È la vita che ti sceglie

di HypnosBT
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - parte prima ***
Capitolo 9: *** Capitolo VII - parte seconda ***
Capitolo 10: *** Capitolo VIII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


È la vita che ti sceglie



 

Prologo



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“Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggero.”
 
Dante Alighieri
 

 
 
 Giacomo Catalano
 
 
  Pico Dalla Mirandola era finalmente morto. Giacomo non aveva più retto la situazione: rischiava troppo stando a contatto con quel vecchio. Dopo anni passati ad accudirlo con costanza e dedizione stava iniziando a rivalutarlo, gli si stava affezionando, andando contro ogni principio. Prima che fosse troppo tardi l’aveva capito, e così l’aveva avvelenato. Non aveva sopportato la vista del suo corpo che franava sulla scrivania. Aveva distolto gli occhi dalle iridi azzurre che conosceva fin troppo bene, facendoli virare verso gli scritti fondamentali, quelli riguardanti i Templari. Aveva afferrato il porta documenti in legno e aveva ignorato il suo falso padrone, lasciandolo solo a contorcersi sopra ad un prezioso tappeto persiano. Aveva chiuso la porta dell’uscio dietro di se, e aveva imboccato immediatamente la strada per Roma. Aveva svolto egregiamente il suo dovere.
 
 
 
 Donato Bramante
 
 
  L’aveva rincorso, quel bastardo. Stava scappando da tutta la merda che si era tirato addosso quando aveva ucciso Pico. Sapeva dell’Ordine, sapeva che gli avrebbero dato la caccia in ogni angolo per vederlo crepare, sapeva di non avere scampo. Eppure, l’aveva avvelenato lo stesso. Perché? Si credeva superiore a loro. Pensava di avere le capacità per farla franca, quel bastardo. Credeva di avere il culo parato, in qualche modo, come se avesse un arma segreta che loro non conoscevano. Che fosse furbo l’aveva capito, ma era anche abbastanza veloce? A quanto pareva sì. Il fisico ingombrante del Bramante non era in grado di reggere l’inseguimento. Nessun altro poteva aiutarlo. La mente accecata da un’ira omicida si sentiva prigioniera in un corpo inadeguato, votato al lusso e alla pigrizia mondana. Basta, non era più in grado di muovere un passo. Stramazzò a terra ansimando e piangendo. Contrariamente agli usi dell’Ordine non si mise a pregare per l’anima del suo Magister.
  «Corri quanto vuoi, ma ricorda che i Templari non dimenticano, bastardo» sussurrò infine, stremato.
 
 
 
 Cecilia
 

 
  La marcia funebre verso la città Eterna era finita.
  Uno dei servitori aiutò mia madre a scendere dal cocchio senza inciampare sul terreno fangoso. Io, rendendomi conto della lentezza della scena e senza riuscire a trattenermi un istante di più, aprii stizzita la porta opposta e mi fiondai in strada, senza preoccuparmi di rovinare il bel vestito celeste. “Al bando le carrozze!”, pensai sfinita. Chiazze di lerciume scuro e acre impregnarono l’orlo del raffinato abito senese, mentre mi chinavo ai lati della strada, in preda ad angoscianti conati di vomito.
  Niente di più e nulla di meno di ciò che mi aspettavo dall’immediato futuro a Roma.
  Inquietanti nubi nere promettevano un altro carico di pioggia, quindi approfittammo degli ultimi labili raggi di luce per intrufolarci in una bettola, indicata da un’insegna come “La Volpe Addormentata”.
  La porta si spalancò in un cigolio che era tutto un programma. Il silenzio calò con un fruscio sulla taverna, spezzato solamente da qualche fischio rivolto verso mia madre, che mi precedeva. Era bella, per carità, ma un altro rumore da parte di quei quattro ubriaconi e io…
  «Vi invito alla calma, gentiluomini, poiché siete in presenza della mia meravigliosa donna» disse un uomo dalla voce profonda, ammaliante, sottolineando il possessivo.
  Stava scivolando elegantemente verso di noi, tramite una scala in legno che univa il primo e il secondo piano. Colei che tempo addietro ebbe il coraggio di regalarmi la vita fremette tutta, felice per la divina apparizione; io, d’altro canto, avrei preferito essere ancora fuori a piegarmi tra lo scrosciare della pioggia e il pantano.
  Si chiamava Gilberto, ma tutti lo conoscevano come “La Volpe”.
  Si chiamava Gilberto, e mia madre avrebbe voluto che mi rivolgessi a lui come “Padre”.
 
 
 
 

Vaneggi dell’autrice

 
  Torno su efp con questa storia, che mi ha preso cuore e mente.
Innanzitutto volevo spiegarvi che questa ff, pur riguardando principalmente Cecilia, conterrà brevissimi punti di vista di altri personaggi, così da farvi partecipi anche del contesto.
In secondo luogo sappiate che vi ringrazio perché siete qui, e che mi impegno a postare immediampresto il primo capitolo!
Se avete tempo vi chiedo di lasciare una mini recensione tanto per gonfiare o bucare il mio ego (accetto volentieri anche un “ma torna a studiare!” oppure un “fatti una vita!”).
Buona giornataseratanottata a voi tutti,
 Bea.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I

 

 

“Sì che volendo far come coloro che per vergogna celan lor mancanza,

di fuor mostro allegranza, e dentro da lo core struggo e ploro.”

 

Dante Alighieri

 

 

 

Cecilia

 

 

  L’edificio che sarebbe diventato la nostra nuova dimora era il fulcro di un piccolo borgo, lontano dal centro della città. Si sviluppava in due larghi piani, e svettava in altezza con un’ampia torre. Le casupole raggruppategli attorno erano molto minute, come dei vassalli in mattoni rossi che si piegavano al loro signore.

  Il primo piano era occupato dalla losca taverna, molto buia e popolata da personaggi equivoci. Nulla poteva suggerire la raffinatezza del secondo piano, raggiungibile tramite massicce scale nascoste da botti e casse. Nell’alloggio erano presenti saloni intrisi di signorilità, camere in cui lo stile padroneggiava e un focolare ottimale. Le finestre erano in difetto, e la scarsa luminosità non veniva certo compensata dalla tappezzeria: regnavano toni scuri quali il verde e il marrone boschivo, in tinta con i colori de “La Volpe Addormentata”. Nel complesso comunque era decisamente molto bella, anche se pur sempre una prigione.

  «Cecilia permettimi di mostrarti la tua camera. Dato che le stanze da letto scarseggiano, ho fatto sistemare e ammobiliare la torre. Spero che non ti dispiaccia» disse Gilberto, conducendomi attraverso altre scale, molto più minute, ad una porta. Abbassò la maniglia e mi fece entrare per prima, con molta galanteria. Lo stupore che mi invase si trasformò celermente in meraviglia. Stava forse cercando di comprare la mia approvazione? Adesso capivo l’origine del soprannome. Il volpone era astuto, davvero astuto. Quel pensiero mi strappò un acerbo sorriso. Sicuramente non era casa, ma come carcere era superbo.

  Era abbastanza spazioso, e il soffitto era così in alto che aveva permesso la creazione di un soppalco. Nel livello inferiore c’erano un letto, un armadio e una scrivania appena al di sotto di un punto luce. La fascia superiore era splendida, o per meglio dire, splendente: al contrario del contesto, nei muri era posata una corona di finestre, che andava a divinizzare un piccolo scrittoio circondato da due grandi librerie. Il paradiso.

  «Vi ringrazio» dissi, ancora stregata.

  Con il mio nuovo patrigno ci tenevo ad essere formale, non avevo intenzione di lasciargli lo spazio necessario per penetrare la mia quotidianità. Lo detestavo, ingiustamente. Caterina, mia madre, ne era perdutamente innamorata. Cos’altro avrei potuto fare? Ci eravamo trasferite a Roma, spinte dal suo pazzo desiderio. Per mesi avevo tentato, invano, di dissuaderla, di ostacolare il loro rapporto, neanche fossi una bambina immatura. Alla fine la rassegnazione mi aveva abbracciato, cullandomi. Se voleva Roma, avrebbe avuto Roma. La mia dolce casa fiorentina era stata venduta, e con lei tutti i più bei ricordi dell’infanzia. Avevamo tenuto l’indispensabile, “Quel che ci manca lo compreremo una volta arrivate, tesoro” mi aveva detto Caterina, tanto i soldi abbondavano. Non sguazzavamo propriamente nell’oro, ma il patrimonio derivato da un’importante famiglia di banchieri ammontava a cifre mirabili. Mio padre del resto era un Bardi.

  Ci aveva lasciate quando ero piccola, regalandoci una piccola fortuna che avremmo volentieri ceduto per riaverlo indietro. D’altronde si sa che le monete non comprano la felicità. Vedevo il suo volto sbiadire giorno dopo giorno, e non osavo parlarne con mia madre, ancora molto sensibile all’argomento.

  «Buon Dio» sussurrò ammirata, appena varcò la soglia del mio nuovo privato.

  «Vado a prendere gli ultimi bagagli, con permesso» disse Gilberto, sfuggendo a quella particolarissima situazione, lasciandomi un po’ di intimità con Caterina.

  «Tesoro ascolta… » esordì quest’ultima dopo un breve silenzio.

  «No mamma, ascoltami tu: sei felice?»

  «Sì, ma…»

  «Allora lo sono anche io» la bloccai prima che potesse aggiungere altro. Ci guardammo a lungo, avvolgendoci nei nostri stessi occhi. Mi abbracciò e mi disse:

  «Troveremo una soluzione»

  «Sto bene mamma, non ti preoccupare» mentii. La mia voce cercò di tradirmi, vacillando.

  «Ti ammiro sai? Sei la fanciulla più coraggiosa che conosca. E anche la più bella» disse sorridendo, cercando di alleggerire l’atmosfera. Apprezzai il tentativo, e lo feci capire stringendola più forte.

  Dopo poco entrarono due uomini che non conoscevo. Io mi scostai da Caterina, imbarazzata per l’intrusione. Erano riusciti a portare nella stanza il gigantesco baule, cosa che avevo considerato impossibile. Se ne andarono immediatamente, senza presentarsi, borbottando solamente un “Notte”.

Gilberto non tornò. Non che m’interessasse, è che reputavo maleducata la scelta di sparire nel nulla, senza nemmeno un saluto.

  Sospirai. Dovevo smetterla di cercare ogni futile dettaglio per accanirmi su quell’uomo. Mi resi conto di quanto erano sciocchi quei pensieri, e mi promisi di fare uno sforzo in più per accettare la situazione.

A quel punto anche mia madre andò a coricarsi. Prima di chiudere la porta ripeté di nuovo:

  «Troveremo una soluzione», come se potesse convincermi.

  “Esiste una soluzione all’accidia?” mi chiesi.

Il letto era più comodo di come lo immaginavo.  Dormii pesantemente, dimenticando la nuova vita cui ero stata costretta per amore di una madre folle; sognai Firenze, i vecchi amici,  le allegre risate, i baci fugaci, gli amori remoti… E il mio fu un luttuoso risveglio.

 

 

 

 

Volpe

 

 

  Era stanco della pioggia gelida che gli sferzava il volto. Dove diavolo era Machiavelli?

Gli era stato recapitato un messaggio nel quale quest’ultimo chiedeva di incontrarlo nei pressi dell’arco di Costantino. Nel suddetto luogo si era recato, con una dozzina di uomini buoni nascosti in punti strategici: per quanto ne sapeva lui, Niccolò doveva essere ancora a Firenze, alle prese con il buon vecchio predicatore pazzo, tale Savonarola. Che fosse dunque una trappola?

  Avanzò sotto il maestoso arco trionfale, andando a ripararsi dall’acqua. Una figura alta e scarna, avviluppata in un mantello quasi zuppo, emerse dall’ombra. Era proprio lui.

  «Ti sapevo impegnato» quasi lo canzonò la Volpe.

  «Lo sono, forse fin troppo» rispose grave Machiavelli, «eppure temo che ciò che ho da dirti sia più importante di ogni altra mia responsabilità».

  «Allora parla Niccolò, se è come tu dici non c’è tempo da perdere!» si avvicinò interessato e nervoso l’altro.

  «Si tratta di Pico Della Mirandola…»

  «Cos’ha fatto, quel porco, sta volta?» lo interruppe Gilberto, con una nota rabbiosa nella voce.

  «È morto» disse Niccolò, serio.

Un silenzio tombale avvolse i due confratelli.

  «Morto, dici…» ricominciò il ladro, sconvolto dalla notizia.

  «Avvelenato»

  «E da chi?» chiese sbigottito.

  «È questo il punto: sicuramente non da uno dei nostri».

 

 

 

 

Vaneggi dell'autrice

 

 

  Ecco qui il primo capitolo! Che ve ne pare?  

  Mi dispiace che ci sia poca azione, ho voluto concentrarmi su Cecilia, iniziando a presentare la nostra complessa protagonista.

  Troverà uno scopo in quella prigione dorata, o si abbandonerà all'apatia? 

  E ancora, chi diavolo ha ucciso Pico? Chi è questo Giacomo Catalano? 

  Spero che continuiate a seguirmi :) 

  Un grazie a tutti voi, 

  Bea

 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II

 

 

“Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti;”

 

Giovanni Boccaccio

 

 

 

Cecilia

 

 

  Il maltempo che mi aveva costretto in casa proprio durante la prima settimana di permanenza stava migrando. Se avessi potuto non mi sarei mossa dal mio regno, ma nella torre vi erano solo un paio di vecchi libri (tra cui un Decameron che potevo dire di aver ormai imparato a memoria), e poche pergamene. Avevo inoltre bisogno d’inchiostro, e di una nuova piuma. La pigrizia sussurrava dolce ai miei occhi quasi curiosi, diceva loro che non valeva la pena di fare tutta quella fatica per recarsi in una città grigia, sporca e pericolosa. Però, nonostante tutto, la noia teneva in mano il mio cuore pulsante.

  Una domenica mattina, messa difficilmente da parte l’apatia, mi vestii pesantemente e uscii, alla ricerca dei miei ingredienti per la felicità.

  Il piccolo borgo era allegro, movimentato grazie al sole che finalmente era tornato a baciare la Terra. Scorsi una piccola banca, un sarto che urlava di avere tessuti provenienti da ogni dove, un fabbro che ripeteva di essere il migliore sulla piazza, e un mercante d’arte e un medico dal naso adunco che confabulavano. Cercai una stalla che non fu particolarmente difficile da trovare; era vuota, abbandonata, sprangata con delle assi marcie. Non feci in tempo a chiedermi il motivo che un giovane saltò giù da un tetto alle mie spalle, spaventandomi a morte.

