30 Days of Karneval

di AsanoLight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First Day: Soft ***
Capitolo 2: *** Second Day: Tired ***
Capitolo 3: *** Third Day: Tender ***
Capitolo 4: *** Fourth Day: Defeated ***
Capitolo 5: *** Fifth Day: Anger ***
Capitolo 6: *** Sixth Day: Broken ***
Capitolo 7: *** Seventh Day: Melancholy ***
Capitolo 8: *** Eigth Day: Jealousy ***
Capitolo 9: *** Ninth Day: Goosebumps ***
Capitolo 10: *** Tenth Day: Optimistic ***
Capitolo 11: *** Eleventh Day: Pessimistic ***
Capitolo 12: *** Twelth Day: Promise ***
Capitolo 13: *** Thirteenth Day: Alone ***
Capitolo 14: *** Fourteenth Day: Home ***
Capitolo 15: *** Fifteenth Day: Patience ***
Capitolo 16: *** Sixteenth Day: Rivalry ***
Capitolo 17: *** Seventeenth Day: Protective ***
Capitolo 18: *** Eighteenth Day: Secrets ***
Capitolo 19: *** Nineteenth Day: Sleep ***
Capitolo 20: *** Twentieth Day: Meter ***
Capitolo 21: *** Twenty-First Day: Kiss ***
Capitolo 22: *** Twenty-Second Day: Winter Chalet ***
Capitolo 23: *** Twenty-Third Day: Family ***
Capitolo 24: *** Twenty-Fourth Day: Infatuation ***
Capitolo 25: *** Twenty-Fifth Day: Doubt ***
Capitolo 26: *** Twenty-Sixth Day: Bastard ***
Capitolo 27: *** Twenty-Seventh Day: Composed ***
Capitolo 28: *** Twenty-Eighth Day: Revenge ***
Capitolo 29: *** Twenty-Ninth Day: Rebirth ***
Capitolo 30: *** Thirtieth Day: Autumn ***



Capitolo 1
*** First Day: Soft ***


Hirato era gentile.
Akari lo sapeva bene.
 
Aveva avuto modo di fare l'abitudine, con il passare degli anni, a quel soave tocco che accarezzava la sua pelle ed al respiro del moro, cadenzato, ma in qualche maniera anche avido e desideroso di lui.
 
Lo sfiorava con dolcezza, con la stessa delicatezza che si serberebbe per una bambola di porcellana, con il timore di poterla rompere.
 
Il comandante della seconda nave lasciava scorrere con serafica tranquillità i suoi occhi lungo il corpo del dottore, scrutandone ogni minimo dettaglio. Lo ripercorreva poi con le sue dita, partiva sempre dalla mascella e ne seguiva la linea mentre il suo volto si illuminava di un comprensivo sorriso.
 
I suoi occhi di ametista si avvicinavano a lui, il suo naso sfiorava improvvisamente quello del medico.
 
E in breve, il cuore di Akari si bloccava nel suo petto.
Un bacio sulle labbra, un respiro rubato, una carezza tra i capelli.
 
Hirato era davvero gentile.
Ed Akari non sapeva resistergli.

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Capitolo 2
*** Second Day: Tired ***


Guardava l'orologio e si accorgeva che erano le due del mattino.
Un'altra notte a fare gli straordinari.
Lo faceva per amor del suo lavoro, tutti lo sapevano, ma certe volte nemmeno lui riusciva a reggere quei ritmi.
Si muoveva così con passi stracchi e pesanti fino al suo studio e non faceva nemmeno in tempo a spogliarsi del suo camice che già si era ritrovato con gli occhi chiusi sopra il suo divano.
 
Rimuginava prima di addormentarsi, attendendo che fosse Morfeo stesso a prendergli una mano e condurlo verso il mondo dei sogni.
Pensava a cosa avrebbe dovuto fare l'indomani e, tra uno sbadiglio e l'altro, si rigirava sullo stretto sofà cercando il calore nel suo camice ed attendendo ansiosamente il dì del ritorno di Hirato.
Faceva già sue le sensazioni che gli avrebbe suscitato l'averlo accanto a sé, in quelle notti che allora gli parevano così tristi e solitarie.
 
Si passò una mano tra i suoi capelli di rosa e posò l'assopito sguardo sulla Luna, con gli occhi ancora semichiusi.
Da qualche parte, il comandante la stava a sua volta guardando e questo, in parte, lo rassicurava.
 
Vibrò il cellulare nella tasca del camice.
Un messaggio.
 
«Buonanotte, Akari».
 
Un augurio, che suonava caldo come un abbraccio.
Il dottore sorrise senza rispondere.
Posò la testa sul cuscino e richiuse gli occhi.
 
E nel frattempo, Morfeo lo stava già portando lontano.

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Capitolo 3
*** Third Day: Tender ***


Tsukumo arrancava respiri. La battaglia era stata strenua ma nonostante ciò era riuscita a non uscirne gravemente ferita.
Ancora una volta aveva dimostrato il suo valore come guerriera della Seconda Nave.
Era proprio fiera di sé.
 
Jiki atterrò e le corse incontro.
«Va tutto bene?», chiese tendendole la mano in un sorriso.
 
Tsukumo annuì timidamente e pose altrove lo sguardo.
«Sì, grazie, sto bene. Ho solamente perso il controllo del dispositivo quando quel Varuga mi ha colpito e sono caduta».
 
«Puoi camminare...?», domandò preoccupato.
Non attese una sua risposta e le poggiò una mano sulla spalla.
 
La ragazza fece per scostarla ma venne tirata in uno stretto abbraccio.
Jiki era caldo e rassicurante.
 
Sorrise e stringe un lembo della sua giacca, accarezzandogli le scapole.
 
Disapprovava la sua schiettezza ma quel suo lato 'tenero' ed altruista la faceva sorridere.
Avrebbe anche potuto perdonargli la sua sfacciataggine, per quel caloroso abbraccio che gli stava in quel momento dando.
 
«Tsukumo-chan, ti sei ingrassata», le mormorò in un sussurro avvicinandolesi all'orecchio.
 
O forse no.

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Capitolo 4
*** Fourth Day: Defeated ***


«Piove»
 
Tokitatsu osserva fuori dalla finestra del suo ufficio e sospira.
 
Il rumore delle gocce che tintinnano sul vetro e sul marmo del davanzale è sublime.
Prende la scatola delle carte da tavolo che custodisce gelosamente nel cassetto della sua scrivania e comincia a costruirci un castello.
 
Hirato lo guarda seduto sul sofà mentre sorseggia un bicchiere di vino rosso e gli accenna un sorriso.
 
«Proprio come ai vecchi tempi».
Si esprime in un nostalgico commento poi si zittisce di nuovo, aspettando una risposta dal fratello.
 
Tokitatsu si desta ed osserva il castello reggersi in piedi da sé.
«Ti ricordi di quando facevamo insieme i castelli di carte...? Il mio cadeva sempre. Mi meraviglio che questo stia in piedi. E' come se ora, tutto abbia finalmente preso una piega più realistica».
 
«Il nostro lavoro è lasciare i sogni ai bambini che corrono dietro a Nyanperowna e costruire per loro un mondo che possa dargli coraggio a sufficienza per spingere a realizzarli».
Il comandante si pronuncia, freddo e distaccato come sempre, quasi voglia fargli una morale.
 
Tokitatsu sospira ed aggiunge una carta alla costruzione.
«Sei sempre stato così, Hirato. Non hai mai avuto nessuna aspirazione te, eppure hai sempre avuto tutto dalla vita».
 
«Geloso?», lo punzecchia il fratello.
L'ufficiale scuote la testa.
 
«Onestamente»
 
Non da una vera risposta.
 
«Il tuo compito è difendere il mondo con le parole, il mio con le mani», gli spiega Hirato bevendo dal rosso calice, «Ma entrambi siamo incaricati di difendere qualcuno».
«Se fosse necessario, per ordine del Governo, tu mi manderesti a combattere. Ed io non te ne farei una colpa. Sei mio fratello, ma prima di tutto sei un ministro della Difesa».
 
Tokitatsu gli sorride.
Con quelle parole, era come se l'unico ed essere meschino fosse lui.
 
«E se un giorno il governo ti chiedesse di uccidermi invece? Tu cosa faresti allora?».
Glielo domanda, ma sa già che il fratello arginerà la questione molto astutamente.
 
Hirato si volta e inarca un sopracciglio.
«Se hai la coscienza pulita non hai di che preoccuparti».
 
Era solo un comandante, ma per qualche misterioso motivo era più bravo di lui nell'uso delle parole.
 
Sorride guardando il suo castello di carte crollare.
Era proprio suo fratello.

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Capitolo 5
*** Fifth Day: Anger ***


Lo vede inoltrarsi per i corridoi della Seconda Nave ed il cuore gli balza all'improvviso in gola.
Stringe i pugni e distoglie lo sguardo nascondendosi dietro il primo muro che trova.
 
«Rabbia», bofonchia cercando di dare un nome a quella sensazione.
 
Lo stomaco è in agitazione, diventa una foresta di farfalle e le mani, d'un tratto, cominciano a sudargli.
 
«Fa che quel bastardo non si accorga di me»
 
Se lo augura ma nemmeno lui lo desidera veramente.
Indietreggia e sbatte contro la parete.
Hirato interrompe allora il suo cammino, impunta entrambi i piedi e si volta nella direzione di Akari sfoggiando un meraviglioso ma divertito sorriso.
 
Si è accorto di lui.
 
Guance tutte rosse, ed in breve scosta altrove lo sguardo mentre corruccia la fronte.
Akari è davvero irritato.
 
«Sapeva che lo stavo osservando. E' peggio di quanto avessi mai potuto immaginare»
 
Hirato gli sorride serenamente e gli viene incontro.
Akari può sentire i battiti del suo cuore aumentare.
Strizza gli occhi chiudendoli, serra la bocca e digrigna i denti.
 
Troppo tardi.
Le labbra di Hirato hanno già raggiunto le sue.
 
«Rabbia», si ripete.
 
Poteva solo che essere rabbia, quel miscuglio di emozioni che si agitava nel suo animo ogni volta che permetteva al comandante di prendersi gioco di lui così facilmente.
 
Poi, in un secondo, quel contatto si interrompe.
Hirato sta ancora sorridendo.
 
«Bastardo», gli rimprovera Akari, rosso in volto.
Ma Hirato sa cosa si cela realmente dietro a quell'insulto e non può fare a meno di sogghignare compiaciuto e baciarlo di nuovo.
 
Akari è visibilmente arrabbiato e questo basta a lasciar andare il comandante sereno e soddisfatto.

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Capitolo 6
*** Sixth Day: Broken ***


Si infilò quanto più rapidamente possibile il camice indosso.
Non voleva pensarci.
Non voleva davvero pensarci.
 
Il volto pallido del comandante, il suo corpo, pieno di ferite ed imbrattato di sangue.
I brandelli di stoffa dei suoi vestiti e la sua bocca esanime, semiaperta, come se stesse ancora tentando di respirare.
Hirato si aggrappava disperatamente alla vita, non lo dava da vedere ma Akari poteva intuire che stava ancora combattendo.
L'avevano portato immediatamente alla Torre di Ricerca, sottoposto ad ogni genere di operazione pur di salvarlo.
 
Akari era stanco e distrutto.
Con la testa stretta tra le mani e lo sguardo inchiodato al pavimento, tirava profondi respiri per soffocare delle lacrime che il suo orgoglio non gli permetteva di versare.
Ma c'era del dolore nel suo bigio viso.
C'era della vera sofferenza nel suo animo.
 
Se la Morte fosse stata una persona, le avrebbe sicuramente chiesto di portarlo via con sé.
Non avrebbe retto di vederlo in quelle condizioni ancora a lungo.
Si sentiva tradito.
 
Entrò nella camera in cui era stato ricoverato e si sedette affianco al suo letto.
Hirato respirava sommessamente, con la bombola dell'ossigeno attaccata e fili che disperatamente lo trattenevano nel mondo dei viventi.
Il dottore gli strinse una mano, pallida ed emaciata e ne baciò timidamente il dorso in un profondo respiro.
 
«Da quando sei diventato così debole?»
 
Quelle parole gli erano quasi scivolate dalle labbra ma Akari non sapeva realmente a chi fossero rivolte.
Si sentiva impotente davanti al corpo sfiorito del comandante. Qualunque cosa avesse voluto fare per poterlo aiutare non sarebbe servito.
Niente dipendeva più da lui, oramai.
E questo lo faceva dannatamente arrabbiare.
Con se stesso. Con la vita. Con il mondo.
 
Ma Hirato era forte, era uno degli assi nella manica della Tavola Rotonda, era sempre riuscito a tornare vittorioso.
Eppure-
 
Interruppe ogni pensiero e restò ad ascoltare il cardiografo, che registrava i lenti battiti del cuore del comandante.
Gli cominciava davvero a dare l'ansia.
Temeva che uno di quelli potesse essere stato l'ultimo.
 
Poggiò la testa sul materasso, accanto alla mano di Hirato, e gliela strinse.
E per un istante, sperò che fosse stata quella stessa mano ad accarezzargli la testa l'indomani al suo risveglio.

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Capitolo 7
*** Seventh Day: Melancholy ***


Gareki scrutò Yogi con occhi di cenere.
La foresta dei suoi dorati boccoli si rifletteva nel suo sguardo strappandogli il respiro.
 
Avrebbe voluto chiedergli di lui, di raccontargli la sua storia, dirgli chi fosse prima di venire su quella nave.
 
Che genere di infanzia aveva vissuto?
Che studente era stato quando aveva frequentato la Chrono Mei?
Cosa si celava veramente dietro a quel suo sorriso?
 
«Ehi tu»
 
Gareki ne richiamò l'attenzione, velando la sua voce con un tono cinico.
 
«La tua euforia quasi mi disgusta»
 
Yogi sorrise, si vedeva lontano un miglio che era rimasto colpito ed al contempo deluso dalle sue fredde e distanti parole.
 
Solo i pagliacci hanno bisogno di ridere e far ridere gli altri, Gareki l’aveva sempre pensato.
Ma dietro quella loro maschera...
 
«Che dici Gareki-kun? Bisogna sempre sorridere al nuovo giorno!».
 
Dietro quella maschera
Scavando in quegli occhi
 
Gareki poteva quasi riconoscere una familiare malinconia.
Pagliaccio. Si sentiva un pagliaccio.
 
Si gettò all’indietro sul materasso e chiuse gli occhi in un profondo respiro.
 
Sorridere.
Era un qualcosa che non era mai stato abituato a fare.

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Capitolo 8
*** Eigth Day: Jealousy ***


Carezze, baci ed abbracci.
Era tutto quello che Tokitatsu aveva sempre più desiderato, nel profondo del suo cuore.
 
Era sempre stato un po' invidioso delle attenzioni che il dottor Akari aveva sempre riservato al fratello, geloso di quel tocco attento e subdolamente desideroso di lui.
Di quegli occhi avidi e di quella bocca che sembrava bramare di sfiorargli la pelle e ripercorrere ogni angolo del suo corpo con la lingua.
 
Ma adesso, quel tocco era finalmente suo.
Ora quelle mani scorrevano lungo il suo torso, gentili e soavi, e il fratello non avrebbe potuto fare niente per impedirlo.
Akari, in quegli istanti, aveva occhi solo che per lui.
 
