Partenze di fedenow (/viewuser.php?uid=26549)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Il giorno prima ***
Capitolo 2: *** II - La sfida ***
Capitolo 3: *** III - Tra padre e figlio ***
Capitolo 4: *** IV - Potrei avere voglia di cominciare ***
Capitolo 5: *** V - Il gioco delle parti ***
Capitolo 6: *** VI - Balleranno, se avranno voglia di ballare ***
Capitolo 7: *** VII - Siamo cresciuti a mezzanotte ***
Capitolo 8: *** VIII - Istantanee ***
Capitolo 9: *** IX - Trasparenza ***
Capitolo 10: *** X - Blackout ***
Capitolo 11: *** XI - Predisposizione casuale ***
Capitolo 12: *** XII - Liberi ***
Capitolo 13: *** XIII - Solo per un po' ***
Capitolo 14: *** XIV - Vicino ***
Capitolo 15: *** XV - Ampio un miglio ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** I - Il giorno prima ***
Partenze
DISCLAIMER
Tutti i
personaggi descritti e citati non sono di mia proprietà, gli
avvenimenti sono inventati e non scrivo a scopo di lucro.
PARTENZE
I - IL GIORNO PRIMA
È quasi
piacevole addormentarsi con la consapevolezza di non dover fare niente
la mattina successiva, dà un non so qual senso di
tranquillità difficilmente raggiungibile in altro modo.
Garantisce al sonno una distensione, una pacatezza davvero singolari. In pace con il mondo,
ecco come ti senti quando ti addormenti sapendo di non avere
impegni il giorno dopo, di poterti svegliare all’ora che
preferisci - o non svegliare proprio. Lavoro, figli, amici –
niente di tutto questo. Assenti in blocco. Nessuno Stefan ti
telefonerà, perché vi siete visti per tutta la sera,
giusto qualche ora prima. Nessun Cody salterà sul tuo letto
ricordandoti che quel giorno gli hai promesso di andare al parco,
perché passerà il weekend con Helena. E nessun produttore
sarà così impaziente da doverti importunare proprio quel
giorno. Nessuno, nessuno ti cercherà, nessuno avrà
bisogno di te quella mattina. Lo ripeti a te stesso mentre allenti la
cravatta e la sfili dal collo, mentre ti spogli sorridendo
sciattamente, inibito dall’alcool che ti ha fatto compagnia per
tutta la festa – che poi, ti dici, qualche drink non fa un ubriaco.
Ti butti sul letto scompostamente, senza neanche coprirti con le
lenzuola, perché il freddo che sentirai ritieni non sarà
sufficiente a svegliarti. Solo.
Sei finalmente solo e puoi rilassarti perché nessuno avrà
bisogno di te nelle prossime ore. Non sai da dove derivi questa tua
consapevolezza, ma per te è come un’ancora di salvezza e
ti addormenti fregandotene di tutto e di tutti.
L’unica
incognita che non hai contemplato è che il telefono si metta a
squillare con insistenza, e non ti dia tregua fino a quando ti decidi
ad allungare una mano per sollevare il ricevitore. A quel punto, lo sai
bene, è piuttosto inutile e molto poco elegante imprecare contro
qualunque divinità sia in ascolto, ma questo non ti dissuade dal
farlo.
- Pronto, cazzo.
- Birra.
- Champagne.
- Brian, sono io! Ho bisogno di una birra.
Brian si
strofinò gli occhi, cercando di ragionare nonostante la testa
pulsasse dolorosamente, probabilmente per effetto della mezza sbornia
della sera precedente.
Birra.
Poteva essere un buon punto di partenza. Ma ancora non aveva chiaro chi
fosse il suo interlocutore. Non era la voce di Steve, e Stefan di
solito chiamava per dire cose più intelligenti.
- Con chi ho il
piacere di parlare alle… - Brian si volse svogliato verso le
cifre luminose della radiosveglia – ALLE OTTO E MEZZA??? Si
può sapere chi cazzo sei per telefonarmi alle otto e mezza?
Silenzio dalla parte opposta della cornetta.
- Brian. Sono Matt.
- Chi?
- Sono Matt! Matt Bellamy!
- E chi ca… Aspetta. Tu sei Matt Bellamy? Quello dei Muse?
- Oh, Cristo, Brian! Quanti Matt Bellamy conosci esattamente?
Brian ci
pensò un attimo. – Nessuno. Neanche quello dei Muse.
– concluse semplicemente. Evidentemente il suo cervello si
rifiutava di collaborare.
- Brian, CI SIAMO VISTI IERI SERA. – sillabò Matt – Al party della BBC Radio, ricordi? La festa!
- La festa…ahhhh.
Sì,
ora ricordava. Era andato, con Stef e Steve, ad una di quelle serate
mortalmente noiose, organizzate dallo sponsor di turno. Soliti artisti,
solite starlette montate e rifatte, soliti volti senza nome. Ricordava
di aver intrattenuto una conversazione esilarante con Zane Lowe, anche
se non riusciva a definirne il contenuto. Qualcosa a sfondo osceno,
conoscendoli, o quantomeno infarcito di doppi sensi. Per il resto la
noia più totale. Tranne… Brian focalizzò
improvvisamente davanti a sé due corpi avvinghiati contro un
muro: uno gli apparteneva inequivocabilmente, e l’altro
assomigliava molto a Matthew Bellamy, a ben pensarci.
Oddio: lui e Matt Bellamy. Possibile che avesse occupato la sua serata davvero in quel modo?
- Ah. Sì. – concluse con mirabile sintesi.
- …Posso salire?
La voce
di Matt era titubante, anche nervosa, profondamente diversa da quella
spazientita che aveva utilizzato fino a poco prima.
Brian si mise a
sedere sul letto, massaggiandosi la fronte nel tentativo di riflettere.
– Scusami, non ti seguo. Ho molto sonno. – addusse a
mo’ di spiegazione – Cosa intendi con salire?
Sentì
Matt sbuffare sonoramente. Immaginò che si stesse guardando
intorno spazientito, cercando le parole per spiegare qualcosa che gli
appariva ovvio, mentre a Brian sinceramente sfuggiva.
- Allora…
sono nella hall del tuo albergo. Mi hai detto tu che avresti dormito
qui. Ti sto chiedendo se posso salire in camera tua, perché
avrei bisogno di… parlarti.
Brian si
rese conto solo allora di non essere nel suo letto, a casa sua. Certo,
la stava ristrutturando praticamente dal cima a fondo, e aveva deciso
di trasferirsi in albergo almeno fino alla conclusione del grosso dei
lavori.
Tutto filava. Bellamy non era pazzo, anche se non gli era ancora chiaro cosa volesse da lui. Era noioso
realizzare di aver baciato un collega che aveva sempre
considerato fastidioso, incapace e anche fisicamente poco
attraente. La categoria “Esperienze da non ripetere nella
vita” si sarebbe arricchita di un nuovo capitolo, e Bellamy
avrebbe dovuto fare lo stesso.
No, decisamente quell’incontro non aveva ragione di avvenire.
- Guarda, Bellamy, sono desolato. Non mi sembra il caso di-
- Brian, sono
qui sotto da un’ora abbondante. Si sta riempiendo di gente,
e… ho paura che qualcuno possa vedermi…non
so…riconoscermi...
Brian si
ricredette istantaneamente riguardo alla sanità mentale di Matt
Bellamy, mentre staccava il ricevitore dall’orecchio per fissarlo
interdetto.
- Bellamy, tu
credi veramente a tutte le stronzate sulle cospirazioni che dici nelle
interviste? Che siamo tutti in pericolo e che ci vogliono catturare in
massa?
- Per favore, Brian. Posso…posso salire, per favore?
Matt strinse
convulsamente il telefono mentre parlava, Brian lo capì dalla
sua voce sussurrata ma stridente, trattenuta a stento, come di qualcuno
sul punto di urlare. Dio, come gli era familiare quella sensazione di
vuoto, assoluto vuoto che ti tenta da morire, in cui hai bisogno di
aggrapparti a qualsiasi cosa per restare a galla. Bellamy, tu stai per romperti.
- Vieni su fra
una decina di minuti. – No, così forse era stato troppo
accomodante. – Poi però vaffanculo.
Brian
azionò l’acqua nella doccia e vi si gettò sotto
senza nemmeno aspettare che si scaldasse. Aveva poco tempo prima che
Matthew Bellamy irrompesse nella sua stanza, e doveva rendersi per lo
meno presentabile, ma soprattutto tornare lucido. Si concentrò
sul getto che bagnava i suoi capelli, tentando di rilassarsi, mentre si
facevano sempre più nitidi, suo malgrado, i ricordi della notte
passata.
***
Brian distolse
il proprio sguardo vacuo dall’ennesimo bicchiere che aveva
svuotato e lo rivolse alle persone che lo attorniavano. Erano tutti
sconosciuti, e si chiese come fosse finito a quel tavolo e in quella
conversazione. Cercò Stef per la sala, e lo vide ad annoiarsi
presso un altro capannello, certamente immerso in una conversazione
programmaticamente inconcludente, come richiedeva il codice di quelle
sciocche serate. Era lontano, troppo lontano per poter sperare di
essere salvato da lui.
Promemoria per i
prossimi party a cui lo avrebbero costretto a partecipare: legarsi Stef
a un braccio, o Steve in alternativa, anche se una scelta simile
avrebbe implicato assistere agli innumerevoli flirt del California boy,
e non erano pochi. Perlomeno si sarebbe divertito, considerando cosa
era in grado di inventarsi il suo batterista pur di impressionare una
ragazza. "Sai, con quell’onda di sei metri me la sono vista
brutta" era stata una delle più contenute, poi erano venute
“Anch’io faccio volontariato nel tempo libero” e
“Sono contrario al sesso prematrimoniale”.
Tant’è, quella sera niente Steve, sicuramente alle prese
con una londinese avvenente in qualche angolo buio del locale.
Sospirò,
tornando a focalizzarsi sugli invitati del suo tavolo, e solo allora si
accorse di avere addosso gli occhi famelici di tutti loro.
Evidentemente erano in attesa di una risposta da lui che,
sfortunatamente, non aveva nessuna idea di cosa gli avessero chiesto.
Tossicchiò, schiarendosi la voce.
- Ritengo che
sia bene riflettere molto su questa cosa, perché
l’argomento è delicato. La scelta che dobbiamo fare
è importante, e occorre pensarci.
Perfetto, si
disse. Con una risposta del genere se la sarebbe cavata sia su una
domanda riguardante il disco successivo sia sulla situazione politica
inglese sia sulla fame nel mondo.
Aspettò
qualche secondo, il tempo tecnico necessario perché i suoi
commensali si accorgessero di non essere minimamente interessati a
quello che lui aveva detto e cambiassero argomento, poi si
accomiatò educatamente, alzandosi e dirigendosi verso il bancone
dove erano distribuiti i drink. I suoi sensi erano piacevolmente
ottenebrati dall’alcool, il che gli causava una certa lentezza
nei movimenti e nella parola, ma fortunatamente nulla di inelegante o
volgare. Era ancora nel pieno delle sue facoltà, concluse
arrivando davanti al barista senza significative oscillazioni.
- Mi fa un drink molto forte, cortesemente?
- Quale?
Brian fissò le bottiglie ordinatamente disposte sullo scaffale dietro il bancone. – Quello.
Il barista
guardò scettico la bottiglia indicata da Brian, poi Brian
stesso, che ancora teneva il braccio e il dito puntato. Aprì la
bocca per dire qualcosa, ma parve decidere che non era il caso,
scrollò le spalle e si mise al lavoro.
Brian si voltò di scatto sentendo una risata presuntuosa alle sue spalle.
- Ti piace il succo di lampone, Molko?
Voce troppo acuta, fisico ossuto, improponibili accostamenti d’abiti. Non c’erano dubbi.
- Bellamy, gioia della mia vita, ti vedo in forma smagliante. Comunque ti informo che mi fa cagare il succo di lampone.
- Ah. –
ghignò Matt – Io ti informo che ne hai appena ordinato
uno. Ti ubriacherai in men che non si dica con quello, credimi.
- Sei sempre sgradevole, Bellamy.
- Come il succo di lampone.
Gesù, un bambino di due anni. Ecco con chi aveva a che fare.
- Bellamy, che
ne dici di andare a cercare i tuoi amichetti e compagni di band,
così eviti di molestare persone innocenti?
- Vuoi essere molestato da me, Molko?
Brian lo osservò attentamente. Bamboccio e pure pervertito.
Doveva essere ubriaco almeno quanto lui a giudicare dagli occhi lucidi
e dal sorriso malizioso che stava sfoggiando, che si traduceva in una
mostruosa deformazione a livello della bocca.
- No, Bellamy,
neanche nei tuoi sogni. E ti consiglio di non raccontare a nessuno i
tuoi sogni, perché ti arresterebbero. Ora gira al largo.
Matt
rielaborò in qualche secondo la risposta di Brian, che nel
frattempo si era nuovamente voltato verso il bancone, e si sedette
acanto a lui.
- Oh, Cristo! Devi dileguarti, capito? Non apprezzo la tua compagnia e non ho voglia di fare conversazione.
Santo alcool. Poteva dire quello che voleva e incolpare tutti i cocktail che si stava bevendo.
- Possiamo fare altro.
- Bellamy, ti dico io cosa facciamo. Tu ti fai una bella scopata, liberi i tuoi istinti sessuali repressi e poi, forse, sarai una persona con cui intrattenere una discussione perlomeno sensata.
- Grazie, sei un vero amico. – rispose devotamente Matt, tenendo gli occhi fissi sul legno del bancone.
Brian capì che non sarebbe arrivato da nessuna parte in quel modo. Occorreva un cambio di strategia, repentino.
- Ehi,
Bellamy, perché non vai a casa a suonare la tua bella chitarra?
Sono sicuro che i tuoi vicini faranno i salti di gioia!
Si era alzato e
gli tendeva una mano sorridente, proprio come stesse promettendo un
cono gelato ad un bambino riluttante all’idea di andare a scuola.
Matt
proruppe in una risata stridula, alzandosi a sua volta. – Ah,
Brian, Brian. Sono ubriaco, non rincoglionito. – sibilò,
facendosi pericolosamente vicino al suo volto.
- Avrei scommesso sul contrario. – ritorse Brian, cercando di cavarsi dall’impiccio.
Si voltò
e fece per andarsene, ma la salda presa di Matt sul suo braccio gli
impedì di fare molta strada, costringendolo a fronteggiarlo.
- Bellamy, mi sono stancato. Che cazzo vuoi?
Non
ottenne una risposta, quantomeno verbale. Matt lo fissò
intensamente, prima che il suo sguardo scendesse sulle sue labbra, e da
lì non si muovesse più. Nessun cedimento, nessuna
emozione apparente. Si avvicinò di nuovo al suo viso,
lentamente, molto lentamente, ma in modo continuo, gli occhi fissi
sulla bocca di Brian, obiettivo che giudicava alquanto allettante,
considerando la tensione del suo corpo e il suo fare affamato.
Eh, no, Bellamy. Se vuoi giocare, giochiamo, ma non ti aspettare di vincere.
Brian non
indietreggiò, anzi dischiuse leggermente le labbra con intento
provocatorio. Si chiese perché stesse facendo tutto questo
anziché andare via e trovarsi una compagnia più
interessante, e gli sembrò una risposta plausibile il voler
capire dove avesse il coraggio di arrivare quel folle malandato che si
trovava davanti. Molto più complicato sarebbe stato ammettere
che le labbra di Matt erano maledettamente interessanti, così come le sue mani abbandonate lungo i fianchi e gli occhi semichiusi. Quando era ormai sicuro dell’imminente bacio – odiava
definirlo così – fra di loro, chiuse gli occhi,
pregustando quel contatto umido, e l’aumentare del brivido caldo
che già gli percorreva la schiena.
Quello che accadde dopo lo spiazzò. Matt virò
bruscamente, e posò le sue labbra sulla guancia di Brian. Non
era un bacio, no. Non era un accidente. Stette lì così,
immobile, inspirando a pieni polmoni la pelle di Brian, apparentemente
appagato da quel contatto assurdo. Brian si staccò con stizza.
Che razza di uomo era uno che ti baciava la guancia in una situazione come quella? Dopo averti rivolto proposte oscene ben poco implicite, Dio!
Bellamy, che frullato hai al posto del cervello? Hai bisogno della
mamma che ti dia la carezza della buona notte e ti dica che va tutto
bene? Dimmi almeno che non ti aspetti che ora ti stringa e ti culli
finché ti addormenti, perché potrei vomitare. E non
azzardarti ad appoggiare la testa sulla mia spalla!
Perché, porca miseria, non mi hai dato questo fottutissimo bacio?
Matt
temette di aver osato oltre il limite. Brian era immobile da diversi
secondi, fremente. Lo aveva allontanato bruscamente da sé, e ora
lo fissava con astio. Aveva voluto troppo – ma troppo di cosa?,
si chiese – e adesso gli sarebbe stato tolto. Si ritrasse
impercettibilmente, ma una mano di Brian afferrò il suo polso.
- Fermo, idiota.
Non qui. – e accennò con lo sguardo alle persone curiose
intorno a loro. Matt realizzò solo allora che erano in piedi,
bloccati a metà strada tra il bar e i tavoli del locale. Due cretini,
era la definizione più calzante che gli sovvenne. Tornò
con lo sguardo a Brian, che già si stava allontanando verso uno
dei tanti corridoi laterali poco illuminati, e sorrise. Forse non era
l’unico a volere troppo.
____________________
Uh. Ho iniziato davvero una long-shot. Wow :D
Piuttosto soddisfatta del flashback, cade miseramente sul presente-day after,
in quanto cerca di carpire informazioni ai suoi personaggi sul loro
comportamento, ma li trova molto poco collaborativi, e deve arrangiarsi
come può.
Mi duole che
Brian parli come il fior fior degli scaricatori di porto, ma mi
è proprio scappato dalle dita, anzi non sono mai riuscita a
catturarlo, e non ho la minima idea di cosa abbia intenzione di fare.
Bri, comportati bene!
Rapida nota tecnica: Zane Lowe è uno speaker della BBC Radio 1
che, a giudicare dalle interviste, va piuttosto a genio al Molko,
quindi ci sta simpatico *le viene il dubbio che non sia una motivazione
eccessivamente valida, ma lo scaccia* . Ovviamente mi sono inventata la
sua predisposizione alla scurrilità verbale.
Bene, adesso non mi resta che ramazzare idee intelligenti per proseguire, e sperèm.
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Capitolo 2 *** II - La sfida ***
Partenze 2 - La sfida
II - LA SFIDA
***
Appena Matt svoltò l’angolo, si immobilizzò e lo
fissò bramoso. Brian era stancamente appoggiato ad una parete
squallidissima, bianca, forse, decisamente grigio notte in
quell’occasione. I suoi contorni restavano indefiniti agli occhi
di Matt, sembrava piuttosto un’ombra nera in mezzo a tutto quel
color fumo. Matt strinse gli occhi, tentando di abituarsi
all’oscurità. Vide che Brian teneva le mani posate leziose
su un corrimano, un’asta o qualunque cosa fosse quella che
correva lungo il muro dietro di lui. Il viso voltato per tre quarti, le
labbra arricciate come in un pensiero, la postura ineccepibile.
- Sembri una ragazzina.
Brian
si voltò lentamente a guardarlo, troppo lentamente perché
i suoi nervi già scossi non ne risentissero ulteriormente. Aveva
lo sguardo vacuo, vuoto - Matt avrebbe detto quasi malinconico, se
avesse avuto voglia di fermarsi ad analizzare quel poco che vedeva.
Pregò solo che il brivido che gli percorse le spalle e le
braccia non fosse stato troppo evidente. Mentre gli si avvicinava,
Brian restò immobile, gli occhi fissi nei suoi, i pensieri
chissà dove. Sicuramente in un posto dove non poteva essere
seguito, e questa cosa spaventò Matt. Gli
si mise di fronte, respirando piano ed appoggiando una mano al muro,
sfiorandogli quasi i capelli. Era assurdo quanto l’alcool lo
inibisse nei movimenti, ma potenziasse la percezione di ciò che
lo circondava. Era come se il corpo di Brian, così vicino al
suo, così pulsante, gli cadesse addosso, rovesciando il sopra e
il sotto e facendo della gravità niente più che
un’illazione. Gli sembrava di vedere i polmoni di Brian
respirare, e il sangue scorrergli nelle vene. Gli sembrava di essere
l’aria pesante che in quel momento li circondava. Gli sembrava di
soffocare in qualcosa che non riusciva a capire.
- Lasciami andare.
La voce di
Brian si era tradotta in una stridente preghiera, un sussurro malato e
sofferente. Matt dovette sforzarsi per riaprire gli occhi e allontanare
il capo dal muro cui si era appoggiato nel tentativo di sorreggersi.
Erano stati così vicini, per un istante, il suo viso e quello di
Brian. Così uniti, così tutto. Non aveva voglia di svegliarsi subito da quella fantasia allucinata.
Si
fissò nei suoi occhi, e vide la propria decisione, la propria
impazienza scontrarsi con lo smarrimento dello sguardo di Brian, una
strenua resistenza a qualcosa che, Matt ne era certo, doveva succedere.
Sfiorò con le labbra quelle di Brian, tremante, i loro corpi a contatto.
- Dimmi che vuoi che me ne vada.
Erano
lì, entrambi a contendersi quel poco d’aria che pareva
rimasta, aspettando di vedere chi avrebbe ceduto per primo. Brian non
era nelle condizioni di riflettere linearmente, altrimenti avrebbe
soppesato le attenuanti che poteva concedersi, e si sarebbe detto che
c’era il vino, c’erano i cocktail, l’ora tarda e la
stanchezza improvvisa che lo pervadeva. Avrebbe concluso che poteva
fare di tutto in quelle condizioni, senza doversene pentire il giorno
successivo.
Avrebbe
pensato tutte queste cose, se solo avesse potuto. Invece agì
puramente d’istinto chiudendo gli occhi e facendo esattamente
quello che Matthew aspettava. Si arrese.
***
Brian
uscì dal bagno e indossò i primi vestiti che trovò
nell’armadio. Ricordava le mani di Matt fra i suoi capelli, le
parole a caso che si erano scambiati, il calore che emanavano insieme e
quella giacca che avrebbe voluto strappargli di dosso… E poi
niente. Aveva scostato Matt da sé, l’aveva guardato negli
occhi e si era allontanato. Fine. Due persone che prendono
dall’altro ciò di cui hanno bisogno, ringraziando anche, a
modo loro – altrimenti cos’era quell’ultimo sguardo? Te lo sei chiesto, Bellamy? -, e proseguono la loro vita adulta senza rimorsi. Non
era difficile da capire. Chissà cosa voleva ancora
quell’idiota. L’aveva già spinto ad ammettere a se
stesso che aveva voluto e gli era piaciuto quanto era successo, e non vedeva davvero il bisogno di andare oltre.
Sentir
bussare alla porta con veemenza non contribuì a migliorare il
suo stato d’animo. Andò ad aprire e si trovò
davanti Matt Bellamy, le mani in tasca, i capelli scarmigliati e il
vestito della sera prima. Non aveva dormito, o se l’aveva fatto
non si era preoccupato di cambiarsi e assumere un'aria più
dignitosa.
- Bellamy.
Matt non
rispose al saluto. Brian se lo ritrovò addosso, contro la
propria bocca, mentre tendeva spasmodicamente le braccia ad arpionare
il suo collo. Il pugno con cui lo colpì allo stomaco fu
sufficiente a farlo allontanare, spingendolo contro l’armadio
alle sue spalle.
- Che cazzo fai?
Matt lo fissò brevemente, poi sbuffò e si diresse verso l’interno della stanza.
- Lo sapevo.
- Lo sapevi?
– Brian era rimasto presso la porta, peraltro ancora aperta. Si
affrettò a chiuderla, prendendo a insultare il suo
interlocutore, che nel frattempo si era accomodato sul divano del
piccolo salotto della suite. – Che cosa vuol dire che lo sapevi?
Matt lo osservò scettico. – Sapevo che avresti reagito così. Sei noioso e prevedibile.
E tu hai passato il segno.
- Bellamy, ora smetti di fare il coglione e dimmi cosa vuoi, altrimenti ti sbatto fuori di qui a calci.
Una
minaccia simile era inopportuna e alquanto irrealizzabile, ma
servì a che Matt distogliesse lo sguardo e lo volgesse a un
punto imprecisato della stanza.
- Scusa.
- Così iniziamo a ragionare. Cosa vuoi. – proseguì ostinato, prendendo posto sulla poltrona di fronte a lui.
- Te.
- No.
- Sì.
- Ho detto
no. Riprova, stavolta con un po’ più di convinzione. Cosa
vuoi, Matthew? – soffiò provocatoriamente nella sua
direzione.
- Oh, Cristo, Brian! Voglio scopare! Hai capito? Scopare.
– ripeté con enfasi, alzandosi in piedi –
Così poi posso tornare dalla mia fidanzata, dirle in tutta
sincerità di averla tradita e farmi buttare in mezzo alla strada
senza troppi problemi.
Brian
lo fissò perplesso per qualche secondo, registrando il fatto che
Matt aveva davvero borbottato quelle ultime parole, poi non
riuscì a trattenere una risata acuta e piuttosto femminea.
- Bellamy, tu non l’hai detto davvero!
Matt
assisteva alla scena basito, mentre Brian si passava rapidamente una
mano sul volto, volendo riacquisire una certa serietà.
- Quindi, fammi capire… tu vuoi venire a letto con me perché non sai come lasciare la tua ragazza?
Vedere Matt
aggirarsi inquieto per il locale e bofonchiare parole senza senso lo
costrinse a fare leva sul proprio autocontrollo, per non cedere a un
nuovo attacco di ilarità. - Non credi che sia un po’
infantile come atteggiamento?
Matt
lo fulminò con lo sguardo, prima di lasciarsi cadere sul
divanetto a peso morto. Parlò al pavimento, lo sguardo assente.
- È incinta.
- Chi?
- La mia ragazza! Kate!
- …
- È incinta.
- …Quindi?
- Aspetta un bambino.
-
Sì, Bellamy… Supponevo che l’essere incinta
implicasse questo. – concesse esasperato – Continuo a non
vedere il nodo della questione.
- Non è una cosa bella.
- Non è una cosa brutta, credimi.
- È
una cosa brutta se conosci sua madre solo da qualche mese, non avevi la
minima intenzione di metter su famiglia con lei e sai di essere un
coglione non ancora pronto a fare da padre a qualcuno!
Il volto contrito di Matt e i suoi gesti ansiosi convinsero Brian ad adottare un tono più conciliante.
- Senti,
Bellamy… Concordo sul fatto che tu non sia l’emblema della
maturità. Sei un idiota. – Va bene, forse non
eccessivamente conciliante. - Però la stai facendo più
grossa di quanto in realtà sia. Non vuoi stare con sua madre?
Non è certo obbligatorio. La lasci e ti godi i privilegi del
genitore single.
- Brian. – Matt lo guardò intensamente negli occhi. – Io non lo voglio. Io non voglio lui, non la madre.
- Ah-ah.
Questo si chiama scappare dalle responsabilità, Bellamy. E poi
prova a ripeterti di non volere un figlio quando te lo ritrovi in
braccio, così minuscolo e che si fida di te. Non capisci
più niente.
- A te è successo questo?
- Fatti i cazzi tuoi.
- Sei insopportabile!
- Neanche tu mi stai simpatico.
– concluse Brian con semplicità, accavallando le gambe con
studiata lentezza e abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.
Stettero così per qualche tempo, ciascuno assorto nei propri
pensieri.
–
Vedi, Bellamy, la tua storia ha un senso finché non ne entro a
far parte io. Le tue preoccupazioni, la fuga… -
accompagnò il tutto con un gesto vezzoso della mano –
Diciamo che ci stanno. Sono io che non c’entro. Non hai certo
bisogno di me per fare sesso.
- Non credo che se lo faccio da solo valga come tradimento.
Brian
arricciò le labbra in un sorriso condiscendente. – Non
penso. Per questo ti consiglio di trovare una donna consenziente e
risolvere la situazione per conto tuo.
Matt rispose a suo modo al sorriso. – Ieri sera non hai fatto così il difficile.
- Ieri sera abbiamo giocato ai ragazzini incoscienti, ed è stato…divertente…Però oggi ci siamo risvegliati adulti, e ci comporteremo di conseguenza, vero?
Lo
guardò divertito, e Matt non sembrò infastidito da quella
richiesta di complicità, tanto che lo raggiunse, chinandoglisi
davanti, così da essere più vicino al suo viso. – E
se io volessi giocare ancora un po’?
Brian lo
studiò malizioso, inclinando la testa di lato, poi posò
una mano sul suo collo e lo tirò bruscamente verso di sé.
– Non ho intenzione di accontentarti.
– sussurrò suadente contro il suo orecchio, prima di
alzarsi e lasciarlo lì, piegato in due, appoggiato alla
poltrona. L’atmosfera era decisamente troppo carica.
- Dai, Brian, ti prego… - piagnucolò Matt, sollevandosi da terra e voltandosi.
- Mi stai supplicando per una scopata?!?
- Per favore…
- Hai una mente devastata, Bellamy! E io voglio restarne fuori, per quanto possibile.
- Ma mi hai baciato!
- Senti, ieri sera ero così ubriaco che avresti potuto essere Ashlee Simpson.
Matt ci rifletté un attimo. – Lei ha le tette più grosse!
- Che spirito d’osservazione.
- Coraggio,
Brian… - Matt si fece nuovamente vicino, ma quell’aria da
dongiovanni non faceva che renderlo più ridicolo – Lo so
che ti è piaciuto.
- Oh,
sì. – Brian allungò le sillabe in modo innaturale
– Ma il problema è che a te è piaciuto di
più, a te è piaciuto troppo,
e stai sperando in un bis che non ci sarà. – si
scansò rapido e si avviò verso l’ingresso della
suite, indicando la porta. – Ciao, Matt.
E uno a zero, qualunque sia la partita che stiamo giocando.
Matt
era rimasto in piedi in mezzo al salotto, proteso verso il punto da cui
Brian si era appena allontanato. Sembrava riflettere.
- Dammi il tuo numero.
- Oh, Cristo.
- Dai, muoviti.
- Come, scusa? – sibilò Brian a denti stretti, lo sguardo infuocato.
- Dammi il tuo numero di cellulare.
- Tu mi stai ordinando qualcosa, Matthew Bellamy?
- Non ho
intenzione di arrendermi, Brian Molko. - rimarcò deciso.
La strafottenza brillava nei suoi occhi e nelle sue parole, e Brian si
trovò a pensare che gli si addiceva tremendamente di più
dell’aria da pecorella smarrita con cui aveva iniziato quel
colloquio.
- È una sfida?
– Se vuoi.
Bambino viziato. Qualcuno ti deve insegnare come gira il mondo.
- Va bene.
Stronzo. – puntualizzò, prima di allontanarsi, prendere un
pezzo di carta e scribacchiarci sopra il proprio recapito telefonico.