  «Scusa» mi fece quello ridacchiando genuinamente.

Guardai prima lui e poi il tetto, allibita, cercando di capire come aveva fatto ad atterrare con naturalezza da un’altezza del genere. Io come minimo mi sarei spezzata una gamba!

  «Beh sai, da quando i Borgia hanno fatto chiudere tutte le scuderie è il metodo più rapido» mi strizzò l’occhio.

  «Il Papa, vuoi dire?»

  «Lui e suo figlio, Cesare. Comunque al momento non è la mia prima preoccupazione; che dici, cerchiamo un carro?» mi guardò, quasi riuscendo a contagiarmi con il suo buon umore.

  «Come prego?» quello strano personaggio mi stava mettendo sempre più in confusione!

  «Oh eccone uno! Dai!» partì veloce alla volta di un carretto che trasportava paglia. Vedendo che io ero rimasta spiazzata si voltò nella mia direzione e mi urlò un «Corri!», ancora con il sorriso stampato in bocca. Che ragazzo assurdo!

  Iniziai a rincorrere il carro, sul quale lui si era già issato. Quando arrivai mi aiutò a salire, e ci posizionammo comodi su un improvvisato giaciglio dorato. Se il conducente se ne accorse, fu così gentile da non curarsene.

  «Non si viaggia così a Firenze?»

  «Come fate voi a sapere le mie origini?» domandai stranita. Rise.

  «Sapere le cose è il mio lavoro Cecilia» 

  «La mia mancata onniscienza però mi impedisce di sapere chi siete voi»

  «Che??» sbarrò gli occhi, tentando di decifrare la mia frase. Risi.

  «Tu chi saresti?»

  «Ah! È una domanda facile se formulata con le parole giuste» ammiccò, «avete il piacere di parlare con Messer Giancarlo, al vostro servizio» disse gonfiando il petto e assumendo una voce autorevole.

  «E avete anche un cognome, Messer Giancarlo?»

  «Ehi, che è tutta questa confidenza?» mi prese in giro, e a quel punto ridemmo entrambi.

 

 

 

  Fu sicuramente un viaggio gradevole. Giancarlo era simpaticissimo, e con lui riuscivo a sentirmi a mio agio malgrado la notevole differenza sociale. Parlammo molto, di tutto e di niente, e per la prima volta dal mio arrivo a Roma mi sentii incredibilmente leggera.

  Viaggiando per i vari distretti osservai realtà diverse: se la campagna soffriva, il centro città piangeva. Molti negozi erano chiusi, la sporcizia nascondeva le strade, le guardie avevano occhi ovunque.

  Dopo poco giungemmo in cima a uno dei sette colli, non sapevo con precisione quale, e scendemmo dal carro. Giancarlo mi aveva indicato un droghiere dove avrei potuto trovare anche carta e penna. Non vedevo l’ora di uscire da quello stanzone dove odori e profumi guerreggiavano. Comprato il necessario tornai svelta dal mio accompagnatore, che mi aspettava all’esterno.

  Mi si parò dinnanzi una scena sconcertante: un bimbo, giocando, era per sbaglio andato a sbattere contro le gambe di un soldato. Quest’ultimo portava un’armatura pesante e trascinava una spada più grande di lui. Il bambino si scansò spaventato, ma il gigante lo prese per il bavaro, lo trasse a se, e gli assestò un violento ceffone con la mano guantata, mandandolo a strisciare contro il terriccio. Tutti i presenti si erano ammutoliti.

  Il silenzio fu scheggiato dal pianto del malcapitato. Mossi un passo per soccorrerlo, ma Giancarlo me lo impedì. Stavo già per lamentarmi quando vidi una giovane donna che avanzava, dall’altro lato della strada. Indossava anch’essa un’armatura, molto più leggera e raffinata, e sembrava che si stesse dirigendo verso il bestione. Aiutò il bambino ad alzarsi, gli diede quattro fiorini per pagare un dottore e si preparò ad affrontare il soldato dei Borgia.

  «Non è una faccenda che ti riguarda, donna» ringhiò quest’ultimo. La voce distorta dall’elmo pareva ancora più minacciosa.

  «Quando imparerai a schiaffeggiare i tuoi pari la faccenda non mi riguarderà più. O forse sì» sputò l’ultima frase con cattiveria, prima di cozzare contro il suo nemico.

  Lo scontro era alla pari: l’agilità della giovane era compensata dalla mole dell’altro, che le si gettava contro con ferocia. Temetti per lei quando cadde a terra sbattendo la testa, ma si rialzò subito facendo schiantare l’uomo contro un’impalcatura di legno.

  Il sostegno gli franò addosso, seppellendolo tra le urla di dolore e i respiri mozzati della gente. Sicuramente altre guardie sarebbero arrivate, e infatti vidi la donna allontanarsi con passo sostenuto, ostentando la sua fierezza.  

  «Vieni, muoviti!» mi trascinò per un braccio il mio compare. Raggiungemmo l’obbiettivo, che era già ad una distanza notevole e avanzava ad ampie falcate.

  «Letizia, mio cuore!»

  «Vattene Gian, il più in fretta possibile o ti spezzo le ossa una ad una!» rispose minacciosa la guerriera.

  «Oh, andiamo, l’ultima volta non eri così scorbutica» disse quest’ultimo, scherzando malizioso.

  «Era tanto tempo fa»

  «Suvvia, ne è passata di acqua sotto i ponti!»

  «Non abbastanza» ringhiò Letizia.

  «E quando sarà abbastanza?»

  Le ultime battute avevano un tono molto serio. Giancarlo ora era turbato, e aggrediva Letizia in cerca di risposte. Non avevo idea di che cosa stessero parlando ed ero molto imbarazzata, consapevole che la mia presenza lì non era opportuna. Non potevo abbandonare la mia guida, ma nemmeno farmi gli affari altrui! Fortunatamente per me, la giovane mise presto fine al dialogo.

  «Mai, Giancarlo, mai! Accontentati della tua amichetta e lasciami in pace. Vattene ora!»

  Il ragazzo si fermò, lasciandola proseguire, ferito dalle ultime taglienti parole. Alzò lo sguardo un’ultima volta e urlò: «Sono cambiato!»

La sua era una supplica che venne ignorata.

  Mi avvicinai e gli misi una mano sulla spalla, non avendo idea di come confortarlo.

  «Hai finito?» chiese cupo.

Finito di… «Oh, si!». Avevo dimenticato il motivo per cui eravamo nel distretto, ovvero i miei acquisti.

  «Bene, ti accompagno a casa» disse perentorio.

Che autorità aveva il ragazzo su di me? E se avessi voluto godermi quella giornata di sole visitando la città? Potevo benissimo tornare a casa da sola!

   «Grazie» lo assecondai, mettendo da parte a fatica quei pensieri prepotenti.

Ci incamminammo verso la locanda, muti.

La mia testa rielaborava le parole appena sentite e… “Dannazione, mi ha chiamata amichetta! Che gran faccia tosta” elaborai offesa.

  “Andiamo bene” sbaffai mentalmente. 

 

 

 

Vaneggi dell'autrice

 

 

Eccomi qui, con un grasso capitolo ricco di movimento! 

Dovevo farmi perdonare per la staticità di quello scorso ;) 

Non ci sono altri punti di vista, se li avessi aggiunti sarebbe diventato troppo lungo, quindi ho deciso che il nostro Rodrigo Borgia si racconterà nel prossimo aggiornamento, insieme a tanti altri. 

Probabilmente troverete anche un approfondimento su Catalano (finalmente), e una nuova fazione entrerà in scena, scombussolando l'equilibrio Templari-Assassini!

Mi dispiace dirvi che per il prossimo capitolo dovete pazientare un pochino, perchè mi attende una meravigliosa gita a Salerno, e la mia fissa per i dettagli mi impone un centinaio di accurate riletture :D 

Grazie davvero a tutti voi che siete qui, vecchi e nuovi lettori! 

A presto spero, 

Bea

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III

 

 

 

“L'amore è come un sogno che la realtà delude...”

 

Francesco Petrarca 

 

 

Rodrigo Borgia – Alessandro VI

 

 

  Finalmente era arrivato il suo momento. L’Ordine lo acclamava. Inni reverenti si innalzavano fino alla sua persona. Era il loro Magister.

  Aveva aspettato per anni quel titolo, e nel frattempo era diventato Papa.

I fedeli gli avevano affidato la loro anima in cambio della salvezza, i politici di tutto il vecchio continente gli avevano affidato il potere in cambio di protezione, e ora, dopo troppo tempo, i Templari gli stavano affidando le loro menti in cambio di una guida.

  Era circondato da uomini fedeli e alleati intelligenti, ma soprattutto i suoi ideali erano condivisi da una famiglia ambiziosa. Il momento era giunto, l’Italia sarebbe stata dei Borgia.

 

 

 

Cecilia

 

 

25 Marzo, 1494

  “Sola e dimenticata. Tutto perde di significato; la primavera non profuma, il canto degli uccelli tace, il vento evita di carezzarmi. E il vero, o sono io che non sento? Oh luna di metallo, tu che come me sei estranea a questa vita, rispondi, brilla per me.”

 

 

  Chiusi il libro, tappai l’inchiostro, scesi le scalette, soffiai sulla candela e dormii.

  Quella mattina mi svegliai presto, avevo accettato di accompagnare la Volpe da qualche parte. Non sapevo quale fosse il mio ruolo, ma il mio patrigno aveva insistito dicendo che mi avrebbe fatto conoscere delle persone interessanti.

  Era passata una settimana dalla mia prima e ultima uscita a Roma.

 Giancarlo era tornato sereno come l’avevo incontrato, e non aveva accennato all’argomento “Letizia”. Ci eravamo visti quasi tutti i giorni per passeggiare nei campi vicini, fino alla mura della città, dove c’era un albero colossale che era diventato per noi un punto di riferimento.

Ero soddisfatta di quel nostro rapporto scherzoso che lentamente arrancava, tentando di svilupparsi in un’amicizia. A parte lui sentivo di non avere nessuno, nemmeno mia madre, troppo occupata a gestire i traffici della taverna.

  Mi vestii e andai in cucina, dove una calda colazione mi attendeva.

  «Ben svegliata Cecilia» Gilberto scivolò al mio fianco, unendosi a me per mangiare. Mi spaventò, e per l’ennesima volta mi chiesi come diavolo faceva a muoversi così silenziosamente.

  «Buon giorno» risposi rigida, svegliandomi del tutto. Mi sentivo vulnerabile di fronte a quell’uomo capace di mettere in soggezione chiunque. I suoi occhi viola mi scrutarono attenti, e ricevettero uno sguardo altrettanto attento. Ci studiavamo: lui cercava di capire come approcciarsi a me, io tentavo di respingere ogni suo tentativo con quanta più educazione potevo.

  Tra un boccone e l’altro mi spiegò che doveva portare dei documenti alla caserma D’Alviano, e che probabilmente avrei avuto l’occasione di conoscere Bartolomeo e le sue figlie.

  Finimmo e scendemmo. Nella piazza due cavalli ci aspettavano; li aveva portati un uomo alto e muscoloso, trasandato, che vestiva il solito colore verde muschio.

Sembrava quasi che gli uomini del borgo indossassero una divisa, e non riuscivo a spiegarmi il perché.

 Quest’ultimo porse le redini di un bel pezzato alla Volpe, chiamandolo “Signore”.

 Tutto era sempre più strano.

 

 

 

Letizia

 

 

  E così Giancarlo se la spassava con quella.

La stessa ragazza che aveva incontrato pochi giorni prima ora era in piedi nel suo salotto.

Pensò subito che il fato la stava deridendo.

  Era arrivata con la Volpe, probabilmente per sbrigare qualche faccenda riguardante la confraternita, tuttavia non somigliava a una ladra.

L’abbigliamento da nobile spocchiosa dava l’idea che non desiderasse avere a che fare con i tetti e la furtività. Probabilmente era troppo stupida per pensare di aver dipinta in fronte la scritta “bersaglio” grazie a quell’abitino porpora. Doveva pur avere qualche difetto, almeno mentale, dannazione!

  Le bruciava il fatto che fosse bella.

  Era bella, con quei capelli color ciliegia tanto lunghi da spazzolarle i fianchi.

  Era bella, con quel suo assurdo viso triangolare, esageratamente magro.

  Era bella, con quegli zigomi troppo alti e il mento appuntito.

  Era bella, con quegli occhi vacui intenti a fissare il pavimento di marmo, dipinti di marrone boschivo.

  Era bella, con quelle labbra incredibilmente fine.

  Probabilmente quella stessa bocca era già di Giancarlo.

  Le vennero i brividi solo al pensiero. Quanto ci aveva messo a conquistarla? Forse un paio di giorni, considerato che corteggiare giovani fanciulle ingenue era la sua specialità.

L’idea di essere ancora gelosa di lui la fece vergognare come uno schiaffo in pieno volto dinnanzi ad un platea di ragioni. Una guerriera come Letizia non avrebbe mai dovuto concedersi sentimenti, e ora non riusciva sopportare l’umiliazione derivata da quell’errore stantio.

  I ricordi la visitavano insieme alle stelle. Si infilavano sotto le sue coperte e insieme covavano sogni distanti e proibiti. Era ancora perdutamente innamorata.

  Faceva di tutto per sigillare la sua dimensione interiore, e il metodo più efficace era concentrarsi sul suo modello: Bartolomeo.

  Suo padre sapeva essere fermo e composto, riuscendo a sbilanciarsi solo con le sue figlie e la moglie Bartolomea. Capiva chi si meritava la sua fiducia e il suo affetto, ed era convinto che la sua famiglia non avrebbe mai potuto tradirlo; Letizia invece era stata pugnalata alle spalle da un ragazzo che non valeva un briciolo di considerazione.

L’aveva trovato avvinghiato ad una Orsini, le dita e le lingue che si intrecciavano.

Giancarlo aveva supplicato il suo perdono innumerevoli volte, ma la guerriera lo aveva negato, evitando di concedersi ulteriori debolezze superflue.

  La testa rossa che capitolava nella stanza si presento come Cecilia Bardi, ma a Letizia sembrava di aver sentito un sibilo di troppo: “sono il tuo tormento”, prometteva quella voce.

  Letizia l’avrebbe odiata per principio.

 

 

 

Giacomo Catalano

 

 

  Dodici uomini.

Dodici come la rappresentazione dello spazio celeste.

Dodici come le costellazioni, i pianeti, i mesi in un anno.

Dodici come le ore del giorno e della notte.

