Una Questione di Forma

di Lady Memory
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


UNA QUESTIONE DI FORMA
di Lady Memory
 
Come sempre, grazie a JKR per aver creato dei personaggi meravigliosi e per averci permesso di giocare con loro.
 
Piccolo avviso agli audaci che si accingono alla lettura: questa storia è – lo ammetto – un esperimento. Un tentativo di ritornare a scrivere nella mia lingua madre dopo sei anni di creazioni in inglese. Devo dire che sto facendo molta fatica, perché il mio cervello ormai si è stabilizzato su un universo che ha tante cose diverse dal nostro e che, effettivamente, “suona” meglio, dato che è quello originale. Per cui, mi scuso in anticipo e ringrazio tutti coloro che vorranno darmi un parere.
 
Questa storia per ora si concentra in due capitoli, ma potrebbe continuare. In caso, fatemelo sapere voi, coraggiosi lettori.
 
Come sempre, perdonatemi ma preferisco usare i nomi originali dei personaggi; la traduzione italiana di molti di loro non mi è mai piaciuta e inoltre, non ne vedo l’utilità.
 
*******************
 
 
I
 
Quando il secondino aprì la porta, impulsivamente la ragazza si tirò indietro. Quel luogo evocava un tipo di sofferenza molto diversa dal dolore fisico e anche molto più inquietante. La ragazza arricciò il naso; poi, stringendo i denti, si dominò. Aveva chiesto lei quella missione: non poteva tirarsi indietro adesso. Frammenti di pensieri si affacciarono alla sua memoria, risvegliando i dubbi che avevano sonnecchiato dentro di lei per tutti quei mesi. La ragazza trasse un lungo respiro e si impose di ricordare perché era lì. La risposta giunse subito, netta, secca, inequivocabile: perché voleva chiudere definitivamente un capitolo della sua vita e sotterrarlo una volta per tutte nella cella di quel prigioniero, scampato alla morte solo per essere sepolto vivo.
 
Eppure, per quanto fosse abituata alle più strane situazioni, le sue pupille si dilatarono di fronte alla scena che le veniva rivelata.
 
Un uomo giaceva a terra, i polsi legati e agganciati al muro sopra di lui da sottili catene, che spiccavano lucide in quel tetro ambiente. La cella era piccola e scrupolosamente pulita, e questo faceva uno strano contrasto col corpo magro del suo occupante, rivestito da abiti il cui colore nero originario si era a poco a poco sbiadito in una sfumatura indefinita.
 
Il prigioniero sembrava assopito, ma quando la lama di luce si allargò dalla porta aperta e raggiunse il suo viso, l’uomo girò la testa e si irrigidì istintivamente in posizione di difesa.
 
“Prigioniero, ci sono visite!”, annunciò il secondino.
 
La ragazza si aspettava di vederlo chinarsi sull’uomo raggomitolato a terra per controllarne le condizioni; invece, il suo accompagnatore, entrato a passi pesanti nella stanza, sembrava non preoccuparsi minimamente di quello che a lei sembrava quantomeno un modo insolito di riposare.
 
“Visite, prigioniero!”, ripetè il guardiano con una sfumatura d’impazienza.
 
L’uomo sul pavimento alzò faticosamente la testa.
 
“Acqua…”, mormorò a stento.
 
“Quando sarà il momento,” fu la risposta, e il secondino si voltò a guardare la ragazza come a sollecitarne l’approvazione.
 
Lei strinse le labbra. Il rigore della giustizia e il rispetto delle norme avevano sempre avuto la sua approvazione, ma qui c’era una nota stonata.
 
“Perché non adesso?”
 
“Signorina, queste sono le regole.” Il carceriere ora era guardingo.
 
“Non credo che ci sia una regola che impedisca di dar da bere ad un uomo assetato. Questo va oltre la giustizia. Questa è crudeltà.”
 
Il suo interlocutore sorrise. “Oh no, signorina. Questa è giustizia nella sua forma più pura. Crede che quest’uomo abbia avuto maggior riguardo per le persone che torturava?”
 
“Il professor Snape non ha mai torturato nessuno,” obiettò impulsivamente lei, rimproverandosi mentalmente subito dopo per essersi lasciata sfuggire quel commento.
 
“Ne è sicura? Come può dirlo?”, chiese il secondino con voce ironica. “Partecipava anche lei alle loro missioni?”
 
“Io no!” rispose la ragazza seccamente. “E lei invece come lo sa? Non mi sembra di conoscere il suo nome, signor…”
 
Lui si mise sull’attenti. “McDowell, signorina. Io sono irlandese, e non ero in Inghilterra durante la seconda guerra magica.”
 
Per un attimo rimasero in silenzio, mentre entrambi sembravano valutarsi a vicenda. Il secondino era un uomo giovane e vigoroso, il cui viso severo dava l’impressione di una dedizione fanatica al dovere, quasi ossessiva.
 
“Forse non so molte cose”, ammise poi McDowell burberamente. “Ma so che quelli come lui, che sono rinchiusi qui dentro, hanno una pena da scontare. E spetta a me farla eseguire.”
 
“In che modo? Maltrattando chi non può più opporsi?”
 
Il carceriere strinse le labbra. “Guardi, signorina, io faccio solo il mio dovere. Non maltratto nessuno. Vede forse sporcizia in questa cella?”
 
Con un gesto enfatico accennò al pavimento ma così facendo, il suo sguardo incontrò nuovamente la forma del prigioniero ai suoi piedi. Immediatamente, McDowell si mise sulla difensiva e proseguì col tono seccato di chi sa di aver ragione ma deve dimostrarlo a chi invece non è in grado di capire.
 
“Senta, lei pensa che sia io a costringere il prigioniero a dormire per terra, non è vero? Bene, allora la prego di ricredersi perché, come può notare, il prigioniero un letto ce l’ha!”
 
E indicò il muro dove era incassato un tavolaccio di legno sul quale era appoggiato un sottile materasso dall’aspetto liso ma pulito.
 
“Come vede, è lui che ha scelto di non usarlo,” dichiarò, incrociando le braccia.
 
“Perché?” tornò a chiedere la ragazza.
 
