Waltz into Darkness di Niglia (/viewuser.php?uid=29469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** Chapter 1. Pemberley Manor ***
Capitolo 3: *** Chapter 2. The Aerie ***
Capitolo 4: *** Chapter 3. Pursue the Truth ***
Capitolo 5: *** Chapter 4. The Strange Journal of Dr. Murray ***
Capitolo 6: *** Chapter 5. Curiosity Killed the Cat ***
Capitolo 7: *** Chapter 6. Someone's Walked Over My Grave ***
Capitolo 8: *** Chapter 7. Stranger Than You Dreamt It ***
Capitolo 9: *** Chapter 8. The Man with No Face ***
Capitolo 10: *** Chapter 9. Persephone Escapes ***
Capitolo 11: *** Chapter 10. For the Dead Travel Fast ***
Capitolo 12: *** Chapter 11. An Unfortunate and Deserted Creature ***
Capitolo 1 *** Prologue. ***
A Sylphs,
che mi ha fatto
scoprire il lato più "oscuro" della mia scrittura,
e senza la quale
questa storia non avrebbe visto la luce.
Questo,
fondamentalmente, è per te. :)
Prologue
Yet from those flames
No light, but rather
darkness visible.
[John Milton, Il
Paradiso Perduto, x. 62-63]
Pemberley Manor, 25 ottobre 1889.
Nora
si sforzava di trattenere i singhiozzi, ma le lacrime colavano
impietose e pesanti
come pece sulle sue guance. La treccia disfatta giaceva scompostamente
sulla
sua spalla, la camicia da notte era sgualcita e strappata nel punto in
cui lui l’aveva afferrata, e i piedi
scalzi
sanguinavano ove si era tagliata con i frammenti di uno specchio, nella
frenesia della fuga.
Tutto
era avvenuto in modo troppo rapido perché lei potesse
rendersene conto, e ogni
cosa pareva essere avvolta dalla stessa irrazionalità di un
sogno. Aveva appena
terminato di prepararsi per la notte: aveva congedato la sua cameriera,
Anne, e
aveva già soffiato sulla candela di fianco al letto,
spegnendola, quando
all’improvviso aveva udito un tremendo trambusto provenire
dal piano di sotto.
Vetri che andavano in frantumi, sedie rovesciate, vasi lanciati contro
le
pareti, e poi grida, urla, che di umano non avevano più
niente: sembravano i
versi di un maiale al macello.
Aveva
gridato a sua volta nel riconoscere le voci di suo padre e dei suoi
fratelli.
Il
primo istinto fu quello di andare da loro per sincerarsi che stessero
bene, ma
in un flebile lampo di lucidità si era resa conto che una
mossa del genere non sarebbe
stata saggia: perché offrirsi di sua spontanea
volontà come agnello
sacrificale? Allora, terrorizzata, si era precipitata a chiudere a
chiave la
porta della sua stanza.
Buon Dio, che cosa
sta succedendo?
Singhiozzava, aggrappata alla maniglia, timorosa di spostarsi, sperando
che il
suo peso contro la porta bastasse a tener lontano chiunque fosse
irrotto in
casa. Intimamente iniziava ad intuire che cosa fosse accaduto
– poteva ancora
sentire le loro grida rimbombare nelle orecchie – ma la sua
mente, il suo
cuore, non voleva accettarlo. C’era un che di terribile
nell’idea che lei fosse
al sicuro nella sua stanza mentre i restanti membri della sua famiglia
venivano
assassinati al pianterreno: se si fosse fermata a rifletterci un
istante di
troppo avrebbe strillato fino a perdere la voce, e non poteva
permetterselo. Per
quanto possibile, voleva mettersi in salvo – voleva perlomeno
provarci. Era orrendo
anche solo pensare una cosa del genere, eppure l’istinto di
sopravvivenza andava
ben oltre quello di correre come un’ingenua a morire insieme
al padre.
Poi,
così com’erano iniziate, le grida cessarono; quel
silenzio la spaventò se
possibile ancora di più, giacché qualcosa le
diceva che adesso sarebbero venuti
a cercare lei. Chiunque, nel raggio di miglia, conosceva i conti di
Pemberley,
e tutti giù al villaggio erano a conoscenza della giovane
lady che gestiva un
circolo di beneficienza in memoria della madre: era impossibile,
dunque, che
coloro che erano entrati nel maniero se ne andassero senza cercarla.
Nora chiuse
gli occhi e pregò, tra le lacrime, come se rivolgersi a una
qualche entità
invisibile potesse bastare, in quel momento.
Infine
giunse il terribile rumore attutito di passi che percorrevano il
corridoio. Era
una camminata lenta, pesante, come se il proprietario faticasse a
reggersi in
piedi e ogni passo fosse una fatica, e pur tuttavia continuava ad
avanzare,
inesorabile, verso di lei. I passi parvero volatilizzarsi una volta
giunti di
fronte alla porta della sua stanza, e per un attimo lei trattenne il
respiro,
sperando… Ma poi, tutt’ad un tratto, il
chiavistello della serratura aveva scattato
dall’esterno, strappandole un grido. Indietreggiò
rapidamente verso l’interno
della stanza mentre un’ombra si affacciava
sull’uscio – l’ombra di un uomo,
senza alcun dubbio, che camminava leggermente incurvato come se si
trovasse a
disagio nel suo stesso corpo, che ciondolava il capo come un animale e
che era
macchiato di sangue da cima a fondo, come un carnefice. Attraverso una
cortina
scarmigliata di capelli corvini, Nora aveva intravisto gli occhi rossi,
iniettati di sangue, febbrili del mostro, circondati da ombre scure,
incastonati in un volto che pareva giungere dal più profondo
e maledetto degli
inferni.
Un
volto che lei conosceva bene, poiché era stato
l’incubo della sua infanzia.
Non
ebbe neanche più la forza gridare; e non l’aveva
fatto neppure quando lui era
scattato in avanti per ghermirla, graffiandola con unghie lunghe e
sporche e
lacerando una spallina della sua camicia da notte, pur di trattenerla.
A quel
punto lei aveva raccolto gli ultimi residui di coraggio rimastole e gli
aveva
lanciato addosso il primo oggetto su cui si era posato il suo sguardo,
ossia il
pesante scrigno nel quale conservava i suoi gioielli; e, senza degnarlo
di un
secondo sguardo, approfittò della sua distrazione per
spingerlo via e sgusciare
fuori dalla camera, piangendo di sollievo quando si trovò, libera,
a scappare nel corridoio.
Eppure
il buio era pressoché totale – il maledetto doveva
essersi preso la briga di
spegnere anche i pochi lumi che la servitù teneva accesi
durante la notte –
sicché non si accorse dell’improvviso ostacolo che
parve materializzarsi in
mezzo al corridoio, in mezzo ai suoi piedi. Cadde miseramente
attorcigliandosi
con la propria camicia da notte – non aveva mai odiato prima
quel pregiato
indumento di cotone, ma adesso se lo sarebbe strappato di dosso con le
unghie
se fosse servito a rendere più agili i suoi passi
– e per un momento rimase
sdraiata a terra, scombussolata, mentre attendeva di riprendere a
ragionare con
maggior lucidità.
Si
accorse solo dopo alcuni secondi di essere caduta addosso ad un corpo.
Strillò disgustata, e in quel
momento riuscì ad intravedere qualcosa
nell’oscurità, nella penombra, qualcosa
che le permise di riconoscere le fattezze del cadavere nel quale era
inciampata. Una cuffia scomposta da cameriera, capelli rossicci, una
gola che si
apriva da parte a parte in una rossa voragine e un paio di occhi
sbarrati che conservavano
ancora l’espressione scioccata di chi ha guardato in volto il
proprio assassino.
Un groppo le si formò in gola.
«Dio
mio, Anne», gemette, tremando. Avrebbe voluto mostrarle il
rispetto che
meritava chiudendole almeno gli occhi, ma l’orrore
l’ebbe vinta su quel
desiderio. Si rimise in piedi a fatica,
sentendosi la camicia sporca di sangue; barcollò e
lanciò un’occhiata alle sue
spalle, ma il corridoio, immerso nel buio, era fortunatamente vuoto.
Non sapeva
per quanto ancora lo sarebbe rimasto, così riprese a
correre, perché correre
era mille volte meglio che rimanere ferma ad aspettare che il mostro
dell’incubo la catturasse.
La
cosa più logica sarebbe stata scendere al pianoterra ed
uscire di casa,
sperando di incontrare qualcuno nelle proprietà intorno al
maniero; ma le scale
si trovavano oltre la sua camera da letto, e per raggiungerle sarebbe
dovuta
tornare indietro, rischiando di gettarsi esattamente tra le braccia
dell’assassino. L’altra soluzione era trovare un
luogo in cui nascondersi fin
quando non fosse giunto qualcuno ad aiutarla – il resto dei
domestici non
poteva dormire ancora dopo tutto quel baccano, vero? – e a
scacciare quel
folle.
Si
infilò quindi dietro la prima porta che trovò
socchiusa, facendo attenzione a
rimetterla esattamente come l’aveva trovata per evitare di
fornire indizi sul
suo nascondiglio, e solo pochi attimi dopo dal corridoio provenne il
rumore
cadenzato dei passi pesanti del mostro che aveva ripreso a seguirla.
Mordendosi
con furia l’interno della guancia per non scoppiare in
lacrime, Nora si fece il
segno della croce e, nel buio, cercò un cantuccio dove
nascondersi. Scioccamente
ne scelse uno dietro una pesante tenda di broccato, ma era il meglio
che era
riuscita a trovare – aveva pensato anche ad andare sotto il
letto, ma se si
fosse chinato e l’avesse vista… Il cuore le
batteva così forte in petto da
farle temere che lui potesse trovarla solo rimanendo in silenzio.
Rimase
in attesa, e pregò.
«No-o-ra?» Il sangue le si
gelò nelle
vene quando udì per la prima volta la sua
voce cantilenante, diversa da come la ricordava eppure inequivocabile,
provenire da un punto imprecisato del corridoio. «Nora, dove
sei? Dove sei,
dolce sorella? Ti nascondi? Vuoi giocare con il tuo fratellino? Bene,
allora…
Sto venendo a prenderti…»
Istintivamente
la ragazza trattenne il respiro, cercando di non fare nessun movimento,
sperando che la tenda fosse abbastanza lunga e spessa da nasconderla
agli occhi
del folle che la stava inseguendo e che presumibilmente aveva
già ucciso il
resto della sua famiglia.
«Pensi
di poterti nascondere per sempre? Qui, in casa mia?
O speri di poter scappare? Ormai nessuno verrà a
salvarti…»
Non
si soffermò sul senso delle sue parole: non udiva niente,
fuorché il rumore
della sua voce raschiante; si limitò a chiudere gli occhi e
rafforzare le sue
preghiere, silenziosamente, recitando tutti i salmi e i canti e le
invocazioni
che le erano stati insegnati. Cercare di non farsi scappare il
più piccolo
singulto era un’impresa terribilmente difficile.
Nel
frattempo, lui aveva ripreso a parlare.
«Ma
guarda… Non è forse la camera da letto del conte,
questa? E quello… non è il
ritratto della cara, compianta contessa, là, sopra il
camino? Mi chiedo che
cosa penserebbe adesso, se vedesse in che condizioni versa la sua
casa… il
conte e i suoi figli l’hanno già raggiunta, sai?
Ma dubito che finiranno nello
stesso luogo dove è lei…» Malgrado lo
scherno grondante dalle sue parole, nel
nominare la defunta Lady Rochester qualcosa nella voce del ragazzo
s’incrinò,
ed egli rimase in silenzio così a lungo da far credere per
un attimo a Nora che
potesse essersene andato.
Ma
no, sentiva il suo respiro roco, ansimante – lì,
farsi sempre più vicino a lei…
Una
mano l’afferrò all’improvviso con forza
inusitata, strappandole un grido mentre
veniva trascinata fuori dal suo nascondiglio, alla completa
mercé del mostro.
«Trovata»,
soffiò, a poche spanne dal suo volto atterrito.
Nora
sollevò le mani e cercò di colpirlo alla cieca,
gli occhi serrati con forza –
l’ultima cosa che voleva vedere era il suo orrido viso
– le mani arcuate come
artigli, ma ottenne l’unico effetto di farlo infuriare di
più; inoltre, non era
riuscita a sfiorarlo neppure con la punta di un dito. Per
l’amor di Dio, come poteva essere così forte?
«Sono
ancora indeciso sul tuo destino, mia cara, dunque ti consiglio di non
rendermi
facile la scelta», ringhiò, scrollandola e
strattonandole il braccio.
«No,
no… Ti supplico, ti scongiuro… pietà…»
Gli
occhi del giovane si strinsero ancora di più.
«Pietà? Con quale coraggio
implori pietà, adorata sorella? Intendi forse quella stessa
pietà che né tu, né
i tuoi fratelli, né tantomeno tuo padre mi ha mostrato?
Parli della pietà che
il povero Edgar ha dimostrato, rinchiudendo il proprio figlio nel
sottotetto e
negando al mondo la sua esistenza, per poi venderlo come un animale,
no!, come
cavia da laboratorio, pur di non averlo più intorno? Intendi
quella pietà, mia cara?» La sua
voce era
sibilante e roca, il tono basso e pericoloso, e Nora era pietrificata.
«Oh
Dio, Dio mio, Adam, ti prego…»
Una
mano le afferrò la treccia con furia, strattonandola ancora
fino a estorcerle
un grido. «Guardami!» Le intimò,
furioso. Lei gemette, eppure socchiuse gli
occhi umidi e li puntò coraggiosamente in quelli del
giovane. «Io non sono Adam»,
sibilò lui, con feroce soddisfazione. Godette, nel vederla
impallidire ancora
di più. «Il mio nome è Faust.»
«Cosa,
io… non capisco…» Balbettò
tremante, la testa ancora piegata all’indietro,
incapace di distogliere lo sguardo da quel volto orrendo anche se
l’avesse
voluto.
Il
ghigno fu mostruoso sulle sue labbra. «Non è
necessario che tu capisca»,
ribatté; quella voce le metteva i brividi. «Voglio
solo un po’ di giustizia,
capisci… Ma tu, tu, in che
modo potresti servirmi? In fondo la tua unica colpa è quella
di essere stata
tanto stupida da lasciarti traviare dai tuoi adorati
fratelli… Vi divertivate a
torturare l’altro, non è
così? A picchiarlo,
a deriderlo, come se non foste dello stesso sangue… Adam si
ricorda di come
ridevi, di come ti piaceva quel piccolo gioco!» Con un dito
percorse i lineamenti
del volto di Nora, lentamente, studiandoli con meticolosità
chirurgica. «Il che
mi porta a considerare che anche tu hai avuto le tue parti di colpa,
cara
sorella. Posso chiamarti così, non è vero?
Dopotutto siamo molto intimi io e
Adam, davvero molto, molto intimi… Potresti quasi dire che
nessuno lo conosce
meglio di me! Ed è per questo motivo, vedi, che
sarò io ad avere il piacere di
vendicarlo», aggiunse, stavolta con un tono pacato, quasi
ragionevole, come se
stesse spiegando i rudimenti della matematica a un bambino.
Inevitabilmente,
a Nora sfuggì un singhiozzo. «Ti prego, ti
prego, io non ho fatto niente, non ho mai voluto… non
sapevo…»
«Ma
capisci, è proprio questo il punto! Tu sapevi,
mia cara! Sapevi, come d’altronde sapevano tutti in questa
casa… ma adesso,
grazie a me, nessuno sa più nulla. Ho provveduto
personalmente… E adesso è arrivato
il momento di pagare anche per i tuoi peccati, sorella»,
sibilò ancora,
avvicinandole la bocca all’orecchio.
«No,
no, no… No!» Con un urlo
disperato Nora
si ribellò, cogliendo il mostro tanto impreparato che la
lasciò andare di
scatto, come se si fosse bruciato. La ragazza finì per
terra, ma si rialzò
quasi subito inciampando sull’orlo della sua stessa camicia
da notte: lo fissò
come se avesse voluto aggredirlo, benché sapesse
perfettamente di non essere in
grado di affrontarlo in una lotta così impari –
eppure lui ricambiò lo sguardo come
se la considerasse capace di un gesto simile.
«Preferisco
uccidermi da sola piuttosto che darti la soddisfazione di completare la
tua
vendetta!» Strillò, gli occhi che brillavano di
una luce invasata, folle. Era impazzita.
Quello
che accadde dopo Faust non riuscì a prevederlo,
né tantomeno ad evitarlo. Nora gli
diede le spalle e corse verso la finestra, spaccando il vetro sottile
con la
forza del suo slancio e precipitando nel vuoto senza neppure un gemito.
Il boato
del cristallo che andava in frantumi rimbombò nelle sue
orecchie come l’eco di
un tuono, e solo dopo, quando udì il tonfo del corpo che
toccava terra, riuscì a
muoversi di nuovo.
Ancora
piuttosto scioccato, egli si affacciò alla finestra,
aggrappandosi al telaio
dal quale spuntavano pezzi di vetro taglienti come lame e guardando
giù: il
corpo di Eleanore Rochester giaceva scomposto come una bambola rotta
sull’erba
bagnata dalla rugiada notturna, circondato da frammenti di cristallo,
una
macchia bianca su un prato nero. Il collo era piegato in una posizione
innaturale, e gli occhi sbarrati, aperti verso il cielo, sembravano
piantarsi
nelle profondità stesse della sua anima.
Su,
nello studio, il mostro indietreggiò debolmente, osservando
senza vederle le
proprie mani grondanti sangue, lo stesso che gocciolava
dall’intelaiatura della
finestra. Non riuscì a trattenere un conato, e
inginocchiandosi per terra
riversò l’esiguo contenuto del suo stomaco sul
tappeto. Lo sforzo, seppur
minimo, lo indebolì al punto da lasciarlo infreddolito e
tremante, e quando si
rialzò, a fatica, cercando di reggersi sulle sue gambe, lo
specchio che si
trovava sopra una cassettiera gli restituì
l’immagine di Adam e non più quella
di Faust.
Il
mostro lo aveva abbandonato quando più aveva bisogno di lui.
Gli lasciò
l’incombenza di occuparsi di suo padre, dei suoi fratelli, di
sua sorella,
mentre lui rimaneva rintanato chissà dove, come un serpente
dietro un sasso, in
attesa di tornare nel momento più impensato.
Adam
aveva cercato di restituire una parvenza di dignità a quella
famiglia che non
lo aveva mai voluto né tantomeno amato, sistemando i corpi
senza vita sui
divani con una cura maniacale che aveva parvenze di follia, posando
addirittura
un libro tra le mani del padre e dei fiori tra quelle di sua sorella.
Dopodiché
aveva appiccato il fuoco, ed era rimasto a guardare.
_______________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Appena finito una
storia e ne inizio già un'altra... yeah, chiamatemi pure
folle, ma cosa ci vogliamo fare? Ormai dovreste aver capito con chi
avete a che fare :D
Scherzi a parte, benvenuti in questo nuovo esperimento! Vi ho
incuriositi, mh? Almeno un pochetto? *-*
Se sono
approdata in questa sezione, il merito (o la colpa, deciderete voi :p)
va alla mia cara, carissima Sylphs,
che anche da poco mi ha detto che dovevo assolutamente inventarmi un
"mostro" tutto mio; e siccome questa idea mi turbinava in mente
già da un po' - e ci ho lavorato parecchio prima di riuscire
a trovare un qualcosa di definitivo - alla fine non ho resistito e ci
sono cascata... Così, eccomi qua :D [Ad ogni modo, andate
anche a leggere del suo, di "mostro": storie del genere non devono
rimanere in un angolo della soffitta a prendere muffa, per cui correte,
su!]
Come già accennato nell'introduzione, diverse opere hanno
ispirato questa storia. In particolar modo, devo assolutamente citare:
- Il fantasma dell'Opera,
di Gaston Leroux
- La Bella e la Bestia,
Disney e Beaumont
- Frankenstein,
di Mary Shelley
- The Others,
di Alejandro Amenábar
- Follia d'amore e
d'oscurità, di Sylphs (x)
- Downton Abbey,
serie TV
- Lo strano caso del
Dr. Jekyll e di Mister Hyde, di Robert Louis Stevenson.
(Per quanto riguarda le altre influenze bisogna prenderla con Edgar
Allan Poe, Victor Hugo, Andrew Lloyd Webber, film, libri, musical e
soggetti con maschere vari.)
Quindi sì, insomma, aspettatevi roba del genere. Okay, detto
questo... Niente, credo che per ora lascerò così.
Spero che qualcuno voglia imbarcarsi insieme a me in questa ennesima
avventura - sono sempre parecchio emozionata quando pubblico il primo
capitolo di una long e straparlo, non fateci caso - e nell'attesa vi
lascio! Alla prossima carissimi, grazie di essere passati per di qua -
per uscire seguite pure il sentiero luminoso.
Baci e abbracci, dalla vostra
Niglia.
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Capitolo 2 *** Chapter 1. Pemberley Manor ***
1.
Pemberley Manor
North
Yorkshire,
settembre 1904.
Il
rumore violento del treno che sferragliava sui binari accompagnava il
silenzioso viaggio di lady Emma Moore.
Erano
trascorse cinque settimane dalla scomparsa di lady Grantham, portata
via dalla
consunzione in poco meno di un anno; tutta Hambleton Abbey era stata
messa a
lutto, dalle livree della servitù alla carrozza e ai cavalli
del padrone di
casa, e in ogni stanza della magione la presenza del nero era
così soffocante e
carica d’angoscia che lord Grantham, pur non volendosi
separare dalla figlia,
pensò bene di spedirla a trascorrere il lungo periodo del
lutto in campagna, in
una sua proprietà acquistata da poco. Il conte si sarebbe
dovuto trasferire per
qualche mese nella capitale dove lo attendeva la gestione dei suoi
affari, e se
la figlia non fosse partita a sua volta sarebbe dovuta rimanere da sola
in una
tetra Hambleton Abbey; per questo egli ritenne che potesse essere
più facile
per lei affrontare la morte della madre, a cui era tanto legata, senza
doversela vedere rammentare ogni volta che i suoi occhi si posavano su
un
oggetto qualsiasi della propria casa. Miss Jane Radcliffe,
l’istitutrice della
ragazza, non era parsa molto d’accordo con la decisione presa
dal suo datore di
lavoro; e tuttavia, proprio per via del suo ruolo, non osò
contraddirlo,
limitandosi a far preparare i bagagli per sé e per la sua
allieva in vista del
lungo viaggio che le attendeva.
Così
adesso le due donne si trovavano in viaggio, in uno scompartimento
riservato
solamente a loro, entrambe vestite di nero dalla testa ai piedi e con
l’unica
compagnia di un cucciolo di neanche un anno di Epagneul Breton, regalo
di lady
Grantham alla figlia per l’ultimo Natale che avevano
trascorso insieme. A causa
di una recente lettura appena terminata, Emma aveva battezzato
l’animale Aramis, il che gli era valso
anche
l’affettuoso appellativo di piccolo
moschettiere affibbiato da lord Grantham; tuttavia il
cucciolo non pareva
avere intenzione di partecipare a chissà quale duello,
accucciato com’era ai
piedi della sua padrona con tutta l’aria di chi ha fatto
dell’ozio lo scopo
della sua esistenza.
Con
un sospiro, Emma chiuse il libro che stava cercando inutilmente di
leggere, un
po’ per il movimento ondeggiante del treno che la nauseava e
un po’ perché la
sua mente era impegnata altrove. Non poteva dire di non aver cercato di
opporsi
alla decisione del padre di allontanarla da casa – non
sopportava l’idea di
saperlo da solo prima della partenza per Londra, pur con la presenza
della
servitù, mentre si aggirava nelle stanze di
un’immensa dimora pregne della
presenza della moglie e cariche di ricordi di ogni genere –
ma il lord era
stato irremovibile, e neppure piangere e scongiurarlo era valso a
qualcosa.
«Sarà
meglio per la tua salute fisica e mentale andare in un luogo
più tranquillo»,
le aveva detto a cena con tono pacato, prendendo il discorso
all’improvviso
sotto lo sguardo scioccato dell’istitutrice. «Con
la Stagione conclusa non
avrebbe senso farti venire con me a Londra, e in ogni caso a causa del
lutto non
avresti nulla da fare. Io andrò in città per un
po’ a gestire i miei affari, e
poi forse ti raggiungerò per Natale nello Yorkshire. La
campagna ti piacerà, vedrai,
ce l’hai nel sangue come ce l’aveva tua madre.
Potrai finalmente prendere un
po’ di respiro dopo l’angoscia di
quest’ultimo periodo…»
Aveva
provato a ribattere, a interromperlo, ma a lui era bastato sollevare
una mano
per metterla a tacere. «Basta, Emma, non è una
decisione che puoi discutere. Lo
faccio per il tuo bene. Ho già preso accordi con i tenutari
di Pemberley, tu e
Miss Radcliffe potrete partire lunedì stesso.» Era
stato irremovibile e sordo a
qualsiasi supplica.
Dal
canto suo, Emma si era comportata come ci si aspettava che una
signorina di
buona famiglia si comportasse: benché fosse impallidita e le
sue labbra si
fossero assottigliate in una smorfia, aveva contenuto la rabbia, la
delusione e
la tristezza, aveva mormorato un «Come desideri,
papà», aveva chiesto scusa e
si era ritirata nelle sue stanze. A quel punto, da sola, si era sfogata.
Adesso
riusciva quasi a figurarselo, in piedi a fissare instancabilmente il
ritratto
di lady Grantham che occupava il posto d’onore nella
biblioteca, sopra il
camino, con un bicchiere di liquore in una mano e un sigaro tra le
labbra. Lei
sarebbe dovuta essere al suo fianco, maledizione, a piangere insieme a
lui o a
confortarlo, e non in quel maledetto treno diretta Dio solo sapeva dove!
Solo
più tardi, quando si era calmata abbastanza da poter tornare
a pensare
lucidamente, aveva rammentato che, oltretutto, in quel modo non avrebbe
rivisto
Cal per un tempo indefinito, andando contro a tutte le regole di buone
maniere
ed etichetta che le erano state inculcate sin da quando aveva imparato
a reggersi
da sola sulle sue gambe. Infatti, pur con l’onnipresente Miss
Jane, dubitava
che suo padre avrebbe dato il permesso al giovane Caledon T. Hardy,
futuro duca
di Suffolk e suo fidanzato, di andare a trovarla mentre si trovava in
quella
località sperduta in mezzo alla campagna. Quando gli aveva
chiesto che cosa
aveva intenzione di fare in proposito, l’unica replica di
lord Grantham era
stata: «Gli manderò un telegramma per avvisarlo
della mia decisione. È un
ragazzo a modo e di buona famiglia, capirà la situazione e
non se ne avrà a
male.»
Non
che Emma fosse preoccupata di sentirne la mancanza – non era
innamorata di Caledon,
non ancora perlomeno: si erano visti soltanto in occasioni
accuratamente
organizzate e mai da soli, sempre alla presenza di qualche chaperon.
Tuttavia
erano stati presi degli accordi per quelle nozze quando sua madre era
ancora in
grado di occuparsi di simili questioni, e da parte sua la figlia era
convinta
che rispettare la parola data fosse un gesto estremamente importante,
per non
parlare poi del fatto che rinunciare a quel fidanzamento da un giorno
all’altro
le avrebbe irrimediabilmente macchiato la reputazione. Senza contare
poi che la
famiglia Hardy rientrava nella cerchia dei loro amici più
stretti, e che era
sempre stato il sogno di entrambe lady Hardy e lady Grantham quello di
far
unire i propri eredi, un giorno, in matrimonio. Emma non aveva mai
smaniato
dalla voglia di farlo, ma adesso che sua madre non c’era
più le sembrava un
modo di onorarne la memoria, quello di esaudire un suo vecchio
desiderio.
Emma
distolse lo sguardo dal paesaggio che scorreva rapido al di
là del finestrino
per posarlo sulla sua istitutrice, che ormai dormicchiava beata da
quando
avevano superato il confine della contea di Northumberland. La sua
attenzione
si focalizzò casualmente sui capelli della donna, un tempo
di uno splendido
corvino, che avevano iniziato a sbiadire sulle tempie, diventando via
via più
chiari fino a raggiungere, in alcuni punti, il tanto temuto bianco.
Emma non
avrebbe saputo dire con certezza quale fosse l’età
di Miss Radcliffe, benché la
conoscesse sin da bambina: da quando la donna aveva raggiunto la soglia
dei
quarant’anni, per una sua scelta ad Hambleton Abbey si era
cessato di festeggiare
i suoi compleanni, e ciò accadeva ormai da diverso tempo.
Tuttavia non aveva
molte rughe, le sue mani erano ancora lisce e forti, e possedevano quel
vigore
che ancora le permetteva, talvolta, di bacchettare la sua allieva
quando
sbagliava a leggere le note del pentagramma. Per quanto da piccola
l’avesse
odiata per la sua severità, adesso che aveva raggiunto la
soglia dei vent’anni
Emma si scoprì a riflettere che certe volte, per come usava
comportarsi, si
sarebbe punita anche con maggior durezza; e d’altra parte
adesso che la sua studentessa
aveva raggiunto la maggiore età e una maggiore
maturità, Miss Radcliffe stessa
aveva cessato di essere rigida e inflessibile come quando lady Moore
era
piccola, arrivando persino ad ammorbidirsi e a cedere ogniqualvolta le
veniva
chiesta una pausa tra le lezioni.
La
signorina Radcliffe aveva persino sostituito la figura di lady Grantham
nella
vita di Emma nel tetro periodo della prima infanzia della bambina,
quando la
madre era entrata in depressione a causa dell’incidente che
si era portato via
la sua figlia primogenita, Lizzie, una ragazzina di appena sedici anni;
tuttavia, una volta che la contessa ebbe superato il profondo
malessere, il
rapporto con la figlia si era stretto in un modo che né Miss
Radcliffe né il lord
avrebbero immaginato fino a qualche tempo prima. Le due erano
inseparabili, la
piccola non faceva nulla senza prima consultare la madre e piangeva
terribilmente tutte le volte che la donna si assentava per partecipare
agli
incontri che la società imponeva durante la Stagione; il
loro legame era
talmente intimo e profondo al punto che, una volta che Emma fu
diventata donna a
tutti gli effetti, non era impreparata all’evento come invece
lo era stata a
suo tempo la madre, che all’epoca aveva cercato di nascondere
alla servitù le
macchie di sangue che apparivano temporaneamente nei suoi indumenti,
terrorizzata dall’idea di essere prossima alla morte. Miss
Radcliffe, che prima
di Emma aveva avuto modo di insegnare ad altre bambine, ripeteva spesso
che
nessuna delle sue precedenti allieve avrebbe mai potuto vantare un
simile
rapporto con le proprie genitrici – che, al contrario,
venivano viste come
creature estranee alle quali bisognava rivolgersi con una referenza e
una
timidezza quasi obbligatorie. A quel punto lord Grantham ribatteva
sempre che
era lieto che la spensieratezza e l’affettuosità
della moglie, provenienti di
certo dall’ambiente modesto in cui era nata e cresciuta, si
riflettessero sul
rapporto che nutriva con la figlia.
Nulla
di strano dunque che adesso, dopo appena più di un mese
dalla scomparsa di Lady
Grantham, Emma fosse ancora così scossa e stentasse a
prendere sonno, la notte.
Il
loro viaggio si avviava alla sua conclusione dopo due giorni di
tragitto, quando
giunsero infine alla stazione di Alnwick: qui, come da precedenti
accordi, era
stata inviata una carrozza a prenderle. Un fattorino si
occupò di trasportare i
loro bagagli – due bauli, tre valige e alcune cappelliere:
lord Grantham ne
avrebbe spedito altre nei giorni seguenti con qualche treno merci, dato
che
Emma non aveva avuto il tempo di impacchettare tutto e non sarebbe
stato molto
elegante per due donne viaggiare con così tanta roba
– e di caricarli sul
calesse, qui aiutato dal vetturino, un signore completamente vestito di
nero e
del quale si vedeva solo la parte superiore del viso da quanto era
infagottato.
Quando le vide arrivare, abbassò la sciarpa e il bavero del
cappotto per poter
parlare, mostrando il volto barbuto e segnato di un uomo la cui
età poteva
ondeggiare dai cinquanta ai settant’anni.
«Lady
Moore, suppongo? Sono il signor Duncan, il custode di Pemberley
Manor.» Si
presentò gentile, con una voce bassa e rauca e un accento
macchiato da qualche
inflessione dialettale. Poi si voltò verso miss Jane,
aggrottando la fronte in
evidente difficoltà. «E voi dovete
essere…»
«Miss
Radcliffe, l’istitutrice di lady Moore», rispose
gelida, leggermente piccata
per non essere stata riconosciuta. La sua mano si strinse nervosamente
intorno
al guinzaglio di Aramis per impedirgli di andare ad infastidire i
cavalli
sbuffanti, ma l’animale tirava e tirava rischiando di farle
perdere l’equilibrio
e inciampare tra le gonne; alla fine, la donna avrebbe volentieri
lasciato la
presa se il vetturino non avesse avuto la prontezza di afferrare il
laccio del
cucciolo prima che questi scappasse via.
Emma
intervenne prima che la donna più anziana potesse dare in
escandescenze.
«Liete
di conoscervi, Mr. Duncan. Possiamo partire? Vorrei arrivare prima che
faccia
buio», disse in fretta, prendendo sottobraccio
un’irritata Miss Jane e
guidandola verso il predellino della carrozza.
«Grazie
a Dio non è uno di quei trabiccoli senza cavalli»,
borbottò l’istitutrice,
accettando la mano del signor Duncan e salendo nella vettura subito
seguita da
uno scodinzolante Aramis.
«Grazie»,
si limitò a dire invece Emma, salendo a sua volta aiutata
dall’uomo e sparendo
dietro lo sportello del landau. Avrebbe dovuto tenere per sé
il fatto di
adorare i phaeton senza cavalli che stavano prendendo piede a Londra
tra i
giovani più eleganti e all’avanguardia: Miss
Radcliffe non era molto aperta a
quelle innovazioni, e non l’avrebbe sopportato.
Il
tempo non si dimostrò essere dalla loro parte e piovve quasi
lungo tutto il percorso
finale, costringendo Mr. Duncan a far andare piano i cavalli di modo
che le
ruote della carrozza non slittassero sul terriccio infangato e bagnato
della
strada o, peggio, finissero in un fosso. Il sentiero per il quale
stavano
procedendo si snodava serpeggiante in mezzo a un bosco, dove la
già debole luce
del giorno penetrava a fatica tra i rami frondosi e
l’oscurità era causata in
parte dalla fitta nebbia che aleggiava grondante sul terreno.
All’interno del
veicolo, Emma e Miss Radcliffe si erano sedute sullo stesso sedile per
cercare
di riscaldarsi il più possibile, mentre Aramis rimaneva
accucciato sul sedile
di fronte a loro e sollevava di tanto in tanto la testa per sbuffare
contro
l’acqua che picchiava sul finestrino.
«Vostro
padre l’aveva detto», esordì Miss
Radcliffe dopo un lungo silenzio.
Emma
si riscosse dal suo torpore, spostando l’attenzione sulla
donna al suo fianco.
«Che cosa, miss Jane?»
«Che
il tempo quassù è inaffidabile. Si passa dal sole
alla pioggia in un battito di
ciglia, senza che nulla lasci presagire il repentino cambio di
atmosfera… Non
so se il mio fisico reggerà a lungo»,
borbottò innervosita, prima di seppellire
uno starnuto in un fazzoletto a scacchi.
«Sono
certa che ci abitueremo», replicò la giovane,
conciliante. «E voi non siete
obbligata a rimanere all’aria aperta se non lo desiderate,
miss.»
La
donna annuì, palesemente sollevata. «Questo
è certo, signorina.»
Emma
sospirò, stringendosi addosso la coperta di lana.
«Non vedo l’ora di arrivare…
Sono proprio stanca di stare seduta. Mi sembra di essere in viaggio da
una
vita», mormorò, tornando ad osservare fuori dal
vetro della carrozza: in quel
frangente era l’unico modo che aveva di passare il tempo,
come del resto aveva
fatto nei precedenti due giorni.
«Spero
che la servitù abbia già preparato le nostre
stanze, così non dovremo aggirarci
per la casa a prendere freddo», fu il seccato commento di
Miss Radcliffe, che
tendeva a diventare parecchio insofferente quando la sua sacra routine
veniva
così brutalmente messa a soqquadro.
«Credo
che in tal caso mi addormenterei su un qualsiasi divano», le
sorrise Emma,
riuscendo a placarla.
Chiacchierarono
ancora un po’ di ciò che si aspettavano o
speravano di trovare nella misteriosa
Pemberley, ma poi la stanchezza ebbe la meglio
sull’istitutrice che si appisolò
raggomitolandosi contro l’angolo del sedile, cullata dal
movimento del veicolo.
Così Emma intrecciò le mani in grembo e
lasciò vagare lo sguardo distratto
sulla campagna nebbiosa e piovigginosa che si estendeva
tutt’intorno a loro,
senza fine.
Trascorsero
un paio d’ore prima che la carrozza raggiungesse finalmente
la proprietà.
La
casa nella quale lady Moore avrebbe alloggiato per i successivi mesi, e
che
sarebbe stato più preciso definire castello, si stagliava
cupa e imponente
contro un cielo grigio e gravido di pioggia, con un’aria
persino vagamente
minacciosa. Grande il doppio di Hambleton Abbey, era abbarbicata su una
piccola
collina che sovrastava la vallata circostante, attorniata da querce e
faggi che
un giorno avrebbero finito per ricoprirla del tutto e inghiottirla tra
i loro
rami frondosi. Quasi l’intera facciata della magione era
ricoperta da una fitta
rete di edera spoglia marrone, che in alcuni punti aveva già
perso le foglie e
lasciava intravedere i mattoncini di un bianco sporco, anneriti sotto
il tetto
come per conseguenza di un incendio, tipici di una casa costruita
nell’ultimo
ventennio del diciottesimo secolo. Le finestre, alcune delle quali
inchiodate,
erano quasi tutte alte e strette, ermeticamente chiuse da scurini di
legno
sbiadito dal sole, che necessitavano di una nuova mano di pittura. Le
tegole
erano nere laddove non mancavano, e sul profilo del tetto si potevano
contare
ben nove comignoli in pietra solo sul lato principale della facciata.
Vedendola,
Emma comprese per quale motivo lord Grantham avesse deciso di
acquistarla: era
proprio il genere di edifici che gli piacevano, appassionato
com’era di storia
e antichità, eppure allo stesso tempo non poté
fare a meno di domandarsi,
preoccupata, se suo padre avesse intenzione di ristrutturarla o se
preferisse
lasciarla in quello stato decadente. Se così fosse stato,
infatti, dubitava che
avrebbero mai potuto invitare degli ospiti in quella magione, una volta
terminato il periodo di lutto, a meno di non finire in pasto alle
perfide malelingue
londinesi.
I
cavalli proseguirono trotterellando verso il patio, memori della
strada, e si fermarono
docili quando il signor Duncan tirò le redini; il landau si
arrestò piano sulla
ghiaia e Miss Radcliffe tornò nuovamente in vita,
riscuotendosi con un gemito e
stropicciandosi gli occhi. Mr. Duncan venne subito ad aprire loro lo
sportello
e porse una mano prima ad Emma e poi alla donna più anziana
per aiutarle a
scendere, e la giovane, seguita da Aramis che trotterellava dietro di
lei,
corse a ripararsi sotto il porticato senza prestare più
molta attenzione all’enorme
maniero. Il breve tratto bastò a far sì che si
inzuppasse fin dentro le ossa, e
se avesse avuto un briciolo di educazione in meno avrebbe imprecato
come aveva
sentito fare diverse volte alle domestiche di Hambleton Abbey.
Al
suo arrivo a Pemberley Manor si aspettava che la servitù
fosse pronta a
riceverle, e invece sul portone d’ingresso, a pochi passi da
lei, si trovavano
solo due donne dall’aria piuttosto informale: dal modo in cui
era abbigliata la
più anziana, Emma dedusse che doveva trattarsi della
governante, mentre
l’altra, la ragazza piccola e robusta con lo sguardo fisso a
terra, sembrava
più una sguattera o una cameriera. Non che le importasse,
non era una fanatica
delle convenzioni, ma se avesse ricevuto un’accoglienza un
po’ più calorosa di
certo avrebbe sentito meno la stanchezza del viaggio. E, dal modo in
cui la
signorina Radcliffe marciò decisa e impettita fino a
raggiungerla, incurante di
essere a sua volta fradicia come un pulcino, sembrava che la pensasse
esattamente come lei.
«Lady
Moore, che piacere incontrarvi per la prima volta!»
Esclamò la governante
riscuotendosi dalla sua immobilità, reggendosi la gonna per
scendere con non
poca fatica i gradini del portico e avvicinarsi a Emma.
«Permettetemi di
presentarmi: sono Mrs. Duncan, la governante di Pemberley, e lei
è Lydia, la ragazza
tuttofare.» Aggiunse accennando un breve inchino; Emma vide
la ragazza pochi
passi più indietro fare lo stesso con la medesima mancanza
di tecnica, e si
convinse di una cosa: a Pemberley non sembravano molto abituati ad
avere
ospiti.
Malgrado
gli strani presentimenti e la stanchezza del viaggio, Emma si
ritrovò a
sorridere – o forse si sforzò solo di farlo.
«È un piacere conoscervi, Mrs.
Duncan», rispose garbata, prima di fare a sua volta le
presentazioni. «E… siete
per caso imparentata con il signor Duncan?»
«Oh,
sì, sono sua moglie, milady», confermò
la donna, annuendo e lasciandosi andare
a un sorriso un po’ meno nervoso.
«Dov’è
il resto della servitù?» Sbottò Miss
Radcliffe con aria terribilmente indignata,
guardandosi intono come se si aspettasse di veder saltare fuori da
dietro le
colonne una schiera di personale tale da far invidia a Hambleton Abbey.
Emma le
lanciò un’occhiata, sorpresa da quei modi, e
scosse appena la testa, mentre
Mrs. Duncan arrossiva leggermente dall’imbarazzo.
«In
realtà siamo noi l’unica servitù
attuale, signorina Radcliffe», spiegò la donna
con voce bassa ma perlomeno non tremante. «Ma vi prego,
entriamo in casa. Qui
si congela e sarete stanche, vorrete di sicuro riposarvi dopo il lungo
viaggio», riprese, facendo loro strada verso
l’ingresso. Prima di proseguire si
voltò e si rivolse alla ragazza, gentile ma inflessibile:
«Lydia, aiuta il
signor Duncan a portare dentro i bagagli.»
La
cameriera fece ciò che le venne ordinato, tirandosi su il
colletto della divisa
e raggiungendo l’uomo. Lady Moore e Miss Radcliffe si
scambiarono un ulteriore
sguardo, dopodiché seguirono la signora Duncan
all’interno del maniero.
«Sua
Signoria non ne sarà per niente soddisfatto, signorina,
lasciate che ve lo
dica», mormorò l’istitutrice
borbottando. La giovane aristocratica socchiuse la
bocca per rispondere, ma all’ultimo momento dovette ritenere
più opportuno
mordersi la lingua; prima di varcare la soglia Emma si voltò
dunque a cercare
Aramis, che era rimasto indietro e che non pareva intenzionato a
seguire la sua
padrona.
«Aramis,
vieni qui», lo chiamò lei, battendo una mano sulla
gonna. Tuttavia l’animale
sbuffò e ringhiò a fauci strette contro la casa,
la coda bassa e rigida, il
pelo ritto: sembrava improvvisamente terrorizzato e nervoso, e di
conseguenza
anche Emma si preoccupò – raramente aveva visto
Aramis comportarsi in quel modo. Lo raggiunse e si
accovacciò al suo fianco, attirandone l’attenzione
con delle confortanti
carezze dietro le orecchie e mormorando con voce bassa e pacata parole
senza
senso per tranquillizzarlo. Alla fine, benché non del tutto
placato, il
cucciolo riprese ad agitare lentamente la coda e perse
rigidità, e Emma lo
interpretò come un segno che fosse tutto a posto: era
probabile che Aramis si
fosse innervosito per l’arrivo nella casa nuova, magari aveva
solo bisogno di
familiarizzare con il territorio per potersi sentire a suo agio.
Eppure
le rimase una strana sensazione addosso quando entrò
finalmente nella grande
abitazione, e per un attimo le mancò il respiro quando il
pesante portone di
legno massiccio si richiuse alle sue spalle.
Mrs.
Duncan aveva un’età che si aggirava intorno ai
sessant’anni.
Alla
tenue luce offerta dalle candele e dal camino, Emma poteva osservarla
meglio e
notare dettagli che prima, sotto il buio porticato della magione, le
erano
sfuggiti: Mrs. Duncan era una donna sottile, dal fare materno, forse
all’apparenza un po’ troppo rigida e severa, ma
queste ultime caratteristiche
erano necessarie per poter governare un’enorme abitazione
come Pemberley. I
folti capelli grigi erano tenuti accuratamente acconciati e raccolti
sulla nuca
e una mano dalle dita lunghe e segnate dalle rughe li sfiorava di tanto
in
tanto come per accertarsi che non un ciuffo fosse fuori posto.
Indossava una
modesta gonna nera, una camicia color avorio con il colletto rigido in
pizzo
come la moda dettava e i polsini chiusi da piccoli bottoncini neri, e
come
unico monile una spilla d’argento appuntata sul petto,
probabilmente un qualche
cimelio di famiglia. Una fede d’oro era l’unico
gioiello che si era permessa.
Tale
aspetto austero era però stemperato dal sorriso gentile che
la donna continuava
a esibire mentre versava alle sue ospiti del tè caldo in
eleganti tazzine di
pregiata porcellana inglese, dopo aver lasciato che Emma e Miss
Radcliffe si
asciugassero e si mettessero a loro agio nelle stanze che aveva
mostrato loro. Mentre
attraversavano i corridoi deserti della magione, la donna aveva
spiegato che
l’unico membro della servitù presente a Pemberley
era Lydia: vivendo da soli,
infatti, non avevano bisogno di una schiera infinita di domestici, e
vivevano
dunque perfettamente tranquilli nella solitudine della campagna. Quando
era
tempo di fare le grosse pulizie, due o tre volte l’anno
chiamavano delle
giovani volenterose dal villaggio vicino, ma che non si trattenevano
mai oltre
il tempo necessario a rimettere in sesto il castello. Con loro abitava
anche il
figlio dei coniugi Duncan, Noah, un ragazzo pressappoco
dell’età di lady Moore
che tuttavia aveva una mente semplice ed era ingenuo come un bambino
– Mrs.
Duncan sperava che ciò non disturbasse la padrona.
Emma
rispose ovviamente che no, certo che non la disturbava, anzi non vedeva
l’ora
che il giovane Noah le venisse presentato. La signorina Radcliffe,
invece, si
riservò il privilegio di non esprimere un parere al
riguardo, benché
sicuramente attendesse di rimanere da sola con la sua allieva per
esprimere
tutto il disappunto che stava accumulando dinnanzi a una situazione che
definire sconveniente sarebbe stato troppo gentile. Avevano lasciato
Hambleton
Abbey senza alcun seguito perché Lord Grantham aveva
assicurato loro che non ne
avrebbero avuto bisogno, e miss Radcliffe l’aveva intesa come
una
rassicurazione sul fatto che nella nuova abitazione ci sarebbe stato
uno stuolo
di domestici pronti a soddisfare le richieste, se non sue, perlomeno di
Lady
Moore; l’eventualità che invece tale
raccomandazione del conte riguardasse il fatto
che non avrebbero dovuto fare vita sociale di alcun genere, e che
pertanto la
presenza di una cameriera personale o di un maggiordomo non sarebbe
servita in
nessun modo a sua figlia, non era neppure passata per la mente della
rigida
istitutrice.
Emma
non dubitava che, una volta da sola nella sua stanza, miss Radcliffe
avrebbe
scritto una lettera colma di indignazione al povero conte di Grantham.
Cercò
di scambiare un sorriso d’incoraggiamento con la donna che
l’aveva cresciuta e
tirarle così un po’ su il morale, ma
quest’ultima si limitava a sedere
rigidamente in un angolo del divano e a sorseggiare con aria torva il
suo tè
bollente. Con un sospiro rassegnato, la giovane lasciò
perdere ogni tentativo
di tranquillizzare l’istitutrice, e rivolse nuovamente la sua
attenzione alla
signora Duncan.
«Sono
sicura che ci troveremo bene qui con voi, Mrs. Duncan», disse
Emma,
sorseggiando la gradevole bevanda calda e dolce, leggermente aspra per
la
presenza del limone, come piaceva a lei. «Un peccato aver
fatto tardi, mi
sarebbe piaciuto fare un giro della casa, ma purtroppo il tempo non ci
ha
permesso di procedere con più
velocità… e le strade non erano molto
praticabili… credo che il signor Duncan vi avrà
raccontato già tutto.»
«Non
preoccupatevi, milady. La gente di città ci impiega un
po’ ad ambientarsi alla
campagna, ma alla fine ci riesce», la consolò la
donna con un sorriso,
sistemandosi una forcina che stava fuggendo via dalla sua acconciatura.
«E per
quanto riguarda il ritardo, rammentate che siete voi la padrona della
casa e
spetta a voi decidere gli orari. Mi spiace solo che ormai sia
impossibile farvi
vedere la casa, sapete, non è un granché
aggirarsi per i saloni bui, e temo che
si dovrà aspettare domattina… È tutta
la settimana che mettiamo a posto le stanze
in vista del vostro arrivo, ma sembra esserci sempre qualcosa da
sistemare in
questo maniero.»
Posso ben
immaginarlo,
concordò Emma in silenzio, guardandosi discretamente intorno.
«Chi
ha scelto il nome Pemberley?» Chiese poi tanto per fare un
po’ di
conversazione, mentre riportava l’attenzione sulla donna, che
pareva attendere
con pazienza che Emma si ambientasse.
«Oh,
l’ha acquisito col tempo. Gli abitanti del villaggio la
chiamano ancora
Pemberley Manor, sa, anche se è trascorso parecchio tempo da
quando i Pemberley
ci abitavano», spiegò Mrs. Duncan, facendo
sciogliere con lenti movimenti
circolari del cucchiaino una piccola zolletta di zucchero. Emma
notò che il
tono della voce le si era abbassato, e che le parole venivano fuori con
una
strana cautela. «La casa è stata costruita
all’inizio del diciassettesimo
secolo, ma come potete notare non segue uno stile architettonico
particolare: i
proprietari erano parecchio eccentrici, sapete, e le varie generazioni
che
hanno abitato la magione hanno apportato tante di quelle modifiche che
ormai
questa casa sembra più un labirinto, con scale a chiocciola
anguste che non si
sa dove conducano, torri, finestre che non si aprono, porte sospese nel
vuoto e
strane protuberanze… Ah, ma lo vedrete voi stessa nel caso
abbiate voglia di
dedicarvi all’esplorazione di Pemberley. Potete andare dove
volete, ovviamente,
milady… come ho già detto, siete voi la
proprietaria… Ma vi consiglierei di
evitare l’ala Ovest», aggiunse frettolosamente la
donna, con un lieve accenno
di panico che non sfuggì alla ragazza.
Malgrado
a tale affermazione Miss Radcliffe avesse irrigidito la schiena,
indignata da
una simile imposizione da parte della governante, Emma
aggrottò semplicemente
la fronte, perplessa ma già curiosa, avvertendo quel
familiare e piacevole
brivido che le scorreva giù lungo la schiena ogniqualvolta
la sua mente
fantasiosa subodorava un interessante mistero. «E che cosa
c’è nell’ala Ovest,
se posso chiedere?» Domandò istintivamente, senza
riuscire a trattenere un
mezzo sorriso. Se avesse accennato a questa particolare conversazione
nella
prossima lettera che avrebbe scritto a suo padre, era sicura che Lord
Grantham
l’avrebbe raggiunta in campagna in men che non si dica per
risolvere quell’enigma.
O che perlomeno l’avrebbe spronata a farlo in sua vece;
dopotutto doveva pur
trovarsi qualcosa per passare il tempo, segregata com’era in
mezzo alla
selvaggia brughiera.
Dopo
aver posato la tazza intatta sul tavolino, Mrs. Duncan
giocherellò nervosamente
con il pesante mazzo di chiavi che teneva appeso alla cintura, mentre
rispondeva con un’ostentata noncuranza. «Oh,
niente, signorina, niente di che»,
rispose con una scrollata di spalle, senza tuttavia guardarla.
«Quell’ala è
semplicemente chiusa, è in disuso da diverso tempo e, mi
imbarazza dirlo, non
ci siamo mai dati la pena di metterla in ordine. Non ci trovereste che
polvere
e buio, non certo un ambiente adatto a voi... E poi non
c’è niente, ve lo
ripeto», ribadì con insistenza.
«Sono
certa che sia così», concesse la giovane con fare
pacato, lanciando un’occhiata
a miss Radcliffe affinché non ribattesse nulla dinnanzi a
quello strano
avvertimento. Per un po’ avrebbe anche potuto evitare
quell’ala della casa, ma
prima o poi avrebbe terminato le cose da fare ed era certa che un
po’ di
polvere non l’avrebbe dissuasa dall’avventurarsi in
zone che sarebbero dovuto
esserle precluse; d’altra parte, come le aveva detto la
stessa Mrs. Duncan, era
lei la padrona.
Continuando
a parlare poi del più e del meno, Mrs. Duncan le
informò dell’assenza di un
telefono nell’abitazione – non avevano mai ritenuto
utile acquistare un
apparecchio quando non avevano nessuno con cui comunicare
all’esterno di
Pemberley; nel villaggio vicino, tuttavia, quello dove arrivava il
treno, c’era
un ufficio del telegrafo, e se avessero avuto necessità di
inviare un messaggio
urgente a Sua Signoria avrebbero potuto farsi accompagnare dal signor
Duncan che
scendeva in paese due volte a settimana per le scorte e commissioni di
vario
genere.
Infine,
la governante annunciò loro che la cena sarebbe stata
servita in due ore nella
sala da pranzo; tuttavia né Emma né miss
Radcliffe avevano molta fame – il
viaggio le aveva stancate al punto che l’unica cosa che
agognavano in quel
momento era un lungo sonno ristoratore, così chiesero il
permesso di ritirarsi
direttamente nelle loro stanze. La signora Duncan sottolineò
per l’ennesima
volta che erano libere di fare ciò che desideravano,
dopodiché suonò un
campanellino per chiamare Lydia in modo che accompagnasse milady nella
sua
camera da letto.
La
camera che era stata assegnata a Emma doveva essere una delle stanze
padronali,
probabilmente quella appartenuta alla precedente signora di Pemberley.
Come
aveva già anticipato Mrs. Duncan, persino
l’arredamento faceva convergere
diversi stili e tendenze passate in un unico risultato finale: la
tappezzeria
era chiara, color crema, decorata con piccoli fiorellini vermigli; il
mobilio
era massiccio e scuro, di mogano o forse palissandro, con pomelli
dorati nei
cassetti e nelle ante dell’armadio, e per terra il pavimento
quasi spariva
sotto uno strato di tappeti persiani. Il letto, la cui testiera
intarsiata
occupava metà parete, era posizione di fronte al camino e di
fianco alla
finestra, in modo che potesse ricevere calore d’inverno e
aria fresca d’estate;
sui comodini vi erano delle antiche lampade ad olio con il paralume in
vetro
colorato, mentre dal soffitto a cassettoni pendeva un semplice
lampadario in
ferro. Le pareti erano abbellite da quadri che ritraevano paesaggi
della
brughiera, ma non vi erano ritratti né specchi:
ciò era parecchio strano,
soprattutto visto che l’ombra ovale che macchiava la
tappezzeria sopra la
cassettiera indicava che là uno specchio c’era
stato, e che qualcuno l’aveva
volutamente tolto. Certo, forse si era rotto… Ma
perché non sostituirlo?
Imputando
tale mancanza al fatto che la casa fosse rimasta inabitata per anni,
Emma
decise di rimandare la risoluzione di quel problema
all’indomani mattina;
congedò Lydia dopo che quest’ultima
l’ebbe aiutata a sganciare l’abito e il
corsetto, dopodiché rimase sola a finire di prepararsi per
la notte: ancora non
si sentiva a suo agio a spogliarsi davanti a una domestica che non
conosceva,
così fu costretta anche a sciogliersi da sola
l’acconciatura e senza neppure
l’ausilio di uno specchio. Una volta che ebbe portato a
termine anche
quell’operazione il mobile da toilette era ingombro di
forcine di ogni
dimensione, e una massa ondulata di capelli le ricopriva le spalle come
un
mantello, scivolandole sulla schiena fino alle natiche.
Aveva
appena iniziato a pettinarsi quando un leggero bussare alla porta della
stanza
interruppe le sue fantasticherie. Aramis, dal suo angolo di fronte al
camino,
sollevò il capo e rizzò le orecchie, attento;
Emma posò la spazzola sul
tavolino e invitò l’ospite ad entrare, e quando
vide chi era, sorrise. «Oh,
siete voi, Miss Radcliffe.» Il cucciolo riabbassò
il muso tra le zampe,
decidendo che non vi era alcuna minaccia, e agitò
placidamente la coda in aria.
«Volevo
accertarmi che steste bene, signorina», spiegò
l’istitutrice, entrando e
richiudendosi la porta alle spalle. Anche lei in camicia da notte, con
un
pesante scialle drappeggiato intorno alla schiena e i capelli liberi
dall’acconciatura giornaliera raccolti in una più
comoda treccia, Miss
Radcliffe spense con un soffio la candela che aveva portato con
sé e attraversò
la camera verso la sua allieva. «La signora Duncan mi ha
spergiurato che questa
è la stanza migliore di tutto il maniero, ma volevo
assicurarmene di persona.
Se non altro non è fredda… La sguattera vi ha
messo il braciere sotto al
materasso?»
Emma
sorrise davanti alle solerti preoccupazioni della donna.
«Sì, miss Jane, sono
stati tutti cortesi e ineccepibili», rispose, riprendendo a
spazzolarsi i lunghi
capelli. «E della vostra stanza, invece, cosa mi dite?
Sinceramente non capisco
perché non possiate dormire insieme a me sullo stesso piano,
e dobbiate invece
dormire accanto a Lydia. Mi sentirei molto più tranquilla se
foste vicina a me.»
«Milady,
per quanto apprezzi la vostra generosità non dovete
dimenticare che anche un’istitutrice
fa parte della servitù, e che anche ad Hambleton Abbey la
mia stanza era nei
quartieri dei domestici.»
«Questo
lo comprendo benissimo e non voglio certo sconvolgere nessuno, ma siamo
venute
qui insieme e non vedo perché dovremmo preoccuparci di
simili imposizioni…»
«Quando
il conte vostro padre ci raggiungerà non sarà di
certo lieto di sapere che io e
voi dormiamo in stanze affiancate. E devo ammettere, signorina, che
questo
metterebbe a disagio anche me.»
Emma
dubitava che il conte di Grantham le avrebbe raggiunte in tempi brevi,
ma
questo non lo disse; si limitò a sospirare, arrendendosi.
«Mi dispiace che non
si possa fare uno strappo alla regola nemmeno nel cuore della
campagna.»
Jane
Radcliffe sorrise con tenerezza. «Sapete che sono disposta a
fare parecchi
strappi alle regole quando si tratta di voi, signorina, ma su certe
cose non si
può proprio transigere.» Spiegò
gentilmente, posando una mano confortante sulla
spalla della giovane. Poi aggiunse: «E ora lasciate che vi
sistemi i capelli.»
Le
mani della donna erano delicate ed esperte mentre divideva la chioma
castana di
Emma in tre ciocche per poi procedere ad intrecciarle, così
lei socchiuse gli
occhi, rilassandosi. «Credete che sia il caso di chiedere a
mio padre di
assumere altra servitù per Pemberley?»
Domandò dopo un po’, sovrappensiero.
«Non
spetta a me esprimermi su un argomento simile, signorina,
però in base alla mia
esperienza posso affermare senza paura di sbagliarmi che tre domestici
sono un
po’ pochi in un castello come questo», rispose Miss
Radcliffe, cercando di
essere delicata. «Certo, non ci sono feste da organizzare,
né cene e né balli,
per via del lutto e tutto il resto… Ma, per l’amor
di Dio, come si fa tenere in
ordine e mandare avanti una magione così immensa con una
cameriera tuttofare,
un custode che è insieme autista e giardiniere e una
governante che è troppo in
là con gli anni per fare determinati lavori? Tutto
ciò è davvero molto
sconveniente, signorina Emma. Se il povero signor Logan venisse a
sapere che la
figlia dei padroni abita in simili condizioni sono sicura che sarebbe
capace
persino di sgridare il conte vostro padre.»
Il
signor Logan era il maggiordomo, nonché colonna portante, di
Hambleton Abbey,
ed entrambe sapevano quanto la sua fedeltà
all’etichetta lo rendesse poco
tollerante ai cambiamenti inconsueti e che, a suo dire, potessero
macchiare il
buon nome della famiglia che serviva da più di
quarant’anni; parlare di lui
provocò una dolorosa fitta di nostalgia alle due donne, che
solo adesso iniziavano
a realizzare il loro stato di estranee indesiderate nella tetra
realtà della
brughiera.
Imponendosi
di sorridere, Emma si voltò per scambiare uno sguardo con
miss Radcliffe. «Per
ora lasciamo così, miss Jane, vi prego. Non tormentiamo mio
padre con questi
problemi, sono sicura che riusciremo a cavarcela… E se
così non sarà, allora
riprenderemo l’argomento. Non voglio essere scortese con
queste persone, si
sono messi tutti a nostra disposizione e non meritano un simile
affronto.»
L’istitutrice
la osservò a lungo, combattendo contro il desiderio di
insistere per
convincerla del contrario, e alla fine annuì, stringendo le
labbra in una linea
sottile. «Come volete, signorina. Cercherò di non
farne parola con Sua Signoria»,
acconsentì, indietreggiando di un passo e posando la
spazzola sul tavolino da
notte. «Da domani io e voi riprenderemo le nostre lezioni
come di consueto,
allora. Colazione alle otto e mezza, dopodiché si studia.
Siete d’accordo?»
Sollevata
per quel confortante ritorno alle loro abitudini, Emma annuì
e sorrise con più
calore. «Certo, miss Radcliffe. Vi ringrazio»,
aggiunse, sincera. Risparmiare a
suo padre di leggere delle lettere zeppe di lamentele e consigli
sarebbe stata
una delle poche cose che lei, dalla campagna, avrebbe potuto fare per
lui.
«Buonanotte,
signorina Emma», augurò la donna, riprendendo la
propria candela e congedandosi.
Quando
la porta si richiuse dietro miss Jane, la camera parve
d’improvviso più fredda
e soffocante, ed Emma rabbrividì.
_______________________________________________________________
NdA. Plauso a chi
riconosce la citazione di Harry Potter presente nel
capitolo… ;)
_______________________________________________________________
Alcuni appunti
riguardo i titoli nobiliari che appariranno
nella storia.
Il titolo di Conte (Earl)
è il terzo per importanza oltre ai
reali: prima di lui abbiamo il Marchese (Marquess/Marquis)
al secondo
posto e il Duca (Duke) al primo. Sua
moglie è la contessa. Ci si riferisce lui come, nel nostro
caso, al "conte
di Grantham", o "Lord Grantham", o solo "Grantham" per
i più intimi. Sua moglie è quindi la contessa di
Grantham o Lady Grantham, e si
firmerà come Jacqueline Grantham.
Come per il
duca, l'erede di un conte prenderà come titolo
di cortesia il titolo appena inferiore rispetto a quello del
padre (dunque
il figlio di un Conte sarà definito Visconte) e
il figlio dell'erede, a sua volta, quello immediatamente inferiore.
A tutte le
figlie di un conte viene dato il titolo di cortesia di Lady
più 'nome proprio': ciò significa che Emma
verrà sempre chiamata Lady Emma o
tutt’al più Lady Moore, che è il
cognome del padre e non il titolo, ma mai Lady
Grantham. Gli altri figli maschi di un conte sono detti semplicemente "the
honorable" (onorevole) , titolo che
però non è usato nelle
conversazioni informali.
_______________________________________________________________
Angolo Autrice.
Bentornati su queste
pagine! In questo
primo capitolo facciamo finalmente la conoscenza degli altri personaggi
più o
meno principali – sicuramente ricorrenti – di tutta
la storia. Cercherò di
essere il più possibile coerente con
l’ambientazione storica, ma se trovate
errori grossolani vi prego di farmeli notare – tipo
anacronismi e cose varie, qualcosa
potrebbe sfuggirmi. :D
Voglio ringraziare
infinitamente Sylphs, Homicidal Maniac,
rosgio
e Se7f per aver recensito lo scorso
capitolo e aver deciso di dare un’occasione a questa storia
*-* Inoltre un
grazie immenso anche a chi ha già aggiunto la storia alle
Preferite e alle
Seguite, grazie grazie grazie!
Per il momento non ho altro
da
dichiarare, se non: spero di non avervi deluso e, al contrario, di
avervi
incuriosito un po’ di più ^^ Ci leggiamo al
prossimo capitolo, grazie di nuovo
di essere capitati qui! Baci e abbracci, sempre la vostra
Niglia.
|
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Capitolo 3 *** Chapter 2. The Aerie ***
2.
The Aerie
Il tempo sembrava trascorrere
diversamente a Pemberley Manor: in mezzo a quelle lande desolate la
vita era
meno caotica e le giornate apparivano più lunghe, ma tutto
sommato i primi
giorni passarono in modo piuttosto sereno. Malgrado
l’iniziale scetticismo, sia
la signorina Radcliffe che Emma riuscirono ad abituarsi alla placida
routine
della campagna: entrambe avevano preso ad alzarsi presto per godere
appieno
delle mattine, dato che di sera faceva buio presto e non
c’era molto da fare in
casa, e presto iniziarono a sentir meno la nostalgia di Hambleton.
D’altra
parte, la magione offriva più distrazioni di ciò
che si poteva pensare: la
biblioteca era immensa, c’era una sala della musica e una
galleria dov’erano
state raccolte diverse opere d’arte – un vero
tesoro per il conte di Grantham,
se solo si fosse trovato là a sua volta – e un
giorno Emma aveva scoperto il
giardino d’inverno, ossia un intero salone adibito a serra
dove piante di ogni
genere e provenienza crescevano rigogliose tra sentierini di pietra e
fontane
con zampillo; Aramis aveva adorato quella sala. Aveva poi fatto persino
un paio
di belle giornate prive di vento e pioggia, durante le quali Emma aveva
suggerito alla sua istitutrice di uscire nel parco per esplorare anche
gli
esterni della magione e prendere un po’ di salutare aria
fresca: difatti,
benché Pemberley fosse splendidamente elegante e curata in
ogni piccolo
dettaglio, c’era qualcosa – Emma non avrebbe
davvero saputo dire che cosa – che
pareva celarsi nelle
pareti stesse, qualcosa di insano, che trasudava angoscia e tormento.
Fuori, invece,
avevano visto le aiuole intorno alla casa curate amorevolmente da Mr.
Duncan,
l’orticello coltivato sul retro, le stalle, persino i villini
sul confine della
proprietà che un tempo dovevano essere appartenuti ai
garzoni e ai vari
sovraintendenti che si occupavano del resto delle tenute di Pemberley,
adesso tristemente
abbandonati a loro stessi, rifugi per randagi e sporcizia.
Ben presto, dunque, l’iniziale
impressione di selvaggio abbandono che aveva avvertito nel mettere
piede a
Pemberley svanì davanti alla palese cura che vi era dietro
la pulizia e
l’ordine che regnavano nelle ali della casa da loro abitate:
non si poteva certo
dire che Mrs. Duncan e la timida Lydia se ne restassero con le mani in
mano. Eppure
tutto ciò non riusciva ancora a scacciare
quell’aura malsana che avvertiva
ogniqualvolta varcava la soglia del castello.
A proposito di Lydia, Emma aveva infine
appreso che la giovane cameriera tuttofare era priva del dono della
parola. La
signora Duncan, essendovi abituata, lo aveva dato per scontato e non
aveva
pensato di avvertire la padrona di quel piccolo dettaglio,
così i primi tempi
Emma aveva inteso il suo silenzio come una semplice forma di timidezza;
una
volta chiarito l’equivoco, tuttavia, la giovane lady si
affrettò a chiedere
scusa alla domestica se in qualche modo l’aveva offesa, ma
quest’ultima si
limitò ad arrossire violentemente senza neppure osare
guardarla negli occhi,
quasi che la colpa della sua condizione ricadesse su se’
stessa. Miss Radcliffe
non aveva trovato di suo gradimento neppure quella notizia, e
benché Emma
volesse alla donna un bene infinito doveva ammettere di iniziare a
trovarla un
po’ troppo intollerabile.
Il mattino successivo al loro
arrivo, mentre sedeva in sala da pranzo con miss Radcliffe, con la
quale ne
aveva già parlato mentre scendevano insieme al pianterreno,
Emma aveva inoltre portato
il problema degli specchi all’attenzione della governante
che, con Lydia,
serviva la colazione.
«Non ho potuto fare a meno di
notare l’assenza di specchi, Mrs. Duncan», aveva
esordito con serenità, come se
la faccenda non fosse poi molto importante; non voleva che la donna lo
prendesse come un’offesa o un insulto al suo lavoro dopo solo
un giorno dal loro
arrivo. «Mi chiedevo se c’è qualche
motivo particolare o se si tratta solo di
una coincidenza.»
Mrs. Duncan, come Emma aveva
immaginato, si era trovata in notevole difficoltà mentre
cercava di formulare
una risposta. «Ecco, milady, qui in campagna siamo molto
superstiziosi. Certe
credenze sono dure da estirpare, e… In assenza dei padroni,
vedete, ci siamo
presi la libertà di far sparire gli oggetti che ci
spaventano. Comunque, se lo
desiderate, farò del mio meglio per portarne uno in camera
vostra. E in camera
di miss Radcliffe, naturalmente», aveva aggiunto
frettolosamente voltandosi
verso l’istitutrice. «Devo solo rammentare dove li
ho conservati… La mia
memoria fa un po’ i capricci, e la casa è
così grande!, dovete perdonarmi.»
La spiegazione, sempre se di tale
si poteva parlare, non aveva soddisfatto la curiosità di
Emma, né ebbe placato
la sempre maggiore irritazione della signorina Radcliffe; e adesso, a
distanza
di sei giorni da quella conversazione, nessuna di loro aveva visto
anche solo
l’ombra di un piccolo specchio. L’istintiva
vanità della ragazza le faceva
odiare il fatto di doversi vestire senza poter controllare che
l’abito le
cadesse bene sui fianchi e che la gonna fosse decentemente
drappeggiata, ma
lamentarsi non sarebbe servito a procurarle uno specchio –
era chiaro che la
signora Duncan li aveva fatti sparire definitivamente, per quello che
ne sapeva
lei la donna poteva anche averli venduti – e soltanto
l’idea di scomodare il
padre per una simile faccenda la faceva vergognare: non voleva dargli
l’impressione
di essere incapace di cavarsela da sola, per quanto non fosse stata una
sua
decisione quella di andarsene a vivere in mezzo alla brughiera. Decise
dunque
di farne a meno, e pregò l’istitutrice di fare
altrettanto.
Il terzo giorno, poi, Emma aveva
fatto la conoscenza di Noah, il figlio dei signori Duncan. Quel
mattino, con l’aiuto
di Lydia, aveva indossato degli abiti più comodi ed era
andata nelle stalle per
vedere i cavalli – la governante le aveva detto che, oltre ai
due mezzosangue che
trainavano il calesse, ce n’erano altri due da sella, una
vecchia giumenta che stava
con loro da più di vent’anni e un magnifico
Andaluso con un manto grigio
chiazzato di bianco. Emma aveva trovato parecchio strana la presenza di
un
simile purosangue in un maniero disabitato – quei cavalli
erano troppo eleganti
per poter essere utilizzati come forza lavoro nelle campagne, in genere
erano
animali da corsa o da esibizione, che solo qualche eccentrico
aristocratico
avrebbe acquistato per tenerlo chiuso in una stalla – ma
poteva anche darsi che
fosse uno dei destrieri appartenuti alla vecchia famiglia che,
diventato
vecchio, non avesse altro destino oltre al macello che rimanere a
pascolare
nella quiete di una scuderia di campagna.
Era stato lì, nella stalla, che
aveva incontrato il giovane figlio dei signori Duncan. Noah era un
ragazzo
pressappoco della sua età, alto, così magro che
un vento appena più forte
avrebbe potuto farlo volare via, con corti capelli biondo cenere e
occhi grigi,
perfettamente nella norma – non fosse stato, come Mrs. Duncan
aveva già avuto
modo di precisare, per la sua mente semplice. Ciò Emma lo
avrebbe capito anche
da sola: c’era qualcosa nel ragazzo, nel suo modo di
muoversi, di rimanere sempre
leggermente curvo, nei piccoli scatti che lo facevano somigliare a un
topolino
spaventato dalla sua stessa ombra, che indicava chiaramente come non si
trovasse
nella medesima dimensione di coloro che lo circondavano. In
realtà, sembrava
trovarsi in difficoltà tra i membri della sua specie, ragion
per cui Emma non
lo aveva mai visto gironzolare dentro casa, mentre era del tutto a suo
agio con
gli animali; probabilmente fu questo il motivo che lo spinse a non
fuggire a
nascondersi non appena Emma ebbe messo piede nella scuderia –
la giovane era
stata preceduta da uno scodinzolante Aramis, il quale ebbe
inconsapevolmente il
merito di trattenere Noah presso la sua padrona senza ch’egli
venisse troppo spaventato
da quel volto nuovo.
Scoprì che Noah non amava parlare,
benché non fosse muto come Lydia: si esprimeva con frasi
brevi, elementari,
talvolta solo con mugugni o piccole parole, ma riusciva a farsi
comprendere e a
risultare amabile allo stesso modo. Erano rimasti insieme per un bel
po’ – lui
stava spazzolando il manto dei cavalli e aveva dato a Emma una setola
per fare
altrettanto, mentre Aramis giocava a infastidire gli altri animali che
lo
ignoravano con fare altezzoso – e quel lavoro parve aver
fatto abituare Noah
alla presenza della ragazza al punto che di tanto in tanto provava
anche a
parlarle, anche se solo per indicarle dove poteva trovare altri oggetti
per la
cura dei cavalli che potevano essere utili a entrambi. Emma lo aveva
sorpreso
un paio di volte a sollevare lo sguardo da ciò che stava
facendo per guardarla
di nascosto, per poi riabbassarlo immediatamente una volta resosi conto
che
anche lei lo guardava. Era come un bambino, timido e guardingo, ma non
era sciocco;
c’era qualcosa nei suoi occhi chiari che glielo rese subito
caro.
Molto più tardi, quando Emma gli
chiese se voleva seguirla all’interno della casa,
poiché fuori iniziava a far
freddo, Noah la intimorì con una reazione che lei proprio
non si era aspettata:
il ragazzo sgranò gli occhi e scosse violentemente la testa,
più e più volte, coprendosi
le orecchie con le mani e fissandola come se d’improvviso
fosse terrorizzato da
lei. Indietreggiò fin quando non ebbe incontrato
l’ostacolo del muro, e lì
crollò a terra per poi rannicchiarsi su se’
stesso, tremante.
«Nonononononononono…»
Piagnucolava.
Emma non aveva idea di che cosa
fare: non credeva di aver detto qualcosa di terribile, ed era
preoccupata anche
perché neppure i guaiti dispiaciuti di Aramis sembravano
sortire sul giovane un
qualche effetto calmante. Si chinò dunque accanto a lui,
incerta, e alla fine
gli posò una mano sulla spalla. «Ti chiedo scusa,
Noah, non volevo spaventarti»,
mormorò piano, con dolcezza. «Non voglio
obbligarti a fare qualcosa che non
vuoi. Non piangere, per favore…»
A quelle parole – di cui la
ragazza iniziava a dubitare che avesse inteso il senso – Noah
si raddrizzò d’un
colpo e si voltò verso di lei, con gli occhi arrossati e le
lacrime che gli
rigavano il viso. Le afferrò la mano con le sue e
l’attirò verso di sé,
stringendola tanto da farle male. «No. Tu.
Casa… No», gracchiò, ansimando. Perfino
i cavalli iniziarono a raschiare il
terreno e a sbuffare, innervositi. Ignorandoli, Noah non le
lasciò la mano e
continuò a tirarla. «Stai qui. Con Noah. Niente
casa… no», continuò a ripetere
disperato, scrollandola ad ogni parola.
Adesso era lei che iniziava ad essere
spaventata – non tanto per le sue parole, dato che non ne
aveva compreso il
significato, ma per l’apparente crisi isterica che Noah stava
avendo. Come si
sarebbe dovuta comportare per cercare di calmarlo? Non aveva alcuna
esperienza…
Inoltre la sua stretta era sempre più forte intorno alla sua
mano, ed era impossibilitata
anche ad andarsene per chiamare Mrs. Duncan – la donna
avrebbe di certo saputo
come tranquillizzare il figlio. Solo che lui non la lasciava! Noah
aveva anzi
nascosto il viso nel palmo aperto di Emma, continuando a balbettare
cose senza
senso e bagnandola di lacrime salate.
Fu il signor Duncan a trovarli,
qualche minuto dopo. Egli era forse andato a chiamare suo figlio per
cena, sapendo
che l’avrebbe trovato nella scuderia, solo che di certo non
si aspettava di
trovarvi anche la giovane padrona; lo spettacolo che dovevano aver
offerto ai
suoi occhi opachi dovette essere ben strano, e misero.
«Milady!» Esclamò il custode,
avvicinandosi a loro con un’andatura leggermente claudicante.
«Milady, vi
chiedo perdono… Buon Dio, Noah, smettila! Guarda me,
figliolo, lascia andare
lady Moore… Noah…»
Fece, poggiando
una mano decisa sulla spalla del ragazzo e riuscendo così ad
attirare la sua
attenzione. La sua voce era pacata e gentile e tuttavia risoluta,
suadente, ed
Emma si ritrovò ad ascoltarlo notevolmente sorpresa.
«Va tutto bene, Noah, ci
sono io. Puoi lasciare la mano di milady, Noah? Da bravo, le fai
male.»
Forse fu quello a risvegliare il
giovane da quella strana trance in cui era caduto. Liberò
subito la mano di
Emma e indietreggiò, spostando alternativamente lo sguardo
da lei al padre con
aria febbrile, intimidito e confuso. «Male? No, no, io bene,
no male….» Replicò
a mezza voce, gli occhi sgranati. Poi qualcosa scattò in
lui, e un’espressione
furiosa prese il posto di quella vacua. «Lui
male! Lui, lui, lui!»
Emma non capiva che cosa stesse
succedendo, ma sembrava averlo fatto Mr. Duncan. Alle parole
accusatorie del
figlio, infatti, egli era impallidito e aveva lanciato
un’occhiata alla ragazza
come a voler controllare la sua reazione, per poi prendere il volto di
Noah tra
le mani e obbligandolo, un po’ con le buone e un
po’ con le cattive, a tacere e
a dargli ascolto. «Sssht, Noah, non gridare, fai il bravo.
Milady sta bene,
milady è al sicuro, ma tu ti stai comportando male, vedi,
molto male. Non si fa
così, ricordi? Ricordi quello che ti dico sempre? Su, Noah,
ripetilo. Ripetilo
con me. Noah è bravo…»
Obbediente e all’improvviso del
tutto calmo, il ragazzo pareva pendere dalle labbra del padre.
«Noah è bravo…»
«Respira, figliolo, così, bravo. Dentro,
fuori. Rilassati. Noah è bravo»,
insisté il signor Duncan.
«Noah è bravo», ripeté ancora
l’altro,
annuendo lentamente.
Emma era senza parole: non si era
accorta nemmeno di star trattenendo il respiro, fin quando Noah non si
fu
voltato verso di lei, con un sorriso vacuo e timido sul volto,
guardandola come
se la vedesse per la prima volta. «Noah è
bravo», le fece presente con aria
soddisfatta, mentre il padre gli massaggiava la schiena per
rasserenarlo.
Anche lei annuì, leggermente perplessa,
accennando un sorriso a sua volta. Si accorse di essere ancora
accucciata per
terra solo quando Mr. Duncan, una volta in piedi, le porse una mano per
aiutarla a rialzarsi. «State bene, milady? Io… non
so davvero come scusarmi, il
comportamento di mio figlio è stato imperdonabile.
Spero… spero che non abbia
esagerato…» Fece, perdendo d’improvviso
l’atteggiamento deciso e risoluto che
aveva fino a pochi attimi prima. Emma non poté fare altro
che rassicurarlo che
andava tutto bene, che non aveva intenzione di dare conseguenze
all’accaduto e
che forse era meglio non parlarne neppure con Mrs. Duncan, se lui
voleva farle
la cortesia. Parlarono ancora un po’, brevemente, poi la
giovane si congedò e
rientrò nel maniero, con mille pensieri per la testa; non
capiva per quale
motivo si era spaventata di più – per la crisi di
Noah, per le strane parole
che aveva detto o per il modo in cui il padre sembrava avergli fatto
una sorta
di lavaggio del cervello solamente sussurrandogli
all’orecchio?
«Sono stanca», si disse tra sé,
mordendosi le labbra. «Sono stanca. Mi abituerò a
tutto questo, è… è solo
questione di tempo.»
Sperava di abituarsene prima di avere a sua volta
un crollo di nervi.
Il pomeriggio seguente, entrando
nella biblioteca accompagnata da Miss Radcliffe per continuare la
lezione
interrotta prima di andare a pranzo, le due donne trovarono la vetrata
che si
affacciava sul giardino – alta due metri, larga quattro, a
due ante e con un
vetro talmente pesante che per aprirla di solito serviva uno strano
attrezzo
che aveva il signor Duncan – completamente spalancata: la
pioggia entrava
trasversalmente all’interno della casa e aveva inzuppato il
tappeto e parte dei
divani, per non parlare del vento che aveva rovesciato i vasi spargendo
terra e
germogli sul prezioso parquet.
«Vado a chiamare Mrs. Duncan»,
esclamò subito Miss Radcliffe, girando sui tacchi e correndo
via in un frusciare
di gonne.
