Partenze

di fedenow
(/viewuser.php?uid=26549)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Il giorno prima ***
Capitolo 2: *** II - La sfida ***
Capitolo 3: *** III - Tra padre e figlio ***
Capitolo 4: *** IV - Potrei avere voglia di cominciare ***
Capitolo 5: *** V - Il gioco delle parti ***
Capitolo 6: *** VI - Balleranno, se avranno voglia di ballare ***
Capitolo 7: *** VII - Siamo cresciuti a mezzanotte ***
Capitolo 8: *** VIII - Istantanee ***
Capitolo 9: *** IX - Trasparenza ***
Capitolo 10: *** X - Blackout ***
Capitolo 11: *** XI - Predisposizione casuale ***
Capitolo 12: *** XII - Liberi ***
Capitolo 13: *** XIII - Solo per un po' ***
Capitolo 14: *** XIV - Vicino ***
Capitolo 15: *** XV - Ampio un miglio ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I - Il giorno prima ***


Partenze


DISCLAIMER
Tutti i personaggi descritti e citati non sono di mia proprietà, gli avvenimenti sono inventati e non scrivo a scopo di lucro.





PARTENZE




I - IL GIORNO PRIMA



È quasi piacevole addormentarsi con la consapevolezza di non dover fare niente la mattina successiva, dà un non so qual senso di tranquillità difficilmente raggiungibile in altro modo. Garantisce al sonno una distensione, una pacatezza davvero singolari. In pace con il mondo, ecco come ti senti quando ti addormenti sapendo di non avere impegni il giorno dopo, di poterti svegliare all’ora che preferisci - o non svegliare proprio. Lavoro, figli, amici – niente di tutto questo. Assenti in blocco. Nessuno Stefan ti telefonerà, perché vi siete visti per tutta la sera, giusto qualche ora prima. Nessun Cody salterà sul tuo letto ricordandoti che quel giorno gli hai promesso di andare al parco, perché passerà il weekend con Helena. E nessun produttore sarà così impaziente da doverti importunare proprio quel giorno. Nessuno, nessuno ti cercherà, nessuno avrà bisogno di te quella mattina. Lo ripeti a te stesso mentre allenti la cravatta e la sfili dal collo, mentre ti spogli sorridendo sciattamente, inibito dall’alcool che ti ha fatto compagnia per tutta la festa – che poi, ti dici, qualche drink non fa un ubriaco.
Ti butti sul letto scompostamente, senza neanche coprirti con le lenzuola, perché il freddo che sentirai ritieni non sarà sufficiente a svegliarti. Solo. Sei finalmente solo e puoi rilassarti perché nessuno avrà bisogno di te nelle prossime ore. Non sai da dove derivi questa tua consapevolezza, ma per te è come un’ancora di salvezza e ti addormenti fregandotene di tutto e di tutti.

L’unica incognita che non hai contemplato è che il telefono si metta a squillare con insistenza, e non ti dia tregua fino a quando ti decidi ad allungare una mano per sollevare il ricevitore. A quel punto, lo sai bene, è piuttosto inutile e molto poco elegante imprecare contro qualunque divinità sia in ascolto, ma questo non ti dissuade dal farlo.

- Pronto, cazzo.
- Birra.
- Champagne.
- Brian, sono io! Ho bisogno di una birra.
Brian  si strofinò gli occhi, cercando di ragionare nonostante la testa pulsasse dolorosamente, probabilmente per effetto della mezza sbornia della sera precedente.
Birra. Poteva essere un buon punto di partenza. Ma ancora non aveva chiaro chi fosse il suo interlocutore. Non era la voce di Steve, e Stefan di solito chiamava per dire cose più intelligenti.
- Con chi ho il piacere di parlare alle… - Brian si volse svogliato verso le cifre luminose della radiosveglia – ALLE OTTO E MEZZA??? Si può sapere chi cazzo sei per telefonarmi alle otto e mezza?
Silenzio dalla parte opposta della cornetta.
- Brian. Sono Matt.
- Chi?
- Sono Matt! Matt Bellamy!
- E chi ca… Aspetta. Tu sei Matt Bellamy? Quello dei Muse?
- Oh, Cristo, Brian! Quanti Matt Bellamy conosci esattamente?
Brian ci pensò un attimo. – Nessuno. Neanche quello dei Muse. – concluse semplicemente. Evidentemente il suo cervello si rifiutava di collaborare.
- Brian, CI SIAMO VISTI IERI SERA. – sillabò Matt – Al party della BBC Radio, ricordi? La festa!
- La festa…ahhhh.

Sì, ora ricordava. Era andato, con Stef e Steve, ad una di quelle serate mortalmente noiose, organizzate dallo sponsor di turno. Soliti artisti, solite starlette montate e rifatte, soliti volti senza nome. Ricordava di aver intrattenuto una conversazione esilarante con Zane Lowe, anche se non riusciva a definirne il contenuto. Qualcosa a sfondo osceno, conoscendoli, o quantomeno infarcito di doppi sensi. Per il resto la noia più totale. Tranne… Brian focalizzò improvvisamente davanti a sé due corpi avvinghiati contro un muro: uno gli apparteneva inequivocabilmente, e l’altro assomigliava molto a Matthew Bellamy, a ben pensarci.
Oddio: lui e Matt Bellamy. Possibile che avesse occupato la sua serata davvero in quel modo?

- Ah. Sì. – concluse con mirabile sintesi.
- …Posso salire?
La voce di Matt era titubante, anche nervosa, profondamente diversa da quella spazientita che aveva utilizzato fino a poco prima.
Brian si mise a sedere sul letto, massaggiandosi la fronte nel tentativo di riflettere. – Scusami, non ti seguo. Ho molto sonno. – addusse a mo’ di spiegazione – Cosa intendi con salire?
Sentì Matt sbuffare sonoramente. Immaginò che si stesse guardando intorno spazientito, cercando le parole per spiegare qualcosa che gli appariva ovvio, mentre a Brian sinceramente sfuggiva.
- Allora… sono nella hall del tuo albergo. Mi hai detto tu che avresti dormito qui. Ti sto chiedendo se posso salire in camera tua, perché avrei bisogno di… parlarti.

Brian si rese conto solo allora di non essere nel suo letto, a casa sua. Certo, la stava ristrutturando praticamente dal cima a fondo, e aveva deciso di trasferirsi in albergo almeno fino alla conclusione del grosso dei lavori.
Tutto filava. Bellamy non era pazzo, anche se non gli era ancora chiaro cosa volesse da lui. Era noioso realizzare di aver baciato un collega che aveva sempre considerato fastidioso, incapace e anche fisicamente poco attraente. La categoria “Esperienze da non ripetere nella vita” si sarebbe arricchita di un nuovo capitolo, e Bellamy avrebbe dovuto fare lo stesso.
No, decisamente quell’incontro non aveva ragione di avvenire.
- Guarda, Bellamy, sono desolato. Non mi sembra il caso di-
- Brian, sono qui sotto da un’ora abbondante. Si sta riempiendo di gente, e… ho paura che qualcuno possa vedermi…non so…riconoscermi...
Brian si ricredette istantaneamente riguardo alla sanità mentale di Matt Bellamy, mentre staccava il ricevitore dall’orecchio per fissarlo interdetto.
- Bellamy, tu credi veramente a tutte le stronzate sulle cospirazioni che dici nelle interviste? Che siamo tutti in pericolo e che ci vogliono catturare in massa?
- Per favore, Brian. Posso…posso salire, per favore?
Matt strinse convulsamente il telefono mentre parlava, Brian lo capì dalla sua voce sussurrata ma stridente, trattenuta a stento, come di qualcuno sul punto di urlare. Dio, come gli era familiare quella sensazione di vuoto, assoluto vuoto che ti tenta da morire, in cui hai bisogno di aggrapparti a qualsiasi cosa per restare a galla. Bellamy, tu stai per romperti.
- Vieni su fra una decina di minuti. – No, così forse era stato troppo accomodante. – Poi però vaffanculo.


Brian azionò l’acqua nella doccia e vi si gettò sotto senza nemmeno aspettare che si scaldasse. Aveva poco tempo prima che Matthew Bellamy irrompesse nella sua stanza, e doveva rendersi per lo meno presentabile, ma soprattutto tornare lucido. Si concentrò sul getto che bagnava i suoi capelli, tentando di rilassarsi, mentre si facevano sempre più nitidi, suo malgrado, i ricordi della notte passata.



***


Brian distolse il proprio sguardo vacuo dall’ennesimo bicchiere che aveva svuotato e lo rivolse alle persone che lo attorniavano. Erano tutti sconosciuti, e si chiese come fosse finito a quel tavolo e in quella conversazione. Cercò Stef per la sala, e lo vide ad annoiarsi presso un altro capannello, certamente immerso in una conversazione programmaticamente inconcludente, come richiedeva il codice di quelle sciocche serate. Era lontano, troppo lontano per poter sperare di essere salvato da lui.
Promemoria per i prossimi party a cui lo avrebbero costretto a partecipare: legarsi Stef a un braccio, o Steve in alternativa, anche se una scelta simile avrebbe implicato assistere agli innumerevoli flirt del California boy, e non erano pochi. Perlomeno si sarebbe divertito, considerando cosa era in grado di inventarsi il suo batterista pur di impressionare una ragazza. "Sai, con quell’onda di sei metri me la sono vista brutta" era stata una delle più contenute, poi erano venute “Anch’io faccio volontariato nel tempo libero” e “Sono contrario al sesso prematrimoniale”. Tant’è, quella sera niente Steve, sicuramente alle prese con una londinese avvenente in qualche angolo buio del locale.

Sospirò, tornando a focalizzarsi sugli invitati del suo tavolo, e solo allora si accorse di avere addosso gli occhi famelici di tutti loro. Evidentemente erano in attesa di una risposta da lui che, sfortunatamente, non aveva nessuna idea di cosa gli avessero chiesto. Tossicchiò, schiarendosi la voce.
- Ritengo che sia bene riflettere molto su questa cosa, perché l’argomento è delicato. La scelta che dobbiamo fare è importante, e occorre pensarci.
Perfetto, si disse. Con una risposta del genere se la sarebbe cavata sia su una domanda riguardante il disco successivo sia sulla situazione politica inglese sia sulla fame nel mondo.
Aspettò qualche secondo, il tempo tecnico necessario perché i suoi commensali si accorgessero di non essere minimamente interessati a quello che lui aveva detto e cambiassero argomento, poi si accomiatò educatamente, alzandosi e dirigendosi verso il bancone dove erano distribuiti i drink. I suoi sensi erano piacevolmente ottenebrati dall’alcool, il che gli causava una certa lentezza nei movimenti e nella parola, ma fortunatamente nulla di inelegante o volgare. Era ancora nel pieno delle sue facoltà, concluse arrivando davanti al barista senza significative oscillazioni.
- Mi fa un drink molto forte, cortesemente?
- Quale?
Brian fissò le bottiglie ordinatamente disposte sullo scaffale dietro il bancone. – Quello.
Il barista guardò scettico la bottiglia indicata da Brian, poi Brian stesso, che ancora teneva il braccio e il dito puntato. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma parve decidere che non era il caso, scrollò le spalle e si mise al lavoro.

Brian si voltò di scatto sentendo una risata presuntuosa  alle sue spalle.
- Ti piace il succo di lampone, Molko?
Voce troppo acuta, fisico ossuto, improponibili accostamenti d’abiti. Non c’erano dubbi.
- Bellamy, gioia della mia vita, ti vedo in forma smagliante. Comunque ti informo che mi fa cagare il succo di lampone.
- Ah. – ghignò Matt – Io ti informo che ne hai appena ordinato uno. Ti ubriacherai in men che non si dica con quello, credimi.
- Sei sempre sgradevole, Bellamy.
- Come il succo di lampone.
Gesù, un bambino di due anni. Ecco con chi aveva a che fare.
- Bellamy, che ne dici di andare a cercare i tuoi amichetti e compagni di band, così eviti di molestare persone innocenti?
- Vuoi essere molestato da me, Molko?
Brian lo osservò attentamente. Bamboccio e pure pervertito. Doveva essere ubriaco almeno quanto lui a giudicare dagli occhi lucidi e dal sorriso malizioso che stava sfoggiando, che si traduceva in una mostruosa deformazione a livello della bocca.
- No, Bellamy, neanche nei tuoi sogni. E ti consiglio di non raccontare a nessuno i tuoi sogni, perché ti arresterebbero. Ora gira al largo.
Matt rielaborò in qualche secondo la risposta di Brian, che nel frattempo si era nuovamente voltato verso il bancone, e si sedette acanto a lui.
- Oh, Cristo! Devi dileguarti, capito? Non apprezzo la tua compagnia e non ho voglia di fare conversazione.
Santo alcool. Poteva dire quello che voleva e incolpare tutti i cocktail che si stava bevendo.
- Possiamo fare altro.
- Bellamy, ti dico io cosa facciamo. Tu ti fai una bella scopata, liberi i tuoi istinti sessuali repressi e poi, forse, sarai una persona con cui intrattenere una discussione perlomeno sensata.
- Grazie, sei un vero amico. – rispose devotamente Matt, tenendo gli occhi fissi sul legno del bancone.

Brian capì che non sarebbe arrivato da nessuna parte in quel modo. Occorreva un cambio di strategia, repentino.
- Ehi, Bellamy, perché non vai a casa a suonare la tua bella chitarra? Sono sicuro che i tuoi vicini faranno i salti di gioia!
Si era alzato e gli tendeva una mano sorridente, proprio come stesse promettendo un cono gelato ad un bambino riluttante all’idea di andare a scuola.
Matt proruppe in una risata stridula, alzandosi a sua volta. – Ah, Brian, Brian. Sono ubriaco, non rincoglionito. – sibilò, facendosi pericolosamente vicino al suo volto.
- Avrei scommesso sul contrario. – ritorse Brian, cercando di cavarsi dall’impiccio.
Si voltò e fece per andarsene, ma la salda presa di Matt sul suo braccio gli impedì di fare molta strada, costringendolo a fronteggiarlo.
- Bellamy, mi sono stancato. Che cazzo vuoi?

Non ottenne una risposta, quantomeno verbale. Matt lo fissò intensamente, prima che il suo sguardo scendesse sulle sue labbra, e da lì non si muovesse più. Nessun cedimento, nessuna emozione apparente. Si avvicinò di nuovo al suo viso, lentamente, molto lentamente, ma in modo continuo, gli occhi fissi sulla bocca di Brian, obiettivo che giudicava alquanto allettante, considerando la tensione del suo corpo e il suo fare affamato.
Eh, no, Bellamy. Se vuoi giocare, giochiamo, ma non ti aspettare di vincere.
Brian non indietreggiò, anzi dischiuse leggermente le labbra con intento provocatorio. Si chiese perché stesse facendo tutto questo anziché andare via e trovarsi una compagnia più interessante, e gli sembrò una risposta plausibile il voler capire dove avesse il coraggio di arrivare quel folle malandato che si trovava davanti. Molto più complicato sarebbe stato ammettere che le labbra di Matt erano maledettamente interessanti, così come le sue mani abbandonate lungo i fianchi e gli occhi semichiusi. Quando era ormai sicuro dell’imminente bacio – odiava definirlo così – fra di loro, chiuse gli occhi, pregustando quel contatto umido, e l’aumentare del brivido caldo che già gli percorreva la schiena.
Quello che accadde dopo lo spiazzò. Matt virò bruscamente, e posò le sue labbra sulla guancia di Brian. Non era un bacio, no. Non era un accidente. Stette lì così, immobile, inspirando a pieni polmoni la pelle di Brian, apparentemente appagato da quel contatto assurdo. Brian si staccò con stizza. Che razza di uomo era uno che ti baciava la guancia in una situazione come quella? Dopo averti rivolto proposte oscene ben poco implicite, Dio!
Bellamy, che frullato hai al posto del cervello? Hai bisogno della mamma che ti dia la carezza della buona notte e ti dica che va tutto bene? Dimmi almeno che non ti aspetti che ora ti stringa e ti culli finché ti addormenti, perché potrei vomitare. E non azzardarti ad appoggiare la testa sulla mia spalla!
Perché, porca miseria, non mi hai dato questo fottutissimo bacio?

Matt temette di aver osato oltre il limite. Brian era immobile da diversi secondi, fremente. Lo aveva allontanato bruscamente da sé, e ora lo fissava con astio. Aveva voluto troppo – ma troppo di cosa?, si chiese – e adesso gli sarebbe stato tolto. Si ritrasse impercettibilmente, ma una mano di Brian afferrò il suo polso.
- Fermo, idiota. Non qui. – e accennò con lo sguardo alle persone curiose intorno a loro. Matt realizzò solo allora che erano in piedi, bloccati a metà strada tra il bar e i tavoli del locale. Due cretini, era la definizione più calzante che gli sovvenne. Tornò con lo sguardo a Brian, che già si stava allontanando verso uno dei tanti corridoi laterali poco illuminati, e sorrise. Forse non era l’unico a volere troppo.






____________________

Uh. Ho iniziato davvero una long-shot. Wow :D
Piuttosto soddisfatta del flashback, cade miseramente sul presente-day after, in quanto cerca di carpire informazioni ai suoi personaggi sul loro comportamento, ma li trova molto poco collaborativi, e deve arrangiarsi come può.
Mi duole che Brian parli come il fior fior degli scaricatori di porto, ma mi è proprio scappato dalle dita, anzi non sono mai riuscita a catturarlo, e non ho la minima idea di cosa abbia intenzione di fare. Bri, comportati bene!
Rapida nota tecnica: Zane Lowe è uno speaker della BBC Radio 1 che, a giudicare dalle interviste, va piuttosto a genio al Molko, quindi ci sta simpatico *le viene il dubbio che non sia una motivazione eccessivamente valida, ma lo scaccia* . Ovviamente mi sono inventata la sua predisposizione alla scurrilità verbale.
Bene, adesso non mi resta che ramazzare idee intelligenti per proseguire, e sperèm.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II - La sfida ***


Partenze 2 - La sfida


II - LA SFIDA


***


Appena Matt svoltò l’angolo, si immobilizzò e lo fissò bramoso. Brian era stancamente appoggiato ad una parete squallidissima, bianca, forse, decisamente grigio notte in quell’occasione. I suoi contorni restavano indefiniti agli occhi di Matt, sembrava piuttosto un’ombra nera in mezzo a tutto quel color fumo. Matt strinse gli occhi, tentando di abituarsi all’oscurità. Vide che Brian teneva le mani posate leziose su un corrimano, un’asta o qualunque cosa fosse quella che correva lungo il muro dietro di lui. Il viso voltato per tre quarti, le labbra arricciate come in un pensiero, la postura ineccepibile.

- Sembri una ragazzina.

Brian si voltò lentamente a guardarlo, troppo lentamente perché i suoi nervi già scossi non ne risentissero ulteriormente. Aveva lo sguardo vacuo, vuoto - Matt avrebbe detto quasi malinconico, se avesse avuto voglia di fermarsi ad analizzare quel poco che vedeva. Pregò solo che il brivido che gli percorse le spalle e le braccia non fosse stato troppo evidente. Mentre gli si avvicinava, Brian restò immobile, gli occhi fissi nei suoi, i pensieri chissà dove. Sicuramente in un posto dove non poteva essere seguito, e questa cosa spaventò Matt. Gli si mise di fronte, respirando piano ed appoggiando una mano al muro, sfiorandogli quasi i capelli. Era assurdo quanto l’alcool lo inibisse nei movimenti, ma potenziasse la percezione di ciò che lo circondava. Era come se il corpo di Brian, così vicino al suo, così pulsante, gli cadesse addosso, rovesciando il sopra e il sotto e facendo della gravità niente più che un’illazione. Gli sembrava di vedere i polmoni di Brian respirare, e il sangue scorrergli nelle vene. Gli sembrava di essere l’aria pesante che in quel momento li circondava. Gli sembrava di soffocare in qualcosa che non riusciva a capire.

- Lasciami andare.
La voce di Brian si era tradotta in una stridente preghiera, un sussurro malato e sofferente. Matt dovette sforzarsi per riaprire gli occhi e allontanare il capo dal muro cui si era appoggiato nel tentativo di sorreggersi. Erano stati così vicini, per un istante, il suo viso e quello di Brian. Così uniti, così tutto. Non aveva voglia di svegliarsi subito da quella fantasia allucinata.
Si fissò nei suoi occhi, e vide la propria decisione, la propria impazienza scontrarsi con lo smarrimento dello sguardo di Brian, una strenua resistenza a qualcosa che, Matt ne era certo, doveva succedere.
Sfiorò con le labbra quelle di Brian, tremante, i loro corpi a contatto.
- Dimmi che vuoi che me ne vada.

Erano lì, entrambi a contendersi quel poco d’aria che pareva rimasta, aspettando di vedere chi avrebbe ceduto per primo. Brian non era nelle condizioni di riflettere linearmente, altrimenti avrebbe soppesato le attenuanti che poteva concedersi, e si sarebbe detto che c’era il vino, c’erano i cocktail, l’ora tarda e la stanchezza improvvisa che lo pervadeva. Avrebbe concluso che poteva fare di tutto in quelle condizioni, senza doversene pentire il giorno successivo.
Avrebbe pensato tutte queste cose, se solo avesse potuto. Invece agì puramente d’istinto chiudendo gli occhi e facendo esattamente quello che Matthew aspettava. Si arrese.


***



Brian uscì dal bagno e indossò i primi vestiti che trovò nell’armadio. Ricordava le mani di Matt fra i suoi capelli, le parole a caso che si erano scambiati, il calore che emanavano insieme e quella giacca che avrebbe voluto strappargli di dosso… E poi niente. Aveva scostato Matt da sé, l’aveva guardato negli occhi e si era allontanato. Fine. Due persone che prendono dall’altro ciò di cui hanno bisogno, ringraziando anche, a modo loro – altrimenti cos’era quell’ultimo sguardo? Te lo sei chiesto, Bellamy? -, e proseguono la loro vita adulta senza rimorsi. Non era difficile da capire. Chissà cosa voleva ancora quell’idiota. L’aveva già spinto ad ammettere a se stesso che aveva voluto e gli era piaciuto quanto era successo, e non vedeva davvero il bisogno di andare oltre.
Sentir bussare alla porta con veemenza non contribuì a migliorare il suo stato d’animo. Andò ad aprire e si trovò davanti Matt Bellamy, le mani in tasca, i capelli scarmigliati e il vestito della sera prima. Non aveva dormito, o se l’aveva fatto non si era preoccupato di cambiarsi e assumere un'aria più dignitosa.

- Bellamy.
Matt non rispose al saluto. Brian se lo ritrovò addosso, contro la propria bocca, mentre tendeva spasmodicamente le braccia ad arpionare il suo collo. Il pugno con cui lo colpì allo stomaco fu sufficiente a farlo allontanare, spingendolo contro l’armadio alle sue spalle.
- Che cazzo fai?
Matt lo fissò brevemente, poi sbuffò e si diresse verso l’interno della stanza.
- Lo sapevo.
- Lo sapevi? – Brian era rimasto presso la porta, peraltro ancora aperta. Si affrettò a chiuderla, prendendo a insultare il suo interlocutore, che nel frattempo si era accomodato sul divano del piccolo salotto della suite. – Che cosa vuol dire che lo sapevi?
Matt lo osservò scettico. – Sapevo che avresti reagito così. Sei noioso e prevedibile.

E tu hai passato il segno.
- Bellamy, ora smetti di fare il coglione e dimmi cosa vuoi, altrimenti ti sbatto fuori di qui a calci.
Una minaccia simile era inopportuna e alquanto irrealizzabile, ma servì a che Matt distogliesse lo sguardo e lo volgesse a un punto imprecisato della stanza.
- Scusa.
- Così iniziamo a ragionare. Cosa vuoi. – proseguì ostinato, prendendo posto sulla poltrona di fronte a lui.
- Te.
- No.
- Sì.
- Ho detto no. Riprova, stavolta con un po’ più di convinzione. Cosa vuoi, Matthew? – soffiò provocatoriamente nella sua direzione.
- Oh, Cristo, Brian! Voglio scopare! Hai capito? Scopare. – ripeté con enfasi, alzandosi in piedi – Così poi posso tornare dalla mia fidanzata, dirle in tutta sincerità di averla tradita e farmi buttare in mezzo alla strada senza troppi problemi.
Brian lo fissò perplesso per qualche secondo, registrando il fatto che Matt aveva davvero borbottato quelle ultime parole, poi non riuscì a trattenere una risata acuta e piuttosto femminea.
- Bellamy, tu non l’hai detto davvero!
Matt assisteva alla scena basito, mentre Brian si passava rapidamente una mano sul volto, volendo riacquisire una certa serietà.
- Quindi, fammi capire… tu vuoi venire a letto con me perché non sai come lasciare la tua ragazza?
Vedere Matt aggirarsi inquieto per il locale e bofonchiare parole senza senso lo costrinse a fare leva sul proprio autocontrollo, per non cedere a un nuovo attacco di ilarità. - Non credi che sia un po’ infantile come atteggiamento?
Matt lo fulminò con lo sguardo, prima di lasciarsi cadere sul divanetto a peso morto. Parlò al pavimento, lo sguardo assente.
- È incinta.
- Chi?
- La mia ragazza! Kate!
- …
- È incinta.
- …Quindi?
- Aspetta un bambino.
- Sì, Bellamy… Supponevo che l’essere incinta implicasse questo. – concesse esasperato – Continuo a non vedere il nodo della questione.
- Non è una cosa bella.
- Non è una cosa brutta, credimi.
- È una cosa brutta se conosci sua madre solo da qualche mese, non avevi la minima intenzione di metter su famiglia con lei e sai di essere un coglione non ancora pronto a fare da padre a qualcuno!

Il volto contrito di Matt e i suoi gesti ansiosi convinsero Brian ad adottare un tono più conciliante.
- Senti, Bellamy… Concordo sul fatto che tu non sia l’emblema della maturità. Sei un idiota. – Va bene, forse non eccessivamente conciliante. - Però la stai facendo più grossa di quanto in realtà sia. Non vuoi stare con sua madre? Non è certo obbligatorio. La lasci e ti godi i privilegi del genitore single.
- Brian. – Matt lo guardò intensamente negli occhi. – Io non lo voglio. Io non voglio lui, non la madre.
- Ah-ah. Questo si chiama scappare dalle responsabilità, Bellamy. E poi prova a ripeterti di non volere un figlio quando te lo ritrovi in braccio, così minuscolo e che si fida di te. Non capisci più niente.
- A te è successo questo?
- Fatti i cazzi tuoi.
- Sei insopportabile!
- Neanche tu mi stai simpatico. – concluse Brian con semplicità, accavallando le gambe con studiata lentezza e abbandonandosi contro lo schienale della poltrona. Stettero così per qualche tempo, ciascuno assorto nei propri pensieri.

– Vedi, Bellamy, la tua storia ha un senso finché non ne entro a far parte io. Le tue preoccupazioni, la fuga… - accompagnò il tutto con un gesto vezzoso della mano – Diciamo che ci stanno. Sono io che non c’entro. Non hai certo bisogno di me per fare sesso.
- Non credo che se lo faccio da solo valga come tradimento.
Brian arricciò le labbra in un sorriso condiscendente. – Non penso. Per questo ti consiglio di trovare una donna consenziente e risolvere la situazione per conto tuo.
Matt rispose a suo modo al sorriso. – Ieri sera non hai fatto così il difficile.
- Ieri sera abbiamo giocato ai ragazzini incoscienti, ed è stato…divertente…Però oggi ci siamo risvegliati adulti, e ci comporteremo di conseguenza, vero?
Lo guardò divertito, e Matt non sembrò infastidito da quella richiesta di complicità, tanto che lo raggiunse, chinandoglisi davanti, così da essere più vicino al suo viso. – E se io volessi giocare ancora un po’? 
Brian lo studiò malizioso, inclinando la testa di lato, poi posò una mano sul suo collo e lo tirò bruscamente verso di sé. – Non ho intenzione di accontentarti. – sussurrò suadente contro il suo orecchio, prima di alzarsi e lasciarlo lì, piegato in due, appoggiato alla poltrona. L’atmosfera era decisamente troppo carica.
- Dai, Brian, ti prego… - piagnucolò Matt, sollevandosi da terra e voltandosi.
- Mi stai supplicando per una scopata?!?
- Per favore…
- Hai una mente devastata, Bellamy! E io voglio restarne fuori, per quanto possibile.
- Ma mi hai baciato!
- Senti, ieri sera ero così ubriaco che avresti potuto essere Ashlee Simpson.
Matt ci rifletté un attimo. – Lei ha le tette più grosse!
- Che spirito d’osservazione.
- Coraggio, Brian… - Matt si fece nuovamente vicino, ma quell’aria da dongiovanni non faceva che renderlo più ridicolo – Lo so che ti è piaciuto.
- Oh, sì. – Brian allungò le sillabe in modo innaturale – Ma il problema è che a te è piaciuto di più, a te è piaciuto troppo, e stai sperando in un bis che non ci sarà. – si scansò rapido e si avviò verso l’ingresso della suite, indicando la porta. – Ciao, Matt.
E uno a zero, qualunque sia la partita che stiamo giocando.