“Non è compito mio saperlo,” ribattè McDowell. “Il mio compito è fargli ricordare chi è e cosa ha fatto. E io glielo ricordo ogni giorno.”
 
I suoi occhi fissarono quelli della ragazza. “Nessuno gli nega acqua e cibo. Ma non è lui a decidere quando può averli. Vede, lui deve capire. Ripensare a quello che ha fatto. E scontare la sua pena. E’ per questo che è stato condannato, e non sono certo io a stabilire le regole.”
 
“Quindi queste sono decisioni della direzione?”
 
“Esattamente!” rispose lui, e fece girare le chiavi che aveva agganciate sul polso con espressione eloquente. “E poi, la maggioranza dei nostri prigionieri non uscirà da queste celle che per fare l’ultimo viaggio. Lei capisce che non possiamo preccuparcene più di tanto. Alla fine, mangiano e bevono a spese della comunità. Ma solo negli orari stabiliti.”
 
La ragazza lo fissò in silenzio. Quando parlò, la voce le uscì come una frustata.
 
“Carceriere, dia da bere a quest’uomo. E’ un ordine. Devo parlare con lui.”
 
L’uomo alzò la testa con uno scatto a quel tono ostile e a quella qualifica provocatoria. Poi, con espressione riottosa, ostinata, disse seccamente, “Lei ce l’ha con me, l’ho capito subito. Ma non sono io quello che sbaglia… Persone che conosco sono state torturate da questi mostri. Qualcuno ha perso la vita, altri la ragione… E lui era con loro. Era uno di loro, era una delle menti dietro a tutto. La sua colpa è ancora maggiore!”
 
All’improvviso, un grido attraversò l’aria interrompendo il discorso irato della guardia. La ragazza si irrigidì e l’uomo la guardò con aria di sfida.
 
“Ecco, vede? Questo è quel bastardo di Lucius Malfoy.”
 
Strascicò il nome ostentatamente mentre lo pronunciava. Imitare la parlata altezzosa del famoso condannato - una volta mago illustre e rispettato - sembrava dargli un enorme piacere.
 
“Fa l’arrogante, crede ancora di essere qualcuno. Ma qui dentro, posso assicurarglielo, non c’è un’anima che gli dia retta. Proprio come si merita.”
 
Il grido si ripetè e finì con una specie di singhiozzo.
 
“Perché grida?” chiese la ragazza, e McDowell storse la bocca.
 
“Si è lussato una caviglia due giorni fa. Niente di serio.”
 
Nel silenzio che seguì queste parole, la ragazza fissò il suo interlocutore con evidente scetticismo. Lui abbassò la testa come se si sentisse a disagio e si schiarì la voce.
 
“Be’, ecco, certo… un po’ gli fa male.” Rialzò la testa di scatto. “Ma non tutto il male che pretende di avere. Fa scena, ecco cos’è.”
 
“Non è stato chiamato un guaritore?” lo interruppe freddamente lei. “Almeno si saprebbe la verità.”
 
“Il guaritore si chiama nei casi gravi. E comunque verrà per un controllo tra due settimane. Ma se fosse per me, potrebbe anche non venire mai. Per la maggior parte, i prigionieri mentono. Cosa può succedergli se stanno sempre in cella? Lo capisce anche lei che è solo una scusa per poter trafficare e cercare favori!”
 
“Vi prego, per favore, aiutatemi…” implorò la voce di Lucius Malfoy come a contraddire quelle affermazioni spietate. “Non resisto più, non resisto più…” proseguì tra i singhiozzi.
 
A quel suono, l’uomo sul pavimento alzò gli occhi e, per un attimo, una scintilla si accese nel suo sguardo. La ragazza colse il movimento e incrociò le braccia con fare risoluto.
 
“Signor McDowell, io l’ho ascoltata. Adesso ascolti me, e dia da bere a quest’uomo.”
 
A sua volta, lui incrociò la braccia con un sorriso cattivo.
 
“Spiacente, ma non posso.”
 
“Perché?” chiese lei con asprezza.
 
“Innanzitutto perché, come le ho spiegato, il regolamento vieta la somministrazione di cibo e bevande fuori dall’orario stabilito. E poi, perché il distributore dell’acqua è all’estremità opposta del settore in cui ci troviamo. Tra andare e tornare, perderei troppo tempo, e subito dopo dovrei rifare il percorso per gli altri condannati. Mi dispiace, ma ormai manca poco. Può aspettare, come ha sempre fatto.”
 
“E invece lei gli porterà da bere,” disse duramente la ragazza. “Anche il mio tempo è prezioso e ne ho già perso troppo. Devo parlare col prigioniero e lui deve essere messo in grado di farlo. Devo ricordarle che sono un’inviata speciale del Wizengamot?”
 
McDowell mugugnò qualcosa e la ragazza alzò la mano, interrompendo le sue rimostranze.
 
“E poi, non ha la bacchetta? Un semplice incantesimo di Appello dovrebbe bastare… o devo insegnarle la formula?”
 
“E’ vietato ai secondini far uso di magia per questioni che non riguardano la vigilanza,” rispose lui con evidente soddisfazione, e un sorriso odioso rispuntò sulle sue labbra. “Sono io che devo insegnarle qualcosa, a quel che vedo.”
 
La ragazza restò imperturbabile. “Va bene. Se lei non può farlo, lo farò io. Ora la prego di nuovo di lasciarci soli. Devo parlare col condannato.”
 
“Per favore, per favore!!!” Pianse Lucius qualche metro più in là. Evidentemente sentiva le loro voci, pensò la ragazza, altrimenti non avrebbe continuato a supplicare.
 
“Io non credo di poterle permettere…” cominciò McDowell, ma lei lo fermò di nuovo estraendo una pergamena bollata.
 
“Vedo che è difficile convincerla. Ma suppongo che saprà leggere l’inglese di sua Maestà, non è vero?” chiese con la formula vecchio stile che le avevano insegnato nella scuola elementare babbana. Il secondino si bloccò come se avesse ricevuto un insulto.
 
“Non credo che ci sia da temere per la mia incolumità,” proseguì lei sprezzante senza aspettare la risposta. “Il prigioniero è in evidente stato di deprivazione e inoltre è legato con catene.”
 