Emma si guardò intorno, per un
attimo disorientata, poi posò i suoi libri su un mobiletto
accanto alla porta e
corse alla vetrata, cercando di richiuderla il più possibile
non senza sforzo,
per impedire che altri oggetti si rovinassero. Il vento, purtroppo,
spingeva
nel verso contrario al suo, e la giovane ebbe come unico risultato
quello di
bagnarsi a sua volta. Imprecò sotto voce: le scarpe le
scivolavano sul
pavimento bagnato e rendevano vani i suoi tentativi di chiudere quella
maledetta porta. Testardamente, continuò a spingere e
tirare: sembrava trovare
conforto nello sforzarsi così tanto per fare qualcosa che,
comunque, sapeva di
non essere in grado di fare – era un modo come un altro per
sfogarsi, e lo
accolse con gratitudine. Riuscì persino a smuovere la porta
di qualche
centimetro, benché ciò le costasse una notevole
fatica a causa dello stretto
corpetto che le toglieva il respiro e del vestito che aveva assorbito
parecchia
acqua.
«Signorina, sono tornata con… oh,
per l’amor di Dio! Signorina, spostatevi da lì, vi
verrà un malanno!»
Emma ignorò la sua istitutrice,
rivolgendosi a Mrs. Duncan che prendeva il suo posto dietro la vetrata.
«Volevo
dare una mano, Mrs. Duncan, ma le mie scarpe scivolano sul pavimento,
e…» Tentò
di giustificarsi, sinceramente dispiaciuta di non poter fare di
più.
La governante scosse il
capo, spingendo gentilmente via la sua
padrona. «Milady, non preoccupatevi. Lasciate che ce ne
occupiamo io e Lydia…
Voi andate ad asciugarvi, fate come dice Miss Radcliffe. Siete
completamente
inzuppata», fece la donna, che sembrò avere molta
più forza di quanto si
sarebbe detto nel richiudere la pesante porta a vetri.
«Come mai era aperto? Sarà
entrato qualcuno?»
La governante sembrò arrossire
leggermente, ma poteva anche essere un rossore causato dallo sforzo.
«Ecco, io…
ho paura che sia stato mio figlio, milady. Noah non
è… Lo sapete, l’avete
incontrato anche voi… Non ragiona come tutte le altre
persone, milady. Deve
essersi dimenticato di richiudere la porta, basta un niente
perché si distragga,
e questo tempaccio avrà fatto il resto…»
Precedendo Miss Radcliffe, Emma
l’interruppe. «Non importa, signora Duncan, sono
cose che capitano.
L’importante è che non si sia rovinato
nulla… mi dispiace solo che adesso ci
sia da mettere in ordine tutto questo macello.» Non disse che
trovava strano
che Noah potesse essere entrato in casa di sua spontanea
volontà, visto come
era parso terrorizzato quando lei glielo aveva domandato; non disse
neppure
che, se non era riuscita lei a smuovere quella porta, dubitava che
potesse
esserci riuscito un ragazzo col fisico delicato di Noah.
C’erano parecchie cose
che stava iniziando a tenere per sé, in realtà, e
questo le metteva addosso una
certa inquietudine.
La notte, contrariamente alle
precedenti, Emma non riuscì a dormire a causa di strani
rumori.
All’inizio aveva pensato ad una
finestra lasciata aperta – Lydia poteva averla chiusa male, e
adesso lo
spiffero che penetrava dall’esterno faceva frusciare le tende
e tintinnare la
catena del lampadario; ma, dopo essersi alzata e aver controllato che
gli scuri
della sua stanza fossero ben sigillati, comprese che i fruscii
provenivano da
qualche altra parte. Il fuoco nel camino era ormai spento, ma non
avrebbe
svegliato la giovane cameriera per farglielo riaccendere –
non aveva tutto quel
freddo da non poter resistere fino al mattino dopo. Indecisa sul da
farsi,
poiché quei sussurri continuavano senza che si capisse da
dove provenissero –
se fosse stata un po’ più superstiziosa non
avrebbe esitato a credere che i
fantasmi degli antichi proprietari si aggiravano tra le mura della
magione per
terrorizzarne gli abitanti – Emma si avvolse nella vestaglia
e andò a sedersi
sul gradino della finestra, accoccolandosi come un gatto, in attesa di
riprendere sonno.
Fuori aveva smesso di piovere, ma
dalle grondaie gocciolavano ancora pesanti lacrime di acqua sporca: il
picchiettio
non le dava fastidio, anzi, lo trovava relativamente rilassante. La
piccola
falce di luna era coperta da grosse nuvole grigie che ne attutivano il
già
debole chiarore, sicché dalla finestra non si poteva vedere
nulla della
territorio circondante la magione. Di tanto in tanto si udiva il tubare
roco di
gufi o civette, il frullio d’ali degli uccellini che si
rifugiavano nelle
grondaie o nel sottotetto, il ticchettio dell’orologio
– rumori in un certo
senso rassicuranti, che si aggiungevano ai sinistri mormorii della casa
che l’avevano
svegliata.
All’improvviso, però, i sussurri
tacquero: al loro posto, nel silenziò venutosi a creare
serpeggiò suadente un’inattesa
e ben strana musica. Udendola, Aramis si svegliò e
rizzò le orecchie, all'erta: Emma lo osservò
mentre si alzava, sollevando il muso per odorare chissà
cosa, per poi raggiungere la porta e iniziare a grattarla con gli
artigli, uggiolando e muovendo nervosamente la coda. Attese una
manciata di secondi con la speranza che
la
musica tacesse e il cucciolo tornasse a dormire, ma
essa
invece continuava, e anzi se possibile diventava sempre più
nitida. Sentendosi
il cuore in gola, Emma scivolò giù dal ripiano
della finestra, posando i piedi
nudi sul legno freddo del pavimento e mettendosi in piedi; fissava la
porta
della stanza, titubante – avrebbe forse dovuto suonare il
campanello e far
accorrere Lydia o Mrs. Duncan per chieder loro chi avesse avuto la
brillante
idea di mettersi a suonare a mezzanotte passata? – e
torturando il morbido cinto
che le teneva chiusa la vestaglia.
Mentre decideva che fare, se
rimanere nella sua stanza in attesa che tornasse il silenzio o se
andare alla
ricerca della fonte di quella musica, Emma rammentò una cosa
che le aveva detto
proprio la signora Duncan la prima notte in cui aveva dormito a
Pemberley, e
che in un primo momento non aveva degnato di particolare attenzione
– se si
escludeva l’educata curiosità con cui aveva
ascoltato tutto ciò che le era
stato detto e di cui ricordava solo la metà, stanca
com’era dal viaggio – facendola
passare in secondo piano.
«Permettetemi di darvi un
consiglio, milady», aveva esordito la donna, con un misto di
esitazione ed
apprensione, prima che la giovane seguisse Lydia al piano superiore.
«Non
fatevi cogliere dal sonno in qualsiasi altra stanza del castello che
non sia la
vostra. Se avete piacere di trattenervi in biblioteca o nella serra
fino a
tardi, benché io ve lo sconsigli siete libera di farlo, ma
non addormentatevi –
affrettatevi a raggiungere la vostra camera! Pemberley è
immensa ed antica, e
noi della servitù siamo troppo pochi per poter essere sempre
accanto a voi
qualora ne aveste bisogno. Per cui, seguite il mio suggerimento, e
usate questa
cautela. Dormirei molto più serenamente sapendovi al sicuro
nella vostra
stanza, e anche voi, credetemi.»
Ora, Emma non capiva che cosa
potesse esserci di male nell’addormentarsi su uno dei divani
della biblioteca o
in qualsiasi altra stanza della magione – fatto che peraltro
le capitava spesso
a casa, vista la sua abitudine di leggere fino a tarda notte o di
scendere
nelle cucine alla ricerca di uno spuntino notturno; e non vedeva
neanche perché
dovesse aver bisogno dei domestici a un’ora così
tarda. L’avvertimento della governante
sembrava più che altro una scusa per chiederle, in modo non
tanto velato, di
non aggirarsi per il castello una volta che tutti erano addormentati:
sembrava
quasi che la signora Duncan temesse i fantasmi, a giudicare da come si
comportava! Ad ogni modo Emma non aveva intenzione di disobbedire alle
loro regole,
né tantomeno di ignorare volutamente i consigli che le erano
stati dati: si
trattava solo di voler scoprire da dove provenisse la musica e per
quale motivo
qualcuno, e soprattutto chi, si fosse
messo a suonare il pianoforte nelle prime ore del mattino.
La musica proveniva dal
pianterreno. Non appena aprì la porta della camera,
affacciandosi sul
corridoio, Emma udì le note musicali di quella sinfonia che
non aveva mai udito
prima giungere attutite dal piano inferiore, fatto che le
confermò di non aver
immaginato nulla. Inspirò ed espirò a fondo, poi,
dopo essersi assicurata che Aramis non la seguisse,
richiuse la porta della stanza
alle sue spalle e avanzò lungo il corridoio, odiando il
vecchio parquet che
scricchiolava al suo passaggio. Le note tremolanti parevano uscire
dalle pareti
stesse… Era un’idea ridicola, ma si sarebbe potuto
dire che i muri cantassero!
Man mano che avanzava la musica acquisiva volume, spessore, tanto che
la
giovane si domandò come facessero gli altri abitanti della
casa a non udire
nulla e non andare a controllare.
La tristezza, la rabbia e la
brama che permeavano ogni singola nota della misteriosa composizione la
fecero
rabbrividire, ma malgrado ciò non si perse d’animo
e percorse tutto l’andito,
raggiungendo le scale e scendendo, in punta di piedi, i gradini resi
silenziosi
da uno spesso tappeto. Era una musica che non credeva potesse
appartenere a
nessuno dei compositori di cui aveva letto né a opere a cui
aveva assistito – e
sì che lei si vantava di esserne una modesta appassionata e
conoscitrice. L’intera
situazione era, nel suo insieme, parecchio grottesca: aveva accantonato
l’idea
di qualcuno dei domestici come suonatore notturno senza neanche
prenderla
seriamente in considerazione, però insomma, chi altri poteva
essersi infiltrato
a Pemberley solo per avere il piacere di suonare il pianoforte della
biblioteca?
Intanto, il componimento
continuava. Emma aveva percorso rapidamente la Galleria delle Ossa
– da lei stessa
così ribattezzata per via dei macabri trofei di caccie
passate che abbellivano
le pareti bianche, creando dei giochi di ghirigori ed eleganti decori
con le spoglie
piccole e grandi delle prede appartenute ai vecchi proprietari
– cercando di
non lasciarsi spaventare dalle ombre che la sua fiammella gettava sulle
tetre
mura; tibie, artigli, corna e teschi di cervi, daini e volpi parevano
allungarsi verso di lei come a volerla ghermire, mentre la musica per
contro
pareva incalzare e diventare più ossessiva ad ogni suo passo.
Infine raggiunse la sua meta. Si fermò
poco distante dalla porta a due ante della biblioteca, gli occhi
sgranati, la
pelle dei suoi piedi nudi ricoperta di piccoli brividi a causa del gelo
che
regnava nel corridoio. In quel punto la musica era ormai chiara e
distinta, come
se si fosse trovava dietro le spalle del pianista: poteva quasi
avvertire la
furia con cui i tasti venivano premuti, un suono sordo e ritmico che
fungeva da
sottofondo alla melodia, e la curiosità di sapere chi
stesse suonando e per quale motivo la colpì con lo stesso
impeto che l’aveva spinta a lasciare la sua camera da letto
per inseguire
quello che a tutti gli effetti avrebbe potuto essere un semplice frutto
del suo
sonno.
Nella foga di risolvere quel
mistero andò ad inciampare miseramente su di uno sgabello
posto accanto alla soglia,
e lo stridio che esso fece sulle assi del pavimento ove il tappeto non
arrivava
fece cessare la musica con un tonfo brusco e dissonante. Emma trattenne
il
fiato, pietrificata, cercando di udire il più piccolo
rumore, ma ormai
tutt’intorno a lei non c’era altro che un profondo
silenzio. Attese ancora
qualche minuto, poi prese coraggio e si avvicinò alla porta
della biblioteca,
afferrando la maniglia e abbassandola lentamente, sperando che lo
scatto della
serratura non fosse troppo rumoroso.
Le sue precauzioni si rivelarono
inutili: la biblioteca era vuota. L’unico segno che qualcuno
c’era stato
davvero poteva essere, eventualmente, il coperchio del pianoforte
sollevato sui
tasti e lo sgabello in velluto leggermente spinto
all’indietro – dettagli che
Emma poté notare avanzando di qualche passo
all’interno della sala, la candela
ben in alto davanti a lei a proiettare un po’ di luce nella
penombra. Girò
lentamente su sé stessa, facendo attenzione a che la fiamma
tremolante non si
spegnesse, ma chiunque fosse stato il musicista misterioso, sempre se
non
l’aveva sognato, doveva essersene andato. Le parve di udire
un fruscio alle
proprie spalle, forse persino un alito d’aria, ma quando si
voltò fu quasi
delusa nel constatare che, davvero, non c’era nessun altro
oltre lei.
«È la stanchezza», mormorò,
cercando di convincersene. La sua voce quasi delusa parve rimbombare
come
un’eco nel silenzio, e un brivido –
l’ennesimo – le corse giù lungo la
schiena.
Non c’era più nulla da fare, ormai,
così non le rimase che ritornare a letto.
Fece dei sogni strani, che forse
sarebbe più corretto definire incubi. Dapprima si
trovò nuovamente a casa sua,
ad Hambleton Abbey, ma tutto era nero e cupo e l’unica cosa
che sfuggiva alle
tenebre era il sarcofago in pregiato legno di noce della lady di
Grantham ancora
privo di coperchio, posto al centro di un enorme salone che non seppe
riconoscere. Il suo subconscio aveva ricostruito con dovizia di
dettagli ciò
che un tempo era stata sua madre, nel giorno precedente la messa
funebre – i capelli
corvini elegantemente acconciati, per l’ultima volta, dalla
sua cameriera
personale, i gioielli che le erano stati messi durante il ciclo delle
visite, l’elegante
abito color panna con ricami neri sulle maniche e sul colletto, persino
il
leggero filo di maquillage sul volto cereo
e spettrale – eppure pareva anche averne aggiunti di altri.
C’era infatti, in
un angolo della sala, un enorme organo a canne, di quelli che si vedono
nelle
chiese, e dal quale proveniva una musica straziante: la stessa, in
effetti, che
aveva udito nella biblioteca di Pemberley. Il compositore era di
spalle, nulla
più che un’ombra scura che pareva ondeggiare
seguendo le note, ma c’era
qualcosa che la spinse in quella direzione, forse curiosità
o forse la magia di
quello che avrebbe potuto definire solo un tetro requiem.
Eppure, prima che potesse fare un
solo passo, una voce rimbombò nel salone, pietrificandola.
«Non ti avvicinare,
Emma. Sta’ lontana da lui.»
Emma conosceva quella voce, la conosceva
bene; terrorizzata si voltò piano, vittima di
quell’odiosa lentezza tipica
degli incubi, e ciò che vide le fece spalancare la bocca in
un grido muto. Sua madre,
o ciò che era diventata, sedeva rigidamente
all’interno del feretro, il viso
immobile rivolto verso la figlia, gli occhi chiusi, la bocca che si
apriva a
fatica, un improvviso sudario che le avvolgeva le spalle a
mo’ di peplo. «Sta’
lontana da lui. Lontana, lontana, lontana…»
Ripeté lady Grantham, sollevando pesantemente un braccio ad
indicare l’informe
figura che non aveva smesso un solo istante di intonare quella lugubre
melodia.
Gli occhi di Emma si fissarono
sulle dita scheletriche della donna, sugli anelli che pendevano dalle
ossa scarne
come se fossero stati infilati su dei rametti secchi, e quando
tornarono poi
sul suo volto ecco che la carne era sparita, e al suo posto
c’era soltanto un’orrenda
sostanza cadente, decomposta. Labbra, naso e palpebre erano sparite, e
ciocche
sottili e fragili di capelli neri le ricadevano sugli occhi, grigi e
opachi ma
che conservavano ancora qualcosa dell’azzurro che lei stessa
aveva ereditato.
Poi la bocca si aprì in una
voragine scura, e lei sentì di nuovo quelle parole,
pronunciate con una voce
che pareva giungere dalle profondità stesse
dell’inferno. «Lontana, lontana, lontana!»
Strillò, ma neanche stavolta
produsse un solo suono. Venne risucchiata
nell’oscurità, e quando riaprì gli
occhi il sole invadeva la sua camera da letto passando dalle imposte
spalancate.
Emma interruppe all’improvviso la
lettura delle Lettres persanes e
infilò un dito in mezzo al volume, prima di chiuderlo e
posarselo in grembo.
Miss Radcliffe, che tanto per tenersi occupata stava rammendando della
biancheria seduta sul divano lì accanto, sollevò
lo sguardo dal suo lavoro e lo
posò sulla ragazza, perplessa.
«Perché vi siete fermata,
signorina? C’è qualche parola che non capite o
forse Voltaire ha cessato di
interessarvi?» Domandò, aggrottando la fronte.
Il tono vagamente severo dell’istitutrice
strappò un breve sorriso a Emma, che tuttavia
tornò seria fin troppo in fretta.
«No, miss. È solo…
C’è qualcosa di cui vorrei parlarvi fintanto che
siamo sole.»
Quelle parole parvero conquistare
l’intero interesse della donna, che abbandonò il
suo ricamo e si avvicinò un
po’ di più alla sua allieva. «Dovrei
preoccuparmi, signorina?» Mormorò,
abbassando d’istinto il tono della voce.
«Non lo so, miss Radcliffe.»
Brevemente le raccontò la vicenda
del pianoforte della notte prima, di quella musica sconosciuta che non
riusciva
a togliersi dalla testa – l’istitutrice
giurò e spergiurò di non aver udito
nulla, e anzi di aver dormito come un sasso fin quando Lydia non
l’aveva
svegliata come al solito, alle sette di quel mattino – e di
come, nel rientrare
in camera sua, si sentisse stranamente osservata, quasi che qualcuno la
spiasse
da dietro le tende o dalle pareti stesse. Ritenne più
opportuno tenere l’incubo
per sé, per quanto l’avesse messa di malumore, e
non ne fece parola.
«Chi potrebbe aver avuto accesso
alla biblioteca in piena notte?» Domandò miss
Radcliffe a mezza voce, iniziando
seriamente a preoccuparsi per quell’ennesimo mistero.
«Se anche fossero stati i
Duncan, o Lydia, che motivo avrebbero avuto di fuggire non appena vi
avessero
sentito? A meno che non fosse quel ragazzo, quel
giovane…»
«Noah, dite?» La ragazza non era
molto convinta.
«Sì, precisamente. Potrebbe aver
temuto che voi lo rimproveraste per essere ancora in giro a
quell’ora e per
avervi svegliata, no?»
Emma doveva ammettere che quella
possibilità non le era neanche passata per la testa
– un po’ perché non pensava
che Noah potesse essere capace di suonare e un po’
perché, forse,
inconsciamente voleva che tra quelle mura ci fosse una sorta di mistero
da svelare. Se non altro l’avrebbe
rassicurata sul fatto di non essere pazza… «Non
so, miss… Potrebbe essere»,
disse comunque, scrollando appena le spalle.
La loro conversazione si
interruppe quando la porta si aprì ed entrò
Lydia, portando un secchio con
dell’altra legna per attizzare il fuoco; Emma riprese quindi
a leggere ad alta
voce, faticando più del solito in quella lingua che in
genere riusciva a ben
padroneggiare, e pose fine alla recita solo dopo che la domestica ebbe
lasciato
nuovamente la stanza, rapida ed efficiente.
«Non credo che la ragazza avrebbe
potuto raccontare ad altri ciò che avrebbe
sentito», le fece allora notare miss
Radcliffe, stranamente rigida nella sua postazione.
Emma scosse piano la testa. «Avrebbe
comunque potuto scrivere, per quello che ne sappiamo. E comunque,
signorina
Jane, non vorrei davvero rischiare.» Erano poche le occasioni
in cui Emma si
rivolgeva alla sua istitutrice chiamandola per nome, e quando
ciò accadeva in
genere era perché la giovane aveva bisogno di poter
instaurare un dialogo più confidenziale
con l’altra donna che aveva contribuito alla sua crescita.
«So che può
sembrarvi sciocco, ma ho l’assurda sensazione che i domestici
ci stiano
nascondendo qualcosa», aggiunse in un sussurro, tamburellando
con le dita sulla
dura copertina del libro.
«Beh, di sicuro non si può dire
che siano stati molto loquaci da quando siamo
arrivate…» Convenne l’istitutrice,
mordendosi un labbro. «Ma pensate che rischierebbero
l’impiego per mentire al
loro datore di lavoro? E mentire su che cosa, ad ogni modo?
Sì, la faccenda
degli specchi era strana, e continuo a credere che un filo di rigore in
più non
farebbe male, ma da qui a dire che ci stanno nascondendo
qualcosa!...»
«C’è dell’altro»,
proseguì Emma
con insistenza, interrompendo l’obiezione teoricamente logica
della donna. «Questa
mattina, quando mi sono svegliata… dovete sapere che ieri
notte ho chiuso la
porta a chiave una volta rientrata dalla biblioteca… Ecco,
c’era un carillon
sul comodino di fianco al mio letto. Un carillon che non avevo mai
visto, e che
vi posso assicurare che ieri sera non ci fosse! È di quelli
piccoli e rotondi
che sembrano dei portagioie, con il coperchio dorato e intarsiato che
si
solleva; la carica era già stata data, così
quando ho sollevato il coperchio le
figurine di un uomo e una donna, in posizione di walzer, hanno iniziato
a
muoversi in tondo seguendo la musica… La
stessa musica che ho udito suonare dalla biblioteca, miss
Radcliffe, su
questo posso giurare e mettere la mano sul fuoco!»
«Questo è già più
strano»,
mormorò miss Radcliffe, gli occhi leggermente più
spalancati del solito ma non
terrorizzata come invece Emma si era aspettata. «E siete
sempre dell’idea di
non parlarne con vostro padre? So che non volete disturbarlo,
signorina, ma voi
stressa siete preoccupata…»
«Ma non abbiamo nessuna prova,
miss! Niente di niente, e lui non mi crederà.
Penserà che sono ancora sconvolta
dalla morte di mia madre», cosa peraltro
vera, altrimenti come spiegare l’orribile sogno della notte
prima?, «e comunque
potrebbe licenziare i signori Duncan solo per farmi stare tranquilla. E
se mi
sbagliassi al riguardo, miss, credete che potrei dormire serena sapendo
di aver
rovinato loro la vita a causa di una mia discutibile
congettura?»
«E allora che cosa suggerite di
fare, signorina?»
Eccolo, il problema. Che cosa
suggeriva di fare, lei? Aspettare e vedere che cos’altro
sarebbe successo? Adesso
che ci pensava alla luce del giorno, le stranezze della notte prima
apparivano
come semplici scherzi della sua mente, e se avesse dato retta al
buonsenso e
alla logica se ne sarebbe vergognata e avrebbe cercato di non pensarci
più; ma
ciò non cancellava il fatto che qualcuno prima si fosse
introdotto a Pemberley –
l’idea che potessero essere stati i domestici a suonare non
riusciva proprio ad
attecchire nelle sue elucubrazioni – e poi nella sua camera
da letto, chiusa a chiave, per chissà
quanto tempo
e per fare chissà che cosa, oltre a lasciarle
l’inquietante dono del carillon. Insomma,
se non proprio spaventata Emma era perlomeno allarmata. Non poteva
contare su
suo padre, doveva fare a meno dei consigli e del conforto che usava
darle sua
madre, era spaventata e non c’era nessuno,
all’infuori di miss Radcliffe, con
cui parlare e sfogarsi; scrivere una lettera a Caledon, poi, era fuori
discussione – non c’era ancora
un’intimità simile, con il suo futuro marito, da
spingerla a contattarlo in un caso del genere. Dunque come comportarsi?
«Sinceramente,
miss, non ne ho la
più pallida idea.»
_______________________________________________
Angolo Autrice.
Eccoci con il secondo
capitolo! Ho fatto il prima possibile,
considerando che il caldo remava contro di me :D
Parlando della storia, sto
ancora ingranando: piano piano
stiamo facendo conoscenza con i nostri personaggi nonché con
la misteriosa
abitazione che fa da sfondo all’intera vicenda. Presto ne
sapremo sempre di
più, non ci vorrà molto prima che i nostri eroi
prendano la situazione in pugno
e decidano di indagare :D Il genere noir-macabro-grottesco-eccetera
è ancora
nuovo per me, spero di riuscire a renderlo almeno un quarto di quanto
vorrei! In
caso contrario, si accettano suggerimenti ù__ù
Anyway!
Ci tengo a ringraziare
tutti coloro che hanno iniziato a
leggere questa storia, che l’hanno già aggiunta ai
Preferiti e ai Seguiti
dandomi quello sprint in più per continuare a scrivere. Un
grazie particolare
va a Sylphs, Homicidal Maniac e
Se7f per
aver recensito lo scorso capitolo <3
Alla prossima, care! Per
oggi that’s all, folks ;D
Baci baci, la vostra
Niglia.
|
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Capitolo 4 *** Chapter 3. Pursue the Truth ***
3.
Pursue the Truth
Il
giorno dopo la conversazione avuta con la sua giovane protetta, la
signorina
Radcliffe domandò a Mr. Duncan se poteva scendere insieme a
lui al villaggio,
ufficialmente per imbucare alcune lettere e fare acquisti; prima di
uscire ebbe
comunque la cortesia di lasciare una nota per Emma nella quale la
informava che
le loro lezioni erano sospese fino al suo ritorno e di sentirsi libera
di
occupare il tempo come più l’aggradava.
Ciò
che non disse al vecchio custode era il vero motivo della sua uscita:
ne aveva
abbastanza di frasi spezzate e rarefatte spiegazioni strappate con gli
artigli
ai domestici – aveva l’impressione di abitare in
una casa stregata, e per di
più non si fidava nemmeno di chi la gestiva, contrariamente
a quanto Emma,
malgrado lo spavento che si era presa la notte prima per via della
faccenda
della misteriosa musica notturna, continuasse a dichiarare. Ebbene,
miss
Radcliffe era certa che gli abitanti del villaggio dovessero essere
parecchio
informati sui segreti di Pemberley Manor, e contava di riuscire a
trovarne
qualcuno abbastanza loquace da illuminarla al riguardo.
L’idea di indagare su
di loro alle spalle di Emma non le piaceva minimamente, ma sapeva
già che se ne
avesse fatto parola con la ragazza quest’ultima
l’avrebbe dissuasa con le buone
o con le cattive, come aveva fatto per la faccenda degli specchi e di
nascondere alcune cose al padre; miss Jane non poteva più
tollerarlo, ed era
per questo che aveva preso l’iniziativa.
La
giornata era nuvolosa e un debole venticello soffiava gelido, ma vista
l’assenza di pioggia i cavalli procedettero spediti sulla
stradina asciutta,
impiegando la metà del tempo per arrivare al villaggio di
quella che avevano
adoperato la sera in cui le due donne erano arrivate alla stazione di
Alnwick.
Il villaggio di Heatherfield – così
chiamato
perché secoli prima era sorto su un enorme campo di eriche
– era un piccolo e
modesto agglomerato di case in pietra e legno, accoccolate sul declivio
di una
collina poco distante dal fiume che scorreva verso il mare; alcune
abitazioni
erano incastrate tra la terra e la roccia, e uno spesso strato di
muschio ed
erbetta aveva preso a crescere persino sui tetti di alcune di esse.
Quasi ogni
casa possedeva un piccolo cortile che dava sulla strada, dove venivano
coltivati fiori e ortaggi a non finire; dai comignoli si innalzavano
grigie
volute di fumo che rendevano l’aria cupa e tetra, e che
annerivano le pareti
delle case vicine. La stradina in terra battuta si snodava in mezzo ai
piccoli
edifici come un serpente, andando a sbucare nella larga piazza che
ospitava un
grande abbeveratoio per le greggi e che fungeva da punto
d’incontro per tutti
gli abitanti del borgo.
Fu
lì che il signor Duncan fermò il calesse, legando
i cavalli ad uno steccato per
poi aiutare miss Jane a scendere a terra. Le spiegò come
raggiungere prima
l’ufficio postale e poi una locanda dove sarebbe stato
più saggio per lei
attenderlo, mentre il vecchio custode sbrigava le sue commissioni per
conto
della moglie: disse che sarebbe andato là a cercarla, una
volta concluse le sue
faccende. La signorina Radcliffe annuì, dopodiché
si separarono.
All’ufficio
postale la donna doveva semplicemente imbucare le lettere per il conte
di
Grantham, cosa che non le impegnò che pochi minuti; a quel
punto poté dedicarsi
al vero motivo per il quale si era fatta portare a Heatherfield, e
facendo
attenzione a non passare nel fango attraversò la piazza e si
diresse verso la
pensione che il signor Duncan le aveva indicato.
L’Old
Oak era l’unica locanda del villaggio abbastanza grande da
ospitare, al suo
interno, un piccolo salottino che fungeva da sala da pranzo e da
tè. Non appena
ebbe varcato la soglia, Jane Radcliffe venne investita dal piacevole
calore
proveniente dalla stufa a legno posizionata accanto al bancone,
nonché dal
profumo di caffè, pasticcini e torte appena sfornate. Dopo
aver richiuso la
porta dietro di sé avanzò all’interno
della stanza e si levò il soprabito,
notando con la coda dell’occhio le teste dei pochi avventori
– non erano
neppure le otto del mattino – che si sollevavano incuriosite
verso la nuova
arrivata.
Avvicinandosi
al proprietario, un uomo sulla mezza età che lucidava alcuni
bicchieri opachi
disposti ordinatamente sul bancone, posò il proprio cappotto
sullo sgabello e
si schiarì la voce.
«In
che cosa posso servirla, signora?» Domandò
l’uomo con fare cortese, alzando gli
occhi su di lei.
Miss
Jane accennò un leggero sorriso. «Gradirei una
tazza di tè con del latte,
grazie.»
«Certo,
signora. Bessie vi accompagnerà nel salottino, verrete
servita subito… Bessie!»
Chiamò, voltando il capo verso una piccola porta ad ante che
doveva essere
quella della cucina.
«Oh
no, non importa… Posso rimanere qui»,
ribatté frettolosamente, attirando
nuovamente l’attenzione del proprietario. «Mi
tratterrò poco», spiegò,
rispondendo allo sguardo perplesso dell’uomo.
«Come
desiderate, signora», concesse lui, benché poco
convinto. La osservò
curiosamente mentre miss Jane andava a prendere posto su un tavolino
vuoto
accanto alla finestra, dopodiché la sua attenzione
tornò a ciò che stava
facendo prima di venire interrotto. La porta della locanda si
aprì ed entrò un
altro avventore – una figura scura che pareva mettere una
particolare
attenzione nel non mostrare il proprio viso – il quale, senza
disturbare
nessuno, mormorò un ordine al proprietario e andò
a sedersi diligentemente a
uno dei tavoli liberi in disparte rispetto al resto della saletta.
Miss
Jane lo aveva osservato distrattamente, con la coda
dell’occhio, ma la sua
mente non dovette ritenerlo così interessante, dato che
quando la cameriera
giunse poco dopo, portando la sua ordinazione su un vassoio in legno,
la donna
l’aveva già dimenticato.
«Voi… siete la nuova abitante di Pemberley Manor,
vero? Siete la contessa?» Le chiese Bessie, sottovoce, con
aria interessata.
«Sono
la sua istitutrice, in realtà. Milady è molto
più giovane di me», le spiegò
gentilmente, sfilandosi i guanti e poggiandoli accanto a sé.
«Oh, grazie per la
fetta di torta… L’avete fatta voi?»
«Mia
madre, signora. Io l’ho decorata», rispose la
ragazza con un sorriso
compiaciuto.
«Molto
graziosa, complimenti», fece miss Radcliffe, che, per
ciò che aveva in mente di
fare, si preparava ad accattivarsi la giovane cameriera in modo che si
sentisse
in vena di parlare e confidarle qualsiasi cosa.
«Chiamatemi
se doveste aver bisogno di qualcos’altro», le disse
infine Bessie, prima di
congedarsi.
Per
un po’ non accadde nulla: mentre era lì a godersi
la sua colazione, miss
Radcliffe osservò con un’aria che si sarebbe
potuta definire sorniona il via
vai di gente che andava e veniva dalla locanda, e che si faceva sempre
più
frenetico man mano che la mattinata avanzava. C’erano anche
donne tra la
clientela, ma per lo più si trattava di uomini che
approfittavano di una pausa
e l’altra del loro lavoro per farsi un goccetto.
Miss
Jane non se ne accorse subito, ma l’oste – tale
signor Barker – aveva sparso la
voce tra i suoi clienti abituali, quelli che si sedevano al bancone per
meglio
aggiornarsi su nuovi pettegolezzi, che lei era proprio una delle nuove
inquiline di Pemberley, giunta finalmente al villaggio per svelare il
mistero
che si celava dietro l’arrivo della contessina e della sua
istitutrice –
evidentemente la notizia di due donne che si trasferivano da sole in un
maniero
abbandonato da anni provocava parecchio trambusto.
«Come
si sta lassù a casa Pemberley, signora?»
Esclamò uno degli avventori
all’improvviso, voltandosi verso di lei mentre attendeva, in
bilico su di uno
sgabello, di venire servito. «Non preoccupatevi se sentite
rumori durante la
notte, è solo il vento della brughiera che soffia impetuoso,
facendo tremare i
vetri!»
«O
forse sono i fantasmi del conte e dei suoi figli»,
ridacchiò qualcuno, a voce
abbastanza alta perché il suo tono irriverente si udisse al
di sopra del
chiacchiericcio.
Ben
presto, come se in fondo gli abitanti di Heatherfield non vedessero
l’ora di
svelare i loro cupi segreti a qualche ingenuo e inconsapevole
cittadino,
l’attenzione e i discorsi di tutti i presenti si
focalizzarono sul solo scopo
di metterne al corrente la povera istitutrice. La signorina Radcliffe
scoprì così
che della medesima storia esistevano parecchie versioni che differivano
per i
dettagli più disparati, ma grazie al suo buon udito e alla
sua eccellente
capacità di sintesi e accortezza riuscì a
ricostruirne per sommi capi una
variante il più coerente possibile.
Tutti
coloro che erano accorsi a raccontare alla straniera la vicenda
più succulenta
che fosse mai capitata nel circondario concordavano su una medesima
cosa: la
famiglia Pemberley, fatta eccezione per la figlia, la giovane e bella
lady
Eleanore, non godeva di una splendida fama tra i membri del villaggio.
Della
contessa ormai si rammentava poco e niente, essendo morta ben sedici
anni prima
dell’incidente – comunque c’era ancora
chi si sprecava in lunghe descrizioni
sulla sua bellezza; il conte, invece, era arrogante, altezzoso e
sgarbato con
chiunque gli fosse inferiore, e da quando era rimasto vedovo aveva
iniziato a
seminare il panico tra la sua stessa servitù. Gli altri due
figli maschi, poi, minacciavano
di diventare addirittura peggio di lui.
Nella
foga della discussione venutasi a creare, qualcuno – miss
Jane non avrebbe
saputo individuare la fonte certa – aggiunse persino che da
qualche tempo il
conte era diventato pazzo.
«Il
figlio di mio cugino, Rob, portava loro la posta tutti i
giorni», stava raccontando
un altro, alzando la voce di modo che tutti i presenti lo degnassero di
attenzione. «E chiacchierava con le cameriere e le sguattere
di cucina. Ne ha
sentite di tutti i colori il giovanotto, ve lo posso assicurare!
Dicevano che
il conte rimaneva alzato fino a tardi, rinchiuso in biblioteca, e non
voleva
che nessuno lo disturbasse: sembra che non dormisse più,
aveva smesso di andare
a caccia e di frequentare i suoi soliti circoli, e parlava soltanto con
i
figli! Si aggirava per il castello come un’anima in pena, e
proibiva a chiunque
di seguirlo. D’altronde si dice che i peccatori non riescano
a dormire e
riposare…»
Poi,
all’improvviso, una quindicina d’anni dopo la morte
della moglie, il conte
parve rinascere. Nessuno seppe spiegarsi il motivo di quel cambiamento
così
repentino, dato che i Pemberley non usavano confidarsi con chi non
apparteneva
alla loro famiglia: né la cameriera personale di lady
Eleonore né tantomeno il
valletto del conte vantavano un grado d’intimità
simile con i loro padroni da poter
scucire la verità su un comportamento del genere. Per
carità, fece una signora
seduta poco distante da miss Jane, non stavano certo insinuando che il
conte
fosse chissà quale canaglia, era solo… strano,
ecco. Forse aveva soltanto
protratto a lungo il periodo del lutto, affezionato com’era
alla moglie, ma ciò
non faceva di lui un mostro!
«Bah!
La verità è che tornò ad essere lo
spauracchio del villaggio, il che per lui
equivaleva essere tornato alle vecchie consuetudini. Non fu mai uno
stinco di
santo, il conte, e non vedo perché mai dovremmo onorarne la
memoria adesso»,
sputò un uomo tutto imbacuccato seduto al bancone,
intervenendo nel discorso
tra un goccio di sherry e l’altro.
«Via,
signor Fraser, non si parla male dei morti», lo
rimbeccò bonariamente Mrs.
Gibbs, la cuoca, che aveva abbandonato la cucina per partecipare alla
più
interessante discussione che avveniva nel locale.
L’altro
riprese a bere con una scrollata di spalle, come a dire che non gli
interessava.
Alla
fine miss Radcliffe riuscì a catturare
l’attenzione di uno degli uomini che
stavano raccontando, e ad interrompere il suo ciarlare senza fine.
«Ma, alla
fine, che cosa accadde quindici anni fa? In cosa consiste questo
incidente di
cui parlate tutti?»
«Fu
una brutta storia», esordì infine lo stesso
barista, con aria tetra. «Ci fu un grosso
incendio, e tutti i Pemberley morirono. Ma non fu quella la parte
peggiore…
Qualcuno fece una strage, quella notte, e uccise ogni abitante del
castello, a
partire dal maggiordomo per concludere con l’ultima sguattera
di cucina. Non si
salvò nessuno, salvo… salvo i Duncan, che
all’epoca abitavano fuori dal
maniero, in un villino ai confini della proprietà.»
«Un
po’ strano, non credete?, che tra tutti si salvassero proprio
loro, quelli che alla
fine avrebbero ereditato la tenuta in custodia fino a che non si
fossero
trovati altri proprietari?»
Un
violento brusio seguì quell’affermazione, segno
che, anche a distanza di tutti
quegli anni, certe faccende irrisolte continuavano a mietere vittime.
Ciò diede
inizio a un altro giro di birra e sherry, e gli avventori
dell’Old Oak
divennero sempre più partecipanti e ciarlieri: miss Jane
cominciava a pensare
di aver sbagliato nel lasciare che quel discorso venisse fuori
– sarebbe stato
meglio chiedere a uno solo, in privato, senza che si scatenasse quella
folla di
curiosi smaniosi di dare la loro versione dei fatti. Eppure il racconto
andava
avanti, e lei non poté fare a meno di ascoltare,
morbosamente curiosa.
«All’alba,
dopo aver spento l’incendio e fatto le prime indagini, il
vecchio Dolph venne
arrestato e portato giù in città, al
commissariato. Fu lui a trovare i corpi,
così raccontò, ma negò fino alla fine
di aver qualcosa a che fare con quella
disgrazia. I ladri, disse. Devono essere stati i ladri…
eppure nulla era stato
rubato, né spostato di un millimetro.» Bevve un
lungo sorso del suo sherry,
prima di voltarsi verso la signorina Radcliffe e continuare la sua
storia. «La
polizia lo scagionò dalle accuse perché non
c’erano prove contro di lui. Nessuno
aveva visto niente, come potete immaginare. E poi aveva le chiavi, il
signor
Duncan, mentre la porta del castello era stata scassinata. Questo
perlomeno è
quanto sappiamo, ovviamente la polizia avrà tenuto il resto
per sé… ma non ha
mai fatto male ad una mosca, il vecchio Dolph, e quella faccenda lo
sconvolse
profondamente. Neppure la moglie fu più la stessa,
dopo.»
«Erano
a servizio del conte da sempre, si può dire. Certo che
rimasero sconvolti… Non
augurerei una fine del genere al mio peggior nemico»,
mormorò Mrs. Gibbs,
scuotendo mestamente la testa. «E tutti i membri della
servitù, poi… La maggior
parte non erano di qui, però si può dire che ci
conoscessimo tutti tra noi – la
povera gente si conosce l’una con l’altra. E il
funerale… Ve lo ricordate, il
funerale?»
«Parli
di quello dei domestici, vero? Perché non ricordo che ci sia
andato nessuno di
noi, a quello dei Rochester», ribatté
l’oste, storcendo il naso.
«Già,
e a volte… A volte vorrei che l’avessimo
fatto», fu la sussurrata risposta
della cuoca.
La
curiosità di miss Radcliffe era già stata
stuzzicata abbastanza perché la donna
potesse accontentarsi di simili frasi ambigue. «Che cosa
intendete dire?»
Domandò, attirando l’attenzione di gran parte dei
presenti su di sé ma senza
curarsene particolarmente.
«Oh,
signora, niente, niente. Perdonatemi, anzi, perdonateci tutti! Sono
solo
chiacchiere e cattiverie senza senso, vi prego di non darvi
più peso del
necessario», replicò la donna frettolosamente,
tirando su col naso e pulendosi
le mani ancora un po’ infarinate sul grembiule.
Ciò servì a riportare ognuno
dei presenti con i piedi per terra, e il chiacchiericcio frivolo e
fastidioso
tornò a sostituire l’accalorata discussione che
c’era stata fino a quel
momento. Miss Radcliffe comprese che non le sarebbe stato detto
nient’altro, e
con un sospiro si lasciò scivolare sulla sedia, dimentica
del suo tè ormai
gelido.
Il
misterioso avventore ammantato di scuro che era rimasto in disparte per
tutto
il tempo in cui aveva avuto luogo la discussione lasciò
frettolosamente la
locanda prima di lei, così che miss Jane non ebbe modo di
poterlo vedere in
faccia. Non ci fece caso – aveva già racconto fin
troppe informazioni, vere o
false che fossero – e poteva dunque finire la sua colazione
in attesa che Mr.
Duncan andasse a prenderla per tornare a Pemberley. Ne avrebbe avuto
parecchie
di cose da raccontare a milady, senza alcun dubbio.
*
Emma
avrebbe voluto approfittare dell’assenza di miss Radcliffe
per dedicarsi ad un’accurata
ispezione del castello, ma il timore di poter trovare le prove che vi
fosse
effettivamente qualcosa di strano le impedì di aggirarsi da
sola per i
corridoi, pur con la tenue luce del giorno che penetrava dalle
finestre. Era la
prima volta che rimaneva da sola con i domestici, e anche questo le
metteva
addosso un’incomprensibile inquietudine; fu così
che domandò a Mrs. Duncan di
servire la colazione all’esterno, nel salottino in vimini
sotto il portico che
era stato portato fuori dopo il loro arrivo – probabilmente
lo tenevano
conservato in soffitta, dato che non c’era nessun padrone che
lo utilizzasse – e
dal quale si godeva di una piacevole vista sul giardino e su un lembo
del lago
che si trovava nella proprietà.
Mentre
sfogliava un libro trovato in biblioteca – un vecchio volume
di poesie con il
dorso bruciacchiato e le pagine ingiallite, i cui margini erano stati
diligentemente
riempiti con annotazioni e appunti in una un po’ troppo
pretenziosa calligrafia
femminile – uno strano trambusto giunse a spezzare la quiete
della sua
colazione. Fu come un rombo: un insieme di pezzi di ferraglia che,
facendo
attrito tra loro e avanzando sulla ghiaia del vialetto, parevano quasi
un treno
fuggito dai suoi binari. In realtà, per Emma non si trattava
di un rumore del
tutto nuovo: lo aveva udito sempre più spesso in
città, negli ultimi tempi,
quel baccano che sovrastava persino i nitriti dei cavalli e il
chiacchiericcio
dei cocchieri. Sia per Lydia che per la signora Duncan, tuttavia,
doveva
trattarsi di una novità visto il modo in cui interruppero
ciò che stavano
facendo per sollevare lo sguardo e cercare di individuare la fonte di
quel
rumore.
Come
Emma aveva immaginato, quel baccano era dovuto al ruggente motore di
un’automobile: il mezzo in questione sbucò
sbuffando e scoppiettando da sotto i
frondosi alberi del vialetto, raggiungendo il piazzale del maniero.
Mrs. Duncan
si avvicinò d’istinto alla sua padrona, mentre la
giovane domestica si limitò a
rimanere ferma e immobile come se sperasse di poter diventare
invisibile da un
momento all’altro.
«Sapete
chi è, Mrs. Duncan?» Domandò Emma senza
scomporsi, poggiando il libro sul
tavolino e prendendo un sorso di tè.
«No,
milady. Non abbiamo più avuto visite da quando la vecchia
famiglia abitava qui»,
replicò la governante a mezza voce. Sembrava stranamente
agitata, forse anche
più pallida del solito, soprattutto mentre lanciava occhiate
alla casa dietro
di lei: che temesse l’improvvisa comparsa di Noah, e una sua
eventuale brusca
reazione davanti alla presenza di estranei?
«Non
importa. Ci comporteremo da perfetti padroni di casa», fu la
risposta di Emma.
In realtà era piuttosto eccitata all’idea di
ricevere ospiti – le mancava avere
a che fare con qualcuno che non fosse la sua istitutrice o la
governante di
Pemberley – anche se iniziava già a pentirsi di
non aver indossato il nero,
quella mattina: con il fatto di vivere da sola in
quell’immensa magione aveva
dimenticato che nel mondo esterno ci si aspettava che lei onorasse il
lutto per
la sua povera madre.
Dal
moderno phaeton bianco con rifiniture nere e dorate scese un distinto
signore
che poteva avere l’età di suo padre, il conte di
Grantham: era alto e robusto,
con folti capelli scuri vivacemente brizzolati e delle rughe agli
angoli degli
occhi che tradivano la sua età matura. Si levò il
cappello, i guanti in pelle
rossiccia e si scrollò di dosso qualche granello di polvere,
prima di voltarsi
verso la magione e osservarne l’imponente facciata con
un’aria assorta e
interessata; solo una volta concluso l’esame
spostò la sua attenzione verso le tre
donne che lo osservavano incuriosite da sotto il patio, accennando poi
un
inchino nella loro direzione.
Emma
prese la parola per prima. «Buongiorno, milord. Con chi
abbiamo l’onore di fare
la conoscenza?» Domandò, mentre l’uomo
si avvicinava con passo svelto. Adesso
che lo poteva vedere meglio, Emma notò la fronte ampia e la
pelle appena più
scurita dal sole del tanto ritenuto elegante dalla buona
società londinese,
cosa che le fece pensare che molto probabilmente l’uomo non
era un lord.
Tale
sospetto venne immediatamente confermato quando egli si
presentò. «Niente milord,
signorina, sono solo un umile imprenditore. Mi chiamo Arthur Carlisle.
E voi dovete
essere lady Moore, se non sbaglio?»
Le voci giravano in
fretta. «Non
sbagliate, signor Carlisle. Prego, accomodatevi – posso
offrirvi del tè?»
«Grazie,
molto volentieri», accettò, sedendosi di fronte a
lei e posando i suoi
accessori su un’altra sedia vuota. Aramis, che non lo aveva
perso di vista un
solo istante, si alzò, si sgranchì le zampe e gli
si avvicinò con cautela per
annusarlo, per poi posargli il capo in grembo e lasciarsi accarezzare
tra le
orecchie. Ciò rese anche Emma più ben disposta
nei confronti del suo ospite
misterioso.
Lasciò
che Lydia gli servisse il tè, dopodiché
parlò. «Che cosa vi porta a Pemberley,
sir Carlisle?»
«Fondamentalmente
la curiosità, milady, unita al dovere di buon vicinato.
Inizio con il chiedervi
perdono per non essere venuto prima a porgervi il benvenuto qui a
Heatherfield.
Io e mia moglie abbiamo pensato che fosse meglio darvi del tempo per
ambientarvi nella nuova casa prima di venire a imporvi la nostra
amicizia»,
fece con un gran sorriso, sembrando quasi di dieci anni più
giovane.
«È
molto gentile da parte vostra», ammise Emma, ricambiando il
sorriso senza
sforzo. «Spero che tornerete con vostra moglie la prossima
volta, così
incontrerete anche la mia istitutrice.»
«Siete
venute voi due da sole? Ero convinto che anche il conte di Grantham
fosse a
Pemberley.»
«Mio
padre ci raggiungerà più avanti, è
molto impegnato in questo periodo», spiegò,
senza tuttavia approfondire dettagli che non era necessario che il
signor
Carlisle sapesse. «Vedo che le notizie viaggiano in fretta da
queste parti…»
«Già,
perdonate la mia indiscrezione. Heatherfield è un villaggio
di duecento anime,
tutti conoscono tutti e un nuovo arrivato attira l’attenzione
come un gatto che
abbaia. Anche se abita in una proprietà così
fuori mano come Pemberley», ammise
l’uomo, con un’espressione che sarebbe sembrata
quasi colpevole se non fosse
stato per il luccichio divertito nei suoi occhi.
Emma
sorrise senza prendersela. «Bene, mi fa piacere ricevere
visite. Siete il primo
indigeno con cui ho a che fare, escludendo i signori Duncan…
È una boccata
d’aria fresca poter parlare con qualcun altro che non siano i
domestici»,
aggiunse, chinandosi verso di lui e abbassando notevolmente il tono di
voce.
Mrs. Duncan, che aveva ripreso a potare qualche rametto arrogante dei
cespugli
di rose, poco lontani, non diede segno di aver sentito.
Istintivamente
il signor Carlisle posò a sua volta lo sguardo
sull’indaffarata governante, con
un’aria d’un tratto imperscrutabile.
«Sì, immagino», mormorò a
mezza voce.
Sembrava immerso in qualche ragionamento tutto suo, così
Emma lo lasciò libero
di inseguire i suoi pensieri per un altro po’, prima di
attirare di nuovo la
sua attenzione.
«Vivete
qui da tanto, sir Carlisle?»
La
sua voce riscosse l’uomo e riportò il suo
interesse su di lei. «Oh, sì. Da più
di vent’anni, mia cara», rispose con sorriso
rilassato, spezzando uno dei
biscotti al burro e assaggiandolo incuriosito. «Sono nato e
cresciuto nel
Derbyshire, a Matlock, ma poi ne ho avuto abbastanza e sono fuggito nel
continente in cerca di fortuna. Sono stato in Francia, in Svizzera e
infine in
Germania: lì ho conosciuto mia moglie, quindi in un certo
senso sono riuscito
nel mio intento», ammiccò, porgendo un pezzo di
biscotto ad Aramis che
scodinzolava ai suoi piedi. «Poi ho scoperto che il richiamo
della patria era
troppo dolce per poterlo ignorare, e sono ritornato in Inghilterra. La
signora
Carlisle non amava particolarmente il mio luogo di nascita, e neppure
io se
devo essere sincero, così dopo un breve girovagare siamo
finiti in questa parte
sperduta e pacifica della brughiera.»
«Dunque
siete un viaggiatore. Sapete, vi invidio», ammise Emma,
mescolando
distrattamente le due zollette di zucchero che aveva messo nel
tè. «Io non sono
mai stata fuori dall’Inghilterra, ma viaggiare è
qualcosa che mi piacerebbe
molto. Mi attraggono i paesi del Mediterraneo…
l’Italia, e la Grecia in
particolar modo. Sono un’appassionata di archeologia,
sapete?»
«Ma
davvero? Oh, è splendido che una gentildonna coltivi simili
interessi: rende
molto più stimolante e piacevole intraprendere una
conversazione con lei. A
Berlino c’era un museo che…»
Continuarono
chiacchierando del più e del meno per una buona
mezz’ora, ed Emma si trovò
parecchio a suo agio con quel simpatico e carismatico vicino di casa
che
sarebbe potuto benissimo essere suo padre: il suo buonumore era
contagioso, e
per un momento la giovane riuscì quasi a dimenticare quelle
infide sensazioni
di paura che non l’avevano abbandonata da che aveva messo
piede a Pemberley.
Esse tuttavia tornarono ad avvolgerla non appena il suo ospite tacque,
un po’
per riprendere fiato e un po’ per finire il suo tè
che doveva essere ormai
freddo.
«Avete
detto che siete qui da vent’anni, giusto?»
Esordì, spostando la conversazione
su un argomento che la premeva con più urgenza.
«Conoscevate i vecchi
proprietari di Pemberley? I conti di Rochester?»
Sir
Arthur rimase pensieroso per un po’, tamburellando le dita di
una mano sul
tavolo e allisciandosi i baffi con quelle dell’altra.
Sembrava voler prendere
tempo, come se l’argomento non fosse esattamente di suo
gusto. «Non
personalmente», disse infine, con un lieve sospiro.
«I Rochester erano gli
unici nobili del circondario, e si comportavano con gli abitanti di
Heatherfield come se fossero i signorotti incontrastati del luogo. Non
credo
rientrasse nei loro desideri stringere amicizia con me, che da semplice
possidente terriero non dovevo essere di certo alla loro altezza.
Però ammetto
che la domenica, quando andavamo a messa, la figlia si fermava
volentieri a
chiacchierare con Gretchen, mia moglie. Era una ragazza gentile, lady
Eleanore,
ma per quanto riguarda gli uomini di quella famiglia…
Sarò franco, milady, e
spero che mi perdonerete per quanto sto per dire, ma nessuno pianse per
la loro
dipartita. Certo, fu un orrendo affare, e non augurerei una cosa del
genere al
mio peggior nemico, ma credo che sotto sotto tutti fossero grati che i
Rochester si fossero, in un certo senso, estinti.»
Sollevò
gli occhi su Emma ma parve quasi non vederla, perso com’era
nei ricordi che
quel racconto doveva avergli suscitato. «Andate pure a vedere
le loro tombe al
cimitero, milady, e vedrete da voi che neppure un fiore le abbellisce.
Come se
in fondo non li volesse nemmeno la terra…»
Emma
rimase in silenzio per un po’, a sua volta pensierosa, e
d’istinto si voltò ad
osservare la facciata cupa del maniero. Che
fossero gli spiriti irrequieti di quella disgraziata famiglia a
spaventarla?
Subito dopo aver concepito quel pensiero si rese conto di quanto fosse
sciocco,
e decise di non far parola con il suo nuovo amico dei suoi timori
– l’avrebbe
scambiata per un’ingenua ragazzina di città, e lei
era molte cose fuorché
quello. «È molto triste», convenne
infine per spezzare il silenzio. Vide che
sir Arthur aveva riportato il suo sguardo, ora non più
assente, su di lei, e
osò un’ultima questione. «Ho sentito
molto parlare della tragedia che ha
colpito i Rochester, ma nessuno mi ha spiegato che cosa sia accaduto in
realtà.
Voi…» Esitò, mordicchiandosi il labbro
inferiore, ma poi prese coraggio. «Voi
di certo dovete saperlo. Cosa accadde quindici anni fa?»
Era
palese che la piega che aveva preso la conversazione non piacesse
particolarmente a sir Arthur, eppure bisogna ammettere che egli fece
del suo
meglio per soddisfare la curiosità della padrona di casa.
«Non è una bella
storia da raccontare, milady», esordì pacato,
osservandola attentamente per
assicurarsi di non oltrepassare il limite. Poi lanciò
un’occhiata di sottecchi
a Mrs. Duncan, che ormai si stava occupando dei fiori
dall’altra parte del
giardino, abbastanza lontana da essere fuori portata
d’orecchio, e assicuratosi
di questo riprese a parlare. «I giornali dell’epoca
ne parlarono per settimane,
fu uno scandalo. Tutti i membri della servitù vennero
orribilmente uccisi, e
così pure i Rochester; poi nella biblioteca
scoppiò l’incendio, e i loro corpi
furono deturpati dalle fiamme. Non trovarono mai il responsabile di
quella
tragedia, incolparono ladri ignoti…» Sir Arthur
esitò un momento, raccogliendo
le idee, poi sembrò decidere che tanto valeva raccontare
ogni cosa. «La
versione che venne rilasciata dalla polizia, alla fine, fu che il
conte, in un
impeto di pazzia – sembra che non godesse di una salda
stabilità mentale, quell’uomo
– uccise prima i domestici e poi i figli, appiccando infine
il fuoco di sua
mano per far sì che la sua tanto amata proprietà
non finisse in mani estranee. Suppongo
che, in mancanza di altre prove, questa fosse l’ipotesi
più attendibile. Una disgrazia,
ve lo ripeto… una disgrazia immane. Non si parlò
di altro per mesi e mesi.»
L’uomo
tacque, probabilmente perso in quelle oscure rimembranze, lasciando ad
Emma l’opportunità
di assimilare quanto aveva appena udito. Per natura ed educazione, non
era una
ragazza che credeva nei fantasmi o nel mondo soprannaturale in
generale… Eppure,
da quando aveva messo piede a Pemberley, non poteva negare che un
brutto
presentimento l’avesse accompagnata da mattina a sera,
specialmente negli
ultimi giorni – da quando, volendo essere precisi, aveva
conosciuto Noah Duncan.
Poi c’era stata la porta a vetri della biblioteca
misteriosamente spalancata,
quella musica nel cuore della notte, il sogno e lo strano comportamento
di
Aramis, che diventava insofferente quando lo obbligava ad entrare
dentro casa…
Quando
sir Arthur Carlisle si congedò, poco più tardi,
con la promessa di tornare a
farle visita il più presto possibile, magari anche
accompagnato dalla sua
consorte, Emma si scoprì riluttante a rientrare nel maniero,
benché fuori
iniziasse a far freddo e il cielo si stesse nuovamente riempiendo di
nuvoloni
carichi di pioggia.
Non ci sono
fantasmi a Pemberley. È ridicolo,
si ripeté tra sé e sé, mentre infine
cedeva e si lasciava accompagnare dentro
il castello da Mrs. Duncan e Lydia. Aramis esitò a sua volta
sulla soglia,
uggiolando appena e fiutando l’aria e il terreno con le
orecchie e la coda
dritta, ma poi seguì la sua padrona com’era
abituato a fare. Emma decise di non
prendere troppo sul serio quel comportamento. Non ci sono
fantasmi, continuò a ripetersi, decisa. Mi
sono semplicemente lasciata suggestionare
dal racconto di sir Carlisle.
Eppure
non poteva negare, una volta che fu nella scura penombra
dell’ingresso, senza
più l’aria fresca ad accarezzarle la pelle, di
sentirsi d’un tratto spiata.
**
Jane
Radcliffe si era sempre considerata una donna dall’intelletto
inflessibile, al
di sopra di qualsivoglia frivolezza: le credenze e le superstizioni
della gente
di campagna rientravano in questa categoria. Eppure, mentre si dirigeva
da sola
nella sala da pranzo – Emma le aveva chiesto di precederla
mentre lei finiva di
scrivere una lettera per il padre – si ritrovò ad
ascoltare, o meglio ad origliare,
una conversazione che la lasciò parecchio perplessa e anche
leggermente
preoccupata, soprattutto visto e considerato tutto ciò che
aveva udito quella
mattina al villaggio. Non che fosse un gesto particolarmente saggio
quello di
prendere come oro colato le farneticazioni di qualche ubriacone
invidioso e incattivito,
ma comunque, dato che si trovava ad essere l’unica
responsabile di lady Moore,
nessuno avrebbe potuto biasimarla se si fosse lasciata guidare da un
atteggiamento un tantino prevenuto.
Essendo
stata particolarmente silenziosa nell’entrare nella sala da
pranzo, nessuno si
accorse del suo arrivo; da dietro il paravento che separava la zona
riservata
ai padroni da quella riservata ai domestici che si occupavano di
servire i
pasti, miss Radcliffe udì dunque provenire delle voci
sommesse, che parlavano
con bisbigli concitati. Le riconobbe immediatamente come appartenenti
ai
coniugi Duncan – non che ci fossero altri con cui
confonderli, ad ogni modo.
«Dici
che è già tornato? Ne sei sicura?»
«Sai
che non si trattiene mai troppo a lungo al villaggio. Deve essergli
giunta la
notizia dell’arrivo di milady, e… buon Dio, credi
che dovremmo dirlo alla
padrona?»
«E
venire cacciati da casa nostra, o peggio?»
«Non
è casa nostra! È sua! Se ti
sentisse…»
«Non
oserebbe alzare un dito su di me.»
«Tieni
a freno la lingua e sii meno arrogante, Randolph Duncan», la
voce della
governante si era fatta improvvisamente più severa.
«Il nostro quieto vivere
dipende solo dal suo umore. E tu sai di che umore è stato in
questi ultimi
tempi, vero?»
Il
signor Duncan non rispose subito, ma quando lo fece cambiò
discorso. «Ad ogni
modo, non puoi dire nulla alla ragazza. Né alla sua
istitutrice. I segreti che
custodiamo non ci appartengono, e non spetta a noi
divulgarli.»
«Sì,
ma se le facesse del male… Dolph, pensaci!… Io
non so se sono in grado di
sopportarlo… Stavolta potremmo rischiare davvero la
prigione, o peggio!»
«Buon
Dio, Meg, tu l’hai già incontrato. Ti ha
già dato disposizioni, vero? Che cosa
ti ha detto di fare, eh, Meg?»
Sfortunatamente
per miss Radcliffe fu impossibile udire altro. In quel momento la porta
della
sala si aprì e lady Moore fece il suo ingresso, accompagnata
da uno
scodinzolante Aramis. L’istitutrice sentì le voci
dei domestici spezzarsi in
gemiti soffocati, timorosi di essere stati uditi, e poi entrambi
vennero fuori
da dietro al paravento per salutare la giovane signora.
Ma
lo sguardo che videro sul volto di Miss Radcliffe, tuttavia, fece loro
comprendere
che la donna aveva già sentito tutto quello che non avrebbe
dovuto.
Fingendo
di non notarlo, Mrs. Duncan sorrise gentilmente a Emma. «La
cena è pronta,
milady. Quando lo desiderate iniziamo a servire.»
«Certo,
signora Duncan, fate pure. Chiedo scusa per il ritardo»,
rispose quest’ultima,
osservando con la coda dell’occhio il suo cucciolo che andava
a sdraiarsi di
fronte al camino acceso. Poi si rivolse verso la sua istitutrice con un
mezzo
sorriso. «Siete qui da tanto, miss? Perché non vi
accomodate?»
«Sì,
milady», fece la donna, sedendosi piuttosto rigidamente.
Sorpresa
da quel tono, Emma aggrottò la fronte e scrutò la
sua istitutrice. «Va tutto
bene, signorina Jane? C’è qualcosa che dovrei
sapere?» L’istinto la portò a
sussurrare come se fosse un ladro nella sua stessa casa, la qual cosa
la irritò
non poco. Sono davvero troppo
suscettibile. E sir Carlisle era fin troppo bravo a
raccontare…
«Dopo
cena, milady», replicò sullo stesso tono miss
Radcliffe, guardandola in un modo
che le fece intendere di non voler affrontare l’argomento
davanti ai domestici.
Era
ridicolo che dovessero avere tutti quei segreti tra loro, ma allo
stesso tempo
Emma non poté che approvare quella prudenza di cui stavano
facendo uso. Sorrise
gentilmente quando Mrs. Duncan e Lydia servirono loro la cena, ma
durante il
pasto lei e miss Jane rimasero in silenzio, scambiando solo qualche
chiacchiera
di circostanza e priva di un reale interesse. La governante
versò un vino rosso
a entrambe, ma l’istitutrice notò un lieve tremito
nella mano della donna
quando riempì il suo bicchiere: come suo solito ne prese
silenziosamente nota,
senza dar cenno di aver notato la stranezza.
Dopo
aver mangiato anche il dolce – una crema bavarese alla
vaniglia – Emma posò il
tovagliolo accanto al proprio piatto indicando a Lydia di poter
iniziare a
sparecchiare, e si voltò verso miss Radcliffe. «Ci
ritiriamo in salotto, miss?
Così mi raccontate della vostra avventura al
villaggio», propose, senza
riuscire a celare la propria curiosità.
Miss
Radcliffe annuì e fece per alzarsi a sua volta, ma quando
abbandonò il sostegno
della sedia barcollò e perse l’equilibrio, e
sarebbe certamente caduta se non
avesse avuto la prontezza di afferrarsi al tavolo. Era improvvisamente
pallida,
e piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte aggrottata.
«Mio
Dio, miss, state bene?» Esclamò Emma, affannandosi
al suo fianco e posandole
una mano sulla schiena. «Cos’è
successo?»
«Un…
un mancamento, milady. Non vi preoccupate… Se non vi
dispiace, però, mi… mi
ritirerei nella mia stanza… Non mi sento molto bene. Forse
ho preso freddo,
questa mattina», balbettò confusamente la donna,
gli occhi serrati come se ciò
potesse bastare a scacciare il malanno indesiderato.
«Sì,
certo, appoggiatevi a me… Ecco, così»,
si offrì la ragazza, sinceramente
preoccupata. Da che la conosceva, infatti, non aveva mai visto miss
Radcliffe
crollare così per un piccolo capogiro – doveva
essere davvero una brutta
infreddatura. E durante la cena era sembrata normale…
«Mrs. Duncan!» Chiamò poi
ad alta voce, finché la governante non accorse prontamente.
«Mrs. Duncan, per
favore. Aiutatemi ad accompagnare miss Radcliffe nella sua
stanza.»
L’anziana
donna sembrava se possibile più pallida della malata, e le
sue mani intrecciate
si torcevano nervosamente prima che si decidesse a passare a sua volta
un
braccio intorno alla vita dell’istitutrice. «Ecco,
miss, adesso andiamo…
Facciamo piccoli passi», la istruì, con la voce
che le tremava appena.
In
due, con Lydia che le precedeva con la candela, riuscirono a portare
miss
Radcliffe fino alla sua camera da letto, a spogliarla degli abiti
pesanti e ad
infilarle la camicia di flanella, per poi metterla a letto e
rimboccarle le
coperte. La donna non emise un suono per opporsi – altra cosa
che Emma trovò
strana, visto che miss Jane solitamente non permetteva a nessuno di
aiutarla a
vestirsi o a svestirsi – come se fosse persa in una
dimensione totalmente
diversa. Gemeva, borbottava parole prive di senso, e tossiva come se
volesse
sputare tutta la cena.
«Lydia,
porta subito una tazza di latte con del miele»,
ordinò Mrs. Duncan, prima che
la cameriera si dileguasse giù per le scale a obbedire
com’era sua abitudine.
«Non
ha neppure la febbre», esalò Emma preoccupata,
sfiorando la fronte gelida dell’istitutrice.
Che genere di infreddatura era quella?
«Potrebbe
salirle durante la notte. Ormai è tardi per chiamare un
dottore», replicò la
signora Duncan con tono irrevocabile; eppure le sue mani stavano ancora
tremando, Emma non riusciva a distogliere lo sguardo da esse.
«Le cercherò
delle coperte più pesanti. Milady, forse è meglio
per voi andare a letto e
riposarvi…»
«No,
Mrs. Duncan, ho intenzione di rimanere qui tutta la notte»,
ribatté
freddamente, seccata per lo strano comportamento della donna e turbata
dal
malore improvviso di miss Jane. «Andate pure voi a coricarvi,
ma prima accendete
la stufa. Si gela qua dentro», ordinò poi, con un
tono che a sua volta non
ammetteva repliche. C’erano parecchie cose che non le stavano
piacendo della
governante, ultimamente, ma ci avrebbe pensato con calma una volta che
la crisi
di miss Radcliffe fosse passata.
Pregò
solo che non fosse nulla di grave.
______________________________________________
Angolo Autrice.
Nuovo capitolo! Orbene,
come procede? Sto riuscendo ad appassionarvi o ve ne siete
già lavati le mani? *rumore di grilli in sottofondo*
Su su, e
dire che sono anche piuttosto veloce con gli aggiornamenti,
conoscendomi e
considerando che è ancora estate. u_u
Ma bando alle ciance!
Alcuni appunti, prima di proseguire con i soliti ringraziamenti.
- Non ho idea di che rumore potesse
fare il motore di
una Mercedes-Simplex 40PS 4seater phaeton,
per cui ho dato spazio alla fantasia
(ma, considerando il fracasso che facevano i treni…)
- Mi riferisco ai vecchi proprietari
di Pemberley
Manor sia col nome “Rochester” sia con quello
“Pemberley” – non è un errore.
La
faccenda è molto semplice: Rochester è il titolo
nobiliare, Pemberley è il
cognome della famiglia (significa che un Pemberley può
ereditare il titolo di
conte di Rochester, ma non è detto che il conte di Rochester
debba essere
necessariamente un Pemberley: difatti, qualora il conte di Rochester
avesse
avuto solo figlie femmine, queste avrebbero perduto il titolo di
Rochester che
sarebbe andato al parente più prossimo in linea di
successione, che poteva
essere uno Smith qualunque. Facile, no?).
Altro da dichiarare? Mi
pare di no.
Ringrazio quindi Sylphs
e Homicidal Maniac per aver recensito lo
scorso capitolo, e Helmwige per
essersi aggiunta alla lettura :D Siete tutte splendide e gentilissime,
grazie
infinite per esservi imbarcate in questa avventura! :*
Ci sentiamo presto
– non oso promettervi una data, neppure
approssimativa, perché so già di essere incapace
di scrivere se ho delle
scadenze da rispettare. xD Ma farò del mio meglio! Baci e
abbracci come al
solito, dalla vostra
Niglia.
|
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Capitolo 5 *** Chapter 4. The Strange Journal of Dr. Murray ***
4.
The Strange Journal of Dr. Murray
Come
promesso, Emma rimase tutta la notte accanto a miss Radcliffe. Di tanto
in
tanto scivolava in un sonno leggero, spossante, e a un certo punto,
durante
questi intermezzi, le parve di vedere – ma non poteva dire di
esserne sicura –
nel dormiveglia, un’ombra scura curva sul letto della sua
istitutrice, come a
volerne controllare il respiro, con l’aria miasmatica
dell’incubo; doveva
comunque essersi trattato di una visione, perché la figura
era scomparsa tanto
in fretta da farle dubitare addirittura che ci fosse stata –
e non sembrava,
peraltro, appartenere a nessuno dei domestici. Ma a un certo punto
della notte
le candele si erano consumate e la stanza era precipitata nel buio, se
si
escludeva un lieve bagliore proveniente dalle braci della stufa, ed
Emma si
convinse di aver solo sognato.
Fu
una mano gentile a scuoterla piano fino a svegliarla,
l’indomani mattina. Lydia
le aveva portato del caffè con un goccio di latte, e, mentre
Emma si sforzava
di riprendersi dalla posizione scomoda in cui aveva dormicchiato per
tutta la
notte, la ragazza si affaccendò ad aprire le tende,
schiudere appena la
finestra per cambiare l’aria, aggiungere dei ciocchi di legno
alla stufa e
andare a svuotare il vaso da notte. Prima che sparisse fuori dalla
stanza per
quest’ultima incombenza, però, Emma
attirò la sua attenzione.
«Dov’è
Mrs. Duncan?» Domandò, con la voce ancora
impastata dal sonno. Ormai aveva
imparato a comunicare con la giovane, così quando Lydia
iniziò a gesticolare
Emma comprese che la donna era da qualche parte al pianterreno,
probabilmente
in cucina.
Bene, pensò. «Vado un momento
nella
mia stanza a vestirmi e a prepararmi, allora… No, Lydia, non
c’è bisogno che
venga anche tu, ma grazie lo stesso», aggiunse con un mezzo
sorriso,
interrompendo i gesti della ragazza. Lasciò la camera di
miss Radcliffe così in
fretta che la domestica non poté trattenerla in alcun modo,
limitandosi a
fissare sconsolata la porta dalla quale Emma era uscita: la signora
Duncan le
aveva ripetuto all’infinito che non bisognava lasciar sola la
padrona per alcun
motivo e in nessun momento, ma ciò che la governante non
sapeva non poteva
turbarla, giusto?
Rassegnata
e impotente, Lydia tornò alle sue faccende.
Quando
più tardi Emma scese al pianterreno per la colazione,
trovò Mrs. Duncan intenta
a preparare la tavola e a disporre le varie pietanze. Aramis le venne
incontro
scodinzolando – era probabile che l’avessero tenuto
fuori, nelle stalle, per
tutta la notte, dato che la sua padrona era impegnata con
l’istitutrice – e la
sua fu l’unica accoglienza festosa che ricevette. La
governante era
incredibilmente pallida e aveva un’aria stanca e provata,
come se a sua volta
non avesse chiuso occhio.
«Avete
chiamato il dottore per miss Radcliffe, signora Duncan?»
Chiese Emma prendendo
posto a capotavola, piluccando dei crostini da un piatto e porgendoli
con due
dita ad Aramis.
«Dolph
è andato in paese questa mattina, milady. Dovrebbe essere di
ritorno per l’ora
di pranzo», fu la risposta della donna, impegnata a versarle
il tè. «Tuttavia,
milady, c’è la possibilità…
Ecco, che possa non venire nessuno.»
Emma
sollevò gli occhi su di lei, perplessa. «E per
quale motivo, se posso chiedere?»
«Sono
anni che viviamo a Pemberley in solitudine, milady, da quando sono
morti i
vecchi padroni… Al villaggio non ci vedono di buon occhio, e
tendono ad
evitarci. Nessuno ha più messo piede al castello da quando
ci vivevano i conti.
Per questo il signor Duncan deve fare continuamente avanti e indietro
da qui a
Heatherfield.»
«Ma
questo è ridicolo», proruppe Emma, accigliata.
«E neanche la presenza di una
nuova padrona di casa potrebbe far loro cambiare idea? Non possiamo
rimanere isolati
a Pemberley a causa delle superstizioni di un gruppo di contadini
ignoranti!»
«Purtroppo
questa non è la città a cui siete abituata,
milady», obiettò Mrs. Duncan con un
mezzo sorriso di scusa. «In campagna vigono leggi differenti.
Ad ogni modo vi
prometto che faremo del nostro meglio per far arrivare qui il
dottore.»
«Bene»,
mormorò Emma, benché poco convinta.
«Non vorrei che le condizioni di miss
Radcliffe peggiorassero. Non si è mai ammalata prima
d’ora.»
«Potrebbe
aver preso un’infreddatura ieri mattina»,
ipotizzò la governante, riempiendo d’acqua
la ciotola di Aramis posta accanto al camino. Il cucciolo
ringhiò appena,
avvicinandosi a bere solo quando la donna si fu allontanata.
La
giovane lady era così sovrappensiero da non accorgersi
neppure dello strano
comportamento del suo cane, e continuò a sbocconcellare una
tartina al salmone
con lo sguardo perso nel vuoto. Quando ebbe finito – doveva
ammettere di non
avere poi così tanto appetito – scostò
la sedia e si alzò, sistemandosi con un
gesto abituale la gonna del vestito. «Rimarrò in
biblioteca tutta la mattina,
signora Duncan, devo portarmi avanti con lo studio anche senza
l’aiuto di miss
Radcliffe. Chiamatemi per il pranzo, e se dovessero esserci
miglioramenti o
peggioramenti delle condizioni della nostra paziente»,
dispose, attirando
Aramis con uno schiocco delle dita.
«Certo,
milady. Buon lavoro», le augurò la governante.
Quando Emma abbandonò la sala da
pranzo, Mrs. Duncan liberò un lungo sospiro di sollievo.
Emma
approfittò della mattinata per scrivere finalmente una
lettera al padre e una a
Caledon, che malgrado tutto meritava di ricevere almeno una parola da
parte sua
– dopotutto si trattava pur sempre del suo fidanzato. Al
padre accennò dell’infreddatura
di miss Radcliffe ma lo assicurò di non preoccuparsi, gli
raccontò di sir
Carlisle – l’affabile e disponibile gentiluomo che
potevano vantare come vicino
di casa – e parlò brevemente anche dei domestici,
senza tuttavia entrare troppo
nei particolari: sapeva che di loro doveva avergliene già
parlato abbondantemente
la sua istitutrice nella lettera precedente, e non voleva in alcun modo
allarmare il genitore. Per questo tacque anche la faccenda
dell’incidente dei
vecchi proprietari di Pemberley: in primo luogo confidava che suo padre
ne
fosse già a conoscenza, e inoltre temeva che, prendendo lei
l’argomento, lord
Grantham potesse desumere che lei non si trovasse del tutto a suo agio
con l’idea.
Gli domandò per quanto tempo ancora gli affari lo avrebbero
trattenuto a
Londra, e quando contava di raggiungerla in campagna; concludeva
ammettendo di sentire
la sua mancanza, e che desiderava trascorrere del tempo insieme a lui.
La
lettera per Caledon fu invece molto più breve, e richiese un
maggiore impegno
da parte sua per essere redatta. Era una di quelle lettere che la
società le
imponeva di scrivere – doveva mantenere i contatti con il suo
futuro marito, e
inoltre non si era ancora giustificata di persona per la sua partenza
brusca e
improvvisa dopo il funerale della madre – ma che lei non
aveva idea di come
fare. Gettò nel fuoco parecchi tentativi abortiti di quella
maledetta lettera,
prima di riuscire a trovare qualcosa di interessante e affettuoso da
dirgli; e,
quando ciò accadde, mise per iscritto tutto d’un
fiato ciò che le danzava sulla
punta della lingua. Il risultato fu una versione più corta,
fresca e
leggermente imbarazzata della lettera che aveva scritto per suo padre,
ma come
inizio poteva andare. La rilesse un paio di volte, aggiunse qualche
frase e
qualche carineria, poi posò la stilografica –
regalo di Cal, che sapeva quanto
la sua fidanzata amasse scrivere – e passò a
sigillare entrambe le lettere. Le avrebbe
consegnate al signor Duncan quando fosse rientrato dal villaggio, in
modo che
le spedisse il giorno dopo.
Visto
che dopo pranzo non c’era altro che potesse fare per miss
Radcliffe, che
continuava a sonnecchiare e alternare momenti di allucinazioni a
momenti di
gemiti sofferenti, se non sperare che il dottore trovasse un
po’ di coraggio
per raggiungere Pemberley Manor a visitarla, Emma decise di mettere a
frutto il
tempo libero che l’assenza delle sue lezioni e delle ore di
studio quotidiane
le avevano procurato.
Adesso
che poteva ispezionarla in tutta calma, Emma capita finalmente che cosa
aveva
voluto intendere Mrs. Duncan quando le aveva detto che Pemberley Manor
non era
stata costruita secondo un modello architettonico unico e calcolato
come una
qualsiasi magione seicentesca – non aveva, come Hambleton
Abbey, delle ampie
vetrate poste ad illuminare saloni e gallerie così vaste da
dare quasi
l’impressione di trovarsi all’aria aperta, e
neppure un ordine ragionato per la
disposizione delle stanze e degli ambienti. La sua nuova casa,
contrariamente a
ciò che le era stato detto dalla governante, sembrava molto
più vecchia e
antica – specialmente nelle parti disabitate, dove non era
stato portato il
restauro del progresso – costruita più per
confondere e distrarre gli eventuali
nemici che vi si sarebbero potuti infiltrare che non per rendere
agevole la
vita degli abitanti. Era probabile che l’abitazione attuale
fosse nata da un
precedente ampliamento della costruzione originaria, quasi sicuramente
un
castello cinquecentesco, che a sua volta si era trasformato nel cuore
pressoché
irraggiungibile del maniero dal quale avevano iniziato a dipanarsi
altre gallerie,
ali, scalinate, torri e saloni – ognuno appartenente alla
propria epoca; ciò
dava l’impressione di compiere un inquietante viaggio nel
tempo man mano che ci
si addentrava nel nucleo di Pemberley, e ci si allontanava allo stesso
tempo
dalla luce del sole e dalla zona sicura.
Appena
messo piede nel primo corridoio disabitato, una strana sensazione di
pericolo parve
gelarle il sangue che le scorreva nelle vene: aveva
l’impressione di essersi
spinta troppo in là, di aver varcato quasi la soglia di un
altro mondo o di un’altra
abitazione, e peggio ancora, di un’abitazione che non
apparteneva a lei, ma a
qualcosa di maligno e infido. L’istinto la portò a
guardarsi intorno, a
lanciare un’occhiata alle proprie spalle: ma, come avrebbe
dovuto immaginare,
era da sola.
Passeggiare
per i corridoi deserti del maniero era come attraversare un vecchio
cimitero
abbandonato: nessuno ci passava più da tempo, ma la presenza
di chi lo aveva
abitato era tangibile in ogni angolo, e lasciava
l’inquietante sensazione che
la pressante ombra degli abitanti passati, cupa e minacciosa, si
annidasse alla
stregua di ragnatele tra i candelabri opachi e i quadri impolverati che
pendevano dalle pareti, incancellabile come le impronte ovali o
rettangolari
sulla tappezzeria – segno che davvero
tutti gli specchi erano spariti. C’era un forte odore di
muffa e chiazze di
umidità sulla tappezzeria, laddove essa non era strappata e
i lembi non
penzolavano come vecchi stracci abbandonati sulle pareti; le tende
rimaste
erano ingrigite dalla polvere, mangiucchiate dalle termiti e
appesantite dall’acqua
che colava dagli spifferi degli infissi. Emma stentava quasi a credere
di
trovarsi ancora a Pemberley – la differenza tra questa ala e
quella dove stava
abitando insieme ai domestici era indescrivibile.
Quando
Mrs. Duncan le aveva descritto Pemberley come un labirinto, lei non ci
aveva
creduto; ma adesso, mentre percorreva lunghe gallerie che sembravano
non voler
portare da nessuna parte se non nel punto da cui era partita, dovette
accettare
l’errore e ammettere di essersi persa. Forse, se avesse
trovato una finestra,
avrebbe potuto capire in che ala si trovava e provare a tornare
indietro di
conseguenza, ma finora tutti i corridoi erano rigorosamente privi di
qualsiasi
fenditura, e l’unica luce era quella della piccola lanterna
che aveva pensato
bene di portarsi appresso nell’eventualità che una
sola candela non fosse
abbastanza.
Sollevò
il braccio, illuminando uno dei quadri appesi alla parete alla sua
destra: al
di sotto dello strato di polvere, riuscì ad intravedere i
resti del ritratto di
un signore elegante e distinto, in abiti militari, del quale non si
vedeva la
testa – in quel punto la tela era stata squarciata,
probabilmente da una lama
affilata – e che teneva sotto ad un braccio un elmo piumato.
Aggrottando la
fronte davanti allo scempio incomprensibile di un’opera
d’arte – a giudicare
dalla divisa da ufficiale ritratta, infatti, il dipinto doveva avere
almeno una
settantina d’anni – Emma avanzò e
passò oltre, portando la luce su un altro
quadro. Anche qui, tutto ciò che rimaneva integro era il
corpo del signore,
mentre il viso era stato accuratamente squarciato; e così
pure, come scoprì
alla fine, in tutti gli altri quadri raffiguranti quelle che parevano
essere
state figure importanti. Neppure un solo ritratto era integro, ed Emma
non poté
fare a meno di domandarsi chi diavolo potesse avercela avuta
così a morte con
quei poveri soldati di epoche passate – ah, ma non
c’erano solo soldati, bensì
anche dame e qualche elegante ritratto di famiglia, con cinque o sei
persone
insieme – da distruggere l’unica immagine che di
loro sarebbe potuta rimanere.