Matt era rimasto in piedi in mezzo al salotto, proteso verso il punto da cui Brian si era appena allontanato. Sembrava riflettere.
- Dammi il tuo numero.
- Oh, Cristo.
- Dai, muoviti.
- Come, scusa? – sibilò Brian a denti stretti, lo sguardo infuocato.
- Dammi il tuo numero di cellulare.
- Tu mi stai ordinando qualcosa, Matthew Bellamy?
- Non ho intenzione di arrendermi, Brian Molko. -  rimarcò deciso. La strafottenza brillava nei suoi occhi e nelle sue parole, e Brian si trovò a pensare che gli si addiceva tremendamente di più dell’aria da pecorella smarrita con cui aveva iniziato quel colloquio.
- È una sfida?
– Se vuoi.
Bambino viziato. Qualcuno ti deve insegnare come gira il mondo.
- Va bene. Stronzo. – puntualizzò, prima di allontanarsi, prendere un pezzo di carta e scribacchiarci sopra il proprio recapito telefonico. Gli piantò il foglio nel petto, al limite della sopportazione.
- Grazie, Brian.
- Vaffanculo. Adesso sparisci e non farti vedere per i prossimi cinquant’anni. – concluse spalancando la porta.
La risata di Matt contribuì solo ad irritarlo maggiormente. – Ti prometto che ci incontreremo molto prima.
- Non ci sperare.
- Ciao, Brian. – Matt lo superò e fece per uscire, poi cambiò idea e si voltò di scatto, così rapidamente da non concedergli nemmeno il tempo di scansarsi. Lo afferrò per un fianco e lo attirò a sé. – Fai il bravo… - sussurrò maligno - … e non guardarmi il culo mentre mi allontano.
Allentò la presa, scivolò via e scomparve lungo il corridoio.
Quando Brian prese atto dell’accaduto, non poté far altro che chiudersi la porta alle spalle, realizzando con stizza di aver perso il primo round di quell’improbabile duello.







_________________

E chapter due!
Vi ringrazio tanto delle belle recensioni che mi avete lasciato, a cui, come avrete notato, non sono capace di rispondere, ma conto di migliorare.
Venendo alla storia, Brian e Matt subiscono una serie notevole di trasformazioni rispetto alla notte precedente e durante questo dialogo, che spero di aver reso in modo abbastanza coerente. Personalmente la mia preferita è Brian in stile serpe sibilante e velenosa, pronta a mangiarsi Matt a fine capitolo, che poi tanto è tutto fumo e niente arrosto, you know :D
Il suo comportamento nel flashback, vacillante, appeso a un filo, rimane una questione aperta, che spero troverà giustificazione nel procedere della storia. D’altronde la scena è vista dagli occhi di Matt, che – l’abbiamo capito – è un perfetto schizzato, e si limita a registrare quello che (non) comprende.
Un abbraccio carissimo a tutti :)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III - Tra padre e figlio ***


Partenze III - Tra padre e figlio


III - TRA PADRE E FIGLIO



- Cody, amore, vieni giù di lì.

L’ammonimento parve piuttosto debole persino alle sue orecchie, non era difficile pensare che da quelle di Cody fosse stato scansato con facilità. Erano in un piccolo parco giochi vicino casa, un posto che al bambino piaceva molto, meta canonica delle loro passeggiate. Quella mattina Cody non era andato all’asilo perché doveva fare una vaccinazione, e Brian si era offerto di tenerlo con sé fin dalla sera prima. L’avrebbe accompagnato dal dottore, nutrito con un buon panino del fast food e portato a giocare. Cose classiche, molto semplici, le uniche con cui potessero divertirsi insieme. Era da un po’ che non trascorreva del tempo con il suo piccolo, sentiva parecchio la mancanza della sua spensieratezza e simpatia, e aveva colto l’occasione della rinnovata disponibilità della sua abitazione per convincere Helena ad affidarglielo.

La serata precedente era trascorsa in modo piacevole, con serenità. Avevano ordinato due pizze ben farcite – la cui spartizione era stata, ovviamente, Cody bocconi sparuti - Brian tutto il resto, nonostante i ripetuti giuramenti del bambino di mangiare la propria per intero, fino all’ultima briciola -, giocato a nascondino per le stanze della casa e guardato un cartone animato. Cody aveva gli occhi appesantiti dal sonno già prima della conclusione del film, e si addormentò non appena Brian lo depose sul proprio spazioso letto matrimoniale. Stette a guardarlo per qualche istante, immobile, seduto al bordo del letto, proteso verso di lui. Dormiva già profondamente, un’aria serena sul volto. Si capiva che era felice anche lì, anche nel sonno, e Brian provò un senso di vivo appagamento, soddisfazione vibrante. Non avrebbe saputo spiegare perché, semplicemente con quel frugoletto scarmigliato stava bene.
- Grazie. – sussurrò in un sorriso, prima di alzarsi, infilarsi il pigiama e stendersi fra le lenzuola. Fortunato, si disse, io sono fottutamente fortunato, mentre spegneva la luce e si lasciava cullare dalla penombra della stanza.

Un simile clima di rilassata distensione non si era protratto anche il mattino seguente. Cody si era mostrato decisamente entusiasta – troppo entusiasta - al suono della sveglia, pregustando già la mattinata di giochi. Evidentemente l’iniezione a cui doveva sottoporsi di lì a breve non lo preoccupava abbastanza da fargli preferire di prolungare il sonno per una decina di minuti. Aveva iniziato a scuotere Brian con una stretta alquanto energica per la sua età, e al ritmo di Papàpapàpapà si era cambiato i vestiti e seduto al tavolo della cucina, aspettando affamato la colazione.
Brian si alzò dopo cinque minuti, sconfitto dal rumore ripetitivo che Cody stava producendo picchiando i cucchiaini sul tavolo della cucina. Arrivò in cucina trascinando i piedi, gli occhi semichiusi nel tentativo di non essere accecato dalla luce e le orecchie pulsanti per il frastuono. Fissò lo sguardo sul bambino di cinque anni che si dimenava sulla sedia, riservando a quegli strumenti primitivi una serietà assolutamente eccessiva. Aveva un senso del ritmo notevole, senza dubbio.
- Cody.
- Mm?
- Non ti azzardare a voler suonare la batteria.
- È bella la batteria! -
- No, Cody. La batteria non è bella. Batteria brutta. Chitarra bella.
- Noooo! Batteria! Batteria! – Cody aveva ripreso a tamburellare con passione, la sua gioia ormai incontenibile. – Batteria! Io faccio come lo zio Steve!
Brian si coprì il volto con le mani, straniandosi dalla confusione, e immaginò suo figlio ventenne, batterista e tatuato non voleva sapere sino a dove, performer carismatico che sobbalza sul seggiolino mentre suona e si presenta ai concerti mezzo nudo.
– E io sarò un padre fallito.

Nello studio medico Cody si comportò benissimo, senza strilli o pianti improvvisi. Anche la dottoressa gli fece i complimenti per il suo coraggio, e la cosa lo inorgoglì almeno quanto piacque a Brian constatare di avere per figlio un bambino molto poco capriccioso, probabilmente l’unico di tutta Londra che non pretendeva un regalo gigante ogni volta che affrontava un’iniezione. Gli propose comunque una cioccolata con la panna, ma suo figlio sembrava coltivare progetti ben più importanti. Usciti dall’edificio, infatti, continuò imperterrito ad accelerare il passo, smanioso di arrivare al parco giochi, mentre Brian arrancava alle sue spalle, stringendo saldamente la mano alla sua. Dalla bocca di Cody fuoriusciva un flusso continuo di parole riguardanti qualunque argomento, esposto sempre in modo vivace, e Brian si trovò più di una volta a sorridere per i ragionamenti scombinati del figlio.
- … Che poi l’ha mangiato solo un pezzo. E lo sai che Tom ha detto che ha trovato un serpente sotto il suo letto???

Brian si fermò interdetto, osservando lo stupore crescere sul volto del piccolo mentre rivelava quel segreto.
- Cos’ha trovato nel letto?
- Un serpente!!! Sotto il letto!
– Mmm. Secondo me era una bugia. – valutò pensieroso – Tu cosa dici?
Cody lo studiò per qualche istante, poi fu conquistato dalla sua serietà e si risolse a crederle. – Mmm, anche per me. – decretò, emulando il tono scettico paterno. E si guadagnò un abbraccio ridente di Brian, che lo sollevò e se lo caricò sulle spalle.

Arrivati al parchetto, Cody aveva sfruttato ogni attrazione a disposizione, facendosi spingere sempre più forte sull’altalena - con il consueto intento di compiere un giro completo – e arrampicandosi sulle varie corde e reti predisposte. Tutto era andato bene finché aveva deciso che la casetta di legno in cima alla scala a pioli poteva essere meglio sfruttata sedendo sopra il suo tetto, anziché dentro di essa.
- Forza, Cody. Scendi, per favore.
- No-o. – cantilenò il figlio di rimando. La situazione non era fuori controllo: Brian vedeva che Cody si teneva stretto ad una trave di legno, ma il salto che avrebbe fatto se fosse scivolato sarebbe stato comunque notevole.
- Non essere disubbidiente. È molto alto lì, è pericoloso.
Cody continuò a scuotere il capo beffardo, ma Brian notò che, dopo essersi guardato con rapidità intorno, rinsaldò ulteriormente la presa sulla barra. Cody era un bambino intelligente.
- Dai, vieni giù. O vuoi che salga io a prenderti?
Cody parve finalmente aver trovato un’affermazione degna della sua attenzione, al punto che si volse verso suo padre e sorrise furbo. – Non sei capace.
Brian si trovò di fronte a un bivio: dimostrare a se stesso che i suoi quasi quarant’anni erano un mero dato anagrafico, arrampicandosi su una corda, strisciando dentro a un tubo e salendo una scala a pioli – e magari poi gioire intimamente della propria agilità -, oppure comportarsi da genitore maturo e non rispondere alla provocazione. Schioccò la lingua.
- Hai ragione, Cody. Non sono capace, quindi devi scendere tu. Subito.
Il bambino sbuffò sonoramente, ma non si oppose oltre e ripercorse con concentrazione il tragitto al contrario, toccando presto terra con i piedi e avvicinandosi contrariato a Brian.
- Tanto lo so che eri capace.
Ma Cody accantonò presto il broncio, distratto dall’arrivo di un amico con cui giocava spesso, Simon, e sparì dietro di lui.

Brian sedette su una panchina, scegliendo una posizione che gli permettesse di vigilare su gran parte del prato dove i bambini si erano recati, e nel contempo notò come Cody stesse già catalizzando l’attenzione dell’amico con qualche improbabile racconto. Al centro dell’attenzione. Un affabulatore. Un primo attore. Sorrise. Chissà chi mi ricorda.
Non fece in tempo a cullarsi oltre nei propri pensieri, che il suo telefono squillò. Probabilmente un messaggio di Helena, immaginò mentre estraeva l’apparecchio dalla tasca.

Hai vinto un buono per trascorrere la giornata con l’uomo più sexy del pianeta.

Purtroppo niente Helena. Anzi, probabilmente qualche stalker che era venuto a conoscenza del suo recapito. A meno che… No, neanche Bellamy avrebbe avuto l’ardire di scrivere simili idiozie dopo tanti giorni di silenzio, peraltro graditissimo. Era trascorso tutto il tempo necessario perché  perdesse il suo numero, e Brian sperava fosse successo. Quando si erano visti? Due, tre settimane prima? E ora se ne usciva così? No, neanche Matthew Bellamy sarebbe stato deficiente a tal punto.
Sei ancora allo stesso albergo?
O forse sì.
Bellamy, speravo che un buco nero ti avesse risucchiato.
Brian si appoggiò contro lo schienale della panchina. Cody era ancora affaccendato nel prato, quindi lui poteva permettersi di continuare quel gioco idiota ancora per un po’. Si mordicchiò un labbro, in attesa di risposta.
Anche tu mi manchi. Posso passare a trovarti? Stai sempre in albergo?
NO.
No alla prima o alla seconda?
Cristo, perché la babysitter di Bellamy non gli requisiva il cellulare e lo indirizzava ad attività più costruttive?
Vaffanculo, Bellamy, e non rompere le palle.

Ti aspetto al bar di fronte all’hotel.

Quel tono perentorio… quanto lo odiava. Spense con stizza il telefono e lo ricacciò in una tasca del cappotto. Lo infastidiva tutto di quella situazione. Lo infastidiva Bellamy che pensava di poter dire e fare quello che voleva. Lo infastidiva il non essere in grado di prevedere le sue mosse. Soprattutto, lo infastidiva la constatazione di non essere sufficientemente determinato a uscire da quella maledetta partita.
Iniziò a fumare, sperando così di lenire il proprio malumore, mentre il suo sguardo vagava inquieto per il parco e le sue mani sull’accendino, alla ricerca di un appiglio qualunque per distrarsi.
Chi cazzo credi di essere, Bellamy? Non ti sei ancora stancato? Forse non ti è chiara una cosa: TU MI DEVI LASCIARE IN PACE.

Lasciò trascorrere una buona mezz’ora con la compagnia esclusiva delle sue sigarette, e alla fine si sentì notevolmente più rilassato, tanto che accolse con un gran sorriso Cody che correva verso di lui.
- Ciao, amore.
Cody gli si gettò al collo, ma si sciolse presto dall’abbraccio per sistemarsi di fronte a lui, lo sguardo timoroso. Segnale numero uno: impellente richiesta in arrivo.
- Papy…?
Segnale due: tono mellifluo, sottintendente richiesta a cui probabilmente Brian si sarebbe trovato contrario.
- Dimmi.
- Simon mi ha detto se voglio andare a giocare a casa sua…
- Cody, oggi abbiamo detto che stavamo un po’ insieme io e te.
- Sì, papà… - Cody, rabbuiato, fissava il terriccio, smuovendo le foglie con un piede. Brian sapeva di non avere molte speranze di vittoria, se suo figlio avesse mantenuto ancora per un poco quell’espressione da cucciolo afflitto.
- Poi mi devi aiutare a sistemare un po’ di cose nella casa nuova. È un lavoro da grandi!
- Sì…
- Poi… - Brian lo fissò indeciso, poi sfiatò sonoramente e innalzò bandiera bianca. – Non so bene com’è, questo Simon. Me lo devi presentare. È simpatico?
Cody guizzò per la felicità, e non si fece scappare l’occasione di elogiare il piccolo amico, mentre prendeva a trascinare suo padre verso il prato dove Simon lo attendeva con la mamma. Brian si lasciò condurre, silenzioso, e infilò gli occhiali da sole, nonostante il consueto cielo plumbeo di Londra. Non amava i contrattempi. Non amava le variazioni improvvise. O, meglio, non amava che non fosse lui a determinarle. Scacciò qualunque tipo di espressione dal suo volto. Severo e autoritario, si ripeté. Sono severo e autoritario.
- Buongiorno.
La donna si voltò di scatto a quel repentino saluto, e riservò a Brian un ampio sorriso, tendendogli la mano.
- Ciao! Piacere, io sono Marah. Tu sei il papà di Cody, giusto?
- Giusto. – Brian rispose svogliato alla stretta di mano. Freddo. Tono scocciato e mani di nuovo mollemente affondate nelle tasche. Nemmeno l’avesse insultato. – Ti chiedo scusa, non mi sono presentato. Brian.
- Piacere! Simon ed io saremmo molto felici se Cody venisse a giocare a casa nostra. Vero, amore?
Suo figlio non rispose, si limitò ad annuire arretrando di un passo, improvvisamente timoroso di fronte alle conversazioni degli adulti. Marah gli sorrise e tornò a rivolgersi a Brian.
- Deve fargli vedere qualche gioco nuovo, quelle carte con i mostri, se ho capito bene… Posso rubartelo per un po’?
Non fu per scortesia che Brian non rispose, semplicemente era affascinato dal modo in cui quella donna parlava. Una ragazza giovane, non arrivava ai trent’anni. Aveva lineamenti spigolosi e il caschetto sbarazzino di chi non ha il tempo di acconciarsi i capelli. Qualche ruga d’espressione. Non un filo di trucco. Eppure bella. Capì di averla fissata troppo a lungo quando la vide distogliere lo sguardo con decisione.
- Sì. Sì, va bene. Anche a Cody farebbe molto piacere. – sintetizzò, togliendosi gli occhiali scuri. Si inginocchiò davanti al figlio, lo sguardo vigile. – Però se vai a casa di Simon ti comporti bene, ok?
- Sì!
- E non fai i capricci.
- Papà-à!
- Bene. – soffiò Brian, prendendo atto dell’impazienza del piccolo e sollevandosi in piedi. Non era per niente convinto di affidare suo figlio ad una persona sostanzialmente estranea. Marah sembrava a posto; Simon un bambino educato; Cody giocava con lui al parchetto ogni volta che si incontravano, e ne pareva entusiasta. Eppure erano persone così comuni, normali. Brian non riusciva a formarsi un’idea chiara di loro.
– Guarda, abitiamo in quel palazzo lì di fronte, al secondo piano. Se ci sono problemi puoi venire subito a prenderlo, quando vuoi.
Brian gettò un sguardo preoccupato all’orologio. – Posso passare a recuperarlo fra un’ora, per pranzo?
- No, dai! – Marah scosse la testa ridendo – Lasciali mangiare insieme, così si divertono! Vieni nel primo pomeriggio.
Brian non acconsentì consciamente, si limitò ad assecondare il sorriso irriducibile di quella ragazza esuberante. Si fece spiegare in dettaglio come recarsi al loro appartamento, prendendo nota mentalmente delle indicazioni. Salutò Cody con un bacio, e questi, sebbene avesse già ripreso a scherzare con Simon, si fermò all’istante e lo ringraziò con un abbraccio.

- Forza, bambini, andiamo a casa!
I due si incamminarono seguendo la voce squillante di Marah, e Brian vide Cody che si chinava a raccogliere un guanto che gli era caduto, scuotendolo con forza per liberarlo dal terriccio prima di rimetterselo in tasca. Che bambino splendido aveva. Un gioiello che lui certamente non meritava, pensò sentendolo che già chiacchierava in lontananza con Simon. Un punto in più all’educazione che gli sforzi congiunti suoi e di Helena erano riusciti a impartirgli.

- Ma lo sai che il mio papà è famoso? Una volta un signore ha detto che l’ha visto alla tele!!!

Altri due punti. E una compiaciuta pacca sulla spalla al suo ego.

Realizzata l’assenza di Cody, Brian prese a passeggiare, sentendosi stranamente solo. Sedette nuovamente su una panchina, indeciso su come occupare il tempo improvvisamente in eccesso. Di tornare a casa non aveva voglia, essenzialmente perché l’aveva lasciata con l’idea di tornarvi soltanto dopo pranzo insieme a Cody, e voleva presuntuosamente rispettare il progetto. Il parco, d’altro canto, aveva esaurito il suo fascino, ed era dunque il momento di allontanarsi da lì. Saranno stati questi motivi, sarà stato il freddo pungente di un gennaio piuttosto rigido. Sarà stato il fatto che aveva visto suo figlio molto felice, e questo gli faceva bene. Sarà stato che parlare con Marah gli era piaciuto, e ora non aveva voglia di starsene da solo. Sarà stata la fame. Sarà stata una concomitanza di tutti questi fattori. Semplicemente Brian si avviò verso il bar indicatogli da Matt, reputando davvero sgradevole il senso di aspettativa, di attesa, che lo pervadeva. Sorrise.

Tranquillo, Bellamy, non ammetterò mai che ti sto raggiungendo perché mi va.







_____________

No, non ho mai ritoccato tanto qualcosa. Fatemi internare XD
Ho avuto un’illuminazione e mi si è dipanata davanti la matassa dell’intera vicenda. Questo, anziché galvanizzarmi, mi ha ridotto in stato scrittorio semivegetativo, poiché ero mortalmente annoiata all’idea di mettermi a raccontare qualcosa di cui sapevo già tutto. Poi, tuttavia, ho iniziato la stesura e gli avvenimenti sono andati per i fatti loro, come sempre, lasciandomi indietro a rincorrerli. Pensate che la mamma di Simon doveva essere una semplice frase buttata lì fra tante, e invece è diventata Marah. Marah... Vero che io non mi sto inguaiando in qualcosa da cui non so come uscire? Vero? Vero? *si volta a destra e a manca, interrogando libri e portapenne* Il fatto, ecco, è che mi sono tipo innamorata di lei… * ora invece arrossisce imbarazzata e riquadra con il ditino i pulsanti della tastiera*
La Matt/Brian ha un po’ rallentato, ma apprezziamo il fatto che il Bellamy infastidisca anche a distanza, con indubbi, molesti risultati. E poi è colpa mia: quando vedo Cody non capisco più un accidente, e ho forti tendenze allo sproloquio protratto per una ventina di pagine. Spero solo che non risulti noioso. Cody <3
A presto, e grazie a tutti.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV - Potrei avere voglia di cominciare ***


Partenze IV - Potrei avere voglia di cominciare


IV - POTREI AVERE VOGLIA DI COMINCIARE



Tre gradini. Ormai soltanto tre gradini lo separavano da Matthew Bellamy, dal suo vociare logorroico e dalle sue sconvenienti problematiche esistenziali. Tre gradini che potevano significare possibilità di fuga e salvezza immediata, nessuna situazione noiosa, nessuno scambio di battute gratuito, nessun rischio accidentale. Bastava non allungare la mano a spingere la porta verso l’interno del bar. E una volta entrato, bastava voltarsi e tornare sui propri passi silenziosamente. Nessuno l’avrebbe notato, casuale avventore come tanti, men che meno Matt, seduto là in fondo, intento a sfogliare una qualche rivista di terza mano, vecchia di mesi. Rolling Stone. Alquanto tradizionale e, ad intuito, avrà conosciuto quel numero a memoria. Scosse il capo in un sorriso, osservando l’espressione assorta che riservava ad un articolo evidentemente interessante. La musica del cosmo, o qualche altra tirata paraculturale.
Finalmente Matt lo notò, in piedi accanto alla porta d’ingresso, intento a sfilarsi la sciarpa grigia e ad arrendersi all’idea che quell’incontro era frutto primo della sua incoscienza. Gli indirizzò un brindisi con la tazza giallastra che stringeva tra le mani, indicando frettolosamente il posto accanto al suo.
- Non pensavo che venissi!
- Neanch’io.
- Sei stato molto cortese al telefono. L’avevo interpretato come un no.
Brian si sistemò con calma fin troppo studiata di fronte al suo interlocutore, intrecciò con cura le mani sul tavolo e lo fissò.
- Mi sono liberato da un impegno. Avevo fame. Avevo voglia di una squallidissima bevanda riscaldata  in uno squallidissimo bar.
Matt ghignò mostrando tutti i denti, mentre si protendeva verso di lui. – Avevi una fottutissima voglia di vedermi.
- No.
- Rimango del mio parere.
- Bene. Fanculo.
Si appoggiò composto allo schienale della sedia, rifletteva. Era tutto come al solito, eccezion fatta per l’insopportabile tranquillità ostentata da Matt, quasi volesse farsi scivolare addosso qualunque frase. Quasi non avesse paura di lui. Era una condizione precaria che non lo soddisfava.
Matt terminò di bere il contenuto della sua tazza, quindi poté finalmente concentrare la propria attenzione su Brian, che lo stava fissando ormai da diverso tempo con uno sguardo impenetrabile.
- Ottimo. Direi che abbiamo svolto i principali convenevoli. Come stai, Brian?
- Stavo bene finché non ho scoperto che ti piace il caffè d’orzo per colazione.
- È buono. Mi ricorda quando ero piccolo.
- Oh, Cristo.
- Ne desideri un po’?
- No! La pianti di parlare come un coglione?
Matt scrollò le spalle con aria innocente. – Pensavo ti piacesse il tipo raffinato.
- Bellamy, tu non sei raffinato. Tu sei pazzo. E non mi piaci.
- Bugia, Brian, e lo sai benissimo.
Non si toglieva quell’espressione sorniona dal volto, e quel dito scheletrico sventolato davanti al suo naso rendeva il tutto molto più fastidioso e stupido di quanto già non fosse. Brian aprì la bocca per rovesciargli addosso qualche ingiuria velenosa, ma la situazione era talmente paradossale che dovette limitarsi a richiuderla, voltandosi stizzito verso la modesta sala del locale. La verità era che non aveva nemmeno più voglia di insultarlo. Era tutto sbagliato.
- Ho una proposta.
Brian tornò a guardare Matt, e gli trovò negli occhi una luce strana. Sembrava… aveva tutta l’aria di essere decisione, non fosse altro che quella vena di tensione a deformargli la mascella in modo innaturale.
- Riguardo a che cosa?
- Riguardo alla possibilità di bere un caffè tranquillamente, intrattenendo una conversazione normale.
- Io e te?! Non credo sia possibile!
- Certo che è possibile. Devi solo piantarla di fare lo stronzo arrogante.
Brian gli si avvicinò paurosamente, il viso a pochi centimetri dal suo, gli occhi ridotti a fessure. – Non osare permet-
- Non me ne frega un cazzo! Brian, – Matt si allontanò bruscamente da lui, una risata isterica per sfogare il nervosismo – non mi interessano le tue minacce o il tuo finto sdegno. Ti fanno sentire meglio? Fai pure. Però non mi prendere per un idiota. Io sono qui perché ne ho voglia, d’accordo? Mi andava di parlare con te e ti ho chiamato, nient’altro. Vorrei che la mia vita fosse abbastanza sensata da non averne bisogno, ma non è così.
- Ma sentiti.
- È vero.
Non stava gridando, era calmo. Maledettamente calmo, mentre sputava fuori confessioni che Brian non seppe classificare se non come imbarazzanti.
- Bellamy, lo sfascio della tua vita è un problema che non mi riguarda. Non salvo nessuno, io. Non mi devi chiamare se ti senti solo, non devi aspettarti parole consolatorie da me. Non mi devi pensare nei momenti di bisogno.
- Intanto io ho chiamato e tu sei arrivato.
- Ti ho già spiegato il perché!
- Per fare colazione, certo. Dio, è inconcepibile che ti terrorizzi una discussione normale.
- TACI, CAZZO!
Aveva urlato. Aveva perso le staffe per le sciocche illazioni di Matt e la sua schiettezza petulante. L’aveva odiato perché non frenava le parole. Ed ora si ritrovava così, il respiro affannato, e con una mano stritolava il tavolo. Pensò che avrebbe potuto davvero rovesciarlo a terra, fargli male, e sarebbe stato meglio, e questo non spaventò soltanto lui, a giudicare dallo sguardo scheggiato di Matt.
- D’accordo. Dimmi solo una cosa. – gli tornò vicino. Era stanco, Matt. Aveva gli occhi gonfi e la voce ridotta a un sussurro. – Ti costa tanto ammettere che per sbaglio avresti potuto avere voglia di venire da me? Di parlare con me?

Non lo so. Non so più nulla, Bellamy. Non so come sono finito in questa situazione, non so perché l’ho voluta. Ma mi andava bene, lo sai? Godevo, quasi. Finché sono arrivati i tuoi ragionamenti, la tua voglia di altro a complicare tutto. E non so il perché neanche di questo.

- Io… sì. – lo fissò intensamente. Nessuna acredine, nessun rancore. La verità, per una volta. – Sì, mi costa molto.
Lo guardò per un tempo indefinito, non avendo la benché minima idea di cosa fare, cosa dire. Senza parole. Lui, senza parole.

Se non altro, Bellamy, ti ricorderò per essere riuscito in questo.

Matt sostenne il suo sguardo penetrante, forse, alla fine, stupito da qualcosa, poi sorrise, più a se stesso che ad altri, e annuì al nulla. – Certo. – Si alzò convinto, continuando quel penoso monologo interiore.
- Matt, che cazzo fai ora?
Matt lo osservò perplesso. – Ti ordino un caffè. Che cazzo vuoi che faccia?
Brian ringraziò che il bancone fosse abbastanza lontano da non consentire a Matt di sentire la sua risata. – Idiota… - articolò divertito. Rivolto non sapeva nemmeno lui a chi.
Non aveva senso niente. Né Matt, né le sue parole, neanche quel fottutissimo caffè. E gli piaceva per questo.



***


- Tieni.
- Grazie. – Brian accolse con piacere la tazzina offertagli da Matt, la zuccherò e prese a mescolarla con lentezza.
- Che cosa stai facendo?
- Fisso il legno.
- Ora. – liquidò con un gesto noncurante – Che cosa stai facendo ora. Nella vita.
- Ah. Cazzate.
- Le consuete cazzate musicali? – insinuò beffardo, e Matt parve finalmente riscuotersi.
- No, Brian. Farò uscire il mio prossimo disco tre mesi dopo il tuo, così potrai ancora accusarci di avere copiato.
- No, no, Bellamy. – gli puntò contro il cucchiaino – Non lo dico io, è cosa nota a tutti.
- Che hai manie di protagonismo?
- Che io ispiro le persone.
Rituffò il cucchiaino nella tazza, incurante del commento osceno di Matt, e bevve velocemente. – Cazzo, è brodo.
- Non è dei migliori. In Italia lo fanno meglio. In Italia fanno meglio tutto il cibo.
Brian non fece consapevolmente quel collegamento, fu più che altro una conseguenza del vedere Matt ripiombare nei propri pensieri.
- Come va con la tua donna?
- Kate? Uhm. Tutto bene. È volubile e lunatica. Capricciosa.
- È incinta.
- Lo so. – sillabò Matt, gettando a Brian un’occhiata infuocata – Non le puoi dire niente, è isterica. Mangia sempre, è disgustoso. E dice che non la capisco. Come faccio a capirla? È lei che si sta gonfiando, non io!
Brian si godeva sorridente la scena, intrisa di un antico sapore di déjà vu. Matt sembrava un bambino in punizione che si lamenta per l’intransigenza della maestra.
- Ieri, per esempio. Mi ha detto che è molto incerta sul nome da dare al bambino. Lo dice una volta al giorno, e ormai non le rispondo più di aspettare almeno di sapere se sia maschio o femmina. Allora, per scherzare – ma davvero per scherzo!, precisò Matt spalancando eloquentemente gli occhi – le ho detto di scegliere un nome iniziante per M di almeno quattro lettere, così sarebbe uscito qualcosa di figo come Matthew o Muse. Non immagini quanto si sia incazzata.
Brian non trattenne più l’ilarità che cercava di nascondere e si abbandonò ad una risata acuta.
- Sei splendido, Bellamy!
- …Fottiti! – rifletté, ancora spossato dal ricordo del litigio raccapricciante. Cercava una spiegazione logica a quella che riteneva illogicità pura, e scuoteva la testa con vigore.
- E non mi dire che ti chiede anche di apparecchiare la tavola e di sbrigare le commissioni!
- La carrozzina! – esclamò, indicandolo malamente con una mano e socchiudendo gli occhi, come se ricordasse improvvisamente la parte più greve della sua incespicante esperienza da futuro genitore. – Ha cercato di mandarmi a comprare una cazzo di carrozzina il giorno dopo aver fatto il test di gravidanza! Quella volta l’ho proprio mandata a cagare. Glielo devo spiegare io che ci vogliono nove mesi, nove strafottuti mesi per partorire un figlio? Ma per forza, sai?, se no il padre si suicida prima. Dobbiamo interiorizzare la cosa.
Finalmente prese fiato, gli occhi ancora dilatati dalla potenza dello sfogo e l’espressione sconvolta. Brian si passò una mano sul volto ancora sorridente. Fu tranquillizzato notando che la follia di Bellamy si dipanava, nonostante tutto, su uno strato di vissuta normalità. No, non era un uomo come tutti, ma forse questo costituiva un vantaggio.
- Vai a prendere qualcosa da bere - niente schifezze, se riesci -, poi ne parliamo, ti va?