McDowell la guardò con una luce di sfida nello sguardo.
 
“E se invece lei fosse qui per aiutarlo a fuggire?”
 
Una fiamma si accese negli occhi della ragazza.
 
“Sa chi sono io?” chiese con voce bassa nella quale tremava una collera trattenuta. Il carceriere indietreggiò, comprendendo di essere andato troppo oltre.
 
“Ecco, io…”
 
“Risponda alla mia domanda!” scattò lei. “Conosce il mio nome?”
 
Lui esitò, strisciò i piedi per terra e poi rispose imbarazzato, “Sì, conosco il suo nome, signorina Granger…”
 
“Allora sa chi sono e cosa ho fatto! Come osa insultarmi con questi ridicoli sospetti?”
 
L’uomo finalmente arrossì. “La prego di scusarmi”, mormorò con tono sottomesso.
 
Lei lo squadrò con disprezzo. “Sono io che la prego di andarsene e lasciarmi parlare col prigioniero. A meno che non preferisca rifiutarmi il permesso. Sono sicura che il Wizengamot sarà felice di sapere con quale dedizione è applicata la legge nelle nostre prigioni.”
 
McDowell la guardò incupito. “Lei mi ha preso in antipatia fin dal primo momento, non è vero? Mentre io mi sforzo solo di fare il mio dovere. Vorrei vedere lei, a trattare tutti i giorni con questa feccia…”
 
Qualche cella più in là, Lucius ripetè il suo richiamo con voce tremante.
 
“Per favore, per favore… qualcuno mi aiuti, vi giuro che troverò il modo di ricompensarvi… parlerò a mio figlio, pagherò bene… per favore…”
 
“Lo sente?” disse l’uomo con un sorriso di scherno. “Non ha ancora imparato. Ma imparerà, non ne dubiti.”
 
Alzò le spalle con ostentata indifferenza. “Il condannato è suo, signorina Granger. Io aspetto in fondo al corridoio. Mi chiami quando ha finito.”
 
Poi, senza aspettare risposta, si voltò e uscì, lasciando la porta aperta.
 
Subito lei si curvò sul prigioniero e gli posò una mano sulla fronte. Scottava.
 
“Febbre”, mormorò preoccupata, e lo sguardo le si indurì mentre guardava la robusta schiena del secondino allontanarsi lungo il corridoio.
 
“Acqua,” balbettò l’uomo sul pavimento, poi alzò lo sguardo verso di lei e un barlume di consapevolezza illuminò i suoi occhi.
 
“Granger?” sillabò a fatica.
 
“Sono io, Professor Snape,” rispose Hermione, ed estrasse la bacchetta, mormorando un incantesimo. Una tazza di coccio fresca e rugiadosa subito si materializzò invitante tra le sue mani.
 
“Acqua…” implorò ancora Snape, tentando di alzarsi sui gomiti senza riuscirci.
 
“Tutta quella che vuole, professore,” rispose lei, commossa. “Però beva con calma. Con calma, o non riuscirà a tenerla giù.”
 
Gli accostò la tazza alle labbra, ma dovette quasi lottare contro la frenesia con cui Snape tentava di impossessarsene.
 
“Piano, professore, piano,” ripeté, avvicinando e allontanando la tazza per dargli il tempo  di inghiottire. “Non abbia paura, ce n’è in abbondanza.”
 
Gradatamente, l’avidità del malato sembrò ridursi. E finalmente le sue labbra screpolate formularono una parola che Hermione non avrebbe mai pensato di ricevere da lui.
 
“Grazie…”
 
Lei rimase in silenzio, non sapendo come rispondere. Ansimando per lo sforzo, Snape riappoggiò la testa sul pavimento di pietra.
 
Di colpo, lei capì che il freddo dei lastroni lo confortava, spegnendo in parte il calore della febbre che gli bruciava il corpo. E subito dopo, trovò anche la risposta alla sua domanda di poco prima: incassato a metà del muro della parete, il letto di legno era troppo alto perché un uomo così debilitato avesse la forza di raggiungerlo.
 
Istintivamente, Hermione si inginocchiò vicino al malato. Adesso che aveva bevuto, il respiro di Snape si andava regolarizzando. La ragazza lo studiò attentamente. I vestiti erano lisi ma puliti. Il carceriere aveva ragione. Non c’erano tracce di sporcizia in quella cella, né sul pavimento né sull’uomo che vi giaceva sopra. Persino i suoi capelli non erano unti come una volta.  Tuttavia il corpo di lui era magro in modo impressionante, e il suo viso esprimeva una disarmante fragilità che turbò profondamente Hermione.
 
La vista del prigioniero a terra aveva offeso il senso della giustizia così radicato in lei e l’aveva portata a intercedere per il condannato quasi per partito preso. Ma adesso, a parlare prepotentemente in sua difesa c’erano compassione ed una sorta di confusa tenerezza che le stringeva il cuore.
 
Con gesti calmi, misurati, quasi affettuosi, Hermione mosse la sua bacchetta in un incantesimo di levitazione che sollevò delicatamente Snape, adagiandolo sul letto. Poi attese che lui si rilassasse. Era evidente che si aspettava che accadesse qualcosa, e qualcosa di doloroso a giudicare da come si era irrigidito. Hermione cercò una frase rassicurante da dire.
 
“Professore, sono venuta qui per parlarle. Il Wizengamot vuole riesaminare la sua causa.”
 
Mentre parlava, sentiva il calore della febbre irradiarsi quasi palpabilmente dal corpo di lui.
 
“Non è possibile,” riflettè sgomenta, ricordando le parole del secondino. “Un guaritore tra due settimane! E se non riuscisse a sopravvivere?”
 
Senza pensare alle conseguenze, alzò di nuovo la bacchetta e la fece ruotare con movimenti esperti. Era un Incantesimo Leniente che aveva imparato da Madama Pomfrey. Non era un rimedio definitivo, ma dava un senso di sollievo immediato e a volte, guariva.
 
Un lungo sospiro sfuggì dalle labbra di Snape e, rincuorata, Hermione ripetè la procedura ancora due volte. Poi, finalmente, il malato alzò la testa.
 
