If there’s a change in you, then the world is changing too

di Halina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 – POV Grantaire ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - POV Eponine ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - POV Marius ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - POV Courfeyrac ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - POV Combeferre ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - POV Enjolras ***
Capitolo 7: *** Epilogo - POV Vari ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 – POV Grantaire ***




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NdA:
Premetto che di norma odio le AU. Sono però approdata su fanfiction.net, dove ho trovato delle AU di Les Mis meravigliose, e non sono stata in grado di resistere alla tentazione di affrontare la storia e i personaggi con una leggerezza impossibile nell’opera originale, di ri-raccontare la storia a modo mio, di non far morire i nostri amati barricade boys. Ho abbandonato ogni dignità che l’amore per il musical e il libro mi imponevano e mi sono presa piene libertà di shippare, fare fangirling, esaltare i personaggi che amo e smontare quelli che odio. Il tutto sempre nel tentativo di non andare OOC, per quanto possibile. I capitoli sono ognuno dal punto di vista di un personaggio diverso, mentre la vicenda si sviluppa seguendo per sommi capi gli avvenimenti della trama originale. Se volete unirvi alla mia follia e sognare un po’ con me siete più che benvenuti a bordo.
 
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Capitolo 1 – POV Grantaire


Era la fine di Settembre, la prima settimana di lezione del nuovo anno accademico, e il campus brulicava di vita e di studenti. Matricole con aria persa che reggevano cartine per orientarsi, seniors che si aggiravano per i cortili come fossero i proprietari indiscussi del luogo, amici che si ritrovavano dopo la pausa estiva e coppie che si sbaciucchiavano negli angoli. Il solito mood di inizio anno, reso ancora più elettrizzante dalla splendida giornata di sole che sorrideva sul cortile centrale dove spiccavano gli stand colorati delle societies che cercavano nuovi adepti e che proponevano le più varie attività, dal taglio e cucito alla pesca passando da ogni sport possibile e immaginabile.

Grantaire esalò piano il respiro, aggiustando la pila di tele che portava sotto braccio. Tutti gli anni lo stesso casino, che proprio non faceva per lui. Doveva solo riuscire a guadare la fiumana di gente e raggiungere l’atelier, dove avrebbe potuto prendere possesso del suo armadietto e sistemare le sue cose. Era in qualche modo riuscito ad arrivare all’ultimo anno, barcamenandosi alla meno peggio tra gli esami, la pittura e i lavoretti che faceva qua e là per sbarcare il lunario da quando se n’era andato di casa cinque anni prima, finita la scuola superiore, per trasferirsi nella capitale. Non aveva idea di che cosa avrebbe fatto una volta finiti gli studi ma non ci pensava più di tanto, anzi, non ci pensava affatto. Viveva così, alla giornata, prendendo quello che veniva senza troppe aspirazioni né progetti che andassero al di fuori delle sue tele, le sua bottiglie di vino e la compagnia occasionale che incrociava il suo cammino.

Stava appunto camminando a passo svelto, totalmente sovrappensiero, quando qualcosa di parecchio pesante lo urtò, facendogli cadere tutte le tele e facendolo rovinare in modo molto poco elegante lungo e disteso sul selciato. Un mugolio dolorante gli fece intuire che non era un 'qualcosa' ad aver provocato la sua caduta, ma un 'qualcuno'.

“Oddio, scusa! Non ti avevo proprio visto!” mormorò una voce al suo fianco, subito interrotta da una seconda, più acuta e sensibilmente agitata.

“Fermi, non muovetevi! Potrebbero esserci delle contusioni. Jean, riesci a sentirmi? Come stai? Giramenti di capo, nausea, ti ricordi chi sei, dove sei? Hai battuto la testa? Riesci a muoverti?”

Grantaire si tirò a sedere, trovandosi davanti un ragazzo esile, con corti capelli castani e un volto dai lineamenti delicati. Era già in piedi, e gli stava tendendo una mano. La accettò con un mezzo sorriso, ricomponendosi.

“Sto bene, Joly” disse il ragazzo, rivolto all’amico alle sue spalle, pallido e allampanato, che li guardava come temesse potessero morire da un momento all’altro “E’ del nostro sfortunato amico che dovremmo preoccuparci. Tutto ok?”

Grantaire annuì, spazzolandosi i jeans lisi che indossava “Certo, nessun problema ... cos’avete lì dentro?” chiese raccogliendo le sue tele, fortunatamente intatte, notando che i due portavano grandi scatoloni.

“Oh, sono cose per lo stand, per la nostra society” rispose il primo dei due, e il secondo annuì con aria sempre più agitata “E dobbiamo muoverci o il capo ci ammazza! Ti va di venire a dare un’occhiata?”

Grantaire sospirò, incerto, non era nei suoi piani. Ma quando mai aveva dei piani? “D’accordo, perché no.” rispose stringendosi nelle spalle.

Il ragazzo che l’aveva urtato sorrise entusiasta, raccogliendo lo scatolone e avviandosi a passo deciso “Io sono Jean e lui è Joly.”

“Grantaire. Ma preferisco R. Che tipo di society avete?”

“Oh, vedrai tra poco, è un po’ complesso da spiegare..” rispose Joly ansimando, visibilmente in difficoltà sotto il peso del suo scatolone.

“Hei, da qua!” propose Grantaire, animato da uno strano buon cuore, scambiando le tele con lo scatolone e guadagnandosi un sorriso a 32 denti dall’altro.

Oltrepassarono gli stand delle society artistiche, dove un paio di ragazze che frequentavano alcuni corsi, ed avevano frequentato in passato anche il suo letto, salutarono Grantaire con un sorriso o un cenno del capo, quindi Jean puntò verso un lato relativamente sgombro del cortile, dove una piccola folla si era radunata sotto un palco improvvisato. Grantaire si chiese per un momento se si trattasse di un gruppo di attori o qualcosa del genere prima di vedere la persona che stava sul palco.

Era un giovane uomo, alto e perfettamente proporzionato, la figura statuaria era impeccabile in un paio di pantaloni neri di ottima qualità e una giacca rossa, improbabile, ma che per qualche ragione gli calzava a pennello. La folla di studenti ai piedi del palco sembrava ipnotizzata, tutti gli occhi erano fissi su di lui, tutti lo ascoltavano parlare e Grantaire realizzò in un istante che non stava affatto recitando, stava tenendo un comizio.

Un ragazzo in un elegante cappotto grigio si staccò dal gruppo, correndo loro incontro e si fermò, le mani sui fianchi, squadrandoli “Eccovi! Iniziavo a pensare che vi foste persi per strada! Avete tutto?”

“Rilassati, Combeferre, abbiamo solo avuto un piccolo incidente di percorso” sorrise Jean, indicando Grantaire “fortunatamente abbiamo trovato qualcuno che ci ha dato una mano. Combeferre Grantaire, Grantaire lui è Combeferre, il nostro grillo parlante.”

“Piacere, grazie di aver aiutato i ragazzi” Combeferre aveva una voce pacata e dei modi misurati e tranquilli, era una figura rassicurante e sobria, prese senza sforzo lo scatolone da
Grantaire e si affrettò ad avviarsi allo stand, seguito da Jean. Joly si fermò un secondo per restituire le tele a Grantaire, posandogli una mano su una spalla. “Grazie, se ti va di fermarti un po’ il capo sta tenendo un comizio poi ci sarà caffè per tutti e apriamo le iscrizioni.”

“Certo, credo mi fermerò da queste parti ancora un poco, a dopo.” Rispose Grantaire, che con la coda dell’occhio non aveva perso di vista neanche per un istante la figura marmorea che occupava il palco e che aveva conquistato la sua totale e incondizionata attenzione.

Incrociò le braccia sul petto e si concesse un attimo per osservarlo con più attenzione, tutti lo stavano guardando, quindi non aveva ragione di sentirsi fuori luogo. Doveva essere  un poco più alto di lui, magro e asciutto, ma con un fisico da atleta e la grazia dei movimenti di un ballerino. Aveva un viso angelico, perfettamente rasato e incorniciato da corti ricci biondicci, con il naso dritto e la linea pronunciata della mascella. Ma erano i suoi occhi ad avere qualcosa di ipnotico, erano chiari e limpidi, e al tempo stesso animati da un fuoco inestinguibile che prendeva vita nelle parole concitate che gli uscivano da quelle labbra maledettamente perfette.

Grantaire si ritrovò a pensare che sarebbe stato disposto a pagare quel poco che aveva per potergli fare un ritratto, ma qualcosa lo portava a dubitare che Apollo sarebbe stato disposto a posare per lui, a qualsiasi prezzo.

Sbatté gli occhi, perplesso dal suo stesso pensiero. Apollo? Da dove gli era uscito? Eppure più ci pensava più l’intuizione sembrava azzeccata. C’era qualcosa di sovrumano in quel ragazzo, una sorta di luminosità radiosa che sembrava emanare dalla sua figura e discendere ad illuminare tutti i presenti.

Grantaire si avvicinò di qualche passo, mantenendosi alle spalle del gruppo, mettendosi ad ascoltare. Anche la sua voce era melodiosa e al tempo stesso energica, realizzò che sarebbe rimasto piacevolmente lì ad ascoltarlo anche se fosse stato intento a leggere l’elenco del telefono o la lista della spesa, ma il fatto che stesse tenendo un’arringa sul cambiare il mondo rendeva il tutto decisamente più interessante.

“Non abbiamo il diritto di lamentarci se non abbiamo il coraggio e la determinazione di far valere i nostri diritti” stava dicendo, serio e convinto, agitando un pugno chiuso davanti a sé “lo stato non è altro che un contratto stipulato tra i cittadini e l’autorità. Lasceremo che i nostri diritti naturali vengano calpestati da un’agenzia che dovrebbe esistere al solo scopo di permetterci di sviluppare appieno le nostre potenzialità in uno stato di libertà, uguaglianza e fraternità?”

Un vociare concitato dalla folla rispose in un coro negativo e il ragazzo accennò un mezzo sorriso, continuando “No. Non lo faremo. Continueremo a manifestare per ciò che crediamo giusto, per uno stato che ci conceda la possibilità di diventare uomini e cittadini. La nuova riforma dell’educazione propone un piano di ridistribuzione dei fondi che prevede un taglio delle cattedre e dei corsi e noi non staremo inermi ad accettare che il nostro trampolino verso il futuro venga fatto a pezzi, che l’università, la culla delle potenzialità umane, venga sminuita e limitata!”

La folla ancora una volta rispose con un gran vociare all’ultima affermazione, Grantaire produsse un suono buffo, a metà tra una risata e un colpo di tosse.

“E credi davvero che qualche studente universitario che si incammina per strada con dei cartelli serva a qualcosa?” chiese sardonico.