Dodici come gli apostoli di Cristo.

  Bianche maschere nascondevano i loro volti.

Perché il bianco è verità assoluta.

Perché il bianco è trasfigurazione.

Perché il bianco è fede.

Perché il bianco è l’Eterno.

  I respiri vibravano nella cripta. L’incenso che si sprigionava dal cerchio sembrava una protesi delle loro anime. Pregavano a gran voce perché il Signore donasse loro la forza di compiere il loro destino. Si sarebbero sacrificati, per il bene della Chiesa vera, trascinando con loro tutti i peccatori possibili. Sarebbero diventati grandi, sarebbero diventati martiri.

Li avrebbero ricordati, ovunque, chiunque, come i veri rifondatori della cristianità.

  Tutto a tempo debito, comunque. L’importante era scalzare via i Templari dal dominio spirituale dell’Europa, in seguito avrebbero annientato gli Assassini e il loro Credo.

  Le frottole sul libero arbitrio non andavano bene a nessuno. Serviva un capo, un pastore che riuscisse a redimere l’umanità, severo, intransigente, intollerante.

  Savonarola stava compiendo un lavoro meraviglioso a Firenze, sebbene intralciato dall’ambiguo Machiavelli. La nuova Italia sarebbe stata plasmata in base a quel modello benedetto, libera dalle farneticazioni sulla libertà e sul potere di entrambi gli Ordini.

  Lo spirito sarebbe tornato a vincere sul corpo, l’infinito sul mortale.

 

 

 

 

Vaneggi dell'autrice

 

 Un bentornato a tutti voi!

 Il primo capitolo era all'insegna della staticità, il secondo all'insegna del dinamismo, e il terzo l'ho dedicato al pensiero. Ci sono pochi dialoghi, come potete vedere, ma si tratta di un aggiornamento di passaggio dove finalmente riesco (spero) a farvi capire cosa succede tutt'attorno a Cecila.

 Mi sto lentamente innamorando di questo personaggio, sento la sua voce che esprime un'opinione un po' su tutto, cosa faccio, come reagisco, quello che mangio... Può sembrare inquietante, ma almeno dimostra che ormai sta iniziando a vivere :D

 Mi piacerebbe davvero che succedesse così anche per voi!

 Grazie a chi ha inserito la storia nelle seguite e nelle preferite, e anche a chi mi segue timidamente senza esporsi troppo :3

 Ditemi tutto quello che vi passa per la testa, la parte di Letizia è quella che mi lascia più perplessa! Aspetto sempre con ansia i vostri commenti, siate implacabili :)

 Vi soffio un bacio,

 Bea

 

 

Importante: Le note storiche sono nel prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV

 

 

 

“Meglio la piccola certezza che la gran bugia”.

 

Leonardo Da Vinci

 

 

 

 

Cecilia

 

 

  Non dormii al meglio quella notte. Sognai una furia che mi rincorreva con la lucente spada sguainata; non riuscivo a voltarmi, non riuscivo a capire chi fosse, sapevo soltanto che facevo bene a temere il suo sguardo.

 

  Mi svegliai ricordando come, tre giorni prima, avessi incontrato gli occhi astiosi della mia ostile coetanea romana. Era sopraggiunta nella stanza mentre parlavo con l’affabile Bartolomeo.

Appena l’avevo vista mi ero innalzata fiera, gonfia del mio orgoglio, ricordando che aveva osato chiamarmi “amichetta”. Non mi conosceva e si era permessa addirittura di giudicarmi, sputando quel commento di pessimo gusto sul rapporto che c’era tra me e Giancarlo.

  Avevo aspettato che le nostre iridi si incrociassero, ma quello che accadde fu del tutto inaspettato: mi trovavo dinnanzi ad una Gorgone gonfia d’ira, una mostruosa Medusa con sembianze umane e un potere ultraterreno, capace di pietrificarmi. Non solo non mi conosceva e si era permessa di giudicarmi, ma non mi conosceva e mi odiava! La voce di suo padre echeggiava nella stanza mentre ci presentava. Nessuna delle due aveva proferito parola, eravamo troppo occupate a giocare al meglio i nostri ruoli: Letizia mi stava distruggendo ed io stavo soccombendo sotto il peso di quel sentimento radicato.

  La Volpe ci aveva domandato di poter parlare in privato con Bartolomeo, e di conseguenza Messer D’Alviano aveva chiesto a sua figlia di scortarmi per una visita della caserma. Non ci eravamo mosse, incastrate com’eravamo in quel quadretto pieno di rancore e sdegno. I due uomini ci avevano guardate perplessi; solo dopo un lungo silenzio Letizia aveva risposto con un «Si, padre» dal tono roco ed era uscita dalla porta principale, raggiungendo il cortile. Mi ero voltata nuovamente verso Bartolomeo e avevo finto un sorriso di circostanza, congedandomi celermente. Avevo affrettato il passo verso il sentiero della guerriera ed ero uscita anch’io, per scoprire che di quest’ultima non c’era già più traccia. Avrei dovuto cercarla, tentare di parlarle, invece ero rimasta inchiodata dov’ero, senza riuscire a capacitarmi di quella situazione assurda.

 

  “Basta pensare al passato!” mi dissi con foga, cancellando sia i ricordi reali sia quelli fittizi derivati dall’incubo.

  L’alba primaverile colava dalle finestre superiori e invadeva il letto.

  Una mattinata così luminosa avrebbe sicuramente spazzato via l’incipit della giornata.

Mi sciacquai il viso con l’acqua fresca del catino e mi diressi verso l’armadio. Scelsi un vestito color verde pino, perfettamente abbinato al colore dei miei capelli. Sventrai la treccia che usavo solitamente per dormire e spazzolai la chioma di fuoco che arrivava a spolverarmi il bacino. Non mi guardai allo specchio; vi avrei trovato un viso troppo pallido e smunto.

  Avevo appuntamento con Gian sotto l’ormai nostro frassino, accanto alle mura della città. Ero in anticipo, e decisi che avrei ingannato l’attesa leggendo.

  Mi trovò così, gli occhi brillanti per le parole, il corpo macchiato dall’ombra delle foglie, le gambe incrociate nascoste dalla gonna scura, un libricino tra le mani ossute.

  «Secondo me è una malattia» alzai gli occhi e vidi il mio amico, trasandato come sempre:

una barbetta castana gli increspava il viso, le occhiaie erano sempre al loro posto e i vestiti erano sciupati. L’espressione fingeva preoccupazione, ma negli occhi neri regnava l’ilarità che non perdeva quasi mai.

  «Su cosa si basa questa tua tesi?» gli domandai con un ampio sorriso che mi spuntava solo con lui.

  «Sul fatto che è impossibile stare fermi e guardare un paio di fogli scarabocchiati per così tanto senza annoiarsi» disse con convinzione.

  Scoppiai a ridere. «Dopo un po’ non ti rendi conto, non pensi alla posizione, stai viaggiando» ribattei sognante.

  «L’ho detto, è una malattia. Uno dei sintomi è quella faccia da schiaffi» mi prese in giro, abbandonando la facciata seria e ridendo con me.

  «Eddai Gian! Prova anche tu» gli tesi il libretto, e lui l’afferrò con le dita affusolate e callose.

  «Senti un po’ Bardi, secondo te che ci dovrei fare con questo?»

  «Leggerlo, direi» risposi allegra.

  «Oppure far legna. Non ho idea di come si faccia, a leggere» ridacchio sincero. Mi resi conto di aver fatto una pessima figura, essendo abituata a vivere in un contesto di intellettuali, e lui capì il mio disagio.

  «Tranquilla, Cecilia, è un passatempo che ti lascio volentieri» mi fece l’occhiolino e con un ghigno mi restituì il libro, mostrando la serenità di sempre.

Si sedette accanto a me, e decisi che sarebbe stato meglio affrontare la questione.

“Ora o mai più”, mi dissi.

  «Gian…» esitai, aspettando di avere tutta la sua attenzione.

  «Si?»

  «Un paio di giorni fa ho accompagnato Gilberto in un posto e… c’era Letizia»

  «Ah»

  «Ho scoperto di non piacerle e credo che questo abbia a che fare con te…»

  «Può essere»

  «E mi chiedevo…» tentennai un’ultima volta, «Per quale ragione?»

Ciondolò in silenzio, indeciso sul da farsi. Mi stavo pentendo di aver fatto quella scomoda domanda quando rispose, scegliendo lentamente le parole.

  «Diciamo che l’ho amata, poi però le lusinghe di una giovane e altrettanto bella fanciulla mi hanno tentato e l’ho tradita» fissava un punto disperso nell’orizzonte, guardava ciò che era stato. Non interruppi quel momento, aspettai che tornasse con calma alla realtà.

  «Tutto qui» disse soltanto, curvando all’insù gli angoli della bocca per ostentare indifferenza.

  «Non sembrava da come vi siete parlati l’ultima volta» insistei. Volevo tutta la verità!

  «Stai aspettando che ti dica che l’ho implorata, pregata in tutti i modi di perdonarmi?»

  «Esattamente» risposi insensibile.

  «Ho fatto di tutto, ma Letizia è rigida, testarda, ha imparato a negare i suoi sentimenti» ringhiò scocciato, come se reputasse davvero stupido quel comportamento.

  «Beh, non mi pare ci stia riuscendo bene» sbuffai, ora che avevo capito di essermi preoccupata per una sciocchezza.

  «Cosa intendi?»

  «Quella donna è pazza di te! E crede che io sia la tua ennesima amante» mi sfuggì un’altra risata. «È gelosa, e mi taglierebbe la gola nel sonno se solo potesse» lo dissi scherzando, ma lentamente le mani mi salirono al collo. Deglutii, pensando che una guerriera come lei ne sarebbe stata davvero capace.

  Parve riflettere su ciò che affermavo.

  «E comunque ormai è passato» esclamò risoluto.

  «Cosa? Hai intenzione di stare con le mani in mano?» ero esterrefatta.

  «Non sono fatto per strisciare, posso trovarne altre cento. Anzi, sono già alla numero novantanove» sorrise sornione, lasciando intendere la sua opinione distaccata sulle ragioni di cuore.

  «Sei proprio strano, Gian»

  «Perché?»

  «Perché è evidente: il bisogno di averla ti divora» la mia era una constatazione.

  «Troppi libri, dico io» buttò in ridere i miei discorsi seri per l’ennesima volta.

 

 

*

 

 

  Le nuvole rosse del tramonto offuscavano il tempo e forse anche la ragione. Il cielo infuocato estendeva le ombre del mondo, cupi preludi della sera imminente.

  Una sagoma avanzava per la stradina del borgo.

Il mio compare ed io sedevamo sopra la staccionata della vecchia scuderia. Avevamo passato quasi l’intera giornata insieme, e ancora non eravamo stanchi l’uno dell’altro. Mi sorpresi nuovamente di quanto mi piacesse la sua compagnia!

Stavamo fissando entrambi l’uomo che si stagliava contro il sole; ci veniva incontro, tinto di nero per il contrasto con la luminosità dello sfondo, con il mantello che si librava ritmicamente.

  I tratti di Gian si sciolsero in un’espressione raggiante.

  «Chi è costui?» chiesi perplessa.

  Non mi ascoltò nemmeno, scattò in avanti e presto raggiunse l’uomo, investendolo con un abbraccio possente.

  Quando furono vicini stesi le gambe e saltai giù con uno slancio. Li raggiunsi.

  Il ragazzo aveva pressappoco l’età del mio amico, gli avrei dato massimo vent’anni.

  Arrivai e l’allegria parve morire in gola al giovane, che prese a scrutarmi diffidente.

  «Paride, questa è Cecilia» mi presentò Giancarlo. Feci un piccolo inchino senza staccare gli occhi dai suoi.

  Il tal Paride girò i tacchi e se ne andò, senza una parola o un cenno, lasciandoci nella polvere della piazza.

  Ma…

  Cosa…

  Io…

  Perché?

  Mi venne una gran voglia di piangere. Ero sconvolta. E a quest’ultimo cos’avevo fatto, perdiana?! Possibile che in quella città di merda tutti mi odiassero senza una ragione comprensibile? Ovviamente sì, non si trattava di un’ipotesi, era un fatto.

  «Ma che cazzo mangiano ‘sti romani? Pane e veleno?» mi voltai anch’io, sbraitando con furia.

Le lacrime mi graffiavano le guance; nessuno poteva giudicarmi, ero già scappata lontano.

  Ripensai a quel volto, ai capelli biondi, agli occhi viola così rari e belli…

  Paride aveva il sangue della Volpe.

 

 

 

 

Note storiche importanti

 

- La storia inizia nel 1494 con la morte di Pico della Mirandola, probabile Magister Templare.

- Viene succeduto (in ritardo rispetto al videogioco) dallo spagnolo Rodrigo Borgia, già Papa.

- Nel ‘94 è ambientato il dcl su Firenze e il dominio di Savonarola, e ho ipotizzato che la Volpe, dato che da quell’anno in poi in Toscana non ci sono sue traccie, si fosse trasferita a Roma creando il primo abbozzo di Gilda dei ladri.

- Il restauro della locanda, (come quello della caserma), è già avvenuto.

- Machiavelli arriva a Roma ma non si ferma per molto, torna presto a Firenze a combattere il predicatore pazzo.

- Per quanto riguarda Bartolomeo, ho fatto una gaffe che ora vado subito a correggere, infatti la prima moglie morirà nel ’97. Non conosce ancora Pantasilea, citata nel gioco, ed è ancora felicemente sposato con Bartolomea, cognata di Lorenzo de Medici. Da costei ha quattro figlie, sulle quali non ci sono fonti storiche attendibili; Letizia è una mia creazione, insieme a Giancarlo.

- Anche su Cecilia incido una bella © ovviamente, e sulla mia bella donna volevo precisare  soltanto che all’epoca ha 17 anni, mi sembrava di non essere mai stata abbastanza precisa in precedenza su questo punto. 

 

 

 

Vaneggi dell'autrice

 

  Buondì a tutti voi, miei fedeli lettori e mie fedeli lettrici. Mi spreco salutando anche quelli un po' meno fedeli, li perdono e li ringrazio per essere qui ;) 

Innanzitutto devo dire che sono soddisfatta di questo capitolo. È più lungo dei soliti, ho dovuto stipare quello che nella mia scaletta era "Odio Paride 1", e questa aggiunta ha occupato parecchie righe di cui non mi pento minimamente :3 

Paride è il mio cruccio. È partito tutto con il nome, Paride o Francesco? Poi sapete, i personaggi si scelgono da soli! Però questo bel ragazzo (decisamente dissimile da Orlando Bloom, guai a voi se li accostate mentalmente. Immaginatevi piuttosto una perfettissima statua greca :D) continua a darmi filo da torcere, è intrattabile, e a quanto pare non solo con me! Ha qualche problemino con la nostra Cecilia, forse perchè lei... Naaaah, non ve lo dico ahah! Insomma, tutti la odiano a prescindere, per ragioni diverse, ma vi assicuro che presto o tardi si risolverà tutto ;)

Un bacio e un'occhiata adorante a tutti coloro che hanno inserito la storia tra le scelte e tra le preferite ( <3 )

Aspetto con trepidazione i vostri pareri! 

