Maybe somewhere west of hell

di xirefrommars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alibi ***
Capitolo 2: *** We're gonna live forever tonight ***
Capitolo 3: *** Into the night, desperate and broken ***
Capitolo 4: *** Such a beautiful lie to believe in ***
Capitolo 5: *** One day maybe we'll meet again ***



Capitolo 1
*** Alibi ***


Sembrava notte nella mia stanza; in realtà non lo era, penso fossero le tre circa. Ero rannicchiata in un angolino del mio letto sotto le coperte calde con il mio Ipod, e stavo ascoltando a ripetizione la stessa  canzone da due ore a quella parte; era la “mia” canzone, lunica che in un certo senso riuscisse a salvarmi ogni volta, Alibi. Una volta finita premetti di nuovo il tasto play, e le prime note mi invasero di nuovo.
Chissà se loro erano già lì. Una piccola lacrima coominciò a scorrermi sulla guancia. Sicuramente erano già arrivati. Faceva male, malissimo sapere che loro, proprio loro che erano la mia salvezza, erano la mia felicità, la mia forza in quel momento si trovavano a neanche venti minuti di distanza da dove ero io. Così vicini e così lontani, irraggiungibili. Quella sera ci sarebbe stato il concerto dei Thirty Seconds To Mars, ed io non potevo andarci. Asciugai un’altra lacrima. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato quel giorno, ma non avevo mai immaginato che avrebbe potuto fare così male.
E mi ritrovavo lì, rinchiusa nel mio piccolo appartementino con i miei ventitre anni e senza biglietto per il concerto che non potevo permettermi dato che facevo già i salti mortali per pagarmi l’università.
Alibi era finita un’altra volta. E un’altra volta premetti il tasto play.
 
Lo squillo del telefono mi fece sobbalzare. Mi ero addormentata ed avevo totalmente perso la cognizione del tempo. Mi tolsi le cuffiette che avevo ancora nelle orecchie e scivolai fuori dal letto allungando un braccio per prendere il telefono sul comodino, che però aveva già smesso di suonare. Sbuffai, chiunque fosse poteva richiamarmi di nuovo dopo dato che era un numero sconosciuto.
Alzai leggermente la tapparella della finestra, di quel poco che mi permise di notare che stava iniziando ad essere buio. Sospirai, ed il mio pensiero volò di nuovo a loro. Jared, Shannon e Tomo erano nella mia città e io ero a casa. Ero legata a loro in una maniera che non riuscivo a spiegare, gli volevo incondizionatamente bene, erano gli “uomini della mia vita” coloro che riuscivano a farmi sorridere in ogni momento, che mi facevano stare bene. Erano il mio mondo, la mia salvezza. Shannon con le sue braccia possenti, la sua sicurezza, il suo aspetto da duro che poi si rinnegava  in quel sorriso che era capace di sciogliere i ghiacciai. Tomo con la sua allegria, le sue risate, ma allo stesso tempo la sua determinazione ed il suo impegno in tutto quello che faceva. E poi c’era lui, l’uomo dagli occhi color cielo che brillavano illuminati da tutti i suoi sogni. Lui che mi aveva completamente stregato con quella voce perfetta in ogni singolo accento.  Lui che anche se non avevo mai visto dal vero, non ci avevo mai parlato e lui che non sapeva neanche della mia esistenza sulla faccia della terra era riuscito a rubarmi il cuore.  Il telefono squillò di nuovo.
“Pronto?” dissi.
“Ciao tesoro.”. il mio cuore saltò un battito. Era mio padre.
Lui e mia mamma avevano divorziato anni fa, dopo lunghe e terribili litigate che non potrò mai dimenticare ed io non avevo mai avuto un buon rapporto con lui, anche perché il suo lavoro lo portava ad essere all’estero per la maggior parte dell’anno, mesi in cui non si faceva mai sentire né con un messaggio o una telefonata, e quindi lo vedevo così poco che per me era diventato quasi un estraneo.
Dall’ultima volta che lo avevo visto erano passati quattro mesi e mezzo.
“Ciao papà.” Dissi piano.