Gli occhi perforanti di Apollo lo individuarono in mezzo secondo e gli si piantarono addosso. Grantaire si sentì improvvisamente nudo, come se quello sguardo potesse vedergli l’anima. Era calato il silenzio, tutti i presenti lo fissavano allibiti, come se li avesse risvegliati di colpo dal bellissimo sogno in cui la voce del ragazzo li aveva immersi.

Grantaire non se ne curò, osservava il ragazzo nella giacca rossa sul palco, le mani sui fianchi e l’espressione tranquilla e sicura. “Certo che serve a qualcosa. Uno studente con un cartello porta con sé un altro studente con un altro cartello, e poi un professore che si rende conto che è il suo lavoro a essere a rischio, e poi un padre, che capisce che è in gioco la futura educazione dei suoi figli, e poi i ragazzi dei licei che non vogliono vedersi tarpare le ali. La nostra fede deve essere nella gente, nella gente di questa città, di questa nazione. Bisogna scuotersi dal torpore, tornare a combattere, tornare a credere nelle possibilità del popolo” era tornato a parlare alla folla e non più a Grantaire ora, il viso disteso e luminoso ancora una volta “se il cambiamento è in noi allora anche il mondo può cambiare. Grazie.”

Un applauso e un boato immediatamente accompagnarono la fine del discorso e il ragazzo con la giacca rossa si affrettò a scendere dal palco, lasciando il posto a Combeferre e il suo cappotto grigio.

“Grazie a tutti per essere rimasti con noi, siamo Les Amis d’ABC. Se volete qualche informazione sul club, del materiale o una tazza di caffè visitate il nostro stand qui accanto. Se pensate sia giunto anche per voi il momento di capire come funziona questo paese, di trovare un impegno sociale e di provare a cambiare il mondo con noi le iscrizione saranno aperte tutto il pomeriggio, la quota di ammissione è di 3 euro a persona, lasciate il vostro nome e numero di cellulare allo stand. Grazie a tutti.”

Grantaire si passò una mano sulla guancia, dove la corta barba nera iniziava a fare capolino. Joly comparve improvvisamente al suo fianco.

“Felice di vedere che sei restato. Allora? Cosa ne pensi?”

“Mmm” rispose Grantaire, sovrappensiero “carismatico. Credo che se proponesse un colpo di stato domani mattina troverebbe abbastanza gente da dargli retta in meno di un quarto d’ora.”

“Come scusa?” chiese Joly, perplesso “Di che cosa stai parlando?”

“Di quel vostro Apollo che parlava poco fa..”

“Apollo, chi? Intendi Enjolras?” Joly appariva sempre più perplesso “E’ il nostro presidente. Io intendevo cosa ne pensi della Society, ‘Taire, pensi di unirti a noi?”

Grantaire sogghignò: “Oh, sì. Credo proprio che abbiate catturato la mia attenzione.”

“Fantastico! Vieni, oh.. dovrai fare un po’ di coda temo, pare ci sia gente interessata, bene!”

Qualcuno si era allontanato quando Enjolras… Enjolras, Grantaire assaporò mentalmente il nome prima di continuare a guardarsi attorno, aveva finito di parlare, ma la maggior parte della gente gironzolava attorno allo stand, chiedendo informazioni o iscrivendosi.

Grantaire si mise in coda davanti a Combeferre che sedeva ad un tavolo con davanti un quaderno e una scatola di latta, accanto nella fila aveva un ragazzo con una faccia da bambino, un sorriso esaltato e il naso cosparso di lentiggini. Arrivato il loro turno Combeferre li osservò paziente, in attesa.

“Ciao, benvenuti. Sono tre euro per l’iscrizione e ho bisogno i vostri nomi e numeri di telefono.”

“Marius!” esclamò il ragazzo al suo fianco, dando il proprio numero e posando sul tavolo una banconota da cinque. Grantaire sprofondò le mani nelle tasche alla ricerca di spiccioli, cercando di pensare ad un modo carino di spiegare che non aveva affatto un cellulare da quando il contratto era scaduto tre mesi prima e non aveva più avuto i soldi per riattivarlo.

“Grantaire..” sbiascicò, sparpagliando accanto alla banconota di Marius una serie di monetine che gli davano l’aria di uno che aveva appena svaligiato la cassetta delle offerte in chiesa.

“Numero di telefono?”

“Ecco.. al momento non ne ho uno, ma posso lasciarti l’indirizzo e-mail…” propose, ringraziando mentalmente l’esistenza della sala computer gratuita dell’università.

Sbrigate le formalità i due si fecero di lato e Enjolras andò loro incontro, tendendo la destra e presentandosi. Aveva una presa sicura, la mano calda e asciutta. “Benvenuti tra Les Amis” li accolse accennando un sorriso e appuntando sulle loro giacche una coccarda tricolore.

Grantaire lo lasciò fare, cercando di contenere il ghigno sarcastico che gli stava spuntando sul viso.

“E’ fantastico aver finalmente trovato una society di gente così impegnata, è da tempo che desidero potermi confrontare con qualcuno, poter fare qualcosa di utile!” stava dicendo Marius, e Enjolras annuì.

“In tal caso sei nel posto giusto.”     

Spostò quindi lo sguardo su Grantaire che si limitò a stringersi nelle spalle con aria sorniona, dopo aver deciso che, forse, uscirsene con un “A me non ne frega niente, mi sono iscritto solo perché hai attirato la mia curiosità.” Poteva non essere una mossa troppo saggia.

Enjolras e Marius si immersero immediatamente in una fitta conversazione e Grantaire voltò loro le spalle, unendosi a Jean e Joly che gli allungarono una tazza di caffè fumante.

Stava ancora chiacchierando con loro, scoprendo che Joly era all’ultimo anno di Medicina e Jean all’ultimo di lettere, quando Combeferre si alzò, battendo le mani un paio di volte per attirare l’attenzione.

“Bene, ragazzi, cosa ne dite di una riunione preliminare domani pomeriggio? Giusto per conoscere i nuovi ingressi e decidere come organizzarci?”

Un mormorio di assenso gli rispose e Enjolras si fece avanti, affiancandosi all’altro “Ottimo. Abbiamo solo un problema, la segreteria ancora non ha deciso la disposizione delle aule del comitato studentesco per le society quindi non abbiamo una sala al campus al momento. Idee?”

Marius si fece avanti: “Una mia amica, Eponine, ha appena aperto un café a meno di un isolato da qui, si chiama Musain, in Rue Sant Michel. E’ un posto tranquillo e molto carino e lei sarebbe felice di avere qualche faccia nuova, ha bisogno di un po’ di pubblicità.”

“Perfetto” dichiarò Enjolras con tono definitivo “Al Musain domani alle 17. Buona continuazione a tutti.”

Grantaire si trattenne ancora una decina di minuti, ma ora che Enjolras se n’era andato gli era tornata voglia di levarsi dalla confusione e raggiungere l’atelier. Salutò i nuovi amici, si infilò le tele sotto braccio e si incamminò, raggiungendo in fine la quiete e la solitudine dello studio di pittura della facoltà di arte.

Sistemò le sue cose nell’armadietto e si sedette al cavalletto, allestendo la tavolozza di colori canticchiando sommessamente, a labbra chiuse. Poco dopo i colori si stavano rincorrendo sulla tela in linee apparentemente confuse. Una figura dai capelli d’oro, in rosso, un braccio alto nel cielo bianco, svettava sopra una folla di indistinti volti blu. Una piccola R nera era la firma nell’angolo in basso a destra.

Grantaire sorrise, stiracchiandosi e posando il pennello, fuori dalle grandi vetrate dell’atelier il sole stava tramontando, presto sarebbe iniziato il momento del giorno che più gli si addiceva: la notte.


Scese dallo sgabello e prese un’etichetta, apponendola sul retro della tela prima di metterla ad asciugare.

“20 Settembre. R. Studio di Apollo 001.”

Sorrise. Per qualche motivo sapeva che ne sarebbe seguiti altri. Molti altri.  
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - POV Eponine ***



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NdA:
Il Musain ed Eponine fanno la loro comparsa.
Chiedo scusa in anticipo per la chiusura del capitolo, altra tentazione a cui non ho potuto resistere, ogni riferimento al musical è puramente casuale.
 
 
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Capitolo 2 – POV Eponine


Eponine stava canticchiando a mezza bocca la hit anni ’80 che la radio stava trasmettendo in sottofondo, passando lo straccio sul bancone, già perfettamente pulito. Il café era praticamente vuoto, cosa che le metteva sempre un po’ di tristezza vista la quantità esorbitante di energie e speranze che ci aveva riversato. L’aveva inaugurato il primo del mese, dopo aver passato tutta estate a ridipingere l’intero locale, decorare i muri della sala con ricami floreali, rimuovere la vecchia moquette e rimpiazzarla con un più pratico e igienico finto parquet. Aveva passato ore, se non giorni, tra aste online, ebay, mercatini dell’usato e rigattieri per mettere insieme il mobilio, aveva lavorato giorno e notte, praticamente sempre sola, traendo forza e positività da quel nuovo, esilarante progetto.

Si era trasferita a Parigi con la sua famiglia cinque anni prima, lei si era iscritta in prima superiore e suo fratello Gavroche in prima elementare. Prima di allora avevano abitato in un paesino della periferia, dove i suoi genitori gestivano l’unico ristorante del paese, che serviva anche da bar e affittacamere. Eponine aveva sempre amato quel genere di attività, gente che andava e veniva, mai un attimo di noia. Aveva sempre amato molto meno il modo in cui i suoi genitori trattavano la clientela, imbrogliando, rubando quando possibile e gestendo attività illecite nel retro. Non c’era voluto molto prima che la finanza e la polizia capissero che qualcosa non andava. Amici di suo padre, Eponine preferiva non pensare a quale tipo di amici, avevano coperto le loro tracce ed erano riusciti a farli arrivare alla capitale dove sua madre aveva trovato lavoro come domestica e suo padre era caduto sempre più a fondo nel tunnel della malavita.

Era stato allora che Eponine aveva deciso che non voleva avere più nulla a che fare con i suoi. Aveva immediatamente cercato lavoro, trovando un posto da cameriera al Musain, e aveva lavorato lì per cinque anni, mettendo da parte i soldi e aspettando di diventare maggiorenne. Quando aveva infine compiuto i diciotto anni e finito il liceo, la proprietaria del Musian le aveva annunciato che voleva andare in pensione e che, se era interessata, Eponine avrebbe potuto rilevare l’attività. La vecchia signora le aveva lasciato il café praticamente in regalo, ed era stato il giorno più bello della sua vita.

