The purest love

di silvia_arena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nightmares ***
Capitolo 2: *** Storm ***
Capitolo 3: *** Butterfly ***
Capitolo 4: *** Love ***
Capitolo 5: *** Fears ***
Capitolo 6: *** Tossed ***



Capitolo 1
*** Nightmares ***


Nightmares


 

La ragazza fu svegliata da un forte rumore, un tuono accompagnato da un fulmine che squarciò il cielo e illuminò l’intera camera. Sobbalzò dalla paura: un altro rumore giunse alle sue orecchie. Un altro tuono? No, sembrava più uno sparo.

Che gli uomini di Charles Lee li avessero trovati? Eppure la tenuta di Achille sembrava inespugnabile.

Rimase immobile, tremante di paura. Doveva rimanere lì ad aspettare che la trovassero e la uccidessero, o peggio? Oppure avrebbe fatto meglio a uscire allo scoperto e magari tentare una via di fuga?

Mentre il suo cervello farneticava, udì un suono, un gemito di lotta. Connor.

Egli era un Assassino, sarebbe stato sicuramente capace di cavarsela. Ma se fosse stato colto di sorpresa?

Non esitò, uscì da sotto le coperte e spalancò la porta, correndo per le scale alla ricerca del giovane nativo.

I suoni persistevano, provenivano dalla sua camera da letto. La ragazza si armò con ciò che trovò accanto alla porta: un vecchio bastone di legno. Non avrebbe potuto molto contro una pistola, ma almeno sarebbe stata capace di difendersi.

Aprì la porta con tutta la forza che possedeva, puntando il bastone contro... nessuno.

Connor era sul letto, in ginocchio, la schiena piegata in avanti, gli abiti d’Assassino ancora addosso. Stava prendendo a pugni il cuscino con una potenza mortale: se quel cuscino fosse stato un uomo si sarebbe ritrovato col cranio fracassato.

I suoi gemiti erano sempre più forti; la ragazza sapeva cosa doveva fare: impedire che Achille lo sentisse.

«Connor» sussurrò, posando a terra il bastone e chiudendo la porta alle proprie spalle. Lui non la sentì. Era sonnambulo?

Ripeté il nome dell’Assassino più volte, avvicinandosi a lui e toccandogli la spalla, ma nulla: egli continuava a colpire il cuscino, irrefrenabile.

«Ratonhnhaké:ton!» Non sapendo che fare, si sedette sul letto davanti a lui, tentando di fermare i suoi pugni. «Smettila, stai sognando!»

Connor si svegliò di soprassalto, immobilizzando la ragazza per le spalle e facendo scattare la lama celata vicino alla sua giugulare.

Lei trasalì dallo spavento. Nonostante Connor la riconobbe quasi immediatamente, restò lì, ansimante, preso ancora dalla furia del suo sogno.

«Io... lo ucciderò» esalò l’Assassino. «Charles Lee è un uomo morto.»

Poi, come resosi conto solo in quel momento che la persona che stava minacciando non era Charles Lee, ritirò la lama. Tornò in sé, guardandosi intorno.

La giovane era ancora spaventata a morte.

«Che ci fai qui?» le chiese Connor. «Sei pazza?» domandò con più insistenza, guardandola male. Il suo corpo, vestito dell’armatura d’Assassino, addobbato con tutte quelle armi, torreggiava sopra quello esile e quasi spoglio della ragazza, coperta solo da un leggero vestito per la notte.

«Avrei potuto...» continuò Connor, ma poi s’interruppe, incapace anche solo di realizzare che se non si fosse reso conto di chi aveva davanti, avrebbe potuto uccidere un’innocente.

«Credevo... ci fosse... qualcun altro...» ansimò la giovane. «Volevo...»

«Volevi cosa?» la interruppe Connor, adirato. «Gettarti fra le braccia del nemico? Sei una sciocca!» tuonò, per poi sbattere con forza la mano sul letto, facendo sussultare la ragazza.

Rimasero lì per qualche istante, immobili; entrambi con i respiri pesanti, entrambi spaventati per la sorte dell’altro.

Fu lei a rompere il silenzio.

«Connor.»

Lui levò lo sguardo su di lei, non ancora calmo.

«Credevo che i tuoi incubi fossero finiti.»

L’Assassino rimase a fissarla, per poi socchiudere gli occhi e, con un sospiro, liberarla dal peso del suo corpo. Si alzò dal letto e camminò per la stanza, e parlò solo quando la ragazza si mise a sedere sul letto.

«Non riesco a controllarli» confessò Connor. «Ogni notte...» mormorò. «Ogni notte rivedo il mio villaggio bruciare. Mia madre...» strinse gli occhi, preso dal dolore dei ricordi. «I miei amici...»

La giovane si alzò e gli posò una mano sulla spalla. «Allora perché mi hai detto che stavi bene?»

L’Assassino sospirò. «Per non darti ulteriori pensieri.»

La ragazza non esitò: con un sospiro gli gettò le braccia al collo, catturandolo in un abbraccio non subito ricambiato. Connor era immobile per la sorpresa. Poi, come le braccia dalla giovane si stringevano intorno al suo collo, quelle dell’Assassino si strinsero intorno alle sue spalle e ai suoi fianchi. Inspirarono l’odore dell’altro.

Connor sapeva di foresta. Quella da cui era tenuta sempre lontana, per paura che le guardie di Charles Lee potessero trovarla. La foresta che si estendeva davanti alla sua finestra, che bramava da giorni esplorare, odorare. Tutto si realizzò abbracciando Connor.

La ragazza sapeva di casa. Non la sua casa bruciata, che gli fu portata via. Una casa sicura, dove avrebbe sempre trovato conforto, affetto... amore.

La giovane sciolse lentamente l’abbraccio, tenendo le mani sulle spalle dell’Assassino, come una madre in procinto di fare una raccomandazione al proprio bambino.

«Ti voglio bene, Connor» constatò.

L’Assassino si perse nei suoi occhi. «Anch’io» replicò, per poi stringerla di nuovo a sé, facendole poggiare la nuca sul proprio petto e accarezzandole i capelli.

In quel momento entrambi si sentirono al sicuro e protetti.


 


Scrivo cose senza senso e senza trama. Chiedo venia.

