetri rotti ***



 

3. Vetri rotti


C’era odore di vetri rotti nell’aria. Vetri rotti e carne andata a male.
Em mi strinse forte la mano e m’impedì di cadere ancora. Per l’ennesima volta.
Ondeggiavo. Ondeggiavo come la cima di un albero, come un papavero cucito alla luce del sole. Incespicavo nei piedi nudi, incespicavo nelle crepe dell’asfalto e crollavo a terra.
Mi sanguinavano, i piedi. Mi sanguinavano ad ogni passo e sulla superficie levigata del cranio non potevo far a meno di percepire i capelli ricrescere, fitti, appuntiti come milioni di spilli. Me li avevano tagliati tutti.
Il corpo lo sentivo lontano, era un involucro di cartone che muoveva passi per conto suo. Lo stomaco un groviglio di fili attorcigliati stretti, che pulsava come in possesso di vita propria. Cominciò a ribollire, tutto d’un  tratto. Scagliò un conato di vomito di ferocia inaudita su per la trachea, un turbinio incontrollabile che con gli artigli si faceva strada in gola, e strappava, lacerava, raccoglieva tutto ciò cha ancora c’era di vivo in me e poi fuori. Lo sputava fuori.
Mi piegai da una parte e vomitai. Non sapevo dove. Non sapevo quando. Sarei potuta essere ovunque. Non riconoscevo strade, intorno a me, non riconoscevo case, né volti. Sola. Io ed Em. Lui che mi teneva la mano e io che cadevo e vomitavo e cadevo ancora. 
Em mi afferrò per le spalle e mi trascinò a sedere. Con le unghie mi aggrappai al suo collo. Per un momento avevo percepito quel doloroso formicolio sotto le piante dei piedi che si sente a un passo dal vuoto. Percepii che se fossi caduta giù, ovunque fosse quel giù che non riuscivo a vedere, stavolta non mi sarei rialzata. 
Parlava Em, parlava ma io riuscivo a malapena a scorgere le sue labbra muoversi.
Nelle orecchie il vuoto. Il vuoto totale. Ovattato, bianco. Spingeva contro i timpani con ferocia e da lì a poco sentivo che mi sarebbe scoppiata la testa, in una miriade di coriandoli bianchi.
Sarà colpa dell’esplosione… o forse della droga.
Senza neanche il tempo di pensare sboccai lì, con la testa piegata e le mani aggrappate alla maglia di Em.
Avevo le gambe distese per lungo. Ci vomitai sopra.
Poi di nuovo. Spostai la testa di lato e vomitai ancora. E ancora.
Il  mio fisico si stava autodistruggendo. Espelleva le scorie. Espelleva me.
E intanto il mondo intorno continuava a vorticare e vorticare e vorticare e vorticare ancora.
C’era il sole. E un attimo dopo non c’era più. C’era l’acqua, da qualche parte. C’era odore di vetri rotti. Di vetri rotti e sangue. E vomito, anche. C’era odore di vetri rotti e di zolfo.
C’era il diavolo, forse, da qualche parte.
Tossii forte. Sentii i polmoni restare aggrappati con le unghie, lottare contro la spinta che li schiacciava a esplodere fuori.
Mi scoppiava la testa e ora, sì, ora sentivo la voce di Em. Lo sentivo pregare.
Cominciai a non vedere più nulla. Solo ombre turbinose. Sentii Em sorreggermi la testa. Vomitai di nuovo. C’era un color porpora da qualche parte. 
C’era il diavolo.
E quando vidi il buio, quando stavo morendo, ne fui certa.

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Capitolo 4
*** Morto al quarto piano ***



 

4. Morto al quarto piano


Toc Toc…
Toc Toc Toc…
TocTocTocTocTocTocTocTocTocTocToTocTocToc…

Madame si avvicinò alla porta a piccoli passi.
Toc T…
“Morte alla Matrigna! Vuoi che ti tranci il polso?” spalancò i battenti e si catapultò fuori dalla soglia, sul tappetino di lana cucito a mano, sul tappetino a forma di stomaco aggrovigliato con tanto di precisissimi dettagli anatomici ricamati a punto croce.

Dà sempre una certa soddisfazione pulirsi le suole sulle budella di qualcuno…

“Solo questo ci mancherebbe! Solo questo ed è proprio la fine…” venne investita da una voce cavernosa e lontana, gracchiante e solida… e un paio di occhi scuri, che balzavano da una ruga all’altra del suo viso, si incastonarono nei suoi. Vacui e acquosi. Immersi in un alone bluastro e nelle striature livide della pelle. Nel gonfiore delle guance e nei rivoli di liquido stagnante che precipitava giù dalle orecchie. Il cadavere se ne stava in piedi con le braccia penzoloni, il codino spennacchiato e le mani piene di denti, che tentava di rinfilarsi con non poca difficoltà. Madame abbassò lo sguardo dagli occhi al torso. Dal torso alle gambe. Dalle gambe al...

“Oh, santo cielo, Raimond… copriti! E piantala di gocciolare, che mi infradici tutto il pianerottolo!” Madame si sfilò velocemente la vestaglia e gliela gettò addosso come fosse il tendone di un circo. Trattenne il rossore delle guance rugose e fece schioccare la lingua contro il palato.
Buio.

Raimond.
Monsieur Raimond, per la precisione; Duca di non si sa bene cosa, non si sa bene quando.
Nato a Parigi nel Febbraio del 1857. Morto.
Eh, sì. Morto. Ma proprio morto morto.


“ecco, lo sapevo…” mugugnò tra sé Raimond, barcollando all’indietro e agitando le mani sopra la testa “anche il nervo ottico. Io lo sapevo. Cos’aveva detto il dottore? Il sinistro, compratelo nuovo. Compratelo nuovo, che quello, tempo una settimana e t’abbandona! E tu invece? Che hai fatto, Raimond? Che hai fatto?” continuò a piroettare su sé stesso, pestandosi quelle poche dita dei piedi che gli erano ancora rimaste attaccate e avvicinandosi pericolosamente alla tromba delle scale. Si fermò di scatto, mentre Madame aspettava paziente sulla porta, con le braccia incrociate, i capelli scomposti e gli occhi castani che rimbalzavano dal soffitto al pene floscio di Monsieur Raimond, ballonzolante contro la coscia glabra. Si appoggiò allo stipite della porta e si lisciò il grembiule spruzzato di farina e succo di pomodoro, cercando di trattenere la malizia che saettava dai suoi occhi come un bolide.
“che hai fatto, Raimond?” esclamò. Raimond ora era immobile, immobile e statuario come un totem, nel bel mezzo del pianerottolo, con le braccia rigide e il collo piegato all'indietro, in cerca di una posizione adatta a mantenere l'equilibrio; la posa di un glorioso bronzo di Riace appesantita da chili di pelle flaccida e cadente, un viso grazioso avviluppato nello scialle fucsia a frange di Madame e un fondoschiena più che onesto che sventolava in cima alla seconda rampa di scale del quarto pianerottolo. Alla sua sinistra l’ascensore a vetri continuava a salire, mentre l’inquilino del piano di sopra si sporgeva ad osservare, con la bocca aperta, un alito di condensa davanti al naso e il lecca-lecca sgocciolante appiccicato al vetro.
“Miseria ladra! Non me lo ricordo proprio cosa ho fatto!” Madame sbuffò e gli si fece incontro sciabattando, con le rughe farcite di polvere di lievito e schizzi di miele, con lo smalto carminio, le calze a rete e il parruccone incipriato nascosto nella tasca interna del grembiule. Raimond restò immobile, senza parlare.
Senza respirare. Letteralmente.
E il coinquilino nell’ascensore fece cadere in terra il lecca-lecca e si sbracciò nel tentativo di comunicare a gesti con Madame. Lei strizzò gli occhi e scandì, cercando di leggergli le labbra:
“m-a è m-o-r-t-o?” si strinse nelle spalle e strappò la vestaglia dalla testa di Raimond che si guardò intorno con la palpebra destra incastrata nell’orbita e con un sorriso sorpreso incastonato sulla faccia. Madame si caricò la vestaglia sulla spalla e tornò a rivolgersi al vicino. Anzi, tornò a rivolgersi ai suoi piedi, visto che l’ascensore aveva quasi raggiunto il piano superiore.
“certo che è morto” tuonò, “ non lo vede? È il morto più morto che esista, dia retta a me…”
“ci vedo?!” biascicò, intanto, Raimond spalancando le braccia. “Che incantesimo è questo?”
“Raimond! Entra e levati quell’espressione idiota dalla faccia… è solo per i vivi.”
Buio.

Dicevamo…
Sì, Monsieur Raimond, morto di tisi, di gotta, di sifilide (ma la moglie non lo sa), di lebbra, affogato, soffocato, arso vivo dal fuoco divampato di una stufetta a gas, dissanguato, precipitato da un burrone, collo rotto. Morto anche dopo essere già morto. Un caso più unico che raro.
Coniugato con Madame Iustine, la cappellaia. Prima e dopo… il trapasso.
Vogliamo dire trapasso? Diciamolo.
Insomma, fino a che morte non ci separi… e oltre.