Neanche due settimane dopo suo padre era stato arrestato. Eponine non era più tornata a casa, occupava una stanza nel retro del bar e suo fratello Gavroche passava a trovarla ogni tanto. Le uniche altre compagnie della ragazza erano i membri di “Patron Minette”, la band punk-rock di cui era leader e cantante, e Marius, che aveva conosciuto anni prima, in un breve periodo in cui si erano ritrovati ad essere vicini di casa.

E proprio in quel tranquillo tardo pomeriggio, il viso sempre gioviale di Marius fece la sua comparsa nel café, accompagnato dal tintinnare della campanella attaccata alla porta. Eponine si affrettò a lasciare cadere lo straccio e slacciare il grembiule, andandogli incontro sistemandosi i lunghi capelli corvini dietro le orecchie.

“Marius! Che bello vederti, come è andato l’inizio dell’anno?”

“’Ponine” la apostrofò il ragazzo sorridendole e posandole un veloce bacio su una guancia a ‘mo di saluto. Il cuore di Eponine saltò un battito, come accadeva tutte le volte che Marius la toccava, o la guardava, o le parlava, o era semplicemente nella sua visuale. “C’è qualche novità – stava dicendo lui nel frattempo -  mi sono iscritto ad una society e ho proposto di tenere la prima riunione qui da te. Spero non ti dispiaccia!”

“Certo che no” ripose lei, entusiasta “Quando? E quanti?”

“Oh, una ventina di persone, credo. Saranno qui tra un quarto d'ora.”

“Perfetto, dammi una mano, facciamo spazio!”

Con l’aiuto di Marius, Eponine si mise a spostare il mobilio spaiato, posizionando un grande tavolino rettangolare sulla destra del bancone rispetto all’entrata, dove la sala si stringeva, creando una specie di separé. Attorno al tavolino vennero sistemati due divanetti, un paio di sgabelli e qualche sedia.

Avevano appena finito quando la porta di ingresso tintinnò di nuovo e tre ragazzi fecero la loro comparsa. Eponine, le mani sui fianchi, guardò Marius salutare i  primi due con un cenno della mano, invitandoli ad avvicinarsi. Il primo era una figura imponente, i capelli scuri e due folte sopracciglia che spiccavano su un viso deciso e attento, l’altro era completamente calvo, dall’aria amichevole e vagamente impacciata.

“Ci avete messo poco a trovarci, ragazzi!” li salutò Marius, indicandoli “Bahorel e Legle, sono due miei compagni di corso a Legge.”

Ci furono una serie di strette di mano e Bahorel rise: “Compagni di corso è un eufemismo, Pontmercy… diciamo che siamo iscritti alla stessa facoltà, siamo dei frequentatori molto poco assidui.”

“Lui è il nostro coinquilino: Joly” presentò quindi Legle il terzo arrivato.

I quattro ordinarono e presero posto, Eponine si mise all’opera sul tea (rigorosamente deteinato, Joly era ossessionato dall’idea di diventare dipendente dalla teina), due cappuccini e un latte macchiato ascoltando la conversazione.

“Nessuna novità per la stanza, ragazzi?” stava chiedendo Marius “Il mio affitto scade con il primo ottobre e se non trovo un posto dove stare sono nei casini!”

Legle si batté una mano sulla fronte: “Che cretini! Ci siamo dimenticati di dirtelo, Joly ha la soluzione!”

L’aspirante medico annuì con un sorriso: “A casa di un mio amico, Jean, si libera una stanza a fine mese. E’ l’appartamento sotto il nostro, in una delle residenze del campus. Tre stanze, Feully è stato assunto in una ditta e ha deciso di studiare part time quest’anno, si è trovato un appartamento vicino al posto di lavoro per cui se la vuoi la stanza è tua!”

“Ah eccoli qui! Parli del diavolo…” sorrise Bahorel indicando la porta, da cui stava entrando un'altra coppia di studenti che si presentarono come Jean e Courfeyrac. Mentre il primo si sedeva con gli altri, iniziando a parlare a Marius a proposito della stanza, il secondo si avviò al bancone, appoggiandoci i gomiti e sorridendo a Eponine.

“Ciao, ci fai due cioccolate per favore?”

Aveva un viso tondo, vagamente asimmetrico, notò la ragazza, con l’aria serena e modi amichevoli.

“Certo,” annuì, regalandogli un mezzo sorriso a sua volta “la vuoi la panna? Offre la casa…”

“Non si dice mai no alla panna, soprattutto se offre la casa.” Rispose Courfeyrac strizzandole un occhio, e invece di unirsi agli altri rimase lì, appoggiato al bancone, osservando interessato la figura minuta di Eponine che quel giorno indossava una maglia a maniche lunghe che scendeva fino alle cosce, pantacollant neri e un paio di vecchi anfibi slacciati.

Alla spicciolata tutti gli altri membri de Les Amis fecero il loro arrivo, lasciando le ordinazioni e affollandosi attorno al tavolo con un allegro chiacchiericcio. Erano un insieme piuttosto eterogeneo ma accumunati da un’aria vagamente intellettuale: cappotti, tracolle in pelle e polacchine facevano bella mostra dove la media dei loro coetanei avrebbe sfoggiato giacche a vento, zaini e Converse.

Alle 17 in punto gli ultimi due fecero il loro ingresso. Eponine si fermò un istante per fissarli, non capitava tutti i giorni che due personaggi del genere passassero dal suo café, ed erano indubbiamente un bel vedere. Entrambi molto alti e ben proporzionati, uno indossava un cappotto a doppio petto grigio che metteva in evidenza le spalle larghe, portava un paio di occhiali rettangolari sul naso e aveva lunghi ciuffi castani che incorniciavano un viso ovale. Avanzava a passo tranquillo con una cartelletta sotto braccio. Al suo fianco, con lunghe falcate delle gambe nervose, camminava la personificazione di una statua greca con un’improbabile giacca rossa, una sciarpa in seta nera, una massa di ricci dorati e occhi che sembravano in grado di perforare i muri.

Courfeyrac si affrettò a staccarsi dal bancone con un’ultima occhiata sorniona ad Eponine, andando loro incontro: “Ferre, Enjolras! Ben arrivati.” Il trio si sedette compatto sul divanetto lasciato libero a capotavola e Combeferre aprì la cartelletta, facendo l’appello.

Era a metà della lista quando la campanella tintinnò di nuovo e Grantaire sgattaiolò dentro, il cappotto sbottonato, una sciarpa di lana verde buttata attorno al collo e i capelli in uno stato pietoso.

Enjolras ruotò il capo sul collo, fulminandolo con lo sguardo. “Sei in ritardo.”

Il sorrisone sul viso di Grantaire non si incrinò: “Pardon… se avessi capito che questo posto era nella via dietro il mio ostello avrei evitato di girare in tondo per il quartiere tre volte!”

Si appoggiò pesantemente al bancone, adocchiando Eponine: “Heilà, è possibile avere un whiskey?”

Un sopracciglio si inarcò sul volto di Enjolras. Tutti gli altri osservavano in silenzio alternando lo sguardo tra i due, quasi stessero seguendo una partita di tennis.

“Sono le 5 del pomeriggio. Non hai seriamente intenzione di bere un whiskey.”

Non era una domanda. Quella arrivò subito dopo, da Courfeyrac.

“Hei aspetta un attimo, il tuo ostello? Nel senso che sei proprietario di un ostello o che ci vivi?”

Grantaire rise di gusto, grattandosi la nuca con fare vago, gli occhi di Enjolras e la sua evidente disapprovazione ancora piantati addosso:  “La seconda, decisamente la seconda..” rispose per poi schiarirsi la voce, esitò un attimo poi si rivolse ad Eponine “Fammi un caffè doppio allora, corretto.”

Enjolras rivolse un cenno del capo a Combeferre invitandolo a proseguire, senza più degnare Grantaire di uno sguardo. Eponine sospirò piano, seguendo la scena, guancia posata sul palmo della mano e gomito posato sul bancone.

“E’ figo, per carità, ma lo trovo vagamente inquietante. Se le occhiate potessero uccidere attorno a lui ci sarebbe un secondo Sahara … E’ sempre così?”

Grantaire camuffò una risata con un colpo di tosse e rispose distrattamente: “Non ne ho idea, l’ho conosciuto solo ieri, ma non vedo l’ora di scoprirlo.”

Eponine alzò entrambe le mani, palmi all’infuori, divertita: “D’accordo, messaggio ricevuto: è riserva di caccia esclusiva. Buona fortuna!”

“Mmm… grazie…” mormorò Grantaire prima di realizzare cosa era stato detto e sobbalzare, affrettandosi a scuotere il capo con forza, imbarazzato “No, no, no, no hai capito male!”

“Certo” rispose Eponine sogghignante, alle prese con il caffè “Staremo a vedere. Eri serio prima? Lo vuoi corretto?”

“Sì, grazie” annuì Grantaire, grato del cambio di argomento “se hai del Baileys è perfetto.”

Eponine aggrottò le sopracciglia, squadrandolo con attenzione: “Sei alcolizzato?”

“No! Non ancora almeno..”

“Ok. Ecco qui, a proposito, io sono Eponine.”

“’’Taire. Piacere.”

Presa la sua tazza, Grantaire si unì agli altri, afferrando una sedia e sedendosi a cavalcioni, i gomiti appoggiati allo schienale. Dopo un attimo di esitazione Eponine li raggiunse, appollaiandosi su uno sgabello un poco in disparte. Combeferre stava ancora parlando, illustrando i principali eventi e appuntamenti dell’anno e facendo il resoconto delle casse della society. Infine posò gli occhiali e sospirò, sfregandosi gli occhi con una mano.

“Per prima cosa abbiamo da risolvere una questione non da poco. Come sapete il governo ha proposto una riforma dell’istruzione che minaccia di tagliare i fondi. Ancora non c’è nulla di preciso ma l’università ha iniziato a chiudere i cordoni della borsa e ha decretato che quest’anno non ci saranno più aule aperte dopo la fine dell’orario di lezione, incluse biblioteche, aule studio e le sale del comitato studentesco – un brusio di disappunto si diffuse tra i presenti ma Combeferre continuò – Negli anni scorsi la society si incontrava tutti i martedì e i giovedì sera e questo ci lascia due possibilità, cercare un posto alternativo dove incontrarci o spostare l’orario al pomeriggio.”

Una serie di voci, proposte e pareri si susseguirono per qualche istante finché Enjolras non alzò una mano e improvvisamente tornò il silenzio.

“Spostare l’orario al pomeriggio è fuori discussione. Incastrare gli orari di tutti sarebbe un incubo, senza contare il fatto che molti di noi sono all’ultimo anno e hanno bisogno i pomeriggi per studiare.”

“Scusate” intervenne Courfeyrac sereno “non possiamo incontrarci qui? Se non disturbiamo troppo è carino e a me piace.”