Non ottenne risposta, Matt lo ignorò desolato, ma si recò al bancone e ordinò due acque toniche senza ghiaccio. Tornò al tavolo e bevve deciso metà del suo bicchiere. Brian lo studiava curioso, e lo vide calmarsi, liberando in un sospiro prolungato la sua irritazione.
- Scusami. Erano fregnacce, però c’è da impazzire. – Altro sorso. – Zoccola.
- Non essere stronzo.
- Va bene, sono intollerante nei suoi confronti, ma ti garantisco che se le merita davvero tutte.
- Matt, non si è messa incinta da sola…
- Non la sto incolpando, infatti! – cantilenò debolmente – Ho come l’impressione che il tempo che non spendiamo a urlarci dietro, lo trascorriamo a chiederci perché siamo stati così idioti, tutti e due. Non è stupida, lo credo. Vorrei solo che vivesse tutto in modo diverso. Cristo, non ha pensato neanche per un momento a come potevo sentirmi io, al mio parere. Non mi ha chiesto se volevo un figlio, mi ha urlato in faccia, all’apice della gioia, che ne aspettava uno. Non ho capito un cazzo per giorni.
Brian non pensò a quanto fosse assurdo accogliere le più sincere confessioni di una persona che così poco conosceva. Oramai aveva capito. Con Bellamy le bugie non esistevano, era questa la regola da imparare. In fretta. Soppesò attentamente le parole. – A me non sembra che tu non voglia un figlio. A me sembra che tu abbia, non me ne volere, molta paura.
- Certo che ho paura! Ma per lei è inammissibile. Lei è felice di essere madre, un’altra volta. Ed è una buona madre, davvero, ma non capisce che io non sono lei, che per me non è tutto scontato.
- Dovresti dire a lei queste cose, Bellamy. Spiegargliele in questo modo.
- Spiegare… Siamo a un punto in cui non riusciamo neanche e a darci il buongiorno senza azzannarci, figurati se dovessimo parlare.
- Sei innamorato di lei?
- Ma per favore.
- Andiamo, Matt! – lo canzonò spezzante - Non è la prima con cui sei andato a letto e non sarà l’ultima, ti devi chiedere perché con lei fai un figlio e con le altre no.
- Il fatto è che è una storia impostata male dalle fondamenta. – illustrò Matt con frenetico gesticolare – Potevano esserci, e c’erano!, dei buoni presupposti, sul serio. Ma fra un anno. O anche due. Non ora, non così, non dopo tre mesi di rapporto. Avrei potuto innamorarmi di lei, non ci metto molto, ma ci siamo incasinati la vita. Abbiamo accelerato i tempi in modo devastante, e adesso sono cazzi. Cosa vuoi che succeda? Facciamo la coppia felice, poi la famiglia felice e dopo gli ex felici. Ognuno per la sua strada e tanti saluti. Però ci andiamo di mezzo in tre e non in due. – stritolò il bicchiere con stizza – Che schifo.
- Bellamy, non voglio passare per l’avvocato del diavolo né darti alcun consiglio, però devi considerare che quando sarai padre-
- Non lo dire! – Matt lo bloccò con la mano, non bastasse il tono esasperato della sua voce. – Non dire che il bambino sistemerà tutto, ci darà stabilità e ci faciliterà la vita! Ho sentito troppe volte questo ritornello.
- Cazzate! Non ho mai visto un figlio semplificare qualcosa, tanto meno la vita dei genitori. Però ti cambia. È un cliché più che maltrattato, ma sincero. Ti fa crescere. Per forza. Quindi rimarrai sempre incasinato, ma per altri motivi. Ed è veramente affascinante.
- Uh. Addirittura? Ti stai sbilanciando parecchio.
Brian scrollò le spalle. – A me è piaciuto.
- Diventare padre?
- Assolutamente.
- E ti piace ancora?
- Be’, come si dice, è l'unico vero amore, la sola luce della mia esistenza… Dio, come sono banale. – concluse sbuffando e terminando il drink.
- Io sarei felice se potessi parlare di mio figlio così.
- Non è difficile, credimi.
- Poi il nostro è un ambiente malato.
- Vero.
- Tutti che si fottono a vicenda. Muori tu, vivo io. Non può crescere bene!
- È per questo che servi tu, Bellamy! Non è certo l’ambiente che deve crescere tuo figlio. Tu insegnagli a mettersi una corazza e a inseguire un obiettivo, e hai concluso il tuo compito da genitore.
- E se diventa un tossicodipendente sballato?
- È colpa tua.
- E se… Eh? – Matt lo guardò stranito.
- È colpa tua. Se diventa un tossicodipendente sballato è colpa tua. Quindi non fare stronzate ed educalo in qualunque modo.
Matt continuava imperterrito a fissarlo. – Cazzo. Come sei serio.
- È una cosa su cui non amo scherzare.
- Vorrei avere la tua sicurezza.
- Non dirlo! – Brian rise di gusto. – Tempo due giorni da quando nasce tuo figlio, Matt, e ti garantisco che faresti tutto per lui!
Lo sguardo scettico di Matt gli fece capire che non si trovava in accordo con lui, o quanto meno si riservava il diritto di decidere in futuro.
- Piantala di farti seghe mentali! Non serve a nulla.
- È legittima preoccupazione.
- È inutile.
- Okay... nuovo argomento. – Matt spostò il peso in avanti sul tavolino, avvicinandosi sensibilmente a Brian. – Parliamo di te. – gli soffiò malizioso a pochi centimetri dal viso. Era incredibile quanto poco impiegasse per cambiare umore, espressione e discorso. Questo Matt non aveva nulla da spartire con il padre premuroso di pochi istanti prima, molto più affine, invece, a quello che svendeva sesso nei corridoi degli alberghi.
- Ti ho già fornito parecchie informazioni. Non tirare troppo la corda.
- Non mi hai dato quella più importante.
- Ossia?
Matt allargò le braccia esplicativo, e notò la smorfia di disapprovazione di Brian quando si allontanò da lui. – Perché è finita con la tua donna! Dopo aver giocato allo psicologo, mi devi spiegare perché tutte le tue lineari elucubrazioni non valgono un cazzo nella pratica!
Brian arricciò le labbra, prima di distenderle in un sorriso storto, ben consapevole che quella era l’unica crepa nell’intero suo discorso, una domanda che molte volte si era posto e a cui non era mai determinato a rispondere. – Perché è finita… Che cosa ne so, Bellamy. Se riesci a capire perché una storia muore, riesci anche a salvarla. È finita perché doveva finire. Sarà stato il destino, il ciclo della vita…
- Sembri un guru buddista.
- Avevamo bisogno di aria nuova, tutti e due.
- Era una possessiva?
- Helena? – Pronunciando il suo nome, Brian ebbe l’impressione di perdersi ulteriormente in quell’informe groviglio di ricordi in cui Matt lo stava spingendo. – Per niente. Mi lasciava gli spazi – enormi spazi – di cui ho bisogno, e io facevo lo stesso. Ci concedevamo un’indipendenza consistente, vitale per entrambi. Ma lei riusciva comunque a tenermi con un piede fisso a terra quando cercavo di sprofondare, come fosse un baricentro. Era la donna perfetta.
- E allora perché non ha funzionato? – si avvicinò insinuante – Perché era una donna?
- No. Perché era perfetta.
- Non mi sembra una risposta sensata.
- È l’unica che ho trovato.
Passò del tempo prima che uno dei due si decidesse a spezzare il silenzio fitto di pensieri che si era andato a creare.
- Vado ora. Devo passare a prendere mio figlio e non voglio fare tardi.
- Figurati.

Si alzarono entrambi, lasciando sul tavolo qualche moneta e banconota. Brian indossò il cappotto mentre si avviavano verso l’uscita, e osservava guardingo l’espressione serena sul volto di Matt.
- Stai sorridendo come un ebete.
- Pensavo.
- Cazzo, non farlo! Diventi brutto.
- Pirla. Pensavo che non mi dispiacerebbe, tutto sommato. Una vita così… la mia musica, chiacchiere e caffè, poter fare l’uomo impegnato dicendo Scusate, ma devo proprio andare perché mio figlio esce da scuola. Forse non è così assurdo…
Brian si bloccò, le braccia a mezz’aria che stavano avvolgendo il collo con la sciarpa, un ghigno malefico a increspargli le labbra. – Sei già fottuto, Matt.
Ripresero a camminare. – E sei stato molto meno sgradevole degli incontri passati.
- Hai visto? Non ti ho neanche chiesto di scopare!
La porta si chiuse alle loro spalle, ma il barista fece in tempo a rivolgere loro un’occhiata che li tacciava di squallore, borbottando qualcosa.
- Ma che bravo. Già che c’eri, potevi aspettare altri dieci secondi e avanzare le tue richieste hot senza sputtanarci in modo palese.
- Nah, pensavo a un invito più tradizionale, in realtà.
- Cioè?
- Cena.
- Mi stai invitando a cena?
- Sì.
Ci rifletté un momento. Sì, aveva voglia di rivederlo. No, non voleva che si prendessero sul serio.  - A patto che non si parli di vita privata.
- Che cazzo di condizione è?
- La condizione per cenare con me.
- …Okay. Si parlerà di lavoro. Si parlerà di musica. – lo squadrò beffardo – Buona musica.
- Suppongo che dovrò monologare, allora.
- Imparerai molte cose, credimi.
- Non vedo l’ora. Prenoto io in un posto che conosco. Pochi curiosi, poche rotture di cazzo.
- Mmm… - Matt gli afferrò il bavero della giacca, fingendo di sistemarlo – Se cerchi un posto intimo, c’è sempre casa mia…
- Matt… - gli bloccò le mani in movimento sul suo petto – Ho voglia di cenare con te non significa Ti prego, scopiamo sul tavolo della tua cucina. Assimila la differenza.
- Va bene. Comunque volevo farti sapere che ormai non sarebbe più solo sesso per vendetta.
- Oh, Cristo, Matt! – spinse via quelle mani frenetiche, soffocando una risata con un colpo di tosse – Devi mettere un dannato filtro tra quello che pensi e quello che dici!
- Ti piaccio perché non lo faccio. – scosse la testa semplicemente – Ti piaccio perché dico cose che non diresti mai. Ti piaccio perché sono diverso da te.

Si fissavano, due animali spavaldi che si studiano, pronti ad attaccare. All’erta. Brian percepiva i loro respiri fondi, ritornando con la mente alla notte della festa, alle sensazioni di allora, all’odore di Matt addosso a lui, al sapore della  sua bocca affamata. E gli piacque tutto. Gli adagiò un pugno sul ventre, soffermandosi più del dovuto a giocare con la stoffa pesante che lo ricopriva. Pensò solo che avrebbe preferito non ci fosse.
- Ciao, Matt. Ti chiamo io.







__________________________

...

Bah. Cambiare doveva cambiare, prima o poi. Boh.
Però sì, ecco: quando Brian gli arruffa la giacca pur di non staccarsi, lì è proprio un po’ tenero.
Grazie a tutte voi che seguite e palesate sempre il vostro parere sull’evoluzione della storia: <3.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V - Il gioco delle parti ***


V - Il gioco delle parti

V - IL GIOCO DELLE PARTI





- Ciao Frank, tutto a posto?
- Buonasera, Brian. Non mi lamento, non mi lamento. Ti ho tenuto il solito tavolo, spero vada bene.
- È perfetto.
- Ma, ma, ma… Fammi controllare… - Frank si picchiettò il mento pensieroso, accostandosi al bancone dell’accoglienza e sporgendosi con malo garbo ad afferrare un taccuino stropicciato. – Eccolo qui! Molko 20.30 x2… Dove l’hai lasciato il due?
- Arriverà. Non voglio illudermi che non arrivi.
- Perfetto, perfetto. – scorciò Frank. – Vieni, ti accompagno al tavolo.
- Lascia stare, so la strada.
- Come preferisci. Ti porto qualcosa o aspetti la signora ritardataria?
Il sorriso gli nacque spontaneo mentre soppesava la proposta. – Sì. Sì, aspetto la signora.

Si avviò verso la sala sopraelevata del ristorante, appartata e meno chiassosa della principale, e si accomodò al piccolo tavolo rettangolare accanto alla vetrata. Da lì la vista di Londra dall’alto era splendida, considerando che il locale era all’ultimo piano di un grande edificio nel centro città, e Brian sedeva sempre in quello stesso posto da quando, un paio d’anni prima, era venuto a pranzo con Cody e il piccolo non aveva esitato nella scelta del tavolo.
- Guarda, papà! Papà! È bello! – aveva strillato con il naso schiacciato contro il vetro, facendo voltare qualche cliente.
Brian aveva sorriso condiscendente. – Ma come? Non ti fa paura essere così in alto?
- No, mi sembra di volare.
Brian aveva deciso che quello era il suo tavolo preferito.

Ancora sorrise al ricordo di quel giorno, mentre con lo sguardo vagava attraverso i viali e gli uffici londinesi, così illuminati da sembrare sempre in fermento, sempre freneticamente occupati da frenetiche persone. Eppure quel quadro gli conferì tranquillità. Era come tornare a respirare, inalare finalmente a pieni polmoni l’aria che da sotto, dall’interno di quel tramestio che lui così tanto amava, non si riusciva nemmeno a percepire. Avevano un aspetto così comune tutte le auto che scivolavano silenziose su Davies Street, ed era rassicurante pensare che di quella normalità faceva parte anche lui.

- Posso disturbare o sei troppo intento nelle tue riflessioni?
Brian si voltò, prendendo atto solo in quel momento dell’assorta posizione che aveva assunto, i gomiti sul tavolo e le mani intrecciate davanti al viso, l’indice che lambiva appena le labbra. Guardò Matt, in piedi e bagnato accanto alla sedia, che gli sorrideva sornione nonostante le gocce d’acqua che gli scorrevano lungo il viso gli donassero un’aria compassionevole.
- Disturbo moderato, se possibile. Ciao, Matt, sei appena uscito dalla lavatrice?
-Sì, sì, molto spiritoso. – proferì laconico, sfilandosi l’impermeabile verde e gettandolo su una sedia poco distante.
- Hai allagato il ristorante, usurpato un posto libero con il tuo orribile cappotto fradicio e, soprattutto, impedito al sottoscritto di cenare all’ora che voleva, presentandoti in ritardo di venti minuti.
- E tu hai scelto di vivere in una città di merda, dove esci di casa con il sole e scendi dall’auto con una pioggia torrenziale, hai prenotato la cena in un quartiere pieno solo di ristoranti e bar e speravi anche che io non mi perdessi diciotto volte!
Brian scoppiò a ridere registrando lo sconforto di Matt. – Pensavo che ormai fossi pratico della città!
- E come? Essere trasportati in taxi dalla sede di un’emittente radiofonica all’altra non alimenta propriamente il senso dell’orientamento. E casa mia non è decisamente in zona – ho preso casa fissa, lo sai? – rivelò illuminandosi, studiando lo sguardo di Brian per capire se l’argomento poteva essere di suo interesse. Notando un modesto sollevamento delle sopracciglia, decise che valeva la pena continuare, e si lasciò andare ad un’accurata descrizione del rustico che aveva acquistato pochi giorni addietro fuori Londra, in collina, accogliente seppure un po’ datato. Affermò che il silenzio e la quiete di quel luogo lo aiutavano a riflettere e suonare – a tal proposito Brian gli fece notare come sarebbe stato meglio che si astenesse da entrambe queste attività – ed erano un toccasana contro il convulso ammasso di avvenimenti che l’aveva coinvolto nell’ultimo periodo.

Stava affrontando un’attenta disamina dell’arredo liberty con cui aveva deciso di depauperare le sue finanze, quando Frank fece il suo ingresso nella sala, sfregandosi le mani amichevole e canticchiando un motivo di sua invenzione. – Allora, se i signori sono pronti, posso… - Si accorse improvvisamente della pozza bagnata in cui stava scalpicciando, e cercava la spiegazione guardandosi intorno stranito. – … Ma che diavolo! È passato un uragano?
- Sì, “Matt the wet”, mi dicono. – espose assorto Brian. - Pare abbia intenzione di abbattersi a nord della città.
- Matt the wet? Ma che schifo di senso dell’umorismo hai?
- Tu non hai neanche un ombrello, Matt, mi sembra un acquisto prioritario.
Frank intuì l’aria che tirava e si allontanò per chiamare un cameriere affinché rimettesse in sesto il pavimento della sala. Studiò il percorso più lungo per ripresentarsi dai due belligeranti, schiarendosi sonoramente la voce mentre si approssimava al tavolo. L’ultima cosa che sentì fu te la do io, la credenza in vimini.
- Mi chiedevo, ecco, se eravamo pronti ad ordinare la cena…
- Pronti. – ringhiò Brian, assottigliando gli occhi in risposta al sorriso serafico di Matt.
Il clima di distensione parve rafforzarsi mentre Frank snocciolava le prelibatezze che il suo staff proponeva. Parlò per due minuti abbondanti, per poi rivolgere un sorriso incoraggiante a Matt. – Allora?
- Mmm, non so. Chieda prima a lui, se non le dispiace.
Brian occhieggiò a Frank e allargò le braccia in segno di sconfitta. – Non dire nulla, Frank. Il solito.
- Ancora? Non ti sei stancato, Brian?
- No, perdonami. I tuoi chef dedurranno la mia presenza dalle ordinazioni, ormai.
- Scusate. – Matt era irritato da quella confidenza di cui era soltanto spettatore, e tossiva con insistenza mentre interrompeva le risate dei due. – Si può sapere che cos’è il solito?
Brian gli si rivolse con eccessiva noncuranza, incrociando leziosamente le dita. - Ravioli ai formaggi e pollo al curry, naturalmente.
- Dio, sei originale quanto un calcio nelle palle. – Si rivolse impassibile al maitre mentre Brian si strozzava con la sua stessa saliva. – Prende penne zafferano e insalata belga e sottofiletto al pepe verde, e io pure. La carne poco cotta, per favore. Ah, il vino. Rosso. Molto e rosso.
Frank si allontanò perplesso, Matt lo studiò altrettanto perplesso, Brian sperava di cuore di non aver udito correttamente l’ultimo discorso di Matt.
- Tu… sei un troglodita! – sputò fuori, sperando di essere abbastanza espressivo.
- Perché, scusa? Dovevo ripetere tutte quelle parole in Francese per fare bella figura? Se è riso, io lo chiamo ‘riso’, di solito.
- Ma non conosci una dannata via di mezzo fra i francesismi e calcio nelle palle?
- Ci siamo capiti, almeno.
- E poi, cazzo, che razza di piatti hai ordinato?! Penso di aver il sacrosanto diritto di scegliere che cosa mangiare!
- Sì, ma sei monotono, come ti ho detto.
- E tu da quando sei un intenditore di nouvelle cuisine?
- Va bene, va bene! – Matt si adagiò comodamente contro lo schienale. – Chiedo scusa umilmente. Sceglierai tu il dolce, se hai voglia.
Brian gli rivolse un nuovo insulto, ma per qualche ragione gli venne da ridere. – Fanculo, Matt!
- Ma dimmi, Brian, almeno un po’ ti piaccio?
- No, sei irritante.
- Tu mi piaci.
- E scemo.
Si erano molto avvicinati durante il diverbio, e Brian poteva osservare nitidamente ogni dettaglio del volto di Matt. Gli occhi troppo mobili, le labbra troppo sottili. Gli zigomi troppo pronunciati e un mento qualunque. Non bello. Il viso di Matt era dissonante, come se ogni parte cercasse la propria sistemazione all’interno di quella confusione, e Brian provò l’istintivo desiderio di accarezzarlo, quasi volesse vedere se sarebbe rimasto così anche dopo il tocco delle sue mani. - Sì. – disse senza alcuna connessione logica, e Matt dovette accorgersene, dato che gli sorrise con prepotenza, ammiccando un lo sapevo altrettanto sconclusionato.
Stettero così a fissarsi per un tempo indefinito, senz’aria di sfida, senza imbarazzo, protesi in avanti, scomodi, le mani scomposte sul tavolo. Brian pensò che non se ne voleva andare.

I minuti trascorsero rapidamente, un ragazzetto poco più che sedicenne portò loro degli antipasti appetitosi – Offre Frank, farfugliò timidamente, a testimonianza del fatto che aveva ben riconosciuto i due avventori e ne era a dir poco in soggezione.
- Ah! Un mio fan, ovvio! Quando torna gli chiedo dove vuole l’autografo.
- Secondo me gli ha solo fatto paura il tuo sorriso deliziato.
- Brian, non sarai così immodesto da pensare che quello ascolti i dischi del tuo gruppetto, vero? Non credo godiate di così tanta popolarità.
- Ma sicuro. Il fatto che io abiti a due isolati da qui mi rende un perfetto sconosciuto da queste parti.
- Io vendo di più. – gorgogliò tronfio, puntandosi un dito al petto e svuotando il primo bicchiere di rosso.
- Segno evidente della crisi della musica moderna.
- E canto meglio.
Brian strinse la tovaglia con i pugni chiusi, una vena di dolore gli sconvolse i lineamenti. - Tu pigoli ultrasuoni nel microfono, gli scienziati stanno ancora tentando di capire come fai.
Gli strappò un’acuta risata, a cui seguì un accenno stridulo al ritornello di Starlight, che Brian riuscì a stroncare sul nascere chiudendogli la bocca con mano salda.
- Vuoi che ci buttino fuori? Ti si sente fino al palazzo di fronte.
- Uh, le mie corde vocali.
- Matt, sii serio un momento, per favore. – lo fissò penetrante. – Basta farmi fare figure di merda.
- Hai ragione, scusa. La prossima volta stiamo a casa mia, c’è più intimità.
Si guadagnò un’occhiata beffarda. – Chi ti dice che ci sarà una prossima volta?
- Il fatto che non stacchi la mano dalla mia faccia e che mi stai ammiccando da quando sono arrivato.
Brian si immobilizzò, realizzando che effettivamente la sua mano destra stava ancora indugiando su una zona imprecisata fra le labbra e la guancia di Matt, mentre la sinistra aveva arpionato la manica della sua giacca. Si scostò rapidamente. – Scusa.
- Non mi ha dato fastidio. – soffiò fuori con banalità.

Parlarono finché Frank non portò il primo piatto, e Matt decise che nessun argomento era tanto rilevante da interrompere il silenzio spesso che doveva accompagnare il primo boccone di pasta di Brian.
- D’accordo, è buona. Ora smetti di guardarmi con quell’aria affamata.
Si pentì subito di averlo detto, ma stranamente Matt si limitò all’ennesimo sorriso e cacciò la forchetta nel proprio piatto. – Mi accontenterò di assaggiare la pasta, allora. – chiosò soprappensiero, e si ritrovò infine a concordare con Brian. – Cazzo se è buona.

Durante il resto del pasto chiacchierarono del più e del meno, in un’atmosfera serena e distesa. Brian stabilì che parlare con Matt era davvero piacevole, quasi rilassante. Non cercava per forza di commentare, non ti frenava le parole in bocca, anticipandole, non sussurrava incerto i suoi pensieri, ma li proponeva deciso, come avesse già stabilito che erano degni di ricevere voce. Soprattutto, Matt parlava di qualunque cosa: Brian si ritrovò ad ascoltare attento il racconto dell’ultima volta che aveva preso l’autobus di linea, agghindato pressoché da terrorista per non farsi riconoscere. Provò a riflettere su come erano finiti in quel discorso, ma proprio non seppe ripercorrere i passi della mente di Matt, e si limitò a ridere di gusto. Per conto suo, gli raccontò della prima chitarra che aveva preso fra le mani, e di quella fitta allo stomaco che lo aveva accompagnato mentre passava al commesso i soldi necessari all’acquisto. Era come se stessi facendo una cosa importante, spiegò al suo interlocutore, e sentiva gli occhi brillare. Matt, come sempre fino a quel momento, annuì sinceramente, bevve un buon mezzo bicchiere di vino e riprese ad ascoltare con attenzione.
La terza bottiglia suscitò un debole sospiro di Frank, ma di protestare non si parlava nemmeno, davanti agli occhi felici di Brian. Dopotutto, valutò prosaicamente, sembravano abbastanza sobri da non vomitare sul pavimento tornato da poco praticabile, e per giunta non eccessivamente interessati all’ubriacatura. Si chiese curioso chi fosse il compagno di Brian, un volto conosciuto a cui però non riusciva ad associare un nome.
Si avvicinò al tavolo, da cui ormai arrivavano solo sonore risate, e si informò riguardo ai dessert. Matt si ricordò della promessa fatta e lasciò la parola a Brian.
- Ce l’hai il crème caramel, Frank?
- Certo.
Rivolse a Matt uno sguardo d’intesa che gli si insinuò con malagrazia fra le viscere. – Ti piace? – domandò, e Matt sentì il suo cuore perdere un battito. Non era quella domanda, la più scontata del mondo. Erano gli occhi che lo stavano fissando, apprensivi e maledettamente soddisfatti, decisamente più luminosi di come mai fossero stati. Non volevano scappare, non cercavano altro, erano soltanto appagati dall’essere lì, a guardare lui in quel preciso momento, e altrove avrebbero assolutamente perso significato.

Tu lo sai che mi stai guardando così?

- Sì… - rispose con un filo di voce, ammettendo con codardia a se stesso che il dolce era l’ultima cosa di cui gli importava. Voleva afferrare Brian, lì, dimenticando il tavolo che li divideva, e stringerlo fino a convincerlo che andava tutto bene, che quell’istante non sarebbe passato mai, che quella sensazione di pienezza non era un’illusione. Senza un filo logico, senza una motivazione, solo per fargli sapere che ci sono.
E invece stette immobile, concentrato sul sorriso affilato di Brian e quelle sue labbra esili e volitive, lo vide concludere l’ordinazione e rivolgere un qualche comune complimento a Frank, che rispose con un ossequioso inchino e se ne andò.

- Ti sei incantato?
Brian non si decideva a svestire quella solarità, e lo studiava curioso, gli occhi socchiusi e il bicchiere di vino a mezz’aria.  - Indovino. Stai tentando di stabilire quanto tempo è socialmente accettabile che trascorra per potermi saltare addosso.
Gli rivolse uno sguardo malizioso degno delle migliori soap opera, non riuscì a sostenerlo a lungo e scoppiò in una risata liberatoria, abbandonato allo schienale della sedia. Matt cercò di incrementare la manifestazione del suo stupore, ben conscio, tuttavia, di aver già raggiunto il limite.
- Sai qual è la cosa buffa? – continuò imperterrito Brian, rovistando disinvoltamente nelle tasche del cappotto ed estraendone un deformato pacchetto di sigarette. Lo sistemò con un gesto secco della mano.  – Questa volta penso proprio che non ti fermerei.
Si alzò, biascicò l’accendino, cazzo e si allontanò senza fretta verso il bancone di Frank. La primitiva carezza che gli sfregò sulla spalla e sul collo, oltrepassandolo, fece chiudere i suoi occhi, e un respiro profondo gli affiorò dal petto.

Lo trovò poco dopo sul terrazzo, scompostamente appoggiato alla balaustra in fondo a quell’ampio spazio aperto, voltato di spalle e apparentemente concentrato sulla fiammeggiante distesa di luci che era Londra di notte. Si avvicinò a passo incerto, si disse che era l’alcool e non l’emozione, e centellinava l’aria ai suoi polmoni temendo che non ne restasse abbastanza.
- Non dire nulla. – gli sentì sussurrare. Non si voltò, non mutò la sua posizione, non si preoccupò neppure di controllare che la presenza alle sue spalle corrispondesse effettivamente a Matt. Quello era uno dei momenti perfetti che si incontrano di tanto in tanto nella routine quotidiana, uno di quelli dove percepisci ogni dettaglio con intensità maggiore, dove ogni cosa appare al suo posto e tu con loro, e non servivano parole perché tutto quello acquisisse un senso.
Matt gli si fece accanto, opportunamente distante per non intromettersi in quegli istanti che, lo capiva, erano solo suoi. Lo osservò attentamente e senza vergogna, approfittando dell’immobilità quasi surreale che li avvolgeva. Teneva gli occhi chiusi, li apriva di rado, in corrispondenza di un respiro più profondo degli altri. Le dita delle sue mani sembravano schiacciate, e istintivamente vi accostò le proprie, così flessuose e scheletriche, le dita per un violino, pensò istintivamente, e gli parve di appartenere a un mondo diverso. Il volto di Brian era illuminato dal giallo sporco dei bagliori londinesi, e in quel gioco di chiaroscuri notò le piccole rughe ai lati degli occhi e quelle causate dal mezzo sorriso acceso sulle sue labbra. Cenere viva scivolava stanca dalla sigaretta mai fumata, e le sue spire incandescenti sembravano accendere la città al di là della balaustra.
- Andiamo. – pronunciò senza preavviso, voltandosi a fronteggiarlo con uno sguardo che voleva dire che aveva capito tutto oppure che non aveva capito nulla e non gliene fregava un cazzo. Gli occhi di Matt urlavano che sarebbe stato a guardarlo per tutta la notte, che i suoi respiri cadenzati lo mettevano in pace con il mondo, che avrebbe voluto sentirli risuonare nella veranda di casa sua, quei respiri cadenzati, e che si stava innamorando di lui come un ragazzino più stupido di quanto non fosse in realtà. Brian sorrise, lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso la sala da pranzo.

