Le vie del suono.

di JeffMG
(/viewuser.php?uid=152160)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I, James il cattivo ragazzo. ***
Capitolo 2: *** Chapter II, gli affari di Johnsons ***



Capitolo 1
*** Chapter I, James il cattivo ragazzo. ***


James il cattivo ragazzo.  Capitolo I


Tra i glitter di Bowie, 
rossetti rossi e un profeta chiamato eroina, si svolge la storia di James. 
Londra, 1980. 


Accendo una sigaretta e lascio l’impronta del rossetto rosso sul filtro.
Mi continuano a dire che devo smettere di fumare, ma di quello che dicono non me ne importa niente.
Ho voglia di sentire l’odore del tabacco dentro la bocca, sputarlo e vedere quei fili sottili ballare solo per me.
Sono giovane e niente può uccidermi. Sono come un Dio immortale che niente può toccare.
Prendo in pugno il mascara e ritocco le ciglia, le soffoco sotto il trucco, senza rispetto.
Anche gli artisti fanno così con le loro opere, sporcano le tele con pennellate violente o leggere
-come il tocco che si usa con una vergine-, io invece sporco il mio viso e completo l’opera che lo specchio incornicia.

Vedo un giovane pallido, dai capelli mossi e neri, rossetto rosso e occhi scuri.
Un bravo ragazzo non dovrebbe truccarsi, ma io sono un cattivo ragazzo e ho scelto una strada diversa da quella dei miei compagni.
A sette anni indossavo le scarpe col tacco di mia madre, i suoi orecchini di perle che portava la domenica alla messa,
la giacca con i lustrini con cui canto anche oggi, le canzoni di Bowie.
Ma non sono una marchetta, sono solo un cattivo ragazzo che ama sperimentare.
Questo forse l’ho già detto, non mi stancherò mai di dirlo; suona così pungente la parola “cattivo”,
s’incastra perfettamente tra denti e lingua e scivola via come un suono omicida. 
Mi sfioro la pelle morbida, sono un narcisista perso e vorrei spaccare lo specchio per prendere quella persona così perfetta e uguale a me, farne solo una mia preda. 

Oggi uscirò di casa indossando pantaloni di pelle, recitando la parte dell'imperfetto abitante di città.
Farò vergognare le signore e pentire i signori per non avere colto l’attimo quando erano ancora in tempo.
Sentirò i loro sguardi addosso, le tasche riempirsi, perché divento ricco di gloria quando mi soddisfano con gli occhi.

Camminerò contando i passi, scivolerò tra la folla e mi sentirò una pubblicità per una vita di eccessi.

Sarò quello che non vogliono che io sia. 

Accavallo le gambe e penso al piano della giornata, mentre il fumo mi riempie la bocca. 
Oggi sarò figlio della strada, chi incrocerò sarà parte di me, complice di quello che distruggerò o quello nascerà dalla pazzia
data dalla libertà.
Spengo la radio, mentre una nuova band rock prende posto alla terza posizione della top ten della settimana.

Ho venticinque anni e vivo negli anni 80. 
Il fumo mi annebbia la vista di una fender mustang azzurra che parcheggiata sul letto,
mostra il corpo consumato come quello di una prostituta.

Ho imparato a suonare a tredici anni, quando il mondo mi sembrava racchiuso unicamente nelle note,
nelle lunghe corde della chitarra che sembravano portare la mente ad un paradiso unicamente sonoro.
Suono ancora, dopo aver usato e gettato, come concezionali, musicisti e compositori che non facevano per me.
Vivo in uno squallido appartamento di Londra, dopo aver lasciato i miei genitori che mi accusavano di aver preso
la strada del Diavolo, di giocare con il fuoco, solo per essere una sporca regina di eccessi.

Mi tuffo in ricordi sfumati che dicono veramente poco del mio passato.
Rosari e preghiere serali, confessionali, chiese.
Figlio di cattolici, ma perfettamente ateo.
Sono fuggito da loro e dagli Ave Maria, per darmi ad una vita completamente all’insegna del peccato;
governata da Boudelaire, Bowie nei suoi glitter ed un profeta chiamato Eroina.

Mi mantengo guadagnando qualche spicciolo in un locale, suono la chitarra e canto vecchie canzoni che divertono gli spettatori,
come se fossi una scimmia truccata e ammaestrata, appollaiata su uno sgabello a dar fiato alla bocca.
Questo è il mio essere artista, perdermi in pensieri troppo complicati per le mie povere tasche e amori troppi distruttivi per essere soddisfatti.
Vivo nel caos e nel decadentismo, cercando di essere una regina del bello.