Un grazie specialissimo a Kate Pierce, Natalie95, SliteMoon e AtheneNoctua che si sono sempre curate di darmi la loro opinione e mi hanno accompagnata fin qui! 

Nel prossimo capitolo compariranno i POV di Cesare, Machiavelli e Cecilia (contando anche l'Odio Paride 2 ahah).

A presto spero, 

Bea

  

 

 


 

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


CAPITOLO V

 

 

“Amor s'io posso uscir dei tuoi artigli appena creder posso

 che alcun altro uncin mai più mi pigli”

 

Giovanni Boccaccio

 

 

Cesare Borgia


 

 

  Era stanco di essere secondo. Ora che Rodrigo aveva riunito la famiglia in Vaticano la sua predilezione per Juan era evidente.

  Cesare non lo sopportava: la sua mano era stata plasmata per la spada, non per il crocefisso. Avrebbe lasciato volentieri che l’incenso andasse a suo fratello, ma il Papa era troppo stolto per capire che Juan non meritava il ruolo affidatogli.

  “Duca di Gandia… Quell’onore doveva essere mio!” pensò con rabbia Cesare, travolgendo un maestoso candelabro in oro situato nella sua stanza da Vescovo.

  Cesare era il maggiore, era il più sveglio, era il più abile. Chiunque se ne sarebbe potuto accorgere! Juan invece era un idolo di fiato, capace soltanto di promettere parole vuote.

  Non sapeva nemmeno cosa si provava ad uccidere un uomo. Cesare invece sì.

  Il sangue sulle sue mani lo inebriava, come l’oro per un avaro, come una puttana per un soldato.

  Nell’ammazzare si faceva beffe di Dio: Cesare era il fato.

  «Congratulazioni» ripeté nel vuoto, con un tono disgustato.

  «Congratulazioni, fratello» un gorgheggio di odio ondeggio nella camera.

  «Congratulazioni, fratello mio» gli aveva detto poco prima, quando Juan l’aveva informato con gioia del suo nuovo titolo.

  La congratulazione. La veste elegante dell’invidia.

 

 

 

Niccolò Machiavelli

 

 

  La notte rimbalzava sui tetti quando Machiavelli partì dall’isola Tiberina.

  Le scuderie erano sprangate per colpa delle tasse e spostarsi per la strada a piedi non era sicuro nemmeno per un assassino. Muoversi via fiume era la scelta più conveniente.

  Scese verso il Tevere e lanciò un fiorino nella direzione di un traghettatore visibilmente fiacco. Questo si alzò e fece ondeggiare pericolosamente la fragile barchetta. Invitò il passeggero ad accomodarsi sulle assi marcie e cominciò a remare. Fendeva l’acqua con movimenti dolci, lenti, rispettosi. Soltanto il respiro affannoso del Caronte mortale che giaceva alle sue spalle lo richiamava alla realtà, impedendo al delicato moto ondoso di consegnarlo a Morfeo. La stanchezza gli incatenava i polsi e le caviglie; quei miseri venticinque anni gli gravavano addosso come millenni, farciti di responsabilità importanti.

  Era stata una giornata particolarmente dura: cattive nuove giungevano dalla cupa Repubblica Fiorentina. Il Savonarola stava cercando di creare una Congregazione indipendente dei conventi di Prato, San Gimignano, Fiesole e Pisa. L’autonomia di questi monasteri avrebbe significato un enorme potere, tutto stipato nelle sue mani. Orde di giovani ecclesiastici avrebbero sacrificato la vita per diffondere la sua filosofia ascetica, e questo non doveva accadere per nessuna ragione al mondo.

 

 

*

 

 

  Arrivò alla taverna con largo anticipo. Il cipiglio duro dettato dai pensieri amari fece posto a un’espressione distesa quando vide Paride. Il figlio di Gilberto era un suo coetaneo, avevano passato l’infanzia insieme giocando tra i vicoli toscani. Era grazie a questa loro amicizia che Niccolò aveva conosciuto la Volpe, e per merito della sua influenza era entrato a fare parte dell’Ordine in giovane età.

  «Chi non muore…» esordì sorridendo.

  «Si rivede» lo abbracciò Paride, con moderato entusiasmo.

Gli uomini che li circondavano erano troppo occupati a bere per badare al loro scambio di battute.

Paride lo guidò verso il bancone, dove una bella donna lavorava allegra.

  «Devo presumere che...» disse Niccolò, piacevolmente sorpreso.

  «Si, è lei» tagliò corto l’altro, fingendo indifferenza, «Caterina».

  «E così i sussurri erano veri: una donna è riuscita a piegare il nostro vecchio Volpone» rise di gusto, pensando a quanto fosse surreale. Gilberto aveva sacrificato tutto per la Confraternita, era magnifico pensare che stesse finalmente scegliendo una vita per sé.

Quando vide che gli occhi viola di Paride si erano tramutati in dura ametista capì che qualcosa non andava.

  «Qualche problema con lei?» domandò curioso.

  «No, tutto sommato è a posto, sono felice per mio padre e tutto… è quell’altra a infastidirmi».

  «Altra? Di chi parli?»

In quel momento una ragazza, leggera come un respiro, andò a parlare con Caterina. Avevano gli stessi capelli rossi e lo stesso sorriso, e chiunque si sarebbe accorto che non avevano nulla di che spartire con quel luogo. Il portamento aristocratico e il movimento fine le distinguevano da qualunque donna presente, era insita in loro una velata aristocrazia capace di ammaliare.

  Niccolò si concentrò sulla fanciulla ed arrivò a pensare che era davvero fascinosa, sebbene avesse gli occhi troppo grandi e le labbra troppo fini. Essendosi trovato al cospetto di persone di ogni tipo e grado, Machiavelli era stato forzato dal buongusto e dall’esperienza a diventare un esteta, e la giovane rientrava appieno nella categoria del bello.

  «Cecilia, o così mi pare» grugnì Paride, vedendo che era già concentrato sul suo problema.

  «E dimmi fratello, come può una creatura simile dare noia?»

  «Non dovrebbe essere qui. Non c’entra niente con questo posto, con noi, che se ne torni da dove è venuta!»

  «Se è questo il tuo comando, sono ben lieto di accompagnarla ovunque» rispose Niccolò con un ghigno astuto. Capiva che il disagio della piccola Volpe era vero e sentito, ma comprendeva anche che non era il momento giusto per discuterne.

  «Dunque» riprese velocemente, senza lasciare tempo al silenzio che li minacciava, «Ho sentito che sei stato invitato al matrimonio del secolo»

  «Ci mancherebbe, è mio padre!» rispose Paride, scorbutico.

  «Parlavo dei Visconti, ma se vuoi continuare a ringhiarmi contro la disapprovazione per la tua situazione familiare fai pure»

  «Mi dispiace amico mio, tornare a casa dopo tre anni e trovare tutto cambiato è destabilizzante. Comunque avresti dovuto esserci: il Moro era talmente ubriaco da non riuscire neanche a biascicare un “lo voglio” decente. È stato divertente. Alla fine della serata la povera Beatrice d’Este si è sorbita l’umiliazione di doverlo sorreggere, da brava consorte amorevole, mente vomitava tutto il banchetto davanti a centinaia d’invitati facoltosi. Non so quanto impiegheranno a uccidersi a vicenda. Poco male, spero che qualcuno sgozzi quel maiale d’un Visconti prima che tocchi a noi farlo» godette crudelmente di quel pensiero. Era cresciuto molto, fisicamente e mentalmente. L’altezza lo stava plasmando secondo la sua volontà, i tratti tondeggianti del volto erano più definiti, la mandibola squadrata gli regalava un profilo adulto. Psicologicamente era molto diverso dall’ultima volta che si erano incontrati. Prima di quel viaggio durato fin troppo, Paride aveva paura anche solo di nominare il tristo mietitore. Odiava con tutto se stesso la parte che gli era toccata, quella del ladro costretto a uccidere. Nessuno gli aveva mai chiesto che cosa preferisse fare, era stato obbligato a seguire ciecamente un Credo in cui non aveva fede. Ora la morte era un argomento come un altro, si inseriva nella sua quotidianità con la stessa frequenza degli omicidi a cui era votato. Che avesse finalmente accettato la sua sorte?

 

 

 

Cecilia

 

 

  Quello di Paride non era disprezzo, peggio, era indifferenza.

   E io avrei risposto allo stesso modo.

Avevo pianto per un individuo del genere e l’idea mi disgustava.

Tuttavia ero felice per il mio sfogo: potevo tornare a essere la ragazza raggiante e d’un pezzo che piaceva a tutti, me compresa. Non mi sarei lasciata abbattere da inutili paturnie che servivano soltanto a rubarmi tempo, era il momento di rimboccarsi le maniche e imparare a vivere in quel contesto abitato da pazzi.

  Avvertii mia madre del messaggio di Gilberto: ci sarebbe stato un ospite a cena.

Caterina delegò il compito di servire ai tavoli a Gelsomina, una donna di mezza età che lavorava stabilmente alla taverna, e mi accompagnò al piano superiore.

  Preparai la tavola mentre lei cucinava, tirando fuori dalle cassettiere la migliore argenteria e un bellissimo servizio di piatti in ceramica. Sembrava che la Volpe fosse abituata a ricevere ospiti illustri. Optai per un cambio d’abiti, non sapendo chi fosse l’invitato. Mi preparai minuziosamente, curando il mio aspetto come non faceva da un periodo troppo lungo.

  Mi resi conto che rientrare nei miei abiti più eleganti mi faceva stare bene, mi faceva sentire a casa, mi faceva sentire a Firenze. Mi faceva sentire la dama che ero sempre stata, la dama che sembrava essersi assopita da quando ero partita per quella tortura.

  Volteggiai per la stanza fingendo un ballo. Non risi di me stessa, risi con me stessa alla luce di quell’unica candela ormai sciolta.

  Era tardi ormai. Scesi salterellando per i gradini, non riuscendo a mantenere la posa altezzosa che mi ero prestabilita. Ero soddisfatta di quel mio cambiamento d’umore. L’allegria mi tingeva gli occhi e gli sguardi biechi di Paride non mi avrebbero toccata.

  Per quella sera non poteva andare meglio.

  Mi misi al fianco di mia madre, che stava accogliendo i tre uomini. La Volpe e il figlio si accomodarono in fretta, il terzo si presentò.

  «Buonasera, mie signore. Voi dovete essere Madonna Caterina» aspettò un cenno affermativo da parte di quest’ultima, che arrossì, «e voi Cecilia, se non erro».

  «Non errate, Messer Machiavelli. È un piacere avervi come ospite» dissi prima di inchinarmi con grazia. Mi stavo comportando davvero come una perfetta padrona di casa, anche se in realtà ero estranea all’abitazione quanto alla famiglia.

  I miei occhi non si staccarono dai suoi mentre compii quel gesto. Lo stavo osservando attentamente, e lui faceva altrettanto. Sembrò appagato da quello che vide.

  «E per me è un piacere conoscervi» chinò leggermente il capo, un sorriso gli stava tirando le labbra.

  Ci sedemmo e cominciammo a mangiare.

  Gli uomini conversarono a lungo di persone che non conoscevo, e sicuramente non si trattava di discorsi di circostanza iniziati per pura cortesia. Gilberto si scaldò parecchio quando il giovane Machiavelli lo informò della situazione della Congregazione Toscana. Mi interessava conoscere l’operato del monaco Savonarola; era anche per i problemi politici della Repubblica che ci eravamo trasferite a Roma, senza sapere nulla della dittatura strisciante dei Borgia.

  Da quando il Magnifico era morto la pace era stata soltanto un’illusione.

  Orde di poveri e fedeli avevano iniziato ad appassionarsi alle prediche del frate, fino a finire coinvolti in una rivolta. La lenta guerra civile stava ancora divorando le parti, stando a quanto diceva il giovane.

  Lo stavo ancora valutando. Il portamento fiero gli regalava un’aria ardita, gli occhi erano vividi, la bocca sottile era serrata in quel che pareva un ghigno perenne.  La carnagione pallidissima era in contrasto con i capelli nerissimi, corti, all’apice di una fronte alta e di un viso ossuto. I tratti erano estremamente comuni, ma il suo modo di fare mi lasciava basita.

  Niccolò Machiavelli era un mago capace di incantare chiunque gli gravitasse attorno.

  «Se non fosse stato per Ezio, l’Ordine…» quando questi iniziò la frase mia madre fulminò la Volpe, che a sua volta fece intendere a Niccolò che era il caso di non continuare. Capì al volo, e si arresto, cambiando velocemente discorso. Si rivolse a me:

  «Voi credete nella libertà, Cecilia?» rimasi colpita dalla domanda. Era totalmente inaspettata, non capivo il collegamento con gli argomenti precedenti.

  «Credo che un uomo senza libertà non sia più un uomo»

  «E cosa mi dite di una donna invece? Una donna senza libertà che cos’è?» era una provocazione molto diretta.

  «Nulla»

  «E voi vi ritenete libera?»

  «Ho il potere di scegliere in cosa credere, quindi sì, mi ritengo libera» dove voleva andare a parare con quella conversazione? Possibile che stesse soltanto sondando le mie argomentazioni? «È una domanda molto soggettiva, la vera questione sarebbe stabilire un concetto di libertà» continuai, tentando di saggiare i limiti che mi imponeva quel dialogo.

  «Temo che sia il potere di scegliere cosa fare» calcò sull’ultima parola, ridimensionando tutto. Lo disse con presunzione, come se la sua fosse una definizione innegabile.

  «Dunque state procedendo verso una dimensione materiale. Non pensate di sottovalutare l’essere?»

  “Ha gli occhi verdi

  «L’azione implica l’essere» odiavo il suo tono saccente e quel suo ghigno.

  «E se fosse il contrario? Non pensate che l’esperienza influenzi ciò che siamo?» andai avanti, animata da uno spirito nuovo, rispondendo alla sua aria di sfida. Finalmente avevo compreso: mi stava studiando.