“A cosa devo l’onore di tanta sollecitudine?” ringhiò con un tono che somigliava molto a quello che Hermione ricordava, anche se la voce era estremamente debole. E con uno sforzo evidente, si ritrasse verso il muro, come a sottrarsi allo sguardo compassionevole della ragazza.
 
“Si sente meglio adesso?”, chiese lei, cercando di mantenere un tono neutro per aiutarlo a superare l’imbarazzo. Il professor Snape! L’insegnante che più di tutti incuteva terrore, che riusciva a ridurre al silenzio una classe solo con il suo ingresso in aula, ridotto ad un prigioniero inerme e incatenato, umiliato davanti agli occhi della sua ex allieva. Hermione allontanò quelle immagini di un passato non così lontano e si sedette anche lei sul materasso, badando a tenersi scostata da lui.
 
“Sono lieta di vedere che ha ripreso le forze,” riprese a dire, evitando accuratamente qualsiasi sfumatura che potesse essere interpretata come sarcasmo. “Come le dicevo prima, sono stata scelta dal Wizengamot come suo avvocato per assisterla durante il nuovo processo che sarà tenuto a breve. Sono emersi nuovi elementi che potrebbero-“
 
“E’ stata… scelta?” la interruppe Snape a fatica, ma con un tono molto significativo.
 
Hermione arrossì. Accidenti, quell’uomo non aveva certo perso le sue capacità razionali anche se era stato rinchiuso in quella cella per più di tre anni! Il pensiero tornò involontariamente indietro, a quando era stato annunciato che, nonostante sembrasse impossibile, i guaritori erano riusciti a fare uscire Snape dallo stato di coma profondo indotto dal morso velenoso di Nagini. Lì per lì, lei se n’era rallegrata per il sopravvissuto, liberato da un marchio d’infamia che non aveva meritato: tutti infatti avevano saputo da Harry come l’enigmatico professore, considerato un assassino e un Mangiamorte, avesse invece sempre lavorato sotto copertura, rischiando la sua vita ad ogni passo. La sua sfortunata storia d’amore per la madre di Harry era diventata dominio pubblico nell’ultimo duello del ragazzo con Voldemort, e aveva suscitato reazioni di ogni tipo: ammirazione, compassione, incredulità e… sì, persino risate. Le memorie che aveva consegnato ad Harry in quelli che credeva evidentemente essere gli ultimi momenti della sua vita avevano spiegato molte cose, giustificando addirittura l’omicidio di Dumbledore.
 
Eppure, il Wizengamot non le aveva accettate.
 
In un certo senso, predominava l’opinione che fossero artefatti deliberatamente creati in modo da poter essere utilizzati come difesa di fronte al mondo magico. Una specie di asso nella manica, nel caso che il Signore Oscuro avesse perso, come infatti era accaduto. Un tipo previdente come Snape aveva sicuramente pensato ad una via di uscita in questo caso. E forse, il morso del serpente aveva disattivato i meccanismi di protezione della sua mente, riversandone il contenuto nelle mani di Harry. O forse, ancor più probabile, il professore aveva sperato in un’ultima salvezza che gli era incredibilmente giunta sotto forma del suo alunno più vituperato, trasformato in un’arma segreta da quelle confessioni così inaspettatamente ricevute.
 
Harry non aveva mai preso parte al dibattito che si era creato subito dopo la dimissione di Snape dall’ospedale. Aveva doverosamente difeso l’innamorato di sua madre ma con palese riluttanza, tanto che, alla fine, era risultato poco credibile. Troppo emotivamente coinvolto, era stato il verdetto. In seguito, era stato pregato di depositare una copia delle sue memorie agli atti ed invitato a non interessarsene più. Da allora, Snape marciva in prigione, e Hermione non aveva mai capito cosa volesse dire quell’espressione così eloquente finchè non l’aveva sperimentata con i suoi occhi in quell’occasione.
 
Hermione ritornò in sé di colpo. Snape la stava guardando con chiaro scetticismo e lei si sentì arrossire di nuovo.
 
“Scelta?” ripetè lui con voce più tranquilla.
 
“Ecco, in realtà ho chiesto io questo onore,” spiegò lei, abbassando la testa come se si vergognasse di quella dichiarazione. “Ritengo che io… che la mia storia mi renda più adatta a seguire questa causa rispetto ai miei colleghi.”
 
“E non dimentichiamoci fama, onore e gloria,” Snape rispose col tono sarcastico che lei ben conosceva. “Deve essere deprimente non trovarsi più al centro dell’attenzione, non è vero, Granger? Come passa i suoi giorni, adesso?”
 
Hermione arrossì per la terza volta.
 
“Non è come pensa, professore,” rispose fieramente. “Forse le riuscirà difficile crederlo, ma sono venuta perché…. Perché io, Hermione Granger, avevo bisogno di risposte. E soprattutto perché io, Hermione Granger, ho bisogno di capire.”
 
Snape chinò la testa, evidentemente affaticato.
 
“Capire cosa?” chiese a bassa voce, mentre cercava di mettersi seduto. Ma le catene si erano intrecciate, così quando provò a raddrizzarsi lo tirarono indietro, sbilanciandolo.
 
“Un momento, lasci che l’aiuti”, mormorò Hermione e svolse rapidamente gli anelli d’acciaio avvolti su sé stessi. Poi tese una mano per sorreggerlo.
 
Snape strinse le labbra mentre un rossore cupo gli coloriva il viso dal pallore cadaverico. “Non ho bisogno del suo aiuto”, rispose bruscamente, allontanandosi da lei per quel che gli permettevano le catene.
 
In silenzio, Hermione lo guardò aggrapparsi faticosamente al tavolaccio, vide il suo corpo magro tendersi nello sforzo di sollevarsi e poi ricadere inesorabilmente di lato, scivolando a terra. Con un gemito di frustrazione, Snape curvò la testa in un’ammissione di sconfitta, nascondendo tra le mani il viso velato dai capelli neri.
 
Senza dire una parola lei si alzò e si sedette a terra vicino a lui. Restarono così per qualche momento, ed Hermione fece finta di non notare il tremito convulso che lo scuoteva, ma aspettò in silenzio. Finalmente Snape alzò la testa. Aveva gli occhi arrossati e le labbra vibravano leggermente, come se stesse cercando di parlare.
 