E, soprattutto, perché nessuno dei domestici aveva mai
pensato di ritirare in
soffitta quei tristi dipinti, oppure di portarli da qualche
restauratore d’arte
per farli aggiustare? Un’abile mano sarebbe di certo riuscita
a riparare quei
danni…
Forse
i signori Duncan non avevano abbastanza denaro per affrontare simili
spese, e
considerando che erano solo loro ad occuparsi di Pemberley non poteva
neppure
biasimarli. Ne avrebbe parlato con suo padre nella prossima lettera,
decise –
di certo il conte di Grantham non si sarebbe lasciato scappare
l’opportunità di
fare una simile buona azione per il mondo dell’arte.
Proseguendo
la sua perlustrazione, Emma aveva sceso e salito delle piccole
gradinate così
spesso da farle dimenticare in quale piano si fosse trovata
effettivamente.
Quando ebbe la fortuna di trovare delle finestre, tanto per assicurarsi
che
fuori fosse ancora giorno, esse erano sprangate o inchiodate
– insomma,
impossibili per lei da aprire. Dopo un lento girovagare
iniziò dunque ad
avvertire la stanchezza, e l’infido seme del dubbio e della
paura attecchì nel
suo animo facendole venire un’idea inquietante: come avrebbe
fatto a tornare
indietro, se non aveva la più pallida idea di dove si
trovasse?
Preoccupata,
si fermò in mezzo al corridoio e sollevò la
lampada sopra la propria testa,
ruotando su sé stessa per individuare una qualche via
d’uscita o un punto
abbastanza familiare che l’aiutasse a tornare indietro. Come
avrebbe dovuto
aspettarsi, non trovò nulla.
Stava
già pensando di ricorrere a metodi estremi e provare a
urlare, nella speranza
che qualcuno dei domestici potesse sentirla, quando, nel terribile
silenzio che
l’avvolgeva, all’improvviso, udì un
rumore. Era un leggero strisciare, come di
chi cerca di camminare in punta di piedi e fallisce miseramente,
limitandosi a
trascinarsi goffamente sulla pietra del pavimento per evitare i tonfi
di una
camminata normale. Emma era impietrita, e se avesse avuto un briciolo
di
autocontrollo in meno avrebbe strillato; ma fortunatamente aveva
ricevuto una
diversa educazione ed era stata tenuta accuratamente lontana da
qualsivoglia
superstizione campagnola impedisse ai Duncan di vivere in modo sereno
nel castello.
«Chi
è là?» Chiamò ad alta voce,
sollevando il braccio che reggeva la lanterna per
illuminare laddove i suoi occhi non arrivavano. «Mrs. Duncan?
Lydia?»
Dall’oscurità
non giunse alcuna risposta. Il rumore comunque era cessato, ma proprio
nel
momento in cui la giovane tirava un sospiro di sollievo il brusco
stridio di
una porta che veniva aperta la fece sobbalzare e rabbrividire come una
qualsiasi bambina timorosa della sua stessa ombra.
Emma
non faticò a trovare la porta che si era misteriosamente
aperta: era l’unica
dalla quale pareva provenire un bagliore di luce, che fendeva come una
lama il
muro opposto del corridoio, ed era a pochi passi da lei.
Osservò la maniglia
per un tempo che le parve infinito, mentre decideva se entrare o
proseguire e
lasciarsi alle spalle qualunque fosse il mistero celato dietro
quell’uscio.
Quando
infine trovò il coraggio di varcare la soglia, si sorprese
di vedere che qui le
finestre erano completamente spalancate: non c’erano tende,
che giacevano
strappate sul pavimento, e neppure assi di legno inchiodate alle
intelaiature.
Dal vetro sporco degli scuri entrava la luce arancione del sole che
tramontava
in lontananza, dietro le colline, inondando piacevolmente la stanza.
Emma
allora sobbalzò, rendendosi conto finalmente di dove si
trovava: era nell’ala Ovest.
Istintivamente
preoccupata si guardò intorno, come se si aspettasse di
venire aggredita da un
momento all’altro, ma il silenzio tombale che la circondava
la rincuorò sul suo
destino, e poté darsi mentalmente della sciocca per aver
avuto paura anche solo
per un istante.
Di
nuovo padrona di sé stessa, Emma prese a curiosare nella
stanza, che pareva il
vero e proprio studio di un pittore. C’erano cavalletti,
pennelli sporchi,
stracci macchiati di pittura, vasi contenenti fiori secchi e fogli
zeppi di
schizzi fatti a carboncino appesi in ogni angolo vuoto delle pareti.
Emma
posò la lampada su un tavolino sgombro, e passò
ad ammirare le tele poggiate le
une sulle altre contro ogni mobile presente nella stanza.
Trovò numerosi
paesaggi, scorci dei boschi e delle colline che circondavano Pemberley,
e
quadri incompiuti di oggetti – gioielli, guanti, maschere, in
un tripudio di
colori o semplicemente in bianco e nero – ma il soggetto
principale sembrava
essere il castello stesso. Una torre era stata disegnata e dipinta fino
al più
piccolo particolare, e così pure una stanza, o un corridoio,
o una scalinata; e
qui non c’erano colori vivaci, ma tonalità cupe,
soffocanti, terribili, tanto
inquietanti che Emma cessò di osservare le tele e
indietreggiò di qualche
passo, improvvisamente infreddolita.
Riconosceva
la bravura dell’autore – e, chiunque fosse stato il
proprietario di quel
piccolo tesoro dipinto, di certo non era lo stesso che si era occupato
dei
quadri del corridoio – ma quelle opere la mettevano a
disagio; non sapeva bene
dire perché. Si riappropriò dunque della lampada
e lasciò la stanza, chiudendo
con cura la porta alle proprie spalle e ripiombando nella penombra del
corridoio. I suoi occhi faticarono un po’ a riabituarsi
all’assenza di luce, ma
quando accadde Emma fece un sospiro e cercò di tornare
indietro.
Non
dovette gironzolare a lungo, stavolta, prima di trovare il laboratorio.
La
porta, una delle poche che non erano chiuse a chiave, si
aprì con facilità, scivolando
silenziosa sui cardini come se non fosse rimasta in disuso a lungo.
Sfortunatamente
qui le finestre erano ben serrate, così fu la luce
giallognola della lampada a
posarsi su tavoli sporchi e impolverati, su ampolle di vetro e
cristallo e
piccoli decanter in cui sembrava esserci ancora qualche sostanza verde,
di un
verde brillante, magnetico; Emma rabbrividì istintivamente
– per qualche strano
motivo aveva sempre associato il verde a qualcosa di tossico e
velenoso.
Su
una scrivania abbastanza sgombra, occupata soltanto da fogli, penne e
calamai
che un tempo dovevano aver contenuto dell’inchiostro blu,
Emma trovò un
quaderno grosso e spesso, con la copertina in pelle consunta e sporca
– erano
impronte di grasso o di olio? – e che tuttavia non doveva
essere così vecchio
come sembrava. Sul frontespizio, infatti, si poteva ancora leggere
l’anno in
cui era stato stampato – doveva essere una di quelle agende
che utilizzavano gli
studiosi, o i ragazzi dell’università: la data era
1889.
Sulla
prima pagina interna, dietro la copertina ammuffita, lesse: Proprietà
del dottor J. H. Murray, scritto
in eleganti lettere corsive. Più sotto, una citazione in
latino scritta a mo’
di epigrafe dal medesimo pugno: alterius
non sit qui suus esse potest .
Incuriosita,
Emma aprì il diario e lo sfogliò, fermandosi poi
su di una pagina a caso, tra
le ultime.
2 settembre 1889,
ore 19:23.
Primo esperimento
su soggetto umano.
Dose leggera della
formula – dispensata per via orale.
Dopo pochi secondi,
il soggetto A. inizia a mostrare i primi effetti: calore diffuso, gola
secca,
fatica a respirare, arrossamento del volto e della superficie della
pelle in
generale. Il soggetto ha un crollo e perde conoscenza. Diagnostico
febbre
nervosa.
Rimandare i
successivi esperimenti.
Gli
appunti del 2 settembre si concludevano in quel modo. Le annotazioni
seguenti erano
del 7 dello stesso mese, ma riportavano grosso modo le stesse
informazioni:
probabilmente l’esperimento non era andato a buon fine
neppure la seconda volta.
Notò
che qualcuno aveva strappato con furia dei fogli, ma questi erano stati
raccolti e infilati in mezzo al diario come per paura di perderli
– forse quel
qualcuno si era pentito di aver rovinato il diario. Alcune pagine erano
più
accartocciate di altre, altre erano più leggibili, qualcuna
era addirittura
macchiata di una qualche sostanza non meglio identificata. Sangue,
forse? Con
quella luce non avrebbe saputo dirlo.
22 ottobre 1889,
ore 23:45.
Quarto esperimento
su soggetto umano.
Dose tripla – due
grammi di sale in più. Ho iniettato cinque centilitri della
formula per via
endovenosa.
Il soggetto mostra
gli effetti consueti: calore diffuso, gola secca, fatica a respirare,
arrossamento del volto e della superficie della pelle, vene ingrossate,
inconsueto (e singolare) attacco d’euforia…
Da
quel momento in poi gli appunti diventavano frenetici, confusi,
difficoltosi da
decifrare, ed Emma dovette stringere gli occhi per capire cosa ci fosse
scritto
sotto le sbavature di inchiostro secco.
…il soggetto da
segni di insofferenza, dolore. Emette versi animali, ringhia, si
graffia, in un
barlume di lucidità chiede aiuto, no!, chiede di morire, di
ucciderlo, ride e
piange, ulula, si dimena all’interno della gabbia…
Le
pagine successive erano bianche. Perplessa, Emma sfogliò il
diario
all’indietro, saltando le parti che aveva già
letto e tornando al principio.
Qui, il diario sembrava contenere ancora semplici pensieri di colui che
lo
possedeva – evidentemente doveva essersi trasformato solo in
seguito in una
raccolta caotica di dati e indagini scientifiche.
Nella
pagina del 12 agosto, Emma lesse:
Finalmente vedo un
barlume di possibilità per i miei studi. Il mio caro amico
Edgar mi ha promesso
che mi avrebbe fornito tutto il necessario per il mio esperimento, e
benché al
momento non riesca a capire come diavolo faccia a pensare di potermi
aiutare,
nutro comunque un profondo sentimento di gratitudine nei suoi
confronti, poiché
è l’unico a non avermi bollato come folle e
visionario quando gli parlai per la
prima volta della mia approfondita analisi dell’animo umano.
Sarebbe
di certo rimasta a leggere, se non si fosse accorta che la lanterna che
si era
portata appresso iniziava a indebolire la sua luce, segno che
l’olio stava per
finire. Temendo di rimanere al buio in quella zona sconosciuta del
castello,
Emma prese il diario e si diresse frettolosamente verso la porta,
guardandosi
intorno un’ultima volta come per memorizzare quello strano
laboratorio. Chissà
se sarebbe riuscita a ritrovarlo l’indomani, pensò
dispiaciuta.
Quando
tornò nuovamente nell’ala Est – dovette
ammettere di aver trovato il percorso
inverso abbastanza facile da percorrere – Emma
trovò tutti e tre i domestici in
uno stato di profonda agitazione, mentre la cercavano in lungo e in
largo da
quando, dopo pranzo, era “scomparsa”. Mrs. Duncan e
Lydia avevano gli occhi
rossi come se avessero pianto a lungo, mentre il signor Duncan sembrava
solo
molto invecchiato. Emma prese a scendere le scale con una strana
prudenza, la
fronte aggrottata dinnanzi al comportamento dei domestici, e per
chissà quale
motivo ebbe la premura di nascondere dietro le spalle il diario del
dottor
Murray. «C’è qualche problema, signora
Duncan?» Domandò ad alta voce, in modo
da attirare la loro attenzione.
La
donna si voltò con uno scatto nervoso verso di lei,
sgranando gli occhi e
facendosi rapidamente il segno della croce, quasi che avesse visto
un’apparizione. «Oh, buon Dio, milady, vi abbiamo
cercata tutto il pomeriggio!»
Esclamò ansimante, facendo qualche passo nella sua
direzione. «Eravamo così
spaventati, pensavamo che… che…» Mrs.
Duncan tacque, imbarazzata, incapace di
spiegarsi e innervosita dallo sguardo interrogativo della giovane
padrona.
«Che
mi fossi persa?» Offrì quest’ultima,
dubbiosa; non comprendeva il loro affanno,
dato che non si era di certo avventurata da sola nei boschi. Era nel
suo pieno
diritto esplorare il maniero, no? «Sì, in effetti
ho girato a vuoto per un po’,
ma come vedete sono di nuovo qui sana e salva. Novità su
miss Radcliffe?»
Chiese, arrivando finalmente in fondo alla scalinata e fermandosi
accanto
all’anziana custode.
«Nessuna,
purtroppo. Ma, milady, non potete sparire così,
all’improvviso…» Insisté la
signora Duncan, con una strana vocetta lamentosa che stonava con il suo
aspetto
da matrona imperscrutabile.
«Inizio
a credere che mi sia vietato gironzolare a mio piacimento nella mia
stessa casa,
Mrs. Duncan», la interruppe Emma, così freddamente
da mettere a tacere ogni
protesta sul nascere. «C’è qualcosa di
cui non sono a conoscenza? Il castello è
forse un luogo pericoloso per chi lo esplora senza
accompagnatore?»
Il
signor Duncan spostò lo sguardo dalla moglie alla padrona e
viceversa, in
silenzio, come se fosse in fremente attesa di una risposta al pari di
Emma;
Lydia, dal canto suo, teneva gli occhi bassi e le mani strette in
grembo, come
se temesse di venire punita da un momento all’altro. Emma si
concentrò
nuovamente sulla governante, impassibile, decisa a non farsi muovere a
compassione dall’aria smarrita della donna. Le era sempre
stato insegnato di
trattare in modo giusto ed equo i suoi inferiori, e di rispettare
coloro che
erano più anziani di lei, ma al momento si ritrovava a dover
ricoprire da sola
il ruolo di signora del maniero nonché di fare le veci del
padre, e che fosse dannata
se si fosse lasciata mettere i piedi in testa da un piccolo stuolo di
domestici
misteriosi!
«Allora,
Mrs. Duncan? Dovete dirmi qualcosa?» La spronò,
gelida.
La
donna sospirò piano, prima di scuotere lentamente il capo.
«No, milady. Non c’è
nulla che io vi debba dire», fu la sua pacata risposta.
I
suoi occhi parevano voler sfuggire quelli di Emma, che però
non glielo permise.
«Ne siete sicura?»
Mrs.
Duncan impallidì impercettibilmente a quel tono sferzante
che non le aveva mai
sentito usare, e quando la fissò lo fece con
un’espressione che la giovane poté
solo definire intimorita. «Ah, volevo
dire… volevo aggiungere… che sono profondamente
mortificata per il mio, il
nostro, comportamento. Vi chiedo perdono, milady. Ovviamente siete
padrona del
castello, e potete andare dove volete». Sembrò che
ciascuna di quelle parole le
costasse infinitamente, eppure non esitò un solo istante nel
pronunciarle.
«Bene.
Siete liberi di andare, adesso», li congedò poi,
come se fosse stata lei a
convocarli. Fece per risalire le scale, ma si interruppe a
metà di un passo e tornò
a voltarsi verso i domestici. «Ah, signora Duncan?»
«Sì,
milady?»
«Non
disturbatevi a preparare la sala da pranzo per la cena di stasera.
Mangerò nella
mia stanza», ordinò, imitando alla perfezione il
tono che più volte aveva udito
utilizzare dalla contessa sua madre.
Dopodiché,
senza aspettare la risposta della governante, le diede le spalle e
salì le
scale come chi ha tutto il tempo del mondo a disposizione. Aveva finito
di
lasciare che i signori Duncan governassero la casa, e lei.
Pemberley
Manor era sua.
*
Basse
nuvole grigie erano così ammassate sull’orizzonte
da rendere l’aria soffocante
come in un afoso giorno d’estate; affacciandosi alla finestra
era impossibile
vedere altro che non fosse la fitta nebbia che circondava il castello e
lo
strano cupo colorito arancione e grigio che tingeva il cielo. La
pioggia
picchiava incessantemente sui vetri da quel mattino, e aveva smesso
solo per
pochi minuti verso l’ora di pranzo: sembrava che volesse
venir giù l’intera
volta celeste. Malgrado questo, il signor Duncan era andato al
villaggio solo
per spedire le lettere della padrona, e se qualche giorno prima lei
glielo
avrebbe impedito – non era il caso che uscisse di casa con
quella tempesta, e
alla sua età, poi – adesso che si stava sforzando
di mostrarsi severa e determinata
come una decente padrona di casa non credeva che mostrarsi pietosa
potesse
giovare alla sua persona.
Eppure
ciò non le impediva di sentirsi intimamente in colpa.
Emma,
seduta su di una poltroncina accanto al letto di miss Radcliffe, con
Aramis
accucciato ai suoi piedi, cercava di trovare una distrazione nella
sempre più
interessante lettura del diario del misterioso dottor Murray,
immergendovisi
pagina dopo pagina.
…Questa mattina ho
presentato la mia ricerca ai governatori dell’ospedale di St.
Jude per la terza
volta: inutile dire che, come già accaduto in passato, non
sono stato preso sul
serio e, anzi, sono stato denigrato e umiliato da coloro che dovrebbero
accogliere con entusiasmo ogni idea nuova e rivoluzionaria. Ma niente:
sono
stato tacciato ancora una volta di blasfemia, sacrilegio e –
udite udite, sono
un eretico!, questa mi giunge nuova!
Ero così furioso
che, temo, avrei potuto aggredire qualcuno se non ci fosse stato il
dottor
Utterson a placare gli animi e trascinarmi via da quel maledetto
ufficio.
Ciò che i miei colleghi
non comprendono, o forse semplicemente faticano ad accettare,
è che siamo
all’alba di una nuova era, alle soglie di una rivoluzione, e
che ciò che faccio
potrebbe essere in grado di modificare di sana pianta il mondo come
oggi lo
conosciamo! Chi sono loro per giudicare il mio lavoro? Quei vecchi
dottori –
ormai stento a definirli scienziati – non vedono
ciò che io vedo, non sanno
niente delle infinite possibilità che questi studi ci
pongono innanzi, e quel
che è peggio è che non permettono a chi ha una
mente più aperta della loro di
progredire, di superarli!
Quel che mi
prefiggo di fare mi appare così chiaro davanti agli occhi,
con la stessa
intrigante bellezza di una visione; è così
semplice! Se avessi il loro
benestare, se avessi la loro fiducia, potrei davvero dimostrare in modo
concreto come scindere i due lati dell’animo umano: potrei
sgravare chiunque
del peso di quel fardello di sentimenti bestiali che ci spingono a
compiere
orride malefatte e azioni riprovevoli, e lasciare intatta solo la parte
buona,
gentile, compassionevole propria dell’uomo. Ciascuno di noi
è custode di un
lato benigno e uno maligno – non lo insegnano forse anche ai
bambini? Ebbene,
non sarebbe forse più semplice la vita se
quest’ultimo aspetto, questa sordida
entità, fosse estirpata per sempre? Dopo anni di ricerche e,
lo ammetto,
numerosi fallimenti, io ho infine trovato un modo per far sì
che una simile
utopia diventi reale, eppure a causa della cecità di chi
tiene le redini del
progresso scientifico sono interdetto dal renderla reale, e per cosa!,
perché
le mie idee vengono ritenute sciocche, avanguardistiche e prive di
fondamenta!
Forse dovrei
prendere delle altre strade; ricorrere a mezzi alternativi. E allora,
una volta
messi davanti al fatto compiuto, quei vecchi stolti non potranno fare
altro che
riconoscere il mio genio, e darmi il posto che mi spetta…!
Emma
voltò pagina, mordicchiandosi un dito nella concentrazione
della lettura.
C’è qualcosa di
glorioso e sublime nel possedere la capacità di dividere
l’uomo dal demone
maledetto che ne infetta l’anima, e di vedere quel sottile
confine ch’egli
supera ogniqualvolta permette al male di trascinarlo con sé
nel baratro,
rendendolo monco, rendendolo meno umano. Non ci è dato
sapere per quale motivo
l’uomo possegga queste due tendenze comportamentali
così differenti – l’una
votata al bene in tutta la sua grandezza, l’altra al male
assoluto – così è, e
con questo bisogna convivere. Ma ciò non ci impedisce di
trovare una soluzione,
di scoprire una medicina, chiamiamola così, capace di
riportarci sulla retta
via!
Si pensi per un
istante a ciò che comporterebbe questa formula, una formula che
guarisce lo
spirito!
Come dice lo stesso
Paracelso, “Chi vuole conoscere l'uomo deve guardarlo nel suo
complesso e non
come una struttura messa su alla meglio. Se trova malata una parte del
corpo,
deve cercare le cause che producono tale malattia e non limitarsi a
trattare
gli effetti esterni”; ebbene, ciò è il
fulcro stesso della mia opera!
A livello teorico,
si potrebbe riassumere la mia operazione con un’immagine
semplice e allo stesso
tempo terribilmente concisa: ecco, si tratta di tagliare via la parte
marcia di
una mela.
E dare così vita
alla prima creatura di una nuova specie!
Saltò
a piè pari pagine e pagine di calcoli, formule, disegni
geometrici e disegni di
organi umani – in particolar modo di cervelli tagliati a
metà e accuratamente sezionati,
come se per ricopiarli avesse usato dei soggetti reali – per
poi passare a
nuove pagine di quegli appunti filosofeggianti che trovava tanto
curiosi.
Forse non è
esattamente corretto affermare che in ogni uomo vi sia la stessa
quantità di
bene e male: può darsi che esse varino da individuo a
individuo, o altrimenti
non sarebbe possibile spiegare per quale motivo certuni sono
più propensi ad
operare il bene di altri. Si tratta solo di un forte senso
dell’onore, di una
radicata morale da cui è impensabile distaccarsi? O
è, come io ipotizzo,
dipendente dalla misura in cui vengono distribuite queste due
“personalità”?
Ritengo che sia una
questione di genetica: così come i figli di un maschio moro
e di una femmina
bionda possono essere a loro volta o biondi o scuri, allora possono
anche
essere o più buoni e meno malvagi, o meno buoni e
più malvagi, in base a ciò
che i genitori possiedono nel loro animo.
Rileggendo il mio
diario, mi accorgo da me come in alcuni punti io possa sembrare
assolutamente
folle; eppure sono sicuro e privo di dubbio su ciò che dico
– non sono
vaneggiamenti, questa è pura scienza!
«Caro
dottor Murray, mi permetto di contraddirvi…»
Mormorò Emma aggrottando la fronte
con aria perplessa, per poi voltare ancora pagina.
Il mio siero funziona
come una normale medicina: non ho ancora deciso in quale modo sia
più facile
somministrarlo – per via orale o per via endovenosa? In quale
dei due casi ci
sono più possibilità che faccia effetto?
– mi riservo la facoltà di prendere
una decisione all’ultimo minuto.
Nel frattempo, ecco
una lista di alcuni ingredienti che mi saranno indispensabili, io
credo, per il
mio esperimento…
Seguivano
altri dati e quantità di sostanze che Emma non conosceva,
così saltò quella
parte, ma ormai aveva letto tutto ciò che poteva
comprendere. C’erano anche
parecchie pagine mancanti, si vedeva dai lembi di carta rimasti
miracolosamente
attaccati al quaderno dopo la furia dello strappo, e si
domandò se fosse stato
il dottore a toglierli, magari appallottolandoli e gettandoli tra le
braci del
camino per eliminare ogni prova dei suoi macabri esperimenti, o se
potesse
essere stato qualcun altro. Ma chi? Con un sospiro chiuse il quaderno,
tenendovi un dito in mezzo a mo’ di segnalibro. Non riusciva
a capire che cosa
potesse farci un diario del genere a Pemberley Manor –
dubitava che fosse
appartenuto a qualcuno dei vecchi proprietari, dato che da quello che
era
riuscita a scoprire sull’uomo che lo aveva redatto con
così tanta folle cura si
trattava di un personaggio comune, un dottore o uno scienziato, che non
aveva
legami con i conti di Rochester.
E
poi, che cos’erano tutti quegli esperimenti? Era riuscito
davvero a trovare
qualcuno a cui iniettare la sua assurda formula? E il modo in cui la
scrittura
del diario si interrompeva così bruscamente aveva forse
qualcosa a che vedere
con l’esito sfortunato di quegli esami?
Si
domandò se i signori Duncan conoscessero questo dottor
Murray – ma poi,
rifletté da sé, era probabile che anche se
avessero saputo qualcosa al riguardo
non gliene avrebbero parlato.
Sollevò
lo sguardo su miss Radcliffe, che da due giorni ormai giaceva a letto
senza dar
segno di migliorare in alcun modo: era ancora pallida e incosciente, ma
sembrava deperita e sotto gli occhi si erano formate delle ombre scure
che non
le piacevano per niente. Come avrebbe dovuto supporre, il dottore non
era
ancora andato al maniero – adducendo la scusa del tempo
avverso e di numerosi
pazienti più gravi che richiedevano la sua presenza al
villaggio. Era più che
sicura che se fosse stato sir Carlisle a richiedere una visita a
domicilio del
medico, egli non avrebbe fatto tutte quelle storie.
Emma
sbuffò, innervosita, tamburellando le dita sul bracciolo
della poltrona. Che cosa
ridicola, aver paura di una casa…
________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Ed eccoci di nuovo
qui, dopo un mese dall'ultimo aggiornamento! Chiedo umilmente scusa per
avervi fatto aspettare, ma questo capitolo, come avrete immaginato
leggendolo (che malloppone pesante!), è stato un po' arduo
da scrivere. Prometto che dal prossimo tornerà un po'
d'azione!
Intanto, facciamo l'indiretta conoscenza di un altro personaggio
(spuntano come funghi!), che in passato ha avuto un ruolo decisivo:
tale dottor Murray, il cui diario è davvero parecchio
strano... / stranezza resa ancora più acuta dalla mia
incapacità di partorire pensieri abbastanza filosofici, indi
per cui chiedo perdono per non essere riuscita a renderli come avrei
voluto. D:
[Uh uh, visto che siete approdate su queste rive suppongo che vi
piaccia il noir e il macabro in generale, per cui se non sono troppo
indiscreta vorrei farvi leggere una one-shot che ho scritto
recentemente, ispirata da una puntata della serie TV Hannibal, ma sul
fandom del Phantom of the Opera: Circunderunt
me fluctus mortis. *___* Sì, ultimamente mi prende
così.]
Okay, spazio auto-pubblicitario terminato, torniamo alle cose serie.
Ringrazio infinitamente Homicidal
Maniac, SnowFlakes8D,
Sylphs e Se7f per aver
recensito lo scorso capitolo - grazie, fanciulle, grazie mille! Mi
ispirate e mi spronate a continuare ♥ E grazie mille anche
ai miei cari lettori silenziosi! Lo so che siete timidi ma che ci
siete, e lovvo tanto anche voi ♥
[Ps: un applauso alla spina dorsale ritrovata di Emma! Yeeeah.]
Baci e abbracci come al solito, tanto amore dalla vostra
Niglia.
|
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Capitolo 6 *** Chapter 5. Curiosity Killed the Cat ***
capitolo5_waltz
5.
Curiosity Killed
the Cat
L’idea
le ronzava in testa da quando aveva posato il capo sul cuscino, pronta
a godere
di un meritato riposo dopo i due giorni di veglia instancabile al
capezzale di
miss Radcliffe. In realtà, ci aveva rimuginato su sin da
quando gliene aveva
parlato sir Carlisle per la prima volta, e qualcosa, forse proprio il
suo giro
di esplorazione del maniero, le aveva fatto prendere la decisione di
andare
fino in fondo alla faccenda. D’altronde non aveva niente di
meglio da fare ora
che la sua istitutrice era a letto malata, e non credeva che il
rimanere chiusa
a Pemberley giorno e notte e in solitudine potesse avere un effetto
benefico su
di lei.
Giustificò
la cosa come semplice curiosità: forse, vedendo il luogo di
riposo di coloro
che l’avevano preceduta nel possesso di Pemberley, avrebbe
potuto rassicurarsi
sul fatto di non essere spiata dai loro fantasmi – non che ci
credesse davvero,
sia chiaro – e avrebbe potuto vivere serenamente fino
all’arrivo del padre, atteso,
se tutto andava come previsto, per la seconda metà di
novembre.
Non
potendo contare sull’aiuto di una cameriera – Lydia
non aveva né la manualità né
l’allenamento sufficiente per aiutarla nelle acconciature, e
sfortunatamente
neanche miss Radcliffe era disponibile – Emma si risolse a
sistemarsi i lunghi
capelli corvini in una semplice treccia, che fermò con un
nastro scuro e delle
forcine, come peraltro aveva fatto negli ultimi giorni; a
quell’ora, comunque,
non l’avrebbe vista nessuno. Indossò poi dei
calzoni da cavallerizza che si era
fatta confezionare di nascosto dal padre, dato che la comune tenuta da
amazzone
che usava durante le battute di caccia ad Hambleton Abbey sarebbe stata
ridicola in campagna, e infilò poi un lungo pastrano che
strinse in vita con un
cinto e che la copriva fin sotto le caviglie. Dopodiché si
avvolse una sciarpa
intorno al collo, prese i guanti di capretto e uscì
finalmente dalla sua
stanza.
Benché
si fosse sforzata di alzarsi prima dei domestici – e difatti
fuori era ancora buio
pesto – Emma si accorse con disappunto che questi ultimi
sembravano avere una
sveglia interna che permetteva loro di abbandonare i letti parecchio
tempo
prima che il gallo cantasse. Così, confidando che nessuno di
loro sarebbe
comunque entrato in camera sua prima delle nove, scivolò
scalza lungo il
corridoio e scese il più silenziosamente possibile le scale,
trattenendo quasi
il respiro e ringraziando mentalmente il tappeto che attutiva i suoi
passi e impediva
ai gradini di scricchiolare sotto il suo peso.
Non
si stupì nel non trovare Noah Duncan nelle stalle:
probabilmente il ragazzo stava
ancora dormendo, anche se non poteva fare a meno di chiedersi dove
coricasse.
Sembrava avere terrore del maniero – e in cuor suo Emma
iniziava a non biasimarlo
– però dubitava che i suoi genitori gli avrebbero
lasciato trascorrere la notte
in mezzo ai cavalli, o nel fienile. Ad ogni modo, nella scuderia non
c’era
alcuna presenza umana: quando aprì la porta gli animali
sbuffarono e nitrirono
gentilmente come a darle il buongiorno, e lei si diresse a passo sicuro
verso
l’Andaluso dal manto bianco chiazzato di grigio che aveva
catturato il suo interesse
sin dal primo giorno. Prima di entrare nella sua cella gli porse la
mano aperta
sul cui palmo aveva posato un dolciume, e attese pazientemente che il
baio
accettasse il dono: il suo muso morbido e vellutato contro la propria
mano la
fece sorridere, e mentre lui masticava si permise di accarezzarlo in
mezzo agli
occhi.
Purtroppo
non era capace di sellarlo: ad Hambleton se ne occupavano gli
stallieri, e
tutto quello che lei doveva fare era salirgli in groppa e sistemarsi le
gonne
in modo che le tenessero le gambe coperte. Ma la necessità
aguzza l’ingegno,
così Emma si limitò a sistemare una coperta
piuttosto spessa sul dorso del
cavallo e vi montò sopra aiutandosi con uno sgabello, con
una gamba su entrambi
i lati. Ebbe bisogno di una manciata di secondi per abituarsi alla
sensazione
del calore pulsante dell’animale tra le sue cosce –
le fu inevitabile
arrossire, al pensiero di essere vista in quella situazione da occhi
indiscreti
– ma, dopo aver preso un profondo sospiro,
riguadagnò il controllo su di sé e
sulla sua cavalcatura, guidando il baio con comandi sicuri fuori dalla
scuderia
e dalla proprietà.
Ben
presto l’imbarazzo venne sostituito da una feroce ebbrezza, e
fu con sempre
maggiore sicurezza che condusse il cavallo lungo la strada e in mezzo
al bosco,
presso il vecchio cimitero ormai abbandonato dove, secondo sir
Carlisle, le
tombe dei conti di Pemberley giacevano dimenticate dal mondo.
Il
vecchio camposanto di Heatherfield era, come Emma comprese una volta
giuntavi,
il luogo di riposo dei nobili che si erano succeduti nel corso dei
decenni a
capo della proprietà di Pemberley Manor e dei territori
circostanti – era, in
poche parole, un piccolo cimitero di famiglia, il che spiegava per
quale motivo
fosse ormai abbandonato e anche perché si trovasse
così lontano dal villaggio.
Un basso muretto a secco, le cui pietre ricoperte di muschio erano
crollate in
più punti arrendendosi all’arrancare inesorabile
delle piante selvatiche, ne
circondava il perimetro in un vano tentativo di tenere a bada
l’avanzare del
bosco.
Non
c’era un cancello – o perlomeno non c’era
nel lato da cui era giunta Emma –
così la giovane si risolse di scavalcare semplicemente il
muretto, non prima di
aver assicurato le redini del cavallo al ramo più vicino. Le
erbacce avevano
ormai divorato ogni cosa – di tanto in tanto qualche lapide
riusciva a sbucare sbilenca
dalla vegetazione, ma il tempo era stato impietoso e ormai era
pressoché
impossibile scoprire i nomi di coloro che giacevano avvolti dalla
terra,
proprio sotto di lei. Ciò nonostante non fu difficile per
Emma trovare la tomba
degli ultimi ospiti che aveva accolto il cimitero: si trattava di una
cappella
ambiziosa posizionata in un punto d’onore alla fine di
ciò che rimaneva del
vialetto, tra un ombroso cipresso e la statua di un angelo con le ali
spezzate,
con morbidi capelli arricciati alla maniera greca e le pesanti palpebre
abbassate in un’espressione triste e desolata. Il marmo
bianco era macchiato
dalle intemperie, e aggiungeva ulteriore angoscia all’intera
cripta.
Sul
capitello del mausoleo si leggeva, o per meglio dire si intuiva,
ciò che
restava del nome di famiglia:
PE B R Y
Sembrava
che le intemperie si fossero accanite con particolar foga sulle lettere
incise,
quasi che avessero intenzionalmente voluto cancellarle – ed
eliminare, con
esse, anche la memoria del nome che raffiguravano.
Con
un brivido e un sospiro, Emma si strinse addosso il mantello e si
affrettò ad
entrare nella cappella per ripararsi dall’aria gelida del
mattino.
L’interno
era umido, ma asciutto. Lo scricchiolio del portone aveva rimbombato
cupamente
tra le quattro pareti del mausoleo, e il fischio del vento che
penetrava dagli
spifferi pareva quasi il debole sussurro dei morti che ancora stavano a
guardia
della loro ultima dimora. Emma frugò nelle tasche dei propri
calzoni e tirò
fuori una scatoletta di fiammiferi che aveva avuto il buonsenso di
portare, e
che utilizzò per accendere una vecchia lampada in attesa su
un ripiano
impolverato. La fiammella tremò timidamente, e, al riparo
dal soffio d’aria
dietro la mano della giovane, finalmente brillò rischiarando
il buio; e così
Emma poté guardarsi intorno.
Sotto
di lei giaceva l’ossario, dove erano state conservate le
generazioni precedenti
dei Rochester: una grata quadrangolare, larga il tanto sufficiente da
farci
passare un uomo, ne indicava l’accesso. Sembrava una voragine
nera e infinita,
ed Emma, inquieta per la prima volta da quando aveva varcato la soglia
del
mausoleo, l’aggirò con attenzione per non dover
essere costretta a verificare
di persona se le sbarre di ferro reggessero il suo peso.
Passò
lentamente accanto alle quattro tombe più recenti, notando
l’assenza di foto o
ritratti e dispiacendosene: era un dettaglio che avrebbe donato
personalità e
calore all’ultima dimora dei conti di Rochester, ma
evidentemente nessuno li aveva
amati abbastanza da pensarci. Certo il mausoleo dei Pemberley era assai
diverso
da quello in cui adesso riposava sua madre, perennemente circondata da
fiori e
candele sempre accese… Sfiorò con reverenza le
lettere di ottone dorato della
contessa (Isobel Du Maurier, in
Pemberley, contessa di Rochester, amata sposa e madre, possa risorgere
nella
gloria divina. 1841-1873), e poi proseguì con
quelle, incise e assai più
semplici, del conte (Edgar J. Pemberley,
conte di Rochester, 1832-1889) e dei suoi tre figli, Elijah (1864-1889),
Evan (1867-1889) ed Eleanore (1871-1889),
tutti scomparsi nell’incendio di quindici anni prima.
A
quanto pareva gli abitanti del villaggio non si erano sprecati in
complessi
epitaffi, per loro.
Ma
ciò che attirò davvero l’attenzione di
Emma fu un’altra stele, più piccola e
assai insignificante, poggiata ad un angolo della cappella e ricoperta
di un
sottile strato di muschio secco, come se fosse stata portata
là dall’esterno. Era
uno di quei dettagli fuori posto che non si può fare a meno
di notare, visto
come alterano l’equilibrio di un determinato luogo.
Incuriosita si avvicinò e,
accucciandovisi di fronte, lesse solo un nome e una data: Adam,
1873-1889.
«Adam»,
ripeté a bassa voce, perplessa, sfiorando con la punta delle
dita l’iniziale
appuntita del nome. Una stranezza che si aggiungeva alle numerose altre
che
aveva incontrato da quando si era trasferita a Pemberley…
Chi era quell’Adam
senza nome, e che cosa ci faceva la sua lapide priva di una tomba a cui
fare la
guardia? Che fosse un figlio illegittimo, morto giovane e sistemato
nella
cripta di nascosto, così che almeno nella morte potesse far
parte di quella
famiglia? Nessuno pareva prestare attenzione a ciò che
accadeva in quel piccolo
cimitero, d’altra parte… Una curiosa coincidenza,
poi, che la data della morte
corrispondesse a quella degli altri membri della famiglia.
Un
momento, però. Edgar J. Pemberley… Edgar? Il nome
le era familiare. Dove
l’aveva già sentito? Si spostò
nuovamente davanti alla lastra del conte, e si
sforzò di ricordare. Era come cercare di riagguantare i
residui di un sogno, i
cui contorni sfuocati continuano a sfuggire man mano che si cerca di
rammentarli, per poi sparire nell’oblio alla minima
disattenzione. Eppure,
facendo mente locale e passando al setaccio ciò che aveva
fatto nell’ultima
decina di giorni, quel nome riuscì infine a far suonare un
campanello: se non
ricordava male, lo aveva trovato nel diario del dottor Murray
– di cui ormai
aveva praticamente memorizzato ogni singola parola – il quale
ne parlava come
se fosse stato un suo amico. Ora, in una situazione normale questo non
avrebbe
significato niente – quanti uomini potevano chiamarsi
così in Inghilterra? Non
era certo una prova. Ma il semplice fatto che il diario di un apparente
estraneo si trovasse nel castello, e che citasse qualcuno che
casualmente si
chiamava come l’allora conte… Non poteva trattarsi
di un’altra coincidenza.
Solo
che non capiva come questo dovesse
avere una qualche valenza interessante. E poi, su che cosa stava
indagando? Su
una famiglia scomparsa in un tragico incidente quindici anni prima? Per
quale
motivo? Era davvero tanto annoiata da vedere complotti e misteri in un
nonnulla?
Solo
che non si trattava di un semplice nonnulla:
c’erano parecchie note stonate nella melodia di Pemberley,
che si traducevano
nel fastidioso presentimento che qualcosa di brutto dovesse accadere da
un
momento all’altro. C’era Noah, il figlio dei
signori Duncan, terrorizzato alla
sola idea di entrare in casa; c’erano proprio i signori
Duncan, con il loro
atteggiamento arrogante e ambiguo, di chi cela un segreto terribile;
c’era
stata quella musica notturna, ricomparsa poi in un carillon apparso
all’improvviso nella sua camera da letto, il cui solo
pensiero la faceva ancora
rabbrividire; c’era stato il divieto di aggirarsi
nell’Ala Ovest, divieto che
lei aveva bellamente ignorato per poi scoprire il cuore abbandonato e
decadente
della dimora, con strane stanze di cui non si capiva il senso come il
laboratorio e lo studio del pittore misterioso; c’era il
diario del dottor
Murray, con le sue teorie inquietanti sulla creazione di una nuova
specie; c’era il fatto che gli abitanti del
villaggio si
rifiutassero di giungere a Pemberley, come se il maniero fosse uno dei
portali
dell’inferno; e c’era stata persino la malattia
incomprensibile di miss
Radcliffe.
Forse
erano solo vaneggiamenti, tentativi testardi da parte sua di far
quadrare i
conti e far convergere tutti quegli avvenimenti in un’unica
spiegazione, o
forse no: ma non poteva dimenticare che la sua istitutrice era tornata
dalla
sua breve gita al villaggio stranamente pallida, con tutta
l’intenzione di
parlarle di qualcosa di molto importante appena prima di cadere nella
sua
inspiegabile infreddatura. Sì, indubbiamente c’era
un qualche segreto che le
mura secolari di Pemberley stavano nascondendo, e lei diventava ogni
giorno più
curiosa di scoprirlo. Si lasciò alle spalle la cripta,
chiudendo con cura la
porta e ripercorrendo a ritroso il vialetto del camposanto mentre con
la mente
tornava alla sua nuova casa e al desiderio sempre più
invadente di svelarne
ogni mistero.
Emma
era già parecchio lontana quando una mano solitaria
sbucò dalla grata,
sollevandola e spostandola con un fastidioso stridio da un lato del
pavimento.
Una figura, grossa e nera, si issò faticosamente sul bordo
della botola,
sgorgando dall’ossario con un gemito inquietante. Nessuno la
vide e nessuno la
udì, se non le mute salme di coloro che un tempo erano stati
la sua
indesiderata famiglia.
*
Non
rientrò subito a Pemberley – c’era
qualcos’altro che aveva in mente di fare,
adesso che aveva la possibilità di muoversi senza
l’onnipresente sguardo
inquisitore dei domestici. Aveva ormai iniziato ad albeggiare, tenui
raggi
rosati penetravano le nubi plumbee e facevano brillare la rugiada
sull’erba;
nel momento in cui, al rientro dal camposanto, avrebbe dovuto prendere
la
strada per il castello, Emma decise di voltare il cavallo e andare
nella
direzione opposta, verso, come si era informata, la casa di sir
Carlisle.
Non
fu un tragitto eccessivamente lungo, forse una ventina di minuti al
massimo.
Procedeva ad una andatura sostenuta ma non esagerata – amava
andare a cavallo,
ma dal tragico incidente di sua sorella Lizzie non le sembrava il caso
di
sfidare la sorte – così, quando giunse finalmente
in vista dell’abitazione dei
Carlisle, conservava ancora un aspetto sufficientemente presentabile.
Il
cancello in ferro battuto della tenuta era aperto, così Emma
fece fermare il
suo baio e scivolò a terra, reggendo con mano salda le
redini per evitare che
il cavallo si innervosisse in un ambiente estraneo. Notò un
cartello di ottone
sul pilastro destro del cancello, dove era scritto, in caratteri
gotici, il
nome della proprietà: Ashfield.
La
casa era una tipica villa in stile georgiano: la facciata ricoperta di
mattoncini rossi, avvolti qua e là da spire di edera
fiorita, gli infissi
bianchi, un portico elegante il cui tetto pareva ricordare il frontone
dei
templi greci e una bassa siepe che percorreva il profilo della casa in
tutta la
sua superficie. Il sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra: il
cambiamento
rispetto a Pemberley era talmente evidente che le parve quasi di essere
in un
altro angolo di mondo, in un’altra vita: quella si poteva
definire davvero una
casa accogliente, pensò, una nella quale le sarebbe piaciuto
abitare.
Fu
un cameriere a venire ad accoglierla, con sua grande sorpresa: oramai
era
pressoché disabituata a dei domestici in divisa ineccepibili
e professionali
come la servitù di Hambleton.
«Posso
fare qualcosa per voi, signorina?» Le domandò il
giovane, fermandosi a pochi
passi da lei e spostando uno sguardo perplesso e leggermente ostile
dalla sua
cavalcatura alla sua persona e viceversa.
Emma
sapeva di non essere in condizioni eccellenti per fare una visita
mattutina al
suo vicino di casa, ma era pur sempre la figlia di un conte e non
c’era nessuna
ragione che permettesse a quel domestico di fissarla con
così tanta insolenza,
come se fosse stata l’ultima sguattera della cucina, o
peggio. Probabilmente l’essere
arrivata in groppa ad un cavallo privo di sella e finimenti doveva
avergli dato
l’impressione sbagliata. «Mi auguro proprio di
sì, desidero vedere sir Carlisle»,
affermò con un tono deciso, sforzandosi di non spazzolare
via la polvere e la
terra dal proprio vestito. «Sono sicura che si
ricorderà di me: sono lady Emma Moore,
la proprietaria di Pemberley Manor.»
Gli
occhi chiari del ragazzo parvero allargarsi leggermente, eppure non le
diede la
soddisfazione di riconoscerla: non sembrava fidarsi della prima
fanciulla che
si vantava di un titolo simile, come se quel luogo dimenticato da Dio
pullulasse di numerosi impostori. «Date a me il cavallo, m’lady»,
fu la sua replica forzata – non si diede neppure pena di
scusarsi. «Mr. James, il maggiordomo, vi farà
accomodare in casa.» Ciò detto,
le diede le spalle e si diresse sul retro, trascinandosi un animale
piuttosto
innervosito che scalpicciava sulla ghiaia del vialetto.
Emma
lo fissò a corto di parole: ma cos’avevano che non
andava tutti i domestici di
Heatherfield?
Trattenendo
a stento l’irritazione fece per avvicinarsi
all’ingresso e annunciarsi da sola,
ma venne bloccata a metà vialetto da un forte colpo di
tosse. Volse appena gli
occhi verso quel rumore, con nessuna intenzione di fermarsi per
verificarne la
fonte, ma purtroppo vide qualcun altro andarle incontro, e per forza di
cose si
vide costretta a mostrarsi cordiale anche con il nuovo arrivato.
«Perdonate,
m’lady, non ho potuto fare a meno di udire il vostro scambio
con Alfie. Vi
chiedo scusa anche da parte sua, non è stato molto
gentile», esordì pacato, con
la voce greve di chi trascorre molto tempo a fumare. Da una mano gli
pendevano
delle cesoie e con l’altra si sfilò educatamente
il cappello in cenno di
saluto; tutto il suo abbigliamento indicava chiaramente il suo lavoro
di
giardiniere. Emma decise che doveva avere all’incirca
l’età di Mr. Duncan, se
non addirittura qualche lustro in più.
«Non
posso biasimarlo, dopotutto è un orario inconsueto per delle
visite. Tuttavia
ho urgenza di parlare con sir Carlisle, per cui, se
posso…» Fece, cercando di
liberarsi dell’uomo con delicatezza.
Egli
tuttavia non parve capirlo. «Siete davvero lei, mh? La nuova
padrona di
Pemberley. Vivete lì? Con i Duncan?» Aggiunse,
sputando quel nome come se fosse
stato insieme un insulto e una maledizione.
Parlare
male della propria servitù con il domestico di
un’altra famiglia non rientrava
nell’educazione che le era stata imposta: come diceva sempre
miss Radcliffe,
utilizzando un accorto proverbio contadino, i panni sporchi andavano
lavati in
casa. «Sì, e per vostra informazione non
c’è nulla di riprovevole nel modo in
cui i Duncan gestiscono la tenuta, per cui vi suggeriscono di moderare
i toni.»
Egli
tuttavia ignorò sfacciatamente quel prudente consiglio.
«Se così fosse, che
cosa vi porta qui ad Ashfield appena dopo l’alba e senza
alcun preavviso, con
l’aria di chi fugge dall’Inferno?»
Emma
rimase sconvolta dall’insolenza di quell’uomo, ma
per sua fortuna le venne
risparmiata la fatica di pensare ad una risposta abbastanza tagliente
da
metterlo a tacere.
«Tom!
Occupatevi dei cespugli e non importunate milady»,
sbottò difatti una voce
severa che interruppe il loro breve scambio. Emma si voltò
per vedere quello
che doveva essere il maggiordomo, irto sulla soglia del portico con
un’espressione contrariata e algida su un viso segnato dal
tempo.
Il
giardiniere si raddrizzò, infastidito. «State
attenta a chi concedete la vostra
fiducia, m’lady», fece allora, prima di rivolgerle
un rigido cenno col capo e
tornare al suo lavoro senza più aggiungere una sola parola.
Emma
lo osservò sparire in mezzo alla vegetazione, perplessa:
quasi rimpiangeva di
non avergli fatto più domande – quel tale, Tom,
forse era a conoscenza di
qualcosa che avrebbe dovuto sapere anche lei…
C’era forse dell’altro sui Duncan,
oltre alla storia che le aveva già raccontato sir Carlisle?
«Prego, milady, accomodatevi dentro casa. Se
avessimo saputo del vostro arrivo avremmo organizzato
un’accoglienza assai più
adatta», stava dicendo Mr. James cercando di ottenere la sua
attenzione, in un
tono finalmente educato e professionale che non pareva accusarla di
essere
capitata in casa loro come un bandito. «Il signore
è in sala da pranzo. Vi
fermate per colazione?»
«Non
credo, signor James, ma vi ringrazio. Ho solo bisogno di parlare con
sir
Carlisle, non mi tratterrò a lungo», rispose un
poco più a suo agio,
raggiungendolo sul portico. Intimamente cercò di consolarsi
– forse non
indossava un abito elegante, ma perlomeno portava il nero.
«Molto
bene. Se volete seguirmi…»
Sir
Carlisle sedeva al tavolo della sala da pranzo, neanche lontanamente
grande o
sfarzosa quanto quella di Pemberley, ma non per questo meno
accogliente,
immerso nella lettura di un quotidiano – evidentemente il
servizio di posta era
più efficiente ad Ashfield di quanto non fosse al castello
– mentre il cameriere
che lei aveva incontrato poco prima nel cortile gli gironzolava intorno
pronto
ad esaudire qualunque richiesta. Era già vestito di tutto
punto, il che le fece
sentire per un attimo nostalgia di casa, di Hambleton – Emma
non credeva che le
potesse mancare così tanto fare colazione con suo padre,
quando solo raramente
si scambiavano qualche parola durante il primo pasto della giornata.
Probabilmente associava un’abitudine così semplice
a un capitolo della sua vita
che non si sarebbe più potuto ripetere, vista la scomparsa
della madre…
Quando
lei e il signor James si affacciarono sulla porta, il primo
annunciandola con
aria pomposa, il padrone di casa sollevò gli occhi su di lei
e si alzò
rapidamente in segno di cortesia, sorridendole e posando il giornale
sul tavolo
per andarle incontro.
«Lady
Moore, questa sì che è una piacevole visita
inaspettata!» Esordì con
entusiasmo, prendendole la mano e sfiorandola con un baciamano
impeccabile. Se
anche era infastidito per il suo arrivo non annunciato, egli seppe
mascherarlo
alla perfezione.
«Vi
chiedo infinitamente scusa per essere piombata così
all’improvviso in casa
vostra, sir Carlisle», si scusò immediatamente,
per l’ennesima volta,
seguendolo mentre le faceva strada verso la sedia accanto alla sua,
capotavola.
«Via,
credevo avessimo abolito le formalità. Le trovo
così pompose e forzate, qui in
campagna… Chiamatemi pure Arthur», la corresse
gentilmente, riuscendo a
metterla del tutto a suo agio anche malgrado l’abbigliamento
poco consono e
l’orario decisamente vergognoso. «Scommetto che non
avete ancora fatto
colazione. Gradite del tè, o preferite forse del
caffè? Con latte, magari? E i
pasticcini? Mrs. Mills, la nostra cuoca, li ha sfornati proprio qualche
ora fa.
Sono ancora caldi.»
Adesso
che la colazione le veniva offerta dal padrone di casa le sembrava
maleducato
rifiutare, senza considerare che, in effetti, la lunga cavalcata
mattutina le
aveva messo un certo appetito. «Grazie, sir… Arthur.
Il tè andrà benissimo»,
capitolò con un mezzo sorriso,
sfilandosi i guanti e posandoseli in grembo.
«Jimmy,
del tè per milady, grazie.» Ordinò,
rivolgendosi al cameriere. Poi tornò a lei,
riprendendo a sorridere. «Non credevo che amaste le
passeggiate così
mattiniere, lady Emma. Posso chiamarvi per nome, sì? Vi
piace ammirare l’alba?»
«Una
cosa del genere. In realtà ho colto un vostro suggerimento,
ci pensavo dalla
vostra visita… Sono andata alla cripta dei conti di
Rochester», ammise,
abbassando leggermente la voce.
«Siete
stata al vecchio cimitero?» Sir Arthur sembrò
davvero sorpreso, e una sottile
ruga di apprensione si formò tra le sue sopracciglia
aggrottate. «Oh, milady,
non vorrei sembrarvi arrogante o invadente, ma non penso che sia stata
la
migliore delle idee quella di spingersi così lontano, da
sola, e a un orario
così insolito…»
«Sì,
certo, ne sono consapevole, ma la curiosità è
stata tanta che non sono riuscita
a trattenermi», replicò brevemente; in tutta
sincerità, era imbarazzante
ammettere ad alta voce quella sua
scappatella – alle orecchie di un estraneo doveva sembrare
talmente ridicola!
L’uomo
annuì, mentre lasciava che un’espressione grave si
facesse largo sul suo volto
e ne annullasse l’istintiva giovialità.
«Comprendo benissimo, milady, e non mi
permetterei mai di giudicare una fanciulla così assennata
come immagino siate
voi», fu tuttavia la sua garbata e sincera risposta.
«E avete ottenuto ciò che
speravate di trovare?»
«In
realtà credo che sia piuttosto difficile placare la
curiosità di una donna»,
ribatté Emma con un mezzo sorriso, cercando di spostare la
questione su un
terreno più leggero e che, al momento, le stava
più a cuore. «Tuttavia, sir
Arthur, non sono venuta a quest’orario così
barbaro solo per approfittare della
vostra ospitalità, ma per osare chiedervi una
cortesia», proseguì piano,
posando la tazza sul piattino e sollevando lo sguardo sul padrone di
casa.
Egli
la osservò attentamente, e le fece cenno di andare avanti.
«Prego, milady,
chiedete pure. Farò quanto è in mio potere per
aiutarvi.»
Emma
sospirò, leggermente imbarazzata per il fatto di dover fare
una richiesta tanto
singolare a un gentiluomo che era, in fondo, ancora uno sconosciuto.
«Come vi
ho accennato, la mia istitutrice non sta bene. È a letto da
giorni, ormai, e
non accenna a migliorare… Ho fatto chiamare il medico, ma la
mia governante
dice sempre che non può e non vuole venire,
perché a quanto pare la gente del
villaggio nutre uno strano terrore nei confronti di Pemberley, e
preferisce non
metterci piede. Se servisse a qualcosa andrei io stessa da lui, ma che
senso ha
parlare con un dottore se egli non vuole visitare la paziente? Per cui,
ecco,
mi domandavo se voi poteste intercedere presso di lui, a nome mio.
Credo che
voi siate più conosciuto di me al villaggio, e sicuramente
nessuno si
rifiuterebbe di venire ad Ashfield…»
«In
poche parole, milady, mi state chiedendo di rapire il dottor Carew e di
portarlo a sua insaputa a Pemberley Manor?» Malgrado
l’improvviso rossore di
Emma a quel rapido sunto, sir Carlisle scoppiò a ridere,
sinceramente
divertito. «Ma certo, certo, è più che
fattibile! Andrò a Heatherfield subito
dopo colazione, e vi posso assicurare che prima di pranzo il dottore
avrà
visitato la vostra miss Radcliffe.»
«Non
so come ringraziarvi, sir Arthur», rispose lei sinceramente,
non osando quasi
sorridere per timore di fargli cambiare idea.
«Sarò molto più tranquilla una
volta che il signor Carew l’avrà vista. Dubito che
con latte caldo e miele si
possa curare altro che non sia un semplice
raffreddore…»
Sir
Arthur annuì, comprensivo. «A voler essere franco,
milady, mi delude che un
uomo di scienza come Brandon Carew si sia lasciato suggestionare dalle
storie
dei contadini al punto di privarvi del diritto di una
visita», aggiunse poi,
con un’aria improvvisamente risentita – quasi che
il torto fosse stato fatto a
lui in prima persona. «Lo conosco da tanti anni, e vi
assicuro che è la prima
volta che assisto a un simile comportamento. Non so davvero come
spiegarlo…»
«Se
anche la metà di ciò che mi avete raccontato
durante la vostra visita a
Pemberley è del tutto vera, sir Arthur, non posso sentirmi
di biasimare il
dottor Carew», replicò Emma, sentendosi quasi in
dovere di difendere il
recalcitrante dottore: il maniero, era ora che lo ammettesse, stava
iniziando a
spaventarla, e poteva forse iniziare a capire i sentimenti degli
abitanti del
villaggio al riguardo. «E comunque mi auguro che accetti di
farci visita in
vostra compagnia. Non credete che il mio gesto sia inopportuno,
vero?»
«Ribadisco
che è nel vostro pieno diritto richiedere la visita del
medico della contea,
milady, è che il torto sia suo per avervelo
negato», la rassicurò sir Carlisle,
con il suo caldo sorriso. Poi si voltò appena di lato,
attirando l’attenzione
del maggiordomo che attendeva ordini in paziente attesa alle sue
spalle, presso
l’arazzo che ricopriva buona parte della parete.
«Per favore, James, fate preparare
la mia automobile. Lady Emma, venite al villaggio insieme a
me?»
«Oh
no, sir Arthur, se non vi dispiace preferirei precedervi a Pemberley.
Devo
avvisare i miei domestici e cercare un abbigliamento più
adatto per ricevere
ospiti», disse subito, ricordandosi delle condizioni in cui
si era presentata
alla sua porta. Si domandò se con dei simili indumenti
avrebbe rischiato di più
le ire di suo padre o della sua istitutrice… Sorrise,
cercando di non pensarci,
e si alzò da tavola subito imitata dal padrone di casa.
Quest’ultimo
scosse il capo, palesemente divertito. «Per quanto non mi
senta molto
tranquillo nel lasciarvi rientrare da sola e a cavallo, posso
comprendere la
vostra premura. Ma lasciatemi dire che siete elegante anche in questa
eccentrica tenuta da amazzone.»
«L’auto
è pronta, sir», li interruppe in quel momento Mr.
James, appena rientrato nella
sala da pranzo.
«Bene,
grazie James. Milady, permettete?» La scortarono galantemente
nell’ingresso, dove
sir Arthur l’aiutò a infilare il soprabito e
istruì il maggiordomo di avvisare
la signora Carlisle che era dovuto scappare subito dopo colazione per
un
impegno improrogabile. Dopodiché egli salì nel
suo trabiccolo moderno, come lo
avrebbe definito miss Radcliffe, ed Emma montò a cavallo
aiutata da un assai
meno arrogante Alfie.
Proseguirono
insieme fino all’incrocio, dove si dovettero separare: sir
Arthur le promise
che in una o due ore al massimo sarebbe giunto al castello con il suo
amico, e
così accadde.
Il
dottor Brandon Carew varcò la soglia di Pemberley Manor con
l’aria del
condannato a morte che si appresta a compiere gli ultimi passi prima
del
patibolo. Era un signore di media altezza e media corporatura, la cui
età
pareva ondeggiare tra i cinquanta e i sessant’anni, che non
possedeva alcun
segno particolare che potesse distinguerlo in mezzo ad una folla, salvo
la
consunta valigetta che stringeva nella mano sinistra come se
aggrappandovisi
sarebbe stato al sicuro dai fumi maligni del maniero. Era un uomo
comune, e di
sicuro non si era ancora ripreso dall’improvviso tradimento
di sir Carlisle,
che lo aveva trascinato in quella tenuta di nascosto nonché
contro il suo
volere.
Emma
ignorò il palese disaccordo che leggeva in viso a Mrs.
Duncan – la quale non
aveva digerito bene la cavalcata segreta della padrona e che pareva
tanto
restia ad avere ospiti in giro per il maniero quanto lo erano questi
ultimi di
far loro visita – e andò ad accogliere il dottore,
sforzandosi di metterlo a
suo agio con tutte le buone maniere che poteva sfoderare. La sua
tranquilla
serenità certo mascherava alla perfezione la breve
discussione che aveva avuto
con la governante al suo ritorno a Pemberley, dove poche ore prima era
stata
accolta quasi come una prigioniera che non si sarebbe mai dovuta
permettere di
uscire dai confini della proprietà senza domandare il
permesso o farsi
accompagnare da qualcuno. Per la prima volta Emma aveva minacciato la
donna di
raccontare tale condotta a suo padre e di farla dunque cacciare, e per
quanto
si fosse vergognata l’attimo dopo aver parlato in quel modo,
non poté fare a
meno di notare che quelle maniere sembravano aver portato qualcosa di
buono:
Mrs. Duncan appariva ancora contraria a ciò che faceva lei,
ma perlomeno teneva
per sé le sue considerazioni.
Il
dottor Carew, dal canto suo, pareva essersi innamorato di Emma dal
momento in
cui i suoi occhi si erano posati su di lei. Si era subito prodigato in
mille
scuse e salamelecchi inframmezzati da mezzi inchini, si era
giustificato per il
suo comportamento e le aveva promesso che mai più avrebbe
osato ignorare gli
appelli di Sua Signoria – Emma gli
aveva ripetuto tre volte che non doveva chiamarla in quel modo, ma alla
quarta
si era limitata ad alzare gli occhi al cielo e a lasciar correre
–
a favore di altro che poteva aspettare. Lo aveva accompagnato in camera
di miss
Radcliffe mentre sir Arthur, con impeccabile delicatezza, si era
offerto di
attendere in biblioteca che la visita terminasse; in cuor suo Emma non
poté che
essergli grata, dato che così poteva liberarsi di Mrs.
Duncan ordinandole di
portargli del tè per non averla tra i piedi durante il
consulto.
La
diagnosi del dottore era stata, tuttavia, poco soddisfacente:
l’uomo non aveva
saputo determinare con certezza a cosa fosse dovuto il malore di miss
Jane,
anche se aveva escluso a priori le malattie più gravi. A
giudicare da ciò che
gli aveva spiegato Emma e da ciò che aveva avuto modo di
esaminare da sé, pensò
che almeno in un primo momento doveva essersi trattato di
un’intossicazione
alimentare. Forse qualcosa che aveva mangiato al villaggio, visto che
si era
sentita male il giorno stesso? Emma non seppe rispondere. Ad ogni modo,
il
fatto che non fosse abbastanza cosciente per potersi nutrire in modo
appropriato aveva fatto peggiorare la sua salute, e fu per questo che
le
prescrisse, insieme a delle pastiglie che facessero calare la febbre,
una dieta
rigorosa da seguire passo per passo a costo di imboccare a forza la
paziente.
«Inoltre,
se posso permettermi l’ardire, Sua Signoria», le
sussurrò l’uomo guardandosi
intorno con aria circospetta, forse temendo che le pareti lo
ascoltassero, «vi
consiglio di controllare tutto quello che viene fatto ingurgitare alla
signorina Radcliffe, qualora… Dio non voglia, per
carità, ma la prudenza,
sapete come si dice… ecco, in caso di un avvelenamento
prolungato.»
Emma
aveva ascoltato quelle parole più con fare sorpreso che
indignato, dato che una
simile possibilità non le era neanche passata per la testa.
Perché mai qualcuno
avrebbe voluto avvelenare miss Radcliffe, che non aveva fatto del male
a
nessuno e di certo era a Heatherfield per troppo poco tempo per potersi
essere
fatta dei nemici così agguerriti?
Parlarono
ancora un poco di come sarebbe stato meglio prendersi cura di miss
Radcliffe –
impacchi di erbe balsamiche per liberare le vie respiratorie, pezzuole
bagnate
di acqua gelida da posarle sulle tempie, e via dicendo –
dopodiché Emma fece
strada al dottore fino alla biblioteca per raggiungere sir Arthur.
Rimasero
entrambi fino all’ora di pranzo, quando i due uomini
dovettero declinare di
pari accordo l’invito di fermarsi a mangiare al maniero, con
palese
soddisfazione di Mrs. Duncan.
Anche
più tardi, mentre sedeva al capezzale della sua istitutrice,
Emma non riuscì a
togliersi dalla testa la terribile idea che il dottor Carew vi aveva
fatto
radicare.
**
Il
giorno successivo, dopo aver congedato il dottore che aveva ormai
accettato di
tornare periodicamente per far visita alla sua paziente, a patto di
essere
accompagnato di nuovo da un disponibile sir Carlisle, Emma
trovò un libro
posato sulla poltroncina che usava occupare in biblioteca, quella
accanto al
camino, come se qualcuno lo avesse dimenticato lì di
proposito. Incuriosita, lo
prese e se lo rigirò tra le mani, finché i suoi
occhi non vennero catturati dal
titolo: Le sei mogli di Barbablù.
Era
un libricino sottile, con la copertina blu logora e il dorso usurato,
ma
l’immagine dipinta sul frontespizio mostrava la chiara
rappresentazione di una
fanciulla dall’espressione terrorizzata che teneva tra le
mani coperte di
sangue una piccola chiave d’oro. Emma conosceva la favola
– la conosceva bene,
a dirla tutta, grazie al suo particolare interesse per il gotico e per
l’orrore
– e pertanto trovò di cattivo gusto che qualcuno
le avesse lasciato quel volume
in particolare a portata di mano, quasi sperando che lei lo trovasse e
lo
leggesse.
La
cosa non le piacque. Volevano forse ricordarle cosa accadde alle mogli
curiose
di Barbablù? Eppure credeva che fosse in suo diritto
esplorare il maniero in
lungo e in largo. Avrebbe dovuto parlarne con Mrs. Duncan una volta per
tutte,
decise; quella storia stava andando troppo per le lunghe. A meno che,
certo,
non fosse stata lei a mettere in giro quel libro…
Il
pendolo ticchettava cupo e monotono, e un ceppo si spaccò in
due tra una
miriade di scintille. Tutta la biblioteca pareva immersa in
un’atmosfera di
pacata attesa, come se qualcosa di inevitabile dovesse accadere da un
momento
all’altro e fosse impossibile impedirlo: Emma dubitava che
tale sensazione
potesse avere un’accezione positiva, dato che quella
sensazione di quiete stava
trasformandosi via via in una di angoscia.
«Milady,
è arrivata una lettera per voi con la posta
serale», esordì più tardi Mrs.
Duncan, entrando nella biblioteca con il vassoio del tè.
«Da parte di vostro
padre. Ho pensato che avreste voluto leggerla subito.»
Emma
mise da parte la sua lettura e sollevò lo sguardo sulla
governante. Stava forse
cercando di essere più gentile, così di punto in
bianco? «Sì. Grazie, Mrs.
Duncan», rispose, con una fredda gentilezza che non aveva
più abbandonato da
quando aveva ripreso i domestici per la loro insolenza pochi giorni
prima.
Decidendo
tuttavia che avrebbe aperto la lettera una volta rimasta sola, si
limitò a
prendere la tazzina e addolcire la bevanda con due zollette di
zucchero. «Sapete
per caso chi potrebbe aver lasciato questo libro sulla mia poltrona,
signora
Duncan?» Domandò con noncuranza, ruotando il
cucchiaino per sciogliere lo
zucchero e indicando con un cenno del capo il libricino di
Barbablù che giaceva
sul tavolino di fronte. La donna abbassò lo sguardo su di
esso e aggrottò la
fronte, perplessa; eppure a Emma non sfuggì il tremito delle
sue labbra, né il
suo improvviso e ormai troppo frequente pallore.
«Sinceramente
no, milady», rispose piano, a mezza voce.
Emma
riprese la parola come se Mrs. Duncan non avesse risposto.
«Potrebbe essere uno
scherzo di Lydia? O di Noah? Forse dovreste tenere più sotto
controllo vostro
figlio, signora.»
«Vi
assicuro che non è stato Noah, milady!»
Sbottò la donna, la paura che diventava
ira in un battito di ciglia. Ma bastò una fredda occhiata di
Emma per placarla.
«Io… Vi chiedo di perdonarmi, milady. Voglio solo
dire che mio figlio non
toccherebbe mai qualcosa che non gli appartiene, e soprattutto non
oserebbe
entrare nel castello.»
Con
un cenno della mano, Emma interruppe le sue giustificazioni.
«Non voglio
trattenervi oltre, Mrs. Duncan. Avrete sicuramente di meglio da fare
che
rimanere ad annoiarvi qui insieme a me», fece, congedandola.
Avrebbe avuto
altre domande da farle, in realtà, ma ormai tollerava la
governante sempre meno
– e sempre di più desiderava che suo padre ne
mandasse un’altra al suo posto. E
c’era quella faccenda del veleno… Ma rovinare la
vita di un’intera famiglia
solo per un’antipatia passeggera e un sospetto privo di
fondamenta poteva
essere considerato un capriccio, e a Emma piaceva ritenersi superiore a
cose
del genere.
Con
un affilato tagliacarte ruppe il sigillo della lettera – suo
padre amava ancora
utilizzare la ceralacca con il suo timbro, ma solo per la posta privata
entre eux, giacché sarebbe stato davvero
troppo eccentrico per la posta quotidiana –
dopodiché si mise a leggere. La
carta odorava di tabacco, ed Emma riuscì a immaginare suo
padre scriverla tra
una boccata e l’altra dei suoi sigari, alla calda luce del
suo studio.
Mayfair Street, n. 15. Londra
Martedì 4 ottobre.
Mia cara Emma,
Ormai iniziavo a
credere che non mi avresti scritto fino a Ognissanti. Posso
interpretare questo
silenzio come il buon segno che infine hai gradito la campagna, e che
sei così
impegnata da non trovare qualche minuto da dedicare al tuo vecchio
padre? No,
tesoro mio, non aggrottare in quel modo la fronte – non
è un rimprovero: mi sto
solo burlando di te.
Come ben sai sono a
Londra da più di una settimana, e gli impegni tengono
lontani i pensieri più
tristi e cupi – e mi auguro con tutto il cuore che sia
così anche per te. Sono
lieto che la signorina Radcliffe ti sia accanto in questo momento, la
sua
presenza dovrebbe rendere il tutto assai meno miserabile e
più sopportabile. A
proposito, mi auguro che si riprenda al più presto: non
credo di averla mai
vista prendere un’infreddatura, siamo sicuri che non sia
nulla di grave? Forse
l’aria di campagna non è stata molto
misericordiosa con lei, povera donna.
Se può esserti di
una qualche consolazione, in città il tempo è
orribile: piove dalla mattina
alla sera, e quando non piove tira vento, e se non tira vento le strade
sono
immerse in quella fastidiosa nebbia che rende sempre assai poco
piacevole
uscire di casa per andare a partecipare ai ricevimenti che offre
l’inizio della
Stagione. Ho sentito che lady Edith Campell, non era forse una tua
amica?, si
sposa in primavera con un tale che possiede una fabbrica di sali e
profumi, e
contro il volere dei genitori. Un vero scandalo! Ti lascio immaginare.
A Londra
per il momento è il pettegolezzo più succulento,
non si parla d’altro – ho
pensato che potessi gradire notizie simili, laggiù in
campagna.
Ho anche avuto il
piacere di incontrare lord George Herbert
– forse lo rammenti, è stato ospite a casa nostra
qualche anno fa, durante la
stagione di caccia – ed è stato tanto gentile da
domandarmi della mia
spedizione in Egitto; ha fatto mostra di volerci andare a sua volta,
prima o
poi, giacché la nostra collezione privata di tesori egizi
l’aveva a suo tempo
profondamente ammaliato. Anch’io sto prendendo in
considerazione l’idea di
partire, mia cara, e mi domandavo se potessi essere interessata ad
accompagnarmi: forse viaggiare verso terre lontane potrebbe aiutarci
nel
placare il nostro dolore, e benché io sappia che
è impossibile fuggire da esso
so anche che è in nostro dovere provare comunque a farlo.
Non devi prendere una
decisione subito – lasciamo tutto a dopo Capodanno. Riesci a
immaginare la
meraviglia delle coste del Nilo, in primavera?
Ora permettimi di
mettere da parte per un momento le chiacchiere frivole, e lascia che mi
comporti come il padre severo che dovrei essere: mi auguro che tu abbia
scritto
a Caledon. Visto il legame che condividete sei tenuta a contattarlo
personalmente,
non solo perché sono le più semplici regole della
società a imporlo ma
soprattutto per una questione di delicatezza; benché io lo
abbia già avvisato in
precedenza della tua partenza verso il nord, è comunque
preferibile che gli
faccia avere tue notizie di tuo pugno. Povero ragazzo, credo non abbia
preso
molto bene la mia decisione – sì, ho ribadito
più volte che tu non hai potuto
astenerti dall’obbedirmi, e ciò ha trasferito la
sua delusione su di me anziché
su di te – ma malgrado ciò si è
comportato da vero gentiluomo e ha promesso di
rispettare il tuo periodo di lutto. L’ho incontrato proprio
tre giorni fa al
club ma mi è parso di capire che non l’avessi
ancora contattato, per cui ti
consiglio di rimediare al più presto – qualora tu
non l’abbia già fatto nel
tempo che questa lettera impiegherà per arrivarti. Vi
conoscete da una vita,
mia cara, e so che adesso lui è l’ultimo dei tuoi
pensieri, ma molto presto
diventerà il primo tra essi, e non voglio che il tuo
matrimonio inizi su basi
così poco stabili. Ti supplico di non usare
l’attuale situazione come espediente
per allontanarti ancora di più da lui.
Mia cara, perdonami;
so che non sono discorsi da fare per lettera, ma al momento
è l’unico modo che
abbiamo per comunicare. Devo informarmi se a Heatherfield esiste
già una linea
telefonica – in tal caso potrei far installare un apparecchio
a Pemberley
Manor, non sarebbe una buona idea? Pensavo comunque di investire in una
ristrutturazione del castello, tanto vale cominciare al più
presto.
Ah, un’ultima cosa:
non so dirti quando riuscirò a raggiungerti in campagna. Mi
auguro il prima
possibile, ma ti darò notizie più dettagliate
nella prossima lettera. Te lo
prometto.
Intanto ti stringo
forte, adorata, e che Dio ti benedica. Tuo,
Papà.
***
Venne
svegliata nel cuore della notte dal feroce abbaiare di Aramis
proveniente da un
punto imprecisato nella stanza, forse ai piedi del letto. Socchiuse gli
occhi,
sbattendo le palpebre e guardandosi intorno per cercare di capire che
cosa
stesse succedendo: la finestra si affacciava ancora sul buio pesto,
segno che
l’alba era parecchio lontana, e poiché non stava
piovendo né tuonando si
domandò per quale diavolo di motivo il suo cucciolo si fosse
messo a fare tutto
quel rumore, quasi che avesse il preciso compito di svegliarla.
«Ssht, Aramis, buono… Non è
ora»,
biascicò, cercando di calmarlo per poter tornare a dormire.
Le sembrava di non
riuscire a riposarsi da giorni, il che era pericolosamente vicino ad
essere la
verità.
Tuttavia il cane non pareva
intenzionato ad obbedire agli ordini della padrona, e al latrare
sostituì un
furioso e determinato ringhiare. Maledicendo prima lui e poi
sé stessa, per non
aver dato retta a Mrs. Duncan e aver lasciato dormire Aramis nelle
stalle, Emma
scostò la coperta e arrancò faticosamente tra le
coltri annodate fino a
raggiungere il bordo del letto, dal quale scivolò sul
pavimento posandovi i
piedi nudi. Allungò una mano alla cieca sul comodino e,
quando trovò lo
stoppino della lampada ad olio, lo ruotò finché
una tenue luce non ebbe
rischiarato le tenebre.
A quel punto Aramis la raggiunse
e gironzolò nervosamente intorno ai suoi piedi, continuando
a guaire e
ringhiare: aveva le orecchie tese e il muso aperto a mostrare
minacciosamente
le zanne, e per un attimo Emma ebbe paura di lui. «Cosa
c’è, bello? Non riesci
a dormire?» Mormorò, cercando di parlargli con un
tono dolce e rassicurante per
rilassarlo. Lui abbaiò ancora una volta e
strofinò il muso contro il suo
polpaccio, cercando di farla alzare; obbedendo a quel strano
comportamento,
Emma si alzò e seguì l’animale fino
alla poltrona accanto alla finestra nella
quale aveva letto quel vecchio diario prima di andare a dormire.
Qua, grazie alla luce, vide che
il diario era sparito e che al suo posto qualcuno aveva messo il
carillon che,
giorni prima, aveva trovato accanto al letto e che aveva nascosto
furiosamente
nell’armadio come se il fatto di non averlo davanti agli
occhi potesse aiutarla
a farglielo dimenticare. Non c’era dunque motivo per cui quel
carillon si
trovasse lì: non c’era quando si era coricata, e
la porta della sua camera era
chiusa dall’interno – la chiave era ancora inserita
nella serratura, dunque
nessuno, da fuori, sarebbe potuto entrare.
Abbassò lo sguardo su Aramis, il
cui comportamento finalmente era stato spiegato, osservandolo mentre
ringhiava
a bassa voce contro l’oggetto misterioso. Osservandolo
meglio, il sonno ormai
del tutto evaporato, Emma notò la presenza di un piccolo
biglietto, della
dimensione di quelli da visita, posato sopra il coperchio preziosamente
intarsiato. Sospirò, cercando di calmarsi – non
c’era ragione di avere paura –
e allungò una mano per prenderlo.
Dietro, scarabocchiata
frettolosamente con un inchiostro rosso e una calligrafia spigolosa,
c’era una frase
familiare: Padrona di aprir tutto, di
andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco
d'entrarvi
e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse
per disgrazia di
aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera.
Conosceva la citazione e aveva
compreso da dove proveniva ancor prima di giungere al punto: Barbablù.
Con le mani che tremavano
leggermente, e irritata dalla sua stessa incomprensibile reazione, Emma
gettò
il biglietto nelle braci del camino, attizzandole fin quando una
fiammella non
si fu sprigionata dalla carta incenerendola lentamente. C’era
in effetti un
luogo del castello che le era stato proibito visitare, ossia
l’Ala Ovest: e
invece vi era entrata, vi aveva curiosato e aveva addirittura portato
via un
diario… Che fosse, quella, la prima avvisaglia di una futura
punizione?
Ma no, che sciocchezza; non c’era
nessun altro, a Pemberley, salvo lei e i domestici.
«È solo uno scherzo di
cattivo gusto», mormorò, osservando il biglietto
bruciare. Era Mrs. Duncan che
la tormentava, ormai ne era convinta: quella donna la tollerava a
malapena e
non faceva cenno di nasconderlo, visto che il resto della
servitù era dalla sua
parte. E da quando l’aveva richiamata all’ordine,
umiliandola davanti al marito
e alla sguattera, quel sentimento doveva essersi acuito. Ma per quale
motivo
arrivare a terrorizzarla così, rischiando di perdere il
lavoro – giacché non
aveva dubbi che suo padre l’avrebbe cacciata, una volta
scoperto in che modo si
era comportata?
Eppure, malgrado questa teoria e benché
si fosse poi coricata con il corpo caldo e confortante di Aramis
accucciato ai
suoi piedi, a farle la guardia, quella notte Emma trovò
difficile riprendere
sonno.
________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Dieci pagine di
capitolo piene
piene... e quando mai le ho scritte? Godetevela finché ce
n'è, non posso dirvi altro. xD
Okay, e anche questa è cosa fatta! Devo ammettere che sto
amando
questa storia sempre di più man mano che si va avanti... e
il
momento della verità (ossia il fatidico incontro tra la
nostra
eroina e il nostro cattivone) si fa sempre più vicino!
Chiedo
scusa se vi sembra che la stia tirando inutilmente per le lunghe e se
questi capitoli vi sembrano noiosi - so che c'è poca azione,
ma
sto cercando di attenermi il più possibile a quei bei
romanzi
ottocenteschi dove il mistero e l'atmosfera vengono costruiti
lentamente, mattone dopo mattone, dove l'autore si prende tutto il
tempo che vuole per curare i dettagli e plasmare i vari personaggi come
creta tra le mani (o, in questo caso, dovrei dire tra le dita e i tasti
del piccì!) in modo che nulla sia campato per aria e tutto
abbia
uno scopo e un fine... Spero di essermi spiegata xD E anche di riuscire
nel mio ambiziosissimo intento!
Nel frattempo, mi prendo anche il tempo di ringraziare tutti coloro che
leggono e recensiscono, coloro che ci sono dall'inizio e coloro che
sono saltati a bordo in corso d'opera! In particolar modo ci tengo a
dire un enorme grazie alle fantastiche Sylphs, Homicidal Maniac, Jolly J e Se7f per aver
recensito lo scorso capitolo - siete davvero troppo buone, grazie
davvero per la fiducia che mi state danto! ♥
[Grazie inoltre alla mia alfabetaomegareader kenjina e alla mia geme per essersi
imbarcate a loro volta in questa odissea, belle che siete *_*]
Orbene, ora vado! Ci si legge presto, spero - incrociate le dita :D
Baci e abbracci a tutte, vostra
Niglia.
|
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Capitolo 7 *** Chapter 6. Someone's Walked Over My Grave ***
6.
Someone’s walked over
my Grave
Il
dottor Carew aveva visitato miss Radcliffe soltanto il giorno prima,
eppure già
sembrava di intravedere nella povera donna qualche lieve miglioramento:
il
colorito della carnagione era meno pallido, il respiro meno affaticato,
la
fronte più tiepida; e per fare ciò era bastato
assicurarsi che i cibi non
fossero alterati, fingendo di assaggiarli di fronte alla signora
Duncan. Quest’ultima
non aveva battuto ciglio, Emma aveva assaggiato le pietanze senza
subire
conseguenze e tutto pareva essersi risolto per il meglio.
Ciò nonostante la
giovane non riusciva a darsi pace – l’apparente
sangue freddo della governante
bastava forse a sollevarla da tutte le accuse, non ultima la faccenda
del libro
di Barbablù e del messaggio che aveva trovato nella sua
camera da letto? Prima
di trasferirsi a Pemberley Manor non avrebbe mai avuto simili pensieri
– di domestici
che ordivano complotti se ne leggeva soltanto nelle novelle gotiche
– ma adesso
essi parevano essere diventati parte della sua quotidianità.