Eponine lo ringraziò con un sorriso ma scosse il capo, sinceramente dispiaciuta “Il café chiude alle 19. La sera ho le prove con il mio gruppo e se ci va bene qualche serata, non posso tenerlo aperto, mi dispiace.”

Le rispose un mormorio di disappunto che in qualche modo le scaldò il cuore. Era contenta che il suo locale piacesse a quei ragazzi, avevano l’aria di essere un po’ esaltati ma sembravano persone a posto, e in più erano amici di Marius, il che avrebbe voluto dire averlo da quelle parti molto più spesso di quanto avesse sperato fino a quel momento.

Qualcuno si schiarì la voce ed Eponine si guardò attorno fino a inquadrare Grantaire. “Forse ho un idea. Se il café andrebbe bene per tutti e l’unico problema è che Eponine non lo può tenere aperto perché non ha tempo potrei farlo io… ho bisogno di un lavoro in ogni caso e ho già lavorato sia da cameriere che da barista.”

Eponine sgranò gli occhi, spiazzata. Non aveva proprio pensato che una cosa simile fosse possibile, e per quanto l’idea le interessasse c’era un problema. “Non posso pagarti un granché, il café non lavora moltissimo come puoi vedere..” rispose amaramente, indicando la sala deserta a parte i ragazzi e una coppia dalla parte opposta della stanza.

“Non importa” rispose Grantaire stringendosi nelle spalle “mi dai quello che riesci e vediamo come va. Gente tira gente, magari tenendolo aperto anche di sera e con noi che andiamo e veniamo si riempirà un po’.”

Eponine esitò, considerò un attimo di chiedere di poterci pensare su, e infine annuì. C’era qualcosa nei modi di Grantaire che le ispirava fiducia. “Va bene. Io ci sto.”

“Enjolras?” chiese Combeferre, aspettando che il capo desse il suo parere.

“Ai voti” fu la risposta “se c’è qualcuno contrario alzi la mano.”

Nessuno. Un raro sorriso increspò per un secondo le labbra del biondo, che annuì compiaciuto: “Aggiudicato. Martedì e giovedì sera al Musain, dalle 21 in avanti.”

Finite le questioni ufficiali la riunione si trasformò in un informale chiacchiericcio in cui i nuovi si integravano, la vecchia guardia dava spiegazioni e consigli, e cioccolate, caffè, muffin e torte si susseguivano al tavolo. Eponine era tornata dietro al bancone, dove Grantaire e Courfeyrac erano appostati, facendole compagnia e chiacchierando.

La ragazza non stava prestando loro attenzione più di tanto, con la coda dell’occhio stava tenendo sotto controllo gli spostamenti di Marius, che sembrava immerso in una fitta conversazione con Bahorel e Leigle. Un pensiero si stava facendo strada nella sua testolina, doveva solo trovare il coraggio. Gli avrebbe chiesto di fermarsi per cena, come ringraziamento per averle portato tante facce nuove. Erano tre anni che gli moriva dietro in silenzio, troppo imbarazzata per la condizione della sua famiglia, per essere ancora liceale mentre lui già andava all’università. Ma non più, non aveva più nulla di cui vergognarsi ora, nessun motivo per non dirgli quello che provava per lui, doveva solo aspettare che se ne andassero tutti.

Il primo ad abbandonare la compagnia fu Enjolras, che si avviò alla porta abbottonandosi la giacca e rivolgendo un cenno del capo a Combeferre: “Ci vediamo a casa, faccio un salto in biblioteca prima di rientrare.”

“Santo cielo, Enjolras!” esclamò Jean “E’ il secondo giorno dell’anno! Che diavolo vai a fare in biblioteca?”

Il biondo liquidò la questione con una scrollata di spalle e sparì all’eterno. Joly sospirò, rivolgendo un’occhiata allarmata a Combeferre. “Rischia di finire con un esaurimento nervoso. Ci pensi tu ad assicurarti che mangi e dorma ogni tanto, vero? Non vorrei finire come l’anno scorso quando l’abbiamo trovato svenuto in biblioteca perché si era dimenticato di mangiare per quasi tre giorni…”

Il coinquilino annuì: “Ho preso l’abitudine di fare la spesa e cucinare per tutti e due, mi tocca ingurgitare quel diavolo di cibo vegano ma almeno non lo faccio morire di fame…” rispose con affetto.

Eponine sogghignò e posò una mano sulla spalla di Grantaire: “Messaggio recepito? Abbiamo bisogno di aggiungere un paio di piatti vegani al menù, e di comprare del latte di soia.”

Il ragazzo annuì, improvvisamente entusiasta: “Ci penso io! Compro tutto domani prima di venire qui e ci vediamo alle 19!”

Uno alla volta o a gruppetti anche tutti gli altri si avviarono fuori. Eponine era sicura per qualche motivo che Marius si sarebbe fermato a chiacchierare con lei e ingoiò a fatica la delusione quando lo vide incamminarsi con Jean e salutarla dalla porta con un cenno della mano.

“A presto, ‘Ponine. Vieni Courf?”

Courfeyras esitò, adocchiandola: “Hai bisogno una mano a mettere a posto?” chiese gentile.

“No. No grazie, sono a posto.”

Dieci minuti dopo Eponine chiuse a chiave la porta del cafè, stringendosi nel suo logoro cappotto marrone, un basco calato sui capelli scuri. Infilò nelle orecchie le cuffie del lettore mp3 e si avviò a passo blando per la sua quotidiana passeggiata del tramonto. Ancora una volta sola. Il cielo parigino si era fatto scuro; come spesso capitava all’inizio dell’autunno il tempo poteva cambiare molto rapidamente. Qualche attimo dopo grandi gocce di pioggia iniziarono a cadere, il grigio dell’asfalto e dei tatti di ardesia che rilucevano come argento nella notte che iniziava a calare.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - POV Marius ***



Capitolo 3 – POV Marius
 

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NdA: Capitolo dedicato a Marius che, non ci metterete molto a capirlo, non è un personaggio che amo troppo. Il mio Marius ha alcuni elementi del libro e altri del musical, spero che chi di voi conosce solo una delle due versioni non lo trovi OOC.

Unica nota davvero importante. Courgette è il francese per "zucchina" ... sono morta quando Cosette viene chiamata Courgette nel film e non ho potuto non usarlo ^_^

Ancora una volta ringrazio infinitamente chi recensisce e chi cerca di guarire la mia idiosincrasia nei confronti della punteggiatura. Se notate refusi, frasi mal strutturate o punti che non vi convincono non fatevi problemi a segnalarmeli che apprezzo i commenti costruttivi!

 

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Erano passate tre settimane. Ottobre era ormai inoltrato e le giornate parigine iniziavano a farsi più corte e più fredde. Enjolras aveva iniziato a rinchiudersi in biblioteca, studiando finché un impietosito Combeferre non lo andava a recuperare o la security non lo sbatteva fuori; Courfeyrac trascorreva il tempo tra party e università senza fermarsi un attimo; Joly era rintanato a letto da quattro giorni convinto di essere stato colpito da un’allergia, il raffreddore e un’influenza di stagione tutti in una volta; Jean si aggirava per i boulevard scrivendo sonetti alle foglie che ingiallivano; Leigle cercava di districarsi alla meno peggio tra la sua naturale indolenza e la sfiga che sembrava perseguitarlo; Bahorel bighellonava tra bar e club alla ricerca di una buona scusa per scatenare una rissa, senza combinare un tubo come suo solito; Grantaire ed Eponine erano ormai ottimi soci in affari e buoni amici e tutto procedeva nella norma.

Per tutti tranne che per Marius. Quell’anno aveva portato con sé parecchie novità, tutte ottime: non era così felice e sereno da molto, molto tempo. Marius era un orfano, aveva perso la madre quando era ancora troppo piccolo per ricordarsela, ed era cresciuto con la zia e il nonno in una casa austera, dove nessuno rideva mai. Suo padre era stata una figura vaga, ai margini della sua vita, che compariva una domenica al mese per portarlo a vedere una partita di calcio o a mangiare un gelato. Un malore fulminante se l’era portato via quando Marius aveva iniziato il liceo. Arrivato al secondo anno di università aveva deciso che i tempi erano maturi per andare a vivere per i fatti suoi; con la magra cifra che sua zia aveva convinto il nonno a sborsare, era riuscito a prendere in affitto un monolocale fatiscente sopra l’appartamento altrettanto fatiscente in cui Eponine viveva con la sua famiglia. L’anno successivo aveva trovato una stanza in una casa che divideva con altri 7 coinquilini, sopravvivendoci per due anni ai limiti della sanità mentale.

Ora, per la prima volta, viveva in un appartamento normale, con gente normale. Per la prima volta si era iscritto ad una society, si sentiva motivato e attivo. Per la prima volta si era innamorato. Follemente.

Quel giorno stava facendo la fila alla mensa da solo. Stava affrontando la vitale scelta tra il fish and chips o la quiche ai funghi, quando una risata cristallina aveva attirato la sua attenzione. Aveva alzato gli occhi dal vassoio e l’aveva vista. Non era più stato in grado di distogliere lo sguardo fino a quando la gente in coda dietro di lui non aveva iniziato a riempirlo di insulti.

Era minuta, eterea quasi, con lunghi capelli biondissimi e grandi occhi da libellula, appena evidenziati da un trucco acqua e sapone. Era bellissima. Il cervello di Marius aveva iniziato a funzionare solo con frasi a struttura elementare. “Lei è bellissima.” “Io sono innamorato di lei.” “Il mio mondo è appena cominciato.” “Non posso vivere senza di lei.”

Aveva vagato come un’anima in pena tutto il pomeriggio, seguendola, pedinandola nei corridoi, nelle aule, nei bagni delle ragazze (ovviamente venendo cacciato fuori a urli e colpi di borsetta), fino a quando una sua amica lo aveva fermato sulle scale, allungandogli un pezzetto di carta.

“E’ il suo numero, smettila di fare lo stalker e scrivile. Si chiama Cosette.”

Marius aveva seriamente rischiato di cadere dalle scale. Cosette. La amava, lo sentiva, non poteva stare senza di lei.

Era un giovedì e la riunione di Les Amis sarebbe iniziata alle nove. Marius tuttavia aveva bisogno di condividere con qualcuno il suo colpo di fulmine e, soprattutto, aveva bisogno di un parere femminile, per cui si presentò al Musain alle sei e mezza. Fece irruzione nel café con uno sguardo da fanatico, precipitandosi al bancone notando a malapena il sorriso sfavillante di Eponine.

“’Ponine! Devo parlarti!” esclamò sporgendosi a prenderle entrambe le mani nelle proprie.