Il dottore scorse con le dita lungo la sua sudata schiena.
 
Tokitatsu espirò profondamente in un gemito non appena sentì i suoi polpastrelli premergli su una vertebra.
Doveva essere un'emozione che Hirato non aveva mai provato, ne era certo.
 
«Ancora»
 
La voce dell'ufficiale gli morì nella gola.
Un brivido lo scosse.
 
«Ancora?», domandò perplessamente il medico.
Le mani si allontanarono dal suo corpo ed accarezzarono la superficie della scrivania facendosi pronte a compilare un certificato medico.
 
«Se hai problemi con la schiena vai da un osteopata e non farmi perdere tempo -che a quello ci pensa già tuo fratello-».
Così borbottò e lo invitò a congedarsi dalla visita di routine.
 
Il biondino si riallacciò malvolentieri in un affranto sospiro la camicia e se ne uscì dallo studio del dottore.
In quel momento incrociò i violacei occhi del fratello.
 
«Cosa c'è, Tokitatsu? La visita non è stata di tuo gradimento?».
Uno sguardo compiaciuto che sprizzava malizia.
 
Nove anni di differenza non bastavano a fargli guadagnare il rispetto del fratello.
 
«Entra, Hirato»
 
Il comandante si alzò non appena sentì il dottore richiamarlo.
Rifilò un vittorioso sorriso a Tokitatsu e se ne entrò fiero nello studio.
 
L'ufficiale non avrebbe mai capito cosa avesse di tanto speciale quel comandante per essere il favorito di Akari.
Non sapeva nemmeno come quei due fossero entrati in quel circolo vizioso, fino ad arrivare a desiderarsi l'uno con l'altro nonostante i loro bisticci.
Ma aveva capito che c'era qualcosa di grande che li teneva uniti e che nessuno sarebbe riuscito a spezzare quel vincolo.
 
Tokitatsu ci rimuginava e sorrideva mestamente.
 
«Accidenti, Akari-chan si è già portato via Hirato? Da una parte quasi lo invidio».
Tsukitachi gli venne incontro e gli si prostrò in un modesto inchino.
 
Soffocò una risata.
Non importava quanto sventurato fosse.
Ci sarebbe stato sempre, al suo fianco, qualcuno sfortunato quanto lui.

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Capitolo 9
*** Ninth Day: Goosebumps ***


Un tocco, ed ha la pelle d'oca.
 
Le stringe la mano e la osserva con occhi supplichevoli, implorandola di fermarsi.
Piccole perle di acqua marina le accarezzano il corpo.
Ha la bellezza di una sirena e lo sguardo di una bambola di porcellana.
 
Ma nonostante ciò, sfoggia l'eleganza di una tigre.
E' intraprendente, solitaria, combattiva.
 
Se solo si lasciasse domare come le altre...
 
Eva aveva charme, aveva tutte le carte in regola per superla in bellezza.
Aveva un corpo maturo, un seno prosperoso e qualunque abito le si addiceva.
Tsukumo-chan invece aveva una puerile beltà, ma a lui piaceva comunque.
Era dolce, gentile, soave.
 
Era perfetta.
 
«Fermati un attimo»
 
Glielo chiede implorandola con occhi sinceri.
La sirena obbedisce freddamente e si lascia avvicinare.
 
Jiki le sfiora il viso mentre le sue gote si tingono di rosso e si toglie gli occhiali.
 
La giovane chiude gli occhi spaventata ma non oppone una vera resistenza a quello sguardo, curioso e penetrante.
Un dito le sfiora dolcemente la guancia poi, d'un tratto, Jiki si allontana da lei e tutto finisce.
 
«Eri sporca di cioccolato», le spiega compiaciuto.
 
Tsukumo si sfiora il viso con una punta di delusione e malinconia.
 
Un tocco, ed ha la pelle d'oca.

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Capitolo 10
*** Tenth Day: Optimistic ***


Yogi è una persona ottimista.
 
Ha sempre il sorriso sulle labbra ma ha la tendenza a comportarsi in maniera infantile.
 
Tuttavia, è ottimista.
 
Crede in quello che fa.
Non pensa mai all'eventualità di fallire nei suoi intenti.
 
Ama gli altri, perfino più di quanto ama se stesso.
Darebbe la vita per coloro che considera 'famiglia'.
 
Per questo si batte fino allo strenuo pur di difendere le persone più importanti per lui.
Per questo non si arrende mai, non importa quante ferite possano venire inflitte sul suo corpo.
 
Lui si rialzerà sempre, mostrando quel suo sorriso, che agli occhi di Gareki sarebbe degno di un pagliaccio.
Perché è quel sorriso a dargli la forza di andare avanti.
Una spinta a non mollare mai, nemmeno davanti alla più fatale delle ferite.
 
Si piega su se stesso, i muscoli contratti dal dolore.
Il dottor Akari gli accorre con il terrore nello sguardo.
 
Lo sente urlare disperato ma i suoni gli giungono ovattati e confusi.
 
Chiude gli occhi.
Il suo volto si illumina di un sorriso angelico.
 
«Lo sa, dottor Akari?, che nonostante mi stia urlando contro, adesso non mi fa più paura?».
 
Soffia quelle ultime parole e si spegne sereno.
 
Yogi era una persona ottimista.
Per la sua famiglia, aveva dato la vita.

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Capitolo 11
*** Eleventh Day: Pessimistic ***


Nota dell'autrice: Questa Flash-Fic è un seguito a Broken.



La notte era lunga ma Akari lo sapeva bene.
 
Il cardiografo sembrava scandire i suoi respiri, le luci nella stanza erano state spente da un po’ e tutto era stato in breve avvolto dall’oscurità. La gelida luce della Luna filtrava dalle finestre illuminando il pallido volto del comandante.
 
Strinse più forte la sua mano.
Faceva male.
Vedere Hirato in quelle condizioni faceva un terribile male.
 
Il respiratore attaccato, la flebo al braccio, le bende insanguinate.
 
Il torace si alzava e si abbassava lentamente.
Erano piccoli sospiri che non facevano che incrementare l’ansia di Akari.
 
«Mi dispiace», confessò racchiudendo la mano del comandante tra le sue, «Avrei dovuto oppormi, Hirato, impedire a quelli della Tavola Rotonda di mandare te. Avrei dovuto insistere per mandare avanti qualcun altro. I guerrieri a Circus non mancano».
 
Giunti a quel punto, quanto utili si sarebbero veramente potute rivelare le parole?
Ma Akari non voleva pensarci.
 
Non voleva essere pessimista né prendere minimamente in considerazione l’eventualità di non poter più vedere gli occhi di Hirato aprirsi, le sue labbra baciarlo, la sua voce prendersi gioco di lui e provocarlo.
 
Il pensiero di poterlo perdere lo terrorizzava.
Si era imposto di continuare a stargli vicino e cancellare ogni traccia di pessimismo dal suo animo.
 
Doveva venirlo a trovare non appena aveva un istante libero, tra un turno e l’altro, come se Hirato potesse veramente sentire la sua vicinanza.
Doveva parlargli, come se Hirato potesse veramente sentirlo, come se le sue parole potessero veramente curarlo.
 
Se solo fosse bastato quello a salvarlo, Akari l’avrebbe fatto.
 
«Bastardo»

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Capitolo 12
*** Twelth Day: Promise ***


Gli afferrò i polsi stringendoli e lo sbatté sulla scrivania. Akari gli cacciò un'occhiata ribelle, come quella di un animale quando viene catturato, i ciuffi dei suoi rosa capelli umidi ed appiccicati alla sua madida fronte.
Hirato piegò le secche labbra in un soddisfatto e smaliziato sorriso e se le leccò senza cessare nelle sue spinte.
 
«Impagabile»
 
Gli si avvicinò subdolamente all'orecchio e ne leccò il lobo preparandosi a morderlo con i suoi canini mentre scavava sempre più in profondità, esplorando quel fragile corpo, violandolo con l'impeto di una fiera.
Akari lasciò andare un gemito. Secco, rauco, strozzato.
Era piacere. Era dolore.
 
Il comandante non se ne curò.
Quel dolce suono gli faceva dannatamente perdere la testa, sollevando nel suo animo una procella di confusi sentimenti.
 
L'immagine del dottore, costretto sulla scrivania del suo ufficio mentre si lasciava mansuetamente dominare, era da definirsi un’esperienza unica che necessitava che ne fosse fatto tesoro.
Fece scorrere le labbra lungo il suo collo e, dopo avergli scoperto il camice, vagò con le sue attente ed inguantate mani sotto la camicia, stringendogli i turgidi capezzoli.
 
«S-Stai fermo, bastardo!».
Akari si pronunciò in un ordine che venne tuttavia rigorosamente ignorato da Hirato.
 
Vide il dottore farsi rosso in volto mentre affogava tra gli affanni.
Raggiunse le sue labbra e le baciò avidamente mentre gli divaricava maggiormente le gambe.
Si addentrò sempre più a fondo in quel corpo suscitando in Akari piaceri non sporadici.
 
«Che stupenda vista c'è da quassù».
Fu un commento che sfuggì non accidentalmente dalla bocca del comandante, provocando il risentimento del dottore.
 
Ma oramai era troppo tardi per fare obiezioni.
Hirato aumentò le sue spinte, il dolore tramutò completamente in piacere e, per qualche istante, Akari, con la mente annebbiata, si dimenticò di tutto.
 
Del suo lavoro. Delle sue responsabilità.
Del passato e del futuro.
 
In quell’istante esisteva solamente il presente.
 
Nulla era più piacevole del riaprire gli occhi e scoprire il comandante della Seconda Nave con la fronte appoggiata sul suo petto, mentre respirava ansimante.
Nulla era più doloroso del sapere che quegli attimi erano destinati ad essere effimeri.
 
Akari si riallacciò il camice.
Hirato tirò su la cerniera dei pantaloni e rindossò la sua tuba.
 
L'uno dava le spalle all'altro.
Con un bacio si salutarono.
 
Nulla era più doloroso del rimanere solo con se stesso ed i propri dubbi.
 
«Tornerai?», domandò Akari, accarezzando la superficie della scrivania, ancora calda.
Hirato appoggiò la mano sulla maniglia della porta, senza tuttavia aprirla: «Tornerò».
 
Per entrambi, quelle erano mere parole.
Ma, nel profondo dei loro cuori, entrambi avrebbero voluto che fosse una promessa a cui tener fede.
 
Qualcosa in cui credere e sperare, quando il resto del mondo avrebbe smesso di farlo.

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Capitolo 13
*** Thirteenth Day: Alone ***


«Gareki! Gareki!»
 
Gareki tirò un greve sospiro e le rivolse un'occhiata risentita.
«Cosa diavolo vuoi?».
 
Tsubame accennò un affabile sorriso trattenendo con entrambe le mani i lembi della sua trasandata e sozza gonna, stracolma tuttavia di castagne:
«Guarda quante castagne! Tsubaki ha detto che se raccogliamo a sufficienza per tutti e quattro, stasera le arrostirà per noi! Dai, non restare lì impalato, datti una mossa!».
 
«No, grazie. Penso che stasera non cenerò», bofonchiò Gareki di rimando imbronciando il volto e dandole le spalle, «Adesso non ho nemmeno fame e non penso che ne avrò per quando sarà l'ora di cena».
 
Il vento gli accarezzò i capelli.
Quello non era il suo posto.
Non era la sua casa.
 
«Gareki, dove vai?».
Tsubame gli afferrò il polso trattenendolo preoccupata.
 
«Vado a fare quattro passi»
 
«Non stare lontano troppo a lungo. Lo sai che è pericoloso, quando scende l'oscurità e-!».
 
Il ragazzo grugnì in un accenno del capo.
 
In un flebile ed affranto sospiro, Tsubame gli liberò il polso e lo lasciò andare via col vento con il cuore strozzato in gola e l'amaro in bocca, come quando si restituisce la libertà ad una meravigliosa farfalla.
Non l'avrebbe potuto trattenere in eterno.
Era un'amara verità che le bruciava tuttavia in fondo al cuore.
 
Quelle sue mani un giorno sarebbero diventate troppo deboli per poterlo fermare.
 
«Resta»
 
Ma Gareki era già scomparso.

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Capitolo 14
*** Fourteenth Day: Home ***


Questa Drabble è un seguito di Alone

«Gareki-kun! Dove vai?»

Yogi gli si avvicinò preoccupato, sfoggiando uno sguardo triste e lacrimoso al sospiro stressato del ragazzo.
 
«Vado a farmi quattro passi»
 
«Ma-»
 
«Tranquillo, mica fuggo»
 
Cacciò entrambe le mani nelle tasche e gli rivolse un’occhiata d'intesa con un piglio beffardo.
Il biondo gli sorrise di rimando.
 
Poteva fidarsi.
 
«Dove vuole tornare Gareki?»
Le parole di Nai gli rimbombarono nitide nell'anima.
 
Sogghignò compiaciuto e si voltò.
 
Yogi era ancora lì, a guardarlo con i suoi occhi da cucciolo ed il suo sorriso da pagliaccio.
 
"Non c'è posto dove voglio tornare"
 

"Voglio solo restare"

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Capitolo 15
*** Fifteenth Day: Patience ***


Nota dell'autrice: Questa Flash-Fic è un seguito a Broken e Pessimistic.



«Ti faccio una tazza di cioccolata calda?».
Hirato annuisce lanciando un'occhiata fuori dalla finestra.
Il sole sta tramontando sul mare ed il paesaggio è tinto di variopinte tonalità di arancione e viola.
 
«Le infermiere non si arrabbieranno se mangio fuori pasto?».
Lo domanda ma nemmeno lui se ne preoccupa davvero.
 
«Non si arrabbieranno se è il dottor Akari a viziarti».
Risponde freddamente e gli carezza una guancia.
 
Settimo giorno di degenza ospedaliera.
 
«Pazienta», si ripete dentro di sé, «E tutto passerà da sé».
 
Ad Hirato non è ancora permesso di scendere dal letto e provare a camminare ma Akari è ostinato.
Teme davvero che non possa più tornare a camminare.
Non si cura di cosa dicono i suoi colleghi, lui stesso è un dottore.
Lui stesso è il primo a doversi prendere cura di Hirato.
 
La notte cala rapidamente e l'equipe di medici che si aggira per la Torre di Ricerca si decima notevolmente.
Lo aiuta ad alzarsi dal letto e lo costringe a fare qualche passo per il corridoio.
 
Il comandante gli abbraccia la nuca con un braccio, con l'altro si appoggia ad una stampella e gli zoppica vicino, con una serena espressione dipinta nel volto.
«Sono felice di poter camminare al tuo fianco, Akari. Te ne devo una per esserti preso cura di me».
 
«Pazienta», si ripete, «E tornerà ad essere forte».
 
Hirato continua a zoppicare.
Ogni suo passo stentato grava sul cuore del medico.
 
L'"Hirato" che conosceva non era così debole.
"Hirato" combatte e non soccombe alle disgrazie.
 
«Perché non ti sforzi di camminare solo con la stampella anziché appoggiarti a me?»
 
Hirato sorride e capisce.
Non servono parole per leggere l'impazienza e la preoccupazione di Akari.
Lo lascia e fa come suggerito.
 
«Ce la fai?».
«Ce la faccio».
Mente spudoratamente.
A stento si regge in piedi.
 