Forse la
solitudine la stava facendo impazzire, chi poteva dirlo? Bramava la
compagnia
di un altro essere umano, una persona qualunque che non fosse
intossicata
dall’aria malsana di Pemberley Manor e del villaggio
circostante, e sebbene sir
Arthur avrebbe potuto rappresentare tale figura, Emma non poteva fare
affidamento su di lui per il semplice fatto che abitava troppo distante
e aveva
di sicuro i suoi affari a cui badare.
In
quel momento, mentre osservava miss Radcliffe dormire finalmente un
sonno
sereno grazie alle medicine e alle cure combinate sue e del dottor
Carew, Emma accantonò
quei pensieri e riportò alla mente il fatto
della notte prima. Non avrebbe dovuto
bruciare quel biglietto, rifletté ora con maggiore
lucidità, dandosi
mentalmente della sciocca. Avrebbe dovuto conservarlo, farlo vedere a
qualcuno,
utilizzarlo come prova – di che cosa, poi, ancora non lo
sapeva – nel caso la
situazione fosse diventata più ingestibile;
chissà, si sarebbe potuto risalire
tramite la calligrafia a chi la stava importunando… Non
aveva mai veduto una
sola parola vergata dal pugno di uno dei signori Duncan, dunque aveva
deciso
che essi sarebbero stati considerati colpevoli fino a prova contraria.
Non
poteva fidarsi di loro – anzi, aveva iniziato a sentirsi a
disagio quando si
trovava in loro compagnia, e aveva preso l’abitudine di farsi
servire la cena
nella propria camera da letto – e neppure di Lydia, che con
il suo silenzio era
forse più inquietante dei suoi compagni di lavoro.
Il
suo Aramis, invece, aveva iniziato stranamente ad abituarsi alla nuova
dimora e
passava ormai più tempo ad esplorarla che non a coccolare la
sua padrona. Emma
non aveva idea se questo atteggiamento significasse qualcosa
– per esempio, che
le mura di Pemberley in fondo non celavano alcun pericolo –
pertanto, nel
dubbio, continuava a nutrire la propria preoccupazione.
Grazie
alle brevi visite del dottore, Emma aveva scoperto alcune cose riguardo
il
villaggio. Innanzitutto, non vi era nessun rappresentante della legge
– sia il
giudice che la prima stazione di polizia disponibili si trovavano a
circa venti
miglia di distanza, nel paese di Alnwick, ossia a quasi mezza giornata
di
viaggio in carrozza – ed era più che altro il
pastore, insieme all’ufficio
postale, a gestire le faccende amministrative. Insomma, più
il tempo passava e
più Emma cadeva preda dello sconforto, a causa della
terribile sensazione di
essere lasciata a se’ stessa in un luogo estraneo e
circondata da persone a dir
poco sospette e inospitali. Se solo miss Radcliffe fosse stata meglio,
non ci
avrebbe pensato due volte a preparare le valigie e tornarsene
immediatamente a
casa. Persino vedere le imposte listate a lutto di Hambleton Abbey
sarebbe
stato preferibile a quella solitudine.
A
tutto questo, come peraltro si sarebbe dovuta aspettare, si andava
aggiungendo
il gelido e inconscio terrore del buio che in genere è
prerogativa dei bambini
nella nursery. Personalmente, Emma si era sempre vantata della sua
freddezza
nei confronti di leggende e superstizioni – amava i romanzi
gotici e le storie
dell’orrido, sì, ma miss Radcliffe si era da
sempre fatta il puntiglio di
metterle in testa che nulla di ciò che leggeva in tali libri
o che le veniva
raccontato dalla sorella doveva spaventarla – e dunque aveva
smesso di dormire
con una candela accesa accanto al letto già dalla tenera
età di cinque anni.
Eppure, da quando era andata ad abitare a Pemberley Manor, pareva che
tutte le
sue certezze fossero scomparse, sostituite dalla vergognosa
capacità di
sussultare e tremare per ogni rumore e scricchiolio improvviso che
udiva nel
silenzio.
Aveva
costantemente l’inquietante sensazione di essere osservata
– si guardava alle
spalle più spesso di quanto volesse, e neppure la sua forza
di volontà riusciva
a impedirle di comportarsi in quel modo – e quando si
aggirava per i corridoi,
anche durante il giorno, le sembrava persino di essere seguita. Non
credeva che
fosse solo un’inspiegabile mania, visto che anche Aramis in
quei momenti
tornava ad essere nervoso e agitato, in special modo se si trovava
dentro o nei
pressi della biblioteca – per poi calmarsi inspiegabilmente
una volta raggiunta
la sua camera da letto o la sala da pranzo.
Ed
era allora che le tornavano in mente le parole di sir Arthur. Nella
biblioteca scoppiò l’incendio, e i
corpi dei Rochester vennero orribilmente divorati dalle fiamme.
Dunque era
stato il fuoco a ucciderli, oppure chiunque l’avesse
appiccato – giacché era
fuori discussione che un incendio di quella portata potesse essere
esploso da
solo – li aveva uccisi prima? Era macabro e morboso
continuare a pensarci, Emma
lo sapeva bene, eppure era allo stesso tempo inevitabile: come faceva a
distogliere la sua mente da quel fatto se ogni cosa glielo faceva
rammentare, dai
lampadari della biblioteca ancora anneriti, alle travi bruciacchiate
del
pavimento che Mrs. Duncan si ostinava a nascondere con spessi tappeti?
Ad
ogni modo, non le mancava la buona volontà. E la breve
visita del castello che
aveva fatto la settimana precedente – i giorni scorrevano via
senza che lei
riuscisse a tenerne il conto – l’aveva stuzzicata
al punto da volerla
replicare, cosa che se non altro l’avrebbe distratta da ogni
genere di teorie
complottiste che la sua mente partoriva in continuazione. Solo,
stavolta voleva
evitare di perdersi; e fu per questo motivo che domandò a
una perplessa e
contrariata Mrs. Duncan di procurarle i vecchi progetti del maniero, in
modo da
poter studiare la disposizione di tutte le stanze e i corridoi.
Caledon
aveva letto e riletto la lettera di Emma fino a impararla a memoria, da
quando
l’aveva ricevuta nel suo appartamento londinese cinque giorni
prima; gli era
sembrata una curiosa coincidenza, considerando che aveva incontrato
lord
Grantham al White’s soltanto la sera precedente. Rammentava
alla perfezione la
fitta piacevole che aveva provato all’altezza del petto nel
riconoscere
l’elegante calligrafia della sua futura moglie, mentre suo
padre lo fissava
dall’altro capo del tavolo con un mezzo sorriso di
condiscendenza sul volto.
«Buone
notizie?» Era stato il suo commento disinteressato. Cal lo
sperava: sinceramente,
aveva il timore che la lontananza e quella sorta di esilio a cui il
padre
l’aveva obbligata non avrebbe portato nulla di buono, in un
rapporto che già di
per sé andava avanti in un’atmosfera di costante
tensione. Tensione che
continuava a non spiegarsi, benché avesse trascorso
parecchie notti insonni a
rimuginarci, cercando risposte sul fondo di un bicchiere di cristallo:
da
quando la compianta lady Grantham si era ammalata, lui ed Emma non
avevano
fatto che allontanarsi, e l’idea di perderla ancora prima di
averla avuta non
gli dava pace. E adesso non poteva neanche andare a trovarla,
maledizione.
«Lo
sapremo presto, giusto?» Sospirò lui, aprendo la
lettera con il coltello da
burro e tirandone fuori un foglio piegato con cura e privo di profumi o
inutili
svolazzi. Dovevano essere davvero poche le fanciulle, in Inghilterra,
che non
riempivano le proprie carte personali di una o due gocce
d’essenza prima di
spedirle al proprio fidanzato, e ancora dopo tutti quegli anni Caledon
non
aveva ben compreso se la cosa lo infastidisse o lo lasciasse del tutto
indifferente. D’altronde, l’importante era il
contenuto.
«Non
essere irritato con lei, Caledon: hai sentito cos’ha detto
lord Grantham,
l’altra sera. Nulla di tutto questo è dipeso dalla
tua fidanzata», fu il pacato
e probabilmente saggio consiglio che gli diede il duca tra un sorso e
l’altro
del suo caffè mattutino. «Se vuoi puoi usare il
mio studio per leggere la
lettera in tranquillità…»
«Grazie,
sì», fece il figlio, alzandosi come se non stesse
aspettando altro. «Archer,
per favore. Porta il mio tè nello studio»,
aggiunse poi rivolto al cameriere.
Nell’osservarlo
uscire frettolosamente dalla sala da pranzo, neanche gli andasse a
fuoco la
sedia, lord Suffolk rilasciò un breve e irritato sospiro.
Sembrava essere
rimasto l’unico, nella famiglia, a non ritenere che quel
matrimonio fosse in
pericolo: persino la fiducia di sua moglie aveva iniziato a vacillare,
dopo la
morte di lady Grantham e l’inevitabile raffreddamento dei
sentimenti della
fanciulla.
«Si
sposeranno, si sposeranno…» Mormorò
tranquillo, con la cieca sicurezza che
deriva da anni e anni di esercizio del potere. Avrebbe voluto che anche
suo
figlio vivesse quella situazione con maggiore serenità, ma
il duca sapeva bene
che il cuore di un giovane era preda dei dubbi e dei dilemmi
più atroci.
Biasimando quel comportamento così middle-class,
il duca tornò a immergersi nella lettura del giornale
dimenticando presto le
angosce ingiustificate del figlio.
Quando
la porta dello studio si chiuse con un tonfo leggero alle sue spalle,
il
giovane in questione riprese a respirare. Aveva l’impressione
che la lettera
pesasse come un macigno nel suo pugno, e quasi temeva di abbassare gli
occhi e
leggerla, nel caso contenesse qualcosa che non fosse di suo gusto: se
l’avesse
ignorata, poteva fingere che qualsiasi brutta notizia vi fosse giunta
non lo
riguardasse… Ma ancora prima di concludere tale pensiero si
dette dell’idiota,
maledicendosi. Che sciocchezze! Era un uomo fatto e finito, era
l’erede di un
duca, e aveva Londra ai suoi piedi… non poteva struggersi a
quel modo per una
lettera giunta dalla campagna!
«Una
lettera di Emma», sussurrò inconsciamente, come a
volersi tuttavia contraddire.
Attraversò la stanza e si diresse verso la vecchia poltrona
in pelle accanto al
camino, alla ricerca di una posizione comoda; quel continuo posticipare
l’inevitabile lettura stava iniziando a dargli sui nervi,
così si sedette e, in
un gesto che conteneva rabbia, timore e determinazione insieme,
dispiegò il
foglio e cominciò a leggere.
Non
era nulla di che, scoprì poi con un certo disappunto e
un’inevitabile punta di
delusione. Emma usava parole gentili e modi impeccabili, come sempre,
ma non
una tenerezza, un’effusione, né un pensiero
affettuoso per l’uomo che avrebbe
dovuto sposare. Chissà che cosa si era aspettato? A
metà lettera provò
l’impulso di appallottolare la carta e gettarla nel fuoco,
tant’era forte la
sua frustrazione. Eppure proseguì, andando avanti con la
caparbietà che lo
contraddistingueva.
E
fu un bene, perché verso la fine della lettera il tono
cambiava
impercettibilmente, facendosi appena più intimo, con una
delicatezza che non
sarebbe stata colta da un occhio inesperto.
Benché
indubbiamente più breve di una lettera che una fidanzata
amorevole avrebbe
dovuto scrivere, a Caledon sembrò di scorgervi per la prima
volta uno spiraglio
attraverso il quale poter fare breccia. Emma descriveva la sua
proprietà di
campagna come un castello così antico e
immenso da farmi mancare l’aria, e aggiungeva poi,
non come se avesse
voluto scriverlo ma come se le parole fossero fuggite dalla penna prima
che
potesse impedirlo, che l’idea di papà,
per quanto nobile e sicuramente dettata da buone intenzioni, si
è rivelata
avere l’effetto opposto, e mi capita di sentire la mancanza
di cose che prima
degnavo di scarsa attenzione.
Caledon
si lasciò sfuggire un gemito di trionfo, e un accenno di
sorriso si fece largo
sulla sua espressione accigliata. Ed ecco
che la solitudine inizia a farla cedere, pensò,
compiaciuto più di quanto
la galanteria permettesse. Un altro mese in quella contea sperduta ed
Emma
sarebbe stata sua prima di Natale… Ma non sarebbe mai
successo se non avesse
trovato un modo per stuzzicarla, magari con una visita a sorpresa.
Sì, era
un’ottima idea, suo padre avrebbe di sicuro approvato! Si
dava il caso che
alcuni suoi compagni di college lo avessero invitato a trascorrere del
tempo
insieme a Inverness, e che Pemberley Manor si trovasse in una posizione
ideale
del tragitto tra Londra e la Scozia; la vacanza sarebbe durata due
settimane,
durante le quali avevano già progettato gare di caccia e
pesca, passeggiate a
cavallo e persino delle escursioni in barca per ammirare la scogliera
dal mare,
qualora il tempo fosse stato favorevole. In tutto questo, Cal era
più che
sicuro di riuscire a ritagliarsi del tempo per andare a trovare la sua
fidanzata, ed era anche piuttosto convinto di trovarla bendisposta nei
suoi
confronti, visto l’isolamento nel quale si trovava.
In
tutta coscienza, sapeva di non poter completamente incolpare Emma per
la sua freddezza:
la realtà era che Caledon avrebbe dovuto sposare Elizabeth,
sua sorella, se la
sua morte improvvisa non avesse bruscamente cambiato i piani delle due
famiglie. Ricordava il funerale della piccola Lizzie come se fosse
accaduto il
giorno prima: è sempre tragica la morte di una ragazza di
sedici anni, in special
modo se era la primogenita di un conte e se i genitori contavano di
vederla
unita in matrimonio con un duca. Rammentava che il corteo funebre, per
quanto
affollato, era stato stranamente silenzioso: subito dopo il prete e i
sagrestani c’erano il conte e la contessa di Grantham,
seguiti da una piccola
Emma che cercava di stare al passo della sua istitutrice, poi lui e la
sua
famiglia, e infine il resto dei parenti e dei famigliari dei Grantham.
Nessuno piangeva.
Eppure, anche dopo tutti gli anni trascorsi, ciò che
più gli era rimasto
impresso era stata la sensazione di fastidio e turbamento al pensiero
che,
adesso, la sua promessa sposa sarebbe stata quella fanciullina di nove
anni che
non aveva nemmeno l’ombra della bellezza di sua sorella. Col
senno di poi
riconobbe di essere stato meschino a covare simili pensieri, ma
dopotutto all’epoca
non aveva ancora vent’anni – la sua preoccupazione
di doversi considerare
legato a una bambina era più che comprensibile, no?
Lizzie
era tanto bionda quanto Emma era scura, con boccoli corvini
accuratamente
acconciati e coperti da un cappellino nero a lutto; entrambe avevano la
pelle
più bianca del latte, ma mentre quella di una aveva delle
graziose sfumature
rosee, quella dell’altra tendeva ad un pallore che rammentava
il gesso –
persino distesa nella sua piccola bara bianca, il colorito di Lizzie
sembrava
ancora più vivace di quello di sua sorella. Chi non le
avesse conosciute
avrebbe potuto rifiutarsi di credere che le due erano imparentate, e
che nelle
loro vene scorresse il medesimo sangue. Non solo: il loro legame era
talmente
solido, talmente affettuoso, da avergli fatto più volte
rimpiangere il suo
essere figlio unico.
Eppure
Emma non era una bambina triste, né solitaria: era soltanto
molto timida,
specialmente quando la sorella la portava con sé durante le
loro passeggiate, a
mo’ di chaperon. Erano davvero una bizzarra compagnia in
quelle occasioni: con
una mano Caledon reggeva il cestino da picnic, con l’altra
teneva Lizzie
sottobraccio, e lei a sua volta prendeva la mano della sorella con la
sua
libera. E il capo deliziosamente dorato di Elizabeth spiccava come oro
sul
carbone quando, tutti sdraiati sotto a un albero dopo aver mangiato, i
loro
capelli si mischiavano sulla coperta in un ammasso disordinato di
riccioli.
Cal
aveva imparato a voler bene a quella bambina che portava con
sé uno o più libri
dovunque andasse – persino durante quei picnic, arrivava il
momento in cui Emma
si stufava di prestare attenzione ai giochi dei grandi e si isolava con
il naso
sepolto tra le pagine di chissà quale favola –
però, accecato com’era dalla
bellezza ancora acerba di Lizzie, non aveva mai neanche pensato di
prendere in
considerazione l’idea che Emma potesse, un giorno, diventare
altrettanto bella
e desiderabile, quanto se non più della povera sorella. Suo
padre aveva preso
il discorso qualche settimana dopo la morte di Lizzie: gli aveva detto,
senza
tanti giri di parole, che comprendeva il suo dolore per la perdita di
colei
che, oltre ad essere, sulla carta, la sua promessa sposa, era anche una
cara
amica, ma che ciò non avrebbe impedito le due famiglie di
continuare a sperare
di potersi, un giorno, unire.
In
un primo momento Caledon non aveva compreso, o forse aveva solo fatto
finta: ma
alla fine il duca gli aveva chiarito che quando Emma avrebbe raggiunto
l’età
adulta sarebbe stata lei la giovane Moore che avrebbe condotto
all’altare, e
che pertanto avrebbe fatto meglio a venire a patti con
quell’idea il prima
possibile. Se poi voleva prendersi del tempo per rifletterci e
rassegnarsi, il
padre glielo avrebbe concesso: ed era stato così che
Caledon, dopo aver
trascorso altri tre anni nell’università di
Cambridge, aveva deciso di partire
insieme al suo precettore per un lungo viaggio in Europa e nel Nuovo
Mondo.
Era
ritornato in Inghilterra solo nell’autunno del 1899, per
trascorrere gli ultimi
mesi del diciannovesimo secolo insieme alla sua famiglia; e in tutto
questo
tempo non si era degnato una sola volta di chiedere notizie di Emma, e
se la
madre gliene accennava in una delle sue lunghe lettere tendeva a
ignorare
quelle parti alla stregua di un bambino capriccioso. Ciò che
tuttavia non
immaginava e che gli era stato riferito solo all’ultimo
momento era che i duchi
di Suffolk erano stati invitati a passare le festività
natalizie presso la
residenza dei Grantham, e che lui sarebbe stato per la prima volta
presentato
ufficialmente – seppur comunque in un ambiente intimo e
privato – a Emma come
suo fidanzato.
Probabilmente
non avrebbe mai dimenticato quel momento: aveva varcato la soglia di
Hambleton
Abbey con l’aria del condannato a morte, infuriato con i suoi
genitori e
intenzionato a non rivolgere la parola a nessuno a meno che non fosse
stato
interrogato personalmente, ma tale proposito si era infranto non appena
il suo
sguardo rabbioso ebbe incontrato la graziosa fanciulla che, ritta al
fianco
della madre in attesa di porgere loro il benvenuto, gli aveva sorriso
con
timida e fredda gentilezza come se, in fondo, neppure lei fosse tanto
lieta di
quell’incontro.
Malgrado
tutti i suoi propositi, Caledon non era riuscito a staccarle gli occhi
di dosso
per tutta la sera, ammaliato come un qualunque ragazzino:
l’aveva osservata
rispondere alle domande di lady Suffolk con una pacata e inusuale
eleganza in
una giovane della sua età, aveva ammirato da lontano la sua
bellezza ancora in
sboccio ma assai promettente – nulla a che vedere con la
sorella, certo, ma lui
ormai Elizabeth non la rammentava più – aveva
colto l’arguzia e lo spirito
della sua conversazione e aveva, per la prima volta da che la
conosceva,
desiderato di poter rimanere da solo con lei per godere della sua
compagnia.
Quando
ebbero lasciato Hambleton alla fine di quella vacanza, senza che lui ed
Emma si
fossero scambiati in realtà che poche parole di circostanza,
Caledon era
decisamente più bendisposto nei confronti di quel matrimonio
di quanto non lo
fosse al momento del suo arrivo.
Eppure
Emma non aveva mai dimostrato neppure una parte del suo stesso
entusiasmo. Per
quanto Caledon si fosse sforzato di conquistarla, di farsi apprezzare
da lei,
di fare breccia nel suo cuore o perlomeno di guadagnarsi un briciolo di
affetto, non vi era mai riuscito. Aveva addirittura pensato che il
cuore della
sua nuova fidanzata potesse appartenere a qualcun altro, ma poi aveva
scoperto
che i suoi genitori l’avevano sempre tenuta lontano da altri
eventuali
spasimanti – il tutto al solo scopo di agevolare
quell’unione. La giovane Emma Moore
era semplicemente irraggiungibile, come una piccola regina di ghiaccio,
ed era
una cosa che lo faceva impazzire.
Fu
il rumore della porta che si apriva e si richiudeva, subito seguito
dalla voce
di suo padre, che lo fece riemergere dal limbo dei ricordi.
«Allora, queste
novità?» Domandò il duca con un mezzo
sorriso, andando a sedersi di fronte a
lui. «Sei chiuso qui dentro da oltre mezz’ora,
iniziavo a preoccuparmi.»
«Sai,
papà, credo che non ci sia nulla di cui
preoccuparsi», replicò Caledon,
ricambiando il sorriso. «Penso che andrò a trovare
Emma prima di proseguire per
Inverness, la sua tenuta è di passaggio. Tu
approvi?»
«Non
è a me che devi chiederlo. Senti lord Grantham, piuttosto,
dovrebbe essere
ancora in città», fece lord Suffolk, accendendo un
sigaro. «Hai intenzione di
mandarle un telegramma? Non credo che una lettera di risposta riesca ad
arrivare
prima di te.»
«In
realtà contavo di farle una sorpresa. Dopotutto è
lì con la sua istitutrice e
io sono il suo fidanzato, non c’è nulla di
sconveniente, giusto?» Chiese per
scrupolo, aggrottando la fronte.
Il
padre inarcò un sopracciglio, improvvisamente malizioso.
«Sarebbe sconveniente
solo se tu ti fermassi a dormire…»
Caledon
liquidò l’idea, per quanto considerandola
intrigante, con una mezza risata. «Credimi,
Emma non me lo permetterebbe mai. Piuttosto mi caccerebbe via di
persona!»
Rispose, sperando di celare la delusione dietro un debole umorismo.
Se
anche lord Suffolk vi aveva fatto caso, non ne fece mostra.
«È un bene che
almeno uno di voi abbia la testa sulle spalle»,
decretò, aspirando una profonda
boccata del suo sigaro. Tuttavia gli fu impossibile continuare a
ignorare il
repentino malumore del figlio, e si sporse verso di lui per battergli
gentilmente una mano sul ginocchio. «Su, figliolo, avrete
tutto il tempo del
mondo per stare insieme, dopo il matrimonio.»
«E
tu pensi che mi sposerebbe lo stesso, se la sua famiglia non la
obbligasse a
farlo?» Ribatté l’altro con un astio
improvviso, fissando il padre di
sottecchi.
Il
duca sospirò, scuotendo piano il capo. «Certo che
no. Nessuna donna perbene
dovrebbe accettare di sua spontanea volontà una proposta di
matrimonio, è una
cosa volgare e adatta ai contadini.»
«Per
l’amor di Dio, papà, hai capito benissimo cosa
intendevo.»
«No,
invece. Cal, le unioni tra nobili non contemplano chissà
quale sentimento, se
non il rispetto, quando si è fortunati. Se cerchi
dell’altro, ebbene, non
dovrei essere io a dirti che esistono altre… soluzioni.
Tutta la stima che nutro nei confronti di lord Grantham
non sopprime la mia convinzione che l’unico ruolo della tua
fidanzata è quello
di darti un erede e una compagna elegante da mostrare agli eventi
ufficiali,
insieme naturalmente ai suoi possedimenti.»
Un’altra boccata dal sigaro. «Sinceramente
non so che cosa vuoi sentirti dire. Speravi che si innamorasse di te, o
che già
lo fosse? Cal, hai trent’anni e sei l’unico erede
di un impero che ci invidiano
persino i membri della famiglia reale. Non puoi cullarti in questi
sogni di
bambino. Credevo che ormai avessi compreso che il matrimonio
è solo un affare.»
«Perdonami,
papà, per aver desiderato che la mia fidanzata mi volesse
almeno la metà di
quanto io voglia lei», sibilò Caledon alzandosi in
piedi con uno scatto
rabbioso, per niente disposto ad ascoltare una sola parola di
più. «Credo che
sia meglio concludere qui la discussione. Manderò un
messaggio a lord Grantham
per avvisarlo della mia idea, sempre che tu non abbia da ridire anche
su
quella.»
«Questo
tuo atteggiamento è ridicolo, e non ti porterà
nulla di buono», lo riprese
freddamente il duca, senza più tanta voglia di scherzare.
Per un attimo Caledon
rivide l’uomo che tanti anni prima usava ordinare al vecchio
stalliere di
batterlo per poi osservare impassibile mentre il servo obbediva, forse
con
troppo fervore, e fu talmente turbato da quel ricordo
d’infanzia da distogliere
lo sguardo. «Francamente, figliolo, ti credevo fatto di
tutt’altra pasta.»
Se
avesse potuto, probabilmente l’avrebbe fatto frustare ancora
una volta. «Mi
dispiace aver deluso le tue aspettative, padre»,
ribatté Caledon prima di
uscire dallo studio senza aggiungere una sola parola, talmente in
fretta come
se ciò potesse farlo scappare da quel tempo che credeva
d’essersi ormai
lasciato alle spalle. Si trattenne a stento dallo sbattere la porta con
furia
dietro di sé, e solo perché non voleva avvalorare
la convinzione di lord
Suffolk di avere a che fare con un figlio dal comportamento infantile.
«Milady,
avete… avete una visita.»
Emma
sollevò lo sguardo dalle carte che stava studiando e
ricopiando accuratamente
da qualche ora – vecchi progetti e planimetrie della casa,
così ingialliti e
macchiati di umidità da rendere a dir poco ardua la lettura
– per posarlo sulla
governante che appariva titubante e preoccupata mentre se ne stava
sulla soglia
della porta come un’anima in pena. «Non aspettavo
nessuno. È il signor
Carlisle?» Si informò, mettendo da una parte suo
malgrado le piantine del
castello.
«No,
milady. Un certo Caledon Hardy, dice di essere… ecco, il
vostro fidanzato?»
Buon Dio, non è
possibile. Emma
sbatté le palpebre, accigliata, metabolizzando quanto aveva
appena sentito.
Caledon era davvero lì, a Pemberley? Per quale motivo era
arrivato senza farsi
annunciare, senza avvisarla? Forse un telegramma l’avrebbe
ucciso, se si fosse
dato pena di spedirlo in tempo, o era successo qualcosa? E
non sarebbe stato inappropriato riceverlo da sola, senza uno chaperon
a mitigare la sua irruenza? Cercò di tenere a bada
l’irritazione mentre si
ricomponeva, prima di rispondere a Mrs. Duncan.
«Sì, signora Duncan, è il mio
fidanzato. Dov’è adesso?»
«Sta
attendendo nell’ingresso», fece la donna,
palesemente incuriosita.
«Fatelo
accomodare qui in biblioteca, per cortesia. E vi dispiacerebbe portarci
anche
qualcosa da bere? Il tè, e qualcosa di forte, magari
– lord Caledon deve aver
fatto molta strada e sarà stanco»,
ordinò, alzandosi in piedi. La donna la
lasciò sola, ed Emma ne approfittò per darsi
sbrigativamente una sistemata;
anche senza specchio sapeva che il suo aspetto era trascurato
– la gonna
sgualcita per la prolungata posizione seduta, la treccia che lasciava
sfuggire
sottili ciocche di capelli, gli occhi stanchi per le notti insonni e un
colorito così pallido da far invidia a una statua
– ma a quel punto non poteva
sparire nella sua stanza per cambiarsi d’abito o pettinarsi
meglio. La sua era
infine soltanto una sciocca e istintiva vanità, dato che non
poteva essere meno
interessata di così dal fare una buona impressione sul suo
fidanzato.
Riuscì
solo a riabbottonarsi il colletto e a pizzicarsi le guance per farvi
tornare un
po’ di colore, prima che la porta della biblioteca si aprisse
una seconda volta
e la voce di Mrs. Duncan annunciasse l’ospite.
«Mia
cara Emma», esclamò l’uomo con un
sorriso, interrompendo a metà l’annuncio della
governante. Entrò nella biblioteca come un fulmine a ciel
sereno, sfilandosi con
un gesto elegante guanti e cappello.
Emma
non vedeva Caledon dal funerale di lady Grantham – il che
significava che era
trascorso più di un mese da quando i due promessi sposi si
erano ritrovati
insieme nella stessa stanza. Non sapeva se ciò fosse un bene
o un male, ma il
giovane le sembrò pressoché identico a come lo
aveva lasciato – lei, d’altra
parte, si sentiva profondamente cambiata, come se il lutto
l’avesse trasformata
in un’altra persona.
Avvolto
in un elegante completo di sartoria color tan, con un doppiopetto
marrone e i
bottoni d’oro, Caledon era l’immagine perfetta e
poetica dello spensierato
nobiluomo inglese in gita in campagna. Era bello, di quella bellezza
mascolina
che fa nascondere dietro a un ventaglio il viso arrossato delle
fanciulle, e
che provoca invidia negli altri uomini: questo Emma poteva dirlo senza
vergogna
né desiderio, perché non era nulla più
che la semplice verità. I capelli erano
di un castano indefinito che parevano cambiar colore a seconda della
luce che
li colpiva, corti e tirati indietro con l’umile cura del
gentiluomo che non
vuole apparire né disordinato né troppo dandy; il
volto possedeva dei tratti
greci, un mento forte, una bocca che sorrideva volentieri, e degli
occhi che a
loro volta potevano sembrare grigi o azzurri, circondati da ciglia
folte che
stonavano con il colore chiaro dei capelli e della leggera peluria che
gli
ombreggiava i lineamenti del viso.
Pareva
non avere altra occupazione se non cacciare volpi e correre dietro alle
gonne
delle fanciulle – si accorse del pensiero
poco delicato che aveva avuto nei suoi confronti solo dopo averlo ormai
concepito.
Fu
per farsi perdonare che avanzò di qualche passo verso di
lui, incontrandolo al
centro della stanza e porgendogli una mano – quando si
accorse che aveva le
dita indecentemente macchiate d’inchiostro, era troppo tardi
per ritirarla
senza apparire oltremodo scortese. «Caledon, questa
sì che è una visita
inaspettata», lo salutò, cercando di sorridere nel
modo più gentile possibile. «Se
mi aveste avvisata in tempo, vi avrei preparato
un’accoglienza diversa. Mi
dispiace che dobbiate vedermi in queste condizioni.»
«Siete
incantevole come sempre, mia cara», ribatté lui
con fare galante, prendendole
la mano e sfiorandola con un bacio fugace. «E avvisarvi in
tempo sarebbe stato
davvero impossibile, giacché la mia partenza è
stata pressoché improvvisa;
neanche un telegramma sarebbe riuscito ad arrivare prima di
me.»
«Ah,
siete in viaggio per affari, dunque?» Gli domandò,
facendogli cenno di seguirla
presso il camino che scoppiettava allegramente. Come voleva
l’educazione,
Caledon attese che lei prendesse posto su una poltrona prima di sedersi
a sua
volta su un divanetto di fronte, lasciando poi il cappello sul cuscino
al suo
fianco.
Mrs.
Duncan li raggiunse subito dopo seguita da una silenziosa Lydia, che
spingeva
con lo sguardo basso un carrellino in legno e ottone sul quale faceva
bella
mostra di sé un distinto servizio di porcellana.
«Non
esattamente. Alcuni amici di Cambridge mi hanno invitato a trascorrere
un paio
di settimane a Inverness, e non ho resistito alla tentazione di deviare
il
percorso per venirvi a trovare.»
«Oh,
avete avuto un pensiero gentile. Ve ne sono grata»,
annuì lei educatamente,
accennando un sorriso ma senza minimamente arrossire come avrebbe di
certo
fatto qualsiasi altra fanciulla. Prima di proseguire con la loro
chiacchierata,
Emma si scusò e si voltò verso le due domestiche
che attendevano un suo cenno
per versare il tè.
Caledon
doveva ammettere di essersi immaginato in modo diverso
quell’incontro. Durante
il lungo viaggio in treno, mentre alternava l’ennesima
lettura della lettera di
Emma a quella più prosaica del giornale, diversi scenari
avevano preso forma
nella sua mente: assai poeticamente si era figurato la sua fidanzata
mollemente
semi-distesa su una chaise-longue, circondata da profumati vasi di
fiori e con
il delizioso nasino sepolto tra le pagine di un libro, magari proposto
dalla
sua istitutrice, mentre leggeva poesie di Coleridge o Wordsworth. Aveva
sperato, forte dell’elemento sorpresa, di coglierla in un
momento d’intimità,
con la guardia abbassata, come mai gli era capitato di trovarla; si era
persino
immaginato mentre sollevava i suoi begli occhi dal libro, sorpresa e
persino
lieta di vederlo – almeno tra sé e sé
poteva sperare – per poi sollevare un
braccio e invitarlo ad avvicinarsi, dolcemente, come si
confà a una fanciulla
innamorata.
Era
rimasto dunque un poco deluso quando l’incontro era
effettivamente avvenuto.
Certo, non gli era mai capitato di vederla scarmigliata e vestita come
una dama
di campagna – non aveva alcun gioiello addosso, neppure
l’anello che le aveva
regalato per il fidanzamento, segno che, contrariamente alle usanze,
non lo indossava
sempre… lui dovette persino fingere che ciò non
l’avesse offeso – e dunque
questo poteva in parte soddisfare il suo desiderio di
intimità… Ma il muro che
l’avvolgeva era sempre ritto e indistruttibile, forse
più di prima, ed era ben
visibile anche attraverso il sorriso di cortesia che gli aveva rivolto.
E
adesso, mentre lei era impegnata a dare disposizioni alla governante
circa il
tè da servire a entrambi – «Oppure
gradite qualcos’altro, Caledon?» No, lui
avrebbe preso quello che prendeva lei – non poteva fare a
meno di osservarla di
sottecchi, pensieroso, con le sferzanti parole di suo padre che ancora
gli
rimbombavano nel cranio. Il vecchio duca era sicuro – no,
anzi: sapeva con certezza – che il
matrimonio ci
sarebbe stato; era un evento che veniva programmato sin da quando
Caledon
poteva rammentare, e sinceramente non ricordava che ci fosse stato un
solo
giorno nella sua vita in cui lui non era stato promesso a una fanciulla
Moore.
Anche solo pensare che potesse andare diversamente, dunque, era fuori
discussione.
Caledon
poteva quindi cullarsi su tale sicurezza, diavolo, poteva persino
smettere di
cercare disperatamente di conquistare la ragazza – sarebbe
stata sua in ogni
caso! Eppure la sua mente non aveva neanche finito di formulare quel
pensiero
che lui già se ne era pentito. In quel caso non sarebbe
stata, forse, una
vittoria gretta e vuota? Che cosa avrebbe guadagnato, se non la
prospettiva di
una vita da trascorrere insieme a una donna che non voleva avere nulla
a che
fare con lui, e che non si ribellava solo per quieto vivere e spirito
di
martirio? Si era sempre vantato di non essere cinico come suo padre, e
voleva
continuare a credere di essere fatto di una pasta diversa.
Ma
si rivelava ogni giorno più difficile. Emma, per
chissà quale strano motivo,
aveva uno strano modo di apparire circospetta ogniqualvolta si trovava
accanto
a lui. Ogni sua parola pareva venire misurata e pesata con attenzione,
gli
sguardi centellinati, i piccoli sorrisi rari e per questo motivo sempre
meravigliosamente apprezzati quando lui ne era il destinatario. Forse
bisognava
biasimare l’educazione che aveva ricevuto – era
poco più che una bambina quando
le era caduto sulle spalle il fardello di quel matrimonio, e senza
alcun dubbio
i suoi genitori l’avevano cresciuta da allora con
l’obiettivo di renderla una
candidata perfetta al suo futuro ruolo di duchessa. Era, in effetti,
pressoché
priva di qualsiasi difetto: era posata, educata, gentile, e aveva
quell’innata eleganza
che faceva sì che non sembrasse mai fuori luogo, a
prescindere dalla
situazione. Un vero peccato che fosse sempre così gelida nei
suoi confronti.
Quando
finalmente le due domestiche li ebbero lasciati soli, Caledon
tirò un breve
sospiro di sollievo e sollevò gli occhi per posarli su Emma.
Rimase per un
attimo spiazzato quando si accorse che anche lei lo stava osservando
con
un’aria assorta, ma il momento terminò fin troppo
rapidamente – quando si
accorse di essere stata scoperta Emma batté le palpebre,
arrossì leggermente e
riabbassò lo sguardo.
«Perdonatemi»,
disse, facendo ruotare il cucchiaino d’argento nella tazzina.
«È solo un po’
strano vedere un volto familiare tra queste mura.»
«Spero
che sia anche piacevole», la provocò con un
sorrisetto, osservandola
attentamente. Odiava il non essere capace di comprenderla, il non
riuscire a
capire che cosa le passasse per la mente solo guardandola: il suo unico
conforto era la speranza che questo sarebbe cambiato col tempo, una
volta
sposati.
Sorprendentemente,
le labbra di Emma si sollevarono in un piccolo sorriso. «Oh,
sì, lo è», fu la
sua gentile risposta. Chissà se lo intendeva davvero?
«Mi ero quasi rassegnata
a trascorrere da sola queste settimane prima dell’arrivo di
mio padre, sapete,
e come vedete non sono molto presentabile»,
continuò, un po’ imbarazzo; un
conto era raggiungere sir Carlisle con un’improvvisata e poco
ortodossa tenuta
da amazzone, e un altro era lasciare che il suo fidanzato –
che chissà cosa
poteva raccontare a suo padre il duca, per l’amor di Dio
– la vedesse in
condizioni che non fossero impeccabili. Aveva l’impressione
di essere
costantemente sotto una lente di ingrandimento quando si trattava di
doversi
rapportare con il suo fidanzato e la sua severa famiglia –
anche se doveva
ammettere che non aveva visto nulla nello sguardo di Caledon che non
fosse
affetto.
«Ad
ogni modo, non voglio tediarvi con noiosi racconti della mia vita in
campagna.
Raccontatemi voi qualcosa», propose, cambiando argomento.
«Stavate accennando a
un viaggio a Inverness?»
Il
pomeriggio trascorse malgrado tutto in modo piacevole; entrambi
sapevano
maneggiare la sottile arte della conversazione, sicché non
ci furono silenzi né
troppi imbarazzi tra i due fidanzati: la loro era comunque una
conoscenza di
lunga data, e il tempo crea una strana intimità anche tra i
nemici. Forse fu
l’assenza di uno chaperon, o forse fu il bisogno che Emma
aveva di sfogare
quelle settimane trascorse senza il beneficio della compagnia di
qualcuno con
cui chiacchierare – se almeno Lydia non fosse stata muta,
povera ragazza –
fatto sta che l’atmosfera tra loro si era fatta molto
più rilassata di quanto
non fosse all’inizio dell’incontro, o in tutti
quelli che avevano avuto luogo
tra le mura di Hambleton e alla presenza più o meno discreta
di miss Radcliffe.
In effetti, rifletterono entrambi, quella era la prima volta che si
ritrovavano
effettivamente da soli.
Il
cielo andava scurendosi rapidamente al di là delle grandi
vetrate della
biblioteca, e questo fu il segnale per Mrs. Duncan di tornare a
cambiare le
candele e attizzare il fuoco del camino. Poi, benché
sembrasse disapprovare
l’idea, non poté astenersi dal domandare se lord
Caledon aveva intenzione di
fermarsi a cena.
Più
tardi Emma si sarebbe domandata da dove fosse uscita la sua risposta.
«Certo,
signora Duncan. Lord Caledon sarà nostro ospite»,
disse, con una spontanea
sicurezza che di solito non le apparteneva – perlomeno non in
situazioni
simili. Con un mezzo sorriso, poi, si voltò verso di lui e,
quasi compiaciuta
nel notare la sua espressione sorpresa, aggiunse: «Anzi, non
sarebbe meglio se
trascorreste la notte al maniero? L’ultimo treno parte alle
nove, e da qui non
arriverete mai in tempo alla stazione.»
«Non
vorrei essere di troppo disturbo», replicò
incerto, spostando lo sguardo da
Emma alla governante e viceversa; non si aspettava quel genere di
invito da
parte della sua fidanzata, anche se sicuramente era stato fatto in
completa
buonafede e senza alcuna malizia.
«Nessun
disturbo. Con che coraggio potrei lasciarvi andare via a
quest’ora, poi?» Lo
tranquillizzò lei prima di voltarsi verso la domestica.
«Mrs. Duncan, preparate
la camera Luigi Filippo al primo piano.»
«Come
desiderate, milady», mormorò la donna, accennando
un inchino prima di lasciarli
nuovamente soli.
A
Emma non era sfuggita l’espressione contrariata della signora
Duncan – per un
momento aveva temuto che la donna potesse persino arrivare a
contraddirla
davanti a Caledon; per fortuna, la governante doveva avere ancora
qualche
rimasuglio di buona educazione, perché si limitò
ad annuire e sparire
velocemente oltre le porte della biblioteca. Ora iniziava a comprendere
per
quale motivo sua madre, la compianta lady Grantham, avesse puntualmente
degli
scatti di nervosismo che talvolta sfociavano in risposte brusche e
gelide; non
le si poteva dar torto, se gestire la servitù di Hambleton
era difficile e
snervante tanto quanto quella di Pemberley.
Il
suo breve momento di distrazione venne interrotto dalla voce, ora
quanto mai
piacevole, del suo ospite. «Siete una perfetta padrona di
casa, Emma», fu la
sua gentile osservazione. Qualcosa nel suo tono le rese chiaro verso
quale
direzione stessero vertendo in quel momento i pensieri di Caledon, e
non poté
fare a meno di arrossire leggermente. Un giorno, probabilmente neanche
troppo
lontano, sarebbe stata davvero la signora e padrona di una magione
– avrebbe
avuto uno stuolo di domestici che avrebbero risposto a lei, e avrebbe
dovuto
gestire la corrispondenza, e organizzare gli eventi, e persino
approvare i menù
dei pasti: compiti per i quali era stata preparata alla perfezione,
certo, ma
che, e al riguardo non nutriva alcun dubbio, sua sorella avrebbe svolto
assai
meglio e con maggior grazia.
«Credo
che anche questo rientrasse nei piani di mio padre»,
replicò con una breve
scrollata di spalle. «Ama mettermi alla prova, e di certo
sapeva che gestire
una simile magione, per quanto non ci sia da fare poi un
granché, avrebbe
richiesto degli sforzi. Non ho mai avuto modo di prendere le redini di
Hambleton, sapete, neanche quando… quando mia madre era
impossibilitata a
farlo.»
La
sua voce si incrinò nell’ultima frase –
le faceva ancora uno strano effetto
nominare sua madre ad alta voce all’interno di un discorso,
quasi come se
temesse di disturbarne il ricordo in quel modo –
così tacque, e nascose il suo
disagio versandosi un’altra tazza di tè.
Quasi
sussultò quando la mano priva di guanti di Caledon si
posò sopra la sua
altrettanto spoglia, e una strana sensazione la prese alla bocca dello
stomaco
nel sentire il calore della sua pelle contro la propria.
Sollevò gli occhi su
di lui, e trattenere le lacrime fu terribilmente difficile nel notare
lo
sguardo che le stava rivolgendo.
Perché si
comportava così? Perché era così
comprensivo, con lei, quando lei non lo
trattava che in modo disinteressato? Tale
dato di fatto le procurò un’inattesa fitta di
rimorso, che per la prima volta
la fece vergognare del suo atteggiamento nei confronti di Caledon.
Sospirò,
abbassando lo sguardo e fissando le proprie dita che permettevano a
quelle di
lui di intrecciarsi ad esse. «Sono lieta che siate
qui», ammise piano, prima
che la ragione potesse farle cambiare idea.
Fingendo
che quella confessione non facesse parte di un evento terribilmente
straordinario, Caledon si limitò a sorriderle, e ad
apprezzare quel raro
momento di confidenze con la mesta consapevolezza che avrebbero potuto
non
essercene altri per parecchio tempo. «Lo sono
anch’io.»
La
visita di Caledon aveva riportato in superficie, tra le altre cose, la
nostalgia per sua sorella, la povera Lizzie. Prima di coricarsi, Emma
fece
qualcosa che aveva trascurato per parecchio tempo: accese una candela
per lei e
mormorò qualche preghiera, chiedendole perdono per
l’ennesima volta per averla
sostituita come fidanzata del futuro lord Suffolk.
Benché
all’epoca fosse stata solo una bambina, Emma rammentava
ciò che Lizzie usava
raccontarle ogniqualvolta Cal andava a far loro visita –
l’entusiasmo della
ragazza, i suoi occhi luminosi, il sorriso in cui si apriva quando
immaginava
la sua vita da duchessa al fianco del giovane di cui era pazzamente
innamorata
– e anche se il suo raziocinio le ripeteva che sentirsi in
colpa era sciocco,
che non era colpa sua e che non aveva tecnicamente rubato lo sposo alla
sorella, Emma non poteva fare a meno di provare un forte disagio.
Naturalmente
riusciva a ben mascherarlo, anche se la facilità con cui
Caledon pareva essersi
dimenticato di Elizabeth talvolta le dava sui nervi; eppure era certa
che, per
quanto la riguardava, l’ombra di Lizzie avrebbe oscurato il
suo matrimonio per
tutti gli anni a venire.
«Un
giorno ti sposerai anche tu, Emma, con un conte o un duca, o persino un
marchese! Sarà giovane e bello, e tu te ne innamorerai
follemente, e allora
capirai ciò che io provo adesso», le ripeteva
Lizzie fino alla nausea, quando
si bisbigliavano segreti sotto le coltri del letto che di tanto in
tanto
condividevano. All’epoca Emma non sapeva che non avrebbe
avuto nessuna voce in
capitolo nella scelta del proprio sposo, così come
d’altronde non l’aveva avuta
neppure Lizzie; ed entrambe erano così giovani, ingenue e
spensierate, che
pareva non poterci essere nulla capace di turbare il loro piccolo mondo
dorato.
Rammentare quel periodo della sua vita era come rammentare un
bellissimo sogno,
che si era bruscamente interrotto il giorno in cui Lizzie era caduta da
cavallo:
ogni cosa era stata spazzata via da un uragano di disperazione e i
sogni delle
due sorelle erano crollati come un fragile castello di carte. Niente
più
passeggiate nel parco, né picnic, né leggere
insieme favole e poesie o
sgattaiolare di nascosto in cucina per trafugare qualche dolcetto prima
di
andare a letto… La vita di Lizzie era stata distrutta e
l’infanzia di Emma
interrotta bruscamente, e per questo non vi era alcun rimedio.
Tuttavia,
se davvero doveva essere del tutto sincera con sé stessa
– e se doveva prendere
in attento esame i suoi sentimenti – non poteva negare che ci
fosse stato un
momento, quando era più piccola, in cui l’idea di
dover sposare Caledon non le
era risultata particolarmente spiacevole. Per un breve periodo aveva
provato
l’infantile eccitazione che deriva dal sapere di possedere il
futuro di un uomo
– un uomo nel fiore della giovinezza, di
bell’aspetto, di nobili natali per il
quale un giorno non troppo lontano sarebbe stata la terra intorno alla
quale
ruotare; allora era troppo piccola per intenderla in termini diversi da
quelli
delle favole, ovviamente, ma adesso sapeva perfettamente che cosa aveva
osato
sognare.
Questa
sensazione era svanita non appena era stata abbastanza matura da
comprendere
che tale lama possedeva un doppio taglio, giacché se lui
sarebbe appartenuto a
lei, lei sarebbe stata sua di conseguenza. E questa idea non le piaceva
minimamente. Se pensava che aveva avuto persino l’ardire di
discutere con suo
padre a tal proposito, e di minacciarlo che se non avesse sciolto quel
ridicolo
fidanzamento – aveva solo undici anni, per l’amor
di Dio! – avrebbe trovato un
modo per fuggire di casa e mandare tutto all’aria…
Non sapeva se ridere o
piangere al ricordo. Che ingenua era stata, e che sciocca; ma ci
avevano ben
pensato sua madre e miss Radcliffe a riportarla con i piedi per terra,
e a
spiegarle in tutti i modi che era una donna, e che come tale non
avrebbe mai
avuto una vita facile – soprattutto, che non avrebbe mai
avuto pieno controllo
su di essa.
Eppure,
guardatela adesso! Avrebbe forse osato invitare il suo fidanzato a
passare la
notte sotto il suo stesso tetto, se davvero fosse stata impotente come
volevano
farle credere? Avrebbe forse discusso con i domestici e osato uscire da
sola
per una passeggiata attraverso la brughiera, se fosse stata
così fragile?
Forse però non avrebbe
dovuto invitare Caledon a trascorrere la notte al maniero. Che cosa
avrebbero
pensato miss Radcliffe e suo padre? Era
stata una decisione dettata più dal buonsenso che dal
desiderio di averlo
accanto, lo ammetteva – con che cuore avrebbe potuto mandarlo
a prendere il
treno con la tempesta che imperversava fuori, e il buio pesto che
avvolgeva il
castello? – ma forse avrebbe dovuto rifletterci meglio, visto
che non era una
cosa molto ortodossa da fare. Come se non bastasse, quando si erano
ritirati in
salotto dopo cena, per trascorrere un po’ di tempo accanto al
fuoco prima di
ritirarsi per la notte, era stata tormentata dall’orrenda
sensazione di essere
osservata da ogni angolo – da ogni muro, da dietro ogni
tenda, da ogni quadro.
Era come se qualcosa stesse cercando di farle capire che aveva fatto un
terribile errore a invitare Caledon a dormire a Pemberley – e
lei lo sapeva, oh
sì, ma era troppo tardi per tornare sui suoi passi. Che male
poteva mai fare,
dopotutto? Caledon era un gentiluomo, e la stanza che gli aveva fatto
preparare
era nell’ala opposta del corridoio rispetto a dove si trovava
la sua.
Il
pensiero che presto non ci sarebbe stato nessun corridoio tra le loro
stanze la
metteva in agitazione. Presto avrebbe dovuto condividere con lui
un’intimità
per la quale non si sentiva ancora pronta – e la cosa
peggiore era che non
poteva più fare affidamento su parole confortanti e
rassicuranti di sua madre
al riguardo. Non avrebbe affrontato quel momento in totale ignoranza,
certo –
miss Radcliffe le aveva accennato qualcosa, e nella biblioteca di
Hambleton si
potevano trovare volumi che trattavano davvero qualunque argomento
– ma proprio
per questo l’angoscia era tale da impedirle persino di
rilassarsi quando era in
sua compagnia.
Sospirò,
seppellendo il volto sul cuscino. Era un
incubo. Non ci sarebbe dovuta essere lei in quella situazione
– se solo
Lizzie avesse dato retta alla loro madre quando le veniva detto di non
fare
acrobazie particolari con il suo cavallo… Di solito non lo
dava a vedere, si era
sempre comportata come una signorina a modo, ma in cuor suo Lizzie
aveva avuto
un animo ribelle, avventuroso: in questo si somigliavano. Dio, non
trascorreva
giorno in cui non sentisse la sua mancanza, in cui non si immaginasse
come
sarebbe stata la loro vita se Lizzie fosse sopravvissuta, e soprattutto
se lei
non avesse preso il suo posto come fidanzata dell’erede dei
duchi di Suffolk.
Quando vi rifletteva, come se non bastasse, c’erano persino
dei momenti in cui
arrivava a odiare il povero ricordo di sua sorella, che
l’aveva lasciata a far
fronte a quella maledetta situazione. Uno sciocco risentimento si
mischiava
alla nostalgia, e le rendeva arida la bocca e dolorante il cuore.
Si
addormentò a fatica, come ogni notte, con la mente invasa
dalle immagini
confuse di amari ricordi e l’oscurità della stanza
che pareva essersi fatta
d’un tratto più densa.
Margareth
Duncan non godeva di un sonno decente dal giorno in cui la giovane lady
Emma e
la sua istitutrice erano giunte al castello. Aveva immaginato che
sarebbe stata
una cattiva idea far entrare degli estranei a Pemberley, poco importava
che
fossero trascorsi tre lustri dall’ultima tragedia –
il signor Duncan aveva
imprecato ad alta voce, quando lo aveva saputo, e aveva borbottato che una
ragazza a Pemberley Manor non avrebbe
portato altro che guai – e malgrado ciò
non era stato in suo potere
impedire che ciò accadesse. Il nuovo proprietario aveva
infine deciso di
entrarne materialmente in possesso, mandando la sua unica figlia in
avanscoperta; non che gliene potesse fare una colpa – chi
avrebbe creduto alla
storia di una casa maledetta? Erano nel ventesimo secolo, per
l’amor del cielo,
e non si trovavano nel romanzetto d’appendice di un qualche
scrittore irlandese
– ma comunque, chi diavolo era l’uomo che mandava a
vivere la propria figlia da
sola in campagna?
Non
che lei non ne fosse sollevata, a voler essere sincera:
l’assenza di altri
estranei nella magione rendeva più semplice mantenere certi
segreti, e la loro
vita poteva grossomodo continuare come era stato negli ultimi quindici
anni –
l’idea che sarebbe potuta esistere la possibilità
di ospitare dell’altro
personale le risultava tanto raccapricciante da non fargliela nemmeno
prendere
in considerazione. Come spiegare a degli sconosciuti, infatti, che il
castello
a suo modo era vivo, e che come ogni creatura infernale pareva voler
esigere
come pegno il sangue di qualche innocente? Loro, ormai, avevano avuto
modo di
venire a patti con quella terribile verità durante il loro
lungo periodo di impiego
nella magione – Margareth rammentava ancora il giorno in cui
era arrivata a
Pemberley, quarantaquattro anni prima, come se fosse stato il giorno
precedente. Aveva quattordici anni, ed era alla ricerca di un lavoro
– uno
qualsiasi, avrebbe accettato di fare persino la sguattera, se
necessario – in
modo da non pesare più sulle spalle di una madre che, fresca
di vedovanza,
doveva crescere altri due figli.
Tutto
sommato era stata fortunata: era stata assunta come cameriera semplice
e ricopriva
ogni genere di mansione, ma era obbediente e volenterosa, e ben presto
queste
sue caratteristiche l’avevano resa cara all’allora
governante, Mrs. Griffiths,
che in poco meno di due anni l’aveva promossa a cameriera
d’alto livello –
ovverosia, le aveva fatto abbandonare i lavori sfiancanti in modo da
farle
assistere la sorella zitella di lady Rochester, che in quel periodo
abitava al
castello per aiutare la contessa a badare ai figli piccoli.
Più
il tempo passava, più la sua esperienza cresceva, e
Margareth si trovava sempre
più immersa nel ristretto e ambito mondo degli eccentrici
conti di Rochester.
Avendo dimostrato di essere discreta e degna di fiducia, Mrs. Griffiths
aveva
iniziato a renderla partecipe delle chiacchiere che venivano sussurrate
tra le
sale dei domestici, dietro le pareti, su una stretta scala a chiocciola
che
collegava le cucine ai piani superiori. La sua memoria era eccezionale,
e
l’aiutava a rammentare ogni cosa che le veniva detta: a
partire dai più
vergognosi pettegolezzi fino alle mezze verità e ai veri e
propri segreti.
Lavorava
a Pemberley Manor da più di due anni, ormai, quando
udì il primo accenno al
fatto che il maniero fosse maledetto. Poteva sembrare strano che non
fosse al
corrente di quelle voci, visto che gli abitanti del villaggio amavano
parlare –
e parlar male – dei ricchi aristocratici che abitavano nel
castello, ma forse
la sua età e la sua ingenuità l’avevano
tenuta lontana da quel genere di
discorsi. Poiché era stata una delle sguattere a prendere
l’argomento, mentre
trascorrevano la loro mezz’ora libera durante la cena dei
padroni in una
piccola anticamera, Margareth aveva pensato si trattasse di uno scherzo
per
indispettirla, giacché in pochi vedevano di buon occhio la
ragazza del
villaggio che aveva fatto carriera tutto ad un tratto; ma poi, la
curiosità
aveva avuto la meglio sul buonsenso, e si era ritrovata a voler sapere
di più
sull’argomento. Le sguattere e le cameriere erano state le
più propense a
chiacchierare, e a raccontare tutto ciò che sapevano, o che
credevano di
sapere, al riguardo; i camerieri invece le avevano detto di non essere
ridicola,
i valletti le avevano intimato di lasciar perdere, e la cuoca aveva
cambiato
bruscamente argomento. Non aveva osato domandare nulla a Mr. Weber, il
maggiordomo, perché l’uomo la intimoriva; con Mrs.
Griffiths, d’altra parte,
aveva un rapporto più confidenziale, e raccogliere il
coraggio per sollevare il
discorso con lei non era stato troppo difficile.
A
onor del vero, bisognava dire che Mrs. Griffiths non ebbe mai davvero
confermato
qualcosa riguardo la casa: chi può dire se fu la paura o la
cieca fedeltà verso
i padroni a farle tenere la bocca chiusa. Ma non le ebbe mai neppure
smentite,
cosa che portò la giovane Margareth a dormire con un occhio
aperto e a
trascorrere le giornate a guardarsi intorno con aria vigile, alla
disperata
ricerca di un qualche dettaglio fuori posto che confermasse o sfatasse
le
storie assurde delle sguattere. Probabilmente si era lasciata
suggestionare un
po’ troppo da quei racconti mormorati alla luce di una
candela – i giovani
tendono sempre a tenere in grande considerazione qualsiasi cosa esca
dalla
bocca dei più grandi – e tra sé e
sé si dava della stupida per esserci cascata
come un’ingenua qualunque. Eppure, quando andava al villaggio
in visita alla
sua famiglia, non poteva fare a meno di riflettere che l’aria
che respirava
lontano dalle mura di Pemberley era decisamente più leggera
e salubre. Si
accorgeva solo in quei momenti che qualcosa di malsano si annidava
negli angoli
più nascosti del maniero – c’era
qualcosa che trasudava dalle pietre e
circondava l’edificio, aggrappandosi a ogni appiglio e
nutrendosi della salute
mentale e fisica dei suoi abitanti, privandoli della sanità,
trascinandoli
verso lo squilibrio e rendendo paranoico ciascuno di loro. Era come un
cancro
che si nutriva incessantemente della loro linfa vitale, ed evitare di
parlarne
non serviva purtroppo a scacciare quell’orrenda sensazione.
Margareth
si era accorta presto che parlare di simili argomenti con i suoi
compaesani era
inutile e sciocco, giacché finiva per venire tacciata come
una piccola serva
maligna e ingrata che metteva in giro brutte voci sui suoi datori di
lavoro.
Persino sua madre l’aveva rimproverata di essere infantile
– «Mai mordere la
mano che ti nutre, Meg!» – e, neanche a
dirlo, non le aveva creduto. E come biasimarla? Lei stessa, adesso che
si
trovava al di fuori dell’influenza del maniero, stentava a
credere di essersi
fatta condizionare da quei racconti.
E
adesso quasi rimpiangeva quei tempi di innocente inconsapevolezza,
quando i
rumori notturni potevano essere facilmente attribuiti alle sguattere
che si
svegliavano ore prima dell’alba e camminavano frettolosamente
da una parte
all’altra del sottotetto, facendo ticchettare le scarpe sul
legno grezzo del
pavimento.
Povera lady Emma, pensò stancamente la
governante. Avrebbe tanto voluto dirle la verità –
malgrado le loro inevitabili
incomprensioni, in un certo senso la donna si era affezionata alla sua
giovane
padrona – ma non osava: temeva la vendetta della casa, e
temeva soprattutto la
vendetta di colui che l’abitava. Aveva vissuto abbastanza a
lungo nella magione
per sapere con terribile certezza che cosa essa faceva alle persone
– in
particolar modo ai proprietari.
Sospirò
ancora, sola nella grande cucina della magione, con l’unica
compagnia di un
candelabro e di panni da rammendare. Udì il rimbombo
dell’orologio a pendolo
del pianterreno, e seppe che erano le tre del mattino: fra un paio
d’ore Lydia
si sarebbe svegliata, e ogni cosa si sarebbe ripetuta esattamente come
il
giorno prima e quello prima ancora – e lei, come al solito,
non aveva chiuso
occhio.
Stava
per riprendere il suo lavoro di rammendo quando, nel silenzio,
udì un flebile
fruscio – l’aria parve addensarsi, le fiamme delle
candele tremolare, il buio
incupirsi – e d’un tratto seppe di non essere
più sola.
«Lui
la vuole.»
La
voce sgorgò dalle tenebre dietro di lei, una voce delicata,
un timbro elegante,
un tono quieto; la sorpresa la fece sussultare e l’ago le
punse il dito,
facendole macchiare di sangue la stoffa. Margareth conosceva bene
quella voce, benché
non la udisse da anni, e gli occhi le si inumidirono di lacrime non
versate.
«Lui
la vuole, Mrs. Duncan», riprese la voce con un accento
più deciso, ora
leggermente più vicina. «E la vuole anche la casa.
Bisogna impedirlo.»
Mrs.
Duncan serrò gli occhi, e rispose senza osare voltarsi.
«E in che modo? La
ragazza sta già cedendo alla seduzione
dell’oscurità, l’ho vista, me ne sono
accorta. Sta perdendo il contatto con il reale.»
«La
colpa è vostra, Mrs. Duncan», fu la brusca e
spietata replica. «Avete
assecondato gli ordini del mostro, e finirete per pagare amare
conseguenze se
non modificherete il vostro comportamento. Siete una donna saggia: so
che
troverete un modo.»
Malgrado
il velato complimento, le parole erano astiose e la donna non
trovò di che
ribattere, per cui si limitò ad un cenno positivo del capo.
«Erano anni che non
vi udivo», mormorò poi, quasi timorosa.
«Posso chiedervi che cosa vi ha spinto
a parlarmi ancora?»
Il
silenzio che seguì fu talmente lungo e pesante che la
signora Duncan temette
che non sarebbe giunta risposta; invece, contro le sue aspettative,
essa
arrivò. «In questo momento mi è
più a cuore il benessere della ragazza,
piuttosto che il rancore che nutro nei vostri confronti»,
rispose. «Per me non
esiste salvezza, ma per lei sì. Ho ritenuto opportuno
intervenire prima che
fosse troppo tardi.»
Benché
trovasse quella conversazione a dir poco curiosa, per non dire
incomprensibile,
Mrs. Duncan non osò manifestare le sue
perplessità. Si limitò a prenderne atto,
come si fa con le indiscutibili verità religiose, e a
comportarsi di
conseguenza. «Potrò contare sul vostro aiuto,
dunque?»
«Sì.»
Un’affermazione rapida, decisa, priva di un qualsivoglia
tentennamento. «Sappiate
che non sareste sola ad opporvi a lui, che avreste me e gli altri al
vostro
fianco.»
La
governante trattenne il fiato, sorpresa. «Anche gli
altri?» Mormorò con
riverenza.
«Ve l’ho
detto, Mrs. Duncan. La
casa è affamata, brama nuove anime… E tutti noi
siamo stanchi di vederla mietere
vittime in continuazione. Voglio sperare che concordiamo sul fatto di
voler
evitare che si ripeta il dramma dell’incendio,
sì?»
«Oh
sì, certo, Dio ce ne scampi», sussurrò
la donna, facendosi un rapido segno
della croce.
«Temo
che Dio non dimori più tra le mura di Pemberley»,
ribatté aspramente la voce. «È
tempo che vada, ora. Vi lascio al vostro lavoro… e
verrò io da voi, quando sarà
il momento.»
Mrs.
Duncan annuì, rassegnata. «Attenderò la
vostra visita, allora», acconsentì
piano. Non udendo tuttavia giungere alcuna risposta, la donna
finalmente posò
ago e filo sul tavolo e si voltò verso il punto dal quale
era giunta la voce –
ma ormai era di nuovo sola: la debole luce delle tre candele non
illuminò altro
se non le suppellettili della cucina e l’angolo vuoto accanto
all’enorme
camino.
«Grazie,
lady Nora», sussurrò, prima di tornare mestamente
al suo lavoro.
____________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Ehilà! E'
trascorso parecchio tempo dall'ultimo capitolo - spero che vi
ricordiate ancora la trama. xD Qui abbiamo persino un colpo di scena
finale... e chi se lo aspettava? (Io no, devo ammetterlo - è
stata una sorta di illuminazione improvvisa, spero che la Musa non
sparisca :D E per questo devo dare la colpa/ringraziare la mia nuova
ossessione per American
Horror Story, di cui ho divorato tutte e tre le stagioni -
Dio benedica lo streaming - in qualcosa come una settimana o poco
più... come avevo fatto a vivere senza, finora? Comunque,
bando a queste ciance.)
Stavolta non mi dilungherò molto, voglio limitarmi ai
ringraziamenti. Indi per cui, un grazie enorme a Sylphs, Berserksgangr, Figlia di una guerriera,
Jolly J, savy85 e Se7f per aver
recensito lo scorso capitolo, e una menzione particolare per Christine23 che mi
ha spronato a scrivere e concludere anche questo sesto chapter in un
tempo decisamente inferiore a quello che ci avrei messo se avessi dato
retta alla mia demoralizzazione :D E, ovviamente, tantissimi grazie
anche a tutti voi che continuate a leggere, silenziosi, e ad aggiungere
questa storia tra i Preferiti e le Seguite!
Detto ciò, vi lascio! Se avete domande e
curiosità potete trovarmi su Facebook, ask.fm e twitter -
basta visitare la mia pagina "autore" per recuperare i link - e niente,
mi fa piacere sentirvi e chiacchierare con voi ma vi lovverò
lo stesso anche se resterete silenziosi. ù__ù
Baci e abbracci come al solito, non mi stancherò mai di
ringraziarvi per essere giunti fin qui a leggere - buon proseguimento
di serata!
La vostra
Niglia.
|
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Capitolo 8 *** Chapter 7. Stranger Than You Dreamt It ***
7.
Stranger Than You Dreamt It
1877
L’estate in
campagna poteva essere terribilmente monotona per una bambina di sei
anni. Il
territorio circostante non le permetteva alcuno svago, e malgrado gli
adulti
fossero abbastanza permissivi con lei e le permettessero di gironzolare
più o
meno a suo piacimento dentro e fuori il castello, la piccola Nora aveva
ormai
terminato tutte le attività che avrebbero dovuto
intrattenerla, o semplicemente
le erano venute a noia.
Mademoiselle
Sophie, la sua istitutrice francese, si era ritirata per il suo riposo
pomeridiano, e le aveva suggerito di fare lo stesso: com’era
ovvio, Nora non
aveva intenzione di rimanere rinchiusa nella sua camera per le due ore
seguenti
senza far nulla, così attese i minuti necessari che avrebbe
impiegato
mademoiselle a percorrere il corridoio e sparire nella sua stanza,
prima di
sgattaiolare di nuovo fuori.
Non aveva fatto che
pochi passi, che una delle altre porte si aprì e la testa
bionda e riccioluta
di suo fratello maggiore Evan ne fece capolino.
«Guarda guarda chi
sta disobbedendo alla sua istitutrice», esordì con
un mezzo sorriso, parlando
tuttavia a bassa voce. «Che cosa ci fai in corridoio a
quest’ora? Non dovresti
essere a letto?»
«Non ho sonno»,
ribatté la bambina imbronciandosi. «E sono
annoiata! Voglio fare qualcosa, ma
non so che cosa», aggiunse, storcendo il naso.
Sfortunatamente tutti i giochi
che avrebbe potuto fare le erano al momento preclusi, dato che tanto
per
cominciare non si sarebbe neppure dovuta trovare fuori dalla propria
camera. E
neanche uscire dal castello era da prendere in considerazione, dato che
mademoiselle Sophie l’aveva avvertita che, quando il sole era
così alto nel
cielo e le cicale frinivano nel prato, la spaventosa Mère
du soleil avrebbe rapito le fanciulline che avessero
messo il naso fuori casa.
Sospirò, avanzando
di qualche passo verso il fratello. «Tu vuoi giocare con
me?» Chiese,
rassegnata.
Evan la osservò di sottecchi,
le dita macchiate di pittura impegnate a torturare un pennello sporco,
riflettendo. Alla fine, con tono laconico, rispose:
«No.» Ma, prima che Nora si
mettesse a piangere dall’irritazione, il ragazzino riprese a
sorridere e le
fece cenno di avvicinarsi ancora. «Ho un’idea
migliore. La vuoi sentire?»
Il viso di Nora si
illuminò, raggiante: suo fratello aveva sempre qualche gioco
interessante da
farle fare! Quando gli si fu avvicinata abbastanza, Evan si
chinò verso di lei
per sussurrarle la sua idea all’orecchio, pregustando
già la faccia che avrebbe
fatto la piccola. «Ti sfido ad andare nell’ala
Ovest.»
Come lui aveva
immaginato, la bambina trattenne bruscamente il fiato, allontanandosi
il tanto
sufficiente per farle incontrare lo sguardo del fratello e farle capire
che non
stava scherzando. «Ma nostro padre l’ha
proibito», disse piano, gli occhi
sgranati.
Evan scrollò con
noncuranza le spalle. «Hai già disobbedito a
mademoiselle Sophie, qual è il
problema?»
La osservò mentre
Nora si dondolava sulle gambe sottili, torcendosi le dita e torturando
i nastri
del suo abitino azzurro, riflettendo se accettare o meno la proposta
del
fratello o forse sperando che egli cambiasse idea e le desse un
qualche compito più
semplice. Ma lui si ostinò a tacere, continuando a guardarla
con quel
sorrisetto arrogante che la sfidava a tirarsi indietro; e Nora,
malgrado la
tenera età, non amava perdere o rinunciare a una
competizione. Inoltre si
annoiava, e cos’altro avrebbe potuto fare per trascorrere il
tempo, dunque?
«Bene», sbottò alla
fine, sollevando il mento. «Andrò
nell’ala Ovest.»
Il fratello
ridacchiò, per nulla impressionato.
«Però devi portarmi qualcosa da lì, o
non
crederò che tu ci sia stata», aggiunse, agitandole
un dito davanti al naso.
Nora sbuffò,
infastidita. «E che cosa ti devo portare?»
Evan scrollò le
spalle, continuando a sorridere. «Quello che vuoi, sorellina.
Sorprendimi.»
Senza più degnarlo
di un’occhiata, Nora gli diede le spalle e si
incamminò decisa, ma in punta di piedi, in
direzione dell’ala Ovest.
Accedere a quell’interdetta
parte del maniero fu più semplice di quanto avesse previsto:
era bastato
attendere che le cameriere finissero di spolverare là
attorno e sparissero giù
per la scala di servizio, e con l’andito del tutto vuoto a
sua disposizione
Nora oltrepassò la soglia che divideva quell’ala
dal resto del maniero,
lasciando pure che la porta si chiudesse alle sue spalle.
Mentre attraversava
le gallerie cupe e disabitate, incerta su cosa fare e domandandosi per
quale
motivo il padre avesse deciso di chiudere quell’ala al
pubblico, visto che non
c’era nulla di particolare a parte vecchi quadri e tappeti
impolverati, Nora si
ripromise che avrebbe dato un bel pizzicotto a suo fratello Evan per
averla
fatta cacciare in quel guaio senza che peraltro ne valesse la pena. Ma
aveva
appena finito di formulare quel pensiero, che nel profondo silenzio si
udì un
rumore, dapprima debole, come fosse stato attutito
da spesse pareti, e poi sempre più nitido e stentoreo:
pareva il pianto di un
bambino.
Perplessa, giacché
era convinta, e a ragione, di essere l’unica fanciullina di
Pemberley – se si
escludeva il figlio della governante, che comunque non veniva mai
portato
all’interno del castello e che lei aveva veduto solo qualche
volta, e da
lontano, al limitare del giardino – Nora seguì il
percorso indicato da quegli strazianti
singhiozzi, terribilmente curiosa e insieme preoccupata.
I corridoi deserti di
Pemberley non le facevano paura: era nata e cresciuta lì, e
malgrado avesse
udito i domestici bisbigliare costantemente di misteri di dubbia natura
e strani eventi che si manifestavano nel castello, Nora era figlia di
suo padre e non credeva
a sciocchezze come i
fantasmi. Evan non sarebbe stato così
coraggioso, si ritrovò a pensare con un lieve sorriso;
sarebbe fuggito come se
avesse avuto il diavolo alle calcagna, e non avrebbe più
messo piede nell’ala
Ovest. Ma lei non aveva paura, e glielo avrebbe dimostrato.
Dopo un lungo
camminare si fermò con decisione davanti a una porta scura e
decisamente
pesante, e vi posò l’orecchio sopra, in ascolto:
sì, non v’erano dubbi – il
pianto proveniva da lì dentro.
Alzandosi sulle
punte dei piedi e allungando il braccio, Nora riuscì ad
aggrapparsi alla
maniglia – così in alto, perché era
così in alto? – e a tirarla il più
possibile verso di se’, verso il basso, fin quando un roco
schiocco non le fece
capire di essere riuscita ad aprirla. Allora la spalancò,
sbuffando e ansimando,
e si affacciò curiosa all’interno; la sua sorpresa
fu grande quando capì di
essere in una sorta di nursery, molto meno ricca e lussuosa di quella
dov’era
cresciuta lei. Le tende erano chiuse, e dalle finestre non proveniva il
più
piccolo raggio di sole; solo poche candele rischiaravano
l’ambiente,
permettendole di vedere una sedia a dondolo, delle brocche da toilette,
vari
giocattoli sparsi per terra in condizioni più o meno
disperate e una culla di
legno scuro, rivestita con stoffe ingiallite dal tempo, e ricoperta da
una
tendina in pizzo che pendeva dal soffitto. Ed era da lì che
proveniva il
lamento disperato del bambino, chiunque egli fosse.
Si avvicinò con
cautela al lettino, ma le sponde troppo alte le impedivano di
affacciarsi;
guardandosi intorno vide uno sgabello rovesciato poco lontano, che
trascinò
fino a un lato della culla per poi arrampicarvisi senza grosse
difficoltà.
Quando scostò la tendina che copriva il bambino, Nora
dovette stringere gli
occhi attraverso la penombra per riuscire a vederlo; poi
all’improvviso il
piccolo si voltò, tirando su col naso e istintivamente
confortato dalla sua
presenza, e allungò le mani verso di lei emettendo teneri
versi di benvenuto
che, tuttavia, non la intenerirono per niente. Anzi; lo shock di
ciò che videro
i suoi occhi fu tale che iniziò a strillare, terrorizzata,
spaventando il
bambino che sgranò gli occhi con un’espressione
più scioccata della sua,
facendolo scoppiare nuovamente in lacrime con un vigore notevole per
una
creaturina così piccola.
Continuò a gridare
con gli occhi serrati e le lacrime che le scorrevano sulle guance,
implacabili,
incapace di muoversi, finché due mani non
l’agguantarono con decisione ai
fianchi e la fecero scendere dallo sgabello, allontanandola dalla culla
e
portandola direttamente fuori, nel corridoio. Quando Nora
riaprì gli occhi, suo
malgrado indignata per il modo in cui era stata presa e spostata, si
ritrovò a
fissare ora il volto familiare e adorato della signora Duncan, che
tuttavia mai
prima di allora aveva mai visto sfigurato da un’espressione
così terribilmente
furibonda.
«Voglio che
torniate in camera vostra, milady, avete compreso bene? E
sarà meglio che non
diciate a nessuno quanto avete visto qui, se non volete che racconti a
vostro
padre di questa bravata», furono le uniche parole che le
vennero rivolte dalla
donna, in modo piuttosto gelido e sgarbato.
La pesante porta
venne richiusa con un brusco tonfo, nascondendo alla sua vista
l’orrore che
celava. Nora rimase lì davanti, intontita e spaventata,
mentre le lacrime che
aveva inconsapevolmente trattenuto fino a quel momento scorrevano
copiose sulle
sue guance. Chi
era quel mostro?, si chiese, confusa. Perché
abitava nel castello, sotto il suo stesso tetto? E,
soprattutto, chi aveva permesso a un simile abominio di vivere?
Una mano le si posò
sulla spalla, facendola sussultare dallo spavento. Quando si
voltò, Nora si
ritrovò ad osservare una signora mai vista prima, bella ed
elegante come il
soggetto di un quadro, riccamente vestita e acconciata –
seppur ci fosse
qualcosa, nel suo abbigliamento, che stonava con
ciò a cui la piccola era abituata, come se la donna
appartenesse a qualche
luogo al di fuori dal tempo.
«Vieni, bambina.
Non dovresti essere qui», le disse dolcemente la sconosciuta,
prendendole la
mano con la sua, gelida, e conducendola via con fare gentile ma
risoluto. Nora
si voltò più volte, spiando la porta da sopra la
spalla, ma non vide più nulla:
e si lasciò trascinare, spaventata e confusa, senza ben
sapere che cosa pensare
di quanto aveva appena visto.
Benché si fosse
dimenticata di prendere qualcosa dall’ala Ovest, suo fratello
Evan non dubitò
che ci fosse stata, dopo averla guardata in viso.
Emma
si svegliò spossata e infastidita, come se avesse trascorso
la notte intera su
un materasso di sassi appuntiti che le aveva reso impossibile riposare.
Accolse
come una benedizione la luce del giorno che filtrava da sotto le tende,
e si
alzò dal letto per spalancarle prima che arrivasse Lydia a
occuparsene.
Attraverso il vetro appannato si accorse che aveva piovuto, e che
doveva aver
smesso da poco: ciò la rassicurò sulla sua
decisione di aver fatto restare
Caledon al castello per la notte – ma adesso era mattina, e
il suo ospite si
sarebbe rimesso in viaggio tra non molto. Mentre osservava i raggi del
sole che
facevano luccicare la brina sull’erba e sulle foglie degli
alberi, facendoli
brillare come se l’intera vegetazione circostante fosse
tempestata di diamanti,
Emma si domandò se la partenza di Cal le stesse mettendo
addosso più sollievo o
dispiacere.
Non
aveva che da prepararsi e scendere in sala da pranzo per scoprire che
cosa le
avrebbe riservato il giorno; e quando Lydia varcò la soglia
della sua stanza,
portando dei teli puliti e dell’acqua calda per le sue
abluzioni mattutine,
l’accolse con un piccolo sorriso.
A
qualche metro di distanza, nella camera da letto Luigi Filippo, anche
Caledon
riapriva gli occhi a salutare il nuovo giorno. Non era abituato a
svegliarsi
così tardi – solitamente quando si alzava era
ancora buio, poiché suo padre gli
aveva da sempre inculcato la convinzione che un lord dovesse svegliarsi
insieme
alla propria servitù per non dare l’impressione di
essere un fannullone ma, al
contrario, un padrone dal polso rigido – ma la
verità era che non aveva dormito
molto bene: anzi, aveva l’impressione di non aver mai dormito
così male in
tutti i suoi trent’anni di vita su questa terra.
Non
lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma c’era qualcosa nel
castello che gli
aveva messo addosso una certa inquietudine sin da quando vi aveva
posato gli
occhi, il giorno prima. Pur essendo avvezzo alle imponenti e antiche
magioni in
cui peraltro aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza,
doveva
riconoscere che Pemberley Manor era in diversi modi differenti: lo
aveva fatto
sentire a disagio, fuori luogo, e per un attimo - sì, per un
attimo – aveva
pensato di dire il cocchiere di fare dietro front e tornare alla
stazione, per
proseguire il suo viaggio senza dover sostare in quel luogo
inconfortevole.
Forse
si era lasciato suggestionare dalla lettera di Emma, o dagli sguardi
preoccupati dei paesani che, alla sua richiesta di venire accompagnato
al
castello, si erano praticamente volatilizzati, fatto sta che il suo
primo
incontro con il castello non si era svolto sotto i migliori auspici. E
la
sensazione si era acuita una volta messo piede nell’enorme
foyer, quando la
governante lo aveva lasciato solo per pochi minuti per avvisare la
padrona di
casa del suo arrivo. Inutile dire che, in quei brevi istanti
– che tuttavia in
quel frangente gli erano sembrati eterni – aveva provato il
terribile e
inconscio presentimento di essere fissato.
L’androne d’ingresso non era eccessivamente buio
– una debole luce proveniva
ancora dalle vetrate polverose, e qua e là i domestici
avevano già iniziato ad
accendere le candele – eppure quell’atmosfera
soffusa non faceva che trascinare
l’abitazione in un clima da incubo, assurdo, intollerabile.
Il legno massello
che rivestiva muri e pavimenti era talmente cupo che assorbiva la luce
dei
lucernai senza rifletterla, mentre a inghiottire qualsiasi suono ci
pensavano
arazzi e tappeti: avrebbe giurato che Mrs. Duncan fosse scomparsa nel
corridoio
se non l’avesse seguita con lo sguardo finché non
ebbe girato l’angolo, tanto la
donna si muoveva silenziosamente. L’immensa scalinata che si
snodava alla sua
sinistra, curvando dolcemente su se stessa nella sua ascesa al piano
superiore,
era a sua volta scarsamente illuminata, e dava l’impressione
di poter essere il
passaggio verso chissà quale luogo infernale.
Erano
osservazioni futili e sciocche da fare, se ne rendeva benissimo conto,
eppure
Caledon si era sempre vantato di avere un istinto e un fiuto
eccezionale per
tutto ciò che non era come sarebbe dovuto essere. E
c’era qualcosa, nel maniero
di Pemberley, che sembrava volergli far rimpiangere la sua visita
improvvisa.
Avrebbe
quasi giurato… ma doveva essere stata la stanchezza a
giocargli brutti scherzi…
di udire un flebile sospiro che gli fece rizzare i peli della nuca,
subito
seguito da quello che gli era parso a tutti gli effetti una carezza
sulla
spalla. Eppure, quando si era voltato, non aveva visto che un corridoio
vuoto… Di
certo la governante non dovette trovarlo in un buono stato, quando
tornò da lui
per avvisarlo che la padrona lo stava aspettando, perché
Caledon aveva
l’impressione che tutto il sangue gli fosse defluito dal viso
lasciandolo
pallido e tremante; e malgrado ciò era riuscito a far buon
viso a cattivo
gioco, e a raddrizzare la schiena mascherando sotto una patina di
amabilità e
gentilezza il suo sconfortante malessere.
Sinceramente,
si domandò con quale coraggio Emma continuava ad abitarvi. Quando
questo castello passerà in mano mia, dopo il matrimonio, si
ritrovò a pensare d’istinto, mentre si vestiva per
poi poter scendere a fare
colazione, mi assicurerò che diventi un
luogo diverso. Più luminoso, tanto per cominciare, e meno
lugubre. Emma sarà
d’accordo con me, decise.