  “Ma non è un verde normale”

  «Se io sono cattivo, uccido»

  «Ma se voi uccidete, siete cattivo»

  “È un verde così strano…”

  «Da come l’avete detto, non si tratta di diventare, piuttosto di essere, quindi state confermando la mia tesi»

  Strinsi i pugni, pensando alla mossa successiva. Mi stava incastrando quel maledetto, ma non mi sarei mai piegata a dargli ragione.

  “È un verde bello…”

  Aprii la bocca, senza avere idea di cosa dire. Stavo per smontare tutto esclamando un’idiozia qualunque quando Caterina intervenne in modo provvidenziale.

  «Tesoro, potresti aiutarmi a servire il dolce?» Che voce soave!

  «Certo mamma!»

  Si diresse in cucina ed io la seguii a ruota, celere come non mai. La fuga non riuscì come speravo.

  «Adesso siete stata libera di scegliere cosa fare» mi apostrofò Machiavelli, prima che riuscissi a lasciare la stanza.

  «Ero libera di scegliere chi essere» ribattei acida, imitando il suo sorriso assurdo, «e ho deciso di essere una brava figlia e una persona educata». Ero consapevole di aver perso miseramente quella battaglia, eppure decisi che avrei vinto la guerra.

  «E ora, se volete scusarmi, le torte non si spostano da sole» Mi voltai e il sorriso si tramutò in una smorfia. Il mio orgoglio mi suggerì di non tornare; non lo ascoltai.

  Insopportabile. Un verde insopportabile.

 

 

 

Vaneggi dell'autrice

 

In tutta onestà, sono sfinita. 

Questo capitolo per me è una sfida: ditemi voi se l'ho vinta o no. 

Devo dire che sono soddisfatissima, lo amo alla follia, ma allo stesso tempo ho paurissima di aver fatto un disastro. Sono stata all'altezza?

Spero non vi dispiaccia, ma sono quasi sicura che i chap si allungheranno sempre di più entrando nel vivo della storia! 

Vado a rinchiudermi in camera con una stecca di cioccolata, a riflettere su quanto mi abbia sfibrata scivere un dialoghino così piccolo :D 

Un grazie, come sempre, a tutti voi! 

Nel prossimo aggiornamento leggerete i POV di Cecilia (ovviamente *-*), Letizia (?) e della Volpe (<3), e finalmente si entrerà nel vivo della situazione (:

Vi mando un'affascinante ghigno alla Niccolò, 

a presto!

Bea


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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


CAPITOLO VI

 

 

 

"Chi vuol esser lieto, sia:

Di doman non c'è certezza."

Lorenzo il Magnifico

 

 

1 Aprile 1494

Cecilia 

 

 

 

  Alla fine della cena Gilberto mi aveva chiesto di andare a ritirare un pacco alla caserma. Mi ero coricata in fretta, sapendo di dover partire all’alba, tuttavia il sonno aveva deciso di tradirmi. Mi ero rigirata più e più volte, facendo assumere alle coperte le forme più disparate.

  La verità è che non riuscivo più a togliermi dalla testa quel verde brillante, presuntuoso e malizioso. Un verde sorridente, nonostante tutto.

  Il giorno seguente la stanchezza mi aveva tormentato insieme a mille altre fastidiosissime cose. Un esempio delle mie sventure? Gli stessi occhi che avevano inzuppato i miei pensieri si offrirono molto galantemente di scortarmi fino a casa D’Alviano.

  «Mia signora» disse una voce penetrante alle mie spalle, mentre inveivo pesantemente contro il pezzato che la Volpe aveva acconsentito a prestarmi per il viaggio.

  Mi irrigidii, pensando di aver appena gettato all’aria tutti gli sforzi fatti la sera precedente per somigliare alla perfezione in persona. Presi fiato e mi voltai verso Machiavelli.

  L’espressione garantiva una sola cosa: si stava facendo beffe della mia situazione, intuendo i miei pensieri e forse addirittura la causa delle occhiaie che trascinavo in giro.

  «Buongiorno Messere» risposi con tutta la cortesia possibile. Il cavallo dietro di me riprese a sbraitare e scalciare all’impazzata.

  «Vi vedo in difficoltà, permettete che vi aiuti»

  «Non posso fare a meno di ringraziarvi per la vostra immensa gentilezza, ma vedete, posso cavarmela benissimo lo stesso»

  “Sparisci, faccio da sola“

  «Lasciatemi provare, ho un certo ascendente sui cavalli» ribadì quello, sempre ghignando.

  “Pure su quelli?!”

  «Se proprio insistete, prego»

  “Ma non hai nient’altro di meglio da fare?”

  Abbassò il capo a mo’ di ringraziamento e si avvicinò all’indomabile destriero, che entro una manciata di minuti divenne più docile di un mulo da soma. Gli fece indossare le redini e me le porse. Andai per afferrarle con un gesto secco; la mia mano si fermò a mezz’aria, in attesa. Niccolò le aveva spostate all’indietro di qualche centimetro, come se stesse giocando.

  «La mia cortesia ha un prezzo», soffiò sornione, ipnotizzandomi con quegli occhi di prato e di palude.

  “Che cosa? Maledetta, infida serpe…”

  «Converrete con me che questo si chiama ricatto, Machiavelli» stetti al gioco, fingendo una tranquilla indifferenza che era ben lungi dal mio vero stato d’animo.

  «Suvvia Cecilia» quasi rabbrividii sentendo il mio nome pronunciato con quella potenza, «questo implicherebbe, per ipotesi, paura delle conseguenze». Stavo scivolando in quelle iridi compiaciute. «Mi temete, dunque?»

  «Non vi conosco, Niccolò, ma al momento il timore è l’ultima cosa che riuscite a suscitate in me», feci una pausa per valutare la sua reazione. «Comunque, sempre per ipotesi ovviamente, sul piano morale il ricatto può sfruttare anche la soggezione dell’individuo» continuai determinata.

  «Dubito fortemente sia questo il caso» rise con naturalezza, sfruttando un tono basso e affascinante; «o mi sbaglio?» chiese tornando attento, travolgendomi con la sua espressività. Rimanemmo in silenzio per il tempo di un sospiro che non mi concessi, annaspando l’uno nell’altra.

  «Certo che no» piegai all’insù gli angoli della bocca. «C’è un cavallo grigio sul retro, prendete quello»

  «Vi ringrazio, mia signora» mi consegnò le redini e le nostre dita si sfiorarono. Avanzai per sellare l’animale e Machiavelli si mosse verso l’uscita, passandomi a fianco e lasciando che il suo odore mi investisse. Quando fu lontano mi scappò un ringhio ben poco raffinato. Si divertiva a tentarmi in quel modo?

  Provai a sbrigare frettolosamente il lavoro, malgrado la mia inesperienza. A Firenze ci eravamo sempre avvalse dei servigi dello stalliere e, pur sapendo la teoria, non avevo mai bardato un cavallo in tutta la mia vita. Ero intenzionata a scappare via prima che Machiavelli tornasse, però non fu possibile. Mi stava aspettando, già in inforcatura sulla piazzuola, come a dimostrare la sua bravura in equitazione.

  Non sapeva che gli avrei fatto mangiare la polvere.

  «Siete pronto Machiavelli?» mi sistemai sul cavallo con fare esperto, lasciando perdere una scomodissima posa all’amazzone. Lo affiancai celere, attendendo il manifestarsi del suo ghigno.

  «Se non sbaglio non ero io quello in difficoltà» mi prese in giro.

  «Osservazione scontata Messere, state diventando prevedibile»

  «Mai quanto voi, Cecilia». Detto questo partì di slancio, facendo volare il bel purosangue grigio sullo sterrato.

  “Bastardo!” pensai agitata, sorprendendomi dei miei stessi pensieri. Mi buttai all’inseguimento del giovane spronando il cavallo all’impazzata.

  La verità è che aveva anticipato ogni mia singola mossa.

  Corremmo per mezza Roma costeggiando il fiume, sfiorando il Colosseo, salendo e scendendo colli tremendamente estivi.

  A metà strada ci concedemmo una pausa per non sfiancare i cavalli. Cominciammo a ridere con la spensieratezza di bambini intrappolati nel corpo di amanti.

  In seguito parlammo di vita, di passato e di futuro. Discutemmo a lungo, privi della malizia dei dialoghi precedenti, sempre più consapevoli di quello che stava accadendo: l’attrazione reciproca ci stava legando lentamente in una morsa d’acciaio.

  Giunti a destinazione mi lasciò con un baciamano, giustificandosi con un sorriso.

  «Non dubitate, mi piange il cuore al pensiero di lasciarvi qui da sola, tuttavia non posso fare altrimenti» scherzò a cuor leggero, con il solito ghigno di pietra inciso nel volto.

  «Non vi preoccupate Macchiavelli, sono sicura che i vostri servigi salveranno presto la giornata di qualcun altro» risposi con lo stesso tono ironico.

  Ci lasciammo con un sorriso che sbiadì presto.

  Mi incamminai verso il cortile e legai il cavallo. La pesante porta di legno sulla quale bussai rimbombò un paio di volte portandomi il silenzio. Battei di nuovo ma nulla. Girai la grande maniglia e spinsi con lentezza, timorosa di disturbare.

  Nella grande sala non c’era nessuno. Dalla scaletta che portava al piano inferiore si sentivano pericolosi rumori attutiti dalla distanza. Non si trattava di parole, era… era una lotta! Vidi l’ombra di un pugno raschiare l’unica parte visibile di quel livello, cioè un muro di pietra. Mi appoggiai a quest’ultimo per scendere, quatta quatta, verso il feroce combattimento. A metà scala finalmente sentii e vidi tutto: un capannello di uomini stava incitando una rissa. I lottatori coinvolti erano seminudi, sudati e addirittura spruzzati di sangue. Spalancai la bocca in un’espressione sorpresa. Ma che diavolo stava succedendo?

  Un’esclamazione mi fece voltare verso il pianerottolo alle mie spalle. Probabilmente la curiosità mi aveva fatto finire nei guai.

  «Cecilia!» urlò una donna alta e rotonda, fiera nelle spalle e nella linea.

  «Signora!» risalii verso di lei facendo tre scalini alla volta. «Perdonatemi vi prego, non vi era nessuno, mi era stato chiesto di prendere… Io non volevo vedere, cioè, volevo vedere se qualcuno era ferito, ero preoccupata… Mi dispiace!» dissi tutto d’un fiato, lasciando perdere i convenevoli.

  «Suvvia non ti preoccupare cara, scusami se ti ho spaventata, non mi aspettavo di vederti! Anche se forse avrei dovuto» usava un dolcissimo tono materno che non mi sarei aspettata di trovare in lei.

  «Perc…  Oh, certo, il pacco!» ero parecchio scombussolata da ciò che stava succedendo.

  «Aspetta, lo prendo subito» si mise a rovistare nella scrivania. Trasse a se una scatola di legno e me la porse. Era pesante.

  «Mi raccomando, non aprirla! E cerca di non esporla troppo alla vista altrui»

  «Cosa…?»

  «Che cosa contiene non te lo posso dire cara, e questo mi disturba parecchio. Un giorno forse ti sarà dato saperlo»

  Non capivo. Perché così tanta segretezza? Decisi che la mia curiosità sarebbe stata soddisfatta. Almeno in parte.

  «Certo, non intendevo questo» Bugia. «Mi domandavo cosa stessero facendo gli uomini nel seminterrato, se non sono indiscreta» Verità.

  «Oh, non ti preoccupare cara! I mercenari hanno bisogno di tenersi in forma quando la guerra non riempie i loro minuti, così mio marito ha deciso di organizzare un torneo di duelli» mi spiegò con calma, facendola sembrare la cosa più naturale del mondo. Annuii comprensiva.

  «Dunque voi siete…»

  «Giusto cielo, non mi sono nemmeno presentata! Sono Bartolomea Orsini, anche chiamata Signora D’Alviano» disse, sottolineando la sua devozione nei confronti di Bartolomeo.

  «È un onore Signora…»

  «Suvvia, tutti questi formalismi! Chiamami soltanto Bartolomea, ormai sei una di famiglia» mi sorrise con una tenerezza incredibile, dopo aver esclamato la frase con brio.

  «Temo di non capire, sign…»

  «Bartolomea» mi corresse lei.

  «Bartolomea» ripetei io.

  «Comunque ora credo che sia meglio consegnare la cassa alla Volpe» concluse senza spiegarmi nulla. «Scusa Cecilia, ora devo andare, spero di incontrarti presto!» mi lanciò un’occhiata eloquente che non compresi. Fece per andarsene ma la bloccai.

  «Ehm, Bartolomea?»

  «Si, cara?»

  «Sapete dove potrei trovare Letizia?»

  «È al mercato» sembrava ne sapesse molto più di me, infatti aggiunse un “Buona Fortuna” prima di lasciare lo studio.

 

 *

 

   Non avevo idea di cosa mi avesse preso. Non avevo idea di nulla, in quel preciso momento, mentre cavalcavo verso il caotico mercato centrale. Non capivo le allusioni velate di Bartolomea, non sapevo cosa ci fosse di così importante nella mia consegna, non riuscivo a immaginare come mi sarei comportata davanti a Letizia. Eppure stavo entrando a testa alta in quell’arena satura di sete disposte a impregnare la mia sconfitta, pronta ad essere divorata dal leone. Era un leone biondo con occhi di mare, slanciato e robusto, che manteneva una grazia ipnotica nei movimenti. Un leone mediterraneo nei tratti affusolati, con denti bianchissimi che non sorridevano mai. Chissà se l’impronta di quei canini sarebbe rimasta sulla mia gola pallida.

  Il foro romano era addobbato con drappi di ogni colore e conteneva mercanti di ogni etnia. L’odore delle diverse culture si mescolava in modo gradevole e le mille urla regalavano allegria ai monumenti austeri che le circondavano.

  Mi feci strada tra quell’andirivieni di civiltà, strizzando la vista in cerca di Letizia. La borsa di cuoio in cui era avvolto il pacco pesava, ma non mi azzardai a separarmene insieme al pezzato. La trovai intenta a testare un pugnale su un manichino e, mentre progettavo di fuggire, lei mi vide.

 

 

 

Letizia

 

 

  Non c’erano possibilità. Non si sarebbe voltata, non se ne sarebbe andata: doveva affrontare il problema. Lanciò il pugnale e lo vide conficcarsi nella fronte del manichino, poi si diresse a passo spedito verso quella Bardi che non la lasciava in pace.

  Cecilia probabilmente capì che stava per investirla con la sua furia e mise le mani davanti a sé, come per pararsi psicologicamente a parare le stilettate verbali in arrivo.