Gli piantò il foglio nel petto, al limite della sopportazione.
- Grazie, Brian.
- Vaffanculo. Adesso sparisci e non farti vedere per i prossimi cinquant’anni. – concluse spalancando la porta.
La risata di Matt contribuì solo ad irritarlo maggiormente. – Ti prometto che ci incontreremo molto prima.
- Non ci sperare.
- Ciao,
Brian. – Matt lo superò e fece per uscire, poi
cambiò idea e si voltò di scatto, così rapidamente
da non concedergli nemmeno il tempo di scansarsi. Lo afferrò per
un fianco e lo attirò a sé. – Fai il bravo…
- sussurrò maligno - … e non guardarmi il culo mentre mi
allontano.
Allentò la presa, scivolò via e scomparve lungo il corridoio.
Quando
Brian prese atto dell’accaduto, non poté far altro che
chiudersi la porta alle spalle, realizzando con stizza di aver perso il
primo round di quell’improbabile duello.
_________________
E chapter due!
Vi
ringrazio tanto delle belle recensioni che mi avete lasciato, a cui,
come avrete notato, non sono capace di rispondere, ma conto di
migliorare.
Venendo alla storia, Brian e Matt subiscono una serie notevole di trasformazioni rispetto alla notte precedente e durante
questo dialogo, che spero di aver reso in modo abbastanza coerente.
Personalmente la mia preferita è Brian in stile serpe sibilante
e velenosa, pronta a mangiarsi Matt a fine capitolo, che poi tanto
è tutto fumo e niente arrosto, you know :D
Il suo comportamento nel flashback, vacillante, appeso a un filo,
rimane una questione aperta, che spero troverà giustificazione
nel procedere della storia. D’altronde la scena è vista
dagli occhi di Matt, che – l’abbiamo capito –
è un perfetto schizzato, e si limita a registrare quello che
(non) comprende.
Un abbraccio carissimo a tutti :)
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Capitolo 3 *** III - Tra padre e figlio ***
Partenze III - Tra padre e figlio
III - TRA PADRE E FIGLIO
- Cody, amore, vieni giù di lì.
L’ammonimento
parve piuttosto debole persino alle sue orecchie, non era difficile
pensare che da quelle di Cody fosse stato scansato con facilità.
Erano in un piccolo parco giochi vicino casa, un posto che al bambino
piaceva molto, meta canonica delle loro passeggiate. Quella mattina
Cody non era andato all’asilo perché doveva fare una
vaccinazione, e Brian si era offerto di tenerlo con sé fin dalla
sera prima. L’avrebbe accompagnato dal dottore, nutrito con un
buon panino del fast food e portato a giocare. Cose classiche, molto
semplici, le uniche con cui potessero divertirsi insieme. Era da un
po’ che non trascorreva del tempo con il suo piccolo, sentiva
parecchio la mancanza della sua spensieratezza e simpatia, e aveva
colto l’occasione della rinnovata disponibilità della sua
abitazione per convincere Helena ad affidarglielo.
La serata
precedente era trascorsa in modo piacevole, con serenità.
Avevano ordinato due pizze ben farcite – la cui spartizione era
stata, ovviamente, Cody bocconi sparuti - Brian tutto il resto,
nonostante i ripetuti giuramenti del bambino di mangiare la propria per
intero, fino all’ultima briciola -, giocato a nascondino per le
stanze della casa e guardato un cartone animato. Cody aveva gli occhi
appesantiti dal sonno già prima della conclusione del film, e si
addormentò non appena Brian lo depose sul proprio spazioso letto
matrimoniale. Stette a guardarlo per qualche istante, immobile, seduto
al bordo del letto, proteso verso di lui. Dormiva già
profondamente, un’aria serena sul volto. Si capiva che era felice
anche lì, anche nel sonno, e Brian provò un senso di vivo
appagamento, soddisfazione vibrante. Non avrebbe saputo spiegare
perché, semplicemente con quel frugoletto scarmigliato stava
bene.
- Grazie. – sussurrò in un sorriso, prima di alzarsi, infilarsi il pigiama e stendersi fra le lenzuola. Fortunato, si disse, io sono fottutamente fortunato, mentre spegneva la luce e si lasciava cullare dalla penombra della stanza.
Un simile
clima di rilassata distensione non si era protratto anche il mattino
seguente. Cody si era mostrato decisamente entusiasta – troppo
entusiasta - al suono della sveglia, pregustando già la
mattinata di giochi. Evidentemente l’iniezione a cui doveva
sottoporsi di lì a breve non lo preoccupava abbastanza da fargli
preferire di prolungare il sonno per una decina di minuti. Aveva
iniziato a scuotere Brian con una stretta alquanto energica per la sua
età, e al ritmo di Papàpapàpapà si era cambiato i vestiti e seduto al tavolo della cucina, aspettando affamato la colazione.
Brian si
alzò dopo cinque minuti, sconfitto dal rumore ripetitivo che
Cody stava producendo picchiando i cucchiaini sul tavolo della cucina.
Arrivò in cucina trascinando i piedi, gli occhi semichiusi nel
tentativo di non essere accecato dalla luce e le orecchie pulsanti per
il frastuono. Fissò lo sguardo sul bambino di cinque anni che si
dimenava sulla sedia, riservando a quegli strumenti primitivi una
serietà assolutamente eccessiva. Aveva un senso del ritmo
notevole, senza dubbio.
- Cody.
- Mm?
- Non ti azzardare a voler suonare la batteria.
- È bella la batteria! -
- No, Cody. La batteria non è bella. Batteria brutta. Chitarra bella.
- Noooo!
Batteria! Batteria! – Cody aveva ripreso a tamburellare con
passione, la sua gioia ormai incontenibile. – Batteria! Io faccio
come lo zio Steve!
Brian si
coprì il volto con le mani, straniandosi dalla confusione, e
immaginò suo figlio ventenne, batterista e tatuato non voleva
sapere sino a dove, performer carismatico che sobbalza sul seggiolino
mentre suona e si presenta ai concerti mezzo nudo.
– E io sarò un padre fallito.
Nello
studio medico Cody si comportò benissimo, senza strilli o pianti
improvvisi. Anche la dottoressa gli fece i complimenti per il suo
coraggio, e la cosa lo inorgoglì almeno quanto piacque a Brian
constatare di avere per figlio un bambino molto poco capriccioso,
probabilmente l’unico di tutta Londra che non pretendeva un
regalo gigante ogni volta che affrontava un’iniezione. Gli
propose comunque una cioccolata con la panna, ma suo figlio sembrava
coltivare progetti ben più importanti. Usciti
dall’edificio, infatti, continuò imperterrito ad
accelerare il passo, smanioso di arrivare al parco giochi, mentre Brian
arrancava alle sue spalle, stringendo saldamente la mano alla sua.
Dalla bocca di Cody fuoriusciva un flusso continuo di parole
riguardanti qualunque argomento, esposto sempre in modo vivace, e Brian
si trovò più di una volta a sorridere per i ragionamenti
scombinati del figlio. - … Che poi l’ha mangiato solo un
pezzo. E lo sai che Tom ha detto che ha trovato un serpente sotto il
suo letto???
Brian si fermò interdetto, osservando lo stupore crescere sul volto del piccolo mentre rivelava quel segreto.
- Cos’ha trovato nel letto?
- Un serpente!!! Sotto il letto!
– Mmm. Secondo me era una bugia. – valutò pensieroso – Tu cosa dici?
Cody lo
studiò per qualche istante, poi fu conquistato dalla sua
serietà e si risolse a crederle. – Mmm, anche per me.
– decretò, emulando il tono scettico paterno. E si
guadagnò un abbraccio ridente di Brian, che lo sollevò e
se lo caricò sulle spalle.
Arrivati al
parchetto, Cody aveva sfruttato ogni attrazione a disposizione,
facendosi spingere sempre più forte sull’altalena - con il
consueto intento di compiere un giro completo – e arrampicandosi
sulle varie corde e reti predisposte. Tutto era andato bene
finché aveva deciso che la casetta di legno in cima alla scala a
pioli poteva essere meglio sfruttata sedendo sopra il suo tetto,
anziché dentro di essa.
- Forza, Cody. Scendi, per favore.
- No-o.
– cantilenò il figlio di rimando. La situazione non era
fuori controllo: Brian vedeva che Cody si teneva stretto ad una trave
di legno, ma il salto che avrebbe fatto se fosse scivolato sarebbe
stato comunque notevole.
- Non essere disubbidiente. È molto alto lì, è pericoloso.
Cody
continuò a scuotere il capo beffardo, ma Brian notò che,
dopo essersi guardato con rapidità intorno, rinsaldò
ulteriormente la presa sulla barra. Cody era un bambino intelligente.
- Dai, vieni giù. O vuoi che salga io a prenderti?
Cody parve
finalmente aver trovato un’affermazione degna della sua
attenzione, al punto che si volse verso suo padre e sorrise furbo.
– Non sei capace.
Brian si
trovò di fronte a un bivio: dimostrare a se stesso che i suoi
quasi quarant’anni erano un mero dato anagrafico, arrampicandosi
su una corda, strisciando dentro a un tubo e salendo una scala a pioli
– e magari poi gioire intimamente della propria agilità -,
oppure comportarsi da genitore maturo e non rispondere alla
provocazione. Schioccò la lingua.
- Hai ragione, Cody. Non sono capace, quindi devi scendere tu. Subito.
Il bambino
sbuffò sonoramente, ma non si oppose oltre e ripercorse con
concentrazione il tragitto al contrario, toccando presto terra con i
piedi e avvicinandosi contrariato a Brian.
- Tanto lo so che eri capace.
Ma Cody
accantonò presto il broncio, distratto dall’arrivo di un
amico con cui giocava spesso, Simon, e sparì dietro di lui.
Brian
sedette su una panchina, scegliendo una posizione che gli permettesse
di vigilare su gran parte del prato dove i bambini si erano recati, e
nel contempo notò come Cody stesse già catalizzando
l’attenzione dell’amico con qualche improbabile racconto. Al centro dell’attenzione. Un affabulatore. Un primo attore. Sorrise. Chissà chi mi ricorda.
Non fece in
tempo a cullarsi oltre nei propri pensieri, che il suo telefono
squillò. Probabilmente un messaggio di Helena, immaginò
mentre estraeva l’apparecchio dalla tasca.
Hai vinto un buono per trascorrere la giornata con l’uomo più sexy del pianeta.
Purtroppo
niente Helena. Anzi, probabilmente qualche stalker che era venuto a
conoscenza del suo recapito. A meno che… No, neanche Bellamy
avrebbe avuto l’ardire di scrivere simili idiozie dopo tanti
giorni di silenzio, peraltro graditissimo. Era trascorso tutto il tempo
necessario perché perdesse il suo numero, e Brian sperava
fosse successo. Quando si erano visti? Due, tre settimane prima? E ora
se ne usciva così? No, neanche Matthew Bellamy sarebbe stato
deficiente a tal punto.
Sei ancora allo stesso albergo?
O forse sì.
Bellamy, speravo che un buco nero ti avesse risucchiato.
Brian si
appoggiò contro lo schienale della panchina. Cody era ancora
affaccendato nel prato, quindi lui poteva permettersi di continuare
quel gioco idiota ancora per un po’. Si mordicchiò un
labbro, in attesa di risposta.
Anche tu mi manchi. Posso passare a trovarti? Stai sempre in albergo?
NO.
No alla prima o alla seconda?
Cristo,
perché la babysitter di Bellamy non gli requisiva il cellulare e
lo indirizzava ad attività più costruttive?
Vaffanculo, Bellamy, e non rompere le palle.
Ti aspetto al bar di fronte all’hotel.
Quel
tono perentorio… quanto lo odiava. Spense con stizza il telefono
e lo ricacciò in una tasca del cappotto. Lo infastidiva tutto di
quella situazione. Lo infastidiva Bellamy che pensava di poter dire e
fare quello che voleva. Lo infastidiva il non essere in grado di
prevedere le sue mosse. Soprattutto, lo infastidiva la constatazione di
non essere sufficientemente determinato a uscire da quella maledetta
partita.
Iniziò
a fumare, sperando così di lenire il proprio malumore, mentre il
suo sguardo vagava inquieto per il parco e le sue mani
sull’accendino, alla ricerca di un appiglio qualunque per
distrarsi.
Chi
cazzo credi di essere, Bellamy? Non ti sei ancora stancato? Forse non
ti è chiara una cosa: TU MI DEVI LASCIARE IN PACE.
Lasciò
trascorrere una buona mezz’ora con la compagnia esclusiva delle
sue sigarette, e alla fine si sentì notevolmente più
rilassato, tanto che accolse con un gran sorriso Cody che correva verso
di lui.
- Ciao, amore.
Cody gli si
gettò al collo, ma si sciolse presto dall’abbraccio per
sistemarsi di fronte a lui, lo sguardo timoroso. Segnale numero uno:
impellente richiesta in arrivo.
- Papy…?
Segnale due: tono mellifluo, sottintendente richiesta a cui probabilmente Brian si sarebbe trovato contrario.
- Dimmi.
- Simon mi ha detto se voglio andare a giocare a casa sua…
- Cody, oggi abbiamo detto che stavamo un po’ insieme io e te.
-
Sì, papà… - Cody, rabbuiato, fissava il terriccio,
smuovendo le foglie con un piede. Brian sapeva di non avere molte
speranze di vittoria, se suo figlio avesse mantenuto ancora per un poco
quell’espressione da cucciolo afflitto.
- Poi mi devi aiutare a sistemare un po’ di cose nella casa nuova. È un lavoro da grandi!
- Sì…
-
Poi… - Brian lo fissò indeciso, poi sfiatò
sonoramente e innalzò bandiera bianca. – Non so bene
com’è, questo Simon. Me lo devi presentare. È
simpatico?
Cody
guizzò per la felicità, e non si fece scappare
l’occasione di elogiare il piccolo amico, mentre prendeva a
trascinare suo padre verso il prato dove Simon lo attendeva con la
mamma. Brian si lasciò condurre, silenzioso, e infilò gli
occhiali da sole, nonostante il consueto cielo plumbeo di Londra. Non
amava i contrattempi. Non amava le variazioni improvvise. O, meglio,
non amava che non fosse lui a determinarle. Scacciò qualunque
tipo di espressione dal suo volto. Severo e autoritario, si ripeté. Sono severo e autoritario.
- Buongiorno.
La donna si voltò di scatto a quel repentino saluto, e riservò a Brian un ampio sorriso, tendendogli la mano.
- Ciao! Piacere, io sono Marah. Tu sei il papà di Cody, giusto?
- Giusto.
– Brian rispose svogliato alla stretta di mano. Freddo. Tono
scocciato e mani di nuovo mollemente affondate nelle tasche. Nemmeno
l’avesse insultato. – Ti chiedo scusa, non mi sono
presentato. Brian.
- Piacere! Simon ed io saremmo molto felici se Cody venisse a giocare a casa nostra. Vero, amore?
Suo figlio
non rispose, si limitò ad annuire arretrando di un passo,
improvvisamente timoroso di fronte alle conversazioni degli adulti.
Marah gli sorrise e tornò a rivolgersi a Brian.
- Deve fargli vedere qualche gioco nuovo, quelle carte con i mostri, se ho capito bene… Posso rubartelo per un po’?
Non fu per
scortesia che Brian non rispose, semplicemente era affascinato dal modo
in cui quella donna parlava. Una ragazza giovane, non arrivava ai
trent’anni. Aveva lineamenti spigolosi e il caschetto sbarazzino
di chi non ha il tempo di acconciarsi i capelli. Qualche ruga
d’espressione. Non un filo di trucco. Eppure bella. Capì
di averla fissata troppo a lungo quando la vide distogliere lo sguardo
con decisione.
-
Sì. Sì, va bene. Anche a Cody farebbe molto piacere.
– sintetizzò, togliendosi gli occhiali scuri. Si
inginocchiò davanti al figlio, lo sguardo vigile. –
Però se vai a casa di Simon ti comporti bene, ok?
- Sì!
- E non fai i capricci.
- Papà-à!
- Bene.
– soffiò Brian, prendendo atto dell’impazienza del
piccolo e sollevandosi in piedi. Non era per niente convinto di
affidare suo figlio ad una persona sostanzialmente estranea. Marah
sembrava a posto; Simon un bambino educato; Cody giocava con lui al
parchetto ogni volta che si incontravano, e ne pareva entusiasta.
Eppure erano persone così comuni, normali. Brian non riusciva a formarsi un’idea chiara di loro.
–
Guarda, abitiamo in quel palazzo lì di fronte, al secondo piano.
Se ci sono problemi puoi venire subito a prenderlo, quando vuoi.
Brian gettò un sguardo preoccupato all’orologio. – Posso passare a recuperarlo fra un’ora, per pranzo?
- No, dai!
– Marah scosse la testa ridendo – Lasciali mangiare
insieme, così si divertono! Vieni nel primo pomeriggio.
Brian non
acconsentì consciamente, si limitò ad assecondare il
sorriso irriducibile di quella ragazza esuberante. Si fece spiegare in
dettaglio come recarsi al loro appartamento, prendendo nota mentalmente
delle indicazioni. Salutò Cody con un bacio, e questi, sebbene
avesse già ripreso a scherzare con Simon, si fermò
all’istante e lo ringraziò con un abbraccio.
- Forza, bambini, andiamo a casa!
I due si
incamminarono seguendo la voce squillante di Marah, e Brian vide Cody
che si chinava a raccogliere un guanto che gli era caduto, scuotendolo
con forza per liberarlo dal terriccio prima di rimetterselo in tasca.
Che bambino splendido aveva. Un gioiello che lui certamente non
meritava, pensò sentendolo che già chiacchierava in
lontananza con Simon. Un punto in più all’educazione che
gli sforzi congiunti suoi e di Helena erano riusciti a impartirgli.
- Ma lo sai che il mio papà è famoso? Una volta un signore ha detto che l’ha visto alla tele!!!
Altri due punti. E una compiaciuta pacca sulla spalla al suo ego.
Realizzata
l’assenza di Cody, Brian prese a passeggiare, sentendosi
stranamente solo. Sedette nuovamente su una panchina, indeciso su come
occupare il tempo improvvisamente in eccesso. Di tornare a casa non
aveva voglia, essenzialmente perché l’aveva lasciata con
l’idea di tornarvi soltanto dopo pranzo insieme a Cody, e voleva
presuntuosamente rispettare il progetto. Il parco, d’altro canto,
aveva esaurito il suo fascino, ed era dunque il momento di allontanarsi
da lì. Saranno stati questi motivi, sarà stato il freddo
pungente di un gennaio piuttosto rigido. Sarà stato il fatto che
aveva visto suo figlio molto felice, e questo gli faceva bene.
Sarà stato che parlare con Marah gli era piaciuto, e ora non
aveva voglia di starsene da solo. Sarà stata la fame.
Sarà stata una concomitanza di tutti questi fattori.
Semplicemente Brian si avviò verso il bar indicatogli da Matt,
reputando davvero sgradevole il senso di aspettativa, di attesa, che lo pervadeva. Sorrise.
Tranquillo, Bellamy, non ammetterò mai che ti sto raggiungendo perché mi va.
_____________
No, non ho mai ritoccato tanto qualcosa. Fatemi internare XD
Ho avuto
un’illuminazione e mi si è dipanata davanti la matassa
dell’intera vicenda. Questo, anziché galvanizzarmi, mi ha
ridotto in stato scrittorio semivegetativo, poiché ero
mortalmente annoiata all’idea di mettermi a raccontare qualcosa
di cui sapevo già tutto. Poi, tuttavia, ho iniziato la stesura e
gli avvenimenti sono andati per i fatti loro, come sempre, lasciandomi
indietro a rincorrerli. Pensate che la mamma di Simon doveva essere una
semplice frase buttata lì fra tante, e invece è diventata
Marah. Marah... Vero che io non mi sto inguaiando in qualcosa da cui
non so come uscire? Vero? Vero? *si volta a destra e a manca,
interrogando libri e portapenne* Il fatto, ecco, è che mi sono
tipo innamorata di lei… * ora invece arrossisce imbarazzata e
riquadra con il ditino i pulsanti della tastiera*
La
Matt/Brian ha un po’ rallentato, ma apprezziamo il fatto che il
Bellamy infastidisca anche a distanza, con indubbi, molesti risultati.
E poi è colpa mia: quando vedo Cody non capisco più un
accidente, e ho forti tendenze allo sproloquio protratto per una
ventina di pagine. Spero solo che non risulti noioso. Cody <3
A presto, e grazie a tutti.
|
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Capitolo 4 *** IV - Potrei avere voglia di cominciare ***
Partenze IV - Potrei avere voglia di cominciare
IV - POTREI AVERE VOGLIA DI COMINCIARE
Tre
gradini. Ormai soltanto tre gradini lo separavano da Matthew Bellamy,
dal suo vociare logorroico e dalle sue sconvenienti problematiche
esistenziali. Tre gradini che potevano significare possibilità
di fuga e salvezza immediata, nessuna situazione noiosa, nessuno
scambio di battute gratuito, nessun rischio accidentale. Bastava non
allungare la mano a spingere la porta verso l’interno del bar. E
una volta entrato, bastava voltarsi e tornare sui propri passi
silenziosamente. Nessuno l’avrebbe notato, casuale avventore come
tanti, men che meno Matt, seduto là in fondo, intento a
sfogliare una qualche rivista di terza mano, vecchia di mesi. Rolling Stone.
Alquanto tradizionale e, ad intuito, avrà conosciuto quel numero
a memoria. Scosse il capo in un sorriso, osservando l’espressione
assorta che riservava ad un articolo evidentemente interessante. La musica del cosmo, o qualche altra tirata paraculturale.
Finalmente
Matt lo notò, in piedi accanto alla porta d’ingresso,
intento a sfilarsi la sciarpa grigia e ad arrendersi all’idea che
quell’incontro era frutto primo della sua incoscienza. Gli
indirizzò un brindisi con la tazza giallastra che stringeva tra
le mani, indicando frettolosamente il posto accanto al suo.
- Non pensavo che venissi!
- Neanch’io.
- Sei stato molto cortese al telefono. L’avevo interpretato come un no.
Brian si
sistemò con calma fin troppo studiata di fronte al suo
interlocutore, intrecciò con cura le mani sul tavolo e lo
fissò.
- Mi sono
liberato da un impegno. Avevo fame. Avevo voglia di una squallidissima
bevanda riscaldata in uno squallidissimo bar.
Matt ghignò mostrando tutti i denti, mentre si protendeva verso di lui. – Avevi una fottutissima voglia di vedermi.
- No.
- Rimango del mio parere.
- Bene. Fanculo.
Si
appoggiò composto allo schienale della sedia, rifletteva. Era
tutto come al solito, eccezion fatta per l’insopportabile
tranquillità ostentata da Matt, quasi volesse farsi scivolare
addosso qualunque frase. Quasi non avesse paura di lui. Era una condizione precaria che non lo soddisfava.
Matt
terminò di bere il contenuto della sua tazza, quindi poté
finalmente concentrare la propria attenzione su Brian, che lo stava
fissando ormai da diverso tempo con uno sguardo impenetrabile.
- Ottimo. Direi che abbiamo svolto i principali convenevoli. Come stai, Brian?
- Stavo bene finché non ho scoperto che ti piace il caffè d’orzo per colazione.
- È buono. Mi ricorda quando ero piccolo.
- Oh, Cristo.
- Ne desideri un po’?
- No! La pianti di parlare come un coglione?
Matt scrollò le spalle con aria innocente. – Pensavo ti piacesse il tipo raffinato.
- Bellamy, tu non sei raffinato. Tu sei pazzo. E non mi piaci.
- Bugia, Brian, e lo sai benissimo.
Non si
toglieva quell’espressione sorniona dal volto, e quel dito
scheletrico sventolato davanti al suo naso rendeva il tutto molto
più fastidioso e stupido
di quanto già non fosse. Brian aprì la bocca per
rovesciargli addosso qualche ingiuria velenosa, ma la situazione era
talmente paradossale che dovette limitarsi a richiuderla, voltandosi
stizzito verso la modesta sala del locale. La verità era che non
aveva nemmeno più voglia di insultarlo. Era tutto sbagliato.
- Ho una proposta.
Brian
tornò a guardare Matt, e gli trovò negli occhi una luce
strana. Sembrava… aveva tutta l’aria di essere decisione,
non fosse altro che quella vena di tensione a deformargli la mascella
in modo innaturale.
- Riguardo a che cosa?
- Riguardo alla possibilità di bere un caffè tranquillamente, intrattenendo una conversazione normale.
- Io e te?! Non credo sia possibile!
- Certo che è possibile. Devi solo piantarla di fare lo stronzo arrogante.
Brian gli
si avvicinò paurosamente, il viso a pochi centimetri dal suo,
gli occhi ridotti a fessure. – Non osare permet-
- Non me ne
frega un cazzo! Brian, – Matt si allontanò bruscamente da
lui, una risata isterica per sfogare il nervosismo – non mi
interessano le tue minacce o il tuo finto sdegno. Ti fanno sentire
meglio? Fai pure. Però non mi prendere per un idiota. Io sono
qui perché ne ho voglia, d’accordo? Mi andava di parlare
con te e ti ho chiamato, nient’altro. Vorrei che la mia vita
fosse abbastanza sensata da non averne bisogno, ma non è
così.
- Ma sentiti.
- È vero.
Non stava
gridando, era calmo. Maledettamente calmo, mentre sputava fuori
confessioni che Brian non seppe classificare se non come imbarazzanti.
- Bellamy,
lo sfascio della tua vita è un problema che non mi riguarda. Non
salvo nessuno, io. Non mi devi chiamare se ti senti solo, non devi
aspettarti parole consolatorie da me. Non mi devi pensare nei momenti
di bisogno.
- Intanto io ho chiamato e tu sei arrivato.
- Ti ho già spiegato il perché!
- Per fare colazione, certo. Dio, è inconcepibile che ti terrorizzi una discussione normale.
- TACI, CAZZO!
Aveva
urlato. Aveva perso le staffe per le sciocche illazioni di Matt e la
sua schiettezza petulante. L’aveva odiato perché non
frenava le parole. Ed ora si ritrovava così, il respiro
affannato, e con una mano stritolava il tavolo. Pensò che
avrebbe potuto davvero rovesciarlo a terra, fargli male, e sarebbe
stato meglio, e questo non spaventò soltanto lui, a giudicare
dallo sguardo scheggiato di Matt.
-
D’accordo. Dimmi solo una cosa. – gli tornò vicino.
Era stanco, Matt. Aveva gli occhi gonfi e la voce ridotta a un
sussurro. – Ti costa tanto ammettere che per sbaglio avresti potuto avere voglia di venire da me? Di parlare con me?
Non
lo so. Non so più nulla, Bellamy. Non so come sono finito in
questa situazione, non so perché l’ho voluta. Ma mi andava
bene, lo sai? Godevo, quasi. Finché sono arrivati i tuoi
ragionamenti, la tua voglia di altro a complicare tutto. E non so il perché neanche di questo.
-
Io… sì. – lo fissò intensamente. Nessuna
acredine, nessun rancore. La verità, per una volta. –
Sì, mi costa molto.
Lo guardò per un tempo indefinito, non avendo la benché minima idea di cosa fare, cosa dire. Senza parole. Lui, senza parole.
Se non altro, Bellamy, ti ricorderò per essere riuscito in questo.
Matt
sostenne il suo sguardo penetrante, forse, alla fine, stupito da
qualcosa, poi sorrise, più a se stesso che ad altri, e
annuì al nulla. – Certo. – Si alzò convinto,
continuando quel penoso monologo interiore.
- Matt, che cazzo fai ora?
Matt lo osservò perplesso. – Ti ordino un caffè. Che cazzo vuoi che faccia?
Brian
ringraziò che il bancone fosse abbastanza lontano da non
consentire a Matt di sentire la sua risata. – Idiota… -
articolò divertito. Rivolto non sapeva nemmeno lui a chi.
Non
aveva senso niente. Né Matt, né le sue parole, neanche
quel fottutissimo caffè. E gli piaceva per questo.
***
- Tieni.
- Grazie. – Brian accolse con piacere la tazzina offertagli da Matt, la zuccherò e prese a mescolarla con lentezza.
- Che cosa stai facendo?
- Fisso il legno.
- Ora. – liquidò con un gesto noncurante – Che cosa stai facendo ora. Nella vita.
- Ah. Cazzate.
- Le consuete cazzate musicali? – insinuò beffardo, e Matt parve finalmente riscuotersi.
- No, Brian. Farò uscire il mio prossimo disco tre mesi dopo il tuo, così potrai ancora accusarci di avere copiato.
- No, no, Bellamy. – gli puntò contro il cucchiaino – Non lo dico io, è cosa nota a tutti.
- Che hai manie di protagonismo?
- Che io ispiro le persone.
Rituffò
il cucchiaino nella tazza, incurante del commento osceno di Matt, e
bevve velocemente. – Cazzo, è brodo.
- Non è dei migliori. In Italia lo fanno meglio. In Italia fanno meglio tutto il cibo.
Brian non
fece consapevolmente quel collegamento, fu più che altro una
conseguenza del vedere Matt ripiombare nei propri pensieri.
- Come va con la tua donna?
- Kate? Uhm. Tutto bene. È volubile e lunatica. Capricciosa.
- È incinta.
- Lo so.
– sillabò Matt, gettando a Brian un’occhiata
infuocata – Non le puoi dire niente, è isterica. Mangia
sempre, è disgustoso. E dice che non la capisco. Come faccio a
capirla? È lei che si sta gonfiando, non io!
Brian si
godeva sorridente la scena, intrisa di un antico sapore di
déjà vu. Matt sembrava un bambino in punizione che si
lamenta per l’intransigenza della maestra.
- Ieri, per
esempio. Mi ha detto che è molto incerta sul nome da dare al
bambino. Lo dice una volta al giorno, e ormai non le rispondo
più di aspettare almeno di sapere se sia maschio o femmina.
Allora, per scherzare – ma davvero per scherzo!,
precisò Matt spalancando eloquentemente gli occhi – le ho
detto di scegliere un nome iniziante per M di almeno quattro lettere,
così sarebbe uscito qualcosa di figo come Matthew o Muse. Non immagini quanto si sia incazzata.
Brian non trattenne più l’ilarità che cercava di nascondere e si abbandonò ad una risata acuta.
- Sei splendido, Bellamy!
-
…Fottiti! – rifletté, ancora spossato dal ricordo
del litigio raccapricciante. Cercava una spiegazione logica a quella
che riteneva illogicità pura, e scuoteva la testa con vigore.
- E non mi dire che ti chiede anche di apparecchiare la tavola e di sbrigare le commissioni!
- La
carrozzina! – esclamò, indicandolo malamente con una mano
e socchiudendo gli occhi, come se ricordasse improvvisamente la parte
più greve della sua incespicante esperienza da futuro genitore.