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Capitolo 2
*** Storm ***


Storm


 

La ragazza non riusciva a credere di essere finalmente sola. Achille era uscito, Connor era in battaglia.

Avrebbe finalmente potuto mettere un po’ d’ordine in quella casa, oppure cucinare qualcosa di buono.

Ma appena volse lo sguardo verso la finestra, capì subito cosa aveva voglia di fare.

Uscì di casa, ammirando la distesa verde davanti ai suoi occhi: gli alberi, i cespugli... la foresta. Finalmente era libera d’esplorarla.

Avanzò qualche passo, indecisa. E se Achille l’avesse scoperta? L’avrebbe rimproverata, l’avrebbe cacciata via per avergli disubbidito? In fondo lui non voleva che lei uscisse per paura delle guardie di Charles Lee, non perché voleva impedirle di divertirsi.

Dopo un attimo di riflessione, si decise: ora o mai più. La curiosità era troppo forte.

S’immerse nel verde, circondata dagli alberi più alti che avesse mai visto. Riuscivano ad oscurare il sole. L’odore della natura le inondò le narici. Si sentiva bene.

Una goccia d’acqua le cadde sul viso. Alzò lo sguardo, credendo che si trattasse della rugiada rimasta intrappolata fra le foglie, dopo l’acquazzone della notte prima. Invece no: non erano stati gli alberi ad oscurare il sole, ma le nuvole. Si stava preparando un altro temporale.

Sapeva ch’era rischioso restare lì, avrebbe fatto meglio a tornare alla tenuta di Achille, ma la sensazione delle gocce di pioggia che le cadevano leggere sul corpo era troppo piacevole per essere fermata. Si divertì come una bambina, godendosi appieno quel momento.

Fu dopo qualche minuto che si rese conto di quanto sarebbe stato migliore quel momento se Connor si fosse trovato lì, con lei, sotto la pioggia.

Si sentì sola. Ogni volta che Connor partiva, rischiava di non tornare. E se non l’avesse più rivisto? Se non avrebbe mai potuto giocare in un’acquazzone con lui?

Ormai l’Assassino era via da giorni: cosa aspettava a tornare?

La ragazza non riuscì a rientrare in casa, sommersa da quei pensieri. Voleva Connor, voleva stringersi al suo corpo caldo, voleva che la guerra finisse. Si sedette per terra, con la schiena poggiata al tronco di un albero. Le sue lacrime si confusero con la pioggia.

Dopo qualche istante passato lì, il cuore e la mente impegnati con il ricordo di Connor, la giovane rischiò la morte. Un fulmine colpì l’albero al quale era appoggiata, lasciandolo in preda alle fiamme. Lei si alzò subito, accompagnata da un grido, e corse più veloce che poté per evitare che il tronco le cadesse addosso.

Sapeva di non essere abbastanza svelta. Stava per essere sovrastata da quel peso immane quando qualcuno le piombò addosso, la scansò dalla traiettoria dell’albero facendola rotolare sull’erba bagnata. Nella foga della rotolata, le armi che il suo salvatore portava addosso le ferirono superficialmente le braccia e i fianchi, ma a lei non importò perché riconobbe il suo calore. Quando si fermarono, lui si trovava sopra di lei, fissandola terrorizzato. Era tornato.

Il suo Connor.

I ricordi del suo villaggio in preda alle fiamme riaffiorarono nella mente dell’Assassino, le stesse fiamme che avevano ucciso sua madre, e che stavano per uccidere la sua amata. La strinse forte, felice di essere riuscito a salvare almeno lei.

«Connor» singhiozzò lei – non per la paura, ma per la felicità. Le loro labbra s’incontrarono, fameliche. A nessuno dei due importava la pioggia, o gli alberi in fiamme. Sentivano la necessità di appartenere l’uno all’altra, in quel preciso istante.

I loro corpi si strinsero, si abbracciarono. Connor la baciò dappertutto, la liberò del suo vestito per poi liberarsi del suo. Si amarono lì, sul terreno bagnato.

Quando la tempesta finì, i raggi del sole che riuscivano a filtrare dagli alberi baciarono la pelle dei due amanti.

La ragazza fu presa da un’innocente risata, che contagiò l’Assassino.

«Non uscire più senza il permesso di Achille» ammonì Connor, tornando serio ma incapace di nascondere il sorriso malizioso che persisteva sulle sue labbra.

«Non mi pento delle mie azioni» replicò la ragazza, gioviale.


 


Devo ancora scusarmi per il nonsense di queste one-shot?

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Capitolo 3
*** Butterfly ***


Il piccolo Ratonhnhaké:ton correva intorno alla tenuta di Achille, rincorrendo le farfalle. Sua madre, dall’aspetto giovane e immacolato anche dopo il difficile parto, era seduta sulle scale a guardarlo.

Aveva quattro anni, il piccolo Ratonhnhaké:ton. Aveva i lineamenti Mohawk, amava dipingersi i segni tipici dei nativi sul volto, e raccoglieva alcuni ciuffi di capelli in piccole treccioline che gli ricadevano sulla fronte.

Era la copia di suo padre.

La giovane donna, appena ventunenne, si chiedeva cos’avrebbe dato per vedere il suo amato Connor all’epoca in cui era felice e spensierato come suo figlio – prima che gli inglesi distruggessero il suo villaggio, costringendolo ad una vita da Assassino.

Il bambino in quel momento giunse davanti a lei, esclamando: «L’ho presa, mamma! L’ho presa!» Aprì di poco le mani, rivelando una farfalla di colore giallo che cercava di sfuggire dalle dita del piccolo Ratonhnhaké:ton e librarsi in cielo.

Il giovane mezzosangue nativo non riusciva a smettere di sorridere per la sua conquista, mostrandola, fiero, alla madre. Lei rise e, accarezzandogli i capelli, sfiorò affettuosamente il naso del figlio col proprio. «Sei stato proprio bravo, Ratonhnhaké:ton.»

Il bambino era gioviale, orgoglioso di se stesso e della lode della madre.

«Ma adesso lasciala libera» ammonì la ragazza.

Un’espressione sorpresa si dipinse sul volto di Ratonhnhaké:ton. «Ma l’ho catturata per te!» si giustificò, allungando le braccia verso la madre per mostrarle meglio la farfalla.