“Valentina sono tornato qualche ora fa, sto venendo dall’aereoporto e ti passo a prendere così andaimo a mangiare qualcosa nel risstorante dellultima volta.”.
Quella proprio non me l'aspettavo. E sicuramente quella sera non avevo voglia di uscire e parlargli, avevo in mente solo i Mars e gli Echelon al concerto. Tuttavia risposi di si e in dieci minuti mi ritrovai ad aspettarlo fuori di casa mia. Forse il mio subconscio voleva avere una distrazione o che so io. Forse avevo solo voglia di vederlo, nonostante tutte le delusioni che mi aveva dato.
Sentivo il vento freddo come una frusta sulle guance, mentre cercavo di coprirmi al meglio con cappello e sciarpa di lana. 18:17 e lui non arrivava. Era in ritardo. Aspettavo. 18:28. Aspettavo. 18:40. Squillò il cellulare, era lui.
“Valentina tesoro io non so come dirtelo ma mi hanno chiamato, per lavoro sai, e devo subito prendere il primo volo per Londra, mi dispiace.” Eccola lì, l’ennesima delusione che mi colpiva violenta come una mazza da baseball. Avevo sperato invano. Come sempre. Non potevo sentirmi peggio in quel momento, e sentii le prime lacrime scorrermi sulle guance.
“Mi dispiace, scusami. Sta arrivando Dave da te, l’ho mandato a portarti una cosa.” Persino le sue misere scuse sembravano fredde, false, ghiacciate come quella giornata. Riuscii a pronunciare un debole “okay” prima di buttare giù. Nello stesso momento vidi la macchina di Dave avvicinarsi e mi asciugai in fretta le lacrime al meglio. Avevo solo voglia di ritornare in casa a spararmi The Kill nelle orecchie fino ad addormentarmi in qualche modo.
“Ciao” mi salutò lui. “ho appena visto tuo padre, mi ha detto di darti questa” mi porse una busta bianca.
“Okay.” Dissi anche questa volta, girandomi ed entrando in casa.
Buttai la busta sul tavolo, sicuramente sarano stati soldi o una lettera, ma non lo volevo sapere.
Presi l’Ipod e ritornai a letto, sotto le coperte come se in qualche modo cercassi  di ripararmi dalle onde della vita che mi travolgevano così forte, troppo forte. Solo loro sarebbero potuti essere la mia ancora di salvezza. In loro ritrovavo  tutto ciò di cui avevo bisogno, dal coraggio alla forza, ad un senso di appartenenza. Li amavo in una maniera fuori dal comune a volte credevo veramente che il mio cuore potesse scoppiare. Erano la mia fortezza personale.
“Bury me, bury me, I am finished with you”
Incredibilmente mi addormentai di nuovo, mentre The Kill sprofondava nella mia anima, nel mio cuore fino in fondo.
A svegliarmi un’ora dopo non fu un rumore, ma una sensazione. Una sensazione che non provavo da così tanto tempo, una sensazione di pace, di gioia, di tranquillità con il mondo. Era così strano. Guardai fuori , ormai era totalmente buio e mancavano venti minuti alle nove. L’unica cosa che pensavo era che dopo venti minuti  avrebbero iniziato a suonare. Pensai che molto probabilemente erano in ritardo, e mi sfuggì un sorriso. Sarebbe iniziata quella magica serata per tutti gli Echelon che erano lì ad espettare, chi arrivato la mattina presto, chi addirittura lì già dalla sera prima. Chissà per quanti sarebbe stata la prima volta, il loro primo concerto ed il sogno sarebbe diventato realtà. Doveva essere così anche per me, ma non lo sarebbe stato.
Andai in cucina a bere un bicchiere di latte dato che per qualche strana ragione avevo lo stomaco chiuso e non riuscivo a mangiare niente.  Quando mi sedetti sulla sedia mi cadde lo sguardo sulla busta bianca di mio padre e un’onda di rabbia nei suoi confronti mi colpì. Però la presi in mano ugualmente. Forse per curiosità o forse per istinto ma la aprii. Fu allora che lo vidi.
 Non erano soldi. Era un pezzo di carta. Un semplice pezzo di carta giallo in cui era racchiusa la mia gioia, i miei sogni. Iniziai a tremare. Stavo tenendo in mano il biglietto dei 30 Seconds To Mars per il concerto di quella sera.