Non
rientrava nei suoi desideri tornare a vivere nella casa di famiglia dei
Suffolk, dopo il suo matrimonio – dover far convivere la
propria già difficile
vita matrimoniale con quella dei suoi genitori era una
possibilità che non
aveva neanche preso in considerazione – e di certo anche Emma
sarebbe convenuta
con lui al riguardo. I due giovani sposi avrebbero dovuto imparare a
conoscersi
e ad abituarsi l’uno all’altro senza che ogni loro
gesto, parola o
comportamento fosse minuziosamente passato al setaccio dagli sguardi
pesanti e
inquisitori di lady e lord Suffolk. Per cui, il fatto che vi fosse una
proprietà del genere abbarbicata sopra di una collina nel
bel mezzo della
brughiera capitava davvero a fagiolo: qualcosa gli diceva che il suo
futuro
suocero, il caro lord Grantham, già prevedesse di regalarla
agli sposi per le
loro nozze, e in tutta onestà Caledon poteva ammettere che
gli sarebbe piaciuto
gestirla, e strapparle via quell’aria desolante e malsana che
emanava come se
fosse stata una carcassa in decomposizione.
Se
lasciava la sua immaginazione libera di espandersi a proprio
piacimento,
Caledon poteva quasi vedere gli androni invasi dalla luce, i domestici
che si
prendevano cura del maniero e Emma, la
sua Emma, seduta all’ombra di uno dei tigli del
parco, con un libro tra le
mani e due bambini distesi accanto a lei, tutti intenti ad ascoltare la
voce
melodiosa della madre mentre leggeva loro una delle sue storie
preferite…
L’uomo
sospirò, tornando bruscamente con i piedi per terra. Avrebbe
fatto quanto in
suo potere per far sì che un simile miraggio si avverasse, e
che la sua futura
moglie si innamorasse di lui – o perlomeno smettesse di
trovarlo indifferente.
Gli sarebbe bastato il più piccolo cenno di affetto da parte
sua, per farlo
sperare, per fargli capire che quel matrimonio si sarebbe fondato su
basi più
solide di un misero contratto stipulato dalle loro famiglie. Quella
visita a
sorpresa, tutto sommato, lo aveva fatto ben sperare; forse,
rifletté mentre scendeva le scale in direzione della sala da
pranzo, forse la solitudine la stava
ammorbidendo?
Quando
varcò la soglia della sala, la padrona di casa non era
ancora arrivata. Il
lungo tavolo in mogano scuro tuttavia era già stato
abbondantemente
apparecchiato, e il delizioso profumo di tè, pancetta,
porridge e uova gli fece
perdonare l’assenza del giornale del mattino – cosa
che non lo sorprese del
tutto: chi era il povero ragazzo che si sarebbe fatto di sua spontanea
volontà
tutta la strada fino a Pemberley?
Si
era appena seduto quando da dietro un paravento sgusciò
fuori uno scodinzolante
Aramis, il cucciolo di Emma; il cane venne verso di lui ansimando
allegramente,
avvicinandosi baldanzoso per annusarlo e abbaiare due o tre volte in
segno di
riconoscimento. «Guarda un po’ chi
c’è», sorrise Caledon, chinandosi per
grattare l’animale dietro le orecchie e sotto il muso.
«Non dovresti essere a
far la guardia alla tua padrona, mh?»
Per
tutta risposta Aramis abbaiò ancora, poi ruotò un
paio di volte su se’ stesso e
infine si mise seduto, il muso sollevato ad annusare l’aria e
gli occhi castani
fissati con infantile insistenza su di lui. «Ah, ho capito
cosa vuoi», mormorò
divertito. Allungò una mano verso il vassoio della pancetta
e ne prese due
fettine ancora fumanti, il cui profumo stava sicuramente facendo venire
l’acquolina in bocca anche al cucciolo. «Tieni,
fatti onore. Ma non dirlo a
Emma, mi raccomando.»
«Dirmi
che cosa?»
Non
appena udì la voce della ragazza Caledon saltò
subito in piedi facendo
strisciare spiacevolmente la sedia sul pavimento, voltandosi verso di
lei e
accennando un inchino. Gli bastò un’occhiata per
notare che adesso appariva
molto più elegante e pronta a riceverlo di quanto non fosse
stata la sera prima
– il suo abito da giorno era stato scelto scuro come si
conveniva a una
fanciulla in lutto, e i capelli le erano stati intrecciati e raccolti
in modo
da non lasciare un solo ciuffo fuori posto. Era comunque la prima volta
che la
vedeva a quell’ora del mattino, e c’era una certa
innegabile intimità nel
ritrovarsi da soli a colazione. «Buongiorno. Perdonatemi, non
vi ho sentita
entrare», si scusò, andando subito a scostarle
gentilmente una sedia per farla
accomodare.
Emma
fece un cenno con la mano come a dire che non era importante.
«Non
preoccupatevi. Come avete visto, Cal, qui in campagna non seguiamo in
modo
altrettanto rigoroso le regole della città. Oh»,
aggiunse poi, aprendosi in un
sorriso non appena Aramis la raggiunse per posarle il muso in grembo in
cerca
di coccole. «Vedo che la signora Duncan l’ha
già fatto rientrare.»
«Credevo
che dormisse con voi», replicò l’uomo,
tornando a sedersi e iniziando a
versarsi delle salsicce e funghi trifolati nel piatto. Il profumo era
inebriante – chissà per quale motivo in campagna
tutto acquistava un diverso
sapore?
«Aramis
non dorme bene all’interno del castello», fu la
vaga risposta di Emma, che
riconquistò l’attenzione del suo ospite.
«Le prime notti mi ha tenuto sveglia,
e con Mrs. Duncan abbiamo convenuto che sarebbe stato meglio per lui
dormire
nelle stalle.»
«Probabilmente
era solo innervosito dal nuovo ambiente. Si abituerà presto,
vedrete», la
rassicurò Caledon, offrendole un sorriso confortante.
Emma
non riuscì a ricambiarlo. «Sapete, non me la sento
di biasimarlo. Povero
Aramis… Devo ammettere che questo castello mette i brividi
anche a me», rispose
piano, sperando che non ci fosse nessuno dei domestici in ascolto
– non voleva
risultare ingrata o patetica nel parlare così, ma in qualche
modo sentiva che
dirlo al suo fidanzato le avrebbe forse alleggerito lo spirito.
«Sapete che i precedenti
proprietari morirono proprio qui, all’interno del maniero,
quindici anni fa?»
Caledon
la osservò con aria perplessa e sorpresa, sia per
quell’improvviso slancio di
familiarità che per la notizia inquietante. «Ma
è terribile», commentò
gravemente, aggrottando la fronte. «Da ciò che mi
ha detto vostro padre, avevo
capito che il castello fosse rimasto abbandonato per
l’assenza di eredi.»
«È
stato così, in effetti», confermò Emma,
ritrovando facilmente la loquacità che
aveva già sfoggiato la sera prima e sentendo
l’inevitabile disagio che aveva
provato al suo risveglio scivolare via. «Il conte e i suoi
tre figli morirono
insieme, la stessa notte, a causa di un tragico incendio. E gli
abitanti del
villaggio sono molto superstiziosi, e nessuno di loro si è
più avvicinato al
castello per timore che i fantasmi dei Rochester si aggirino ancora tra
queste
stanze. Non vi dico quanto ho dovuto penare per far arrivare il dottore
fin
qui, per miss Radcliffe… È una fortuna che ci sia
stato sir Carlisle.»
Il
tono quasi affettuoso che avvolse un nome maschile che Caledon non
aveva mai
udito prima d’ora scatenò uno strano turbinio di
emozioni nel giovane –
emozioni che, benché confuse, potevano facilmente essere
riconducibili a un
unico sentimento: gelosia. «Sir Carlisle?
Chi sarebbe?»
«Oh,
è il mio unico vicino di casa. L’ho conosciuto
qualche giorno dopo il mio
arrivo, è venuto a fare visita alla nuova inquilina di
Pemberley – doveri di
buon vicinato, li aveva definiti. È stato lui a raccontarmi
di ciò che è
accaduto ai Rochester, e a convincere il dottore a venire al
maniero.»
«Tuttavia
non è stato molto delicato che venisse a trovare una ragazza
sola e priva di
chaperon. La trovo una cosa inappropriata, anche per gli standard della
campagna», insisté senza guardarla, tagliando con
ferocia un toast a metà.
A
quel punto Emma non riuscì a frenare un sorriso.
«Cal, avete fatto anche voi la
stessa cosa», gli rammentò con dolcezza a mezza
voce, in un tono che qualcuno
avrebbe potuto definire complice.
Egli
fu così preso alla sprovvista che arrossì
lievemente, come un bambino. «È
diverso», ribatté ostinato, guardandola dritta
negli occhi per scacciare
l’imbarazzo. «Io sono il vostro
fidanzato.»
«E
cosa credete che penserà mio padre quando
scoprirà che il mio fidanzato è
venuto da solo a trovarmi e ha poi trascorso la notte sotto il mio
stesso
tetto?» Il sorriso che continuava ad aleggiare sulle labbra
della giovane e il
suo tono scherzoso rassicurarono l’uomo sulla natura
discorsiva della
conversazione. «Se la mia reputazione resta intatta lo
dovrò solo alla privacy
della brughiera e alla promessa del vostro silenzio.»
«In
tal caso, avete la mia parola che non gliene farò menzione.
Non sia mai che io
mi macchi di offendere il vostro buon nome»,
replicò sul suo stesso tono faceto,
chinando il capo nel fantasma di un inchino. «Ad ogni modo,
questo Carlisle…
Viene a farvi visita spesso?» Indagò poi, con
un’aria interrogativa e persino
irritata che Emma non faticò a riconoscere.
Cercò
quindi di non sorridere per non dare l’impressione di
prendersi gioco di
quell’aspetto del suo carattere, che in verità
dovette ammettere di trovare in
un certo senso premuroso: era la prima volta che vedeva il suo
fidanzato
ingelosito. «Cal, non fraintendete. Sir Carlisle è
un gentiluomo sposato, e
potrebbe essere mio padre. Si comporta da ottimo amico ed è
di buona compagnia,
e questo mi fa apprezzare le sue visite», gli
spiegò serenamente.
La
risposta di Emma lo rassicurò un poco, ma non poteva
impedirsi di essere
preoccupato e tormentato dall’idea della sua fidanzata da
sola in un castello
in mezzo alla brughiera, preda di chissà quali e quanti
generi di
malintenzionati. Buon Dio, ma cosa
diavolo aveva in mente lord Grantham quando l’ha mandata qui?
Solo ora che
vedeva in modo tangibile il modo in cui stava trascorrendo il suo
lutto,
Caledon si rendeva conto della pericolosità
dell’intera faccenda. Eppure lei
era così serafica, così rilassata che quasi si
sentiva uno sciocco nel provare
la più piccola briciola di apprensione. Così, si
limitò a porre fine
all’argomento con una breve scrollata di spalle e un commento
riguardo i tempi
moderni e le donne indipendenti, che strappò a Emma la prima
vera risatina che
udì da parte sua da quando era arrivato, e che
contribuì a rasserenare il suo
spirito.
Fu
costretto a prendere commiato subito dopo colazione, perché
il treno sarebbe
partito alle undici e con la carrozza del signor Duncan avrebbero
impiegato
almeno un paio d’ore per raggiungere la stazione. I suoi
bagagli erano già
stati imbarcati, ed Emma gli aveva preparato una sorta di cesto da
picnic con
gli avanzi della colazione, frutta e altre vivande che avrebbero reso
il suo
viaggio verso la Scozia meno lungo e noioso. Una volta usciti sul
portico, sia
Mrs. Duncan che Lydia erano già schierate ai lati della
porta, e Mr. Duncan
attendeva paziente accanto allo sportello aperto della carrozza. I
cavalli
scalpitavano inquieti, ma bastarono poche parole sussurrate e delle
pacche
gentili da parte dell’uomo per riportarli
all’ordine.
Prima
di separarsi definitivamente, Caledon prese Emma da una parte
– cercando di
stare il più lontano possibile dall’udito
indiscreto dei domestici – e le prese
le mani tra le sue, stringendole affettuosamente. «Mi
promettete che
continuerete a scrivermi, Emma?» Le chiese a mezza voce.
«Ho letto la vostra
ultima lettera fino a impararla a memoria, e adesso ho bisogno che mi
forniate
dell’altro materiale da memorizzare.»
La
giovane sorrise, suo malgrado divertita. «Ho paura che le mie
future lettere
saranno di una noia mortale, visto che qui a Pemberley non succede
nulla di
interessante, ma cercherò di fare del mio meglio per
mettervi al corrente di
ogni cosa», acconsentì, ricambiando la stretta.
Ovviamente non gli aveva
raccontato del carillon, né della musica che di tanto in
tanto risuonava ancora
tra i corridoi, durante la notte, e neppure del figlio dalla mente
semplice dei
signori Duncan che ormai non vedeva da diversi giorni e che
l’aveva spaventata,
durante il loro primo incontro; simili dettagli lo avrebbero soltanto
messo in
allarme, e preoccupare lui voleva dire far preoccupare anche suo padre,
giacché
Emma non aveva dubbi che le voci si sarebbero poi sparse a macchia
d’olio.
Aveva come l’impressione di essere il centro della
preoccupazione di fin troppi
uomini.
«Sapete,
ho davvero sentito la vostra mancanza in queste settimane»,
continuò lui dopo
un momento di silenzio, abbassando la voce come se ciò
potesse rendere meno
imbarazzante tale confessione.
Emma
arrossì appena, allisciandosi delle pieghe inesistenti sul
vestito mentre si
sforzava di ricambiare lo sguardo dolorosamente sincero del suo
fidanzato. «Cal…»
«No,
vi prego. Fatemi finire», la supplicò con un mezzo
sorriso. «Voi conoscete già
i miei sentimenti, non dev’essere una sorpresa udirli. Quando
mi hanno riferito
che avreste trascorso il lutto in una residenza in campagna, lontana da
tutti,
lontana da me… Non nego che ciò mi abbia
addolorato, Emma.»
«Non
sono venuta qui per starvi lontana, Caledon»,
ribatté lei a mezza voce, e
tuttavia con un tono severo. «Non oserei mai fare una cosa
del genere, e
sinceramente mi dispiace che ciò possa avervi
offeso.»
«Non
mi sono offeso. Il fatto è che mi sono sentito inutile...
Credevo, forse troppo
ingenuamente, che in questo periodo di dolore mi sarebbe stato permesso
starvi
accanto, confortarvi, essere il sostegno di cui potevate avere bisogno,
e
invece… Siete semplicemente sparita», le
spiegò, più con un’aria triste e
dispiaciuta che rancorosa. «Ora, lo so che il nostro rapporto
è nato su basi
forzate, ma io voglio che sappiate che per qualsiasi cosa, in qualsiasi
momento, io sarò al vostro fianco – non per
giudicarvi, ma per sostenervi. Per
cui, se c’è qualcosa che vi pesa e che sentite il
bisogno di dirmi, fatelo,
fatelo senza timore. Voglio solo il meglio per voi, Emma… Un
giorno sarete mia
moglie, sì, ma io sarò vostro marito.
Sarò vostro, mi capite? Qualunque cosa
succeda, io sarò la vostra roccia nella tempesta. Ecco,
volevo solo dirvi
questo», concluse, con un breve sospiro di sollievo. Sembrava
che un simile
discorso gli fosse costato particolarmente, ma era stato abbastanza
eloquente
da privare lei di qualsiasi replica.
Emma
si limitò ad osservarlo, gli occhi inevitabilmente lucidi a
causa di quella
frettolosa confessione che non si era aspettata, e le mani che ancora
stringevano con forza rinnovata quelle guantate dell’uomo,
come se, in effetti,
in esse avesse trovato il suo appiglio. Cercò di non
commuoversi, e fu
tremendamente difficile; ma riuscì a sorridergli, annuendo
appena, e tanto
parve bastare. «Vi ringrazio, Cal. Davvero, con tutto il
cuore», mormorò, senza
distogliere gli occhi dai suoi.
Egli
annuì a sua volta, cercando di ricambiare il sorriso; non si
era aspettato una
risposta diversa da lei, in fondo, ma in quel momento la sua
espressione era
molto più significativa di qualsiasi dichiarazione
d’amore. «Vi manderò un
telegramma non appena raggiungo Inverness», le promise alla
fine, alleggerendo
l’atmosfera. Emma annuì, ancora frastornata, e
rilasciò lentamente le mani del
fidanzato, con un gesto che parve riluttante.
Forse
fu quello che gli diede il coraggio necessario: prima di voltarsi e
raggiungere
la carrozza, Caledon si chinò su di lei e le posò
le labbra sulla fronte, in un
bacio delicato e nel quale indugiò a lungo, gli occhi
socchiusi – assaporando
quel gesto che lei gli aveva permesso senza discostarsi, ma anzi
tendendosi un
poco, oh, non molto, verso di lui. La
sua pelle era tiepida e liscia, come seta, e sapeva vagamente di
gelsomino.
Il
momento rimase sospeso fin quando non si allontanarono, e Caledon si
ricordò di
avere degli spettatori. A quel punto le sorrise, si sfiorò
il cappello in
direzione delle domestiche e accennò un inchino verso di
lei, per
poi raggiungere la carrozza senza pronunciare una singola
parola. Emma
rimase ad osservarlo in silenzio, e restò sul portico fino a
che la vettura guidata
dal signor Duncan non scomparve dietro il primo angolo del vialetto
tortuoso,
tuffandosi nella fitta vegetazione selvaggia che pareva divorare metri
di
terreno nuovi di giorno in giorno, quasi che volesse raggiungere e
inghiottire il castello.
Quando
si voltò nuovamente verso il portico, si accorse che Lydia e
la governante la
stavano osservando in disparte, in attesa: Mrs. Duncan pareva avere
un’espressione incerta e preoccupante, persa
com’era in chissà quali pensieri, mentre
la ragazza si limitava a torcersi le mani e a fissare un punto
imprecisato del
giardino, quasi attendendo disperatamente di venir congedata.
Con
un sospiro, già dispiaciuta dell’essere stata
lasciata ancora una volta sola
con i domestici, Emma si incamminò verso il portone.
«Se avete bisogno di me,
signora Duncan, mi trovate in biblioteca»,
l’avvisò, precedendo le due
domestiche all’interno della casa.
La
governante annuì, accennando un inchino col capo.
«Verrò da voi più tardi per
farvi approvare il menù del pranzo, milady», fece;
malgrado cercasse di non darlo
a vedere, era palese che preferisse sapere la padrona di casa al sicuro
in
un’unica stanza – o, meglio, fuori dai piedi. Anche
se doveva ammettere che,
dopo la visita notturna della sua antica signora, il suo animo era
assai più
tranquillo – poteva contare che ci fosse sempre qualcuno a
tenerla sotto
controllo e lontana dalle grinfie dell’oscurità
che permeava il maniero.
Ciò
che non poté impedirsi di chiedersi, tuttavia, fu quando
essa si sarebbe decisa
a serrare gli artigli intorno alla giovane lady, spezzando la loro
apparente
quiete.
Otto giorni dopo.
Il
reverendo Randall Sibley, settantanove primavere, di Peterborough, era
il
personaggio più influente di Heatherfield. Di mente
sorprendentemente aperta e
pragmatica, usava prestarsi come confidente e consigliere in tutti i
campi,
poiché la sua raffinata istruzione ecclesiastica gli aveva
permesso in più
occasioni di utilizzare le sue conoscenze a favore di ciascuno dei
parrocchiani
– che, come egli stesso ammetteva con un umile sorriso,
conosceva ad uno ad
uno. Non vi erano segreti per lui, giacché era un uomo che,
principalmente,
ascoltava senza giudicare; e la sua fama era tale che talvolta venivano
membri
di altre parrocchie per scambiare con lui qualche parola e chiedere
consiglio.
Egli
sapeva chi frequentava la messa e chi la disertava, e con quale
frequenza;
dall’alto del suo pulpito in legno massello aveva una visuale
perfetta di tutti
i parrocchiani, dai contadini ai pastori, dal mercante alla sarta e dal
becchino al cocchiere della diligenza. Fu anche per questo che
notò subito le due
presenze inattese, quella mattina: la chiesa era pressoché
vuota, ovviamente –
era pur sempre un lunedì – se si escludeva la
presenza costante di una decina
di vedove del villaggio che trascorrevano nella casa di Dio gran parte
della
giornata. Li osservò da dietro l’anonimato
concesso dalla grata del
confessionale, seguendoli con gli occhi mentre prendevano posto in una
delle
panche più appartate – in cerca come al solito di
un angolo nascosto. Quella
routine andava avanti da tre lustri, ormai: tutti gli anni, il
ventiquattro di
ottobre, il signore e la signora Duncan varcavano la soglia
dell’unica chiesa
di Heatherfield per pregare, poi accendevano un cero in memoria di
coloro che
vennero uccisi nella terribile tragedia del maniero e se ne andavano
nuovamente,
con la tacita promessa di ritornare per il medesimo appuntamento
l’anno
seguente.
Da
qualche tempo a quella parte, inoltre, il reverendo aveva notato che i
due
custodi parevano cercare di evitarlo il più possibile: e
generalmente
riuscivano anche nel loro intento, visto che l’anniversario
di solito cadeva in
qualche giornata festiva o in qualche domenica. Stavolta tuttavia
avevano avuto
la sfortuna di trovare la chiesa vuota, e con essa la
possibilità che padre
Randall li raggiungesse era notevolmente alta; probabilmente era per
quello che
i due coniugi si stavano guardando nervosamente intorno, timorosi forse
di
vederselo piombare alle spalle come un avvoltoio affamato.
L’uomo
li spiò ancora un poco, pensieroso; com’era ovvio,
sapeva che Pemberley ora ospitava
due nuove inquiline, e trovò strano che esse non fossero
venute a loro volta in
chiesa. Certo, visto il loro status sociale era possibile che
appartenessero a
un’altra confessione religiosa, ma perché
preferire la solitudine del castello
alla possibilità di passeggiare nel villaggio e nella
campagna circostante, e
di fare la conoscenza con i paesani? Probabilmente, conoscendo Mrs.
Duncan,
tale invito non era neanche stato esteso alla giovane lady; e
quest’ultima, in
tutta ingenuità e buona fede, aveva dato loro il permesso di
assentarsi dal
loro luogo di lavoro per un giorno e una notte interi senza neanche
avanzare
qualche perplessità. Se solo avesse già avuto
modo di conoscere questa
misteriosa lady Moore che nessuno aveva mai neanche veduto in faccia,
se si
escludeva quello sciocco del dottor Carew, allora avrebbe anche potuto
presentarsi a Pemberley con una scusa qualsiasi, ma
così… Non poteva lasciare
che una sua preoccupazione prendesse in tal modo il sopravvento sulle
buone
maniere e sulla delicatezza che doveva avere nei confronti di ciascuno
dei suoi
parrocchiani.
Comunque
il rapporto che aveva con i Duncan era di ben altra natura, e andava
oltre il
semplice legame tra confessore e confessante; oltre a conoscerli da
prima che
si sposassero – cerimonia che aveva, peraltro, celebrato egli
stesso – avevano
faccende in comune di cui era bene di tanto in tanto discutere. Per
questo
motivo, aprì silenziosamente la porticina del confessionale
e attraversò la
chiesa deserta, raggiungendoli così in fretta che, quando
infine si accorsero
della sua presenza con un pallore che andava accentuandosi sui loro
volti, era
ormai troppo tardi per alzarsi e andarsene indisturbati.
«Buongiorno,
Margareth. Randolph», li salutò a mezza voce,
prendendo posto accanto a loro
con assoluta noncuranza. La donna si mosse a disagio sulla panca, ma
riconobbe
la sua presenza con un breve e secco cenno del capo che venne subito
imitato
dal marito.
Il
reverendo dovette trattenere un sospiro d’impazienza.
«Sono lieto che abbiate
deciso di farmi visita ancora una volta»,
proseguì, puntando lo sguardo
sull’altare e giungendo le mani in grembo. «Mi fa
piacere scambiare qualche
parola con voi, sapete. Ed è una fortuna che non mi abbiate
trovato impegnato
in una delle funzioni, così posso dedicarmi interamente a
voi.»
Mrs.
Duncan sembrava decisa a portare avanti il suo testardo silenzio, ma
l’anziano
pastore non era uomo che si lasciava intimidire e scoraggiare con
così poco. «Che
cosa sta succedendo su a Pemberley, signora Duncan?» Aggiunse
quindi,
abbassando ulteriormente il tono di voce e spostando stavolta lo
sguardo sui
due custodi che si ostinavano – o almeno ci provavano
– a ignorarlo. «Sapete
bene che ho a cuore il vostro bene e quello del nostro comune amico, e
gradirei
se queste vostre brevi visite fossero devolute a mettermi a parte di
ciò che
avviene tra quelle mura. Soprattutto adesso, che vi sono nuovi pezzi
nella
scacchiera.»
A
quel punto per Mrs. Duncan fu impossibile continuare a tacere.
«Padre, vi
prego, non chiedete. Avete cessato di avere il diritto di sapere quanto
avviene
al castello nel momento in cui ci avete lasciati al nostro
destino», ribatté
seccamente, senza distogliere gli occhi dall’altare.
«Non
insultate la mia intelligenza, Margareth. Sapete bene che non
c’è
molto che
io possa fare,
se l’anima da salvare non vuole essere salvata»,
replicò egli con forza,
trattenendosi dal picchiare il pugno contro la panca in legno.
«Egli sa che può
venire da me ogni volta che desidera, eppure sono trascorsi anni dalla
sua
ultima visita. Per questo motivo, se avete a cuore il suo benessere,
voi mi
direte che cosa sta macchinando!»
Fu
il signor Duncan allora a prendere la parola, per la prima volta
durante
quell’incontro. «Vi prego di non rivolgervi in quel
modo a mia moglie, padre,
perché come vi ha già detto noi non vi dobbiamo
niente», mormorò con la sua
voce grossa e rauca. «Se vi fosse interessato davvero di noi
e del vostro
pupillo avreste tanto per cominciare potuto impedire che il padre lo
vendesse a
quella specie di squilibrato…»
La
donna si guardò intorno con aria agitata, temendo che quella
conversazione
potesse essere udita da orecchie indiscrete, e rilassandosi leggermente
non
appena si fu resa conto che nella chiesa non erano rimasti che loro,
ormai. «Questo
non è in assoluto il luogo adatto per discuterne»,
intervenne nervosa, mettendo
a tacere il marito e attirando lo sguardo del reverendo.
«Padre Randall, avete
avuto la vostra occasione. Ma il passato non si può
cambiare, e se davvero vi
importa di noi come dite, allora non vi impiccerete più di
ciò che avviene al
castello. Io e Dolph abbiamo la situazione sotto controllo»,
concluse, con un
tono severo che non ammetteva repliche.
Ciò
detto si alzò in piedi, e i due uomini si alzarono
d’istinto a loro volta in
memoria delle buone maniere. «Dunque, buona
giornata», aggiunse, per poi
prendere sotto braccio il marito e dirigersi frettolosamente verso
l’uscita. Il
reverendo Sibley rimase a guardarli, assorto, mentre un vago senso di
inquietudine prendeva a farsi largo nel suo spirito: adesso aveva
praticamente
la certezza che a Pemberley ci fosse qualcosa che non andava
– se c’era
qualcosa di cui era capace, era leggere negli animi delle persone.
Doveva solo
scoprire che cosa.
Dal
canto loro, i Duncan non avevano nessuna intenzione di lasciare che un
altro
estraneo si intromettesse nelle loro faccende. Erano scesi a
Heatherfield come
facevano ogni anno, nell’anniversario della tragedia, solo
per poter rimanere
lontani dal maniero in attesa che tutto fosse passato:
l’esperienza gli aveva
infatti insegnato che era meglio stare lontani da Pemberley in quella
lugubre
notte. Purtroppo, e questa era anche una delle ragioni che avevano
spinto
l’anziana governante ad andare in chiesa, quella mattina, non
aveva potuto far
niente per avvisare lady Emma e la sua istitutrice: non le avrebbero
mai
creduto, e con quale coraggio lei avrebbe potuto disubbidire
così agli ordini
degli abitanti del castello?
Dodici
rintocchi di un orologio a pendolo risuonarono sordi da qualche parte
intorno a
lei, strappandola alle spire di un sonno senza sogni. Era la prima
volta che li
udiva, e nel dormiveglia era indecisa se attribuirli alla
realtà o a qualche
rimasuglio onirico; nel dubbio, visto che ormai s’era
svegliata, spostò le
coperte da un lato e si mise a sedere sul letto, tendendo
l’orecchio con
attenzione per accertarsi che i rintocchi fossero cessati.
La
camera, com’era ovvio, era immersa nel buio: dovette cercare
a tentoni la
lampada a gas sul comodino, per accenderla maldestramente
finché la debole
fiammella non rischiarò l’ambiente. C’era
qualcosa di strano nell’aria, un’atmosfera di
attesa, il presentimento che
qualcosa dovesse accadere da un momento all’altro.
Ogni rumore pareva
essere stato risucchiato dalle pareti mentre il castello rimaneva
immobile, in
un silenzio ovattato, trattenendo il respiro, pronto
all’esplosione.
Perfino
il vento sembrava essere cessato, e dall’esterno non
proveniva neanche più il
frinire cantilenante dei grilli. Tutto taceva, in modo così
definitivo che si
sarebbe potuto udire un ragno tessere la tela.
Quel
silenzio era spaventoso.
E
poi, così com’era giunta, la quiete
cessò: i comuni rumori della sera
ripresero, sotto forma di scricchiolii del legno, di fruscii leggeri e
del
frullio d’ali di uccelli notturni. Perplessa, Emma rimase
seduta, tendendo
l’orecchio verso la porta, sperando quasi di udire bussare da
un momento
all’altro per poi osservare il viso assonnato e stanco di
Mrs. Duncan e udire
la sua voce rassicurarla sul fatto che non vi fosse nulla di cui avere
paura, e
che i rumori che aveva udito li avevano fatti loro rientrando nel
maniero. Ma
ciò non accadde; e prima che potesse capire cosa stesse
accadendo, una forza
estranea, invisibile, l’attirò verso sé
al pari del serpente che esce
ondeggiando dalla cesta al suono del flauto del proprio padrone, ed
Emma si
ritrovò trascinata lontano dal letto, verso la porta della
camera, e poi fuori,
nel freddo corridoio, non completamente in controllo del proprio corpo.
Non
sapeva dove stava andando, non sapeva neanche perché si
stesse muovendo, ma al
momento la sua mente era annebbiata da una volontà estranea
e non era
abbastanza lucida da mettere in discussione l’urgenza della
sua passeggiata
notturna.
Si
ritrovò così a percorrere l’intero
corridoio fino a raggiungere l’estremità
opposta, laddove Caledon aveva riposato solo qualche notte prima, e che
adesso
era misteriosamente illuminato come se qualcuno fosse appena passato ad
accendere tutte le candele. Una delle porte era stata lasciata
socchiusa –
altra stranezza che Emma non si premurò di registrare subito
– e d’istinto la sua
mano scivolò sulla maniglia, spingendola in avanti per
spalancare l’uscio e
affacciarsi all’interno di una camera da letto esageratamente
illuminata, con
suppellettili bianche e dorate e pizzo in ogni angolo, avvolta dal fumo
inodore
di centinaia di candele
Incuriosita
si guardò intorno, avanzando di qualche passo e cercando di
ignorare la sgradevole
sensazione di estemporaneità che emanava ogni oggetto della
camera – finché una
voce improvvisa non la gelò sul posto.
«Anne?»
Emma
si bloccò sulla soglia della porta, sorpresa e incerta,
poiché nell’entrare
nella stanza non aveva notato alcuna donna. «Chi siete voi?
Come siete entrata
qui?»
La
sconosciuta – adesso la vedeva bene – non la
degnò di una risposta. Si alzò
velocemente dallo sgabellino dello scrittoio, pallida e spaventata, con
i
capelli biondi scarmigliati e raccolti in una treccia – segno
che stava per
andare a letto – e si diresse verso di lei talmente tanto in
fretta, come se
scivolasse incorporea sul pavimento, che Emma indietreggiò
d’istinto,
spostandosi dalla sua traiettoria.
«Anne?»
Continuò a chiamare, con un tono sempre più
urgente. Si voltò di scatto verso
Emma, e i loro occhi si scontrarono per un breve istante –
eppure la
sconosciuta sembrava non vederla, come se fosse in trance, o cieca. Il
momento
passò e la ragazza allungò una mano verso il
pomello della porta, ruotandolo
fino a farlo scattare e spalancare l’uscio: si
precipitò nel corridoio come se
stesse fuggendo dal diavolo in persona, con il nome di quella Anne
ancora sulle
labbra.
Rimase
per un attimo indecisa sul da farsi – sarebbe stato
più saggio rinchiudersi
nella sua stanza, senza alcun dubbio, ma chi diavolo era quella donna
che si
aggirava per il maniero nel cuore della notte? – e
alla fine optò per andarle dietro, non fosse che per
scoprire come diavolo aveva fatto ad entrare a Pemberley.
Non
dovette inseguirla per molto: la trovò poco dopo,
inginocchiata in mezzo al
corridoio sopra quello che doveva essere – buon
Dio, no, non è possibile – un cadavere,
immerso in una pozza di sangue.
«Dio
mio, Anne», stava singhiozzando.
Emma
era talmente sconvolta che rimase immobile a pochi metri da lei,
pietrificata,
incapace di distogliere lo sguardo da quell’orrendo
spettacolo e ancor meno
abile di comprendere qualcosa. Nello sforzo di trattenere il grido che
premeva
contro la sua gola per uscire, si lasciò scappare un gemito,
e ciò fu
sufficiente per attirare su di sé l’attenzione
della sconosciuta.
«Guarda!»
Strillò quest’ultima, il volto furioso rigato di
lacrime e le braccia allungate
verso di lei a mostrarle le mani macchiate di sangue. «Guarda
che cosa ci ha
fatto!»
In che razza di
incubo era finita?
Cercò di indietreggiare, terrorizzata, ma la sua fuga si
interruppe quando la
sua schiena si scontrò con un corpo, e due mani forti
– incredibilmente forti –
si strinsero sulle sue braccia, facendola voltare bruscamente e
costringendola
a guardare il nuovo intruso.
«Già,
guarda che cosa ci ha fatto», ripeté lui, con un
sibilo gorgogliante che pareva
giungere dalle profondità stesse dell’inferno. Gli
occhi di Emma vennero
inevitabilmente attratti dal sangue che colava copioso da una larga
ferita che
gli apriva la gola da parte a parte, e andava a inzuppare un elegante
completo
scuro, da sera, come se l’essere – buon Dio, Emma
non aveva idea di come
chiamarlo – avesse appena partecipato alla cena del diavolo.
Fu quella vista a
farla strillare come non aveva mai fatto in vita sua, e persino lui
dovette
esserne sorpreso, perché rilasciò la presa sulle
sue spalle talmente
all’improvviso che lei crollò per terra, incapace
di reggersi ancora in piedi.
Anche
così, però, non si arrese – rimanere
ferma tra quei folli era la cosa più
sbagliata che potesse fare, così cercò di
allontanarsene, strisciando a fatica
sopra il tappeto che ricopriva l’andito, i piedi annodati
nella stoffa della
sua ingombrante camicia da notte. Respirava a fatica, con la bocca
aperta,
inghiottendo lacrime e gemiti; il cuore le batteva talmente forte che
pareva di udire i rimbombi dei
tuoni prima di un temporale, e sperò terrorizzata di
resistere e non perdere i
sensi fin quando non avesse trovato un luogo sicuro dove nascondersi in
attesa
del mattino, quando i signori Duncan sarebbero tornati alla tenuta.
Riuscì
a raggiungere le scale, e lì si rizzò in piedi a
fatica aggrappandosi al
corrimano: dopodiché volse le spalle a
quell’orrido spettacolo – forse nella
vana speranza che potesse scomparire una volta che ne avesse distolto
lo
sguardo – e si precipitò giù per le due
dozzine di gradini così velocemente che
sarebbe bastato mettere un piede in fallo per cadere e rompersi
l’osso del
collo.
Senza
ben sapere perché, d’impulso si diresse in
biblioteca – come se quello potesse
essere il luogo più sicuro di tutto il maniero.
Attraversando corridoi e
gallerie si accorse che ogni candela era stata accesa – da
chi, per l’amor di
Dio? – e ogni angolo del castello era illuminato a giorno da
migliaia di
piccole fiammelle: stranamente, questa luce non la rassicurò
per niente, anzi,
ebbe l’effetto contrario di accrescere il suo terrore. I
domestici non erano in casa, dunque chi diavolo si era preso la briga
di accendere ogni singolo candelabro?
Senza
fiato per la paura e per la corsa, Emma si fermò davanti
all’ingresso della
biblioteca. Si aggrappò alla maniglia d’ottone
come se fosse stata la sua
ancora di salvezza e spalancò di scatto la porta,
precipitandosi all’interno
dell’immensa sala certa – o meglio, speranzosa
– di poter essere al sicuro
dalle terribili creature che vagavano al piano di sopra. Ma quando
tuttavia
aprì gli occhi su quello che sarebbe dovuto essere il suo
porto sicuro, Emma
trattenne il fiato, sconvolta, e si portò le mani a tapparsi
la bocca per
seppellire l’ennesimo grido.
Oh Dio, ti supplico, pregò
silenziosamente, tra le
lacrime, fa’ che sia solo un sogno. Fammi
risvegliare!
Davanti
a lei si era presentato un incubo di fiamme e disfacimento. Un
terribile
incendio divampava dappertutto – il fuoco divorava
implacabile mobilio e
suppellettili, facendo schizzare scintille in ogni angolo della stanza,
e il
fumo acre saliva in nere e pesanti volute fino al soffitto a volta,
rendendo
l’aria irrespirabile.
Gli
occhi di Emma saettarono da una parte all’altra della
biblioteca, increduli e
terrorizzati; l’intera situazione era a tal punto fuori
dall’ordinario che la
fanciulla non riuscì neanche a
pensare a una soluzione per porre fine a quell’inferno. E,
dopotutto, che cosa
avrebbe potuto fare da sola? Miss Radcliffe era ancora impossibilitata
a
muoversi, e nel castello non c’era anima viva a cui chiedere
aiuto; forse, se
fosse riuscita a raggiungere le cucine e a prendere qualche secchio
d’acqua… Ma
prima sarebbe dovuta scampare al fuoco.
«Non
verrà nessuno a salvarti.» Una voce sconosciuta,
mai udita prima, si levò al di
sopra del crepitio delle fiamme, facendola sussultare. Apparteneva a un
giovane
elegantemente vestito che la fissava dal lato opposto della sala, ritto
contro
una colonna del camino, il viso ancora in ombra, nascosto alla sua
vista.
«Chi
siete?» Domandò Emma, tremante, cercando di
aggrapparsi a quel breve barlume di
realtà. «Come avete fatto ad entrare? Chiamate
aiuto, vi prego! La mia
istitutrice…»
Le
parole le morirono bruscamente in gola quando egli iniziò ad
avvicinarsi,
lentamente, e lei poté iniziare a distinguere vari dettagli
che prima le erano
sfuggiti: il suo abbigliamento era sì ricco ed elegante, ma
vecchio,
impolverato, e fuori tempo; i polsini e il colletto della camicia erano
ingialliti, e attraverso la giacca aperta si vedeva chiaramente la
macchia
scura che gli inzuppava il panciotto, nonché lo squarcio che
partiva dallo
sterno all’ombelico e che denudava persino la carne mutilata.
Emma
non riuscì neanche più ad urlare; si
limitò a fissarlo, agghiacciata, senza
staccare gli occhi da lui e lasciandosi sfuggire il lento e inquietante
sorriso
che prese forma sulle sue labbra livide.
«Sei
spaventata, fanciulla?» Chiese il giovane, andando a sedersi
con noncuranza su
una delle poltrone circondate dalle fiamme. Lei non rispose,
pietrificata dal
macabro spettacolo cui i suoi occhi erano obbligati ad assistere
– il fuoco,
come se non stesse aspettando occasione migliore, avviluppò
il giovane
trasformandolo in una torcia umana, eppure non un gemito provenne da
lui, non
un grido, non un richiamo d’aiuto.
Soltanto
un’ennesima battuta sarcastica, una voce cupa proveniente da
dentro le fiamme,
un assaggio di inferno. «Dovresti esserlo. È
saggio
avere paura.»
Il
grido che eruppe dalle sue labbra fu talmente forte e improvviso da
indolenzirle le orecchie. Malgrado fosse paralizzata dallo spavento
cercò di
indietreggiare, allontanandosi dall’oscena visione sulla
poltrona che aveva
iniziato persino ad emanare un puzzo di carne bruciata, ma si accorse
che era
impossibile: le fiamme avevano iniziato a circondarla, qualche lingua
di fuoco
le aveva lambito la camicia da notte, e il calore era asfissiante,
intollerabile. Strillò ancora, senza fiato,
strillò fin quando non riuscì più a
udire la sua stessa voce e la gola prese a dolerle dallo sforzo. Il
fumo le
aveva invaso la bocca, inaridendola, e gli occhi, facendoli lacrimare:
Emma
credette che sarebbe morta lì e ora, senza più
rivedere suo padre, o miss
Radcliffe, o Caledon. Per un attimo, stranamente – doveva
essere il suo
inconscio che si faceva beffe di lei – tale pensiero la
riempì di sollievo: non
si sarebbe dovuta sposare, in quel modo, sarebbe stata libera.
Ma
a quale prezzo? Poteva forse recare un tale dolore a suo padre, a
Caledon
persino?
No, decise, guardandosi intorno con
gli occhi sgranati, tossendo per liberare i polmoni da quel soffocante
e acre
miasma. No, non sarebbe morta. Non così,
non adesso!
Eppure
il suo corpo gridava pietà dal dolore, nello sforzo di
respirare attraverso il
fumo e di mantenerla sveglia, di non farla crollare; la gola bruciava a
ogni
colpo di tosse e ormai aveva l’impressione di avere cenere
dappertutto, tra i
capelli e tra i lembi della propria veste da notte. Cercò di
tornare indietro,
di raggiungere di nuovo la porta, ma le fiamme la circondavano da ogni
lato e
parevano volerla volontariamente imprigionare: non aveva più
alcuna via di
scampo.
In
quel caos infernale avvertì l’esatto momento in
cui il proprio corpo ebbe
deciso di abbandonarla; lunghi tremiti le percorsero le gambe, un
sottile velo
di sudore gelido le ricoprì la pelle e il cuore
accelerò al punto da sentirselo
quasi premere sulla gola, portandole via il già debole
respiro. Benché la sua
mente desiderasse con tutte le sue forze lottare per farla rimanere
sveglia, il
suo fisico non le fu d’aiuto. Si sentì crollare su
se’ stessa come un burattino
al quale delle forbici crudeli avessero tagliato bruscamente i fili, e
sarebbe
rovinata sul pavimento come un corpo morto se qualcosa – qualcuno?
– non avesse frenato
la sua caduta.
Fece
appena in tempo a rendersi conto che erano state due braccia ad
avvolgersi
intorno a lei con una presa solida e decisa, prima di perdere
definitivamente i
sensi.
___________________________________________________________________________
Note.
- Mére du
Soleil: L'ho tradotta in francese perché la
bambinaia era francese, ma in realtà questa è una
cosa che mia nonna mi raccontava da piccola per non farmi uscire fuori
casa di pomeriggio, in estate - probabilmente perché c'era
troppo caldo e non voleva farmi venire un'insolazione. Diceva che "la
mamma del sole" mi avrebbe portato via, perché era cattiva
eccetera, e che di solito si manifestava nelle api - ah, cara vecchia
saggezza popolare - e quindi, niente, mi convinceva a stare dentro
casa. L'ho trovata una cosa carina da aggiungere, fa molto "tempi
antichi", no?
- Il titolo del capitolo è un palese riferimento alla strofa
di una canzone del musical The
Phantom of the Opera.
___________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Lo
sentite questo profumo? E'
il profumo di un capitolo appena aggiornato! xD
Comunque,
visto che siamo da
parecchio senza sentirci, innanzitutto, bentornate! E, a chi tra voi
è appena giunto su questi lidi, benvenuto! Aah, sono tanto
contenta di essere tornata con un nuovo capitolo *_* Ovviamente, se
sono riuscita a pubblicare entro quest'estate, dovete andare a
ringraziare la mia cara Christine23, che mi ha minacc-
pardon, volevo dire, ispirato ad andare avanti. u_u
Parlando
di cose serie: anche
se questa storia si trova nella categoria Noir, devo ammettere che
è in assoluto la prima volta che cerco di scrivere qualcosa
con dei temi così dark e misteriosi eccetera, e man mano che
si va avanti con la narrazione in teoria "the darkness"
dovrebbe crescere e crescere... Ma siccome sono alle prime armi, ecco,
voglio farvi sapere che accetto consigli di tutte le nature e che,
anzi, qualsiasi cosa possiate dirmi per indirizzare verso quel genere
la mia scrittura è ben accetto, ecco! Detto ciò,
spero che l'ultima parte del capitolo sia stata tutto sommato di vostro
gradimento - personalmente è la parte che preferisco, ne
sono molto orgogliosa in verità. *_*
Non
ho granché da
aggiungere: se avete dubbi o domande sentitevi liberi di farmele! Lo so
che non ho mai tempo per rispondere alle recensioni, ma ho facebook
sempre aperto, per cui se volete venire a trovarmi direttamente
lì siete tutti i benvenuti. :)
E
ora, una promessa: nel
prossimo capitolo faremo finalmente la conoscenza della "Bestia"! Lo so
che non vedevate l'ora ù__ù
Bene,
con la speranza di
essere all'altezza delle vostre aspettative, vi lascio! Ovviamente
ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Figlia di una Guerriera,
Jolly J, Eva7, Berserksgangr, Sylphs e Se7f - le vostre
recensioni sono una più bella dell'altra, siete splendide et
meravigliose e non so davvero che cosa farei senza di voi! *___* E un
grazie grande grande come sempre va anche a voi che seguite silenziosi,
miei cari lettori *_* Lo so che ci siete, anche se fate i timidi.
ù_ù
E
ora, bon! Si va a cena :D
Buon proseguimento di serata, buone vacanze e tante care cose! Ci
sentiamo al prossimo aggiornamento ;)
Vostra,
come al solito
Niglia.
|
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Capitolo 9 *** Chapter 8. The Man with No Face ***
8
The Man
with No Face
There is so much comfort in the darkness.
Aveva
sognato, quella notte, di essere ritornata ad Hambleton Abbey. Si era
ritrovata
all’improvviso nel verdeggiante giardino che circondava la
proprietà, all’ombra
degli ippocastani, le narici invase dal profumo dei rododendri, con il
calore
tiepido dei raggi del sole che invitavano ad abbandonare il riparo
delle mura
di casa e a trascorrere le giornate intere all’aperto. Il
lungo recinto di
siepi sempreverdi che correva intorno al perimetro di Hambleton
riparava la
veranda dal vento, ed era talmente lungo e fitto che doveva venir
potato ogni
giorno da una decina di instancabili giardinieri che usavano
interrompere il
loro lavoro e sfilarsi il cappello ogni volta che il conte passava loro
accanto
in silente supervisione, preceduto dai suoi cinque magnifici esemplari
di
Golden Retriever.
La
nostalgia rese il ricordo di Hambleton ancora più dolce e
straziante. Mentre
passeggiava per il giardino, con la placida lentezza che è
tipica del sogno,
poteva sentire lo zampillo della fontana sul retro – la
biblioteca dava
esattamente su quel lato del parco – e l’abbaiare
spensierato dei cani, e
persino, se tendeva l’orecchio, il rumore attutito di tappeti
che venivano
sbattuti da domestici indaffarati. Uno sbuffo d’aria
più prepotente di altri le
avrebbe poi portato il profumo delle leccornie che la cuoca sfornava
con una
rapidità instancabile – crostate, pudding, creme,
e ogni singolo dolciume che
la fantasia umana poteva inventare – e in quei momenti
sarebbe sgattaiolata
nelle cucine, di nascosto, per assaggiare qualcosa con la
complicità di Mrs.
Lacy, che in verità attendeva il momento in cui Emma avrebbe
varcato di
soppiatto la soglia del mondo della servitù, come usava fare
da bambina.
Il sogno si confondeva alle memorie, ed Emma
appariva e riappariva incomprensibilmente in ogni angolo di Hambleton,
guidata
dalla direzione che prendeva il suo subconscio. Adesso era nelle
stalle, a
porgere zollette di zucchero sul palmo della mano alla sua giumenta
preferita,
e il momento successivo si trovava in biblioteca, o nel salottino
privato di
lady Grantham. Là, con la coda dell’occhio, poteva
quasi vedere sua madre così
come amava ricordarla, intenta a leggere o rispondere alla
corrispondenza, con
quell’aria assorta e le labbra socchiuse a mormorare una
qualche musica
indistinta.
E
tutte le finestre e le vetrate erano spalancate, sicché ogni
stanza del
castello era illuminata dai raggi del sole, e il profumo dei vasi che
traboccavano fiori serpeggiava in ogni angolo, portando aria
d’estate. Sembrava
non esserci un solo angolo oscuro, ad Hambleton, a parte quella che era
stata
la camera da letto di Elizabeth e che era rimasta chiusa sin dal giorno
della
sua morte. Provava nostalgia anche per quella stanza, Emma, e nel sogno
vi
apparve al suo interno, e si ricordò di quando usava
infilarvisi per dormire
nel letto della sorella e sentire così meno la sua mancanza,
nei primi tempi
che avevano seguito la sua scomparsa.
Avrebbe
tanto voluto poter aprire gli occhi e ritrovarsi a casa, nella sua
camera
d’infanzia, con suo padre e sua madre e sua sorella e i dolci
di Mrs. Lacy e i
bonari rimproveri di Mr. Logan, a organizzare feste e pic-nic nel parco
e
dimenticare così tutte le tragedie che si erano abbattute
sulla sua famiglia…
Ma
Hambleton era lontana miglia e miglia, Hambleton era in lutto, e lei
non ci
sarebbe tornata per chissà quanto altro tempo.
Una
pezzuola bagnata, fresca, le tamponava con delicatezza la fronte; ma,
nel
momento in cui diede cenno di essere sveglia, quella piacevole frescura
cessò
bruscamente, ed Emma avvertì nel dormiveglia un fruscio e un
rumore attutito di
passi che si allontanavano rapidi. Confusa e ancora stordita dal sonno,
la
giovane sbatté le palpebre e dischiuse gli occhi,
ritrovandosi ad osservare la
struttura di un baldacchino ricoperto da tendaggi scuri e rovinati: le
ci volle
qualche momento per realizzare di non trovarsi nella sua stanza, e
quando
questo pensiero prese forma nella sua mente Emma si rizzò
bruscamente a sedere,
spaventata.
La
stanza in cui era stata trasportata nel momento in cui aveva perduto i
sensi
pareva qualcosa a metà tra un confuso ripostiglio e la tana
di una creatura che
non aveva nulla di umano, di naturale. Essa era enorme, circolare, e
aveva
l’aria di appartenere all’ala cinquecentesca del
castello, con le nude mura in
pietra grezza e l’assenza di carta da parati. La debole luce
proveniente da due
finestrelle poste in alto, vicino al soffitto, alla stregua di
feritoie,
scivolava sui spessi tappeti che ricoprivano il pavimento, sui
candelabri che
reggevano moccoli di vecchie candele, e su ninnoli e suppellettili di
ogni
forma, colore e dimensione che ingombravano ogni superficie disponibile
come se
ci si trovasse nel nido di una gazza ladra; ma ciò che
catturò davvero la sua
attenzione furono i numerosi ritratti appesi con cura alle pareti.
Scivolando
giù dal letto per avvicinarsi e saziare la sua
curiosità, e avvolgendosi la
coperta intorno al corpo poiché sentiva di avere il gelo
nelle ossa, Emma vide
che il soggetto ritratto non era altri che lei. E decine e decine di
altre se
stesse la fissavano da ogni punto delle pareti – bozze appena
iniziate o
disegni conclusi, a matita o a carboncino, nei quali lei sorrideva,
oppure
appariva seria, accigliata, distratta, o altri in cui era perfino
addormentata
– e lo spavento fu tale che dovette premersi le mani sulla
bocca per reprimere
un urlo, che si tramutò così in gemito. Qualcosa,
nello sfoggio inquietante di
quei dipinti, le riportò alla mente l’orrore della
notte prima, e la gravità di
ciò che le era successo la trafisse come un dardo.
Sì,
ora rammentava: ancora non aveva deciso se si fosse trattato di un
sogno o di
un’allucinazione – perché pensare che
fosse reale era una cosa inconcepibile – ma
ciò che era certo era che qualcuno nel castello doveva
esserci, qualche
intruso, qualche malintenzionato che vi abitava in segreto, e che per
forza di
cose doveva essere il responsabile del suo recente rapimento. Qualcuno
che l’aveva
spiata dal momento in cui aveva varcato la soglia di Pemberley
– il che
spiegava anche la sensazione di disagio che aveva provato fin
dall’inizio.
Cosa diavolo…
Un
fruscio leggero alle sue spalle interruppe il pensiero a
metà. Emma si voltò di
scatto, stringendosi addosso la coperta come se quel fragile tessuto
potesse
proteggerla da qualsiasi cosa si fosse celata nel buio, e strinse gli
occhi,
trattenendo il respiro mentre faceva vagare lo sguardo su quella che
apparentemente sembrava solo una stanza vuota. Ogni ombra le appariva
minacciosa, e mai prima di allora aveva provato una così
cieca e irrazionale
paura dell’oscurità; avrebbe dato ciò
che aveva di più prezioso per una sola
candela accesa.
«C’è
qualcuno?» Domandò, sforzandosi di non far tremare
la propria voce e di
assumere al contrario un tono autoritario. «So che siete qui,
vi ho sentito. Mostratevi,
se le vostre intenzioni sono oneste!»
Non
giunse alcuna risposta, tuttavia, e il silenzio accrebbe la sua
angoscia perché
ormai Emma aveva capito di non essere da sola in quella stanza.
Deglutì, udendo
i battiti del proprio cuore rimbombarle nelle orecchie come tuoni, e
indietreggiò lentamente, tornando verso quel letto che ora
le sembrava l’unico
angolo sicuro e adatto a fungere da rifugio.
Che
cosa avrebbe potuto dire, per spingere chiunque si stesse nascondendo
in quel
buio a uscire fuori, a venire da lei, a spiegarle perché
l’aveva portata lì? E se
aveva a che fare con un pazzo, o con un criminale – si
ricordava bene ciò che
le aveva raccontato Sir Arthur, a proposito della tragedia che
già una volta
aveva avuto luogo tra quelle mura, e sinceramente pregava di non fare
parte
della successiva – ebbene, come ci si aspettava che reagisse?
Che cosa voleva
da lei, per l’amor del cielo?
Lacrime
invadenti le inondarono allora gli occhi, rendendo sfuocato quel poco
che
vedeva dell’ambiente circostante. Non voleva piangere
– non voleva mostrarsi debole –
ma lo shock di ciò a cui aveva
assistito la notte prima, reale o meno che fosse, unito al terrore di
non
sapere che cosa sarebbe stato di lei, era troppo da sopportare
stoicamente e in
silenzio.
E
poi, proprio quando stava per perdere le speranze…
«Non
dovete avere paura», mormorò
all’improvviso una voce roca, priva di corpo,
inciampando sulle parole come se fosse trascorso parecchio tempo
dall’ultima
volta in cui aveva parlato.
Emma
si voltò verso il punto da cui le era parso che provenisse,
ma attraverso il
buio non riuscì a vedere né distinguere nulla.
Rimase immobile accanto al letto,
aggrappata ferocemente a una colonna del baldacchino come se
ciò potesse in
qualche modo servire a proteggerla. «Chi siete?»
Esclamò subito; una rabbia che
non credeva di poter provare la invase, rendendo la sua voce aspra e le
sue
parole seguenti impazienti e prive di indulgenza. «Fatemi la
cortesia di farvi
vedere!»
«Potreste
rimpiangere questa vostra richiesta, milady»,
ribatté mestamente la voce, che
stavolta sembrò giungere dal lato opposto della stanza come
se in effetti fosse
incorporea e inumana, e non costretta alle leggi della fisica di un
corpo
comune. Agitata Emma si voltò ancora, alla disperata ricerca
della fonte di quelle
parole, e fece persino qualche passo in avanti, ma i suoi movimenti non
dovettero piacere alla misteriosa presenza che la fissava da
chissà quale punto
imprecisato.
«No,
non muovetevi! Restate dove siete», sibilò
infatti, perdendo per un istante la
gentilezza che le era sembrato di avervi scorto. Obbedendo
istintivamente per
cercare di ingraziarsi chiunque egli fosse –
giacché non vi era alcun dubbio
che la voce fosse maschile – Emma rimase immobile, le mani
leggermente
sollevate con i palmi verso l’alto per dimostrare, ironia
della sorte, che non
aveva cattive intenzioni.
«Per
favore», insisté con maggior dolcezza, decisa a
venire a capo di quel mistero.
«Venite sotto la luce.»
Dopo
ogni sua frase seguiva un lungo silenzio, come se tutto ciò
ch’ella diceva
venisse accuratamente sezionato e studiato dal suo interlocutore alla
ricerca
di una falla, di un qualche significato nascosto, di
un’incertezza che
rischiasse di mettere fine a quell’eccentrica conversazione.
Pareva quasi che
fosse la voce ad avere paura di lei, e non il contrario –
cosa parecchio
assurda, se si considerava il fatto che era stata lei a venire rapita e
portata
in chissà quale anfratto del castello.
«La vostra parola», replicò
infine la voce,
ora mortalmente seria e con un pericoloso tono di avvertimento.
«Voglio la
vostra parola che non cercherete di fuggire. Vi rammento che adesso
potreste
essere in mani ben peggiori delle mie, se ieri notte non fossi venuto
in vostro
soccorso.»
La
giovane aggrottò la fronte, piuttosto perplessa – a
che cosa si stava riferendo? Di certo ciò che lei aveva
visto… che le
era sembrato di aver visto… doveva essere solo un sogno, non
era forse così?
– ma non commentò, decidendo che ci sarebbe stato
tempo in seguito per
approfondire quei dettagli. Dopotutto la notte era ormai passata, poco
importava in che modo, e ciò su cui doveva concentrare la
sua attenzione era
soltanto il momento presente. «Vi giuro che non
muoverò un solo passo», lo
rassicurò infine com’era ovvio, benché
il suo caro istinto di sopravvivenza le
avrebbe fatto sciogliere quella promessa in un battito di ciglia se la
situazione si fosse dimostrata assai più pericolosa di
quanto lei avesse previsto.
Dall’oscurità
giunsero allora degli altri fruscii, come se il proprietario di quei
sussurri
le stesse girando intorno, alla stregua di un avvoltoio, forse per
assicurarsi
che davvero ella non avrebbe cercato di scappare; continuando a restare
immobile con una forza d’animo notevole, Emma si
lasciò pazientemente osservare,
con la speranza forse che così facendo l’uomo le
avrebbe ricambiato la
cortesia. Poi, dopo un silenzio carico di aspettativa ed angoscia, i
fruscii
cessarono: e, quando infine osò sollevare lo sguardo dalle
trame del tappeto
che aveva fissato con tanta insistenza, i suoi occhi incontrarono per
la prima
volta quelli di colui che l’aveva rapita.
Fu
incapace di soffocare il gemito spaventato che le salì in
gola alla sua vista. Pur
odiandosi per quella manifestazione di debolezza, Emma trattenne
bruscamente il
respiro e non poté fare a meno d’indietreggiare di
qualche passo: davanti a
lei, alto, cupo, avvolto di nero da capo a piedi, si ergeva
l’uomo. Non fosse
stato per l’assoluta mancanza di colore nel suo abbigliamento
e per una
maschera bianca che gli copriva il volto nella sua interezza lasciando
intravedere solo gli occhi, sarebbe potuto sembrare un qualsiasi
gentiluomo,
vista l’eleganza e la cura che pareva aver investito nel suo
aspetto. Eppure,
il solo fatto di non riuscire a scorgere la più piccola
porzione di pelle
rendeva la sua persona inquietante e istintivamente pericolosa, e fu
per questo
motivo che Emma tacque, impaurita e sconcertata.
Occhi
chiari, a quella distanza non avrebbe saputo dire se grigi o azzurri,
la
fissavano penetranti da sotto la maschera, omaggiandola con uno studio
altrettanto minuzioso di quello che gli stava dedicando lei.
«Ebbene,
milady», mormorò dopo un po’ la sua
voce, leggermente attutita dalla maschera. «Potete
dirvi soddisfatta adesso che mi avete visto?»
«Chi
siete?» Chiese lei di rimando, cercando di venire a capo di
quel mistero. Uno
sconosciuto si trovava in casa sua, si permetteva di rapirla e
rinchiuderla in
chissà quale stanza, e si prendeva gioco di lei mostrandosi
con quel ridicolo
travestimento… Le sue gambe cedettero, incapaci di reggerla
ancora, ed Emma si
lasciò cadere sul bordo del letto. I suoi occhi non
riuscivano a staccarsi
dall’uomo di fronte a lei, in piedi nel piccolo cono di luce
proveniente dalla
piccola finestra in alto, immobile e silenzioso mentre lasciava
tranquillamente
che lei lo osservasse fino a memorizzarne ogni più minimo
dettaglio.
«Sono
il padrone del castello», fu infine la sua pacata risposta,
annunciata come
fosse un semplice dato di fatto impossibile da contraddire.
Quelle
parole, che Emma trovò oltremodo arroganti, la riscossero
dal torpore e
risvegliarono in lei tutta la rabbia e l’indignazione che
aveva provato al suo
risveglio nel trovarsi in un letto che non era il suo. «Il
padrone? Come vi
permettete?» Sbottò irritata, incapace di
contenersi. «Mio padre è il
proprietario di Pemberley, signore. Forse avete preso questa casa a
vostra
dimora nel periodo in cui è rimasta disabitata, e non so che
genere di pensieri
possiate aver fatto, ma se volete evitare che vi faccia arrestare siete
pregato
di andarvene il prima possibile!»
In
quel momento, fu come se tutta l’aria della stanza venisse
risucchiata via per
lasciare il posto a una pesante tensione che rese quasi difficile
respirare.
Emma vide chiaramente qualcosa cambiare
nella postura dell’uomo, una certa rigidezza nelle spalle e
lungo le braccia, e
persino gli occhi parvero brillare di una luce estranea, aliena,
infernale. E
allo stesso modo lo vide lottare contro quel qualcosa che per un attimo
lo
aveva posseduto – egli strinse le mani a pugno con
così tanta forza da far
scricchiolare la pelle dei suoi guanti – e gli
sfuggì addirittura un gemito che
parve dolorante, prima che riuscisse a riacquisire la fredda
compostezza che lo
aveva caratterizzato dal primo momento.
Emma
non aveva idea di che cosa fosse successo, non avrebbe neppure saputo
spiegarlo, ma qualsiasi cosa fosse era di certo pericolosa e
terrificante –
anche lui ne sembrava scosso, d’altronde.
L’uomo
prese un profondo respiro prima di rispondere, e quando lo fece a Emma
parve di
udire la sua voce tremare appena. «Vostro padre, signora,
ha acquistato una dimora che non è mai stata in
vendita»,
riprese, con un gelido autocontrollo che la terrorizzò
più di un accesso d’ira.
«Pemberley mi appartiene per diritto di nascita, e sappiate
che non la cederò a
nessuno finché avrò vita. Vi sono cose, tra
queste mura, talmente orribili che
vi farebbero perdere il senno, e che solamente io conosco e sono in
grado di
tenere a bada… Come peraltro dimostra la vostra disavventura
della notte
scorsa. O avete forse già dimenticato? No, certo che no, ma
preferite credere
che si sia trattato di un incubo piuttosto che accettare che ogni cosa
che a
cui avete assistito è stata reale come lo siete voi, e come
lo sono io. Credete
pure ciò che volete, ad ogni modo… non
è per questo che vi ho portata qui.»
L’uomo
fece un passo in avanti, e il movimento fu tanto repentino che Emma
gemette,
spaventata, e si spostò bruscamente al lato opposto del
letto, cercando di
mantenere una certa distanza tra sé e lo sconosciuto.
Sorpreso a sua volta
dalla reazione della giovane, e forse persino offeso da essa, egli si
fermò,
rimanendo immobile come fa il cacciatore per non spaventare il
cerbiatto. «Vi
ho già detto che non dovete avere paura di me»,
ripeté mestamente, con una
pazienza e una strana gentilezza impossibili da spiegare.
«Come
posso non avere paura», ribatté Emma, mascherando
con la rabbia il proprio
timore, «Se tutto ciò che so di voi è
che mi avete portata contro la mia
volontà in quella che suppongo essere la vostra camera? Non
vi conosco, eppure
voi dovete conoscere me, a giudicare dai miei ritratti che abbelliscono
le
pareti. Da quanto tempo abitate in questo castello, signore, e da
quanto tempo
mi spiate? E come se non bastasse, vi prendete gioco di me con quel
ridicolo
travestimento… Abbiate il coraggio di mostrarmi il vostro
viso!»
«Purtroppo,
milady, questo è qualcosa che non posso fare»,
replicò lui con il medesimo tono
utilizzato in precedenza; sembrava quasi che soffrisse
nell’essere costretto a
contraddirla. «E vi prego di non chiedermelo più,
per il mio e il vostro stesso
bene.»
«Allora,
vi prego, rispondete a un’altra domanda»,
insisté Emma, facendosi più
baldanzosa man mano che vedeva che il suo misterioso ospite non
sembrava
volerla aggredire in alcun modo. «Perché mi avete
portato qui? Siamo ancora nel
castello, giusto? Ebbene, perché non vi siete limitato a
riportarmi nella mia
stanza?»
«Mmh.
Sì, suppongo… Suppongo di dovervi una qualche
spiegazione», iniziò con fare
esitante, guardandosi intorno come se la risposta giacesse su un
qualsiasi
suppellettile. «Io… Ecco, ho ritenuto fosse
più… prudente… portarvi in una
parte del castello dove non avreste corso il pericolo di essere
nuovamente
attaccata. Siamo nell’ala Ovest, se ve lo state domandando.
Qui potete
considerarvi al sicuro.»
«Mi
riesce difficile crederlo», replicò lei a mezza
voce, senza staccare gli occhi
da lui. Benché le sue parole cercassero in un certo di
essere rassicuranti, il
suo sforzo veniva malauguratamente reso vano da quella maschera, e
dall’insistenza con cui si ostinava a tenere nascosta la sua
identità.
«Non
ha importanza che mi crediate o meno», ribatté
l’uomo con aria improvvisamente
seccata. «Quel genere di fiducia arriverà col
tempo, spero.»
«Col
tempo… Che cosa intendete?»
Egli
raddrizzò la schiena e incrociò le braccia
davanti al petto, diventando se fosse
stato possibile ancora più intimidatorio.
«Rimarrete qui per sette giorni», le
spiegò con fermezza.
Emma
aggrottò la fronte, interdetta. «E trascorsi
questi sette giorni…»
«Sarete
nuovamente libera di andare dove vorrete e di tornare alle vostre
faccende, perché
tra una settimana avrete imparato a non temermi e, mi auguro, a trovare
interessante la mia compagnia. E allora tornerete di vostra
volontà a trovarmi,
e non ci sarà bisogno di ricorrere a questi ignobili
mezzi», aggiunse più
tristemente, come se non fosse del tutto certo che il suo piano avrebbe
avuto
un esito positivo e ne temesse, dunque, un tragico finale.
«Ebbene, che cosa
dite? Mi concederete questi sette giorni?»
«Io…»
Mordicchiandosi le labbra e torcendosi le mani, la povera lady Moore
non aveva
idea di quale risposta dare. Forse, se si fosse mostrata compiacente e
docile,
ogni cosa si sarebbe risolta; e poi, una volta passati quei sette
giorni,
sarebbe potuta fuggire dal castello – avrebbe cercato un modo
per portar via
anche la povera miss Radcliffe, che ancora giaceva malata a letto
– e andare a
chiedere asilo a Sir Arthur, in attesa che Caledon o suo padre
venissero a
prenderla… Sì, doveva soltanto avere pazienza,
essere forte; ma prima…
L’istinto
ebbe la meglio sul buonsenso, e senza pensarci una seconda volta Emma
sollevò
una mano, intenzionata a strappare quello stupido travestimento e a
fissare il
volto dell’uomo una volta per tutte; era sicura che, privato
della maschera,
egli avrebbe perduto la sua arroganza e sarebbe stato costretto a
confrontarsi
con lei da pari a pari, perdendo così la capacità
di ispirare quella sorta di
sacro terrore. Ma purtroppo il gesto non passò inosservato
ai suoi occhi
attenti, ed egli reagì prontamente prima che lei potesse
anche solo sfiorare
con la punta delle dita la porcellana della maschera.
«Che
cosa diavolo credete di fare?» Sibilò, la mano
stretta ferocemente intorno al
suo polso, come a voler dare maggior peso alle parole. «Ho
detto che non avrete
nulla da temere, milady, ma solo fintanto che lascerete questa maschera
al suo
posto!»
La
rilasciò bruscamente, spingendola e lasciandola ricadere
contro il letto. Si portò
le mani al volto con un gesto meccanico e angosciato, come per
accertarsi che l’inquietante
oggetto fosse ancora al suo posto, e quando comprese che nulla era
sfuggito al
suo controllo tornò a fissare i suoi occhi furenti su di lei.
«Non
mi importa della vostra risposta», ringhiò, con un
lieve tremito nella voce. «Rimarrete
qui perché io ho deciso così, e mi obbedirete, e
mi porterete rispetto! E che
Dio vi protegga se proverete ancora a toccare questa
maschera.»
Quando
uscì, richiuse dietro di sé la porta con un tonfo
tale che fece tremare i
cristalli del lampadario.
Mrs.
Duncan aveva trascorso tutta la notte insonne, girando e rigirandosi
nel
lettino della locanda incapace di prendere sonno. Che cosa stava
accadendo a
Pemberley, pensò, mentre lei era al sicuro a diversi
chilometri dal maledetto
maniero? Quale tragedia stava prendendo forma tra quelle mura, ora che
non
c’era lei a prendersi cura della nuova padrona?
La
lontananza, seppur breve in termini di tempo, le diede modo di
impiegare le
lunghe ore insonni della notte a riflettere su tutto ciò che
era accaduto negli
ultimi due mesi. L’arrivo di Lady Moore, e
l’improvviso via-vai di visitatori,
e il castello che si risvegliava come un mostro infernale dal suo lungo
letargo, pronto ancora una volta a nutrirsi di povere anime
innocenti… E lei,
sciocca che non era altra, che lo aveva permesso, che vi aveva
acconsentito!
Si
era affezionata alla ragazza, sì, come non avrebbe potuto?
Era giovane, era
sola, e anche se godeva della vita agiata di
un’aristocratica, a lei non era
sfuggita l’espressione triste perenne che ombreggiava quei
suoi begli occhi
ambrati, e che svaniva raramente a meno che non ci fosse nelle
vicinanze
quell’adorabile bestiola che si era portata appresso. Provava
un misto di
tenerezza e compassione per quella ragazza –
benché non potesse negare che
talvolta l’avesse trovata davvero irritante, con certi
atteggiamenti altezzosi
che sfoggiava probabilmente per fingere di essere in grado di gestire
una casa
e la sua servitù. Ma poteva davvero biasimarla? Aveva
trascorso abbastanza
tempo al servizio dei nobili per sapere quale genere di educazione
ricevessero
le figlie femmine, il cui unico scopo era di contrarre un matrimonio
che fosse
conveniente più per il nome della famiglia che non per il
loro benessere; sì,
aveva ricchezza e una vita comoda, ma non sarebbe mai stata padrona
della sua
vita, padrona di fare ciò che voleva, di prendere le sue
decisioni, perché
avrebbe avuto in ogni caso un uomo al suo fianco che le avrebbe prese
per lei.
E
in tutto questo, la povera Lady Moore non solo doveva essere
all’altezza del
matrimonio con quel giovane che era giunto a trovarla, qualche tempo
prima, ma
era anche finita nel mirino del mostro che governava il maniero di
Pemberley
come sovrano incontrastato. E lei, che pure si vantava di essere una
buona
madre e una cristiana devota, non aveva esitato a lasciarla alla
mercé delle
creature che infestavano il castello, preferendo fuggire come una
codarda
anziché dimostrare un minimo di solidarietà e
aiutare la giovane.
Non
sarebbe servito chissà quale sacrificio, a dire la
verità: sarebbe bastato
avvertire sia lei che la sua istitutrice del pericolo che correvano
nell’abitare a Pemberley, invece che mantenere il silenzio
per paura della
reazione del mostro, e forse adesso non avrebbe trovato tanto difficile
prendere sonno.
A
quel punto dubitava persino dell’aiuto che le era stato
promesso dalla
compianta Lady Nora, di cui non aveva notizie da settimane e che non si
era
data pena di metterla a parte dei suoi progetti. Certo, i morti non
andavano
disturbati né contraddetti, ma per l’amor di Dio!
Avrebbe potuto almeno avere
pietà di lei, e tenerla aggiornata!
Fu
la voce del signor Duncan a distrarla, riportandola alla
realtà di quel tiepido
lettuccio. «Basta, mia cara, non ci pensare»,
mormorò la sua voce impastata dal
sonno, preziosa ancora nel mare in burrasca che erano i suoi pensieri.
«Ormai è
troppo tardi per fare qualsiasi cosa.»
E
Mrs. Duncan, rotolando di fianco con un sospiro e cercando nel proprio
corpo un
riparo dalle sue colpe che non poteva trovare, non poté che
dargli ragione.
L’uomo
mascherato l’aveva lasciata da sola – Emma non
aveva idea di quanto tempo fosse
trascorso.
«Avrete
modo di riflettere», le aveva detto prima di andarsene, come
ripensandoci, con
quella voce roca che faceva venire i brividi. «E di abituarvi
all’idea di me.
So essere molto paziente, vedete, e quando capirete che non avrete
nulla da
temere… da me… Allora, allora
potremo
riprendere il discorso.»
Non
poteva rimanere con le mani in mano in attesa che l’uomo
tornasse e decidesse
che farne di lei; non si sarebbe arresa a quella sorte senza neppure
fare un
tentativo per sfuggirne. Per questo motivo mise a frutto le ore di
solitudine
che le erano state concesse, e mise a soqquadro l’intera
stanza alla ricerca di
un qualche oggetto da poter utilizzare come arma per aggredire lo
sconosciuto
qualora le sue intenzioni si fossero rivelate, in effetti, quelle di un
mascalzone.
Inoltre,
come se la natura stessa fosse giunta a darle una mano, aveva iniziato
a
piovere e ormai andava avanti da un bel po’, e
l’acqua che scrosciava
violentemente sulle mura e sui tetti creava un frastuono tale da
soffocare ogni
altro genere di rumore. Era il primo vero e proprio acquazzone della
stagione
invernale, nulla a che vedere con la pioggia sottile e quasi delicata
che era
caduta nelle settimane precedenti, e mai come allora Emma fu grata del
suo
arrivo: il trambusto dell’acqua che scorreva con la violenza
di una cascata giù
nelle grondaie in rame avrebbe coperto quei rumori che avrebbero potuto
denunciare le sue intenzioni all’uomo misterioso,
permettendole di coglierlo di
sorpresa e di assegnare un esito felice al suo piccolo piano.
Così,
quando la porta si riaprì e la sagoma del suo carceriere si
stagliò sull’uscio,
oscurando la debole luce proveniente dal corridoio, Emma
cercò di scivolare il
più silenziosamente possibile verso di lui, le mani strette
intorno al ferro
gelido del candelabro con la furia cieca della disperazione.
Accadde
tutto in meno di un attimo: probabilmente intuendo che c’era
qualcosa che non
andava nell’aria – non avrebbe saputo spiegare in
altro modo la prontezza dei
suoi riflessi – l’uomo si voltò rapido
verso di lei e con una presa salda e
decisa le imprigionò i polsi, torcendoglieli con forza in
modo da farle aprire
le mani e abbandonare la presa sull’arma improvvisata. Il
pesante oggetto cadde
per terra con un clangore metallico, rotolando lontano dalle due
figure; Emma
si lasciò sfuggire un urlo soffocato di dolore e un singulto
che era preludio
di un pianto, ma egli non se ne curò, strattonandola con
rabbia e spingendola
violentemente contro il muro. L’essere sbattuta con tanta
forza contro la
durezza della parete le strappò l’aria dai
polmoni, ed Emma boccheggiò senza
fiato, terrorizzata fin dentro le ossa.
Testardamente,
tuttavia, cercò ancora di divincolarsi dalla stretta e
sollevò un piede nel
vano tentativo di colpirlo, ma le gambe le tremavano e l’uomo
riuscì facilmente
a scansarsi, per poi infilare a sua volta una gamba tra le sue e
bloccarle ogni
genere di movimento futuro. Emma s’irrigidì a
quell’indecente vicinanza, ma
soffocò le urla che minacciavano di scapparle dalla bocca;
qualcosa le diceva
che gridare a quel punto sarebbe stato inutile, e avrebbe al contrario
ravvivato ulteriormente l’ira dello sconosciuto.
«Ora,
milady», sibilò quindi quell’oscura voce
ansimante, orribilmente vicina al suo
viso. «Che cosa credevate di fare?»
«Lasciatemi»,
riuscì a sussurrare, deglutendo a fatica. «Vi
prego, lasciatemi…»
«E
perché mai dovrei farlo, mh? Se non sbaglio avete appena
cercato di uccidermi!»
Le rinfacciò l’uomo con un tono vibrante che
andava ben oltre la semplice
definizione di rabbia, incastrandola tra il proprio corpo e il muro e
sollevandole le braccia sopra la testa tenendogliele ferme con
un’unica mano,
qualora le fosse venuto in mente di tentare di aggredirlo una seconda
volta. «E
guardatemi, quando vi parlo! Come, siete così coraggiosa da
tentare di
assalirmi ma non lo siete abbastanza da tenere gli occhi aperti in mia
presenza?»
Benché
l’istinto le suggerisse caldamente il contrario, Emma si
ritrovò a socchiudere
le palpebre e a posare lo sguardo sulla maschera bianca sospesa a poche
spanne
dalla sua faccia, con gli unici buchi degli occhi a donare un briciolo
di
umanità a quello che altrimenti sarebbe sembrato una sorta
di calco funebre.
Quegli occhi lucidi bruciavano di follia e collera e c’era
una luce, in essi,
talmente maligna che le fece domandare se per caso non si stesse
trovando al
cospetto del diavolo. Neri come pece e altrettanto densi, i suoi occhi
non
avevano nulla di umano o gentile; parevano finestre affacciate su un
abisso di oscurità.
Che strano, un pensiero la colpì
all’improvviso, unico barlume di lucidità in mezzo
alla confusione che aveva in
testa. Avrebbe giurato… ma con il buio
forse aveva visto male… che i suoi occhi fossero chiari?
«Ora»,
riprese lui, con quella voce bassa e raschiante. «Vi prego di
non fare nient’altro
di sciocco, milady. Sono venuto qui armato delle migliori intenzioni,
vedete, ma
come proseguirà la mia linea di condotta
dipenderà interamente dal vostro
comportamento.» Tacque, per fare in modo che le sue parole
penetrassero a fondo
nella testa della giovane, e poi riprese, con un tono assai
più minaccioso. «Dovete
capire, mia cara, che qui non siamo nel vostro mondo, dove basta una
vostra
parola o un vostro gesto per farvi obbedire da tutti; siete nel mio
dominio… Qui
le uniche leggi sono le mie, l’unico giudice sono io,
l’unico sovrano e l’unico
boia!» Aggiunse alzando pericolosamente il tono, chinandosi
per torreggiare con
la sua figura cupa e possente su di lei. «Farete bene a
ricordarlo prima di cercare
di aggredirmi una seconda volta.»
«Se
voi non mi aveste rapita», ribatté lei a mezza
voce, con un notevole sangue
freddo. «Io non vi avrei aggredito.»
I
lineamenti gelidi e immobili della maschera parevano prendersi gioco di
lei,
mentre essa celava come un prezioso tesoro le espressioni del suo
proprietario.
Le sue dita lunghe e sottili si strinsero attorno al suo collo,
premendo
leggermente in modo che lei comprendesse chi aveva il comando; non
pareva
volerle fare del male, non subito perlomeno, eppure non poté
fare a meno di
rabbrividire. Quella vicinanza era sconveniente sotto ogni punto di
vista, e servì
solo a rammentarle il fatto di essere completamente alla
mercé di un folle che
non aveva ancora chiarito ciò che aveva intenzione di fare
con lei.
«Siete
insolente», mormorò derisorio, piegando appena il
capo di lato come per meglio
osservarla. «Ma so che in realtà siete
pietrificata dal terrore. Sento il
battito del vostro cuore proprio qui», continuò,
premendo con delicatezza il
pollice nell’incavo della giugulare, rendendole difficile
respirare. «Sembra il
frullio delle ali di un uccellino in trappola… Non
trovate?»
Poiché
Emma non rispondeva, limitandosi a fissarlo con gli occhi sgranati,
egli
continuò imperterrito. «Ho cercato di essere
gentile, con voi, e mi avete
ripagato con questa reazione. Vi ho aperto la mia casa, siete stata
libera di
andare e venire a vostro piacimento, ho persino sorvolato sul vostro
ficcanasare e sugli avvertimenti che avete tanto bellamente
ignorato… E ora,
secondo voi, non mi merito neanche un briciolo di
gratitudine?»
«Gratitudine?»
Lo interruppe finalmente lei, deglutendo a fatica. «Gratitudine…
siete un pazzo! Quanto credete che ci vorrà prima che
qualcuno si accorge della vostra presenza e della mia scomparsa? I
domestici
andranno ad avvisare la polizia, e mio padre… mio padre e il
mio fidanzato
staranno di certo per arrivare al castello!»
La
breve e secca risata che provenne da sotto la maschera mise a tacere le
sue
deboli minacce. «Mia cara… Se sono pazzo,
è soltanto perché ho trascorso troppo
tempo da solo. Ma d’altronde cosa potete saperne, voi, di
solitudine», sospirò
amaramente. Le sue mani infine allentarono la loro stretta ed Emma
venne
liberata, non prima ch’egli avesse sfiorato con
un’ultima carezza la pelle nuda
del suo collo e la curva morbida dei suoi polsi.
Indietreggiò di qualche passo,
abbastanza da continuare a tenerla in suo potere e allo stesso tempo da
lasciarle l’illusione della libertà. Rimasero
immobili e in silenzio,
respirando affannosamente, incapaci di distogliere lo sguardo e
osservare altro
che non fosse la persona di fronte a sé.