  Letizia per la prima volta non seppe cosa dire. Doveva insultarla, schernirla o lasciar perdere tutto? Infondo, quello che stava succedendo era insensato. Lei e Gian avevano chiuso, punto. Non poteva mostrare la sua gelosia ai quattro venti! Soprattutto perché non c’era alcuna gelosia. Giancarlo non era nulla, nulla per lei. Mentre effettuava quel ragionamento contorto la rossa prese fiato per parlare.

  «Ascoltami» le disse, approfittando della sua indecisione. «Ti prego»

Letizia la prese per un braccio con violenza. Si allontanarono di qualche metro dalla ressa, in modo da non poter essere ascoltate. Cecilia era visibilmente a disagio, combattuta tra lo spavento e la determinazione.

  «Parla» le intimò la guerriera, ardente di una curiosità nuova.

  «Allora… Io ho capito…»

  «Muoviti!» ruggì impaziente la bionda, insofferente. Sapeva articolare una frase o quelle mille pause erano indispensabili?

  «Io so quello che è successo!» esclamò Cecilia a voce alta, presa in contropiede.

  «Sssh!»

  «Io so che siete stati insieme a lungo, lui mi ha raccontato del… del tradimento, ma io ti assicuro che non c’entro nulla! Finalmente ho capito il motivo del tuo rancore, però non hai alcun movente per essere gelosa, ne di me, ne di altre. Giancarlo mi ha riportato le sue suppliche, parla di te come se fossi il ritratto dell’amore. Detto questo, ti chiedo di chiarire questa storia o per lo meno di smetterla di infilarmi in mezzo a voi, perché non merito il tuo odio» prese il respiro per la prima volta, boccheggiando. L’aveva detto tutto d’un fiato, come se avesse fretta di arrivare all’ultima frase. Restarono a lungo in silenzio. Un po’ perché Letizia stava pensando, un po’ perché si stava divertendo a guardare la faccia atterrita della sua interlocutrice.

  «Perdonami» disse dopo troppo tempo. Il timbro era tranquillo ma gli occhi azzurri erano ancora torbidi. Rifletteva ancora su ciò che aveva appena sentito. Aveva giudicato frettolosamente ciò che non riusciva ad immaginare. Combatteva perché uno dei privilegi era poter guardare il nemico negli occhi. Era abituata ad un bersaglio materiale, mortale, ma come si poteva imparare a vedere i sentimenti?

  Cecilia era sempre più sbigottita. Sicuramente non si aspettava una reazione così calcolata e mansueta, avendo visto soltanto la parte irascibile dell’altra.

  «Certo» rispose stupidamente. «Quindi ne discuterete?» volle sapere, spingendosi troppo in là.

  «Il fatto che io riconosca un mio sbaglio non significa che ora mi butterò tra le sue braccia. Tra non è finita. Non ti conviene immischiarti, piccolo Cupido» anche se imbevuta nell’ironia più nera la sua era, al solito, una minaccia.

  «Quanto siete idioti! Entrambi!» si arrese sbuffando e virò verso il cavallo, lasciando Letizia sola, con i pugni chiusi e il cuore che tremava.

 

 

 

Volpe

 

 

  La sera portò il vento, il vento portò la pioggia, la pioggia portò i lampi ed i lampi portarono la paura.

  Niente poteva andare storto, si convinse nuovamente Gilberto.

  Stava rileggendo i documenti di Bartolomeo per l’ennesima volta.

La mattina successiva doveva informare i suoi uomini: avrebbero gioito.

Da troppo tempo stavano con le mani in mano e le gambe a penzoloni fra i cornicioni; finalmente i ladri avrebbero consumato la noia che li attanagliava da settimane. La Volpe aveva programmato la rapina del secolo: la taverna non fioccava fiorini, cosa poteva esserci di meglio di un carro coperto, destinato allo Spegnolo, pronto per essere svaligiato con appetito?

 

 

Vaneggi dell'autrice

 

 

  Buonasera a tutti! 

  Innanzitutto un grazie di cuore alla bravissima SliteMoon per il tenerissimo disegno di Cecilia! (Non è dolcerrima?!)

Dunque, pubblico il capitolo senza aver riletto l'ultima parte perchè so che non mi piacerebbe e finirei per cambiarla mille mila volte senza attenermi al programma prestabilito nella linea guida. Aspetto con ansia i vostri giudizi su Letizia, è abbastanza credibile la nostra donzalla? 

Ho cercato di rendere verosimile il suo conflitto interiore, non avendo mai provato un dissidio del genere ho scatenato la mia assurda fantasia da psicoanalisi (: 

Spero che non abbiate inteso Cecilia come un'impicciona, in realtà ha cercato di sanare la vicenda per il suo bene in primis! 

La citazione è profetica e si abbina benissimo ai pensieri della Volpe, chissà cosa succederà...

(Io lo so, io lo so ahah!) :D

Mi pare di aver detto tutto. È tardi, sono sfinita, però non ho resistito al pensiero di deliziarvi (spero) con questo nuovo aggiornamento! Adesso corro a letto;

un bacione a chi mi segue e mi preferisce, 

un grazie a chi mi accompagna, 

un sorriso a chi mi legge. 

A presto, 

Bea

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Capitolo 8
*** Capitolo VII - parte prima ***


 

CAPITOLO VII

-parte prima-

 

 

“Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio.”

Sun Tzu

 

 

3 Aprile 1494

 

 

Volpe

 

 

  Una freccia. Un ragazzo cade. Un sussurro viene ucciso dal caos. «Paride», implorava.

  Era suo, era suo figlio. Era suo, era il suo gemito.

  Gilberto si lanciò nel baratro tra i due tetti, stupidamente, per tentare di raggiungere il ragazzo. Tutti i ladri gridavano, stavano per essere massacrati dai soldati dei Borgia.

   Era un’imboscata. Rodrigo sapeva della rapina, e ne aveva approfittato; gli uomini cadevano come pioggia, colpiti dagli arcieri. Erano sbucati da ogni angolo, imprevedibili come la morte stessa, con l’unico scopo di decimare i rapinatori. E ci stavano riuscendo.

  Fortunatamente la Volpe riuscì ad ammortizzare il suo peso. Atterrò in piedi, anche se dopo pochi secondi fu costretto a piegarsi sulle ginocchia: i suoi nervi dovevano ancora assimilare il trauma della caduta. I sensi di assassino lo assistevano, avrebbe potuto benissimo riprendere il controllo della situazione, ma non lo fece. Non gli importava di farlo. Strisciò sui ciottoli di quella periferia senza stelle e raggiunse Paride.

  Sentì il secondo in comando che ululava «Ritirata!», e si rilassò. Non era riuscito a gridare l’ordine, la sua voce si era assopita da qualche parte lungo la gola. Chissà quanti di loro sarebbero riusciti a tornare nei rispettivi punti di controllo. Probabilmente la maggior parte non avrebbe rispettato il piano e si sarebbe fiondata al borgo, incurante di mettere a rischio la segretezza della gilda.

  “Al diavolo!”, pensò Gilberto. Suo figlio respirava, non avrebbe dovuto pensare ad altro.

Gaetano, grande ladro e fedele compagno da tempo immemore, gli si avvicinò, intuendo che qualcosa non andava.

  «Volpe dobbiamo andarcene, cazzo!»

  «Si…» sussurrò lui, rendendosi conto che restava poco tempo. Tentò di alzarsi in piedi mentre Gaetano boccheggiava, incapace di parlare. Aveva visto il corpo scomposto di Paride. Lo prese tra le sue braccia forti con la delicatezza di una balia e, assicuratosi che Gilberto lo stesse seguendo, prese a correre per le viuzze romane.

  Che fare? Decise, come tanti altri, di non seguire gli ordini.

  Imboccò la strada della taverna.

 

 

 

Cecilia

 

 

  Li vidi arrivare.

  Taluni zoppicavano, altri erano coperti di sangue, altri ancora si strappavano gli abiti per ricavarne bende consunte.

  Un inferno. In casa mia.

  Non ebbi il tempo per le domande, iniziai ad aiutare Caterina a stendere i casi più gravi sui tavoli della Volpe Addormentata. Fortunatamente quella sera la taverna era chiusa, sarebbe stato difficile spiegare ai clienti quell’orrore.

  Mentre mia madre disinfettava gli uomini, io ero impegnata ad accendere candele e a posizionarle in ogni angolo. Stavo per ultimare il mio compito e iniziare ad occuparmi dei casi meno gravi quando la porta si spalancò nuovamente. Due uomini in verde mi portarono il corpo insanguinato di un anziano. Con un grido Caterina mi disse di occuparmene; ordinai a quelli che sembravano soldati di stenderlo sull’ultimo posto disponibile. Mi avvicinai al bancone ed esaminai il corpo: il viso e il busto erano color corallo. Tolsi gli abiti e pulii la pelle, senza sapere cosa fare. Il vecchio ansimava. Versai dell’acqua sul primo boccale trovato e lo appoggiai sulle sue labbra pallide.

  Con disgusto, guardai il liquido fuoriuscire da un foro laterale sulla gola.

  La vista mi si annebbiò: stavo per svenire.

  Delle mani grandi e forti mi appoggiarono, giusto in tempo, su una delle panche di legno. Dopo pochi minuti ripresi padronanza della mia mente e capii che stavo guardando il dottore del borgo.

  «Ha un buco, un buco sul collo» gli suggerii con voce atona.

  «Lo so piccola, non pensarci, esci di qui» disse frettolosamente, senza degnarmi di uno sguardo. Mi alzai in piedi. Caterina non si era accorta di nulla, era china su un altro tavolo.

  «No, ditemi cosa fare». Il medico mi scrutò, valutando la mia determinazione.

  «Sai cucire?»

  «Si», era il passatempo insegnato a ogni bambina dell’alta società.

   «Allora tieni» mi passò l’ago e il filo che stava infilando nella ferita. Si allontanò stringendomi una spalla, come per farmi forza. Andai avanti con la sua opera, ricamando la vita su quella pelle stanca. Ogni tanto imbevevo d’acqua uno straccio e bagnavo la bocca esangue del vecchio. Ripetei lo stesso procedimento per quelle che sembrarono ore, anche quando seppi che il mio paziente non respirava più.

  Il dottore mi trovò con gli occhi fuori dalle orbite e le mani intente ad infilare punti sul cadavere. Avevo fatto in tempo a ricucire ogni taglio, anche il più minuscolo.

  «Piccola, basta, non ce n’è più bisogno» mi prese i polsi e mi costrinse con delicatezza a lasciar cadere gli arnesi.

  «Mamma» sussurrai quando arrivò. L’omaccione le passò le mie mani e lei le pulì con lo stesso straccio umido che avevo appena smesso di usare. Fu un gesto simbolico: ci sarebbero volute settimane per togliermi di dosso tutto il sangue rappreso.

  Mi accompagnò all’esterno. Sulla piccola piazza un minuscolo esercito si agitava come una foglia al vento. Alcuni arcieri erano appostati sui tetti e miravano la strada. Chi stavano aspettando?

 

 

 

 

Volpe

 

 

   «Arrivano!» gridò Gaetano, correndo troppo lentamente verso il borgo.

  La Volpe gli copriva le spalle, cercando di allontanare la fanteria rossa del papa. Nella sua testa rimbombavano gli echi di ricordi scaduti: aveva ferito Paride troppe volte. Se ne era reso conto, finalmente, e ora avrebbe combattuto soltanto per poter guardare negli occhi il figlio e sussurrargli il suo pentimento. L’aveva condannato ad una vita che non voleva, era stato sacrificato ad un credo che non gli importava.

  Una freccia sibilò arrabbiata, tremendamente vicino al suo orecchio sinistro. Veniva dalla direzione sbagliata. Un barlume di speranza di accese in lui: i ladri avevano organizzato la resistenza, non tutto era perduto!

  Entrarono finalmente nelle file alleate e sentirono un’ovazione alzarsi dalla gilda. La Volpe vide Caterina e ordinò a Gaetano di affidarle Paride: non avevano tempo da perdere, dovevano combattere.

 

 

 

 

 

Vaneggi dell'autrice 

   

  Innanzitutto, scusate. Mi dispiace per questo tremendo ritardo, non succederà più! La scuola ha interamente occupato quest'ultimo mese, ma vi prometto che l'estate mi renderà più proficua. Potrete mai perdonarmi?

  Ho spezzato il settimo capitolo perchè dal punto di vista logico era meglio così. Questa è un'introduzione alla seconda parte, che arriverà tra una smilza settimana. Per tenervi concentrati e attenti potete farmi delle domande riguardo la storia e il futuro, svendo spoilerS :D Se magari le accompagnate ad una corposa recensione mi fate davvero felice :3 Ovviamente risponderò entro certi limiti!

  Ringrazio chi è passato per di qua anche dopo troppo tempo, vi adoro, vi adoro, vi adoro. 

  Un abbraccione avvolgente,

Bea

  

 

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Capitolo 9
*** Capitolo VII - parte seconda ***


CAPITOLO VII

 

-parte seconda-

 

 

 

Cecilia

 

 

  La Volpe si preparava a combattere. Lo vidi salire rapido sulla sommità della casa più esterna, estrarre l’importantissima scatola di Bartolomeo, prendere dal suo interno due sfere di metallo e lanciarle verso l’esercito di sangue che stava per invadere la nostra silenziosa notte.
  Ero paralizzata dallo sgomento. Mi guardavo intorno e non capivo. Come poteva un minuscolo paesino nascondere un’armata? E perché mai i Borgia avrebbero dovuto attaccarla?

Riuscii a spezzare la maledizione che mi bloccava i piedi solo grazie alla paura: i globi, nel toccare il terreno, avevano scatenato un’esplosione di fumo nero. Urlai come una bimba, attribuendo le cause dell’avvenimento al demonio. Gaetano mi si avvicinò trascinando un corpo molle; riconobbi il volto di Paride, le guance pallide e gli occhi chiusi. L’uomo mi intimò il silenzio, spiegandomi che quella era una bomba fumogena.

  «Sangue di Giuda, smettila di agitarti! Dove diavolo s’è ficcata tua madre?» ringhiò, sovrastando il rumore di un’ondata di frecce. Mi voltai per fargli strada verso la taverna, dato che la mia gola non collaborava. Gaetano mi prese per la spalla, la stessa spalla che poco prima era stata stretta gentilmente dal dottore, e mi costrinse con uno strattone a voltarmi. Una freccia si infranse sul terreno, a pochi metri da noi.