Si spinge per qualche passo poi si blocca.
Smorza un sorriso davanti al freddo sguardo di Akari.
 
«Ho capito», il medico si esprime in una smorfia di disapprovazione e gli afferra un polso, «Torniamo indietro. Non è ancora ora».
 
«Pazienta», si diceva, «E tutto passera da sé».

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Capitolo 16
*** Sixteenth Day: Rivalry ***


«Che fai, fratellone?»
«Sto giocando, non vedi?»
«Non sei un po’ cresciuto per giocare con i pupazzetti?
«Sta' zitto. Qui l'unico troppo cresciuto per la sua età sei tu»
 
Tokitatsu guardò di bieco il fratello e riprese a montare il suo modellino. Lo ammirò nella maestosità dei suoi ventisette centimetri d'altezza, nel suo rosso minio sgargiante; l'eroe del suo  show televisivo preferito era stato assemblato con successo ed ora era pronto a vincere il male.
 
«Voglio essere come lui», gli disse scompigliandogli i capelli, mentre si portava fiero e soddisfatto di se stesso un pollice al petto, «Andare di città in città e vincere il male con i miei superpoteri! Essere un idolo e venire amato e stimato da tutti!».
«Tu...? Superpoteri?», lo schernì Hirato senza tuttavia mutare la sua apatica espressione, «Onii-chan, dove pensi di andare te, che ti spaventi alla vista di una lucertola?».
 
Tokitatsu arrossì imbarazzato, ferito nel suo orgoglio, e si mise a braccia conserte, elucubrando sulla maniera più civile nella quale rispondergli mentre gli rivolgeva un'occhiata giudiziosa.
«E sentiamo un po', mister “so-tutto-io”», borbottò allora altezzosamente, «Tu invece non hai aspirazioni? Non vuoi fare nulla di speciale nella tua vita?».
 
«Onestamente»
 
Hirato si prese una lunga pausa di riflessione, una pausa che snervò perfino Tokitatsu, che pure era una persona piuttosto paziente.
Nel fiore dei suoi sedici anni, si sentiva terribilmente preso in giro dalla superbia del fratello di otto.
 
«Beh?», chiese irritato mentre riprendeva a montare il suo modellino, «Hai bisogno di altro tempo per pensare?».
«No», disse l’altro sedendosi per terra e rivolgendo lo sguardo verso il tavolo, «Ho deciso».
 
«Penso che andrò a scuola, mi diplomerò, troverò un lavoro e finirò per sposarmi con una bellissima donna ed avere una stupenda famigliola. Così potrò vivere sereno e tranquillo il resto dei miei giorni».
 
"Che ragionamento maturo, per un moccioso di otto anni", sibilò sottovoce Tokitatsu, nella speranza che il fratello non l'avesse sentito, "Trasuda sarcasmo da ogni parola".
«Ci stai serio?», chiese il sedicenne dissimulando interesse.
 
«Ovviamente», rispose Hirato lasciando passare un'altra eterna pausa prima di aggiungere un secco: «No».
«Lo immaginavo. Cosa ne capisci tu della vita? Hai solo otto anni! Dovresti essere più concreto nei tuoi progetti!»
«Sei proprio tu che credi che i supereroi esistano e che la gente possa volare a proprio piacimento e salvare il mondo da fantomatici mostri a parlare?»
«Prendimi pure in giro, ma se l'anno prossimo riuscirò ad entrare alla Chrono Mei, ti farò vedere io chi è il supereroe! Scommettiamo?»
«Fai come ti pare», concluse il fratellino in una smorfia tediata.
«Vediamo... S riesco a diventare un supereroe», meditò Tokitatsu, «Tu sarai costretto a metterti l'orecchino!»
«Che razza di scommessa è mai-»
«Non ti va a genio?», domandò in un piglio beffardo il sedicenne.
Hirato sbuffò: «Niente affatto. Sono le donne a portare gli orecchini!».
Il ragazzo, noncurante, sorrise: «Lo so. Sarà la punizione per esserti preso gioco di me! Ti farò vedere io, chi è il supereroe!».
 
Sbadigliò rigirandosi sul divano e piegò la testa verso una figura, illuminata dai nitidi e stupendi colori del tramonto.
«Oh, ehi, ti sei svegliato finalmente, dormiglione», disse Tokitatsu alzandosi dalla scrivania e venendogli incontro. Gli accarezzò affettuosamente i capelli e gli porse i suoi occhiali.
Hirato ringraziò in un affabile sorriso e si mise a sedere, ancora frastornato.
«Che ore sono?», domandò. Il fratello gli arrise compiaciuto «Le cinque, pigrone».
«Capisco», replicò.
 
Fece per alzarsi e dirigersi verso la porta ma un pensiero improvviso gli attraversò la mente in un lampo.
«Ah, Tokitatsu, prima che mi dimentico, c'è una cosa che volevo dirti da un po'».
 
«Complimenti per l'orecchino»

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Capitolo 17
*** Seventeenth Day: Protective ***


«Tokitatsu»
 
«Bonsoir, Hirato~! Che combina il mio adorato fratellino?»
Si prostrò in un istrionico inchino e sorrise in una smorfia pacioccona.
Hirato lasciò entrare Tokitatsu nella sua stanza senza tuttavia farlo accomodare e, dopo avergli rinfacciato quanto tardi fosse per dedicargli una visita di cortesia, lo incitò ad andarsene e lasciarlo dormire.
 
«Sempre il solito scorbutico», lo riprese il castano sistemandosi la montatura degli occhiali, «Quand'eri più piccolo non mi cacciavi mai dalla tua camera».
 
«Ho ventisette anni ora, come puoi ben vedere»
Hirato replicò piuttosto risentito.
Era stanco e non c'era nulla che in quel momento desiderava più del semplice dormire. Era stata una dura giornata per lui e anelava al provare la stupenda sensazione di abbandonarsi al sonno e sentire il proprio corpo sprofondare sul morbido materasso, avvolto da una calda trapunta per proteggersi dal gelo invernale.
 
Tokitatsu non se ne curò. Gli lasciò occhi addosso, ammirando la marmorea pelle che spuntava dal colletto del pigiama del fratello e vagò con lo sguardo fino a là dove cominciava ad infoltirsi la foresta dei suoi capelli di ebano e terminava la sua pallida carnagione.
 
«Hirato, posso dormire con te stanotte?».
 
Il comandante sorrise, annuendo con il capo.
«Ovviamente no»
 
«S-Solo per questa notte, te lo prometto!», si lamentò in un mugugno il fratello afferrandogli una manica del pigiama, «Per favore, ho bisogno di conforto!»
«E' successo qualcosa di grave?», domandò Hirato, palesemente disinteressato.
«Akari», boccheggiò l'altro, «Oggi mi ha detto che sono un bastardo patentato»
«Oh, povero il mio fratellone», ostentò compassione Hirato mentre si sdraiava sul letto, accogliendolo tra le sue braccia, «E ha detto altro, oltre a questo?»
«Che non sono tanto bastardo quanto te», borbottò Tokitatsu poggiando la fronte sul petto del fratello.
 
Alzò il mento quanto bastò per incrociare il suo sguardo e lasciarsi scrutare da quegli occhi di opale.
Sorrise, stringendosi al suo torace, assaporando la tenerezza di quegli istanti.
Ebbe un lieve sussulto non appena percepì la mano di Hirato insidiarsi tra i suoi folti capelli di nocciola e giocarci.
Come se non fosse mai stato abituato a quei leziosi atteggiamenti.
 
Si sentì richiamare e si destò.
Hirato tuttavia non disse altro, spense piuttosto la luce e si lasciò andare, stracco, sul cuscino.
Tokitatsu si mosse furtivamente sopra il suo corpo, con la stessa agilità di un serpente, e poggiò il mento nella clavicola del fratello, alla ricerca di un calore quasi paterno, attendendo una carezza che non sarebbe tardata ad arrivare.
 
«Non mi dai il bacio della buonanotte, Hirato?», chiese in una provocazione.
 
«No. Quello è riservato esclusivamente ad Akari»

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Capitolo 18
*** Eighteenth Day: Secrets ***


Gareki sdraiava tediato nel letto della camera che gli era stato permesso di utilizzare a bordo della Prima Nave di Circus.
Dopo un'intera giornata di lavoro al servizio di Kiichi, aveva finalmente potuto concedersi un po' di meritato riposo.
Girò una pagina della rivista che aveva raccattato dallo studio di Tsukitachi, con immagini e contenuti poco appropriati, data la sua età.
Nai riposava nel letto accanto al suo, il respiro tranquillo e sommesso, il fiato corto. Sembrava proprio un animale.
Effettivamente, lo era. Ma talvolta Gareki tendeva a dimenticare quest'ultimo particolare.
 
«Vedo che te la spassi bene», Kiichi entrò nella camera senza nemmeno bussare alla porta, fulminando il moro con lo sguardo e noncurante del rischio di svegliare il povero niji.
Non le diede nessuna soddisfazione e trattenne lo sguardo fisso sul giornalino, voltando pagina: «Mi arrangio come posso».
«Che diavolo stai leggendo?», domandò impertinente con iattanza, passandosi una mano tra i suoi boccoli cerulei, «Non saranno quelle stupide riviste di automobili che piacciono tanto a voi maschi...»
«E se così fosse?», chiese Gareki di rimando, con un palmo si reggeva il mento mentre distoglieva lo sguardo dalle nude figure posandolo sulla coetanea, «Ti da forse fastidio?».
 
Kiichi aggrottò la fronte e si appoggiò con il dorso della schiena allo stipite della porta, trattenendo le braccia conserte.
«Mi sto annoiando. E a morte. Tsukitachi è andato da Hirato da quei bambocci della Seconda Nave, Jiki è la solita palla al piede ed i conigli non hanno nulla di divertente da raccontare. Non mi ascoltano nemmeno».
«E pretendi dunque che io ti ascolti, dato che nessun'altro in questa Nave lo fa?», chiese Gareki con ilarità, «Come se a me interessasse-».
 
«Segreti»
 
Il moro inarcò un sopracciglio curiosamente ed invitò la ragazzina a ripetersi.
 
«Io conosco i segreti di chiunque. E' un'offerta speciale, solo per oggi hai l'opportunità di conoscere i fatti degli altri gratuitamente».
"Gratuitamente?", si domandò il giovane perplesso, tra sé e sé, "Perché, solitamente c'è anche un prezzo da pagare?".
Sospirò e concluse che alla fine sarebbe valsa la pena provare, d'altronde non avrebbe avuto nulla da perderci.
 
«Bada bene, le mie informazioni sono sicure al cento per cento!», fece spiegandosi la ragazzina dagli azzurri capelli, «Faccio molto affidamento sul mio 'sesto senso'!».
Allo sguardo perplesso ed al contempo interrogativo di Gareki, rispose in maniera saccente presentando uno dei suoi 'segreti'.
 
«Per esempio, sai che Tukumo-senpai ha un debole per il secondo comandante Hirato?», disse Kiichi enfatizzando la frase con un vivace tono di voce, «L'ultima volta che l'ho vista aveva le occhiaie che le arrivavano fino al pavimento e non importava quanto la incalzassi, non ha voluto dirmi a cosa stava lavorando, né che cosa che l'aveva trattenuta in piedi fino a notte tarda! Ma ho motivo di pensare che stia cercando di fare un pupazzo di peluche per lui!».
Gareki assentì pensieroso. In effetti aveva notato anche lui la dedizione di Tsukumo nell'imparare a cucire e gli era parso di intravedere degli abbozzi di progetto sparsi sulla scrivania della sua camera, l'ultima volta che c'era entrato. Sospirò. Beh, poteva anche essere una coincidenza.
«Chi ti conferma che lo stesse facendo per Hirato anziché qualcun'altro?», chiese scetticamente.
«Il mio sesto senso!»
"Andiamo bene"
 
«Vuoi sentirne un'altra?», domandò Kiichi, sempre più gasata, «Tutti i mesi, Jiki, va sempre dal parrucchiere a tingersi i capelli perché sta invecchiando e gli vengono grigi! Lui continua a ripetere che lo fa per farsi riconoscere da Eva -poverino, è convinto che Eva non ci veda bene e parla proprio lui che è un quattrocchi di prima categoria!- ma, seriamente, chi vuoi che gli creda? E' ovvio che lo fa per altre ragioni».
"Conoscendo la tua simpatia per quel ragazzo, tenderei più a considerare il fatto che tu adori essere incredibilmente cattiva con lui".
Gareki sospirò, rimpiangendo il momento nel quale acconsentì ad ascoltare quella rivista di gossip vivente qual'era Kiichi.
 
«E non è finita qui!», esultò ancora vivacemente, «Sai che Yogi dorme con la luce accesa?».
Inarcò un sopracciglio. Gli era capitato di passare davanti alla sua camera alle più disparate ore notturne, intento ad elucubrare, meditando sul suo passato e sulla sua vita, e più di una volta aveva visto la luce accesa.
 
«Yogi in realtà ha paura che qualche mostro lo aggredisca nel sonno e spera di scacciarlo tenendo la lampadina accesa!».
«Il tuo sesto senso ti dice tutto questo?», le chiese sempre più perplesso Gareki.
Kiichi annuì: «Certo! Sono informazioni di cui ti puoi fidare!».
 
«Capisco»
 
Piegò le labbra in un compiaciuto ghigno e riaprì la sua rivista.
La ragazzina lo stava ancora guardando insoddisfatta.
Gareki poteva leggerglielo in faccia, non se ne sarebbe andata finché lui non avrebbe pagato per quelle 'gratuite' informazioni.
 
«Ora ti dirò invece io, cosa mi suggerisce il mio 'sesto senso
 
«Quel quattrocchi», disse spiegandosi, «Cerca di nasconderlo ma qualcosa mi dice che è innamorato perso di quel dottore alla Torre di Ricerca».
«Ah!», esclamò Kiichi sdegnata, «E' l'insinuazione più ridicola che abbia mai sentito in tutta la mia vita!».
«Peccato tu non mi creda, ma ti capisco», replicò Gareki soddisfatto, «Nemmeno io ci ho creduto, finché non ho visto i succhiotti che aveva ben nascosti sulla nuca e lo sguardo compiaciuto del caro comandante».
 
Kiichi arrossì e, senza aggiungere altro, sortì mentre il volto puerile del ragazzo s'illuminava di un radioso sorriso.
Guardò Nai riposare, e si rasserenò all'idea che quest'ultimo non avesse fatto altro che dormire, risparmiandosi quella larga parentesi di segreti.
 
Nella vita ci sono cose che possono essere dette, cose che possono essere fatte.
E poi, ci sono quelle fatte per essere condivise di nascosto. Quelle sono le più belle.
 
Quelle sono i segreti.

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Capitolo 19
*** Nineteenth Day: Sleep ***


«Akari»
 
Hirato lo richiamò baciandogli la fronte in un delizioso vezzo che fece sobbalzare l'austero cuore del dottore. Questo respirò profondamente, passò una mano sul glabro e nudo petto del comandante sfiorandogli con il palmo della mano i muscoli e, di lì, i turgidi capezzoli, e gli baciò affettuosamente il collo.
 
«Hmm... C'è forse qualcosa che posso fare per te?».
 