Hermione fissò il soffitto. Certo, era una ben strana situazione quella in cui si trovava. Non ricordava di aver mai fatto una consultazione professionale seduta sul pavimento.
 
“Professore,” disse con calma, continuando a fissare il soffitto per dargli modo di controllare la sua emozione. “Io sono qui per aiutarla, ma non le impongo niente. Lei può scegliere se vuole me o preferisce che la segua un altro avvocato. Mi dica se posso continuare o se devo andarmene.”
 
“Perché?” mormorò lui con voce così lieve che lei non riuscì a capire. Preoccupata, Hermione si chinò a guardarlo, aggrottando la fronte.
 
“Perché?” ripetè ancora Snape. “Non ha risposto alla mia domanda.”
 
Hermione rimase in silenzio. Già, perché?
 
Entrando in quella cella, non aveva pensato di provare sentimenti così profondi. Non aveva immaginato che il passato sarebbe riapparso così intensamente di fronte a lei. Non aveva considerato che si sarebbe ritrovata di colpo nella Stamberga Strillante, intenta a scrutare quegli impenetrabili occhi scuri ancora una volta. Era arrivata armata di certezze. Un prigioniero probabilmente colpevole. Una spia che era stata in grado di ingannare per anni l’Oscuro Signore. Un mago che aveva sviluppato enormi poteri. E soprattutto, un uomo che celava una carica di amarezza, frustrazione, dolore e malizia sufficienti a motivare ogni possibile supposizione. Era davvero stato l’agente di Dumbledore o ne aveva sapientemente sfruttato le debolezze? Hermione si era poco a poco convinta di una doppiezza abilmente celata. Si era offerta per quella missione proprio per sconfiggere definitivamente i suoi dubbi.
 
Invece, aveva era riuscita solo a farli risorgere più forti di prima.
 
Hermione trasse un profondo respiro. Cos’era che si agitava dentro di lei? Cos’era che cercava di venire alla luce? Catturò quel pensiero.
 
“Perché ognuno di noi ha diritto ad avere giustizia,” rispose quietamente. “Soprattutto coloro che non l’hanno mai ricevuta.”
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Il secondo capitolo è già scritto e verrà pubblicato nei prossimi giorni.
 

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Capitolo 2
*** II ***


II
 
Una miriade di emozioni si disegnò sul viso di Snape per poi sparire e lasciar posto ad una espressione stranamente indifesa. Per la prima volta la guardò direttamente negli occhi e lei ricambiò il suo sguardo apertamente, lasciandosi studiare per qualche minuto.
 
Poi Snape mormorò ancora, “D’accordo. Deve essere lei. Non potrei accettare nessun altro.”
 
“Perfetto!” disse lei con aria professionale. E con un sorriso, si alzò e si sedette sul materasso, tendendogli una mano che questa volta Snape accettò. Quindi, con un nuovo sapiente colpo di bacchetta, Hermione fece apparire una valigetta nera.
 
“Qui ci sono dei documenti che devo pregarla di leggere,” disse, cercando di non apparire troppo pretenziosa nella sua nuova veste di avvocato. In realtà, quella era la prima vera causa che avrebbe affrontato… e ora capiva di morire dalla voglia di ottenerla. Sì, avrebbe lottato, per il suo cliente e per sé stessa.
 
Snape continuava a fissarla con un sorriso bizzarro, quasi accondiscendente. Hermione cominciò a sentirsi a disagio mentre estraeva un fascio di carte e gliele deponeva tra le mani.
 
“Ovviamente,” proseguì mentre la voce le diventava innaturalmente acuta, “dovrà firmare una procura, un atto di incarico, una delega a mio nome con cui…”
 
“Capisco quello che vuole dire, Granger,” le rispose lui tranquillamente. “Le sembrerà strano, ma il mio cervello è ancora in grado di seguire questi semplici ragionamenti.”
 
“Ehm… ah… sì, dunque, suppongo però che le servirà tempo per leggere,” riprese Hermione, e si alzò con movimento rapido. “Questo è il protocollo stabilito. Quindi, se mi permette, la lascio per qualche momento, giusto il tempo di rivedere il tutto e di decidere liberamente.”
 
“Ho già dato la mia risposta,” ribattè Snape quasi divertito. “Non cambio idea così facilmente.”
 
“Sono contenta,” disse lei. “Ma insisto perché si prenda una pausa per pensare. La penna è a sua disposizione.”
 
Senza guardarlo in faccia, Hermione uscì rapidamente dalla cella; non così rapidamente però da non sentirlo commentare, “Pronta per un’altra missione, non è vero? Ma questa volta si tratta di me. E’ sicura di essere sicura?”
 
“Anch’io non cambio idea così facilmente!” rispose lei stizzita, socchiudendo la porta della cella per isolarlo e isolarsi da lui. In realtà, non c’era nessun motivo per uscire da quella stanza e lasciarlo solo. Non a livello legale, naturalmente, e neanche a livello umano. Ma Hermione aveva in mente ben altro quando si era alzata. Rimanevano solo pochi minuti, ne era sicura. Appena il tempo di fare quello a cui stava pensando fin da quando aveva sentito quelle parole sprezzanti.
 
“Signor Malfoy?” chiamò piano nella direzione da cui aveva sentito arrivare le grida.
 
“Chi… chi mi chiama?” rispose una voce debole, affaticata dal pianto.
 
“Non ha importanza adesso. Può farmi capire qual è la sua cella?”
 
Un momento di silenzio, poi un leggero trascinarsi e finalmente due colpi sordi ed esitanti sulla destra del corridoio. La cella di Lucius Malfoy era esattamente di fianco a quella di Severus Snape, ed Hermione non potè evitare una smorfia incredula al pensiero dei due ex-alleati rinchiusi uno vicino all’altro.
 
“Stia indietro,” ordinò imperiosamente a voce bassa.
 
Una sprazzo di luce fuoriuscì dalla sua bacchetta e la porta, cigolando, si aprì obbedientemente. Nella penombra improvvisamente rischiarata, apparve il viso smagrito di Lucius, gli occhi dilatati per la sorpresa.
 