– Ha cercato di mandarmi a comprare una cazzo di carrozzina il
giorno dopo aver fatto il test di gravidanza! Quella volta l’ho
proprio mandata a cagare. Glielo devo spiegare io che ci vogliono nove
mesi, nove strafottuti mesi per partorire un figlio? Ma per forza, sai?, se no il padre si suicida prima. Dobbiamo interiorizzare la cosa.
Finalmente
prese fiato, gli occhi ancora dilatati dalla potenza dello sfogo e
l’espressione sconvolta. Brian si passò una mano sul volto
ancora sorridente. Fu tranquillizzato notando che la follia di Bellamy
si dipanava, nonostante tutto, su uno strato di vissuta
normalità. No, non era un uomo come tutti, ma forse questo
costituiva un vantaggio.
- Vai a prendere qualcosa da bere - niente schifezze, se riesci -, poi ne parliamo, ti va?
Non
ottenne risposta, Matt lo ignorò desolato, ma si recò al
bancone e ordinò due acque toniche senza ghiaccio. Tornò
al tavolo e bevve deciso metà del suo bicchiere. Brian lo
studiava curioso, e lo vide calmarsi, liberando in un sospiro
prolungato la sua irritazione.
- Scusami. Erano fregnacce, però c’è da impazzire. – Altro sorso. – Zoccola.
- Non essere stronzo.
- Va bene, sono intollerante nei suoi confronti, ma ti garantisco che se le merita davvero tutte.
- Matt, non si è messa incinta da sola…
- Non la
sto incolpando, infatti! – cantilenò debolmente – Ho
come l’impressione che il tempo che non spendiamo a urlarci
dietro, lo trascorriamo a chiederci perché siamo stati
così idioti, tutti e due. Non è stupida, lo credo. Vorrei
solo che vivesse tutto in modo diverso. Cristo, non ha pensato neanche
per un momento a come potevo sentirmi io, al mio parere. Non mi ha
chiesto se volevo un figlio, mi ha urlato in faccia, all’apice
della gioia, che ne aspettava uno. Non ho capito un cazzo per giorni.
Brian non
pensò a quanto fosse assurdo accogliere le più sincere
confessioni di una persona che così poco conosceva. Oramai aveva
capito. Con Bellamy le bugie non esistevano, era questa la regola da
imparare. In fretta. Soppesò attentamente le parole. – A
me non sembra che tu non voglia un figlio. A me sembra che tu abbia,
non me ne volere, molta paura.
- Certo che
ho paura! Ma per lei è inammissibile. Lei è felice di
essere madre, un’altra volta. Ed è una buona madre,
davvero, ma non capisce che io non sono lei, che per me non è tutto scontato.
- Dovresti dire a lei queste cose, Bellamy. Spiegargliele in questo modo.
-
Spiegare… Siamo a un punto in cui non riusciamo neanche e a
darci il buongiorno senza azzannarci, figurati se dovessimo parlare.
- Sei innamorato di lei?
- Ma per favore.
- Andiamo,
Matt! – lo canzonò spezzante - Non è la prima con
cui sei andato a letto e non sarà l’ultima, ti devi
chiedere perché con lei fai un figlio e con le altre no.
- Il fatto
è che è una storia impostata male dalle fondamenta.
– illustrò Matt con frenetico gesticolare – Potevano
esserci, e c’erano!, dei buoni presupposti, sul serio. Ma fra un
anno. O anche due. Non ora, non così, non dopo tre mesi di
rapporto. Avrei potuto innamorarmi di lei, non ci metto molto, ma ci
siamo incasinati la vita. Abbiamo accelerato i tempi in modo
devastante, e adesso sono cazzi. Cosa vuoi che succeda? Facciamo la
coppia felice, poi la famiglia felice e dopo gli ex felici. Ognuno per
la sua strada e tanti saluti. Però ci andiamo di mezzo in tre e
non in due. – stritolò il bicchiere con stizza – Che
schifo.
- Bellamy,
non voglio passare per l’avvocato del diavolo né darti
alcun consiglio, però devi considerare che quando sarai padre-
- Non lo
dire! – Matt lo bloccò con la mano, non bastasse il tono
esasperato della sua voce. – Non dire che il bambino
sistemerà tutto, ci darà stabilità e ci
faciliterà la vita! Ho sentito troppe volte questo ritornello.
- Cazzate! Non ho mai visto un figlio semplificare
qualcosa, tanto meno la vita dei genitori. Però ti cambia.
È un cliché più che maltrattato, ma sincero. Ti fa
crescere. Per forza. Quindi rimarrai sempre incasinato, ma per altri
motivi. Ed è veramente affascinante.
- Uh. Addirittura? Ti stai sbilanciando parecchio.
Brian scrollò le spalle. – A me è piaciuto.
- Diventare padre?
- Assolutamente.
- E ti piace ancora?
-
Be’, come si dice, è l'unico vero amore, la sola luce
della mia esistenza… Dio, come sono banale. – concluse
sbuffando e terminando il drink.
- Io sarei felice se potessi parlare di mio figlio così.
- Non è difficile, credimi.
- Poi il nostro è un ambiente malato.
- Vero.
- Tutti che si fottono a vicenda. Muori tu, vivo io. Non può crescere bene!
- È
per questo che servi tu, Bellamy! Non è certo l’ambiente
che deve crescere tuo figlio. Tu insegnagli a mettersi una corazza e a
inseguire un obiettivo, e hai concluso il tuo compito da genitore.
- E se diventa un tossicodipendente sballato?
- È colpa tua.
- E se… Eh? – Matt lo guardò stranito.
- È
colpa tua. Se diventa un tossicodipendente sballato è colpa tua.
Quindi non fare stronzate ed educalo in qualunque modo.
Matt continuava imperterrito a fissarlo. – Cazzo. Come sei serio.
- È una cosa su cui non amo scherzare.
- Vorrei avere la tua sicurezza.
- Non
dirlo! – Brian rise di gusto. – Tempo due giorni da quando
nasce tuo figlio, Matt, e ti garantisco che faresti tutto per lui!
Lo sguardo
scettico di Matt gli fece capire che non si trovava in accordo con lui,
o quanto meno si riservava il diritto di decidere in futuro.
- Piantala di farti seghe mentali! Non serve a nulla.
- È legittima preoccupazione.
- È inutile.
- Okay...
nuovo argomento. – Matt spostò il peso in avanti sul
tavolino, avvicinandosi sensibilmente a Brian. – Parliamo di te.
– gli soffiò malizioso a pochi centimetri dal viso. Era
incredibile quanto poco impiegasse per cambiare umore, espressione e
discorso. Questo Matt non aveva nulla da spartire con il padre
premuroso di pochi istanti prima, molto più affine, invece, a
quello che svendeva sesso nei corridoi degli alberghi.
- Ti ho già fornito parecchie informazioni. Non tirare troppo la corda.
- Non mi hai dato quella più importante.
- Ossia?
Matt
allargò le braccia esplicativo, e notò la smorfia di
disapprovazione di Brian quando si allontanò da lui. –
Perché è finita con la tua donna! Dopo aver giocato allo
psicologo, mi devi spiegare perché tutte le tue lineari
elucubrazioni non valgono un cazzo nella pratica!
Brian
arricciò le labbra, prima di distenderle in un sorriso storto,
ben consapevole che quella era l’unica crepa nell’intero
suo discorso, una domanda che molte volte si era posto e a cui non era
mai determinato a rispondere. – Perché è
finita… Che cosa ne so, Bellamy. Se riesci a capire
perché una storia muore, riesci anche a salvarla. È
finita perché doveva finire. Sarà stato il destino, il
ciclo della vita…
- Sembri un guru buddista.
- Avevamo bisogno di aria nuova, tutti e due.
- Era una possessiva?
- Helena?
– Pronunciando il suo nome, Brian ebbe l’impressione di
perdersi ulteriormente in quell’informe groviglio di ricordi in
cui Matt lo stava spingendo. – Per niente. Mi lasciava gli spazi
– enormi spazi –
di cui ho bisogno, e io facevo lo stesso. Ci concedevamo
un’indipendenza consistente, vitale per entrambi. Ma lei riusciva
comunque a tenermi con un piede fisso a terra quando cercavo di
sprofondare, come fosse un baricentro. Era la donna perfetta.
- E allora perché non ha funzionato? – si avvicinò insinuante – Perché era una donna?
- No. Perché era perfetta.
- Non mi sembra una risposta sensata.
- È l’unica che ho trovato.
Passò del tempo prima che uno dei due si decidesse a spezzare il silenzio fitto di pensieri che si era andato a creare.
- Vado ora. Devo passare a prendere mio figlio e non voglio fare tardi.
- Figurati.
Si
alzarono entrambi, lasciando sul tavolo qualche moneta e banconota.
Brian indossò il cappotto mentre si avviavano verso
l’uscita, e osservava guardingo l’espressione serena sul
volto di Matt.
- Stai sorridendo come un ebete.
- Pensavo.
- Cazzo, non farlo! Diventi brutto.
- Pirla.
Pensavo che non mi dispiacerebbe, tutto sommato. Una vita
così… la mia musica, chiacchiere e caffè, poter
fare l’uomo impegnato dicendo Scusate, ma devo proprio andare perché mio figlio esce da scuola. Forse non è così assurdo…
Brian si
bloccò, le braccia a mezz’aria che stavano avvolgendo il
collo con la sciarpa, un ghigno malefico a increspargli le labbra.
– Sei già fottuto, Matt.
Ripresero a camminare. – E sei stato molto meno sgradevole degli incontri passati.
- Hai visto? Non ti ho neanche chiesto di scopare!
La porta si
chiuse alle loro spalle, ma il barista fece in tempo a rivolgere loro
un’occhiata che li tacciava di squallore, borbottando qualcosa.
- Ma che bravo.
Già che c’eri, potevi aspettare altri dieci secondi e
avanzare le tue richieste hot senza sputtanarci in modo palese.
- Nah, pensavo a un invito più tradizionale, in realtà.
- Cioè?
- Cena.
- Mi stai invitando a cena?
- Sì.
Ci
rifletté un momento. Sì, aveva voglia di rivederlo. No,
non voleva che si prendessero sul serio. - A patto che non si
parli di vita privata.
- Che cazzo di condizione è?
- La condizione per cenare con me.
-
…Okay. Si parlerà di lavoro. Si parlerà di musica.
– lo squadrò beffardo – Buona musica.
- Suppongo che dovrò monologare, allora.
- Imparerai molte cose, credimi.
- Non vedo l’ora. Prenoto io in un posto che conosco. Pochi curiosi, poche rotture di cazzo.
-
Mmm… - Matt gli afferrò il bavero della giacca, fingendo
di sistemarlo – Se cerchi un posto intimo, c’è
sempre casa mia…
- Matt… - gli bloccò le mani in movimento sul suo petto – Ho voglia di cenare con te non significa Ti prego, scopiamo sul tavolo della tua cucina. Assimila la differenza.
- Va bene. Comunque volevo farti sapere che ormai non sarebbe più solo sesso per vendetta.
- Oh,
Cristo, Matt! – spinse via quelle mani frenetiche, soffocando una
risata con un colpo di tosse – Devi mettere un dannato filtro tra
quello che pensi e quello che dici!
- Ti
piaccio perché non lo faccio. – scosse la testa
semplicemente – Ti piaccio perché dico cose che non
diresti mai. Ti piaccio perché sono diverso da te.
Si
fissavano, due animali spavaldi che si studiano, pronti ad attaccare.
All’erta. Brian percepiva i loro respiri fondi, ritornando con la
mente alla notte della festa, alle sensazioni di allora,
all’odore di Matt addosso a lui, al sapore della sua bocca
affamata. E gli piacque tutto. Gli adagiò un pugno sul ventre,
soffermandosi più del dovuto a giocare con la stoffa pesante che
lo ricopriva. Pensò solo che avrebbe preferito non ci fosse.
- Ciao, Matt. Ti chiamo io.
__________________________
...
Bah. Cambiare doveva cambiare, prima o poi. Boh.
Però
sì, ecco: quando Brian gli arruffa la giacca pur di non
staccarsi, lì è proprio un po’ tenero.
Grazie a tutte voi che seguite e palesate sempre il vostro parere sull’evoluzione della storia: <3.
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Capitolo 5 *** V - Il gioco delle parti ***
V - Il gioco delle parti
V - IL GIOCO DELLE PARTI
- Ciao Frank, tutto a posto?
- Buonasera, Brian. Non mi lamento, non mi lamento. Ti ho tenuto il solito tavolo, spero vada bene.
- È perfetto.
- Ma, ma,
ma… Fammi controllare… - Frank si picchiettò il
mento pensieroso, accostandosi al bancone dell’accoglienza e
sporgendosi con malo garbo ad afferrare un taccuino stropicciato.
– Eccolo qui! Molko 20.30 x2… Dove l’hai lasciato il due?
- Arriverà. Non voglio illudermi che non arrivi.
- Perfetto, perfetto. – scorciò Frank. – Vieni, ti accompagno al tavolo.
- Lascia stare, so la strada.
- Come preferisci. Ti porto qualcosa o aspetti la signora ritardataria?
Il sorriso gli nacque spontaneo mentre soppesava la proposta. – Sì. Sì, aspetto la signora.
Si avviò
verso la sala sopraelevata del ristorante, appartata e meno chiassosa
della principale, e si accomodò al piccolo tavolo rettangolare
accanto alla vetrata. Da lì la vista di Londra dall’alto
era splendida, considerando che il locale era all’ultimo piano di
un grande edificio nel centro città, e Brian sedeva sempre in
quello stesso posto da quando, un paio d’anni prima, era venuto a
pranzo con Cody e il piccolo non aveva esitato nella scelta del tavolo.
- Guarda,
papà! Papà! È bello! – aveva strillato con
il naso schiacciato contro il vetro, facendo voltare qualche cliente.
Brian aveva sorriso condiscendente. – Ma come? Non ti fa paura essere così in alto?
- No, mi sembra di volare.
Brian aveva deciso che quello era il suo tavolo preferito.
Ancora sorrise al
ricordo di quel giorno, mentre con lo sguardo vagava attraverso i viali
e gli uffici londinesi, così illuminati da sembrare sempre in
fermento, sempre freneticamente occupati da frenetiche persone. Eppure
quel quadro gli conferì tranquillità. Era come tornare a
respirare, inalare finalmente a pieni polmoni l’aria che da
sotto, dall’interno di quel tramestio che lui così tanto
amava, non si riusciva nemmeno a percepire. Avevano un aspetto
così comune tutte le auto che scivolavano silenziose su Davies
Street, ed era rassicurante pensare che di quella normalità
faceva parte anche lui.
- Posso disturbare o sei troppo intento nelle tue riflessioni?
Brian si
voltò, prendendo atto solo in quel momento dell’assorta
posizione che aveva assunto, i gomiti sul tavolo e le mani intrecciate
davanti al viso, l’indice che lambiva appena le labbra.
Guardò Matt, in piedi e bagnato accanto alla sedia, che gli
sorrideva sornione nonostante le gocce d’acqua che gli scorrevano
lungo il viso gli donassero un’aria compassionevole.
- Disturbo moderato, se possibile. Ciao, Matt, sei appena uscito dalla lavatrice?
-Sì,
sì, molto spiritoso. – proferì laconico, sfilandosi
l’impermeabile verde e gettandolo su una sedia poco distante.
- Hai allagato il
ristorante, usurpato un posto libero con il tuo orribile cappotto
fradicio e, soprattutto, impedito al sottoscritto di cenare
all’ora che voleva, presentandoti in ritardo di venti minuti.
- E tu hai scelto
di vivere in una città di merda, dove esci di casa con il sole e
scendi dall’auto con una pioggia torrenziale, hai prenotato la
cena in un quartiere pieno solo di ristoranti e bar e speravi anche che
io non mi perdessi diciotto volte!
Brian scoppiò a ridere registrando lo sconforto di Matt. – Pensavo che ormai fossi pratico della città!
- E come? Essere
trasportati in taxi dalla sede di un’emittente radiofonica
all’altra non alimenta propriamente il senso
dell’orientamento. E casa mia non è decisamente in zona
– ho preso casa fissa, lo sai? – rivelò
illuminandosi, studiando lo sguardo di Brian per capire se
l’argomento poteva essere di suo interesse. Notando un modesto
sollevamento delle sopracciglia, decise che valeva la pena continuare,
e si lasciò andare ad un’accurata descrizione del rustico
che aveva acquistato pochi giorni addietro fuori Londra, in collina,
accogliente seppure un po’ datato. Affermò che il silenzio
e la quiete di quel luogo lo aiutavano a riflettere e suonare – a
tal proposito Brian gli fece notare come sarebbe stato meglio che si
astenesse da entrambe queste attività – ed erano un
toccasana contro il convulso ammasso di avvenimenti che l’aveva
coinvolto nell’ultimo periodo.
Stava
affrontando un’attenta disamina dell’arredo liberty con cui
aveva deciso di depauperare le sue finanze, quando Frank fece il suo
ingresso nella sala, sfregandosi le mani amichevole e canticchiando un
motivo di sua invenzione. – Allora, se i signori sono pronti,
posso… - Si accorse improvvisamente della pozza bagnata in cui
stava scalpicciando, e cercava la spiegazione guardandosi intorno
stranito. – … Ma che diavolo! È passato un uragano?
- Sì,
“Matt the wet”, mi dicono. – espose assorto Brian. -
Pare abbia intenzione di abbattersi a nord della città.
- Matt the wet? Ma che schifo di senso dell’umorismo hai?
- Tu non hai neanche un ombrello, Matt, mi sembra un acquisto prioritario.
Frank
intuì l’aria che tirava e si allontanò per chiamare
un cameriere affinché rimettesse in sesto il pavimento della
sala. Studiò il percorso più lungo per ripresentarsi dai
due belligeranti, schiarendosi sonoramente la voce mentre si
approssimava al tavolo. L’ultima cosa che sentì fu te la do io, la credenza in vimini.
- Mi chiedevo, ecco, se eravamo pronti ad ordinare la cena…
- Pronti. – ringhiò Brian, assottigliando gli occhi in risposta al sorriso serafico di Matt.
Il clima di
distensione parve rafforzarsi mentre Frank snocciolava le prelibatezze
che il suo staff proponeva. Parlò per due minuti abbondanti, per
poi rivolgere un sorriso incoraggiante a Matt. – Allora?
- Mmm, non so. Chieda prima a lui, se non le dispiace.
Brian occhieggiò a Frank e allargò le braccia in segno di sconfitta. – Non dire nulla, Frank. Il solito.
- Ancora? Non ti sei stancato, Brian?
- No, perdonami. I tuoi chef dedurranno la mia presenza dalle ordinazioni, ormai.
- Scusate.
– Matt era irritato da quella confidenza di cui era soltanto
spettatore, e tossiva con insistenza mentre interrompeva le risate dei
due. – Si può sapere che cos’è il solito?
Brian gli si
rivolse con eccessiva noncuranza, incrociando leziosamente le dita. -
Ravioli ai formaggi e pollo al curry, naturalmente.
- Dio, sei
originale quanto un calcio nelle palle. – Si rivolse impassibile
al maitre mentre Brian si strozzava con la sua stessa saliva. –
Prende penne zafferano e insalata belga e sottofiletto al pepe verde, e
io pure. La carne poco cotta, per favore. Ah, il vino. Rosso. Molto e
rosso.
Frank si
allontanò perplesso, Matt lo studiò altrettanto
perplesso, Brian sperava di cuore di non aver udito correttamente
l’ultimo discorso di Matt.
- Tu… sei un troglodita! – sputò fuori, sperando di essere abbastanza espressivo.
- Perché,
scusa? Dovevo ripetere tutte quelle parole in Francese per fare bella
figura? Se è riso, io lo chiamo ‘riso’, di solito.
- Ma non conosci una dannata via di mezzo fra i francesismi e calcio nelle palle?
- Ci siamo capiti, almeno.
- E poi, cazzo, che razza di piatti hai ordinato?! Penso di aver il sacrosanto diritto di scegliere che cosa mangiare!
- Sì, ma sei monotono, come ti ho detto.
- E tu da quando sei un intenditore di nouvelle cuisine?
- Va bene, va
bene! – Matt si adagiò comodamente contro lo schienale.
– Chiedo scusa umilmente. Sceglierai tu il dolce, se hai voglia.
Brian gli rivolse un nuovo insulto, ma per qualche ragione gli venne da ridere. – Fanculo, Matt!
- Ma dimmi, Brian, almeno un po’ ti piaccio?
- No, sei irritante.
- Tu mi piaci.
- E scemo.
Si erano molto
avvicinati durante il diverbio, e Brian poteva osservare nitidamente
ogni dettaglio del volto di Matt. Gli occhi troppo mobili, le labbra
troppo sottili. Gli zigomi troppo pronunciati e un mento qualunque. Non
bello. Il viso di Matt era dissonante, come se ogni parte cercasse la
propria sistemazione all’interno di quella confusione, e Brian
provò l’istintivo desiderio di accarezzarlo, quasi volesse
vedere se sarebbe rimasto così anche dopo il tocco delle sue
mani. - Sì. – disse senza alcuna connessione logica, e
Matt dovette accorgersene, dato che gli sorrise con prepotenza,
ammiccando un lo sapevo altrettanto sconclusionato.
Stettero
così a fissarsi per un tempo indefinito, senz’aria di
sfida, senza imbarazzo, protesi in avanti, scomodi, le mani scomposte
sul tavolo. Brian pensò che non se ne voleva andare.
I minuti
trascorsero rapidamente, un ragazzetto poco più che sedicenne
portò loro degli antipasti appetitosi – Offre Frank,
farfugliò timidamente, a testimonianza del fatto che aveva ben
riconosciuto i due avventori e ne era a dir poco in soggezione.
- Ah! Un mio fan, ovvio! Quando torna gli chiedo dove vuole l’autografo.
- Secondo me gli ha solo fatto paura il tuo sorriso deliziato.
- Brian, non
sarai così immodesto da pensare che quello ascolti i dischi del
tuo gruppetto, vero? Non credo godiate di così tanta
popolarità.
- Ma sicuro. Il fatto che io abiti a due isolati da qui mi rende un perfetto sconosciuto da queste parti.
- Io vendo di più. – gorgogliò tronfio, puntandosi un dito al petto e svuotando il primo bicchiere di rosso.
- Segno evidente della crisi della musica moderna.
- E canto meglio.
Brian strinse la
tovaglia con i pugni chiusi, una vena di dolore gli sconvolse i
lineamenti. - Tu pigoli ultrasuoni nel microfono, gli scienziati stanno
ancora tentando di capire come fai.
Gli strappò un’acuta risata, a cui seguì un accenno stridulo al ritornello di Starlight, che Brian riuscì a stroncare sul nascere chiudendogli la bocca con mano salda.
- Vuoi che ci buttino fuori? Ti si sente fino al palazzo di fronte.
- Uh, le mie corde vocali.
- Matt, sii serio un momento, per favore. – lo fissò penetrante. – Basta farmi fare figure di merda.
- Hai ragione, scusa. La prossima volta stiamo a casa mia, c’è più intimità.
Si guadagnò un’occhiata beffarda. – Chi ti dice che ci sarà una prossima volta?
- Il fatto che non stacchi la mano dalla mia faccia e che mi stai ammiccando da quando sono arrivato.
Brian si
immobilizzò, realizzando che effettivamente la sua mano destra
stava ancora indugiando su una zona imprecisata fra le labbra e la
guancia di Matt, mentre la sinistra aveva arpionato la manica della sua
giacca. Si scostò rapidamente. – Scusa.
- Non mi ha dato fastidio. – soffiò fuori con banalità.
Parlarono
finché Frank non portò il primo piatto, e Matt decise che
nessun argomento era tanto rilevante da interrompere il silenzio spesso
che doveva accompagnare il primo boccone di pasta di Brian.
- D’accordo, è buona. Ora smetti di guardarmi con quell’aria affamata.
Si pentì
subito di averlo detto, ma stranamente Matt si limitò
all’ennesimo sorriso e cacciò la forchetta nel proprio
piatto. – Mi accontenterò di assaggiare la pasta, allora.
– chiosò soprappensiero, e si ritrovò infine a
concordare con Brian. – Cazzo se è buona.
Durante il
resto del pasto chiacchierarono del più e del meno, in
un’atmosfera serena e distesa. Brian stabilì che parlare
con Matt era davvero piacevole, quasi rilassante. Non cercava per forza
di commentare, non ti frenava le parole in bocca, anticipandole, non
sussurrava incerto i suoi pensieri, ma li proponeva deciso, come avesse
già stabilito che erano degni di ricevere voce. Soprattutto,
Matt parlava di qualunque cosa: Brian si ritrovò ad ascoltare
attento il racconto dell’ultima volta che aveva preso
l’autobus di linea, agghindato pressoché da terrorista per
non farsi riconoscere. Provò a riflettere su come erano finiti
in quel discorso, ma proprio non seppe ripercorrere i passi della mente
di Matt, e si limitò a ridere di gusto. Per conto suo, gli
raccontò della prima chitarra che aveva preso fra le mani, e di
quella fitta allo stomaco che lo aveva accompagnato mentre passava al
commesso i soldi necessari all’acquisto. Era come se stessi facendo una cosa importante,
spiegò al suo interlocutore, e sentiva gli occhi brillare. Matt,
come sempre fino a quel momento, annuì sinceramente, bevve un
buon mezzo bicchiere di vino e riprese ad ascoltare con attenzione.
La terza
bottiglia suscitò un debole sospiro di Frank, ma di protestare
non si parlava nemmeno, davanti agli occhi felici di Brian. Dopotutto,
valutò prosaicamente, sembravano abbastanza sobri da non
vomitare sul pavimento tornato da poco praticabile, e per giunta non
eccessivamente interessati all’ubriacatura. Si chiese curioso chi
fosse il compagno di Brian, un volto conosciuto a cui però non
riusciva ad associare un nome.
Si
avvicinò al tavolo, da cui ormai arrivavano solo sonore risate,
e si informò riguardo ai dessert. Matt si ricordò della
promessa fatta e lasciò la parola a Brian.
- Ce l’hai il crème caramel, Frank?
- Certo.
Rivolse a Matt
uno sguardo d’intesa che gli si insinuò con malagrazia fra
le viscere. – Ti piace? – domandò, e Matt
sentì il suo cuore perdere un battito. Non era quella domanda,
la più scontata del mondo. Erano gli occhi che lo stavano
fissando, apprensivi e maledettamente soddisfatti, decisamente
più luminosi di come mai fossero stati. Non volevano scappare,
non cercavano altro, erano soltanto appagati dall’essere
lì, a guardare lui in quel preciso momento, e altrove avrebbero
assolutamente perso significato.
Tu lo sai che mi stai guardando così?
-
Sì… - rispose con un filo di voce, ammettendo con
codardia a se stesso che il dolce era l’ultima cosa di cui gli
importava. Voleva afferrare Brian, lì, dimenticando il tavolo
che li divideva, e stringerlo fino a convincerlo che andava tutto bene,
che quell’istante non sarebbe passato mai, che quella sensazione
di pienezza non era un’illusione. Senza un filo logico, senza una
motivazione, solo per fargli sapere che ci sono.
E invece stette
immobile, concentrato sul sorriso affilato di Brian e quelle sue labbra
esili e volitive, lo vide concludere l’ordinazione e rivolgere un
qualche comune complimento a Frank, che rispose con un ossequioso
inchino e se ne andò.
- Ti sei incantato?
Brian non si
decideva a svestire quella solarità, e lo studiava curioso, gli
occhi socchiusi e il bicchiere di vino a mezz’aria. -
Indovino. Stai tentando di stabilire quanto tempo è socialmente
accettabile che trascorra per potermi saltare addosso.
Gli rivolse uno
sguardo malizioso degno delle migliori soap opera, non riuscì a
sostenerlo a lungo e scoppiò in una risata liberatoria,
abbandonato allo schienale della sedia. Matt cercò di
incrementare la manifestazione del suo stupore, ben conscio, tuttavia,
di aver già raggiunto il limite.
- Sai qual
è la cosa buffa? – continuò imperterrito Brian,
rovistando disinvoltamente nelle tasche del cappotto ed estraendone un
deformato pacchetto di sigarette. Lo sistemò con un gesto secco
della mano. – Questa volta penso proprio che non ti
fermerei.
Si alzò, biascicò l’accendino, cazzo
e si allontanò senza fretta verso il bancone di Frank. La
primitiva carezza che gli sfregò sulla spalla e sul collo,
oltrepassandolo, fece chiudere i suoi occhi, e un respiro profondo gli
affiorò dal petto.
Lo trovò
poco dopo sul terrazzo, scompostamente appoggiato alla balaustra in
fondo a quell’ampio spazio aperto, voltato di spalle e
apparentemente concentrato sulla fiammeggiante distesa di luci che era
Londra di notte. Si avvicinò a passo incerto, si disse che era
l’alcool e non l’emozione, e centellinava l’aria ai
suoi polmoni temendo che non ne restasse abbastanza.
- Non dire nulla.
– gli sentì sussurrare. Non si voltò, non
mutò la sua posizione, non si preoccupò neppure di
controllare che la presenza alle sue spalle corrispondesse
effettivamente a Matt. Quello era uno dei momenti perfetti che si
incontrano di tanto in tanto nella routine quotidiana, uno di quelli
dove percepisci ogni dettaglio con intensità maggiore, dove ogni
cosa appare al suo posto e tu con loro, e non servivano parole
perché tutto quello acquisisse un senso.
Matt gli si fece
accanto, opportunamente distante per non intromettersi in quegli
istanti che, lo capiva, erano solo suoi. Lo osservò attentamente
e senza vergogna, approfittando dell’immobilità quasi
surreale che li avvolgeva. Teneva gli occhi chiusi, li apriva di rado,
in corrispondenza di un respiro più profondo degli altri. Le
dita delle sue mani sembravano schiacciate, e istintivamente vi
accostò le proprie, così flessuose e scheletriche, le
dita per un violino, pensò istintivamente, e gli parve di
appartenere a un mondo diverso. Il volto di Brian era illuminato dal
giallo sporco dei bagliori londinesi, e in quel gioco di chiaroscuri
notò le piccole rughe ai lati degli occhi e quelle causate dal
mezzo sorriso acceso sulle sue labbra. Cenere viva scivolava stanca
dalla sigaretta mai fumata, e le sue spire incandescenti sembravano
accendere la città al di là della balaustra.
- Andiamo.
– pronunciò senza preavviso, voltandosi a fronteggiarlo
con uno sguardo che voleva dire che aveva capito tutto oppure che non
aveva capito nulla e non gliene fregava un cazzo. Gli occhi di Matt
urlavano che sarebbe stato a guardarlo per tutta la notte, che i suoi
respiri cadenzati lo mettevano in pace con il mondo, che avrebbe voluto
sentirli risuonare nella veranda di casa sua, quei respiri cadenzati, e
che si stava innamorando di lui come un ragazzino più stupido di
quanto non fosse in realtà. Brian sorrise, lo afferrò per
un braccio e lo trascinò verso la sala da pranzo.