La ragazza annuì dolcemente, indicandogli il tavolo in disparte che i ragazzi avrebbero occupato più tardi: “Arrivo subito, devo servire un cliente e sono da te, tanto Grantaire sarà qui a momenti …”

C’era più gente del solito, notò distrattamente Marius, sprofondando su un divanetto e giocherellando con il bigliettino che teneva in tasca. Era contento per Eponine se le cose stavano funzionando, ma anche quel pensiero occupava solo una minima parte della sua testa. Pur sentendosi un maledetto egoista non riusciva a pensare ad altro che a lei: Cosette.

“Eccomi. Che ti è successo?” chiese Eponine qualche minuto dopo, sedendosi accanto a lui. Grantaire era arrivato, carico di borse della spesa, e l’aveva sostituita dietro al banco.

“’Ponine” Marius si umettò le labbra, sporgendosi verso di lei e afferrandole nuovamente le mani, articolando le parole in un sussurro accelerato “devo confidarti una cosa. Non posso attendere un momento di più, te lo devo dire. Sono innamorato, pazzamente …”

Le mani di Eponine, tra le sue, presero a tremare impercettibilmente. La osservò sgranare gli occhi scuri, incredula. Un’espressione radiosa subito dopo le fece capolino sul viso.

Marius sospirò, sereno. Aveva fatto la cosa giusta a parlarne con lei, la sua migliore amica, era sicuro che avrebbe capito e sarebbe stata felice per lui.

“Si chiama Cosette” continuò rapido “è matricola a Pedagogia. Una sua amica mi ha dato il suo numero ma non so cosa fare. Dovrei scriverle?”

Marius stava fissando Eponine in trepidante attesa di un consiglio e vide la sua espressione cambiare drasticamente nell’arco di un secondo, facendosi d’un tratto allibita, subito dopo sconcertata.

Non capiva, davvero non capiva. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Non doveva scriverle affatto?

Prima che potesse chiedere spiegazioni la voce di Grantaire si fece sentire dal bancone: “Eponine! C’è un dandy goticheggiante parcheggiato davanti alla porta che mi fissa con una certa insistenza. Devo scappare a gambe levate o prepararmi a difendere il castello?”

Marius allungò il collo notando una Harley Davidson parcheggiata sul marciapiede davanti al café. A cavallo sedeva un ragazzo con lunghi capelli neri e occhi azzurrissimi bistrati di kajal, sulle spalle portava la custodia di una chitarra, in mano teneva due caschi.

“E’ solo Montparnasse, stai tranquillo, ‘Taire!” rispose Eponine alzandosi, sfilando le mani dalla presa di Marius un po’ più bruscamente di quanto il ragazzo si sarebbe aspettato.

“Devo andare..” gli disse quindi, indicando la porta con un cenno del capo ed evitando il suo sguardo “ho le prove. Ne parliamo un’altra volta.”

Afferrò borsa e giubbotto e un secondo dopo era uscita, saltata sulla moto e sparita. Marius rimase lì, perplesso e vagamente intontito. Grantaire era per qualche ignoto motivo sprofondato nella lettura di un manuale di cucina vegana e non gli stava prestando alcuna attenzione, degli altri ancora non c’era traccia.

Il dubbio lo rodeva sempre di più ad ogni minuto che avanzava. Scriverle o non scriverle?

Era talmente preso dalla sua amletica contemplazione da dimenticarsi di cenare e da non notare nemmeno il progressivo arrivo dei suoi amici.

Si riscosse solo quando qualcuno gli diede una pacca su una spalla. Sbatté gli occhi un paio di volte, mettendo a fuoco Joly imbacuccato in cappotto, sciarpa e cuffia.

“Marius! Sei dei nostri?” gli chiese vagamente preoccupato, sedendosi e aggiustandosi la boule dell’acqua calda in grembo “E’ un quarto d’ora che stai seduto lì, sembri uno che ha visto un fantasma!”

“Altro che un quarto d’ora!” si intromise Grantaire, prendendo posto su una sedia al suo fianco e allungandogli un bicchiere “E’ impalato su quel divanetto da quando sono arrivato io alle sette. Avanti bello, fatti un goccetto e sputa il rospo. Che ti è successo?”

Marius prese il vino offerto, rigirandoselo tra e mani con aria sognante: “Un fantasma… No, non un fantasma, Joly, ho visto un angelo. E’ bastato un attimo, una visione…”

Si interruppe, in cerca di parole che rendessero giustizia alla sua Cosette. Grantaire appoggiò i gomiti alla spalliera della sedia, come suo solito, guardandolo con un sogghigno.

“Oh oh ! Senti senti! Il buon Marius è innamorato? Non l’ho mai sentito delirare in questo modo…”

Marius sorrise indulgente, vagamente imbarazzato, mentre l’altro scoppiava a ridere, reclinando la testa all’indietro e scuotendo i ricci scuri.

“Hey, Apollo!” apostrofò Enjolras che, dalla parte opposta del tavolo, stava chino con Courfeyrac e Combeferre su una pila di fogli. “Tra tu che parli di rivoluzioni e battaglie da vincere e il nostro Don Giovanni qui dovremmo cambiare attività e darci ad una society di teatro, l’Opera potrebbe venirci bene!”

Un coro di risate si levò dai ragazzi che facevano capannello lì attorno e Marius, suo malgrado, si unì a loro. Grantaire alzò la bottiglia di vino alle labbra, abbassandola rapidamente non appena
Enjolras sollevò il capo. Non sorrideva affatto. Appoggiò entrambe le mani al tavolo, sporgendosi verso di loro con aria seria.

“Se quello che cercate è una society di attori potete trovare l’uscita senza che ve la debba indicare.” Disse duramente. Alle sue spalle Combeferre sospirò, lasciandosi cadere su una sedia.
“Le acque si stanno smuovendo e siamo qui per strutturare una campagna di raccolta firme, organizzare i turni allo stand e scrivere una petizione al rettore.” continuò Enjolras passandoli in rassegna uno a uno. “Di cose da fare ce ne sono a bizzeffe. Non metto in dubbio le tue buone intenzioni, Marius, ma non è questo né il tempo né il luogo per i tuoi problemi di cuore.”

“Lo so, Enjolras” rispose Marius, passandosi una mano sul volto “ma se fossi stato tu al mio posto oggi, se l’avessi vista, capiresti come mi sento!”

“Dubito …” bofonchiò Bahorel.

“E come ti senti, Marius?” chiese Grantaire, beffardo.

“Mi sento ... Mi sento come se la mia anima stesse prendendo fuoco! Sento il mio mondo sprofondare se lei non c’è!”

“Oddio, credo di star per avere un attacco di diabete!” commentò Courfeyrac divertito, guadagnandosi un’occhiata allarmata da parte di Joly.

Enjolras alzò gli occhi al cielo e attraversò la stanza ad ampie falcate: “Per carità, Grantaire, non ti ci mettere anche tu ad incoraggiarlo!”

“Marius!” esclamò poi, afferrandogli un braccio con energia: “Non sei più un adolescente con gli ormoni a palla! Siamo qui per una causa ora, chissene frega della tua anima solitaria, stiamo combattendo per qualcosa di ben più grande delle nostre vite private!”

Qualcuno annuì qui e là e Marius sospirò, posando la mano su quella di Enjolras: “Lo so, scusa.”

Combeferre si alzò, schiarendosi la voce e riprendendo il controllo della situazione: “D’accordo gente, torniamo a noi. Io e Courf finiamo di scrivere la petizione con Enjolras, voi altri organizzate quello ci serve per la raccolta firme. Se avete domande chiedete.”

Marius si lasciò andare contro lo schienale del divanetto mentre Legle, calendario alla mano, iniziava a decidere i turni aiutato da Joly e Bahorel.

“Hei, mi fai spazio?” Era Jean, che con un sorriso prese posto accanto a Marius.

“Allora, com’è la tua ragazza, Pontmercy?” gli chiese serio.

“Oh Prouvaire! Non hai idea, è un angelo!”

“Dove la porti per il primo appuntamento?”

Alla domanda Marius inorridì, sbattendo gli occhi un paio di volte: “Oh cielo, non ci avevo pensato! Non le ho ancora neanche chiesto di uscire! Ho il suo numero ma non so se scriverle o no …”

“Sei un codardo, Pontmercy! E pure un codardo poco furbo” ridacchiò Jean “che cavolo aspetti? Quella poverina si starà rodendo il fegato da tutto il pomeriggio chiedendosi perché ancora non ti sei fatto vivo!”

“Dici?” chiese dubbioso Marius, estraendo dalla tasca il numero di telefono.

Prima che uno dei due potesse aggiungere altro, un corpo sconosciuto piovve dal cielo, crollando loro addosso. Non era altro che Courfeyrac, che si era buttato a pesce sui due amici strappando il post-it dalle mani di Marius.

“Courf! Che diavolo fai? Ridammelo!”

“Non piagnucolare, Pontmercy!” ribatté Courf ancheggiando per farsi posto sul divanetto e aprendo il foglietto. “Courgette? COURGETTE? Santo cielo Pontmercy! Con tutte le ragazze sul pianeta dove l’hai pescata una con un nome così? Al mercato ortofrutticolo?”

Jean strappò il foglio dalle mani di Courf, rifilandogli una gomitata: “Sei un cretino, Courf! Non è Courgette, è Colette!”

Marius si allungò oltre Courf per raggiungere Jean e riprendersi il numero: “Siete DUE cretini! E’ Cosette e il numero è mio, ridatemelo, devo scriverle!”

“Non le hai ancora scritto?” chiese allibito Courfeyrac, placcando Marius. “Allora l’unico imbecille qui sei tu, Pontmercy!”

Ben presto il tutto era degenerato in una lotta all’ultimo sangue per il post-it, che al momento svettava tra i denti di un Jean in piedi sul divano che respingeva valorosamente i due amici alla carica.

“Piantatela immediatamente!” la voce di Enjolras non ammetteva ritardi o obbiezioni. I tre si immobilizzarono, voltandosi vero il capo con la loro migliore aria da cuccioli abbandonati.

“Fuori. Di. Qui.” Fu tutto quello che il biondo sillabò per poi tornare a concentrarsi sul suo lavoro.

Jean sospirò, scendendo dal divanetto: “Ops. Avanti, ragazzi, leviamo le tende. ‘Taire” aggiuse poi, dando un colpetto sulla spalla a Grantaire, che ciondolava con aria poco presente davanti alla bottiglia di vino quasi vuota “R, ripigliati, dobbiamo pagare le consumazioni.”

Courf lo sollevò di peso dalla sedia, trascinandolo alla cassa, Marius li seguì con un vago senso di colpa.

“Mmmm… Avete fatto arrabbiare Apollo…” biascicò Grantaire, dando voce ai suoi pensieri, appoggiandosi pesantemente al bancone e strizzando gli occhi per riuscire a digitare i tasti giusti sul registratore.