Sospirò intenerito Hirato, da quella strana tenerezza e malleabilità non propria del dottore, stringendogli una mano e portandosela al cuore, così che potesse percepirne gli arrancati battiti con il proprio tatto.
«Non c'è niente che tu non abbia già fatto per farmi felice», bastarono quelle melense parole per sedurlo.
«Non vorrai ricominciare, spero», borbottò il medico, tuttavia poco restio a quei contatti, lasciandosi coccolare dal tepore della vicinanza del comandante, in una di quelle poche e tranquille notti che si poteva permettere di spendere al suo fianco, «Sono stanco, io».
 
Hirato sorrise trattenendolo accanto a sé, la sua nuda e larga mano scorse agile lungo il fianco del dottore fino a stringerlo e tirarlo a sé: «Tranquillo, sono stanco quanto te, Akari».
 
Il medico sospirò.
 
Avrebbe voluto baciare ancora quel corpo, era come se i suoi gesti ed i suoi baci non bastassero mai ad esprimere quello che provava veramente per lui.
Più tempo, chiedeva solo più tempo, e lottava disperatamente contro il sonno, perché gli permettesse di restare ancorato alla realtà per ancora qualche minuto. Cercava un appiglio negli occhi di opale di Hirato mentre si lasciava avvolgere dalle sue braccia ed amare dai suoi baci.
 
Quand'era stato che avevano oltrepassato il 'confine' che separava i loro corpi?
Quando i suoi insulti erano diventati un'altra maniera per chiedere più affetto?
 
Forse era troppo tardi per chiederselo.
Perfino lui ne aveva perso memoria.
O forse non se ne era mai veramente interessato.
 
Hirato gli aveva già baciato l'elice dell'orecchio ed augurato la buonanotte.
Il resto non contava.
 
In quelle notti esistevano solo loro due.
E, in fondo al suo cuore, desiderò fosse stato così in eterno.

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Capitolo 20
*** Twentieth Day: Meter ***


Nota dell'autrice: Questa Flash-Fic è un seguito a Broken, Pessimistic e Patience.



«Per favore»

«No»
«Solo una passeggiata, rapida rapida»
«Ti ho detto di no»
«Ma-»
«Sei sordo?»
 
Sospirò e guardò annoiato fuori dalla finestra. Il sole splendeva alto sul cristallino mare, che rifletteva le tonalità azzurre del terso cielo. Aveva oramai smesso di contare il tempo che aveva trascorso in cura alla Torre di Ricerca.
Avvertiva davvero un disperato bisogno di uscire, di fuggire da lì e tornarsene ai propri doveri di Secondo comandante.
Voleva sentire la brezza accarezzargli il viso mentre volava libero all’orizzonte, lasciarsi sfiorare il volto dal fresco vento del mattino.
Gli mancava tutto.
La battaglia, il suo ufficio, il suo lavoro, i ragazzi del Circus.
La libertà.
 
«Non è da te essere così silenzioso», borbottò Akari, porgendogli una mela appena sbucciata, turbato e riluttante, «Oggi non mi hai ancora dato un motivo per detestarti. A cosa stai pensando?».
 
Lui.
Lui gli mancava terribilmente.
Giorno dopo giorno, era costretto a restare in quel letto d’ospedale, parcheggiato come una nave al porto, dannandosi per quella distrazione in campo di battaglia che l’aveva ridotto in quel pietoso stato.
 
Non ripudiava le cure di Akari –inizialmente ne era addirittura felice- ma da tempo quelle attenzioni erano diventate irritanti. La pietà che Akari aveva per lui era irritante, metteva a dura prova la sua pazienza.
 
Quegli occhi, che in passato avevano usato guardarlo ora con distacco, ora invece con desiderio o amore, non erano divenuti altro che due lucide pietre, intrise di compassione, dalle quali pendevano costantemente pesanti borse, segni di chissà quante ore di sonno arretrate e di certo non dovute a straordinari.
 
Non era così che doveva andare.
Non era Akari a doversi prendere cura di lui.
O, meglio, non si sarebbe dovuto lasciar andare in quella maniera.
Avrebbe dovuto indossare la sua fredda maschera fino alla fine, proprio come stava facendo lui.
 
«Che fai, non mi rispondi?»
Akari lo guardò distrattamente, con un tono di voce tuttavia tediato, mentre gli afferrava una mano stringendogliela.
Hirato restò con la testa poggiata sul cuscino, lo sguardo immerso nel lontano mare.
 
Se fosse stato possibile, avrebbe voluto essere un pesce, uno qualunque, per nuotare libero e distante da quella rete nella quale era accidentalmente finito.
Percepì la stretta di Akari ma non accennò reazione a quel tocco.
 
I suoi occhiali erano ancora poggiati sopra il comodino.
Erano lì da forse tre o quattro settimane e, nonostante ciò, non avevano mai avuto il tempo di fare la polvere.
 
Akari, tutti i giorni, li lucidava diligentemente e glieli faceva indossare.
Poco importava se lui, come un testardo bambino, cacciava le motivazioni più futili per levarseli.
 
Non c’è nulla di nuovo che debba vedere”, usava spesso dire in un sorriso assai forzato, “E la faccia di Akari è un qualcosa che conosco bene. Non ho bisogno degli occhiali per vedere qualcosa che posso comodamente vedere con il cuore”.
Cercava di stregarlo con quelle parole e di illuderlo ma da giorni quelle frasi sembravano aver perso la loro efficacia.
Akari pareva trattarlo come un uomo che aveva vissuto la sua vita, a cui non rimaneva altro che attendere la morte.
 
«Voglio scendere da questo letto»
«Ti ho detto che non puoi»
 
Aggrottò le sopracciglia, Hirato, cercando di mantenere la compostezza, senza riporre la sua maschera.
 
«Akari. Ti ho detto che sono stufo di-»
«Tu non vai da nessuna parte finché non ti riprendi completamente. Se ti vedessero in giro penserebbero che tu ti sia ripreso e farebbero di tutto per rispediti a lavorare. Ma, te lo dico io, tu non ti sei ancora ripreso! Se ti attaccasse un Varuga potresti-!».
«Fottiti», replicò secco Hirato, incenerendolo con il solo sguardo, «Tu ed il tuo Varuga».
Non c’era traccia di ironia. Solo una rabbia, sedata e piuttosto radicata nel suo animo.
Una reazione che lasciò tuttavia spiazzato il dottore.
«Smettila di trattarmi come se fossi una causa persa, Akari. Sono qui, vivo e vegeto. Ho solamente preso una brutta botta alle gambe, tutto qui. Ciò non significa che stia per morire. Le mie ferite guariranno, forse ci metteranno più del solito ma guari-».
 
Si interruppe.
 
Ci avrebbe messo la mano sul fuoco, che il dottor Dezart gli stava piangendo proprio davanti agli occhi.
Poco gli importava di mostrarsi spettinato, con il viso amaranto e gli occhi consunti dalle lacrime.
Stava dannatamente piangendo.
 
«S-Su allora», lo incitò Akari digrignando i denti nel vano tentativo di fermare il flusso imperterrito delle sue lacrime, «Metti in piedi, bastardo! Guarda con i tuoi stessi occhi la realtà! Se non fosse stato nulla per cui preoccuparsi, non avrei avuto motivo di starti con il fiato sul collo giorno e notte, non pensi?!».
 
Hirato piegò la testa verso di lui. Si sentiva una scatola, un contenitore vuoto.
Quella vacua solitudine nella sua anima lo stava lentamente logorando.
Non la sopportava più. Non sopportava più nulla. Neppure la sua vita.
Anche quella era diventata un vuoto peso.
 
«Su, alzati! Che aspetti?!»
 
Sofferenza. Akari stava veramente soffrendo.
Era collassato. Lui, che si era sempre mostrato forte di fronte alle disgrazie, lui era collassato.
Lui, che era tuttavia così pieno, ed Hirato... completamente vuoto.
 
Akari, che tutti i giorni si disturbava per venire a riempirlo con amore, affetto, cure, attenzioni.
E lui che, non importava quanto ricevesse, continuava ad essere un pozzo senza fondo.
Si sentiva annullato. Annichilito. Se la morte gli si fosse mostrata in quell’istante davanti agli occhi, non avrebbe battuto ciglio e le avrebbe stretto la mano.
Sarebbe stato meno doloroso del vedere Akari soffrire.
Abbassò lo sguardo e strinse nei pugni il copriletto sterilizzato di cotone.
 
Poggiò lo sguardo sulle piastrelle del pavimento ed espirò silenziosamente.
 
Se avesse fallito, se fosse caduto, sarebbe stata la fine.
Akari sarebbe morto di dolore, l’avrebbe ucciso dove era più debole, nel suo cuore.
Gli avrebbe dato una terribile pugnalata per colpa del suo egoismo e della sua pervicacia.
 
«Che è successo al tuo sorriso da bastardo, Hirato?», gli domandò imperterrito il dottore, prendendogli affettuosamente le guance, ma la voce era chiaramente spezzata dalla disperazione, «Non ridi più adesso, eh? L’hai capito anche tu che non c’è più nulla per cui valga la pena di sorridere».
 
«Non dire stronzate, Akari»
Non avrebbe tollerato a lungo quella situazione.
 
Quella camicia da malato lo soffocava.
Quelle bende sul torace cominciavano a stargli strette.
L’atteggiamento di Akari lo stava snervando, gli logorava l’anima.
 
Livore, rabbia, tensione.
Gli avevano insegnato a nasconderle dietro un sorriso.
 
Ma se, a detta di Akari, oramai non era più tempo di sorridere, allora, per lui, avrebbe rinunciato alla sua maschera, proprio come il dottore aveva fatto a sua volta precedentemente.
 
Si liberò della sua presa allontanandogli le mani dalle proprie gote e suscitando lo stupore del medico. Si mise seduto sul letto e guardò il pavimento.
 
Un metro lo separava dalla sua vita.
 
Un metro lo separava da Akari.

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Capitolo 21
*** Twenty-First Day: Kiss ***


«Gareki! Gareki!», Nai gli saltellò allegramente intorno, come un cane quando fa le feste al padrone e gli tirò un lembo della sudicia giacca, sporca di terra e fango.
«Cosa c’è?», chiese questo in un piglio seccato portandosi una bottiglietta d’acqua alle labbra, secche e disidratate e passandosi una mano sulla sudata fronte.
 
«Perché due persone si baciano?»
 
«C-Che razza di domanda è?!», si strozzò quasi con l’acqua mentre il viso gli diventava di color amaranto. Si asciugò il sudore sulla fronte con il dorso della mano ed espirò profondamente.
 
Nai era un animale.
Di conseguenza quel genere di curiosità poteva anche essere considerata lecita.
Lo era, no?
 
Si guardò attorno, controllando che nessuna pecora o, ancor peggio, impiastro della Seconda Nave fosse in giro, e prese da parte il niji, posandogli un braccio sulla spalla e parlandogli di sottecchi: «Genericamente, due persone si baciano quando si amano».
«Quindi quando Tsukumo-chan mi bacia sulla guancia prima di andare a dormire è perché mi ama?», chiese il ragazzino ingenuamente.
Gareki scosse la testa affranto. Sarebbe stata più difficile del previsto.
«N-No! Cioè, non esattamente», si corresse allora arrossendo, l’argomento lo metteva leggermente a disagio, «Se qualcuno ti bacia sulla fronte o sulle guance, allora ti vuole bene. Volere bene però non significa ‘amare’. Amare è un qualcosa di più complicato, anche se non credo tu possa capirlo. Come dire... Si ama quando ci si bacia sulle labbra».
 
Nai sgranò allora gli occhi in una rivelazione.
 
«Ah, ho capito!», esclamò, «Allora Hirato ed Akari si amano?»
«C-Cosa te lo farebbe pensare, scusa», bofonchiò livido in volto Gareki, rabbrividendo alla sola idea del comandante e del dottore intenti in tenere effusioni.
«Una volta si sono baciati! Io ero ancora a letto alla Torre di Ricerca, non stavo bene, ma ho so sentito il rumore delle labbra quando ci si bacia!».
 
Il moro divenne pallido in volto.
Doveva scherzare.
Ma se fosse stato veramente uno scherzo allora era davvero di pessimo gusto.
Se così fosse stato, quei segni sul collo del dottore avrebbero indubbiamente avuto una spiegazione logica riconducibile ad Hirato.
 
Scosse la testa e si passò una mano tra i capelli turbato.
 
«Però, se lo dice Gareki dev’essere vero!», riprese Nai, febbricitante, riportandolo alla realtà, «D’altronde anche Gareki ama!».
«D-Di che diavolo stai-»
«Perché tutte le sere bacia Yogi sulle labbra prima di dargli la buonanotte!».
 
Arrossì fino alle orecchie.
Sordo. Desiderò essere sordo.
O fingere semplicemente di non aver sentito nulla.
Inutile.
Nai sapeva.
Dannato animale.
Non aveva la più pallida idea di come fosse venuto a sapere di quella faccenda del bacio ma percepiva dentro di sé un crescente desiderio di conciarlo per le feste. O lui o chiunque gli avesse raccontato di quell’imbarazzante pratica a cui accondiscendeva pur di mettere a tacere il biondo ragazzo.
 
Bastarono tuttavia una sua occhiata assassina ed un pugno stretto e serrato per intimidire il niji e farlo scappare a gambe levate.
 
Da quel giorno Nai non osò domandare altro a Gareki.
Sembra avesse addirittura chiesto il trasferimento nella Prima Nave, accettando anche, nel più estremo dei casi, di dormire in compagnia di Jiki-kun.
 
Ma Hirato non accondiscese mai a quel suo desiderio.

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Capitolo 22
*** Twenty-Second Day: Winter Chalet ***


Prima di postare questa FanFiction voglio rivolgere un enorme ringraziamento a NakamuraNya (davvero, ti adoro ^//^) per aver recensito e seguito questa folle impresa di drabbles e short-fic. Davvero, grazie mille ed un grazie anche a tutti i lettori :)
Spero continuiate a seguire 30 Days of Karneval fino alla fine.
Sempre che ci arrivi io viva fino alla fine xD






«Fratellino!»
 
Lasciò scivolare a terra entrambe le pesanti valige non appena la porta di legno dello chalet gli si richiuse alle spalle e gli saltò addosso coglliendolo in un repentino abbraccio.
 
«E’ passato tanto dall’ultima volta che ho fatto una vacanza assieme a te! Non smetterò mai di essere grato a Tsukitachi! Se non ti avesse costretto lui a venire qui con me, avrei rischiato di morire senza il ricordo di una settimana di vacanza spesa con il mio inseparabile fratellino! Ma guarda che bello! Siamo di nuovo sotto un unico tetto dopo tanto tempo! Non sei contento?»
 
Il comandante sorrise con la sua usuale aria distaccata, sciolse l’abbraccio di Tokitatsu e fece per sistemare le proprie coperte nella parte più bassa del letto a castello, tuttavia il fratello gli si fiondò di nuovo addosso, euforico come mai lo era stato.
 
«Hirato! Pensaci!», esordì spupazzandolo come fosse stato un peluche, «Una vacanza insieme dopo più di dieci anni! E’ meraviglioso! Non facevamo uscite del genere da quando-».
«”Da quando sei entrato alla Chrono Mei”», disse Hirato sopraffacendo la voce del fratello con fare tediato, «Non so quante volte tu me l’abbia ripetuto nell’arco di una giornata ma sono state sufficienti per farmelo imparare a memoria».
 