«E ti ringrazio» rispose la giovane donna, sorridendogli e sfiorandogli la fronte. «Ma è lì che lei deve stare.» Indicò le altre farfalle che volavano in cerchio a qualche metro da loro. «Con la sua famiglia» continuò. «Non credi?»

Il piccolo Ratonhnhaké:ton si rattristò. «Anche papà dovrebbe stare qui con la sua famiglia» protestò. «Eppure non c’è.»

Per la ragazza fu un colpo al cuore. Riusciva a malapena a sopportare la mancanza di Connor, e se questa era sofferta anche da suo figlio, forse non ce l’avrebbe fatta... Ma s’impose di essere forte.

«Papà è in guerra» affermò, reprimendo le lacrime. «Lo sai, Ratonhnhaké:ton.»

Il piccolo si sedette accanto a lei sui gradini, guardando la farfalla ancora rinchiusa fra le sue mani.

«E non può tornare? Nemmeno per un po’?» domandò, confuso.

«Non prima che la guerra sia finita» fu la risposta di sua madre.

«Ma tornerà?» insistette il piccolo.

Lo sguardo della giovane si perse nella foresta che si estendeva davanti la tenuta di Achille. Fissò l’orizzonte dal quale ogni giorno sperava arrivasse il suo Connor.

Sapeva benissimo che sarebbe potuto non tornare.

Eppure la speranza in lei non moriva: non avrebbe permesso al suo bambino di crescere senza conoscere il suo papà. Il piccolo Ratonhnhaké:ton... così simile a lui che fu naturale dargli il suo stesso nome.

E non avrebbe permesso nemmeno che Connor non incontrasse mai suo figlio, loro figlio: il frutto dell’amore di una notte disperata, quella prima della sua partenza, in cui la necessità di appartenere l’un l’altro era più forte di ogni cosa.

«Tornerà» rispose, decisa, non togliendo lo sguardo dall’orizzonte, immaginando il suo Connor sbucare dagli alberi proprio in quel momento. Posò un braccio intorno alle spalle del figlio, il quale si accoccolò sul suo petto, liberando la farfalla. «Certo che tornerà.»

 

 


Angst, fluff e nonsense allo stato puro!

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Capitolo 4
*** Love ***


Il sole era appena calato quando il piccolo Ratonhnhaké:ton si addormentò sul divano sul petto della madre, fra dolci carezze. Il piccolo aveva solo quattro anni, ma la giovane donna dovette usare tutta la sua forza per prenderlo tra le braccia e portarlo al piano di sopra, nella sua camera. Lo poggiò delicatamente sul letto e gli carezzò ancora la fronte, posandoci poi un lieve bacio.

«Dormi bene, Ratonhnhaké:ton» sussurrò.

Una folata di vento le scompigliò i capelli e fece rabbrividire il bambino, così la ragazza si apprestò a coprire il piccolo con il lenzuolo e a chiudere la finestra, serrando le tende. Fu nel momento in cui sbirciò dalla finestra, però, che notò una figura incappucciata avanzare verso la tenuta di Achille, troppo possente e spedita per essere Achille. Nel buio non riuscì a scorgere i suoi lineamenti: che fosse uno degli uomini di Lee? Sapevano che Connor non si trovava lì, in quel momento!

L’istinto di protezione verso Ratonhnhaké:ton fu più forte della paura: uscì dalla camera del bambino, chiudendola a chiave, scese le scale e si armò con la prima cosa che le capitò tra le mani: un coltello da cucina – l’ultima cosa che aveva fatto prima di coccolare Ratonhnhaké:ton sul divano era stata lavare i piatti.

Si nascose nel buio, con il cuore martellante nel petto e il coltello stretto in mano. Sentì i passi dell’intruso salire i gradini davanti la porta di casa, per poi bussare alla porta.

Trasalì.

Il rumore cessò, ma sapeva che l’uomo si trovava davanti la porta e non se ne sarebbe andato. Si appropinquò alla porta, l’arma stretta fra le mani. L’uomo bussò di nuovo, insistente.

La ragazza aprì sollevando il coltello, pronta a colpirlo, ma l’estraneo aveva i riflessi più pronti e la fece voltare, stringendole la vita con un braccio e puntandole la lama celata al collo con l’altro. Il coltello della giovane cadde a terra, accompagnato da un grido di sorpresa e spavento.

Si ritrovarono entrambi ad ansimare. La giovane sperava solo che il suo urlo non avesse svegliato Ratonhnhaké:ton, ma tutte le sue paure svanirono quando sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi del suo aggressore.

«Connor!» sussurrò, incredula, colpita da mille emozioni. Il ragazzo ci mise poco a riconoscere la voce e il volto della sua amata, nonostante il buio e il rumore dei loro respiri pesanti. Ritirò subito la lama celata e, con il braccio che le immobilizzava la vita, strinse il corpo della ragazza al suo, così forte da farle quasi male, facendo combaciare le loro labbra. La mano che prima stringeva l’arma si posizionò dietro la nuca della ragazza, per impedirle di sfuggire a quel bacio atteso da entrambi per molto tempo.

Erano quattro anni che Connor era andato in guerra. Quattro anni che bramavano la vicinanza dell’altro.

Il nativo la fece voltare, intrappolando il suo viso tra le proprie mani, non smettendo di baciarla. La giovane, con un unico gesto, spogliò l’Assassino della sua armatura e, non curandosi di sembrare avventata, sciolse il corpetto che fece cadere il suo abito da notte a terra.

Aveva bisogno di sentire il corpo dell’Assassino attaccato il suo.

Connor perse la ragione alla vista del suo corpo nudo: le morse una spalla mentre la condusse delicatamente verso il divano, facendola indietreggiare. La giovane non riuscì a sopprimere un gemito di dolore misto a piacere.

Quando giunsero sul divano, Connor era già privo dei pantaloni. I loro corpi nudi si cercarono, si accarezzarono, si strinsero.

La ragazza non riusciva a crederci: il suo Connor era finalmente tornato e lei era lì, fra le sue braccia.

L’Assassino tracciò con la lingua la linea che andava dall’orecchio al seno della ragazza, sentendola sussultare quando toccava le parti più sensibili del suo collo. La mano della giovane si strinse fra i capelli di lui, mentre egli continuava a baciare il suo corpo fino ad arrivare al suo sesso.