______________________

Ben ritrovate in compagnia di questi due casi umani affetti da pronunciata sindrome post adolescenziale, ma quanto ci sta simpatico questo Bellamy di fine capitolo :D
Frank è l’anglofilo corrispondente del miglior Pasquale della tradizione napoletana, ma mi serviva l’iniziale effetto cena dei cretini e l’oste ciacolone era un elemento irrinunciabile. Per quanto riguarda Matt the wet, be’, sono contenta che la casella di EFP non supporti i pacchi bomba.
Vi informo poi che ha ufficialmente preso il via il concorso “Conta anche tu quante volte l’autrice utilizza i verbi vedere, osservare, studiare, fissare, guardare, notare, registrare, occhieggiare, lanciare sguardi, rivolgere occhiate, dedicare attenzione a mezzo di bulbi oculari”. Chi mi convince che sono meno di cinquecento riceverà un nuovo sinonimo omaggio.
A presto, grazie di cuore.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI - Balleranno, se avranno voglia di ballare ***


VI - Balleranno, se avranno voglia di ballare







VI - BALLERANNO, SE AVRANNO VOGLIA DI BALLARE





- È carino.
- Grazie.
Brian si sfilò il soprabito e lo posò su una sedia. – E l’hai arredato tutto tu? Un buon lavoro, complimenti. Bella quella libreria.
- Grazie.
- Ti sei dato da fare per essere qui solo da – quanto hai detto? – due mesi?
- Sì...
- Wow. Bravo.
- Non te ne frega un cazzo dell’arredamento.
Brian smise di scorrere i titoli dei libri sopra il televisore, si voltò inarcando le sopracciglia con fin troppa meticolosità. – Come, scusa?
- Dicevo che non te ne frega un cazzo dell’arredamento.
Matthew era immobile al centro del salotto, le braccia lungo i fianchi e una poco equivocabile luce negli occhi. Brian avanzò di un passo verso di lui, si fermò, un altro passo. – Oh, sì. Sì che mi interessa.
Gli diede nuovamente le spalle, ma non trovò nulla che attirasse la sua attenzione e si sedette seccamente sul divano. Allargò le braccia sullo schienale, sentì le scapole distendersi mentre osservava i suoi piedi posizionarsi scompostamente sotto il basso tavolo di cristallo ricoperto di riviste. Sapeva che Matthew aveva osservato ogni suo movimento, e percepiva con fastidio i suoi occhi ancora addosso. Decise di ignorarlo e socchiuse le palpebre, cercando di rilassarsi. Sentì Matt sbuffare e se lo ritrovò di fronte con pochi indugi, seduto sul tavolino e con le mani che esercitavano una pressione crescente sulle sue ginocchia.
- Hai qualche problema, Brian?
- Sono stanco. Togliti, per favore.
- Sei stanco?
- Sì, sono stanco.
- Okay. - Matthew lo fissò, sembrava riflettere. Allungò di scatto la mano. – Ti risolvo il problema.
Iniziò ad allentargli la cintura piuttosto goffamente, con un movimento secco gli abbassò la zip dei pantaloni.
- Che cazzo fai, Bellamy! – Lo spinse via con rabbia, si alzò sistemandosi i jeans e passandosi una mano sulla fronte.
- Non lo so, stronzo – aveva ripreso Matt – Mi era balenata l’idea di fare sesso con te e ci stavo provando. Ma immagino che questo l’avessi intuito, quindi non so che altra risposta vuoi sentire.
Allargò platealmente le braccia, ancora inginocchiato sul tappeto che non pareva intenzionato ad abbandonare. Brian camminava stizzito per la stanza, cambiando direzione con impressionante casualità, accompagnato dal ritmico ticchettio delle sue suole.
- È... banale! È tutto banale, accidenti. Tu sei banale, Matthew. – si fermò, puntandogli contro un dito accusatorio – Tirati su, per amor del cielo. La situazione è banale. Sembriamo dei comunissimi idioti.
- Cosa ti aspettavi? Vuoi un po’ di musica soffusa, ti sussurro delle dolci parole all’orecchio?
- Stammi lontano, per favore.
- Ecco, vedi, mi confondi parecchio così. Perché non so davvero cosa fare, io, a questo punto.  
Brian si ributtò sul divano, improvvisamente sfinito, guardò Matthew e trovò nel suo sguardo accigliato un sincero dubbio. Compose una risposta interamente con i gesti delle mani, pensando che quei nitidi movimenti risultassero più chiari delle parole che intendeva affastellare. Si sforzò di mettere ordine.
- Non ho voglia di scopare con te ora.
- L’ho notato. E mi sto chiedendo dove ho sbagliato. Ho equivocato la tua richiesta “Andiamo a casa tua”?
Matthew prese posto sul divano accanto a lui, l’irritazione stava cedendo il passo a un malumore risentito che lo infastidiva ancor di più. Frugò fra le riviste e dissotterrò un pacchetto di sigarette, se lo rigirò fra le mani.
- Ho pensato che ti andasse. Ho seriamente pensato che ti andasse...
- No. Insomma, forse mi va, mi andava... prima. Non so cosa... però-
- Mi andava prima? - Le sigarette di Matt lo colpirono con precisione sulla guancia. – Ma sei scemo?
- Fammi spiegare, per favore.
- Ti andava prima? E che cos’è successo nei dieci chilometri che ci separano dal centro di Londra? Ti è venuta la nausea, hai pensato alla fame nel mondo, hai visto la Madonna? Che cazzo ridi?! Adesso mi dici cosa devo fare! Sei stressato, che cazzo hai?! Ti faccio una tisana e ti do pacche sulle spalle mentre ti dico che ogni tanto è normale non avere voglia? La smetti? – concluse non riuscendo a restare serio davanti ai leziosi gridolini di Brian. – ‘Fanculo, sei indecente!
- No, Matthew! Davvero– Dove vai?
- In cucina, se non ti dispiace!
- Aspetta, davvero, Matt... Ascoltami. – lo costrinse a voltarsi di nuovo, lo fissò con solennità. – Io non la do mai al primo appuntamento.
- Ma fottiti. – Aprendo il frigo sentì che soffocava le risate in un cuscino. – Che coglione mi sono preso.


***

- E questo cos’è?
Brian posò la birra sul tappeto e si protese verso un libro troppo voluminoso per essere l’ennesima copia di Rolling Stone presente su quel tavolo.
- I miei spartiti.
- Uh. - Prese a sfogliarli con interesse. – Questa qui.
- È Chopin.
- Sì. La suoni?
Lo guardò scettico da sopra la sua bottiglia. – Adesso?
- Sì.
- Potrei, ma non so se ne ho voglia...
- Ah-ah. Alzati, forza. – Si posizionò di fronte a lui e gli offrì rudemente una mano per issarsi.
- Perché, Brian. Perché ti sto dando corda. – si interrogò a occhi chiusi, oscillando pericolosamente attraverso la sala.
- Muoviti. – Gli rivolse un ampio sorriso, si appoggiò al pianoforte con le mani e lo osservò stando lì accanto.
Matt sistemò lo spartito sul leggio, gli rivolse un’occhiata piccata stabilendo di non dirgli che sembrava una chanteuse anni Venti e attaccò con le prime note. – No! Ci vuole la dedica. – Si schiarì la voce, lo guardò con aria ispirata e una punta di melodramma. – Questo pezzo è per Brian, la donna che mi ha rubato il cuore dal primo momento-
- Suona, cretino! – puntualizzò colpendolo sulla fronte.
Le note iniziarono a vagare per la stanza, dapprima incerte, poi sempre più intensamente. Matt si interrompeva ogni tanto per voltare una o due pagine, probabilmente ignorando lui stesso che parte del notturno dovesse suonare e non curandosene più di tanto. Osservava le proprie dita scivolare sui tasti, fluide e allenate, spostava lo sguardo sul legno lucido dello strumento che le mani di Brian sembravano ora arpionare ora carezzare.
- Perché ti sei fermato? – Brian lo studiava interrogativo.
- Posso descriverti i pensieri sconci che sto facendo su di te mezzo in estasi e con la bocca spalancata?
- No, grazie. Continua.
Matt riprese svogliatamente a suonare, una marcetta più o meno improvvisata fu quello a cui diede vita la sua fantasia ridotta all’osso. Vide Brian staccarsi dal pianoforte con un gesto smanioso, e poco dopo sparire alle sue spalle.

No. Qualunque cosa tu faccia non ho intenzione di dartela vinta anche questa volta.

Pigiò ossessivamente sui tasti, intenzionato a ignorare pedissequamente il compagno. La risoluzione si complicò quando sentì il fiato caldo di Brian a poca distanza dal suo orecchio.
- Impegnati... – gli sussurrò stuzzicandogli il collo con le labbra – Non mi sembra che ti stai impegnando molto... – Continuò fino al lobo sinistro, su cui catalizzò tutta la sua attenzione.
- Come... diavolo... – scartò di lato con la testa quando sentì le dita di Brian annodarsi fra i suoi capelli -  faccio a impegnarmi così?
Aveva il fiato corto, e anche Brian dovette accorgersene.
- Devi rilassarti... – Prese a massaggiargli la schiena con sinuose volute, percependo fasci di nervi sotto la camicia.
– Hai stonato.
Matt stava perdendo lucidità. Faceva un caldo d’inferno, caldo dappertutto, umido. E i loro fiati etilici lo stordivano e rallentavano i suoi pensieri. Se Brian non avesse allontanato immediatamente quelle dannate mani, il suo corpo non avrebbe più risposto delle proprie azioni, e il limite era più che prossimo.
Per tutta risposta Brian fece aderire bruscamente il suo ventre alla schiena di Matt, spingendo le sue mani fino al suo petto e giù sul suo addome. Matt abbandonò ogni proposito di razionalità con un gemito grezzo, allungò le braccia sopra la propria testa deciso ad afferrare qualunque cosa di Brian e porre fine a quello strazio. Strinse una ciocca di capelli e quasi gli stritolò una spalla, registrò dalla smorfia di dolore del suo volto. Serrò ancora di più la presa, sperando che il suo compagno cogliesse l’urgenza insita in quell’atto violento, e di fatti Brian si lasciò scivolare a terra, ancora avvinghiato a lui, facendolo sbilanciare dal sedile e ritrovandoselo sdraiato addosso, di schiena. Matt si convinse di non avergli fatto male nella caduta poiché l’altezza da terra era ridotta, e pensò che dovevano essere davvero brutti in quel momento, due insetti capovolti incapaci di staccarsi l’uno dall’altro. Ruotò il bacino, e finalmente si trovò sdraiato accanto a Brian. Si avventò sulle sue labbra come non avesse aspettato altro per anni, pregando in un sollievo di qualunque tipo per il caos che sentiva dentro. Rotolavano l’uno sull’altro mentre tentavano in modo maldestro di togliersi qualche indumento.
- Aspetta, aspetta... – soffiò Matt sentendo le dita languide di Brian soffermarsi sul suo basso ventre. Lo guardò, bloccato sotto di sé, il viso sfatto e il sudore che imperlava il collo della camicia. - Vieni in camera... - Si sollevò, si avviò nel corridoio che portava alla stanza da letto sbottonando frettolosamente la camicia.
Brian si appoggiò ai gomiti, cercando di regolarizzare il respiro, si alzò in piedi ostinandosi vanamente nel lisciare le pieghe degli abiti e si avviò dietro Matthew. Era seduto sul bordo del letto, a torso nudo, le mani intrecciate mollemente sulle ginocchia. Alzò lo sguardo quando lo vide entrare. Semplicemente lo stava aspettando.
Si avvicinò con lentezza spasmodica. - Matt...
- Shhh. Non azzardarti a parlare. – Lo attirò a sé finché sentì la propria fronte a contatto con il suo ventre. Non si alzò, gli cinse i fianchi con le mani. – Mi hanno rotto i coglioni le tue parole.

***

Brian si svegliò per la luce diffusa. Con ogni evidenza era una giornata di sole, e quella stanza era troppo chiara e troppo bianca per consentirgli di riprendere sonno. Era voltato su un fianco, le braccia abbandonate davanti a sé sopra le coperte, che sentiva pesare su tutto il corpo. Aprì gli occhi lentamente, con circospezione, e si trovò poco distante da Matthew, seduto con la schiena appoggiata al muro e, anche lui, coperto grossolanamente dalle lenzuola. Fissava senza espressione un punto della parete di fronte a sé, una mano ripassava la barba che faceva capolino sul mento. Brian si prese tutto il tempo per osservarlo, sorrise quando l’altro fu percorso da un brivido di freddo. Matt si accorse di lui.
- Ehi. Ciao.
Non ottenne risposta, probabilmente Brian riteneva superfluo rivolgergli lo stesso saluto, per cui stava in silenzio sistemandosi meglio le coperte intorno al corpo. Lo fissava, continuava a fissarlo. Chiudeva gli occhi – con dolcezza, avrebbe voluto dire Matt– e li riapriva sempre su di lui. E Matt non trovò un’idea migliore di chinarsi a baciarlo.


***
- Cos’hai da fare domani?
- Lavoro.
- Dopodomani?
- Dopodomani mi faccio i cazzi miei.
- Capito. – Matt sbuffò una boccata di fumo e gettò via la sigaretta pressoché integra. Prese posto accanto a Brian, su quel masso muschioso che avrebbe sconciato in breve i suoi pantaloni bordeaux. Erano finiti lì per l’ennesimo desiderio di Brian, fammi vedere il giardino, o quella sorta di parco che aveva comprato annesso al rustico. Guardò i rami intirizziti dal gelo invernale, e la brina che ricopriva il prato incolto e cigolava sotto i piedi.
Brian si sporse verso di lui, gli respirò vicino, gli assestò una leggera spallata. – Lunedì sono libero.
- Anch’io.
- Posso tornare qui?
- Certo.
Si alzò, sorrise a quella natura spettrale. – Poi ti porto a cena in un posto buono. Sei magro, Bellamy, ieri notte ti contavo le costole.
- Si dice contare le costole, adesso?
Mostrò tutti i denti in un ghigno e se lo ritrovò di fronte che armeggiava con il suo maglione. Matt trasalì quando una lamina di gelo colpì la sua pelle.
- Uno, due, tre, quattro...
- Piantala, fa freddo...
- Cinque, sei...
Lo scansò sgraziatamente, aprì la bocca per parlare, ma si limitò a scuotere la testa svogliato. Brian rise di nuovo, lo guardò, girò sui tacchi e se ne andò.




Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII - Siamo cresciuti a mezzanotte ***


Partenze VII - Siamo cresciuti a mezzanotte



VII - SIAMO CRESCIUTI A MEZZANOTTE




- Mi dici come siamo arrivati qui?
- Eh?
- Siamo qui.
Si guardarono, scoppiarono a ridere.
- Davvero, perché sempre qui, sempre sul tappeto, io e te?
- Sei ubriaco, Matthew.
- Anche tu.
- Tu sei moooolto ubriaco. – puntualizzò roteando la testa sul collo, una vampata di calore lo scosse. – Ho caldo. – Si sfilò la maglietta, imprecò quando si impigliò nel suo mento.
- Sei bello. – Matt gli si avvicinò, strofinò il volto sul suo petto, lo strattonò per portarselo vicino. Brian rideva, gli accarezzava la schiena nuda con dita leggere.
- Oh, sono bello! – Gli diede un bacio languido, mentre Matt scivolava mollemente a sdraiarsi per terra. - E tu… - lo scostò da sé per osservarlo. I contorni erano sbiaditi e la testa ciondolava. – … Non lo so. Non capisco un cazzo.
- Io sono… Matthew.
Brian sfiatò una risata acuta, Matt la scacciò come spolverasse l’aria. Brian si sdraiò su di lui.
- Ciao, Matthew. – gli soffiò fissandolo negli occhi. L’odore di birra infastidì anche lui, ma non cessò di sorridergli, carezzandogli i capelli sudati con entrambe le mani.
Matt gli baciò gli zigomi, la bocca, la cavità del collo, avanti e indietro, disegnava percorsi umidi sulla sua pelle baciando e leccando. Stava dicendo qualcosa di sconnesso a cui Brian non diede importanza, gemendo senza ritegno per le sue attenzioni.
- Matt… Matt, cazzo… sembri un gatto... Adesso non - lo bloccò quando già aveva allontanato la testa – Non miagolare, idiota.
Scoppiarono di nuovo a ridere, Matt scostò di lato Brian e sollevò le braccia al cielo senza riflessione alcuna.
- Ho bisogno di una doccia! – lo fissò seriamente, ottenne un gesto grottesco in risposta.
- Scordatelo, Matt. – lo canzonò rifacendosi vicino. – Se stai bravo, ma molto… molto… bravo, magari fra una… due… migliaia di anni…
- Dai, Brian. – si mise a sedere, spalancò gli occhi. – Fatti una doccia con me.
- Non stai in piedi. Se vai adesso nella doccia affoghi e muori.
- Vieni con me!
Brian capì che non ne avrebbe cavato nulla, lo fece appoggiare al divano e prese a massaggiargli il petto, il torace. Matt inspirava a pieni polmoni e l’aria sembrava non bastargli. Le carezze di Brian erano diventate vogliose, con decisione insinuò una mano nei suoi pantaloni, la riportò verso l’alto, poi di nuovo giù, e di nuovo l’allontanò. Matt perse il conto di quante volte quello strazio si protrasse, sentiva il proprio fiato umido appesantire le sue stesse guance. Ansimava e si arpionava il bacino con dita divenute artigli.
- Ti voglio, Brian.
- Tu mi vuoi troppo.
Vide un lampo di tristezza attraversare i suoi occhi, se ne dispiacque sinceramente. Si tirò in piedi, afferrò quell’orribile boccale in cui Matt gli aveva versato la birra e se lo portò alle labbra. Cambiò idea, non bevve, lo tenne in mano mentre spalancava le braccia barcollando debolmente. Con i piedi batteva il tempo sul pavimento. – I want you. I want you. I want you… - Rovesciò parte della bevanda per la stanza, mentre ad occhi chiusi proseguiva quella danza scoordinata ma liberatoria. – …so baaaad… - Tossiva sulle note basse, stonava le alte, le convulse risa di Matt erano un incitamento a proseguire. Cantò diversi ritornelli prima di crollare sfinito accanto a Matthew, appoggiò la testa sulla sua spalla, lo sentì che stava ancora sussultando ed emettendo suoni gutturali.
- Ringrazia che adesso non ricordo le strofe.
- Hai ucciso Bob Dylan quindici volte! – gracchiò, cercando di calmarsi. – È morto. Controlla, controlla su Google se non è morto!
- Che cazzo, vuoi stare fermo?! Voglio dormire. – Si sistemò meglio contro di lui, respirò profondamente. Matt lo osservò.
- Qui? Con me?
- … Sì.
Un lampo di lucidità. Uno solo.

***
- Buongiorno.
- Ciao, Matt. Ah. – Si massaggiò l’avambraccio intorpidito sollevandosi da terra, calciò via uno dei pochi cuscini che avevano costituito il suo materasso. – ‘Fanculo, che male. Non è stata una grande idea dormire per terra. Sarà stata tua.
- Io ho dormito in camera.
- Come?
- Sì, insomma… - si grattò la fronte, affondò le mani nelle tasche – Mi sono svegliato, tu dormivi… Era troppo scomodo, Brian… - scosse buffamente la testa volendo scacciare un pensiero molesto, Brian sorrise suo malgrado.
- Che stronzo!
Matt ammiccò di rimando, si accostò al suo volto, si immobilizzò, repentinamente si chinò a raccogliere un cuscino e prese a sprimacciarlo. Brian gliene fu grato, il bacio del buongiorno era una chincaglieria di cui non sentiva il bisogno.
- Allora? Hai qualcosa per fare colazione?

In cucina trovarono metà della cena del giorno precedente abbandonata sul tavolo, l’altra metà sul pavimento.
- Perché qui mi sei saltato addosso non appena arrivato, Brian. Guarda che casino hai fatto.
- Non appena arrivato mi hai sbattuto contro lo stipite della porta e mi avresti scopato anche lì se non avessi urlato di dolore.
- ... Non era dolore, gioia. Comunque poi c’è stata la cucina. Poi la sala: il divano…
- Sei disgustoso, Bellamy. Io non facevo l’elenco neanche a quindici anni.
- Avevi delle notti monotone.
- Sicuro. – ghignò malizioso, scorciava non facendo i conti con l’agonismo che Matt riversava in quelle stupide schermaglie.
- La prossima volta lo facciamo sulla lavatrice… Tu stai in piedi davanti e-
- Tu ti metti dentro e io la aziono, sì. Adesso piantala di dire stronzate e fammi una proposta intelligente per la mattina.
Matt si illuminò. – Pensavo te ne andassi.
- Devo passare da Stef per pranzo, quindi direi… - ticchettò sul tavolo mentre si voltava in cerca di un orologio – Ho due ore buone.
Matt tese le braccia e cominciò a parlare al soffitto. - Una colossale, epica scopata, di quelle dove butti giù la casa!
Brian lasciò la cucina scuotendo la testa, in bagno decise che avrebbero fatto un giro in qualche paese dei dintorni.

***

Debden era un’anonima cittadina a nord di Londra, abbastanza residenziale da essere spopolata durante l’orario lavorativo e sufficientemente banale da stornare i curiosi. Matt guidava seguendo le indicazioni e imprecava ad ogni buca nell’asfalto.
- Come accidenti hai scelto un posto simile. Me lo spiegherai un giorno.
- Ho puntato un dito a caso sullo stradario che c’era a casa tua.
- Perfetto. Se fosse uscito Buckingham Palace avremmo giocato a guardie e ladri con la regina.
- Era a destra, coglione. – Brian osservò i cartelli stradali alle loro spalle e sbuffò infastidito. Si guadagnò un insulto quando spense la radio subito dopo che Matt l’aveva accesa, capì che sarebbe spettato a lui rompere il silenzio se voleva evitare un viaggio carico di noia.
- Cosa ne pensi dei Guns ‘n’ Roses?
- Oh, banale. Dopo questa c’è solo 'Beatles o Rolling Stones'.
- Kate Middleton?
- Mh. Me la farei, se capitasse.
- Anche il principe William?
Gli strappò una risata disgustata, l’atmosfera ne risentì positivamente.
- Ad ogni modo, come va con la tua Kate?
Matt si sistemò sul sedile, assottigliando gli occhi sulla strada.
- Avete litigato ancora?
- … No. Possiamo parlare d’altro?
Brian aggrottò le sopracciglia all’erta. - È la tua vita, di che cos’altro vuoi parlare?
- Di tutto il resto. La mia vita non è solo questo. Questo è… qualcosa che sta succedendo. Non ho voglia di pensarci ora.
Brian scuoteva la testa, si accese una sigaretta. – Così non vai da nessuna parte, Matt.
- Sto andando a Debden.
- …
- Per favore. Ti ho chiesto di non parlarne adesso. Adesso siamo qui e non ho voglia di pensare a Kate.
- Posso parlare sinceramente?
- Fai il cazzo che ti pare.
- Io… - soppesò i pensieri, scelse quelli più esplicativi – Non vorrei che ti stessi facendo un’idea sbagliata. Di me e di te, intendo.
- Perché, che idea mi sto facendo?
- Non lo so. Non lo voglio sapere. – lo inchiodò con lo sguardo – Nessuna idea è la migliore, al momento. Non mi pensare come un’alternativa a lei. Io sono… una felice parentesi, aperta e chiusa, non una prospettiva. Questa cosa fra noi, davvero, è carina. Divertente. Ma siamo solo divertimento, le nostre vite restano da un’altra parte. Ergo, niente di quello che fai o farai con me deve interferire con qualsiasi altra tua scelta, soprattutto con la tua donna.
- Mi sembra che sia tu a renderla più seria di come è.
- Preferisco chiarire. Ti dico solo di non cercare qui cose che non trovi altrove. L’unico motivo per cui ci vediamo deve essere perché no?. Se mai ti capitasse di trovarne uno più sensato, sparisci da solo prima che sia io a distruggerti. – Gli sorrise calorosamente, finse di guardare il sottobosco che scorreva al di là del finestrino.
- Cazzo, Brian.
- ...
- Cazzo. Un filosofo.
- La smetti, Matt?
- No, davvero. Non era niente male, soprattutto la parte del distruggermi, forse quel tanto melodrammatica, ma comunicava.
Si voltò per fronteggiarlo, trattenne i suoi insulti per il fatto che non stava guardando la strada, gli sorrise teneramente in una nuvola di fumo. – È impossibile fare un discorso serio con te.
- Tu sei palloso, cazzo. Devi ridere. – sillabò le parole mentre accostava a sinistra e si slacciava la cintura. Prese la sigaretta dalle dita di Brian, fece un tiro prima di gettarla fuori dall’abitacolo. Era eccitato, non lo mascherò sedendosi a cavalcioni su di lui. – Com’è? Siamo uno svago... E svagati, accidenti.
- Non arriveremo mai a Debden.
- Al diavolo Debden. Al diavolo tutti.

***

Spense il mozzicone sotto il tacco e rientrò nella vettura.
- Lasciami davanti a quella villa, il taxi che aspetta è mio.
- Mi hai piantato qui dieci minuti per fumarti una sigaretta a cinquanta metri dal taxi?
- Mi andava di fumarla.
Avviò il motore, lo spense percorso il breve tragitto. Osservò Brian sistemarsi i capelli nello specchietto, si fissarono e non dissero nulla.
- Ci vediamo.
- Sì.
- Settimana prossima non ci sono.
- ...
- Parto. Vacanza di una settimana in Thailandia. Ne ho bisogno.
- Bene. – Registrò che Matt sembrava aspettarsi altro. – Mi chiuderò in casa a piangere.
- A me basta che non ti chiuda in studio a registrare cagate. – precisò ilare, guadagnandosi una gomitata nelle costole. – Ah, prima che mi dimentichi… - Afferrò dal piano portaoggetti un notes ingiallito, strappò una pagina, la accartocciò, gliela mise in mano.
- Devo farti la spesa?
- Devi leggerlo.
Arricciò le labbra. - Mi hai scritto un biglietto. È ripugnante.
- Tu leggilo.
- Se mi ricordo.
- …
- Ciao, Matt. Buon viaggio.
- Ciao.
Aveva già una mano contro la portiera quando Matt gli strinse leggermente l’altra. Si voltò a guardarlo. Era fermo, gli occhi luminosi, le dita sulle sue. Era in attesa. Interpretò l’impassibilità di Brian come un consenso, si allungò verso di lui e con la mano libera gli disegnò il contorno del mento. Aveva quel bacio incastrato in gola dalla mattina. Appoggiò le labbra sulle sue e le dischiuse piano, spinse la lingua delicatamente nella bocca dell’altro solo quando Brian rispose al suo gesto. Fu un bacio molle, gradualmente approfondito. Nessuna foga, nessuna voglia irrazionale lo guidava. Concluso in sé, non preludeva a nulla. Brian cancellò il fiotto di paura che sentiva tra i denti, lasciò che Matt continuasse ciò che stava facendo. Si staccò da lui, gli diede un altro bacio, scese dall’auto.

***

Pagava l'autista e si dirigeva verso l’abitazione di Stefan. Affondava una mano nella tasca del cappotto, estraeva un foglio appassito, lo leggeva.


letto
cucina

tappeto della sala
divano
cucina contro la sedia
sulla sedia (solo una sega)
il muro della camera (me l’hai chiesto tu)
letto x2

prossimamente: la lavatrice

Ridi, cazzo!





_______________________________________________

Eccoci di ritorno, con sempiterna lentezza la storia procede e procederà. Ho visto che le letture sono diminuite di molto, spero che il problema non sia un calo di qualità, quanto piuttosto i lunghi tempi di aggiornamento. Mi rendo conto che sette capitoli in un anno sono troppo pochi, e spero di essere più spiccia ora che le idee si chiariscono. Il progetto è pubblicare una volta al mese, farò del mio meglio per concretizzarlo.
Grazie per i commenti, voi sante che passate di qua e magari anche apprezzate :) Le ultime recensioni mi sono state utilissime, ho cercato di attuare alcuni spunti e consigli, anche se forse a un livello embrionale che si può ancora approfondire.
A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII - Istantanee ***


Partenze VIII - Istantanee



VIII - ISTANTANEE




Di primo acchito non gli era certo sembrata una persona da spendersi in eccessivi convenevoli, ma un’accoglienza del genere era, nella più sincera accezione, sbrigativa.

- Ciao.
- Ciao! Scusa, mi sta bruciando tutto! Entra pure, cosa fai lì sulla porta? – Marah era già schizzata via, aveva a mala pena intravisto il suo sorriso luminoso prima che corresse in cucina. – I ragazzi sono di là, vai senza problemi. Scusa davvero, ma- Ah! – Un acuto di dolore lo raggiunse e Brian si convinse a muovere qualche passo nell’abitazione, raggiunse Marah in cucina.
- … Stai bene?
- Sì, scusa! – La trovò che si succhiava goffamente un dito e ci soffiava sopra dell’aria con il volto contrito. – Stavo cercando di fare otto cose insieme, succede sempre così. Devo avere sfiorato la pentola della pasta mentre mi giravo.
- … Mettilo sotto l’acqua…
S’immobilizzò, prese a fissarlo. Poi scoppiò a ridere, e continuò mentre seguiva il consiglio. – Penserai che sono matta! In realtà non va proprio sempre così, ogni tanto c’è più tranquillità. Mi dispiace molto per l’accoglienza… frettolosa. – Si asciugò le mani, prese dei cubetti di ghiaccio dal congelatore, li avvolse nella pellicola trasparente e li adagiò sulla mano. – Meglio. – si voltò a guardarlo, sorrise – Scusa davvero, ora ti accompagno da Cody.
– Sì… Il messaggio che mi hai mandato prima…
- Sì! – sembrò ricordarsene all’improvviso – Ti fermi a cena, sì? Ti va?
- Sì, sì. Ti ho portato… - le allungò il sacchetto con la bottiglia di vino che aveva comprato al supermercato della via adiacente, lei lo ringraziava senza nemmeno guardare il contenuto. – Intendevo un’altra cosa. Ti avevo scritto a che ora passare a prendere Cody, tu mi hai risposto “Ora non è proprio il caso. Vieni a cena!”.
- …
- ... Mi sono preoccupato.
Marah sorrise di nuovo, timidamente. – Decisamente poco chiaro, non mi scuso più perché sarei monotona. Era semplicemente per avvisarti che i ragazzi erano a posto e si stavano divertendo così tanto che mi dispiaceva dividerli. – fece una pausa – Ecco, così sarebbe stato più rassicurante e comprensibile! Ma stavo facendo non ricordo cosa ed ero di fretta.
Brian sorrise, involontariamente coinvolto dall’entusiasmo della donna. – Penso che non ti affiderò Cody mai più nella vita, lo sai, vero?
Rise. – Sarebbe un peccato, sono così amici. Comunque dopo la mia amatriciana cambierai parere, te l’assicuro. Vieni, così saluti Cody.