Sento le urla del bambino di sopra e quelli del padre che maledice la moglie;
questo significa che sono le sette, che lui è tornato da lavoro ed io devo andare al mio.
Mi infilo il cappotto e mi avvio alla metropolitana, sperando che non sia affollata.
Il gelo mi attanaglia alla gola, mi stringo dentro il cappotto e mi guardo attorno, facendo giocare avanti agli occhi, dei ciuffi corvini.  
Un vuoto si muove dentro di me in senso orario, ricordandomi di essere una vittima di un mondo spento,senza colori.
Vivo solo, mangio solo, ma bevo ed ho amplessi in compagnia di sconosciuti.
Ogni sera un nuovo corpo, una nuova frase da aggiungere alla lista di “Ho passato una bella nottata” .  
Mi appoggio ad un lampione e mi accendo una sigaretta.
Guardo in alto e mi faccio accecare dalla luce.
Se non ci fossero così tante macchine dietro di me, se il locale di fronte non fosse pieno di gente, giurerei di essere solo.
“Hey finocchio!” mi urlano due ragazzi in fondo alla strada.
“Vaffanculo!” gli rispondo, buttando la sigaretta a terra e gonfiandomi di orgoglio.

I figli di puttana si incontrano anche nelle grandi città, ancora più numerosi che nei paesi, solo che qui, hanno più forza e sono ancora più acidi, ingrigiti dallo smog e innervositi dal traffico.
“Che hai detto puttana?” mi urla uno dei due, dai modi di un macellaio alle prime armi.
Rimango immobile avvolto nel mio cappotto nero, li guardo e scandisco le parole “Andate a farvi fottere”.
Il più grosso mi prende per il collo e mi chiede di ripetergli ciò che ho detto.
Alle violenze fisiche sono abituato fin da piccolo, quando alle scuole primarie, il bullo della scuola,
usava la vecchia tecnica della testa nel water o mi riempiva di pugni.

La rabbia si espandeva rapida, riproducendo in pochi secondi un germe maligno dentro il mio stomaco,
che potente cresce, diramando il male in tutto il corpo.

Questa esplosione interiore sfocia in un morso potente nella mano dell’aggressore che mi lascia premendosi la ferita.
Corro per le scale del sottopassaggio e per un pelo riesco a entrare nella metro, prima che le porte si chiudano.
Prendo aria e mi appoggio ad un palo, cercando di calmarmi, tenendo una mano sul cuore. 
Scavo nella borsetta in cerca del rossetto, per ripassarmelo dopo aver lasciato il mio stampo sulla mano del bastardo.
Mi sento a disagio e noto la causa di esso, un ragazzo alto e pelato, mi fissa insistentemente, dai suoi occhi incavati e scuri.
Comincio a tremare e mi dirigo verso dei sedili liberi, non perdendolo di vista.
La sua bocca si apre e da essa esce una terribile parola “Rick!” il mio nome.

Sgrano gli occhi e maledico la sfortuna di aver preso proprio quella metro.
Chi  stava uscendo dal mio passato per importunarmi nel presente?
Lo guardo tenendo lo specchietto stretto tra le mani, quasi a romperlo.
L’estraneo s’incornicia di capelli biondi, una divisa scolastica blu. Finalmente lo riconosco,James.
Avevamo frequentato la stessa scuola, la High Mount.
Era un portento a basket, ma coltivava una segreta passione per il basso e ai tempi avevamo cercato di mettere su una band,
di cui non ricordo nemmeno il nome.
Fu un autentico disastro, ma le giornate passate tra vodka e sigarette erano più appaganti di un amplesso dato una del terzo anno.
Tutto andò in frantumi quando decisi di trasferirmi e lui abbandonò la musica.
Dopo cinque anni era dietro di me, in una città grande quanto Londra, in una metro delle otto di sera.
Infilo le mani in tasca e giro i tacchi “James!”    “Allora mi hai riconosciuto!”     “Beh, pensavo fossi… Non importa, come stai?”
“Bene, tu?” mi dice trattenendo un sorriso di gioia sulle labbra fini.
“Ho appena passato l’inferno! Sai, dei tizi mi hanno aggredito… Ma tu, raccontami, che ci fai a Londra?”
Il controllo è out, non riusco a stare fermo, continuo a muovere i piedi, colpito da un improvviso nervosismo.

“Sono qui per il matrimonio di mio fratello, sai che si era trasferito…”
“Si, ricordo… Che strana coincidenza essersi trovati, davvero…” “Già, strana”
Bloccati dalla timidezza che anni prima ci aveva ostacolato nel conoscerci, fatichiamo a porci delle domande a cui vorremmo dare delle risposte.  Mi lascio andare sul sedile ed osservo il muro dei sotterranei sfrecciare avanti a noi, lui mi emula,
tirando su con il naso.