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Capitolo 2
*** We're gonna live forever tonight ***


Cantavo e gridavo in macchina mentre guidavo in direzione del mio sogno. Ero totalmente fuori di me. Prima di partire avevo dovuto aspettare due minuti per cercare di calmare la crisi di pianto che mi era presa e poi ero uscita così com’ero, vestita elegante con i vestiti che avevo preparato per la cena con mio padre. Stavo esplodendo di gioia e mille altre emozioni che non riuscivo quasi a gestire.
“We were the kings and queens of promise” cantavo a squarciagola saltellando sul sedile dell’auto pur cercando di mandenere un minimo di attenzione sulla guida con scarsi risultati dato che mi suonarono il clacson tre volte, e tutte e tre le volte mi affacciai al finestrino e gridai una frase della canzone che stavo cantando ancora più forte.
Dieci minuti ancora e sarei stata lì, con la mia famiglia. Dieci minuti. Ero così presa dall’euforia che quasi non mi accorsi che la mia macchina stava pian piano rallentando da sola fino a fermarsi del tutto emettendo uno strano rumore.
“Ma che…?” dissi ad alta voce ridendo. Quando l’auto non ripartì dopo i vari tentativi venni bruscamente riportata alla realtà ed iniziò a prendermi il panico.
“Oh ma dai!” dissi di nuovo.
“Ti prego non farmi questo, non ora! Dannazione.”  Non riuscivo a rimetterla in moto. Non potevo crederci. Non poteva essersi fermata proprio quella sera.
Scesi dalla macchina. Era freddo, un freddo cane. La chiusi a chiave. E iniziai a correre.
Non ero mai stata una cima negli sport, ma il mio corpo atletico mi aiutava molto e volavo veloce come il vento, sentivo che non avrei più potuto fermare le mie gambe  che andavano, spinta dopo spinta, passo dopo passo verso il mio sogno. Quasi riuscivo a sentire il biglietto nella tasca interna del giubbotto; era quasi caldo, e mi sembrava che pulsasse come un cuore. Era come se in quel momento il mio cuore e quel biglietto fossero una cosa sola. E metaforicamente lo erano.
Correvo. Correvo. Correvo. Ho corso tanto e non so neanche per quanto tempo, ma alla fine, dopo quell’intervallo indeterminato, la vidi, li in fondo, la struttura del concerto, la mia meta.
Stavo per continuare a correre per la strada quando mi venne in mente che avrei fatto molto prima a tagliare per il boschetto del parco. Era buio, ma ci ero stata così tante volte che sapevo a memoria tutte le stradine e sarei sbucata dalla parte contraria rispetto all’entrata, ma mi sarebbe solo bastato fare il giro.
Ad un certo punto mi accorsi di una cosa, mano a mano che mi avvicinavo all’uscita del bosco. Sentivo dei lamenti, delle grida, una voce che continuava a dire qualcosa che non capivo ed un respiro affannoso. Mi prese una paura profonda. Mi nascosi accucciata dietro ad un cespuglio più avanti, e la scena si aprì ai miei occhi. Smisi di respirare per cinque secondi , cinque secondi che bastarono per far accelerare i battiti del mio cuore del triplo rispetto a prima. Lì era buio, e c’era Sahnnon, in carne ed ossa, che gridava preoccupato di calmarsi a qualcuno piegato e inginocchiato a terra vestito di nero che non riuscivo a vedere.
La persona misteriosa era come se non riuscisse a respirare ed emetteva strani versi, di dolore, che mi sembravano strazianti.
Poi si girò, e per un millesimo di secondo i nostri sguardi si incrociarono. Quegli occhi. Quell'azzurro ghiaccio pieno di terrore e angoscia. Gli occhi di quel demone-angelo sui miei.
Gridai. Non so perché lo feci, ma mi uscì spontaneo. Shannon si girò verso di me, con uno sguardo implorante.
“Ti prego aiutami…Jared, lui…non lo so, era da così tanto tempo…che non gli succedeva, io…io non so che fare. È…è panico” capii tutto quello che mi disse nonostante le parole confuse e la lingua diversa. Jared Leto. Attacco di panico.
Schizzai fuori dal mio nascondiglio e andai a prendere le spalle di quell’uomo che inconsapevolmente mi aveva salvata così tante volte, che era il mio tutto.
“Jared, Jared guardami.” Nei suoi occhi vedevo terrore, mentre cercava di respirare il più possibile con la bocca aperta.
“Guarda i miei occhi, Jared!” non sapevo neanche quello che stavo dicento, lo dicevo e basta. Shannon era in disparte che ci guardava, me accucciata affianco al fratello. Finalmente Jared mi guardò.
Per un istante persi ogni contatto con il mondo, mi persi nei suoi occhi lucidi dalle lacrime, mi persi in lui.
“Respira. Devi respirare Jared, lentamente.” Iniziai a fare respiri profondi, facendogli vedere. Lui mi guardava, ma continuava a boccheggiare.
“Così, così. Fai così.” Avevo una mano sulla sua spalla che era completamente bagnata di sudore.
Mi sembrava un bambino indifeso che cercava disperatamente aiuto.
Dopo svariati secondi cominciò a calmarsi; iniziò a respirare più lentamente, e iniziai anche a sentire i battiti del suo cuore che rallentavano.
“Bravo così Jared.” I suoi occhi sempre fissi sui miei.
Ero seduto a terra, i lunghi capelli fradici di sudore. Allungai una mano per toccargliene un ciuffo, ma improvvisamente lui fece uno scatto e si alzò in piedi, con lo sguardo ancora un po’ smarrito.
“Come ti…” iniziò a chiedergli Shannon, ma il fratello lo interruppe subito.
“Devo andare. Muoviti Shan, dobbiamo iniziare, veloce.” Il suo tono era duro, deciso. Si girò e si allontanò verso l’entrata sul retro.
Ci rimasi di sasso. Ero ancora inginocchiata per terra, mentre nella mia testa rielaboravo ciò che era successo a rallentatore. Non mi aveva neanche detto grazie.
Shannon mi porse una mano.
“Grazie. Grazie anche da parte sua, lui…lui è così.” Disse con aria rassegnata, ma il suo sorriso mi fece tornare alla realtà.
“Si, si.” Risposi, mentre gli afferravo la mano.
“Sembri un po’ scossa. Ma lui sta bene. Era molto tempo che non gli succedeva una cosa del genere prima di un concerto, ma non era la prima volta” mi disse lui con una voce rassicurante, e poi mi abbracciò.
Mi strinse tra le sue braccia e io mi abbandonai totalmente a lui. Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sulla sua spalla. Quell’abbraccio mi diede forza. Sentivo il suo profumo pungente, e cercai bene di imprimerlo nella memoria. Ero nelle sue braccia, ero in un posto sicuro.
“Ora è meglio che tu vada, sta per iniziare il concerto. Però aspetta un secondo, come ti chiami?” mi chiese.
“Valentina” gli sorrisi. Anche lui mi sorrise. Quel sorriso che era l’ottava meraviglia del mondo.
“Grazie per aver aiutato Jared, Valentina. Senti…vieni qui, aspettaci qui dopo il concerto.” Mi disse Shannon mentre si allontanava piano piano anche lui.
Restai lì da sola al buio. Mi sentivo un po’ sconvolta, per un attimo mi domandai anche se per caso non fosse stato solo un sogno, una mia immaginazione. Feci tre respiri profondi per calmarmi, poi presi il biglietto ed entrai.
 