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Capitolo 5
*** per il Desiderio digitare 666 ***



 

5. per il Desiderio digitare 666


*555 0666, Hell dialing…*
Prima ce n’era di più.
Prima era diverso.
Prima bastava sfiorarsi con lo sguardo.
Prima bastava una caviglia scoperta.
Bastava un ballo. Un vestito vaporoso, un baciamano, un singolo fuggevole contatto.
Ora non si fa che abbracciare, toccare, provocare.
Per provocare non basta più lo sguardo, siamo diventati troppo deboli, troppo stupidi, troppo insignificanti. Insignificanti per le cose che diciamo, per le cose che facciamo, per le cose che non pensiamo. Migliaia di teste piene di batuffoli di cotone colorati di grigio. Migliaia di teste completamente vuote persino per vedere. Per sentire, per provare qualsiasi cosa che vada al di fuori dello sballo.
Io desidero.
Io desidero fuggire, chiudermi fuori dalla calca di scelte stupide. Fuori dalla ressa soffocante di non-scelte. Fuori dalle pagine bianche dei quaderni, dai cervelli in fumo, dalle scatole di bambole con spazzole di legno, dagli specchi rotti, fuori da me.
Tu desideri.
Tu desideri amare. Braccare la prima preda che sappia respirare e metterla alla prova. Sai amarmi? Sai toccarmi? Con quante parole sapresti uccidermi? Una. E allora sei tu. Sei tu l’ultimo pezzo del mio puzzle. Saresti disposta a trascinarmi, a cullarmi, a prendermi per mano, ad ascoltarmi, a sorreggermi, a travolgermi fino alla fine dei miei giorni?
Egli desidera.
Egli desidera morire. Farsi fuori, scomparire, estinguersi, svanire, evaporare, cancellare ogni traccia di sé. Gettare vomito e smacchiante, acido e acqua ossigenata, sputi e vernice sulle sue opere più belle. Lasciare che una valanga di sassi affilati vada a sommergere ogni passo, ogni orma che si è lasciato indietro.
Noi desideriamo.
Noi desideriamo esplodere. Prendere la nostra voce, afferrarla con le unghie, con centinaia di mani scarnificate dall’odio, ficcare le dita giù, giù nell’anima e strapparne via la voce. Strapparla dallo stomaco e ribaltarla fuori. Far esplodere un grido, un urlo straziante, come quello del rimorso di chi si fa vendetta da solo, di chi perde un figlio, di chi non l’ha mai avuto, di chi fa l’equilibrista su un lago di cadaveri, di chi va a benzina fatta di schiaffi e male parole, di chi il padre è morto e la madre è scivolata via per andare ad inseguirlo nei ricordi. Desideriamo esplodere, anche se non vogliamo. Desideriamo che il mondo torni al suo posto. Desideriamo esplodere in valori che non possediamo più, in parole che hanno perso ogni significato, in gesti diventati ridicoli. In mezzo alla strada, infiliamo le nostre unghie negli occhi per non vedere, perché non vedere ci fa male, ma vedere ci fa peggio. Ci accechiamo per non urlare davvero.
Voi desiderate.
Voi desiderate tacere. Chiudete col filo spinato le vostre bocche. Nessuno vi sentirà mai. Nessuno guarderà mai più in profondità. Nessuno scoprirà mai che, forse, in profondità non c’è niente. Fumo di fabbrica, parole inutili, jingle televisivi, forchette senza denti, piatti vuoti, televisioni vecchio stile, firme, sorrisi di carta vetrata, nuvole scure, funghi atomici, eccitazione per i nomi dei morti in radio.
Essi desiderano.
Essi desiderano finirla qui. Essi desiderano darsi fuoco. Darsi fuoco per divertimento. Darsi fuoco per esperienza, per avventura. Darsi fuoco per finta protesta, per cancellare le tracce della corruzione, per cancellare l’insania delle risate soffocate, dei registri pieni di firme, di strumenti mai imparati a suonare, dei no veri, dei sì falsi, del sangue slavato, della rabbia contro qualcuno. La rabbia dei capelli rasati, delle righe sul pigiama, del nome che diventa un numero, dell’avercelo fatto diventare, di essere prigionieri, di essere carcerieri e boia, di lasciare calare la scure su colli sottili, su colli tozzi e flaccidi fatti di lardo e plastica. Desiderano finirla qui per lo schifo degli occhi infossati, degli occhi spenti, delle labbra screpolate, delle luci accese, dei cadaveri nel fiume, degli orecchini in pelle umana, della differenza che rende uguali, dell’uguaglianza che rende diversi, delle segreterie telefoniche.
Io, tu, egli, noi, voi, essi... a volte desideriamo soltanto desiderare, per non affaticarci troppo, per non spostare i piedi dalla sicurezza... ed è proprio allora che cadiamo giù.
*Your call is dead.*

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Capitolo 6
*** Breathe ***



6. Breathe


Cory era rimasto in bilico tra il sonno e la veglia per la maggior parte del viaggio; tra esplosioni di luci, rigurgiti, grida e spasmi. Non riusciva più a capire dove iniziava e dove finiva la sua vita, dov’erano le sue dita dei piedi, cosa vedevano i suoi occhi.

Fari accecanti.
Uno.
Due…

Puzza di pelle. Le iridi, ferite dalla luce come gusci d’uovo. Ferite, prima una poi l’altra, fin quasi a sanguinare. La lingua rigida contro il palato, una visione obliqua. Due sedili, un parabrezza. Fari, fari troppe luci per i suoi occhi. Si coprì d’istinto la faccia con le mani ma quei raggi di luce sembravano passare attraverso le dita come fosse un fantasma ero morto forse? All’inferno? Con quella melma viscida che colava nella gola con lo stomaco ribaltato all’incontrario e quella poltiglia densa che gli scalava l’esofago. Tra i denti sapore di merda, il bruciore dell’alcool e di terra e di fango e di vergogna. Dove? Dov’ero? E poi una sferzata di vento freddo, quel vento che sa di legna bruciata, di luci di Natale, di zucchero filato, di pasta frolla di nocciole di casa di vomito di mamma di papà di mio figlio che cazzo mi è successo. Uno sventolio di capelli neri dal sedile anteriore, un anello scintillante al dito, vene gonfie  e mani nervose appoggiate, serrate sul volante. Sentivo le gocce di sudore attraversargli la fronte. Chi cazzo sei? Chi cazzo sono io?

“sta’ buono. Ti porto a casa…” gli parlò… mi parlò una voce calda. Non lo sento che dice? Casa? Io non posso tornare a casa non voglio tornare a casa non voglio ficcare la testa sotto il materasso masturbarmi davanti alla televisione mangiare cibo scadente fingere un orgasmo con lei non voglio tornare a casa da mio figlio non voglio non voglio non voglio non voglio

Perse i sensi e crollò con la testa sulla stoffa lucida del sedile.
 
*
 
Shaun strinse le dita sul volante. Lanciò un’occhiata al sedile posteriore e tornò a guardare la strada. La pioggia batteva ancora sul cofano e sul tettuccio. Ripetitiva. Caustica.

Plicplicplicplicplic…

“Shaun, reggilo! Facciamo spostare questi sacchi di merda e portiamolo fuori, o rischia di affogare nel suo stesso vomito!” Pax urlava nella calca. Si muoveva a scatti. Si faceva largo agitando le braccia, affondando le dita tra capelli umidicci e camicie, tra occhi famelici e gambe, petti, carne, ossa magre che trasparivano da sotto la pelle, come se le sue mani fossero due immensi rasoi. Shaun reggeva il corpo per la vita, poteva vedergli la testa, la testa che ballonzolava giù verso lo sterno. Vedeva le labbra abbandonate, la bocca semiaperta da cui colava un rivolo di saliva, i capelli appiccicati alla fronte, il bianco degli occhi…

Shaun si passò una mano sul viso, si strofinò gli occhi per allontanare il fantasma del sonno e si accese un’altra sigaretta. Respirò l’aria dal finestrino aperto e si voltò di nuovo indietro a guardare.

“Tienigli la testa…fallo respirare.” Lo avevano steso a terra. Lui e Pax. Ora se ne stava abbandonato su un fianco, buttato sul marciapiede, sotto quella pioggia del cazzo. La bocca sporca di vomito e le mani che raspavano sul brecciolino. Sembrava giovane. Vent’anni, forse. Si rigirò con un fremito, riprese i sensi per un attimo, biascicò qualcosa… sbatté gli occhi, si guardò intorno e crollò di nuovo.
“che cazzo facciamo adesso?”
“portalo via di qui. Portalo via…”
“e dove?”
“dove cazzo ti pare! Scarrozzalo in giro, non lo so… dagli una ripulita, inventati una scusa e riportalo a casa! Niente ospedale, Shaun, o siamo tutti nella merda. Lui compreso…” Shaun si passò una mano tra i capelli fradici e scagliò un calcio contro la parete.
“che cazzo di casino!”