______________________
Ben ritrovate in
compagnia di questi due casi umani affetti da pronunciata sindrome post
adolescenziale, ma quanto ci sta simpatico questo Bellamy di fine
capitolo :D
Frank è
l’anglofilo corrispondente del miglior Pasquale della tradizione
napoletana, ma mi serviva l’iniziale effetto cena dei cretini e l’oste ciacolone era un elemento irrinunciabile. Per quanto riguarda Matt the wet, be’, sono contenta che la casella di EFP non supporti i pacchi bomba.
Vi informo poi
che ha ufficialmente preso il via il concorso “Conta anche tu
quante volte l’autrice utilizza i verbi vedere,
osservare, studiare, fissare, guardare, notare, registrare,
occhieggiare, lanciare sguardi, rivolgere occhiate, dedicare attenzione
a mezzo di bulbi oculari”. Chi mi convince che sono meno di cinquecento riceverà un nuovo sinonimo omaggio.
A presto, grazie di cuore.
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Capitolo 6 *** VI - Balleranno, se avranno voglia di ballare ***
VI - Balleranno, se avranno voglia di ballare
VI - BALLERANNO, SE AVRANNO VOGLIA DI BALLARE
- È carino.
- Grazie.
Brian si
sfilò il soprabito e lo posò su una sedia. – E
l’hai arredato tutto tu? Un buon lavoro, complimenti. Bella
quella libreria.
- Grazie.
- Ti sei dato da fare per essere qui solo da – quanto hai detto? – due mesi?
- Sì...
- Wow. Bravo.
- Non te ne frega un cazzo dell’arredamento.
Brian smise
di scorrere i titoli dei libri sopra il televisore, si voltò
inarcando le sopracciglia con fin troppa meticolosità. –
Come, scusa?
- Dicevo che non te ne frega un cazzo dell’arredamento.
Matthew era
immobile al centro del salotto, le braccia lungo i fianchi e una poco
equivocabile luce negli occhi. Brian avanzò di un passo verso di
lui, si fermò, un altro passo. – Oh, sì. Sì
che mi interessa.
Gli diede
nuovamente le spalle, ma non trovò nulla che attirasse la sua
attenzione e si sedette seccamente sul divano. Allargò le
braccia sullo schienale, sentì le scapole distendersi mentre
osservava i suoi piedi posizionarsi scompostamente sotto il basso
tavolo di cristallo ricoperto di riviste. Sapeva che Matthew aveva
osservato ogni suo movimento, e percepiva con fastidio i suoi occhi
ancora addosso. Decise di ignorarlo e socchiuse le palpebre, cercando
di rilassarsi. Sentì Matt sbuffare e se lo ritrovò di
fronte con pochi indugi, seduto sul tavolino e con le mani che
esercitavano una pressione crescente sulle sue ginocchia.
- Hai qualche problema, Brian?
- Sono stanco. Togliti, per favore.
- Sei stanco?
- Sì, sono stanco.
- Okay. - Matthew lo fissò, sembrava riflettere. Allungò di scatto la mano. – Ti risolvo il problema.
Iniziò ad allentargli la cintura piuttosto goffamente, con un movimento secco gli abbassò la zip dei pantaloni.
- Che cazzo
fai, Bellamy! – Lo spinse via con rabbia, si alzò
sistemandosi i jeans e passandosi una mano sulla fronte.
- Non lo so, stronzo
– aveva ripreso Matt – Mi era balenata l’idea di fare
sesso con te e ci stavo provando. Ma immagino che questo l’avessi
intuito, quindi non so che altra risposta vuoi sentire.
Allargò
platealmente le braccia, ancora inginocchiato sul tappeto che non
pareva intenzionato ad abbandonare. Brian camminava stizzito per la
stanza, cambiando direzione con impressionante casualità,
accompagnato dal ritmico ticchettio delle sue suole.
-
È... banale! È tutto banale, accidenti. Tu sei banale,
Matthew. – si fermò, puntandogli contro un dito
accusatorio – Tirati su, per amor del cielo. La situazione è banale. Sembriamo dei comunissimi idioti.
- Cosa ti aspettavi? Vuoi un po’ di musica soffusa, ti sussurro delle dolci parole all’orecchio?
- Stammi lontano, per favore.
- Ecco, vedi, mi confondi parecchio così. Perché non so davvero cosa fare, io, a questo punto.
Brian si
ributtò sul divano, improvvisamente sfinito, guardò
Matthew e trovò nel suo sguardo accigliato un sincero dubbio.
Compose una risposta interamente con i gesti delle mani, pensando che
quei nitidi movimenti risultassero più chiari delle parole che
intendeva affastellare. Si sforzò di mettere ordine.
- Non ho voglia di scopare con te ora.
- L’ho notato. E mi sto chiedendo dove ho sbagliato. Ho equivocato la tua richiesta “Andiamo a casa tua”?
Matthew
prese posto sul divano accanto a lui, l’irritazione stava cedendo
il passo a un malumore risentito che lo infastidiva ancor di
più. Frugò fra le riviste e dissotterrò un
pacchetto di sigarette, se lo rigirò fra le mani.
- Ho pensato che ti andasse. Ho seriamente pensato che ti andasse...
- No. Insomma, forse mi va, mi andava... prima. Non so cosa... però-
- Mi andava prima? - Le sigarette di Matt lo colpirono con precisione sulla guancia. – Ma sei scemo?
- Fammi spiegare, per favore.
- Ti andava prima?
E che cos’è successo nei dieci chilometri che ci separano
dal centro di Londra? Ti è venuta la nausea, hai pensato alla
fame nel mondo, hai visto la Madonna? Che cazzo ridi?! Adesso mi dici
cosa devo fare! Sei stressato, che cazzo hai?! Ti faccio una tisana e
ti do pacche sulle spalle mentre ti dico che ogni tanto è
normale non avere voglia? La smetti? – concluse non riuscendo a
restare serio davanti ai leziosi gridolini di Brian. –
‘Fanculo, sei indecente!
- No, Matthew! Davvero– Dove vai?
- In cucina, se non ti dispiace!
- Aspetta,
davvero, Matt... Ascoltami. – lo costrinse a voltarsi di nuovo,
lo fissò con solennità. – Io non la do mai al primo
appuntamento.
- Ma fottiti. – Aprendo il frigo sentì che soffocava le risate in un cuscino. – Che coglione mi sono preso.
***
- E questo cos’è?
Brian posò la birra sul tappeto e si protese verso un libro troppo voluminoso per essere l’ennesima copia di Rolling Stone presente su quel tavolo.
- I miei spartiti.
- Uh. - Prese a sfogliarli con interesse. – Questa qui.
- È Chopin.
- Sì. La suoni?
Lo guardò scettico da sopra la sua bottiglia. – Adesso?
- Sì.
- Potrei, ma non so se ne ho voglia...
- Ah-ah. Alzati, forza. – Si posizionò di fronte a lui e gli offrì rudemente una mano per issarsi.
-
Perché, Brian. Perché ti sto dando corda. – si
interrogò a occhi chiusi, oscillando pericolosamente attraverso
la sala.
- Muoviti.
– Gli rivolse un ampio sorriso, si appoggiò al pianoforte
con le mani e lo osservò stando lì accanto.
Matt sistemò lo spartito sul leggio, gli rivolse un’occhiata piccata stabilendo di non dirgli che sembrava una chanteuse
anni Venti e attaccò con le prime note. – No! Ci vuole la
dedica. – Si schiarì la voce, lo guardò con aria
ispirata e una punta di melodramma. – Questo pezzo è per
Brian, la donna che mi ha rubato il cuore dal primo momento-
- Suona, cretino! – puntualizzò colpendolo sulla fronte.
Le note
iniziarono a vagare per la stanza, dapprima incerte, poi sempre
più intensamente. Matt si interrompeva ogni tanto per voltare
una o due pagine, probabilmente ignorando lui stesso che parte del
notturno dovesse suonare e non curandosene più di tanto.
Osservava le proprie dita scivolare sui tasti, fluide e allenate,
spostava lo sguardo sul legno lucido dello strumento che le mani di
Brian sembravano ora arpionare ora carezzare.
- Perché ti sei fermato? – Brian lo studiava interrogativo.
- Posso descriverti i pensieri sconci che sto facendo su di te mezzo in estasi e con la bocca spalancata?
- No, grazie. Continua.
Matt
riprese svogliatamente a suonare, una marcetta più o meno
improvvisata fu quello a cui diede vita la sua fantasia ridotta
all’osso. Vide Brian staccarsi dal pianoforte con un gesto
smanioso, e poco dopo sparire alle sue spalle.
No. Qualunque cosa tu faccia non ho intenzione di dartela vinta anche questa volta.
Pigiò
ossessivamente sui tasti, intenzionato a ignorare pedissequamente il
compagno. La risoluzione si complicò quando sentì il
fiato caldo di Brian a poca distanza dal suo orecchio.
-
Impegnati... – gli sussurrò stuzzicandogli il collo con le
labbra – Non mi sembra che ti stai impegnando molto... –
Continuò fino al lobo sinistro, su cui catalizzò tutta la
sua attenzione.
- Come...
diavolo... – scartò di lato con la testa quando
sentì le dita di Brian annodarsi fra i suoi capelli -
faccio a impegnarmi così?
Aveva il fiato corto, e anche Brian dovette accorgersene.
- Devi rilassarti... – Prese a massaggiargli la schiena con sinuose volute, percependo fasci di nervi sotto la camicia.
– Hai stonato.
Matt stava
perdendo lucidità. Faceva un caldo d’inferno, caldo
dappertutto, umido. E i loro fiati etilici lo stordivano e rallentavano
i suoi pensieri. Se Brian non avesse allontanato immediatamente quelle
dannate mani, il suo corpo non avrebbe più risposto delle
proprie azioni, e il limite era più che prossimo.
Per tutta
risposta Brian fece aderire bruscamente il suo ventre alla schiena di
Matt, spingendo le sue mani fino al suo petto e giù sul suo
addome. Matt abbandonò ogni proposito di razionalità con
un gemito grezzo, allungò le braccia sopra la propria testa
deciso ad afferrare qualunque cosa di Brian e porre fine a quello
strazio. Strinse una ciocca di capelli e quasi gli stritolò una
spalla, registrò dalla smorfia di dolore del suo volto.
Serrò ancora di più la presa, sperando che il suo
compagno cogliesse l’urgenza insita in quell’atto violento,
e di fatti Brian si lasciò scivolare a terra, ancora avvinghiato
a lui, facendolo sbilanciare dal sedile e ritrovandoselo sdraiato
addosso, di schiena. Matt si convinse di non avergli fatto male nella
caduta poiché l’altezza da terra era ridotta, e
pensò che dovevano essere davvero brutti in quel momento, due
insetti capovolti incapaci di staccarsi l’uno dall’altro.
Ruotò il bacino, e finalmente si trovò sdraiato accanto a
Brian. Si avventò sulle sue labbra come non avesse aspettato
altro per anni, pregando in un sollievo di qualunque tipo
per il caos che sentiva dentro. Rotolavano l’uno sull’altro
mentre tentavano in modo maldestro di togliersi qualche indumento.
- Aspetta,
aspetta... – soffiò Matt sentendo le dita languide di
Brian soffermarsi sul suo basso ventre. Lo guardò, bloccato
sotto di sé, il viso sfatto e il sudore che imperlava il collo
della camicia. - Vieni in camera... - Si sollevò, si
avviò nel corridoio che portava alla stanza da letto sbottonando
frettolosamente la camicia.
Brian si
appoggiò ai gomiti, cercando di regolarizzare il respiro, si
alzò in piedi ostinandosi vanamente nel lisciare le pieghe degli
abiti e si avviò dietro Matthew. Era seduto sul bordo del letto,
a torso nudo, le mani intrecciate mollemente sulle ginocchia.
Alzò lo sguardo quando lo vide entrare. Semplicemente lo stava
aspettando.
Si avvicinò con lentezza spasmodica. - Matt...
- Shhh. Non
azzardarti a parlare. – Lo attirò a sé
finché sentì la propria fronte a contatto con il suo
ventre. Non si alzò, gli cinse i fianchi con le mani. – Mi
hanno rotto i coglioni le tue parole.
***
Brian si
svegliò per la luce diffusa. Con ogni evidenza era una giornata
di sole, e quella stanza era troppo chiara e troppo bianca per
consentirgli di riprendere sonno. Era voltato su un fianco, le braccia
abbandonate davanti a sé sopra le coperte, che sentiva pesare su
tutto il corpo. Aprì gli occhi lentamente, con circospezione, e
si trovò poco distante da Matthew, seduto con la schiena
appoggiata al muro e, anche lui, coperto grossolanamente dalle
lenzuola. Fissava senza espressione un punto della parete di fronte a
sé, una mano ripassava la barba che faceva capolino sul mento.
Brian si prese tutto il tempo per osservarlo, sorrise quando
l’altro fu percorso da un brivido di freddo. Matt si accorse di
lui.
- Ehi. Ciao.
Non ottenne
risposta, probabilmente Brian riteneva superfluo rivolgergli lo stesso
saluto, per cui stava in silenzio sistemandosi meglio le coperte
intorno al corpo. Lo fissava, continuava a fissarlo. Chiudeva gli occhi
– con dolcezza, avrebbe
voluto dire Matt– e li riapriva sempre su di lui. E Matt non
trovò un’idea migliore di chinarsi a baciarlo.
***
- Cos’hai da fare domani?
- Lavoro.
- Dopodomani?
- Dopodomani mi faccio i cazzi miei.
- Capito.
– Matt sbuffò una boccata di fumo e gettò via la
sigaretta pressoché integra. Prese posto accanto a Brian, su
quel masso muschioso che avrebbe sconciato in breve i suoi pantaloni
bordeaux. Erano finiti lì per l’ennesimo desiderio di
Brian, fammi vedere il giardino,
o quella sorta di parco che aveva comprato annesso al rustico.
Guardò i rami intirizziti dal gelo invernale, e la brina che
ricopriva il prato incolto e cigolava sotto i piedi.
Brian si
sporse verso di lui, gli respirò vicino, gli assestò una
leggera spallata. – Lunedì sono libero.
- Anch’io.
- Posso tornare qui?
- Certo.
Si
alzò, sorrise a quella natura spettrale. – Poi ti porto a
cena in un posto buono. Sei magro, Bellamy, ieri notte ti contavo le
costole.
- Si dice contare le costole, adesso?
Mostrò
tutti i denti in un ghigno e se lo ritrovò di fronte che
armeggiava con il suo maglione. Matt trasalì quando una lamina
di gelo colpì la sua pelle.
- Uno, due, tre, quattro...
- Piantala, fa freddo...
- Cinque, sei...
Lo
scansò sgraziatamente, aprì la bocca per parlare, ma si
limitò a scuotere la testa svogliato. Brian rise di nuovo, lo
guardò, girò sui tacchi e se ne andò.
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Capitolo 7 *** VII - Siamo cresciuti a mezzanotte ***
Partenze VII - Siamo cresciuti a mezzanotte
VII - SIAMO CRESCIUTI A MEZZANOTTE
- Mi dici come siamo arrivati qui?
- Eh?
- Siamo qui.
Si guardarono, scoppiarono a ridere.
- Davvero, perché sempre qui, sempre sul tappeto, io e te?
- Sei ubriaco, Matthew.
- Anche tu.
- Tu sei moooolto ubriaco.
– puntualizzò roteando la testa sul collo, una vampata di
calore lo scosse. – Ho caldo. – Si sfilò la
maglietta, imprecò quando si impigliò nel suo mento.
- Sei bello. – Matt gli si avvicinò, strofinò il
volto sul suo petto, lo strattonò per portarselo vicino. Brian
rideva, gli accarezzava la schiena nuda con dita leggere.
- Oh, sono bello! – Gli diede un bacio languido, mentre Matt
scivolava mollemente a sdraiarsi per terra. - E tu… - lo
scostò da sé per osservarlo. I contorni erano sbiaditi e
la testa ciondolava. – … Non lo so. Non capisco un cazzo.
- Io sono… Matthew.
Brian sfiatò una risata acuta, Matt la scacciò come spolverasse l’aria. Brian si sdraiò su di lui.
- Ciao, Matthew. – gli soffiò fissandolo negli occhi.
L’odore di birra infastidì anche lui, ma non cessò
di sorridergli, carezzandogli i capelli sudati con entrambe le mani.
Matt gli baciò gli zigomi, la bocca, la cavità del collo,
avanti e indietro, disegnava percorsi umidi sulla sua pelle baciando e
leccando. Stava dicendo qualcosa di sconnesso a cui Brian non diede
importanza, gemendo senza ritegno per le sue attenzioni.
- Matt… Matt, cazzo… sembri un gatto... Adesso non - lo
bloccò quando già aveva allontanato la testa – Non
miagolare, idiota.
Scoppiarono di nuovo a ridere, Matt scostò di lato Brian e sollevò le braccia al cielo senza riflessione alcuna.
- Ho bisogno di una doccia! – lo fissò seriamente, ottenne un gesto grottesco in risposta.
- Scordatelo, Matt. – lo canzonò rifacendosi vicino.
– Se stai bravo, ma molto… molto… bravo, magari fra
una… due… migliaia di anni…
- Dai, Brian. – si mise a sedere, spalancò gli occhi. – Fatti una doccia con me.
- Non stai in piedi. Se vai adesso nella doccia affoghi e muori.
- Vieni con me!
Brian capì che non ne avrebbe cavato nulla, lo fece appoggiare
al divano e prese a massaggiargli il petto, il torace. Matt inspirava a
pieni polmoni e l’aria sembrava non bastargli. Le carezze di
Brian erano diventate vogliose, con decisione insinuò una mano
nei suoi pantaloni, la riportò verso l’alto, poi di nuovo
giù, e di nuovo l’allontanò. Matt perse il conto di
quante volte quello strazio si protrasse, sentiva il proprio fiato
umido appesantire le sue stesse guance. Ansimava e si arpionava il
bacino con dita divenute artigli.
- Ti voglio, Brian.
- Tu mi vuoi troppo.
Vide un lampo di tristezza attraversare i suoi occhi, se ne dispiacque
sinceramente. Si tirò in piedi, afferrò
quell’orribile boccale in cui Matt gli aveva versato la birra e
se lo portò alle labbra. Cambiò idea, non bevve, lo tenne
in mano mentre spalancava le braccia barcollando debolmente. Con i
piedi batteva il tempo sul pavimento. – I want you. I want you. I want you…
- Rovesciò parte della bevanda per la stanza, mentre ad occhi
chiusi proseguiva quella danza scoordinata ma liberatoria. – …so baaaad…
- Tossiva sulle note basse, stonava le alte, le convulse risa di Matt
erano un incitamento a proseguire. Cantò diversi ritornelli
prima di crollare sfinito accanto a Matthew, appoggiò la testa
sulla sua spalla, lo sentì che stava ancora sussultando ed
emettendo suoni gutturali.
- Ringrazia che adesso non ricordo le strofe.
- Hai ucciso Bob Dylan quindici volte! – gracchiò,
cercando di calmarsi. – È morto. Controlla, controlla su
Google se non è morto!
- Che cazzo, vuoi stare fermo?! Voglio dormire. – Si
sistemò meglio contro di lui, respirò profondamente. Matt
lo osservò.
- Qui? Con me?
- … Sì.
Un lampo di lucidità. Uno solo.
***
- Buongiorno.
- Ciao, Matt. Ah. – Si massaggiò l’avambraccio
intorpidito sollevandosi da terra, calciò via uno dei pochi
cuscini che avevano costituito il suo materasso. –
‘Fanculo, che male. Non è stata una grande idea dormire
per terra. Sarà stata tua.
- Io ho dormito in camera.
- Come?
- Sì, insomma… - si grattò la fronte,
affondò le mani nelle tasche – Mi sono svegliato, tu
dormivi… Era troppo scomodo, Brian… - scosse buffamente
la testa volendo scacciare un pensiero molesto, Brian sorrise suo
malgrado.
- Che stronzo!
Matt ammiccò di rimando, si accostò al suo volto, si
immobilizzò, repentinamente si chinò a raccogliere un
cuscino e prese a sprimacciarlo. Brian gliene fu grato, il bacio del
buongiorno era una chincaglieria di cui non sentiva il bisogno.
- Allora? Hai qualcosa per fare colazione?
In cucina trovarono metà della cena del giorno precedente
abbandonata sul tavolo, l’altra metà sul pavimento.
- Perché qui mi sei saltato addosso non appena arrivato, Brian. Guarda che casino hai fatto.
- Non appena arrivato mi hai sbattuto contro lo stipite della porta e mi avresti scopato anche lì se non avessi urlato di dolore.
- ... Non era dolore, gioia. Comunque poi c’è stata la cucina. Poi la sala: il divano…
- Sei disgustoso, Bellamy. Io non facevo l’elenco neanche a quindici anni.
- Avevi delle notti monotone.
- Sicuro. – ghignò malizioso, scorciava non facendo i
conti con l’agonismo che Matt riversava in quelle stupide
schermaglie.
- La prossima volta lo facciamo sulla lavatrice… Tu stai in piedi davanti e-
- Tu ti metti dentro e io la aziono, sì. Adesso piantala di dire
stronzate e fammi una proposta intelligente per la mattina.
Matt si illuminò. – Pensavo te ne andassi.
- Devo passare da Stef per pranzo, quindi direi… -
ticchettò sul tavolo mentre si voltava in cerca di un orologio
– Ho due ore buone.
Matt tese le braccia e cominciò a parlare al soffitto. - Una
colossale, epica scopata, di quelle dove butti giù la casa!
Brian lasciò la cucina scuotendo la testa, in bagno decise che avrebbero fatto un giro in qualche paese dei dintorni.
***
Debden era un’anonima cittadina a nord di Londra, abbastanza
residenziale da essere spopolata durante l’orario lavorativo e
sufficientemente banale da stornare i curiosi. Matt guidava seguendo le
indicazioni e imprecava ad ogni buca nell’asfalto.
- Come accidenti hai scelto un posto simile. Me lo spiegherai un giorno.
- Ho puntato un dito a caso sullo stradario che c’era a casa tua.
- Perfetto. Se fosse uscito Buckingham Palace avremmo giocato a guardie e ladri con la regina.
- Era a destra, coglione. – Brian osservò i cartelli
stradali alle loro spalle e sbuffò infastidito. Si
guadagnò un insulto quando spense la radio subito dopo che Matt
l’aveva accesa, capì che sarebbe spettato a lui rompere il
silenzio se voleva evitare un viaggio carico di noia.
- Cosa ne pensi dei Guns ‘n’ Roses?
- Oh, banale. Dopo questa c’è solo 'Beatles o Rolling Stones'.
- Kate Middleton?
- Mh. Me la farei, se capitasse.
- Anche il principe William?
Gli strappò una risata disgustata, l’atmosfera ne risentì positivamente.
- Ad ogni modo, come va con la tua Kate?
Matt si sistemò sul sedile, assottigliando gli occhi sulla strada.
- Avete litigato ancora?
- … No. Possiamo parlare d’altro?
Brian aggrottò le sopracciglia all’erta. - È la tua vita, di che cos’altro vuoi parlare?
- Di tutto il resto. La mia vita non è solo questo. Questo
è… qualcosa che sta succedendo. Non ho voglia di pensarci
ora.
Brian scuoteva la testa, si accese una sigaretta. – Così non vai da nessuna parte, Matt.
- Sto andando a Debden.
- …
- Per favore. Ti ho chiesto di non parlarne adesso. Adesso siamo qui e non ho voglia di pensare a Kate.
- Posso parlare sinceramente?
- Fai il cazzo che ti pare.
- Io… - soppesò i pensieri, scelse quelli più
esplicativi – Non vorrei che ti stessi facendo un’idea
sbagliata. Di me e di te, intendo.
- Perché, che idea mi sto facendo?
- Non lo so. Non lo voglio sapere. – lo inchiodò con lo
sguardo – Nessuna idea è la migliore, al momento. Non mi
pensare come un’alternativa a lei. Io sono… una felice
parentesi, aperta e chiusa, non una prospettiva. Questa cosa fra noi,
davvero, è carina. Divertente. Ma siamo solo
divertimento, le nostre vite restano da un’altra parte. Ergo,
niente di quello che fai o farai con me deve interferire con qualsiasi
altra tua scelta, soprattutto con la tua donna.
- Mi sembra che sia tu a renderla più seria di come è.
- Preferisco chiarire. Ti dico solo di non cercare qui cose che non
trovi altrove. L’unico motivo per cui ci vediamo deve essere perché no?.
Se mai ti capitasse di trovarne uno più sensato, sparisci da
solo prima che sia io a distruggerti. – Gli sorrise
calorosamente, finse di guardare il sottobosco che scorreva al di
là del finestrino.
- Cazzo, Brian.
- ...
- Cazzo. Un filosofo.
- La smetti, Matt?
- No, davvero. Non era niente male, soprattutto la parte del distruggermi, forse quel tanto melodrammatica, ma comunicava.
Si voltò per fronteggiarlo, trattenne i suoi insulti per il
fatto che non stava guardando la strada, gli sorrise teneramente in una
nuvola di fumo. – È impossibile fare un discorso serio con
te.
- Tu sei palloso, cazzo. Devi ridere.
– sillabò le parole mentre accostava a sinistra e si
slacciava la cintura. Prese la sigaretta dalle dita di Brian, fece un
tiro prima di gettarla fuori dall’abitacolo. Era eccitato, non lo
mascherò sedendosi a cavalcioni su di lui. –
Com’è? Siamo uno svago... E svagati, accidenti.
- Non arriveremo mai a Debden.
- Al diavolo Debden. Al diavolo tutti.
***
Spense il mozzicone sotto il tacco e rientrò nella vettura.
- Lasciami davanti a quella villa, il taxi che aspetta è mio.
- Mi hai piantato qui dieci minuti per fumarti una sigaretta a cinquanta metri dal taxi?
- Mi andava di fumarla.
Avviò il motore, lo spense percorso il breve tragitto.
Osservò Brian sistemarsi i capelli nello specchietto, si
fissarono e non dissero nulla.
- Ci vediamo.
- Sì.
- Settimana prossima non ci sono.
- ...
- Parto. Vacanza di una settimana in Thailandia. Ne ho bisogno.
- Bene. – Registrò che Matt sembrava aspettarsi altro. – Mi chiuderò in casa a piangere.
- A me basta che non ti chiuda in studio a registrare cagate. –
precisò ilare, guadagnandosi una gomitata nelle costole. –
Ah, prima che mi dimentichi… - Afferrò dal piano
portaoggetti un notes ingiallito, strappò una pagina, la
accartocciò, gliela mise in mano.
- Devo farti la spesa?
- Devi leggerlo.
Arricciò le labbra. - Mi hai scritto un biglietto. È ripugnante.
- Tu leggilo.
- Se mi ricordo.
- …
- Ciao, Matt. Buon viaggio.
- Ciao.
Aveva già una mano contro la portiera quando Matt gli strinse
leggermente l’altra. Si voltò a guardarlo. Era fermo, gli
occhi luminosi, le dita sulle sue. Era in attesa. Interpretò
l’impassibilità di Brian come un consenso, si
allungò verso di lui e con la mano libera gli disegnò il
contorno del mento. Aveva quel bacio incastrato in gola dalla mattina.
Appoggiò le labbra sulle sue e le dischiuse piano, spinse la
lingua delicatamente nella bocca dell’altro solo quando Brian
rispose al suo gesto. Fu un bacio molle, gradualmente approfondito.
Nessuna foga, nessuna voglia irrazionale lo guidava. Concluso in
sé, non preludeva a nulla. Brian cancellò il fiotto di
paura che sentiva tra i denti, lasciò che Matt continuasse
ciò che stava facendo. Si staccò da lui, gli diede un
altro bacio, scese dall’auto.
***
Pagava l'autista e si dirigeva verso l’abitazione di Stefan. Affondava
una mano nella tasca del cappotto, estraeva un foglio appassito, lo
leggeva.
letto
cucina
tappeto della sala
divano
cucina contro la sedia
sulla sedia (solo una sega)
il muro della camera (me l’hai chiesto tu)
letto x2
prossimamente: la lavatrice
Ridi, cazzo!
_______________________________________________
Eccoci
di ritorno, con sempiterna lentezza la storia procede e procederà. Ho
visto che le letture sono diminuite di molto, spero che il problema non
sia un calo di qualità, quanto piuttosto i lunghi tempi di
aggiornamento. Mi rendo conto che sette capitoli in un anno sono troppo
pochi, e spero di essere più spiccia ora che le idee si chiariscono. Il
progetto è pubblicare una volta al mese, farò del mio meglio per concretizzarlo.
Grazie per i commenti, voi sante che passate
di qua e magari anche apprezzate :) Le ultime recensioni mi sono state
utilissime, ho cercato di attuare alcuni spunti e consigli, anche se
forse a un livello embrionale che si può ancora approfondire.
A presto!
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Capitolo 8 *** VIII - Istantanee ***
Partenze VIII - Istantanee
VIII - ISTANTANEE
Di primo acchito non gli era
certo sembrata una persona da spendersi in eccessivi convenevoli,
ma un’accoglienza del genere era, nella più sincera
accezione, sbrigativa.
- Ciao.
- Ciao!
Scusa, mi sta bruciando tutto! Entra pure, cosa fai lì sulla
porta? – Marah era già schizzata via, aveva a mala pena
intravisto il suo sorriso luminoso prima che corresse in cucina.
– I ragazzi sono di là, vai senza problemi. Scusa davvero,
ma- Ah! – Un acuto di dolore lo raggiunse e Brian si convinse a
muovere qualche passo nell’abitazione, raggiunse Marah in cucina.
- … Stai bene?
-
Sì, scusa! – La trovò che si succhiava goffamente
un dito e ci soffiava sopra dell’aria con il volto contrito.
– Stavo cercando di fare otto cose insieme, succede sempre
così. Devo avere sfiorato la pentola della pasta mentre mi
giravo.
- … Mettilo sotto l’acqua…
S’immobilizzò,
prese a fissarlo. Poi scoppiò a ridere, e continuò mentre
seguiva il consiglio. – Penserai che sono matta! In realtà
non va proprio sempre così, ogni tanto c’è
più tranquillità. Mi dispiace molto per
l’accoglienza… frettolosa. – Si asciugò le
mani, prese dei cubetti di ghiaccio dal congelatore, li avvolse nella
pellicola trasparente e li adagiò sulla mano. – Meglio.
– si voltò a guardarlo, sorrise – Scusa davvero, ora
ti accompagno da Cody.
– Sì… Il messaggio che mi hai mandato prima…
- Sì! – sembrò ricordarsene all’improvviso – Ti fermi a cena, sì? Ti va?
-
Sì, sì. Ti ho portato… - le allungò il
sacchetto con la bottiglia di vino che aveva comprato al supermercato
della via adiacente, lei lo ringraziava senza nemmeno guardare il
contenuto. – Intendevo un’altra cosa. Ti avevo scritto a
che ora passare a prendere Cody, tu mi hai risposto “Ora non
è proprio il caso. Vieni a cena!”.