«E poi», lo corresse ancora il comandante, «Questa non è una vacanza. Noi siamo a Rinol per lavoro e questo è l’alloggio che avrebbe dovuto toccare a Gareki e Nai –se penso che grazie al ‘sabotaggio’ di Tsukitachi ora quei due si godono lo chalet dove sarei dovuto stare io...-».
 
La tempesta di neve infuriava tanto che, in meno di cinque minuti, le bianche orme che avevano lasciato per giungere allo chalet erano state completamente cancellate, ricoperte da una candida matassa.
 
«Che fai, Hirato?», gli chiese improvvisamente guardandolo sistemare le coperte nel letto di basso.
«Mi sto preparando il letto», rispose freddo il comandante, senza nemmeno voltarsi.
«Ah, ah, non ci starai serio, vero?», Tokitatsu ironizzò in un’ilare risata e gli disfò il letto sotto il naso, trasferendo tutte le coperte nel materasso sopra di lui, «Il più piccolo dorme sempre in alto! Ricordi?, è la regola!». Fatto ciò sorrise soddisfatto, scansò il fratello poggiandogli una mano sulla spalla e si gettò sul tanto agognato letto occupandolo irremovibile.
 
Hirato gli rifilò un sguardo stavolta alterato. Tokitatsu non si domandò se se la fosse presa o meno.
Oramai era un adulto, non c’era motivo di prendersela per sciocchezze di quel genere.
 
«Tokitatsu, mi tratti ancora come un bambino», commentò in un sospiro il comandante, rimuovendo dal letto superiore le sue coperte e gettandole per terra, «Ma vorrei ricordarti che sono un adulto oramai».
 
Si avvicinò dunque al letto del fratello, ancora spoglio e disfatto , sopra al quale quest’ultimo oziava disteso e soddisfatto di sé. Lo sollevò prendendolo in braccio come fosse stato un bambino e lo posò cortesemente sul pavimento, buttando per terra l’unico piumone di lana che Tokitatsu vi aveva posato sopra per marcare la sua proprietà.
 
«E siccome sono un adulto io, a differenza di un certo qualcuno,dormirò io in basso»
 
«E-Ehi, non giusto!», Tokitatsu si rialzò agitandosi nel groviglio di lana del piumone e tirò il maglione del fratello, «C’ero prima io!».
«Non è vero», replicò Hirato ecco.
«Io sono un tuo superiore! Ho diritto a quel posto!»
«Sei il mio superiore, dunque dovresti stare nel letto in alto. Discorso chiuso», Hirato lo apostrofò serio.
Incrociò i suoi occhi opalini con quelli marini del fratello e per un attimo i due sembrarono mossi da una scintilla di sfida.
Volevano entrambi quel posto.
E non avrebbero gettato la spugna facilmente.
 
Tokitatsu inspirò profondamente.
Non gliel’avrebbe data vinta anche quella volta.
Si sarebbe appropriato di ciò che era suo ad ogni costo.
 
«Hirato, suvvia, ora non mi fare arrabbiare. Siamo fratelli, ci vogliamo tanto tanto bene e ci rispettiamo. E’ sempre stato così. Dunque ora», aggiunse in tono smielato ma mellifluo, «Non rovinare tutto e lasciami il mio letto».
«Fratellone, mi dispiace davvero tanto per te, ma la riposta è e sarà sempre no», rispose franco Hirato, «Questo letto me lo prendo io com’è giusto che sia».
 
Tokitatsu lo incenerì con il solo sguardo. Doveva essere civile.
Per anni era stato un maestro per il fratello nell’arte della calma e della compostezza.
Non si sarebbe rovinato per così poco.
 
Il moro sorrise nella calma più placida, si sdraiò sul materasso e fece per dormire.
 
No.
Quello non era un futile motivo.
Quello era il suo letto.
 
Digrignò i denti e gli sottrasse da sotto la testa il cuscino fulminandolo con lo sguardo.
«Alzati. Ora»
 
Sogghignò Hirato, con una di quelle sue smorfie bastarde che avrebbero fatto snervare perfino l’uomo più paziente sulla faccia della Terra. Stava per rispondergli ma Tokitatsu gli si era già fiondato addosso, cercando pervicacemente di sradicarlo dal materasso.
La lotta non era mai stata il suo forte ma in quel momento sentiva di potercela fare, di poter sopraffare suo fratello.
 
«Ragazzi! Vi ho portato un po’ di vino per fe-»
 
Eva si bloccò sbigottita all’uscio della porta osservando il suo superiore Hirato e il ministro della difesa Tokitatsu, entrambi ridotti ad azzuffarsi sul pavimento, mentre l’uno tirava il maglione dell’altro.
 

***

 
«Ma che onore è per me avervi entrambi qui riuniti! E’ come prendere due piccioni con una fava!»
«Sta zitto, Tsukitachi», gli risposero i due all’unisono, l’uno l’occhio sinistro viola e l’altro quello destro.
 
Il rosso si stravaccò sul divano senza tuttavia riuscire a trattenere una risata di gusto.
«Che è successo ai tuoi occhiali Tokitatsu?», gli chiese poi bastardamente, come se la risposta già non l’avesse conosciuta.
Il ministro si accasciò affranto sul sofà, premendo la borsa del ghiaccio sul suo occhio, ancora dolorante e livido: «Me li ha rotti Eva con un pugno».
Hirato si voltò verso di lui, incenerendolo attraverso la sua montatura rotta:
«Ora capisci perché tutte le volte che mi hai proposto di fare una vacanza con te ho sempre detto di no?!».
Tokitatsu sospirò: «Sta zitto, sta zitto! Quest’occhio viola mi fa un male cane».
 
Tsukitachi sorrise e porse un bicchiere d’acqua al giovane ministro.
«Su ora, non vi arrabbiate. E’ triste vedere due fratelli tanto affiatati quanto voi litigare», commentò accennando un dolce sorriso, «Piuttosto, dovreste porgervi le vostre scuse da uomini maturi e dimenticarvi dell’accaduto. A tutti capita di sbagliare no?».
Il castano sospirò e lanciò un’occhiata mesta al fratello, che sedeva accanto a lui, gettato tutto su un bracciolo del divano.
«E va bene», disse affranto Tokitatsu, poggiando la borsa del ghiaccio sopra il tavolino di fronte a lui dopo aver sorseggiato un po’ d’acqua per rischiararsi la voce, «Hirato, perdonami il mio comportamento immaturo. Come tuo fratello maggiore, avrei dovuto darti il buon esempio ed invece mi sono comportato come un bambino. Mi dispiace davvero».
«A me invece niente affatto», borbottò Hirato aggrottando le sopracciglia e rifiutandosi d stringergli la mano, «Perché, come ti ho già ripetuto, quel letto era mio».
Tokitatsu digrignò i denti, poco si curò della presenza di Tsukitachi, e strinse le mani in pugni.
 
«Scommettiamo?!»

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Capitolo 23
*** Twenty-Third Day: Family ***


«Ieri notte ho sognato i miei genitori»

Si interruppe per scrutare la reazione di Gareki a quelle sue parole. Il moro aveva alzato gli occhi dalla sua rivista e li aveva posati perplessi sul biondo, quasi velati di una nota di stupore che lo fece trasalire. Non se l’aspettava, forse? Sorrise, dissimulando la morsa malinconica che cominciava ad abbracciargli l’animo e fece spallucce.
«Ah, ma non è niente di che, eh eh. Ogni tanto mi capita, tutto qui»

Gareki storse un angolo della bocca, palesemente irritato. Eccolo lì, il solito pagliaccio che, preso dalla nostalgia, occultava ogni prova del suo dolore o malcontento con quella dannata risatina. Non poteva fare a meno di considerarlo un codardo. Poteva essere anche un valoroso guerriero in campo di battaglia, ma quando occultava i suoi sentimenti dietro un sorriso, gli faceva decisamente perdere la pazienza. Sbuffò arrotolando la rivista nella mano e brandendola a mo’ di arma e gliela scagliò con non molta delicatezza sulla nuca, in un gesto risentito.

«Odio quel tuo sorriso», borbottò, «E’ irritante». Non era allergico all’allegria, lui. Ma odiava decisamente le bugie. «Se non impari ad affrontare il tuo passato, continuerai a soffrirci, idiota». Yogi lo scrutò perplesso, con la sua solita espressione da cucciolo, incutendo tenerezza dunque assentì sereno lanciandoglisi addosso in un abbraccio, quasi strozzandolo. «Sono felice, Gareki-kun», si prese la libertà di avvicinarglisi all’orecchio in un’intima confidenza, respirandogli quasi direttamente nel timpano, «Perché ti preoccupi per me».

Il moro si ritrasse, con un’espressione di imbarazzo che gli riempiva il volto tingendoglielo dello stesso rosso del tramonto all’orizzonte. No, non si stava preoccupando per lui. Non ne aveva motivo. Yogi era lì con lui, non avrebbe mai lasciato il suo fianco né ci sarebbe mai stata maniera che avesse fatto ritorno tra i suoi cari. Erano i ragazzi del Circus la sua famiglia. Non aveva bisogno di rivangare il passato né di chiedere altro, sebbene ciò fosse stato lecito.

Ma anche così, l’idea che una parte di Yogi desiderasse ancora quel passato, quella vita comune fatta di genitori e fastidiosi fratelli o sorelle non poteva non turbarlo e farlo sentire insicuro. Gareki non sognava mai Tsubame né Yotaka né Tsubaki, che eppure per alcuni anni aveva avuto quasi il coraggio di considerare alla pari di una famiglia. Ogni tanto li pensava, immaginava come sarebbe stata la sua vita se non se ne fosse mai andato, se fosse rimasto con loro un’altra notte, per un’altra cena tutti insieme, felici nella miseria. Ma non li aveva mai sognati. Yogi invece l’aveva fatto. Aveva sognato i suoi cari, il chiaro manifesto di un forte desiderio sepolto da qualche parte nel suo subconscio.

Sciolse l’abbraccio e lo scrutò severo attraverso i suoi occhi di cenere. Che significava…? Perché, allora, se voleva tanto tornare a casa era ancora lì, giorno dopo giorno, a combattere i Varugas, a travestirsi da Nyanperowna, a sorridere al mondo? Perché sforzarsi? Perché sprecarsi?

«A cosa stai pensando Gareki-kun?», domandò Yogi, il volto irradiato da un luminoso e solare sorriso. Scosse la testa in sospiro.

«Alla malinconia dei pagliacci»

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Capitolo 24
*** Twenty-Fourth Day: Infatuation ***


Sentiva la campana suonare non appena lanciava una rapida occhiata all'orologio.
Era scoccata l'una, il momento della giornata che più attendeva.

Interrompeva i suoi allenamenti e si precipitava nella sua camera in un battibaleno; il tempo di asciugarsi il sudore sulla nuca e sul torace e rindossare la regolare camicia, ficcata alla rinfusa nei pantaloni. Accorreva allora come un folle alla mensa per procurarsi la porzione di riso quotidiana e, dopo aver consumato il pasto nella fretta più assoluta, raggiungeva a falcate la biblioteca, dove sapeva l'avrebbe trovato.
Dove sapeva l'avrebbe aspettato.

Pensava a lui e già aveva le farfalle nello stomaco.

Spalancò la porta, il fiato mozzato e, in un istante, si costruì una maschera di totale indifferenza nel volto. Il suo corpo tuttavia mentiva spudoratamente.
Le mani, che durante i suoi allenamenti erano forti e ferme, tremavano deboli non appena lo vedeva e scivolavano codarde nelle sue tasche. Accarezzò la superficie di uno scaffale ed afferrò il solito libro, lasciando che i piedi lo trascinassero in fondo alla biblioteca, là dove lui usava sedere solitario.

Aveva il fascino di un lupo. Avrebbe potuto passare giornate intere a scrutarlo ininterrottamente senza annoiarsi, senza mai stufarsi.

«Buongiorno, Akari», gli mormorò prendendo posto accanto a lui mentre cercava il suo sguardo, perso tuttavia tra le lettere di un libro di medicina, «Disturbo forse?».
Il dottore distolse per un effimero istante gli occhi e li posò sul giovane in un esasperato sospiro: «Anche oggi qui, Hirato. Non hai proprio miglior posto dove spendere la pausa pranzo, tu».
«Potrei dire lo stesso di te, Akari», commentò di rimando in un sorriso portando un gomito sul tavolo e poggiando la testa sul palmo della mano mentre con lo sguardo vagava tra i suoi rosa e pettinati capelli, sembravano avere la consistenza del cotone.
Questo sbuffò senza richiudere il libro di medicina e fece per riprendere a leggere: «Quante volte ti ho ripetuto di rivolgerti a me con l'appellativo di dottore...?».
«Dovrò farlo anche quando uscirò da questa scuola, vero?», chiese in una punta di provocazione senza smontare tuttavia il suo sorriso.
Akari assentì turbanto: «Ovviamente, in fondo sarò sempre un tuo superiore».

«Non c'è proprio modo di cambiare l'ordine delle cose?», domandò insistente Hirato, grattando la copertina del solito libro, «E se ti dicessi che un giorno arriverò in alto? Tanto quanto basta per essere al tuo stesso livello e potermi permettere di chiamarti per nome?».

Il dottore sbuffò in un sospiro.

«Dovresti smetterla di fare castelli per aria, te», bofonchiò burbero ancora una volta, corrucciando un sopracciglio, «Sei sempre troppo pieno di te. Se hai tempo da perdere a fantasticare, potresti andare in palestra ed allenarti piuttosto».
Hirato lo scrutò, rilassato come era suo solito essere.
Lanciò un'altra rapida occhiata al suo orologio, che segnava oramai l'una e mezza.

Gli andava bene anche così, trascorrere l'intervallo per il pranzo nella biblioteca, intrattenendosi in discussioni che non avevano un vero scopo. Lui stesso quando cominciava a parlargli non sapeva dove andare veramente a parare.
Ma quando sentiva la sua voce era felice e quando lo vedeva distogliere lo sguardo da quei libri per incrociarlo con il suo si sentiva speciale.

«Senti...»

Akari lo riportò improvvisamente alla realtà.
Hirato fece per alzarsi.
Il tempo della pausa era proprio volato e se non si fosse andato a cambiare avrebbe perfino rischiato di arrivare tardi agli allenamenti.
Si inchinò cortesemente portandosi una mano al petto, in un gesto di riverenza e dedizione totale nei suoi confronti ma quando fece per andarsene, si sentì trattenere per un lembo della camicia.

«Levami una curiosità, Hirato», gli mormorò d'un tratto facendosi straordinariamente cupo ma serio in volto, una bellezza irresistibile che scatenò l'Inferno nello stomaco del giovane, si sarebbe potuto sciogliere come burro al sole, «Perché tutti i giorni ti ostini a venire qui? Potresti passare un po' più di tempo con i tuoi compagni oppure allenarti. Non ti manca la stoffa da combattente. Perché continui a perdere tempo qui con me?».
Il moro avvampò in volto, gli parve che il cuore gli si stesse contorcendo nel petto e fosse in procinto di scoppiargli. Deglutì, il colletto della camicia gli cominciava improvvisamente a stare più stretto. Cercò di ricomporsi e gli rifilò un sorriso, che subito il dottore prese in antipatia, un ghigno bastardo, sardonico, che ti fa intendere in ogni maniera che si sta prendendo gioco di te.