Fu lì che esplose.

Connor la penetrò con la lingua, facendole inarcare la schiena in preda a spasmi di piacere. Ma non poteva fare rumore: non poteva rischiare che Ratonhnhaké:ton si svegliasse, non prima che lei e Connor fossero diventati una cosa sola. Così interruppe bruscamente il suo amante, tirandolo per i capelli e portando il suo viso all’altezza del proprio. L’Assassino era all’inizio confuso, ma poi comprese e condivise le esigenze della ragazza.

In quel momento sembravano due selvaggi: erano entrambi spogli, i capelli in disordine, le guance della giovane colorate di rosso per l’imbarazzo e l’eccitazione mentre quelle dell’Assassino dipinte con delle piccole strisce secondo le usanze dei nativi; lei spalancò oscenamente le gambe, invitando silenziosamente il suo amato a prenderla, e lui la prese, con un ringhio gutturale.

La giovane liberò i capelli di Connor dalla sua stretta, poggiando le mani sulle spalle possenti dell’uomo. Soffocarono i gemiti sulle labbra dell’altro, raggiungendo l’estasi nello stesso istante.

L’Assassino aspettò di riprendere fiato prima di uscire dal suo corpo, poi si stese accanto a lei, stringendola tra le braccia.

La ragazza sorrise, respirando il suo odore, sentendosi finalmente serena, al sicuro.

Mentre tentava di prender sonno a ritmo del controllato respiro di Connor, si chiedeva se non fosse quello il momento giusto per parlare, per dirgli che le era mancato, e che lo amava.

Ma, una volta accertatasi che il nativo fosse ancora sveglio, non furono quelle le parole che uscirono dalla sua bocca.

«Abbiamo un figlio, Connor» sussurrò. «È identico a te, ha il tuo stesso nome.»

L’Assassino s’irrigidì per la sorpresa, ma poi la strinse forte, carezzandole i capelli per istigarla al sonno.

Non avrebbe potuto dargli notizia più bella.

 

 


 

Che vergogna >/////<

Lemon che più lemon non si può!

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Capitolo 5
*** Fears ***


«Sei scarso, padre! Non sai combattere! Io sono molto più bravo!»

Le risate del piccolo Ratonhnhaké:ton giunsero alle orecchie della madre, la quale si trovava nella camera da letto del bambino per metterla in ordine. Sbirciò dalla finestra, e ciò che vide le riempì il cuore di gioia: il piccolo Ratonhnhaké:ton stava giocando con il padre a colpi di spada – la ragazza sapeva che, con Connor come maestro, non c’era alcun pericolo che il bambino si facesse male – schernendo il suo modo di combattere, nonostante l’uomo stesse parando tutti i suoi colpi e si forzasse a non attaccare. L’Assassino si limitava a difendersi dai colpi del figlio, in modo da migliorare le sue capacità di attacco.

«Non riesci a colpirmi!» lo derise, gioioso e fiero delle proprie capacità, il piccolo mezzosangue.

Il nativo, che non aveva smesso di sorridere per un attimo, notò che il piccolo iniziava a stancarsi e i suoi attacchi mancavano di precisione, a causa della convinzione di avere già la vittoria in pugno; così, con un colpo secco, disarmò il figlio facendo volare lontano la sua spada e puntando la propria alla sua gola – sempre ad una debita distanza di sicurezza.

Ratonhnhaké:ton era incredulo della svolta che aveva preso il duello.

«Stavi iniziando a sottovalutare l’avversario, ragazzino.» Il tono dell’Assassino era autoritario, degno di un Maestro. «Non farlo mai.»


 

La giovane donna, che aveva visto l’intera scena dalla finestra, sussultò quando la spada di Ratonhnhaké:ton volò via e quella di Connor fu puntata alla sua gola; si strinse le mani al petto, non riuscendo ad udire le parole che Connor stesse pronunciando al figlio, ma si rilassò quando vide il nativo rinfoderare la spada, per poi andare a raccogliere quella del figlio e porgergliela – il piccolo fissava ancora incredulo il padre.

Sapeva che Connor non avrebbe mai fatto del male a loro figlio, ma vedere quell’arma puntata alla sua gola – anche se per gioco – la mise in agitazione. E se quello, per Connor e per Ratonhnhaké:ton, fosse più di un semplice gioco? Se il nativo lo stesse addestrando per entrare nell’Ordine degli Assassini, come Achille aveva fatto con lui?

Scosse la testa: la guerra era finita, Charles Lee era morto, Connor aveva avuto la sua vendetta... non c’era più bisogno di Assassini. Era un passato molto recente che Connor non avrebbe facilmente cancellato, ma egli non era così sciocco da ficcarlo in testa a suo figlio. Ratonhnhaké:ton era entusiasta quando maneggiava un’arma, ma Connor non era così sciocco da incoraggiarlo.

O almeno, era quello che la ragazza sperava.


 

Quando Connor porse la spada al figlio, avrebbe fatto di tutto pur di cancellargli quell’espressione confusa e incredula dalla faccia. Lottò con se stesso per non scoppiare a ridergli in faccia. Credeva di essere realmente in vantaggio su di lui? Non era ovvio che lo stava facendo vincere solo per migliorare il suo attacco? Eppure credeva che suo figlio fosse un ragazzino intelligente.

Con un sorriso radioso, aprì la mano del piccolo Ratonhnhaké:ton, ch’era ancora immobile, costringendolo a impugnare la spada. Levò lo sguardo verso l’alto, sperando di distrarlo e farlo tornare in sé, quando incrociò quello preoccupato della sua amata dalla finestra della camera da letto.

Lei sembrò riprendersi e sparì dietro le tende.

Il nativo si accigliò, per poi tornare a guardare il figlio e sorridergli. «Dai, continua ad allenarti» lo incoraggiò, assicurando la spada nella sua mano e dirigendosi verso la tenuta di Achille.

«Padre» lo fermò Ratonhnhaké:ton. «Io voglio diventare bravo come te» affermò, deluso dalla sconfitta ma determinato.

Connor gli scompigliò affettuosamente i capelli. «Lo diventerai» assicurò, per poi sparire dentro la casa.