- …
- ... Mi sono preoccupato.
Marah
sorrise di nuovo, timidamente. – Decisamente poco chiaro, non mi
scuso più perché sarei monotona. Era semplicemente per
avvisarti che i ragazzi erano a posto e si stavano divertendo
così tanto che mi dispiaceva dividerli. – fece una pausa
– Ecco, così sarebbe stato più rassicurante e
comprensibile! Ma stavo facendo non ricordo cosa ed ero di fretta.
Brian
sorrise, involontariamente coinvolto dall’entusiasmo della donna.
– Penso che non ti affiderò Cody mai più nella
vita, lo sai, vero?
Rise.
– Sarebbe un peccato, sono così amici. Comunque dopo la
mia amatriciana cambierai parere, te l’assicuro. Vieni,
così saluti Cody.
Il bambino
gli gettò le braccia al collo urlando, gli sorrise quasi fosse
un regalo a Natale. Aveva le dita blu di pennarello, la maglietta
stropicciata, i capelli sudati. Era bellissimo.
- Ciao, amore mio.
- Ciao!
- Allora, cosa stavate combinando tu e Simon?
- Giocavamo con il castello!
- Il
castello? – Brian prestò finalmente attenzione
all’enorme costruzione di Lego, alta quasi quanto i due bambini.
– Ma è come il tuo, Cody! Quello che ti ho appena
comprato! Si vede che è proprio di moda, adesso… -
rivolse un’occhiata complice a Marah, che era appoggiata allo
stipite della porta e rispose con una divertita scrollata di spalle, di questo passo per fare posto ai giochi esco io – però come fai a dirgli di no.
- Hai vistoooo? È uguale!
- Non
è uguale! Il mio ha la stanza dell’impiccato! – Cody
si voltò repentinamente verso il padre. – Simon non ci
crede che il mio castello ha la stanza dell’impiccato!
- Non c’è la stanza dell’impiccato! Al negozio non lo vendono il castello con la stanza dell’impiccato!
- È
qui! Io ce l’ho qui! – Batté una manina sul muro
più alto. – Vero, papà, che nel mio qui
c’è la stanza dell’impiccato?
Era appena
stato inghiottito in una discussione di quelle a cui i bambini si
attaccano spasmodicamente e gli adulti non potranno mai comprendere
appieno. Suo figlio lo fissava deciso, Simon pendeva dalla sue labbra.
Si sforzò di ricordare. – Lì… Sì, mi
pare che ci sia un’altra stanza nel castello di Cody. Giusto,
amore? Quella con le pareti verdi…
-
Sì! Vedi che c’è. – ritorse beffardo al suo
amichetto. Simon era afflitto, guardava Brian di sottecchi, quasi con
reverenza, e bisbigliava ancora al negozio non ce l’hanno.
- Simon,
non essere testardo, per favore. – Marah si avvicinò al
figlio e gli sistemò i capelli. – Magari Cody l’ha
comprato da un’altra parte e il suo castello è un
po’ diverso. Non c’è bisogno di fare i capricci per
questo.
- Brava!
– Brian schioccò la lingua e cercò lo sguardo del
figlio. – Cody, ti ricordi quando sono tornato da Parigi e ti ho
portato il regalo a casa della mamma? Era un pezzo del castello, mi
sembra.
- Certo! Era la stanza dell’impiccato!
- Oh,
è tutto chiaro! – Sorrise a Simon che continuava a
fissarlo con occhi spalancati. – Ho preso questa stanza in
Francia, in un altro paese, dove i pezzi del castello sono un po’
diversi da quelli che vendono qui. È per questo che il negozio
dove vai tu non ce l’ha.
Il bambino
non mutò espressione, l’interesse per Brian sembrava ormai
molto superiore a quello per il gioco. Sua madre gli depositò un
bacio sulla guancia. – Hai sentito, amore? Domani diciamo al
venditore di comprare anche lui i pezzi che ha Cody! Ora fate i bravi,
io e Brian siamo qui accanto a magiare e vi teniamo d’occhio. Non
voglio sentirvi litigare ancora.
- Sì, e, Cody, non fare il prepotente altrimenti andiamo via subito. Mi raccomando.
Si
allontanarono mentre i piccoli avevano già ripreso a fare
comunella, Marah gli sorrise precedendolo in cucina. – Mamma mia,
ce l’abbiamo fatta! Mi dispiace per la pasta, sarà un
po’ scotta.
- Non
importa, abbiamo risolto una crisi istituzionale. Posso fare qualcosa?
– Osservava Marah muoversi agilmente fra i quattro angoli della
stanza e misurava la propria inutilità.
- Siediti e aspetta, è quasi pronto. Davvero gli hai portato i Lego dalla Francia?
Non si
voltava a guardarlo, sorrideva e parlava alle casseruole. Brian aveva
davvero voglia di aiutarla. Afferrò il cavatappi dalla mensola
sopra il lavello e prese a stappare il rosso che aveva portato. –
Sì. Stef, il mio collega, mi ha preso in giro moltissimo
perché giravo per l’aeroporto con una scatola più
grande di me. Ho dovuto litigare al check-in per portarlo con me e non
caricarlo nella stiva.
- L’hai portato come passeggero?!
-
Sì, ho dovuto pagargli il biglietto. È come per le
chitarre, –ignorò le risate di Marah – se ne compro
una all’estero, in viaggio la tengo con me, muoio all’idea
del trattamento che riservano ai bagagli durante il carico e scarico.
- Ma allora
è vero… – Finalmente si girò, portando in
tavola il tegame con la prima portata. – Voi musicisti
considerate gli strumenti un po’ come figli.
- Nei limiti della decenza, sì. E io non sono neanche un genitore eccessivamente apprensivo.
- Pronto!
Spero sia venuto bene, Simon dice che è il piatto che preparo
meglio! – Prese posto mentre Brian faceva altrettanto, si
rialzò subito: aveva dimenticato di togliere il grembiule, si
risedette. Brian si complimentò per la ricetta e parlarono
piacevolmente di argomenti quotidiani. Si erano incrociati poche volte,
ogni tanto all’uscita dell’asilo e sempre di fretta, ma a
Brian erano state sufficienti per stabilire che Marah era una compagnia
gradevole ed estremamente intelligente, sotto la scorza più o
meno costruita di donna caotica e forse anche frivola. Gli disse che
lavorava in uno studio legale, teneva la contabilità, un po’ noioso ma un posto sicuro,
chiosò con quella che gli parve una punta di rammarico. Gli
rivolse molte domande riguardo alla sua musica, senza alcuna
curiosità smaniosa. Se conosceva i Placebo, non lo diede a
vedere e – grazie, cielo
– non iniziò a snocciolare lodi o citazioni delle loro
canzoni. Vedeva solo un’entusiasta ragazza amante
dell’arte, fin troppo preparata in materia di note e spartiti. Fu
proprio un commento sulla Les Paul ad insospettirlo.
- Ma tu come sai queste cose?
- Sono
stata sposata con un bassista. Niente di serio, dopo un anno lui ha
deciso che le cantine underground erano più interessanti del
nostro futuro insieme, e non me ne sono dispiaciuta più di tanto.
Sorrise davanti a quella genuina caparbietà. – Lapidaria.
- No, sono
realista e non mi voglio male. Non avrebbe avuto senso attaccarmi per
la vita a uno che mi annoiava. Anche per Simon è stato meglio
così, ci sono molto di più per lui, è il mio unico
pensiero.
Non amava
porre domandi personali, forse perché non amava riceverne, ma
quel tono così perentorio stimolò oltremodo la sua
attenzione. E forse, sì, era banalmente terrorizzato
all’idea di un padre tagliato fuori dalla vita del figlio. -
… Non gli manca mai suo padre?
- No, no!
– Scosse allegramente la testa, si accorgeva di un equivoco buffo
che non aveva calcolato. – Questo è stato dopo Simon! Io e
Fra, il bassista, ci siamo conosciuti quando Cody aveva un anno e
sposati poco dopo. Ero in Italia per lavoro, al tempo ero segretaria di
un altro di quegli studi tutti uguali. Staccavo dalle scartoffie e mi
rintanavo nei locali fiorentini più sconosciuti, volevo solo
ascoltare musica di persone che volevano farcela partendo da lì,
e respirare aria nuova. Così una sera ho conosciuto il fascinoso
bassista che poi ho sposato. Era un neolaureato con pochi soldi e tante
aspettative sul suo futuro, viveva per gli imbarazzanti spiccioli che
offrivano al suo gruppo per suonare in un posto o nell’altro.
Diceva che non si lamentava, che era gavetta che tutti dovevano fare e
serviva a restare umili. Capisci, tutte queste utopie e una tale voglia
di cambiare non potevano che catturarmi nel giro di poche ore. Mi sono
innamorata di lui quella sera, e penso sia stato lo stesso per Fra. Lui
era un tipo a posto, probabilmente troppo a posto per i miei gusti, ma
era talmente bravo con Simon che non credetti di poter trovare di
meglio. Poi le cose vanno come vanno. Una volta terminato l’alone
seducente del vivere alla giornata inizi a chiamare le situazioni con
il loro nome, e ti accorgi che l’etichetta per la tua è precarietà.
E niente. Ho ottenuto di rientrare alla sede di Londra e cambiato
molte occupazioni. In conclusione – tirò le labbra come a
scusarsi per avere abusato della sua attenzione - Fra non è il
padre di Simon, quell’idiota è un bastardo imbecille che
non vedo da anni e non ha mai voluto conoscere suo figlio, stronzo.
Brian
studiò quella che gli appariva sempre più una ragazzina
cresciuta troppo presto. - Posso farti una domanda inelegante?
- Ho ventiquattro anni. – anticipò, lui le ammiccò per sottolineare che la risposta era pertinente.
- E Simon…
- Simon ha
cinque anni, come Cody. Per cui la conclusione del ragionamento
è diciannove: l’ho avuto a diciannove anni,
un’indifesa ragazza madre abbandonata dal legittimo genitore di
suo figlio.
- Non mi sembri indifesa!
- In
effetti non lo sono mai stata. Ma preferisco sdrammatizzare per evitare
di attirarmi la pietà delle persone. – Fece una pausa.
– Ho cresciuto Simon da sola, in parte per scelta, è stato
difficile ma niente di trascendentale, c’è chi ha
affrontato difficoltà molto più consistenti.
La
fissò, lisciava ostinatamente una piega del tovagliolo, forse si
chiedeva se aveva detto troppo a un conoscente fra tanti. Vide rughe
immaginarie attraversarle il volto, vide la sua stanchezza la sera
mentre baciava il figlio addormentato, contenta di aver guadagnato lo
stipendio per poter dar da mangiare a lui. Io a ventiquattro anni sognavo di fottere il mondo con una chitarra e un microfono. La vide troppo adulta.
- Scusami, non volevo in alcun modo essere giudicante.
Scosse di
nuovo la testa. – E io non intendevo attaccare te. Ho fatto le
cose di corsa, ma è andata bene così. – Si
alzò, ritirò i piatti e tornò in tavola con altre
pietanze e il suo sorriso rinnovato. Più bella, così.
– Però sto parlando solo io, divento noiosa! Di’
qualcosa tu… Sposato non lo sei… Fidanzato? Innamorato?
- Innamorato sempre, ma raramente di una persona.
– Ma senti, Oscar Wilde con l’eye-liner!
- Oh, si nota molto? – Finse di sistemarsi il trucco con un polpastrello mentre ridevano entrambi.
- Certo, altrimenti non lo metteresti. Hai visto come ti guardava Simon prima?
- Pensavo fosse per le mie doti affabulatorie.
- Oppure perché gli sembrava che assomigliassi alla maestra dell’asilo.
Un sorriso storto. – Un giorno smetterò anche l’ombretto… Un giorno…
-
Perché? Stai bene. Attento solo a non esagerare, potresti
sviluppare un senso di competizione nella tua donna. Ma l’avrai
già visto da te. – Scorciò con la mano.
Afferrò un tramezzino, tornò a guardarlo negli occhi.
– Quindi hai qualcuno.
- Ah, sì?
- Sì, perché svii l’argomento.
- Ragazzina impudente!
- Dai,
sbottonati! – Spalancò gli occhi in un invito genuino.
– Giuro di non essere un paparazzo della BBC sotto mentite
spoglie.
- D’accordo. Allora… quando capita mi vedo con qualcuno.
- E quando capita?
- Ogni tanto. Mi è sembrato di sentire Cody che mi chiamava.
- Niente da
fare! – Negò vigorosamente. – Però se mi dai
qualche altro dettaglio potrei accontentarmi e lasciarti tranquillo. E
offrirti anche un dessert.
In effetti quella schermaglia lo divertiva – il fatto che era fastidiosa come Matt lo divertiva
-, e non gli dispiaceva buttare lì l’argomento con
qualcuno di estraneo ai fatti e in qualche modo alla sua vita. –
Mi vedo con uno. Un uomo, da qualche settimana.
Aveva calcato molto su uomo
sperando che si scandalizzasse, con suo grande disappunto Marah si
limitò ad annuire. – Ed è una cosa tranquilla?
- Oh, sì, cielo. Sì. – Rimarcò con vigore. – Ci divertiamo e basta.
- Com’è lui?
- … Stupido.
- Intendo… Alto, modello asiatico avvenente? Musicista anche lui? O scrittore, uno scrittore?
Soppesò la questione. – Aspirante musicista. Ha del talento, tutto sommato. Tanto. No, tanto è eccessivo. Un po’.
- Come vi siete conosciuti?
Mah, se sfogli NME è difficile non trovare un articolo su di lui. – Ad una festa, per una tragica fatalità.
Marah rideva. – Guarda che se continui così non crederò mai che è solo divertimento-tutto-sotto-controllo!
- La situazione è sotto controllo, è lui ad essere pazzo. – Si perse nei propri pensieri. – Ti dispiace se fumo?
- Figurati.
Vado a dare un’occhiata ai ragazzi, non si sentono da troppo
tempo. – Gli allungò un posacenere ed uscì dalla
stanza. Tornò poco dopo, raggiante, gli fece segno di seguirla.
– Questa devi vederla.
Cody e Simon si erano addormentati sopra il piumotto, così vicini sembravano due cuccioli che si scaldano a vicenda.
- Amore… Sarà stato esausto.
- Hanno guardato un po’ di TV e poi hanno iniziato a rincorrersi e giocare come matti. Penso siano stravolti, sì.
- Adesso lo porto via, spero di non svegliarlo.
- Lascialo dormire qui, no?
Scosse la
testa, si allontanò dalla camera per poter parlare senza bisogno
di bisbigliare. – Deve essere da sua madre perché domani
mattina partono, vanno via per il weekend. Non voglio costringerla a
cambiare i suoi piani.
- Non vuoi neanche un dolce? Prendi almeno qualcosa da bere, una birra.
- Una birra, sì. – Concesse. Dieci minuti di ritardo non avrebbero significato molto.
Marah
stappò due bottiglie e gliene allungò una, c’era un
che di maschile in quel gesto. Si accomodarono in salotto, e
l’unione di divano, birra e sigaretta lo riportò ad una
dimensione di distesa quotidianità che lo fece stare bene. Gli
dispiacque aver interrotto il discorso di prima.
- Metà delle volte che sto con Matt sono ubriaco.
- Che cazzo c’entra! – Marah rideva. – … Perché?
-
Perché è più facile, suppongo. Perché
è un alibi a cui non crediamo né io né lui, ma ci
serve sapere che c’è.
- Sembra che vi volete e poi volete scapparvi.
L’occhiata che le rivolse la trovò tristemente d’accordo. E quando non è così?
Era bello parlare con lei. Sfiatò il fumo della sigaretta, si
carezzò un sopracciglio. - Io ho paura che lui mi voglia. Mi
voglia davvero, intendo. Che si innamori di me.
- Perché non andrebbe bene?
- Perché io non sono innamorato di lui.
- Glielo hai detto?
- Non gli ho mai detto il contrario.
- Allora direi che il problema non esiste. – Era pragmatica, Marah. – È un adulto, fa le scelte che vuole.
Di nuovo quel sorriso amaro. – Matt non sceglie, non credo ne sia capace. Sta… aspettando,
che tutto vada come deve andare. Non pensa di avere voce in capitolo.
Ha… - Fece vagare lo sguardo per la stanza, vide Marah
sistemarsi sulla poltrona e stringersi le ginocchia al petto. –
Ha una donna, incinta, e fa finta di niente. È il suo primo
figlio e fa finta di niente. E viene da me.
- Avrà paura. Di quello che sta vivendo, dico. E stare con te gli fa bene.
- E che cazzo sono io? La sua crocerossina? L’amante quando va male con la sua donna?
Scosse la
testa sinceramente perplessa, il suo caschetto dorato si scompose e
ricompose in frazioni di secondo. – Non capisco. Non vuoi che sia
una storia seria, ma se lui ti vede come un diversivo sembri
offenderti. Che cosa dovrebbe fare?
- No, no.
– Chiarì con un gesto spiccio della mano. – Io
voglio esattamente essere un diversivo. Il punto è che Matt deve
capire che io non sono la soluzione ai suoi problemi. Sistemare i
casini che ha all’infuori di me e poi, se ne ha ancora voglia, tornare.
- I problemi ce li abbiamo tutti, ce li avrà sempre anche lui. Questi o mille altri.
-
Sì, ma tutti ce li sistemiamo con le nostre mani, ce la facciamo
da soli, per lo meno è quello che un adulto prova a fare. Invece
a volte sembra come se Matt si aspettasse qualcosa da me. Come se
avesse negli occhi un colossale buco nero e ti dicesse hey, dai, riempimelo tu.
Io non voglio, io non c’entro un cazzo con quell’accidenti
di uomo. Io posso fare a meno di lui in qualsiasi momento, deve essere
altrettanto.
Marah lo
guardava, pensava, parlò come se avesse capito ma si sentisse
l’ultima persona in dovere di emettere giudizi. - Tu hai davvero
una fottuta paura che si innamori, ma solo perché a quel punto
spetterebbe a te scegliere se spezzarlo o ricambiarlo.
- Non puoi scegliere di innamorarti di qualcuno.
- È vero.
- Quindi resta solo l’opzione di spezzare.
- Solo se nel frattempo non ti sei innamorato.
Avevano chiacchierato un’altra mezz’ora, poi aveva preso Cody in braccio e aveva lasciato la casa di Marah. Mi ha fatto piacere parlare con te, gli aveva detto. Anche a me,
aveva risposto, sinceramente. L’unica crepa in una serata davvero
piacevole era la fastidiosa sensazione che Marah avesse ormai deciso
che lui era pazzo di Matt al punto di essere preoccupato di ferirlo.
- Lascia andare le cose ora, vedi come vanno.
- Hai parlato con Matt per caso? Davvero, te lo presento, avete molte cose in comune.
Lo
salutò sulla porta con il suo solito sorriso, Cody mugolava
senza mai svegliarsi davvero, e lui si sentiva un po’ meno in
colpa. Il tassista li depositò davanti a casa di Helena poco
dopo, lei gli aprì picchiettandosi il polso mentre canticchiava gli orari, stronzo. La baciò sulla guancia, si guadagnò un ruffiano
e si allontanò di buonumore. Aveva fatto aspettare il taxi, ma
decise di percorrere a piedi la strada fino a casa. Distava un quarto
d’ora scarso, e lui aveva voglia di camminare. E di pensare. Di
pensare a qualcuno. E magari anche di parlarci. Fece un rapido calcolo.
Perfetto, l’avrebbe svegliato di sicuro. Scorse rapidamente la
rubrica del telefono, trovò il numero. Uno squillo, due squilli.
Tanti squilli.
- ‘To.
- Ciao, Matt.
Pausa. Sicuramente ha staccato il cellulare dall’orecchio e cerca di leggere il nome sullo schermo.
- Brian?
- Sì. Come stai?
Altra pausa.
- Sdraiato con gli occhi chiusi.
- Vedo che il senso dell’umorismo non ti abbandona neanche oltremare. Dove sei ora?
Altra pausa. O la rete di telefonia mobile thailandese faceva acqua da tutte le parti o Matt era particolarmente rincoglionito.
- In Thailandia.
- Matt, ma ti sei fatto? Stai bene?
- No,
Brian, io davvero non capisco, davvero non capisco, non… Qui
è… - Sentì un frusciare di lenzuola, uno schiocco
sordo e delle imprecazioni, infine una tenda che si apriva malamente.
– Qui è notte! – Glielo confidò come fosse un
segreto, e a quel punto non trattenne più le risa.
- Ti prego, dimmi che hai bevuto fino a farti scoppiare il fegato e non sei così di tuo!
- Ho fumato una o due canne al massimo, ma non c’entrano niente.
- Non sai neanche quante erano!
- Brian. Perché, anziché… ridere, non mi dici qual è il problema?
- Nessun problema. Sto rientrando a casa e mi andava di sentirti, così, di salutarti.
Pausa.
- Vai a cagare.
Quella fu la prima volta che gli sbatté il telefono in faccia. La seconda fu quando al ruggito di Matt Ho sonno rispose Ma io no.
Alla terza chiamata Matt si mostrò più condiscendente,
con ogni probabilità soltanto perché ormai incapace di
riaddormentarsi.
-
Sì, stronzo, sto bene. C’è un’umidità
del centoventi per cento, ma se ci fai l’abitudine si sopravvive
egregiamente.
- Fantastico. Che programmi hai per i prossimi giorni?
Pausa.
- Bri,
davvero. Io prometto di risponderti, ma tu mi devi giurare sulla
discografia di David Bowie che mi hai chiamato solo per sapere come sto.
- Te l’ho già detto che è così, però prova a chiamarmi Bri un’altra volta e sarà l’ultima che ti trovi le dita attaccate alle mani.
Pausa, la più lunga di tutte. Ti sento sorridere fin qui.
- Domani vado in un tempio fuori Bangkok, un’oretta di auto da qui.
- Wow.
- Non ti
esaltare. Niente cagate mistiche che piacciono agli alternativi come
te. Ci vado per l’itinerario descritto dal volantino. Senti qua: Vegetazione fitta, liane e serpenti esotici. Bello, no?
- Certo che sai come tranquillizzare le persone.
- … Sei preoccupato per me?
- Solo perché so che il tuo cervello funziona a intermittenza. Vedi di non morire.
- Porterò a casa la pelle, non temere.
- Devo ancora insegnarti a cantare.
- E io devo ancora vederti suonare degli accordi esistenti
sulle tue meravigliose chitarre. E non vale neanche che ti abbassano il
volume delle Fender quando cerchi di spaccare le orecchie a tutti.
- Mi è mancata la tua ironia sottile e discreta.
- Oh, anche
a me manchi molto. Ieri camminavo per il centro di Bangkok –
sterminato, bellissimo, da perdertici dentro un milione di volte
– e sono finito in un mercato di tessuti di dimensioni
allucinanti. Ci saranno stati cinquecento banconi con ogni tipo di
stoffa, dalle sete più raffinate alla juta più grezza.
Cotoni, lana di tutti i colori e le fantasie. Ho comprato di tutto, le
cose più inutili. Più erano inutili più le
compravo, non so minimamente che cosa me ne farò. Ma
c’erano dei colori che sembravano chiamarmi, mi ricordavano delle
persone, delle vicende della mia vita. C’era un sacco che aveva
l’esatto colore del barchino di un vecchio pescatore di
Teignmouth. Lo vedevo tutti i pomeriggi quando tornavo da scuola. Era
blu, ma un blu rassegnato, che si spegneva di anno in anno, lasciando
sempre più terreno al verde muschiato delle alghe. Io misuravo
sulla vernice di quello scafo il tempo che scorreva, le stagioni che si
alternavano e i mesi che mancavano alle vacanze. Erano secoli che non
vedevo quel colore. Non sapevo neanche di ricordarlo, ma appena
l’ho visto… Delle cose ti restano dentro, non lo sai ma te
le porti dentro. Ho sentito il bisogno di prendere quel sacco su di me,
tenermelo un po’ addosso, per sentirmi a casa. Ti ho pensato, a
un certo momento. Ho pensato che volevo farti vedere quelle cose.
– Rise. – Ora penso di essere un coglione.
Aveva una lacrima prepotente sulla guancia. – Mi hai visto in una stoffa?
- No, nel
cielo di Bangkok. Ho alzato gli occhi e mi sono detto che
qualunque cosa tu stessi facendo era sbagliata perché
dovevi essere lì, con me, in quel mercato, a respirare
quell’aria.
- Di che colore era il cielo?
- Fumo. Eri il fumo, quello che cambia continuamente e non lo afferri mai.
***
- Ciao, amore. Quanto mi sei mancato.
-
Papà- Ahia, mi schiacci! – Allentò un po’
l’abbraccio. – Guarda che siamo stati via solo tre giorni.
- Lo so, ma mi sei mancato tantissimo.
- Anche tu. Guarda, ti ho fatto una cosa!
Lo mise a
terra e lo vide correre da Helena, che aprì il portellone
posteriore dell’auto e gli allungò un foglio.
- Tieni! L’ho fatto mentre tornavamo indietro.
Era il disegno di un albero di Natale, tante palline su ogni ramo e tante scatole sbilenche accanto al tronco.
- Vieni
qua, amore mio. Adesso ti rapisco e non ti lascio andare più. Ti
compro un castello così grande che devi invitare cinque amici
per usarlo tutto.
- Ma io ce l’ho già il castello.
- Non me ne frega niente. Te ne prendo uno più bello. Il più bello di tutti.
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Capitolo 9 *** IX - Trasparenza ***
Partenze IX - Trasparenza
IX - TRASPARENZA
- Ecco, entra pure. Butta le cose dove vuoi, non fare caso alla confusione e buon divertimento.
Brian aveva
già gettato il cappotto sull’appendiabiti, si era seduto a
peso morto sul divano e stava armeggiando con l’accendino e la
sigaretta fra le sue labbra. L’ambiente era nella penombra,
rischiarato solo dalla luce soffusa di una lampada. Le figure che si
delineavano erano di un’ocra avvolgente.
- Wow.
- È un salotto.
- Mi piace.
- Ottimo. Ora potresti gentilmente chiudere la porta e levare quel trolley glitterato dalla mia vista?
Matt
sbuffò, ma obbedì agli ordini senza troppe esitazioni.
Posizionò la valigia dietro la prima porta che gli capitò
a tiro, abbandonò anche la giacca e prese posto di fronte a
Brian.
- Perché ridi?
- Non sto ridendo.
- Stai pensando qualche stronzata colossale, non provare a dire di no.
Matt rise
davvero, scrollò le spalle mentre affondava elegantemente nella
poltrona. – Posso ringraziarti di avermi invitato qui?
- Non ti ho invitato.
- Non mi hai minacciato di morte quando ti ho avvisato che sarei venuto. È quasi un invito scritto per i tuoi standard.
Si concesse
un ghigno. – Vedo che stai imparando le regole. –
Sfiatò voluttuosamente una nuvola di fumo. – Allora
diciamo che accetto i ringraziamenti e ti dico ‘prego’.
- Posso?
– Indicò svogliatamente la sigaretta, Brian gli tese il
pacchetto, inutilmente. Matthew si allungò e gli sfilò la
sua dalle labbra. Soffiò, si accese un’altra sigaretta,
chiuse gli occhi per godersi il silenzio di quella serata. Le gambe
pesavano, e così pure le braccia.
- Sembri stanco.
- Un po’.
- Vuoi che me ne vada?
- Non mi pare di averti chiesto di andartene.
- Questo non vuol dire che non vuoi che me ne vada.
- Oh,
Cristo, Matt… - Si tirò a sedere in modo poco più
composto, passò una mano sulla fronte sperando di rendersi
più presentabile. Lo stava fissando. – Lo sai, vero, che
comunque vada a finire questa… cosa…, io avrò bisogno di uno psicologo dopo?
Gli sorrise. – Scusa. Però davvero non voglio darti fastidio.
- Non mi
dai fastidio. Diciamo che preferirei essere avvertito delle tue visite
con un anticipo maggiore di dieci minuti, ma tutto sommato sono
contento di vederti.
- È la cosa più gentile che mi hai detto da quando ci conosciamo.
- Sì, sì, ho messo in conto di pentirmene. – Scorciò con la mano. – Vuoi qualcosa da bere?
- Un po’ d’acqua, se ce l’hai.
- No, mi hanno rubato il rubinetto ieri notte.
- Okay, okay, era una precisazione stupida. Frase di circostanza.
Brian camminava a passo strascicato. – Non ti devi assolutamente sforzare di- Ahia, cazzo! – L’imprecazione era stata accompagnata da una serie di tonfi. Matt si alzò di scatto.
- Che cos’hai fatto?
- Sono inciampato nella tua cazzo di valigia, ecco cos’ho fatto!
- Ma non potevi girarci intorno?
- Ahhh, il piede… - Arrivò alla sedia, spostò il peso sullo schienale cercando di alleviare il dolore.
- Mi dispiace…
- Taci.
- Brian?
- Taci!
- Perché vai in giro a piedi scalzi? Perché non ti metti un paio di ciabatte?
- Vaffanculo.
- Davvero, dovresti metterti un paio di ciabatte.
Lo
fissò basito, aprì la bocca e la richiuse. - Te le ficchi
nel culo le ciabatte. – Lo oltrepassò saltellando altero
su una gamba sola.
- Aspetta, dove vai… Appoggiati…
- No.
- Fermo! Metti che poi becchi un chiodo-
- IN CASA
MIA NON CI SONO CHIODI, CI SONO SOLO COGLIONI CHE NASCONDONO LE
VALIGIE IN CUCINA! – Piroettò su se stesso e
continuò il suo percorso accidentato.
***
- Posso?
Era seduto
sul letto, la schiena appoggiata alla testiera e le braccia incrociate.
Si concentrò per restare serio, lo guardò di sottecchi.
– Entra pure.
- Come stai?
- Meglio, grazie.
- Mi chiedevo se dovevo guardare Total Wipeout ancora a lungo o se avevi finito di far finta di essere arrabbiato.
- Mh, non saprei. Non sono convinto che sia passato un tempo adeguato.
- Penso di
sì, ti ho già finito una confezione di patatine e
l’hamburger che avevi nel frigo. E un paio di quei biscotti
rinsecchiti nella scatola blu.
- Matt, ma hai mangiato in Cambogia?
- Thailandia.
- D’accordo. Hai mangiato in Thailandia?
-
Sì, ma non immagini quanto mi sia mancato il grasso cibo
spazzatura di noi Occidentali. Lì andavo avanti a roba esotica
sperando ogni volta che non mi venisse una gastrite.
Rise una
risata acuta. – Non fatico a crederlo! – Sbadigliò,
cercò qualcosa per la stanza. - E i tuoi compagni di band cosa
ne pensano dei tuoi viaggi alla ricerca di te stesso?
- Chi, Dom
e Chris? – Fece spallucce mentre si sedeva sulla sponda del
letto. – Loro sanno che ogni tanto sparisco. E sanno che sono i
primi che chiamo quando torno.
- Quando non piombi a casa mia.