“Miss… Granger?” articolò a fatica.
 
“E’ un piacere rivederla, signor Malfoy,” rispose Hermione, ed un sorriso birichino si fece strada suo malgrado sulle sue labbra.
 
L’uomo di fronte a lei arrossì cupamente e incrociò le braccia, provando ad assumere un’aria altera. Un effetto drammatico e ben studiato, che avrebbe fatto colpo ai vecchi tempi, ma che invece venne immediatamente rovinato dal gemito che gli sfuggì non appena cercò di mettersi dritto.
 
Le lacrime gli avevano striato il viso. Tremando nel tentativo di dominare il dolore, Lucius disse con aria di sfida, “E’ venuta a godersi la sua rivincita, immagino?”
 
“Non proprio,” rispose lei; con un gesto rapido, alzò la bacchetta e mormorò qualcosa. Istintivamente Lucius impallidì e si ritrasse. Ma poi i suoi occhi si allargarono per lo stupore. Sconcertato, il mago guardò alternativamente la sua caviglia e la ragazza di fronte a lui, senza riuscire a trovare le parole.
 
 “Ci sono cose che danno ben più soddisfazione, signor Malfoy,” disse allegramente Hermione. “Ma se fossi in lei, eviterei di parlarne, in particolare con il signor McDowell.”
 
E con un inchino teatrale, richiuse la porta sul viso dello stupitissimo mago.
 
Sentendosi infinitamente in pace con la sua coscienza, Hermione ringraziò mentalmente Harry per averle insegnato quel trucchetto da Auror che apriva e chiudeva le porte sbarrate senza lasciare segni evidenti. Quel McDowell avrebbe avuto il suo daffare per capire come aveva fatto la caviglia di Lucius a guarire così… così magicamente, appunto.
 
Ridendo dentro di sé, Hermione rientrò nella cella di Snape e lo trovò perfettamente composto, i fogli in grembo firmati con la sua inconfondibile grafia spigolosa. Con calma, sentendosi improvvisamente a suo agio, lei li ricontrollò uno per uno; poi pose a Snape alcune domande irrilevanti, il cui unico scopo era quello di permetterle di osservare le reazioni del prigioniero senza che lui lo notasse. Adesso che aveva bevuto, sembrava essere migliorato enormemente, e le sue risposte pacate vibravano di quell’antico sarcasmo che lei ricordava così bene.
 
“Sì,” pensò Hermione mentre un’ondata di emozioni diverse le faceva battere il cuore con rinnovata energia. “Sarà una causa interessante.”
 
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La notte era calata, invisibile come sempre a tutti coloro che erano rinchiusi nell’eterna penombra delle celle. Sdraiato sul suo pagliericcio, Severus Snape ripensava a quel che era successo quel pomeriggio e ripercorreva ogni parola, ogni pausa, ogni respiro, riesaminando ogni possibile indizio che potesse aiutarlo nelle ore seguenti.
 
Era stato molto fortunato, riflettè, davvero fortunato a trovare un aiuto in quel carcere, una cupa costruzione che fungeva da anticamera per Azkaban. Dopo quello che era successo nell’ultima guerra, i Dissennatori non godevano più delle grazie del Ministero. Adesso i colpevoli del mondo magico venivano processati come nel mondo babbano, aspettando mesi e anche anni nella clausura di quell’edificio tetro dalle mura enormi. Coloro che erano riconosciuti colpevoli venivano poi inviati alla famigerata fortezza nel mare del Nord. E lì correva voce che il Ministero avesse saputo trovare nuovi degni sostituti dei tormentatori che aveva appena bandito.
 
No! Severus Snape non poteva, non voleva finire la sua vita rinchiuso in quell’inferno per uno stupido errore giudiziario. Ma nessuno aveva voluto ascoltarne la difesa dopo la vittoria, nessuno aveva voluto riconoscerne i meriti, la devozione, il sacrificio. La sua guarigione si era rivelata un inganno crudele, il tentativo di far di lui un capro espiatorio nel quale punire tutte le colpe non pagate di altri.
 
Ancora una volta, un’immensa ondata di amarezza lo avvolse mentre ripensava alle parole che Dumbledore gli aveva detto, mentre riviveva il dolore delle scelte fatte, accettate tra le lacrime ed espiate nel sangue. Il sangue che ancora gli macchiava le mani. Nella penombra, strinse i pugni e si rigirò nello stretto spazio vicino al muro, soffocando la sofferenza e la rabbia.
 
Tre anni… tre lunghi anni passati ad aspettare un processo, ad invocare un tribunale, a sperare in un amico. Nemmeno Harry Potter era riuscito a fare qualcosa per lui. Ricordava benissimo il giorno in cui glielo avevano detto.
 
Con quella sua aria indolente e la larga parlata dialettale, era apparso sulla porta McDowell, il nuovo carceriere arrivato da poco ma che si era già guadagnato la stima dei superiori e l’odio dei carcerati per la sua durezza nell’osservare il regolamento. “Spiacente, amico, ma il ragazzo Potter si è rimangiato tutto. Alla fine dei conti, ti sei giocato la vita un’altra volta.”
 
Distogliendo lo sguardo, Severus aveva accusato il colpo in silenzio, ma dentro aveva sentito qualcosa di tagliente lacerargli il cuore. La sensazione di cadere in un abisso senza fine, il fischio del vento nelle orecchie. E poi, era arrivata una frase, una frase sconcertante in cui un inspiegabile tono rispettoso aveva improvvisamente sostituito il grossolano accento popolare.
 
“Mi spiace, signore. Purtroppo lei ha fatto un errore. Potter non è mai stato in grado di capirla.”
 
Di colpo, Severus aveva trattenuto il respiro. Che cosa… che cosa voleva dire? Disorientato, aveva fissato i suoi occhi in quelli dell’uomo davanti a lui, il suo carceriere, la guardia inflessibile che rispettava rigidamente il regolamento a costo della vita dei prigionieri.
 
Lentamente, un sorriso malinconico era apparso sul viso di McDowell.
 
“Sono Ian McDowell, Professor Snape. E lei ha salvato i miei genitori.”
 