 

Quando i suoi occhi avevano incontrato quelli di Connor, si sentì in colpa per i pensieri che avevano attraversato la sua mente. Come aveva potuto scambiare quella genuina voglia di divertirsi con il figlio per un tentativo di trasformarlo in un Assassino? Stava diventando paranoica. Ma l’essere stata per così tanto tempo lontana da Connor l’aveva da un lato, sì, rinforzata, in fondo si era ritrovata costretta ad allevare un bambino da sola nonostante la tenera età – e non un bambino normale, ma un Mohawk selvaggio e iperattivo – ma dall’altro lato... l’aveva resa fragile, incapace di sopportare la mancanza delle persone a lei care. La paura che Connor potesse sparire ancora una volta nella notte per andare a combattere, con il rischio di non tornare, continuava a tormentarla periodicamente, e il solo pensiero che al posto di Connor avrebbe potuto esserci il suo piccolo Ratonhnhaké:ton...

Scosse la testa per liberarsi di quei pensieri, sbrigandosi a portare a termine la pulizia della camera, poi decise di raggiungere Connor e Ratonhnhaké:ton in giardino.

Trasalì quando, appena aprì la porta della camera per uscire, si trovò davanti Connor in procinto di abbassare la maniglia. I loro sguardi s’incontrarono, e Connor chiuse subito la porta dietro di sé, intuendo che qualcosa turbava la sua amata. Ma quella breve intesa fu interrotta dai suoni di lotta che produceva Ratonhnhaké:ton combattendo l’aria a colpi di spada. Entrambi sorrisero, sbirciando dalla finestra.

«È impressionante quanto ti somigli» commentò la ragazza.

«A volte fa paura persino a me» scherzò il nativo.

La giovane donna si voltò verso di lui, con un sorriso malinconico, poggiando le mani sul davanzale della finestra. Connor posò le proprie mani su quelle di lei, avvicinando il viso al suo. La sua amata sospirò, chiudendo gli occhi e inarcando un sopracciglio.

«Spero che non ti assomiglierà... proprio in tutto» mormorò.

L’Assassino si accigliò, allontanandosi da lei quel che bastava per guardarla negli occhi.

«Cosa vuoi dire?» le domandò.

La giovane sospirò di nuovo. «Spero che non diventi anche lui un Assassino. Spero che nessuno lo incoraggi» dicendo questo, rivolse un’occhiata accusatoria a Connor.

Il nativo era sorpreso dalle paure della ragazza, ma realizzò ch’erano lecite. Guardò suo figlio dalla finestra: vide in lui la stessa determinazione che si trovava nel giovane Connor Kenway – all’epoca chiamato ancora Ratonhnhaké:ton – quando si stabilì a dormire nella stalla di Achille purché lui l’addestrasse per diventare un Assassino. Capì del pericolo che correva, istigandolo ad allenarsi per migliorare, così decise che da quel giorno avrebbe rinunciato ad affilare le sue abilità di spadaccino. Si rivolse alla sua amata, per rassicurarla:

«Il ragazzino non ha alcun interesse a diventare un Assassino» mentì, «men che meno le capacità.»

La ragazza sorrise, espirando profondamente, come se si fosse liberata di un enorme peso. Appoggiò la testa sul petto del nativo, lasciando che le sue possenti braccia la circondassero.

«Menomale» esalò, serena.

 


Ringrazio tantissimo coloro che continuano a recensire e a inserire la raccolta tra le seguite!
 

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Capitolo 6
*** Tossed ***


Prima che leggiate, vorrei avvisarvi che questa one-shot è cronologicamente collocata prima del ritorno di Connor – prima o dopo Butterfly, è irrilevante. Inoltre non troverete traccie di amore qui: solo tanto angst – e, come se non bastasse, pure violenza sulle donne. Ho già aggiunto gli avvertimenti “violenza” e “non-con”. Se qualcuno ritiene opportuno che io alzi il rating della raccolta da arancione a rosso, parli ora.

Un altro avvertimento: i personaggi potrebbero essere caduti nell’OOC.


 



 

Tossed


 

Quando la ragazza si svegliò, ebbe poco tempo per realizzare l’accaduto: aveva i polmoni pieni, la respirazione difficile. Passò più di un minuto a tossire per liberarsi del fumo che ostruiva le sue vie respiratorie, mentre cercava di mettersi a sedere.

Ancora in preda agli spasmi della tosse, capì che qualcosa la costringeva a terra: una trave crollata dal soffitto proprio sul suo fianco sinistro. Voltandosi e, con uno sforzo immane, sollevando la trave, fu conscia dell’orrore che si estendeva attorno ai suoi occhi. Ricordò solo dei frammenti di ciò ch’era successo prima: l’arrivo delle giubbe rosse, la premura di chiudere a chiave tutte le porte e finestre, il fuoco appiccato alle torce, la casa in fiamme. E, non appena realizzò l’accaduto, solo un nome occupò la sua mente.

Ratonhnhaké:ton.

Si alzò da terra, reggendosi il fianco – non provava troppo dolore, di sicuro la trave non le aveva spezzato nessuna delle ossa, ma non riusciva a camminare senza zoppicare. Si fece spazio tra le macerie, chiamando il nome del suo bambino.

Si ritrovò, inconsciamente, a rallentare sempre di più. Non voleva vedere il suo bambino morto, avrebbe preferito non trovarlo...

In quel momento udì dei gemiti, poi dei colpi di tosse, infine Ratonhnhaké:ton chiamò la sua mamma.

La giovane si fece guidare da quei lamenti spezzati e scorse il corpo del piccolo. Era sommerso dalle macerie, era malconcio probabilmente come lo era lei – tutto sporco di nero, alcuni capelli bruciati, i vestiti strappati – ma era tutto intero. Liberò il piccolo dai residui della tenuta di Achille e lo abbracciò forte, accertandosi che non avesse nulla di rotto. Ratonhnhaké:ton pianse stretto alla sua mamma, poi si riprese e domandò:

«Cosa è successo?»

La ragazza non fu in grado di rispondere subito; lei, così come Ratonhnhaké:ton, sapeva benissimo cosa fosse successo, ma non capiva il perché.

«Le giubbe rosse» mormorò «hanno bruciato la casa con noi dentro. Volevano ucciderci.» Per quanto furono quelle le parole che pronunciò, lei stessa stentava ancora a crederci. Capì solo una cosa: se avevano avuto intenzione di ucciderli, non sarebbero stati contenti del fatto che stessero ancora respirando.