- Sì… una cosa del genere.
- Mi chiedo
come facciate a stare sempre così… - Sbozzò una
nebulosa gesticolando rapido, sembrava assorto nei propri pensieri. -
… insieme…
- Ma chi, noi tre? Come facciamo a non stare insieme con il lavoro che facciamo?
- Nah,
è diverso. – Si allungò fino al bicchiere sul
comodino. - Voi siete tipo tre siamesi. Hai presente, no?, migliori
amici…
-
Be’, ci conosciamo praticamente da sempre, andavamo a scuola
insieme… Eravamo i figoni di Teignmouth! – Chiosò
tronfio.
- ... Eravate molto orrendi all’inizio. Ed è un giudizio estetico obiettivo.
- Tutti sono orrendi a quindici anni!
- Sì, ma tu e il tuo batterista sembravate due profughi malnutriti!
Scoppiò a ridere. – Potrei twittare a Dom qualche stronzata del genere!
- … Ma tu non lo lasci mai in pace quell’uomo?
- Dom?
Ma scherzi?! Ci annoieremmo come morti. O la prendi così o
impazzisci in due giorni. Praticamente giri per il mondo e vedi che la
gente ti crede Dio. E se sei un minimo egocentrico finisci per crederci
anche tu, ti lasci lusingare. Meno male che ci sono loro a ricordarmi
che tutto sommato siamo solo… - Ci pensò un momento. -
… tre coglioni. – Riprese fiato, sorrise. - Sono gli unici
con cui riuscirei a fare qualcosa del genere. Sono le persone che ci
sono sempre state e le uniche con cui avrei mai voglia di suonare.
- Mi si scalda il cuore.
- Smettila,
idiota. – Gli sferrò una blanda cuscinata. – Guarda
che è la stessa cosa che c’è fra te e lo spilungone.
-
Forse… Non lo so. Non credo. – Cercava inconsciamente con
la mano delle sigarette che non c’erano. – Io e Stefan non
viviamo in simbiosi. Possiamo non sentirci per settimane. Ogni tanto
capita, soprattutto se abbiamo da poco finito un tour. E non è
che usciamo insieme molto spesso, non giriamo per locali a ubriacarci,
non diamo feste…
- E che cazzo fate?! Trombate?
- No, Bellamy. Stef è una delle ultime persone con cui andrei a letto.
- … Bah, non è che la cosa mi interessi.
- Come no.
Allora, - Si tirò in piedi, si guardava allo specchio per
sistemarsi i capelli. – Che cosa vuoi fare? Se non hai mangiato
tutto, di là dovrei avere ancora del cibo. Se no usciamo, non ho
voglia di stare in casa.
- Veramente pensavo di andare a casa.
Si voltò a guardarlo, una ciocca di capelli neri ancora intrappolata fra due dita. – Come, scusa?
- Devo
andare a casa. – Allargò le braccia a mo’ di
spiegazione. – Lavare la poltiglia di vestiti che
c’è nella mia valigia, avvisare quella zecca di Kate che
sono vivo, riprendere contatti con il mondo che ho tagliato fuori una
settimana fa.
- E ti sembrano motivi sufficienti per non cenare con me?
- Sono in piedi da trentadue ore, Brian. Devo dormire. Tanto. E ho bisogno di una doccia con tutti i crismi.
Passò
in rassegna le informazioni, scartò quelle inutili.
Aggrottò le sopracciglia. – La doccia c’è
anche nel mio bagno.
***
Faticava a
tenere gli occhi aperti, per quanto cercasse di nasconderlo a Matt. Si
era anche addormentato qualche minuto mentre cambiava svogliatamente i
canali della TV, ed erano stati dei minuti bellissimi. Si era illuso
che il tepore che lo stava inghiottendo potesse durare, e i suoi
muscoli prendersi quelle ore di riposo che continuava a negare loro.
Poi qualcuno al di là dello schermo aveva iniziato a urlare, e
il suo sonno leggero non aveva resistito. Spense il monitor stizzito.
Si era strofinato gli occhi, aveva messo a fuoco l’ambiente
giusto in tempo per vedere Matt che compariva all’ingresso della
sala. Scarmigliato attentamente, bagnato di doccia, nudo ad eccezione
di un asciugamano legato in vita. Assunse quella che doveva essere una
posa plastica. – … Brian. Volevo chiederti, posso
prenderti un altro goccio d’acqua?
Spalancò
gli occhi scettico, l’altro non raccolse, così si
limitò a indicargli la bottiglia davanti a sé. –
Prego.
Gli si
posizionò di fronte, chiuse gli occhi. Bevve diversi sorsi
direttamente dal collo della bottiglia prima di espirare sonoramente.
Brian era indeciso se scoppiare a ridere o assecondarlo. Idea che,
tutto sommato, non gli sembrava così malvagia. Matt che girava
nudo per casa sua non era tra i peggiori avvenimenti della settimana.
- Ah-ah, Brian. cosa guardi?
Riservò
un ghigno al pavimento. Si fece alla sua altezza, lo guardò
negli occhi, si avvicinò a lambirgli l’orecchio con le
labbra. – La scia d’acqua che hai lasciato sul mio
pavimento. È molto fastidiosa. – Lo superò e si
avviò in cucina a passo spedito. Smanettava con qualcosa di
fianco al piano cottura.
- Se vuoi posso usare la salvietta per asciugare.
- Avrei giurato che l’avresti detto.
- Penso di poterne- Ma cosa stai facendo?
C’era
una candela accesa. Aveva riempito due flute di champagne e li teneva
in mano. Aveva ancora quel ghigno che arrivava al cervello di Matt come
adesso vediamo chi si deve trattenere.
- Bentornato, Matthew. – Fece tintinnare i bicchieri fra loro, gliene allungò uno.
- Sei un deficiente, Brian.
- Perché?
- Perché di sì! Perché non so cosa dire.
- Non devi dire un cazzo. Bevi quel calice e stai zitto.
- …
- Per favore.
Svuotò il bicchiere in sorsi rapidi, Brian sorseggiava il suo roteandolo fra le dita.
- Mi metti in imbarazzo con queste cose.
Rise. Registrò che quella risata nasale era il suono che più gli era mancato mentre era via.
- Vatti a vestire, macho. Ti prendi una polmonite, e io le medicine a letto non te le porto.
***
Poi
capitò che si addormentò per davvero. Matt lo
trovò sdraiato sul divano, su un fianco, respirava
profondamente.
- Brian.
Nessuna
risposta. Sorrise. Recuperò i vestiti che aveva lasciato in
bagno, li gettò alla rinfusa nella valigia e ci si sedette sopra
per richiuderla. Si infilò il cappotto, lo guardò ancora,
si trattenne dal fare qualunque cosa. Uscì cercando di fare il
minor rumore possibile, gli scrisse un messaggio mentre scendeva le
scale. Gli sembrava di lasciarsi qualcosa alle spalle.
***
Aveva il
braccio intorpidito e la schiena dolorante quando si svegliò.
Non si alzò, aveva freddo ma nessuna voglia di recuperare una
coperta da buttarsi addosso.
- Matt?
La cucina
era vuota, così come camera sua. Chissà quanto aveva
dormito, e perché accidenti se ne era andato senza avvisare. Si
ricordò di controllare il cellulare, e trovò il messaggio
che gli interessava.
Sì,
lo so, ti devo una cena, ma dormivi così bene che non ho avuto
cuore di svegliarti. Non sai la tentazione di violentarti che ho dovuto
combattere.
Controllò l’ora d’invio. Era di due ore buone prima. Digitò rapido una risposta.
Potevi almeno ordinarmi da mangiare. Ho fame.
Il telefono vibrò in pochi minuti.
Ma sei ancora sveglio? Vai a letto.
Fatti i cazzi tuoi.
Oh, ora ti riconosco.
___________________________________________
Vogliatele bene qualunque cosa sia (cosetta,
viste le dimensioni), son due mesi che fisso lo schermo e finalmente ne
sono uscita. Non è malaccio ma poteva venire meglio. Nel
prossimo capitolo FORSE finalmente succede qualcosa, mi fate un
hoop-hoop tutte in coro?
Per vostra
conoscenza generale: ho corretto errori elefantiaci dei capitoli
precedenti, il più divertente era che Brian ha la patente. No,
non guida, neanche in questa storia. Se trovate delle nuove castronerie
fatemele notare con baldanza, io mi irriterò come una biscia ma
a voi riserverò solo tanta gratitudine.
Tanti abbracci e baci tutti per voi!
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Capitolo 10 *** X - Blackout ***
Partenze X - Blackout
X - BLACKOUT
17 Marzo
- Matt?
- …
- Matt?
- …
- MATT.
- Mmm.
- Mi stai schiacciando il braccio.
- Mmm?
- Mi stai schiacciando il braccio. Vai in là, per favore.
- …
- Hai sentito?!
- …
- Matt, rotola in là. Ti do tre secondi, poi…
- …Mmm?
- Ti ficco un pugno nelle costole.
Aprì un occhio su di lui, rotolò sul fianco. –
Speravo che il ‘ti ficco’ preludesse a qualcosa di
più audace.
- Grazie a Dio… - Si sgranchiva la mano con movimenti circolari. – Matt?
- Sto dormendo.
- Ma tu davvero vivi bene sapendo che le prime parole che dici la mattina sono Speravo che il ‘ti ficco’ preludesse a qualcosa di più audace?
- …
- Matt?
- E che cazzo?!
- Scusa, ti lascio dormire.
Silenzio.
Silenzio.
Fruscio di lenzuola.
- Dove vai.
- Shhh, di là. Continua a dormire.
- SONO SVEGLIO.
- Scusami.
- No.
- …
- Solo se mi porti un caffè. Nudo. …Tu, non il caffè.
1 Aprile
- Mi hai rubato ancora le magliette.
- No.
- Sì. Ti sei fottuto la mia maglia blu.
- Guarda che se tieni le mani sui fianchi non fai più paura.
- Trova la mia maglia.
- Sulla sedia ci sono le mie, prendi quella che ti pare.
- Voglio la mia maglia, e solo perché mi fai incazzare quando fai sparire le mie cose.
- …Non ce l’ho, l’avrai messa a lavare.
- Ce l’avevo addosso ieri, era qui.
- Non ci ho fatto caso.
- Sì, l’ho notato. Potresti averla usata come asciugamano
per l’attenzione che presti ai vestiti. Ai miei vestiti.
- Tieni. – Ruotò il trolley nella sua direzione. – Guarda se è finita qui dentro.
- Certo che è qui dentro. Come al solito. –
Strattonò a sé la valigia, gli riservò uno sguardo
aspro. A lungo. – …Idiota.
- Eh?
- Guarda cos’hai addosso. Sotto il maglione.
- …
- ...
- Te l’ho detto che non era nel trolley.
- …Tienitela. Ti sta bene.
- Veramente mi va un po’ larga.
- Si dice ‘grazie per il regalo’.
- È un regalo?
- …No. No, nessun regalo.
5 Aprile
. Ci vieni un weekend fuori città con me?
. Dove.
. Quando.
. Con che scusa?
. Con che mezzi di trasporto.
. Per che occasione.
6 Aprile
. Per quanti giorni.
. Perché.
. …Va bene, va bene. Ho capito, Brian.
15 Aprile
. Ci vieni un weekend fuori città con me?
24 Aprile
- Ti ho mai detto quanto mi stai profondamente sul culo, Brian?
- Sì. Un sacco di volte.
- E cosa ci fai ancora qui?
- …Dovrei andarmene?
- Sì. Offeso.
- Dovrei andarmene offeso?
- Sì.
- …
- No.
15 Maggio
- E questo che cos’è?!
Matt si grattò la testa, si sporse verso la targhetta. – ‘Casse’.
- Grazie tante.
- Si vede che era un artista poco fantasioso.
- Era un coglione. Casse, santo cielo.
Scrollò le spalle. - Magari per lui vogliono dire qualcosa.
- Non me ne frega un accidente di cosa vogliono dire. Non dicono un cazzo. E sono brutte.
- Abbassa la voce! È vuoto, si sente tutto. A proposito. –
Schizzò alla porta, fluttuò nel corridoio laterale.
Tornò indietro soddisfatto. – Non ci hanno seguito, sono
ancora nell’atrio.
- Chi?
- Jim e Maggie.
- Chi?
- I proprietari della galleria. Sono miei amici da un paio
d’anni, li ho conosciuti in Italia. Sono stati gentilissimi a
tenere aperto oltre l’orario per noi, no?
- Ne facevo a meno.
- Oh, come sei noioso. La scala mobile in plexiglas era bella.
- Sì, finché leggevi che doveva essere un monumento allo sterminio della guerra di Corea!
- Nah, tu cavilli. L’arte contemporanea deve suscitare una reazione di pancia. Non ci devi pensare, non la devi capire.
- Va bene. – Lo prese per i fianchi, lo fece voltare, lo tenne
stretto. – Senza capirci un cazzo, - Gli sussurrò in un
orecchio. – guarda gli scatoloni e dimmi se sono interessanti o
la più grande stronzata che tu abbia mai visto.
Chiuse gli occhi. – La più grande stronzata che io abbia mai visto.
- Bravo.
- Grazie.
- Hai vinto un premio.
- Che premio?
- Dopo ci penso.
- La smetti di sussurrare come una puttana?
Rise e lo lasciò voltare. – Che puttane conosci? –
Lo fissò, sorrise a quel volto corrucciato. Gli afferrò
le tasche della giacca. – Non ce la faccio più,
andiamocene via.
Matt non si mosse. Vedeva lui e le casse sfocate alle sue spalle,
così sbiadite. Pensò che avrebbe voluto baciarlo solo per
rendere quell’istallazione meno disgustosa. Glielo disse. –
Adesso ti bacio per rendere quest’istallazione meno disgustosa.
- Sei un poeta di quart’ordine. – Si schiacciò
contro il suo volto, sentì la barba di fine giornata che
spuntava. Lo baciò a fondo. Si staccò per riprendere
fiato, lo baciò di nuovo, gli morse le labbra, gli strinse i
capelli con una mano.
Matt se lo tirò addosso, sperando che riuscissero a fondersi
anche così, malfermi su gambe molli e con il riverbero di quella
luce di ospedale negli occhi. Probabilmente dall’alto dovevano
sembrare due macchie scolorite su un pavimento in linoleum. Due macchie
che qualcuno non si era preso la briga di cancellare. Non gli
interessava, da lì sotto sembrava di vedere molto di più.
– Io non ti faccio andare via neanche se mi implori in ginocchio. Te lo giuro.
Glielo disse con i denti nel collo, lo stava stritolando e pregò
che non stesse respirando per quello. La stretta sui suoi capelli si
faceva più lieve, la mano si allontanò.
Brian intrecciò le dita alle sue in una carezza ruvida, si staccò, si
allontanò di qualche passo. Aveva quegli occhi trasparenti e una
scintilla come se stessero per esplodere dalla pienezza.
- Andiamo via. Portami via.
This love's too good to last
And I'm too old to dream
Muse, Blackout
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Capitolo 11 *** XI - Predisposizione casuale ***
Partenze XI -
Sì,
proprio sì, è un aggiornamento bisettimanale. Controllate
bene che la Terra non abbia invertito il suo senso di rotazione, eh.
Grazie a chi segue e commenta : *
_____________________________
XI - PREDISPOSIZIONE CASUALE
Mi sono svegliato. Tu dormivi. Vedevo
le tue costole che si sollevavano e abbassavano sotto la pelle troppo
sottile. Ho guardato le tue gambe, i tuoi piedi, le tue braccia, il tuo
volto anche se con un certo fastidio perché mi irrita
l’idea che tu possa fare lo stesso con me quando non me ne
accorgo. Annotavo mentalmente le imperfezioni che scoprivo, pensando
che prima o poi ne avrei avuto bisogno. Non saprei dire quanto tempo
sono stato immobile a fissarti, a sentirti respirare. Sono stato
lì, nient’altro, mi facevo bastare la poca luce
dell’alba per cercare addosso a te qualcosa che non sapevo. Hai
schiuso le labbra per qualche istante. Io mi sono alzato, sono andato
in bagno, ho guardato la mia faccia nello specchio, sono scoppiato a
piangere. Ho cercato di non fare rumore premendomi una mano sulla
bocca, con l’altra mi sostenevo al lavandino e ho pensato che
l’avrei spaccato. Guardavo le lacrime che scorrevano sulle guance
rosse e aspettavo che mi arrivassero in bocca per sentirne il sapore.
Non credo di avere pensato a te in quei minuti.
Poi
è passato. Mi sono sciacquato il volto con l’acqua gelata,
la salvietta era a terra e l’ho lasciata lì. Sono tornato
a letto, ti ho guardato di nuovo, mi sono voltato dall’altra
parte. Non avevo capito. Non c’era niente da capire.
***
Gli
stava baciando la clavicola, il respiro che via via si normalizzava.
Chinò il volto per direzionare quel bacio sulle labbra,
riuscì nel suo intento, si rilassò mentre lo baciava. La
bocca di Matt era bollente quanto la sua.
- Ahhh. – Roteò il collo sul cuscino guardando il soffitto. – Sono a pezzi. Se stiamo qui altre due ore?
- Non avevi da fare dieci minuti fa?
- Eh?
- Hai detto che dovevi essere in qualche posto con qualcuno alle undici.
- Ah,
quello delle chitarre. – Si passò una mano sulla fronte.
– Non importa, c’è lì Tom e forse andava
anche Chris. Tanto è un incontro preliminare.
- State rifacendo il guardaroba?
- L’idea è quella, ma non adesso. Doveva solo darci dei prezzi e un po’ di nominativi.
- Mh.
- … Fa niente, non era importante.
- Scusa, perché non vai adesso?
Sbuffò. – Ora che arrivo o se ne sono già andati o hanno già detto tutte le cose interessanti.
- Te le fai ripetere.
- Che due
coglioni. – Si alzò dal letto di scatto, infilò i
boxer e un paio di pantaloni sportivi. – Basta che non decidano
niente senza di me. – Afferrò il cellulare dalla sedia,
premette qualche tasto. – Ecco, mi ha chiamato tre volte. –
Sbuffò di nuovo, si portò il telefono all’orecchio.
– Sì, Tom… Scusami, le ho viste adesso, ma…
No, mi sono totalmente dimenticato. – Scorse l’occhiata
scettica di Brian, si voltò per non vedere oltre. –
… Come? Ah. Ah… Grazie. … No, davvero, mi
dispiace… Okay… Grazie. A dopo. – Chiuse la
chiamata, fissava lo schermo con qualcosa di simile a
perplessità e preoccupazione.
- Quindi?
- …
- Hanno sciolto i Muse in tua assenza?
- No, ha annullato perché né io né Chris ci siamo fatti vivi.
- Bene.
- Mi dà sui nervi. – Si riscosse, prese una maglia pulita dalla borsa a fianco del letto. – Mi dice Va tutto bene, non preoccuparti. Era addirittura gentile. Col cazzo che va bene.
- Cosa stai dicendo, Matt?
- Non lo
so. Che doveva incazzarsi e non l’ha fatto. È strano. Lui
è quello che si incazza per finta quando noi facciamo gli
idioti, perché non l’ha fatto? Di solito mi manda messaggi
pieni di insulti, ha una fantasia spaventosa.
Scoppiò a ridere. – Tu hai bisogno di qualcuno che ti tratti male per essere felice!
Si
buttò sul letto con una sorta di grugnito, cercava di bloccargli
le braccia mentre quello si divincolava ridendo. – Io ho bisogno
di scoparti per essere felice!
- Levati,
Matt! Ah, le scarpe… Levati… - Le lenzuola erano un
groviglio intorno alle gambe di Brian, Matt cercava di lanciarle
indietro rimanendoci impigliato a sua volta.
- Aspetta!
Letto di merda… - Riuscì a infilare una mano sotto
quell’ammasso di stoffa, afferrò un fianco di Brian e se
lo tirò più vicino.
- Sei un porco! – Aveva il fiato corto per il troppo ridere e le carezze decise che Matt gli stava rivolgendo.
Il telefono squillò.
- … Ma non è possibile! Ho rimesso la suoneria trenta secondi fa!
- Vai a
rispondere! – Finalmente si liberò dalla presa, sussultava
mentre si metteva seduto. – Questo è Kirk che ha deciso di
essere stato troppo buono.
- Vuoi che metto il vivavoce per le parolacce?
- No, grazie, attento solo a non eccitarti troppo.
Gli fece un
gesto osceno che non colse, guardò l’apparecchio. –
Ma cosa…? Pronto. …Ciao. – Iniziò a
camminare, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Brian si vestì rapidamente, sistemò la
confusione che invadeva la sua camera ad ogni passaggio di Matt.
Andò in salotto e vide che Matt era ancora al cellulare,
uscì sul balcone per non disturbarlo. Lo sentì arrivare
poco dopo, aveva un’espressione vacua sul volto.
- Kate è stata male.
- Cosa?
- Non ho capito bene, mi ha detto che è stata male.
- … Era lei?
- No, no, sua madre. Ha detto che ieri è quasi svenuta. Ha avuto un mancamento, una cosa del genere.
- Ma sta bene?
-
Sì, sì. È stato solo un momento, pare. Non mi ha
neanche voluto avvisare. Goldie ha detto che non sa che mi ha chiamato,
le ha detto di non dirmi niente perché non è nulla di
importante. – Torturava la balaustra con le mani. – Non so,
io vado là… Magari non è niente, però mi
sta sul culo che minimizzi così, senza dirmi nulla. Mi taglia
fuori. Scusa, se sta male perché io non dovrei saperlo?
- Non so,
Matt… Hai detto che non ha propriamente perso i sensi, magari
non è stato davvero nulla, un momento di debolezza… Si
è fatta vedere da un dottore?
- Non lo
so! – Allargò le braccia. – Non so un cazzo, io!
Sono un cretino qualunque che non ha diritto di sapere come sta!
Lo guardava, muoveva lo sguardo frenetico da una parte all’altra. – Vai a trovarla, allora.
Si fermò. – Non lo so, magari è una cosa stupida. Magari sto ingigantendo tutto perché sono lontano.
- Vai
là, vedi che va tutto bene e ti metti il cuore in pace.
Avrà avuto un calo di zuccheri, cazzo, non un’emorragia.
Parlale di persona e vedrai che è tutto a posto.
Fissava il
pavimento, scosse la testa. – È la stessa cosa di
settimana scorsa. Era in bagno con la nausea e neanche me lo avrebbe detto, se
non fossi entrato per caso. Io non capisco perché debba fare la
persona orgogliosa.
- … Quindi era qui settimana scorsa.
-
Sì… - Parve ricordarsi di qualcosa improvvisamente, lo
guardò per un momento con un’aria colpevole, parlava
rapido. – Sì, scusa, non te l’ho detto… Era
per quello che – Sai quando mi hai chiamato? Era lì
e…
- Non me ne
frega niente. – Cercò di sciogliere la tensione che
sentiva lungo la spina dorsale. – Non sei tenuto a dirmi niente
di Kate, come ti ho già detto non mi importa nulla di lei. Di
voi due, intendo. Spero che lei stia bene, tutto qui.
- … Okay.
- Comunque
immagino che se le dedicassi un po’ più d’attenzione
non avrebbe problemi a dirti cosa le capita mentre non ci sei.
Avrebbe
giurato di notare un moto di stizza sul volto di Matt. Ad ogni modo non
disse nulla, lo guardò un secondo di troppo. – Sì.
Preparo le cose e vado subito in aeroporto. Spero di trovare un posto
sul primo volo disponibile.
Lo
seguì in camera, lo guardava raccogliere i vestiti alla rinfusa,
recuperare dei fogli dalla scrivania e un libro che si era portato da
leggere.
- Stai tranquillo, vedrai che va tutto bene.
- Lo spero.
– Si strattonò la tracolla sulla spalla, aspettò
che gli facesse strada verso l’ingresso. – Bene…
Ciao. Mi dispiace, non erano questi i programmi che avevamo.
- Non importa.
- Non vorrei andarmene.
- Non importa.
- Okay.
- … Fatti vivo. Fammi sapere se è tutto a posto.
-
Sì. – Lo guardò, guardò la porta che teneva
aperta, poi lui di nuovo. Lo oltrepassò. – Ciao.
***
Quella
sera non gli aveva fatto sapere niente, il giorno dopo neppure. La
mattina di martedì controllò per l’ennesima volta
il telefono. Lo rigirò fra le dita.
. Tutto bene?
Giovedì gli aveva risposto Domani ti chiamo.
Domenica l’aveva chiamato davvero, urlava addosso al cellulare
piangendo dalla gioia. Gli parlava di ecografie che non poteva vedere,
diceva che era la cosa più allucinante che gli fosse mai
successa.
- È
la cosa più bella del mondo. – Sfiatò
profondamente, rise, Brian pensò si fosse appoggiato a un muro.
– Non lo so, è come… Tutto quello che ho fatto
doveva portarmi qui, sono sicuro.
- Sono felice che vada tutto bene.
-
Sì, cazzo! Voglio restare qui tutta la vita. No, no. Devo
portarmi Kate in Inghilterra. È la cosa migliore, lei me
l’aveva proposto da subito, in effetti.
- Perché lei è intelligente il doppio di te.
- Ehi. – Non poteva vederlo sorridere, ma era certo lo stesse facendo. – Mi sei mancato.
- … Prescindendo dal fatto che non ti credo, non in queste circostanze, non sono sicuro sia una buona cosa.
- Davvero! Quando sono felice, io… Mi sei venuto in mente un sacco di volte.
- Matt, senti… Non devi pensare a me quando non ci sono.
Non devi pensare a me quando sei con Kate.
- Mi sembra sciocco, e sinceramente lo trovo piuttosto fastidioso.
- … Scusa. Era una cosa stupida, così per dire…
- Lo so.
- …
- …
- Brian, ho davvero voglia di vederti.
- Anch’io. – Si morse un labbro. – Però mi sembra che hai altro da fare.
- Settimana
prossima dovrei tornare. Devo sentire Kate per i preparativi, magari ci
vorrà qualche giorno per spedire tutto… Poi dipende se
starà bene e potrà viaggiare.
- Immagino di sì.
- … Ti chiamo quando torno.
- Va bene.
- Ti va? Ancora, intendo. Non ti dà fastidio.
Lanciò il mozzicone di sigaretta sulle piastrelle del balcone, lo schiacciò e lo calciò via. – Fastidio non è la prima cosa che mi viene in mente quando scopiamo.
- Questo cosa vuol dire?
- Niente.
– Sfiatò. Aveva promesso a se stesso che non sarebbe mai
rimasto imbrigliato in quel discorso. – Non vuol dire niente.
Chiamami quando torni, non ci sono problemi.
- … Okay.
- Ciao, Matt.
***
Mi
sono svegliato. Tu non c’eri. Vedevo comunque le tue costole che
si sollevavano e abbassavano sotto la pelle troppo sottile. Ho pensato
alle tue gambe, ai tuoi piedi, alle tue braccia, al tuo volto anche se
con un certo fastidio perché mi irrita l’idea che tu possa
fare lo stesso con me senza che io lo sappia. Sono stato attento a
ricordarli più imperfetti di quanto in realtà non siano.
Ho visto il tuo braccio circondare le spalle di Kate, e lei dormire
con la testa sul tuo petto.
…
Non è per Kate. Non è neanche per tuo figlio. Siamo
io e te, Matt. Noi. E le nostre vite che mi sono accorto di non saper
lasciare fuori.
And from your corner you rose
To cut me down
Mumford & Sons, Holland road
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Capitolo 12 *** XII - Liberi ***
Partenze XII - Liberi
XII - LIBERI
Stava esplorando quella libreria da un paio d’ore, aveva preso in
mano e rimesso a posto almeno una dozzina di DVD, disinteressato
completamente ai film che contenevano, disinteressato completamente, in
realtà, a quel luogo. Si decise a comprare una raccolta di
poesie di Walt Whitman, era sicuro di averne una in casa ma non
riusciva a ricordare dove. Questa sarebbe rimasta bene in vista, si
promise, finché non fosse stata ricoperta da altri tomi
più o meno ingombranti. Pagò, si avviò
all’uscita, si accorse di non avere nessun progetto per le
immediate ore a venire. Fece un ultimo giro per il negozio. Uscì
solo una volta convintosi che la noia all’esterno sarebbe stata
inferiore a quella che lo aveva assalito lì dentro.
Sbuffò la sua insofferenza a quelle giornate inutili.
Era maggio,
faceva caldo. Entrò in un bar per ingoiare un caffè,
decise di tornare a casa dove non avrebbe dovuto fingere di avere
voglia di fare qualcosa. Girò le chiavi nella toppa, si
premurò di non fare rumore come se ci fosse davvero qualcuno ad
aspettarlo, magari addormentato sulla poltrona. Si sedette compitamente
sul divano, fissò quella poltrona. Si prese la testa fra le
mani, era pesante di tutte le cose che non c’erano e lo
infastidivano proprio per questo. Venne a patti col fatto che Matthew
fosse la prima di queste.
Si chiese
se gli mancava. Si rispose di sì, ma se fosse stato lì
probabilmente lo avrebbe cacciato via. Gli mancava avere un motivo per
controllare il cellulare ogni dieci minuti, vedere se lui gli avesse
scritto qualche allusivo invito a cena, progetti campati in aria a cui
stava lavorando o anche solo inconcludenti informazioni che aveva
raccolto dal notiziario della BBC. Gli mancava rispondergli a tono per
la primitiva soddisfazione di avere ragione, finire comunque a ridere
ogni volta che stavano insieme. Realizzò che non sapeva molto di
Matt, e che quello che sapeva era discretamente banale. E che,
sì, se ce lo avesse avuto davanti gli sarebbe piaciuto avere la
forza di mandarlo via.
Si chiese
se fosse innamorato di lui. C’era sempre un istante preciso,
nelle sue relazioni, in cui si poneva questa domanda, e provava in modo
piuttosto sincero a rispondersi. … Forse sì, tutto
sommato era probabile. Tirò le labbra in un sorriso. Non se ne
era accorto spesso, e aveva lasciato sfumare quelle che avrebbero
potuto essere grandi storie. Un po’ per reale disinteresse del
momento, un po’ per pigrizia, un po’ perché amava
innamorarsi di quello che avrebbe potuto essere. Qualche volta, poche,
riconosceva i sintomi in tempo, ma quelle storie scivolavano via
comunque, e forse non aveva mai provato a fermarle davvero. Si chiese
se rispondere a quella domanda avesse realmente qualche valore.
***
- Cody, ormai stai passando più tempo qui che con la mamma o con me. Non sono molto contento.
Non
l’aveva neanche salutato, ma il bambino si precipitò ad
abbracciarlo dando prova di non badare affatto a quello che gli aveva
detto.
Marah gli chiuse la porta alle spalle. Sorrideva, come sempre. – Nessun problema, a noi fa piacere.
- Lo so,
è a me che non fa piacere. – Scorciò con una mano.
– Cody, fila a prendere lo zaino. In fretta.