“che cazzo di casino, davvero…” sussurrò Shaun, afferrando il freno a mano.  
Gettò la cicca dal finestrino ed estrasse la chiave dal cruscotto. Poggiò la testa sul palmo delle mani. Intorno… il silenzio dell’abitacolo, e fuori quelle della città alle quattro di notte. Si sentì le vene pulsare nella testa e i pensieri esplodere come strisce colorate. Freddo del cazzo. Sentì il respiro del giovane dal sedile posteriore al suo. Respiro spezzato, affaticato, come se gli avessero ficcato uno spillone nei polmoni. Girò la testa e lo vide sdraiato lì, con gli occhi socchiusi, con le palpebre irrequiete e uno sbaffo di sangue sulla guancia e sulle mani. Pietà. Cazzo, mi ha rovinato la serata! Cazzo, come se non avessi altre mille cose a cui pensare! Un pivello che non è neanche in grado di farsi una scopata senza finire in coma. L’Opera in fondo non è così male se lo sai prendere.  Pietà. Cazzo, è così stupido rischiare di crepare così. Pietà. Ancora. Gli spostò una ciocca di capelli dalla faccia e lo osservò. Con la pioggia che picchiettava sul vetro e metteva il freddo nelle ossa. Dentro, come la sorpresa in un pacchetto regalo. Per un attimo il suo sguardo fu più limpido di una goccia. Cristallino e opaco. Sentì una spinta nel petto, come un desiderio di prendergli le labbra e baciarlo. Così. Così sporco, così privo di sensi, così con quegli occhi verdi appena visibili tra i capillari sanguigni e le palpebre abbassate. Gli avrebbe voluto prendere le labbra e baciarle. Baciarle di nuovo e sentire il loro sapore. Così. Senza sapere il cazzo di perché. Pietà, forse.

“d’accordo. Ci penso io. Lo porto via…”

Un spinta nel petto. Istantanea. Istintiva. Da subito. Come un colpo di fulmine. Uno vero, però. Uno di quelli che ti trapassa da parte a parte, che ti annichilisce il cuore. Come un virus che si dipana nelle vene, come un liquido nero e denso che si incolla dentro gli occhi, dentro le orecchie e le fa pulsare come pelli di tamburi. Come un ronzio, un fischio continuato che ti dice che lui ha qualcosa di speciale. Che lui lo vuoi davvero. Non è amore… non ancora, forse. È Areom…qualcosa di simile ma diverso, qualcosa senza senso che ti spinge a volerlo per te. Solo per te. Qualcosa che si traveste da pietà ma che in realtà è qualcos’altro. Qualcosa che, quando la capisci a fondo, un po’ ti fa paura. Tutto ciò che sai è che vuoi saperne di più. Che una parte del tuo cervello dice “lascia perdere”, un’altra dice “prendi”. E tutto ciò che sai è che, ti fa incazzare, ma lo vuoi per te. Solo per te…

“D’accordo. Non ti preoccupare. Lo porto via io…”
 
*
 
Shaun lo adagiò piano sul letto dell’hotel. Piano. Senza far rumore. Le lenzuola erano fresche e profumavano di pulito. Si sistemò la giacca e chiuse la porta. Piano. Senza far rumore. Gettò la tessera magnetica sulla scrivania, accanto al televisore della tv. Piano. Senza far rumore. Sparpagliò i vestiti a terra e si infilò nella doccia. Piano. Senza far rumore.

Camminava a qualche metro da terra. Si grattò la schiena con le unghie e si fece colare lo shampoo negli occhi, mentre pensava. Mentre il vapore dell’acqua riempiva la stanza. Mentre sentiva il calore sulle spalle pesanti e un prurito fitto nel cuore. Mosse i piedi nel ristagno dell’acqua. Si masturbò con una mano poggiata contro la parete, mentre tentava di afferrare le immagini che i suoi occhi ci riflettevano sopra senza riuscirci neanche un po’. Era come un sogno. Un sogno caldo nel quale si muoveva piano. Senza fare alcun rumore.

Che cazzo mi succede?

Rimase a fissarlo a lungo, mentre dormiva. Mentre era svenuto e mentre rivedeva le immagini frenetiche di quella sera incollate nelle palpebre. Le dita si muovevano a scatti e non riusciva a smettere di sudare. Shaun gli si sedette di fronte; se poggiava il mento sui palmi poteva guardarlo in faccia. La faccia piegata da un lato, infossata nel copriletto fresco che profumava di pulito. Con un pezzo di carta igienica gli pulì le ultime tracce di vomito dalle labbra e si sedette di nuovo a guardarlo. Se Pax l’avesse visto da fuori gli avrebbe dato della checca smielosa, della donnetta o del fattone da LSD. Si sentiva immerso in una nube che, cazzo, non riusciva proprio a spiegare o a controllare. Lo avrebbe voluto abbracciare. Magari anche scopare, ma piano. Senza far rumore. Lo vedeva come una piccola goccia di vetro. Fragile e sensuale. Spacciato come una mosca imbozzolata sulla tela di un ragno. Eppure lo voleva. Lo voleva senza conoscerlo. Voleva la sua anima come fosse un fottuto elisir per cambiare la sua vita. Quel colpo di pistola alla roulette che ti uccide o ti fa capire quanto cazzo sei stato morto finora.
Si allungò col busto sul copriletto, tirò fuori la lingua e gli leccò le labbra. Appoggiò le sue labbra annichilite, scorticate  dalla violenza e da una rabbia incancrenita, da un desiderio di possesso… appoggiò le labbra sulle sue. Piano. Senza farsi accorgere. Senza svegliarlo. Sapeva ancora di alcool.

Shaun, ma che cazzo… riprenditi, cazzo! Riprenditi!

Si tirò uno schiaffo. Ruppe quel silenzio estatico. Ruppe tutto. Si alzò in piedi e rovesciò la sedia. Si fiondò in bagno e aprì il rubinetto, godette un attimo di quel rumore, del rumore dell’acqua che scrosciava nel lavabo. Si riempì le mani e si sciacquò il viso. Si tirò letteralmente l’acqua in faccia e rabbrividì del contatto con quel gelo appuntito. Si fissò allo specchio.

Quando quel silenzio smetterà di spaventarti a morte allora potrei ritenerti guarito. Non prima…
Sta zitta… ti ho regalato già abbastanza tempo.
Quando capirai che, per la prima volta nella tua vita, hai ragionato bene; che, per la prima volta nella tua vita, hai sperimentato cosa vuol dire quel silenzio, allora potrai mandare a fare in culo tutti i tuoi fantasmi del cazzo. Non prima, Shaun…
Io non ho paura di niente, è chiaro? Io non sono te…
E’ qui che ti sbagli. Un uomo e la sua coscienza sono una cosa sola.
No. È tutto sbagliato. Me lo vorrei scopare e basta. Come sempre. Come con tutti gli altri. Domani lo porto a casa e vaffanculo. Fanculo a lui, a te e alle tue fottutissime prediche del cazzo! E poi a me i rumori piacciono.
No, Shaun, non ti piacciono. Prendi quella cazzo di pistola, Shaun. Spara.  
Cosa?
Quando scoprirai che basta così poco per smettere di aver paura allora ti accorgerai che sei già morto e non te ne sei accorto. Non puoi morire più. Però puoi vivere.
Che cliché del cazzo, perdio!
Spara, adesso.

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Capitolo 7
*** In punta di dita ***


 

7. In punta di dita


“Vuoi sapere cosa ho fatto ai capelli?”
“Sì.”
“Se non ti interessa non te lo dico. Non sei obbligato ad ascoltarmi sempre, se non vuoi.”
“Giuro. Stavo per domandartelo io. E poi non farti illusioni, io ascolto solo se ne ho voglia. Non faccio beneficenza a nessuno, che tu ci creda o no.”
“Va bene. Te lo dico. Li ho tagliati tutti.”
“Questo lo vedo.”
“Ti piace?”
“No. Sembri malata.”
“Scherzi? Non dirmi che lo pensi sul serio. Pensavo voi foste dotato di un senso estetico più spiccato Mr Feneather!”
“Ho detto che non mi piacciono i capelli così corti, ma tu sei… bella.”
“Insomma, un genio ribelle come voi che non capisce nemmeno cosa… come hai detto?”
“Ho detto che sei bella…”
“Sì, ho sentito. Ma perché?”
“Oh, Gesù! Perché è vero! Perché dovrei dirtelo sennò?”
“Lo credi davvero? che sia bella, intendo.”
“Perché è così terribilmente difficile parlare con te? Sì, comunque. Lo credo davvero fermamente. Discussione finita.”
“Oh beh, grazie.
“Sul serio, non c’è alcun bisogno che tu dica nulla. Odio i ringraziamenti.”
(ride) Non vi piacciono le poesie, non vi piacciono i balli, non vi piace l’amore, i complimenti, gli addii e non vi piacciono nemmeno i miei capelli. C’è forse qualcosa sulla faccia della terra che amate Mr Feneather?!”
“Sì.”
“E che cos’è, allora, di grazia?”
(pausa) Qualcosa che vi somiglia molto…”


 
Non servono le parole per trasmettere un’emozione.
Non serve urlare, non serve muoversi.
Non serve nemmeno toccarsi, afferrarsi, sfiorarsi con le dita.
No, non serve.
Perché io non posso parlarti. Non posso percepirti.
Dio solo sa se è vero che non potrò mai avvicinare un solo dito alla tua pelle, i nostri universi sono troppo lontani, eppure tu mi senti.
E così io ogni giorno chiudo gli occhi e mi concentro sul tuo viso.
Ogni giorno mi concentro su di te, e ogni volta tu mi senti.
Penso solo una cosa nella mia mente:
Posso vederti ancora.
Ti posseggo dentro.