«Devono credere che siamo morti, mi hai capito, Ratonhnhaké:ton?» ammonì. «Dobbiamo stare attenti, non siamo più al sicuro qui.»

Il bambino si spaventò e abbracciò la madre, lottando per non scoppiare di nuovo a piangere. La giovane realizzò solo in quel momento quanto drastiche potessero suonare quelle parole per un bambino, così lo strinse a sé e lo cullò.

«Scusa, scusa» sussurrò. Ratonhnhaké:ton continuò a piangere. «Aspettiamo che torni Achille, okay?» Il piccolo annuì e, asciugandosi il naso con la manica, chiuse gli occhi e si addormentò lì, fra braccia della madre, sul pavimento ricoperto di macerie.


 

Il suo secondo risveglio fu leggermente più brusco: Achille la stava scuotendo con gli occhi sbarrati dal terrore, urlando: «Ragazza! Ragazza!»

Aprì gli occhi un po’ stordita, ma capì subito la situazione. Con un sospiro di sollievo, Achille si sedette a terra e scosse un po’ meno energicamente Ratonhnhaké:ton – il suo respiro era più evidente.

La spontanea e lecita domanda di Achille «Cosa diamine...» fu interrotta dalla giovane.

«Mi dispiace per la casa.» Spiegò poi al vecchio l’accaduto – le giubbe rosse, l’incendio, l’impossibilità di fuga – sotto lo sguardo attento e ancora terrorizzato di Ratonhnhaké:ton. Achille non sembrava sconvolto dalla vista della propria casa ridotta a un cumulo di macerie: piuttosto era più interessato alla salute dei due – cosa alquanto rara per una persona fredda e distaccata come lui.

Una volta apprese tutte le informazioni, Achille si sollevò, ancora scosso e stordito, e annunciò che li avrebbe portati da un medico. La ragazza lo fermò prima che potesse prenderla tra le braccia, affermando che non sarebbe stato capace di portare a piedi sia lei che Ratonhnhaké:ton – il vecchio non possedeva una carrozza – e inoltre le giubbe rosse avrebbero potuto essere ancora in giro.

«Farò venire qui un medico fidato» decise allora l’ex Assassino, avviandosi di nuovo verso la città.


 

Jonathan Harrow fu più che sorpreso quando alla sua porta si presentò il vecchio Achille Davenport, riferendogli – senza tradire alcuna emozione – che due suoi conoscenti erano rimasti vittime di un incendio e necessitavano di cure mediche. Cercò di farlo ragionare insistendo che, per i feriti, sarebbe stato più prudente trasportarli in una carrozza – inoltre, visto che Achille riteneva opportuno che nessuno li vedesse, trasportarli in braccio non sarebbe stato effettivamente producente.

Così presero la sua carrozza, arrivarono davanti ciò che era rimasto della tenuta di Achille, caricarono i due feriti – di nuovo addormentati – nella carrozza e li portarono nella casa del dottor Harrow.

Quando il dottore depositò i due corpi svenuti sui lettini, notò da una prima occhiata che non riportavano gravi ferite o ustioni. Sollevò leggermente la ragazza da sotto la schiena per slacciarle il vestito, ma fu bruscamente interrotto da Achille.

«Ehi, ehi, che fai?» lo aggredì il vecchio. Il dottore lo guardò, sorpreso.

«Devo spogliarla per assicurarmi che non ci siano fratture» spiegò, pratico. Achille si allontanò di poco borbottando qualcosa contro l’approfittarsi delle donne indifese. Il dottore scosse la testa e riprese il suo lavoro.

Rimossi i vestiti e accertatosi che tutte le ossa fossero a posto, Jonathan Harrow prese una spugna e, dopo averla immersa nell’acqua fresca, la passò delicatamente sul corpo della ragazza in modo da rimuovere il nero che le aveva lasciato addosso l’incendio. La giovane, seppur priva di sensi, avvertì nel sonno un sollievo enorme.

«Vacci piano, sembra che tu stia pulendo un cadavere» si lamentò, accusatorio, Achille.

Il dottore alzò gli occhi al cielo, esasperato, per poi assentire «Posso occuparmi del ragazzino» e lasciare la spugna accanto la ragazza.

«Bene» fu la burbera risposta di Achille, che si appropinquò alla giovane per concludere il lavoro del dottore.


 

Dopo una buona ora di lavoro, in cui Achille finalmente realizzò che le attenzioni del dottore rivolte al corpo della giovane erano di interesse puramente medico – «Per l’amor di Dio, mi hai chiesto tu di curarli!» aveva sbottato Jonathan dopo qualche altra lamentela – i due corpi furono puliti, medicati e vestiti. Ratonhnhaké:ton e sua madre dormirono profondamente per l’intero giorno.

 

*****
 

La giovane si risvegliò, quasi incredula di sentirsi bene. Ratonhnhaké:ton era vicino a lei, ancora dormiente, mentre Achille si trovava scomodamente addormentato su una sedia. Si accorse subito che la giovane aveva ripreso conoscenza, così si affrettò a spiegarle del luogo in cui si trovavano e assicurò che nessuno li aveva visti arrivare lì.

La ragazza si scusò ancora per l’incendio alla casa, non riuscendo però a capire per quale motivo le giubbe rosse avessero voluto eliminarli. Achille sapeva. Ci girò attorno cercando di renderlo ovvio, ma quando la giovane non riuscì ad afferrare nemmeno dopo qualche minuto il significato delle sue parole, rivelò chiaramente le sue teorie: volevano ucciderli per attirare Connor in un’imboscata, accecarlo ancora di più con una sete di vendetta per poi finalmente poterlo uccidere.

La giovane non riusciva a credere alle sue orecchie. Inoltre, Connor si trovava sull’Aquila, in viaggio alla ricerca di Charles Lee, e nemmeno il migliore dei piccioni viaggiatori avrebbe potuto avvertirlo. Avevano rischiato la morte invano.

“Ma meglio così”, riuscì ad essere positiva la ragazza. “Nulla di grave è successo e nessuno metterà Connor in agitazione. Stiamo tutti bene.”