«Probabilmente per lo stesso motivo per il quale tu continui a condividere il tuo tempo prezioso con me»

 

***


Una curiosità che mi tormenta l'animo: come diavolo si sono incontrati questi due? Sarei felicissima se la nostra adorata mangaka facesse chiarezza su questo punto, comunque, nella trepidante (?) attesa di approfondimenti beccatevi pure le mie congetture.

AsanoLight~

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Capitolo 25
*** Twenty-Fifth Day: Doubt ***


Restò impalato per qualche istante, immobile e perso nel suo stupendo ma scarno volto.

Akari era meraviglioso, non importava quando lo guardasse, non importava quanto si imponesse di non pensarlo. Quegli occhi, gli stessi che in quel momento lo stavano trattenendo, riaffioravano puntualmente nella sua memoria, tra le miriadi dei suoi pensieri, poco prima che si addormentasse nel buio della camera che condivideva con Tsukitachi.

Dissimulare i suoi sentimenti davanti al dottore si rilevava ogni volta un'ardua impresa che valeva tuttavia la pena di compiere.

Ma c'era qualcosa nella sua mente in quell'istante che, come un fastidioso tarlo, gli diceva di non accontentarsi.

 

Non era abbastanza avere il suo sguardo.

Ed Hirato lo sapeva benissimo.

Glielo dicevano i suoi sogni, glielo dicevano le sue fantasie e la reazione del suo corpo a quei pensieri, glielo stava in quel momento comunicando perfino il suo cuore, che batteva all'impazzata.

Voleva il suo sorriso, voleva le sue labbra, voleva il suo amore.

Amore. Voleva esssere amato.

Non da una ragazza, non da un ragazzo.

Da Akari voleva essere amato.

 

Deglutì per la seconda volta, gli pareva di soffocare nel colletto inamidato della sua camicia.

 

«Beh...?», chiese il dottore inarcando curioso un sopracciglio, «Avevi tanta fretta di andartene. I professori non saranno felici di vedere arrivare uno come te in ritardo».

 

Se lo doveva togliere dalla testa. Doveva smettere di ascoltare quel fuoco dentro di sé o sarebbe finito col bruciarsi. Ma anche così...

 

«Akari»

 

La pupilla scorse repentina per l'intera biblioteca.

Abbandonata. Tutti se ne erano tornati ai propri doveri da studenti.

 

Era una follia, era una dannata follia. I suoi desideri erano folli, il suo cuore era folle o forse era semplicemente lui stesso ad essere diventato un folle, ad essere pronto a gettarsi tutto alle spalle, la sua reputazione come miglior studente, la faccia davanti ad Akari.

 

Ma anche così, volle provare, volle lasciarsi trasportare dal vento e scottarsi, raggiungendo rapido le labbra del dottore, senza imporsi, sfiorandole a malapena in un bacio pudico ed incerto, quasi con timidezza, con paura. Con la mano persa tra i suoi rosa capelli e gli occhi quasi chiusi, che eppure non avevano il coraggio di staccarsi dalla realtà, di perdersi quella vista e l'espressione stupita di Akari.

Avvampò ancora una volta in volto.

Sembrava essere passata un'eternità ma quando si staccò da quelle labbra si accorse che l'unica cosa che sarebbe durata effettivamente in eterno sarebbe stato l'amore che provava per lui e quel bruciore che sembrava consumare le sue stesse labbra dall'emozione, come se quel primo bacio vi avesse lasciato un segno leggibile in tutta la sua faccia.

 

Arrossì quando si rese tuttavia conto che il dottore non aveva affatto respinto il suo bacio.

Certo, forse non l'aveva nemmeno ricambiato, ma questo permetteva ad Hirato di tirare un sospiro di sollievo in quei momenti effimeri di pace che sapeva che in cuor suo avrebbero preceduto la vera e propria tempesta.

Akari lo scrutò, confuso come mai era stato e si sfiorò le labbra ma Hirato l'aveva già salutato in una maschera di compostezza, come se nulla fosse davvero avvenuto e se n'era ritornato alle sue lezioni, turbato nell'animo, da dubbi e pensieri.

 

Il giorno seguente era incerto se fare ritorno o meno alla biblioteca.

Si sentiva terribilmente in colpa per quello che era successo e cercare di mantenere un'espressione indifferente davanti alle solite lamentele di Tsukitachi su quanto fossero monotone le ragazze che frequentavano la Chrono Mei diventava pressoché impossibile.

Aveva troppi pensieri per la mente.

Per un attimo aveva pensato di chiedergli un consiglio ma ritrattò subito questa ipotesi biasimandosi anche solo per averla pensata.

Quell'idiota non avrebbe capito. O se l'avesse fatto, l'avrebbe fatto nella maniera sbagliata.

Sospirò e si alzò dal prato lasciando tra le mani del compagno il cestino del riso.

 

«Mangialo tu. Non ho molto appetito oggi», mormorò, con uno sguardo indecifrabile nel volto.

Tsukitachi accettò molto volentieri il pranzo dell'amico senza tuttavia rinunciare a rifilargli un'occhiata preoccupata: «Sei più taciturno del solito, Hirato. Va tutto bene?».

Il moro annuì e se ne andò sui suoi passi per la biblioteca.

 

No, non andava tutto bene, per niente affatto. Il giorno prima aveva baciato di punto in bianco Akari, senza dargli apparenti spiegazioni ed andandosene come un codardo.

Poco importava che aveva ancora la sua maschera impertinente addosso, lo riconosceva perfino lui, che era stato un comportamento bastardo.

Si domandò per quanto ancora sarebbe riuscito a far convivere la sua compostezza con la sua irruenza.

Gli sembrava più difficile del solito.

Quando c'era Akari di mezzo, controllarsi gli veniva impossibile.

Era l'amore di un adolescente, pensava e cercava di giustificare così quei desideri proibiti nei suoi confronti.

 

Varcò l'uscio della biblioteca ed il cuore gli si fermò ad un tratto nella gola.

Il solito posto era vuoto. Il solito libro era scomparso.

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Capitolo 26
*** Twenty-Sixth Day: Bastard ***


Questa Fan Fiction è un seguito di Infatuation e Doubt

Fissò la porta chiusa dell’infermeria per qualche istante, esitante ed al contempo incerto sul da farsi, se gli fosse convenuto o meno entrare ma –cosa ancora più importante, se Akari stesso avesse veramente voluto vederlo dopo quel bacio che Hirato, ancora, nel suo inconscio, si rimproverava. La campana che segnava il termine della pausa pranzo era suonata da un po’ ed il suo buonsenso gli suggeriva di fare ritorno quanto prima ai suoi doveri di studente modello.
Deglutì.
Quanto tempo aveva passato impalato come uno stoccafisso davanti a quella porta scorrevole?
Decisamente più di mezz’ora.

La porta gli si aprì proprio davanti agli occhi.
«Che ci fai qui, ragazzino?», domandò un dottore, inclinando leggermente la testa con aria incuriosita ed una punta di superbia. Hirato chinò il capo in un gesto di profondo rispetto portandosi preoccupato una mano allo stomaco e facendosi bigio in volto: «Non mi sento molto bene, dottore, a dire la verità».
Se gli avesse detto il vero motivo per il quale si era recato in infermeria sarebbe stato immediatamente sbattuto fuori. Avevano una politica severa, alla Chrono Mei.

Akari era sdraiato sul letto, con un piede ingessato e gli occhi immersi nella lettura di un libro la cui copertina non venne tuttavia nuova ad Hirato.

«Cosa ci fai qui?», tuonò l'uomo dai rosei capelli alzando lo sguardo dalla pagina e posandolo sul moro, «E non mi dire che stai male perché è una menzogna che non sono disposto a bermi per nessuna ragione al mondo».
Lo studente sorrise innocentemente, nascondendo dietro a quella smorfia una pletora di sensazioni e di ricordi, legati al giorno precedente, ricordi che avrebbe voluto dimenticare, tanto era l’imbarazzo ma che al contempo non avrebbe avuto il coraggio di liberarsene per nessun motivo al mondo.
«Ho saputo che sei scivolato dalle scale, Akari», ironizzò bastardamente, afferrando uno sgabello e prendendo posto accanto al suo letto, «E così mi sono preoccupato».

Il dottore sbuffò, richiudendo il libro che aveva da poco iniziato a leggere: «Non era necessario. E adesso tornatene in classe e non farmi perdere altro tempo».
Hirato inarcò un sopracciglio.
Si sentiva leggermente ferito da quelle parole e da quel tono freddo ma la cosa più saggia da fare era non darlo da vedere, fingere che tutto andasse bene.

«Quel libro...», mormorò dunque puntandolo con l’indice mentre si carezzava imbarazzato la nuca, «Non pensavo fosse di tuo gradimento».
«Sta’ zitto!», Akari berciò e lo colpì con quest’ultimo sulla testa, «Il mio mentore passerà a prendermi appena terminerà con un lavoro alla Torre di Ricerca e, siccome con molta probabilità dovrò restare qui fino a stasera inoltrata, ho deciso di portarmi qualcosa da leggere. E’ la prima volta che leggo Shakespeare oltretutto».
Shakespeare?
Hirato realizzò che fino ad allora non aveva mai prestato attenzione al titolo di quel libro, non se ne era mai veramente curato.
Lo apriva sempre nelle pagine più disparate, una volta nel mezzo, una volta all’inizio, una volta verso la fine.
Si cominciò a domandare improvvisamente se non fosse stato ovvio il fatto che non l’avesse mai letto.
«Oltretutto», precisò Akari fulminandolo con lo sguardo, «Mi sono chiesto perché questo libro piacesse tanto ad un ragazzo che bacia le persone a sproposito, senza un’apparente motivazione».
Giusto. Il bacio. Era lì anche per quel motivo.

«Akari forse non ha gradito?», domandò spavaldamente mentre continuava ad accarezzarsi il punto in cui era stato precedentemente colpito con il libro, l’altra mano giocava turbata con un lembo del lenzuolo di cotone, ebbe quasi un tuffo al cuore, come s’egli stesso si stesse rifiutando di pronunciare quelle parole, «Eppure avresti potuto respingermi, se lo avessi voluto».
Senza volerlo, aveva centrato nel segno.
Glielo dicevano quegli occhi di fuoco del dottore.
Ed il bernoccolo che presto sarebbe spuntato tra i suoi capelli, grande quanto il monte Fuji, dopo essersi beccato la seconda botta di libro in testa.
«Sei un bastardo», replicò irritato il dottore, «Sei un fottuto bastardo».
Hirato chinò nuovamente la testa, dapprima preoccupato.
Scrutò poi attentamente l’espressione in volto del dottore, il viso era diventato amaranto fino alle orecchie, gli occhi errano rifugiati nuovamente tra le lettere di quel libro e le mani stringevano con forza la copertina.

Sorrise.
Poi rise.
Rise di gusto, si lasciò andare come mai aveva fatto in tutta la sua vita.
Lasciò correre libere le sue emozioni come dei cavalli selvaggi.
Quella fu l’unica volta che Akari lo sentì ridere in quella maniera, quasi infantile ma eppur sublime.

«C-Che cazzo ridi?!», borbottò digrignando i denti, se avesse potuto l’avrebbe strozzato senza pensarci due volte. Ma Hirato non gli rispose. Si limitò piuttosto ad alzarsi dal suo sgabello.
«Capisco», disse dunque in un sorriso. Akari lo fulminò con un’occhiata.
No, non capiva, non aveva capito un cazzo. Non aveva capito che per colpa sua lui ora si ritrovava con un piede ingessato. Che se non fosse stato per quel dannato bacio, avrebbe anche fatto a meno di precipitarsi quanto più velocemente possibile giù dalle scale per tornarsene alla Torre di Ricerca all’udire del suono della campana.
Ma Hirato aveva già fatto la sua mossa, senza aspettare nemmeno una sua risposta. Se ne andò, con la promessa che sarebbe tornato dopo le lezioni e, mentre si indirizzava verso la classe, canticchiava un allegro motivetto.

Già.
‘Bastardo’ non era una risposta.
Non era un sì netto, ma non era neanche un no.
E se tutte le volte che si fosse fatto chiamare bastardo avesse ricevuto una reazione così onesta da parte del dottore, allora l’avrebbe perfino preferito ad un classico ‘sì’.
***

«Appisolato sul posto di lavoro?», domandò Akari mentre faceva irruzione nel suo studio, passandosi sfinito una mano tra i capelli, «Allora è proprio vero, che voi del Circus non avete mai niente da fare».
«Akari, sei sempre così burbero...», Hirato si rialzò dalla scrivania e si stropicciò gli occhi in uno sbadiglio, «Non hai rispetto per chi si perde tra i meandri del proprio passato».

«Ah... Certo, capisco perfettamente. Così, anziché lavorare per migliorare il presente, tu preferisci dormire sognando di tempi che non ritorneranno più. Non ti facevo così nostalgico»
«Non sono mica nostalgico, Akari. Non c’è cosa che rimpianga del mio passato»

«Nessuna?», lo incalzò il dottore aggrottando le sopracciglia.
«Nessuna», confermò il comandante alzandosi dalla sedia e facendo per venirgli incontro e stringerlo in un abbraccio, «Credo –anzi, di essermi giocato bene le mie carte».

«Non credo proprio»

Akari lo contraddisse, eluse l’abbraccio sottraendosi e fece scivolare sulla liscia e lucida superficie della scrivania un libro: «Tu hai pensato di esserti giocato bene le tue carte pensando che dall’altra parte ci fosse stato un idiota».
Hirato guardò sorpreso il libro e ne sfiorò la copertina.
«Pensavi che fossi un cretino, eh? Rispondimi», borbottò Akari, facendosi serio e mettendosi a braccia conserte, l’indice tappettava nervosamente nell’avambraccio sinistro, «Chi pensavi di fare fesso?».

Il comandante sorrise, gli occhi accesi dall’emozione.

Non voleva sapere come avesse fatto, ma poteva dirlo con tutto se stesso, che quel libro era lo stesso della biblioteca della Chrono Mei. I graffi sulla copertina erano identici a quelli che faceva con le unghie e le pagine avevano un odore di polvere, di passato, di ricordi.

«Grazie mille, Akari», lo ringraziò cercando nuovamente di trascinarlo in un abbraccio. Questa volta il dottore non oppose resistenza, si lasciò guidare verso le sue braccia imbarazzato, stringendosi alla giacca del comandante. Soffocò il volto nel suo petto, scoccandogli poi un bacio sul collo.
«Dimmi, Akari», gli mormorò Hirato d’un tratto, strisciando affettuosamente il dorso del naso sulla punta di capelli arricciati in fondo alla nuca, «Posso baciarti?».
Grugnì irritato il dottore, stringendogli con forza maggiore la giacca: «Non chiedere cose così idiote».
«Falle e basta»

«Bastardo»


***

Ma che bello, ma che bello! I giorni di Karneval stanno quasi per finire, siamo proprio agli sgoccioli!
Auguroni di buon compleanno a NakamuraNya per i suoi vent'anni!!! (\*v*/)
Questo è un piccolo presente da parte mia (il disegno viene da pivix! ;D)
Leggere i tuoi commenti è sempre un piacere anche se posso dire di essere morta per le saghe mentali di Gareki ahahhaha
Un grazie anche a tutti i lettori che continuano a seguire quest'audace (?) impresa, spero di leggere anche le vostre opinioni!!!
Grazie mille!!! :)


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Capitolo 27
*** Twenty-Seventh Day: Composed ***


Hirato non era mai stato impulsivo.
Irruenza e permalosità non erano mai stati tratti distinti del suo carattere.
Tokitatsu l’aveva sempre saputo.