«Non
vi chiedo molto», riprese l’uomo dopo la breve
pausa, abbassando il tono come
se ciò avesse potuto placare l’ira della giovane.
«Come vi ho già detto,
desidero soltanto la vostra compagnia. E se voi sarete gentile e
paziente, come
sospetto sia la vostra natura, non avrete di che temere: non
alzerò un dito su
di voi, a meno che non lo desideriate», il debole sorriso fu
quasi palpabile
nella sua voce. «Ma voi dovete promettere, e badate che le
promesse sono una
faccenda seria in questo castello!, che non alzerete un dito contro di
me e che
non cercherete di scappare. Finché mi tratterete con
gentilezza, avrete
gentilezza in cambio. Avete compreso?»
Emma
si ostinò a tacere, ma non c’era molto altro che
potesse fare per sfuggire intera
a quella situazione; così si limitò ad annuire
lentamente, piuttosto scioccata
e con la mente ancora più confusa di prima. Per
quanto tempo quel miserabile aveva intenzione di tenerla prigioniera
tra quelle
mura, in modo da soddisfare il suo desiderio di
“compagnia”? E che cosa si aspettava
da lei, esattamente? Non erano domande che avrebbe potuto
fargli, purtroppo,
anche perché nulla le assicurava ch’egli avrebbe
risposto con sincerità. Per cui
decise per il momento di assecondarlo, e di attenersi alle sue regole:
era l’unico
modo per essere al sicuro, a quanto pareva.
«Non
so neanche il vostro nome», mormorò incerta, senza
osare distogliere lo sguardo
da lui.
Egli
non rispose subito, forse valutando la necessità di metterla
a parte di quel
dettaglio; finché con uno strano verso gutturale che pareva
una sorta di
ghigno, disse: «Adam.» Il suo tono era forse troppo
ironico, ma lei non vi
diede peso, troppo scioccata nell’udire quel nome che aveva
letto solo una
volta, settimane prima, su una vecchia lapide ingrigita.
«Potete chiamarmi
Adam.»
Non
le diede il tempo di fare altre domande; se ne andò in
fretta, richiudendo la
porta e facendo ruotare con studiata cura la chiave nella serratura,
per tre
volte, di modo che lei comprendesse che non sarebbe stato per niente
facile
fuggire.
Emma
rimase nuovamente da sola, con l’ululare brusco del vento
come unica compagnia.
Huntly Street, Inverness
Venerdì 21 ottobre.
Mia carissima Emma,
Vi scrivo come
promesso appena sono giunto a destinazione, con la speranza che la mia
lettera
trovi voi e la povera miss Radcliffe in salute. Ah, la chiassosa e
invadente
presenza dei miei colleghi di studio già mi fa rimpiangere
l’atmosfera
familiare di Pemberley Manor che ho lasciato alle spalle,
nonché la dolce
compagnia della sua padrona di casa… Il ricordo della mia
breve visita mi ha
accompagnato durante tutto il viaggio in treno, mia cara.
E ora, lasciate che
vi distragga ancora un poco dagli studi – sono certo che miss
Radcliffe non me
ne vorrà. La pensione dove siamo alloggiati è al
limitare del paese, circondata
più dalla campagna che da altri cenni di attività
umana, e gli unici rumori che
ci svegliano al mattino e ci cullano il sonno la notte sono quelli
degli
animali che pascolano nelle vicinanze, placidi e senza alcuna
preoccupazione al
mondo. La finestra della mia stanza si affaccia esattamente sul fiume
Ness, e
gode di una visuale meravigliosa degna della più
strabiliante opera d’arte. L’edificio
è piuttosto antico, risalente probabilmente
all’epoca giacobita, in legno e
pietra, massiccio e in qualche modo primitivo: credetemi se vi dico che
mi
sembra di essere tornato indietro nel tempo, nel momento in cui ho
varcato la
soglia. Mrs. Baird, la signora che lo gestisce, in un primo momento non
aveva
l’aria di apprezzare fino in fondo questa vivace comitiva di
inglesi che hanno
praticamente assalito la sua casa, ma ci sono bastati pochi giorni per
conquistarla; adesso chiacchiera con noi volentieri, dopo cena, quando
ci
ritroviamo nel salottino davanti al fuoco, e da quando sono qui sono
venuto a
conoscenza di parecchie leggende scozzesi che sono certo adorerete.
Secondo Mrs. Baird,
abbiamo scelto un ottimo periodo per la nostra scampagnata. A quanto
pare, fra
qualche giorno – per l’esattezza tra il 31 ottobre
e il 1° novembre – gli
abitanti di Inverness saranno tutti presi a festeggiare Samhain, una
festività
pagana che coincide con l’antico capodanno celtico e il
cambio delle stagioni.
Persino il reverendo parteciperà ai festeggiamenti, ci
pensate? È una
ricorrenza talmente radicata nelle tradizioni di questi luoghi, che
persino i
cristiani più ferventi si sentono a loro agio nel
celebrarla. Ho come
l’impressione che Mrs. Baird non ci abbia raccontato proprio
tutto, e la colpa
è da attribuire ai miei amici che, assai poco sensibilmente,
si sono presi
gioco di queste antiche usanze. Se me lo permetterete, mia cara, un
giorno
vorrei tornare qui insieme a voi – sono certo che sareste una
compagna
d’avventure assai più gradevole.
Un’altra storia –
questa ve la devo proprio raccontare – mi ha colpito
particolarmente per la sua
ferocia, se così posso definirla. Come di certo sapete
capita, talvolta, che
nelle famiglie si abbatta la disgrazia della nascita di un figlio
deforme,
mostruoso nel corpo e malaticcio, che ha la sventura di sopravvivere al
parto; ebbene,
in questi luoghi la gente chiama questi bambini changeling,
in quanto la leggenda narra che siano state le fate maligne a rubarli
ai genitori e a sostituirli con uno dei loro. Mrs. Baird racconta, con
una
noncuranza disarmante, che questi bimbi vengono portati in cima a delle
colline
magiche e lasciati là al sorgere della notte, con dei fiori
e una ciotola di
latte per ingraziarsi la benevolenza del Wee Folk, e con la speranza
che
questi, mossi a pietà dal gesto, si portino via il bambino
malato e restituisca
quello che era stato rubato, presumibilmente sano. Inutile dire che
ciò non
avviene, in quanto la povera creatura muore durante la
notte… Riuscite a
immaginare una simile crudeltà, Emma, soltanto per
giustificare e porre rimedio
alla nascita di un figlio che non ha atteso le aspettative della sua
famiglia?
Mrs. Baird dice che
noi Sassenachs – significa “stranieri”
– non possiamo comprendere l’importanza
di queste tradizioni pastorali, e che neanche impegnandoci potremmo
cogliere il
valore che esse hanno radicato negli animi dell’intera
popolazione. Per quanto
mi riguarda, preferisco essere definito un ignorante straniero se
l’alternativa
è accettare così passivamente certe credenze:
ritengo impossibile, all’alba di
questo nuovo secolo, cullarsi ancora in simili superstizioni medievali!
Ah, sono costretto
ad interrompere così questa lettera – Murray, vi
ricordate di lui, non è vero?
Lo avete conosciuto al ballo di lady Schonberg, il giovanotto alto, con
capelli
biondi e lentiggini e l’audacia di rubarvi un ballo proprio
sotto al mio naso –
ebbene, mi chiama per la cena; credo che il programma per la serata sia
di
mangiare fuori, in qualche altro locale tipico del luogo.
Raccontatemi di
voi, mia cara Emma, rendete meno cupe le mie serate dandomi
l’opportunità di
leggere e rileggere le vostre splendide lettere. Come procede la vostra
vita a
Pemberley? Miss Radcliffe si è ripresa? Avete più
avuto visite dal vostro
interessante vicino di casa? Sapervi tutta sola in
quell’immenso maniero mi
rende nervoso e infelice, giacché preferirei essere mille
volte al vostro
fianco piuttosto che a miglia di distanza. Spero umilmente, dunque, che
la mia
lettera possa esservi di compagnia; e nell’attesa di ricevere
vostre notizie,
vi lascio a malincuore.
Con tutto il mio affetto,
sempre vostro,
Caledon T. Hardy
Adam
strappò ferocemente la lettera in tanti minuscoli
pezzettini, gettandoli poi
nel fuoco del camino senza alcun riguardo. La sua ospite non avrebbe
mai letto
quelle parole, per banali che fossero – non tollerava che
qualcun altro le
rivolgesse delle frasi tanto intime e affettuose, soprattutto se quel
qualcuno
altri non era che il patetico dandy che le aveva fatto visita, qualche
settimana
prima. Se non avesse avuto sue notizie, se avesse pensato di essere
stata
abbandonata dai suoi cari… ah, avrebbe potuto pensarci anche
prima! Allora
sarebbe stata di certo più bendisposta nei suoi confronti,
più sensibile alle
sue richieste, meno altera.
L’uomo
mascherato sbuffò, ripensando alla sciocca lettera.
“Sapervi tutta sola in quell’immenso
maniero…” Ah! Non poteva
sbagliarsi più di così! La fanciulla era tutto
fuorché sola, e ci avrebbe pensato
lui a tenerle compagnia – non aveva certo bisogno delle
parole vuote di un
giovanotto lontano. E poi, che irritazione tutto quel vago discorso sui
changeling e sulle leggende scozzesi…
Che cosa poteva saperne, un aristocratico viziato come lui, di
superstizioni e
maledizioni? E come osava prendersene gioco?
Se avesse saputo…
Se avesse anche solo lontanamente immaginato…
D’istinto
sollevò una mano e fece per portarsela al viso, ma le sue
dita sfiorarono
soltanto la gelida e sottile porcellana della maschera. Era talmente
abituato
ad indossarla, ormai – salvo quando era sotto il controllo
dell’altro, allora non aveva alcun
controllo
né potere sulla propria volontà – che
non la toglieva neppure nella solitudine;
soltanto quando dormiva, e il buio lo circondava come un confortante
bozzolo,
osava privarsene. Lui stesso era arrivato a temere ciò che
vi celava, e a
rifuggire ogni superficie riflettente – si era sbarazzato con
immensa
soddisfazione di ogni singolo specchio presente all’interno
del maniero, pur di
non capitare anche solo per sbaglio davanti a uno di essi. Ma se non
riusciva a
tollerare il proprio aspetto, come poteva sperare che lei… No,
era meglio non pensarci.
Raddrizzò
le spalle, fissando con insistenza gli ultimi frammenti della lettera
che si
attorcigliavano e si annerivano con deboli crepitii, morbidamente
divorati
dalle fiamme. I suoi occhi parvero di brace, nel riflettere la luce
calda del
fuoco: demoniaci, si sarebbero quasi potuti definire.
Lady
Emma avrebbe fatto meglio a iniziare a credere alle storie dei
fantasmi, perché
ci era finita dentro.
______________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
E come vi avevo
promesso, ecco a voi - finalmente,
dopo secoli di attesa - il caro vecchio Adam! Dunque, che
ne pensate? E' come vi aspettavate? Ho soddisfatto le vostre
aspettative o - mannaggia! - le ho deluse? Fatemi sapere, muoio
letteralmente dalla curiosità di sapere che cosa avete da
dire al riguardo. *__*
Non mi dilungherò oltre in quisquilie: mi limito a
ringraziare chi sta continuando a leggere, chi ha appena iniziato e chi
ha recensito lo scorso capitolo (un grazie particolare dunque a dachedas, Jolly J e NinaTheGirlWithTheHat).
Grazie, grazie, grazie mille per il vostro apprezzatissimo sostegno!
Non so come farei senza di voi :')
Come al solito, per domande, curiosità o altro potete
trovarmi su facebook.
:)
Ci si legge al prossimo capitolo, speriamo che non sia fra troppo
tempo! *Incrociamo le dita*
Un bacio e un abbraccio, sempre la vostra affezionata e grata
Niglia.
|
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Capitolo 10 *** Chapter 9. Persephone Escapes ***
9
Persephone Escapes
I
signori Duncan erano rientrati a Pemberley Manor nella tarda mattinata
del 26
ottobre, ormai certi di non correre più il pericolo di
incontrare qualcuna
delle anime in pena che attendevano quella particolare notte
dell’anno per
tornare ad essere visibili e cercare di terrorizzare gli abitanti
mortali del
castello. I due coniugi sapevano tuttavia che non era soltanto dei
morti che
avrebbero dovuto avere paura, quanto piuttosto dell’altro
inquilino con cui
condividevano il maniero, e che nel corso degli anni si era rivelato
assai più
pericoloso degli spiriti; ma per ora egli aveva il suo passatempo, e
ciò
avrebbe concesso loro un po’ di pace.
Ma a quale prezzo? Continuò
ciò nondimeno a domandarsi
Mrs. Duncan, il pensiero costantemente rivolto alla povera lady Moore.
Non
appena ebbe rimesso piede nel castello il primo istinto della donna fu
quello
di andare a controllare la stanza della giovane padrona –
vuota e gelida, come
aveva immaginato, con il letto sfatto e le braci fredde nel camino e le
tende
ancora chiuse – e poi salire in quella di Miss Radcliffe,
dove l’istitutrice,
ancora sotto l’effetto delle polveri che la signora Duncan
aveva iniziato a
somministrarle già nella settimana del loro arrivo, dormiva
ignara il sonno
dell’incoscienza.
Sembrava
infine che il piano del padrone fosse
perfettamente riuscito: ora rimaneva da vedere fin quando egli aveva
intenzione
di portare avanti la farsa.
Il
giorno dopo, mentre Margareth Duncan e Lydia erano impegnate a
spolverare di
buona lena l’immenso ingresso del castello, dalle scale alle
ringhiere, dai
candelabri ai vasi e dalle statue alle finestre, quasi a voler
scacciare con la
pulizia infauste presenze – in tutto il piano terra
risuonò il suono assordante
ed elettrico del campanello, che per un attimo le lasciò
stordite e confuse; la
signora Duncan si era dimenticata quanto tempo fosse trascorso
dall’ultima
volta in cui l’aveva udito, mentre Lydia da parte sua era
convinta di non
averne mai avuto il piacere.
Posando
dunque lo straccio e cercando di darsi una sistemata
all’acconciatura
scarmigliata e alla gonna impolverata, la governante
attraversò rapida l’atrio
e raggiunse il portone, togliendo i vari catenacci prima di spalancarne
un’anta. Quando i suoi occhi si posarono
sull’inattesa persona di Sir Arthur
Carlisle, amico per così dire della sua giovane padrona, la
donna dovette usare
tutto il suo ferreo autocontrollo per non manifestare il disagio e
l’irritazione che quella visita aveva risvegliato.
«Buongiorno,
Sir Carlisle», lo salutò dunque con un breve
inchino, riuscendo persino ad
accennare un sorriso. «Chiedo scusa per le condizioni in cui
mi trovate, ma
stavamo riordinando; desiderate?»
Senza
attendere che la donna lo facesse entrare, egli la scansò
gentilmente e fece
qualche passo all’interno della casa, levandosi il cappello e
fermandosi quasi
subito non appena vide di essere capitato in piene pulizie.
Accennò un saluto a
Lydia, che tornò rapidamente alle sue faccende, e poi si
rivolse di nuovo a
Mrs. Duncan. «Sono venuto a trovare lady Moore. È
in casa, suppongo?»
Mrs.
Duncan non batté ciglio. «Oh sì,
signore, ma non può ricevere visite:
sfortunatamente, milady è indisposta. Non è scesa
neppure per colazione, e io e
Lydia ci stiamo prendendo cura di lei. Solo un’infreddatura,
normale in questa
stagione… Forse è meglio che torniate un altro
giorno.»
Sir
Carlisle appariva ben poco convinto, ma non era in suo potere forzare
la mano
alla governante e imporsi alla padrona di casa senza essere desiderato.
Diede
un’occhiata intorno nel foyer deserto e annuì
brevemente, pensieroso.
«Desiderate che faccia venire qui il dottor Carew?»
«Oh
no, no, io stessa l’ho proposto a milady ma ha detto che non
era il caso di
scomodarlo. Davvero, signore, nulla di cui preoccuparsi»,
insisté Mrs. Duncan. Poi,
vedendo che il gentiluomo indugiava ancora e si guardava attorno con
aria
assorta, la donna continuò.
«C’è qualcosa che volete che riferisca a
milady?»
Egli
si riscosse dai suoi pensieri e tornò a dedicare
l’attenzione alla governante,
annuendo appena. «Mh, sì. Potete dire a lady Moore
che ero venuto a invitarla a
pranzo ad Ashfield, giacché mia moglie desidera fare la sua
conoscenza; ma che
considerate le sue condizioni di salute, forse dovremmo fare un altro
giorno.
Sì, potete riferirle questo, e ditele anche che le auguro
una rapida
guarigione.»
«Molto
bene, signore, glielo dirò», garantì
Mrs. Duncan. «Sono sicura che milady
apprezzerà l’invito.»
«Sì…
sì. Molto bene. Credo sia ora di andare, ho già
disturbato a lungo il vostro
lavoro», disse infine con un breve sospiro. «Grazie
per la vostra pazienza.
Buongiorno.»
Indossò
nuovamente il cappello e ne sfiorò il bordo in segno di
saluto, dopodiché
lasciò le due domestiche alle loro faccende. C’era
ancora qualcosa che non gli
tornava, in realtà, ma che cosa avrebbe potuto fare?
Insistere di vedere lady
Emma sulla base di un discutibile istinto e contagiato dalle sciocche
superstizioni che si sussurravano al villaggio?
Si
era allontanato solo di pochi passi quando, obbedendo a uno strano
impulso che
non seppe spiegarsi, si fermò all’improvviso e si
voltò verso il castello,
studiandone la facciata con aria assorta. Per un po’ non
trovò nulla di strano
– solo la stanca pesantezza di un edificio sul quale
gravavano secoli di
storia, così antico che avrebbe di sicuro visto
l’ascesa e la caduta di
numerose altre generazioni, circondato da un cupo cielo grigio di
ottobre denso
di umidità e da un’aria di inevitabile mistero.
Onestamente, non era difficile
comprendere come mai fosse al centro di così tante storie
del macabro e
dell’occulto – ma, per sua natura, Arthur Carlisle
si vantava d’essere un uomo
dall’animo scettico.
Eppure
sussultò quando, in una delle finestre più alte,
forse quarto o quinto piano, il
suo sguardo notò qualcosa. Un’ombra, la vaga
sagoma di una figura umana – da
quella distanza non avrebbe potuto essere più chiaro
– e poi il rapido spostamento
di una tenda che veniva richiusa bruscamente. Nulla di così
allarmante, in
fondo, poteva trattarsi di uno dei domestici… Ma
ciò non spiegava il motivo
della maschera bianca.
Guidato
da un brutto presentimento, e cercando di ignorare
l’improvviso brivido che gli
aveva percorso la schiena, sir Arthur diede di nuovo le spalle a
Pemberley
Manor e raggiunse frettolosamente la sua automobile. Un’idea
si era fatta largo
nella sua mente, e aveva ogni intenzione di realizzarla.
Al
suo risveglio Emma trovò una calda colazione ad aspettarla,
posata sul comodino
accanto al letto. Alcune candele erano state accese, in modo che
potesse
probabilmente trovare conforto nella luce, e su una poltrona era stato
adagiato
un abito da giorno: chiunque lo avesse preparato, e ormai ne aveva una
chiara
idea, doveva aver frugato nel suo armadio, giacché lo
riconosceva per essere
uno dei suoi. Non lo aveva ancora indossato da quando si trovava a
Pemberley –
non era nero, tanto per cominciare, e lei era moralmente obbligata a
portare il
lutto intero per almeno altri quattro mesi – il che le fece
supporre che il suo
ospite, o carceriere che dir si volesse, desiderasse vederglielo
indosso.
Per
quanto l’idea di indispettirlo e ignorare l’abito
la tentasse, non avrebbe potuto
fare diversamente: a meno che non volesse continuare ad indossare la
camicia da
notte per i seguenti sette giorni, dato che non le era possibile
raggiungere la
sua camera e i suoi averi, avrebbe dovuto limitarsi a sopportare i
voleri di
quel miserabile. Si alzò dal letto estraneo –
pensare di aver dormito nel
giaciglio di un uomo era terribilmente imbarazzante, e non aveva
intenzione di
sprecarci un altro pensiero – e si avvicinò al
tavolino: il profumo del tè
aveva risvegliato la fame che le serrava lo stomaco, e
rammentò di essere
digiuna probabilmente da più di un giorno.
Ma
la fame passò nuovamente in secondo piano quando vide che
sul vassoio, posato
contro la teiera, c’era una lettera con il suo nome sopra.
Incuriosita più
dalla natura del contenuto che non dal mittente –
giacché non aveva dubbi che
si trattasse dell’uomo mascherato – prese il foglio
e lo dispiegò,
avvicinandolo alla fiamma della candela per distinguere meglio
ciò che vi era
scritto. Una prima occhiata alla calligrafia le bastò per
svelare il mistero
del biglietto che aveva trovato nella sua stanza, qualche settimana
prima, e
che aveva avuto la malaugurata idea di bruciare: dunque era stato
sempre lui ad
averle lasciato quella frase di Barbablù come monito
– quella scrittura spigolosa
e sottile, da bambino, leggermente inclinata verso destra da una mano
molto
probabilmente mancina, e l’eccentrico inchiostro rosso erano
inequivocabili.
Milady, iniziava la lettera.
Mi auguro che
abbiate dormito meglio della notte scorsa. Mi rendo conto che avete
dovuto fare
i conti con una realtà ben strana in così poche
ore, e che questo può aver
inciso sulla nostra conoscenza e reso il nostro primo incontro poco
gradevole;
per questo motivo vi invito a prepararvi non appena leggerete questa
nota – vi
informo che avete dormito tutto il giorno, e che non ho osato
svegliarvi poiché
avevate sicuramente bisogno di riposare.
Ah: accanto al
letto, dietro una tenda, troverete la sala da bagno. Mi sono assicurato
che ci
sia tutto ciò di cui potete aver bisogno, per cui mettetevi
pure a vostro agio.
Per cena sarete mia
ospite: verrò a prendervi un’ora e mezzo dopo il
vostro risveglio.
Il vostro amico,
Adam
«Sono
finita nelle mani di un pazzo», sussurrò Emma
scioccata, rimettendo a posto la
nota sul vassoio. Ora, la fame le era passata del tutto:
fissò con improvviso
sospetto la teiera – e se avesse cercato di avvelenarla, o
drogarla, per
poterla avere completamente alla sua mercé? Dubitava che
nelle intenzioni di
quel folle ci fosse quella di ucciderla, dato che in tal caso non si
sarebbe
preso la briga di prepararle delle banalità come cibo e
vestiti e l’occorrente
per la toilette, ma il solo pensiero di ciò che avrebbe
potuto farle
approfittando della sua incapacità di ribellarsi la faceva
inorridire. Che cosa
poteva fare?
Doveva
prendere una decisione al più presto, decidere in che modo
sarebbe stato meglio
affrontare l’uomo – Adam, diceva di chiamarsi, e
avrebbe fatto meglio a
prendere l’abitudine di rivolgersi a lui in quel modo,
giacché avvolgerlo nelle
tenebre di un’identità ancora più
misteriosa non avrebbe fatto che accrescere
il baratro di disequilibrio che già si era formato tra loro
– insomma, decidere
con quale approccio porsi. Come se non bastasse, poi, l’idea
della cena la
metteva in agitazione; sedere allo stesso tavolo con la stessa persona
che
aveva cercato di aggredire, e che l’aveva minacciata, e di
cui non conosceva le
intenzioni… Nulla di tutto ciò che aveva letto o
studiato era servito a
prepararla a un’eventualità del genere! Ma no,
doveva restare calma:
accalorarsi non sarebbe servito, anzi, aveva bisogno di tutta la
freddezza di
cui disponeva per poter rimanere lucida e studiare un modo per scampare
alle
sue grinfie e andare a cercare aiuto da qualche parte. Per cui,
l’unica
soluzione era assecondarlo: avrebbe ascoltato ciò che aveva
da dirle, gli
avrebbe fatto compagnia – che cosa
ridicola, santo cielo! – dopodiché, quando egli
avrebbe ormai pensato di averla
completamente in suo potere… lei sarebbe fuggita!
Infiammata
da quella nuova risolutezza, Emma prese una candela e si diresse verso
la
stanza da bagno.
Esattamente
un’ora e trenta minuti dopo il suo risveglio, Emma
udì tre colpi secchi alla
porta della camera – dubitava che fosse una richiesta per
entrare, quanto
piuttosto un modo per evitare di piombare dentro con il rischio di
trovarla
ancora mezzo svestita. O perlomeno questo
sarebbe stato ciò che avrebbe fatto un comune gentiluomo. Mormorò
un
“Avanti” senza molta convinzione, e subito
udì lo scatto della serratura che
veniva aperta con gesti che parevano impazienti.
Egli
entrò senza attendere oltre, fermandosi sull’uscio
e reggendo davanti al viso
un candelabro a tre braccia; a quella vista Emma si alzò
nervosamente dal bordo
del letto, lisciandosi le pieghe del vestito in un gesto che mal celava
la sua
angoscia, e osservando con la coda dell’occhio le ombre
proiettate dalle fiamme
delle candele sulla porcellana bianca della maschera, rendendola
grottesca e
raccapricciante. Sforzandosi di distogliere da essa la sua attenzione,
prese un
profondo sospiro; non avendo specchi non avrebbe saputo giudicare il
proprio
aspetto – vestirsi senza l’ausilio di una cameriera
era un’operazione oltremodo
scomoda e difficile, per non parlare dell’acconciarsi i
capelli – ma malgrado
ciò accennò un elegante inchino e
raddrizzò la schiena, con l’aria di chi si
prepara per la battaglia. Voleva apparire al meglio, quasi che con la
sua
raffinata disinvoltura avesse potuto intimidire il suo carceriere.
Se
anche lui trovò sospetto quell’improvviso cambio
di comportamento, così
mansueto, non lo diede a vedere – non che si sarebbe potuto
comprendere
qualcosa, dalle espressioni assenti della sua maschera. Il solo
guardarla la innervosiva,
ed era ormai convinta che quell’oggetto immobile fosse assai
più spaventoso e
inquietante di qualsiasi orrendo segreto l’uomo stava
cercando di nascondere.
Decise comunque di non coinvolgere quella maschera nella conversazione,
poiché
aveva capito che si trattava di un argomento che lui – Adam
– non trovava particolarmente di suo gradimento; e visto che
Emma era giunta alla conclusione di cercare di non indispettirlo
più del
necessario, non ne fece menzione né cercò ancora
di togliergliela.
Rimasero
ad osservarsi in silenzio per un tempo più lungo di quanto
raccomandasse
l’educazione, forse cercando entrambi qualcosa da dire che
rompesse il
ghiaccio. Ma Emma aveva la lingua pietrificata – non avrebbe
saputo dire
alcunché neanche se da ciò fosse dipesa la sua
vita – per cui fu lui a parlare
per primo, e la sua voce risuonò chiara e tonante
benché, in fondo, si fosse
limitato a mormorare. «Se volete seguirmi,
milady…»
Emma
deglutì e lo raggiunse in pochi passi, nascondendo le mani
tra le pieghe del
vestito: si era accorta di star tremando, e non voleva che lui se ne
accorgesse. Coraggio, sciocca, si
riprese mentalmente, ignorando i battiti feroci del proprio cuore. Fingiti
sicura di sé e padrona della
situazione come hai sempre fatto. Non sarà poi troppo
diverso dall’assistere a
un ballo mondano, giusto? Perlomeno qui devi fare i conti con gli occhi
avidi e
indagatori di una sola persona.
Lasciò
che l’uomo le facesse strada, seguendolo silenziosamente
attraverso gli scuri
corridoi dell’ala Ovest. Benché fosse
già stata in quella parte del castello,
Emma non poté fare a meno di considerare che, adesso, ogni
cosa le appariva
aliena, differente, come se la presenza del suo accompagnatore fosse
capace di
influire e modificare l’ambiente che lo circondava
– rendendolo macabro e
terrificante. Sollevò lo sguardo sulle volte e venne
ricambiata dalle
espressioni maligne e spaventose di gargoyle e mostri medievali,
scolpiti
probabilmente per scacciare oscure presenze dal castello: bocche
spalancate e
piene di zanne, volti mostruosi, bestiali, bulbi privi di iridi, ciechi
e che
tuttavia parevano seguirla nel suo cammino. Abbassò
rapidamente gli occhi, ma
ormai quelle figure erano impresse a fuoco nella sua memoria: di sicuro
le
avrebbe sognate. Dovette contraddirsi – non aveva mai messo
piede in quegli
anfratti, se ne sarebbe di certo ricordata.
L’ala Ovest doveva
essere molto più vasta di quanto avesse immaginato.
Stava
seguendo come una falena la flebile ma anelata luce del candelabro
ch’egli
teneva in mano, a scandagliare l’oscurità e aprir
loro un varco nel buio;
qualcosa, tuttavia, le diceva che Adam doveva essere ben capace di
vedere
attraverso di esso, e che quelle candele esistevano solamente a uso e
consumo
della sua ospite. Cercò suo malgrado di rimanere al passo
con lui, perché
l’idea di perdersi in quelle gallerie, di rimanere sola, era
intollerabile – e
persino la presenza minacciosa del suo carceriere era preferibile alla
solitudine.
Il
silenzio era una presenza ingombrante, rotto solo dal rumore dei loro
passi, ma
Emma non pareva intenzionata a spezzarlo: temeva di dire qualcosa che
avrebbe
potuto insultarlo o offenderlo – il suo umore era troppo
volubile, e poiché
egli aveva il coltello dalla parte del manico non voleva rischiare di
risvegliare la sua ira come quel mattino – e ad ogni modo che
genere di civile
conversazione avrebbe potuto tenere con l’uomo che
l’aveva rapita? Lasciandosi
sfuggire un sospiro rassegnato cercò di accelerare il passo,
dato che lui
l’aveva inconsciamente distanziata di diversi metri e pareva
proseguire a sua
volta immerso in chissà quali pensieri, arrivando a
dimenticarsi della sua
presenza.
Forse, pensò Emma con vago trasporto, avrebbe
potuto approfittare della sua
distrazione per fare dietro front e provare a fuggire… se
avesse corso come se
avesse avuto il diavolo alle calcagna, cosa poi non tanto lontana dalla
verità,
forse avrebbe potuto raggiungere l’ala Est, e da
lì a uscire da Pemberley
sarebbero bastati pochi passi… Ma avrebbe dovuto
fare i conti col buio, e
con l’abito che le avrebbe rallentato i movimenti, e con il
fatto che
fintantoché si fosse trovata entro le mura del maniero
sarebbe stata
inequivocabilmente prigioniera del suo proprietario. Inoltre, anche
ponendo il
caso che fosse riuscita a uscire dal castello, dove contava di andare
in piena
notte, a piedi e da sola, nel bel mezzo della brughiera?
Il
solo pensiero bastava a gettarla nello sconforto, e sospirò
ancora.
«Siamo quasi arrivati», disse a quel
punto la
voce profonda dell’uomo, probabilmente rispondendo al suo
sospiro e
fraintendendolo. Emma non rispose, e allora fu lui a sospirare; non
aggiunse
altro, limitandosi a voltarsi leggermente per accertarsi che lei lo
stesse
ancora seguendo, dopodiché proseguì.
Ciò
le provocò un brevissimo ma mesto sorriso: non aveva per
nulla intenzione di
rendergli le cose facili, e se lui credeva che si sarebbe arresa senza
neanche
una parola di ribellione, ebbene, era chiaro che ancora non la
conosceva.
Comunque
Adam aveva ragione: non mancava molto. Alla fine di
quell’ennesimo corridoio
egli si fermò davanti a una porta non diversa da tante altre
che avevano
superato; spostò il candelabro dalla mano sinistra a quella
destra e usò la
prima per abbassare la maniglia – dunque
aveva intuito bene, era mancino – per poi spostarsi
di lato e voltarsi
verso di lei. Le fece cenno di entrare per prima con quello che avrebbe
voluto
essere un gesto galante, ma che lei vide solo come il cenno del
carceriere che
intima al suo prigioniero di precederlo per evitare strani scherzi; e
quando
ebbe superato la soglia non poté fare a meno di sussultare
nell’udire il tonfo
minaccioso della porta che si richiudeva alle sue spalle. Cercando di
non
pensare al suo essere bloccata in una stanza insieme a un uomo di cui
non
conosceva neppure le sembianze, Emma si guardò intorno
studiando il nuovo
ambiente.
L’architettura
di quella che era una sala da pranzo si differenziava parecchio dal
resto del
maniero che aveva già avuto modo di vedere. Essa era un
piccolo gioiello di
puro stile Tudor, con arazzi che ricoprivano le pareti e complessi
intarsi di
rampicanti sui pannelli di mogano che rivestivano queste ultime, per
poi
convergere nel punto focale della stanza incarnato
dall’immenso camino in
pietra: le fiamme vivide e danzanti del fuoco illuminavano la stanza
creando
ombre che si allungavano come spettri su ogni superficie, dando vita a
una
strana atmosfera a metà tra il sogno e l’incubo.
Eppure,
la prima cosa che Emma notò non appena vi ebbe messo piede
fu che il tavolo era
stato imbandito lautamente per una sola persona. Era un tavolo piccolo
e
intimo, se paragonato a quello della sala da pranzo padronale dove
aveva
consumato i pasti da quando si trovava a Pemberley, ed era talmente
ricolmo di
cibo che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca persino
all’uomo più sazio della
terra: piatti pieni di frutta fresca e frutta secca si alternavano in
un’altalena di forme e colori, teiere di salse e vassoi con
patate bollite
facevano a gara a occupare più spazio, rametti di fiori
odorosi colmavano i
vuoti e le fiamme dei due candelabri posti a centrotavola illuminavano
le
stoviglie d’argento facendole brillare come preziosi tesori.
Tuttavia Emma
aveva lo stomaco strettamente annodato, e dubitava che sarebbe riuscita
a
mangiare qualcosa anche malgrado il suo digiuno.
L’uomo
la condusse verso il suo posto, scostandole la sedia davanti
all’unico punto
apparecchiato, e attese pazientemente ch’ella vi prendesse
posto; dopodiché,
con gesti fluidi ed eleganti, iniziò a servirla. Sotto lo
sguardo perplesso e
confuso della giovane, egli le versò il vino e le
avvicinò un vassoio da cui si
elevava un delizioso profumo – roast beef con patate dolci e
brandy, un piatto
che peraltro aveva già avuto modo di assaggiare grazie a
Mrs. Duncan. Si mosse
più per istinto che per bisogno, versandosi una piccola
porzione di roast beef,
e rimase poi ad osservare mentre il suo anfitrione si spostava per
andare a
sedersi a sua volta all’altro lato del tavolo, incrociando le
mani sulla
superficie lucida del legno.
Attese
per un po’, incerta, prima di parlare.
«Voi… Non mangiate?» Domandò,
senza
osare toccare il suo cibo. Malgrado tutto, le pareva una mancanza di
educazione
mangiare davanti a qualcuno che pareva ostinato nel suo digiuno
– senza contare
l’imbarazzo del venire osservata durante
l’operazione.
Eppure
egli sembrava tutto fuorché a disagio.
«No», fu la sua risposta pronunciata in
maniera quasi ironica. «Sarebbe difficile, considerando che
non ho intenzione
di togliere la maschera.»
Ah! – faceva
persino del sarcasmo.
Accarezzando con gli occhi tutto quel ben di Dio, un’altra
questione di non
scarsa importanza fece capolino tra i suoi pensieri. «Avete
preparato voi tutto
questo?»
Gli
sfuggì un breve riso soffocato. «Sono abile in
molte cose, milady, ma la cucina
non rientra in una di esse.»
C’era
qualcosa, nel tono della sua voce, nel modo che aveva di comporre le
frasi, che
lasciava intuire come la maggior parte di ciò che diceva
avesse un qualche
significato recondito, e con fini di dubbia moralità. Forse
era solo la sua
immaginazione a parlare, forse aveva letto davvero troppi libri come
spesso le
avevano rimproverato bonariamente sia Caledon che suo padre, ma
l’idea non
l’abbandonava. E, ancora, non osava prendere in mano le
posate e mangiare.
Egli
parve notare la sua ritrosia, ma se ne rimase offeso fu abbastanza
gentile da
non darlo a vedere. «Potete mangiare
tranquillamente», disse soltanto, a bassa
voce. «Non ho intenzione di avvelenarvi durante la
cena.»
Più
per una questione di principio – quale, non avrebbe saputo
dirlo – che per
timore di offenderlo ancora Emma prese in mano forchetta e coltello e
iniziò a
tagliare la carne invitante che l’attendeva paziente sul
piatto; voleva fargli
capire che non aveva paura di lui, o perlomeno voleva farglielo
credere, e
accettare il suo cibo era un modo come un altro per sostenere la sua
posizione.
Sempre in silenzio assaggiò il roast beef e le patate,
sorseggiò il vino e
provò il pudding, ma era più un piluccare nervoso
che una vera e propria degustazione della cena.
Sentiva
i suoi occhi addosso mentre masticava lentamente, gli occhi chini su un
punto
indefinito davanti a sé e le spalle rigide,
all’erta, quasi che temesse di
venire aggredita da un momento all’altro in
quell’attimo di vulnerabilità.
C’era qualcosa di terribilmente intimo nel mangiare davanti a
qualcuno; e la
faccenda della maschera rendeva il tutto ancora più
indecente, poiché aveva
l’impressione di essere spiata di nascosto in una situazione
che sarebbe dovuta
essere privata. Non sapeva neanche lei come descrivere quella
sensazione senza
apparire ridicola: sapeva solo che la faceva sentire a disagio.
Si sentiva come
Persefone, costretta a nutrirsi dalla mano del temibile Ade e
condannandosi
così a non poter più lasciare
l’Oltretomba.
All’improvviso,
Emma decise che il silenzio era durato abbastanza. «Ho una
domanda», esordì con
cautela, posando coltello e forchetta a lato del piatto. Aveva a
malapena
toccato il suo cibo, ma per quanto esso fosse delizioso e il suo corpo
lo
bramasse, la nausea e l’ansia che provava le impedivano di
mandar giù altro.
«Immagino
che ne abbiate molte. Vi prego», la invitò,
facendole cenno con una mano
guantata di parlare liberamente.
Oh sì, ne aveva
parecchie. Avrebbe
voluto chiedergli di miss Radcliffe, di Aramis, persino dei domestici
– che
fine avevano fatto i signori Duncan? Possibile che non si fossero
accorti della
sua assenza, o che non ne fossero interessati? Ma, prima di tutto, era
più
curiosa di sapere a cosa diavolo avesse assistito la notte prima,
quando lo
shock l’aveva fatta svenire come non le era mai capitato.
Così,
con un sospiro, la giovane si apprestò a dare voce a quel
pensiero che non le
dava pace. «Ieri notte… non so bene a cosa ho
assistito, ma… Sono sicura… C’era
un incendio, nella biblioteca? E quelle persone, santo cielo, chi
erano? Come
sono entrate qui?»
Adam
la osservò a lungo prima di parlare, probabilmente
riflettendo su quanto fosse
opportuno rivelarle; lo vide giocherellare con i gusci di alcune
noccioline,
schiacciandoli tra le dita fino a non lasciare che briciole e polvere,
finché
con un sospiro non riportò lo sguardo su di lei.
«Ci
sono cose che, milady, se ve le raccontassi, non vi farebbero dormire
la notte»,
esordì a mezza voce, con fare pacato. «E non
voglio che gettino ombra su una
cena piacevole. Vi basti sapere che ciò che è
accaduto la notte scorsa non si
ripeterà, e che finché sarete sotto la mia
protezione non avrete nulla da
temere.»
«Non
crederete che questo possa risolvere la faccenda»,
ribatté lei, sconcertata. «Sono
stata aggredita in casa mia, ho visto delle persone – persone
ricoperte di sangue, per l’amor di Dio
–
aggirarvisi liberamente e proferendo minacce, e voi mi dite che non ho
nulla da
temere? Per chi mi avete presa, signore, per una sciocca? Ho forse
l’aria di
esserlo?»
Emma
non vide l’improvviso irrigidimento che aveva avviluppato
l’uomo, ma non le
sfuggì la sfumatura gelida della sua risposta.
«Sapete che non è mia intenzione
offendervi. Non ho a cuore che il vostro benessere, e se vi dico che
fareste
meglio a dimenticare ciò a cui avete assistito non
è per prendermi gioco di
voi, ma per evitarvi di venire a patti con qualcosa che non potreste
capire.»
«Come
fate a dirlo? Mettetemi alla prova, parlatemene! O finirò
con il credere di
essere diventata pazza, e di aver avuto delle visioni che mi
perseguiteranno
finché avrò vita», insisté
lei, piegandosi istintivamente verso di lui come se
avesse potuto raggiungerlo e istigarlo a rivelare i suoi enigmi. Non
mentiva
quando parlava di pazzia, poiché quella era al momento
l’unica spiegazione
plausibile che riusciva a darsi; in che altro modo interpretare quelle
figure
oscene, uscite da chissà quale incubo, mutilate e grondanti
sangue e bruciate
vive che vagavano indisturbate nei corridoi di Pemberley?
«Non
vi siete ancora guadagnata il diritto di pretendere simili risposte da
parte
mia, milady», le rispose a quel punto, con un tono talmente
velenoso da farla ritrarre
d’istinto verso lo schienale della sedia. Un brivido la
percorse, e le rammentò
di quando le aveva fatto rimpiangere l’idea di aggredirlo
– poteva quasi
sentire ancora il fantasma delle sue dita intorno alla gola.
«Sono ancora io il
padrone, e mio è il privilegio di decidere di quali segreti
mettervi a parte.
Siete ancora scossa per tutto ciò che è accaduto,
ne sono consapevole, e non vi
biasimerò per questa vostra scarsa delicatezza; ma vi chiedo
di non farmi altre
domande al riguardo, perché non potrei
sopportarlo.»
«Voi non potreste sopportarlo? Mi state
chiedendo di accettare e basta un qualcosa che non comprendo e che mi
terrorizza», gli rispose piano e con altrettanta freddezza,
squadrando la sua
maschera bianca.
«Sì»,
ammise lui senza fronzoli. «E vi chiedo perdono. Ma non
c’è nulla che io vi possa
dire, al momento; eppure sappiate che, se avrò ragione a
potermi fidare del
vostro giudizio, prima o poi ve ne parlerò di mia spontanea
volontà... poiché
sapervi spaventata o addolorata per qualcosa di cui sono
involontariamente la
causa mi riempie d’angoscia.»
Emma
avrebbe voluto urlare dalla frustrazione. Credeva davvero che sarebbe
bastato
un po’ di carisma e fascino per ammansirla, per convincerla a
dimenticare? Se
c’era qualcosa che mal tollerava era venir trattata con quel
genere di
condiscendenza, come una bambina che non può comprendere i
discorsi degli
adulti e viene pertanto lasciata nell’ignoranza
più assoluta. Era faticosamente
riuscita a far perdere quel vizio a suo padre – che aveva
iniziato a trattarla
da pari solo durante la malattia della contessa di Grantham, quando
Emma si era
dimostrata più che capace di gestire situazioni drammatiche
– mentre con
Caledon la strada da percorrere era ancora piuttosto lunga,
benché egli
probabilmente si vantasse di avere un buon rapporto di uguaglianza con
lei; e
se non riusciva a sopportare quel comportamento da parte del fidanzato,
figurarsi se poteva subirlo dall’uomo che la teneva rinchiusa
e le imponeva la
propria presenza!
Probabilmente
il silenzio si era protratto troppo a lungo, perché fu di
nuovo la voce
dell’uomo a spezzarlo. «Ebbene, milady, non
rispondete?»
Emma
scosse piano la testa, senza guardarlo. «Come io non posso
costringervi a dirmi
qualcosa se voi non volete farlo, allora voi non potete impedirmi di
essere
infastidita e arrabbiata», ribatté sottovoce,
certa comunque che lui l’avrebbe
udita.
«Siete
arrabbiata con me?» L’incredulità nel
suo tono non celava alcuno scherno:
sembrava sinceramente sorpreso e desideroso di comprendere.
«Perché?»
«Perché?» Gli fece
inconsciamente il
verso. Poi, incapace di trattenersi oltre, esplose. «Ho
trascorso un’intera
giornata rinchiusa in una stanza che non mi appartiene, a domandarmi
quale
sarebbe stata la mia sorte, a chiedermi che cosa ne è stato
della mia
istitutrice, dei domestici, del mio cucciolo, e a ripercorrere minuto
per
minuto ciò che ho visto la notte scorsa,
sperando… sperando di poter contare su
di voi per avere qualche risposta sensata… E invece tutto
ciò che siete
riuscito a dire non ha fatto che confondermi ulteriormente e aggiungere
domande
su domande! E come se non bastasse, signore, il fatto che vi ostiniate
a
indossare quella maschera non contribuisce ad alleviare il mio
disagio!»
Stupida ragazzina
ingrata.
Adam
sussultò, mentre parole estranee rimbombavano nella sua
testa. Non si aspettava
di udirle così all’improvviso e in una situazione
di cui era sicuro di avere
l’assoluto controllo; prima di farsi prendere dal panico
distolse lo sguardo da
Emma e serrò gli occhi, cercando di riprendere il dominio
del proprio corpo con
dei profondi respiri. Intanto, però, la voce continuava,
sempre più minacciosa
e aggressiva, e a nulla servivano le suppliche silenziose
dell’uomo.
Non permetterle di
parlare in questo modo! Lei non sa niente, niente!
(Taci,
taci, oh buon Dio, taci, non osare dirmi cosa devo o non devo
fare…)
Guardati, sciocco,
guarda come ti stai facendo trattare! Le hai aperto la tua casa, le hai
offerto
protezione, e guarda come ti ripaga!
(Smettila…
vattene!)
All’improvviso
la voce si fece più morbida, suadente, parve accarezzarlo
dall’interno del cranio
e sfregarsi contro di esso come un gatto selvaggio che finge di fare le
fusa prima di attaccare e mordere la mano del padrone.
Lascia che venga
io, Adam. Lasciami solo con lei… le farò capire
con chi ha a che fare! E tu
avrai la coscienza pulita, come al solito, perché tu sai
quanto io tenga a te e
alla tua nobile morale…
(No,
maledizione, è mia ospite! Mia! Hai già avuto la
tua occasione, oggi, e l’hai
sprecata!)
Ha cercato di
ucciderci!
(Ah!
Puoi biasimarla?)
Maledizione a te, ruggì stavolta la voce,
con
rinnovata ferocia. Non discutere! Se non
sei capace di farti rispettare, lascia che lo faccia io!
(Ho
detto no! Tornatene nella tua tana e
lasciami in pace!)
Grazie
ad anni di esercizio e a un’invidiabile forza di
volontà, Adam riuscì a
racimolare abbastanza energia per mettere a tacere quel mostro che lo
divorava
come un cancro, e che albergava nel suo corpo alla stregua di un demone
che
godeva nel vederlo agonizzare. Ansimò quando udì
l’urlo di risentimento dell’altro,
gemito che misericordiosamente venne celato dalla maschera; ma il
dolore che
seguì la momentanea sparizione fu tale che
d’istinto si artigliò il petto
attraverso i vestiti, come se così facendo avesse potuto
arginare una ferita
interna ancora sanguinante. Doveva essere
veramente arrabbiato, rifletté confusamente.
«Mi…
mi dispiace, che la pensiate così»,
riuscì a dire alla fine con notevole
sforzo, rispondendo in ritardo al comprensibile sfogo della ragazza.
Quanto
a lei, Emma aveva assistito in silenzio a quello scambio senza poter
neanche
lontanamente immaginare che cosa stesse accadendo in realtà;
tutto ciò che poté
vedere fu l’uomo tremare come se stesse trattenendo
un’ira tanto grande e
mortale da roderlo dall’interno, e per un attimo –
breve e vergognoso – fu
divisa tra terrore e preoccupazione. Ma per quale motivo avrebbe dovuto
preoccuparsi? Per quello che poteva saperne lei, poteva trattarsi solo
di un
trucco – un trucco per impietosirla e renderla più
bendisposta nei suoi
confronti, nei confronti del povero sfortunato Adam che lottava con se
stesso e
non chiedeva che un po’ di comprensione.
Invece
di rispondere e continuare quello che sarebbe di certo sfociato in un
ulteriore
alterco, la giovane preferì passare ad altri discorsi.
«I vostri occhi sono
azzurri», riprese dopo una piccola pausa, in maniera quasi
accusatoria.
Non
potendo vedere le sue espressioni, Emma poté solo
immaginarlo mentre aggrottava
la fronte. «Mi complimento per il vostro spirito di
osservazione», mormorò,
perplesso dal rapido cambio d’argomento.
«Ero
convinta che fossero neri. Mi sono sembrati neri, questa
mattina», insisté lei,
ormai non più intimidita dal suo tono gelido e seccato. Era
come se, adesso che
aveva mangiato alla sua tavola, si sentisse all’improvviso al
sicuro – merito
forse dell’usanza antica di secoli secondo cui un ospite che
era stato accudito e nutrito sotto il
tetto del suo padrone di casa poteva considerarsi sacro.
«Al
buio vi saranno parsi scuri. Venite», disse poi, liquidando
bruscamente
l’argomento e portandosi dietro la sua sedia con
l’intento galante di
scostargliela. «Vogliamo spostarci in salotto?»
Sembrava
a sua volta deciso a non discutere con lei, e poiché Emma
non aveva ancora idea
di che cosa aspettarsi da lui né di come sarebbe stato
meglio relazionarcisi,
non poté che accettare il piccolo ramo d’ulivo.
Una
porticina, quasi nascosta tra i pannelli di legno, collegava a
mo’ di passaggio
segreto la sala da pranzo a un salottino più piccolo: esso
era dotato a sua
volta di un camino acceso, due poltrone, un tavolino quadrato con una
scacchiera le cui pedine erano pronte alla battaglia, un mobiletto
porta
liquori, altri arazzi e vari candelabri in ottone.
«Fate
attenzione ai gradini», l’avvisò con
solerzia la sua voce, proveniente da
qualche punto dinnanzi a lei. Presto la penombra del nuovo ambiente si
dissipò,
man mano che Adam accendeva le candele, ed Emma poté vedere
meglio ciò di cui
aveva solo indovinato le ombre. Ora notò un altro tavolo,
ricoperto da un
consumato panno rossiccio, su cui erano ordinatamente posati un mazzo
di carte,
un servizio da tè in argento e una scatola in legno che di
sicuro conteneva
sigari.
«Desiderate
del caffè?» Le domandò, accennando alla
teiera – ora lo notava –
fumante.
Sembrava che
conoscesse ogni suo gusto,
notò. «Sì, grazie.» Lo
osservò di sbieco mentre versava la bevanda bollente in
due tazzine, per poi lasciar cadere con sicurezza una zolletta di
zucchero in
quello che le porse. Sì, decise
aggrottando leggermente la fronte, decisamente
conosceva i suoi gusti. Dunque aveva trascorso davvero le
scorse settimane
a spiarla, e trovò assurdo riconoscere di non essersi mai
accorta di nulla.
Terminò
di bere il caffè e si sentì d’un tratto
più rinvigorita, più lucida: il calore
e il gusto leggermente amaro presero a scorrerle nelle vene rinforzando
la sua
determinazione. Senza aspettare un’altra parola dal suo
misterioso compagno si
avvicinò a una delle poltrone, e vide sulla seduta il
piccolo tomo grigio che
pareva non attendere che lei. Emma prese con gentilezza tra le mani il
volume
dalla copertina lisa e leggermente sbiadita, come di un libro stanco di
essere
letto, e lasciò scorrere gli occhi su titolo e autore con un
sopracciglio
inarcato: L’isola del tesoro, di
Robert Louis Stevenson.
«Uno
dei miei primi libri», le spiegò a mezza voce Adam
con un tono che pareva quasi affettuoso,
prendendo posto accanto a una delle poltrone in attesa che lei si
sedesse per
prima. «Vi dispiacerebbe leggerlo?»
Lei lo
guardò, perplessa. «Dovrei… leggere ad
alta voce?»
«Se
non vi aggrada, milady, l’alternativa è di
conversare con me.» Il suo tono
nascondeva un che di beffardo, ed Emma riuscì a cogliere
l’accenno di sfida in
esso: peccato che non avesse voglia di raccoglierla.
«Molto
bene», ribatté, piuttosto seccamente. Non aveva
intenzione di chiacchierare del
più e del meno con quell’uomo come se fosse stata
la cosa più normale del mondo,
fintanto che lo poteva evitare; inoltre, come aveva già
dimostrato la cena,
conversare con lui si era rivelata una cattiva idea. Voleva evitare di
dire
qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire il giorno seguente, se
possibile. «Stevenson,
dunque?»
Egli
non rispose, limitandosi a un cenno affermativo del capo, ed Emma prese
posto
sulla poltrona posta di fronte alla sua aprendo il libro direttamente
al primo
capitolo. Non aveva idea che il suo ospite nutrisse simili gusti in
fatto di
lettura – chissà perché si era fatta
l’idea che gradisse di più saggi o testi
filosofici e fisici piuttosto che romanzi da tempo libero – e
per un attimo tale
scoperta glielo rese assai più umano e rassicurante di come
lo avesse considerato
fino a quel momento. Quanto poteva essere cattivo un uomo che
apprezzava
romanzi su bucanieri e tesori nascosti e ragazzini spauriti?
Sollevò gli occhi
brevemente per accertarsi ch’egli avesse a sua volta preso
posto; e a quel
punto, poiché aveva infine scelto di rispettare la sua
decisione di assecondarlo, iniziò a leggere.
«“Il signor Trelawney, il dottor Livesey e
gli
altri gentiluomini mi hanno chiesto di mettere per iscritto tutti i
dettagli
riguardanti l'Isola del Tesoro, dal primo all'ultimo, senza omettere
nulla
salvo la posizione dell'isola, e questo solo perché una
parte del tesoro non è
stata ancora portata alla luce…”»
Per
tutta la durata della lettura, Emma sentì i suoi occhi
addosso come se fossero
state mani pressanti che sfioravano ogni centimetro del suo corpo. Si
trovava
in una situazione insolita con un personaggio ancor più
singolare, e
inizialmente non poté evitare alla propria voce di tremare e
inciampare in
qualche parola; era da parecchio che non leggeva per qualcuno
– le ultime volte
l’aveva fatto per sua madre, quando la donna era troppo
stanca e provata dalla
malattia per poter far altro che non fosse dormire e mormorare parole
di tanto
in tanto – e dunque aveva perso l’abitudine. Ma
presto, merito della trama
interessante del volume e della calma che si era impadronita
gradualmente di
lei, la sua lingua prese a scivolare abile su frasi e paragrafi e
capitoli
senza balbettare. In fondo, pensò, se questo era tutto
ciò che egli voleva da
lei non era poi così male.
Lei
certo non poteva saperlo, assorta com’era nel libro, ma Adam
l’ascoltava rapito
come se avesse potuto abbeverarsi di ogni suono che le usciva dalle
labbra, e
non staccava gli occhi da lei per il semplice motivo che, in quel
momento, la
ragazza gli appariva così bella che sembrava intagliata in
una perla; la luce
del camino creava una strana aureola dorata intorno ai suoi morbidi
capelli
d’un castano scuro, e il calore delle fiamme le aveva
arrossato le gote e la
piccola porzione di pelle tra gola e clavicole lasciata nuda
dall’abito che
aveva scelto per lei. Teneva il libro leggermente sollevato e la
schiena appena
curva su di esso, come se avesse voluto entrare nella storia stessa:
Adam
comprendeva quella brama, e fu deliziato nel ritrovarla in lei.
L’aveva
osservata spesso nelle settimane passate, mentre leggeva nella
biblioteca del
maniero, ma sempre da lontano, sempre da qualche nascondiglio, timoroso
di fare
il più piccolo rumore e disturbarla. E adesso invece le era
così vicino che se
avesse allungato una mano sarebbe riuscito a sfiorarla… non
che avrebbe osato
farlo, ma comunque… Il solo pensiero di esserne capace era
quasi sufficiente. A
un certo punto le parole del capitolo iniziarono a diventare confuse ed
egli
perse ogni interesse per il contenuto di quel libro che conosceva a
memoria, catturato
dalla melodia della voce di Emma e talmente concentrato da aver
inconsciamente
regolato il proprio respiro al suo.
E
per un attimo si immaginò mentre immergeva le dita tra quei
capelli per
saggiarne la morbida sericità, sfilando le forcine una per
una e lasciandole
cadere per terra, in modo che la sua chioma si liberasse in lunghe onde
castane
fino a ricoprirle spalle e schiena come un prezioso mantello; e poi
massaggiarle con le punte dei polpastrelli il cuoio delicato della nuca
per poi
scivolare lentamente e delicatamente verso il collo –
ricordava la sensazione
di averlo sotto le mani, solo che ora immaginava un altro tipo di
stretta, non
minacciosa, non letale, ma sensuale, lasciva. Socchiuse gli occhi e si
vide
mentre le sue dita le scioglievano i lacci del vestito e poi quelli del
corsetto, allentandoli e permettendo alla carne bianca di venire alla
luce come
un frutto maturo che viene sbucciato. Poteva persino udire il fruscio
della
stoffa mentre sfregava sulla sua pelle e scivolava con lentezza ai suoi
piedi… La
sua immaginazione plasmò impudentemente quel corpo che non
aveva mai osato spiare – benché il
suo desiderio fosse bruciante non sarebbe mai arrivato a tanto
– e gli diede
sostanza, colore, pienezza, fin quando non riuscì a
percorrere con gli occhi
della mente la linea sottile della sua spina dorsale, e le sue braccia
non si
avvolsero voraci intorno alla voluttuosità dei suoi fianchi.
Pensò a come
sarebbe potuto essere respirare il profumo dei suoi capelli e della sua
pelle,
e sentirseli piovere addosso nello slancio di una passione di cui
avrebbe
dovuto vergognarsi per il semplice averla desiderata…
Per
un attimo le immagini furono talmente vivide che dovette stringere con
forza i
braccioli della poltrona alla ricerca di un appiglio sulla
realtà, irrigidendo
le dita contro l’imbottitura al punto da farsi male. Non
poteva perdere il controllo. Se si fosse distratto, anche
solo
un momento – se avesse abbassato troppo la guardia allora
nulla avrebbe potuto
frapporsi tra lei e l’altro… E
come aveva dimostrato il breve episodio durante la cena, lui era
ancora troppo irritato
dall’incidente con il candelabro di quella mattina per
potergli permettere di prendere
il sopravvento. Sarebbe bastato un solo passo falso per guastare quella
labile
atmosfera di pacata e dubbiosa accettazione, e per quanto gli era
possibile
avrebbe cercato di evitarlo. Emma doveva innanzitutto imparare a
fidarsi di
lui, e poi, in seguito, forse… se
anche l’altro si fosse comportato
bene… Beh, ci avrebbe pensato allora.
Per
il momento preferiva tenere la ragazza tutta per sé.
Emma
smise di leggere solo quando il prezioso orologio a pendolo
suonò i primi
rintocchi della mezzanotte. Sorpresa, poiché non aveva idea
che fosse già
trascorso tutto quel tempo, sollevò gli occhi dalle pagine
del libro e si
guardò brevemente intorno prima di realizzare dove e
soprattutto con chi fosse.
Il silenzio era tale, nella stanza, che si udiva solo il crepitio del
fuoco, ed
Emma si era quasi convinta di essere sola: ma di fronte a lei
c’era ancora la
solida presenza di Adam, che aveva istintivamente distolto lo sguardo
non
appena lei si fu risvegliata dalla trance indotta dal libro.
Chiuse
il volume preoccupandosi di tenere un dito in mezzo alle pagine a
mo’ di
segnalibro, e raddrizzò la schiena per sgranchirla.
«Si è fatto tardi…»
Osservò
piano, mentre l’eco degli ultimi rintocchi si perdeva come
fumo nell’aria.
Adesso avvertiva una certa sonnolenza calare sulle sue membra,
benché avesse
trascorso tutta la giornata a sonnecchiare e rimuginare a letto: poteva
aver
dormito, ma di certo non aveva riposato. E adesso quella stanchezza
iniziava a
farsi sentire, unita all’effetto del vino che aveva
sorseggiato a cena e del
calore quasi soffocante del piccolo salottino.
«Ah…
sì», convenne lui, osservando brevemente
l’orologio a pendolo. Sembrava essere indeciso
su come concludere la serata, su cosa ci si aspettasse da lui in quanto
anfitrione. «Volete… mh… Volete
ritirarvi?»
Emma
annuì, sperando di non contrariarlo. «Sono
stanca», spiegò con cautela; la
magia della lettura pareva essere cessata insieme ai rintocchi, come in
una
delle fiabe che le leggeva Lizzie quando era bambina, e tutto
ciò che restava
adesso erano due sconosciuti che si fissavano come gatti impauriti e
diffidenti
dai lati opposti della stanza. «E quel vino rosso,
credo… Credo che mi abbia
dato un po’ alla testa.»
Si
alzò con movimenti goffi, come se non sapesse bene entro
quale spazio muoversi,
e poi si chinò di nuovo per posare il libro sulla poltrona,
palesemente a
malincuore.
«Oh,
no, potete tenerlo», si affrettò a dirle Adam,
alzandosi a sua volta e
accennando d’istinto un passo nella sua direzione.
«Se vi interessa, intendo.
Io lo conosco già a memoria.»
«Oh»,
fece lei. Riprese il libro e lo tenne con cura tra le mani, annuendo
appena. «Sì.
Vi ringrazio.»
Senza
più sapere che scusa inventarsi pur di trattenerla ancora,
Adam si avvicinò a
prendere uno dei candelabri e spense gli altri, dandosi una rapida
occhiata
intorno per controllare di non aver scordato nulla; lei lo
osservò con fare
distratto, accarezzando la copertina stranamente morbida del libro e
pensando
che, in fondo, la serata non era stata orribile quanto aveva
preventivato.
«Vogliamo
andare?» Le domandò a mezza voce, facendole cenno
di precederlo verso la porta.
Malgrado tutto gli fu grata che non le avesse porto il braccio
mettendola
nell’imbarazzante condizione di rifiutare – per
quanto potesse comportarsi da
gentiluomo, infatti, ciò non cancellava il modo in cui
l’aveva indotta in
quella stravagante situazione, e da parte sua aveva ancora parecchi
scrupoli. Tuttavia
lo seguì senza fiatare.
Stavolta
a Emma parve che avessero impiegato meno tempo per raggiungere la sua
camera da
letto rispetto all’andata, o forse era talmente immersa nei
suoi pensieri da
non aver prestato la medesima attenzione al tragitto. Le sembrava di
camminare
in un sogno, stordita e confusa, cercando la logica in un luogo che ne
era
privo; adesso l’intera serata le pareva avvolta
dall’ombra ovattata di una
visione, come se non l’avesse davvero vissuta in prima
persona ma attraverso
gli occhi di qualcun altro.
Sempre
con la medesima prospettiva osservò Adam fermarsi davanti
alla porta della
camera e spalancarla, attendendo che lei entrasse per prima –
più per timore che a lei potesse venire
l’idea di chiuderlo dentro e fuggire che per cavalleria,
pensò – per poi
seguirla e poggiare su un tavolino il candelabro.
«Questo
lo lascio a voi, potrebbe servirvi», puntualizzò,
indietreggiando di qualche
passo.
Emma
annuì, gli occhi puntati sulle fiamme danzanti delle candele
come ipnotizzata.
«Grazie», disse per l’ennesima volta; non
credeva che si sarebbe ritrovata a
ringraziarlo così spesso e nell’arco di
un’unica notte.
«Buonanotte,
milady», mormorò Adam con un inchino, prima di
voltarsi e raggiungere la porta.
Lo
scatto della chiave all’esterno risvegliò in lei
ciò che per un momento si era
concessa di dimenticare durante quello strano dopocena: la cupa
consapevolezza
di essere ancora prigioniera.
Prima di riuscire a prendere sonno – cosa
oltremodo difficile, dopo l’incredibile serata che aveva
appena trascorso –
Emma si ritrovò a riflettere a lungo e a fare un punto della
situazione. Il suo
primo pensiero andò ai signori Duncan, con particolare
interesse per la
governante: la giovane iniziava a dubitare, infatti, che i custodi
della tenuta
fossero completamente all’oscuro che Pemberley fosse abitata
da un personaggio
tanto insolito. Intanto era sempre più convinta che la cena
fosse opera di Mrs.
Duncan – iniziava a riconoscere il tocco della donna nei vari
piatti, benché
non avesse mangiato molto quella sera – e di certo se dietro
a tutto ciò ci
fosse stato effettivamente il suo zampino molte cose avrebbero avuto
una
spiegazione. A partire dal suo monito di evitare l’ala Ovest
il primo giorno in
cui era arrivata a Pemberley, per finire con la sua fuga al villaggio
proprio
la notte in cui lei era stata rapita… Buon Dio, miss
Radcliffe aveva avuto
ragione per tutto il tempo, avrebbero dovuto avvisare suo padre! E
adesso,
invece, era da sola, da sola in un castello maledetto in mezzo alla
brughiera,
con l’unica compagnia di un uomo mascherato e di domestici
ambigui che
chiaramente lavoravano per lui… Persino Caledon era lontano,
e sarebbero
trascorsi un’altra decina di giorni prima che il suo
fidanzato rientrasse dalla
Scozia!
Per la prima volta, avvertì tutto il peso
della disperazione e della solitudine gravare su di sé. Non
trovava alcuna via
d’uscita alla situazione, se non stringere i denti e
assecondare il suo
carceriere finché non si fosse stancato di lei e avesse
accettato di lasciarla
andare; oppure, oppure… L’alternativa restava
sempre la stessa, ossia cercare
un modo per fuggire. Ma come avrebbe potuto farlo, se lui non la
perdeva di
vista un solo istante e se la chiudeva a chiave in quella stanza senza
altre
porte né finestre?
Si addormentò piangendo, vinta più dalla
stanchezza delle lacrime che dal sonno vero e proprio. E rimase
così per poche
ore, cullata da strani rumori provenienti da qualche punto sopra o
tutt’intorno
a lei – rumori di oggetti striscianti e ululati che avrebbero
potuto
appartenere ad animali o semplicemente al vento che soffiava attraverso
imposte
rotte o canne di camini. Dormì poco e dormì male,
sognando maschere che la spiavano
dall’oscurità e mani che si allungavano per
ghermirla.
Nel cuore della notte, poco tempo dopo che
anche l’ultima anima nel castello si fu addormentata, dei
passi silenziosi
scivolarono nel corridoio all’esterno della stanza dove Emma
era rinchiusa.
Essi si avvicinarono trepidanti alla porta, e mani pallide e delicate
si
posarono sulla maniglia opaca; una chiave apparve da sotto le pieghe di
un
mantello, e si infilò con sorprendente facilità
nel buco della serratura. Uno
scatto leggero, e la porta si aprì dolcemente.
La figura si avvicinò piano all’immenso letto
a baldacchino somigliante più a un catafalco che non a un
confortevole
giaciglio ispirante sonni sereni, e si piegò appena sulla
fanciulla
addormentata senza aver bisogno di candele per distinguerne le linee
del volto
e la treccia gettata da un lato con un gesto infastidito. I suoi occhi
vedevano
bene nel buio e non gli fu difficile notare le ombre rosse attorno a
quelli
della fanciulla, le sue labbra piegate
in una smorfia sofferente, le guance striate da lacrime ormai asciutte.
Deglutì, intristito, e allungò una mano tremante
verso di lei, fino a
posargliela sulla spalla.
«Sveglia, signora»,
sussurrò, scuotendola
con scarsa delicatezza. «Presto, sveglia.»
Quando
Emma aprì gli occhi, strappandosi faticosamente alle spire
del sonno, non
riuscì a trattenere un gemito spaventato nel vedere il viso
pallido e
circondato da una zazzera scomposta di capelli biondi di Noah Duncan,
il figlio
dei domestici che ormai non vedeva da quando aveva messo piede a
Pemberley. Era
stato lui a svegliarla, benché nel sogno le era parso di
udire la voce di
Caledon, e sempre sue erano le mani gelide che le stringevano le spalle.
«Sssht!» Mormorò lui,
gli occhi larghi e
lucidi colmi di terrore. «Devi venire con me, signora,
presto.»
«Come…
come hai fatto a entrare?...» Domandò confusa,
ricordando vagamente una porta
che veniva chiusa a chiave e la sensazione di essere in trappola. Di
certo, pensò, stava ancora sognando.
«Dopo,
dopo», insisté lui, tirandola
per un
braccio per farla scendere dal letto. «Ora tu
vieni!»
L’insistenza del giovane era tale che Emma
non trovò quasi nulla di strano nello scostare le coperte e
nell’abbandonare il
caldo tepore dell’alcova, pronta a seguirlo docilmente. Egli
le indicò i suoi
vestiti gettati su una poltroncina, e le intimò con
gesti vari di indossarli e di rimanere in silenzio.
«Stanotte
andrai via, signora», le sussurrò piano,
passandole l’abito con gentile
premura.
Emma
sgranò gli occhi, incredula: aveva udito bene? Noah la stava
aiutando a fuggire,
davvero? «Intendi… intendi che andrò
via dal castello? Mi farai scappare,
Noah?» Sussurrò di rimando, prendendogli le mani
tra le sue e stringendole
forte, come per accertarsi di essere sveglia.
Lui
annuì, accennando un sorriso ma senza perdere lo sguardo
terrorizzato. «Sì, sì.
Presto, però.»
La ragazza non trovò nulla da dire per
contestare, e ancora stordita dal sonno si rivestì alla
bell’e meglio: non
avendo niente di meglio da indossare, infilò
l’abito da sera che aveva
utilizzato per la cena, poche ore prima, direttamente sopra la camicia
da
notte, senza curarsi di indossare corsetto o sottoveste, e gli
stivaletti senza
calze, giacché non le usava per dormire. Sopra si
gettò il mantello che le
aveva portato il caro Noah, probabilmente in vista della fuga
– rimpianse il
suo bel cappotto con gli interni foderati, ma non c’era il
tempo di raggiungere
la sua camera e frugare nell’armadio: non aveva idea di
quanto avesse a
disposizione, visto che per quel che ne sapeva lei Adam sarebbe potuto
essere proprio
dietro l’angolo, pronto a riagguantarla.
Così lasciò che Noah la prendesse per mano e
la trascinasse fuori, nel corridoio buio, correndo il più
silenziosamente
possibile e ringraziando tra sé e sé i tappeti
che attutivano i loro passi
concitati. Tramite le loro mani unite, Emma notò che quelle
del ragazzo
tremavano, sudate, e non poté fare a meno di provare una
forte gratitudine nei
confronti di quel poverino che, malgrado temesse il castello al punto
da
sfiorare la follia – e, sinceramente, ora come ora lei non si
sentiva di
biasimarlo – era comunque entrato, penetrando fino alla
maledetta ala Ovest,
pur di venire ad aiutarla. Non aveva idea di come avesse fatto a sapere
di lei,
né a sapere dove si trovasse, e tuttavia non le importava;
oramai era circondata
da tanto di quel soprannaturale che aveva smesso di cercare la logica
in ogni
cosa.
Noah la condusse alle scuderie tramite
stretti passaggi che Emma non sarebbe riuscita a ritrovare nemmeno
volendo;
probabilmente era passato attraverso i corridoi dei domestici, ossia
nelle
lunghe e strette scale a chiocciola che si celavano dietro i muri e
permettevano alla servitù di raggiungere tutte le stanze
senza passare negli
stessi anditi riservati ai padroni di casa. Ogni parete pareva celare
un
segreto: anche ad Hambleton vi erano simili spazi, ma chissà
perché tutto a
Pemberley pareva molto più infido e misterioso –
persino le piccole cose di
tutti i giorni alle quali Emma era abituata.
Il giovane le lasciò la mano soltanto quando
raggiunsero il recinto di un cavallo già strigliato e
sellato, il cui manto
grigio e bianco spiccava come uno spicchio di luna
nell’oscurità della stalla.
Il meraviglioso animale era lo stesso che lei aveva preso per la sua
piccola
gita al vecchio camposanto, e quando allungò una mano per
posarglielo sul muso
umido e vellutato il cavallo si lasciò accarezzare
volentieri, dando segno di
riconoscerla.
Prima di montare in sella, il suo pensiero
raggiunse brevemente Adam. In fondo non avevano trascorso una serata
spiacevole
– se si escludeva come aveva replicato alle sue
più che lecite domande
bisognava ammettere che si era comportato in modo impeccabile, come le
aveva
promesso, non aveva alzato un solo dito su di lei se non per
accompagnarla di
stanza in stanza, e benché non avessero conversato
granché poteva dire con
certezza ch’egli non pareva voler avere cattive intenzioni.
Ma comunque, rifletté ancora, ciò non
toglieva che la stava tenendo prigioniera – e nella sua
stessa casa! E quella
maschera, poi, cosa sarebbe accaduto se avesse celato
l’identità di un qualche
malintenzionato ricercato nella contea? Poteva davvero fidarsi? Che
cosa
avrebbero pensato suo padre, Miss Radcliffe?
Oh buon dio, miss Radcliffe! Non posso andarmene e
lasciarla qui!
Stava per dar voce a questa considerazione
quando Noah l’afferrò a un braccio, scuotendola
leggermente. «Non c’è tempo,
signora», mormorò
febbrilmente. «Non preoccuparti: ci prenderemo cura noi di
lei. Ma tu devi andare via!»
Emma
lo fissò come se avesse dinnanzi un fantasma.
«Come fai a sapere… parli di miss
Radcliffe?...»
«Non
c’è tempo, non c’è
tempo», continuò a
ripetere, angosciato. «Tornerai per lei. Ma ora vattene, ti
prego, signora!»
Lo
sguardo terrorizzato del giovane insieme a quella sua improvvisa
loquacità rese
davvero tangibile il pericolo in cui si trovava, e comprese che
indugiare
ancora avrebbe reso vane le sue intenzioni.
Se non scappo ora,
non andrò mai più via da qui.
«Tornerò,
Noah, per te e per miss Radcliffe. Domani», lo
rassicurò risoluta, non
riuscendo a trattenersi dall’abbracciarlo. Gli
sfiorò entrambe le guance con
due rapidi baci e poi si voltò per montare a cavallo,
afferrando le redini. «Grazie
di tutto», aggiunse ancora.
Il
ragazzo annuì, gli occhi ancora sgranati per
quell’inattesa manifestazione d’affetto,
poi indietreggiò di qualche passo. «Via, signora, via!»
Diede una pacca decisa al posteriore dell’animale ed esso
partì senza neppure un nitrito, quasi comprendesse la
gravità della situazione.
Emma si voltò ancora una volta per ringraziare il giovane
con lo sguardo, ma
egli era già sparito all’interno delle stalle,
serrando il portone con un tonfo
secco.
Sperando
di non aver perso già troppo tempo, mormorò una
preghiera e spronò l’animale al
galoppo.
Una
fitta foschia circondava il castello, talmente densa da rendere
impossibile
vedere qualsiasi cosa che si trovasse a più di una spanna
dal proprio naso; era
sinistra e minacciosa, dissimulava i luoghi familiari e confondeva
chiunque
fosse stato tanto stolto da uscire di casa con un tempo del genere. Il
cavallo
incespicava nel terreno, nitrendo nervosamente, ma Emma
l’incitava senza pietà
a proseguire, spingendolo al limite delle sue forze.
Onestamente,
non sapeva dove andare né quale strada stesse seguendo. Era
stato abbastanza
semplice percorrere il vialetto giù per la collina, ma una
volta raggiunto il
limitare della boscaglia che circondava l’altura sulla quale
sorgeva il
castello ogni visibilità era stata come inghiottita dal buio
e dalla nebbia.
Benché fosse una notte di luna piena, infatti, essa pareva
essere stata
divorata dalle nubi scure e dalla bruma, e la visibilità
sarebbe stata la
stessa anche se la giovane avesse avuto gli occhi bendati. Emma non
osava
rallentare – non sapeva quanto vantaggio avesse a
disposizione, qualcosa le
diceva però che Adam non avrebbe impiegato troppo tempo ad
accorgersi della sua
scomparsa e a venirle dietro – per cui spronò
ancora una volta il cavallo,
facendolo tuffare nel bel mezzo della vegetazione.
Il
suo intento, sempre se avesse riconosciuto il sentiero, era di
raggiungere la
casa di Sir Carlisle; l’uomo le era parso gentile e a modo,
sempre pronto ad
aiutarla, e oramai lo conosceva da abbastanza tempo da sapere di poter
contare
su di lui alla stregua di un parente. Di certo, se gli avesse
raccontato
l’intero accaduto, egli si sarebbe mobilitato per risolvere
il mistero e
cacciare la misteriosa presenza da Pemberley Manor; e avrebbe potuto
domandargli il favore di ospitarla per il resto della notte in attesa
che il
mattino giungesse con delle risposte. Non era certo la cosa
più educata da
fare, giungere ad Ashfield nel cuore della notte senza essere
annunciata e pretendere
soccorso, ma cercare di raggiungere il villaggio in quelle condizioni
era
ancora più pericoloso, senza contare che avrebbe rischiato
che i paesani la
prendessero per pazza. Già immaginava che cosa avrebbero
detto di lei… La figlia del conte di Grantham che
fugge
dalla sua tenuta in abiti scomposti e infangati, e attraversa miglia e
miglia
di brughiera nel cuore della notte!... Se avesse gettato una
simile macchia
sulla propria reputazione né suo padre né Caledon
l’avrebbero mai perdonata, ed
era per questo motivo che aveva deciso di andare innanzitutto da Sir
Carlisle:
poteva ben contare sulla discrezione dell’uomo, non nutriva
alcun dubbio al
riguardo.
Ma il suo sollievo durò ben poco: non
aveva percorso neppure un miglio, quando udì un allarmante
rumore di zoccoli
provenire da qualche parte alle sue spalle. Buon
Dio, pensò, terrorizzata. L’aveva
già
scoperta? La stava inseguendo?
Premette
i talloni contro i fianchi dell’animale per farlo andare
più in fretta, ma
l’incalzante fragore dietro di lei si faceva via via
più nitido, sempre
più vicino, come una tempesta in arrivo che non si
può vedere ma di cui si può
udire in lontananza il rimbombo dei tuoni. L’unica soluzione
per confondere il
suo inseguitore e guadagnare tempo era abbandonare la strada battuta,
così,
seppur a malincuore, diresse il cavallo verso destra, in mezzo agli
alberi e ai
cespugli, in un groviglio di vegetazione selvaggia che avrebbe dovuto
nascondere lei e rallentare chiunque avesse alle calcagna.
Rimpianse
quasi subito la sua idea, tuttavia: la boscaglia era così
fitta e aggrovigliata
che i lunghi rami dei rovi si aggrapparono alla stoffa dei suoi abiti,
tendendosi verso di lei come artigli adunchi che parevano volerla
trattenere
dal proseguire; il cavallo nitrì, infastidito, ma Emma non
aveva il tempo di
essere pietosa nei suoi confronti. Lo spinse ad andare oltre,
strappando con le
mani i tralci dai propri vestiti e chinando il capo per evitare di
rimanere
incastrata con i capelli; gemette quando le spine le graffiarono le
mani prive
di guanti e i polpacci nudi che spuntavano dal vestito, facendoli
sanguinare, ma
non demorse: ci sarebbe stato il tempo di leccarsi le ferite
più tardi,
sperava, una volta al sicuro dalla malsana presenza di Adam.
«Vai,
bello», sussurrò, accarezzando il collo irrigidito
del cavallo, cercando di
tranquillizzarlo. «Andiamo via di qui.»
__________________________________________________________________________
* Il fatto che
Adam legga tra tutti Robert
Louis Stevenson non è solo perché è
appassionato di romanzi di viaggi e
avventure (potete biasimarlo? È praticamente nato e
cresciuto tra quattro mura,
sogna di vedere il mondo – i suoi libri sono un po’
lo specchio magico della
Bestia che gli mostrava il mondo esterno), ecco, dicevo, ma anche
perché
Stevenson ha scritto “Lo strano caso del
Dr. Jekyll e del Signor Hyde”, che è uno
dei romanzi che mi hanno ispirato
per questa storia, e dunque mi sembrava carino inserire un
piccolo… omaggio.
__________________________________________________________________________
Note dell'Autrice.
Ed eccomi qui con un nuovo
aggiornamento, giusto in tempo per Halloween! Detto-fatto,
ciò è la dimostrazione che quando voglio posso
essere di parola anche io :D Inoltre questo capitolo è
lunghissismo e succede tanta roba, non me lo aspettavo.
°_° Comunque, spero che vi sia piaciuto come i
precedenti ^^
Ringrazio, come al solito, chiunque legga e aggiunga la storia alle
Seguite e alle Preferite, nonché e soprattutto le splendide Sylphs, savy85, Nimel17, Se7f, JollyJ e dachedas per aver
recensito lo scorso capitolo: sono davvero molto, molto contenta che
Adam vi sia piaciuto - ho una sorta di ansia da prestazione per questo
personaggio, l'ho detto e lo ripeto - e spero sinceramente che continui
ad essere di vostro gusto anche nei prossimi capitoli. :) Sto cercando
di rendere questa storia il più "corale" possibile, di
curare sia i personaggi principali che quelli secondari, in modo da
avere una chiara visione dell'insieme e di non focalizzarmi soltanto su
Emma-Adam dato che questa non sarà unicamente una storia
d'amore ma anche - o almeno così spero che esca, chi lo sa
poi quale sarà il risultato xD - una storia di mistero,
azione e paura. Insomma, uno stile po' alla Dracula - lungi da me osare
paragonarmi a quel romanzo, però - dove più o
menso sappiamo cosa combinano tutti i personaggi. :D
And now, ladies and
gentlemen. Vi lascio con due meravigliosi regali che mi
sono stati fatti in onore di questa storia e le cui autrici non
smetterò mai di ringraziare - okay, lo ammetto, ho promesso
i miei primogeniti, ma credetemi che ne è valsa la pena.
Sono lieta di presentarvi:
- Il video-trailer "Requiem
for a Dream" - by @Christine23
- La meravigliosa copertina
della storia - by @kenjina
Spero che vi lascino a bocca aperta così come è
successo a me *__* (Non so se merito tutto questo ammore, sono
commossa ç_ç)
Ora vado prima di piangere altre lagrime amare. A presto, mie darling!