In quel momento il dottor Jonathan Harrow entrò nella stanza. Achille fece bruscamente le presentazioni – la ragazza non capì la diffidenza del vecchio nei confronti del medico che li aveva curati –, il dottore si congratulò con la giovane per la velocità della guarigione e assicurò loro che avrebbero potuto trattenersi nella sua casa tutto il tempo necessario.

La giovane ringraziò cortesemente il medico per tutta quella gentilezza alla quale non era sinceramente abituata, mentre Achille borbottò un «Sì, sì, grazie tante» per poi sbatterlo fuori dalla stanza.


*****
 

I giorni passarono monotoni. Anche quando il dottore consentì ai due malati di alzarsi dal letto e camminare fino al giardino di casa sua – per poi ritornare subito indietro per paura che si affaticassero – né la giovane né Ratonhnhaké:ton riuscirono a divertirsi appieno.

Achille andava continuamente in città, alla ricerca di una nuova casa sicura dove andare a vivere. Doveva camuffarsi per non essere riconosciuto dalla giubbe rosse.


 

I due malati erano ormai del tutto guariti, quella sarebbe stata l’ultima notte che passavano nella casa del dottor Jonathan Harrow. Achille non aveva ancora trovato una nuova casa ma aveva deciso che avrebbero tolto il disturbo al più presto, così si informò per alloggiare nelle varie locande.

Quella notte, però, tutti i loro piani furono rovinati.

La ragazza dormiva serena, quando avvertì una presenza accanto al suo letto. Schiuse gli occhi, ancora presa dal sonno, ma non le fu difficile riconoscere un’arma da fuoco puntata alla sua testa. Sollevò lo sguardo e scorse una giubba rossa.

Il suo primo pensiero fu Ratonhnhaké:ton, così si volse di scatto, dando le spalle all’uomo, per vedere come stesse il suo bambino. Il piccolo dormiva, voltato dall’altro lato: non si era accorto di nulla. La giubba rossa, non aspettandosi quel movimento brusco da parte della donna, le premette la pistola contro la tempia, e con l’altra mano le coprì la bocca per impedirle di urlare. La giovane riconobbe che le stava permettendo di salvare il suo bambino, così volse lo sguardo verso il suo aggressore il quale, abbassando lentamente l’arma e liberandole la bocca, fece un cenno verso la porta, ordinandole silenziosamente di uscire.

Scese cautamente dal letto – l’uomo non le puntò contro l’arma ma la teneva stretta per un braccio – ed entrambi uscirono dalla stanza, lasciando Ratonhnhaké:ton dormiente.

Non appena varcarono la porta di casa, il soldato la scaraventò bruscamente a terra, facendola atterrare di faccia sul terreno. Un gemito di dolore uscì dalle labbra della ragazza.

«Quando abbiamo appiccato fuoco alla casa del vecchio» esordì la giubba rossa, con un tono alto e pratico, «abbiamo capito troppo tardi che avevamo ucciso le uniche persone che potessero dirci dove trovare il caro Connor.»

La giovane si voltò per fronteggiare il soldato ma lui le puntò un bastone da passeggio alla gola, costringendola a terra. Aveva un’espressione piuttosto soddisfatta.

«Ma la fortuna gira, sia per voi che per noi!» esclamò, rivolgendole un’occhiata malvagia.

Gli occhi della ragazza erano ridotti a due fessure, entrambi si fissarono con odio.

«Ora avete due possibilità, donna» spiegò cautamente, come se dubitasse della capacità di comprensione della sua interlocutrice. «Dirci dove si trova Connor adesso, e poter correre ad abbracciare il tuo bambino in questo stesso istante, non vederci mai più, e passare una vita felice» disse gettando un’occhiata alla finestra della camera in cui dormiva Ratonhnhaké:ton. Poi la guardò, e parlò con un’espressione e un tono troppo cortese per le minacce che stava pronunciando: «O venire con noi, cedere sotto tortura, ed essere lasciata a morire; a meno che non sarete ritenuta un valido ostaggio per attirare il nostro Connor, cosa che più che certamente siete. Ma vi avverto, i miei uomini non sono mai estremamente gentili con le donne.»

Si chinò sopra il viso della ragazza, che non aveva perso la sua espressione battagliera, e la guardò soddisfatto. Perché sapeva che la ragazza non avrebbe mai tradito Connor. Così si beò delle parole della giovane quando pronunciò: «Non lo troverete mai.»

Le passò un braccio dietro la schiena quasi delicatamente, affermando «La scelta è stata vostra» – quell’espressione malvagia e perversa non aveva lasciato per un attimo la sua faccia – per poi sollevarla bruscamente da terra.


*****
 

Quando si svegliò, realizzò subito di trovarsi all’interno di una carrozza, anche se non capì in quale luogo. Probabilmente una campagna sperduta.

Aveva i polsi legati sopra la testa, la corda assicurata ad una delle assi della carrozza.

Appena avvertì una presenza alle sue spalle, si voltò e fu subito sovrastata dal corpo della giubba rossa, il quale le teneva fermo il gomito e sollevava un coltello proprio sopra il suo braccio.

«Confessioni dell’ultimo momento?» domandò, sarcastico; la voce roca pregustava già la tortura che le avrebbe inflitto.

Il soldato non ricevette risposta se non il suo respiro diventare più affannoso, lottando per non tradire alcuna paura.

Conficcò il pugnale nel braccio della ragazza, mozzandole il fiato, facendo una maniacale attenzione a non bucarle le vene.

«Non scherzo, donna» disse, beandosi del suo respiro rotto dal dolore. «Dimmi dove si trova Connor e mi fermerò seduta stante.»

La giovane chiuse gli occhi, preparandosi a ciò che la aspettava.


 

Dopo una buona ora in cui la ragazza aveva perso anche la forza di urlare, la giubba rossa si stufò. Il corpo della giovane era ricoperto da tagli superficiali ma dolorosi, che le facevano scottare la pelle come se stesse bruciando viva.

Teneva lo sguardo vuoto, perso in un punto indefinito alla sua destra. La testa voltata di lato. Non voleva incontrare gli occhi del suo aguzzino.