  «Non c’è tempo» mi disse il guerriero, «Portalo dentro, fa’ il possibile, tienilo al sicuro! Va’ ora, via, via!»

  Portalo dentro. 

  L’erede della Volpe pesava. Lo trascinai, a peso morto, verso la bottega del dottore. Era la soluzione più vicina, non sarei riuscita a trasportare il corpo ancora a lungo. L’udito mi avvertì che il tempo delle frecce era finito: ora il clangore delle spade saturava l’aria.

  La porta era chiusa a chiave. Dovetti spaccare la finestrella e aprire la serratura dall’interno, perdendo un sacco di tempo prezioso. Entrai, ma non riuscii a raggiungere il lettino per i pazienti. Il corpo pesava, pesava troppo, ed io ero debole. Avanzai verso un piccolo angolo adibito alla sperimentazione e alla preparazione di medicinali e feci aderire la mia schiena alla base di un armadio. Stesi le gambe sul pavimento e vi inserii il busto di Paride, in modo tale che la sua testa poggiasse sulla mia coscia.

  Cercai di calmarmi, di ritrovare il respiro, di asciugare le lacrime, di avviare il cervello; ma la triste verità era che non avevo la più pallida idea di cosa fare. Mi sentivo totalmente impotente, sapevo di essere assolutamente inadeguata per il compito che mi era stato affidato.

  Fai il possibile.

  Mi alzai con delicatezza, adagiando il capo sul pavimento. Iniziai a percorrere il laboratorio, analizzando tutti gli oggetti che mi potevano essere utili. Presi un cuscino e una coperta dal letto del dottore, accesi la candela del comodino e portai il tutto al mio paziente. Lo esaminai, senza trovare segni di arma da taglio. Mentre lo spogliavo, mi accorsi che una botta violacea si allargava sul suo sterno, in direzione del cuore. Quest’ultimo pulsava, lento come il respiro flebile che non l’aveva ancora abbandonato.

  Presi un secchio d’acqua e gli misi un largo panno bagnato sulla lesione, rinfrescandolo. Lavai via il sudore freddo dalla fronte e dalle guance, passando per la bocca piena e il naso dolce. Era innegabile la somiglianza con una qualunque statua greca: il fisico forte appena accennato, le proporzioni perfette, il volto pieno e aggraziato. Paride era bello.

  Tesi l’orecchio e capii che le spade e le grida si stavano avvicinando.

  Tienilo al sicuro.

Percorsi la casa ancora una volta alla ricerca di un’arma. Se i Verdi fossero stati sopraffatti, chissà cosa avrebbero fatto i Borgia. Odiavo pensare al conflitto in quei termini, odiavo non essere messa al corrente delle cose. Avevo visto molte stranezze da quando era giunta a Roma, ero stata investita da frasi profetiche senza senso; quella notte la verità aveva deciso di svelarsi, tuttavia io non ero ancora pronta per comprenderla.

  Afferrai un sottilissimo bisturi e mi allacciai alla cintura un’enorme forbice argentata; era il massimo di cui potevo disporre.

  Lo spazio dedicato alla toelettatura ospitava uno specchio, grande ma poco raffinato. Il mio riflesso risultava distorto e poco preciso. I capelli raccolti erano dello stesso colore delle macchie sull’abito, e vedendo il mio stato riuscivo soltanto a rabbrividire: delle occhiaie profonde modellavano le mie guance come solchi sulla creta, il candore che solitamente mi contrastingueva era moribondo.

  I minuti scorrevano lenti come anni. Mi scivolavano addosso, ed io non potevo far altro che accogliere il loro passaggio sulla mia spossata figura.

 

 

  «Padr…» iniziò ad ansimare per lo sforzo. Paride cercò di issarsi, ma il dolore esagerato lo fece desistere. Mi precipitai verso di lui e mi posizionai in modo da reggergli la testa.

  «Sei a casa. La Volpe è qui fuori, si sta scontrando con dei soldati dei Borgia. Gaetano ti ha affidato a me, ti ho nascosto nella bottega del dottore» gli spiegai con calma, lasciandogli il tempo per intendere le mie parole.

  «Chi…» faticava a respirare per via del colpo sullo sterno; «Chi… sei?», mi chiese strizzando gli occhi viola.

  «Sono Cecilia, ti ricordi di me?» forse anche la testa non era completamente illesa…

  «No!». Una sillaba violenta, forte, che voleva dire una sola cosa: no, Paride non mi voleva lì.

Mi sentii crollare, non riuscii a rispondere.

  «Vattene da qui, va… vattene da… Roma» il poco vigore recuperato era stato usato per dirmi di andarmene.

  «Perché?»

  «Adesso che lo sai useranno anche te per la loro guerra… come hanno fatto con me. O magari la principessina Bardi deve… deve essere… protetta» sembrò vomitare una risata folle.

  «Io sono stato generato per uccidere, io sono solo una fottuta discendenza… Tu, tu Bardi, non c’entri un cazzo con tutto questo, a te è concesso starne fuori, la principessina non deve sapere del sangue che inzozza le nostre mani innocenti…» parole crudeli, lanciatemi addosso con una violenza inaudita. Gli occhi viola lampeggiavano, lucidati da un energico furore.

  «Stai delirando» smisi di guardare quelle potenti iridi e mi concentrai sulla ferita. Feci per prendere il panno ormai caldo ma la sua mano bollente imprigionò la mia.

  «Forse puoi ancora scegliere, forse… forse sei ancora… in tempo. Scappa prima che ti sfruttino, principessa, vai il più lontano possibile da me e dalla mia famiglia»

  Non lo presi sul serio. Mi liberai dalla presa e continuai con la mia mansione, in silenzio. Lui seguì il mio esempio, sentivo solo il suo respiro sfiancato sbattermi sul collo.

 

 

  «Cecilia!» mi svegliai di soprassalto, stordita. Poderose voci maschili urlavano il mio nome in lungo e in largo, preoccupate. Scattai come un fulmine e mi precipitai fuori dalla porta, con i muscoli indolenziti e gli occhi socchiusi.

  «Siamo qui!» risposi, e subito Gaetano, il più vicino, mi raggiunse sollevato.

  «Ho fatto quello che mi hai chiesto» gli dissi, mentre lo accompagnavo verso il corpo ancora addormentato di Paride.

  «Ti ringrazio, ragazza» sorrise dolcemente e mi diede una pacca sul braccio. La sua energia mi fece barcollare, e l’uomo se ne accorse, imbarazzato. «Scusami», brontolò reggendomi in piedi, «Sei così leggera… ».

  Mentre Gaetano controllava il ragazzo giunse anche la Volpe. Mi guardò con i suoi occhi penetranti, come se volesse trasmettermi un messaggio che andava oltre ad un semplice ringraziamento. C’era di più, e a breve l’avrei scoperto.

 

 

  Entrammo nella locanda, dove i feriti gorgheggiavano ancora. La luce dell’alba rendeva tutto meno soffocante e più sopportabile. Caterina appena mi vide mi accolse tra le sue braccia, lasciando perdere per un attimo il suo stuolo di vittime. Mi feci cullare come una bambina: finalmente ero al sicuro. Non avevo mai temuto per la mia vita, non avevo mai dovuto subire situazioni così stressanti prima di quella notte. Forse aveva ragione Paride a chiamarmi principessa, ero nata e cresciuta in un intoccabile castello di cristallo. Il momento di crescere, purtroppo, era arrivato anche per me.

  «Ho detto che sto bene, brutto idiota, è solo un graffio!» sentii una voce familiare che inveiva contro il povero dottore, nell’angolo più scuro della cantina. Lasciai la presa di mia madre e mi precipitai in direzione di quello scompiglio.

  Giancarlo era seduto su una delle botti, il polpaccio sinistro grondava sangue.

  «Gian!» mi avvicinai celere verso di lui.

  «Era ora piccola Cecì, mi ero quasi preoccupato» rise, incurante di ciò che stava accedendo.

  «Cosa diamine ti è successo?» gli occhi sgranati passavano dal suo sorriso al suo “graffio”.

  «Una freccia mi ha preso di striscio. Ti avevo avvertito riguardo la sana antipatia per quei figli di puttana, no?!» mi fece l’occhiolino. Una risata incredula mi salì alla bocca. Sì, quel ragazzo era davvero assurdo. Giancarlo capì quello che stavo pensando e ridacchiò a sua volta, baciandomi sulla fronte.

  «Va’ a riposarti adesso, stai per esplodere» mi raccomandò con dolcezza fraterna.

  «Solo se ti fai curare» ribadii seria.

  «Eddai Bardi, non ti ci mettere anche tu!»

  «Per favore» sfoderai la peggiore imitazione di occhi dolci della storia. Mi scoppiò a ridere in faccia.

  «Sembri il cadavere di uno scoiattolo! Per Dio, smettila, fai paura!»

  «Non ho proprio fatto effetto? Nemmeno un po’?»

  «Sta bene, lo faccio solo per il tuo sforzo»

  «Ti ringrazio» sospirai seria.

  «Adesso muoviti, noi ci vediamo dopo»

  Mi trascinai al piano superiore prima di sentirlo urlare nuove imprecazioni.

 

 

 

Vaneggi dell'autrice 

 

È un vero piacere tornare, dopo troppo tempo! Shame on me, mi vergogno un sacco. 

Spero non vi siate dimenticate di Cecilia e delle sue avventure in questo lunghissimo mese! 

Capitolo corto, lo so, ma essendo spezzato doveva andare così. E poi sentivo l'esigenza profonda di dover postare, ora che grazie al cielo l'ispirazione è tornata *-* 

Sono certa che non mi abbandonerà per un po', e state certe che io non abbandonerò voi :3

Un bacione, mie fedeli! Questa storia la dedico a voi. 

Bea

 

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Capitolo 10
*** Capitolo VIII ***


CAPITOLO VIII

 

 

“Ognun vede quel che tu pari. Pochi sentono quel che tu sei.” 

Niccolò Machiavelli

 

 

 

La Volpe

 

 

Salì al piano superiore, convinto di non trovare nessuno. Si sbagliava: Cecilia era raggomitolata su una poltroncina verde del salotto, intenta a guardare l’alba attraverso una delle piccole finestre della casa. Gilberto fece un paio di passi verso di lei.

  «Vedo i loro corpi che bruciano» sussurrò.

  «Cecilia…»

  «Avevano una famiglia, delle madri, dei figli… Chi li consolerà adesso?» la sua voce era priva di qualsiasi inflessione, vuota.

  «Questa è la guerra» provò a spiegarle, sapendo che non avrebbe trovato un senso nelle sue parole.

  «Guerra?! Siedo di fronte ad un inutile massacro! Decine di vite spezzate, mi sembra di sentire le loro urla…» si portò le mani alle orecchie, come a non voler ascoltare il suono dei pensieri.

  «Sicura che non fossero le nostre?» provò a chiedere, cercando di farla ragionare. Doveva essere cauto, o Cecilia non avrebbe capito la situazione.

  «Non ci siete voi, laggiù, tra le fiamme!» scattò in piedi alzando il tono.

  «Ci sono molte cose che ancora non sai, ascoltami…»

  «Mi fido di ciò che i miei occhi hanno visto! Quando un fornaio è diventato un arciere, quando un sarto è divenuto un guerriero, quando un locandiere si è trasformato in assassino?» ormai urlava, sul suo volto erano palesi i segni dello sfinimento.

  «Ancora prima che tu nascessi» rischiò la Volpe, consapevole del fatto che la ragazza non sapeva di aver colto nel segno; «come mio padre prima di me, come tuo padre prima di te»

  «Di che diavolo stai parlando?! Io e la mia famiglia non centriamo nulla in questa storia! Io sono qui soltanto per…»

  Caterina spuntò dalle scale alle sue spalle. Piangeva. Probabilmente era riuscita a sentire un pezzo della conversazione.

  «Non avrei mai voluto che tu dovessi subire le conseguenze di una mia scelta…»

  «Tu eri a conoscenza di tutto» sembrava stesse per svenire, tutta la determinazione di prima era sciamata sotto il peso di quella rivelazione. La Volpe fece un altro passo avanti, pronto a prenderla nel caso si fosse accasciata, ma Cecilia barcollò all’indietro, sbattendo contro i mobili. Non desiderava il suo aiuto.

  «Ho cercato di proteggerti, ho provato a nascondere…»

  «Mi hai portata qui, conscia di ciò che sarebbe potuto succedere! Tu non hai idea… Ho pregato tutta la notte per avere la forza di usare un coltello! Aspettavi che qualcuno mi passasse a fil di lama prima di dirmi la verità?!»

  «Ora basta Cecilia, non serve a niente ferirla!» intervenne Gilberto, avvicinandosi a una Caterina ormai disperata.

  «Non azzardarti mai più a darmi ordini, tu non sei mio padre, e non lo sarai mai! Potrai avere lei, ma non riuscirai mai ad imbrogliare me!»

  Scappò via, verso le scale. La Volpe fece per prenderle il braccio, però a metà dell’azione si fermò. La ragazza si era girata a guardarlo, e la sua espressione era paragonabile soltanto a quella di un animale totalmente indifeso, pervaso dal terrore di essere catturato.

 

 

 

Niccolò Machiavelli

 

 

  «Vi stanno cercando, madonna» disse Machiavelli, quando la ebbe quasi raggiunta.

  «Mi stanno o mi state?» rispose Cecilia voltandosi a guardare quegli occhi d’un verde insopportabile. Niccolò si sedette sulla grigia pietra che costituiva la sponda del Tevere e iniziò a fissare i piedi nudi della ragazza, intenti a tuffarsi tra le lievissime onde.

  «Io vi ho trovata» sorrise, mentre pensava a quanto fosse stancante darle del voi quando avrebbe soltanto voluto stringerla tra le sue braccia.

  «E ora mi riporterete indietro, non è così?» il bel viso si piegò in una smorfia delusa.

  «Sono qui per scongiurare un’ulteriore fuga, non per costringervi a tornare»

  «E come volete convincermi?» domandò ironica, convinta che nessuno stratagemma l’avrebbe fatta tornare a casa, «dicendomi forse che i miei occhi e le mie orecchie mi hanno ingannata?»

  «Assolutamente no, affermo il contrario. Sono qui per spiegarvi che ciò a cui avete assistito non è null’altro che un minuscolo dettaglio di un conflitto molto più esteso, che dura da centinaia di vite» voleva suscitare in lei la curiosità necessaria ad affrontare una conversazione tanto assurda quanto importante.

  «Non vedo come questo possa cambiare i fatti, ma vi ascolto»

  «Ricordate il nostro diverbio sulla libertà, Cecilia?» questa annuì, memore di un passato prossimo in cui tutto sembrava più semplice.