Il bambino gli gettò le braccia al collo urlando, gli sorrise quasi fosse un regalo a Natale. Aveva le dita blu di pennarello, la maglietta stropicciata, i capelli sudati. Era bellissimo.
- Ciao, amore mio.
- Ciao!
- Allora, cosa stavate combinando tu e Simon?
- Giocavamo con il castello!
- Il castello? – Brian prestò finalmente attenzione all’enorme costruzione di Lego, alta quasi quanto i due bambini. – Ma è come il tuo, Cody! Quello che ti ho appena comprato! Si vede che è proprio di moda, adesso… - rivolse un’occhiata complice a Marah, che era appoggiata allo stipite della porta e rispose con una divertita scrollata di spalle, di questo passo per fare posto ai giochi esco io – però come fai a dirgli di no.
- Hai vistoooo? È uguale!
- Non è uguale! Il mio ha la stanza dell’impiccato! – Cody si voltò repentinamente verso il padre. – Simon non ci crede che il mio castello ha la stanza dell’impiccato!
- Non c’è la stanza dell’impiccato! Al negozio non lo vendono il castello con la stanza dell’impiccato!
- È qui! Io ce l’ho qui! – Batté una manina sul muro più alto. – Vero, papà, che nel mio qui c’è la stanza dell’impiccato?
Era appena stato inghiottito in una discussione di quelle a cui i bambini si attaccano spasmodicamente e gli adulti non potranno mai comprendere appieno. Suo figlio lo fissava deciso, Simon pendeva dalla sue labbra. Si sforzò di ricordare. – Lì… Sì, mi pare che ci sia un’altra stanza nel castello di Cody. Giusto, amore? Quella con le pareti verdi…
- Sì! Vedi che c’è. – ritorse beffardo al suo amichetto. Simon era afflitto, guardava Brian di sottecchi, quasi con reverenza, e bisbigliava ancora al negozio non ce l’hanno.
- Simon, non essere testardo, per favore. – Marah si avvicinò al figlio e gli sistemò i capelli. – Magari Cody l’ha comprato da un’altra parte e il suo castello è un po’ diverso. Non c’è bisogno di fare i capricci per questo.
- Brava! – Brian schioccò la lingua e cercò lo sguardo del figlio. – Cody, ti ricordi quando sono tornato da Parigi e ti ho portato il regalo a casa della mamma? Era un pezzo del castello, mi sembra.
- Certo! Era la stanza dell’impiccato!
- Oh, è tutto chiaro! – Sorrise a Simon che continuava a fissarlo con occhi spalancati. – Ho preso questa stanza in Francia, in un altro paese, dove i pezzi del castello sono un po’ diversi da quelli che vendono qui. È per questo che il negozio dove vai tu non ce l’ha.
Il bambino non mutò espressione, l’interesse per Brian sembrava ormai molto superiore a quello per il gioco. Sua madre gli depositò un bacio sulla guancia. – Hai sentito, amore? Domani diciamo al venditore di comprare anche lui i pezzi che ha Cody! Ora fate i bravi, io e Brian siamo qui accanto a magiare e vi teniamo d’occhio. Non voglio sentirvi litigare ancora.
- Sì, e, Cody, non fare il prepotente altrimenti andiamo via subito. Mi raccomando.


Si allontanarono mentre i piccoli avevano già ripreso a fare comunella, Marah gli sorrise precedendolo in cucina. – Mamma mia, ce l’abbiamo fatta! Mi dispiace per la pasta, sarà un po’ scotta.
- Non importa, abbiamo risolto una crisi istituzionale. Posso fare qualcosa? – Osservava Marah muoversi agilmente fra i quattro angoli della stanza e misurava la propria inutilità.
- Siediti e aspetta, è quasi pronto. Davvero gli hai portato i Lego dalla Francia?
Non si voltava a guardarlo, sorrideva e parlava alle casseruole. Brian aveva davvero voglia di aiutarla. Afferrò il cavatappi dalla mensola sopra il lavello e prese a stappare il rosso che aveva portato. – Sì. Stef, il mio collega, mi ha preso in giro moltissimo perché giravo per l’aeroporto con una scatola più grande di me. Ho dovuto litigare al check-in per portarlo con me e non caricarlo nella stiva.
- L’hai portato come passeggero?!
- Sì, ho dovuto pagargli il biglietto. È come per le chitarre, –ignorò le risate di Marah – se ne compro una all’estero, in viaggio la tengo con me, muoio all’idea del trattamento che riservano ai bagagli durante il carico e scarico.
- Ma allora è vero… – Finalmente si girò, portando in tavola il tegame con la prima portata. – Voi musicisti considerate gli strumenti un po’ come figli.
- Nei limiti della decenza, sì. E io non sono neanche un genitore eccessivamente apprensivo.
- Pronto! Spero sia venuto bene, Simon dice che è il piatto che preparo meglio! – Prese posto mentre Brian faceva altrettanto, si rialzò subito: aveva dimenticato di togliere il grembiule, si risedette. Brian si complimentò per la ricetta e parlarono piacevolmente di argomenti quotidiani. Si erano incrociati poche volte, ogni tanto all’uscita dell’asilo e sempre di fretta, ma a Brian erano state sufficienti per stabilire che Marah era una compagnia gradevole ed estremamente intelligente, sotto la scorza più o meno costruita di donna caotica e forse anche frivola. Gli disse che lavorava in uno studio legale, teneva la contabilità, un po’ noioso ma un posto sicuro, chiosò con quella che gli parve una punta di rammarico. Gli rivolse molte domande riguardo alla sua musica, senza alcuna curiosità smaniosa. Se conosceva i Placebo, non lo diede a vedere e – grazie, cielo – non iniziò a snocciolare lodi o citazioni delle loro canzoni. Vedeva solo un’entusiasta ragazza amante dell’arte, fin troppo preparata in materia di note e spartiti. Fu proprio un commento sulla Les Paul ad insospettirlo.
- Ma tu come sai queste cose?
- Sono stata sposata con un bassista. Niente di serio, dopo un anno lui ha deciso che le cantine underground erano più interessanti del nostro futuro insieme, e non me ne sono dispiaciuta più di tanto.
Sorrise davanti a quella genuina caparbietà. – Lapidaria.
- No, sono realista e non mi voglio male. Non avrebbe avuto senso attaccarmi per la vita a uno che mi annoiava. Anche per Simon è stato meglio così, ci sono molto di più per lui, è il mio unico pensiero.
Non amava porre domandi personali, forse perché non amava riceverne, ma quel tono così perentorio stimolò oltremodo la sua attenzione. E forse, sì, era banalmente terrorizzato all’idea di un padre tagliato fuori dalla vita del figlio. - … Non gli manca mai suo padre?
- No, no! – Scosse allegramente la testa, si accorgeva di un equivoco buffo che non aveva calcolato. – Questo è stato dopo Simon! Io e Fra, il bassista, ci siamo conosciuti quando Cody aveva un anno e sposati poco dopo. Ero in Italia per lavoro, al tempo ero segretaria di un altro di quegli studi tutti uguali. Staccavo dalle scartoffie e mi rintanavo nei locali fiorentini più sconosciuti, volevo solo ascoltare musica di persone che volevano farcela partendo da lì, e respirare aria nuova. Così una sera ho conosciuto il fascinoso bassista che poi ho sposato. Era un neolaureato con pochi soldi e tante aspettative sul suo futuro, viveva per gli imbarazzanti spiccioli che offrivano al suo gruppo per suonare in un posto o nell’altro. Diceva che non si lamentava, che era gavetta che tutti dovevano fare e serviva a restare umili. Capisci, tutte queste utopie e una tale voglia di cambiare non potevano che catturarmi nel giro di poche ore. Mi sono innamorata di lui quella sera, e penso sia stato lo stesso per Fra. Lui era un tipo a posto, probabilmente troppo a posto per i miei gusti, ma era talmente bravo con Simon che non credetti di poter trovare di meglio. Poi le cose vanno come vanno. Una volta terminato l’alone seducente del vivere alla giornata inizi a chiamare le situazioni con il loro nome, e ti accorgi che l’etichetta per la tua è precarietà. E niente. Ho ottenuto di rientrare alla sede di Londra e cambiato molte occupazioni. In conclusione – tirò le labbra come a scusarsi per avere abusato della sua attenzione - Fra non è il padre di Simon, quell’idiota è un bastardo imbecille che non vedo da anni e non ha mai voluto conoscere suo figlio, stronzo.
Brian studiò quella che gli appariva sempre più una ragazzina cresciuta troppo presto. - Posso farti una domanda inelegante?
- Ho ventiquattro anni. – anticipò, lui le ammiccò per sottolineare che la risposta era pertinente.
- E Simon…
- Simon ha cinque anni, come Cody. Per cui la conclusione del ragionamento è diciannove: l’ho avuto a diciannove anni, un’indifesa ragazza madre abbandonata dal legittimo genitore di suo figlio.
- Non mi sembri indifesa!
- In effetti non lo sono mai stata. Ma preferisco sdrammatizzare per evitare di attirarmi la pietà delle persone. – Fece una pausa. – Ho cresciuto Simon da sola, in parte per scelta, è stato difficile ma niente di trascendentale, c’è chi ha affrontato difficoltà molto più consistenti.
La fissò, lisciava ostinatamente una piega del tovagliolo, forse si chiedeva se aveva detto troppo a un conoscente fra tanti. Vide rughe immaginarie attraversarle il volto, vide la sua stanchezza la sera mentre baciava il figlio addormentato, contenta di aver guadagnato lo stipendio per poter dar da mangiare a lui. Io a ventiquattro anni sognavo di fottere il mondo con una chitarra e un microfono. La vide troppo adulta.
- Scusami, non volevo in alcun modo essere giudicante.
Scosse di nuovo la testa. – E io non intendevo attaccare te. Ho fatto le cose di corsa, ma è andata bene così. – Si alzò, ritirò i piatti e tornò in tavola con altre pietanze e il suo sorriso rinnovato. Più bella, così. – Però sto parlando solo io, divento noiosa! Di’ qualcosa tu… Sposato non lo sei… Fidanzato? Innamorato?
- Innamorato sempre, ma raramente di una persona.
– Ma senti, Oscar Wilde con l’eye-liner!
- Oh, si nota molto? – Finse di sistemarsi il trucco con un polpastrello mentre ridevano entrambi.
- Certo, altrimenti non lo metteresti. Hai visto come ti guardava Simon prima?
- Pensavo fosse per le mie doti affabulatorie.
- Oppure perché gli sembrava che assomigliassi alla maestra dell’asilo.
Un sorriso storto. – Un giorno smetterò anche l’ombretto… Un giorno…
- Perché? Stai bene. Attento solo a non esagerare, potresti sviluppare un senso di competizione nella tua donna. Ma l’avrai già visto da te. – Scorciò con la mano. Afferrò un tramezzino, tornò a guardarlo negli occhi. – Quindi hai qualcuno.
- Ah, sì?
- Sì, perché svii l’argomento.
- Ragazzina impudente!
- Dai, sbottonati! – Spalancò gli occhi in un invito genuino. – Giuro di non essere un paparazzo della BBC sotto mentite spoglie.
- D’accordo. Allora… quando capita mi vedo con qualcuno.
- E quando capita?
- Ogni tanto. Mi è sembrato di sentire Cody che mi chiamava.
- Niente da fare! – Negò vigorosamente. – Però se mi dai qualche altro dettaglio potrei accontentarmi e lasciarti tranquillo. E offrirti anche un dessert.
In effetti quella schermaglia lo divertiva – il fatto che era fastidiosa come Matt lo divertiva -, e non gli dispiaceva buttare lì l’argomento con qualcuno di estraneo ai fatti e in qualche modo alla sua vita. – Mi vedo con uno. Un uomo, da qualche settimana.
Aveva calcato molto su uomo sperando che si scandalizzasse, con suo grande disappunto Marah si limitò ad annuire. – Ed è una cosa tranquilla?
- Oh, sì, cielo. Sì. – Rimarcò con vigore. – Ci divertiamo e basta.
- Com’è lui?
- … Stupido.
- Intendo… Alto, modello asiatico avvenente? Musicista anche lui? O scrittore, uno scrittore?
Soppesò la questione. – Aspirante musicista. Ha del talento, tutto sommato. Tanto. No, tanto è eccessivo. Un po’.
- Come vi siete conosciuti?
Mah, se sfogli NME è difficile non trovare un articolo su di lui. – Ad una festa, per una tragica fatalità.
Marah rideva. – Guarda che se continui così non crederò mai che è solo divertimento-tutto-sotto-controllo!
- La situazione è sotto controllo, è lui ad essere pazzo. – Si perse nei propri pensieri. – Ti dispiace se fumo?
- Figurati. Vado a dare un’occhiata ai ragazzi, non si sentono da troppo tempo. – Gli allungò un posacenere ed uscì dalla stanza. Tornò poco dopo, raggiante, gli fece segno di seguirla. – Questa devi vederla.
Cody e Simon si erano addormentati sopra il piumotto, così vicini sembravano due cuccioli che si scaldano a vicenda.
- Amore… Sarà stato esausto.
- Hanno guardato un po’ di TV e poi hanno iniziato a rincorrersi e giocare come matti. Penso siano stravolti, sì.
- Adesso lo porto via, spero di non svegliarlo.
- Lascialo dormire qui, no?
Scosse la testa, si allontanò dalla camera per poter parlare senza bisogno di bisbigliare. – Deve essere da sua madre perché domani mattina partono, vanno via per il weekend. Non voglio costringerla a cambiare i suoi piani.
- Non vuoi neanche un dolce? Prendi almeno qualcosa da bere, una birra.
- Una birra, sì. – Concesse. Dieci minuti di ritardo non avrebbero significato molto.

Marah stappò due bottiglie e gliene allungò una, c’era un che di maschile in quel gesto. Si accomodarono in salotto, e l’unione di divano, birra e sigaretta lo riportò ad una dimensione di distesa quotidianità che lo fece stare bene. Gli dispiacque aver interrotto il discorso di prima.
- Metà delle volte che sto con Matt sono ubriaco.
- Che cazzo c’entra! – Marah rideva. – … Perché?
- Perché è più facile, suppongo. Perché è un alibi a cui non crediamo né io né lui, ma ci serve sapere che c’è.
- Sembra che vi volete e poi volete scapparvi.
L’occhiata che le rivolse la trovò tristemente d’accordo. E quando non è così? Era bello parlare con lei. Sfiatò il fumo della sigaretta, si carezzò un sopracciglio. - Io ho paura che lui mi voglia. Mi voglia davvero, intendo. Che si innamori di me.
- Perché non andrebbe bene?
- Perché io non sono innamorato di lui.
- Glielo hai detto?
- Non gli ho mai detto il contrario.
- Allora direi che il problema non esiste. – Era pragmatica, Marah. – È un adulto, fa le scelte che vuole.
Di nuovo quel sorriso amaro. – Matt non sceglie, non credo ne sia capace. Sta… aspettando, che tutto vada come deve andare. Non pensa di avere voce in capitolo. Ha… - Fece vagare lo sguardo per la stanza, vide Marah sistemarsi sulla poltrona e stringersi le ginocchia al petto. – Ha una donna, incinta, e fa finta di niente. È il suo primo figlio e fa finta di niente. E viene da me.
- Avrà paura. Di quello che sta vivendo, dico. E stare con te gli fa bene.
- E che cazzo sono io? La sua crocerossina? L’amante quando va male con la sua donna?
Scosse la testa sinceramente perplessa, il suo caschetto dorato si scompose e ricompose in frazioni di secondo. – Non capisco. Non vuoi che sia una storia seria, ma se lui ti vede come un diversivo sembri offenderti. Che cosa dovrebbe fare?
- No, no. – Chiarì con un gesto spiccio della mano. – Io voglio esattamente essere un diversivo. Il punto è che Matt deve capire che io non sono la soluzione ai suoi problemi. Sistemare i casini che ha all’infuori di me e poi, se ne ha ancora voglia, tornare.
- I problemi ce li abbiamo tutti, ce li avrà sempre anche lui. Questi o mille altri.
- Sì, ma tutti ce li sistemiamo con le nostre mani, ce la facciamo da soli, per lo meno è quello che un adulto prova a fare. Invece a volte sembra come se Matt si aspettasse qualcosa da me. Come se avesse negli occhi un colossale buco nero e ti dicesse hey, dai, riempimelo tu. Io non voglio, io non c’entro un cazzo con quell’accidenti di uomo. Io posso fare a meno di lui in qualsiasi momento, deve essere altrettanto.
Marah lo guardava, pensava, parlò come se avesse capito ma si sentisse l’ultima persona in dovere di emettere giudizi. - Tu hai davvero una fottuta paura che si innamori, ma solo perché a quel punto spetterebbe a te scegliere se spezzarlo o ricambiarlo.
- Non puoi scegliere di innamorarti di qualcuno.
- È vero.
- Quindi resta solo l’opzione di spezzare.
- Solo se nel frattempo non ti sei innamorato.


Avevano chiacchierato un’altra mezz’ora, poi aveva preso Cody in braccio e aveva lasciato la casa di Marah. Mi ha fatto piacere parlare con te, gli aveva detto. Anche a me, aveva risposto, sinceramente. L’unica crepa in una serata davvero piacevole era la fastidiosa sensazione che Marah avesse ormai deciso che lui era pazzo di Matt al punto di essere preoccupato di ferirlo.
- Lascia andare le cose ora, vedi come vanno.
- Hai parlato con Matt per caso? Davvero, te lo presento, avete molte cose in comune.
Lo salutò sulla porta con il suo solito sorriso, Cody mugolava senza mai svegliarsi davvero, e lui si sentiva un po’ meno in colpa. Il tassista li depositò davanti a casa di Helena poco dopo, lei gli aprì picchiettandosi il polso mentre canticchiava gli orari, stronzo. La baciò sulla guancia, si guadagnò un ruffiano e si allontanò di buonumore. Aveva fatto aspettare il taxi, ma decise di percorrere a piedi la strada fino a casa. Distava un quarto d’ora scarso, e lui aveva voglia di camminare. E di pensare. Di pensare a qualcuno. E magari anche di parlarci. Fece un rapido calcolo. Perfetto, l’avrebbe svegliato di sicuro. Scorse rapidamente la rubrica del telefono, trovò il numero. Uno squillo, due squilli. Tanti squilli.
- ‘To.
- Ciao, Matt.
Pausa. Sicuramente ha staccato il cellulare dall’orecchio e cerca di leggere il nome sullo schermo.
- Brian?
- Sì. Come stai?
Altra pausa.
- Sdraiato con gli occhi chiusi.
- Vedo che il senso dell’umorismo non ti abbandona neanche oltremare. Dove sei ora?
Altra pausa. O la rete di telefonia mobile thailandese faceva acqua da tutte le parti o Matt era particolarmente rincoglionito.
- In Thailandia.
- Matt, ma ti sei fatto? Stai bene?
- No, Brian, io davvero non capisco, davvero non capisco, non… Qui è… - Sentì un frusciare di lenzuola, uno schiocco sordo e delle imprecazioni, infine una tenda che si apriva malamente. – Qui è notte! – Glielo confidò come fosse un segreto, e a quel punto non trattenne più le risa.
- Ti prego, dimmi che hai bevuto fino a farti scoppiare il fegato e non sei così di tuo!
- Ho fumato una o due canne al massimo, ma non c’entrano niente.
- Non sai neanche quante erano!
- Brian. Perché, anziché… ridere, non mi dici qual è il problema?
- Nessun problema. Sto rientrando a casa e mi andava di sentirti, così, di salutarti.
Pausa.
- Vai a cagare.
Quella fu la prima volta che gli sbatté il telefono in faccia. La seconda fu quando al ruggito di Matt Ho sonno rispose Ma io no. Alla terza chiamata Matt si mostrò più condiscendente, con ogni probabilità soltanto perché ormai incapace di riaddormentarsi.
- Sì, stronzo, sto bene. C’è un’umidità del centoventi per cento, ma se ci fai l’abitudine si sopravvive egregiamente.
- Fantastico. Che programmi hai per i prossimi giorni?
Pausa.
- Bri, davvero. Io prometto di risponderti, ma tu mi devi giurare sulla discografia di David Bowie che mi hai chiamato solo per sapere come sto.
- Te l’ho già detto che è così, però prova a chiamarmi Bri un’altra volta e sarà l’ultima che ti trovi le dita attaccate alle mani.
Pausa, la più lunga di tutte. Ti sento sorridere fin qui.
- Domani vado in un tempio fuori Bangkok, un’oretta di auto da qui.
- Wow.
- Non ti esaltare. Niente cagate mistiche che piacciono agli alternativi come te. Ci vado per l’itinerario descritto dal volantino. Senti qua: Vegetazione fitta, liane e serpenti esotici. Bello, no?
- Certo che sai come tranquillizzare le persone.
- … Sei preoccupato per me?
- Solo perché so che il tuo cervello funziona a intermittenza. Vedi di non morire.
- Porterò a casa la pelle, non temere.
- Devo ancora insegnarti a cantare.
- E io devo ancora vederti suonare degli accordi esistenti sulle tue meravigliose chitarre. E non vale neanche che ti abbassano il volume delle Fender quando cerchi di spaccare le orecchie a tutti.
- Mi è mancata la tua ironia sottile e discreta.
- Oh, anche a me manchi molto. Ieri camminavo per il centro di Bangkok – sterminato, bellissimo, da perdertici dentro un milione di volte – e sono finito in un mercato di tessuti di dimensioni allucinanti. Ci saranno stati cinquecento banconi con ogni tipo di stoffa, dalle sete più raffinate alla juta più grezza. Cotoni, lana di tutti i colori e le fantasie. Ho comprato di tutto, le cose più inutili. Più erano inutili più le compravo, non so minimamente che cosa me ne farò. Ma c’erano dei colori che sembravano chiamarmi, mi ricordavano delle persone, delle vicende della mia vita. C’era un sacco che aveva l’esatto colore del barchino di un vecchio pescatore di Teignmouth. Lo vedevo tutti i pomeriggi quando tornavo da scuola. Era blu, ma un blu rassegnato, che si spegneva di anno in anno, lasciando sempre più terreno al verde muschiato delle alghe. Io misuravo sulla vernice di quello scafo il tempo che scorreva, le stagioni che si alternavano e i mesi che mancavano alle vacanze. Erano secoli che non vedevo quel colore. Non sapevo neanche di ricordarlo, ma appena l’ho visto… Delle cose ti restano dentro, non lo sai ma te le porti dentro. Ho sentito il bisogno di prendere quel sacco su di me, tenermelo un po’ addosso, per sentirmi a casa. Ti ho pensato, a un certo momento. Ho pensato che volevo farti vedere quelle cose. – Rise. – Ora penso di essere un coglione.
Aveva una lacrima prepotente sulla guancia. – Mi hai visto in una stoffa?
- No, nel cielo di Bangkok. Ho alzato gli occhi e mi sono detto che     qualunque cosa tu stessi facendo era sbagliata perché dovevi essere lì, con me, in quel mercato, a respirare quell’aria.
- Di che colore era il cielo?
- Fumo. Eri il fumo, quello che cambia continuamente e non lo afferri mai.

***

- Ciao, amore. Quanto mi sei mancato.
- Papà- Ahia, mi schiacci! – Allentò un po’ l’abbraccio. – Guarda che siamo stati via solo tre giorni.
- Lo so, ma mi sei mancato tantissimo.
- Anche tu. Guarda, ti ho fatto una cosa!
Lo mise a terra e lo vide correre da Helena, che aprì il portellone posteriore dell’auto e gli allungò un foglio.
- Tieni! L’ho fatto mentre tornavamo indietro.
Era il disegno di un albero di Natale, tante palline su ogni ramo e tante scatole sbilenche accanto al tronco.
- Vieni qua, amore mio. Adesso ti rapisco e non ti lascio andare più. Ti compro un castello così grande che devi invitare cinque amici per usarlo tutto.
- Ma io ce l’ho già il castello.
- Non me ne frega niente. Te ne prendo uno più bello. Il più bello di tutti.




Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX - Trasparenza ***


Partenze IX - Trasparenza


IX - TRASPARENZA





- Ecco, entra pure. Butta le cose dove vuoi, non fare caso alla confusione e buon divertimento.
Brian aveva già gettato il cappotto sull’appendiabiti, si era seduto a peso morto sul divano e stava armeggiando con l’accendino e la sigaretta fra le sue labbra. L’ambiente era nella penombra, rischiarato solo dalla luce soffusa di una lampada. Le figure che si delineavano erano di un’ocra avvolgente.
- Wow.
- È un salotto.
- Mi piace.
- Ottimo. Ora potresti gentilmente chiudere la porta e levare quel trolley glitterato dalla mia vista?
Matt sbuffò, ma obbedì agli ordini senza troppe esitazioni. Posizionò la valigia dietro la prima porta che gli capitò a tiro, abbandonò anche la giacca e prese posto di fronte a Brian.
- Perché ridi?
- Non sto ridendo.
- Stai pensando qualche stronzata colossale, non provare a dire di no.
Matt rise davvero, scrollò le spalle mentre affondava elegantemente nella poltrona. – Posso ringraziarti di avermi invitato qui?
- Non ti ho invitato.
- Non mi hai minacciato di morte quando ti ho avvisato che sarei venuto. È quasi un invito scritto per i tuoi standard.
Si concesse un ghigno. – Vedo che stai imparando le regole. – Sfiatò voluttuosamente una nuvola di fumo. – Allora diciamo che accetto i ringraziamenti e ti dico ‘prego’.
- Posso? – Indicò svogliatamente la sigaretta, Brian gli tese il pacchetto, inutilmente. Matthew si allungò e gli sfilò la sua dalle labbra. Soffiò, si accese un’altra sigaretta, chiuse gli occhi per godersi il silenzio di quella serata. Le gambe pesavano, e così pure le braccia.
- Sembri stanco.
- Un po’.
- Vuoi che me ne vada?
- Non mi pare di averti chiesto di andartene.
- Questo non vuol dire che non vuoi che me ne vada.
- Oh, Cristo, Matt… - Si tirò a sedere in modo poco più composto, passò una mano sulla fronte sperando di rendersi più presentabile. Lo stava fissando. – Lo sai, vero, che comunque vada a finire questa… cosa…, io avrò bisogno di uno psicologo dopo?
Gli sorrise. – Scusa. Però davvero non voglio darti fastidio.
- Non mi dai fastidio. Diciamo che preferirei essere avvertito delle tue visite con un anticipo maggiore di dieci minuti, ma tutto sommato sono contento di vederti.
- È la cosa più gentile che mi hai detto da quando ci conosciamo.
- Sì, sì, ho messo in conto di pentirmene. – Scorciò con la mano. – Vuoi qualcosa da bere?
- Un po’ d’acqua, se ce l’hai.
- No, mi hanno rubato il rubinetto ieri notte.
- Okay, okay, era una precisazione stupida. Frase di circostanza.
Brian camminava a passo strascicato. – Non ti devi assolutamente sforzare di- Ahia, cazzo! – L’imprecazione era stata accompagnata da una serie di tonfi. Matt si alzò di scatto.
- Che cos’hai fatto?
- Sono inciampato nella tua cazzo di valigia, ecco cos’ho fatto!
- Ma non potevi girarci intorno?
- Ahhh, il piede… - Arrivò alla sedia, spostò il peso sullo schienale cercando di alleviare il dolore.
- Mi dispiace…
- Taci.
- Brian?
- Taci!
- Perché vai in giro a piedi scalzi? Perché non ti metti un paio di ciabatte?
- Vaffanculo.
- Davvero, dovresti metterti un paio di ciabatte.
Lo fissò basito, aprì la bocca e la richiuse. - Te le ficchi nel culo le ciabatte. – Lo oltrepassò saltellando altero su una gamba sola.
- Aspetta, dove vai… Appoggiati…
- No.
- Fermo! Metti che poi becchi un chiodo-
- IN CASA MIA NON CI SONO CHIODI, CI SONO SOLO COGLIONI CHE NASCONDONO LE VALIGIE IN CUCINA! – Piroettò su se stesso e continuò il suo percorso accidentato.

