Memories

di _nottedimezzaestate_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The A Team ***
Capitolo 2: *** Cold Coffee ***
Capitolo 3: *** Autumn Leaves ***
Capitolo 4: *** Drunk ***



Capitolo 1
*** The A Team ***


The A Team




Oh, la ricordo perfettamente.
Chloe, si chiamava.
Siamo stati compagni di scuola. Una ragazza normale, con un rendimento normale, degli amici normali, un abbigliamento normale.
Nei primi anni io la osservavo da lontano, china sul suo quaderno, a scrivere chissà cosa, e lei mi fissava quando pensava non guardassi.
La cosa che rammento meglio di lei è l'intensità che avevano i suoi occhi.
Avete presente il colore del cielo riflesso nel mare, quando è leggermente mosso? Quello era il colore.
Un azzurro che non era un azzurro, un blu che non era un blu, e un verde acqua che non era un verde acqua.
I suoi capelli erano sottilissimi e morbidi, come dei fili di seta. Neri, lucenti, quasi splendenti. I riflessi sembravano quasi blu. Li lasciava sempre sciolti, e negli anni avevo notato che amava scuoterli per spostarli dietro le spalle. Ah, le stranezze delle femmine.
Capelli che facevano risaltare ancora di più il suo incarnato di porcellana. L'ho  vista ogni giorno dalla prima elementare alla quinta superiore, ma mai, e dico mai, ho visto un brufoletto su quella pelle. Liscia, perfettamente liscia. Sempre.
Era magrissima, sospetto, negli ultimi anni di scuola, anoressica. Percepivo, nei fidanzati che ha avuto negli anni, la paura di spezzarla quando la abbracciavano. Era come un ramo di ciliegio, per me.
La prima cosa a cui ho pensato quando l'ho vista è stata la bambola che mamma teneva sopra il caminetto. I capelli non erano neri, ma la pelle era dello stesso colore, la bocca era bianca come la sua e penso avessero anche lo stesso peso.
Non mi sono mai innamorato di lei, a differenza di ogni ragazzo che camminava - anche solo per pochi metri - sulla sua strada.
Penso sia stato quello a farla avvicinare a me. Il fatto che provassi totale indifferenza verso i suoi capelli o i suoi occhi.
 
"Ciao" Credo fosse la prima parola che mi diceva in nove anni che ci conoscevamo. La sua voce arrivava da un altro mondo, ti entrava in testa e non ne voleva sapere di uscirne. Le feci un cenno con il capo, deciso a non spezzare quegli anni di silenzio, sebbene incuriosito.
"Non ci siamo conosciuti. Non vuoi rimediare? Insomma, ci vediamo ogni giorno per nove mesi dalla prima elementare."
Avevamo iniziato così a parlare di noi. Delle cose più stupide o più importanti. Non so perchè lo feci, sapevo solo che quella ragazza mi aveva fatto intendere una cosa: più cose mi dici di te, più io te ne dico di me. E avevo una voglia matta di conoscere quella Chloe, quella bellissima ragazza con la treccia e gli occhi di tempesta.
Non aveva un cellulare. Non aveva una madre. Non aveva una stanza sua. Non aveva quasi nulla.
Ma non avere nulla significa non avere nulla da perdere, mi disse negli anni seguenti.
Per questo, per questa sua convinzione di non aver nulla da perdere, cadde, senza dirmi nulla, senza farmelo notare, nella spirale della cocaina.
Io, idiota, non mi accorgevo di nulla. Vedevo la Chloe di sempre. Chiusa, scorbutica. Bianca.
Finite le superiori non la vidi più. Venni a sapere di tutto anni dopo, per caso, da un amico.
Si drogava. Suo padre era morto.
Un brutto male, aveva. Pare che ne soffrisse da sempre, e che la figlia non lo sapesse.
Figlia che si era ritrovata sola e senza un soldo per poter pagare la casa. Finì a dormire nei parchi, sulle panchine, avvolta in una coperta, e a chiedere elemosina per strada e a scottarsi i polmoni per il freddo, a respirare tra i fiocchi di neve.
 