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Capitolo 3
*** Into the night, desperate and broken ***


Fu indescrivibile. Assolutamente indescrivibile. Non mi ero mai sentita così felice, così piena, così...viva come quella sera. Saltai e cantai tutto il tempo, ogni singola canzone con il cuore a mille e le lacrime agli occhi. Soprattutto non riuscivo a crederci che stava veramente accadendo, quel momento che avevo sognato, immaginato così tante volte si era concretizzato, lo stavo vivendo ed era la mia realtà.
Prima dell’inizio di Birth si spensero tutte le luci e restammo al buio, ed un boato si levò dalla folla. Iniziava.
Entrò per primo Shannon e tutti noi scoppiammo in applausi e urla, e fu lo stesso anche per Tomo. Poi iniziammo a sentire la voce di Jared: perfettà, magnifica come non mai. Si mostrò anche lui. Si era cambiato vestiti, aveva gli occhiali da sole e sembrava così dannatamente perfetto da essere solo un’immaginazione, un sogno.
Da quel momento in poi “persi me stessa” e fu come se tutti i cuori degli Echelon si unissero in uno solo e fu la sensazione più magica di sempre. Gridai l’ “I am home” di City Of Angels prendendo le mani delle due ragazze affianco a me ed era vero, lì ero a casa.
La cosa incredibile era che Jared sembrava essere una persona diversa di quella che avevo aiutato qualche minuto prima, era così sicuro di sé, determinato, sorridente, energico,completamente a suo agio.
Arrivò Up In The Air, l’ultima canzone, in un batter d’occhi, ad altrettanto velocemente il “See you soon, Italy!” di Jared, e poi abbandonarono il palco e la gente cominciò ad andarsene.
Avevo le gambe completamente a pezzi da quanto avevo saltato e la gola secchissima. Non riuscivo più ad alzare le braccia perché avevo malissimo ai muscoli delle spalle però non sarei potuta essere più felice. Avevo stampato in faccia un sorriso che niente sarebbe stato capace di togliermi.
Arrivai mezza zoppicando al posto che mi aveva detto Shannon e mi sedetti per terra, appoggiando la testa ad un palo della luce.
Chiusi gli occhi un momento, mentre le immagini di pochi istanti prima mi passavano nella mente. Tomo che saltava battendo le mani e ridendo, Jared che si buttava tra la folla e Shannon che agitava le braccia sulla sua Christine. Era stato tutto perfetto.
Mentre ero immersa tra i ricordi mi addormentai sorridendo, nonostante il freddo gelido di quella notte.
Non so perché fossi li. Mi svegliai improvvisamente; era buio e stavo tremando dal freddo. Controllai sul cellulare: erano le tre e mezza di notte.
Mi sentii uuna stupida colossale. Era ovvio che non sarebbe venuto nessuno. Shannon sicuramente me lo aveva detto solo così, perché probablimente gli facevo pena o non sapeva più cosa inventarsi per andarsene. Però ero un po’ delusa, nonostante tutto. Ci avevo sperato, ci avevo sperato veramente. Sarebbe stato troppo bello.
Mi alzai lentamente, avevo le gambe addormentate e i muscoli duri dal freddo, ed iniziai a camminare. Non sapevo esattamente dove andare dato che la mia macchina era fuori funzione ed arrivare al mio appartramento a piedi a quell’ora di notte fonda era improponibile.
Arrivai in centro città e mi imbucai in un night club che rimaneva aperto fino a mattina.
Ero stanchissima, e faticavo a tenere gli occhi aperti. Mi sedetti al bancone del piano bar e ordinai un caffè, prendendomi la testa tra le mani e massaggiandomi le tempie.
Quattro posti più alla mia destra poco dopo sentii un uomo che cercava di spiegarsi con il barista, non era italiano, e questo non capiva.
“Le ha chiesto a che ora chiude, cortesemente.” Intervenni io rivolta al barista, traducendo l’inglese dell’uomo.
Avevo i lunghi capelli che mi coprivano la visuale dato che avevo la testa china, e non vedevo niente.
“Valentina.” Sentii pronunciare il mio nome con un accento americano.
Mi girai, e per poco non mi venne un colpo. Seduto c’era Shannon con un cappello che gli copriva gli occhi, e alla sua destra Tomo. Rimasi un attimo spiazzata. Si avvcinarono tutti e due e si sedettero vicino a me.
“Tomo lei è Valentina.” Disse lui rivolto al chitarrista. Gli sorrisi, mi sentivo paralizzata. Erano proprio lì affianco a me. Il mio cuore stava battendo così forte che temevo potesse esplodere come una bomba da un momento all’altro. Tomo mi abbracciò. La dolcezza di quell’uomo era una cosa strepitosa.
“Cosa ci fai qui? …Oh mio dio. Valentina scusami. Io…io…oh no, io ti avevo detto di aspettarci lì. Mi dispiace tantissimo. Ma abbiamo avuto alcuni…” Shannon lanciò un’occhiata a Tomo. “mmmh.. alcuni problemi.” Concluse poi, togliendosi il cappello e passandosi una mano tra i capelli. Non ero sicura di riuscire a parlare. Volevo dirgli che non importava, che non doveva essere dispiaciuto, che andava tutto bene, benissimo e che quello era il giorno più bello della mia vita.
“Ma figurati, sto bene. Io…” dissi solo, pentendomene all’istante, che senso aveva quello che avevo detto? Un singhiozzo improvviso mi interruppe, e senza preavviso cominciai a piangere. Non so per quale motivo preciso, ma avevo bisogno di svuotarmi.
Shannon mi prese subito tra le sue braccia ed iniziò ad accarezzarmi i capelli dicendo “Shhhh.”.
Mi calmai. Quell’ uomo aveva veramente qualcosa di speciale, una luce calda dentrò di sé che emanava tranquillità, e lo rendeva meraviglioso.
Proprio mentre facevo quel pensiero Tomo si girò di scatto, ed io feci lo stesso.
Dalle scale per il seminterrato stava salendo un uomo che rideva rumorosamente abbracciato a due ragazze bionde che avevano un seno molto evidente e una minigonna quasi inesistente, e ridevano anch’esse.
L’uomo alzò la testa, proprio mentre Shannon diceva “Jared, dobbiamo andare adesso.”
Rimasi impietrita, totalmente incapace di muovermi. Mille sensazioni, emozioni mi stavano divorando l’anima.
“Ora arrivo, calmo. Shan, vuoi che ti presenti Dalia e Kate? Sono molto molto molto simpatiche, sai!!” e rise di nuovo. Non era lui, non poteva essere Jared. Non QUEL Jared. Mi rifiutavo di crederci. Non poteva essere quell’uomo che mi incitava a combattere per i miei sogni e che mi dava la forza ogni giorno.
I suoi occhi erano diventati ghiaccio infuocato. Era totalmente ubriaco.
“Ahh ma che c’è? È gia finita la festa? Oh ragazze mi dispiace, papino e zietto hanno detto che devo tornare a casetta a fare il bravo bambino.” Disse Jared con una voce stupida.
“Per l’amor di dio, sei un uomo!” disse Tomo scocciato, ma anche con un’aria di rassegnazione. “Tutte le volte la stessa storia…” disse sempre lui più sottovoce, tra se e se, ma io sentii lo stesso.
“Ora dobbiamo proprio andare.” Disse serio Shannon. “Il divertimento  finito, signorine!” aggiunse allungando un braccio verso il fratello minore. Jared rise di nuovo, buttando la testa all’indietro. Poi di scatto baciò violentemente la bionda alla sua sinistra, stringendo il corpo della ragazza addosso al suo. Fece la stessa cosa anche con l’altra, prima di prendere il cappello di Shannon ed uscire dal locale con passo barcollante. 