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Capitolo 8
*** Del tutto bianco o del tutto nero ***


 

8. Del tutto bianco o del tutto nero


Pausa.
Menopausa.
Arresto.
Arresto cardiaco.
Morte.
STOP..

Dopo l’amore c’è la pausa sigaretta.
Prima dell’amore c’è la pausa preliminari.
Dopo una litigata c’è la pausa di riflessione.
Dopo la riflessione c’è la pausa bidone.
La pausa è quella musicale, la pausa è quella scritta nello spartito, quella che fa singhiozzare gli strumenti, quella che conferisce importanza, interesse e pathos alle parole, quella che lascia con il fiato sospeso, quella da ringraziare e quella da maledire, quella che fa rizzare i capelli in testa e quella che trapassa il cuore.
La pausa è quella tra un battito e l’altro.
La pausa lunga e la pausa breve.
La pausa lunghissima. Troppo lunga.
La pausa che fa smettere di battere il cuore. Quella tra le parole, anche se non ce ne accorgiamo. La pausa tra un sogno e l’altro. La pausa tra i sospiri.
Inspira. Pausa. Espira.
Pausa di fumo.
Pausa del verdetto.
Pausa prima di tirare la corde, prima di abbassare l’accetta.
Pausa delle ultime parole del condannato.
Pausa tra una confessione e l’altra.
Pausa di lacrime.
Pausa affannata tra i baci e tra i sussurri.
Pausa delle radiazioni.
Pausa del giorno e della notte.
Pausa che rende le cose uguali a sempre. Pausa che cambia le cose.

Newt ama le pause. Ama le differenze. Ama il nuovo e ne conosce le sfumature. Ama ciò che è imprevisto. Ama studiarlo, farlo suo e renderlo, inconsciamente routine. Ama i singulti delle musiche anni ’60, gli attimi che intercorrono tra la pizzicata di una corda e un’altra. Ama gli attimi di silenzio che spezzano a metà il frastuono e i cambiamenti sorprendenti e rumorosi che arrestano il silenzio. Newt è un salto. Una mina che esplode. Qualcosa che rompe le righe e le lascia in disordine, qualcosa di completamente diverso…Newt è una pausa. Una pausa breve, istantanea.

Amanda ama tutto ciò che è costante. Tutto ciò che scorre lento e sempre uguale a se stesso. Ama la sicurezza del movimento sempre uguale. Ama le ripetizioni, ama i flussi di coscienza. Amanda adora lo scorrere coerente dei fiumi di pianura. Ama il verde omogeneo dei prati in primavera. Ama la sua casa sempre in ordine. Ama la vita fatta di singoli gesti tutti uguali. Ama ciò che è fisso e che non cambia mai. Ama il ritmo lento e fedele di una vita senza scossoni. Di una vita che non si evolve. Amanda è una nota lunga. Vellutata e armonica.
Due universi completamente opposti. Due sfere distanti legate tra loro da un filo sottile.
Due dischi di vinile con la stessa canzone. Due melodie che differiscono di un unico particolare e che ognuna di loro ha interiorizzato a suo modo.
Un disco è intatto, la musica scorre precisa e armonica sino alla fine.
L’altro all’improvviso si interrompe. Si interrompe e poi ricomincia. Senza il minimo preavviso.
Se questi due dischi venissero scambiati, ciò che è continuo sarebbe costretto a fare i conti con le pause; ciò che è saltuario e fuggevole sarebbe costretto a fare i conti con la coerenza e la solidità.

Se la tua vita è caos, sii la tua calma.
Se la tua vita è routine, sii la tua pausa.

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Capitolo 9
*** Cercasi Principe ***



 

9. Cercasi Principe


Signore, avrebbe uno spiccio per me?
E tu cos’hai da darmi in cambio, piccola stracciona?

Si vide puntare addosso un paio di occhi grigi come la ghiaia delle strada che stava calpestando. Si vide puntare addosso un paio di grosse larve glaciali che gli strisciarono fino nello stomaco. Sentì una fitta e seppe che, se avesse potuto, si sarebbe rimangiato (una per una) quelle parole che gli erano scivolate via di bocca. Scivolate sulla viscida cascata di detriti stratificati di altre cattiverie. Infilò una mano nel panciotto e fece rimbalzare sul marciapiede un paio di monete.

To’! Compratici un cappio e fatti un favore…

Se ne andò correndo veloce, sbattendo le suole di vernice su quel cemento verminoso, dove anche la sua sicurezza stava per cadere. Svoltò alla prima a sinistra, un marciapiede come un altro di fronte a un fila di case colorate e la bambina non smise un secondo di fissarlo, di bucargli la schiena con quelle iridi ferrose. Lo vide scomparire dietro l’angolo e solo allora si piegò in terra a raccogliere le monete. Se le fissò sul palmo della mano, fece schioccare la lingua contro il palato  e le fece scomparire sotto alla tuba.
Signore, avrebbe uno spiccio per me?
 
*
“Raimond! Vai tu ad aprire?” la voce di Madame echeggiò nell’androne come lo scoppio di un fucile.

Vai tu ad aprireaprireaprireaaprire…re…re…e…

Raimond teneva il cranio abbandonato contro la poltrona, mentre un occhio scivolava giù lungo la guancia e l’altro era intento ad osservare, con la vacuità tipica della cateratta, gli intarsi del soffitto a cassettoni.

“Mi hai sentito?” il campanello continuava imperterrito a trillare nell’ingresso, Madame se ne stava con le mani ficcate nella pasta frolla e Raimond cominciò a sfilarsi una piccola larva bianca dall’orecchio. Riusciva a percepire in lontananza un insieme di rumori familiari, ma non del tutto da riconoscerli.

“Raimond! Mi hai sentito??” Madame si fiondò fuori dalla cucina e spalancò la porta d’ingresso.
“finalmente!” un gentiluomo alto e magro si fece avanti calzandosi l’alto cappello sulla testa. Si massaggiò la spalla con fare infastidito e  si rigirò nella carne del polso il bracciale con le lame. Gemette, rivoltando gli occhi all’insù.

“erano almeno venti minuti buoni che prendevo a spallate la porta. Se avevate  intenzione di non farmi entrare potevate direttamente evitare di invitarmi, Madame!” le rivolse due occhi azzurri, duri di rimprovero. Due occhi azzurri rossi di un piacere spinoso, mentre si massaggiava ancora spalla e polso, dal quale cominciavano a colare leggiadrissime stille di sangue. Madame alzò gli occhi al cielo e si gettò lo strofinaccio sulle spalle.

Raimond cadde in terra e prese a strisciare in giro come un  lungo vermone bluastro.

“come se non vi piacesse! Un giorno o l’altro vi farete male davvero! Lei e la Mademoiselle Duchessa! Con tutte quelle robacce appuntite, con tutte quelle botte…” Monsieur Principe le schiaffeggiò delicatamente le natiche, dirigendosi verso il soggiorno, e le strizzò l’occhio con complicità.
“ognuno ha i suoi piccoli vizi. Quantomeno io non mi diletto a cucinare torte alla valeriana per i bambini…” Madame si dileguò stizzita verso la cucina “oh, ma quello è solo un passatempo. E poi non riesco ancora a capire come faccia la gente ad amare veramente i bambini. Sono chiassosi, fastidiosi e violenti! E poi appena sono sufficientemente cresciuti da capirci qualcosa, cominciano ad odiarti! Che gusto c’è a farne uno? Quando li sforni ti fanno anche un male del diavolo…” Principe passò l’indice sul bordo del mobile di legno, accarezzandone le venature.
“già…” annuì, pensoso “quella sembra essere l’unica parte interessante. Peccato non spetti al padre partorire il figlio!”
“temo che non vi capirò mai!” esclamò Madame, riaffondando le mani nella pasta frolla.

Raimond, intanto, aggrappandosi alle gambe di una sedia, cercò di tirarsi in piedi, mentre con la parte sinistra del suo cervello contava le decorazioni ricamate delle tende di velina alle finestre e con la parte destra si chiedeva quanto ne avesse ancora Madame Justine (sua moglie) per arrivare con le sue pastine di burro d’arachidi.

“oh!” Principe si voltò verso la cucina con la bocca sanguigna disegnata in una O perfetta “e non è forse per questo che sono qui?”

Madame lo guardò in quegli occhi peccaminosi e puri allo stesso tempo, poi guardò Raimond che si ciucciava con vigore l’alluce sinistro e si rese conto di quanto veramente amasse i casi umani. Se stessa compresa.

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Capitolo 10
*** La Ballata del giardino di seta rossa ***


 

10. La Ballata del giardino di seta rossa


Stringila.
Da  bambini era una cordicella, adesso è un nastro.
Quel nastro, quella cordicella, stringila.
Tirala più che puoi.
Se ti si rompe il dito, pazienza…
A ripararlo penso io.

Metti un cuore sulla bilancia, metti il tuo.
Dall’altra metto quello di una capra, di un africano, di un cinghiale, di un macellaio. Di un corista, di una suora, di un sagrestano, di un papa, di un santo, di un bambino, di un astronauta, di un assassino. Di una puttana, di un cane, di un’organista, di una show-girl, di un giornalista, di un disertore, di un secondino, di un generale, di una scimmia.
Pesano tutti uguali.
Tutti uguali al tuo.