Iniziò a prostituirsi. Comprò una squallida casa.
I suoi vestiti, nonostante il riparo, rimaneva bagnati, a ricordarle tutti gli sbagli che aveva fatto nella sua vita.
Pare che dopo anni, dai suoi uomini di una notte non si faceva più dare soldi, ma direttamente l'oggetto del suo piacere, l'unica cosa che le faceva dimenticare tutto, facendole vedere gli angeli che volavano nel cielo, con le loro ali bianca e i capelli biondi.
La incontrai per l'ultima volta un giorno, per strada. Era quasi Natale, la neve imbiancava i marciapiedi, le persone camminavano strette nei loro cappotti, a testa bassa, e il sole era troppo infreddolite per vincere le nuvole. Camminava per strada, a zig zag.
La fermai e le dissi poche, semplici parole, che non saprò mai se capì.
"Oggi fa troppo freddo fuori perchè gli angeli possano volare."

It's too cold outside
For angels to fly

 

asdfghjkl

Oh, non avete idea di quanto io sia agitata. Finalmente mi sono buttata nel fandom di Edduccio! Non ci posso credere!
Ma forse prima mi dovrei presentare, sono Alice *tente la mano ai suoi ipotetici lettori*
Sono Alice, scrittrice di gialli e di innumerevoli os incompute che rimarranno per sempre nel mio computer su Ed/Paramore/Green Day/Harry Potter/Hunger Games.

E ora sto. Pubblicando. Qualcosa!
Sono gasatissima, sisisi ahahhahahahaha
Beh, a questo punto è ora di andare, potreste lasciarmi una recensione, giusto per sapere se devo tornare ai gialli e rinunciare per sempre al mio rosso del cuore ♥
*sparisce in una nuvola di fumo*
Alice ♥

Quasi dimenticavo (no, l'ho proprio dimenticato): ringrazio infinitamente Felurian per avermi dato il permesso di pubblicare questa fanfiction, che è inconsiamente ispirata alla sua "Songs".
(ora vado a scriverlo anche nell'introduzione che se nò mi sentirò in colpa a vita)

 

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Capitolo 2
*** Cold Coffee ***


Cold Coffee
 



Sentii una mano morbida passare tra i miei capelli e subito dopo qualcuno soffiarmi dolcemente sulla guancia.
Sorrisi.
“Smettila di svegliarmi così. Finirò per sposarti, Gabri” Dissi, strofinandomi gli occhi.
Mi sfiorò le labbra con le sue.
“Come stai?” Domandò, con la sua voce da fata.
Mugugnai.
“Io te l’avevo detto di fermarti al terzo whisky. Ma non mi ascolti mai. Ora soffri, cane.” Scherzò, sdraiandosi nuovamente vicino a me.
Guardai fuori. Il sole era ormai alto nel cielo, e le persone camminavano allegre per strada. La mia sveglia segnava le undici.
Vivevo con Gabrielle da ormai due anni. Sempre sognato una ragazza come lei. Dolce, intelligente, gentile e un po’ acida.
Un po’.
La osservai mentre chiudeva la finestra. Non era magra, quello no. Ma era comunque bellissima con le sue cosce, con il suo viso tondo e con le sue insicurezze.
Aveva i capelli erano color mogano, d’estate si schiarivano talmente da sembrare biondi. Corti, erano. Mossi. Gli occhi non avevano un colore preciso. Al chiuso e quando era di cattivo umore erano marrone chiaro, nocciola. Ma al sole ti inondavano di verde scuro. La pelle era chiara e cosparsa di lentiggini. Dappertutto. Anche sui gomiti, sulle mani e anche su… Beh, non importa.
Avevo pensato già più volte a chiederle di sposarmi. Ma ogni volta che mi balenava nella mente quell’idea folle mi tornava alla mente un dialogo di quattro anni prima.
“Pensa se un giorno ci sposeremo. Come farò a sopportarti?” Dissi, con una punta di sarcasmo. Lei storse il naso.
“Non mi voglio sposare. Nulla, ma proprio nulla, è per sempre.”
“Resta con me per sempre. O potresti farlo almeno per ora.”
 