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Capitolo 4
*** Such a beautiful lie to believe in ***


“E’ lui che comanda, è sempre così, dopo ogni concerto: si deve divertire come vuole lui, come dice lui. Un night club, un casinò, due bionde e qualche drink. Poi, quando non si porta il divertimento in albergo si butta sul letto e ci resta tutta la mattinata del giorno dopo. E’ un bambino viziato ed egocentrico, non fa altro che pensare a se stesso. Perché poi, sai, io e Shannon siamo obbligati a seguirlo e controllare che non faccia qualche stupidaggine; è pur sempre il suo fratello minore e lui riesce a volergli bene nonostante tutto, nonostante questo suo comportamento e nonostante il modo in cui ci tratta certe volte: come se noi dovessimo sentirci in debito nei suoi confronti. E’ lui, è sempre così. A volte faccio fatica a sopportarlo.”
Mentre Tomo mi parlava sentivo piano piano il terreno sgretolarsi sotto i miei piedi. Sentivo che tutte le certezze stavano cadendo, una per una, anche le più banali. Ero sconvolta dalle sue parole, da come descriveva Jared. Quell’uomo che avevo tanto immaginato quasi da renderlo concreto nei miei pensieri, come un eroe. Il mio eroe. E invece era solo un mostro egoista senza cuore con una maschera. Non potevo crederci, era un incubo.
Stavo passeggiando con Tomo attorno al locale, mentre Shannon si era allontanato con il fratello, assicurando che sarebbero tornati poco dopo.
“Io…non immaginavo.” Dissi. Non avevo parole. Tomo si volto verso di me e mi sorrise. Nello stesso momento gli squillò il telefono e riconobbi subito la canzone che aveva come suoneria: Conquistador.
“Oh, è Vicki. Scusami un secondo.” Mi disse allontanandosi un po’.
Restai lì sola con i miei mill pensieri a torturarmi. Non poteva essere vero.
Senza neanche accorgermene mi ritrovai sdraiata sul marciapiede; non riuscivo più a tenere gli occhi aperti, ero completamente distrutta e stanchissima. Chiusi gli occhi, e sprofondai nel sonno.
 
Non capii quello che successe dopo. Ero in uno stato semi-incosciente quando sentii due braccia tirarmi su, le voci di Tomo e Shannon che discutevano su qualcosa, e poi più niente.
 