Sempre la vostra affezionatissima
Niglia.
|
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Capitolo 11 *** Chapter 10. For the Dead Travel Fast ***
10
For the Dead Travel
Fast
Denn die Todten reiten schnell.[1]
La
notte era statica. Il paesaggio autunnale giaceva pietrificato in una
sorta di
strana atmosfera onirica, e se un’anima romantica ne fosse
stata testimone
avrebbe di certo affermato che sullo scenario pareva essere stato
gettato un
incantesimo. Le foglie degli alberi già brillavano dalle
goccioline di brina, e
di tanto in tanto se si tendeva l’orecchio si poteva udire il
tubare di qualche
civetta solitaria; lo scricchiolio di rametti nel sottobosco indicava
che altri
animali notturni erano sgusciati fuori dalle loro tane per la caccia,
ma la
fitta nebbia che si innalzava dal terreno e lì aleggiava
alla stregua di un
fantasma ne celava le impronte. Tra le enormi nuvole nere spuntava ogni
tanto
un raggio di luna a rischiarare il sentiero e far luccicare la foschia,
ma non
c’era abbastanza vento per trascinare via le nubi e
permettere all’astro di
risplendere in pace in un cielo altrimenti terso e stellato.
Poeti
e pittori avrebbero venduto l’anima al diavolo per poter
essere capaci di
imprimere una simile notte su tela o su carta; Emma, per sua sfortuna,
non
aveva il tempo né lo spirito di ammirarla. La sua mente era
occupata da un
unico desiderio – lasciarsi il più presto
possibile il castello e i suoi
abitanti e gli incubi terribili che le aveva causato alle spalle.
Le
sue orecchie erano colme del proprio ansimare angosciato, e sorde ai
rumori
pacifici della natura. Un filo di sudore le colò lungo il
collo giù nell’incavo
tra i seni, gelandosi a contatto con l’aria notturna e
facendole rimpiangere di
non aver indossato qualcosa di più inappropriato per una
fuga in mezzo ai
boschi. Si domandò se aveva già superato i
confini di Pemberley o se era ancora
all’interno della tenuta: non aveva idea di cosa utilizzare
come punto di
riferimento, perché per quel poco che poteva ricordare non
c’era alcuna
recinzione che segnava la proprietà, e i terreni incolti e
inospitali si
limitavano ad allargarsi come una macchia d’olio per tutto il
circondario fino
a fondersi naturalmente con il resto della brughiera.
Il
cavallo aveva rallentato, sbuffando e arrancando attraverso la bassa e
fitta
vegetazione e sbattendo con furia gli zoccoli sul terreno probabilmente
per
scacciare eventuali animali striscianti. Emma faceva del suo meglio per
mormorargli rassicurazioni con voce pacata all’orecchio e
tenere lontani i rami
graffianti perlomeno dal suo muso, ma il destriero si stava facendo
sempre più
irrequieto e incontenibile. Se ci fosse stata un’altra
soluzione l’avrebbe
lasciato libero e avrebbe proseguito a piedi, ma anche se non udiva
più alcun
rumore dietro di sé sapeva di essere
ancora inseguita, e non poteva permettersi di perdere anche il
più piccolo
vantaggio.
Il
pensiero di non sapere nemmeno il nome dell’animale che stava
cercando di
portarla in salvo risvegliò il senso di colpa – e
un sussurro nella sua mente
le insinuò l’idea che potesse essere un cattivo
presagio.
Scuotendo
la testa e premendo i talloni contro i fianchi del cavallo, Emma
scacciò quei
pensieri.
Non c’era tempo, non
c’era tempo – lui la stava raggiungendo.
Sì,
se lo sentiva nelle ossa, anche se era passato parecchio tempo da
quando aveva
udito lo sbuffare di un secondo cavallo alle sue spalle –
come se il suo
inseguitore si fosse dissolto nel nulla a un certo punto durante la
corsa.
Poiché dubitava che Adam, poiché chi altri
avrebbe potuto essere, si sarebbe
rassegnato così in fretta a riacciuffarla dopo tutti gli
sforzi che aveva fatto
per entrare nelle sue grazie, Emma aveva evitato di spingere il proprio
cavallo
a un’andatura più pacata; ma l’assenza
di rumori dietro di sé invece di
rasserenarla le incuteva un maggior terrore, visto che egli conosceva
di certo
il territorio meglio di lei e poteva saltarle addosso da un momento
all’altro,
sbucando da chissà quale cespuglio e stanandole ogni via di
fuga.
Venne
strappata dalla sue riflessioni da un brusco avvallamento del terreno:
il
cavallo scivolò sopra sassi ricoperti da un sottile strato
di muschio e
ondeggiò violentemente prima di sterzare verso destra e
lanciarsi in avanti con
un salto invidiabile, portando via il fiato alla fanciulla e ottenendo
un rauco
grido da parte sua che si perse nel bosco. Emma cercò di
tirare le redini, ma
l’animale era ormai al di là del suo controllo:
con quell’ultimo movimento si
erano spinti fuori dalla vegetazione ed entro un’enorme
radura ricoperta da una
fitta nebbia, e il terrore di essere in una posizione scoperta e
facilmente
individuabile le impedì di rendersi conto di ciò
che si trovava al di sotto
della caligine.
Se
ne accorse soltanto quando gli zoccoli del cavallo aggredirono la
superficie
dell’acqua con furia, e il suo nitrito spaventato e sorpreso
trafisse l’aria
come un fulmine.
Come
per magia, il tempo parve fermarsi: tutto ciò che
seguì Emma lo registrò con
estrema accuratezza, come fosse un occhio esterno che assisteva a
qualcosa che
non stava accadendo a lei in prima persona. L’animale si
ritrovò immerso nel
lago con tutte le zampe, inzuppandole gli abiti in un battito di ciglia
lasciando che l’aria e l’acqua gelida glieli
ghiacciasse addosso; le sue mani,
a loro volta bagnate, persero la presa sulle redini e tentarono
inutilmente di
aggrapparsi alla criniera o al collo del destriero, ma questi, ormai
del tutto
terrorizzato dalla brusca caduta nel lago, si inarcò
ferocemente cercando di
indietreggiare per tornare sulla riva, e a furia di impennarsi e
agitarsi
disarcionò la giovane facendola precipitare
nell’acqua.
In
un turbinio di gonne, alghe e zoccoli, Emma si ritrovò ad
osservare inerme e
con panico crescente le acque nere e immote che si richiudevano sopra
di lei.
Obbedendo
a un istinto antico come il mondo e rifiutando ogni raziocinio, Emma
spalancò
la bocca per urlare in cerca di aiuto, ma così facendo
inghiottì spaventose
boccate d’acqua che la soffocarono e le straziarono i
polmoni, facendole perdere
ogni contatto con la realtà. La mente sempre più
annebbiata, gli occhi
testardamente serrati come se ciò potesse impedire ad altra
acqua di invaderle
il corpo, la ragazza annaspò cercando di risalire a galla,
combattendo con
l’ingombro degli abiti che le pesavano addosso come pietre e
che la
trascinavano a fondo malgrado i suoi sforzi serrati. I capelli le
ondeggiavano
intorno alla faccia, ricoprendole il viso e impedendole di vedere
alcunché, i
piedi sgambettavano grevi in cerca del fondo del lago ma senza riuscire
a
trovare una superficie solida per potersi dare la spinta e riemergere.
I
nitriti laceranti del cavallo continuarono a risuonare come grida
d’allarme
nella notte silenziosa, diffondendosi con un’eco terribile
sulla superficie del
lago. Emma lo udì attutito e lontano attraverso
l’acqua, come in un sogno, e il
pensiero di venire abbandonata anche dall’animale la
riempì di angoscia.
Presto,
però, il liquido gelido l’avvolse in un abbraccio
amorevole, trascinandola
inesorabile verso l’alveo del lago scuro e nero come pece e
privandola di ogni
capacità cognitiva. Emma chiuse gli occhi e smise di
lottare, lasciandosi
trascinare a fondo con la medesima rassegnazione di una nave
inabissata: non
era, dopotutto, una sensazione spiacevole – se avesse dovuto
descriverla con
semplici vocaboli avrebbe detto che era come essere tornate
all’interno del
grembo materno, in quel limbo sospeso tra la vita e la morte dove
sembra che
nessuna minaccia esterna possa mai giungere a turbare la propria
esistenza.
I
polmoni bruciavano, bramosi di ossigeno, e il peso dell’acqua
le comprimeva il
petto con una forza impensata; ma quei dolori erano secondari, non le
appartenevano – sì, sapeva che quel corpo fatto di
carne e sangue stava
soffrendo e pativa le pene dell’affogamento, ma lei non
provava alcun dolore:
tutto era alleviato dalla consapevolezza che ormai non avrebbe dovuto
resistere
oltre. Decise tuttavia che non sarebbe morta con gli occhi chiusi
– voleva
portare con sé un’ultima immagine, un ultimo
ricordo, e catturare magari i
raggi della luna penetrare nell’acqua quasi a volerla
raggiungere.
Ma
quando sollevò le palpebre non vide che il buio tutto
intorno a lei, una densa
oscurità priva di qualsiasi granello di luce, e se avesse
potuto avrebbe
strillato. E nello stesso momento qualcosa le afferrò
bruscamente le braccia, e
poi la vita, stringendola fino a privarla del poco fiato che le era
rimasto – e
che lei inconsciamente aveva conservato con parsimonia – per
poi trascinarla a
fatica verso su, verso chissà dove, con una violenza tale
che quasi Emma
avrebbe voluto divincolarsi, preferendo lasciarsi affogare. Non
comprese in che
modo ebbe raggiunto la superficie e l’aria gelida della notte
che il suo corpo
accolse con esultanza; ogni cosa era confusa, e lei era ancora in quel
limbo
dove il dolore si alterna al freddo che le aveva raggiunto le ossa,
ghiacciandola così profondamente che Emma non
poté fare a meno di chiedersi
come faceva a non essere morta, oppure, se quella era
la morte, che cosa aveva fatto per meritarsi un simile
tormento.
Si
lasciò prendere e spostare come un burattino senza fili e
senza volontà; forse
venne distesa, i bottoni del cappotto strappati – se ne rese
vagamente conto
perché il vento notturno le gelò il petto,
facendola tremare – e poi venne
voltata su un fianco, e qualcosa inizio a premere e massaggiarle la
schiena con
una ferocia disperata: fu un’esperienza terribile, come se
l’interno del suo
corpo venisse riversato all’esterno, e la gola le bruciava e
gridava pietà
eppure la pressione continuava, obbligandola a rigurgitare fino
all’ultima
goccia d’acqua che aveva ingerito.
Lo
shock fu tale che svenne subito dopo, stremata e infreddolita.
Emma
riprese i sensi nel salottino della notte prima, semidistesa su una
poltrona
trascinata di fronte al camino acceso. La luce delle fiamme fu
così improvvisa,
dopo l’oscurità, che dovette stringere gli occhi e
distogliere lo sguardo;
stava ancora tremando, benché fosse avvolta da una coperta
pesante, e la testa
le girava così vorticosamente da farle venire la nausea.
Maledizione, imprecò in silenzio,
serrando le
palpebre. Sono di nuovo nel castello.
Aveva
appena finito di formulare quel pensiero quando udì una
porta aprirsi e
richiudersi con un tonfo, e dei passi pesanti avanzare
all’interno della stanza
fino a fermarsi a breve distanza da lei. D’istinto
sollevò lo sguardo appannato
sulla ben nota presenza, notando vari piccoli dettagli come i suoi
vestiti
ancora bagnati e stropicciati, macchiati di fango ed erba, e i capelli
corvini
che gli ricadevano in ciocche umide ai lati della maschera; sembrava
che fosse finito nel lago anche lui,
pensò distratta, riportando l’attenzione sul fuoco.
L’uomo
sbuffò, per nulla contento di venire ignorato.
«Siete sveglia», sbottò, con
quella voce attutita che stava ormai imparando a conoscere bene. A
giudicare
dal tono, egli doveva essere ben oltre la soglia della semplice
arrabbiatura:
Emma trovò quasi strano che non l’avesse caricata
di peso su una spalla e
gettata in qualche segreta, per punirla.
Poiché
lei non rispondeva, Adam continuò, sempre più
iroso e con la voce che
s’ingrossava minacciosa parola dopo parola. «Ah,
non parlate? Mi tenete il
broncio? Come se aveste ragione a trattarmi così…
Vi ho salvato la vita,
rammentate? ...per la seconda volta! Forse avreste preferito annegare
nel lago?
Gran bella fine, avreste fatto! E per cosa? …per cosa! Per
la soddisfazione di
farmi un torto!»
«Non
tutto ruota intorno a voi, signore», ribatté
allora Emma ignorando la gola che
le doleva, senza neppure alzare lo sguardo. «Ma se siete
così arrabbiato,
perché non mi lasciate andare? Che cosa sperate di ottenere,
obbligandomi a
tenervi compagnia?»
«Dannazione
a voi! Vi ho già spiegato le mie… Mi avete dato
la vostra parola che non
avreste cercato di fuggire! Valgono così poco le vostre
promesse, milady? Cosa
devo fare per essere sicuro che rispettiate la vostra parte
dell’accordo?
Legarvi, forse?»
Emma
dovette resistere al maleducato impulso di roteare gli occhi.
«Non potete
biasimarmi se ho colto al volo l’opportunità di
andarmene. Di certo avrete
capito che mi state trattenendo qui contro la mia volontà,
voglio sperare?»
Domandò sarcastica, odiando la propria voce roca.
«Siete
mia ospite», sibilò lui furioso. «E
avete dei doveri verso di me, come li ho io
verso di voi!»
«Questo
è certamente discutibile, ma siete libero di credere pure
ciò che più vi
aggrada.»
«Siete
una donna impossibile!» Ruggì Adam, sbattendo un
pugno con forza sul bracciolo
in legno della poltrona in cui era rannicchiata e facendola suo
malgrado sussultare.
«Forse che vi ho fatto mancare qualcosa? Vi ho trattato male,
io? Non mi pare!
Potrò non essere un uomo di mondo, signora, ma di sicuro
sono un gentiluomo;
eppure voi riuscite nella difficile impresa di mettere a dura prova la
mia
pazienza!»
«Parlate
come se io vi avessi imposto la mia presenza»,
sibilò Emma, incredula. Si voltò
verso di lui, lasciando la propria rabbia libera di manifestarsi, e
continuò.
«Siete voi che mi avete voluto qui, e adesso vi comportate
come se mi doveste
tollerare a malincuore! Che diritto avete di arrabbiarvi? Da
ciò che mi avete
detto, neanche volevate ospiti nel castello!»
«Ma
ora siete qui, e non morirete mentre siete sotto la mia
responsabilità! Né
proverete a scappare una seconda volta», aggiunse con fare
minaccioso. «Di
questo me ne assicurerò personalmente. Dio, ma avete almeno
riflettuto prima di
attuare questa vostra fuga? Scappare di notte, da sola, in mezzo alla
brughiera, e impropriamente vestita! Nel migliore dei casi sareste
morta di
freddo, e nel peggiore… Non sapete che ci sono ladri e
briganti in queste
terre? Animali selvaggi? Anche se i terreni circostanti appartengono a
Pemberley, non sono recintati; chiunque vi avrebbe potuto catturare, e
vi
assicuro, milady, che esistono persone ben peggiori di me!»
Emma
continuò a tenere ostinatamente gli occhi chiusi,
stringendosi la coperta
addosso e tremando ancora leggermente. Non aveva bisogno che
quell’uomo le
facesse la predica, pensò infastidita, sapeva benissimo che
la sua fuga non era
stata pianificata a dovere ed era stata più che altro uno
sparo nel buio; ma
aveva dovuto tentare, perché una
simile occasione non sarebbe ricapitata una seconda volta –
poco importava che
le circostanze fossero poco favorevoli per la sua riuscita.
Doveva
ammettere, tuttavia, che l’idea di finire in pasto a lupi o
delinquenti era
agghiacciante.
Si domandò poi se
fosse un destino preferibile al rimanere al castello con
quell’uomo…
Il
suo silenzio dovette protrarsi troppo a lungo per i gusti del padrone,
poiché
Adam perse la pazienza. «Diamine, parlatemi
almeno!»
In
un impeto d’ira le afferrò le mani, ed Emma
spostò gli occhi su di lui con aria
sorpresa e spaventata insieme: era la prima volta che la toccava
– perlomeno
mentre lei era cosciente, pensò con un brivido – e
in più l’assenza di guanti e
il fatto di sentire la consistenza della sua carne sotto il palmo le
fece realizzare
con un lampo di lucidità il rischio che aveva corso. Aveva
rischiato di morire,
per l’amor di Dio, e tutto perché non era stata
capace di aspettare il momento
giusto e avere il sangue freddo di ideare un piano migliore…
Cosa sarebbe
successo a suo padre se fosse morta anche lei? Gli occhi le si
inondarono di
lacrime al pensiero di infliggergli un simile colpo e distolse lo
sguardo,
senza tuttavia fare cenno di volersi liberare dalla stretta
dell’uomo.
«Non
so cosa dirvi», fu la sua laconica risposta, mormorata con un
debole
autocontrollo.
Ma
Adam non l’ascoltava più; nel toccare la sua pelle
si era irrigidito,
sinceramente sconcertato dal fatto che lei glielo avesse lasciato fare,
e allo
stesso tempo preoccupato dalla sua temperatura corporea. La giovane
scottava
come un carbone ardente, stava chiaramente male, eppure non aveva detto
una
sola parola al riguardo.
«Dio
mio, state bruciando», sussurrò, la voce
improvvisamente ingentilita. In un
attimo il suo tocco si fece da minaccioso a gentile, e una mano si
sollevò per
sfiorarle delicatamente anche la fronte e le guance. «Avete
la febbre, e io qua
a urlarvi addosso… Perché non avete detto niente?
Sciocca ragazza… venite con
me, è meglio che vi mettiate a letto. Riuscite ad alzarvi?
…a camminare?»
Emma
lo fissò per un lungo istante con sguardo perso, come se non
comprendesse ciò
che le stava chiedendo; infine batté le palpebre e si
guardò intorno, afferrò i
braccioli della poltrona e si alzò lentamente, sforzandosi
di recuperare
l’equilibrio e il controllo sul proprio corpo. Ma
quest’ultimo era così provato
e indebolito dalla sua recente avventura che non riuscì a
reggerla in piedi, ed
Emma si accasciò sulle proprie gambe tremanti come un
bamboccio privo di fili;
le braccia di Adam l’afferrarono prima che potesse crollare
per terra, e
d’istinto lei vi si aggrappò apprezzando il calore
che proveniva da un altro
essere umano – poco importava che si trattasse
dell’uomo che la teneva
prigioniera.
«Non
importa, vi porterò io», decise Adam bruscamente,
prendendola con un’insolita
gentilezza tra le braccia a mo’ di sposa, e cullandola,
quasi, mentre se la
stringeva al petto. «Reggetevi a me. Ecco…
così», la incoraggiò, quando Emma
sollevò d’istinto un braccio dietro il suo collo
per non scivolare; egli parve
irrigidire leggermente al tocco inaspettato, ma lady Moore era troppo
stanca
per farci caso.
Uscirono
dal salotto senza che fosse pronunciata un’altra parola, e
probabilmente
durante il tragitto lei dovette cedere alla stanchezza, cullata dal
movimento e
dal tiepido calore di un corpo contro di sé,
perché quando riaprì gli occhi si
ritrovò di nuovo nella camera da letto che aveva lasciato
poche ore prima in
compagnia di Noah.
Emma
aveva creduto che nulla avrebbe più potuto sorprenderla,
ormai, ma dovette
ricredersi nel momento in cui varcò nuovamente la soglia
della stanza che Adam
le aveva assegnato – e nella quale credeva di non dover
più mettere piede – per
trovare ad attenderli una pallida e nervosa Mrs. Duncan. La donna,
malgrado si
stesse torcendo le mani e sembrasse preda di chissà quale
malessere, non parve
particolarmente scioccata alla vista della sua padrona tra le braccia
di uno
sconosciuto mascherato; anzi, se il pensiero non le fosse sembrato
ridicolo,
Emma avrebbe quasi potuto giurare che le era parsa sollevata
nel vederla con lui…
Adam
la depose gentilmente per terra, rimanendole accanto con un braccio
intorno
alla vita per reggerla qualora dovesse perdere l’equilibrio,
e la rilasciò solo
per affidarla alle braccia della governante, che in quel momento
apparivano
ancor meno invitanti di quelle dell’uomo. Tuttavia Emma non
si oppose, poiché
era davvero troppo stanca e confusa per poter intavolare una
discussione e
sperare di uscirne vincitrice; così si lasciò
condurre senza protestare nella
piccola stanza da bagno adiacente alla camera, e quando la porta si
richiuse
dietro le due donne, oscurandole alla vista dell’uomo, Emma
sentì le proprie
spalle rilassarsi appena.
Neppure
Mrs. Duncan pareva aver molta voglia di parlare. Probabilmente temeva
che Adam
potesse sentirla – Emma si domandò se quella
reticenza fosse dovuta al fatto
che fosse stata lei ad istruire il figlio, Noah, affinché
l’aiutasse a lasciare
il castello – e non voleva aumentare l’ira del suo
padrone; giacché ormai non
aveva alcun dubbio al riguardo, lady Moore non era, ai suoi occhi,
più padrona
di lei di Pemberley.
Sempre
senza dire una sola parola, la governante aiutò Emma a
spogliarsi e a entrare
nella vasca, già precedentemente riempita con acqua calda;
gentilmente le versò
sui capelli dell’acqua tiepida, per poi prendere a
pettinarglieli e a liberarli
ciocca per ciocca da ogni traccia di fango e putridume raccolta nel
lago. Passò
poi a strofinarle la schiena e ripulire quasi con affetto materno i
graffi e le
ferite che si era procurata durante la cavalcata, trattenendo il fiato
quando
notò quelli più gravi che avevano iniziato a
sanguinare a contatto con l’acqua
calda. Durante l’intero procedimento la giovane ereditiera
rimase in silenzio,
troppo stanca per provare disagio o imbarazzo ad essere accudita come
una
bambina da una donna per cui non nutriva al momento troppa stima, la
mente
troppo impegnata a combattere la febbre e le riflessioni tormentose
riguardo la
sua più che sfortunata situazione per articolare un solo
pensiero.
L’unica
cosa per cui avrebbe potuto ringraziare Mrs. Duncan fu
l’assenza di vuote
rassicurazioni che non avrebbero avuto altro risultato se non quello di
renderla
ridicola; avrebbe dovuto domandarle se fosse stato il figlio a dirle
della sua
fuga, o se la donna l’avesse scoperto da sola e fosse poi
andata ad avvisare
Adam – il che portava ad altre mille domande, la prima delle
quali riguardava
il genere di rapporto che legava l’anziana governante di
Pemberley Manor al
misterioso uomo mascherato che si spacciava come suo proprietario. Ma
saziare
una curiosità avrebbe portato inevitabilmente a volerne
saziare delle altre, e
in quel momento Emma non era assolutamente pronta a scoperchiare quella
scatola
di Pandora.
Così
lasciò perdere, sforzandosi di non crollare addormentata
nella vasca da bagno e
dimostrare di essere ancora più debole di quanto non avesse
già dimostrato.
Quando
Mrs. Duncan la riaccompagnò nella stanza, un braccio intorno
alla vita per
tenerla in piedi, Emma notò che l’uomo aveva fatto
del suo meglio per rendere
l’ambiente il più confortevole possibile: i
cuscini del letto apparivano
sprimacciati, le coperte divelte ordinatamente da un lato in attesa che
lei vi
trovasse rifugio, alcune candele scacciavano il buio insieme al camino,
che era
stato appena acceso. Il responsabile di tutto ciò attendeva
in piedi come una
sentinella a lato del talamo, le braccia dietro la schiena e, come al
solito,
un’aria resa imperscrutabile dalla maschera.
Emma
si divincolò debolmente dalla gentile stretta della signora
Duncan e si sforzò
di raggiungere il tanto desiderato letto da sola, sulle sue gambe
tremanti, ma
con schiena dritta e sguardo deciso – o perlomeno questa era
l’impressione che
avrebbe voluto dare, anche se dubitava che i suoi occhi resi lucidi
dalla
febbre potessero impressionare qualcuno. Si sedette dunque sul bordo
del
materasso e sospirò, lasciandosi finalmente catturare dalla
spossatezza e
infilandosi con gratitudine sotto le trapunte.
Avrebbe
voluto solo chiudere gli occhi e consegnarsi all’oblio, ma
avrebbe dovuto
immaginare che il suo carceriere era ben lontano da lasciar cadere
così la
questione.
«Avevate
dato la vostra parola che mi avreste concesso sette giorni, milady, e
alla
prima occasione voltate le spalle e cercate di fuggire»,
affermò lui quindi
piuttosto freddamente, osservando con affettata noncuranza Mrs. Duncan
che
tamponava la fronte di Emma con un panno bagnato e che le rimboccava le
coperte
per cercare di farle smettere di tremare. Quando fu deciso che la
cerimonia
fosse conclusa egli congedò la governante con un secco cenno
del capo, e la
donna sparì dalla sua vista talmente in fretta che si
sarebbe detto fosse fatta
di aria.
Emma
attese finché la porta non si richiuse dietro di lei prima
di rispondere. «Mi
sembra di ricordare di non aver mai acconsentito a quella ridicola
messinscena», fu la sua gelida replica.
L’uomo
la fissò come se si fosse solo allora reso conto che, in
effetti, nessun
accordo era stato sancito tra i due, e che egli stesso aveva ammesso
che la sua
risposta non importava, e che si sarebbe fatto ciò che aveva
deciso lui in ogni
caso.
«Ad
ogni modo», ribatté, decidendo suo malgrado che
per il momento le avrebbe concesso
quella piccola vittoria. «Come vi ho già detto
è stato a dir poco sconsiderato
da parte vostra uscire dal castello nel cuore della notte, considerando
la
vostra scarsa conoscenza del territorio e di ciò che vi
sarebbe potuto
capitare, e vi sarei grato se in futuro vi asteneste dal rifare una
cosa del
genere.»
E
all’improvviso l’entità di
ciò che era accaduto tornò a crollarle addosso
con
la violenza di una valanga, mettendo a tacere qualsiasi cosa avrebbe
voluto
dire all’uomo che le stava di fronte con le braccia
incrociate e l’aria di chi
è appena stato tradito. La sua mente cercò di
ribellarsi a ciò che l’evidenza
le aveva messo davanti, ma non ottenne risultati: invece, un debole
pallore le
portò via quel poco di sangue che le era affluito in viso,
ed Emma si ritrovò a
sgranare gli occhi e a boccheggiare priva di fiato in cerca di qualcosa
da
dire.
Buon Dio, mormorò silenziosamente come un
mantra, sentendosi tremare. Buon Dio, era
quasi morta!
Sarebbe
bastato per Adam arrivare pochi secondi più tardi, e sarebbe
stato impossibile
riportarla a galla e riuscire persino a svuotarle i polmoni
dall’acqua del
lago… Era arrivata a un soffio da una dipartita sciocca e
priva di senso, ed
era grazie ad Adam se… grazie ad Adam…
I
suoi occhi d’un tratto ricolmi di lacrime si sollevarono sul
padrone, ma lo
shock di ciò che aveva appena realizzato le
impedì di notare il suo improvviso
irrigidirsi e la preoccupazione malcelata nel suo sguardo.
«Mi
avete salvato la vita», sussurrò scioccata,
stringendo le dita intorno alla
coperta che l’avvolgeva alla ricerca di un oggetto tangibile
che l’aiutasse a
non perdere il contatto con la realtà. «Se non
fosse stato per voi, io… io…»
Non riuscì a completare quel pensiero, ma non distolse gli
occhi da lui. «Vi
ringrazio», concluse miseramente a mezza voce, sperando
ch’egli cogliesse la
sincerità delle sue parole e le perdonasse la mancanza di
eloquenza.
Adam
parve preso alla sprovvista: evidentemente non si aspettava che il suo
gesto
venisse riconosciuto, e di sicuro non si aspettava da lei alcuna forma
di
gratitudine. «Non serve che mi ringraziate», fu
dunque tutto ciò che riuscì a
rispondere. «Ho fatto solo il mio dovere.»
C’era
qualcosa, nel suo tono di voce… Emma non riuscì a
definire esattamente cosa…
che le provocò una debole fitta nel petto e che le fece
provare un misto di
senso di colpa e svogliata gratitudine nei confronti di
quell’uomo che prima l’aveva
rapita, poi l’aveva trattata come ospite, poi
l’aveva sgridata amaramente per
il suo tentativo di fuga e infine era apparso sinceramente provato dal
pericolo
che lei aveva corso, e fu l’insieme di tutto questo che la
costrinse suo
malgrado ad addolcire lo sguardo e accennare un debole sorriso.
Egli
impietrì e non fu capace di aggiungere altro: quel sorriso
lo aveva disarmato.
Rimase al suo fianco finché lei non si fu addormentata, e
solo allora osò
volgerle le spalle e andarsene; chiuse a chiave la porta della stanza
più per
abitudine che precauzione – dove sarebbe potuta andare in
quelle condizioni,
anche volendo? – e rilasciò un sospiro che non si
era accorto di aver
trattenuto fino a quell’istante. Abbassò lo
sguardo sulle proprie mani,
accorgendosi non senza una buona dose di sconcerto di star tremando, e
fu
costretto ad ammettere, perlomeno a sé stesso, di essere
stato terrorizzato
all’idea di perderla.
Non
sapeva ancora bene a che cosa fosse dovuta quella sensazione, ma decise
che la
serata era stata già fin troppo movimentata per aggiungerci
anche una scomoda
analisi di sensazioni e sentimenti. Inoltre l’alba iniziava
ad approcciarsi, e
lui non chiudeva occhio da quasi due giorni – e se continuava
così, prima o poi
sarebbe crollato sfinito ed esausto, e ciò avrebbe lasciato
via libera all’altro…
No, non poteva permetterlo. Non ora.
Adam
si lasciò rapidamente alle spalle la camera da letto,
attraversando il lungo
corridoio con lunghe falcate come se desiderasse mettere più
distanza possibile
tra sé e la fanciulla, prima che perdesse del tutto il
controllo. La tentazione
di tornare da lei e usare le maniere forti fino a spingerla a giurare
su quanto
di più sacro ci fosse al mondo che non avrebbe
più messo piede fuori dal
maniero senza la sua approvazione era troppo forte da ignorare,
soprattutto
sentiva che non proveniva da lui, e per questo motivo
accelerò ulteriormente il
passo.
Era
stato a un tanto così dal crollare, quando Mrs. Duncan
l’aveva avvertito
dell’improvvisa fuga di lady Emma; non riusciva a crederci, dopo
tutte le promesse era scappata lo
stesso?
Faust
era stato pressoché incontenibile; tuttora lo sentiva
aggirarsi come una belva
in gabbia entro i confini della sua mente, lo udiva tremare di una
rabbia cieca
e furente e la sua presenza era come un tremore minaccioso appena sotto
la
pelle che prometteva di esplodere da un momento all’altro.
Aveva dovuto
ricorrere a tutto il suo autocontrollo per impedirgli di prendere il
sopravvento – non osava immaginare che cosa avrebbe potuto
fare alla ragazza
una volta riagguantata, se gli avesse ceduto – e soltanto la
consapevolezza che
fosse ancora troppo presto per far conoscere a Emma l’orrenda
furia del suo
mostro era riuscito a mantenerlo in sé.
Ma
anche se costretto entro le mura della psiche che condividevano, Faust
poteva
pur sempre far udire la sua voce, i suoi pensieri, la sua collera. E
Adam ne
aveva avuto paura, non per la prima volta, poiché
ciò che gli stava sussurrando
era talmente terribile che dubitava di poter tornare a guardare Emma
negli
occhi senza che certe immagini gli offuscassero la vista, tentandolo
con
promesse inesaudibili.
Era
stato terribilmente difficile contenere la furia di Faust e procedere
poi a
racimolare sufficiente presenza di spirito per preparare un cavallo e
lanciarsi
all’inseguimento della ragazza; e quando infine
l’aveva fatto, i suoi pensieri
e quelli del mostro avevano coinciso miracolosamente fondendosi in
un’unica
preoccupazione: trovare Emma e riportarla a Pemberley.
E adesso che l’hai
riportata a casa, che cosa conti di fare?
Adam
quasi inciampò sui suoi stessi passi quando udì
il sibilo feroce del mostro
rimbombare all’improvviso nella sua testa.
(Nulla),
ribatté a sua volta, stringendo con furia le mani a pugno.
(È mia ospite. E
verrà trattata come tale!)
Sei così debole, si prese gioco di lui
Faust, con
il suo odioso tono mellifluo. Ti fai
trattare come il più insulso degli insetti. Sei un disonore
per il nome che
porti!
(Che
cosa vorresti fare? Punirla, forse? E questo non sarebbe un disonore?)
Non hai mai trovato
disonore in ciò che abbiamo fatto in passato.
Se
avesse potuto, Adam avrebbe ringhiato.
(Non
osare riversare su di me la
responsabilità delle tue azioni! Io non avevo alcuna voce in
capitolo, lo sai
benissimo!)
Mi fai così pena, mio
povero Adam. Dopo tutto questo tempo non hai ancora capito
nulla…
Preferì
non rispondergli; non era in vena di discutere con quella voce odiosa
che non
lo lasciava in pace neppure nell’incoscienza. E poi, che cosa
avrebbe potuto
replicare? Per sua sfortuna, e non lo avrebbe mai ammesso neanche nelle
profondità della sua psiche, Faust aveva ragione:
c’erano cose, nel suo passato,
che avrebbero sconvolto la più abietta delle anime, e non
osava immaginare come
avrebbe potuto reagire una come Emma se ne avesse avuto anche solo un
assaggio.
Ma di una cosa era sicuro, avrebbe impedito a Faust di farle del male
anche se
gli fosse costata la sua stessa sanità…
Esausto
e miserabile, Adam trovò rifugio in una vecchia stanza
abbandonata. Strappò con
furia il lenzuolo impolverato che ricopriva un letto scricchiolante che
non
veniva utilizzato da decenni e crollandovi sopra a peso morto,
consegnandosi
misericordiosamente all’oblio e seppellendo nel sonno le
minacce di Faust e
tutto lo sfinimento che aveva accumulato negli ultimi due giorni.
La
camera da letto nella quale era confinata non le dava alcun tipo di
sfogo. Si
sentiva troppo stanca per alzarsi e curiosare tra i vari oggetti che la
circondavano – senza contare che non si trovava
particolarmente a suo agio
adesso che aveva la certezza di trovarsi nella stanza del suo
carceriere, i
ritratti che aveva fatto di lei erano artisticamente piacevoli ma la
loro
presenza la inquietava – e sentiva la mancanza della finestra
della sua camera,
dalla quale poteva ammirare il paesaggio esterno senza neppure lasciare
l’alcova.
Emma
sospirò, posandosi il dorso della mano sulla fronte e
gemendo nel trovarla
ancora rovente. Non poteva che biasimare sé stessa per
quella situazione – se
solo non fosse stata tanto sciocca da attraversare il bosco nel cuore
della
notte, e se non avesse costretto il cavallo fuori dal sentiero,
spingendolo nel
lago… Forse adesso sarebbe stata salva a casa di sir
Carlisle, e non sarebbe
stata stordita dalla febbre. Come se non bastasse, era terribilmente
preoccupata per miss Radcliffe: la povera donna adesso era interamente
sotto le
cure della governante di Pemberley, e visto come Mrs. Duncan era parsa
a
conoscenza di parecchie cose, la notte prima, Emma dubitava che fosse
una
persona a cui affidare la vita della donna che l’aveva
cresciuta.
D’altra
parte, cosa poteva fare? Era prigioniera in quella stanza di cui solo
Adam
possedeva le chiavi, e l’infreddatura la costringeva a letto
– aveva provato ad
alzarsi, certo, ma una forte ondata di nausea e un feroce pulsare alle
tempie
le avevano fatto cambiare rapidamente idea, costringendola a rintanarsi
sotto
le coltri. Aveva potuto abbandonare il letto soltanto quando la
governante
arrivò a portarle la colazione e il pranzo –
malgrado i sentimenti contrastanti
che provava nei confronti di Mrs. Duncan, Emma si ritrovò
grata per la
familiare presenza di un altro essere di genere femminile al suo fianco.
La
donna si era ostinata a non voler parlare, e le sue visite nella stanza
si
riducevano a mormorii di parole di incoraggiamento e di vane
assicurazioni che
nulla le avrebbe fatto del male. Come se avesse potuto fidarsi!
Immersa
com’era nel silenzio, Emma si ritrovò a
considerare che, se solo l’approccio di
Adam fosse stato differente – se, tanto per cominciare,
avesse palesato sin da
subito la sua presenza, e se le avesse chiesto gentilmente e non
tramite
minacce e imposizioni di essergli amica – probabilmente non
si sarebbe sentita
in dovere di ribellarsi per principio, né avrebbe cercato di
fuggire. Difatti, malgrado
la sua tenacia nel volerla privare della vista del suo aspetto, Adam
sembrava
una persona intelligente, un gentiluomo – quando non tentava
di tiranneggiare
sulla sua vita – un uomo di cultura con cui intrattenere una
conversazione non
pareva difficile né spiacevole; ma tutti questi tratti
evaporavano nel nulla
davanti al comportamento che egli aveva scelto di sfoderare nel
trattare con
lei, e che la facevano sentire né più
né meno che una prigioniera privata del
libero arbitrio. E, dovendo essere onesta, Emma era stanca di avere
uomini
intorno che si arrogavano il diritto di decidere per lei.
Con
uno sbuffo assai poco signorile, si domandò fino a quando
egli aveva intenzione
di portare avanti quella farsa, e se il fatto di avere tra le mani una
giovane
donna influenzata e con i nervi a fior di pelle sarebbe servito a far
rinsavire
il padrone del castello – quanto la irritava riconoscergli
quel titolo – e a
fargli realizzare che non era in suo potere trattenerla a lungo
rinchiusa tra
quelle quattro mura.
Come
se non tutto ciò non fosse di per sé abbastanza,
gli incubi continuavano a
tenerla sveglia per tutta la notte. Ogni volta che riusciva
faticosamente a
chiudere gli occhi, immagini terribili di figure spettrali insanguinate
e
fiamme e scuri abissi la tormentavano fino a farla risvegliare in
lacrime, con
la testa che le pulsava dalla febbre e dalle visioni, lasciandole
addosso
un’orribile sensazione di sventura. Erano trascorsi tre
giorni dalla fatidica
notte in cui aveva visto quelle creature aggirarsi per il castello
– o
perlomeno così credeva: di recente aveva perso la cognizione
del tempo – e
ancora non aveva la più pallida idea di chi o che cosa
fossero, e soprattutto
che cosa volessero da lei.
Fantasmi, le sussurrava debolmente una voce
all’interno della sua testa. Ma la sola idea era talmente
ridicola che
preferiva fingere di non udirla, preferendo accantonarla in favore di
ipotesi
più razionali; non era più una bambina che teneva
una candela accesa accanto al
letto per timore del buio, per l’amor di Dio!
L’unica
volta in cui aveva racimolato sufficiente coraggio per chiedere
spiegazioni ad
Adam, durante la loro prima e unica cena, egli si era rifiutato di
fornirle
anche la più piccola spiegazione, la qual cosa non
contribuiva certo a
migliorare l’opinione che aveva di lui. Che senso aveva
tenerla all’oscuro,
farla vivere nel terrore, se egli era davvero sincero quando diceva di
non
volerle alcun male, e che anzi sperava di avere la sua amicizia?
Emma
aveva paura, ma a questo punto non sapeva più di cosa.
Al
suo sempre più crescente senso di timore, si aggiungeva
inesorabile tutto il
peso dell’irrequietudine: non era abituata a rimanere a lungo
senza impiegare
il suo tempo in qualcosa di utile e costruttivo, e limitarsi a giacere
a letto
oziando dalla mattina alla sera – pur ammettendo che la
febbre avrebbe potuto
giustificare tranquillamente il suo riposo – iniziava a darle
sui nervi. Per
questo motivo accolse con qualcosa simile a sollievo l’arrivo
di Adam
nell’ormai sua stanza da letto, grata della distrazione
ch’egli portava alle
sue turbolente riflessioni.
Sollevò
lo sguardo su di lui quando il suo volto mascherato apparve sulla
soglia della
porta, ma fu ciò che teneva tra le braccia che
attirò la sua attenzione
strappandole un verso sorpreso e un’espressione di quieta
ammirazione. Il
guaito dell’animale la fece sorridere subito, e
d’istinto allungò le braccia
verso di lui: nel vederlo, Emma non aveva potuto fare a meno di provare
un’imbarazzante senso di colpa: come aveva fatto a
dimenticarsi del suo adorato
Aramis?
Senza
dire una sola parola Adam attraversò la camera e si
fermò accanto al letto,
chinandosi per deporle il cagnolino in grembo.
«Ho
pensato che potesse farvi piacere, avere il vostro amico»,
fece a mezza voce,
osservandola mentre era tutta intenta a coccolare Aramis, che ansimava
e
scodinzolava felice, strofinandole il muso contro le mani e il ventre.
«Sì,
io… ah… grazie», mormorò,
sollevando appena lo sguardo per incontrare il suo. Adesso
era perplessa: se si trovava in quelle condizioni, febbricitante e
costretta a
letto, la colpa era da far ricadere unicamente su di lui…
Eppure ecco che lo
ringraziava per la seconda volta, ecco che lo lasciava restare nella
stanza
insieme a lei a prender parte a un momento di intimità che
non credeva di dover
condividere.
Mentre
coccolava il suo cucciolo, che palesemente aveva sentito la sua
mancanza, notò
con la coda dell’occhio Adam che spostava alcuni mobili, tra
cui una sedia e un
tavolino da gioco portato da chissà quale altra stanza,
proprio vicino al suo
letto. A questo punto si voltò per osservarlo
deliberatamente, guardandolo
mentre si sedeva in modo da esserle di fronte e inarcando un
sopracciglio
all’inattesa vicinanza.
L’uomo
ricambiò allora il suo sguardo, e il modo in cui i suoi
occhi chiari
luccicarono attraverso i buchi della maschera le fece sospettare che le
stesse
sorridendo.
«Sapete
giocare a scacchi?» Domandò gentilmente, come se
fosse una cosa del tutto
normale da chiederle in quel frangente.
«Mi
piace pensare di sì, signore», rispose cauta,
cercando di capire a cosa doveva
l’improvvisa curiosità.
Egli
si limitò ad annuire, e da dietro la schiena tirò
fuori una scacchiera e un
sacchetto di velluto contenente, a giudicare dal rumore, le pedine del
gioco.
Prese a disporli sul tavolino con precisione e, senza quasi rendersene
conto,
l’ombra di un sorriso apparve sul viso di Emma.
«Se
vi avessi detto che non ne ero capace, che cosa avreste tirato
fuori?» Gli
chiese con appena l’accenno di un tono scherzoso.
Sorpreso
ma intimamente compiaciuto dal tono della sua voce, egli le rispose in
eguale
maniera. «Sempre una scacchiera, milady: non ho ancora
imparato trucchi di
prestigio. E ad ogni modo vi avrei insegnato a giocare,
perché sarebbe stata
una lacuna imperdonabile da parte vostra.»
Emma
confermò con un lieve cenno del capo e un ancor
più debole sorriso la verità
della sua affermazione, e rimase ad osservare in silenzio mentre
l’uomo finiva
di sistemare con cura le pedine sul campo da gioco.
Parlò
solo per domandarle quale colore preferisse. «I
bianchi», rispose subito lei.
«Hanno il privilegio di muovere per primi.»
La
maschera celò ancora l’ennesimo breve sorriso che
apparve sul volto di Adam.
Emma
non si era accorta di quanto desiderasse una qualsiasi forma di
intrattenimento
fin quando non iniziò a muovere un pedone dopo
l’altro, studiando attentamente
l’andamento del gioco come suo padre le aveva insegnato sin
da quando era stata
abbastanza grande da poter stare seduta composta su una sedia. Aramis,
riconoscendo la concentrazione della sua padrona poiché
diverse volte in
passato aveva assistito a simili passatempi, rimase quieto al suo
fianco,
raggomitolato sopra la coperta e sonnecchiando tranquillo.
Quando
si trattava degli scacchi, sapeva di essere feroce; e quello svago
capitava
proprio in un momento in cui aveva decisamente bisogno di sfogare in
qualche
modo tutta la tensione accumulata. E Adam, seppure in silenzio e senza
quasi
respirare, era un degno avversario ben capace di sostenere la sua
sfida; per
cui decise di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero, e di
occuparla
unicamente nella ricerca di strategie di vittoria.
All’improvviso,
però, il suo avversario dovette decidere che il silenzio era
durato abbastanza.
«So
di avervi spaventato», esordì in un mormorio.
Emma
sollevò lo sguardo dalla scacchiera, sorpresa, posandolo su
quella maschera
bianca che ormai pareva essere espressiva quanto un volto vero. O forse
era
solo lei che aveva imparato a conoscere ogni sfumatura della sua voce
tanto da
poter chiaramente decifrare i suoi sentimenti… Decise di
ignorare quell’inutile
riflessione, e osservò di sbieco il suo anfitrione in attesa
che proseguisse
con il suo discorso.
Così
egli fece, modulando magistralmente la voce come si fa con la creta.
«Sì, anche
se forse non ci credete. Lo so. Non avreste provato a fuggire nel cuore
della
notte, altrimenti, senza neppure soffermarvi a riflettere su
ciò che stavate
facendo», chiarì, con quella che le parve una
sorta di amara dolcezza. «Mi
rincresce avervi ispirato un terrore tale da farvi ritenere che
perdervi nella
brughiera al gelo e senza idea di dove andare fosse un destino
preferibile al
rimanere in mia compagnia un minuto di più. So di meritare
il vostro astio e
probabilmente persino la vostra diffidenza, poiché non vi ho
dato modo di
fidarvi di me… E per questo motivo vi porgo le mie
più sincere scuse.»
Se
c’era qualcosa che Emma non si sarebbe aspettata di ricevere,
era una richiesta
di perdono; e il tono sinceramente contrito con cui gliela aveva
offerta non
faceva che aggravare la sua incredulità. Che cosa avrebbe
dovuto rispondere? Si
aspettava che scrollasse le spalle e respingesse le sue parole con un
gesto
della mano, fingendo che non fossero necessarie? O forse doveva
limitarsi a
chinare il capo, accettarle e continuare a comportarsi come se
l’uomo fosse
innocente e lei non fosse la vittima della situazione?
Emma
poteva apprezzare il gesto – non vi avvertiva alcuna malizia,
in fondo – ma non
aveva idea di che farsene. Aveva l’acuta sensazione, ormai
era anzi quasi una
certezza, che il padrone stesse cercando di accattivarsela in tutti i
modi
possibili, cercando di giungere con le buone maniere ove le minacce non
avevano
sortito il loro effetto, e la giovane temeva di poter dire o fare
qualcosa che
rassicurasse Adam di esservi riuscito. Non voleva che egli si trovasse
eccessivamente a suo agio in sua compagnia, ma d’altro canto
le pareva poco
gentile non riconoscere i suoi sforzi e ammettere che il suo modo di
comportarsi improvvisamente amichevole e affettuoso aveva buone
possibilità di
riuscire nel suo intento.
Come
le accadeva spesso quando si trovava in situazioni particolari per la
prima
volta, Emma volse i propri pensieri a miss Radcliffe, e si
domandò mestamente
che cosa la sua istitutrice avrebbe avuto da dire al riguardo.
Probabilmente le
sarebbe venuta una crisi di nervi al suo posto, e l’avrebbe
supplicata di non
comportarsi in maniere che potessero danneggiare la sua reputazione
– benché ci
fosse poco che potesse fare a proposito, dato che si trovava alla
mercé di un
uomo che non conosceva, in camicia da notte e senza alcuno chaperon;
detto ciò,
era possibile che neppure la donna, nella sua saggezza, avrebbe potuto
consigliarla sulla condotta migliore da adottare.
La
decisione spettava dunque unicamente a lei, e sotto questo peso ella
prese un
profondo respiro.
«Se
vinco», esordì dopo un silenzio tanto lungo da far
credere che non ci sarebbe
stata alcuna replica alla confessione di Adam. «Se vi batto a
scacchi, mi
lascerete nuovamente libera di gironzolare per il castello?»
L’uomo
la osservò con aria sorpresa e vagamente perplessa, cercando
un collegamento
con ciò che le aveva detto e con la risposta che aveva
ottenuto; ed era
probabile che alla fine dovette trovarlo, perché i suoi
occhi assunsero una
sfumatura divertita poco prima ch’egli annuisse sorridendo.
«Naturalmente,
milady. Avete la mia parola.»
«Bene»,
fu tutto ciò che la giovane disse, e da quel momento in poi
la partita proseguì
nel più assoluto silenzio.
Quando
infine Emma fece scacco matto, neanche un’ora dopo, Adam
accettò la sconfitta
con un elegante cenno del capo. Ma per qualche strana ragione la
vittoria non
fu troppo soddisfacente – aveva la strana sensazione che lui
gliel’avesse
concessa soltanto per farsi perdonare.
C’era
qualcosa che non riusciva a togliersi dalla mente da diverse settimane,
ormai,
e vista la nuova direzione che stava prendendo la sua relazione con
Adam –
benché tale definizione suonasse strana se riferita a loro
– Emma aveva deciso
che valeva la pena introdurre il discorso e vedere cosa avrebbe potuto
ricavarci.
Si
trovavano nella biblioteca; quella mattina Emma si era svegliata senza
tremori
né febbre, e dopo un rapido controllo di Mrs. Duncan e la
conferma da parte sua
che l’influenza era passata, aveva chiesto al suo ospite se
le era possibile
uscire finalmente da quella camera da letto, come da promessa, ed egli
aveva
sorprendentemente acconsentito proponendole di prendere il
tè nella biblioteca.
Ritrovarsi
nuovamente in quell’ambiente accogliente e familiare ebbe su
di Emma un ottimo
effetto: vedere la luce entrare dalle immense vetrate, inspirare il
profumo dei
libri e dei fiori freschi che la governante aveva preso a disporre
nella stanza
per sua disposizione, persino sedere per terra di fronte al camino con
Aramis
accucciato ai suoi piedi servì a calmarla e a metterla a suo
agio come non lo
era stata da giorni. E stranamente non era disturbata dal fatto che
stavolta
Adam si trovasse in quello che lei aveva iniziato a considerare il suo
piccolo
angolo privato del castello – benché trovasse
inevitabile rimanere all’erta
vicino a lui, vederlo seduto su una poltrona a pochi passi da lei era
in un
certo qual modo rassicurante.
Così,
cullata dall’atmosfera pacifica del momento, Emma decise di
indulgere nella
propria curiosità.
«Se
permettete, c’è qualcosa che vorrei
chiedervi», esordì, continuando ad
accarezzare il morbido capo del suo cucciolo con fare distratto. Prese
nota di
avere l’attenzione dell’uomo sotto forma di un
lieve cenno d’assenso, e decise
di proseguire prima di perdere il coraggio. «Riguarda un
diario che ho trovato
settimane fa, mentre curiosavo per il castello…
Nell’ala Ovest, per la
precisione.»
Con
la coda dell’occhio notò il lieve irrigidirsi del
suo compagno, ma poiché egli
non diede mostra di voler interromperla – forse anche lui
peccava di curiosità,
in fondo – Emma andò avanti. «Era di un
certo dottore, un tale Murray, mi pare…
E volevo chiedervi per quale motivo fosse in vostro possesso, visto che
non mi
risulta che ci fosse alcun Murray recente nell’albero
genealogico dei Rochester
o dei Pemberley. Ho trovato i registri alcune settimane fa»,
spiegò quando lo
vide piegare appena il capo di lato con aria interrogativa.
«E ho scoperto
anche che il titolo dei Rochester risale all’epoca di Enrico
VI, e non ci sono
Murray per generazioni. Ad ogni modo, da quanto ho potuto leggere
chiunque
abbia scritto quel folle diario non pareva essere imparentato con
alcuna
famiglia nobile, o avrebbe di certo lasciato il suo stemma o il suo
titolo da qualche
parte tra le pagine. Insomma, ho trovato curioso che quelle memorie
fossero nel
castello senza che ci fosse nessun legame apparente con i precedenti
proprietari; voi avete idea di chi si tratti?»
Adam
non le disse che non avrebbe dovuto leggere quel diario in primo luogo
e che
avrebbe dovuto evitare di ficcare il naso in faccende che non la
riguardavano,
per il semplice motivo che stava cercando di comportarsi in maniera
decente e
degna di un qualsiasi altro gentiluomo dell’alta
società. Dopotutto, poteva ben
capire che la giovane doveva essersi annoiata parecchio per essersi
ritrovata a
vagare per l’Ala Ovest senza conoscere il luogo e rischiando
dunque di perdersi
nella stessa casa in cui ora abitava; e d’altronde che male
poteva esserci se
saziava la sua curiosità al riguardo? Non c’era
bisogno di rivelarle grossi
segreti – avrebbe potuto parlare del dottor Murray senza far
trasparire nulla
più che una semplice e frammentaria conoscenza.
Decisione
presa, raccolse le idee e le rispose.
«Per
quel poco che so, il dottor Murray era un amico del conte di
Rochester», iniziò
a mezza voce Adam, scegliendo con cura le parole.
«Benché discendesse da una
famiglia ricca e rispettata, non godeva di una fama altrettanto
gentile, e per
lo più conduceva una vita solitaria e appartata,
ostracizzato dalla società
londinese. Per via di alcune sue discutibili ricerche, i suoi stessi
colleghi
iniziarono a considerarlo un pazzo, un folle visionario… Un
eretico,
addirittura. Non so tramite quale connessione avesse sviluppato
un’amicizia con
il conte, e non conosco neanche la vera natura di questo rapporto, ma a
quanto
pare rimasero in contatto fino alla morte di entrambi. Se avete letto
attentamente il diario, di certo converrete che il dottore era incapace
di
ragionare in modo coerente.»
«Certe
riflessioni erano molto elusive», mormorò Emma con
delicatezza. «Ma mancano
diverse pagine, e forse ho perso qualche collegamento
nell’intero discorso.
Narrava anche di particolari esperimenti sugli esseri umani, credete
sia
possibile che li abbia fatti davvero o si trattava solo di semplici
vaneggiamenti?»
«Ritenete
impossibile che li abbia compiuti, milady? Rimarreste scioccata nello
scoprire
di che genere di barbarie è capace l’essere
umano», replicò egli a mezza voce,
il viso rivolto verso le fiamme del camino. Nel suo tono vi era
qualcosa che la
costrinse a sollevare lo sguardo su di lui, ma con quella maledetta
maschera
era impossibile comprendere davvero che cosa gli passasse per la testa.
Eppure
non osava domandargli di levarla, memore del loro primo incontro e
della
veemenza con cui l’aveva avvertita al riguardo; e, per
rispetto di quella
strana quiete che si era venuta a formare tra loro, Emma aveva deciso
di
lasciar perdere.
«Trovo
solo strano che un uomo di scienza come egli si definiva potesse
ricorrere a
biechi mezzi per l’unico scopo di saziare qualche dubbio
filosofico», fu la sua
prudente risposta. «Insomma, stiamo parlando di qualcosa
avvenuta poco più di
dieci anni fa a Londra, per l’amor del cielo, una
città i cui abitanti vantano
un certo grado di civilizzazione. Pensare che qualcuno possa aver
trattato un
altro essere umano alla stregua di una cavia da laboratorio…
Non so, è
terrificante.»
«Mh.
Terrificante, invero.» La voce di Adam fu un sussurro a
malapena udibile al di
sopra del crepitio delle fiamme del camino. «Ma forse il
dottore si nascondeva
dietro una maschera di modernità e progresso con la speranza
che il marcio del
suo animo rimanesse ben lontana dalla luce… Avete mai letto
Il ritratto di Dorian Gray, milady?» Emma fece un
breve cenno
di diniego del capo: suo padre le aveva proibito la lettura della
maggior parte
delle opere di sir Wilde, ma ora sperava che il suo ospite potesse
sopperire
alla sua mancanza. «No? Un romanzo terribile nella sua
bellezza. Malgrado le
disgrazie che capitavano intorno al protagonista, nessuno avrebbe mai
potuto
dubitare della sua buonafede, per il semplice fatto ch’egli
fosse di
bell’aspetto, di discreta educazione ed estrazione sociale e
che avesse un
particolare affetto per le arti; era un così ottimo esempio
di ciò che il
gentiluomo inglese deve essere che nessuno avrebbe mai creduto che le
sue mani
fossero lorde di sangue. Non è su ciò che si basa
la società londinese, forse? Sulla
repressione di ogni forma di istinto naturale affinché
soltanto il perfetto e
distaccato involucro dell’apparenza sia tutto ciò
che viene giudicato dal
prossimo? Probabilmente voi avete avuto la fortuna di crescere in un
ambiente
sereno di questo tipo, protetta da ogni genere di oscenità,
e non posso
biasimare di certo i vostri genitori per avervi tenuto alla larga
dall’orrido;
ma posso assicurarvi che Londra è tutto fuorché
una città tranquilla una volta
che si esce dagli eleganti salotti dell’aristocrazia. E il
dottor Murray… Ammetto
di aver letto anche io il suo diario, e devo dire che mi sorprende che
un
elemento del genere non sia stato rinchiuso in qualche
istituto… Ebbene, per
essere stato bandito da ogni casa rispettabile doveva aver assunto un
comportamento davvero impossibile da ignorare, anche secondo i canoni
più
tolleranti dell'epoca. Dovreste sapere che se c'è qualcosa
di cui sono ben
capaci gli inglesi, è il conservare rancore come fosse un
gioiello prezioso.»
Emma
avrebbe quasi potuto giurare ch'egli parlasse per esperienza
strettamente
personale, e per un lungo momento dopo che l'uomo ebbe concluso il suo
breve
discorso rimase in silenzio, incerta e insicura su ciò che
avrebbe potuto
offrirgli in risposta senza rischiare di offenderlo.
Alla
fine, decise di ritornare al principio della conversazione.
«Da come ne parlate
sembra quasi che voi abbiate conosciuto quest’uomo, e che non
ne aveste neppure
un’opinione tanto gentile», osservò
quasi con noncuranza.
«Perdonate
la mia veemenza», si affrettò a scusarsi,
voltandosi subito verso di lei. «Le
mie sono solo deduzioni e riflessioni ad alta voce. Ho letto spesso
quel diario
e lo conosco quasi a memoria, e ormai mi pare di conoscere chiunque
l’abbia
scritto come fosse un mio intimo conoscente. Ma dubito che, avendone
avuto
l’occasione, avrei potuto instaurare una relazione di alcun
genere con un uomo
del genere – neppure io sarei stato capace di tollerare
qualcuno che spaccia
per scienza gli esperimenti di uno squilibrato. Un macellaio che finge
di
essere un dottore… Certe maschere sono impossibili da
comprendere e
giustificare.»
Ancora
quella parola, ancora quell’esempio; Emma inarcò
perplessa un sopracciglio. «Devo
dire, signore, voi avete una certa ossessione per le
maschere.»
Adam
emise una sorta di sbuffo sarcastico. «Voi dite? Non
più del resto del mondo,
direi. Io ho semplicemente il buon gusto di denunciare la mia e non
spacciarla
per vera.»
Era
una buona risposta, quasi filosofica, ed Emma si ritrovò ad
annuire,
riconoscendola e persino condividendola. Eppure, dava adito a tante
altre
domande, e lei non resistette dal porgergliene ancora una.
«Allora chi siete
voi, veramente?»
Egli
parve rifletterci sul serio, e la giovane notò che si stava
sforzando di non
incrociare il suo sguardo come se temesse, in caso contrario, di dire
qualcosa
di cui si sarebbe pentito. Fissava con insistenza le fiamme del camino,
come se
in esse ci fosse la risposta ai quesiti
dell’umanità, e tamburellava le dita
della mano destra sul bracciolo della poltrona. La pendola ticchettava,
ed Emma
attendeva.
Alla
fine, dopo un silenzio innaturalmente lungo, sospirò
rassegnato e scosse appena
il capo. «Adam. Sono solo Adam»,
sussurrò.
La
risposta non era esattamente soddisfacente, né tantomeno
esaustiva. Egli amava
parlare ma non di sé stesso, ed Emma non poté
fare a meno di chiedersi, per
l’ennesima volta, quale fosse il segreto che si sforzava di
nascondere con la
stessa estenuante ferocia di chi cela il peccato. Chi era Adam? Chi era
l’uomo
dietro la maschera? Più ripeteva allo strenuo quei quesiti
tra sé e sé, più
realizzava che vi era ancora molto che non sapeva; se davvero egli era
“solo Adam”, per quale motivo i
domestici, e una donna severa e autoritaria come Mrs. Duncan per di
più,
chinavano il capo e gli obbedivano senza discutere e tremavano persino
al solo
accenno del suo nome? Era forse pericoloso? Era un criminale che aveva
stabilito la sua dimora a Pemberley e minacciava l’anziana
coppia di custodi
costringendoli a trattarlo da piccolo lord?
Nelle
mani di chi era finita, per l’amor del cielo? E
perché era così difficile
ottenere delle risposte in quel castello dimenticato da Dio?
Osservò
con aria pensosa Adam che poneva bruscamente fine alla loro
conversazione
alzandosi dalla poltrona e attraversando la biblioteca per raggiungere
il
pianoforte, sedendovisi di fronte e sollevando il copri tastiera con
una cura
reverente. Continuò a guardarlo mentre si sfilava i guanti
un dito per volta
per poi posarli accanto a sé sullo sgabello, e i suoi occhi
seguirono i
movimenti delle sue mani callose mentre apriva lo spartito e cercava
una
qualche pagina in particolare.
Non
appena le sue dita sfiorarono l’avorio dei tasti, la musica
sgorgò dallo
strumento con l’entusiasmo e la forza di una mareggiata,
mettendo a tacere
qualsiasi altro suono o pensiero estraneo. Era magnifica, straziante e
dolorosa, commovente e drammatica, ondeggiava tra note invadenti come
bufere e
note delicate e leggiadre come amare carezze. Ed era,
sorprendentemente,
familiare.
Emma
riconobbe immediatamente quella musica.
«Avrei
dovuto immaginare che foste voi l’autore
misterioso», mormorò a mezza voce,
posando il mento sul palmo della propria mano e lasciandosi incantare
dalla
musica sapientemente composta. Egli fece un breve cenno
d’assenso col capo
nella sua direzione per confermare la sua gentile accusa, e continuando
a
suonare per il resto del mattino rese superflua ogni altra forma di
conversazione.
Chiunque
fosse questo Adam, egli doveva aver di sicuro ricevuto
un’educazione degna del
più nobile tra gli aristocratici; e ciò non
faceva che infittire il mistero che
lo circondava.
Lawrence
Alexander Moore, quarto conte di Grantham e onorevole membro della
Camera dei
Lord, dimostrava ormai ben più dei suoi cinquantasei anni.
Gli ultimi mesi
erano stati una prova difficile tanto per la figlia quanto per lui, e
adesso
molto più bianco si era aggiunto ai suoi capelli, ed era
dimagrito al punto da
essere diventato la metà dell’uomo che era un
tempo.
Mangiava
saltuariamente, più per abitudine e per mettere a tacere le
proteste del suo
maggiordomo che per vero bisogno, e aveva raddoppiato la sua dose
giornaliera
di brandy e sigari: il suo bicchiere era sempre pieno, e nel suo studio
aleggiava sempre l’odore acre del fumo – sarebbe di
certo morto asfissiato se
di tanto in tanto non fosse entrata una cameriera a spalancare
misericordiosamente
le finestre. Dormiva poco, e quando cedeva alle lusinghe di Morfeo non
riusciva
a riposare – il letto era troppo vuoto per ospitare una sola
persona, e per
questo aveva iniziato ad appisolarsi sulla poltrona dello studio o nel
lettino
dello spogliatoio, dove talvolta la sua povera sposa lo costringeva a
dormire
se durante il giorno avevano avuto un alterco particolarmente
appassionato. Se sua
figlia Emma lo avesse visto in quel momento, dopo quasi due mesi di
lontananza,
lo avrebbe di certo rimproverato; ed era questo uno dei motivi per cui
aveva preso
la decisione di spedirla in campagna – non voleva che la
ragazza trascorresse
il duro periodo di lutto a preoccuparsi ulteriormente per lui, non era
quello
il suo scopo, e il conte non voleva diventare un peso o una vergogna
per la
giovane ereditiera.
Per
quanto desiderasse avere la figlia al suo fianco, non le avrebbe mai
permesso
di assistere alla lenta autodistruzione dell’un tempo
onorevole e fiero conte
di Grantham.
Anche
per questa ragione il conte continuava a rimandare e rimandare il
giorno in cui
avrebbe dovuto raggiungerla nella loro proprietà del Nord
Yorkshire – avrebbe
voluto raggiungerla già alla fine del primo mese, ma quando
aveva visto le
conseguenze della sua solitudine e della sua disperazione, aveva
preferito
attendere di essere nuovamente in forze, o perlomeno decentemente
presentabile.
Per il momento, sfortunatamente, la sua situazione era solo peggiorata
invece
di migliorare, ed era stato con immenso sollievo che aveva accettato la
proposta del giovane Caledon di passare a trovare la sua promessa
sposa; il
ragazzo era stato persino tanto gentile e considerato da prendersi il
tempo di
spedire una lettera al futuro suocero in cui gli raccontava della
visita – di
come miss Radcliffe fosse momentaneamente influenzata, di come
ritenesse che il
castello fosse troppo grande per avere soltanto tre domestici, di come
la
proprietà intera gli avesse lasciato speranze per il
prossimo futuro in cui
avrebbe potuto, magari, con la sua benedizione, prendervi residenza
dopo il
matrimonio. Ma soprattutto gli aveva parlato di Emma in toni
così gentili e
affettuosi che il conte si ritrovò a provare pena per lui,
poiché sapeva bene
che i sentimenti della figlia ancora non riuscivano a eguagliare quelli
del
fidanzato; gli disse di averla trovata in salute, riposata, e che
malgrado la
preoccupazione naturale per la sua istitutrice e il peso del gestire da
sola
una simile magione, Emma stava gestendo bene la situazione e a suo
parere stava
riuscendo pian piano a digerire il lutto.
E
dunque con quale coraggio avrebbe potuto raggiungerla? Sarebbe andato a
portarle la sua sempre vivida afflizione proprio quando lei ne stava
appena
guarendo, e al dolore della scomparsa della madre avrebbe solo aggiunto
l’apprensione per la condizione fisica e mentale del padre.
No, non poteva;
avrebbe aspettato ancora, avrebbe cercato di riprendersi, e solo allora
l’avrebbe raggiunta. Si fidava di lei e della donna alle cui
cure l’aveva
assegnata, e benché conoscesse solo tramite corrispondenza
gli attuali custodi
e domestici di Pemberley, poteva dire di trovarli adeguati e degni a
loro volta
di fiducia.
Sua
figlia era quindi in buone mani, ed era lieto di non doversi crucciare
anche
per lei.
Era
attualmente impegnato a redigere dei documenti riguardanti le
proprietà della
sua defunta moglie, quando il suo lavoro venne interrotto da un leggero
bussare
alla porta dello studio. Sulla soglia apparve quindi la figura rigida e
impettita di Mr. Logan, il maggiordomo di Hambleton che lo aveva
accompagnato a
Londra come consuetudine, con un piccolo vassoio tra le mani su cui il
conte
poté notare una lettera.
«Perdonate
il disturbo, milord», esordì Logan, con il suo
solito cipiglio severo. «È appena
arrivato un telegramma per voi.»
Mettendo
da parte i vari documenti egli fece cenno al maggiordomo di
avvicinarsi,
prendendo un affilato tagliacarte dalla scrivania e usandolo per aprire
la
busta della lettera. Quindi l’avvicinò alla
lampada a gas e, inforcati gli
occhiali sulla punta del naso, lesse.
Telegramma di Sir
Arthur Carlisle al Conte di Grantham
Milord: ho ragione di
credere che vostra figlia sia in grave pericolo STOP Impossibile
raccontare
ogni cosa per lettera STOP Raggiungete Pemberley Manor il prima
possibile STOP
In fede, un amico.
«Che
diavolo», borbottò sconcertato il conte,
rileggendo un altro paio di volte il
curioso messaggio. «Quando è stato
spedito?»
Mr.
Logan diede una rapida occhiata al retro della busta.
«Pare… quattro giorni fa,
milord. Strano che sia arrivato così in ritardo»,
rispose, per poi scrutare
brevemente il volto rannuvolato del suo padrone. «Va tutto
bene, milord?»
Il
conte esitò un momento, le dita ancora strette su quel
foglio in sé privo di
valore. «Non ne sono molto sicuro, Logan, in
realtà», rispose, mentre una
gelida apprensione si faceva largo nelle sue ossa. «Credo che
sia ora di
organizzare il mio viaggio a Pemberley Manor, dopotutto. Iniziate a
dare
disposizioni, vi dispiace? Ho intenzione di partire il prima possibile.
Ah, e…
Logan?»
«Sì,
milord?»
«Informatevi
su questo Arthur Carlisle e procuratemi il suo indirizzo. Voglio
parlarci.»
Il
maggiordomo annuì, conscio dell’improvvisa
serietà della faccenda.
«Subito,
milord.»
_______________________________________________________
¹ «I
morti viaggiano veloci.» Verso tratto dalla Lenore
di Gottfried August Bürger
(1747-94), noto poeta tedesco. La ballata canta la fuga di Lenore con
lo
spettro del suo amante defunto.
_______________________________________________________
Note
dell’Autrice.
Chiamatemi Lazzaro
– sono resuscitata!
Davvero, non ci sono
abbastanza parole per
chiedervi scusa. Dopo quasi nove mesi di attesa, partorisco un capitolo
riflessivo, uno dei più difficili in assoluto che mi sia mai
ritrovata a
scrivere, e dove succede poco e niente – però i
nostri due protagonisti si
limitano ad imparare a conoscersi l’un l’altro, e
una conversazione circa-meno-quasi
civile è capace di fare miracoli, no?
Parlando brevemente della
digressione
filosofico/letteraria su Dorian Gray a fine capitolo: chiedo perdono se
è
confusa, errata o sconclusionata; l’ho scritta pensando a
come un personaggio
come Adam avrebbe potuto interpretarlo, dunque non la voglio spacciare
per
vera, sbagliata o altro. E in ogni caso l’arte è
relativa e soggettiva, e
ognuno la elabora e la comprende a seconda di quali sono le sue
esperienze di
vita.
E abbiamo anche conosciuto,
finalmente, il padre
di Emma: spero che non sia uscito come il peggior padre
dell’anno, e che le sue
ragioni per aver lasciato finora la figlia da sola e a mille miglia da
casa
siano, se non valide e giustificabili, perlomeno comprensibili?
Come al solito, i
ringraziamenti sono d’obbligo. Le
vostre recensioni sono sempre meravigliose e le leggo e rileggo in
continuazione quando sono bloccata e non so cosa scrivere
perché mi tirano su
il morale e mi spingono ad andare avanti anche se con i miei tempi
lentissimi,
e quindi sono sempre ben accette! Un enorme grazie, dunque, a Sylphs,
k_Gio_, Sissi Bennett, Jolly
J, NinaTheGirlWithTheHat e Se7f
per aver recensito con splendide parole lo scorso capitolo, e
ovviamente un
bacio e un abbraccio enorme a tutti coloro che continuano a leggere,
instancabili
e fiduciosi, e ad aggiungere la storia a Preferiti e Seguiti!
Non posso farvi promesse
per il prossimo capitolo,
vi posso dire solo di rimanere collegati e di pregare tutti i santi che
conoscete xD Se vi consola io ho il mio bel diavoletto che mi
punzecchia con la
sua forca e mi fa scrivere fino a non farmi più sentire le
dita – o perlomeno
ci prova – e sì, Christine23,
sto
guardando proprio te. ù_ù
Come al solito, per
qualsiasi domanda, dubbio,
curiosità o semplicemente per un ciao,
trovate tutti i link che volete al mio profilo!
E ora vi lascio alla vostra
estate con un bacio,
un altro abbraccio e tante care cose ♥
Sempre la vostra
Niglia.
|
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Capitolo 12 *** Chapter 11. An Unfortunate and Deserted Creature ***
11
An Unfortunate and Deserted Creature
Ero buono:
la miseria
ha fatto di me un demone.
Rendimi
felice, ed io
sarò di nuovo virtuoso.
[Mary
Shelley, Frankenstein]
Il
suono sordo dello sparo rimbombò nella radura come un tuono,
provocando
l’abbaiare bramoso e furioso dei cani. Ad esso
seguì il rapido e brusco
clangore metallico del fucile che veniva svuotato dalla cartuccia ormai
inutile
e ricaricato con una nuova, dopodiché l’arma venne
sollevata fino a riposare
morbidamente contro la spalla del suo proprietario.
«Ottima
mira, milord», complimentò una voce dal ruvido
accento scozzese.
Caledon
si limitò ad annuire, lo sguardo perso verso un punto
indefinito del paesaggio
laddove gli animali erano accorsi per recuperare le prede colpite. Con
un lieve
aggrottare della fronte, l’uomo realizzò che la
caccia non aveva più su di lui
l’effetto liberatorio e rilassante che aveva un tempo: non
riusciva ad
avvertire quel piacevole spossamento dovuto a una lunga giornata
trascorsa in
campagna tra amici, cani e cavalli, ma solo il fastidio derivante da
un’apatica
indolenza che non gli apparteneva.
Solo
l’anno prima la stagione di caccia aveva occupato interamente
la sua mente e le
sue forze, i pensieri completamente rivolti all’eccitazione e
alla sensazione
di potere che procurava il possedere e utilizzare un’arma
così elegante e
letale davanti alla quale nessuna preda era al sicuro; adesso, invece,
tutto
sembrava avvolto da un velo cupo di ansia e preoccupazione che non lo
lasciava
riposare in pace.
Principale
colpevole del suo attuale stato d’animo era
l’incomprensibile silenzio da parte
di Emma. Le aveva già inviato tre lettere, nessuna delle
quali aveva ricevuto
risposta – cosa che trovava oltremodo curiosa, considerando
il caloroso
benvenuto che aveva ricevuto da parte sua quando era andato a trovarla
a
Pemberley. Era forse rimasta offesa in qualche modo? Si era comportato
male, magari,
aveva oltrepassato i limiti quando era stato costretto a rimanere a
dormire al
castello?
Forse
il servizio di posta del villaggio era semplicemente poco affidabile,
ma
qualcosa gli diceva che l’assenza di notizie da parte della
sua fidanzata aveva
ben altre radici. Dopotutto, malgrado fossero trascorsi già
dieci giorni, non
era la prima volta che Emma faceva passare tutto quel tempo da una
missiva
all’altra; per quanto amasse leggere, infatti, non si poteva
dire che nutrisse
altrettanta passione per la scrittura. Certo però, che non
le sarebbe costato
nulla rispondere almeno a una di esse; a questo punto si sarebbe
accontentato
persino di poche righe, in cui lo assicurava che tutto andava
bene…
«Milord?
Stanno per liberare il secondo stormo di fagiani», lo
avvisò la medesima voce
di prima, interrompendo i suoi sciocchi sogni ad occhi aperti.
Caledon
si riscosse, voltandosi verso il cacciatore scozzese che gli faceva da
accompagnatore nei terreni sconosciuti delle Highlands.
«Credo
che tornerò in paese, signor Fraser. Oggi la mia mente non
è abbastanza concentrata
sulla caccia», ammise con un tono di scusa, levandosi il
fucile dalla spalla e
porgendolo al cacciatore dopo averlo scaricato. «Potete
avvisare voi gli altri,
quando raggiungete il luogo d’incontro?»
L’uomo
annuì, grattandosi pensieroso un lato della barba.
«Aye, milord. Ricordate la strada per
tornare a Inverness? O
preferite che vi accompagni uno dei ragazzi?» Aggiunse,
indicando i due
adolescenti del villaggio incaricati di portare scorte e provviste.
«Grazie,
ma non sarà necessario», rifiutò
Caledon raggiungendo la propria cavalcatura.
«Potrei voler fare qualche piccola deviazione. In bocca al
lupo per il resto
della caccia, signor Fraser», lo salutò, salendo
in sella e lanciando l’animale
al galoppo. Forse una lunga cavalcata in solitaria era ciò
di cui aveva bisogno
per schiarirsi la mente.
Quella
sera, una volta che gli ospiti londinesi della locanda si furono
ritirati nel
salotto dopo cena, tutti ancora piuttosto euforici per la giornata di
caccia,
Caledon venne avvicinato dal figlio cadetto del defunto conte di
Granville,
Bradley Levenson-Gower, uno dei suoi più cari amici dai
tempi di Cambridge,
rientrato in patria da pochi mesi a seguito della conclusione del suo
soggiorno
su una fregata in mezzo all’Oceano.
«Sei
tremendamente poetico seduto da solo accanto al camino, Caledon, amico
mio»,
esordì con un mezzo sorriso il giovane tenente della Marina
Britannica,
prendendo posto sulla poltrona al lato opposto del focolare. Qualcuno
iniziò a
suonare una ballata locale al pianoforte lì accanto, e
Bradley approfittò del
sottofondo per intavolare una conversazione più o meno seria
con il suo vecchio
amico. «Potrei capire se ci fossero delle fanciulle da
conquistare, ma tra
uomini… Via, qual è il tuo problema?»
Caledon
sospirò, strofinandosi le tempie con due dita.
«Non c’è nessun problema,
Bradley, ti assicuro.»
L’amico
aggrottò la fronte, per nulla convinto. «Stai
girando e rigirando quel brandy
da dieci minuti e non hai ancora bevuto un sorso, e sei rientrato alla
locanda
a metà caccia senza aspettare che finissimo tutti. E hai
quest’aria irritata da
quando siamo arrivati…»
«L’aria
di mare deve averti dato alla testa, marinaio», lo interruppe
l’altro con uno
sbuffo, mandando giù un sorso del liquore quasi per
dispetto. «E un inglese che
si rispetti non parla dei propri problemi dopo cena. Mi hai preso per
un
francese?»
La
risata brusca e ruvida di Bradley rasserenò appena
l’atmosfera. «Dio ci salvi
dai francesi», replicò con prontezza, lieto in
cuor suo di notare finalmente
una certa leggerezza nell’atteggiamento dell’amico.
In silenzio, infilò una
mano dentro la propria giacca e ne tirò fuori una scatolina
con fregi preziosi,
aprendola con uno schiocco e mostrandogliene generosamente il
contenuto. «Sigaretta?
No?» Bradley scrollò le spalle al cenno negativo
di Caledon, limitandosi a
sfilarne solo una dall’elegante contenitore argentato e
facendolo sparire nuovamente
all’interno di una tasca. «Avanti, confidati pure.
Ti puoi fidare della
discrezione di un uomo di mare.»
Caledon
sbuffò, la fronte ancor più aggrottata.
«Non c’è nulla da confidare»,
mentì
seccamente. Difatti, il tenente sapeva come ogni mattina egli
attendesse
impaziente l’arrivo della posta, per poi ritirarsi come un
cane bastonato nella
sua stanza quando il corriere non gli consegnava nulla.
«Certo
che c’è», fu la laconica risposta di
Bradley. «Ma non voglio farti pressione:
inizia pure a parlare quando te la senti.»
Un
ceppo si spaccò a metà all’interno del
camino, facendo volare scintille rosse e
gialle in varie direzioni senza fortunatamente raggiungere il tappeto.
Cal
seguì con gli occhi il percorso di una di esse, racimolando
idee e parole, e
solo quando essa cadde a morire sulla pietra grezza del focolare,
spegnendosi
delicatamente, si decise a degnare l’invito
dell’amico di una risposta.
Dopotutto, la cavalcata non gli era stata di alcun conforto: forse
chiacchierare con un suo pari lo avrebbe aiutato a portare pace e
ordine tra i
suoi pensieri.
«Sembra
di essere di nuovo a Cambridge», mormorò con un
mezzo sospiro, facendo scorrere
uno sguardo distratto sugli altri compagni che si divertivano in vari
punti del
salotto, tra giochi di carte e amichevoli scommesse. Bradley si
limitò a
inspirare una boccata dalla sigaretta, attendendo paziente che il suo
amico trovasse
la forza di sfogarsi.
«Allora,
la nostra unica preoccupazione era sfidare i ragazzi di Oxford e vedere
in
quanti guai potevamo cacciarci prima che lo venissero a scoprire i
nostri
genitori e decidessero di prendere provvedimenti. Ricordi quando
facemmo
circolare quei pamphlet anti-imperialisti? I professori minacciarono
l’espulsione… Dio», sospirò
serrando gli occhi, e premendosi una mano sulle
palpebre doloranti. «Ero così stupido, eppure
avevo già seppellito una
fidanzata ed ero stato promesso a un’altra.»
Bradley
lo osservò attentamente, le orecchie tese al minimo accenno
di tremore nella
voce altrimenti quieta del suo compagno; l’amicizia che vi
era tra loro non si
metteva in discussione, la confidenza pure – e ciò
nonostante pareva che Cal
non si volesse esprimere più di tanto su qualsiasi cosa lo
turbasse, come se
parlarne avrebbe significato riconoscere che ci fosse effettivamente
qualcosa
che non andava, e avrebbe così dato forma e peso a un
problema che in caso
contrario avrebbe potuto nascondere, ignorare, persino fingere che non
esistesse.
Tuttavia,
non era nell’interesse di nessuno nascondere la testa nella
sabbia, e certo non
si addiceva a un futuro lord con un nome rispettabile.
«Sai,
ricordo un tempo», esordì Bradley con affettata
noncuranza, le dita abbronzate
che giocherellavano con un accendino. «Un tempo in cui non
eri per nulla felice
di questo fidanzamento. Ti lamentavi della troppa differenza di
età, piangevi
la dipartita della tua precedente promessa, rifuggivi ogni tentativo
dei tuoi
genitori di farti conoscere la giovanissima lady Moore. E ora metti il
muso se
la povera donna non risponde alle tue lettere? Di cosa ti lamenti,
amico mio?
Cos’è che le rimproveri di preciso?»
Il
futuro lord Suffolk lanciò un’occhiata severa e
particolarmente infastidita in
direzione dell’amico, ben conscio di quali fossero i propri
sentimenti
all’epoca del college e per nulla desideroso di rievocarli.
«Non
le rimprovero niente», sibilò a denti stretti,
afferrando con malcelata rabbia
il bracciolo della poltrona e facendosi sbiancare le nocche.
«Tu parli delle
lamentele di un ragazzino, e quel ragazzino adesso è
cresciuto.»
Bradley
scrollò scompostamente le spalle, per nulla colpito.
«Menti pure a te stesso se
la cosa ti aggrada, mio caro Cal, ma abbi la cortesia di darmi
più credito. Io
ti conoscevo allora e ti conosco adesso, e anche se avremo poche
occasioni di
frequentarci ti conoscerò ancora fra dieci anni.»