Suo figlio
spalancò gli occhi, si voltò verso Simon e si scambiarono
degli sguardi terrorizzati, corsero in camera con l’evidente
consapevolezza che tirava una brutta aria.
Brian si
chiese se fosse il caso di scusarsi con Marah. – È un
periodo di merda. – Chiosò in un tono che sperò
essere conciliante.
-
L’avevo intuito. – Incrociò le braccia, si
appoggiò alla parete. Lo faceva spesso. – Problemi con il
lavoro? O…
- No.
- … Con il tuo uomo?
Sentì
una fitta all’altezza delle tempie. – Matthew. Non è
il mio uomo. Non credo che ci rivedremo presto.
- Cos’è successo?
- È… tornato con la sua fidanzata.
- In che senso? Si erano lasciati?
- No, ma
pare essersi deciso a stare con lei in modo sensato. Di fatto stavano
insieme anche prima. Sono in America, credo. O forse qui a Londra. Per
la verità, idiota com’è potrebbe avere comprato una
villa in Australia perché vuole crescere il bambino lì.
- … Mi dispiace.
- A me no.
Non lo so. Penso solo che mi dia fastidio. Non so neanche bene cosa,
visto che in pratica l’ho buttato io fra le braccia della sua
donna. – Rise. – Non ci sto capendo un cazzo.
- Ti va di parlarne?
- Non più di così, no.
- Ti farebbe bene.
Marah era
immobile, le mani alla parete, incrociate dietro la schiena. Lo
guardava e Brian si chiese per la prima volta se il suo interessamento
fosse sincero.
- … Magari a cena?
Decisamente più sincero.
- … Non credo sia una buona idea.
- Perché?
La
fissò, attese qualche secondo, schioccò la lingua.
– Perché è un invito facilmente fraintendibile.
Rise.
Finalmente si scollò da quel muro e da quella situazione
innaturale. – Non credo che ci sia niente da fraintendere.
Arrivarono
i bambini, Cody già vestito di tutto punto e silenziosissimo.
Marah disse qualcosa di divertente e i piccoli risero. Aprì la
porta, salutò con la mano mentre uscivano.
- Ciao, Brian. Buona fortuna.
***
Matthew
è tornato a Londra. Lo ha fatto in sordina, per quanto gli
è stato possibile, ma mi sono bastati pochi mesi a contatto con
lui per capire che è una mina vagante, volente o nolente.
Immagino più nolente. Ad ogni modo non riesce ad essere
invisibile, e le spese le paga chi di volta in volta gli è
vicino. O chi crede di esserlo.
Vagavo
per una grande via del centro città, ho svoltato in un vicolo
laterale infastidito dalla troppe persone. Sono passato accanto a
un’edicola. Mi sono bloccato in mezzo al marciapiede.
L’edicolante stava posizionando dei grandi poster pubblicitari a
lato degli stand, e uno di questi informava a grossi caratteri
che eri stato avvistato a Piccadilly con la tua compagna, Kate Hudson,
incinta di otto mesi di tuo figlio. C’era anche qualche foto.
Detestabili scatti rubati mentre cercavate di coprirvi, ma tutto
sommato direi ben riusciti. Nitidi.
Ho
distolto lo sguardo, sentivo la nausea che montava e l’immediato
bisogno di appoggiarmi a una panchina, a qualcosa, per riprendere
contatto con la realtà che vedevo ruotarmi intorno. E non
perché mi veniva sbandierata in faccia la tua felicità
senza di me. No. Solo, leggevo quelle parole e mi sembrava stupidamente
che parlassero di me. Ritrovavo tra le righe del tuo flirt mal gestito
il modo in cui ci siamo incontrati, le tue fughe americane diventavano
tutte le notti in cui non abbiamo dormito, la tua faccia rossa di
alcool addosso a me affiorava in quello stesso sguardo con cui
sorridevi a Kate mentre cercavi di nasconderla dietro una busta di
plastica. Eravamo lì, in tutti quei chiaroscuri, eppure eravamo
così lontani. Irraggiungibili. Mi sono odiato con tutta la forza
che ho trovato, ti ho detestato come non avevo mai fatto. Me lo sono
confidato fissando un manichino spoglio: avrei preferito non averti mai
incontrato.
***
Il campanello ronzò un paio di volte. Matt l’aveva avvisato del suo arrivo con un perentorio Sto venendo lì. Ma lui non aveva ancora deciso se voleva vederlo. E intanto la porta restava chiusa.
Altro ronzio, insistito. Si mosse verso l’uscio.
- Brian,
cazzo! – Gli si buttò addosso immediatamente, lo
abbracciava con urgenza. – Pensavo non ci fossi. – Si
teneva al suo collo, si era separato il tanto che bastava per guardarlo
negli occhi. Iniziò a baciarlo. Senza indecisioni, un bisogno
fisiologico che non soddisfava da troppo tempo. Si premette contro di
lui, facendolo arretrare. Era euforico. – Ho piantato Kate a
casa. Le ho detto che cercavo un mobile per il bagno. Prima di tornare
devo trovarlo davvero! – Rideva e lo baciava e cercava di
arrivare al divano.
Brian non
sentiva quello che diceva. Non era sicuro che Matthew fosse entrato in
casa, non era sicuro che qualcuno lo stesse stringendo cercando di
spogliarlo, non era sicuro che fossero sue le braccia che vedeva
pendere inerti lungo i fianchi. Aveva la testa leggera, non riusciva a
capire se stava rispondendo ai baci. Gli arrivavano suoni ovattati,
Matt sembrava parlare da molto lontano. Lo fece stendere supino, di
questo se ne accorse.
- ... Da
tre giorni. – Continuava inarrestabile, posizionandosi sopra di
lui. – Divento padre! Non so ancora dove lo faremo nascere, ho
voglia di fare un sacco si cose! Scriverei dalla mattina alla sera in
questi giorni. Manca poco!– Si chinò sulle sue labbra,
cercò una risposta che non arrivò. Lo studiò, gli
sorrise. – Cosa c’è?
Prese
respiri profondi, registrando gradualmente quello che stava accadendo.
Lo scostò con un braccio, si mise seduto e si passò una
mano sul volto.
- Brian,
che cos’hai? – Matt era seduto accanto a lui, la
preoccupazione li stava riportando nella stessa dimensione.
Lo guardò, non fece nulla, non ne sentì il bisogno.
- Stai bene?
-
Matt… Che cosa dici. – Sputò come una preghiera.
Per un momento sperò davvero che l’altro scoppiasse a
ridere, lo salutasse e uscisse da casa sua. Forse così avrebbe
potuto farcela.
- Ma cos’hai?!
- Vattene via.
- Cosa?
- Vattene via, Matt… Ti prego.
- Cosa cazzo stai dicendo?! – Urlò per compensare i suoi sussurri. Brian finalmente si riscosse.
- Vai via. Ti sto dicendo che devi andare via.
Spalancò gli occhi. – Perché.
- … Ma ti sei ascoltato? Hai una vaga idea di quello che dici? Divento padre.
– Si alzò, lo spintonò perché facesse
altrettanto, gli pressava ripetutamente la spalla attendendo una
reazione. – Sono felice che diventi padre. Vai da tuo figlio, staranno sentendo tutti la tua mancanza.
- Ma cosa-
- FUORI!
- Sei
pazzo! – Si fece alla sua altezza per fronteggiarlo, livido
almeno quanto lui. – Cosa diavolo ti è preso?
Cos’è questa messa in scena squallida?
- Tu sei squallido! Io non voglio sapere niente della tua cazzo di vita, non puoi venire qui a raccontarmela!
Gli rise in faccia. – È una scenata di gelosia! Lo sai che è una scenata di gelosia, Brian?
- No.
-
Sì, ed è la cosa più stupida che hai fatto da
quando ci conosciamo. Non ti ho mai messo in competizione con Kate, hai
fatto tutto da te.
- Non è gelosia. Non sono capace di essere geloso di nessuno, Matt. Sono stanco.
– Calcò la parola, cercando di ricondurre la conversazione
ad un livello che non prevedesse urla dissennate. – Stanco del
tuo egocentrismo camuffato da spontaneità, stanco dei casini in
cui coinvolgi chi ti sta accanto. E non sto parlando solo di me.
– Fece una pausa. – Ho capito come funziona con te, non
intendo stare ai tuoi comodi quando hai voglia di sfogarti.
- Quando
ho- COSA FAI. – Lo bloccò mentre si voltava per
allontanarsi. – Non provare neanche a fingerti offeso
perché giuro che ti prendo a pugni. Non ti ho mai mancato di
rispetto. Mai.
- Non l’ho mai detto.
- Hai detto che vengo qui solo per sfogarmi.
- Tu vieni qui per sfogarti.
- Non fare
la vittima, te l’ho già detto. Ti piace quanto piace a me.
Ma a me non costa niente ammetterlo mentre per te è uno smacco.
- Stronzate.
- No,
è tutto qui il problema! – Rideva, allargò le
braccia. – Appena ti accorgi che le tue belle parole sul non
coinvolgersi, sul tenere i problemi fuori dalla porta sono delle
idiozie irrealizzabili ti togli dai giochi, ti allontani. Hai una paura
fottuta, Brian.
- Non ho
paura di te. - Lo afferrò per un polso, cercò di
schiacciare le ossa tra le sue dita. – Sei ridicolo. Sei un
ragazzino che scappa dalle responsabilità perché non
è in grado di badare neanche a se stesso. Aspetti un figlio da
una donna di cui forse adesso inizia a importarti qualcosa. Calpesti le
persone che ti stanno accanto non accorgendoti neanche che ci sono. Non
hai scrupoli nel prenderti quello che ti vuoi prendere, e sei anche
bravo a simulare i rimorsi che non ti vengono. Sei patetico. E io sono
più stupido di te per averti creduto. – Lasciò la
presa, tentò di concentrare l’odio che sentiva in un unico
sguardo, lo lasciò solo in mezzo alla sala mentre si appoggiava
al tavolo, di spalle.
- Hai
ragione. – Ammise calmo. – Quando dici che faccio di tutto
per ottenere quello che voglio. È vero. Io volevo te. Sono
venuto qui, te l’ho detto, ti ho avuto. E tu questi processi
lineari non li capisci. Tu devi complicare tutto, devi fare finta di
odiarmi, devi respingermi per mantenere quella tua dannata aria
superiore a cui non crede nessuno. Sei un codardo. – Pausa. - E
hai ragione anche su un’altra cosa. Sono un ragazzino. No! Sono
un bambino al parco divertimenti! Mi sono divertito senza investire
nulla, ho avuto del buon sesso e niente complicazioni! Chi non lo
farebbe? Eh? Chi non lo farebbe, Brian? Chi andrebbe oltre questo?
– Gli occhi pulsavano, le spalle di Brian si sollevavano ed
abbassavano. - … Chi rischierebbe di vedere in questa storia
qualcos’altro? – Inspirò a fondo, mosse un passo
verso di lui. – Sono un ragazzino egoista, è vero. Ma sai
qual è il problema dei ragazzini egoisti? Cambiano idea ogni
minuto. Vogliono sempre giochi nuovi perché con quelli vecchi si
annoiano. – Cercò di trapassarlo con lo sguardo. –
Ci metto un attimo a trovare un altro come te.
Restò
immobile, non c’era nessun rumore al di fuori del respiro atono
di Brian. Pregò che si girasse. Rimase voltato.
- Esci da quella porta. Non ti azzardare a tornare. Non ti voglio rivedere.
***
Stef
non ha una parte rilevante in questa storia. A dirla tutta, Stef non ha
quasi mai una parte rilevante nelle mie storie. Però
c’è sempre, e c’è stato anche questa volta.
Mi ha aperto la porta di casa, mi ha guardato sorpreso lì sul
ballatoio, mi ha chiesto che cazzo era successo. Non ho risposto. Ha sfiatato premendosi gli occhi con due dita.
- Perché tu non impari mai niente dalla vita, Brian?
Sono
entrato, mi sono preso il suo letto, non ho detto un parola se non dei
‘grazie’ fasulli quando mi portava cibo che sapeva non
avrei mangiato e bicchieri che sapeva non avrei svuotato. Ogni tanto si
avvicinava alla porta senza entrare, cercava di capire se dormivo senza
avere il coraggio di appurarlo chiamando il mio nome. Non piangevo, non
gridavo, non facevo nulla. Mi dimenticavo di respirare finché
non sentivo una forte pressione in corrispondenza dello sterno. Non
pensavo a niente.
Mi sono alzato dopo un lasso di tempo indefinito. La sveglia proiettava 4:57
sul muro e mi sono chiesto che importanza avesse saperlo. Ho raggiunto
Stef in salotto, stava leggendo un volumetto smilzo ma ha sollevato la
testa appena mi ha percepito nel suo campo visivo. Non ha aperto bocca.
Sapeva già che mi sarei messo il cappotto in silenzio, che gli
avrei chiesto “scusami” non sentendomi per nulla in colpa e
che mi avrebbe risposto “e di cosa” domandandosi quando
avrei smesso di ridurmi in quello stato. Sapeva già che ce
l’avrei fatta. L’ennesima volta. E ce l’avrei fatta perché ero di nuovo in quella casa ad articolare parole inutili per ricevere
rassicurazioni inutili. Sarei andato avanti senza di te come ero andato
avanti senza chiunque altro. Eri un dolore come un altro che sarebbe
diventato un racconto come un altro e poi un ricordo sbiadito come
milioni di altri. Siamo i soliti fantasmi che tornano, Matt. Ci
bisbigliamo all’orecchio che abbiamo un qualche potere sulle
nostre vite, che la rivoluzione è dentro di noi e possiamo
attuarla quando vogliamo. Ecco, siamo stati un tentativo di questa
rivoluzione, fallito e concluso con più dolore di quanto avessi
messo in conto. E nell’abbraccio di Stef ho avvertito che non
restava altro da fare che tenere insieme i pezzi e andare avanti, una
volta di più. E ho avuto paura, perché ho capito che mi
avevi portato via anche il diritto di cadere.
Get me out of this place
Get me out of this town
Before I drown in your deep pink water
I won’t remember your face
I can’t remember your frown
Because I’ll drown in your deep pink water
Indochine ft. Brian Molko, Pink water
________________________
...
L'allegria delle feste! Davvero, mi scuso, più rileggo e
più correggo, alla fine mi stavo pure mettendo a dire coraggiocoraggio a Brian, è bene finirla qui.
Quello che
vi può interessare è che dovrebbero mancare due capitoli
più un epilogo; noi si è in dirittura d'arrivo, e io sono
felice.
Grazie di cuore, buonissimo Natale e il miglior 2013 a cui possiate pensare.
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Capitolo 13 *** XIII - Solo per un po' ***
Partenze XIII - Solo per un po'
XIII - SOLO PER UN PO’
Maggio si
era concluso senza note di colore, giugno era trascorso
nell’anonimato dei mesi di transizione verso qualcosa di confuso.
Mangiava, dormiva molto meno del solito, aveva energia più di
quanta fosse disposto a spendere, dedicava a suo figlio tutte le ore
che gli aveva negato nei due anni precedenti. Quando era con lui
riusciva a scrollarsi di dosso l’anestetico che sentiva in
circolo, almeno per un qualche momento della giornata. Cercava di
mostrare a Cody una gratitudine che a una persona di sei anni non
può essere spiegata con abbracci prolungati e il risultato che
il bambino si divincolava stropicciando la faccia e sottolineando che stava diventando come la mamma.
Avevano
accettato un’offerta vantaggiosa da parte di una casa
automobilistica, un mucchio di soldi per un concerto in Germania.
Niente marketing in cui sarebbero rimasti invischiati, gli assicurarono
i suoi manager. Non se ne curò, diede il proprio consenso senza nessuna
difficoltà e si disinteressò della cosa il più a
lungo possibile. Stef propose due date di riscaldamento, e lui
si accollò anche quelle mentre già usciva dalla stanza. Si
erano visti un paio di volte per provare qualche pezzo e abbozzare
un’idea di scaletta, senza concludere granché. Aveva
annunciato di voler eliminare The bitter end ed era riuscito a farli ammutolire entrambi, Steve aveva sgranato gli occhi.
- Brian, che cazzo stai dicendo?
- Almeno Meds. Vi prego, almeno Meds togliamocela dai coglioni. Non ce la faccio più.
- … Cosa?
- Brian.
– Stef lo guardava, impassibile. – Non puoi. Lo sai
benissimo. Non dobbiamo fare niente di eccezionale, leviamo un
po’ di Battle for the sun e basta.
- Va bene. Decidete voi. Va bene.
- Posso parlarti un momento?
Steve spostò lo sguardo dall’uno all’altro, prima di posarlo sul pavimento.
- …
No. Scusa, hai ragione. Solo… sono stanco, ho bisogno di stare
da solo. Facciamo come dici tu, sono d’accordo.
Andò
da Stef un paio di giorni più tardi, si divisero una mezza
dozzina di birre e ringraziò che l’amico fosse abbastanza
ubriaco da non accorgersi di quanto stesse male. Lo sentiva riproporre
un'altra volta improbabili aneddoti degli anni Novanta
pretendendo di divertirsi come ad inizio carriera. Ridevano delle
risate scomposte.
- Stef! Stefan! Ci pensi mai a come sarebbe stato se non ci fossimo incontrati?
- No.
Continuarono
a ridere, Brian sentiva le lacrime che gli scorrevano lungo le guance e
il collo, non le tratteneva. Gli si buttò addosso, lo
strattonava come se volesse strappargli una risposta che l’altro
non poteva dargli, lo sentiva singhiozzare insieme a lui.
- Vaffanculo! Stef, vaffanculo!
Stef lo
stringeva, lo cullava in un modo grezzo mentre lui sentiva la rabbia
montargli dentro, gli mancava l’aria, pensava che non ce
l’avrebbe fatta, pensava che ti fotti quando ti innamori la prima
volta a tredici anni e nemmeno te ne accorgi, e dopo puoi raccontarti
tutte le stronzate a cui riesci a pensare ma la verità è
che per tutta la vita cercherai di tornare a quel punto e riprenderti
quella cosa e capirla per una volta, una volta soltanto, prima che ti
abbia già buttato sul pavimento. Pensava che ci era passato
troppo spesso per essere ancora lì. Pensava chi cazzo fosse Matt
Bellamy per fargli questo.
Il problema
era la sera. Quando Stef non c’era. Quando non c’era Cody.
Quando nessuna distrazione lo colpiva, e invece lo investiva la
certezza di non avere bisogno di nessuno di loro. Quando sentiva il
cellulare vibrare e aveva la nausea alla sola idea di prenderlo in
mano. Matt aveva resistito tre settimane senza cercarlo. Poi qualcosa
si era spezzato.
14 giugno
3 chiamate senza risposta: M.
15 giugno
5 chiamate senza risposta: M.
. Rispondi. Per favore.
16 giugno
3 chiamate senza risposta: M.
. RISPONDIMI, CAZZO.
17 giugno
.
Brian, io non ci vengo lì a supplicarti, adesso ti chiamo e
giuro che è l’ultima volta, rispondi a questo cazzo di
telefono.
1 chiamata senza risposta: M.
. Vaffanculo, Brian.
25 giugno
. Non ce la faccio più. Non so cosa devo fare, dimmi cosa devo fare.
1 chiamata senza risposta: M.
. Ti prego. Ho detto un sacco di cose che non pensavo. Ti prego.
26 giugno
. Io non ce la faccio. Dimmi qualcosa perché io così non ce la faccio.
28 giugno
. Mi dispiace. Per tutto.
L’ultimo
fece un po’ male. Perché sapeva di finale, perché
era un pugno nello stomaco che preludeva al nulla quando lui al nulla
non era sicuro di essere pronto.
***
Marah
gli aveva scritto diverse volte. Messaggi tutti uguali, inviti a
recuperare Cody uno dei tanti pomeriggi in cui il bambino era a casa
dell’amico. Li girava a Helena senza nemmeno finire di leggerli,
scriveva a lei passo dopo da te e a Marah scusa, ho un impegno.
Si chiese perché non avesse voglia di rivederla e se lei desse
peso alla cosa. La risposta gli arrivò dopo l’ennesimo
rifiuto che le rivolse.
. Se è per la storia della cena, ti chiedo scusa. Non volevo imbarazzarti, sul serio. Passa a prendere Cody quando vuoi.
Evitò
di risponderle, non per scortesia ma perché davvero non gli
importava niente di Marah e di quello che pensava di lui.
Si
risentirono tempo dopo, quando la notizia della nascita del figlio di
Matt lo raggiunse. La consueta notizia scritta con delicatezza da
giornalisti che si profondono in auguri a gente che non conoscono, il
consueto trafiletto laterale sulla home di un sito web musicale.
C’era una foto a colori tenui di Kate e del figlio, minuscolo.
Brian ci cliccò sopra, lesse il sobrio commento di Matt e
l’articolo che corredava l’immagine. Scoprì che la
coppia era fidanzata ufficialmente dalla fine di aprile, chiuse la
pagina con un senso di schifo verso la morbosità che trovava nel
venire a conoscenza di quelle date. Uscì per fare la
spesa dimenticando di serrare la porta.
Avrebbe
voluto invitare Marah a uscire in quel momento. Avrebbe potuto dire di
aver agito d’istinto, avrebbe potuto incolpare Matt e le
coincidenze per cui si trovava quotidianamente ad affrontarlo. Sarebbe
stata una vendetta tanto comprensibile quanto banale, si sarebbe trovato
molto magnanimo nei propri confronti. Invece non lo fece. Si disse che
l’avrebbe chiamata. Ci rifletté qualche giorno.
Pensò che fosse una buona idea e che doveva scusarsi per la
maleducazione che le aveva dimostrato. Attese un momento in cui fosse
particolarmente rilassato, svuotato di tutto. Le telefonò
esordendo con un laconico L’invito a cena è ancora valido? con
cui riuscì a provare un poco di disprezzo per se stesso, Marah
scoppiò a ridere e disse che lo dava per morto e che sì,
sì, l’invito era ancora valido. Si accordarono su luogo e
orario e si diedero appuntamento da lì a pochi giorni. Brian
chiuse la comunicazione sentendosi sollevato.
***
- Ciao.
- Ciao.
Marah
portava i capelli raccolti con delle forcine, un trucco chiaro le
metteva in risalto gli occhi azzurri. Indossava un abito nero sopra il
ginocchio cui aveva abbinato un paio di decolté a tacco alto,
una stola celeste le riparava educatamente le spalle dall’aria
fresca delle estati londinesi.
- Sei molto bella.
Sorrise sincera. – Grazie.
- Entriamo? Spero che ti piaccia, è un posto tranquillo.
- Figurati, non ti preoccupare.
Scelsero un
tavolo accanto alla parete, scambiarono qualche parola prima che il
cameriere passasse a prendere le ordinazioni, continuarono a
chiacchierare in tranquillità mentre i piatti arrivavano e
venivano ritirati. Marah era una di quelle persone che parlano
parecchio senza risultare fastidiose, raccontava dell’ufficio e
dei film che aveva visto senza soluzione di continuità, evitava
di interpellarlo, per quanto possibile, leggendogli sul volto una grande
stanchezza. Brian interveniva di tanto in tanto, commentando
e rivolgendole qualche domanda. La guardava e si chiedeva come fosse
possibile che due mondi così diversi come i loro avessero finito
per collidere.
Lasciarono
il ristorante che era ancora molto presto. Le chiese cosa volesse fare
e si trovò un grande sorriso a rispondergli, corredato da un bere, bere! mentre
la donna già valutava i locali adatti. Ne scelsero uno nella via
adiacente, Marah avanzava rapida e sembrava avere deciso che fosse
giunto il momento di far virare la serata verso il buonumore. Ridevano
entrambi all’ingresso del pub, presero posto su una panca
imbottita di fronte a un tavolino striminzito. Dopo un paio di drink
Brian faceva l’imitazione del suo tecnico del suono in tour
– il mio gorilla, lo
chiamava -, dopo altri due la loquela cedeva il posto ai sussurri e
alla voce roca. Marah si appoggiò alla sua spalla, inizio a dire
qualcosa che non sentì perché aveva preso a percorrerle
il collo con una scia di baci. Lei gli mise una mano tra i capelli e lo
costrinse ad alzare il volto, si fece baciare sulle labbra, senza
fretta.
Quando si
allontanarono dal locale la teneva per mano ed era felice di avere
quell’aggancio alla realtà. Arrivarono sotto casa di Marah
e la baciò di nuovo, lentamente. Le accarezzò una guancia
prima di depositare un bacio anche lì.
- Vieni su?
Aprì
il portone d’accesso al cortile, percorsero il vialetto di ghiaia
e arrivarono all’edificio. Nessuno dei due parlò in
ascensore. Marah fece scattare la serratura dell’appartamento,
disinserì l’allarme e accese qualche lampada in giro per
la casa.
- Prendi qualcosa?
Scosse la
testa in risposta, le andò vicino, le prese una mano e la
condusse verso il divano. La vide scendere dai tacchi a mezza strada,
intrecciò le dita alle sue. La fece sedere sopra di sé,
le cingeva i fianchi mentre gettava la testa nell’incavo del suo
collo. Spostò le mani sulla schiena con delicatezza, la
sentì rabbrividire e gemere quando si spostò contro di
lei alla ricerca di una posizione più comoda.
- Brian.
Si allontanò quel tanto che bastava per guardarla, aveva il viso appena arrossato.
- Non dobbiamo farlo per forza.
Le accarezzò le braccia e di nuovo rabbrividì. Aveva voglia quanto lui.
- A me va.
- Anche a
me. – Fece una pausa, aveva le parole incastrate in bocca.
– Però non sono io quella nella condizione di pentirsi.
Non voleva capirla, la guardava.
- Lo so che
sei qui per lui. Lo sappiamo. E non è che… –
Sfiatò una risata imbarazzata. – A me va bene, davvero.
Però non così.
- … Così? Marah?
In risposta
ritrovò le sue labbra sulle proprie, le sue mani fra i capelli,
prima che scendessero a sfilargli la camicia. Si premette contro di
lui, sembrò rimpicciolirsi quando posò la testa sul suo
petto.
- È
lui che se ne è andato, Brian, non io. Io sono qui. Non
trattarmi come una cosa che sta per sgretolartisi tra le dita.
Chinò la testa su di lei, le carezzava i capelli mentre ancora parlava.
- Adesso mi
dirai di mandarti via, che merito più di questo, e io
penserò per l’ennesima volta che non mi ritenete in grado
neanche di capire cosa voglio. – Si staccò da lui, gli
sistemò i capelli intorno alle orecchie. – Sono più
forte di te, Brian. Sono più forte di tutti, perché non
ho nessuno da cui scappare.
La
catturò tenendole il collo, la fece alzare e la sollevò
da terra con difficoltà. Cercò di ricordare dove fosse la
camera da letto e lei gliela indicò. La liberò sul letto,
si distese su di lei, pensò all’ultima donna con cui era
stato, pensò a Matthew, pensò che Marah era bellissima.
Fece l’amore con lei e fu la cosa più naturale del mondo,
non c’era niente di complicato nello stare lì, era tutto
facile. Si addormentarono uno addosso all’altra, si svegliarono
presto e Brian rifiutò di fermarsi per la colazione. Marah lo
accompagnò alla porta in vestaglia, lui le diede un bacio a fior
di labbra e le sfilò accanto. Avrebbe voluto dire qualcosa.
- Va bene così, Brian.
Camminava
per la strada con le mani in tasca, si lasciava qualcosa alle spalle ma
non si curava di cosa, andava da qualche parte ma non gli importava
dove. Pensò che lui scappava dal passato e Marah dal futuro, e
forse non era così assurdo che si fossero incontrati a metà del tragitto.
Pensò che non era cambiato niente dal giorno prima e da quello
prima ancora, e che sarebbe rimasto tutto uguale finché lui non
avesse deciso di poter fare a meno di Matt.
And if you could drive
You could drive her away
To a happier place
To a happier day
That exists in your mind
Depeche Mode, Little 15
|
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Capitolo 14 *** XIV - Vicino ***
Partenze XIV - Vicino
L’autrice
di questa storia ha dei problemi, e non solo perché sta parlando di sé
in terza persona (cosa ormai molto di moda, soprattutto fra
asterischi), quanto piuttosto perché ci mette le ere geologiche a
scrivere i capitoli e, quando lo fa, singhiozza in modo imbarazzante e
incolpa di ciò qualche entità del panorama musicale. Ad ogni modo,
questa parte di storia non doveva esistere, però siccome la suddetta
autrice è così al passo con i tempi di aggiornamento le è sembrata una
buona idea chiarire meglio la situazione. Interessano a qualcuno i
capitoli di passaggio? Sì, vero? Ah, che bello!
Grazie a chiunque leggerà e continua a seguire :*
_______________________________
XIV - VICINO
Stava di
spalle alla finestra, squadrava le geometrie del pavimento con
disinteresse, lasciava che i minuti arrivassero e se ne andassero senza
lasciare traccia. La pelle ancora umida di doccia pizzicava sotto la
tuta, qualche goccia d’acqua scivolava lungo i capelli e si
schiantava al suolo, plink, una leggera esplosione.
- Ehi.
Marah
comparve in salotto. Era settembre, una giornata ancora molto calda, e
lei indossava una camicetta di tulle che le stava molto bene. Le
sorrise, le fece cenno di avvicinarsi, le passò una mano intorno
alle spalle mentre lei gli cingeva la vita in un incastro naturale. Gli
baciò una guancia. – Hai fame? Vuoi qualcosa?
- Voglio stare così.
Gli diede
un bacio un po’ più profondo, lo condusse al divano e gli
si accoccolò vicino. Brian respirava nei suoi capelli
l’odore fruttato dello shampoo, le percorreva la guancia con la
mano e pensava che era davvero bella.
- Hai sentito Helena prima? Cosa ti ha detto?
- Oh, che
si stanno divertendo moltissimo, i bambini! – Scostò Marah
per andare a prendere un bicchiere d’acqua, ne versò uno
anche a lei. – No, ha detto che non è male, ma la guida
continua a chiamarla perché Cody e Simon cercano di buttarsi
nelle vasche. – Le mostrò una foto appena ricevuta: Cody
salutava con i pantaloni fradici fino a mezza coscia. – Ha detto
che voleva prendere un pesce palla o non so cosa.
Marah gli
sfilò il cellulare di mano e guardò la foto scoppiando a
ridere a intervalli regolari, Brian scuoteva la testa facendo vagare lo
sguardo per la stanza. Lo fissò di sottecchi. Non c’era.
Non era lì. Era in un altrove parallelo, una terra sua, una
bolla di sorrisi tirati e maniere affettate da cui si ostinava a non
uscire. Ogni tanto delle parole oltrepassavano quei contorni labili, ma
erano come in ritardo sul resto del mondo, sfalsate rispetto agli
avvenimenti come nei film con un doppiaggio malfatto. Brian sembrava
rincorrere se stesso non riuscendo mai ad afferrarsi davvero. Chiuse la
galleria immagini, digitò una serie di caratteri sulla tastiera.