“Ha un sacco di roba da fare, ha capito che noi non siamo dell’umore giusto e ci sta mandando a casa.” scrollò le spalle Jean, frugando nelle tasche alla ricerca del portafoglio “Ci sta facendo un piacere in realtà, R, non te la prendere.”

“E non lasciarti impressionare” rincarò Courf “non è davvero arrabbiato. E’ solo che sotto sotto, giovane rivoluzionario o meno, è una sorta di maniaco del controllo. Se qualcosa esce dai suoi perfetti schemi per cambiare il mondo sclera.”

“Quello non è sclerare. Chi l’ha mai visto perdere il controllo?” chiese Grantaire allungando lo scontrino a Marius, l’equilibrio e la lucidità sempre più precari. “A volte mi chiedo se sia umano. Voglio dire: non sbaglia, non tentenna, non si sbrodola con il caffè, non suda … qualcuno di voi l’ha mai visto andare in bagno?”

Marius sorrise: “Dovresti chiedere a Combeferre visto che vivono insieme. Però me lo sono chiesto anche io… ” continuò alternando lo sguardo tra Courf e Jean “Ha per caso problemi di relazioni interpersonali? Ce l’ha mai avuta una ragazza? Prima mi ha guardato come fossi un marziano!”

I due risero: “Credo che Enjolras non si sia mai nemmeno accorto che il genere femminile esista, Pontmercy, non stupirti!” commentò Jean dandogli una pacca su una spalla “Ha noi, e sarebbe disposto a tagliarsi un braccio pur di darci una mano se dovessimo avere bisogno. E poi c’è Ferre, che ha l’indole di mamma chioccia oltre che quella di grillo parlante. Si prende cura di lui ed Enjolras non potrebbe avere un coinquilino migliore, credimi!”

“Già” sbiascicò Grantaire, sbadigliando “Ma anche il nostro marmoreo amante della libertà oltre alla mamma avrebbe bisogno di qualcuno che gli scaldi il letto ogni tanto. Gli farebbe bene.”

Un attimo dopo si era accasciato su uno sgabello, la testa crollata sul bancone, sembrava essersi addormentato.

I tre amici lo guardarono con affetto in silenzio qualche istante, poi Courfeyrac si schiarì la voce: “Non so se è un’impressione solo mia, ma qualcosa nel modo in cui l’ha detto l’ha fatto sembrare come se si stesse offrendo volontario …”

“E’ ubriaco, Courf. Decisamente ubriaco.” Liquidò la questione Marius, stringendosi la sciarpa attorno al collo e avviandosi fuori. A passo blando i tre coinquilini presero la via di casa.

Dopo qualche minuto fu Jean a rompere il ghiaccio: “Se vuoi ti posso consigliare qualche rima da scriverle, Pontmercy …”

“No! Non farlo!” esclamò subito Courf.

“Perché no?” chiese stupito Marius “Potrebbe essere carino!”

“Carino un cavolo! L’ultima volta che ho rimorchiato una ragazza con un sonetto di Prouvaire è finita in tragedia!”

“Che è successo? Sono così brutti i suoi sonetti?” chiese Marius, ridendo all’aria offesa di Jean.

“Affatto!” rispose Courf “Al contrario, la tizia ha accettato di uscire con me, e la prima cosa che mi ha chiesto è stato di recitarle un’altra delle mie poesie! Ovviamente ho dovuto dirle la verità…”

“E?” lo incalzò Marius, incuriosito, mentre Jean rideva di cuore.

“E sto parlando di Sophie, Pontmercy!”

“Sophie?” chiese allibito Marius, guardando Jean ad occhi sgranati: “La tua ragazza, Prouvaire? L’hai conosciuta così? Perché Courf l’ha rimorchiata con una delle tue poesie?”

“Ci puoi giurare!” confermò Jean strizzandogli un occhio “E stiamo insieme da due anni!”

“D’accordo. Messaggio ricevuto: niente rime e sonetti. Altre brillanti idee?”

“Ciao, Courgette. Caffè con me domani mattina? O pomeriggio? O sera? O dopodomani ? Sì, sono lo stalker di ieri. XOXO Marius.” sciorinò Courf con nonchalance.

Marius drizzò il capo di scatto, estasiato: “E’ Cosette, Courf, C-O-S-E-T-T-E! Ma tu sei un maledetto genio!”

Courf rise, togliendo le chiavi di casa dalla tasca: “Lo so. Dovrei piantare l’università e aprire un’agenzia di consulenza per giovani innamorati imbranati. In bocca al lupo, Pontmercy.”

Marius sfilò il telefono dalla tasca e prese un gran respiro.

“Ciao Courg …”

“Ciao Cosette …”


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - POV Courfeyrac ***



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Capitolo 4 – POV Courfeyrac

Hei, Courgette! Da questa parte!”

Maledicendo mentalmente Marius Pontmercy in toni alquanto coloriti, Courfeyrac si stava sbracciando per attirare l’attenzione della ragazza tra la miriade di matricole che stavano sciamando fuori dall’aula di pedagogia generale. Una pioggia battente si stava riversando sull’università in quel gelido pomeriggio di novembre, e gli studenti si accalcavano attorno all’uscita, annaspando con cappucci e impermeabili.

Brandendo un grosso ombrello scozzese, si fece strada a suon di gomitate fino a raggiungere Cosette, che lo aspettava sorridente davanti alla porta: “Buongiorno, Courfeyrac!” lo salutò con il suo immancabile cinguettio, aggrappandosi al suo braccio con una manina sottile.

Suo malgrado Courf sorrise. Doveva ammettere che, nonostante i livelli allarmanti di glicemia che Marius scatenava ogni volta che ne parlava, Cosette era davvero adorabile. Era carina, ma non era tanto quello a colpire quanto il suo perenne sorriso, la sua gentilezza, e la dolcezza con cui aveva sempre una buona parola per tutti.

Quando Marius l’aveva portata al Musain per la prima volta, la settimana precedente, tutti erano immediatamente rimasti incantati. L’unico sorriso tirato alle presentazioni era stato quello di Eponine.

La cosa non era, ovviamente, sfuggita a Courfeyrac. Gli era bastato riempire il bicchiere un paio di volte di troppo ad un Grantaire già parecchio alticcio, per farsi confessare che la ragazza aveva avuto una cotta per Marius per anni.

La notizia lo aveva colpito come un sasso, non si sarebbe mai aspettato che una tipa tosta come Eponine potesse interessarsi a Monsieur-pesce-lesso-Pontmercy. La cosa gli aveva incredibilmente procurato un certo fastidio.  

Cercava di non pensarci troppo, facendo del suo meglio per essere un buon amico per tutti quanti, barcamenandosi tra Les Amis, il café e l’università con la sua solita giovialità.

“Dov’è Marius?” gli chiese Cosette, mentre i due attraversavano il cortile, diretti all’uscita.

“Il damerino è andato a cambiarsi,” rispose Courf alzando gli occhi al cielo “è uscito un po’ tardi da lezione e non ha fatto in tempo a passare dal bagno. Sapendo che eri senza ombrello ha spedito me a recuperarti, sarà qui tra poco.”

Cosette ridacchiò, coprendosi la mano con la bocca: “Si è cambiato solo per venire da me? Gli avevo detto di stare tranquillo! L’ho invitato per il the solo perché papà era curioso di conoscerlo; appena la mamma l’ha saputo ha insistito perché si fermasse anche a cena. Tutto qui.”

“E dici poco? Incontrare i genitori della tua ragazza è un’esperienza terrificante.” commentò Courf rabbrividendo “Lo capisco se ci tiene a fare bella figura, soprattutto con tuo padre. Sono sempre iperprotettivi nei confronti delle figlie e ipercritici nei confronti dei loro ragazzi. Il tuo ti viziava quando eri piccola?”

Cosette rispose dolcemente, con un sorriso sereno sul volto: “In verità, non è davvero mio padre. Sono cresciuta in un istituto finché mamma non ha trovato lavoro nella ditta di papà. Si sono innamorati e sposati, e lui mi ha adottata. Ci siamo trasferiti qui a Parigi tutti insieme quando avevo sette anni.”

Courf sbatté gli occhi un paio di volte, fermandosi sotto la pensilina dell’autobus: “Davvero? Non ne avevo idea! Non hai esattamente l’aria di una cresciuta in una casa di accoglienza.” le disse sincero, passando in rassegna gli abiti eleganti e di ottima fattura che la ragazza indossava con la sua innata grazia.

“Eccomi!” si sentì in quel momento l’annuncio di Marius alle loro spalle.

I due si voltarono quasi all’unisono, e Cosette piegò la testa sulla spalla, evidentemente soddisfatta del paio di pantaloni beige che il suo ragazzo indossava, abbinati ad un elegante maglione dallo scollo a V. Marius tirò a Courfeyrac un paio di jeans umidi e una stropicciata camicia a quadri, chinandosi a sfiorare le labbra di Cosette con un piccolo bacio, sufficiente a farla arrossire.

Courf stava appallottolando i vestiti Marius nel suo zaino, quando un coro di clacson si levò da tutte le auto in strada. Sollevò il capo giusto in tempo per vedere un ragazzino biondo, il cappuccio della felpa di qualche taglia troppo grande tirato sul capo, sfrecciare contromano a bordo di una bicicletta sgangherata. Zigzagò tra il traffico e passò rasente al marciapiede, sollevando da una pozzanghera un’ondata che si riversò dritto dritto sui pantaloni immacolati di Marius.

“No! Non ci credo!” esclamò lui dopo un attimo di incredulità, guardandosi inorridito “Neanche Bossuet è così sfigato, perché proprio a me? Perché proprio oggi?”

“Stai piagnucolando, Pontmercy!” lo prese in giro Courf con un sogghigno “E quello è il tuo autobus. Se non vuoi arrivare in ritardo, oltre che umido, ti conviene andare.”

Un attimo dopo i piccioncini erano spariti a bordo del bus e lui si stava avviando a passo tranquillo verso il Musain, dove aveva appuntamento con Feully.

Era ormai arrivato all’ultimo incrocio quando il cellulare gli vibrò in una tasca, segnalando un messaggio in arrivo. Sfilò il telefono e sospirò vistosamente: Feully doveva sostituire un collega e avrebbe avuto un’ora di ritardo. Ciò nonostante, esitò solo un istante prima di proseguire per la sua via. Non era troppo lontano da casa, ma Marius era da Courgette e Jean era a lezione di flauto traverso; l’idea di rinchiudersi nell’appartamento vuoto non lo esaltava per niente. Avrebbe potuto bere qualcosa e fare finta di studiare al Musain, dove c’era sempre la possibilità di incrociare uno degli altri.

Arrivato davanti alla porta del locale però si bloccò sconcertato, sul vetro era appeso un cartellino che recitava, nella calligrafia sbilenca di Eponine: “Pardon, siamo momentaneamente chiusi. Ripassate tra un po’.”