Mi svegliai di soprassalto. Ero su un letto in una camera al buio. Subito pensai di essere a casa mia, non nel mio appartameto, ma nella casa in cui avevo vissuto da bambina. Era una bella sensazione. Tanti ricordi di quel periodo felice mi invasero e mi fecero sorridere. Le coperte profumavano di bucato appena fatto, ed una fioca luce entrava dalle tapparelle abbassate della finestra. Mi sembrava uno di quei giorni di scuola di quando ero alle elementari, quando usavo un grembiulino blu e lo zainetto rosso fuoco e mia mamma mi preparava sempre un panino con la marmellata di albicocca da portarmi come merenda. Mi sembrava quasi di sentire il profumo del caffè salire dalla cucina.
Ero così immersa in quei ricordi, in quella sensazioni, che quando sentii qualcuno muoversi proprio accanto a me ebbi così tanta paura che feci un salto e balzai fuori dal letto inciampando sulle coperte e cadendo per terra urlando. Sentii muoversi e urlare anche l’altra persona e improvvisamente ricordai tutto.
“Valentina!! Calma, calma sono io, Tomo!!” disse lui acendendo la luce. Il mio cuore stava battendo a mille, avevo preso un bel colpo.
“Oddio! Mi dispiace Tomo scusami io non ricordavo, oddio. Ma che succede, come, come…?” Mi guardai intorno smarrita. Eravamo in una stanza, sembrava quella di un albergo; c’era un letto matrimoniale dove avevamo dormito noi, e sparse tutt’intorno valigie e borse di varie misure, vestiti, giacche, sarpe ed altre cose, in un caos totale.
“Siamo nel nostro albergo, e questa sarebbe la camera di Jared e Shannon in fatti vedi che ci sono tutte le loro cose…comunque lascia che ti spieghi. Ieri serati sei addormentata sul marciapiede e noi non sapevamo che far dato che non riuscivamo a svegliarti in nessun modo per chiederti dove abitavi. E quindi con Shannon ti abbiamo portata qui, diciamo…di peso, con noi. Lui e Jared hanno dormito nella mia camera dato che nel mio bagno c’è anche la vasca oltre la doccia. Perché sai Jared deve lavarsi sempre con l’acqua fredda e così Shannon riesce ad aiutarlo meglio…” mi disse Tomo.
“Aspetta…Shannon aiuta Jared a lavarsi? Ma cosa…?” chiesi io perplessa. Tomo sospirò.
“Sai, è una lunga storia. Shannon è un uomo veramente fantastico. Una volta Jared è tornato a casa totalmente ubriaco, in uno stato pietoso veramente così tanto da non riuscire a parlare. Quando è andato a farsi il suo solito bagno freddo ha rischiato di annegare, e se suo fratello non se ne accorgeva…beh hai capito. Da quel momento Shannon è molto più attento e non lo molla un attimo” continuò lui guardandomi serio.
“Oh” riuscii solo a dire.
Scossi la testa e lo guardai. Aveva un grande pigiama grigio ed io mi accorsi di avere indosso ancora i vestiti della sera prima, tutti sporchi di terra e sudore. Tomo mi lesse quasi nel pensiero.
“Se vuoi farti una doccia fai pure, non c’è problema.” Mi disse sorridendo. “Io ora vado di là perché ho tutta la mia roba, ma te fai pure con comodo, come se fossi a casa tua. Tanto i Leto staranno ancora dormendo, e non si sveglieranno prima di un paio d’ore.” Disse poi uscendo dall stanza.
Rimasi da sola di nuovo, lì in piedi nel mezzo di quella camera. Pensai che fosse meglio non iniziare a riflettere su quello che era successo perché temevo di restare “schiacciata” da tutte le sensazioni che avevo provato nelle ultime ventiquattro ore. Avevo bisogno di una doccia. Mi guardai in giro, dovevo trovare un asciugamano. Dopotutto Tomo mi aveva detto di fare come se fossi a casa mia, ed io mi trovavo nella camera d’albergo dei fratelli Leto con tutte le loro cose. Ne vidi uno appoggiato malamente sulla spalliera di una sedia, era azzurro; lo presi, mi spogliai ed entrai in doccia.
Sentivo l’acqua calda che scorreva sul mio corpo ed era una sensazione fantastica. Finalmente sentivo i muscoli distendersi piano piano. Presi un po di bagnoschiuma ed iniziai a spalmarmelo sul corpo. Per un attimo, una frazione di secondo immaginai come potevo sentirmi se la mano con cui mi stavo lavando non fosse stata la mia, ma quella di Leto. Scacciai subito quel pensiero pentendomi all’istante di averlo fatto.
Non avevo idea di che ora fosse, ma l’acqua sembrava aver sciacquato via tutta la stanchezza. Mi arrotolai l’asciugamano intorno al corpo ed uscii dalla doccia. Mi sentivo già meglio. Ne avevo bisogno. Uscii dal bagno e tornai nella camera, alla ricerca di una spazzola per i capelli. Mentre cercavo, notai alcune maglie che appartenevano a Jared che riconobbi: le aveva indossate a concerti o interviste negli anni passati. Feci un sorriso malinconico. Vidi anche un paio di bachette di Shannon e le presi in mano, quasi per percepirne la forza.
Mi sembrava quasi impossibile che il Leto minore non avesse una spazzola, data la sua chioma di capelli, eppure non la trovavo da nessuna parte.
Ad un certo punto qualcosa catturò la mia attenzione. Sembrava un quadernetto, era verde, appoggiato sopra ad una borsa aperta. La copertina era ruvida, ed era tenuto chiuso da uno spesso filo di spago. Quando lo presi in mano, capii subito di cosa si trattava. Era un diario. Sentii un brivido dentro di me. Lo rigirai tra le mani e in basso vidi scritto “J.L.”. Era il suo diario, il suo diario segreto. Ebbi una scossa dentro di me. La stessa di quando da bambino fai qualcosa di nascosto da tutti ed è eccitante perché nessuno sa che lo stai facendo, solo tu. Ed in quel momento io sapevo che l’avrei fatto. Sapevo anche che era totalmente sbagliato, che mai avrei dovuto fare una cosa del genere, ma non potevo fermarmi. Avevo in mano il diario di Jared Leto, i suoi pensieri, la sua vita attraverso i suoi occhi. Sciolsi lo spago. Un altro brivido mi corse per la colonna vertebrale. Sfogliai velocemente le pagine di carta che emanavano il suo profumo, lo stesso che avevo sentito la sera precedente quando lo avevo aiutato a calmarsi. Mi fermai su una pagina a caso. La prima cosa che notai fu la sua calligrafia: bellissima, perfetta in oogni singola curva. Quella pagina portava la data di un mese e mezzo prima. Iniziai a leggere.
 