Osservò attentamente la barchetta galleggiare sulla superficie dell’acqua mentre, con la coda dell’occhio, scrutava il fratello, in piedi davanti al lavandino, con i capelli avvolti da un turbante. Si lasciò allora scivolare sulla conca della vasca, fino a sfiorare l’acqua con le labbra, e soffiò annoiato creando con il fiato delle piccole bollicine di sapone che, fluttuando nell’aria, riflettevano i colori della luce artificiale del bagno.

«Sei ridicolo con quella cosa sulla testa», borbottò poco entusiasta, dando un botta con l’indice alla barchetta e direzionandola verso l’altro lato della vasca, «Sembri una ragazza».

Tokitatsu aggrottò la fronte ed infilò nell’asola l’ultimo bottone del pigiama, rispondendogli distrattamente ma con fare tuttavia piuttosto risentito: «Hai otto anni, non ti sembra un po’ presto per cominciare a dare opinioni?». «Piuttosto», riprese sciogliendosi il turbante, i capelli gli caddero quasi come fossero tocchi di cotone tanta era la loro morbidezza, «Se hai finito di fare il bagno esci e lavati i denti. Si sta facendo tardi, saresti dovuto essere stato a letto almeno mezz’ora fa».

Il piccolo sbuffò, si rimmerse nuovamente nella vasca, questa volta fino a soffocare anche la testa sott’acqua e ne riemerse con un grande respiro, guardando torvo il fratello. «E a te non sembra un po’ presto per cominciare a dare ordini?», gli rispose di ripicca, stretto nelle sue esili spalle, senza mostrare la minima intenzione ad abbandonare quell’oasi di pace e di felicità qual era la vasca da bagno.

«Io posso dare ordini finché voglio, Hirato», replicò il castano avvicinandoglisi, piccole gocce d’acqua stillavano ancora dalle punte dei suoi umidi capelli, «Perché sono tuo fratello maggiore. E tu quindi hai il dovere di eseguire ciò che ti chiedo. Quindi, se adesso ti dico che devi uscire dalla vasca, tu lo farai senza fare storie». «Dammi una motivazione per darti retta», rispose il bambino, osservando gli occhi d’acquamarina di Tokitatsu, un colore meravigliosamente differente dal suo che tuttavia mai gli aveva invidiato.

«E va bene. Te la sei andata a cercare»

Si spogliò rapidamente della camicia da notte appoggiandola sopra la superficie di marmo del bancone ed immerse una mano nella vasca rimuovendo il tappo. Ignorò le lamentele del fratello minore e le sue occhiate di ghiaccio e, prendendolo tra le braccia, lo tirò fuori.

«Ahah, ma guarda che carino che sei», lo canzonò il castano, passandogli l’asciugamano tra i corvini ciuffi dai riflessi di ametista, «Con i capelli così arruffati e quel broncio in faccia sembri proprio un antipatico cagnetto». Hirato sbuffò lasciandosi tuttavia docilmente curare dal fratello. In fondo, per quanto Tokitatsu potesse essere irritante per le continue frecciatine che gli lanciava, rimaneva comunque la persona a cui più aveva fino ad allora voluto bene nella faccia della Terra. Gli accarezzò la nuca con l’asciugamano e si divertì a rigirarsi i riccioli dei suoi capelli tra le dita: «Hai intenzione di tagliarteli oppure preferisci farteli allungare così tanto da essere scambiato per una bambina?». Hirato arrossì aggrottando le sopracciglia ed allontanò bruscamente la mano del fratello.

«B-Beh, cosa c’è?», domandò incerto il castano, «Ho detto qualcosa che non va?». «Vanno bene così», replicò il piccolo, le gote divenute improvvisamente rosse come peperoni, lo sguardo si fece d’un tratto titubante, «Vanno bene così». Tokitatsu sbuffò, afferrò il phon e fece per asciugargli i capelli. Li osservava attento mentre si lasciavano dondolare dal getto d’aria calda, compivano dei movimenti quasi ipnotici, era un qualcosa che gli avrebbe conciliato il sonno prima di andare a letto, osservare i movimenti dei capelli, il fruscio dolce dei ciuffi, che gli ricordava vagamente quello dei rami mossi dal vento. Annuì. Sì, tagliarli sarebbe stato indubbiamente un peccato.


«Hirato», Tokitatsu lo richiamò nel buio della sua camera, con lo sguardo gettato fuori dalla finestra, posato sull’iridescente Luna, «Dormi?». Il piccolo negò silenziosamente, rigirandosi nel materasso, infagottato tra i piumoni: «No, sono sveglio per ora». «Avanti, sputa il rospo. Non mi prendi per i fondelli», commentò burbero Tokitatsu, voltandosi fino ad incrociare il suo sguardo con quello del fratello, «Chi è questa bambina?».
«Non c’è nessuna bambina-»
«Oh, certo, certo. Dite tutti così, quando siete piccoli. Ti vergogni dei tuoi sentimenti ma posso capirti, Hirato, l’amore è una cosa nuova!»
«Ti ho detto che non c’è nessuna bambina di mezzo, non c’entrano niente le questioni sentimentali!»
«Certamente. Ti credo», aggiunse ancora il fratello in una punta di sarcasmo, «Dunque, se non è per fare colpo su qualcuna, perché prima sei arrossito tanto quando ti ho chiesto di tagliarli…?».
Sogghignò restando in attesa per qualche istante di una risposta dal piccolo che tuttavia non arrivò.
Hirato si era già rigirato sul proprio lato ed aveva testardamente chiuso gli occhi.

Si rialzò allora goffamente dal letto e gli rimboccò le coperte accarezzandogli una guancia.

«Va dove ti porta il cuore, fratellino»


 

***



«Lei dev’essere Tokitatsu, giusto?»

Il giovane annuì, inchinandosi cortesemente di fronte alla maestra, rifilandole uno sguardo sincero e pieno di comprensione.

«La ringrazio per essere venuto», aggiunse la donna, sedendoglisi di fronte a braccia conserte, «Devo ammettere che badare tutto da solo ad un fratello di otto anni non dev’essere una cosa facile, sappia che quello che sta facendo è un qualcosa di indubbiamente lodevole». Il castano fece per inchinarsi ma il tono severo della donna lo lasciò interdetto annichilendo il lui perfino la volontà di ringraziare.

«Ora, veniamo alle faccende importanti»

«Oggi quando sono entrata in classe, tutti i bambini erano radunati attorno a suo fratello ed un suo compagno, tutti intenti ad incitarli alla rissa. Sembrerebbe che questo bambino lo avesse preso in giro per il suo taglio di capelli»
«Beh, mi permetta signora, ma non mi sembra una cosa tanto strana. Le risse ci sono sempre state, da che mondo è mondo, che ci vuole fare… Gli altri bambini non sanno controllare la rabbia»
«Non sto parlando di controllo della rabbia, infatti», precisò la maestra, penetrandolo con una tagliente occhiata, «Sono riuscita a fermarli con facilità ma, mentre estorcere delle scuse da Tsukitachi è stato facile, suo fratello si è palesemente rifiutato di scusarsi davanti a tutta la classe».
«Sono costernato, cercherò di rime-»
«E quando l’ho minacciato di metterlo in punizione se non si fosse scusato, sa cos’ha fatto?».

Tokitatsu negò con il capo.
No, improvvisamente non era più interessato a sapere cos’avesse combinato il fratello.

La maestra assunse un’espressione di sgomento, si rivide per un effimero istante la scena scorrergli davanti agli occhi. Hirato che, furente di rabbia, aveva spaccato in due un colore a cera e lo aveva scaraventato adirato per terra pestandolo con la scarpa. Tanto la donna era rimasta sorpresa dall’atteggiamento del bambino -così atipico trattandosi di uno degli studenti modello della classe nonché uno dei più calmi e tranquilli, che non si era neppure mossa per fermarlo.

«Ha dato una spinta così forte al banco da spaventarmi!», esclamò la donna, «E quando gli ho chiesto dove diavolo avesse intenzione di fuggire tutto solo nel corridoio sa cosa mi ha detto?».

No”, pensò Tokitatsu, “Non voglio sapere che cosa le ha detto, non ne ho la minima intenzione”.

«Ha detto “Vado dove mi porta il cuore, maestra”».
Tokitatsu affogò la testa tra le sue braccia, esasperato.

«Ora, le chiedo, Tokitatsu»


«Lei ne sa forse qualcosa?»


Hirato non era mai stato impulsivo.
Irruenza e permalosità non erano mai stati tratti distinti del suo carattere.
Tokitatsu l’aveva sempre pensato.


Ma evidentemente si era sbagliato.



 

***

 

Per chi segue o ha seguito Durarara!!, l'uscita di Hirato quando si arrabbiata fa molto alla Shizuo Heiwajima.
Siccome hanno lo stesso doppiatore, volevo divertirm
i un po' immaginandolo infuriato -ovviamente nei limiti del possibile, perché Hirato non sarebbe mai arrivato a sollevare un banco e scaraventarlo contro i suoi compagni come Shizu-chan.

In cuor mio, non credo nemmeno che lui abbia mai perso la pazienza in tutta la sua vita, però mi piacerebbe molto vederlo infuriarsi.

AsanoLight~

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Capitolo 28
*** Twenty-Eighth Day: Revenge ***


Jiki restò seduto sul divano del salotto della Prima Nave, senza muovere un muscolo, con il timore che potesse svegliarlo al minimo movimento. L’occasione era veramente d’oro. Tsukitachi oziava sbronzo sul divano, stavolta era la volta buona che imparava a non alzare più il gomito. Quasi provava un po’ di pena per lui, nel vederlo con una mano poggiata sul pavimento e l’altra sullo stomaco, la bocca aperta e la saliva che gli colava da un lato. Sembrava avesse avuto un piede nella fossa. Soffocò smaliziato una risata che si rivelò presto trasformarsi in un divertito grugnito.

Si alzò dal sofà e gli punzecchiò una guancia, per controllare che stesse ancora sognando profondamente. Nessuna reazione, oltre al solito russare imperterrito –sembrava non ne potesse più fare a meno. Si sfilò allora gli occhiali posandoli sopra il tavolino di vetro e, mentre avvicinava il suo volto a quello del comandante, faceva scivolare una mano nella sua tasca afferrando un pennarello ad inchiostro indelebile.

«Ora ci divertiamo un po’ comandante Tsukitachi…»
 

«Jiki! Jiki, dove diavolo sei! Ho bisogno delle tue tisane!»

Kiichi sbucò dall’arco del salotto, con la sua solita aria da bambina viziata, seminando scompiglio e confusione dovunque metteva piede dunque, individuato che ebbe il ragazzo, gli si avvicinò fulminandolo con un’occhiata: «Eccoti finalmente! Vai in cucina e preparami una di quelle tisane contro il mal di testa! Mi sta facendo impazzire!».

Se te ne vai in giro per tutta la Nave gridando la tua furia ai Quattro Venti, è normale che tu finisca per avere il mal di testa”

«Dammi cinque minuti e vengo a preparartela»

«No, io la voglio adesso»

«Adesso ho da fare», replicò freddo Jiki, facendole cenno con la mano di allontanarsi e stappando il pennarello.

«Ehi, che sta facendo?»

«Non ti deve interessare»

«Vuoi disegnare sulla faccia di Tsukitachi?»

«Fatti gli affari tuoi»

«Lo vuoi fare davvero?!», esclamò Kiichi sbalordita.

«Se ti dico di sì ti starai zitta poi?»


 

«TSUKITACHI! METTITI IN SALVO PRIMA CHE JIKI FACCIA DELLA TUA FACCIA UNA COPIA DELLA SUA!»

Jiki desiderò veramente strozzarla in quell’istante per avergli fatto andare in fumo un’occasione tanto preziosa quanto quella, occasione che raramente gli sarebbe capitata un’altra volta nella vita.

Tsukitachi aprì gli occhi atterrito all’urlo della ragazzina e si alzò di soprassalto, battendo con forza la testa contro la fronte del giovane e ricadendo sul cuscino più morto che vivo.

Forse non tutto era andato perso.

***
 

«Mi piace il tuo nuovo make-up, Tsukitachi», ironizzò Hirato porgendogli la borsa del ghiaccio e sogghignando compiaciuto. Il rosso la afferrò in un sospiro mentre, dall’altra parte del divano, Tokitatsu rincarava la dose: «Mi trovo ad essere d’accordo con Hirato, sai? E devo dire che quel bernoccolo ci sta proprio a pennello».

«Siete proprio vendicativi voi due…», si lamentò in un sospiro Tsukitachi, rivolgendo allora lo sguardo verso Akari, appoggiato, in disparte, allo stipite della porta, cercando in lui un briciolo di pietà e compassione. Ma Akari lo ignorò. Si limitò invece a guardare il comandante ed il ministro e fare spallucce.

La loro bastardaggine non aveva limiti.

Non c’era dubbio.

 

«Siete proprio fratelli voi due»

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Capitolo 29
*** Twenty-Ninth Day: Rebirth ***


Questa Fan Fiction è un seguito a Broken, Pessimistic, Patience e Meter.
Qualche giorno fa ho messo finalmente le mani sulla OST di Karneval.
Per chi gli dovesse capitare sotto mano, consiglio di leggere questo capitolo ascoltando "Requiem". Rende molto ;)
Come sempre voglio ringraziarvi per aver continuato a seguire i giorni di Karneval~
Un grande ringraziamento va anche all'immancabile NakamuraNya! ♥


 
***
 
 

Akari si passò esausto una mano tra i capelli. La visita improvvisa di Tokitatsu gli aveva tolto il respiro. Era una boccata d’aria pura da un mondo che ora gli pareva sconosciuto ed affascinante, un mondo da scoprire e senza frontiere ma al contempo si era rivelato una presenza non gradita in quell’istante. Si voltò verso di lui non appena lo udì entrare, nelle mani teneva stretto un orsacchiotto di peluche.
 

«Dove sta il mio fratellino~?», domandò dando una pacca sulla spalla al dottore ed avvicinandosi poi al diretto interessato.
Gli afferrò affettuosamente un ciuffo dei corvini capelli e gli mostrò l’orsacchiotto: «Ti vedo emaciato… Akari non ti avrà messo a dieta, vero?».

Il comandante si sforzò di sorridere e si mise nuovamente sdraiato.
Cosa c’era che non andava con lui?
Non aveva avuto nemmeno il coraggio di scendere da quel letto, ed ora era come se nel cuore avesse avuto un enorme macigno. Lo sapeva. Non c’era bisogno di dirlo. Sapeva, in cuor suo, di aver perso un’altra battaglia.
Lo sguardo mesto ma ambiguamente soddisfatto di Akari glielo lasciava intuire.

Chiuse gli occhi e strinse la mano del fratello, ignorando dapprima l’orsacchiotto di peluche.