***

- Posso?
Era seduto sul letto, la schiena appoggiata alla testiera e le braccia incrociate. Si concentrò per restare serio, lo guardò di sottecchi. – Entra pure.
- Come stai?
- Meglio, grazie.
- Mi chiedevo se dovevo guardare Total Wipeout ancora a lungo o se avevi finito di far finta di essere arrabbiato.
- Mh, non saprei. Non sono convinto che sia passato un tempo adeguato.
- Penso di sì, ti ho già finito una confezione di patatine e l’hamburger che avevi nel frigo. E un paio di quei biscotti rinsecchiti nella scatola blu.
- Matt, ma hai mangiato in Cambogia?
- Thailandia.
- D’accordo. Hai mangiato in Thailandia?
- Sì, ma non immagini quanto mi sia mancato il grasso cibo spazzatura di noi Occidentali. Lì andavo avanti a roba esotica sperando ogni volta che non mi venisse una gastrite.
Rise una risata acuta. – Non fatico a crederlo! – Sbadigliò, cercò qualcosa per la stanza. - E i tuoi compagni di band cosa ne pensano dei tuoi viaggi alla ricerca di te stesso?
- Chi, Dom e Chris? – Fece spallucce mentre si sedeva sulla sponda del letto. – Loro sanno che ogni tanto sparisco. E sanno che sono i primi che chiamo quando torno.
- Quando non piombi a casa mia.
- Sì… una cosa del genere.
- Mi chiedo come facciate a stare sempre così… - Sbozzò una nebulosa gesticolando rapido, sembrava assorto nei propri pensieri. - … insieme…
- Ma chi, noi tre? Come facciamo a non stare insieme con il lavoro che facciamo?
- Nah, è diverso. – Si allungò fino al bicchiere sul comodino. - Voi siete tipo tre siamesi. Hai presente, no?, migliori amici…
- Be’, ci conosciamo praticamente da sempre, andavamo a scuola insieme… Eravamo i figoni di Teignmouth! – Chiosò tronfio.
- ... Eravate molto orrendi all’inizio. Ed è un giudizio estetico obiettivo.
- Tutti sono orrendi a quindici anni!
- Sì, ma tu e il tuo batterista sembravate due profughi malnutriti!
Scoppiò a ridere. – Potrei twittare a Dom qualche stronzata del genere!
- … Ma tu non lo lasci mai in pace quell’uomo?
- Dom? Ma scherzi?! Ci annoieremmo come morti. O la prendi così o impazzisci in due giorni. Praticamente giri per il mondo e vedi che la gente ti crede Dio. E se sei un minimo egocentrico finisci per crederci anche tu, ti lasci lusingare. Meno male che ci sono loro a ricordarmi che tutto sommato siamo solo… - Ci pensò un momento. - … tre coglioni. – Riprese fiato, sorrise. - Sono gli unici con cui riuscirei a fare qualcosa del genere. Sono le persone che ci sono sempre state e le uniche con cui avrei mai voglia di suonare.
- Mi si scalda il cuore.
- Smettila, idiota. – Gli sferrò una blanda cuscinata. – Guarda che è la stessa cosa che c’è fra te e lo spilungone.
- Forse… Non lo so. Non credo. – Cercava inconsciamente con la mano delle sigarette che non c’erano. – Io e Stefan non viviamo in simbiosi. Possiamo non sentirci per settimane. Ogni tanto capita, soprattutto se abbiamo da poco finito un tour. E non è che usciamo insieme molto spesso, non giriamo per locali a ubriacarci, non diamo feste…
- E che cazzo fate?! Trombate?
- No, Bellamy. Stef è una delle ultime persone con cui andrei a letto.
- … Bah, non è che la cosa mi interessi.
- Come no. Allora, - Si tirò in piedi, si guardava allo specchio per sistemarsi i capelli. – Che cosa vuoi fare? Se non hai mangiato tutto, di là dovrei avere ancora del cibo. Se no usciamo, non ho voglia di stare in casa.
- Veramente pensavo di andare a casa.
Si voltò a guardarlo, una ciocca di capelli neri ancora intrappolata fra due dita. – Come, scusa?
- Devo andare a casa. – Allargò le braccia a mo’ di spiegazione. – Lavare la poltiglia di vestiti che c’è nella mia valigia, avvisare quella zecca di Kate che sono vivo, riprendere contatti con il mondo che ho tagliato fuori una settimana fa.
- E ti sembrano motivi sufficienti per non cenare con me?
- Sono in piedi da trentadue ore, Brian. Devo dormire. Tanto. E ho bisogno di una doccia con tutti i crismi.
Passò in rassegna le informazioni, scartò quelle inutili. Aggrottò le sopracciglia. – La doccia c’è anche nel mio bagno.

***

Faticava a tenere gli occhi aperti, per quanto cercasse di nasconderlo a Matt. Si era anche addormentato qualche minuto mentre cambiava svogliatamente i canali della TV, ed erano stati dei minuti bellissimi. Si era illuso che il tepore che lo stava inghiottendo potesse durare, e i suoi muscoli prendersi quelle ore di riposo che continuava a negare loro. Poi qualcuno al di là dello schermo aveva iniziato a urlare, e il suo sonno leggero non aveva resistito. Spense il monitor stizzito. Si era strofinato gli occhi, aveva messo a fuoco l’ambiente giusto in tempo per vedere Matt che compariva all’ingresso della sala. Scarmigliato attentamente, bagnato di doccia, nudo ad eccezione di un asciugamano legato in vita. Assunse quella che doveva essere una posa plastica. – … Brian. Volevo chiederti, posso prenderti un altro goccio d’acqua?
Spalancò gli occhi scettico, l’altro non raccolse, così si limitò a indicargli la bottiglia davanti a sé. – Prego.
Gli si posizionò di fronte, chiuse gli occhi. Bevve diversi sorsi direttamente dal collo della bottiglia prima di espirare sonoramente. Brian era indeciso se scoppiare a ridere o assecondarlo. Idea che, tutto sommato, non gli sembrava così malvagia. Matt che girava nudo per casa sua non era tra i peggiori avvenimenti della settimana.
- Ah-ah, Brian. cosa guardi?
Riservò un ghigno al pavimento. Si fece alla sua altezza, lo guardò negli occhi, si avvicinò a lambirgli l’orecchio con le labbra. – La scia d’acqua che hai lasciato sul mio pavimento. È molto fastidiosa. – Lo superò e si avviò in cucina a passo spedito. Smanettava con qualcosa di fianco al piano cottura.
- Se vuoi posso usare la salvietta per asciugare.
- Avrei giurato che l’avresti detto.
- Penso di poterne- Ma cosa stai facendo?
C’era una candela accesa. Aveva riempito due flute di champagne e li teneva in mano. Aveva ancora quel ghigno che arrivava al cervello di Matt come adesso vediamo chi si deve trattenere.
- Bentornato, Matthew. – Fece tintinnare i bicchieri fra loro, gliene allungò uno.
- Sei un deficiente, Brian.
- Perché?
- Perché di sì! Perché non so cosa dire.
- Non devi dire un cazzo. Bevi quel calice e stai zitto.
- …
- Per favore.
Svuotò il bicchiere in sorsi rapidi, Brian sorseggiava il suo roteandolo fra le dita.
- Mi metti in imbarazzo con queste cose.
Rise. Registrò che quella risata nasale era il suono che più gli era mancato mentre era via.
- Vatti a vestire, macho. Ti prendi una polmonite, e io le medicine a letto non te le porto.

***

Poi capitò che si addormentò per davvero. Matt lo trovò sdraiato sul divano, su un fianco, respirava profondamente.
- Brian.
Nessuna risposta. Sorrise. Recuperò i vestiti che aveva lasciato in bagno, li gettò alla rinfusa nella valigia e ci si sedette sopra per richiuderla. Si infilò il cappotto, lo guardò ancora, si trattenne dal fare qualunque cosa. Uscì cercando di fare il minor rumore possibile, gli scrisse un messaggio mentre scendeva le scale. Gli sembrava di lasciarsi qualcosa alle spalle.

***

Aveva il braccio intorpidito e la schiena dolorante quando si svegliò. Non si alzò, aveva freddo ma nessuna voglia di recuperare una coperta da buttarsi addosso.
- Matt?
La cucina era vuota, così come camera sua. Chissà quanto aveva dormito, e perché accidenti se ne era andato senza avvisare. Si ricordò di controllare il cellulare, e trovò il messaggio che gli interessava.
Sì, lo so, ti devo una cena, ma dormivi così bene che non ho avuto cuore di svegliarti. Non sai la tentazione di violentarti che ho dovuto combattere.
Controllò l’ora d’invio. Era di due ore buone prima. Digitò rapido una risposta.
Potevi almeno ordinarmi da mangiare. Ho fame.
Il telefono vibrò in pochi minuti.
Ma sei ancora sveglio? Vai a letto.
Fatti i cazzi tuoi.
Oh, ora ti riconosco.






___________________________________________

Vogliatele bene qualunque cosa sia (cosetta, viste le dimensioni), son due mesi che fisso lo schermo e finalmente ne sono uscita. Non è malaccio ma poteva venire meglio. Nel prossimo capitolo FORSE finalmente succede qualcosa, mi fate un hoop-hoop tutte in coro?
Per vostra conoscenza generale: ho corretto errori elefantiaci dei capitoli precedenti, il più divertente era che Brian ha la patente. No, non guida, neanche in questa storia. Se trovate delle nuove castronerie fatemele notare con baldanza, io mi irriterò come una biscia ma a voi riserverò solo tanta gratitudine.
Tanti abbracci e baci tutti per voi!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X - Blackout ***


Partenze X - Blackout

X -
BLACKOUT





17 Marzo

- Matt?
- …
- Matt?
- …
- MATT.
- Mmm.
- Mi stai schiacciando il braccio.
- Mmm?
- Mi stai schiacciando il braccio. Vai in là, per favore.
- …
- Hai sentito?!
- …
- Matt, rotola in là. Ti do tre secondi, poi…
- …Mmm?
- Ti ficco un pugno nelle costole.
Aprì un occhio su di lui, rotolò sul fianco. – Speravo che il ‘ti ficco’ preludesse a qualcosa di più audace.
- Grazie a Dio… - Si sgranchiva la mano con movimenti circolari. – Matt?
- Sto dormendo.
- Ma tu davvero vivi bene sapendo che le prime parole che dici la mattina sono Speravo che il ‘ti ficco’ preludesse a qualcosa di più audace?
- …
- Matt?
- E che cazzo?!
- Scusa, ti lascio dormire.
Silenzio.
Silenzio.
Fruscio di lenzuola.
- Dove vai.
- Shhh, di là. Continua a dormire.
- SONO SVEGLIO.
- Scusami.
- No.
- …
- Solo se mi porti un caffè. Nudo. …Tu, non il caffè.


1 Aprile

- Mi hai rubato ancora le magliette.
- No.
- Sì. Ti sei fottuto la mia maglia blu.
- Guarda che se tieni le mani sui fianchi non fai più paura.
- Trova la mia maglia.
- Sulla sedia ci sono le mie, prendi quella che ti pare.
- Voglio la mia maglia, e solo perché mi fai incazzare quando fai sparire le mie cose.
- …Non ce l’ho, l’avrai messa a lavare.
- Ce l’avevo addosso ieri, era qui.
- Non ci ho fatto caso.
- Sì, l’ho notato. Potresti averla usata come asciugamano per l’attenzione che presti ai vestiti. Ai miei vestiti.
- Tieni. – Ruotò il trolley nella sua direzione. – Guarda se è finita qui dentro.
- Certo che è qui dentro. Come al solito. – Strattonò a sé la valigia, gli riservò uno sguardo aspro. A lungo. – …Idiota.
- Eh?
- Guarda cos’hai addosso. Sotto il maglione.
- …
- ...
- Te l’ho detto che non era nel trolley.
- …Tienitela. Ti sta bene.
- Veramente mi va un po’ larga.
- Si dice ‘grazie per il regalo’.
- È un regalo?
- …No. No, nessun regalo.


5 Aprile

. Ci vieni un weekend fuori città con me?
. Dove.
. Quando.
. Con che scusa?
. Con che mezzi di trasporto.
. Per che occasione.


6 Aprile

. Per quanti giorni.
. Perché.
. …Va bene, va bene. Ho capito, Brian.


15 Aprile

. Ci vieni un weekend fuori città con me?


24 Aprile

- Ti ho mai detto quanto mi stai profondamente sul culo, Brian?
- Sì. Un sacco di volte.
- E cosa ci fai ancora qui?
- …Dovrei andarmene?
- Sì. Offeso.
- Dovrei andarmene offeso?
- Sì.
- …
- No.


15 Maggio

- E questo che cos’è?!
Matt si grattò la testa, si sporse verso la targhetta. – ‘Casse’.
- Grazie tante.
- Si vede che era un artista poco fantasioso.
- Era un coglione. Casse, santo cielo.
Scrollò le spalle. - Magari per lui vogliono dire qualcosa.
- Non me ne frega un accidente di cosa vogliono dire. Non dicono un cazzo. E sono brutte.
- Abbassa la voce! È vuoto, si sente tutto. A proposito. – Schizzò alla porta, fluttuò nel corridoio laterale. Tornò indietro soddisfatto. – Non ci hanno seguito, sono ancora nell’atrio.
- Chi?
- Jim e Maggie.
- Chi?
- I proprietari della galleria. Sono miei amici da un paio d’anni, li ho conosciuti in Italia. Sono stati gentilissimi a tenere aperto oltre l’orario per noi, no?
- Ne facevo a meno.
- Oh, come sei noioso. La scala mobile in plexiglas era bella.
- Sì, finché leggevi che doveva essere un monumento allo sterminio della guerra di Corea!
- Nah, tu cavilli. L’arte contemporanea deve suscitare una reazione di pancia. Non ci devi pensare, non la devi capire.
- Va bene. – Lo prese per i fianchi, lo fece voltare, lo tenne stretto. – Senza capirci un cazzo, - Gli sussurrò in un orecchio. – guarda gli scatoloni e dimmi se sono interessanti o la più grande stronzata che tu abbia mai visto.
Chiuse gli occhi. – La più grande stronzata che io abbia mai visto.
- Bravo.
- Grazie.
- Hai vinto un premio.
- Che premio?
- Dopo ci penso.
- La smetti di sussurrare come una puttana?
Rise e lo lasciò voltare. – Che puttane conosci? – Lo fissò, sorrise a quel volto corrucciato. Gli afferrò le tasche della giacca. – Non ce la faccio più, andiamocene via.
Matt non si mosse. Vedeva lui e le casse sfocate alle sue spalle, così sbiadite. Pensò che avrebbe voluto baciarlo solo per rendere quell’istallazione meno disgustosa. Glielo disse. – Adesso ti bacio per rendere quest’istallazione meno disgustosa.
- Sei un poeta di quart’ordine. – Si schiacciò contro il suo volto, sentì la barba di fine giornata che spuntava. Lo baciò a fondo. Si staccò per riprendere fiato, lo baciò di nuovo, gli morse le labbra, gli strinse i capelli con una mano.
Matt se lo tirò addosso, sperando che riuscissero a fondersi anche così, malfermi su gambe molli e con il riverbero di quella luce di ospedale negli occhi. Probabilmente dall’alto dovevano sembrare due macchie scolorite su un pavimento in linoleum. Due macchie che qualcuno non si era preso la briga di cancellare. Non gli interessava, da lì sotto sembrava di vedere molto di più.
– Io non ti faccio andare via neanche se mi implori in ginocchio. Te lo giuro.
Glielo disse con i denti nel collo, lo stava stritolando e pregò che non stesse respirando per quello. La stretta sui suoi capelli si faceva più lieve, la mano si allontanò. Brian intrecciò le dita alle sue in una carezza ruvida, si staccò, si allontanò di qualche passo. Aveva quegli occhi trasparenti e una scintilla come se stessero per esplodere dalla pienezza.
- Andiamo via. Portami via.


This love's too good to last
And I'm too old to dream

Muse, Blackout





Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI - Predisposizione casuale ***


Partenze XI -
Sì, proprio sì, è un aggiornamento bisettimanale. Controllate bene che la Terra non abbia invertito il suo senso di rotazione, eh.
Grazie a chi segue e commenta : *
_____________________________




XI - PREDISPOSIZIONE CASUALE




Mi sono svegliato. Tu dormivi. Vedevo le tue costole che si sollevavano e abbassavano sotto la pelle troppo sottile. Ho guardato le tue gambe, i tuoi piedi, le tue braccia, il tuo volto anche se con un certo fastidio perché mi irrita l’idea che tu possa fare lo stesso con me quando non me ne accorgo. Annotavo mentalmente le imperfezioni che scoprivo, pensando che prima o poi ne avrei avuto bisogno. Non saprei dire quanto tempo sono stato immobile a fissarti, a sentirti respirare. Sono stato lì, nient’altro, mi facevo bastare la poca luce dell’alba per cercare addosso a te qualcosa che non sapevo. Hai schiuso le labbra per qualche istante. Io mi sono alzato, sono andato in bagno, ho guardato la mia faccia nello specchio, sono scoppiato a piangere. Ho cercato di non fare rumore premendomi una mano sulla bocca, con l’altra mi sostenevo al lavandino e ho pensato che l’avrei spaccato. Guardavo le lacrime che scorrevano sulle guance rosse e aspettavo che mi arrivassero in bocca per sentirne il sapore. Non credo di avere pensato a te in quei minuti.

Poi è passato. Mi sono sciacquato il volto con l’acqua gelata, la salvietta era a terra e l’ho lasciata lì. Sono tornato a letto, ti ho guardato di nuovo, mi sono voltato dall’altra parte. Non avevo capito. Non c’era niente da capire.

***

Gli stava baciando la clavicola, il respiro che via via si normalizzava. Chinò il volto per direzionare quel bacio sulle labbra, riuscì nel suo intento, si rilassò mentre lo baciava. La bocca di Matt era bollente quanto la sua.
- Ahhh. – Roteò il collo sul cuscino guardando il soffitto. – Sono a pezzi. Se stiamo qui altre due ore?
- Non avevi da fare dieci minuti fa?
- Eh?
- Hai detto che dovevi essere in qualche posto con qualcuno alle undici.
- Ah, quello delle chitarre. – Si passò una mano sulla fronte. – Non importa, c’è lì Tom e forse andava anche Chris. Tanto è un incontro preliminare.
- State rifacendo il guardaroba?
- L’idea è quella, ma non adesso. Doveva solo darci dei prezzi e un po’ di nominativi.
- Mh.
- … Fa niente, non era importante.
- Scusa, perché non vai adesso?
Sbuffò. – Ora che arrivo o se ne sono già andati o hanno già detto tutte le cose interessanti.
- Te le fai ripetere.
- Che due coglioni. – Si alzò dal letto di scatto, infilò i boxer e un paio di pantaloni sportivi. – Basta che non decidano niente senza di me. – Afferrò il cellulare dalla sedia, premette qualche tasto. – Ecco, mi ha chiamato tre volte. – Sbuffò di nuovo, si portò il telefono all’orecchio. – Sì, Tom… Scusami, le ho viste adesso, ma… No, mi sono totalmente dimenticato. – Scorse l’occhiata scettica di Brian, si voltò per non vedere oltre. – … Come? Ah. Ah… Grazie. … No, davvero, mi dispiace… Okay… Grazie. A dopo. – Chiuse la chiamata, fissava lo schermo con qualcosa di simile a perplessità e preoccupazione.
- Quindi?
- …
- Hanno sciolto i Muse in tua assenza?
- No, ha annullato perché né io né Chris ci siamo fatti vivi.
- Bene.
- Mi dà sui nervi. – Si riscosse, prese una maglia pulita dalla borsa a fianco del letto. – Mi dice Va tutto bene, non preoccuparti. Era addirittura gentile. Col cazzo che va bene.
- Cosa stai dicendo, Matt?
- Non lo so. Che doveva incazzarsi e non l’ha fatto. È strano. Lui è quello che si incazza per finta quando noi facciamo gli idioti, perché non l’ha fatto? Di solito mi manda messaggi pieni di insulti, ha una fantasia spaventosa.
Scoppiò a ridere. – Tu hai bisogno di qualcuno che ti tratti male per essere felice!
Si buttò sul letto con una sorta di grugnito, cercava di bloccargli le braccia mentre quello si divincolava ridendo. – Io ho bisogno di scoparti per essere felice!
- Levati, Matt! Ah, le scarpe… Levati… - Le lenzuola erano un groviglio intorno alle gambe di Brian, Matt cercava di lanciarle indietro rimanendoci impigliato a sua volta.
- Aspetta! Letto di merda… - Riuscì a infilare una mano sotto quell’ammasso di stoffa, afferrò un fianco di Brian e se lo tirò più vicino.
- Sei un porco! – Aveva il fiato corto per il troppo ridere e le carezze decise che Matt gli stava rivolgendo.
Il telefono squillò.
- … Ma non è possibile! Ho rimesso la suoneria trenta secondi fa!
- Vai a rispondere! – Finalmente si liberò dalla presa, sussultava mentre si metteva seduto. – Questo è Kirk che ha deciso di essere stato troppo buono.
- Vuoi che metto il vivavoce per le parolacce?
- No, grazie, attento solo a non eccitarti troppo.
Gli fece un gesto osceno che non colse, guardò l’apparecchio. – Ma cosa…? Pronto. …Ciao. – Iniziò a camminare, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Brian si vestì rapidamente, sistemò la confusione che invadeva la sua camera ad ogni passaggio di Matt. Andò in salotto e vide che Matt era ancora al cellulare, uscì sul balcone per non disturbarlo. Lo sentì arrivare poco dopo, aveva un’espressione vacua sul volto.
- Kate è stata male.
- Cosa?
- Non ho capito bene, mi ha detto che è stata male.
- … Era lei?
- No, no, sua madre. Ha detto che ieri è quasi svenuta. Ha avuto un mancamento, una cosa del genere.
- Ma sta bene?
- Sì, sì. È stato solo un momento, pare. Non mi ha neanche voluto avvisare. Goldie ha detto che non sa che mi ha chiamato, le ha detto di non dirmi niente perché non è nulla di importante. – Torturava la balaustra con le mani. – Non so, io vado là… Magari non è niente, però mi sta sul culo che minimizzi così, senza dirmi nulla. Mi taglia fuori. Scusa, se sta male perché io non dovrei saperlo?
- Non so, Matt… Hai detto che non ha propriamente perso i sensi, magari non è stato davvero nulla, un momento di debolezza… Si è fatta vedere da un dottore?
- Non lo so! – Allargò le braccia. – Non so un cazzo, io! Sono un cretino qualunque che non ha diritto di sapere come sta!
Lo guardava, muoveva lo sguardo frenetico da una parte all’altra. – Vai a trovarla, allora.
Si fermò. – Non lo so, magari è una cosa stupida. Magari sto ingigantendo tutto perché sono lontano.
- Vai là, vedi che va tutto bene e ti metti il cuore in pace. Avrà avuto un calo di zuccheri, cazzo, non un’emorragia. Parlale di persona e vedrai che è tutto a posto.
Fissava il pavimento, scosse la testa. – È la stessa cosa di settimana scorsa. Era in bagno con la nausea e neanche me lo avrebbe detto, se non fossi entrato per caso. Io non capisco perché debba fare la persona orgogliosa.
- … Quindi era qui settimana scorsa.
- Sì… - Parve ricordarsi di qualcosa improvvisamente, lo guardò per un momento con un’aria colpevole, parlava rapido. – Sì, scusa, non te l’ho detto… Era per quello che – Sai quando mi hai chiamato? Era lì e…
- Non me ne frega niente. – Cercò di sciogliere la tensione che sentiva lungo la spina dorsale. – Non sei tenuto a dirmi niente di Kate, come ti ho già detto non mi importa nulla di lei. Di voi due, intendo. Spero che lei stia bene, tutto qui.
- … Okay.
- Comunque immagino che se le dedicassi un po’ più d’attenzione non avrebbe problemi a dirti cosa le capita mentre non ci sei.
Avrebbe giurato di notare un moto di stizza sul volto di Matt. Ad ogni modo non disse nulla, lo guardò un secondo di troppo. – Sì. Preparo le cose e vado subito in aeroporto. Spero di trovare un posto sul primo volo disponibile.
Lo seguì in camera, lo guardava raccogliere i vestiti alla rinfusa, recuperare dei fogli dalla scrivania e un libro che si era portato da leggere.
- Stai tranquillo, vedrai che va tutto bene.
- Lo spero. – Si strattonò la tracolla sulla spalla, aspettò che gli facesse strada verso l’ingresso. – Bene… Ciao. Mi dispiace, non erano questi i programmi che avevamo.
- Non importa.
- Non vorrei andarmene.
- Non importa.
- Okay.
- … Fatti vivo. Fammi sapere se è tutto a posto.
- Sì. – Lo guardò, guardò la porta che teneva aperta, poi lui di nuovo. Lo oltrepassò. – Ciao.

***

Quella sera non gli aveva fatto sapere niente, il giorno dopo neppure. La mattina di martedì controllò per l’ennesima volta il telefono. Lo rigirò fra le dita.

. Tutto bene?

Giovedì gli aveva risposto Domani ti chiamo. Domenica l’aveva chiamato davvero, urlava addosso al cellulare piangendo dalla gioia. Gli parlava di ecografie che non poteva vedere, diceva che era la cosa più allucinante che gli fosse mai successa.
- È la cosa più bella del mondo. – Sfiatò profondamente, rise, Brian pensò si fosse appoggiato a un muro. – Non lo so, è come… Tutto quello che ho fatto doveva portarmi qui, sono sicuro.
- Sono felice che vada tutto bene.
- Sì, cazzo! Voglio restare qui tutta la vita. No, no. Devo portarmi Kate in Inghilterra. È la cosa migliore, lei me l’aveva proposto da subito, in effetti.
- Perché lei è intelligente il doppio di te.
- Ehi. – Non poteva vederlo sorridere, ma era certo lo stesse facendo. – Mi sei mancato.
- … Prescindendo dal fatto che non ti credo, non in queste circostanze, non sono sicuro sia una buona cosa.
- Davvero! Quando sono felice, io… Mi sei venuto in mente un sacco di volte.
- Matt, senti… Non devi pensare a me quando non ci sono.

Non devi pensare a me quando sei con Kate.

- Mi sembra sciocco, e sinceramente lo trovo piuttosto fastidioso.
- … Scusa. Era una cosa stupida, così per dire…
- Lo so.
- …
- …
- Brian, ho davvero voglia di vederti.
- Anch’io. – Si morse un labbro. – Però mi sembra che hai altro da fare.
- Settimana prossima dovrei tornare. Devo sentire Kate per i preparativi, magari ci vorrà qualche giorno per spedire tutto… Poi dipende se starà bene e potrà viaggiare.
- Immagino di sì.
- … Ti chiamo quando torno.
- Va bene.
- Ti va? Ancora, intendo. Non ti dà fastidio.
Lanciò il mozzicone di sigaretta sulle piastrelle del balcone, lo schiacciò e lo calciò via. – Fastidio non è la prima cosa che mi viene in mente quando scopiamo.
- Questo cosa vuol dire?
- Niente. – Sfiatò. Aveva promesso a se stesso che non sarebbe mai rimasto imbrigliato in quel discorso. – Non vuol dire niente. Chiamami quando torni, non ci sono problemi.
- … Okay.
- Ciao, Matt.

***

Mi sono svegliato. Tu non c’eri. Vedevo comunque le tue costole che si sollevavano e abbassavano sotto la pelle troppo sottile. Ho pensato alle tue gambe, ai tuoi piedi, alle tue braccia, al tuo volto anche se con un certo fastidio perché mi irrita l’idea che tu possa fare lo stesso con me senza che io lo sappia. Sono stato attento a ricordarli più imperfetti di quanto in realtà non siano. Ho visto il tuo braccio circondare le spalle di Kate, e lei dormire con la testa sul tuo petto.
… Non è per Kate. Non è neanche per tuo figlio. Siamo io e te, Matt. Noi. E le nostre vite che mi sono accorto di non saper lasciare fuori.


And from your corner you rose
To cut me down

Mumford & Sons, Holland road



Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII - Liberi ***


Partenze XII - Liberi


XII - LIBERI



Stava esplorando quella libreria da un paio d’ore, aveva preso in mano e rimesso a posto almeno una dozzina di DVD, disinteressato completamente ai film che contenevano, disinteressato completamente, in realtà, a quel luogo. Si decise a comprare una raccolta di poesie di Walt Whitman, era sicuro di averne una in casa ma non riusciva a ricordare dove. Questa sarebbe rimasta bene in vista, si promise, finché non fosse stata ricoperta da altri tomi più o meno ingombranti. Pagò, si avviò all’uscita, si accorse di non avere nessun progetto per le immediate ore a venire. Fece un ultimo giro per il negozio. Uscì solo una volta convintosi che la noia all’esterno sarebbe stata inferiore a quella che lo aveva assalito lì dentro. Sbuffò la sua insofferenza a quelle giornate inutili.

Era maggio, faceva caldo. Entrò in un bar per ingoiare un caffè, decise di tornare a casa dove non avrebbe dovuto fingere di avere voglia di fare qualcosa. Girò le chiavi nella toppa, si premurò di non fare rumore come se ci fosse davvero qualcuno ad aspettarlo, magari addormentato sulla poltrona. Si sedette compitamente sul divano, fissò quella poltrona. Si prese la testa fra le mani, era pesante di tutte le cose che non c’erano e lo infastidivano proprio per questo. Venne a patti col fatto che Matthew fosse la prima di queste.
Si chiese se gli mancava. Si rispose di sì, ma se fosse stato lì probabilmente lo avrebbe cacciato via. Gli mancava avere un motivo per controllare il cellulare ogni dieci minuti, vedere se lui gli avesse scritto qualche allusivo invito a cena, progetti campati in aria a cui stava lavorando o anche solo inconcludenti informazioni che aveva raccolto dal notiziario della BBC. Gli mancava rispondergli a tono per la primitiva soddisfazione di avere ragione, finire comunque a ridere ogni volta che stavano insieme. Realizzò che non sapeva molto di Matt, e che quello che sapeva era discretamente banale. E che, sì, se ce lo avesse avuto davanti gli sarebbe piaciuto avere la forza di mandarlo via.
Si chiese se fosse innamorato di lui. C’era sempre un istante preciso, nelle sue relazioni, in cui si poneva questa domanda, e provava in modo piuttosto sincero a rispondersi. … Forse sì, tutto sommato era probabile. Tirò le labbra in un sorriso. Non se ne era accorto spesso, e aveva lasciato sfumare quelle che avrebbero potuto essere grandi storie. Un po’ per reale disinteresse del momento, un po’ per pigrizia, un po’ perché amava innamorarsi di quello che avrebbe potuto essere. Qualche volta, poche, riconosceva i sintomi in tempo, ma quelle storie scivolavano via comunque, e forse non aveva mai provato a fermarle davvero. Si chiese se rispondere a quella domanda avesse realmente qualche valore.