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Erano seguite altre visite, dapprima circospette, via via sempre più lunghe, man mano che si rafforzava la fiducia tra loro. McDowell si era presentato meglio. I suoi genitori erano maghi che il precedente Ministero, agli ordini di Voldemort, aveva condannato a morte per essere entrambi di ascendenza babbana. Con avvertimenti mirati, in alcuni casi Severus era riuscito ad evitare questa triste fine a molti sfortunati membri del mondo magico; il miracolo era riuscito anche con i due McDowell. Il figlio Ian era già stato inviato in Irlanda al tempo, e non aveva avuto notizie dei suoi fino a quando non erano precipitosamente rientrati dall’Inghilterra, benedicendo il loro salvatore.
 
Finita la guerra, il giovane McDowell era tornato a Londra, alla ricerca di un lavoro e del professor Snape. Non aveva grandi talenti, per cui aveva cercato un incarico in un ufficio nella pubblica amministrazione; invece gli avevano offerto un posto nelle carceri. Dopo tutto quel che era successo, ben pochi maghi erano disposti a fare un lavoro che ricordava loro le atrocità commesse. McDowell non aveva simili ricordi e quindi era stato lieto di accettare. Ancor più lieto quando aveva saputo della guarigione di Severus, anche se il successivo processo e l’errore giudiziario lo avevano sconvolto. Avrebbe voluto protestare, ma si era reso subito conto che da solo non avrebbe mai potuto confutare la sentenza. Quindi, aveva fatto il possibile per guadagnarsi la fiducia dei suoi superiori con un comportamento correttamente spietato, ed era riuscito a farsi trasferire all’ala dei Mangiamorte dopo un paio di mesi.
 
Nelle settimane successive aveva cercato di dare il meglio di sé nel mantenere la disciplina, creandosi un’immagine di perfetto carceriere. E nel frattempo, aveva studiato il prigioniero della cella a sinistra di Lucius Malfoy, facendo domande svagate alle altre guardie e dimostrandosi ancora più duro dopo averne ricevuto le risposte. Il risultato era stato quello desiderato. Nel giro di un mese, McDowell aveva assunto il controllo di quel settore; e a quel punto, aveva cercato un modo di parlare con Severus Snape senza farsi scoprire.
 
C’era sempre il rischio che l’uomo non fosse come gli avevano descritto i suoi genitori. Dopo tutto, l’aveva giudicato un tribunale di maghi e la pena era stata sorprendentemente mite, considerando le accuse. McDowell se ne era rallegrato più volte nei suoi colloqui con Severus.
 
“E’ fantastico, professore! Essere in questa gabbia ci permette ancora un tentativo. Farò il possibile per aiutarla a riaprire il processo.”
 
Galvanizzato da quell’entusiasmo, Severus si era applicato a richiedere una revisione, un’opportunità che gli sarebbe stata negata se fosse stato destinato ad Azkaban. McDowell gli faceva rapporto regolarmente, fingendo di obbligarlo a punizioni o compiti spiacevoli.
 
Così avevano saputo della cosiddetta “corrente clandestina”, un piccolo gruppo di parenti e amici di ex-Mangiamorte che stava preparando una richiesta formale per rivedere alcune delle situazioni più controverse.
 
E così avevano anche saputo con molto anticipo del probabile arrivo di un avvocato per Severus.
 
Si erano preparati con molta cura. Chiunque fosse arrivato, doveva prendere Severus in simpatia, considerarlo da subito una vittima della brutalità del sistema, desiderare di aiutarlo. Non era stato dificile per un pozionista esperto come Snape ricavare un decotto dalle erbe che McDowell aveva abilmente sottratto dalle cucine. Non era una vera pozione ma un semplice infuso dalle proprietà leggermente tossiche, capaci di stimolare un intenso calore corporeo unito ad una profonda disidratazione: una rappresentazione che il cuore tenero della Granger aveva scambiato per un attacco di febbre perniciosa.
 
Perché l’ultimo colpo di fortuna era stato proprio quello: Hermione Granger e tutta la sua ostinata carica di giustizia ed umanità. Un mastino tenace che avrebbe affondato i denti senza mollare l’osso. Severus Snape sorrise e si rigirò, sistemandosi meglio sul pagliericcio rigido. Con Hermione Granger in campo, forse la ruota della fortuna avrebbe girato nella direzione giusta. E finalmente, Severus si addormentò mentre un ultimo fugace pensiero gli guizzava nella mente: era bello sapere che, là fuori, lei si preoccupava per lui. Sì, era bello… ripensò alla dolcezza con cui lei l’aveva trattato, alla premura con cui gli aveva porto da bere… quanto tempo era passato dall’ultima volta che qualcuno aveva fatto qualcosa di gentile nei suoi confronti… In fondo, Hermione Granger non era poi così spiacevole…
 
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Nel silenzio del corridoio vuoto, Ian McDowell si preparava al turno di guardia della notte. Fischiettò tra i denti mentre alzava il bicchiere di caffè in un saluto ironico al collega che stava uscendo di servizio.
 
“Tutto tranquillo, Will?” chiese.
 
“Tutto a posto, Ian,” rispose quasi con deferenza il collega. “Malfoy è stato molto silenzioso, oggi pomeriggio. Gli hai dato qualcosa per fargli smettere quella lagna?”
 
“Tu mi conosci, Will; io ho dei metodi che funzionano meglio di un sonnifero.”
 
Will sogghignò a quelle parole, e McDowell rispose con un sorriso crudele. Non c’era bisogno di dire troppo. L’altro avrebbe immaginato chissà che cosa, senza neanche lontanamente avvicinarsi alla verità. Sì, era stato bravo a crearsi una reputazione.
 
“Di’ un po’, e com’è la Granger?” chiese di nuovo il collega, curioso. “Mi hanno detto che è carina, ma molto arrogante.”
 
“Niente di speciale,” rispose McDowell stringendosi nelle spalle. “E’ convinta di poter fare il bello e il cattivo tempo perché era amica di Potter. Sarebbe ora che la piantassero con queste storie, ormai è roba passata.”
 
“Be’,” disse l’altro in tono conciliante, “non si può negare che abbia fatto parecchio per aiutarci a vincere.”
 