Non so tutt’oggi perché quel dialogo mi è rimasto in testa. Non me lo sono mai dimenticato, e per questo, ogni volta che mi imponevo di farle la Proposta, venivo assalito dalla paura che rifiutasse.
Avevo anche l’anello. Quando ho detto a mia madre che avevamo deciso di andare a vivere insieme, lei aveva sorriso e si era alzata. Zoppicava un po’.
Era vecchia.
Era tornata cinque minuti dopo, con in mano una scatolina di velluto blu e una ragnatela in testa.
“Ecco. E fanne buon uso.” Mi aveva detto, porgendomela con gentilezza.
Un anello. Un anello veramente molto bello. Un piccolo diamante, null’altro. Nulla di pretenzioso. Ma era appartenuto a mia madre,quindi andava più che bene. In fin dei conti conta il pensiero, no?

“Ed” Gabrielle mi fece riscuotere. “Hai mai pensato a dei figli? Insomma, non vorresti… Non so, avere una famiglia? Intendo una famiglia seria, con marmocchi e tutto. Come fanno gli inglesi che si rispettino” Sembrava impaurita. Indecisa sul dire qualcosa o no. Il mio sguardo virò senza indugio verso il cassetto in cui tenevo l’anello, accuratamente nascosto nel doppio fondo.
“Non lo so, onestamente. Tu vorresti dei figli?” Non cedere Ed. Non cedere.
Lei annuì. Senza pensarci.
Sorrisi. Era un sorriso da fine del discorso. Lei lo capì e non osò continuare.
In realtà il discorso non finiva lì. Dammi il tempo di preparami. Solo quello.
“Vado a farmi il caffè” Dissi, alzandomi.
Lei colse la scusa per sottrarsi dall’imbarazzo della situazione. “Lascia fare a me. In fin dei conti la donna sono io.”
Aprii furiosamente il cassetto del comodino, alzai il fondo e afferrai l’anellino. Lo contemplai un attimo. Più lo guardavo e più mi piaceva. Così semplice. Non ci si aspettava troppo da esso. Eppure racchiudeva in se una storia bellissima.
Lo infilai con cura nel buco della scatola e richiusi il cassetto. Avrei dovuto aspettare? Non volevo farlo.
Gabrielle tornò cinque minuti con due tazze bianche colme di caffè fumante in mano.
Le feci cenno di posarle. Lei obbedì e mi guardò perplessa.
Mi alzai. La situazione era assurda: lei in slip e reggiseno e io in boxer. Ma non mi importava.
Non mi inginocchiai, troppo film romantico americano di serie C.
Semplicemente le mostrai la scatolina aperta, che parlava da se, credo.
Rimase a bocca aperta per non so quanto tempo.
“Ti dispiace dare segni di vita? Inizia a farmi male il braccio” Esordii.
Lei scoppiò a ridere. O forse a piangere. O forse scoppiò e basta.
Mi strappò la scatola dalle mani e la buttò sul letto, poi mi baciò, allacciandomi le braccia dietro al collo. Io la strinsi.
Le sue lacrime venivano a contatto con la mia pelle, era come condividere la felicità. Ad un certo punto, o forse subito, o forse mai, iniziai a piangere anche io.
Dopo almeno cinque minuti mi staccai da lei, guardandola negli occhi. In quel momento erano verde, di un verde bellissimo e splendente.
Mi sedetti sul letto e presi il caffè.
Il caffè era freddo.
“Sei come il caffè freddo alla mattina, tu.”
 