Quel tuo piccolo pugno di filamenti e capillari che ho trovato sotto terra, davanti al portone di casa. Con la pioggia
tanta pioggia che grandina e cade giù, giù dal nulla nel nulla
ti vedi? Sei lì che scavi con le dita, ti rompi le unghie perché hai pochissimo tempo per creare una buca piccola, piccola come la tomba di un bambino. Raspi tra le radici e la terra e il fango che ti schizza in faccia, in quei due occhi di mercurio fuso
freddo freddo freddo, fa tanto freddo fuori casa. Perché non entri dentro a farmi compagnia?
Non puoi. Non puoi perché hai poco tempo, hai un buco tra i polmoni, un buco nel torace… le costole si protendono fuori come artigli di una bestia che vuole proteggersi dal freddo, come le zampe di una creatura che protegge la sua tana. La sua tana di sangue denso
Quel sangue che ti sgorga via… corri corri corri fa’ in fretta!
Scavi sempre più veloce e sempre più lento, la vista si annebbia e scappi via, con i piedi che inciampano, con le braccia molli, gli occhi opachi… non riesci a stare in piedi e persino quando ti volti indietro a guardare il tuo lavoro incompiuto non riesci a vedere, a respirare, a provare nulla, perché senza cuore non si vive anche se credi il contrario.

E io ora trovato il tuo cuore… oh.
Non ho dovuto nemmeno scavare… oh.
Ho carezzato via i granelli di terra… oh.
L’ho tenuto in mano e portato in casa…oh.
È mio.
 
Ogni giorno chiudo gli occhi e mi concentro sul tuo viso. Su come io voglio immaginare che sia. Su come ho impresso i tuoi tratti sotto le mie palpebre.
Perché è qualcosa di troppo grande e complesso e denso per essere descritto da un’unica parola schifosamente deteriorata dall’uso improprio che ne si fa. Perché l’amore cambia forma. Perché l’amore è…
…come le caramelle.
Come gli sputi.
Come i baci.
Come gli schiaffi.
Come le carezze sui capelli.
Come tutto ciò che non ha un sapore.
Amore che infuoca.
Amore in fumo.
Amore che uccide.
Amore che fa uccidere.
Amore che guarda.
Amore che vede.
Amore che acceca.
Amore che è uno spillo in un occhio.
Amore che alleva.
Amore che è aspro.
Amore che ti fa esplodere la testa.
Amore per strada.
Amore immobile, come l’aria.
Amore che sta bene così.
Amore che ti voglio bene.
Amore che ti voglio, bene.
Amore che è anche dolce, che non smetterei di mangiarlo mai.
Amore che smetterei di mangiare per averlo, o per riaverlo indietro.
Amore che mi cambia e mi fa restare uguale.
Amore nel letto.
Amore dove ti pare, non fa differenza.
Amore… arriva.

Senza amore si può vivere. Se non lo conosci non sei malato, sei soltanto... povero.

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Capitolo 11
*** Virgo che uccide ***


 

11. Virgo che uccide


Schiacciò l’ennesima sigaretta sull’asfalto secco della strada e si accucciò in terra, con le spalle contro il muro. Quel posto era caldo e freddo insieme. Ruvido e scosceso come il sapore di casa.
Odore di metallo. Odore di metallo e di nero. Nero di fogna e puzzava come una fogna. Zolfo e polvere da sparo, senza saper distinguere da cosa provenisse l’uno e da cosa provenisse l’altro.
Strinse al petto la pistola e chiuse gli occhi. Vide sprazzi di verde e nero inchiostro e quando li riaprì la luce del tramonto era come una lama contro la retina.
Respirò a fondo, come se fosse la sua ultima volta. Come se nel posto in cui si era prefissata di andare l’aria non sarebbe esistita. Respirò ancora e sentì quanto era stretta la giacca di pelle, quanto strisciava col suo tessuto viscido. Sentì un caldo insopportabile e gocce di sudore colare dalla fronte.
Non era pronta. Non era pronta affatto.
Si sentiva stupida. Si sentiva così stupida e pregava che nessuno la vedesse: accasciata a terra come una bambina, con le mani tremanti e la testa annebbiata a pochi secondi dall’entrata in scena.
Premette la canna della pistola contro la fronte e strizzò gli occhi.

Fino a tre, pensò. Conterai fino a tre, e se al tre non avrai ancora premuto quel grilletto di merda, giuro su Dio, che ti spezzerò tutte le dita.

Uno spasmo involontario le fece sussultare la caviglia. Sapeva di parlare seriamente.  Sapeva che l’avrebbe fatto perché l’aveva già fatto.
In piedi sopra un ponte… I ricordi presero il sopravvento. In piedi sopra un ponte, forzandosi a non guardare in basso, a non sgranare gli occhi dal terrore alla vista di quel torrente in piena che le scorreva sotto indisturbato.

Fino a tre, pensò anche quella volta. Conterai fino a tre o giuro che ti spezzerò una caviglia.

Buttarsi no, non ce l’aveva fatta. Comprese in un attimo che da lì non sarebbe potuta tornare indietro. L’acqua nera e livida l’avrebbe avviluppata, soffocata, congelata. L’avrebbe fatta tremare di paura e gridare, anche. L’avrebbe fatta implorare aiuto, le avrebbe fatto tuffare le mani fuori dall’acqua per supplicare qualche ignaro passante di tirarla fuori. Ad ogni costo, e questo no. Questo non l’avrebbe mai sopportato. Il dolore sì. Quello si supera e si va avanti. Ma la morte? Se muori non torni più indietro non c'è il tasto Rev, indietro veloce. Se perdi la dignità in quei tuoi ultimi secondi, minuti di vita non avrai tempo di riscattarli mai più. E la dignità la perderai... è così che va per tutti... perché quando sopraggiunge la fine, la fine di ogni cosa, il dubbio se una volta morta l'anima uscirà dal corpo e ti farà assistere ai tuoi funerali se ti darà la possibilità di vivere un'altra vita o se semplicemente tutto si spegnerà in una minuscola esplosione... è lì che scatta quell'istinto di sopravvivenza. Quello che ti fa implorare e tuffare le mani fuori dall'acqua. E questo no, non l'avrebbe potuto sopportare.
Le mura scrostate e sporche di una viuzza lercia di Soho, da sole, avrebbero inglobato le sue urla, quando con fermezza innaturale  procedette a mantenere la promessa.
Una spranga di ferro le frantumò il malleolo.
Quando un urlo strozzato e agghiacciante esplose, confondendosi con gli schianti fragorosi dei giochi pirotecnici, la spranga la stringeva ancora in mano.

Fino a tre, pensò ancora. Fallo e basta, cazzo! Fallo e basta!

Cominciò a piovere. Così, dal nulla. Il cielo divenne una massa informe di grigi, e neri, e grigi più chiari e grigi più scuri. Tutt’intorno i contorni sparivano alla vista,  i colori si fondevano tra loro come trucco e sangue sul viso di una donna. 
Inglobati i singulti violacei di un sole che moriva all’orizzonte. Inglobato il vento, che soffiava fresco, e sottile. Inglobate le cime dei pini e dei cipressi che costeggiavano la strada, chine, rovesciate verso il suolo con le foglie cariche d’acqua livida.
Era tutto così bello. Così assolutamente perfetto, cazzo. Ora sentiva solo una gran puzza di erba bagnata, una gran puzza insopportabile di fogna. Una gran paura.
Tutto quel viola, quel rosa scuro, amareggiato… tutto quel blu intenso, quel blu vissuto e macchiato di nuvole qua e là era sparito. Era tutto sparito.
Sentì il peso insopportabile della pioggia sulle spalle. Sentì i capelli aggrovigliarsi come fili telefonici, come erbe rampicanti. Li sentì appiccicarsi alla fronte e farsi sempre più pesanti. Si passò una mano sul viso, sugli occhi, sbafando il mascara in una lunga striatura confusa, che continuò a colare giù, sempre più giù, fino a sparire sotto il mento.
Fece scivolare la canna della pistola dalla fronte in mezzo alle labbra. Quando ne avvertì sulla lingua il sapore metallico e acre si costrinse a non deglutire.
Ti imploro. Te lo chiedo per favore, cazzo, un ultimo singulto di pensieri che si perse con le gocce anonime di pioggia.

Uccidimi…

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Capitolo 12
*** Anamorphia ***


 
 

12. Anamorphia


Un po’ di thé?
Non faccia complimenti, dottore, l’ho appena fatto.
Latte e zucchero, sì… lo so.
Ci soffi sopra, prima, è molto caldo.
Aspetti, aspetti! Che fa, non lo gira?