***

- Cody, ormai stai passando più tempo qui che con la mamma o con me. Non sono molto contento.
Non l’aveva neanche salutato, ma il bambino si precipitò ad abbracciarlo dando prova di non badare affatto a quello che gli aveva detto.
Marah gli chiuse la porta alle spalle. Sorrideva, come sempre. – Nessun problema, a noi fa piacere.
- Lo so, è a me che non fa piacere. – Scorciò con una mano. – Cody, fila a prendere lo zaino. In fretta.
Suo figlio spalancò gli occhi, si voltò verso Simon e si scambiarono degli sguardi terrorizzati, corsero in camera con l’evidente consapevolezza che tirava una brutta aria.
Brian si chiese se fosse il caso di scusarsi con Marah. – È un periodo di merda. – Chiosò in un tono che sperò essere conciliante.
- L’avevo intuito. – Incrociò le braccia, si appoggiò alla parete. Lo faceva spesso. – Problemi con il lavoro? O…
- No.
- … Con il tuo uomo?
Sentì una fitta all’altezza delle tempie. – Matthew. Non è il mio uomo. Non credo che ci rivedremo presto.
- Cos’è successo?
- È… tornato con la sua fidanzata.
- In che senso? Si erano lasciati?
- No, ma pare essersi deciso a stare con lei in modo sensato. Di fatto stavano insieme anche prima. Sono in America, credo. O forse qui a Londra. Per la verità, idiota com’è potrebbe avere comprato una villa in Australia perché vuole crescere il bambino lì.
- … Mi dispiace.
- A me no. Non lo so. Penso solo che mi dia fastidio. Non so neanche bene cosa, visto che in pratica l’ho buttato io fra le braccia della sua donna. – Rise. – Non ci sto capendo un cazzo.
- Ti va di parlarne?
- Non più di così, no.
- Ti farebbe bene.
Marah era immobile, le mani alla parete, incrociate dietro la schiena. Lo guardava e Brian si chiese per la prima volta se il suo interessamento fosse sincero.
- … Magari a cena?
Decisamente più sincero.
- … Non credo sia una buona idea.
- Perché?
La fissò, attese qualche secondo, schioccò la lingua. – Perché è un invito facilmente fraintendibile.
Rise. Finalmente si scollò da quel muro e da quella situazione innaturale. – Non credo che ci sia niente da fraintendere.
Arrivarono i bambini, Cody già vestito di tutto punto e silenziosissimo. Marah disse qualcosa di divertente e i piccoli risero. Aprì la porta, salutò con la mano mentre uscivano.
- Ciao, Brian. Buona fortuna.

***

Matthew è tornato a Londra. Lo ha fatto in sordina, per quanto gli è stato possibile, ma mi sono bastati pochi mesi a contatto con lui per capire che è una mina vagante, volente o nolente. Immagino più nolente. Ad ogni modo non riesce ad essere invisibile, e le spese le paga chi di volta in volta gli è vicino. O chi crede di esserlo.
Vagavo per una grande via del centro città, ho svoltato in un vicolo laterale infastidito dalla troppe persone. Sono passato accanto a un’edicola. Mi sono bloccato in mezzo al marciapiede. L’edicolante stava posizionando dei grandi poster pubblicitari a lato degli stand, e uno di questi  informava a grossi caratteri che eri stato avvistato a Piccadilly con la tua compagna, Kate Hudson, incinta di otto mesi di tuo figlio. C’era anche qualche foto. Detestabili scatti rubati mentre cercavate di coprirvi, ma tutto sommato direi ben riusciti. Nitidi.
Ho distolto lo sguardo, sentivo la nausea che montava e l’immediato bisogno di appoggiarmi a una panchina, a qualcosa, per riprendere contatto con la realtà che vedevo ruotarmi intorno. E non perché mi veniva sbandierata in faccia la tua felicità senza di me. No. Solo, leggevo quelle parole e mi sembrava stupidamente che parlassero di me. Ritrovavo tra le righe del tuo flirt mal gestito il modo in cui ci siamo incontrati, le tue fughe americane diventavano tutte le notti in cui non abbiamo dormito, la tua faccia rossa di alcool addosso a me affiorava in quello stesso sguardo con cui sorridevi a Kate mentre cercavi di nasconderla dietro una busta di plastica. Eravamo lì, in tutti quei chiaroscuri, eppure eravamo così lontani. Irraggiungibili. Mi sono odiato con tutta la forza che ho trovato, ti ho detestato come non avevo mai fatto. Me lo sono confidato fissando un manichino spoglio: avrei preferito non averti mai incontrato.

***

Il campanello ronzò un paio di volte. Matt l’aveva avvisato del suo arrivo con un perentorio Sto venendo lì. Ma lui non aveva ancora deciso se voleva vederlo. E intanto la porta restava chiusa.
Altro ronzio, insistito. Si mosse verso l’uscio.
- Brian, cazzo! – Gli si buttò addosso immediatamente, lo abbracciava con urgenza. – Pensavo non ci fossi. – Si teneva al suo collo, si era separato il tanto che bastava per guardarlo negli occhi. Iniziò a baciarlo. Senza indecisioni, un bisogno fisiologico che non soddisfava da troppo tempo. Si premette contro di lui, facendolo arretrare. Era euforico. – Ho piantato Kate a casa. Le ho detto che cercavo un mobile per il bagno. Prima di tornare devo trovarlo davvero! – Rideva e lo baciava e cercava di arrivare al divano.
Brian non sentiva quello che diceva. Non era sicuro che Matthew fosse entrato in casa, non era sicuro che qualcuno lo stesse stringendo cercando di spogliarlo, non era sicuro che fossero sue le braccia che vedeva pendere inerti lungo i fianchi. Aveva la testa leggera, non riusciva a capire se stava rispondendo ai baci. Gli arrivavano suoni ovattati, Matt sembrava parlare da molto lontano. Lo fece stendere supino, di questo se ne accorse.
- ... Da tre giorni. – Continuava inarrestabile, posizionandosi sopra di lui. – Divento padre! Non so ancora dove lo faremo nascere, ho voglia di fare un sacco si cose! Scriverei dalla mattina alla sera in questi giorni. Manca poco!– Si chinò sulle sue labbra, cercò una risposta che non arrivò. Lo studiò, gli sorrise. – Cosa c’è?
Prese respiri profondi, registrando gradualmente quello che stava accadendo. Lo scostò con un braccio, si mise seduto e si passò una mano sul volto.
- Brian, che cos’hai? – Matt era seduto accanto a lui, la preoccupazione li stava riportando nella stessa dimensione.
Lo guardò, non fece nulla, non ne sentì il bisogno.
- Stai bene?
- Matt… Che cosa dici. – Sputò come una preghiera. Per un momento sperò davvero che l’altro scoppiasse a ridere, lo salutasse e uscisse da casa sua. Forse così avrebbe potuto farcela.
- Ma cos’hai?!
- Vattene via.
- Cosa?
- Vattene via, Matt… Ti prego.
- Cosa cazzo stai dicendo?! – Urlò per compensare i suoi sussurri. Brian finalmente si riscosse.
- Vai via. Ti sto dicendo che devi andare via.
Spalancò gli occhi. – Perché.
- … Ma ti sei ascoltato? Hai una vaga idea di quello che dici? Divento padre. – Si alzò, lo spintonò perché facesse altrettanto, gli pressava  ripetutamente la spalla attendendo una reazione. – Sono felice che diventi padre. Vai da tuo figlio, staranno sentendo tutti la tua mancanza.
- Ma cosa-
- FUORI!
- Sei pazzo! – Si fece alla sua altezza per fronteggiarlo, livido almeno quanto lui. – Cosa diavolo ti è preso? Cos’è questa messa in scena squallida?
- Tu sei squallido! Io non voglio sapere niente della tua cazzo di vita, non puoi venire qui a raccontarmela!
Gli rise in faccia. – È una scenata di gelosia! Lo sai che è una scenata di gelosia, Brian?
- No.
- Sì, ed è la cosa più stupida che hai fatto da quando ci conosciamo. Non ti ho mai messo in competizione con Kate, hai fatto tutto da te.
- Non è gelosia. Non sono capace di essere geloso di nessuno, Matt. Sono stanco. – Calcò la parola, cercando di ricondurre la conversazione ad un livello che non prevedesse urla dissennate. – Stanco del tuo egocentrismo camuffato da spontaneità, stanco dei casini in cui coinvolgi chi ti sta accanto. E non sto parlando solo di me. – Fece una pausa. – Ho capito come funziona con te, non intendo stare ai tuoi comodi quando hai voglia di sfogarti.
- Quando ho- COSA FAI. – Lo bloccò mentre si voltava per allontanarsi. – Non provare neanche a fingerti offeso perché giuro che ti prendo a pugni. Non ti ho mai mancato di rispetto. Mai.
- Non l’ho mai detto.
- Hai detto che vengo qui solo per sfogarmi.
- Tu vieni qui per sfogarti.
- Non fare la vittima, te l’ho già detto. Ti piace quanto piace a me. Ma a me non costa niente ammetterlo mentre per te è uno smacco.
- Stronzate.
- No, è tutto qui il problema! – Rideva, allargò le braccia. – Appena ti accorgi che le tue belle parole sul non coinvolgersi, sul tenere i problemi fuori dalla porta sono delle idiozie irrealizzabili ti togli dai giochi, ti allontani. Hai una paura fottuta, Brian.
- Non ho paura di te. - Lo afferrò per un polso, cercò di schiacciare le ossa tra le sue dita. – Sei ridicolo. Sei un ragazzino che scappa dalle responsabilità perché non è in grado di badare neanche a se stesso. Aspetti un figlio da una donna di cui forse adesso inizia a importarti qualcosa. Calpesti le persone che ti stanno accanto non accorgendoti neanche che ci sono. Non hai scrupoli nel prenderti quello che ti vuoi prendere, e sei anche bravo a simulare i rimorsi che non ti vengono. Sei patetico. E io sono più stupido di te per averti creduto. – Lasciò la presa, tentò di concentrare l’odio che sentiva in un unico sguardo, lo lasciò solo in mezzo alla sala mentre si appoggiava al tavolo, di spalle.
- Hai ragione. – Ammise calmo. – Quando dici che faccio di tutto per ottenere quello che voglio. È vero. Io volevo te. Sono venuto qui, te l’ho detto, ti ho avuto. E tu questi processi lineari non li capisci. Tu devi complicare tutto, devi fare finta di odiarmi, devi respingermi per mantenere quella tua dannata aria superiore a cui non crede nessuno. Sei un codardo. – Pausa. - E hai ragione anche su un’altra cosa. Sono un ragazzino. No! Sono un bambino al parco divertimenti! Mi sono divertito senza investire nulla, ho avuto del buon sesso e niente complicazioni! Chi non lo farebbe? Eh? Chi non lo farebbe, Brian? Chi andrebbe oltre questo? – Gli occhi pulsavano, le spalle di Brian si sollevavano ed abbassavano. - … Chi rischierebbe di vedere in questa storia qualcos’altro? – Inspirò a fondo, mosse un passo verso di lui. – Sono un ragazzino egoista, è vero. Ma sai qual è il problema dei ragazzini egoisti? Cambiano idea ogni minuto. Vogliono sempre giochi nuovi perché con quelli vecchi si annoiano. – Cercò di trapassarlo con lo sguardo. – Ci metto un attimo a trovare un altro come te.
Restò immobile, non c’era nessun rumore al di fuori del respiro atono di Brian. Pregò che si girasse. Rimase voltato.  
- Esci da quella porta. Non ti azzardare a tornare. Non ti voglio rivedere.

***

Stef non ha una parte rilevante in questa storia. A dirla tutta, Stef non ha quasi mai una parte rilevante nelle mie storie. Però c’è sempre, e c’è stato anche questa volta. Mi ha aperto la porta di casa, mi ha guardato sorpreso lì sul ballatoio, mi ha chiesto che cazzo era successo. Non ho risposto. Ha sfiatato premendosi gli occhi con due dita.
- Perché tu non impari mai niente dalla vita, Brian?
Sono entrato, mi sono preso il suo letto, non ho detto un parola se non dei ‘grazie’ fasulli quando mi portava cibo che sapeva non avrei mangiato e bicchieri che sapeva non avrei svuotato. Ogni tanto si avvicinava alla porta senza entrare, cercava di capire se dormivo senza avere il coraggio di appurarlo chiamando il mio nome. Non piangevo, non gridavo, non facevo nulla. Mi dimenticavo di respirare finché non sentivo una forte pressione in corrispondenza dello sterno. Non pensavo a niente.
Mi sono alzato dopo un lasso di tempo indefinito. La sveglia proiettava 4:57 sul muro e mi sono chiesto che importanza avesse saperlo. Ho raggiunto Stef in salotto, stava leggendo un volumetto smilzo ma ha sollevato la testa appena mi ha percepito nel suo campo visivo. Non ha aperto bocca. Sapeva già che mi sarei messo il cappotto in silenzio, che gli avrei chiesto “scusami” non sentendomi per nulla in colpa e che mi avrebbe risposto “e di cosa” domandandosi quando avrei smesso di ridurmi in quello stato. Sapeva già che ce l’avrei fatta. L’ennesima volta. E ce l’avrei fatta perché ero di nuovo in quella casa ad articolare parole inutili per ricevere rassicurazioni inutili. Sarei andato avanti senza di te come ero andato avanti senza chiunque altro. Eri un dolore come un altro che sarebbe diventato un racconto come un altro e poi un ricordo sbiadito come milioni di altri. Siamo i soliti fantasmi che tornano, Matt. Ci bisbigliamo all’orecchio che abbiamo un qualche potere sulle nostre vite, che la rivoluzione è dentro di noi e possiamo attuarla quando vogliamo. Ecco, siamo stati un tentativo di questa rivoluzione, fallito e concluso con più dolore di quanto avessi messo in conto. E nell’abbraccio di Stef ho avvertito che non restava altro da fare che tenere insieme i pezzi e andare avanti, una volta di più. E ho avuto paura, perché ho capito che mi avevi portato via anche il diritto di cadere.


Get me out of this place
Get me out of this town
Before I drown in your deep pink water
I won’t remember your face
I can’t remember your frown
Because I’ll drown in your deep pink water

Indochine ft. Brian Molko, Pink water






________________________

... L'allegria delle feste! Davvero, mi scuso, più rileggo e più correggo, alla fine mi stavo pure mettendo a dire coraggiocoraggio a Brian, è bene finirla qui. 
Quello che vi può interessare è che dovrebbero mancare due capitoli più un epilogo; noi si è in dirittura d'arrivo, e io sono felice.
Grazie di cuore, buonissimo Natale e il miglior 2013 a cui possiate pensare.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII - Solo per un po' ***


Partenze XIII - Solo per un po'


XIII - SOLO PER UN PO’




Maggio si era concluso senza note di colore, giugno era trascorso nell’anonimato dei mesi di transizione verso qualcosa di confuso. Mangiava, dormiva molto meno del solito, aveva energia più di quanta fosse disposto a spendere, dedicava a suo figlio tutte le ore che gli aveva negato nei due anni precedenti. Quando era con lui riusciva a scrollarsi di dosso l’anestetico che sentiva in circolo, almeno per un qualche momento della giornata. Cercava di mostrare a Cody una gratitudine che a una persona di sei anni non può essere spiegata con abbracci prolungati e il risultato che il bambino si divincolava stropicciando la faccia e sottolineando che stava diventando come la mamma.

Avevano accettato un’offerta vantaggiosa da parte di una casa automobilistica, un mucchio di soldi per un concerto in Germania. Niente marketing in cui sarebbero rimasti invischiati, gli assicurarono i suoi manager. Non se ne curò, diede il proprio consenso senza nessuna difficoltà e si disinteressò della cosa il più a lungo possibile. Stef propose due date di riscaldamento, e lui si accollò anche quelle mentre già usciva dalla stanza. Si erano visti un paio di volte per provare qualche pezzo e abbozzare un’idea di scaletta, senza concludere granché. Aveva annunciato di voler eliminare The bitter end ed era riuscito a farli ammutolire entrambi, Steve aveva sgranato gli occhi.
- Brian, che cazzo stai dicendo?
- Almeno Meds. Vi prego, almeno Meds togliamocela dai coglioni. Non ce la faccio più.
- … Cosa?
- Brian. – Stef lo guardava, impassibile. – Non puoi. Lo sai benissimo. Non dobbiamo fare niente di eccezionale, leviamo un po’ di Battle for the sun e basta.
- Va bene. Decidete voi. Va bene.
- Posso parlarti un momento?
Steve spostò lo sguardo dall’uno all’altro, prima di posarlo sul pavimento.
- … No. Scusa, hai ragione. Solo… sono stanco, ho bisogno di stare da solo. Facciamo come dici tu, sono d’accordo.

Andò da Stef un paio di giorni più tardi, si divisero una mezza dozzina di birre e ringraziò che l’amico fosse abbastanza ubriaco da non accorgersi di quanto stesse male. Lo sentiva riproporre un'altra volta improbabili aneddoti degli anni Novanta pretendendo di divertirsi come ad inizio carriera. Ridevano delle risate scomposte.
- Stef! Stefan! Ci pensi mai a come sarebbe stato se non ci fossimo incontrati?
- No.
Continuarono a ridere, Brian sentiva le lacrime che gli scorrevano lungo le guance e il collo, non le tratteneva. Gli si buttò addosso, lo strattonava come se volesse strappargli una risposta che l’altro non poteva dargli, lo sentiva singhiozzare insieme a lui.
- Vaffanculo! Stef, vaffanculo!
Stef lo stringeva, lo cullava in un modo grezzo mentre lui sentiva la rabbia montargli dentro, gli mancava l’aria, pensava che non ce l’avrebbe fatta, pensava che ti fotti quando ti innamori la prima volta a tredici anni e nemmeno te ne accorgi, e dopo puoi raccontarti tutte le stronzate a cui riesci a pensare ma la verità è che per tutta la vita cercherai di tornare a quel punto e riprenderti quella cosa e capirla per una volta, una volta soltanto, prima che ti abbia già buttato sul pavimento. Pensava che ci era passato troppo spesso per essere ancora lì. Pensava chi cazzo fosse Matt Bellamy per fargli questo.

Il problema era la sera. Quando Stef non c’era. Quando non c’era Cody. Quando nessuna distrazione lo colpiva, e invece lo investiva la certezza di non avere bisogno di nessuno di loro. Quando sentiva il cellulare vibrare e aveva la nausea alla sola idea di prenderlo in mano. Matt aveva resistito tre settimane senza cercarlo. Poi qualcosa si era spezzato.

14 giugno
3 chiamate senza risposta: M.

15 giugno
5 chiamate senza risposta: M.
. Rispondi. Per favore.

16 giugno
3 chiamate senza risposta: M.
. RISPONDIMI, CAZZO.

17 giugno
. Brian, io non ci vengo lì a supplicarti, adesso ti chiamo e giuro che è l’ultima volta, rispondi a questo cazzo di telefono.
1 chiamata senza risposta: M.
. Vaffanculo, Brian.

25 giugno
. Non ce la faccio più. Non so cosa devo fare, dimmi cosa devo fare.
1 chiamata senza risposta: M.
. Ti prego. Ho detto un sacco di cose che non pensavo. Ti prego.

26 giugno
. Io non ce la faccio. Dimmi qualcosa perché io così non ce la faccio.

28 giugno
. Mi dispiace. Per tutto.

L’ultimo fece un po’ male. Perché sapeva di finale, perché era un pugno nello stomaco che preludeva al nulla quando lui al nulla non era sicuro di essere pronto.

***

Marah gli aveva scritto diverse volte. Messaggi tutti uguali, inviti a recuperare Cody uno dei tanti pomeriggi in cui il bambino era a casa dell’amico. Li girava a Helena senza nemmeno finire di leggerli, scriveva a lei passo dopo da te e a Marah scusa, ho un impegno. Si chiese perché non avesse voglia di rivederla e se lei desse peso alla cosa. La risposta gli arrivò dopo l’ennesimo rifiuto che le rivolse.

. Se è per la storia della cena, ti chiedo scusa. Non volevo imbarazzarti, sul serio. Passa a prendere Cody quando vuoi.

Evitò di risponderle, non per scortesia ma perché davvero non gli importava niente di Marah e di quello che pensava di lui.

Si risentirono tempo dopo, quando la notizia della nascita del figlio di Matt lo raggiunse. La consueta notizia scritta con delicatezza da giornalisti che si profondono in auguri a gente che non conoscono, il consueto trafiletto laterale sulla home di un sito web musicale. C’era una foto a colori tenui di Kate e del figlio, minuscolo. Brian ci cliccò sopra, lesse il sobrio commento di Matt e l’articolo che corredava l’immagine. Scoprì che la coppia era fidanzata ufficialmente dalla fine di aprile, chiuse la pagina con un senso di schifo verso la morbosità che trovava nel venire a conoscenza di quelle date. Uscì per fare la spesa dimenticando di serrare la porta.
Avrebbe voluto invitare Marah a uscire in quel momento. Avrebbe potuto dire di aver agito d’istinto, avrebbe potuto incolpare Matt e le coincidenze per cui si trovava quotidianamente ad affrontarlo. Sarebbe stata una vendetta tanto comprensibile quanto banale, si sarebbe trovato molto magnanimo nei propri confronti. Invece non lo fece. Si disse che l’avrebbe chiamata. Ci rifletté qualche giorno. Pensò che fosse una buona idea e che doveva scusarsi per la maleducazione che le aveva dimostrato. Attese un momento in cui fosse particolarmente rilassato, svuotato di tutto. Le telefonò esordendo con un laconico L’invito a cena è ancora valido? con cui riuscì a provare un poco di disprezzo per se stesso, Marah scoppiò a ridere e disse che lo dava per morto e che sì, sì, l’invito era ancora valido. Si accordarono su luogo e orario e si diedero appuntamento da lì a pochi giorni. Brian chiuse la comunicazione sentendosi sollevato.

***

- Ciao.
- Ciao.
Marah portava i capelli raccolti con delle forcine, un trucco chiaro le metteva in risalto gli occhi azzurri. Indossava un abito nero sopra il ginocchio cui aveva abbinato un paio di decolté a tacco alto, una stola celeste le riparava educatamente le spalle dall’aria fresca delle estati londinesi.
- Sei molto bella.
Sorrise sincera. – Grazie.
- Entriamo? Spero che ti piaccia, è un posto tranquillo.
- Figurati, non ti preoccupare.
Scelsero un tavolo accanto alla parete, scambiarono qualche parola prima che il cameriere passasse a prendere le ordinazioni, continuarono a chiacchierare in tranquillità mentre i piatti arrivavano e venivano ritirati. Marah era una di quelle persone che parlano parecchio senza risultare fastidiose, raccontava dell’ufficio e dei film che aveva visto senza soluzione di continuità, evitava di interpellarlo, per quanto possibile, leggendogli sul volto una grande stanchezza. Brian interveniva di tanto in tanto, commentando e rivolgendole qualche domanda. La guardava e si chiedeva come fosse possibile che due mondi così diversi come i loro avessero finito per collidere.

Lasciarono il ristorante che era ancora molto presto. Le chiese cosa volesse fare e si trovò un grande sorriso a rispondergli, corredato da un bere, bere! mentre la donna già valutava i locali adatti. Ne scelsero uno nella via adiacente, Marah avanzava rapida e sembrava avere deciso che fosse giunto il momento di far virare la serata verso il buonumore. Ridevano entrambi all’ingresso del pub, presero posto su una panca imbottita di fronte a un tavolino striminzito. Dopo un paio di drink Brian faceva l’imitazione del suo tecnico del suono in tour – il mio gorilla, lo chiamava -, dopo altri due la loquela cedeva il posto ai sussurri e alla voce roca. Marah si appoggiò alla sua spalla, inizio a dire qualcosa che non sentì perché aveva preso a percorrerle il collo con una scia di baci. Lei gli mise una mano tra i capelli e lo costrinse ad alzare il volto, si fece baciare sulle labbra, senza fretta.

Quando si allontanarono dal locale la teneva per mano ed era felice di avere quell’aggancio alla realtà. Arrivarono sotto casa di Marah e la baciò di nuovo, lentamente. Le accarezzò una guancia prima di depositare un bacio anche lì.
- Vieni su?
Aprì il portone d’accesso al cortile, percorsero il vialetto di ghiaia e arrivarono all’edificio. Nessuno dei due parlò in ascensore. Marah fece scattare la serratura dell’appartamento, disinserì l’allarme e accese qualche lampada in giro per la casa.
- Prendi qualcosa?
Scosse la testa in risposta, le andò vicino, le prese una mano e la condusse verso il divano. La vide scendere dai tacchi a mezza strada, intrecciò le dita alle sue. La fece sedere sopra di sé, le cingeva i fianchi mentre gettava la testa nell’incavo del suo collo. Spostò le mani sulla schiena con delicatezza, la sentì rabbrividire e gemere quando si spostò contro di lei alla ricerca di una posizione più comoda.
- Brian.
Si allontanò quel tanto che bastava per guardarla, aveva il viso appena arrossato.
- Non dobbiamo farlo per forza.
Le accarezzò le braccia e di nuovo rabbrividì. Aveva voglia quanto lui.
- A me va.
- Anche a me. – Fece una pausa, aveva le parole incastrate in bocca. – Però non sono io quella nella condizione di pentirsi.
Non voleva capirla, la guardava.
- Lo so che sei qui per lui. Lo sappiamo. E non è che… – Sfiatò una risata imbarazzata. – A me va bene, davvero. Però non così.
- … Così? Marah?
In risposta ritrovò le sue labbra sulle proprie, le sue mani fra i capelli, prima che scendessero a sfilargli la camicia. Si premette contro di lui, sembrò rimpicciolirsi quando posò la testa sul suo petto.
- È lui che se ne è andato, Brian, non io. Io sono qui. Non trattarmi come una cosa che sta per sgretolartisi tra le dita.
Chinò la testa su di lei, le carezzava i capelli mentre ancora parlava.
- Adesso mi dirai di mandarti via, che merito più di questo, e io penserò per l’ennesima volta che non mi ritenete in grado neanche di capire cosa voglio. – Si staccò da lui, gli sistemò i capelli intorno alle orecchie. – Sono più forte di te, Brian. Sono più forte di tutti, perché non ho nessuno da cui scappare.
La catturò tenendole il collo, la fece alzare e la sollevò da terra con difficoltà. Cercò di ricordare dove fosse la camera da letto e lei gliela indicò. La liberò sul letto, si distese su di lei, pensò all’ultima donna con cui era stato, pensò a Matthew, pensò che Marah era bellissima. Fece l’amore con lei e fu la cosa più naturale del mondo, non c’era niente di complicato nello stare lì, era tutto facile. Si addormentarono uno addosso all’altra, si svegliarono presto e Brian rifiutò di fermarsi per la colazione. Marah lo accompagnò alla porta in vestaglia, lui le diede un bacio a fior di labbra e le sfilò accanto. Avrebbe voluto dire qualcosa.
- Va bene così, Brian.

Camminava per la strada con le mani in tasca, si lasciava qualcosa alle spalle ma non si curava di cosa, andava da qualche parte ma non gli importava dove. Pensò che lui scappava dal passato e Marah dal futuro, e forse non era così assurdo che si fossero incontrati a metà del tragitto. Pensò che non era cambiato niente dal giorno prima e da quello prima ancora, e che sarebbe rimasto tutto uguale finché lui non avesse deciso di poter fare a meno di Matt.


And if you could drive
You could drive her away
To a happier place
To a happier day
That exists in your mind

Depeche Mode, Little 15



Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV - Vicino ***


Partenze XIV - Vicino

L’autrice di questa storia ha dei problemi, e non solo perché sta parlando di sé in terza persona (cosa ormai molto di moda, soprattutto fra asterischi), quanto piuttosto perché ci mette le ere geologiche a scrivere i capitoli e, quando lo fa, singhiozza in modo imbarazzante e incolpa di ciò qualche entità del panorama musicale. Ad ogni modo, questa parte di storia non doveva esistere, però siccome la suddetta autrice è così al passo con i tempi di aggiornamento le è sembrata una buona idea chiarire meglio la situazione. Interessano a qualcuno i capitoli di passaggio? Sì, vero? Ah, che bello!

Grazie a chiunque leggerà e continua a seguire :*
_______________________________





XIV - VICINO



Stava di spalle alla finestra, squadrava le geometrie del pavimento con disinteresse, lasciava che i minuti arrivassero e se ne andassero senza lasciare traccia. La pelle ancora umida di doccia pizzicava sotto la tuta, qualche goccia d’acqua scivolava lungo i capelli e si schiantava al suolo, plink, una leggera esplosione.
- Ehi.
Marah comparve in salotto. Era settembre, una giornata ancora molto calda, e lei indossava una camicetta di tulle che le stava molto bene. Le sorrise, le fece cenno di avvicinarsi, le passò una mano intorno alle spalle mentre lei gli cingeva la vita in un incastro naturale. Gli baciò una guancia. – Hai fame? Vuoi qualcosa?
- Voglio stare così.
Gli diede un bacio un po’ più profondo, lo condusse al divano e gli si accoccolò vicino. Brian respirava nei suoi capelli l’odore fruttato dello shampoo, le percorreva la guancia con la mano e pensava che era davvero bella.
- Hai sentito Helena prima? Cosa ti ha detto?
- Oh, che si stanno divertendo moltissimo, i bambini! – Scostò Marah per andare a prendere un bicchiere d’acqua, ne versò uno anche a lei. – No, ha detto che non è male, ma la guida continua a chiamarla perché Cody e Simon cercano di buttarsi nelle vasche. – Le mostrò una foto appena ricevuta: Cody salutava con i pantaloni fradici fino a mezza coscia. – Ha detto che voleva prendere un pesce palla o non so cosa.
Marah gli sfilò il cellulare di mano e guardò la foto scoppiando a ridere a intervalli regolari, Brian scuoteva la testa facendo vagare lo sguardo per la stanza. Lo fissò di sottecchi. Non c’era. Non era lì. Era in un altrove parallelo, una terra sua, una bolla di sorrisi tirati e maniere affettate da cui si ostinava a non uscire. Ogni tanto delle parole oltrepassavano quei contorni labili, ma erano come in ritardo sul resto del mondo, sfalsate rispetto agli avvenimenti come nei film con un doppiaggio malfatto. Brian sembrava rincorrere se stesso non riuscendo mai ad afferrarsi davvero. Chiuse la galleria immagini, digitò una serie di caratteri sulla tastiera.
- Che cazzo fai, Marah? – Si informò quasi dolcemente. Strinse fra le dita il telefono che lei gli allungava e lesse le poche parole pulsanti sullo sfondo bianco.