She’s like cold coffee in the morning

 

Macciao! 
Rieccomi, ho voluto aspettare oggi per pubblicare perchè ho deciso che aggiornerò tutti i lunedì eheh ♥
Comunque LO SO, questa è abbastanza scontata. Prometto che mi farò con Autumn Levaes, che sarà la prossima. O con quella dopo che sto ancora scrivendo lol
Cavolo ma con il nuovo editor non ci capisco più nulla... Dove sono i colori? AH eccoli HAHAH
Sono più impedita di mia nonna, io lol
Bene, vi lascio, spero che nonostante la banalità vi sia piaciuta ahha (preferisco The A Team. L'ho detto)
Ali ♥

Mio tumblr. (CE L'HO FATTA! Grazie Dani ahah)

 

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Capitolo 3
*** Autumn Leaves ***


Autumn Leaves



Era malata da tanto tempo, la nonna. Non so cosa avesse, ma ricordo il suo aspetto. Sembrava una nonna: vestiti a fiori, occhiali, tante, tante rughe in cui rischiavi di perderti, capelli corti, mossi e grigi. Gli occhi però erano sempre vispi e vigili. Azzurri, erano, come i miei. Io e lei, gli unici in famiglia ad averli di quel colore. Tutti gli altri li avevano mori.
Ma con questa storia mia nonna – Margareth. Anche il nome era da nonna. – centra relativamente.
Era all’ospedale, e io e mamma avevamo deciso di andarla a trovare. Avevo quindici anni e non sapevo che farmene della vita.
Quell’ospedale ovviamente sembrava un ospedale. All’esterno un grande edificio grigio, davanti a esso un fazzoletto d’erba dove giocavano alcuni bambini.
L’entrata era come l’entrata di tutti gli ospedali. Bianca, asettica, triste.
Nonna era al terzo piano, stanza B.
Non è che avessi tutta questa voglia di vederla, i malati mi mettevano addosso una tristezza che nemmeno la musica riusciva a far scivolare via. Di solito bastava infilarmi gli auricolari nelle orecchie e tutto spariva, tornavo di buonumore subito.
Ma quando vedevo qualcuno soffrire.. Ci voleva più tempo.
Mamma invece era allegra. Indossava un paio di pantaloni scuri e una camicia beige. Non si era truccata, il che faceva risaltare ancora di più la sua bellezza naturale, i capelli biondicci le ricadevano sulle spalle, formando un’onda, e la bocca era piegata in un sorriso. Gli occhi mori però tradivano una stanchezza che mai le avevo visto.
La stanza di nonna era carina, le pareti color carta da zucchero, la finestra dava sul parchetto dietro l’ospedale e faceva entrare molta luce. Era sola, il letto accanto al suo vuoto.
“Ciao nonna” La salutai.
Alzò la testa di scatto, squadrandomi.
Avevo solo un paio di jeans e una felpa verde. Che aveva da guardare male?
“Ma quei capelli non te li tagli mai, Edward?” Fu l’unica cosa che mi disse.
Io sospirai e poi ostentai un sorriso fintissimo.
“Ciao mamma.” Intervenne mia madre, prima che facessi qualche commento ‘sconveniente’. Così mi sedetti su una sedia di legno vicino al letto vuoto e me ne stetti zitto.
Dopo circa un quarto d’ora me ne andai, senza farmi notare. O almeno le due donne fecero finta di non vedermi.
Iniziai a vagare per i reparti a testa bassa. Il pavimento era tutto uguale, quindi quando rialzai il capo non sapevo dove mi trovavo. L’unica differenza erano le porte verdi anziché azzurre.
Una dottoressa con i capelli rossi e gli occhi mori mi fermò e mi chiese l’età.
“Sedici anni a febbraio” Dissi, sgomento.
Mi lanciò un occhiata e passò oltre.
Non so cosa mi prese a quel punto, ma mi infilai nella prima stanza cui trovai la porta aperta.
La stanza era identica a quella di nonna, ma le persiane della finestra erano chiuse. Ci misi un po’ per abituarmi all’oscurità parziale.
Il letto più lontano dalla porta era occupato.
Mi avvicinai, per vedere meglio. Una figura minuta era attaccata alla flebo vicino al letto. Una ragazza. Non aveva capelli, e le unghie erano cortissime, quasi invisibili.
Dormiva profondamente, il suo petto si alzava e si abbassava con una lenta regolarità che mi fece venire paura si fermasse da un momento all’altro.
Il viso era dolce e affusolato, la bocca sottile e chiara, le ciglia erano lunghissime.
Non so quanto tempo rimasi a fissa, ma dopo un po’ iniziò a sbattere velocemente le ciglia e si svegliò.
Ci fissammo per due minuti almeno, “Scusa, vado via subito” Dissi.
Lei mi trattenne per un braccio.
Il suo polso era incredibilmente piccolo e segnato da tante piccole cicatrici orizzontali.