Alzò gli occhi al cielo, agitando minaccioso un pugno per aria: “Non si fa, Bossuet, non si fa! Non si riversa la propria sfiga sugli amici innocenti! Prima Pontmercy, poi Feully e ora il sottoscritto. Che ti abbiamo fatto di male?”

Stava per fare marcia indietro, ormai piuttosto bagnato e sulla buona via per essere anche piuttosto depresso, quando un rumore di cocci infranti e una voce famigliare lo fecero bloccare di colpo. Si mise in ascolto: non potevano esserci dubbi. La voce di Eponine, l’incazzatissima voce di un’incazzatissima Eponine, era decisamente distinguibile dall’interno.

Senza farsi troppi problemi, posò la mano sulla maniglia e socchiuse la porta. Sbirciò dentro, attento a non esporre la faccia abbastanza da offrire un bersaglio a un eventuale lancio di piatti in corso: “Heilà, ‘Ponine? Sono Courf…”

Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi era ben diverso da quello che si aspettava. Eponine, in piedi accanto al bancone, teneva in mano due fogli; davanti a lei, seduto su un tavolo con i piedi a penzoloni e lo sguardo chino, stava il teppista che aveva schizzato Marius davanti all’università.

Senza rispondere, Eponine afferrò una sedia e ci si lasciò cadere a peso morto, chinando il capo fino a poggiare la fronte al pianale del tavolo più vicino.

“’Ponine?” chiese di nuovo Courf, entrando e chiudendosi delicatamente la porta alle spalle. La ragazza sollevò il capo, le guance rigate di lacrime, e Coufeyrac sentì una stretta al cuore. Eponine era una tipa in gamba, non si era fermata davanti a niente, non si era piegata davanti a niente, nonostante la vita non fosse stata particolarmente gentile con lei. Per essere ridotta in quel modo doveva essere successo qualcosa di davvero grave.

“Che cosa c’è che non va?” le chiese, avvicinandosi.

“Da dove vuoi che inizi?” chiese lei, retorica, sollevando un foglio in ogni mano “Dalla maestra o dall’assistente sociale?”

“Come, scusa?”

Lei sospirò, passandosi una mano sugli occhi: “Ho un padre in galera e una madre che lavora in nero, prendendo il sussidio di disoccupazione. Ho fatto domanda per avere mio fratello sul mio stato di famiglia e toglierlo ai miei, e ora scopro che ha praticamente tutte le materie insufficienti a scuola. Se lo bocciano di nuovo lo metteranno nel sistema nazionale di affidamento e potrebbero spedirlo ovunque in Francia…”

La voce le si spezzò mentre stringeva un pugno fino ad avere le nocche bianche, rabbia e impotenza fuse in un’espressione disperata. Il ragazzino si mosse a disagio sul tavolo, senza alzare lo sguardo dal pavimento.

Courf alternò lo sguardo tra i due, iniziando a mettere insieme i pezzi: “Aspetta un secondo questo.. è tuo fratello?” chiese stupito, osservandolo con più attenzione. Aveva capelli biondicci, cresciuti selvatici fino a sfiorare le spalle, un paio di jeans troppo corti e una felpa troppo grande.

“Certo” gli rispose Eponine, amara “cosa credevi? Che l’avessi pescato mentre cercava di rubarmi un croissant? Si chiama Gavroche.”

Courf evitò di confermare che il suo primo pensiero era stato esattamente quello, e si avvicinò al ragazzino allungandogli una mano: “Piacere, Gavroche. Io sono Courfeyrac.”

Gavroche alzò su di lui un paio di sveglissimi occhi azzurri e lo fissò per qualche istante dritto in volto, senza dar segno di voler prendere la mano tesa. Infine sternutì sonoramente.

“Santo cielo!” esclamò Eponine “Sei fradicio, ‘Roche! Fila di sopra a farti una doccia calda e poi torna qui che ti faccio una cioccolata.” Il suo tono si era addolcito, e lo sguardo si era fatto preoccupato, mentre seguiva il fratellino saltare giù dal tavolo e sparire nel retro.

“Andarsene in giro così a novembre senza neanche una giacca sotto questo diluvio … se non gli viene una broncopolmonite è un miracolo.”

Borbottò per poi spostare l’attenzione su Courf: “Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere tutto questo, non è da me crollare in questo modo, ma sono vagamente disperata. Uno ce la mette tutta per uscire dalla merda in cui si ritrova e puntualmente finisce per caderci dentro sempre di più…” confessò alzandosi, e facendo per raccogliere vassoio e tazze dal pavimento.

“Lascia” si affrettò a bloccarla Courf, posandole una mano su una spalla “ci penso io. E’ normale crollare ogni tanto, ‘Ponine, e non per questo significa che ti arrenderai e ti lascerai sommergere, no?”

Eponine gli sorrise, e un improvviso svolazzare di farfalle riempì lo stomaco di Courfeyrac. Mentre la ragazza si calmava e armeggiava con il bollitore, raccolse il disastro da terra.

Il pensiero che gli corse a casa, a sua madre che serviva la colazione ogni mattina ai quattro fratelli Courfeyrac. La cucina si affacciava sul giardino, oltre il quale la campagna si estendeva a perdita d’occhio. Suo padre sarebbe sceso di corsa dalle scale, avrebbe scompigliato loro i capelli, preso le chiavi della macchina e sarebbe corso in paese, dove avrebbe trascorso il resto della giornata dietro il banco della farmacia.

Pensò alla solitudine di Eponine, ai vestiti fuori misura di Gavroche e strinse i denti: “Non succederà, ‘Ponine. Non ti porteranno via tuo fratello, ti daremo una mano noi … io.”

La ragazza si voltò, posando sul bancone due tazze e rifilandogli un’occhiata stupita: “Non è che non apprezzi il tuo ottimismo, Courf, ma come…”

“Gli daremo ripetizioni, lo aiuteremo a mettersi in pari. Sono una capra in matematica e scienze ma potremmo chiedere a Joly, o ad Enjolras, per le altre materie posso pensarci io. Potresti dimostrare che può vivere da te, e quando tu hai da fare posso fargli da babysitter. Ho tre fratelli maggiori che si sono sempre presi cura di me, ed ero un bambino terribile, ne so qualcosa!”

Eponine lo guardò stupita, un accenno di speranza sul viso: “Davvero? Credi che sia possibile? Oddio, grazie!” Eponine si lanciò oltre il bancone e gli gettò le braccia al collo, posandogli un bacio su una guancia. Courf deglutì, ringraziando mentalmente la presenza del bancone tra di loro.

Si sedette ad un tavolo con la sua tazza e il suo libro di storia moderna, mentre Eponine riapriva il café e qualche avventore faceva capolino. Qualche minuto dopo, Gavroche ricomparve; indossava ancora i suoi jeans troppo corti, ma abbinati ad un paio di pantofole e un maglione di Eponine, caldi e asciutti.

Dopo aver scambiato qualche parola con la sorella, e recuperato una cioccolata gigante, attraversò la stanza e si sedette di fronte a Courf, intrecciando le mani sul tavolo. Courf posò il libro, restituendo lo sguardo.

“Lo fai perché ti vuoi portare a letto mia sorella?” gli chiese serio Gavroche.

Courfeyrac rischiò seriamente di strozzarsi con il the che stava mandando giù e tossicchiò per due minuti buoni, in cui il bambino continuò a fissarlo, serio e imperturbabile.

“Quanti anni hai?” gli chiese infine, boccheggiando.

“Dieci.”

“Ah, wow. Comunque no, non lo faccio per… hem… ” si schiarì la voce e continuò “Mi ricordi com’ero io alla tua età. Odiavo andare a scuola. Passavo tutto il giorno a girovagare per i campi finché uno
dei miei fratelli non mi prendeva per le orecchie e si sedeva a fare i compiti con me. E alla fine ero contento quando avevo dei compiti da fare, perché voleva dire che uno di loro avrebbe trovato il tempo di prendersi cura di me, e perfino studiare diventava divertente.”

Nessuno dei due aggiunse altro, rimasero solo lì a fissarsi, prendendosi le misure.

Quando infine Gavroche ruppe il silenzio disse una parola soltanto: “Merda.”

Courfeyrac sbatté le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto che non era rivolto a lui. Il bambino stava guardando oltre le sue spalle, probabilmente qualcuno che era entrato dalla porta. Si voltò, vedendo un uomo imponente, con corti capelli brizzolati e larghe spalle, fissare un’ignara Eponine dietro il bancone.

“Chi è?” chiese a Gavroche.

“Lo sbirro che ha messo dentro papà.”

“Maledetto Bossuet…” bofonchiò Courf al soffitto, tenendo sott’occhio la scena.

L’uomo si era avvicinato alla cassa, Eponine si era voltata con un sorriso, ben presto pietrificato in un’espressione risoluta: “Ispettore Javert” lo apostrofò con un piccolo cenno del capo “A cosa devo l’onore? Niente più che una pausa caffè spero.”

“In realtà temo di no.” rispose l’uomo, tranquillo “Come sai gestisco il fascicolo della tua famiglia e ho avuto una segnalazione che hai chiesto lo spostamento di tuo fratello sul tuo stato di famiglia. Ho un mandato della Finanza per controllare il tuo contratto e i registri dell’attività.”

Courf si alzò, affiancandosi al poliziotto al bancone con apparente noncuranza: “Abbiamo un problema?”

“Questo dipende da lei” rispose Javert, indicando Eponine “Tu chi saresti?”

Monsieur Courfeyrac” rispose il ragazzo “Sono il professore di ripetizioni di Gavroche, aiuto Eponine a prendermi cura della sua istruzione.”

Lo sguardo che Javert rivolse ad Eponine a quelle parole era uno di approvazione: “Hai già preso provvedimenti? Bene…” commentò.

Eponine drizzò il mento, orgogliosa: “Certo, è mio fratello. Non mi sottovaluti, Ispettore. Non sono mio padre, né mia madre. Vado a prenderle i registri, e non troverà una paglia fuori posto.”

Courf rimase al bancone, mentre Javert si prendeva tutto il suo tempo per esaminare con cura i documenti. Quando infine li restituì alla ragazza lo fece con un accenno di sorriso sulle labbra: “Sembra essere tutto a posto.”

Detto questo esitò un istante prima di togliere un biglietto da visita dalla tasca della giacca: “Ecco, tieni. E’ il numero di telefono del mio ufficio alla Centrale. Se dovesse succedere qualcosa, o se dovessi avere bisogno di qualcosa…” si interruppe, quasi imbarazzato. Quindi attraversò la stanza spedito, puntando alla porta.

Aveva già un piede fuori quando Eponine lo fermò: “Hei, Ispettore! Se hai tempo per una pausa caffè mi trovi qui dal lunedì al sabato dalle 7 alle 7.”