“Suoni ancora?" chiedo, con un tono di voce paragonabile a quello che si usa, quando si formula una domanda proibita.
“Ho smesso, dopo quello che è successo”

Il padre gli aveva rotto il basso, proibendogli di continuare a prendere lezioni; da quando i suoi voti a scuola erano diventati dei quattro o dei cinque.
Io avevo ricevuto la richiesta scritta dal pugno di sua madre, di non presentarmi più a casa loro.
I nostri incontri divennero segreti e sempre più radi, fino a diventare l’uno per l’altro, degli sconosciuti.
“E tu suoni ancora, Rick?”  “Io? Si, suono” dico distrattamente, pensando a quando ci eravamo detti addio alla stazione,
tra persone con in mano valigie e voci estranee come sottofondo.
Improvvisamente mi ricordo del mio lavoro al locale e mi si contrae lo stomaco, quando concepisco che sono le otto e mezza e sono in ritardo di venti minuti.
“Tra una fermata scendo. Mi ha fatto piacere rivederti, James”
Mi afferra per la manica del cappotto e mi scongiura di restare.
“Sono in ritardo a lavoro, non posso”   “Dove lavori?”    “In un locale, suono qualche vecchio pezzo…”
Senza realizzare di aver formulato la frase, mi trovo tra le strade di Londra a correre con James.
L’aria è gelida e l’inverno sputa ogni sua risorsa per farmi sentire male, ma in questa sera non ci riuscirà.
Una fetta del mio passato, il piccolo Rick che tanto avevo odiato, è uscito allo scoperto, pronto per prendermi in giro e burlarsi di me,
ma mi rende felice, perché colma il vuoto dentro di me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Chapter II, gli affari di Johnsons ***