1.
Catherick Hospital for Mental Health/Certificato di internamento
Medico incaricato:  Carlisle  Pauli
Nome:   (nome) Andrea           (cognome) Nikolz
Anni:   20
Indirizzo:     123 West Marion Street
                         Joliet (Illinois) 60436

Data di nascita:   20 aprile 1973
Data e ora dell’ingresso:  (il) 21 agosto 1993       (alle) 10:30 ca
Genitori e/o accompagnatori:   (nome) Dahlia     (cognome) Nikolz 
                                                    (nome) Santo      (cognome) Nikolz
Anamnesi familiare:  
La nonna materna era diabetica e soffriva di una forma aggravata di obesità. Morta all’età di 66 anni di angina pectoris. Il bisnonno paterno è morto per impiccagione, autoinflitta. Il nonno paterno per taglio della gola, autoinflitto. Il padre soffre di una lievissima forma di depressione da stress.    
Anamnesi personale futura:    
Il soggetto rifiuta acqua e cibo. Rigetta qualsiasi tipologia di contatto con l’esterno. Alterna stati di irrequietezza ed eccitabilità a stati di forte depressione. Il soggetto si è rifiutato di parlare per più di tre settimane e in seguito ha manifestato sintomi chiari di schizofrenia paranoide (illusioni sensoriali di ogni genere).
Cure previste:  
Si prescrive un mese di degenza per  l’osservazione dei sintomi.


Data, 21 agosto 1993
    Firma del genitore                     Firma del medico incaricato
__________________________               _______________________________     
        


Dal diario privato del Dottor P.
Pag. 2:

“Prima seduta del 21 settembre 1993. La paziente Andrea Nikolz ha concluso il suo primo mese d’internamento. Ha dimostrato, come previsto, una chiusura psicologica quasi totale. Ha reagito negativamente a qualsiasi tentativo di contatto, che fosse verbale o fisico, persino da parte di coetanee. Ha rifiutato qualsiasi tentativo di avvicinamento da tutti tranne che da me.
Che dire? Andrea mi lascia fare di tutto. Si lascia visitare, si lascia esaminare, sono addirittura riuscito a farle un prelievo di sangue. Mi risponde… quasi sempre. Mi vuole accanto quando legge i suoi libri immaginari, sembra persino felice di vedermi.
Ecco, non so bene come comportarmi, anzi, non lo so affatto. Il mio intervento potrebbe essere l’ago della bilancia, potrebbe aiutarla a guarire o farla perdere… per sempre. E forse non mi rendo conto neanche io della precarietà della mia posizione. Sento che dovrei scavare più a fondo. Sento che c’è qualcosa che non mi dice. Sento che c’è qualcosa dal primo giorno che la sentii parlare. Che vidi i suoi due occhi. Erano vigili, lucidi. Non erano gli occhi di una pazza. I genitori l’avevano portata da noi solo da due ore e lei se ne stava seduta là, nella sala d’attesa. Gli occhi… fissi al muro. Quando entrai per portarla via alzò lo sguardo su di me e la prima cosa che mi disse fu “lei! Lei riesce a vedermi?”. Capii subito che sarebbe stato un caso interessante.
Nella sua camera Andrea non fa altro che camminare; camminare da una parete all’altra, bere thè da tazzine vuote e coricarsi a letto parlando con qualcuno che solo lei può vedere. Le pazienti che creano un loro proprio mondo fantastico  per non affrontare la realtà di solito sono felici. Sole, ma felici. Lei no. Lei è come se fingesse sempre, come se nascondesse sempre qualcosa. Come se fosse sempre infelice. Sono quasi quarant’anni che faccio il mio lavoro e riesco a capire quando una persona è infelice e lei lo è. Lei è alla continua, disperata ricerca di qualcosa. Ma cosa?
Cercherò in questi futuri mesi di scoprirne di più. Ma ho come l’impressione che Andrea resterà un segreto. Forse sto prendendo troppo a cuore il suo caso. Vediamo dove porterà. Sì, vediamo dove porterà…”
 

 
2.
Andrea si alzò a fatica sulle gambe sottili e si strofinò il naso col maglione. Quel maglione color caramello che le aveva regalato il nonno cinque anni fa. Cinque secoli fa, sembravano. Cinque secoli prima, quando il  nonno era morto, con la testa recisa all’indietro, con la lametta da barba in mano, con la porta che
SBAM
sbatteva contro lo stipite e con Andrea che entrava nella stanza vuota e lo trovava a bagno nella vasca, che galleggiava sopra ad un lago di sangue. Annusò quel pezzo di straccio cadente che a mala pena le arrivava sotto il seno. Puzzava di sudore rancido. Sudore rancido e bagnoschiuma. Forse era troppo tempo che non lo lavava. Forse non l’aveva lavato mai più.  Tirò lo sciacquone e rimase un attimo ad osservare il mulinello d’acqua pulita che spariva nello scarico e vide chiaramente, come un lungo filamento viscido, i pensieri che si staccavano dalla sua fronte e  scivolavano via, risucchiati anch’essi nel vortice.  Poi afferrò la maniglia e uscì nel corridoio. Non c’era nessuno. Non si sentiva neanche il rumore preciso di un paio di scarpe, nemmeno il trillo scarno di una risata. Il clangore metallico degli armadietti, il raspare dei fogli di carta, il ticchettio delle monetine che cadevano per terra, denti e lingue che battevano tra loro nel tentativo di comunicare e comunicare e comunicare, un atto inutile che Andrea sembrava non voler più condividere. Lei non parlava più. Non facevano rumore le sue scarpe quando camminava, né le sue mani o i suoi vestiti, non faceva rumore il battere incessante di quel suo muscolo rosso che aveva nel petto o l’abbassarsi lento delle ciglia. Non facevano rumore i suoi pensieri, vorticanti nelle quattro pareti bianche del suo cervello. Andrea era il silenzio.
Si guardò intorno passandosi una mano tra i capelli, in mezzo a quell’intrico di sporcizia, carne e una colla viscida di pensieri e domande troppo lunghe per essere anche solo formulate. Strinse le braccia al petto e proiettò gli occhi sul pavimento di marmo, mentre le pareti dell’università le scorrevano accanto come pellicole noiose, come il paesaggio che scappa fuori dai finestrini delle auto. Tutto troppo veloce per poter essere toccato. Il trillo della campanella fece vibrare le pareti delle aule ed anticipò il vociare degli studenti come un cupo rullo di tamburi prima di una piéce teatrale. Andrea si avvicinò alla parete e chinò il capo, tormentandosi le maniche del maglione che le coprivano la mani fino ad oltre la punta delle dita. Maniche lunghe e sfilacciate che la facevano sembrare un gracile pupazzo di paglia. Sempre in balia del vento. Di quel vento acido che soffiava dalle bocche degli altri.
“Hai sentito di Patrick?” Erano folate senza volto. I volti erano troppo lontani per essere anche solo sfiorati con lo sguardo se si tengono gli occhi fissi al pavimento. Se si vive solo per i propri brutti pensieri.
“Già. Gran brutta fine. ”
“Ho sentito che la macchina gli è spuntata davanti all’improvviso e BAM! Tanti saluti…”
“Naaa! Quello era fatto marcio. Ho sentito dire che neanche si reggeva più in piedi.” Una risata. Un singulto quasi. Come una foglia anonima che raschia sull’asfalto e poi si perde.
“Se alla tua vita non ci tieni tu, ma dove lo trovi uno disposto a giocarsi la sua per tirarti fuori dalla merda? Da nessuna parte, datemi retta. Patrick… se l’è cercata!”
Andrea si allontanò in fretta e le voci nel corridoio ripresero a mischiarsi in un unico brusio assordante. La fiumana di studenti era sudore rappreso sulla carta da parati. La carta che veniva giù dal muro in tanti piccoli risvolti stropicciati. Strappata con le unghie da tutti i pensieri, le voglie, i denti, le mani dei piccoli allievi che di volta in volta avevano attraversato quei corridoi. Sembravano una foresta. Con tutte le creature imbronciate che camminavano. Passettini. Passettini verso altre aule, verso l’uscita, verso i bagni, verso le mense, verso altre piccole creature che a loro volta marciavano a testa bassa verso altre mille mete. Tutti con i loro rancori, con le loro lacrime di fosforo che venivano giù dagli occhi. Con i sorrisi tirati di cartapesta, tenuti saldi alle guance con grosse spille da balia arrugginite. Si riversavano sulle scale come bufali impazziti o come minuscoli scarafaggi che
toctoctoctoctoc
zampettavano un gradino dopo l’altro fino ai pianerottoli ingrigiti dal fumo delle sigarette. Non c’era scampo dalle teste compatte, anonime, senza cappelli, senza segni di riconoscimento, senz’anima. Tutti uguali. Milioni di individui che fluivano gli uni dentro gli altri e poi uscivano e si disperdevano e si ricompattavano ancora, come onde di petrolio, come maree di un fiume senza argini e senza fondo. Andrea ogni volta cercava di trovare un senso a quel disordine, con gli occhi sgranati e i rivoli di sudore che disegnavano ghirigori orientali tra la peluria delle braccia, tra le lentiggini sul naso. Si appiattì contro la parete e come ogni giorno, come ogni ora della sua vita divenne parte dell’intonaco. Scomparì alla vista di quei soldati grigi, con le spalle curve sotto i  libri, con gli occhi spenti e i nasi deformati dalle grosse lenti rotonde. Temeva di essere vista, senza contare che già nessuno la vedeva più. Forse nessuno l’aveva mai vista.  Era un topolino invisibile, un incorporeo omino di paglia, che vagabondava senza attirare l’attenzione di nessuno. Per questo si odiava un po’. Si odiava per sentire tutti quegli sguardi su di sé, quelle lame di rasoio che la sondavano fin dentro l’anima. Ma quegli occhi che Andrea temeva le passassero attraverso, balzavano oltre il suo corpo e il più delle volte si infrangevano nel nulla. Non la giudicavano perché era talmente ripiegata su se stessa da essere invisibile. Si tuffò a testa bassa nell’onda e si guadagnò l’uscita a passi piccoli, cercando di non farsi sfiorare, di non incrociare sguardi, parrucche arruffate, sopracciglia. Nessuno doveva vederla o sentirla per nessun motivo. Inspirò a fondo e ascoltò il silenzio dei suoi passi sulla scalinata. Non guardò il cielo. Non guardò il sole che occhieggiava sanguigno dietro l’orizzonte. Non guardò il traffico di macchine incolonnate. Mille lucine rosse accese che procedevano piano. Non guardò il filare di pini che costeggiava la strada. Non guardò le persone che inseguivano ad occhi chiusi la loro routine sull’asfalto, con gli occhi bassi come i suoi, forse cercando la fortuna nascosta dietro alle monetine cadute sul marciapiede, o più semplicemente nel tentativo di allontanare qualsiasi tipo di scambio con il resto del mondo.  Ora Andrea era sola. Dentro e fuori. Sola con le parole che non esistono. Quelle nella sua testa, quelle che le davano sempre ragione e che non la mettevano mai in discussione. Dentro la sua testa si sentiva terribilmente protetta, al caldo, al sicuro. E non le interessava se non aveva amici. Se nessuno le rivolgeva la parola, forse per paura che un saluto o un gesto cordiale non venisse ricambiato. Non le interessava affatto se aveva smesso di mangiare e se i suoi genitori sembravano aver smesso di preoccuparsi per lei. Se la ignoravano dalla mattina alla sera. Che provassero pure a punirla! Non le interessava e basta. Si incamminò verso casa, con le mani aggrappate alla tracolla dello zaino.
Passò i soliti incroci, le solite strade, i soliti fast-food, i soliti pub, le solite coppie che si baciavano a cavalcioni di un muretto, i soliti gruppetti di ragazzi che facevano volteggiare i coltelli con le mani, le solite lacrime sottili che a volte la raggiungevano, così senza motivo, il solito terribile mal di testa che…
“Andrea!” si fermò. Congelata. Nessuno conosceva il suo nome. Un sussurro debole le solleticò di nuovo l’orecchio.
“Andrea!” la voce sussurrante continuava. Era un piccolo verme che rosicchiava e rosicchiava e rosicchiava, che le si infilava nel cervello e rosicchiava, rosicchiava, rosicchiava. Strizzò gli occhi, due enormi globi gelatinosi che guizzarono da destra a sinistra, da destra a sinistra. Ed eccola là. Era una donna. La fissava dal patio di una gigantesca casa vittoriana. Di quelle a piccoli mattoncini rossi, con il portico di legno, le finestre a punta e il tetto spiovente. La salutava e la carne grinzosa delle mani sembrava sul punto di sgretolarsi mentre la faccia pareva una stampa vintage, di quelle disegnate, di quelle per pubblicizzare la famiglia perfetta. Quelle sorridenti e stampate. La donna le fece cenno di avvicinarsi, ma Andrea non era in vena di confidenze, quel giorno in particolare, mai in generale. La palpebra sinistra aveva cominciato a pulsare, a tremolare, a chiudersi e ad aprirsi meccanicamente, come un robot in corto circuito. Perciò si voltò di scatto e tirò dritto verso casa. La donna scosse la testa e rientrò, si chiuse la porta alle spalle, mentre quel sorriso brillante illuminava le pareti di un lungo corridoio grigio e fuori tutto diventava un po’ più scuro. 