Caledon
si arrese a sopportare il tono irrispettoso del suo amico, e si
limitò ad
assecondarlo con un sospiro mediamente costernato. «E con
questo che cosa
vorresti dire?»
«Ti
vorrei dire di smetterla di struggerti per una donna che apparentemente
non ti
desidera quanto tu pensi di desiderare lei»,
ribatté senza remore il giovane,
rilasciando un acre filo di fumo dalle narici. «Che senso ha?
Non siamo in uno
di quei romanzetti d’appendice di miss Austen, amico mio: non
conquisterai la
ragazza con danze e passeggiate nel parco. Non ne hai bisogno!
È praticamente
già tua, che differenza vuoi che faccia se lei arde
d’amore per te o no?»
Uno
scocciato rotear d’occhi espresse ciò che
l’uomo pensava davvero del parere
dell’amico. «Adesso parli come mio
padre», l’ammonì a mezza voce, non
gradendo
particolarmente la piega presa dal discorso.
L’altro
lo fissò di sbieco. «Mi chiedo perché
non l’abbia ereditata tu quella parte del
suo carattere, in effetti. Di sicuro ti avrebbe reso la vita
più facile.»
«Dici
così perché non la conosci, probabilmente neanche
l’hai mai vista», fu la secca
risposta di Caledon, che si sentiva in dovere di difendere la fidanzata
anche
quando quest’ultima lo stava facendo dannare.
«Non
certo per colpa mia: è mio fratello quello che viene
invitato agli eventi
pubblici, io sono soltanto lo scomodo secondogenito con la fama di
avere
un’amante in ogni porto. Ah, se solo fosse vero»,
sospirò Bradley con l’accenno
di un sorriso, per nulla intimidito dal severo cipiglio che continuava
a
rivolgergli l’amico e, anzi, da esso divertito.
«Continua a guardarmi così,
Cal, e non riuscirai più a spianare la fronte.»
Finalmente
infastidito dall’atteggiamento di Bradley, Caledon si sporse
bruscamente verso
di lui e gli strappò la sigaretta di bocca, gettandola senza
riguardi nel
caminetto acceso. «Possiamo evitare di discutere della mia
vita privata in
pubblico?» Sibilò, prima di tornare alla sua
posizione.
Bradley
si limitò a scoppiare in una risata onestamente divertita.
«In pubblico? Cal,
non ti sta ascoltando nessuno. E anche se fosse»,
continuò con une breve
scrollata di spalle. «Nessuno ha una coscienza
così pulita e abbastanza
irreprensibile da essere nella posizione ottimale per giudicare il
prossimo.
Neanche gli uomini di chiesa.»
«Non
temo certo il giudizio altrui. Non ho fatto niente di cui vergognarmi,
dopotutto», ribatté Caledon, volgendo lo sguardo
verso le fiamme e fissandole
con insistenza. «E se anche tu pensi che sia ridicolo essere
irritato nel non
ricevere una sola parola dalla propria futura moglie in una decina di
giorni,
allora questa conversazione è finita, e puoi andare a
esaminare la vita di
qualcun altro.»
«Dio,
questa donna ti sta distruggendo. E non l’hai ancora neppure
sposata», mormorò
l’amico, incapace di trattenere un sorrisetto. Poi
sospirò, scrollando le
spalle in un cenno di resa. «Andiamo, non arrabbiarti con me,
ti sto solo
offrendo l’occasione di sfogarti. Suppongo che il suo
comportamento non sia
perfettamente ortodosso, ma d’altronde la situazione non
è delle migliori. È in
lutto, Cal – la madre è morta da neanche due mesi
e suo padre l’ha spedita in
campagna con la sua istitutrice. Non credo che abbia molta voglia di
impiegare
tempo in lettere d’amore.»
«Ebbene,
è questo il problema, no?» Sibilò,
mascherando con rabbia la propria miseria.
«Lei non mi ama; dubito persino che mi voglia. E non la
biasimo, davvero –
voglio dire, neppure io ero molto entusiasta di questa unione
all’inizio, ma
sono passati anni! E quello che provo per lei non l’ho mai
provato neanche per
sua sorella. E credevo… credevo che il mio sentimento
sarebbe bastato, che mi
avrebbe reso amabile ai suoi occhi, ma tutto ciò che ottengo
da lei è venir
considerato come una transazione d’affari da cui non
può scappare.»
Bradley
lo osservò attentamente, gli occhi stretti, senza
più tanta voglia di
scherzare. «Allora perché non sciogli il
fidanzamento? Sei ancora in tempo. E
ti risparmieresti una vita infelice.»
«No»,
fece subito Caledon, scuotendo il capo. «No. Mio padre non me
lo permetterebbe,
e sarei infelice in ogni caso… Sposandola, almeno,
l’avrei al mio fianco; e
sono certo che prima o poi arriverà a tenere a me. Se
così non fosse, saremo
infelici entrambi, ma lo saremmo insieme.»
«Una
ben triste prospettiva, se vuoi il mio parere»,
mormorò pacato Bradley, i cui
occhi non mancavano di scrutare attentamente l’amico.
«Non ti facevo così
egoista, amico mio.»
«Neanche
io credevo di esserlo», ribatté l’altro,
distogliendo lo sguardo. «Ma Emma…
Dio, è come se mi avesse trasformato in un uomo che stento a
riconoscere io
stesso. Sono pazzo a desiderarla così tanto?»
«Forse»,
ammise Bradley senza mezzi termini. «È solo una
donna, Cal», aggiunse poi, con
un tono appena più conciliatorio.
Eppure
Caledon non poteva trovarsi d’accordo. Definire Emma
‘solo una donna’ sarebbe
stato come dire che l’oceano non è che una
pozzanghera d’acqua più profonda; ma
spiegare una cosa del genere a qualcuno che non la conosceva
– che non aveva
mai desiderato possederla in ogni singolo modo in cui è
possibile possedere una
donna, che non aveva provato la sua passione, la sua brama, la sua
disperazione
– era, in ogni caso, impossibile. Bradley avrebbe potuto
comprendere parte
della sua ossessione solo se l’avesse provata lui stesso,
sulla sua pelle; e,
conoscendo il suo amico, ciò non era mai accaduto.
Per
cui decise di lasciar cadere l’argomento, e con un lieve
scrollare delle spalle
e un sorriso di interna autocommiserazione, Caledon sollevò
in brindisi il
bicchiere di brandy e lo trangugiò tutto d’un
sorso. Avrebbe pensato a Emma in
un altro momento, decise.
Negli
ultimi giorni le stava capitando spesso di sognare a occhi aperti.
A
volte, quando Adam era impegnato a suonare o giocherellare con Aramis
– che,
curiosamente, pareva essersi affezionato al padrone di Pemberley
più di quanto
le circostanze non avessero lasciato presagire – e lei sedeva
con un qualche
libro in grembo, le dita tra le pagine a tenere il segno, Emma si
ritrovava a
seguire treni di pensieri con la medesima assorta attenzione di una
bambina
intenta a immaginare il suo primo ballo.
Pensava
soprattutto a suo padre, solo ad Hambleton Abbey o nella loro vuota
casa di
Londra, che forse dopo settimane di silenzio da parte sua iniziava a
realizzare
l’incoscienza dell’aver spedito la sua unica figlia
a vivere in una lontana
tenuta in mezzo al nulla; pensava, con la gola chiusa dal dolore e
dalla
nostalgia, agli ultimi mesi di sofferenza che era stata la vita di sua
madre;
pensava a Caledon, a seconda di dove vergevano i suoi pensieri, e
pensava
soprattutto ad Adam – a quell’uomo che parlava e si
comportava in maniera
distinta e che malgrado tutto la teneva rinchiusa, che discuteva con
lei di
libri e filosofi benché avesse l’aria di non
essersi mai allontanato dal
castello, che la intratteneva con il pianoforte e facendole visitare
Pemberley,
ma che raramente rispondeva alle sue domande se vertevano su
se’ stesso.
Ma,
principalmente, lady Moore pensava alla sua povera sorella maggiore, ed
esaminava come sarebbe stata la sua – la
loro – vita se quell’incidente non ci
fosse mai stato, e se invece di
morire per quella caduta la sua infanzia e la sua adolescenza non
avessero
proseguito come sarebbe stato giusto che facessero. Tanto per
cominciare,
Lizzie sarebbe stata ancora fidanzata – se non forse persino
già sposa – di
Caledon; sarebbe stata sua la spalla su cui Emma avrebbe pianto al
funerale
della loro madre, e probabilmente la sorella l’avrebbe
accolta in casa sua – sua
e di Caledon – durante il periodo di lutto. Non ci sarebbe
stato nessun maniero
nel cuore della brughiera, nessuno l’avrebbe costretta ad
andarci a vivere da
sola, e soprattutto non vi sarebbe stata tenuta prigioniera da un uomo
dalle
dubbie origini, che ancora non le aveva detto con sincerità
che cosa
desiderasse da lei. Aveva un modo di guardarla che la faceva
rabbrividire – i
suoi occhi la seguivano ovunque, famelici, se ne rendeva conto malgrado
la
maschera…
Anche
se faceva di tutto per nasconderglielo, comportandosi come se si fosse
trovata
tra persone del tutto comuni e civili, egli la terrorizzava; e questo
terrore
che non poteva fare a meno di provare la faceva sentire in colpa,
perché l’uomo
le aveva salvato la vita, e tutto sommato la trattava con un riguardo
in cui
Emma non trovava difetti.
Emma
aveva inoltre ripreso a dormire nella sua vecchia camera da letto,
nell’ala Est
del maniero. Con il passare dei giorni Adam sembrava iniziare a fidarsi
sempre
di più di lei e del fatto che non avrebbe più
tentato di fare una cosa tanto
sconsiderata come scappare nel cuore della notte, e dopo parecchie
raccomandazioni da parte sua che le avevano rammentato quelle di Mrs.
Duncan –
non uscire dalla stanza dopo mezzanotte ed evitare di gironzolare per i
corridoi nelle scure ore del primo mattino – Emma si era
finalmente
riappropriata dei suoi oggetti personali e del letto che aveva ormai
preso a
definire suo.
La
biblioteca era, inoltre, diventata il suo unico santuario
nell’intero castello.
Per qualche motivo a lei sconosciuto, Adam si rifiutava di entrarvi
senza
esservi invitato da lei, ed Emma, dal canto suo, gli faceva la cortesia
di non
trascorrervi le intere giornate privandolo di quella compagnia
ch’egli le aveva
tanto supplicato. Quando non era con lei, il padrone si teneva
impegnato
nell’ala Ovest – facendo Dio solo sapeva cosa
– zona in cui la giovane aveva
deciso e infine promesso di non mettere più piede da quando
aveva ripreso
possesso della propria camera da letto. Salvo i pranzi e le colazioni,
che
consistevano in occasioni brevi e sobrie che non richiedevano neppure
l’allestimento trionfale della sala da pranzo, Emma e Adam
mangiavano insieme –
o era forse meglio dire che lui le faceva compagnia durante la cena,
poiché per
via della sua maschera egli si rifiutava tuttora di mangiare di fronte
a lei.
Malgrado
ciò che il suo carceriere poteva pensare, e nonostante la
strana aria di pacata
tolleranza che si era creata tra loro, Emma non era del tutto certa di
potersi
fidare come egli avrebbe desiderato.
Certi
atteggiamenti e modi di fare la lasciavano perplessa, e la
costringevano a
rimanere all’erta – piccoli scatti delle mani, come
se di punto in bianco
volesse allungarle verso di lei e ghermirla, e che venivano
immediatamente
celati e repressi nel vano tentativo di nasconderglieli; i suoi occhi
chiari
che ogni tanto, quando parlava con lei o semplicemente le sedeva
accanto, in
amichevole silenzio, parevano diventare neri per pochi secondi, come se
un’ombra temibile si posasse su di essi, e che parevano
trasformarlo in una
persona del tutto differente; e quella maschera, buon Dio, quella
maledetta
maschera che era a suo avviso il più palese indizio della
malafede dell’uomo,
perché che senso aveva insistere nell’indossarla
anche dopo i giorni che avevano
trascorso civilmente, le promesse fatte, la fiducia offerta?
Non
poteva fidarsi di lui fintantoché Adam continuava a
nascondere le sue fattezze
e la sua identità: Emma avrebbe supposto il peggio da parte
sua fino a quando
egli non avesse avuto il coraggio e la delicatezza di toglierla e farsi
vedere,
poiché lei non osava allungare la mano e strappargliela
– ancora rabbrividiva
quando rammentava qual era stata la sua reazione la prima volta che
aveva
tentato.
Inoltre,
il mistero che lo avvolgeva – tutto quel non
sapere – non faceva che incrementare la sua paura;
Emma era infine giunta
alla conclusione che qualsiasi cosa egli si stesse ostinando a celare
non
poteva essere di certo peggiore di tutto quello che lei era arrivata a
immaginarsi pur di sopperire alla mancanza. Ormai non escludeva neppure
l’ipotesi di un orrendo incidente – qualcosa che lo
aveva, forse, lasciato
sfigurato, costringendolo a rifuggire il resto del mondo e trovare
rifugio in
un luogo desolato come Pemberley. E pur tuttavia ciò non
spiegava perché i
domestici gli fossero così fedeli – al punto da
tradire lei stessa, che era
sulla carta la legittima proprietaria della magione – e
c’era sempre la
faccenda di quella lapide, nel vecchio cimitero abbandonato, con il suo
nome inciso e delle date che, ad
ogni modo, non corrispondevano.
Con
l’occhio arguto ed esercitato dell’aristocratica,
Emma non aveva mancato di
notare alcuni piccoli dettagli riguardo la sua persona che le avevano
rivelato
molto più di quanto non avesse fatto lui stesso. Per
esempio, non poteva che
ammirare la foggia precisa ed elegante degli abiti che indossava,
curati al
dettaglio con una cura quasi maniacale – ma non
sfuggì alla sua attenzione che
lo stile di questi ultimi era sorpassato, fuori moda, e che gli orli e
le
cuciture erano consumate, appena lise; le sue scarpe, benché
di foggia
artigianale, erano logore. Ovviamente, il tutto era pulito e rammendato
alla
perfezione – lady Moore suppose si trattasse del lavoro
instancabile della
signora Duncan – ma nell’insieme dava
l’apparenza di qualcuno che doveva aver
trascorso gran parte, per non dire l’interezza, della sua
vita rinchiuso tra le
mura di Pemberley Manor.
Il
pensiero non poté che provocarle un’enorme pena
per quell’esistenza
terribilmente solitaria.
Non
aveva neanche più il conforto di parlare con Mrs. Duncan, o
persino Noah – era
evidente che i domestici obbedivano alle leggi di Adam, e lui doveva
aver
ordinato che nessuno le rivolgesse la parola, forse nel timore che
qualche
oscuro segreto venisse rivelato? Solamente a Lydia era permesso
avvicinarla,
poiché Emma aveva bisogno dell’aiuto di una
cameriera per vestirsi e
pettinarsi, ma la povera ragazza era muta e non si sforzava neppure di
fingere
di ascoltarla, limitandosi a fare il suo lavoro e scappare poi via,
tremante,
come un topolino spaurito.
Seduta
su una poltrona di fianco al letto della sua istitutrice, Emma
tirò
discretamente su con il naso e si asciugò le lacrime con un
lembo del vestito,
abbassando poi gli occhi sulla donna per vedere se qualcosa fosse
cambiato
nella sua condizione. Aveva letto per lei per quasi tutta la mattina,
alternando capitoli su capitoli a momenti di pianto silenzioso, e fino
a quel
momento la sua voce non aveva ottenuto nessuna reazione sulla malata;
ma Emma
era intenzionata a non arrendersi: miss Radcliffe l’aveva
praticamente
cresciuta, e lei l’aveva già trascurata troppo.
Con
un sospiro rassegnato voltò pagina e riabbassò lo
sguardo sul libro,
riprendendo la lettura di uno dei romanzi favoriti della donna.
«Che cosa strana sono mai i presentimenti, le
simpatie e anche i presagi! Tutti insieme formano un mistero di cui
l'uomo non
ha peranco trovata la chiave. Non ho mai riso dei presentimenti in vita
mia,
perché ne ho avuto certuni stranissimi...»
Nel
corridoio, nascosto appena dietro lo stipite della porta, Adam la
ascoltava in
religioso silenzio. Non aveva più osato chiederle di leggere
per lui da quella
prima sera, così adesso approfittava delle volte in cui la
ragazza lo faceva
per la sua istitutrice; si domandò che cosa avrebbe pensato
di lui se avesse
scoperto che la spiava dalle ombre come un cucciolo bisognoso di
attenzioni –
forse l’avrebbe disgustata, o magari avrebbe avuto
compassione di lui e gli
avrebbe chiesto di avvicinarlesi senza timore?
Udì
dei passi avvicinarsi alla camera e sollevò lo sguardo
sull’intruso,
aggrottando la fronte nel vedere la sguattera, Lydia, giungere tremante
come un
topolino con un vassoio tra le mani. Gli occhi della ragazza si
posarono su di
lui, sgranati, e la poveretta si affrettò ad accennare un
inchino senza
rovesciare il portavivande. Fece scorrere lo sguardo da lui alla porta
della
stanza, cercando probabilmente di trovare un modo di entrare senza
passargli
troppo vicino, ma fu Adam infine a toglierla da
quell’impiccio. Posò il dito
indice sulla propria maschera in direzione della bocca, invitandola al
silenzio, e poi più rapido e silenzioso di
un’ombra le diede le spalle e sparì
dietro qualche passaggio nascosto nella parete.
Lydia
deglutì, atterrita – il padrone le faceva sempre
quell’effetto – e dopo aver
preso un profondo respiro si decise a raggiungere milady. Davvero non
invidiava
la povera donna.
I
domestici di Pemberley Manor sembravano essersi abituati senza troppa
fanfara
alla nuova routine che riguardava il padrone e la sua ospite,
benché né Mrs.
Duncan né suo marito comprendessero ancora che cosa Adam
sperava di ottenere
nell’ostinarsi al voler approfondire la conoscenza di lady
Moore. Non sarebbe
stato più cauto continuare a celare la propria presenza,
finché la ragazza e la
sua istitutrice non si fossero stancate della solitaria vita di
campagna e
fossero tornate a Londra? Malgrado tutto, la signora Duncan era
preoccupata per
il suo padrone – lo aveva protetto da che era fanciullo,
eternamente leale, con
tutto ciò che ne era derivato.
E
adesso, egli rischiava la propria incolumità per cosa
– un’infatuazione?
Il
terrore che avevano provato quando avevano avvertito Adam che la
giovane viscontessa
non si trovava nella sua stanza, che era scappata,
poi, era stato indescrivibile. Il padrone aveva capovolto sedie,
fracassato
suppellettili, soffiato e ringhiato come una bestia feroce contro di
loro e
contro la ragazza, fino a quando non erano riusciti a placarlo il tanto
sufficiente per spiegarsi. Avevano cercato di convincerlo un
po’ con le buone e
un po’ con le cattive di non essere per nulla responsabili di
quella fuga, di
non avere idea di dove lady Moore potesse essere né di come
avesse fatto a
fuggire da sola, e alla fine solo le lacrime e le suppliche della
signora
Duncan avevano sortito l’effetto sperato – placare
il padrone.
Egli
aveva lasciato la loro stanza con minacce e imprecazioni, e i poveri
Duncan
avevano trascorso le ore successive a pregare che nulla fosse accaduto
alla
ragazza e che Adam riuscisse a trovarla prima che ella fosse troppo
lontana, o
peggio.
Il
padrone era infine tornato al castello poche ore prima
dell’alba, completamente
infangato e fradicio, incurante dell’acqua sporca che
grondava su tappeti e
pavimento, e per grazia divina tra le braccia reggeva
l’esanime fanciulla.
Margareth
Duncan lo comprese non appena ebbe posato gli occhi su di lui
– Adam era
livido. La rabbia che emanava pareva quasi tangibile e lo avvolgeva a
mo’ di
mantello, rendendolo ancora più minaccioso e inavvicinabile
di quanto già non
fosse normalmente. Non aveva parlato, se non per ordinare con fare
secco e
brusco al signor Duncan di accendere il camino nel suo salotto privato
e a lei
di preparare un bagno caldo per la ragazza. Quei momenti erano passati
in un
lampo, confusi e burrascosi come un incubo, e solo alla fine, quando
lady Moore
riposava al caldo nel suo letto e Adam si fu rinchiuso nel suo studio a
placarsi, i poveri domestici poterono tirare un sospiro di sollievo.
Per
quanto potessero compatire la giovane e inconsapevole ragazza, non era
nulla
davanti al timore che provavano nei confronti del padrone: avevano
convissuto
con i suoi attacchi d’ira, gli scatti violenti, i bruschi
balzi d’umore per
troppi anni per riuscire a mettere da parte le loro paure e aiutare
lady Emma.
Quando
scese a colazione accompagnata da uno scodinzolante Aramis, Emma
trovò Adam ad
attenderla nella sala da pranzo. Per un attimo rimase interdetta, ferma
immobile sulla porta, lo sguardo che saettava da una parte
all’altra della
stanza come se si aspettasse – come se sperasse –
che Mrs. Duncan sbucasse
fuori da qualche angolo e la rassicurasse con la sua presenza. Tuttavia
ciò non
accadde, e ospite e padrone si trovavano soli; egli si alzò
non appena la
giovane ebbe varcato la soglia, avvicinandosi a scostarle la sedia dal
tavolo
alla destra rispetto a dov’era seduto lui, e cercò
poi di passare inosservato
mentre offriva della pancetta al cucciolo che pareva ormai averlo preso
in
simpatia.
«Avete
dormito bene nella vostra stanza?» Le chiese quando si fu
riaccomodato,
offrendosi di versarle una tazza di tè.
Emma
gli rivolse una breve occhiata perplessa e suo malgrado incuriosita
– per quale
motivo si ostinava a farle compagnia durante i pasti se quella maschera
gli
impediva di mangiare come un normale cristiano? – e poi
scrollò il pensiero con
un lieve cenno affermativo del capo. «Sì, grazie.
Ho dormito meglio sapendo di
avervi restituito il vostro letto», rispose gentilmente dopo
una breve
esitazione, iniziando a piluccare dei toast con burro e marmellata e
fingendo
come al solito che l’essere osservata mentre mangiava non le
desse fastidio.
Adam
parve imbarazzato a quell’accenno – come se
preferisse non indugiare sul fatto
che Emma avesse dormito per diverse notti nella sua stanza e tra le sue
coperte
– e borbottò qualcosa che suonava come una
rassicurazione e una richiesta di
non preoccuparsi inutilmente per lui.
«Vi
siete affacciata alla finestra? Ha nevicato, la notte
scorsa», la informò
quietamente, passando ad Aramis un’altra fettina di pancetta.
«Se l’idea vi
ispira, potrei accompagnarvi per una passeggiata nel parco. Mostrarvi i
terreni
della tenuta.»
La
giovane sollevò subito lo sguardo su di lui, sorprendendolo
con il luccichio
chiaramente eccitato che danzava nei suoi occhi. «Dite
davvero? Sì, se non vi è
di alcun disturbo mi piacerebbe molto», lo
rassicurò in fretta, quasi temendo
che la proposta potesse venire ritirata. Onestamente, l’idea
di mettere
finalmente il naso fuori dopo lunghi giorni passati segregata dentro il
maniero
le aveva portato una piacevole ondata di sollievo.
«Perfetto,
andremo subito dopo colazione», annuì Adam,
posando le mani intrecciate sul tavolo.
«Vi consiglio di indossare abiti pesanti, perché
fuori fa freddo e voi siete
appena guarita.»
«Posso
portare anche Aramis?» Domandò; il cucciolo,
sentendo pronunciare il proprio
nome, si voltò verso di lei con le orecchie tese e la coda
che ondeggiava
rapida sul marmo del pavimento, le fauci spalancate in una sorta di
strano
sorriso.
Adam
piegò il capo di lato in un gesto stranamente canino.
«Se siete sicura che non
scapperà via…»
«Oh,
no», si affrettò ad assicurare lei.
«Aramis è addestrato.»
«Allora
suppongo non ci sia nulla di male», acconsentì il
padrone.
Emma
annuì, riabbassando gli occhi sulla propria colazione con
una piccola ruga tra
le sopracciglia. Per quale motivo gli stava offrendo tutta quella
confidenza?
Perché accettava la sua presenza con tanta
serenità? Non poteva dimenticare che
l’uomo era ancora un estraneo, uno sconosciuto che le celava
la propria
identità e che, malgrado l’apparenza da gentiluomo
e i modi men che affabili,
la teneva comunque prigioniera.
Si
domandò fino a quando sarebbe riuscita ad assecondarlo
– e, insieme a quella
riflessione, ne giunse subito un’altra: chissà se
sarebbe riuscita a far
arrivare a suo padre la notizia di ciò che le era successo?
Non aveva più
scritto una lettera dalla visita di Caledon, né a lui
né a lord Graham, ma
d’altronde non ne aveva neppure ricevuto da parte loro.
Dunque, poiché dubitava
che i due uomini si fossero dimenticati di lei, Emma poteva solo
pensare che le
loro lettere fossero state intercettate da Adam o dai domestici, e per
qualche
ragione le fosse stato impedito di entrarne in possesso.
Se
la sua relazione con il padrone, sempre se di tale si potesse parlare,
si fosse
mantenuta su dei toni civili e cordiali, Emma suppose che avrebbe
potuto
domandare spiegazioni. Alzandosi dal tavolo e scusandosi per andare a
cambiarsi, la giovane decise che avrebbe sollevato
l’argomento più tardi,
durante la passeggiata.
Le
suole dei loro stivali scricchiolavano sulla neve fresca, lasciando
lievi
impronte lungo il sentiero. Mentre Aramis li precedeva, annusando e
marcando
con invidiabile entusiasmo ogni albero e cespuglio e chiazza di terreno
priva
di neve, Emma aveva dovuto accettare il braccio di Adam per evitare di
scivolare sul terreno ghiacciato, ma stranamente quel tocco non le
dispiaceva
più di tanto; il suo anfitrione era solido sotto la sua
mano, ed emanava un
piacevole calore che rendeva meno sgradita l’aria fredda del
mattino che li
circondava.
Ascoltava
con attenzione ciò che lui le raccontava – in
quell’angolo vi era l’accesso a
una sorta di labirinto che era stato costruito con pietre e siepi
più di un
secolo prima dagli allora conti di Rochester, e che sarebbe stato
meglio
accessibile con il sopraggiungere della primavera; dall’altra
parte, malgrado
la vegetazione selvaggia e incolta le nascondesse alla vista,
c’erano le
fontane; più giù, nella piccola vallata oltre
quel pendio, c’era un piccolo
fiume artificiale che andava poi a tuffarsi tramite delle gallerie
sotterranee
al lago che lei stessa aveva già avuto modo di vedere; e,
seguendo la stradina
che si diramava dai giardini intorno al castello fino a quel fiume, si
poteva
godere di una visione pressoché completa della tenuta, con i
suoi boschetti, le
pagode, i piccoli tempietti in marmo e pietra che dovevano un tempo
essere
stati protagonisti di splendide giornate estive di caccia o che magari
avevano
ospitato i picnic della contessa e le sue ospiti, circondate da fiori e
musiche
e risate.
Tutto
ciò che Emma vedeva adesso era una distesa infinita e
desolata di neve, alberi
con rami nudi e nodosi, erba incolta che spuntava saltuariamente dal
sottile
manto bianco che ricopriva la terra, e ovunque il segno inconfondibile
dell’abbandono che aveva inselvatichito ogni cosa; eppure, se
si lasciava
incantare dai racconti di Adam – come faceva a sapere tutte
quelle cose, ad
ogni modo? Le aveva forse vissute? Quanti anni aveva, e chi
era, per essere così informato? – se
stringeva gli occhi e
lasciava che la fantasia e l’immaginazione prendessero il
sopravvento, non le
veniva difficile figurarsi come doveva essere stata, in un tempo
distante e più
sereno, la vita a Pemberley.
L’intera
proprietà era così grande, aveva poi continuato a
spiegarle Adam, che conteneva
persino tre piccoli palazzi, la cui funzione era stata quella di
ospitare i
visitatori più illustri che gradivano giungere con il
proprio seguito di
domestici; ciò accadeva tuttavia di rado, così
essi venivano utilizzati come
punti di ristoro durante le battute di caccia, giacché il
castello risultava
troppo distante e per rientrarvi occorreva del tempo.
«Mi
piacerebbe visitarli», ammise Emma sinceramente, mentre
attraversavano uno dei
ponticelli in pietra del fiume. «Ad Hambleton non ne abbiamo,
suppongo che il
motivo risieda nell’epoca di costruzione della
tenuta.»
«È
probabile», convenne Adam, dirigendo la passeggiata lungo la
riva del fiume.
«Credo che i palazzi risalgano alla metà del
diciassettesimo secolo, ma potrei
sbagliarmi: in biblioteca devono esserci di sicuro i registri con le
date.
Quanto al visitarli, forse prima è meglio mandare i
domestici a sistemarli;
dubito che siano in condizioni ottimali per essere esaminati.»
Egli
non lo diceva tanto per dire: conosceva perfettamente le condizioni in
cui
versavano i vari padiglioni. Talvolta, quando Faust era in pieno
controllo e
lasciava il castello, vagava per giorni a piedi nella tenuta o a
cavallo nella
brughiera, sfogando le sue frustrazioni uccidendo armato o a mani nude
la
selvaggina che ancora si trovava nei dintorni. E in quelle occasioni
prendeva a
rifugiarsi in uno dei palazzi – grandi all’incirca
quanto un dignitoso
appartamento londinese, con due piani e ogni confort che si poteva
desiderare
malgrado lo stato di abbandono in cui versavano; ma stare fermo non gli
si
addiceva, lo faceva impazzire, così capitava che vi portasse
qualcuna delle
ragazze che vendevano sé stesse giù a
Heatherfield – bendate, affinché non
comprendessero dove si trovavano e fosse per loro impossibile ritrovare
la
strada – e vi trascorreva una o più notti. Poi,
quando si stancava anche di
loro, le riportava al villaggio senza che esse avessero mai conosciuto
il suo
aspetto, e si apprestava a distruggere tutto ciò che gli
capitava tra le mani;
ormai quegli edifici avevano una notevole carenza di suppellettili
integre, e
Adam non desiderava particolarmente mostrarli a Emma.
Avrebbe
soltanto innescato una serie di domande scomode a cui non avrebbe
saputo cosa
rispondere.
«Laggiù»,
proseguì quindi il padrone, prendendo particolarmente sul
serio il suo ruolo di
anfitrione, «c’è un roseto. Ora
è secco, ma in primavera sboccia
meravigliosamente; apparteneva alla figlia dei conti, lady Eleanore, e
la
signora Duncan se ne occupa in sua memoria…»
«Siete
molto ben informato sulla famiglia che possedeva il
castello», lo interruppe
Emma senza pensare, lasciando scorrere lo sguardo sul parco deserto.
Adam
esitò un momento, l’incertezza pungente quanto il
gelo della brezza. «Ho
vissuto a lungo a Pemberley, milady», fu la sua esitante
risposta, mormorata
senza che i loro occhi si incrociassero. «E i Rochester erano
una famiglia
molto conosciuta. Credo di conoscere ogni loro segreto,
oramai.»
Lady
Moore aggrottò le sopracciglia, desiderosa di saperne di
più – sembrava che
ogni parola fuggita dalla bocca di Adam non facesse che scatenare la
fantasia
della ragazza e provocare la sua sete insaziabile di conoscenza.
Ciò a cui i
libri della biblioteca non erano riusciti a sopperire, ella sperava lo
avrebbe
fatto lui; una vana illusione, a quanto pareva, giacché Adam
sembrava
conservare i propri segreti con la stessa cura e gelosa attenzione con
cui si
preservano fiori delicati tra le pagine di un libro. E, anche se di
tanto in
tanto egli si lasciava scappare qualche dettaglio – minuscole
briciole di pane
su un sentiero che non portava da nessuna parte, visto che sparivano
ancor
prima di toccare il suolo – poi immediatamente tornava sui
suoi passi, pentito
del lapsus involontario, e riportava il discorso su terreni meno
scabrosi.
Anche
adesso, Emma avrebbe voluto approfondire quell’argomento
– che cosa voleva dire
con la sua ammissione di conoscere i vecchi padroni del castello, e
cosa
intendeva con il fatto di averci vissuto a lungo? Era, forse, qualche
figlio
bastardo del conte, tenuto a Pemberley per celare la sua esistenza ed
evitare
che si venisse a sapere delle scappatelle di Lord Rochester?
– ma stavolta non
fu Adam a distogliere la sua attenzione dalle numerose domande che
giacevano in
bilico sulla punta della sua lingua.
Fu
qualcos’altro – una strana sensazione, un
impercettibile cambio del vento, un
vago senso di vertigine come se la terra stessa si fosse
improvvisamente
spostata dal suo asse; e così si arrestò quasi
bruscamente in mezzo al sentiero,
lo sguardo rivolto verso la sommità della collina. Dovette
aggrottare la fronte
e stringere gli occhi per mettere a fuoco la figura: era scura, e
pareva
femminile – non poteva dirlo con certezza, ma il vento stava
facendo svolazzare
quello che sembrava un lungo abito, e nell’insieme la figura
era troppo minuta
e delicata per poter essere maschile – e, anche se da quella
lontananza era
impossibile decretarlo con precisione, avrebbe giurato che la stesse
fissando.
Rabbrividì sotto quello sguardo, e non fu per il freddo.
La
figura sollevò poi un braccio, lentamente, come se il peso
delle proprie membra
fosse troppo da sopportare – se in un gesto di saluto o
invito a raggiungerla Emma
non avrebbe saputo dirlo – dopodiché in un
turbinio di gonne e mantello parve
ruotare su se’ stessa per poi scomparire come se la neve
l’avesse inghiottita,
oltre il declivio celato alla sua vista.
Si
riscosse dalla visione solo quando sentì una mano prenderle
gentilmente il
gomito, e si voltò appena il tanto sufficiente da vedere il
luccichio della
maschera bianca di Adam nella grigia luce del mattino.
«Lady
Emma?» La chiamò lui, con quella voce bassa e
pacata che di tanto in tanto
mancava di terrorizzarla come avrebbe invece fatto giorni prima. Quel
fatto in
realtà la inquietava non poco – non voleva
abituarsi così tanto a lui da fare
la sciocchezza di non temerlo – ma per il momento decise di
non farci caso.
Sbatté
le palpebre e aggrottò le sopracciglia, tornando a fissare
il punto ove la
figura era sparita. «Mmh?»
L’uomo
riprese a parlare, il tono ammantato di preoccupazione.
«Tutto bene?»
«Sì,
solo… Mi è sembrato di vedere
qualcuno», rispose lei, sforzandosi inutilmente
di aguzzare la vista e sentendosi incredibilmente sciocca subito dopo.
«Lassù,
vedete? Sulla collina.»
Adam
non si curò di volgere lo sguardo verso il punto che lei
aveva indicato,
limitandosi a scrollare le spalle. «Forse un
animale», offrì brevemente.
«Vogliamo proseguire?»
Numerose
proteste erano già pronte a prendere fiato sulla punta della
sua lingua, ma
Emma si sforzò di metterle a tacere quando notò
l’irrigidirsi del suo compagno
e l’inquietante ombra cupa che per un istante parve tramutare
i suoi occhi da
azzurro a pece.
«Sì»,
mormorò, d’un tratto più circospetta.
«Fate strada.»
Stavolta
gli camminò accanto senza accettare l’offerta del
suo braccio, e se anche egli
ne rimase offeso, non lo diede a vedere. Benché la
conversazione si fosse
raffreddata – la giovane lady non era più tanto in
vena di ascoltare
chiacchiere vuote, non dopo aver visto quella strana figura che non
aveva fatto
a meno di ricordarle l’orribile notte di due settimane prima,
notte di cui
ancora non sapeva nulla poiché l’unico che poteva
illuminarla sulla faccenda si
rifiutava di farlo – i due passeggiarono ancora per una buona
mezz’ora.
Con
enorme sgomento e un accenno di disperazione, Emma realizzò
che avrebbe potuto
galoppare a vuoto per giorni interi senza riuscire a trovare i confini
di
Pemberley – e, con questi, una via d’uscita. Il
pensiero fu talmente
sconfortante che dimenticò persino di affrontare Adam
riguardo la faccenda
delle lettere; alla fine, adducendo il freddo e la stanchezza come
scuse, si
fece riaccompagnare al maniero senza aver visto neppure la
metà della tenuta.
1882
Le ruote
di una
carrozza che si allontanava rapidamente cigolarono sulle pietre del
vialetto.
La figura
scura che
vi era appena discesa, lungo mantello nero e cappello ben calato sul
viso per
proteggersi dal freddo pungente, si guardò intorno con
composta curiosità, facendo
scorrere lo sguardo sulla facciata di Pemberley Manor alla ricerca di
qualche
dettaglio che lo rassicurasse del fatto che gli anni fossero trascorsi
anche
lì. Non ne trovò: come sempre, l’antica
magione pareva sospesa nel tempo,
maestosa e imponente, e lo fece suo malgrado rabbrividire: solo la sua
ferrea
volontà gli impedì di segnarsi per scaramanzia.
Si domandò cosa mai potesse
aver spinto il conte a chiamarlo dopo dieci anni passati a ignorare le
sue
suppliche e le sue richieste di ottenere un colloquio; suppose che per
saperlo
avrebbe dovuto racimolare il coraggio di avanzare verso il portone e
sollevare
la mano per bussare.
Gli
aprì quasi subito
il maggiordomo, Mr. Weber, ed egli fu sorpreso nel notare il volto
stanco e
provato dell’uomo. Non aveva mai udito lamentele da parte dei
domestici che
lavoravano al castello, e vedere in prima persona che invece essi
parevano
andare avanti a fatica lo lasciò per un attimo perplesso.
L’uomo si fece da
parte con un breve cenno del capo, invitandolo ad entrare, e sempre
silenziosamente
gli fece cenno di seguirlo.
Parlò
solo una volta
che ebbero imboccato il corridoio che conduceva dabbasso, verso i piani
riservati al personale. «Suppongo siate qui sotto richiesta
di Mrs. Duncan»,
fece, con un tono basso e greve.
L’ospite
aggrottò la
fronte, interdetto. «Veramente, ero convinto di essere stato
convocato dal
conte.»
«Milord
non ne è al
corrente», venne interrotto subito. «E gradirei
poter contare sulla vostra
discrezione riguardo ciò che apprenderete nelle ore
successive, padre Randall:
è nell’interesse di tutti evitare uno
scandalo.»
Il
reverendo annuì
piano, sempre più confuso.
«Naturalmente», mormorò soltanto. Che
cosa stava
accadendo tra le mura di Pemberley?
Quando
giunsero nell’enorme
cucina, tutti i domestici là presenti – la cuoca,
le sue aiutanti, alcuni
camerieri e persino il valletto personale di lord Rochester –
interruppero ciò
che stavano facendo in favore di salutare rispettosamente
l’uomo di chiesa.
Egli ricambiò il benvenuto e mormorò una breve
benedizione, che tuttavia non
servì ad alleggerire le espressioni tetre e stanche della
servitù. Sempre più
perplesso, il reverendo volse nuovamente lo sguardo al maggiordomo, ma
già egli
gli stava facendo cenno di seguirlo attraverso un altro corridoio, e
senza più
parlare si fermò davanti a una porta per poi bussarvi
gentilmente.
Fu proprio
Mrs.
Duncan ad apparire sulla soglia, e quando i suoi occhi si posarono sul
prete il
suo volto parve illuminarsi di sollievo. «Grazie, signor
Weber», disse rivolta
al maggiordomo, che sapeva riconoscere un congedo quando ne udiva uno.
La donna
tornò a dedicare la sua attenzione al reverendo una volta
che il suo collega li
ebbe lasciati soli. «Prego, padre, entrate.»
«Devo
ammettere di
aver trovato sospetto l’invito del conte, ma adesso si
chiariscono molte cose»,
esordì l’uomo quando la porta
dell’ufficio della governante si chiuse dietro di
loro. Osservò placidamente la piccola ma elegante stanza
prendendo nota della
cura con cui ogni oggetto aveva trovato il suo incastro, e attese con
pazienza
che la donna gli indicasse una sedia su cui prendere posto.
«Prego,
padre»,
ripeté quest’ultima, facendo un cenno verso una
delle poltroncine. «Gradite
qualcosa da bere? Un tè, brandy magari?»
Il
reverendo
acconsentì con un breve cenno del capo, accettando per il
momento il rinvio
della discussione. «Un tè andrà
benissimo, grazie Mrs. Duncan», rispose,
cortese. Aveva come la vaga impressione che sarebbe servito porre la
donna a
suo agio se avesse voluto scoprire qualcosa di utile riguardo
ciò che accadeva
in quel castello.
Attese in
silenzio
durante l’intera preparazione del tè,
approfittandone per riflettere su ciò che
sapeva per sentito dire e su ciò che aveva avuto modo di
osservare fino a quel
momento – non molto, doveva ammettere – in modo da
prepararsi a qualsiasi
evenienza. La famiglia dei Rochester non era neppure cattolica,
poiché
seguivano il credo protestante come i loro antenati; dunque che cosa
potevano
mai volere da lui?
Quando
entrambe le
tazze di fine porcellana furono riempite con il tè fumante,
e latte e limone
vennero aggiunti secondo le loro personali preferenze, padre Randall
decise di
spezzare il silenzio.
«Dunque»,
fece,
roteando il cucchiaino per sciogliere lo zucchero. «Che cosa
posso fare per
voi?»
«Ah,
padre», sospirò
la donna. «È un’enorme richiesta quella
che vi sto per fare, e richiede un
notevole impiego di misericordia e discrezione, e voi siete
l’unico che mi sia
venuto in mente cui rivolgermi. Il conte mi ha imposto di non farne
parola ad
anima viva, ma non posso più tacere
sull’argomento… Sento che se mantenessi il
segreto per soltanto un altro giorno impazzirei dalla disperazione e
dal
rimorso.»
«Mia
cara, mi state
preoccupando. Che cosa vi angustia?»
La
governante si
guardò rapidamente intorno come se temesse che qualcuno la
spiasse attraverso
le pareti, e poi emise un altro sospiro. «Dovete promettere,
padre», mormorò,
guardandolo con aria quasi disperata. «Promettetemi che non
direte ad anima
viva ciò che udirete o vedrete qui oggi.»
«Sapete
bene che ciò
che mi viene detto in confessione non verrà
divulgato», ribatté il prete leggermente
offeso. «Conoscete i miei voti e ciò che la mia
carica comporta.»
Mrs.
Duncan annuì e
prese un sorso del suo tè, e padre Randall notò
il lieve tremore delle sue
dita. «Bene», disse lei, sforzandosi di recuperare
il controllo sui propri
nervi. «Bene.»
Notando
che la
governante non sembrava riuscire ad aggiungere altro, il prete riprese,
stavolta con fare più gentile e comprensivo.
«Forse questo non è l’ambiente
più
adatto per una confessione, mia cara: è chiaro come il
giorno che non siete a
vostro agio. Perché non siete venuta in chiesa per parlare
con me?»
«No,
no! Ho bisogno
che vediate, padre, oltre che udire… Non ho bisogno soltanto
di liberare la mia
anima da un peso, ma anche e soprattutto del vostro aiuto. Siete un
uomo
istruito, paziente, caritatevole, e vi conosco sin da quando siete
giunto a
Heatherfield per la prima volta. Posso fidarmi solo di voi in questo
frangente.»
A questo
punto il
reverendo dovette ammettere di peccare di curiosità.
«Tutti questi misteri non
vi si addicono, Mrs. Duncan», l’ammonì
il prete. «Parlate chiaramente e
liberatevi di questo fardello.»
La donna
prese un
breve sorso di tè come a volersi dare coraggio; i suoi
occhi, larghi e castani,
fissavano un punto imprecisato sul tavolo, e le sue dita tamburellavano
nervose
su di esso. Padre Randall recitò a mente due Pater Noster e
un Ave Maria nel
tempo che occorse alla governante per raccogliere i pensieri e decidere
di
parlare.
Infine la
tazzina
venne posata, e Mrs. Duncan prese un profondo sospiro. «Voi
sapete che lady
Rochester è morta di parto», esordì
bruscamente, sollevando gli occhi per
incontrare quelli del reverendo. «Dopo tre figli e nessuna
complicazione, l’ha
portata via una comune febbre puerperale… Non voglio
scendere in dettagli
inutili, ma sappiate che quell’ultima gravidanza non fu come
le altre.»
Racimolando
ogni
briciolo di pazienza rimastogli, padre Randall tacque e la
invitò a continuare
il suo racconto con un comprensivo silenzio e un breve cenno del capo.
«Vedete,
malgrado ciò
che è stato detto al riguardo, il bambino non nacque morto.
Anzi, non morì
neppure in seguito… Egli vive, ed è anzi in
salute, nonostante tutto, e abita
qui, al castello.» Vedendo l’espressione sgomenta
dell’uomo che le sedeva di
fronte, la signora Duncan sollevò una mano per invitare
ulteriore indulgenza. «Per
via di certe… circostanze… il conte non
l’ha riconosciuto», spiegò.
«Forse il
dolore per la scomparsa della moglie l’ha svuotato da ogni
sentimento, chi
siamo noi per giudicare e pretendere di sapere che cosa passa nel cuore
e nella
mente di un uomo posto di fronte al lutto? Ad ogni modo, egli ha
permesso che
il bambino vivesse nella casa della sua famiglia, e me ne sono presa
cura io fino
a questo momento.»
«Un
momento solo,
Mrs. Duncan», la interruppe il reverendo a quel punto,
incapace di trattenersi
e tacere oltre. «Mi state dicendo che questo bambino, che
dovrebbe avere ora
una decina d’anni, ha vissuto nascosto tra queste mura? Come
avete fatto a mantenere
un simile segreto per così tanto tempo? E perché
io ne vengo a conoscenza solo
ora? Sono il confessore di questa famiglia!»
«Voi
non capite»,
sibilò la donna, allarmata dal tono di voce di padre Randall
e desiderosa di
maggior riserbo. «L’abbiamo fatto per
proteggerlo!»
Padre
Randall era
indignato. «È per proteggerlo che
l’avete tenuto prigioniero, lontano dal
mondo? È questo crimine il motivo di tanta
segretezza?»
«Non
capite», ripeté
la donna, notevolmente pallida. «Dovrete vedere, per poter
comprendere… per non
giudicare con tanta durezza! Ma qualsiasi cosa vediate, qualsiasi cosa
pensiate,
vi supplico, padre: non una sola parola dovrà lasciare le
mura di Pemberley, o
l’ira del conte non conoscerà eguali.»
«Temete
più la rabbia
di un uomo che il giudizio di Nostro Signore?»
Ribatté il prete, sbattendo il
palmo della mano contro la superficie del tavolo. «Come
osate! Non posso farvi
una simile promessa, signora, checché ne diciate. A costo di
portar via il
bambino da questo castello…!»
«Portarlo
via! Cosa
dite! E abbassate la voce, per l’amor di
Dio…»
«Non
invocate il Suo
nome in questa circostanza, Mrs. Duncan, vi avverto!»
«E
voi non dite
simili sciocchezze!» Replicò lei prontamente,
bianca come un cencio. «Ascoltatemi,
padre, vi scongiuro: aspettate di vederlo prima di prendere una
decisione. È
facile condannare senza sapere, e io non vi ho chiesto di venire fin
qui per
litigare con voi: ho bisogno che siate mio amico e alleato, non vi
voglio come
nemico.»
«Allora,
cosa state
aspettando? Portatemi da lui», decretò
l’uomo con fare definitivo, alzandosi in
piedi e torreggiando sulla povera governante.
Con un
sospiro
rassegnato, la donna si alzò a sua volta. «Molto
bene. Seguitemi», fu tutto ciò
che disse.
Il
reverendo non
aveva mai avuto modo di visitare a fondo un maniero dalla simile
struttura:
seguì la signora Duncan su per strette rampe di scale,
attraverso angusti
corridoi, lungo passaggi debolmente illuminati da candele tremolanti o
da
piccole finestrelle strette che parevano feritoie, e che lasciando
entrare
sottili fili di luce a rischiarare un’oscurità
altrimenti perenne. Brevemente e
quasi sussurrando, la governante gli spiegò che i domestici
utilizzavano quei
passaggi per raggiungere ogni stanza del castello, a partire dalle
camere da
letto – e così dicendo gli indicava sagome di
porte che si affacciavano sui
corridoi ogni venti o trenta metri – per proseguire con il
foyer, la sala da
pranzo, i salottini privati, la biblioteca, lo studio. In questo modo,
la
servitù poteva svolgere i propri compiti indisturbata,
facendo avanti e
indietro da mattina a sera e senza intralciare la vita quotidiana dei
conti e
dei loro ospiti, qualora si fossero degnati ad aprire la casa ad amici
e
conoscenti.
Padre
Randall avrebbe
mentito se avesse detto di non essere malgrado tutto affascinato
nell’apprendere la routine di un castello di quelle
dimensioni.
D’un
tratto, Mrs.
Duncan si fermò. La sua mano si sollevò ad
afferrare il mazzo di grosse chiavi
che le pendeva da un cinturino che portava intorno alla vita, e
iniziò a
scorrerle con un improvviso tremore. «Solo io ho le chiavi di
questa stanza»,
spiegò a mezza voce, mentre le sue dita passavano il mazzo
in rassegna. Infine
trovò ciò che cercava: isolò il
piccolo oggetto di ferro dal resto delle chiavi
e lo sollevò alla luce per far sì che
l’uomo lo vedesse, in un cenno dall’aria
solenne che lo mise onestamente a disagio.
Osservò
poi la chiave
che veniva abbassata e infilata lentamente nella toppa, e
udì il rumore secco
delle tre mandate che fecero scattare la serratura; il reverendo, non
senza una
certa apprensione, si ritrovò a domandarsi che genere di
creatura si trovasse
oltre quella soglia per necessitare simili misure di sicurezza e
circospezione.
La governante gli aveva parlato di un bambino: ma chi meritava un
simile
trattamento a un’età così giovane e
innocente?
Finalmente
la porta
si aprì, ruotando sui propri cardini e lanciando un sottile
filo di luce nel
loro corridoio segreto. Mrs. Duncan prese un profondo respiro,
lanciò una breve
occhiata al prete al suo fianco per intimargli silenziosamente di
seguirla, e
avanzò rapida all’interno della stanza.
Il bambino
era seduto
per terra, presso il caminetto, la testa china mentre si dilettava con
dei
giocattoli di strana fattura – come se fossero stati messi
insieme da pezzi di
balocchi vecchi e per creare qualcosa di nuovo. Il delicato mormorio
che
accompagnava i suoi giochi era una qualche nenia che il piccolo stava
canticchiando a mezza voce, e che per qualche strano motivo
provocò uno spasmo
di compassione nel cuore del prete.
La signora
Duncan
chiuse delicatamente la porta dietro di sé e si
schiarì la voce. «Padroncino
Adam?» Lo chiamò gentilmente, mettendo in quel
titolo la stessa deferenza che
avrebbe riservato a qualsiasi altro erede del conte, e senza il minimo
accenno
di derisione.
Nell’udire
il proprio
nome venir chiamato all’improvviso, il bambino
rizzò la schiena e posò i giochi
sul tappeto, smettendo di canticchiare. Padre Randall lo
osservò attentamente
mentre, con strane movenze lente e deliberate, si voltava per
fronteggiare i
suoi ospiti…
Il suo
cuore saltò un
battito, e per un attimo fu incapace persino di respirare. La mano si
strinse
intorno al crocifisso d’argento che portava intorno al collo,
finché i lati
taglienti del Cristo non gli ferirono i palmi, e solo il dolore
riuscì a fargli
riprendere fiato. D’un tratto, le suppliche di Mrs. Duncan
acquistavano un
senso.
«Il
Signore abbia
pietà», sussurrò debolmente.
Dopo
cena, come di consueto, Adam accompagnò Emma a controllare
le condizioni di
Miss Radcliffe prima di scortarla nei suoi appartamenti. Non si erano
detti
molto altro al rientro dalla loro passeggiata mattutina; i due si erano
separati nel foyer, il padrone intuendo probabilmente lo stato
d’animo poco
propenso alla compagnia della sua ospite. La signora Duncan, che era
lì presente
ad accoglierli, aveva di certo notato la strana atmosfera che aleggiava
tra
loro, ma saggiamente non ne fece parola – Emma non avrebbe
saputo dire se ciò
fosse dovuto a una certa delicatezza o al timore dell’ira di
Adam in caso ella
avesse superato qualche limite.
Avendo
trovato la sua istitutrice in condizioni né migliori
né peggiori rispetto al
pomeriggio – benché il suo sonno sembrasse
più riposato, e Mrs. Duncan le
avesse assicurato di essere riuscita a farle ingerire del brodo caldo
insieme
alle medicine prescritte dal dottor Carew – Emma
lasciò che Adam la condusse
nella sua stanza. I corridoi erano bui, poiché prima di
coricarsi i domestici
si accertavano di spegnere il gas che alimentava le luci,
così era Adam a
illuminare il tragitto con un antico candelabro a tre braccia.
Avevano
appena raggiunto il pianerottolo del secondo piano, dove si trovava la
stanza
di Emma, quando Aramis si bloccò all’improvviso e
voltò il muso verso
l’oscurità alle loro spalle, emettendo un ringhio
basso e minaccioso. La
giovane rischiò di inciampare su di lui, e fece per
riprenderlo quando
un’improvvisa ondata di gelo proveniente dalla tromba delle
scale le ghiacciò
il sangue nelle vene. Adam, poco più avanti, non sembrava
essersi accorto di
nulla.
Ma
lei avvertì un fruscio – qualcosa che raschiava
sui gradini, a fatica, dei
tonfi sordi come di passi attutiti dal tappeto – poi un
debole sospiro, e la
sensazione di essere fissata con insistenza che aveva provato nel parco
il
giorno prima tornò più acuta che mai,
terrorizzandola. Subito si fermò,
voltandosi di scatto con il respiro bloccato in gola, per scrutare
inutilmente
l’oscurità alla ricerca di qualsiasi cosa
– adesso ne era sicura! – la stesse
seguendo.
Adam
dovette essersi accorto che lei era rimasta indietro, perché
tornò subito sui
suoi passi, portando misericordiosamente con sé la quieta
luce del candelabro.
«Avete
visto?» Mormorò lei senza voltarsi, gli occhi
sgranati e indirizzati verso un
punto in ombra del corridoio. D’istinto, allungò
una mano davanti a sé – tanto
il buio pareva solido, tangibile – ma fu il suo compagno a
prendergliela tra le
sue in una stretta gentile: persino il tiepido cuoio dei suoi guanti le
fu di
conforto, se paragonato all’alito gelido che aveva avvertito
alle sue spalle, che
le aveva fatto accapponare la pelle e rizzare i capelli sulla nuca.
Come
se dita gelide l’avessero accarezzata.
«Che
cosa dite, Emma? Non c’è niente qui, eccetto
noi», fu la pacata risposta di
Adam, che echeggiò con sconcertante risolutezza nel silenzio
dell’andito.
Lei
scosse appena il capo e fece un passo in avanti, prima che la presa
dell’uomo
la trattenesse al suo fianco. «No, no, ho visto
qualcosa… Come un’ombra,
proprio dietro di me», insisté.
«L’aria si è fatta gelida!
Com’è possibile che
non abbiate sentito nulla?»
«Perché
non c’è nulla da sentire», fu
la
secca risposta dell’uomo, sibilata con tanta
severità da fargli guadagnare
un’occhiata stupita e intimidita. «Siete stanca,
milady, e questo maniero è
antico. E come ogni vecchio edificio, esso geme, scricchiola e sospira
a ogni
alito di vento – non vi è nulla da
temere.»
La
menzogna era così palese da poterla quasi assaporare sulla
punta della lingua,
e il timore di Emma iniziò a tramutarsi in gelido disdegno
–
«Forse
risentite ancora della febbre di pochi giorni fa?»
–
che, a quelle parole, infiammò a un tratto l’ira
che aveva severamente represso
per tutto il giorno.
«Non
osate!» Sbottò dunque, strappando bruscamente il
proprio polso dalla stretta
del padrone e facendo due prudenti passi indietro. «Come
potete sperare che io
vi creda? Voi, che non mi avete mai rivelato neanche
cos’è accaduto davvero la
notte che mi avete trovata!»
Adam
si irrigidì – la sua postura assunse una certa
severità che sfuggì tuttavia
all’occhio distratto di Emma – e per un attimo le
due entità dentro di lui
lottarono per la supremazia. Rispondere
alla sfida, alimentare quella furia e tramutarla in sacro terrore o
placare la
donna? Fu di nuovo Adam, per fortuna, ad avere la meglio.
«Vi ho detto
tutto ciò che vi serve sapere», la
ammonì a mezza voce, un tremito appena
soppresso l’unico indizio di quel travaglio interiore.
Emma
gli rivolse uno sguardo duro, colmo di risentimento e irritazione
– poiché
durante i giorni trascorsi ella aveva creduto che un certo grado di
prudente
fiducia si fosse instaurata tra loro, e solitamente Adam rispondeva con
garbo e
sincerità alle domande che lei gli poneva – e
strinse le mani con furia sulla
stoffa del proprio abito, le dita artigliate come se avesse voluto
invece
stringergliele intorno al collo. «Non mi avete detto niente,
invece», lo
contraddisse subito, sollevando il mento. «Mi tenete occupata
e distratta
giorno dopo giorno con la speranza che io dimentichi ciò che
ho visto, che
dimentichi la situazione in cui mi trovo, ma mi credete davvero tanto
sciocca?
Pensate che non mi sia accorta che i domestici si rifiutano di
parlarmi, che le
lettere di mio padre e del mio fidanzato hanno smesso di arrivare, che
la mia
istitutrice continua a giacere a letto senza alcuna speranza di
ripresa? Non vorrei
insinuare cose non vere, signore, ma anche voi dovrete convenire con me
sul
fatto che si tratti di circostanze oltremodo sospette.»
Malgrado
la luce delle fiamme danzasse sul profilo della sua maschera, la
penombra del
corridoio aveva celato alla sua vista l’istintiva reazione
del padrone – un
istantaneo irrigidirsi, le mani serrate in pugni nervosi, gli occhi
d’un tratto
scuri, quasi neri – ma non aveva
fatto nulla per attenuare la freddezza della sua risposta.
«Credevo che aveste
imparato a trovare piacevole la mia compagnia.»
Emma
sbuffò assai inelegantemente, dimentica per un attimo del
proprio status. «Credetemi,
troverei spiacevole persino la compagnia del re in simili circostanze.
E vi
prego di non deviare la discussione dall’argomento
principale», disse, in un
tono che non ammetteva repliche. «Desidero sapere che cosa
sta accadendo a
Pemberley, signore, e desidero saperlo adesso.»
«Non
capisco che cosa intendete», fu la rapida risposta
dell’uomo, pronunciata a
denti stretti.
«Intendo
dire che al di là del fatto che mi stiate tenendo
prigioniera tra queste mura,
cosa che vi ho finora permesso perché tengo alla mia
istitutrice e al momento
lei è impossibilitata a muoversi, voi mi state nascondendo
qualcosa, e non ho
intenzione di aggiungere la sprovvedutezza alla lista dei mie
difetti!» Si
fermò un attimo per riprendere fiato – a sua volta
scioccata dal fervore
dimostrato e dallo scoprire quanta rabbia avesse in effetti accumulato
–
dopodiché raddrizzò la schiena e fissò
severamente l’uomo negli occhi,
ignorando come al solito la strana angoscia che evocava la presenza
della sua
maschera. «Per cui ve lo chiederò un ultima volta,
signore – che cosa mi state
nascondendo? Sono in un qualche pericolo?»
Nei
lunghi secondi che seguirono le sue parole, Emma ritornò con
la mente agli
ultimi giorni; alla fatica che faceva ogni notte ad addormentarsi, e a
come la
sua mente veniva invasa da vorticanti immagini di spettri non appena
scivolava
in un sonno senza riposo, maledetto da fiamme che le lambivano le
carni, acque
nere profonde come l’inferno che l’attiravano nel
loro mortale abbraccio, e poi
sangue, sangue che colava dalle pareti, che macchiava il pavimento, che
sgorgava
dalle pagine dei libri della biblioteca e che gocciolava da ferite
aperte e
bocche spalancate, e urla, pianti, singhiozzi – e quelle
visioni erano così
macabre, oscene, da svegliarla di soprassalto, costringendola a
rigettare quel
poco che aveva nello stomaco nella tazza da notte che ormai teneva
accanto al
letto per quelle evenienze. Non aveva detto a nessuno dei suoi sonni
turbati –
forse solo Lydia ne era al corrente, dato che era lei che la svegliava
ogni
mattina e si occupava di mettere in ordine e ripulire la stanza. Ma
ella era
muta, ed Emma le aveva domandato di non raccontarlo a nessuno
– solo perché non
poteva parlare non significava che non avesse altri modi di comunicare,
per
quanto si ostinasse a non farlo con lei – e poteva solo
sperare di aver riposto
la sua fiducia nelle mani giuste.
Ma
le notti insonni la rendevano nervosa, andando ad aggiungersi al
malessere
causato dalle sue attuali circostanze; e anche se durante il giorno
fingeva che
nulla fosse fuori posto – a partire dal suo aspetto, che
curava celando il
pallore e le ombre sotto agli occhi con del maquillage recuperato
chissà come
da Lydia – ciò non significava che dentro non
stesse tremando, e che non
temesse la notte come si teme il diavolo.
«Non
avete nulla di cui avere paura, milady», disse Adam, portando
la mano libera
dietro la schiena per evitare di cedere all’impulso di
allungarsi e afferrarla.
«Fintanto che rimarrete mia ospite, vi garantisco
che–»
«Mi
garantite?» Lo interruppe, troppo
scioccata per considerare la propria maleducazione. «Buon
Dio! Continuate a
evadere le mie domande anche ora che vi accuso!»
«Cosa
volete che vi dica? Che avete ragione?» Sbottò
l’uomo, avanzando
minacciosamente d’un passo. «Che risposta
gradireste sentire per poter dormire
serenamente la notte, milady?»
«La
verità!» Esclamò lei inviperita,
sforzandosi di non indietreggiare. «Voglio che
siate onesto con me, e che mi diciate che cosa sta accadendo nella mia
casa!
Non fraintendete la mia disponibilità e la mia educazione
per ignoranza o
ingenuità, signore – posso assecondarvi,
sì, ma ciò non influisce sulla mia
capacità di raziocinio e libero pensiero, e i misteri che
celate non mi aiutano
a essere a mio agio in vostra presenza!»
Sconvolto
dal brusco sfogo, Adam si immobilizzò in mezzo al corridoio,
e agli occhi
furiosi di Emma parve che diventasse appena più piccolo,
appena più fragile,
come se le sue parole – bastava davvero così poco?
– lo avessero colpito, o
avessero perlomeno toccato un nervo scoperto.
Come
poteva aver
paura di lui? Si
ritrovò a pensare, scioccata. Sembra un
cucciolo bastonato. Che fine aveva fatto l’uomo che
aveva reagito con
quella furia terribile quando lei aveva provato ad attaccarlo, appena
conosciuti? Quando le sue dita gelide le si erano strette intorno al
collo, e
nei suoi occhi non aveva visto che promesse di orrori?
Si
rese conto che era da tanto – da quando le aveva salvato la
vita, quella notte,
sul lago – che non pensava a lui sotto quella luce, come un
mostro da cui non
avrebbe potuto aspettarsi che violenza e minacce. E adesso che le stava
di
fronte, incurvato, gli occhi supplicanti, Emma realizzò non
senza una buona
dose di sgomento che no, non era di lui che aveva paura.
Cosa
potete saperne,
voi, di solitudine,
era stata una delle prime cose che le aveva detto. Non vi
chiedo molto – desidero soltanto la vostra
compagnia…
Per
quanto provasse una fastidiosa fitta al petto quando ci ripensava,
quando
rifletteva sul genere di vita che Adam aveva condotto prima del suo
arrivo, e
per quanto potesse provare pena per lui, ciò non le toglieva
il diritto di
domandare spiegazioni e pretendere delle risposte, non rendeva meno
legittimi i
suoi desideri.
E,
a giudicare dal silenzio di Adam, Emma comprese che non avrebbe
ottenuto niente
di tutto ciò per quella sera; per cui socchiuse gli occhi,
prese un profondo
respiro e rilassò le spalle.
«Vedete
bene che non posso obbligarvi a parlare, ed è nel vostro
diritto mantenere
quali che siano i vostri segreti», disse, con un tono di voce
improvvisamente
calmo, gelido ma non meno gentile. «Ma sappiate che tutto
questo mistero non mi
fa sentire a mio agio, e che pertanto gradirei trascorrere da sola le
mie
giornate fin quando non mi riterrete degna di fiducia.»
Vide
la mano di Adam che reggeva il candelabro tremare davanti alla fermezza
di
quella dichiarazione, e il modo in cui sollevò appena il
mento le fece intuire
che volesse ribattere qualche cosa; ma lo interruppe con un cenno di
diniego
del capo, al quale lui obbedì prontamente. «Per
favore, sono stanca.
Accompagnatemi nella mia stanza se volete, dopodiché
desidero stare da sola»,
rettificò, distogliendo lo sguardo.
Reso
muto dall’improvvisa svolta degli eventi, Adam si
limitò ad annuire, dandole le
spalle e riprendendo il tragitto lungo il corridoio. Persino Faust
rimase in uno
stordito silenzio, rannicchiato in un angolo scuro della sua mente.
Doveva
domandare il
suo perdono.
Era
questo il pensiero fisso che aveva accompagnato Adam per tutto il
giorno. Non
erano trascorse neppure ventiquattr’ore da quando aveva
discusso con la sua
ospite – ore passate in solitudine, suo malgrado,
poiché la giovane donna lo
aveva evitato sin da quando si era svegliata, trovando rifugio nella
camera da
letto della sua istitutrice o, peggio, nelle stalle, dove egli
preferiva non
mettere piede per evitare di incontrare il figlio dalla mente delicata
dei
signori Duncan – eppure, già sentiva la sua
mancanza. Si era abituato alle loro
conversazioni, benché non fosse tanto sciocco da non
accorgersi della
circospezione e talvolta del disagio con cui Emma si rapportava a lui,
e
tornare al silenzio dopo giorni – settimane
– di compagnia era stato terribile.
E
la colpa era da far ricadere esclusivamente su di lui. Su di lui, e su
quel
morbo osceno che appestava ogni suo pensiero sia da sveglio che da
addormentato, e che lo minacciava costantemente con la sua presenza e
la
promessa di saltare fuori da un momento all’altro, senza
neppure dargli il
tempo di accorgersene: Faust. L’essere che possedeva la sua
mente e talvolta il
suo corpo non aveva smesso un solo istante di sibilargli
all’orecchio ciò che
pensava della situazione – dipingendo e offrendogli immagini
tanto turpi e
lascive da lasciarlo scosso e tremante, ad annegare nella vergogna
causata dal
fatto che sì, sì, malgrado
tutto le
trovava persino invitanti, sensuali.
Ma
no, non avrebbe mai permesso a Faust di fare ciò che voleva
di Emma – a costo
di strapparsi gli occhi con le proprie unghie e mordersi dita e labbra
per non
mugolare dall’eccitazione a stento repressa, pur di non
vedere in lei, nel suo
viso diafano, innocente, nei suoi occhi caldi e morbidi, il terrore o
il
disgusto.
Faust
poteva ringhiare e soffiare quanto voleva nella prigione che era la
mente di
Adam – lui non l’avrebbe liberato, non in presenza
di Emma, non con il rischio
di farle del male; non sarebbe più stato schiavo di
quell’essere, non avrebbe
più perso il controllo… e, se tutto
ciò che avrebbe dovuto fare sarebbe stato
parlare con lei, spiegare la situazione, dissipare misteri e
segreti… Ebbene,
che fosse! Sarebbe stato sincero. E, fin tanto che lei si fosse tenuta
lontana
dalla sua maschera, fin tanto che non avesse fatto altre domande
scomode, fin
tanto che si fosse fidata, almeno un poco, di lui – cosa
poteva mai accadere di
male?
Fu
per questo motivo che la raggiunse dopo cena, certo di trovarla
rinchiusa nella
biblioteca – solo perché non aveva condiviso
fisicamente la giornata insieme a
lei, difatti, non voleva dire che l’avesse lasciata al di
fuori del proprio
campo visivo. Non l’aveva spiata – il termine era
troppo maligno – no;
semplicemente, l’aveva tenuta sotto controllo, al sicuro, per
evitare che loro…
gli altri… le si avvicinassero
troppo.
Adam
entrò dunque quietamente nella biblioteca silenziosa,
richiudendo piano la
porta alle sue spalle avendo cura di non farla sbattere. Le luci erano
state
diminuite dalla solerte signora Duncan prima che quest’ultima
si congedasse, di
modo che la giovane non trovasse difficoltà nello spegnerle
tutte una volta che
si fosse ritirata per la notte. Era dunque il camino che forniva la
maggior
parte dell’illuminazione, insieme alla lampada accanto al
divano dove di certo
Emma giaceva immersa, come suo solito, in qualche libro.
Con
un mezzo sorriso su labbra che nessuno poteva vedere, Adam
attraversò la stanza
– il rumore dei suoi passi attutito dai tappeti –
per poi fermarsi bruscamente
a pochi metri dal divano, gli occhi sgranati sotto la maschera e le
mani
contorte in rigidi pugni, dinnanzi all’inaspettata visione
che lo accolse.
Emma
doveva essersi appisolata, il libro che le giaceva dimenticato in
grembo e il
capo volto verso il calore del fuoco, ignara di ciò che le
accadeva intorno.
Poggiato a braccia conserte sopra la spalliera del divano sul quale la
giovane riposava,
un pallido gentiluomo ne osservava il profilo con espressione
incuriosita e
scaltra; folti capelli biondi riflettevano la luce delle fiamme e
circondavano
un volto mascolino e vagamente emaciato, labbra rosee erano piegate in
una
smorfia divertita e occhi scuri come la notte si sollevarono pigramente
su di
lui, per nulla scomposti dal suo arrivo.
«È
molto bella», fu il suo pacato e in certo senso sarcastico
commento, blandamente
offerto prima di tornare ad osservare la giovane.
Adam
s’irrigidì, furioso, ma disposto alla cautela. Non
voleva pensare a che
reazione avrebbe avuto Emma se si fosse svegliata e avesse visto lui
che la fissava. «Che cosa stai
facendo, Evan? Non ti sei già divertito abbastanza con
lei?»
Il
gentiluomo – Evan – sbatté con aria
perplessa le palpebre, prima di assumere
un’espressione consapevole e scrollare le spalle con aria
disinteressata. «Ah,
parli della notte degli orrori», sorrise appena.
«Non è stata una mia idea –
non ho nulla contro la tua ospite. Anzi, la trovo affascinante: che
motivo
potrei avere per scacciarla via?»
Seguendo
un impulso e approfittandone di certo per infastidire Adam, Evan
allungò un
braccio verso la ragazza addormentata, sistemandole con due dita alcune
ciocche
di capelli sfuggiti alla modesta acconciatura. Ignorando la precedente
proposizione di fare silenzio per non svegliarla, Adam emise un verso
che
somigliava discretamente a un ringhio.
«Non
toccarla», sibilò, avanzando di un
passo.
L’altro
lo fissò per una lunga manciata di secondi, prima di
sbuffare e ritrarre
lentamente la mano. «Come sei fastidioso, fratello
mio», lo apostrofò
sbeffeggiante, mantenendo un tono di voce quieto.
«Potrò averla almeno quando
avrai finito con lei? Certo il tuo doppio si stancherà
presto e non saprai più
che fartene.»
Raggelato,
Adam sentì quella presenza dentro di lui sollevare il capo e
rizzare le
orecchie, d’un tratto attenta, non più sorniona,
come se quel disinvolto
accenno ne avesse attirato l’interesse.
La
voce gli tremò solo appena quando replicò.
«Se sei venuto con lo scopo di
irritarmi, ti avverto: ci stai riuscendo.»
«Oh?
Beh, è un cambiamento. Di solito è difficile
penetrare le tue difese», commentò
Evan con affettato disinteresse, osservandolo con la coda
dell’occhio. «Dì un
po’, da fratello a fratello. Sei davvero affezionato a lei o
progetti di
lasciarla alle amorevoli cure del tuo doppio, come le altre prima di
lei? Ho
visto come la guardi, la libertà di movimento che le
permetti, il desiderio che
hai di toccarla. Sono curioso; per favore, assecondami un momento.
È una tale
noia, questo castello…»
«Se
devi parlare, spirito, fallo subito e poi sparisci. Sono stufo di
sentire la
tua voce.»
Gli
occhi cupi del fantasma si riempirono di un’emozione feroce,
e la sua fronte
aggrottata perse in un attimo l’atteggiamento sarcastico e
rilassato. «Dovresti
davvero mostrare più rispetto nei miei confronti, fratello»,
lo ammonì, utilizzando quel flebile legame che li univa
a mo’ di insulto. «Non vuoi che ti renda la vita
più difficile di quanto già
non sia.»
Adam
si limitò a fissarlo in silenzio, invitandolo a continuare
senza pronunciare
una sola parola.
Evan
roteò gli occhi, per poi tornare a posarli sulla ragazza
addormentata. «Dunque,
dicevo: sono curioso. Il tuo comportamento sospettosamente galante
è forse segno
del fatto che desideri che lei ricambi qualsiasi sia il sentimento che
provi
per lei? Pensi che sia così sciocca, o disperata, da caderti
tra le braccia
come in un qualche ridicolo romanzetto da donnette? Forse dovresti
ricordarti
chi sei, cosa sei, prima di indugiare
troppo nelle tue utopie. Ah, ma è per questo che sei qui,
non è vero? Per
riparare a chissà quale torto – ho visto che oggi
non vi siete rivolti la
parola, evitandovi come la peste. Sta iniziando a sfoderare gli artigli
la
nostra piccola ospite, e questo non va bene. Fa domande, è
curiosa, la sua
testolina si riempie di strane idee… Come mai non
l’hai ancora messa a tacere,
mi chiedo? È indubbiamente bella, sì, ma vale
davvero tanti sforzi?»
«La
cosa non ti riguarda», scattò l’altro,
tremante. Sentiva di essere prossimo a
perdere il controllo, e non voleva, non a pochi passi da Emma, non
quando ogni
muscolo del suo corpo era teso come la corda di un violino e non
aspettava che
la più piccola occasione per scattare…
Deglutì, il respiro improvvisamente
affannato, e continuò: «Ciò che faccio
o non faccio con lei è affar mio, Evan,
e mio soltanto. E tu non ti devi avvicinare, né tu
né gli altri, sono stato
chiaro?»
Un
lampo di comprensione attraversò lo sguardo del fantasma, ed
esso si aprì in un
ghigno. «Oh, ma sembri dimenticare che non sono io
ciò che lei dovrebbe temere,
mio caro. Che male possono mai fare i morti? Ma i vivi… I
vivi bisogna temerli,
e tu, fratello, sei sfortunatamente ancora in vita.»
Fu
sufficiente: non servì altro per far scattare in modo
definitivo la bestia
dentro di lui, e con un grugnito sofferente il padrone del castello si
piegò su
se’ stesso, premendosi i palmi delle mani contro il cranio
– come se volesse
impedire a qualsiasi male vi fosse rinchiuso di venire fuori.
Inutilmente.
Evan
si ritrovò a osservare affascinato il processo. Il nero
inondò gli occhi
azzurri di Adam, come se la pupilla si fosse allargata inghiottendo
l’iride in
un mare di oscurità; parve cambiare la sua stessa
conformazione fisica, ma ciò
doveva essere una semplice illusione, poiché
bastò che egli raddrizzasse la
schiena da una postura inconsciamente curva per renderlo d’un
tratto più alto e
imponente, minaccioso; qualcosa si modificò anche nel suo
atteggiamento, nel
modo in cui si portava, trasformandolo in una persona completamente
diversa.
E
il povero e patetico Adam lasciò infine spazio allo scaltro
e feroce Faust.
«Mi
chiedevo quando avresti rifatto la tua comparsa», fu il
saluto sornione del
fantasma.
Faust
tuttavia non rispose alla provocazione. «Sai bene che i tuoi
giochetti non
funzionano con me», ribatté pacato, un tono
mellifluo che fu capace di far
rabbrividire persino lo spirito.
Evan
roteò gli occhi, senza però staccarli dalla nuova
presenza; sapeva che, con
Emma lì, Faust non avrebbe osato alzare né la
voce né le mani, ma era sempre
meglio usare prudenza quando ci si approcciava a lui.
«Noioso, noioso… E dire
che un tempo ti preferivo all’altro.»
Accennò poi un sorriso, piegando il capo
di lato e notando con la coda dell’occhio le mani del mostro
che si flettevano
con movimenti calcolati, facendo scricchiolare il cuoio dei guanti.
«Perché
sei ancora qui, spirito?» Riuscì a domandare Faust
senza mostrarsi troppo
infastidito, facendo scivolare lo sguardo sulla giovane donna
addormentata a
pochi passi da lui. Una ruga gli incrinò la fronte: era la
prima volta che le
si trovava vicino di persona, dopo quasi due settimane, e tale incontro
era
rovinato da quel maledetto essere… Forse era per questo che
Adam aveva
allentato le redini al suo controllo, rifletté amaramente:
sapeva che non
avrebbe potuto alzare un dito su di lei davanti
all’apparizione.
In
ogni caso, ella era addormentata: e lui voleva che fosse ben sveglia e
lucida
la prossima volta che si fosse trovata in sua presenza. E sarebbe
accaduto
molto presto, se fosse riuscito a convincere Adam a tenere la bocca
chiusa su
faccende che non sarebbero dovute essere divulgate.
«Come
già stavo dicendo», riprese Evan, che non si era
perso la lenta valutazione
ch’egli aveva fatto di lady Moore, «voglio sapere
quali sono le tue intenzioni
nei confronti della ragazza. Gli altri sono giustamente preoccupati, e
mi hanno
mandato in avanscoperta, per così dire… Questa
casa è nostra tanto quanto tua,
malgrado quello che tu possa pensare, ed è nel nostro pieno
diritto pretendere
di sapere che cosa vuoi fare con un’estranea.»
«Cosa
mi stai chiedendo, Evan?» Fu il sibilo di Faust, tutto a un
tratto minaccioso.
«Se ho intenzione di ucciderla come uccisi
voialtri?»
Fu
con estrema soddisfazione che vide il volto già diafano del
fantasma
impallidire ulteriormente, e le sue mani stritolare lo schienale del
divano. Peccato
che la maschera celava quello che sarebbe stato un terrificante sorriso.
«Parole
tue, non mie», mormorò Evan con eccessiva cautela.
Faust
emise una bassa e secca risata che somigliò di
più a un ringhio. «Sei sempre
stato un codardo, fin da bambino… quando sgattaiolavi
nell’ala Ovest per
prenderti gioco del mostro. Sciocco
da parte mia credere che la morte ti avrebbe fatto dono di una spina
dorsale.»
Avanzò
di un passo e il fantasma tremò dallo sforzo di non
indietreggiare. «Non ti
conviene minacciarmi, fratello»,
continuò, imitando il tono derisorio con cui Evan si era
rivolto ad Adam pochi
minuti prima. «Lo sai che la vostra esistenza risiede nelle
mie mani, così come
sai che avermi come nemico non sarebbe una scelta saggia. Ma oggi mi
sento
particolarmente benevolo, per cui ti dirò questo: milady non
ha nulla da temere
da me per il momento, la sua sicurezza e benessere rientrano anzi tra
le mie
priorità – sentiti libero di riferirlo anche agli
altri.»
Distolse
infine lo sguardo da lui in un chiaro cenno di congedo, posandolo sulla
più
interessante e preziosa figura di Emma, aggiungendo solo un ultimo
monito. «Oh,
ed Evan… Non osare avvicinarti mai più a lei,
sono stato chiaro?»
Per
un lungo istante l’unico rumore che si poté udire
nella biblioteca fu il
crepitio delle fiamme nel camino, e quello del vento che ululava contro
le
vetrate. Faust credette di essere rimasto solo, quando lo spirito
parlò nuovamente
– un sussurro che sovrastò appena il rumore del
vento.
«Non
riuscirai mai ad averla, mostro.»
Quando
riportò gli occhi sul punto oltre il divano, un ringhio
feroce tra i denti, Evan
era già sparito.
__________________________________
An
unfortunate and deserted creature. Il titolo
del capitolo deriva da una citazione di Frankenstein
di Mary Shelley: “I am an unfortunate and
deserted creature, I look around and I have no relation or friend upon
earth.”
(Cap. 15)
“La
notte degli orrori” di cui parla Evan alla fine si trova nel
capitolo 7, Stranger than you dreamt it.
Charlotte
Brontë, Jane Eyre, Parte II,
Capitolo I.
__________________________________
Angolo Autrice.
Cosa
vedono le vostre fosche pupille? Un aggiornamento? Sul serio? Dopo
più di un
anno? Siamo morti e non ce ne siamo accorti?!
No,
no, siamo tutti piuttosto vivi, e non state sognando – questo
è un
aggiornamento vero e proprio, giuro. Siccome non so da che parte
iniziare per
chiedervi scusa per questo hiatus imprevisto – anche se chi
mi conosce sa che
c’è da aspettarselo tra un capitolo e
l’altro, altro che le stagioni di
Sherlock – farò finta di niente e
scriverò queste brevi note stando
inginocchiata sui ceci. Spero comunque di essermi fatta perdonare,
almeno in
parte, consegnandovi un capitolo discretamente panciuto, con personaggi
e
dinamiche nuove e forse qualche risposta a vecchi misteri e nuove
domande a cui
rispondere.
L’unica
cosa che vi posso dire è questa: se, anche malgrado sia
trascorso un anno,
siete di nuovo qui a leggere le vicende di Emma e Adam, a dare una
chance a
questa storia – e alla sua terribile autrice – e
non vi siete arrese, beh,
grazie. Grazie mille, grazie di tutto cuore, grazie per aver continuato
a
leggere! Significa davvero tanto per me, e come al solito voglio
ribadire che
questa storia, in un modo o nell’altro, non
rimarrà incompiuta e avrà la sua
fine. Il tempo per arrivarci, purtroppo, potrebbe essere semplicemente
più
lungo del previsto!
Come
al solito, per domande o altro, mi trovate su facebook o in qualsiasi
altro
social network praticamente – i link li trovate nel mio
profilo. Di nuovo un
immenso grazie di essere qui, sono tanto felice di essere tornata!
Un
bacio e un abbraccio dalla vostra
Niglia.
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