«Oh.» Il verso della giubba rossa fu di scherno. «Ho inconsciamente evitato di sfigurare questo bel faccino» disse, prendendo il volto della ragazza tra il pollice e l’indice. Si era sforzato di farlo delicatamente, ma in quelle condizioni la ragazza soffriva al minimo movimento. «Sarebbe un peccato, dopotutto» constatò, per poi posare il coltello lontano dal corpo della ragazza – la quale, però, non sospirò di sollievo troppo in fretta. Non aveva sprecato un’ora a torturarla per non ricevere alcuna informazione. Seppur l’uomo aveva mostrato quasi piacere nel compiere quella carneficina, la giovane sapeva che non era soddisfatto, e non l’avrebbe lasciata andare prima di aver avuto quello che desiderava.

«Se non vuoi soddisfarmi con le informazioni che mi servono» dichiarò l’uomo, sollevandole la veste senza alcun convenevole, «mi soddisferai in altro modo.»

La ragazza era certa di aver superato la soglia del dolore sopportabile da un essere umano, quella notte, e ne fu grata: la violenza che stava subendo non le recò alcun dolore, riuscì a restare immobile come una bambola di pezza.

Dopo varie spinte, la ragazza realizzò che l’uomo trovava difficoltà a raggiungere l’estasi. Le spinte divennero più forti, scuotendo il suo corpo troppo martoriato per sopportare quella intrusione.

«Basta» implorò, in preda alle lacrime che si sorprese di possedere ancora. «Basta. Uccidimi.»

Lo sguardo dell’uomo s’illuminò, cogliendo la palla al balzo: raccolse il coltello e lo puntò alla giugulare della donna, sibilando: «Non prima di aver saputo dove si trova Connor.»

E lei stava per dirglielo, gliel’avrebbe detto purché quel supplizio finisse, ma in quel momento qualcosa si conficcò nel fianco della giubba rossa, facendogli spalancare gli occhi dalla sorpresa e dal dolore. Cadde accanto al corpo della ragazza, stringendosi il fianco dolorante, per poi perdere i sensi.

La giovane capì ben poco di quello che fosse successo. Riconobbe la voce di Achille, il quale con un calcio spinse il corpo ferito del soldato ancora più lontano da quello della ragazza, ringhiando un «Figlio di puttana.»


*****
 

Fu difficile staccare il piccolo Ratonhnhaké:ton dal corpo sanguinante della madre. Il bambino non smetteva di piangere, lasciando maledizioni contro le giubbe rosse. Il dottore si sentì tremendamente in colpa a dovergli ordinare di starle lontano se voleva che guarisse. Il piccolo vegliò su di lei tutto il tempo.

Jonathan Harrow capì di dover andare a comprare delle altre bende quando notò con orrore che l’intero corpo della ragazza era ricoperto di tagli. Nessuno di essi era profondo, ma ringraziò Dio che la giovane fosse priva di sensi. Il dolore sarebbe stato insopportabile.

Si ritrovò costretto a fasciarle l’intero corpo, sotto gli sguardi furenti di Achille e Ratonhnhaké:ton. Dichiarò che, nonostante le ferite, la ragazza non era stata gravemente danneggiata, quindi i danni che avrebbe potuto presentare una volta sveglia sarebbero stati solamente psicologici. Temette che, come minimo, avrebbe perso l’uso della voce.

Achille non riusciva a darsi pace, Ratonhnhaké:ton meditava una vendetta impensabile per un ragazzino della sua età. Inoltre, non sapeva se odiasse di più l’uomo che aveva fatto ciò a sua madre o l’uomo per cui le era stato fatto ciò. Non conosceva suo padre ma, in quel momento accecato dalla rabbia, credeva che nessuno meritasse di soffrire per un uomo che aveva abbandonato la propria famiglia, specialmente sua madre.


 

Quando, dopo parecchi giorni, la giovane riprese conoscenza, smentì le paure del dottore riguardo la perdita della voce. Chiese più volte ad Achille se avesse ucciso l’uomo che l’aveva torturata: il vecchio, dopo varie suppliche da parte della ragazza, rispose di no, che era stato sciocco e irresponsabile, ma che aveva preferito lasciare questa opportunità a Connor. La giovane chiese almeno se si conoscesse la sua identità, e nonostante la riluttanza di Achille a rivelargliela, i sospetti che si trattasse di Charles Lee in persona non abbandonarono mai la sua mente.

I tre “adulti” erano molto preoccupati per il comportamento di Ratonhnhaké:ton. Il piccolo sembrava cresciuto di anni in pochi giorni: era fin troppo ragionevole, non pronunciava mai il nome delle giubbe rosse senza accompagnarlo a qualche pesante epiteto, e chiedeva sempre alla madre se avesse intenzione di passare il resto della sua vita col terrore di soffrire le colpe di suo padre.

«Presto la guerra finirà, Ratonhnhaké:ton» lo rassicurava la giovane, scossa da quelle accuse. «Papà tornerà e tutti staremo bene.»

Il bambino non dava mai segno di credere a quelle parole.


 

Quando Achille notò, con immenso sollievo, che le giubbe rosse erano sparite dalla circolazione, fece ricostruire la sua tenuta. La ragazza e Ratonhnhaké:ton tornarono alla loro vita, dopo essersi congedati con innumerevoli ringraziamenti dal dottor Harrow.

Un leggero clima di pace aleggiava nell’aria e, nonostante Connor non fosse ancora tornato, la certezza che la guerra fosse prossima alla sua conclusione rendeva tutti sereni.


 


 


So che potrebbe lasciare un leggero senso di vuoto, ma è perché intendo continuarla! Pianifico di scrivere una “parte 2”, perché qui non potevo dilungarmi più di così: stavo per superare le 7 pagine di OpenOffice – a mio parere troppe per una one-shot.

In tutta sincerità, è stato un parto. Mi è venuta in mente ieri sera, nel momento in cui mi sono infilata sotto le coperte, ormai troppo tardi per mettermi a scriverla. L’ho scritta mentalmente, e ho faticato a prendere sonno per paura di dimenticarla. Mi sono messa alla tastiera alle otto di questa mattina e l’ho terminata alle tredici. Cinque ore di scrittura ininterrotta. Ma una volta entrata nella mia testa, questa storia non mi avrebbe abbandonata senza essere buttata giù.

Così eccomi qua. Ringrazio immensamente tutti coloro che hanno recensito e inserito la raccolta tra le seguite, e spero che questo capitolo – per quanto crudo e non-romantico – sia stato di vostro gradimento.

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