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Capitolo 13
*** Fumo negli occhi ***


 

13. Fumo negli occhi


“Ehi.”

“Marsha…”
“che fai, neanche saluti?”
“hm…”

Marsha lo colpì piano con il gomito e si strinse nelle maglie di lana della giacca. Tirò su col naso e se lo strisciò sulla manica, portando via gli ultimi granelli invisibili di coca. Gettò la testa all’indietro, perdendo l’equilibrio sul ciglio della strada, dove i lampioni illuminavano l’asfalto bucato e incrociando i piedi per non rischiare di afflosciarsi sul marciapiede. Lì dove migliaia e migliaia di scarpe e piedi nudi e tacchi vertiginosi erano passati, avevano calpestato, avevano sorretto corpi più o meno pesanti. Lì dove erano cadute monete e banconote, lì dove volteggiavano aloni di fumo spesso e dove si stracciavano le calze a rete e dove si facevano nuove, strane conoscenze. Lì dove non si diceva di no a nessuno. Lì dove si accorreva se si aveva bisogno di non pensare o di una buona dose di sensi di colpa.

“ti prendo in giro, coglione…”

Chaz non rispose.
Davanti agli occhi, fissi lontano, forse sul marciapiede dirimpetto o forse proprio sintonizzati su un’altra frequenza, aveva stampati i pensieri. Uno dopo l’altro si davano la caccia, annegati in un accenno di lacrime. Continuò a guardare senza vedere. A fissare qualcosa in lontananza che solo il suo sguardo era in grado di percepire, come una moviola invisibile che gli scorreva davanti agli occhi. La sua testa, con i capelli neri e crespi era immersa in una nube di fumo grigiastro, mentre tra l’indice e il pollice, tra quelle due dita lunghe e nervose, strizzava il mozzicone di una sigaretta. Con una pioggia di scintille, la cicca sprofondò in una pozzanghera, per poi ritornare a galla e rimanere qualche attimo lì, immobile, a galleggiare e sfrigolare piano. Chaz si frugò nelle tasche, strisciò le mani nei jeans fuori moda; quelli a vita alta, attillati lungo le gambe magre.
Marsha sputò condensa fuori dalle labbra e incassò la testa nelle spalle, mentre a piccoli, ingenui, passi laterali si avvicinava a Chaz, al suo corpo, che come tutto ciò che è triste, malinconico, sgualcito, amareggiato, cinico e disincantato, sprigiona un’energia capace di riscaldare anche le menti e le membra più gelide. I lunghi capelli castani che le precipitavano sulle spalle in ciocche scompigliate e umide, le guance arrossate e gli occhi lucidi per le raffiche di vento gelido. Chaz sollevò un pacchetto stropicciato di Pall Mall tra le dita, sfilò l’ultima sigaretta, quella che fluttuava tra le schegge di tabacco e i pezzetti di carta velina e la strinse in mezzo alle labbra. Con una mano accartocciò il pacchetto e con l’altra…

click…

Con l’altra, grattò sulla rotella dello zippo.

Malinconica e testarda.
Puttana. Puttana che vende amore.
Mani da zingara, fine e scaltre,
unghie mangiate dalla noia e dalla malinconia…


“Chaz…” sussurrò con un filo di voce, tentando di carpire quegli occhi scuri che sembravano voler scappare via, sembravano voler essere ovunque, in qualsiasi altro posto piuttosto che lì.

“lo sai che fumi troppo?” Chaz espirò nicotina dalle labbra, osservando con le palpebre socchiuse la scia di fumo che si disperdeva contro il cielo.

“no.”

Gonna di jeans piena di strappi, scalfita, sporca di fango, di rossetto, sporca di erba e terra e smalto,
top sdrucito da quattro soldi,
un paio di occhi azzurri cerchiati di chiaro, cullati da uno strato spesso di matita nera,
rossetto viola pieno di pieghe.


Marsha gli si avvicinò ancora, sperando che Chaz non se ne accorgesse. Lui aspirò ancora, con una fitta ai polmoni. Sì, fumava troppo. Sì, anche quando si era appena accesa la decima pensava già all’undicesima, alla dodicesima sigaretta. Sì, i suoi polmoni si andavano sgretolando pian piano senza che lui potesse farci niente; senza che lui potesse farci altro che biasimare, disapprovare, criticare, procrastinare, sputare sopra le sue stesse scelte sbagliate e non prendere mai quelle giuste.

Che poi, qualcuno mi spieghi quali cazzo sono queste scelte giuste…

Sì, fumava troppo e pensava ad altro. Pensava ai cazzi suoi. Pensava a suo fratello, a Gale, da solo in una casa di cui non ricordava le pareti, il tasto per accendere la luce. A Gale che se ne stava al buio, con solo le mutande addosso, con un libro fra le mani, con un unico pensiero nella mente e fra le dita: il ricordo del piacere fisico.

E poi quel volto.
Niente trucco su quegli occhi.
Niente stivali con la punta di ferro ai piedi.
Niente tanga.
Niente alito che sa di fumo cattivo e corde vocali bruciate.
Solo una luce. Una luce strana e un paio di occhi verdi, cazzo.
O quantomeno questo era quanto Gale gli aveva detto.


Sì, pensava a Gale, come sempre, come ogni giorno, ogni mattino, ogni sera e ogni attimo, cazzo. Sì. Sì. Marsha si avvicinò ancora e lui, nonostante fosse con la testa su un altro pianeta, si scansò. Spostò il corpo in maniera impercettibile. Infastidito da quel contatto, da quelle vibrazioni non richieste. Non per il momento.