“Caro diario…anche oggi è stata la stessa storia. Ieri abbiamo suonato a NY, ‘era una folla impressionante, una partecipazione fantastica e noi siamo stati perfetti in ogni canzone. Gli Echelon cantavano e gridavano e ridevano e piangevano. Loro sono fantastici. Ad ogni concerto è uno scambio di emozioni tra noi e loro, uno scambio di un pezzo della nostra vita con la loro, uno scambio di amore. Quell’amore che però non è abbastanza per me. Non è mai abbastanza. Cioè…il loro amore è indescrivibile, ma è come se mancasse qualcosa, QUELLA cosa. Che in realtà non so neanche io bene che cosa sia. So solo che ne ho dannatamente bisogno, ma non riesco a trovarla, da nessuna parte. La verità è che mi sento solo per la maggior parte del tempo. E poi succede sempre che divento qualcun altro, che non sono realmente io. Un altro fantasma dentro di me che mi ha quasi annientato del tutto, cancellando quasi tutti gli aspetti di quello che ero. Mi rendo conto che sono alla ricerca disperata di quel qualcosa nelle cose sbagliate. L’alcol, il sesso, le donne, i soldi, il sentirmi il padrone del mondo. Infondo lo so che è sbagliato. Ma non posso farne a meno, non più. Queste cose sono la mia droga, l’essenza che mi riempie per un po di tempo, quel poco in cui mi sento felice. Ma poi tutto svanisce lasciando un vuoto più grande di prima. O forse sono solo io. Forse questo è il vero me. Forse sto solo impazzendo. Non so amare. Non so che cosa sia l’amore. Non credo che esista. Non ci credo più. ”.
 
Quelle parole mi colpirono il cuore come lame affilate. Jared aveva scritto quelle cose. Lui era sensibile. Avevo ragione io. Mi salirono le lacrime agli occhi. Lui non era un mostro, lui aveva un cuore. Un cuore alla caccia di quell’amore che fosse capace di risvegliarlo dal suo gelido letargo. Lui si sentiva solo. Quelle frasi mi scorrevano davanti agli occhi come un film. Chiusi con lo spago il diario, e mi girai per prendere un fazzoletto. Fu come se ci fosse un fulmine imporvviso nella stanza. Mi trovai a fissare due occhi di ghiaccio puntati su di me in una maniera da fare quasi male, infuocati, sulla soglia della porta. Mi sentii morire.
“Chi sei tu.” Quelle parole pronunciate con un tono più disprezzante che mai rimasero sospese nell’aria per qualche secondo, un momento interminabile in cui mi sembrò che tutto attorno a me diventasse di ghiaccio, dall’ossigeno che respiravo al pavimento su cui poggiavo i piedi. Ero impietrita. Jared.

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Capitolo 5
*** One day maybe we'll meet again ***


“Ma che diavolo…?” esclamò Jared entrando nella camera e aprendo le braccia in segno di non capire. Io ero immobile e lo fissavo a bocca aperta molto probabilmente con un’espressione totalmente idiota, ma non riuscivo a muovermi. Mi aveva come ghiacciata. Appena lo avevo visto avevo mollato il diario a terra pregando con tutto il cuore che non lo avesse visto anche se era impossibile, lo sapevo.
Si avvicinò a me e chiuse la porta dietro di sé. Mi accorsi di avere addosso ancora solamente l’asciugamano, e mi sentii le guance avvampare.
“Aspetta. Non puoi essere quella di stanotte…era bionda, ne sono sicuro. E anche più alta. E più bella. E ora che ci penso erano in due.” capendo ciò che stava pensando lui mi “sghiacciai”.
“Oh no! Io….io mi chiamo Valentina. Sono..quella di ieri sera, cioè, voglio dire…ti ricordi, ti ho aiutato prima del concerto quando hai avuto…mmh si insomma ero lì.” Dissi tutto d’un fiato con gli occhi piantati a terra. Quando mi accorsi del silenzio tombale che era calato alzai lo sguardo ed incrociai il suo. Fu come un guizzo. Un lampo. Io vidi che lui si era ricordato. Glielo leggevo negli occhi. E vidi anche che si ricordava di me. Accennai un sorriso. Lui mi stava fissando con occhi gelidi.
“Non ho la più pallida idea di chi tu sia.” Disse poi secco.
“E ora esci subito dalla mia stanza, se vuoi restare qui come minimo devi toglierti qualche strato di dosso, tra l’altro di mia proprietà, ma al momento non mi sembra il caso.” Capii che alludeva all’asciugamano.
Lui aveva indosso un pigiama che sembrava troppo grande per il suo corpo magro, piedi scalzi e capelli arruffati. Perfino in un momento del genere non riuscii ad evitare di pensare a quanto dannatamente bello fosse.
Sentivo i suoi occhi puntati su di me, con forza, e mi avviai verso la porta così com’ero. Lui rimase immobile anche quando gli passai affianco, senza neanche degnarmi di uno sguardo.
“Jared ma io non posso uscire così, fammi almeno prendere i miei vestiti ti prego.” Lo implorai. Non sapevo cosa fare.
“Esci immediatamente da questa stanza. Immediatamente significa in questo cazzo di istante!” esclamò rabbioso sempre mantenendomi le spalle girate. Aveva tutti i motivi del mondo per odiarmi, e lo sapevo bene. Aprii la porta ed uscii nel corridoio con ancora solo quell’asciugamano azzurro addosso e i capelli gocciolanti. Non potevo tornare a casa così.. mie sedetti per terra affianco alla porta della stanza di Jared sperando che uscisse e ragionasse. Era tutto silenzioso, non sentivo neanche un rumore. Era strano, ed anche una situazione abbastanza ironica. Io mezza nuda chiusa fuori dalla camera di Jared Leto che mi odiava. Pasavano i minuti uno dopo l’altro ma non succedeva niente.
Decisi di alzarmi. Per grazia di Dio trovai una sorta di sgabuzzino dove tenevano le scope e i detersivi e anche una divisa da cameriera che riuscii a farmi stare. Non appena la indossai mi venne una grandissima voglia di piangere. Che ci facevo lì? Una delle persone più importanti per me mi odiava. Avevo scoperto com’era veramente, o menglio credevo, e poche ore dopo avevo scoperto che in realtà non era così. Mi sentivo frastornata e in colpa. Una parte di me mi stava implorando di tornare da Jared e aspettare ancora, un’altra invece di andare da Tomo e Shannon, ma la realtà era che non potevo più stare lì.
Senza più pensarci presi un pezzo di giornale dallo sgabuzzino e con un pennarello ci scrissi sopra “THANK YOU. GOODBYE” e lo mollai davanti alla porta della camera.
Poi corsi via fuori da quell’hotel, lontana da quello che da un sogno si stava trasformando in un incubo, da quel pezzo di paradiso che in realtà era nel bel mezzo dell’inferno.
 