  «Esiste un Ordine che permette alle persone di effettuare una scelta fondamentale, che altrimenti non sarebbe concessa»

  «Ovvero?»

  «Quella tra l’ignoranza e la sapienza. Noi ci impegniamo a difendere il libero arbitrio, in modo che le persone possano intraprendere la via della conoscenza»

  «Questo discorso sta degenerando» ribatté stizzita, «Io voglio sapere perché delle persone sono morte sulla soglia della mia casa, non sono qui per farmi circuire dai vostri discorsi astratti!»

  «Pensavo fosse più semplice per la vostra mente da sognatrice affrontare in primis il punto di vista etico» ironizzò Niccolò, senza spazientirsi per i suoi modi bruschi.

  «Dicevo, prima che mi interrompeste» Cecilia gli lanciò un’occhiataccia; «Che un’altra organizzazione minaccia il nostro operato da secoli: i Templari»

  «Cosa cercano questi Templari?» Machiavelli si accorse di aver catturato l’attenzione della ragazza, anche se si ostinava ad usare il tono sarcastico, tipico di chi non ha fiducia nelle parole altrui.

  «Il controllo. Sono convinti che la popolazione non sia in grado di autogestirsi e abbia il bisogno costante di un sovraintendente che la guidi, oppure la sottometta. La loro ossessione è il potere, in ogni sua forma; lo desiderano, lo necessitano per completare il loro piano: condannare lo stato a un’oligarchia amministrata dal loro Ordine»

  «Davvero terribile» esclamò Cecilia, fingendo di essere preoccupata, «tuttavia non comprendo come questo possa aver a che fare con…»

  «Siate paziente, ve ne prego, ho quasi concluso» Niccolò si trattenne dallo sbuffare. «Penso voi possiate immaginare chi è l’attuale Magister Templare»

  «Io non…»

Da quando i Borgia hanno fatto chiudere tutte le scuderie”

“Ti avevo avvertito riguardo la sana antipatia per quei figli di puttana, no?!”

  «Il Papa?!»

  «Il Papa»

  Seguì un momento di silenzio, in cui ognuno era concentrato nelle proprie riflessioni. Niccolò rifletteva su quanto fosse importante per lui essere convincente, Cecilia meditava sulla possibile veridicità di un’apparente follia.

  «Cos’è successo l’altra sera?» chiese la ragazza, infilandosi le dita tra i capelli.

  «Sono costretto a fare un’ulteriore precisazione, perdonatemi. Il nostro gruppo, non essendo numeroso, vanta diverse alleanze con compagnie minori ma altrettanto rilevanti: i mercenari, le cortigiane e i ladri. Questi ultimi sono suddivisi in gilde, e il capo di quella fiorentina, trasferitasi adesso a Roma per monitorare l’influenza dei Borgia sulla città, è la Volpe. Ovviamente Gilberto è anche un importante membro della Confraternita degli Assassini, altrimenti non sarebbe autorizzato a guidare una parte così essenziale dell’Ordine»

  «Insomma, state dicendo che io ho convissuto con dei ladri fino ad ora! Aspettate… cos’avete detto?» domandò ad un tratto, divenendo ancora più pallida, come se avesse rielaborato la sua spiegazione e si fosse accorta di qualcosa che non andava.

  «Che Gilberto è a capo della gilda romana e che è a tutti gli effetti un valido membro della Confraternita…»

  «Degli Assassini» finì lei, aspettando un chiarimento. Probabilmente la testa le stava per esplodere.

  «Dunque questo riassume tutto ciò che vi disturba?»

  «Un nome dice molto, Messer Machiavelli» replicò offesa.

  «È l’interpretazione che fa la differenza. Sfruttiamo l’omicidio, tuttavia agiamo soltanto nell’interesse del popolo. “Assas”, nell’antica lingua islamica, significa guardiano. Ciò non ha nulla a che vedere con atti di crudeltà oppure vendette fuori luogo, ci impegniamo a proteggere chi non ha una voce, chi non ha la forza necessaria a lottare, garantendone il benessere. Vi sembra così sbagliato?» la provocò, sapendo di aver ragione. Cecilia non ribadì, preferì concentrarsi sulle nuove informazioni.

  «Parlatemi di ieri notte. O magari avete qualcos’altro da aggiungere?!» le uscì con cattiveria. Era davvero stanca, voleva i fatti.

  «La gilda ha bisogno di fiorini per mantenere la sua attività, e quelli della taverna bastano a malapena. Rodrigo Borgia ha fatto arrivare da San Geminiano un carico d’oro destinato al figlio Cesare e la Volpe ha voluto sfruttare il momento per arricchirsi. Sembravano soldi facili, invece si è rivelata una sanguinosa imboscata» concluse Machiavelli, aspettando la reazione di Cecilia.

  «Capisco» disse quella, facendo calare su di loro una grave quiete.

  «Sono un’ipocrita» la rossa spezzò il silenzio dopo un lasso di tempo che pareva infinito ad entrambi.

  «Per quale ragione dite questo?»

La ragazza si tolse le mani dalla chioma rossa e le portò sui grandi occhi, segnati da pesanti occhiaie.

  «Non ho mai desiderato tanto ardentemente la morte di qualcuno. Quando ho visto i loro corpi privi di vita, ammassati in un angolo, scomposti e spezzati… Io ho gioito, perché ero in salvo».

 

 

 

Cecilia

 

 

  Avevo vagato per tutto il giorno. Ero riuscita a dormire un paio d’ore, togliendo le spranghe che avvolgevano una scuderia vicina al centro città. Mi ero infilata nello scuro edificio di legno e avevo costruito un giaciglio di paglia che aveva ospitato per poco i miei sogni tetri.  Al mio risveglio mi ero diretta al fiume per rinfrescarmi, ed era apparso l’immancabile Machiavelli, l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento.

  Dopo una filippica abbastanza persuasiva mi propose di tornare alla Volpe Addormentata. Accettai annuendo, desiderosa di ritrovare un letto comodo e pulito. Decisi che avrei riflettuto in seguito sulla nostra conversazione. Mi sembrava una situazione completamente surreale, eppure inventarsi tutto solamente per farmi tornare non avrebbe avuto senso… Vero?

Mi trascinai verso quella che avevo imparato a chiamare casa, ed in men che non si dica mi ritrovai davanti alla porta della taverna. Niccolò mi fece entrare per prima, con un sorriso di incoraggiamento. Presi un respiro, varcai la soglia e mi ritrovai davanti a Caterina. Mi abbracciò con forza, le lacrime brillavano silenziose sulle sue guance. Inutile dire che non ricambiai quella manifestazione d’affetto, ero ancora incredibilmente arrabbiata.

  Gilberto ci raggiunse subito dopo, salutò con un cenno il mio gentile accompagnatore e mi cercò con lo sguardo, in attesa. Lo fissai a lungo, conscia di avere iridi di marmo. Sostenne il peso dei miei occhi nei suoi fino a quando decisi di aver vinto quella sfida.

 

 

  Dopo un sonno ristoratore ed un bagno bollente potei dire di star bene, per lo meno fisicamente. La mia mente voleva oscurarsi, ritardando il momento in cui avrebbe dovuto trovare una spiegazione plausibile per gli ultimi avvenimenti.

  L’unica certezza era la rabbia che muoveva ogni mio gesto: mentre un incedere militare mi trascinava da una parte all’altra della stanza ricordavo, tremante, l’abbraccio di Caterina.

Ero stata tradita dalla persona che amavo di più al mondo. Non c’erano mai stati segreti tra noi, e non riuscivo a credere che mi avesse taciuto una cosa di tale rilievo.

  “Dannazione, ne andava della mia incolumità!”

Si era mostrata sinceramente pentita e solennemente dispiaciuta, tuttavia non ero disposta a perdonarla, non ancora; aveva compromesso drasticamente la mia fiducia, ora avrebbe dovuto impegnarsi per riconquistarla. Pensava davvero di trascinarmi verso una trappola simile senza subirne le conseguenze?

Un abbraccio e una manciata di confessioni non mi bastavano.

  Mi sedetti con malagrazia sul pavimento freddo. Appoggiai la testa al materasso e decisi di passare alla questione più complessa: la Confraternita degli Assassini.

Assurda verità o elaborata menzogna? Ero certamente più propensa a credere alla prima ipotesi, eppure tutte le prove erano a sfavore della mia irruenta teoria.

Ero riuscita a vedere la gilda in azione, in compenso però nulla mi confermava che agisse dalla parte del giusto.

I concetti di Niccolò erano estremamente affascinanti, forse potevano passare per convincenti, ma il fine riusciva davvero a giustificare i mezzi?

  “I guardiani del popolo”, pensai allora con una smorfia, non gli omicidi. Avevano scelto un’etimologia veramente raffinata, d’effetto, poco ma sicuro.  

  Ormai ero certa che la faccenda non fosse una montatura, sarebbe stato sciocco inventare una cosa simile solamente per impressionarmi.

  Poteva ancora trattarsi di invasati, pronti a sacrificare delle povere anime per scopi malsani… E invece no, purtroppo per me anche su questo punto Machiavelli era stato chiaro: nessun innocente, solo per la libertà.

  “Che fastidio”, sbuffai, non riuscendo a venire a capo della questione.

  Era inaccettabile l’idea di considerare la Volpe innocente.

  Una falla, in quel Credo di Santi, doveva pur esserci. Decisi che l’avrei trovata, a tutti i costi.

 

 

Una settimana dopo

 

 

  Risi alla battuta di Giancarlo. Grazie alle cure immediate del dottore si era ripreso completamente, e aveva deciso di dedicarsi un po’ a me. Eravamo stesi all’ombra del nostro grande albero, al di sotto delle mura romane, ed il mio amico non faceva altro che contagiarmi con la sua ilarità. Ero davvero felice delle sue attenzioni, mi sembrava di essere ritornata al mio primo giorno in quella sventurata città: mia madre aveva occhi solamente per il suo nuovo amore, mentre quest’ultimo cercava di conquistare disperatamente la mia fiducia. Paride mi ignorava placidamente.

Grazie a Dio non ero sola contro tutti, altrimenti non sarei mai riuscita a resistere all’isolamento, volontario o no che fosse. Passavo molto tempo in compagnia degli amatissimi libri, anche se i veri sorrisi delle mie giornate erano dedicati a Gian, o addirittura a Niccolò. Tra noi due si era sviluppato un rapporto particolare, costituito principalmente da una salda alchimia. Rimasi di stucco quando si avvicinò all’alto frassino per annunciarci la sua partenza.

 

 

 

Niccolò Machiavelli

 

 

  Fortunatamente Giancarlo capì l’ordine che gli lanciava con lo sguardo: dopo una breve conversazione si alzò, bisbigliò all’orecchio di Cecilia una scusa che la fece ridere e si allontanò. Finalmente avrebbero potuto parlare in privato.

  «Non riesco a comprendere la vostra reazione a questa notizia» iniziò Niccolò, perplesso. La ragazza si riscosse, abbandonando i suoi ragionamenti e tornando alla realtà.

  «Dunque, vi confido che il mio cuore oramai è irrimediabilmente scisso in mille pezzi» scherzò, allestendo una tristissima voce da teatrante, «Tuttavia penso di riuscire a sopravvivere! Sono sicura che il pensiero di voi, l’inestimabile Messer Machiavelli, intento a proteggere il mondo, mi sarà in qualche modo di conforto» concluse, trattenendo un sorriso.

  «Noto che la simpatia è una vostra fedele compagna» ironizzò lui, porgendole le mani. Lei accettò l’aiuto offerto e si alzò in piedi. Erano incredibilmente vicini, come mai erano stati fino ad allora. Ebbe il tempo di constatare che Cecilia gli arrivava alle spalle.

  «Non starò certo qui a farmi prendere in giro da voi» provò ad allontanarsi, fintamente offesa, ma lui le tenne saldamente i polsi. La trasse a se, in modo da farle capire che non aveva possibilità di fuga. Si guardarono, iride nell’iride, e Machiavelli giurò a se stesso di tornare presto.

  «Vi scriverò» disse serio.

  «È una minaccia?»

  «È una promessa» sorrise enigmatico. Si allontanò da lei con uno sforzo immane.

S’inchinò e portò la mano destra della ragazza alle labbra. Depositò un bacio garbato sulle dita pallide, soffermandosi un paio di secondi più del necessario.

  Quel gesto significava mille cose; si chiese quante ne avrebbe indovinate Cecilia.  

 

 

 

Cecilia

 

 

Quella sera si mise a grandinare. I chicchi, grossi come noci, rimbalzavano furiosi sui tetti, regalando un ritmo alla notte e togliendo il sonno agli uomini.

Entrai nella taverna e la vidi deserta, come lo era stata nell’ultima settimana. Non capivo di preciso perché l’avessero chiusa, e mi ripromisi di domandare chiarimenti a qualcuno. Salii le scale, e seppi di essere sola anche in casa. Accesi un lume, lo posizionai sul tavolo della cucina. Mi tolsi il mantello fradicio e iniziai a preparare un panino, la mia frugale cena. Stavo per addentarlo quando sentii i passi di Gilberto vicini; avanzai verso il salotto, pronta ad accoglierlo. Avevo imparato a riconoscere i suoi passi felpati, non sarebbe più riuscito a prendermi di sorpresa. Mi piazzai in mezzo al corridoio, sicura che non avrebbe potuto evitarmi. Vidi la sua espressione sorpresa nel vedermi lì, immobile.

  «Ho bisogno di parlarvi» esordii con slancio, fissando i suoi profondi occhi viola.

  «Va tutto bene?» domandò lui cauto, pronto per l’ennesima sfuriata.

  «Certo» risosi con determinazione.

  «Ci sediamo?» fece un gesto accomodante verso le poltrone.

  «No» lo vidi in difficoltà. Non capiva cosa volessi da lui, e al momento non lo sapevo più nemmeno io. Mi scrutò confuso. Riordinai i concetti e…

  Indagare, ecco cosa dovevo fare! Indagare… dall’interno.

  «Voglio diventare una ladra».

 

 

Vaneggi dell'autrice 

 

Dunque, questo è il capitolo 8, uno dei più importanti, e oggi è l'8 dell'8, ovvero il mio compleanno. 

Ho voluto postare un capitolo significativo in una data significativa.

Devo dire che sono felicissima del risultato, mi sono impegnata un sacco e spero vi piaccia almeno un terzo di quanto lo amo io :D 

Vado a festeggiare, regalatemi quanti più pareri possibili *-* 

Un bacione, grazie ragazze!

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