“Non andartene. Non mi viene a trovare nessuno, a parte mia madre. Siediti. Chi sei?” La sua voce era come un soffio di vento, il suono mi ricordava le foglie autunnali quando si staccavano dal ramo e dolcemente si posavano a terra.
“Mi chiamo Ed Sheeran.”
“Brooke. Lo so che sembro un mostro. Prima di tutto questo avevo anche un fidanzato, quindi proprio un schifo non ero.” Lo disse sorridendo, un sorriso malinconico.
“Prima? Significa che ti ha lasciato?”
Annuì. “Avere una fidanzata con la leucemia spaventa i coglioni.”
E così aveva la leucemia.
“Io non lascerei mai una ragazza malata, anzi, la stringerei di più a me.” Potrebbe diventare il testo di una canzone.
“Significa che non sei un coglione.”
“Allora, Brooke, quando uscirai di qui diventeremo amici.”
Lei scoppiò a ridere, e io la guardai perplesso.
“Non uscirò mai da qui, Ed Sheeran. Sono destinata a morire su questo letto”
“Non dire così!”
“È semplicemente la verità. Meglio che diventiamo amici subito, allora.”
Stavo per ribattere, quando mi arrivò un messaggio.
Mamma mi sugger… Intimava di tornare in fretta da loro. Sbuffai, e la mia nuova amica afferrò subito la situazione.
“Vai pure.”
Le sorrisi e mi alzai. Prima di chiudermi la porta alle spalle sentii un sussurro.
“Tornerai?”
Annuii, e me ne andai. Grazie a un paio di infermiere riuscii a tornare nella stanza B del terzo piano.
“Dove sei stato?” Mi domandò nonna, invadente. Non risposi e lanciai a mamma uno sguardo di supplica. ‘Andiamocene, ti prego’, significava.
Il giorno dopo insistetti per andare, da solo, all’ospedale. Mia madre si mostrò perplessa, ma non commentò e mi intimò di tornare alle sette.
“Scusi” dissi alla donna dell’accettazione, un bionda ossigenata con gli occhi blu e tanto di quel trucco che avevo paura le cadesse la faccia da un momento all’altro. Masticava gonna gomma, probabilmente rosa. Tutte le bionde ossigenate masticano gomme rosa, no?
“Sto cercando Brooke”
Mi guardò dall’alto in basso. “Il cognome?”
Scossi la testa. “Non lo so, però so che è nel reparto… Emh… Ha la leucemia”
Spostò gli occhi da me al computer che aveva alla sua destra.
“Ematologia, quinto piano, stanza D.”
Andò avanti così per sei settimane. Ogni giorno andavo a trovarla.
Scoprii che non usciva dall’ospedale da quattro mesi, che aveva la leucemia da tre anni e che aveva già fatto due trapianti di midollo che non avevano funzionato.
In quelle settimane non la vidi piangere una volta.
Quando, alla seconda settimana, le dissi che suonavo la chitarra, i suoi occhi verdi si illuminarono e mi pregò di portarla, il giorno dopo.
Così feci, per tutte le settimane seguenti.
Arrivavo, la salutavo, mi sedevo e iniziavo a cantare. Ogni giorno una canzone diversa.
Poi, un giorno, era un pomeriggio di metà ottobre, entrai nella sua stanza e la trovai vuota.
La prima cosa che pensai fu che finalmente l’avevano mandata a casa. Non sapevo il suo indirizzo, ma l’avrei trovata.
Il letto era perfettamente rifatto, le persiane sempre chiuse e il comodino, che di solito ospitava dei libri era spoglio.
Anche il poster dei Paramore che aveva attaccato alla parete era sparito.
Devo ammettere che l’idea della sua morte non mi sfiorò minimamente, finchè non entrò una dottoressa che mi guardò comprensiva.
“Tu sei il ragazzo che veniva sempre a trovare Brooke?”
Annuii, sovrappensiero.
“Come stai?” Mi chiese, sedendosi di fronte a me.
“Bene. Ma non ho il suo indirizzo.”
Lei all’iniziò sembrò perplessa, poi capì.
“Ed… Ed, giusto? Brooke non è andata a casa.”
Alzai la testa, sconcertato.
Dopo aver metabolizzato la notizia iniziai a piangere.
Spero che quella donna non l’abbia mai detto a nessuno, me ne vergogno tutt’oggi. Fortunatamente dopo un po’ ebbe il tatto di andarsene, e di lasciarmi solo con il mio dolore.
Scappai. Uscii dall’ospedale e iniziai a correre.
Il distino mi portò in un parco semivuoto.
Mi buttai su una panchina e mi presi la testa fra le mani, pensando a cosa non avevo fatto con lei, a cosa avremmo potuto fare.
Rimani così per non so quanto tempo, poi una foglia cadde di fronte a me. Era arancio, secca e perfettamente piatta.
La presi con delicatezza e me la rigirai tra le mani.
“Ti ho lasciato scivolare via, Brooke. Non ti ho tenuta abbastanza saldamente, e tu sei caduta come una foglia autunnale.”
 