Le settimane successive furono decisamente le più strane e difficili di tutta la mia vita. Non facevo altro che pensare a cosa mi era successo ed era come un chiodo fisso che non riuscivo a rimuovere. Non potevo più concentrarmi su nient’altro. Mi stava portando a pensare che stessi impazzendo. Pensavo a loro, a cosa avessero detto del mio biglietto, se si erano già dimenticati di me, o se magari ero passata, anche solo di sfuggita, come un lampo nei loro pensieri qualche volta. Pensavo a lui, pensavo a Jared. A come si sentisse. Al fatto che mi odiava. Non riuscivo a darmi pace.
La cosa strana e inquietante invece era un’altra. I Mars stavano annullando sempre più date del tour. Erano cancellazioni del giorno stesso le prime, e poi avevano iniziato ad annullare anche quelle più lontane nel tempo senza dare alcuna spiegazione. Gli Echelon erano tutti in subbuglio e preoccupati, e lo ero anche io, come se i miei porblemi non bastassero. Solo che non avrei mai potuto immaginare quello che stava accadendo.
Un giorno mi svegliai urlando con il sudore che mi gocciolava dalla fronte e con il cuore in gola. Avevo fatto un incubo terribile. Avevo sognato che Jared raccontava a Shannon che io, proprio io, avevo fatto cose orribili alla loro famiglia; poi mi ritrovavo su un palco con tutte le luci puntate addosso e gli Echelon con i fratelli Leto e Tomo che mi gridavano cose bruttissime come “devi morire!” e mi lanciavano di tutto addosso.
Andai a bere un bicchiede d’acqua in cucina per calmarmi. Erano le due e mezza di notte, ed era passato esattamente un mese da quell’incontro che mi aveva stravolto la vita. Presi il cellulare, uno nuovo dato che quello che avevo lo avevo lasciato nella camera di Jared insieme ai miei vestiti, e trovai un sms da mio padre.
“Ciao Vale ho preso l’aereo dal Giappone e ora sono atterrato da poco in Italia. Possiamo vederci domani se vuoi. Chiamami appena vedi il messaggio.”
Sospirai. Mi era arrivato un quatro d’ora prima, quindi composi il numero e lo chiamai subito. Via il dente via il dolore, pensai.
“Papà ciao sono io.”
“Tesoro. Come mai sveglia a quest’ora? Io sono…”
“Si si lo so ho letto il tuo messaggio. Domani a pranzo va bene comunque, passami a prendere te.” Dissi frettolosa.
“D’accordo. A domani allora.”
“Si.” Riattaccai. I nostri discorsi erano sempre così freddi e brevi, ma ormai ci ero abituata. Tornai a dormire sperando solo di non sognare niente e che il resto della notte passasse liscio e vuoto.
Così fu, e a svegliarmi fu una sensazione che ero sicurissima di aver già provato. Quando mi venne in mente quando, sorrisi; mi ero svegliata allo stesso modo il giorno del concerto. Mi alzai mentre un velo di malinconia mi cadeva addosso. Mi aspettava un’altra, nuova, lunga, dannata giornata.
Mi preparai bene per il pranzo con mio padre con un vestito che mi aveva regalato lui qualche anno prima ma che stranamente mi andava ancora bene. I nostri incontri erano dannatamente formali nonostante fossimo padre e figlia.
Finito tutto mi buttai sul divano in attesa che arrivasse.
Non avevo voglia di uscire con lui. Non avevo mai voglia.
Neanche due minuti dopo squillò il campanello. Mio padre aveva proprio spaccato il minuto, non mi sarei mai aspettata che fosse così puntuale. Almeno questa cosa mi fece piacere. Presi la borsa ed andai ad aprire la porta.
“Hi Valentina!”
“Shannon??”

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