“qualcosa che non va?”

Marsha gli si fece ancora più vicina, allungò una mano a sfiorare i suoi pensieri. Forse puntava alle labbra, quelle labbra sottili, spellate, leggermente socchiuse. Labbra che ne avevano viste di tutti i colori, di tutte le consistenze. Baci, schiaffi, morsi, tirapugni. Calci arrivati di striscio durante un coro violento allo stadio, con le bandiere che sventolano e i sassi che attraversano l’aria come proiettili, che atterrano contro i crani con quel rumore di ossa friabili e sgretolate. Il graffio, ancora ben visibile, di un serramanico…

Clack…

Di un serramanico che rischiava di arrivare più in profondità.
Lite tra fratelli o presunti tali per strada. Il graffio di un serramanico che ha colpito troppo in superficie, una lama iridescente che sarebbe dovuta arrivare più giù, tra le budella marcite e i neuroni lanciati in una corsa folle, lanciati a velocità supersonica a mordersi la coda. Chaz inspirò. Inspirò e inspirò ancora. E buttò il fumo fuori dal corpo stringendo le mascelle, cercando di espellere anche tutti i brutti pensieri. Si lasciò accarezzare la ferita ancora tumida sul labbro inferiore, chiudendo le palpebre e irrigidendo ogni singolo nervo.

“cosa c’è che non va? A me puoi dirlo...” Marsha passò dalle labbra ai capelli, infilò le dita, una dopo l’altra, tra i ricci corvini. Una zaffata di profumo stratificato e scadente gli attraversò le narici.

Niente profumo marcito.
Niente profumo. Solo odore di pelle.
Chi era?
Chi era l’unico ricordo di Gale? Chi cazzo era?
Perché non lui? Perché non suo fratello. Suo fratello che lo accudiva, che lo sosteneva, lo sopportava, lo amava più di sé stesso, lo pensava ogni istante della sua esistenza inutile… lo voleva, a volte.

Dio, Cristo! Ma che cazzo stai dicendo?


Si scostò di scatto. La sigaretta gli cadde dalle labbra. Bestemmiò.
Marsha ritrasse la mano, barcollando all’indietro e aggrappandosi con le mani alla sua giacca per non cadere.

Lo strinse forte.
Lo attirò a sé con più violenza di quanta non avesse desiderato. Gli finì addosso, col fiato caldo che le innaffiava il viso, con gli occhi ad un soffio dal suo, che la fissavano non solo fuori, ma dentro… lì dove lei non aveva neanche il coraggio di infilarsi. Lì con i capelli che la inglobavano come l’acqua di una cascata, con il petto solido che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro, con quella vena sul collo che batteva veloce. No, non veloce… meno lenta, meno riflessiva, meno nostalgica. Batteva, batteva e batteva, spingendo in fuori la carne. Lì con la puzza di fumo che sentiva a malapena, con l’odore di pelle che le strisciava addosso.
Chaz la guardava con gli occhi spenti, vacui. Per un attimo era rimasto scosso da quel fremito di vita, da quel sussulto inaspettato, dall’aria che si era fatta più calda e più fredda assieme. Dalla sua vita monotona e insipida che pareva essersi per un attimo trasformata nella scintilla dell’accendino che dà fuoco alla sigaretta…

Sigaretta… vorrei un’altra sigaretta.
Una sigaretta…sigaretta…sigarettasigarettasigarettasigaretta.


Marsha l’afferrò per il bavero e gli stampò il suo rossetto caldo e pastoso sulle labbra. Sentì la sua lingua farsi strada all’interno del palato. La sentì muoversi. E allora fumo, alcool scadente, il sapore del caffè bruciato per smaltire i postumi delle sbornie, succo d’arancia, burro d’arachidi, pancake fatti in casa, burro e coca e cartine e carne. Tutti i sapori del mondo gli penetrarono in bocca e si impastarono alla sua saliva.

Quel mondo di merda, che odiava tanto, quel mondo che riusciva a vedere puro e incerto e semplice solo in Gale e nelle sue fantasie (vere o false che fossero), gli si rifaceva contro, si mischiava ai suoi fluidi senza che, come al solito potesse farci nulla. Senza che potesse farci nulla se non serrare il naso e pensare insistentemente e disperatamente alla sigaretta dopo il sesso.
Sentì una mano scivolargli verso la cintura dei pantaloni. Sentì un paio di labbra che dagli zigomi glabri passavano al collo, i lobi delle orecchie, le clavicole. Sussultò quando Marsha gli addentò piano la spalla, quando si soffermò un attimo di troppo su quella vecchia ferita.

Tlack.

Gli slacciò la cintura e i pantaloni. Bottone dopo bottone. Lo rese esausto, i nervi del collo tesi come tiranti di ferro, il cuore che strattonava le costole, i muscoli, la pelle e la bocca che faticava sempre più a restare chiusa, a trattenere  i gemiti.

Allontanò la bocca di Marsha dalla giacca slacciata e dall’apertura della maglietta che dava sul petto. La allontanò piano, sussurrando parole che non riuscì a capire bene nemmeno lui. Lei rise sommessamente, si passò una manica di lana sulle labbra e lo prese per mano.

“vieni con me…”

Chaz la seguì. Docile. Osservò i suoi capelli ballonzolarle sulle spalle, osservò gli stivali lasciare impronte bagnate sull’asfalto, la gonna alzarsi e abbassarsi sulle cosce fasciate e piene. Le spalle gobbe e quella mano, quella mano intrecciata nella sua.

Puttana.
Puttana che si vende per amore.
Che si vende per amore con me. Forse.


Non riusciva ad immaginarselo. Eppure doveva essere così. Cazzo.
La sdraiò su un letto sgualcito e sfatto, con strati di lenzuola colorate, con una vecchia coperta di plaid appallottolata in fondo.

Perché aveva sempre così freddo?

La spogliò come avrebbe fatto con un pacchetto regalo.

Il primo regalo a Gale. Una carta da pacchi lilla col fiocco giallo.

Le annusò i capelli che sapevano di alghe e sabbia che non aveva mai calpestato. Le annusò il petto che sapeva di un latte che non aveva mai dato. Le passò le unghie sulla pancia. Dieci lunghi segni rossi a circondare l’ombelico. Marsha afferrò le sbarre della testiera e si morse a sangue il labbro.

Era un libro.
Un libro di fiabe. Un libro di fiabe con le immagini, come per i bambini.


Nella penombra della stanza, tra piccoli acchiappasogni, piume, tende pesanti, conchiglie che tintinnano, quadri dipinti con le mani, spruzzi di colore senza senso, solo specchi di un’anima che forse ha tanto da raccontare, forse ha tanto da nascondere e sotterrare. Insomma, nella penombra della stanza, prima di immergersi tra le sue gambe la guardò in viso. Gli occhi strizzati, le narici dilatate, gocce di sudore che cadevano lucide dalla fronte, le sopracciglia folte aggrottate, come se fosse sul punto di piangere. La guardò e la vide per un attimo diversa.

Niente tacchi.
Niente vita per strada.
Niente passaggi obbligati da sconosciuti.
Chi era, Gale?
Chi era quella ragazza di cui mi parlavi ultimamente?
Che aveva di speciale?


Le afferrò le cosce con le braccia, le aprì e gliele fece poggiare sul materasso. Continuò a guardarla per un attimo, muovendosi lento, cercando di leggere sul suo volto delle tracce di qualcosa. Senza avere la minima idea di cosa stesse cercando di preciso.

Che aveva di speciale?
Era pulita?
Era pura, almeno un po’?


Cercò per un attimo soltanto qualche accenno di purezza, anche minimo, sulle labbra, sulle espressioni di Marsha, sui movimenti scattosi e frementi, sui gemiti frettolosi e prolungati. Lei aprì gli occhi e abbassò gli occhi su di lui.

“Chaz, ti prego…”

Era pura lei, Gale?
Era limpida?


La fece venire. La lasciò rabbrividire e gemere per un po’. Poi si sdraiò ai piedi del letto. Si tastò le tasche dei pantaloni. Si sentiva sudicio. Si tastò le tasche dei pantaloni e prese una sigaretta. Non aveva avuto neanche la forza di spogliarsi.

“sei venuto?” Marsha si era issata a sedere sul materasso. La testa scompigliata e lo sguardo lucido, le mani che tremavano ancora un po’.

“sì.” Sussurrò con un filo di voce, aprendo a malapena le labbra. Non aveva più voglia di parlare. Non ne aveva mai avuta.

Silenzio.
Gravava e covava come una serpe. Come una nube più scura di una macchia di petrolio. Solo il rumore del fumo. Inspirò anche Marsha. Inspirò ed espirò, sdraiata sul letto con la testa appoggiata alle sbarre della testiera.

“a cosa stavi pensando?”
“hm?”
“a cosa stavi pensando mentre mi scopavi?”

Lasciò trascorrere un secondo. Un secondo di silenzio rinsecchito per riflettere.

“volevo un’altra sigaretta…”

Marsha sospirò. Forse quasi sollevata.

“sicuro? Non pensavi a nient’altro? Nessun’altro, Chaz?”
“nessun’altro. Giuro.”

Gale…


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