Float down
Like autumn leaves

 

 ewe
ewe è decisamente l'esclamazione del giorno settimana mese. 
Contavo di non aggiornare oggi, causa COMPITI DI MATEMATICA *tuoni e fulmini* esatto gente, ricomincio la scuola domani e ancora non ho finito i compiti. Sono una bad girl, puahahhaha (più che altro sono una cogliona girl, mi sa).
Comunque, passiamo al capitolo: siamo tronati nel mio stile, il deprissivissimo! asdfghjkghjkl Mi mancavi tesoro ♥
Era scontato che morisse alla fine. Volevo farla morire, sisi.
Vi anticipo che la prossima sarà Drunk, sono più o meno a un quarto e finora Edduccio è in mutande. *sviene*
Cavolo, ma quanto è brutto questo editor? Ha ragione la Gaia.
Beeene vado, magari riesco a fare qualcos'altro di geometria (e devo ancora fare i due temi!)
Ali ♥



 

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Capitolo 4
*** Drunk ***


 Drunk


Aprii gli occhi, colpito dalla luce che proveniva dalla finestra aperta. Il rumore del traffico era assordante. Sbattei un paio di volte le palpebre poi mi rigirai nel letto.
Mi sollevai e mi appoggiai alla testiera.
Un secondo. Il mio letto non aveva una testiera. Solo un comodino.
La camera era carina: le pareti verde chiaro, il pavimento una parquet. Il letto era al centro della stanza, contro il muro e di fronte a una grande finestra. Sotto di essa c’era una scrivania completamente coperta da fogli e da un pc rosso della Sony.
A completare l’arredamento c’erano due comodini alle parti del letto e un armadio in legno scuro.
Fu il computer a farmi capire dove mi trovavo.
Quel computer rosso era sempre appiccicato a Abby.
E Abby era la mia migliore amica, con il suo rossetto rosso, le sue felpe blu e i suoi capelli tinti e con la sua acidità.
Stavo ancora metabolizzando l’informazione quando una bionda fece capolino dalla porta.
“Ora mi spieghi cosa cazzo ci faccio qui!” Dissi.
Lei scoppiò a ridere.
Indossava solo una maglietta bianca che beh… Era un po’ trasparente.
Era bella, ma bella davvero. Mora naturale, tinta da quando aveva sedici anni di biondo platino. I suoi occhi erano grigi, a volte, dipendeva dalla luce, risultavano azzurri. La bocca sottile e chiara, le gambe lunghe, lunghissime, senza fine.
“E non ridere, troia” Conclusi, abbassando la testa e iniziando a ridere anche io.
Lei era innamorata di me, da anni.
E credeva non lo sapessi. Ok, un po’ rimbambito lo sono, ma non così tanto.
“Ieri sera ci sei andato giù pesate con l’alcool, Edduccio. E..”
“Chiamami ancora una volta Edduccio e ti spacco il computer in testa.”
“Ok, ok… Comunque, ieri sera hai esagerato più del solito. E sei svenuto, grandissimo coglione. Mi facevi troppa pietà per lasciarti lì a marcire, così ti ho portato qui”
“E togliermi i vestiti era proprio necessario?” Alzai le sopracciglia. Si insomma, io in mutande…
Lei sbuffò. “Credimi, ne avrei fatto volentieri a meno, ma poi ti sei vomitato addosso, coglione.”
“Sei diventato del colore dei tuoi capelli” Disse, chiudendosi la porta alle spalle.
Sospirai.