Entrammo nel locale accolti da una nobe di fumo e un tanfo di sigarette stantie. 
"E qui che lavori?" mi chiese Rick "Già" risposi sconsolato. 
Ci lavoravo ormai da dodici anni e forse quel postaccio rispecchiava ciò che la mia vita era diventata: 
un accumulo di fumo,alcool e sesso.
Molti giovani della mia età vorrebbero profondamente e carnalmente una vita contornata o addirittura incentrata su queste tre cose,
ma alla fine capisci lentamente che il fumo ti uccide.
Ti dona attimi effimeri, il piacere se n'è andato come da un corpo dopo l'orgasmo, resta solo la voglia di rifarlo, di fumare fino allo sfinimento ma tra le mani non stringi niente, tranne che la colpa e la voglia di smetterla per non pagare l'università ai fottuti figli del tabacchino.
L'acool ti inebria i sensi ma poi ti abbandona alla realtà senza neanche dirti grazie,
per averti usato come corpo per fare un giro tra le tue vene che si restringono con gli anni.
E il sesso, quello diventa sempre più povero e veloce e chi sta sotto di te sempre più inutile e trasparente,
pronto a scomparire del tutto dietro una porta.
"Aspettami qui, vado a parlare con il capo" 
Rick si mise seduto al bancone e fissò la massa di predrasti in attesa di sentire della "buona musica" 
Bussai all'ufficio del capo, fu lui che mi diede il lavoro quattro anni prima. 
Fredric Johnsons, un bastardo.
Come la maggior parte dei datori di lavoro, si credeva un Dio sceso in terra a benedirti con un lavoretto da cinque dollari a settimana. 
Quando lo incontrai fuori dal locale, era vestito con un tutta blu da ginnastica, odorava di tabacco
e tra le dita grosse teneva malamente un sigaro. 
Aveva anche la fede nuziale, il bastardo: non c'è uomo al mondo che paghi prostitute più di lui. 
Diceva che il matrimonio era un'assurda costrizione per poveri credenti dell'amore che mai è esistito,
"esiste solo il sesso e quello che ne consegue" diceva.
Non ho mai visto sua moglie, e delle volte ho creduto che quella fede non fosse collegata a nessun'altro, tranne che ad un interesse nel farsi vedere un uomo sposato, impegnato e adulto abbastanza da potersi permettere ciò che vuole. 
Forse non aveva ancora capito di essersi sposato, ma conoscendolo deve averlo fatto per in interesse. 
Il giorno che lo incontrai ero appena uscito dalla sala prove di un gruppo da far schifo, li avevo scaricati appena sentii che il batterista non riusciva a tenere nemmeno il tempo principale, gli annunci dicono veramente troppo cazzate.
Avevo ancora la chitarra in spalla, la voglia di suonare e Johnson come un fottuto segugio, lo notò. 
Mi raccontò un sacco di balle, come quella che aveva un grande locale e che voleva dei talenti che intratenessero i clienti. 
Fissammo un appuntamento per quella sera e suonai per la prima volta in quel buco, 
contento di guadagnare qualcosa con la musica, visto che ero più che al verde. 
Non ho mai cercato altro perché forse mi sono affezionato a questo modo misero di vivere,
come se da tutto questo dolore arrivasse la famosa musa ispiratrice. 
Compenevo più canzoni di quando avevo quindici anni e volevo spaccare il mondo. 
Bussai di nuovo alla porta, il vecchio Johnson era un po' sordo.
Grugnì, segno che potevo entrare. 
Seduto dietro la sua immensa scrivania piena di scartoffie che non compilava mai o che non guardava mai,
la sua enorme pancia toccava i bordi del legno e come sempre le sue dita, stringevano un sigaro. 
Tossii per il fumo.
Anche per un fumatore accanito come me, tutto quell'aroma di tabacco era troppo. 
Allo stereo si ripeteva una canzone dei Led Zeppelin. 
Johnson si lamentò
"Perché diavolo non escono talenti del genere, eh? Come quel bastardo di Page"
"Non lo so,davvero" 
Veramente non lo sapevo, ma l'avrei tanto voluto sapere. 
Dei geni uscivano fuori ogni tanto, come dei rari tipi di fiori o che diavolo ne so e poi dopo altri cento anni non se ne sapeva più niente. 
Non mi sentivo uno di loro, ma sentivo che potevo cavarmela e scavarmi un posto tra la massa di gente in carriera. 
Ascoltai gli assoli di Page e come sempre mi vennero i brividi.
Il vecchio Jimmy diceva di fare sesso tantrico, ma solo con i suoi assoli ti portava nel Nirvana. 
Sarei potuto restare nell'ufficio del vecchio Johnson per ore ad ascoltarli, ma Rick mi aspettava e dovevo chiedere al capo se quella sera avrei dovuto suonare o al posto mio c'era quel nero del Micchighan che veniva ogni tanto. 
Sapevo che negli assoli Johnson non voleva essere disturbato, così quando il vinile terminò di girare, parlai.
"Devo suonare stasera?" 
"Non lo so, fammi controllare l'agenda..." fece una risata grassa.
Non aveva nessuna maledetta agenda, mi stava sfottendo. 
I suoi "artisti" scorrazzavano allegramente nel locale, dandosi i turni tra di loro e la gente suonava come e quando voleva,
potevi anche suonare lou-lou per tutta la serata e nessuno si lamentava.
Poi andavi nell'ufficio di Johnson, riscuotevi i tuoi due dollari e tornavi a casa. 
Io ero l'unico che ancora chiedeva se poteva suonare, giusto perché tutti gli altri mi odiavano. 
Non ero bravo a stringere buoni rapporti con le persone, sopratutto con artisti che si credono divinità scese in terra per graziarti. 
Così ero solito entrare nel locale, dirigermi dal capo e chiedere il permesso di suonare quei quattro pezzi scritti la sera prima. 
Ormai a furia di fumare e bere caffè, stavo sveglio tutte le notti a suonare e a scrivere,
avevo anche insonorizzato le pareti per poter suonare alle due di notte e non svegliare nessuno.
Così un giorno, se un fottuto ladro fosse entrato dentro la mia casa e avrebbe cercato di accoltellarmi, nessuno se ne sarebbe accorto.
"Ho controllato l'agenda...puoi suonare"
Sorrisi, avevo appena finito di scrivere due canzoni alle sette della mattina,
con il sorgere del sole avevo finito gli ultimi accordi e volevo presentarle.
"Grazie"
Uscii e lasciai che il vecchio Johnson si ascoltasse tutti i vinili che voleva e che prenotasse una prostituta,
già lo sentivo chiedere chi era libera se Janine o Clorinde.
Attraversai un corridoio a luci blu e raggiunsi Rick.
"Scusami se ci ho messo tanto. Devo suonare stasera"
"Tranquillo, resto ad ascotlarti"
Guardai il barman, James.
Era alto e magro e se lo vedevi pensavi che faceva il becchino, invece era un perfetto e veloce barista.
Sembrava un pazzo quando preparava i cocktail, schizzava di qua e di la e in cinque secondi avevi l'acool sotto il naso.
"Versagli un whisky,James"
"Quale,capo?" sorrisi
"Un Jack Daniel's, ovvio"
Sapevo che Rick era un amante del whisky, così gli diedi gli strumenti per sopportare le mie canzoni. "Divertiti Rick" 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=957634