“Ma informati, scemo!  Ha fatto tutto Potter! Lei gli è solo andata dietro a raccattare i cocci. Scommetto che avrebbe fatto carte false per potersi prendere tutta la gloria.”
 
“Va bene, va bene, non ti scaldare,” rispose il collega, dandogli amichevolmente una pacca sul braccio. Ma aveva l’aria nervosa. Nonostante l’atteggiamento cordiale, McDowell vedeva che stava in guardia. Lo reputavano un gran bastardo. Eh sì, era stato davvero bravo a sostenere la sua parte.
 
McDowell sorseggiò in silenzio il caffè mentre ripensava alla conversazione con Hermione Granger. Era andato tutto bene. La recita del prigioniero malato e incatenato aveva colpito la ragazza. Si capiva benissimo che in fondo, con tutte le sue arie, era una dal cuore tenero. E poi c’era stata l’aggiunta imprevista di Malfoy, quel gran seccatore. La Granger non poteva sapere che in realtà si era lussato la caviglia appena un paio d’ore prima della sua visita… però McDowell se lo sentiva che Malfoy avrebbe contribuito a dare un tocco di veridicità a tutta la faccenda. Aveva anche previsto come sarebbe andata a finire… non era poi così difficile, considerando la ragazza.
 
Quel che la Granger non avrebbe saputo, naturalmente, era che McDowell, al suo ritorno, si era affrettato a fare un contro incantesimo a Lucius. Che faccia atterrita aveva fatto quell’aristocratico smidollato quando McDowell si era presentato nella sua cella come un angelo vendicatore! Per quasi cinque minuti, aveva balbettato incoerentemente scuse e suppliche e promesse… Ma, ehi! McDowell era un buon attore, e non lasciava niente al caso. L’indomani era previsto il guaritore, chiamato da un secondino più sensibile di lui al fascino dei soldi, e non si poteva farlo venire per niente… Già, meglio non creare sospetti.
 
E così Lucius aveva avuto la caviglia rotta di nuovo, ma questa volta McDowell aveva aggiunto anche un incantesimo Silencio. Non voleva certo che quel patetico rottame tenesse sveglio il professor Snape coi suoi lamenti!
 
L’uomo finì di bere il caffè, ma con la bevanda assaporava ben altre sensazioni.
Finalmente era riuscito a fare il primo passo verso il successo del suo progetto. Salutò il collega cordialmente e l’altro gli rispose con un cenno, stupito di tutta quell’allegria. Subito McDowell si irrigidì: così non andava, non doveva creare sospetti. Doveva controllarsi meglio. Non poteva fallire proprio adesso, ad un passo dalla vittoria. Indurì di nuovo le labbra nel suo solito atteggiamento sprezzante e, incredibilmente, Will si rilassò a quell’espressione famigliare.
 
 Si salutarono con reciproco sollievo, ognuno diretto ai suoi compiti, ma l’errore che aveva appena commesso rese silenzioso McDowell per un lungo tratto. Sì, doveva stare attento a non tradirsi, a non tradire il suo segreto. Nessuno doveva saperlo. Nessuno l’avrebbe saputo. Tuttavia l’uomo non riuscì a reprimere un sorriso di trionfo mentre si avviava verso la sua stanza. Lì avrebbe preso la fiaschetta d’argento che teneva sempre piena, avrebbe controllato il suo aspetto e poi avrebbe bevuto la dose necessaria. E infine si sarebbe messo in marcia per la consueta ronda notturna.
 
I suoi occhi si strinsero leggermente quando si scrutò nello specchio. Ian McDowell vide i suoi lineamenti trasformarsi e il suo viso assumere un’espressione di odio profondo prima di riuscire ad alzare la fiaschetta e bere un sorso. Appena in tempo. Ancora qualche attimo, e il collega si sarebbe trovato di fronte un uomo anziano invece del robusto giovane con cui aveva appena scherzato. Perché questo era il segreto di McDowell, un segreto che custodiva gelosamente dal giorno in cui suo figlio era stato catturato e torturato da una congrega di Mangiamorte. Non sapeva quali fossero i loro nomi, ma di uno di loro era più che certo, perché glielo aveva rivelato suo figlio. Severus Snape, aveva balbettato prima di morire.
 
Severus Snape, il prediletto del Signore Oscuro.
 
Aveva stretto il ragazzo tra le braccia e ascoltato il suo cuore battere sempre più piano fino a fermarsi. Con quello di suo figlio, si era fermato anche il suo. Da allora, l’odio gli aveva bruciato l’anima e corroso la mente, facendogli dedicare la vita ad un unico scopo: la vendetta.
 
Per questo motivo, aveva cambiato nome ed aspetto. Il suo nuovo cognome era quello di una coppia di maghi irlandesi, di passaggio a Londra durante il regime di Voldemort. Nessuno si ricordava più di loro, ma erano stati inseriti nel registro delle inchieste, un particolare che era stato controllato subito prima della sua assunzione al carcere, proprio come aveva immaginato. Il vero Ian McDowell, il loro unico figlio, aveva abbandonato l’Irlanda per l’America molti anni prima, lasciando campo libero al suo imitatore. Nessuno conosceva le sue sembianze, per cui non era stato difficile “scegliersi” un viso e procurarsi ingredienti a sufficienza per la pozione Polisucco. Era stato tutto sorprendentemente facile, anche se aveva richiesto tempo.
 
Ma adesso era tutto pronto. Presto Severus Snape sarebbe stato libero, e allora avrebbe pagato, e pagato abbondantemente, non con la tiepida giustizia del mondo magico. E prima di sparire per sempre in un gorgo di orrori, Severus Snape gli avrebbe rivelato i nomi degli altri, quei nomi rimasti nascosti fino a quel momento. Lui li avrebbe cercati uno per uno. Anche loro avrebbero pagato, e pagato fino in fondo.
 
Certo, ci sarebbe voluto tempo, ma non era poi un gran problema.
 
La pazienza era la virtù che aveva saputo coltivare meglio nella sua vita.
 
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Bene, la storia è finita qui, aperta ad innumerevoli scenari. Ma potrebbe anche andare avanti. Come sempre, ai lettori l’ardua sentenza. Intanto grazie per avermi letto.

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