Mi aveva chiesto, tempo prima, di stare insieme. Io avevo rifiutato, con mille scuse. Non ero innamorato di lei e non potevo farci assolutamente nulla, e di odiavo per questo. Avevo anche provato a farmela piacere, ma io non mento mai. O quasi.
Abby entrò di nuovo cinque minuti dopo con due caffè in mano. Me ne porse uno sdraiandosi accanto a me.
Eravamo sempre amici, ma non come prima, dopo tutto quello. C'era una bruciatura sul suo cuore, e non sarebbe guarita facilmente.
Evitavo di guardarla, e lei - fortunatamente - faceva la stessa cosa con me.
Era inverno. La neve copriva il vetro della finestra, e tutto fuori era bianco. A me il bianco non piace. Non è un colore. Il bianco è vuoto, è nulla. Il bianco non è assolutamente niente. A me piacciono i colori forti, accesi, che ti colpiscono e ti rimangono negli occhi per qualche secondo.
Iniziai a sentire freddo. Sono io o...?
“Abby, ho freddo.”
“Anche io!» Disse. “No, non di nuovo, non ora!”
La guardai perplesso. Lei corse velocemente fuori, preoccupata. Faceva sempre più freddo lì dentro, sentivo le ossa gelare. Abby non tornava, e io me ne stavo dentro quella stanza che non era la mia, seduto sul letto. Mi avvolsi nelle coperte. Sentii il suo profumo dappertutto, sul cuscino, sulle lenzuola, incastrato tra i miei capelli.
Sapeva di buono, lei. Fragola e vaniglia. Come il mio gelato preferito. A volte, ma solo per le occasioni speciale, metteva le stesso profumo che aveva mamma. Così sapeva di lei, mi ricorda un po’ la mia infanzia, quando avevo paura del temporale fuori e lei mi abbracciava, dicendomi che non era nulla e che tutto sarebbe passato.
Tutto sarebbe passato.
E se non passava… Ci si abituava. Funziona così. Ci si abitua al dolore. Ci si abita, nel dolore. Continuavo a ripetermi queste sue parole da due anni ormai.
Morta per cancro.
Si dice che quando due persone si amano davvero muoiono in poco tempo, uno dietro l’altra. Ecco, mia madre si è spenta un nervosissimo giorno di gennaio, con intorno due dottori, il suo figlio pazzo, la sua figliola preferita e suo marito. Stava tenendo la mia mano, quando la stretta è venuta a mancare e quella macchina a cui stava attaccata ha smesso di fare bip intermittenti.
Ho sorriso.
Aveva smesso di soffrire.
Mio padre invece è morto ai primi di febbraio, solo, sul suo letto, nella notte. Le ultime parole che mi ha rivolto sono state di andare a fanculo. Nulla riassume meglio il nostro rapporto.
Si sono amati. Si sono consumati, come le mie felpe.
Iniziai a sentire un leggero tepore, soddisfatto.
La mia amica ritornò da me, con uno strano sorriso stampato in faccia. “Si era rotto il riscaldamento, di nuovo. Ma questi possenti muscoli” Mi mostrò un bicipite che non avrebbe fatto paura a una formica senza una gamba. “Hanno sistemato tutto egregiamente.”
Mi suonò il cellulare, e i Coldplay si fecero eco nell’aria della stanza.
Il mio Nokia molto, molto antico era poggiato sul comodino, sopra un libro.
Hunger Games, the Catching Fire.