- Che cazzo
fai, Marah? – Si informò quasi dolcemente. Strinse fra le
dita il telefono che lei gli allungava e lesse le poche parole pulsanti
sullo sfondo bianco.
. Che cos’hai? Sei triste.
-
Ti prego. - Le piantò l’apparecchio in mano mentre
sbuffava e si allontanava dal divano, si appoggiò stancamente
alla credenza poco distante. – Non ricominciare, per favore. Sto
bene.
Gli rivolse un’espressione buffa annuendo eloquentemente.
- Okay, va bene. Non mi va di parlarne.
- Non ti va mai di parlarne! Sono due mesi che non ti va di parlarne.
- Marah,
per favore. Fatti gli affari tuoi. Te l’ho già detto, non
voglio confessarmi con nessuno, non c’è niente da
confessare.
Lo guardava, lo guardava come fosse malato, lo guardava come si guardano i degenti negli ospedali e si pensa poteva andargli peggio. Lo guardava con compassione.
- Non ho voglia di litigare, però mi stanno girando i coglioni, ti avviso.
- Anche questa è una novità.
- Marah, cazzo…
- Sillabò la parola inspirando più aria possibile.
– Ne abbiamo parlato. Io ci sto bene con te. Davvero. Non ti
chiedo nient’altro che questo. Non ho bisogno di uno psichiatra
perché ce l’ho già, un fottuto psichiatra, quando
decido di stare male e di voler far finta di guarire. Possiamo…
- Gesticolò in modo scoordinato. - … Fare le persone
normali, per esempio? Usciamo, ci prendiamo un gelato, scopiamo,
andiamo al cinema?
- Le persone normali, come le chiami tu, parlano. Sono felici. Dimmi se ti senti felice, Brian.
- Senti,
vaffanculo. Se c’è una cosa che non tollero è la
gente che vuole che io sia felice quando gira a loro. Io faccio il
cazzo che mi pare e piace. – Si staccò dal mobile,
raccolse una lattina dal pavimento e la portò in cucina.
Tornò in salotto, le si fermò davanti. Era seduta come
l’aveva lasciata, lo fissava con lo stesso sguardo commiserevole.
– Scusa. Mi dispiace. Sto parlando come uno stronzo. Forse
è meglio se vado a casa adesso, mi sento soffocare.
Marah
espirò sonoramente, annuì, allungò una mano che
lui strinse e si portò alle labbra, si alzò mantenendo
quel contatto, gli andò vicino e lui l’accolse contro il
proprio petto.
Il
problema, con Brian, è che le sembrava di conoscerlo da anni
interi, di capirlo, di poterlo aiutare. C’erano le distanze
fisiche, che nessuno dei due riusciva a mantenere, ed erano state
abbattute in un tempo irrisorio. Poi c’era quella parte di Brian
che tanto le sembrava familiare ma a cui le era impedito di accedere,
la poteva intravedere qualche attimo soltanto. E non c’era
niente, lì dentro: né pavimento, né soffitto,
nemmeno la porta. Non c’era una sedia a cui appoggiarsi per
scambiare quattro chiacchiere, non c’erano macerie da spazzare
via, non c’era un luogo da ricostruire. C’era il nulla. Un
lenzuolo bianco teso da parte a parte a coprire tutto. Impenetrabile.
Statico. Morto. Si strinse forte attorno a lui, sperando in una lieve
brezza che smuovesse quel cimitero candido che sentiva sotto le
braccia. Le lacrime pungevano agli angoli degli occhi e cominciarono a
scorrere lungo le guance. – Io sono solo preoccupata, cazzo.
- …
Ma che cosa fai? Ehi… - Cercò di allontanarla per
guardarla negli occhi ma lei glielo impedì. –
Cos’hai?
Marah
singhiozzava aggrappata alla sua maglia, forse stava cercando di
tirargli dei pugni, di fatto apriva e chiudeva le mani convulsamente e
le premeva contro di lui.
- Ehi, va tutto bene…
- No che non va bene!
- Marah…
- Perché tu, cazzo. Perché tu! Perché stai male tu? – Continuava a dondolarsi contro il suo petto, cercava di asciugarsi il viso con una mano. – Non è giusto.
- Shhh, lascia stare…
- No!
– Si allontanò, pur mantenendo la presa sulla stoffa.
– Ti prego, Brian, fai qualcosa. Reagisci, cazzo! Stiamo
trascinando questa cosa da mesi e adesso non ha davvero più
senso.
- Cosa vuol
dire? – Di nuovo frappose uno spazio consistente fra loro, aveva
un aspetto sinceramente stanco. – Avevamo detto di non parlarne
più, che palle. Io sto bene qui, d’accordo? Sto bene con
te.
- Tu non ti fai male con me, è diverso.
- Ed
è sbagliato? – Allargò le braccia,
l’irritazione cresceva in lui. Forse per la prima volta in
settimane la stava ascoltando davvero. – È sbagliato che a
un certo punto io mi rompa anche i coglioni di continuare a stare male
e cerchi qualcosa che mi faccia stare bene? Sono egoista per questo?
- … Tu lo sai benissimo che non vuoi questo. Ti stai anestetizzando con questo.
Vide un
bambino che aveva un bel palloncino legato al polso e lo guardava
felice, sorrideva. Poi strattonava il braccio verso di sé, di
colpo. Il palloncino collassava, sussultava nell’aria, si muoveva
scompostamente per qualche frazione di secondo. Infine si riassestava,
immobile.
- Non tirarlo in ballo... Mi avevi promesso che non l’avresti tirato in ballo.
- Chi è che non devo tirare in ballo?
- Non tirarlo in ballo.
- Tu sei
ancora bloccato lì, Brian. Tu sei lì da quando
l’hai conosciuto e non ti muovi di un centimetro. Io ci
credo… - Gli sorrise mentre piangeva, alzò le mani e
intrecciò le dita non sapendo che farsene. - … Ci credo
che vorresti questa cosa con me, una storia con me, magari,
perché no? Potrebbe funzionare. Lo vedo che stiamo bene, noi
due, tanto. … Però no. – Rise di nuovo. – No.
– Le sembrò inutile qualunque parola oltre quella secca
negazione che la sua mente stava focalizzando. – Ce lo siamo
detti dall’inizio, era una situazione da prendere finché
sarebbe durata, nient’altro. Lo vedi che siamo allo stesso punto
di due mesi fa? Esattamente uguali, non siamo cambiati in niente. E
continueremo così, potremo stare così in eterno. Non
siamo fatti per questa cosa, Brian. Non siamo fatti per sopravvivere.
– Lo guardò sperando davvero che capisse. – Non ho
neanche trent’anni, sono giovane, sono bella, sono stupida.
Voglio ancora cercare qualcosa. Voglio credere che ci sia qualcosa
là fuori per cui valga la pena mettersi le scarpe tutti i
giorni, farsi un caffè tutti i giorni, dare un bacio a mio
figlio tutti i giorni. E c’è, cazzo. C’è. E
tu ce l’hai fra le mani in questo fottuto momento e non hai il
coraggio di fermarlo. E io ti vieto di fartelo scappare via senza fare
nulla! – Si asciugò le guance alla meglio, continuava a
guardarlo attraverso il suo sorriso sfibrato. – Non so neanche
dirti il perché, davvero. Non ti dico che funzionerà e
starete bene e durerà perché è già un
coglione se ti ha lasciato andare via una volta, e non doveva.
E io non l’avrei fatto.
-
Però hai solo una cosa sensata da fare, adesso, che è
prendere il tuo dannato cellulare, fare il numero di Matt, dirgli che
ti sei innamorato di lui e sei un grandissimo idiota.
La guardava, voleva abbracciarla, aprì la bocca senza avere nemmeno la forza di richiuderla.
- Fidati, Brian. Chiamalo. Non te ne frega nulla di come reagirà, lo sai benissimo. Chiamalo e basta.
- … Non mi vuole, Marah.
- Non è vero.
- Non mi vuole.
- Non importa.
- Sta con un’altra, ha un figlio, non mi vuole. È felice così.
- Non è felice. Tu non sei felice.
- Non c’entra un cazzo!
- Non ti devi fidare di me, fidati di te! Dimmi se secondo te una cosa del genere può essere unilaterale!
- Non
c’entra niente, Marah! Non c’entra niente… - Si
massaggiò le tempie. Aveva il volto affaticato, le occhiaie
scavate di chi sta a letto senza dormire. Uno spettro con un po’
troppa carne addosso. – Non lo sento da prima dell’estate.
Non ha senso che lo cerchi adesso, all’improvviso. Sembrerei
pazzo.
- Certo che ha senso, perché tu lo vuoi.
- Io ho
paura. – Guardò per terra, si stava accartocciando su se
stesso, Marah fece un grande sforzo per trattenersi dall’andare a
sorreggerlo. – Mi farà più male di quello che mi ha
già fatto. Oppure gliene farò io. Non ce la faremo mai.
Credimi, - Sollevò gli occhi a fatica, vuoto. – non siamo
fatti per farcela.
Camminò
verso di lui. Fissò i suoi occhi, i suoi zigomi, le sue labbra,
gli strinse le mani con le proprie prima di posarle sulle sue tempie.
Aveva due fili di lacrime che le colavano lungo le guance ma nessuno
dei due si diede la pena di rimuoverle. Si guardavano. Gli diede un
bacio leggero impiegandoci quanto più tempo fosse possibile,
aveva una scritta simile ad “addio” incastrata negli occhi.
Sapeva cosa voleva dirgli, le costò molta più fatica di
quanta avesse sperato.
- Potessi sentire un quarto di quello che senti tu adesso, ne sarebbe valsa la pena.
***
Si
addormentarono sul divano in una posizione molto scomoda, si
svegliarono di continuo. Brian si alzò, radunò quello che
di suo c’era in quell’appartamento. Buttò tutto alla
cieca in un borsone chiaro, si passò una mano sul volto.
Tornò da lei, da quegli occhi scuri spalancati nella penombra.
Le si chinò davanti, non la toccò, non disse niente.
Marah riuscì ad alzarsi solo quando fu da sola. Guardò la
porta da cui era uscito. Se ne era andato. Un’altra volta.
Un’altra volta.
***
Lasciò
cadere la borsa in terra, si sedette al tavolo della cucina, si prese
la testa fra le mani. Doveva allungare un braccio ed estrarre il
telefono dalla tasca dei pantaloni, poi tutto sarebbe accaduto alla
velocità della luce. Doveva solo riuscire a fare quello.
Passarono ore. Fuori diventò chiaro. Chissà dov’era
Matthew. Chissà se da lui era notte, mattina o pomeriggio
inoltrato. Non aveva nessuna importanza. Prese il cellulare, scrisse
Dove sei?, inviò. Non sentiva nulla. L’apparecchio
vibrò in meno di un minuto, insistentemente. Aprì la
chiamata, non parlò.
- … Brian?
Aveva una
voce fonda, non la ricordava così. L’aria di colpo non
arrivò ai polmoni, iniziò a respirare affannosamente.
- Brian? Dove sei?
Era
agitato, lo percepiva. Chiuse le labbra cercando di emettere un suono,
non ci riuscì, si limitò di nuovo a sfiatare nella
cornetta.
- Dove sei, Brian? Dove sei? ... Sei a casa? Posso venire lì?
Vedeva
nitidamente Matthew artigliare il telefono con tutta la forza che
aveva, mentre il suo stava scivolandogli dalle dita paralizzate. Non
parlava, respirava più a fondo per far capire all’altro di
essere ancora lì, aveva il terrore che chiudesse la
comunicazione. Matthew gli chiedeva dov’era, lui respirava.
Andarono avanti così. Sentì le proprie labbra tirarsi in
un sorriso.
- Vieni qui…
Un
sussurro, non poté fare di più. Scoppiò in un
pianto dirotto tanto simile ad una risata, si lasciò andare sul
tavolo. – Vieni qui…
- Arrivo.
Matthew gli
sbatté il telefono in faccia, probabilmente stava già
avviando l’auto. Lui continuò a piangere e ridere e
piangere sopra quel pezzo di legno trattato, avrebbe voluto buttarsi in
acqua, avrebbe voluto raggiungerlo correndo come non era in grado di
fare e urlando come cercava di evitare per non fottersi la voce.
Sperò di non morire prima che l’altro arrivasse.
Guardò in alto. L’aveva incontrato a gennaio, gli
sembrò di averlo fatto solo in quel momento.
[Il mondo intero diventa sfocato
A meno che non si stia in piedi]
Sigur Rós, Hoppípolla
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Capitolo 15 *** XV - Ampio un miglio ***
Partenze XV - Ampio un miglio
XV - AMPIO UN MIGLIO
Would you butcher my love
To understand it
To know where it lies?
Cut a hole in my heart
Fill a hole in your life
I'm yours to dissect
Editors, Formaldehyde
Dopo
qualche minuto non ce l’ho più fatta ad aspettarti in
quella cucina, le pareti mi si stavano ripiegando addosso. Ho
spalancato la porta d’ingresso, sono uscito sul ballatoio, sono
rientrato in casa e ho iniziato a camminare davanti al citofono. Non ho
aspettato neanche la fine del trillo per aprirti, sono corso davanti
all’ascensore. Stavi facendo le scale a piedi, non so quanti
gradini alla volta, ti ho sentito imprecare e ho riso. Ho sceso almeno
una mezza rampa prima di trovarti. Non ci siamo guardati. Ci siamo
buttati uno addosso all’altro e respiravamo affannosamente. Stavo
piangendo ancora, sono sicuro, e ricordo di aver pensato che se avessi
allentato la morsa intorno alle tue costole tu te ne saresti andato.
Stavo cercando di stritolarti. Mi hai baciato artigliandomi il collo
con una mano, premevi troppo e ho dovuto staccarmi per riprendermi un
po’ d’aria. Mi toccavi dappertutto mentre ti trascinavo
goffamente verso il mio appartamento. Salito l’ultimo gradino mi
sono voltato, ti ho baciato più a fondo che riuscissi rischiando
di farci perdere l’equilibrio un’altra volta, ti ho
costretto ad entrare dalla porta avendomi avvinghiato a te. Non so cosa
provassi, ma era una sensazione sotto pelle molto simile alla rabbia.
Cercavi di tenermi ferma la testa e continuavi a baciarmi, mi leccavi
le guance e il collo e intanto cercavi una superficie stabile contro
cui appoggiarmi. - Non ti lascio andare più… Non ti lascio andare più…
Eravamo
bellissimi. Schiacciati addosso a un muro beige, anonimo, le facce
salate per il sudore e le lacrime, l’eccitazione crescente fino a
far male, a raccontarci bugie piene di qualcosa che non riuscivamo a
buttare fuori. Eravamo un’esplosione che non sarebbe mai
arrivata, uno squarcio di paradiso sopra alle nostre teste ingenue.
Non
mi ricordo quanto tempo siamo stati insieme, quella volta. Ore, credo,
forse più di un giorno, mi sono dimenticato di guardare fuori
dalla finestra. Mi ricordo un tuo sorriso nel mio cuscino mentre mi
staccavo da te, avevi gli occhi chiusi e pensavi a qualcosa che potevi
sapere solo tu. Ti sono crollato addosso esausto ma non riuscivo a
smettere di guardarti. Se i morti hanno una sacca in cui possono
tenersi i ricordi che non vogliono buttare nel cesso, io ci
metterò quel secondo in cui ho pensato che andava bene
così, che la realtà poteva andare a ‘fanculo
perché io e te eravamo insieme da un’altra parte.
***
Mi
tenevi un braccio intorno alle spalle come se avessi paura che delle
botte mi raggiungessero all’improvviso. Ti chinavi, di tanto in
tanto, mi schioccavi un bacio dove ti capitava, sulla tempia, sulla
bocca, sulla guancia, sugli occhi. Poi tornavi a concentrarti sul tuo
braccio intorno a me, e guardavi la parete di fronte. Io fumavo
tantissimo. Una sigaretta in fila all’altra, come non facevo da
tempo. Ogni tanto mi interrompevo e rispondevo ai tuoi baci, non
sempre, solo quando mi andava.
- Brian.
Non ti
interrompevo. Avevi già provato a parlare ma non riuscivi ad
andare oltre quel nome, così poco ingombrante. Forse avevi solo
bisogno di dirlo, non mi interessava, e io te lo lasciavo fare. Mi sono
girato, ti ho guardato e ti ho posato la sigaretta tra le labbra. Ti ho
lasciato fare un tiro molle, lungo, prima di tendermi verso di te e
allungare la lingua nella tua bocca e farla girare, lentamente. Penso
di averci messo un secolo. Avevi le labbra arrossate e non facevi
assolutamente niente. Era un momento mio. Avevo gli occhi spalancati
nel tentativo di imprimermi quel tuo viso casuale nella memoria. Ti ho
accarezzato una guancia perché li aprissi anche tu, mi sono
riadagiato contro la tua spalla. Abbiamo guardato così, avanti,
tutti e due. Chissà cosa cercavamo.
- Come si fa adesso?
- … Come si fa. Non si fa.
- Non voglio lasciar perdere, Brian.
- Dobbiamo.
- Non voglio. Non riesco.
Ho spento
l’ennesima sigaretta. Mi guardavi mordendoti le labbra. Volevi
davvero una soluzione al problema. Mi sono chiesto se sarebbe servito a
qualcosa risponderti neanch’io, basta, non andartene, stai qui con me.
- Non
è una cosa che può funzionare. Per la verità non
dobbiamo neanche chiederci se può funzionare, perché non
lo vogliamo. Non abbiamo le forze per tenerla in piedi. Lo sapevamo,
Matt. – Continuavo a sciorinare al muro. – Anzi, se
avessimo intravisto un modo in cui avremmo potuto davvero stare
insieme, non ci avremmo neanche provato, perché siamo due
codardi.
Avevo
voluto strafare, me ne ero accorto, e purtroppo la voce mi si era
incrinata sul finire della frase. Mi sono tappato la bocca con una mano
per smorzare un singhiozzo, tu l’hai notato e hai continuato a
ridere finché non ti ho tirato un pugno. Eravamo piuttosto
grotteschi, io a asciugarmi le lacrime e tu che ridevi mentre mi
stringevi addosso a te.
- Taci, stronzo.
- Ah-ah. No, continua, mi avevi quasi convinto. Non siamo fatti per stare insieme, Matthew.
- Non stavo parlando così da imbecille.
- Magari in un’altra vita, magari quando ci saremo reincarnati in fottuti Jedi con le orecchie pelose. Ma ora no.
- Ma vai a cagare
Hai riso, mi hai dato l’ennesimo bacio.
- Ricordati che se non l’avessi detto io sarebbe toccato a te.
- Grazie!
- …
- Io non voglio lasciarti perdere, Brian.
- …
- Vediamoci, chi cazzo se ne frega. Quando possiamo.
- Non la voglio una storia così.
- Così come?
- Così
che quando vuoi scappare dalla tua vita vieni da me. Sì, - Ti ho
zittito con una mano. – lo so che è quello che ti avevo
detto io. Ho cambiato idea.
- E cosa vuoi allora?
Ci ho pensato un attimo. – O tutto o niente.
- Non esiste “tutto e niente”, Brian. Non fare lo stronzo. È una visione leggermente limitata.
- È la mia.
- Quindi?
– Mi hai costretto a guardarti. – … Devo trasferirmi
qui? Tagliare i ponti con la mia famiglia? Telefonarti la sera quando
faccio tardi?
Devi avere
letto l’espressione nauseata del mio volto perché hai
sfiatato una risata sommessa insieme a me. Mi sono passato una mano tra
i capelli. – Cristo. Com’è difficile vivere.
Hai riso di
più, hai strattonato via le lenzuola per poterti sdraiare nudo
su di me, mi hai guardato ed eri fottutamente felice.
- Non andiamo da nessuna parte.
- Smettila di cercare una strada.
- Ho freddo.
Ci hai coperto alla buona, non ti sei mosso di un centimetro. Fremevi ancora di quello stare bene che chiedeva solo di poter scoppiare. Era contro natura non volerti.
- Giurami che non hai rimpianti.
- … Cosa…?
- Giuralo.
– Un sorriso sulle labbra che continuava a allargarsi. Gli occhi
lucidi che non ho mai visto piangere. – Giurami che hai avuto
tutto quello che volevi, che non potevo fare nient’altro. Giurami
che quando me ne andrò e ti dirò allora ci sentiamo
mi crederai, e mi crederai anche quando inventerò una scusa e
non mi presenterò all’appuntamento. Giurami che mi amerai
ancora un po’ dopo che sarò uscito da quella porta, e che
la prima volta che scoperai con qualcuno sarà solo per farmi
male. Giurami che non mi aprirai quando sarò su quel cazzo di
ballatoio piangendo e dicendoti che senza di te non ce la faccio.
Giurami che sai che adesso, in questo momento, non voglio essere da
nessun’altra parte. Giurami che quando chiederò a Kate di
sposarmi ti metterai a urlare e penserai che allora è davvero
finita, perché sarà quello che starò facendo
anch’io dall’altra parte del mondo. Giurami che non
cercherai mai niente di vero su di me da nessun altro, perché io
racconto un sacco di palle e la mia onestà l’avete avuta
davvero in pochi. Giurami che scriverai e penserai che io avrei
arrangiato meglio, giurami che nessuna canzone parlerà mai di
me. Giurami che ci saranno dei momenti in cui non saprai cosa fare
perché la testa sembrerà troppo pesante per non cadere a
terra, e giurami che non me lo dirai mai perché devi rialzarti
con le tue gambe. Giurami che quando farò qualche cazzata
colossale ti metterai a ridere e penserai che hai fatto bene a uscire
con me. Giurami che penserai che ne è valsa la pena. Giurami che
un giorno farai qualcosa di davvero brutto e io crederò che non
eri quello che pensavo e che di te non avevo capito proprio un cazzo.
Giurami che non ne potrò più anche solo del ricordo di
questa storia. Giurami che sbaglierai. Giurami che da qualche parte ho
lasciato un segno. Giurami che quando mi innamorerò di qualcun
altro ti penserò e mi sentirò un po’ in colpa,
giurami che qualunque progetto facciamo non lo rispetteremo. Giurami
che un giorno mi dimenticherai così io rimarrò una di
quelle cose che sono capitate e basta in mezzo a tutta una vita, e
l’idea di essere stato qualcosa di speciale non mi
schiaccerà. Giurami che non sai perché, fra tutti,
proprio noi. Giurami che non lo capirai mai.
- … Sei un coglione, Bellamy.
- Credo di sì.
|
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Capitolo 16 *** Epilogo ***
Partenze XVI - Epilogo
Attenzione! Doppio aggiornamento: torna indietro di un capitolo.
Vorrei ringraziare di cuore chi ha
seguito questa storia dall'inizio, più di due anni fa,
e chi l'ha trovata da poco e ci si è affezionato. Grazie
mille a chiunque si sia preso la briga di lasciare delle recensioni,
che a me danno sempre una soddisfazione grande, e anche a chi ha letto
più o meno silenziosamente. Grazie per aver aspettato gli esseri
fino alla fine.
:*
_____________________________
EPILOGO
- … E quindi?
- E quindi un cazzo, Cody! Cosa accidenti vuoi sapere?
Siamo seduti uno
di fronte all’altro nel mio salotto, abbandonati stancamente sui
divani con due sigarette ridotte all’osso incastrate tra le dita.
Fuma anche lui, da qualche mese. Sua madre lo sa ma fa finta di niente
perché sa anche che gli ho già propinato le avvertenze
sul non esagerare, non drogarsi e non fare come me, insomma. Lo guardo.
Ha sedici anni ma ne dimostra qualcuno di più. In questo
sicuramente non ha preso da me, io sembravo minorenne quando andavo per
i venticinque.
È
da tanto che non parlavamo così. Discussioni caotiche. Pezzi di
vita senza criterio che tornano a galla. Non ho neanche capito come mi
sono cacciato in questo racconto, ricordo solo che Cody mi si è
piazzato davanti senza avere niente da fare e rivolgendomi delle
domande banali per sapere come stavo e cosa stavo facendo. Devo essermi
molto emozionato. Poi gli argomenti vanno dove vogliono andare, e lui
è stato abbastanza furbo da indirizzarli con delle richieste
sibilline. Deve essersi preso una cotta e vuole capire cosa fare, ma
per adesso non se l’è ancora sentita di parlarmene.
Non so
granché della sua vita privata, bene o male sono un genitore
nella norma. Non sono neanche sicuro che sia mai stato con una ragazza.
C’è stato un periodo, l’anno scorso, in cui viveva
in simbiosi con il cellulare ed era irritabile esattamente come me, ma
mi sembra un tipo tutto sommato imbranato, quindi non saprei dire
quanto si sia spinto in là con gli approcci al genere femminile.
Gli voglio talmente bene che non mi permetterei mai di giudicarlo,
è questo che ho sempre rinfacciato a mio padre.
- No, dico, se
ne è andato davvero? Matthew? Porca miseria, pa’! –
Mi soffia le Lucky Strike da sotto il naso, se ne accende
un’altra. – Quello dei Muse!
- Spegni quella merda, Cody.
- Pensavo ti stesse antipatico.
Improvvisamente
realizzo che quel dettaglio potevo davvero risparmiarlo, non
perché mio figlio andrà in giro a raccontare con chi se
la faceva suo padre, quanto piuttosto perché a sedici anni la
faccenda acquista per forza l’aspetto di una conquista ambita
mentre a me, del fatto che Matt Bellamy fosse Matt Bellamy, non
è mai fregato nulla.
- … Quindi vi siete rivisti?
- Certo che ci
siamo rivisti. La vita è molto meno sensazionale di come uno se
la immagina e prova a raccontarsela. Poi nel nostro ambiente, nella
musica, è molto facile incontrarsi a qualche premiazione o altro.
- No, ma dico… Non stavate più insieme?
- Tecnicamente non siamo mai stati fidanzati, se intendi questo.
- Mh. – Si
sistema sul cuscino con fin troppa meticolosità, sorrido
perché ho capito dove vuole arrivare ma è imbarazzato
all’idea di pronunciare amore in una qualche frase. – Ma… Sì, insomma… Tu eri… innamorato di lui?
- Prossima domanda?
- Ehi, questo lo fai sempre nelle interviste!
Scoppio a ridere
perché quando si arrabbia ha un’espressione buffissima che
mi ricorda tanto Helena, un broncio infantile che tradisce, per
fortuna, la sua inesperienza. - È vero. Però questa
è un po’ un’intervista, no? E molto riservata.
– Rimarco nonostante mi fidi ciecamente di lui. Ha imparato fin
troppo in fretta come funzionano le cose se sei il figlio di un
personaggio vagamente conosciuto.
- Sì,
sì. Però, insomma… Com’è che si
capisce? Quando… quando sei innamorato. Oh, pa’, non
ridere!
- Scusa. –
Faccio sparire il sorriso dal mio volto, sono felice che ne stia
parlando con me. – Non lo so. Non ne ho la minima idea. Io non
l’ho mai capito in tempo. Ma in fondo… - Mi concedo una
pausa d’effetto. – è davvero così importante?
Sgrana gli occhi, in questo momento pensa davvero che io sia un vecchio rincoglionito. – Be’, sì!
- Cody, ascolta.
- Mi allungo un po’ verso di lui, è un discorso che
nessuno ha mai fatto a me e io ho la fortuna di poterlo fare a mio
figlio. – Io non ho niente da insegnare a nessuno, soprattutto a
te che mi sembri un ragazzo intelligente e decisamente più
equilibrato di me. Quindi ti dico delle cose che penso io, ma non so
assolutamente se valgono anche per te se ti possono essere utili. Amore, affetto…
Sono parole. Usale quando ti servono, e basta. Sono etichette. Non
mettere mai delle etichette, e soprattutto non fartele mettere dagli
altri. Sminuiscono tutto. Siccome non capiamo delle cose più
grandi di noi, le buttiamo in questi grandi calderoni sentendoci un
po’ più al sicuro. Il fatto è che la vita è
molto più complicata. È un gran casino. Tu devi solo
trovare una cosa che vuoi, davvero,
e seguirla. Dovunque ti porti. Poi sulla strada incontri un sacco di
altre cose interessanti che ti puoi prendere, ma un obiettivo chiaro
devi tenertelo stretto. Una persona, qualcosa che vuoi fare…
Questo puoi saperlo solo tu, però sii onesto quando lo scegli e
non barare, non si può. Okay?
- Sì…
- Quindi in questo caso, la signorina che ti piace-
- Ma non è che mi piace, più che altro ogni tanto-
- Devi solo
capire cosa vuoi tu. In questo momento. Invitarla fuori? Passarci un
sacco di tempo insieme? Baciarla? Adesso mi fermo perché mi sto
imbarazzando anch’io. Però hai capito, – Ti guardo e
sorrido. – è questa la cosa da fare. Essere sincero verso
quello che vuoi. Chi se ne frega dell’etichetta che puoi
appiccicare a una situazione. E lo so che è molto più
difficile nella pratica.
Ti annuisco e mi rispondi, ti alzi e siamo sollevati entrambi dalla fine di quella discussione.
- Io esco, allora… - Rigiri le mani nelle tasche, guardi il pavimento.
- Va bene. Stai attento.
- Grazie, pa’…
- E di cosa. Non prendere mai per oro colato quello che dico, mi raccomando.
- Ok.
- …
- … Comunque se ti capita di rivederlo me lo devi dire, ho di là i cd e-
- Cody, gira al largo.
***
- … Ciao.
- Ciao.
Sei appoggiato al cofano della tua auto e mi guardi come se avessi aspettato quel momento da tutto il giorno.
Qualche mese fa è capitato che ci rivedessimo, una volta fra tante, a un evento di XFM.
- Come stai?
- Bene.
Poi è capitato che ci parlassimo.
- Cosa vuoi fare?
- Non so. Mangiamo qualcosa?
- Okay.
… Così come è capitato che venissimo a sapere che nessuno dei due era impegnato, in quel momento.
Avvii il motore.
- Cosa hai fatto oggi?
- Ho scoperto che devo bruciare dei dischi di mio figlio.
- Eh?
- Niente, ascolta musica un po’ di merda.
È
capitato anche che ci accorgessimo di quanto ci era mancato parlarci
dei fatti nostri, e alla fine è capitato che non resistessimo e
finissimo dentro un letto a ridere come due cretini continuando a non
dirci cose che non ci diciamo da dieci anni.
Andremo
avanti così, io e te. Ci ritagliamo dei giorni delle nostre vite
in cui ci concediamo il lusso di vedere come sarebbe se solo si potesse.
O se solo lo volessimo davvero. Penso al discorso delle etichette che
ho fatto con Cody e davvero non saprei quale appendere sopra di noi,
sopra i tuoi capelli che continuano, imperterriti, a essere spettinati.
Il fatto è che siamo capitati, e basta. Poteva andare altrimenti, ma non mi interessa assolutamente sapere come.
- Senti, ma se restiamo da me? Ho una Fender del ’63 e voglio farti sentire una cosa che mi è uscita ieri notte.
Just promise me we’ll be all right
Mumford & Sons, Ghosts that we knew
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