. Che cos’hai? Sei triste.

- Ti prego. - Le piantò l’apparecchio in mano mentre sbuffava e si allontanava dal divano, si appoggiò stancamente alla credenza poco distante. – Non ricominciare, per favore. Sto bene.
Gli rivolse un’espressione buffa annuendo eloquentemente.
- Okay, va bene. Non mi va di parlarne.
- Non ti va mai di parlarne! Sono due mesi che non ti va di parlarne.
- Marah, per favore. Fatti gli affari tuoi. Te l’ho già detto, non voglio confessarmi con nessuno, non c’è niente da confessare.
Lo guardava, lo guardava come fosse malato, lo guardava come si guardano i degenti negli ospedali e si pensa poteva andargli peggio. Lo guardava con compassione.
- Non ho voglia di litigare, però mi stanno girando i coglioni, ti avviso.
- Anche questa è una novità.
- Marah, cazzo… - Sillabò la parola inspirando più aria possibile. – Ne abbiamo parlato. Io ci sto bene con te. Davvero. Non ti chiedo nient’altro che questo. Non ho bisogno di uno psichiatra perché ce l’ho già, un fottuto psichiatra, quando decido di stare male e di voler far finta di guarire. Possiamo… - Gesticolò in modo scoordinato. - … Fare le persone normali, per esempio? Usciamo, ci prendiamo un gelato, scopiamo, andiamo al cinema?
- Le persone normali, come le chiami tu, parlano. Sono felici. Dimmi se ti senti felice, Brian.
- Senti, vaffanculo. Se c’è una cosa che non tollero è la gente che vuole che io sia felice quando gira a loro. Io faccio il cazzo che mi pare e piace. – Si staccò dal mobile, raccolse una lattina dal pavimento e la portò in cucina. Tornò in salotto, le si fermò davanti. Era seduta come l’aveva lasciata, lo fissava con lo stesso sguardo commiserevole. – Scusa. Mi dispiace. Sto parlando come uno stronzo. Forse è meglio se vado a casa adesso, mi sento soffocare.
Marah espirò sonoramente, annuì, allungò una mano che lui strinse e si portò alle labbra, si alzò mantenendo quel contatto, gli andò vicino e lui l’accolse contro il proprio petto.

Il problema, con Brian, è che le sembrava di conoscerlo da anni interi, di capirlo, di poterlo aiutare. C’erano le distanze fisiche, che nessuno dei due riusciva a mantenere, ed erano state abbattute in un tempo irrisorio. Poi c’era quella parte di Brian che tanto le sembrava familiare ma a cui le era impedito di accedere, la poteva intravedere qualche attimo soltanto. E non c’era niente, lì dentro: né pavimento, né soffitto, nemmeno la porta. Non c’era una sedia a cui appoggiarsi per scambiare quattro chiacchiere, non c’erano macerie da spazzare via, non c’era un luogo da ricostruire. C’era il nulla. Un lenzuolo bianco teso da parte a parte a coprire tutto. Impenetrabile. Statico. Morto. Si strinse forte attorno a lui, sperando in una lieve brezza che smuovesse quel cimitero candido che sentiva sotto le braccia. Le lacrime pungevano agli angoli degli occhi e cominciarono a scorrere lungo le guance. – Io sono solo preoccupata, cazzo.
- … Ma che cosa fai? Ehi… - Cercò di allontanarla per guardarla negli occhi ma lei glielo impedì. – Cos’hai?
Marah singhiozzava aggrappata alla sua maglia, forse stava cercando di tirargli dei pugni, di fatto apriva e chiudeva le mani convulsamente e le premeva contro di lui.
- Ehi, va tutto bene…
- No che non va bene!
- Marah…
- Perché tu, cazzo. Perché tu! Perché stai male tu? – Continuava a dondolarsi contro il suo petto, cercava di asciugarsi il viso con una mano. – Non è giusto.
- Shhh, lascia stare…
- No! – Si allontanò, pur mantenendo la presa sulla stoffa. – Ti prego, Brian, fai qualcosa. Reagisci, cazzo! Stiamo trascinando questa cosa da mesi e adesso non ha davvero più senso.
- Cosa vuol dire? – Di nuovo frappose uno spazio consistente fra loro, aveva un aspetto sinceramente stanco. – Avevamo detto di non parlarne più, che palle. Io sto bene qui, d’accordo? Sto bene con te.
- Tu non ti fai male con me, è diverso.
- Ed è sbagliato? – Allargò le braccia, l’irritazione cresceva in lui. Forse per la prima volta in settimane la stava ascoltando davvero. – È sbagliato che a un certo punto io mi rompa anche i coglioni di continuare a stare male e cerchi qualcosa che mi faccia stare bene? Sono egoista per questo?
- … Tu lo sai benissimo che non vuoi questo. Ti stai anestetizzando con questo.
Vide un bambino che aveva un bel palloncino legato al polso e lo guardava felice, sorrideva. Poi strattonava il braccio verso di sé, di colpo. Il palloncino collassava, sussultava nell’aria, si muoveva scompostamente per qualche frazione di secondo. Infine si riassestava, immobile.
- Non tirarlo in ballo... Mi avevi promesso che non l’avresti tirato in ballo.
- Chi è che non devo tirare in ballo?
- Non tirarlo in ballo.
- Tu sei ancora bloccato lì, Brian. Tu sei lì da quando l’hai conosciuto e non ti muovi di un centimetro. Io ci credo… - Gli sorrise mentre piangeva, alzò le mani e intrecciò le dita non sapendo che farsene. - … Ci credo che vorresti questa cosa con me, una storia con me, magari, perché no? Potrebbe funzionare. Lo vedo che stiamo bene, noi due, tanto. … Però no. – Rise di nuovo. – No. – Le sembrò inutile qualunque parola oltre quella secca negazione che la sua mente stava focalizzando. – Ce lo siamo detti dall’inizio, era una situazione da prendere finché sarebbe durata, nient’altro. Lo vedi che siamo allo stesso punto di due mesi fa? Esattamente uguali, non siamo cambiati in niente. E continueremo così, potremo stare così in eterno. Non siamo fatti per questa cosa, Brian. Non siamo fatti per sopravvivere. – Lo guardò sperando davvero che capisse. – Non ho neanche trent’anni, sono giovane, sono bella, sono stupida. Voglio ancora cercare qualcosa. Voglio credere che ci sia qualcosa là fuori per cui valga la pena mettersi le scarpe tutti i giorni, farsi un caffè tutti i giorni, dare un bacio a mio figlio tutti i giorni. E c’è, cazzo. C’è. E tu ce l’hai fra le mani in questo fottuto momento e non hai il coraggio di fermarlo. E io ti vieto di fartelo scappare via senza fare nulla! – Si asciugò le guance alla meglio, continuava a guardarlo attraverso il suo sorriso sfibrato. – Non so neanche dirti il perché, davvero. Non ti dico che funzionerà e starete bene e durerà perché è già un coglione se ti ha lasciato andare via una volta, e non doveva.

E io non l’avrei fatto.

- Però hai solo una cosa sensata da fare, adesso, che è prendere il tuo dannato cellulare, fare il numero di Matt, dirgli che ti sei innamorato di lui e sei un grandissimo idiota.
La guardava, voleva abbracciarla, aprì la bocca senza avere nemmeno la forza di richiuderla.
- Fidati, Brian. Chiamalo. Non te ne frega nulla di come reagirà, lo sai benissimo. Chiamalo e basta.
- … Non mi vuole, Marah.
- Non è vero.
- Non mi vuole.
- Non importa.
- Sta con un’altra, ha un figlio, non mi vuole. È felice così.
- Non è felice. Tu non sei felice.
- Non c’entra un cazzo!
- Non ti devi fidare di me, fidati di te! Dimmi se secondo te una cosa del genere può essere unilaterale!
- Non c’entra niente, Marah! Non c’entra niente… - Si massaggiò le tempie. Aveva il volto affaticato, le occhiaie scavate di chi sta a letto senza dormire. Uno spettro con un po’ troppa carne addosso. – Non lo sento da prima dell’estate. Non ha senso che lo cerchi adesso, all’improvviso. Sembrerei pazzo.
- Certo che ha senso, perché tu lo vuoi.
- Io ho paura. – Guardò per terra, si stava accartocciando su se stesso, Marah fece un grande sforzo per trattenersi dall’andare a sorreggerlo. – Mi farà più male di quello che mi ha già fatto. Oppure gliene farò io. Non ce la faremo mai. Credimi, - Sollevò gli occhi a fatica, vuoto. – non siamo fatti per farcela.
Camminò verso di lui. Fissò i suoi occhi, i suoi zigomi, le sue labbra, gli strinse le mani con le proprie prima di posarle sulle sue tempie. Aveva due fili di lacrime che le colavano lungo le guance ma nessuno dei due si diede la pena di rimuoverle. Si guardavano. Gli diede un bacio leggero impiegandoci quanto più tempo fosse possibile, aveva una scritta simile ad “addio” incastrata negli occhi. Sapeva cosa voleva dirgli, le costò molta più fatica di quanta avesse sperato.
- Potessi sentire un quarto di quello che senti tu adesso, ne sarebbe valsa la pena.

***

Si addormentarono sul divano in una posizione molto scomoda, si svegliarono di continuo. Brian si alzò, radunò quello che di suo c’era in quell’appartamento. Buttò tutto alla cieca in un borsone chiaro, si passò una mano sul volto. Tornò da lei, da quegli occhi scuri spalancati nella penombra. Le si chinò davanti, non la toccò, non disse niente. Marah riuscì ad alzarsi solo quando fu da sola. Guardò la porta da cui era uscito. Se ne era andato. Un’altra volta. Un’altra volta.

***

Lasciò cadere la borsa in terra, si sedette al tavolo della cucina, si prese la testa fra le mani. Doveva allungare un braccio ed estrarre il telefono dalla tasca dei pantaloni, poi tutto sarebbe accaduto alla velocità della luce. Doveva solo riuscire a fare quello. Passarono ore. Fuori diventò chiaro. Chissà dov’era Matthew. Chissà se da lui era notte, mattina o pomeriggio inoltrato. Non aveva nessuna importanza. Prese il cellulare, scrisse Dove sei?, inviò. Non sentiva nulla. L’apparecchio vibrò in meno di un minuto, insistentemente. Aprì la chiamata, non parlò.
- … Brian?
Aveva una voce fonda, non la ricordava così. L’aria di colpo non arrivò ai polmoni, iniziò a respirare affannosamente.
- Brian? Dove sei?
Era agitato, lo percepiva. Chiuse le labbra cercando di emettere un suono, non ci riuscì, si limitò di nuovo a sfiatare nella cornetta.
- Dove sei, Brian? Dove sei? ... Sei a casa? Posso venire lì?
Vedeva nitidamente Matthew artigliare il telefono con tutta la forza che aveva, mentre il suo stava scivolandogli dalle dita paralizzate. Non parlava, respirava più a fondo per far capire all’altro di essere ancora lì, aveva il terrore che chiudesse la comunicazione. Matthew gli chiedeva dov’era, lui respirava. Andarono avanti così. Sentì le proprie labbra tirarsi in un sorriso.
- Vieni qui…
Un sussurro, non poté fare di più. Scoppiò in un pianto dirotto tanto simile ad una risata, si lasciò andare sul tavolo.  – Vieni qui…
- Arrivo.
Matthew gli sbatté il telefono in faccia, probabilmente stava già avviando l’auto. Lui continuò a piangere e ridere e piangere sopra quel pezzo di legno trattato, avrebbe voluto buttarsi in acqua, avrebbe voluto raggiungerlo correndo come non era in grado di fare e urlando come cercava di evitare per non fottersi la voce. Sperò di non morire prima che l’altro arrivasse. Guardò in alto. L’aveva incontrato a gennaio, gli sembrò di averlo fatto solo in quel momento.


[Il mondo intero diventa sfocato
A meno che non si stia in piedi]

Sigur Rós, Hoppípolla




Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV - Ampio un miglio ***


Partenze XV - Ampio un miglio


XV - AMPIO UN MIGLIO



Would you butcher my love
To understand it
To know where it lies?
Cut a hole in my heart
Fill a hole in your life
I'm yours to dissect

Editors, Formaldehyde



Dopo qualche minuto non ce l’ho più fatta ad aspettarti in quella cucina, le pareti mi si stavano ripiegando addosso. Ho spalancato la porta d’ingresso, sono uscito sul ballatoio, sono rientrato in casa e ho iniziato a camminare davanti al citofono. Non ho aspettato neanche la fine del trillo per aprirti, sono corso davanti all’ascensore. Stavi facendo le scale a piedi, non so quanti gradini alla volta, ti ho sentito imprecare e ho riso. Ho sceso almeno una mezza rampa prima di trovarti. Non ci siamo guardati. Ci siamo buttati uno addosso all’altro e respiravamo affannosamente. Stavo piangendo ancora, sono sicuro, e ricordo di aver pensato che se avessi allentato la morsa intorno alle tue costole tu te ne saresti andato. Stavo cercando di stritolarti. Mi hai baciato artigliandomi il collo con una mano, premevi troppo e ho dovuto staccarmi per riprendermi un po’ d’aria. Mi toccavi dappertutto mentre ti trascinavo goffamente verso il mio appartamento. Salito l’ultimo gradino mi sono voltato, ti ho baciato più a fondo che riuscissi rischiando di farci perdere l’equilibrio un’altra volta, ti ho costretto ad entrare dalla porta avendomi avvinghiato a te. Non so cosa provassi, ma era una sensazione sotto pelle molto simile alla rabbia.
Cercavi di tenermi ferma la testa e continuavi a baciarmi, mi leccavi le guance e il collo e intanto cercavi una superficie stabile contro cui appoggiarmi.
- Non ti lascio andare più… Non ti lascio andare più…
Eravamo bellissimi. Schiacciati addosso a un muro beige, anonimo, le facce salate per il sudore e le lacrime, l’eccitazione crescente fino a far male, a raccontarci bugie piene di qualcosa che non riuscivamo a buttare fuori. Eravamo un’esplosione che non sarebbe mai arrivata, uno squarcio di paradiso sopra alle nostre teste ingenue.

Non mi ricordo quanto tempo siamo stati insieme, quella volta. Ore, credo, forse più di un giorno, mi sono dimenticato di guardare fuori dalla finestra. Mi ricordo un tuo sorriso nel mio cuscino mentre mi staccavo da te, avevi gli occhi chiusi e pensavi a qualcosa che potevi sapere solo tu. Ti sono crollato addosso esausto ma non riuscivo a smettere di guardarti. Se i morti hanno una sacca in cui possono tenersi i ricordi che non vogliono buttare nel cesso, io ci metterò quel secondo in cui ho pensato che andava bene così, che la realtà poteva andare a ‘fanculo perché io e te eravamo insieme da un’altra parte.

***

Mi tenevi un braccio intorno alle spalle come se avessi paura che delle botte mi raggiungessero all’improvviso. Ti chinavi, di tanto in tanto, mi schioccavi un bacio dove ti capitava, sulla tempia, sulla bocca, sulla guancia, sugli occhi. Poi tornavi a concentrarti sul tuo braccio intorno a me, e guardavi la parete di fronte. Io fumavo tantissimo. Una sigaretta in fila all’altra, come non facevo da tempo. Ogni tanto mi interrompevo e rispondevo ai tuoi baci, non sempre, solo quando mi andava.
- Brian.
Non ti interrompevo. Avevi già provato a parlare ma non riuscivi ad andare oltre quel nome, così poco ingombrante. Forse avevi solo bisogno di dirlo, non mi interessava, e io te lo lasciavo fare. Mi sono girato, ti ho guardato e ti ho posato la sigaretta tra le labbra. Ti ho lasciato fare un tiro molle, lungo, prima di tendermi verso di te e allungare la lingua nella tua bocca e farla girare, lentamente. Penso di averci messo un secolo. Avevi le labbra arrossate e non facevi assolutamente niente. Era un momento mio. Avevo gli occhi spalancati nel tentativo di imprimermi quel tuo viso casuale nella memoria. Ti ho accarezzato una guancia perché li aprissi anche tu, mi sono riadagiato contro la tua spalla. Abbiamo guardato così, avanti, tutti e due. Chissà cosa cercavamo.
- Come si fa adesso?
- … Come si fa. Non si fa.
- Non voglio lasciar perdere, Brian.
- Dobbiamo.
- Non voglio. Non riesco.
Ho spento l’ennesima sigaretta. Mi guardavi mordendoti le labbra. Volevi davvero una soluzione al problema. Mi sono chiesto se sarebbe servito a qualcosa risponderti neanch’io, basta, non andartene, stai qui con me.
- Non è una cosa che può funzionare. Per la verità non dobbiamo neanche chiederci se può funzionare, perché non lo vogliamo. Non abbiamo le forze per tenerla in piedi. Lo sapevamo, Matt. – Continuavo a sciorinare al muro. – Anzi, se avessimo intravisto un modo in cui avremmo potuto davvero stare insieme, non ci avremmo neanche provato, perché siamo due codardi.
Avevo voluto strafare, me ne ero accorto, e purtroppo la voce mi si era incrinata sul finire della frase. Mi sono tappato la bocca con una mano per smorzare un singhiozzo, tu l’hai notato e hai continuato a ridere finché non ti ho tirato un pugno. Eravamo piuttosto grotteschi, io a asciugarmi le lacrime e tu che ridevi mentre mi stringevi addosso a te.
- Taci, stronzo.
- Ah-ah. No, continua, mi avevi quasi convinto. Non siamo fatti per stare insieme, Matthew.
- Non stavo parlando così da imbecille.
- Magari in un’altra vita, magari quando ci saremo reincarnati in fottuti Jedi con le orecchie pelose. Ma ora no.
- Ma vai a cagare
Hai riso, mi hai dato l’ennesimo bacio.
- Ricordati che se non l’avessi detto io sarebbe toccato a te.
- Grazie!
- …
- Io non voglio lasciarti perdere, Brian.
- …
- Vediamoci, chi cazzo se ne frega. Quando possiamo.
- Non la voglio una storia così.
- Così come?
- Così che quando vuoi scappare dalla tua vita vieni da me. Sì, - Ti ho zittito con una mano. – lo so che è quello che ti avevo detto io. Ho cambiato idea.
- E cosa vuoi allora?
Ci ho pensato un attimo. – O tutto o niente.
- Non esiste “tutto e niente”, Brian. Non fare lo stronzo. È una visione leggermente limitata.
- È la mia.
- Quindi? – Mi hai costretto a guardarti. – … Devo trasferirmi qui? Tagliare i ponti con la mia famiglia? Telefonarti la sera quando faccio tardi?
Devi avere letto l’espressione nauseata del mio volto perché hai sfiatato una risata sommessa insieme a me. Mi sono passato una mano tra i capelli. – Cristo. Com’è difficile vivere.
Hai riso di più, hai strattonato via le lenzuola per poterti sdraiare nudo su di me, mi hai guardato ed eri fottutamente felice.
- Non andiamo da nessuna parte.
- Smettila di cercare una strada.
- Ho freddo.
Ci hai coperto alla buona, non ti sei mosso di un centimetro. Fremevi ancora di quello stare bene che chiedeva solo di poter scoppiare. Era contro natura non volerti.
- Giurami che non hai rimpianti.
- … Cosa…?
- Giuralo. – Un sorriso sulle labbra che continuava a allargarsi. Gli occhi lucidi che non ho mai visto piangere. – Giurami che hai avuto tutto quello che volevi, che non potevo fare nient’altro. Giurami che quando me ne andrò e ti dirò allora ci sentiamo mi crederai, e mi crederai anche quando inventerò una scusa e non mi presenterò all’appuntamento. Giurami che mi amerai ancora un po’ dopo che sarò uscito da quella porta, e che la prima volta che scoperai con qualcuno sarà solo per farmi male. Giurami che non mi aprirai quando sarò su quel cazzo di ballatoio piangendo e dicendoti che senza di te non ce la faccio. Giurami che sai che adesso, in questo momento, non voglio essere da nessun’altra parte. Giurami che quando chiederò a Kate di sposarmi ti metterai a urlare e penserai che allora è davvero finita, perché sarà quello che starò facendo anch’io dall’altra parte del mondo. Giurami che non cercherai mai niente di vero su di me da nessun altro, perché io racconto un sacco di palle e la mia onestà l’avete avuta davvero in pochi. Giurami che scriverai e penserai che io avrei arrangiato meglio, giurami che nessuna canzone parlerà mai di me. Giurami che ci saranno dei momenti in cui non saprai cosa fare perché la testa sembrerà troppo pesante per non cadere a terra, e giurami che non me lo dirai mai perché devi rialzarti con le tue gambe. Giurami che quando farò qualche cazzata colossale ti metterai a ridere e penserai che hai fatto bene a uscire con me. Giurami che penserai che ne è valsa la pena. Giurami che un giorno farai qualcosa di davvero brutto e io crederò che non eri quello che pensavo e che di te non avevo capito proprio un cazzo. Giurami che non ne potrò più anche solo del ricordo di questa storia. Giurami che sbaglierai. Giurami che da qualche parte ho lasciato un segno. Giurami che quando mi innamorerò di qualcun altro ti penserò e mi sentirò un po’ in colpa, giurami che qualunque progetto facciamo non lo rispetteremo. Giurami che un giorno mi dimenticherai così io rimarrò una di quelle cose che sono capitate e basta in mezzo a tutta una vita, e l’idea di essere stato qualcosa di speciale non mi schiaccerà. Giurami che non sai perché, fra tutti, proprio noi. Giurami che non lo capirai mai.
- … Sei un coglione, Bellamy.
- Credo di sì.



Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Epilogo ***


Partenze XVI - Epilogo

Attenzione! Doppio aggiornamento: torna indietro di un capitolo.

Vorrei ringraziare di cuore chi ha seguito questa storia dall'inizio, più di due anni fa, e chi l'ha trovata da poco e ci si è affezionato. Grazie mille a chiunque si sia preso la briga di lasciare delle recensioni, che a me danno sempre una soddisfazione grande, e anche a chi ha letto più o meno silenziosamente. Grazie per aver aspettato gli esseri fino alla fine.
:*
_____________________________





EPILOGO



- … E quindi?
- E quindi un cazzo, Cody! Cosa accidenti vuoi sapere?
Siamo seduti uno di fronte all’altro nel mio salotto, abbandonati stancamente sui divani con due sigarette ridotte all’osso incastrate tra le dita. Fuma anche lui, da qualche mese. Sua madre lo sa ma fa finta di niente perché sa anche che gli ho già propinato le avvertenze sul non esagerare, non drogarsi e non fare come me, insomma. Lo guardo. Ha sedici anni ma ne dimostra qualcuno di più. In questo sicuramente non ha preso da me, io sembravo minorenne quando andavo per i venticinque.
È da tanto che non parlavamo così. Discussioni caotiche. Pezzi di vita senza criterio che tornano a galla. Non ho neanche capito come mi sono cacciato in questo racconto, ricordo solo che Cody mi si è piazzato davanti senza avere niente da fare e rivolgendomi delle domande banali per sapere come stavo e cosa stavo facendo. Devo essermi molto emozionato. Poi gli argomenti vanno dove vogliono andare, e lui è stato abbastanza furbo da indirizzarli con delle richieste sibilline. Deve essersi preso una cotta e vuole capire cosa fare, ma per adesso non se l’è ancora sentita di parlarmene.
Non so granché della sua vita privata, bene o male sono un genitore nella norma. Non sono neanche sicuro che sia mai stato con una ragazza. C’è stato un periodo, l’anno scorso, in cui viveva in simbiosi con il cellulare ed era irritabile esattamente come me, ma mi sembra un tipo tutto sommato imbranato, quindi non saprei dire quanto si sia spinto in là con gli approcci al genere femminile. Gli voglio talmente bene che non mi permetterei mai di giudicarlo, è questo che ho sempre rinfacciato a mio padre.
- No, dico, se ne è andato davvero? Matthew? Porca miseria, pa’! – Mi soffia le Lucky Strike da sotto il naso, se ne accende un’altra. – Quello dei Muse!
- Spegni quella merda, Cody.
- Pensavo ti stesse antipatico.
Improvvisamente realizzo che quel dettaglio potevo davvero risparmiarlo, non perché mio figlio andrà in giro a raccontare con chi se la faceva suo padre, quanto piuttosto perché a sedici anni la faccenda acquista per forza l’aspetto di una conquista ambita mentre a me, del fatto che Matt Bellamy fosse Matt Bellamy, non è mai fregato nulla.
- … Quindi vi siete rivisti?
- Certo che ci siamo rivisti. La vita è molto meno sensazionale di come uno se la immagina e prova a raccontarsela. Poi nel nostro ambiente, nella musica, è molto facile incontrarsi a qualche premiazione o altro.
- No, ma dico… Non stavate più insieme?
- Tecnicamente non siamo mai stati fidanzati, se intendi questo.
- Mh. – Si sistema sul cuscino con fin troppa meticolosità, sorrido perché ho capito dove vuole arrivare ma è imbarazzato all’idea di pronunciare amore in una qualche frase. – Ma… Sì, insomma… Tu eri… innamorato di lui?
- Prossima domanda?
- Ehi, questo lo fai sempre nelle interviste!
Scoppio a ridere perché quando si arrabbia ha un’espressione buffissima che mi ricorda tanto Helena, un broncio infantile che tradisce, per fortuna, la sua inesperienza. - È vero. Però questa è un po’ un’intervista, no? E molto riservata. – Rimarco nonostante mi fidi ciecamente di lui. Ha imparato fin troppo in fretta come funzionano le cose se sei il figlio di un personaggio vagamente conosciuto.
- Sì, sì. Però, insomma… Com’è che si capisce? Quando… quando sei innamorato. Oh, pa’, non ridere!
- Scusa. – Faccio sparire il sorriso dal mio volto, sono felice che ne stia parlando con me. – Non lo so. Non ne ho la minima idea. Io non l’ho mai capito in tempo. Ma in fondo… - Mi concedo una pausa d’effetto. – è davvero così importante?
Sgrana gli occhi, in questo momento pensa davvero che io sia un vecchio rincoglionito. – Be’, sì!
- Cody, ascolta. - Mi allungo un po’ verso di lui, è un discorso che nessuno ha mai fatto a me e io ho la fortuna di poterlo fare a mio figlio. – Io non ho niente da insegnare a nessuno, soprattutto a te che mi sembri un ragazzo intelligente e decisamente più equilibrato di me. Quindi ti dico delle cose che penso io, ma non so assolutamente se valgono anche per te se ti possono essere utili. Amore, affetto… Sono parole. Usale quando ti servono, e basta. Sono etichette. Non mettere mai delle etichette, e soprattutto non fartele mettere dagli altri. Sminuiscono tutto. Siccome non capiamo delle cose più grandi di noi, le buttiamo in questi grandi calderoni sentendoci un po’ più al sicuro. Il fatto è che la vita è molto più complicata. È un gran casino. Tu devi solo trovare una cosa che vuoi, davvero, e seguirla. Dovunque ti porti. Poi sulla strada incontri un sacco di altre cose interessanti che ti puoi prendere, ma un obiettivo chiaro devi tenertelo stretto. Una persona, qualcosa che vuoi fare… Questo puoi saperlo solo tu, però sii onesto quando lo scegli e non barare, non si può. Okay?
- Sì…
- Quindi in questo caso, la signorina che ti piace-
- Ma non è che mi piace, più che altro ogni tanto-
- Devi solo capire cosa vuoi tu. In questo momento. Invitarla fuori? Passarci un sacco di tempo insieme? Baciarla? Adesso mi fermo perché mi sto imbarazzando anch’io. Però hai capito, – Ti guardo e sorrido. – è questa la cosa da fare. Essere sincero verso quello che vuoi. Chi se ne frega dell’etichetta che puoi appiccicare a una situazione. E lo so che è molto più difficile nella pratica.
Ti annuisco e mi rispondi, ti alzi e siamo sollevati entrambi dalla fine di quella discussione.
- Io esco, allora… - Rigiri le mani nelle tasche, guardi il pavimento.
- Va bene. Stai attento.
- Grazie, pa’…
- E di cosa. Non prendere mai per oro colato quello che dico, mi raccomando.
- Ok.
- …
- … Comunque se ti capita di rivederlo me lo devi dire, ho di là i cd e-
- Cody, gira al largo.

***

- … Ciao.
- Ciao.
Sei appoggiato al cofano della tua auto e mi guardi come se avessi aspettato quel momento da tutto il giorno.

Qualche mese fa è capitato che ci rivedessimo, una volta fra tante, a un evento di XFM.

- Come stai?
- Bene.

Poi è capitato che ci parlassimo.

- Cosa vuoi fare?
- Non so. Mangiamo qualcosa?
- Okay.

… Così come è capitato che venissimo a sapere che nessuno dei due era impegnato, in quel momento.

Avvii il motore.
- Cosa hai fatto oggi?
- Ho scoperto che devo bruciare dei dischi di mio figlio.
- Eh?
- Niente, ascolta musica un po’ di merda.

È capitato anche che ci accorgessimo di quanto ci era mancato parlarci dei fatti nostri, e alla fine è capitato che non resistessimo e finissimo dentro un letto a ridere come due cretini continuando a non dirci cose che non ci diciamo da dieci anni.

Andremo avanti così, io e te. Ci ritagliamo dei giorni delle nostre vite in cui ci concediamo il lusso di vedere come sarebbe se solo si potesse. O se solo lo volessimo davvero. Penso al discorso delle etichette che ho fatto con Cody e davvero non saprei quale appendere sopra di noi, sopra i tuoi capelli che continuano, imperterriti, a essere spettinati.

Il fatto è che siamo capitati, e basta. Poteva andare altrimenti, ma non mi interessa assolutamente sapere come.

- Senti, ma se restiamo da me? Ho una Fender del ’63 e voglio farti sentire una cosa che mi è uscita ieri notte.



Just promise me we’ll be all right

Mumford & Sons, Ghosts that we knew



Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=679391