Lo afferrai, scocciato. Sul display, come un pugno appariva la foto di April, mia sorella. Capelli biondi e occhi verdi, l’opposto di me. Io avrei dovuto avere i suoi occhi e lei i miei. C’è stato uno scambio. Ma lei si è tenuta le doti migliori. Un gran cervello, quella bellezza insuperabile, riuscire a camminare su quei trampoli e il totale e incondizionato amore dei genitori. Io ero… Edward.
Ci siamo sempre odiati. Ma non odio fraterno, che poi ci si aiuta. No. Lei è quell’estranea che vive in casa mia, e io sono quel coglione che vive in casa sua.
“Cosa cazzo vuoi?” Risposi, sbuffando.
“Intanto ti calmi” disse. “Ian vuole tanto farti venire da noi a pranzo. Non ti conosce ancora abbastanza, per questo vuole vederti.” Ian era suo marito. Non capisco tutt’oggi come facesse a stare con lei. Era simpatico, non mi disprezzava, almeno. Ogni tanto veniva a bere qualcosa con me, come un amico. Aveva un paio di occhi nocciola che ti foravano e dei capelli biondi che ti incantavano, con mille sfumature.
E, chissà perché, le loro figlie, Annabeth e Julie, avevano i capelli rossi. E gli occhi azzurri.
La prima aveva quattordici anni, e la seconda tre. Mi adoravano, e la cosa era reciproca. Ogni tanto April le parcheggiava da me, e loro erano contente. Anche la maggiore, che è in quella fase “tutti vanno bene tranne i miei parenti”. Ogni tanto mi parlava persino dei suoi ragazzi, pensate. Si toglieva le cuffie dalle orecchie e iniziava dei lunghi monologhi. Io ascoltavo, ricordando com’ero a quell’età. Un cretino, come ora.
“No Apr, oggi non posso.”
La sento sospirare di sollievo. “Menom.. Ochei.”
Chiudiamo la comunicazione senza nemmeno salutarci.
Abby mi guardò, indecisa sul da farsi.
E io sapevo già cosa sarebbe successo.
“Ed.. Ed, ti devo parlare” Disse, con un filo di voce. Come previsto. E sapevo anche come sarebbe finita.
Si alzò dal letto e si sedette sul legno del tavolo, accanto al suo portatile. Si mordeva il labbro, come quando era nervosa.
“Lo so che mi hai già detto di no. Ma non ce la faccio..”
“Abby, conosci già la mia risposta.”
I suoi occhi si riempirono di lacrime, e le sue infinite gambe iniziarono a tremare.
Mi alzai, dispiaciuto.
Presi i miei vestiti, che lei aveva lavato, e me li infilai. Erano caldi, e sapevano di lei, chissà come.
“Non cambi mai.” Afferrai il cellulare e me lo lasciai scivolare in tasca, scuotendo la testa.
“No, non cambio. E lo sai.” Mi diressi verso la porta.
Dovrei restare?
Dovrei spiegarle che per lei non provo niente, oltre a quell’affetto che porta l’amicizia?
Dovrei abbracciarla e dire che mi dispiace?
Dovrei dirle che passerà?
Dovrei, dovrei?
 
“Should I, should I?”


*applausi*

Ok, mi dovreste applaudire. Ho scritto i tre quatri e forse di più in mezz'ora. Dovevate vedermi:
*ore 16:02*
Io: Cosa devo fare... Mi sto dimenticando qualcosa!
Mamma: Devi fare i compiti?
Io: HAHAHAHAHAHAHAHAH no.
Io: CAZZO LA FANFICTION!
Mamma: I termini!
Io: Scusa mamma
Ecco, tipo così. E ora sono apssati quatanta minuti giusti (y)
Beh, ora che ci penso i compiti li devo fare davvero.... Cavolo.
Vado prima che mi ne dimentichi di nuovo vah, buona gggiornata ♥

Ali 

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