«Sono meravigliato che tu abbia trovato del tempo libero per venire a trovarmi», commentò sereno, trattenendo le lacrime per sé, nel suo cuore.
«Non c’è bisogno di ringraziare, Hirato», gli rispose il fratello, «I dottori hanno detto che avrai bisogno di stare a letto ancora per molto per riprenderti completamente per cui, per tirarti un po’ su il morale, ti ho portato Mr. Teddy, il peluche che ci litigavamo sempre da piccoli».

Akari lo guardò scettico, inarcando un sopracciglio, ma ci pensò Hirato a dare voce ai suoi pensieri: «Tokitatsu... Sono un po’ cresciuto per i peluche non ti pare? Quelli oramai sono tempi andati…».
«Non vederla così, Hirato!», lo rasserenò il fratello, stringendogli con forza la mano, scarna e debole, «Sai che non posso venire a trovarti spesso quindi fai finta che quell’orsacchiotto sia io! Così quando Akari non starà con te, ci sarà Mr. Teddy a tenerti compagnia!».
«Dannazione, mi sarei aspettato un discorso del genere da Yogi», mormorò il corvino divertito, sorridendogli mesto, «Ma mai da te».
Tokitatsu era così.
Fastidioso ma importante. Una persona a cui non sarebbe mai stato in grado di rinunciare, per nessun motivo al mondo.

 

«Hai davvero un fratello bravo», commentò Akari, scrutando la lontana Luna, che tingeva di argentei riflessi il mare che si poteva ammirare dalla finestra della camera, «Sei fortunato, Hirato».
«Sono fortunato anche ad avere te, Akari», aggiunse allora il comandante, guardandolo felice, «...Che sei qui, giorno e notte, per me...».

 

«Non è una grande fatica»

«Non lo è?»


 

Hirato chiuse gli occhi e sospirò. Erano quel genere di discorsi che gli facevano venire voglia di piangere, di urlare, erano quelle parole a strozzargli il cuore in gola e fargli salire le lacrime fino agli occhi.

Quel genere di menzogne, quelle che più detestava.
 

Tutte le notti vedeva la Luna sorgere, salire alta, sempre più alta nel firmamento, tutto da quella finestra.

Chi? Chi avrebbe veramente potuto cambiare quella situazione?
 

Sedette sul materasso e passò una mano tra i soffici capelli del dottore mentre stringeva malinconico a sé Mr. Teddy.

Chi avrebbe potuto compiere il prodigio e liberarlo da quelle catene, quella fastidiosa gabbia e farlo nuovamente volare libero?
 

La Luna inargentò i suoi capelli. Accarezzava ora anche il pelo di stoffa di Mr. Teddy.
I ricordi gli scivolarono improvvisamente dalle mani.
 

Frammenti della sua infanzia e del suo passato in una mano, un passato che non si sarebbe ripetuto, che non sarebbe mai più tornato, e nell’altra, intrecciata tra i capelli di Akari, frammenti del suo presente e di un futuro che forse non ci sarebbe mai stato.

Incertezza.

Perché era quella l’unica ad essergli rimasta.
 

Abbassò lo sguardo lucido. Si chinò sul dottore, ancora una volta addormentatosi sulla sedia, con la testa sopra il suo letto. Sfiorò i suoi capelli ed espirò profondamente, tremando, reprimendo l’istinto che in quel momento l’avrebbe portato solo che a piangere.
«Mi dispiace, Akari», gli mormorò posando le sue labbra sulla testa del medico, «Ti amo, ti amo, non ho il coraggio di dirtelo in faccia ma ti amo. E per questo motivo non starò qui ad ascoltarti».

 

Tu stai facendo abbastanza per me
 

Definì con la mano la linea della mascella del dottore e gli portò un ciuffo ribelle di rosei capelli dietro l’orecchio dipingendosi in volto un malinconico sorriso. Gli posò accanto Mr. Teddy e fece per scendersene dal letto. Appoggiò prima la gamba destra poi quella sinistra sulle fredde piastrelle della Torre di Ricerca.
 

Era la prima volta, dopo tanto tempo, che toccava con i piedi nudi qualcosa.

Era una sensazione così bella, sapere che sotto di sé c’era ancora qualcosa di concreto, che la Terra, in tutto quel periodo che aveva trascorso a letto, non aveva smesso di girare e di evolversi.
 

Tentennò e si morse il labbro inferiore soffocando un gemito. Gli faceva male la gamba destra. Ridicolo. Dopo tutto quel tempo passato a riposo avrebbe dovuto essersi ripreso da un sacco di tempo. Si appoggiò al letto e, con cura, si lasciò scivolare fino a terra. La luce della Luna lo aiutava a vedere nitidi i contorni degli oggetti nella stanza. Si trascinò fino alle stampelle e vi si aggrappò aiutandosi a rialzarsi.
 

Chi, se non lui, poteva cambiare quella situazione?
 

Si voltò e guardò speranzoso la Luna.
 

«Queste passeggiate saranno un segreto tra me e te, signora Luna, va bene?», dunque sorrise, e gli parve di aver firmato un patto quasi divino.

 

***

 

Uscì dalla camera anche quella notte.

Si sentiva meglio.

Il dolore alla gamba era completamente svanito, le catene attorno alle sue braccia cominciavano ad allentarsi, era in una così trepidante attesa di assaggiare il sapore della libertà che quasi non vedeva l’ora di tornare a volare e perfino il lavoro, in quei periodi, gli sarebbe parso preferibile al riposo, quasi divertente.

Si mise in piedi e baciò la guancia del dottore in un sorriso, sfiorandola poi con l’indice ed il medio.
 

«Grazie di tutto quello che stai facendo per me», gli sussurrò, «Ma vedrai che presto non sarà più necessario».
Akari restò in silenzio, immerso nel suo sonno.

 

La porta si aprì, la luce del corridoio filtrò in un piccolo spiraglio, lo stesso barlume di speranza che teneva vivo il cuore di Hirato. La richiuse dietro di sé e la luce accarezzò il volto del dottore prima di svanire completamente e lasciare il posto alla Luna.

 

Perle argentate lungo il viso di Akari.
 

Le stampelle appoggiare al muro.
 

Un singhiozzo strozzato.

 

 

 

«Ti amo anch’io, bastardo»

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Capitolo 30
*** Thirtieth Day: Autumn ***


Ci siamo! L'ultimo giorno di Karneval è qui! Mi dispiace davvero, sono volati proprio xD
Spero vi siano piaciuti, sto pensando di pubblicare presto un'altra raccolta.
Fatemi sapere pure cosa ne pensate, sia se avete letto l'intera raccolta o anche alcuni capitoli sparsi! ;)
Io come sempre ringrazio tutti coloro che l'hanno seguiti di giorno in giorno e soprattutto te, che in questo momento la stai leggendo.

AsanoLight~


 
***




 
Yogi sedeva sulla panchina, dondolando annoiato i piedi avanti ed indietro, come farebbe un bambino sull’altalena per salire sempre più in alto, fino a toccare l’azzurro cielo e le sue nuvole e guardava scuro e malinconico le foglie di un castagno cadere a terra ed accumularsi sul prato formando tumuli sempre più alti.
 
«Gareki-kun...», mormorò improvvisamente attirando l’attenzione del burbero ragazzo dai corvini capelli, che scrutava a braccia conserte il cumulo di foglie  a terra, disinteressato ed a sua volta tediato da una miriade di pensieri, ricordi che lo portavano lontano a tempi in cui la castagna era un sinonimo di famiglia e di unione, un pretesto per passare del tempo assieme, davanti ad un caldo focolare, «Pensi che gli alberi soffrano quando cadono le foglie?».
Gareki si destò, riportato alla realtà da quelle parole.
«Che domande fai?», rispose freddo, chinando leggermente la testa irritato, nella bocca un sapore amaro e nel petto una ferita, che lentamente cominciava a bruciargli.
Non che fosse scontento del suo presente ma nei recenti tempi, quando guardava addietro, al suo passato, pensava che avrebbe potuto fare di più, e si faceva improvvisamente bigio in volto.
 
«Pensaci anche solo per un istante...! Povere foglie, tutte a terra, sole e morte. E nessuno che le onora nemmeno con un funerale... Dev’essere triste la vita quando sei una foglia...»
«Dimmi che non ci stai serio...»
«Gareki-kun non ha proprio tatto per queste cose...», mormorò triste Yogi, «Pensa a quelle povere foglie, tristi e sole...».
 
Sì, probabilmente quell’idiota aveva ragione. Lui non aveva tatto per ‘quelle cose’, per tutto ciò che concerneva l’amore e la famiglia. Si era abituato a tutto, alla solitudine, al vivere senza pensare al domani. La morte era l’ultimo dei suoi problemi. Non sarebbe mai riuscito ad intendersi con un ragazzo che lotta per gli altri, che mette a repentaglio la propria vita per salvare quella di sconosciuti.
Lui, un egoista, non sarebbe mai riuscito a capire il cuore di un altruista.
 
Sospirò.
Yogi era un raro esemplare.
Alla sua morte avrebbe insistito per far devolvere il suo corpo alla scienza.
Ma fino a quel giorno avrebbe fatto di tutto perché fosse stato sbattuto in un manicomio.
Si sarebbe occupato lui stesso di gettare via la chiave della sua stanza.
 
«Tu faresti un funerale per ogni capello che ti cade?», gli chiese aggrottando le sopracciglia con tono risentito.
Il biondino negò con il capo in una risposta che non giunse inaspettata a Gareki.
«E allora smettila di fare domande idiote»
 

«Che toni rudi, Gareki...»
 

«Hirato-san!», esclamò Yogi allegro, balzando in piedi dalla panchina e muovendo le braccia come per farsi notare. Smontò tuttavia il suo entusiasmo quando lo vide seguito da Akari e Tsukitachi: «C-Cosa ci fate qui?».
«Akari deve fare la campionatura del terreno e delle forme di vita delle zone circostanti e dato che la sua equipe è rimasta nei dintorni della Prima Nave ha avuto la brillante idea di utilizzare noi come suoi sostituti, per oggi», spiegò Hirato in un sorriso soddisfatto.
Il dottore gli passò un paio di guanti in lattice, in uno sguardo accigliato e risentito –si potrebbe quasi dire usuale, invitandolo a cambiarli con quelli di pelle che portava di solito a bordo della Nave.
«Non farmi perdere altro tempo. Ti ho già detto che per questo lavoro servono i guanti in lattice».

«Ah, il dottor Akari è sempre così premuroso nei confronti di Hirato-san!», esclamò con occhi straboccanti di ammirazione il biondino, congiungendo entrambe le mani e sprizzando gioia da ogni poro.

Tsukitachi portò sereno le braccia al collo di entrambi, trascinando e stringendo tanto Akari che Hirato in un affettuoso abbraccio, «Akari è molto molto premuroso nei confronti di Hirato! Dice di odiarlo ma in fondo in fondo gli vuole un mondo di bene!».

Gareki inorridì, un brivido gli percorse rapido l’intera colonna vertebrale, dall’osso sacro fino all’ultima vertebra, gli si accapponò la pelle al ricordo dei succhiotti che spesso aveva notato sulla pelle del dottore, ricordo stesso che lo spinse a grattarsi nervosamente la nuca, ostentando disinteresse.

«Di’ un’altra parola e ti ammazzo con le mie stesse mani, Tsukitachi», sibilò il dottore incenerendolo con lo sguardo e liberandosi violentemente della sua presa, come un animale quando riconquista la libertà.
«Piuttosto», disse dunque rivolendosi ai due ragazzi, «Voi non dovreste essere alla Nave? Non vi dovreste muovere troppo da soli. Il rischio di essere attaccati è sempre in agguato. E’ meglio non azzardare».
Yogi si irrigidì all’udire le parole severe del dottore e si imbronciò in volto con aria rassegnata ma al contempo dispiaciuta, come un bambino che prende consapevolezza di aver infranto una regola.
«Mi dispiace dottor Akari. Avevamo cominciato a passeggiare nei dintorni e a furia di camminare siamo arrivati qua. Si stava così bene che abbiamo deciso di restare un po’-».
«Una passeggiata sotto un viale alberato come una tenera coppietta!», esordì Tsukitachi sereno, portandosi colpito una mano al cuore in un gesto assai istrionico, mentre alzava gli occhi verso l’azzurro cielo, sognante e pieno di ricordi, «Che cosa romantica! Compatirsi tra scapoli! Quando la pietà diventa amore!».
 
«Co-»
Gareki avrebbe voluto interromperlo tuttavia il comandante della Prima Nave era già partito e l’impresa si rivelò perfino più impossibile del fermare un treno in partenza.
Ciò che maggiormente lo stupì fu il fatto che da parte di nessuno dei presenti venne la bella idea di frenare il rosso davanti a quella chiara manifestazione di completa deficienza di buonsenso.
 
«Beati voi che potete! La mia occasione è svanita secoli fa...! E chissà quando ricapiterà il prossimo treno! Lei era bellissima, una stupenda ragazza, con lo sguardo accattivante, lo stesso di una tigre, ed il sorriso di una Fata! Aveva la voce di una Musa ed incedeva come una Dèa! Non la dimenticherò mai, anche dopo tutto questo tempo...».
 
Yogi aprì la bocca meravigliato.
«Tsukitachi-san... da quanto non la vedi?»
 
«Tre giorni», precisò freddo Hirato, in un composto sorriso che, paragonato all’umore del suo compagno ed alla sua enfasi, aveva tutti i requisiti per essere inteso come canzonatorio, «Ed è la sessantasettesima donna che non dimenticherà mai nell’arco dell’ultimo anno. E’ ora che cominci a prendere nota. La lista potrebbe diventare più lunga del previsto nei prossimi vent’anni».
«Tu ancora gli dai retta?», chiese Akari in un tono piuttosto scettico, «Piuttosto, non mi hai sentito prima? Ti ho detto di metterti i guanti non di ascoltare quel cafone ciarlare».
«Temo mi si sia impigliato da qualche parte il bottone del guanto di pel-»
«Aspetta», bofonchiò il dottore prendendogli diligentemente il polso e lasciando scivolare lentamente il bottone del guanto fuori dalla propria asola, suscitando il sorriso del comandante.
 
Notando il silenzio dei presenti e lo sguardo smaliziato del comandante della Prima Nave, digrignò i denti irritato riprendendolo in uno dei suoi soliti burberi toni.
 
«Tsukitachi, smetti di fare quella faccia da ebete e muoviti!»
 
Il comandante restò tuttavia per qualche istante immobile sorridendo felice ed osservando i due compagni allontanarsi, inoltrandosi tra i meandri della foresta. Sentì il cuore scaldarglisi in petto ed improvvisamente gli venne restituito il buon umore.
 
Guardò Gareki e gli rifilò un sereno sorriso mentre gli dava una pacca sulla spalla.
 
«Si vede lontano un miglio, ragazzo, che tu sai quanto io so’»
 
«Ma non invidi neanche un po’ la loro felicità?», mormorò prendendolo sotto braccio, la voce si fece d’un tratto più tagliente ed insidiosa, «Ricordati, puoi ingannare chiunque ma non te stesso. E se ora come ora ti stai chiedendo come faccia a sapere certe cose...».
 
Sorrise.
Si inchinò rispettoso davanti ai due e fece per allontanarsi salutandoli con la mano.
 
«Hirato! Akari-chan! Aspettatemi, non andate da soli! Piccioncini~!».
 
Gareki non chiese altro.
Poteva immaginarsela da sé la risposta.
 
 
“E’ un segreto”

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