Javert le rivolse un’occhiata da sopra la spalla: “Grazie” le rispose esitante “Ben fatto, ragazza…” concluse rapidamente, affrettandosi ad uscire, sbattendosi la porta alle spalle.

Eponine scoppiò a ridere di cuore: “L’ha detto davvero?”

“Che ti prende, ‘Ponine!” si intromise a quel punto Gavroche, a metà tra il perplesso e l’arrabbiato “Quello ha messo dentro papà!”

“Già” rispose Eponine, tornando seria “E non lo ringrazierò mai abbastanza per averlo levato dalla circolazione. Preoccuparsi per te, cercare di aiutarti, dirti che c’è quando hai bisogno, darti la sua approvazione… queste sono le cose che un padre dovrebbe fare, ‘Roche. E’ così che funziona una famiglia, e prego solo che un giorno io possa essere in grado di dartene una.”

Dopo un attimo di silenzio, Courfeyrac si sentì tirare per una manica e abbassò lo sguardo, Gavroche gli stava accanto, osservandolo serio, le braccia incrociate: “Sono ancora convinto che ti vuoi portare a letto mia sorella; ma sembri uno a posto, per cui, se lei ti vuole, per me va bene. E se vuoi farmi da fratello grande va bene anche quello. Ti prendo in prova, vediamo se sei bravo e poi decido se ti voglio tenere.”

Courf sorrise, chinandosi e tendendogli la destra: “Affare fatto.”

Questa volta il bambino la prese, stringendola vigorosamente, regalandogli un primo, sdentato, sorriso.


Due settimane dopo, l’ultimo giovedì del mese, sarebbe stata la prima occasione per Courfeyrac di mostrare le sue doti di babysitter. Con le ripetizioni se la stava cavando anche meglio di quanto avesse sperato. Né Eponine né Gavroche avevano ancora avuto un appunto da fargli, e doveva anche ammettere che stava iniziando ad affezionarsi al marmocchio. Aveva preso l’abitudine di andare a prenderlo a scuola, e spesso facevano una passeggiata per i boulevard mangiando caldarroste o andavano a giocare a calcio al parco quando il tempo era clemente. Infine si rifugiavano al Musain, dove Eponine li accoglieva con gran sorrisi e gran tazze di cioccolata con panna.

I due fratelli Thénardier si erano intrufolati nella sua routine quotidiana con naturalezza, e Courf li aveva accolti a braccia aperte, iniziando inconsapevolmente a vederli davvero come una famiglia. Con gran stupore di tutti, anche l’ispettore Javert aveva fatto un paio di rapide comparse – “Giusto un caffè” aveva detto con quel suo modo un po’ burbero – dopo la sua prima visita.

Courf si lasciò cadere su una sedia al solito tavolo, dove les Amis stavano iniziando ad arrivare, osservano Enjolras raccogliere con gesti precisi e meticolosi le tavole di tabelline e far spazio a petizioni e quotidiani. Il biondo aveva accettato con piacere di dare una mano, e aveva preso l’abitudine di fare un’ora di lezione di matematica a Gavroche tutti i giovedì prima delle riunioni, Joly faceva lo stesso con scienze i martedì.

Il quasi-medico era costantemente tartassato dal bambino che, appena intuite le paranoie dell’ipocondriaco, non perdeva occasione di fargli credere di essere stato colpito da malanni terminali. Con Enjolras invece era stato amore a prima vista. Gavroche lo guardava con occhi adoranti, seguendolo come un’ombra ovunque, al punto che Grantaire aveva iniziato ad essere vagamente possessivo e, molto meno vagamente, geloso.

“Tieni, campione” stava dicendo in quel momento Enjolras, allungando a Gavroche gli appunti “sono le nove in punto, sei libero!”

Il bambino esitò, serio come solo lui, dall’alto dei suoi dieci anni, riusciva ad essere: “Capo, posso stare anche io alla riunione questa sera?”

Enjolras si lasciò scappare uno dei suoi rari sorrisi e Grantaire, che passava nei paraggi con un vassoio carico di pasticcini e tisane, inciampò in una sedia, rischiando clamorosamente di finire lungo e disteso sul pavimento.

Mmmm, non lo so” rispose il biondo “bisogna chiedere il permesso della baby-sitter. Che dici, Courfeyrac? Può restare?”

“Ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego!” implorò Gavroche.

Courf scambiò un’occhiata complice con Enjolras e cercò di non sorridere: “Guarda che può diventare pericoloso, ‘Roche. Non hai idea di che cosa succede qui dopo le nove. Sorge la luna piena e al capo spuntano i canini e il pelo. Inizia ad ululare a destra e manca e se qualcuno sgarra lo sbrana. Sicuro di voler restare?”

Enjolras reclinò il capo all’indietro, esponendo la gola e scoppiando in una sonora risata. Grantaire, che tornava verso il bancone, sbatté sonoramente contro un tavolo e si rifugiò dietro il registratore di cassa zoppicando e massaggiandosi un ginocchio, guadagnandosi un’occhiata impietosita da Combeferre, che aveva appena fatto il suo ingresso.

Poco dopo, la riunione ebbe inizio, con il nome di Gavroche orgogliosamente aggiunto all’appello. L’unico assente era Marius, che era stato nuovamente invitato a cena dai genitori di Courgette.

“Settimana prossima” iniziò Combeferre, scartabellando tra un plico di fogli, “abbiamo in programma una serie di incontri per sensibilizzare vari gruppi collaterali al nostro. Ho finito di stilare l’elenco di tutte le associazioni che ci hanno dato l’ok insieme alla loro disponibilità oraria, vediamo di incastrarci in modo da coprirli tutti entro giovedì prossimo.”

A quel punto, Combeferre iniziò a distribuire i vari compiti. Courf se ne stava seduto tranquillo, come sempre dall’altro lato di Enjolras, in paziente attesa di sapere dove sarebbe stato mandato.

Gavroche gli sedeva in braccio, concentratissimo, senza perdersi una parola di quello che veniva detto e senza dare cenno di stanchezza, nonostante l’orologio ticchettasse ormai verso le undici.
Infine il bambino camuffò uno sbadiglio e tirò Enjolras per una manica: “Hei, capo! E noi? A noi dove ci mandi?” gli chiese accennando a Courf.

Il biondo diede un’occhiata ai fogli scarabocchiati da Ferre e piegò la testa sulla spalla: “Mi rimangono da coprire il Sindacato degli insegnanti, il Consiglio di Amministrazione dei musei cittadini e il
Comitato di quartiere di Montmartre. Il sindacato è sulla linea della metro di Montmartre e hanno entrambi disponibilità di mercoledì, riusciresti a farcela in tutti e due, Courf?”

Il ragazzo aprì la bocca per rispondere ma Gavroche lo precedette: “Certo che ce la facciamo! Non ci fermeremo davanti a niente! E ora andiamo a letto. Buonanotte, capo!” Disse orgoglioso, saltando giù dalle ginocchia di Courf e guardandolo in attesa: “Vieni?”

Courf sorrise: “Sono da te tra 10 minuti. Inizia a mettere il pigiama e lavare i denti!”

Il bambino salutò i ragazzi e si incamminò verso il retro, ed Enjolras sospirò: “Sicuro di farcela, Courf?”

“Certo, non ci fermeremo davanti a niente!” confermò il ragazzo, facendo da eco a Gavroche.    

“Grazie. Infine ci manca solo il Consiglio di Amministrazione dei Musei. Ci andrei io, ma lunedì ho lezione fino alle 6 e voi siete già tutti strapieni. Speravo di chiedere a Marius, ma è decisamente troppo latitante e troppo poco affidabile ultimamente. Temo che dovremo disdi…”

“Hei, Apollo. Hai dimenticato me.” si fece sentire la voce di Grantaire. Aveva chiuso il locale e se ne stava appoggiato al muro, il grembiule ancora attorno ai fianchi e le braccia incrociate, osservando Enjolras dritto in volto.

Il capo restituì lo sguardo, sorpreso: “Tu? Stai cercando di dirmi che vorresti andarci tu?”

Grantaire sorrise: “Non c’è posto migliore di un museo per un artista, no?”

“Non si tratta di guardare dipinti, Grantaire. E’ questione di spiegare perché ci opponiamo alla Riforma, motivare le nostre azioni, chiedere il patrocinio del consiglio e difendere la nostra causa.”

Grantaire sbuffò: “Grazie, Apollo. La tua fiducia nei miei confronti è sempre commovente.”

Dietro le spalle del biondo, Courfeyrac e Combeferre si scambiarono un occhiata che valeva più di mille parole. La storia andava avanti da ormai troppo tempo perché potesse passare inosservata.

Grantaire cercava in tutti i modi l’approvazione di Enjolras, ed Enjolras si trincerava dietro l’apparente noncuranza di Grantaire per non dargli peso. E più Enjolras non gli dava peso, più Grantaire si intristiva e beveva. E più Grantaire si intristiva e beveva, meno Enjolras gli dava peso.

“Ti darò fiducia quando te la meriterei, Grantaire.”  

Ma ‘Taire era decisamente troppo sobrio per lasciarsi liquidare in quel modo: “E come faccio a meritarmi la fiducia del grande Apollo, se il grande Apollo non mi da la possibilità di poter fare qualcosa di più utile di cucinargli torte vegane e comprargli il latte di soia?”

Enjolras aprì la bocca per ribattere e la richiuse di scatto, osservando il moro con occhi nuovi. E Courf capì che Grantaire aveva vinto quel round. Si sporse dietro la schiena di Enjolras, ancora troppo assorto a guardare ‘Taire, e scambiò un silenzioso e discreto high-five con Combeferre.

Quindi si alzò, stiracchiandosi soddisfatto: “Va bene, gente, vado a imbrandare il pargolo e vi saluto. Buonanotte!”

Un coro di “’Notte, Courf!” gli rispose dal tavolo e, con una strizzata d’occhio a Grantaire, il ragazzo si infilò nel retro, salendo la stretta scala che portava alle due stanze che Eponine occupava al piano di sopra.

Era buio, Gavroche era sommerso da una pila di coperte, acciambellato sul divano, abbracciato al cuscino: “Ti stavo aspettando” disse a Courf quando lo vide entrare.

Il ragazzo si lasciò cadere sulla poltroncina lì accanto e gli scompigliò i capelli. “Sono qui, piccolo. Ora di mettersi a dormire.”

Poco dopo il bambino era crollato. Respirava piano nel sonno, e Courf lo guardava dormire, vegliandolo con affetto. Era assolutamente determinato ad aspettare Eponine sveglio. All’una, la ragazza non aveva ancora dato segni di vita, e Courfeyrac iniziava ad avere un sonoro mal di schiena e continui colpi di sonno. Si alzò e scese al piano di sotto con l’idea di farsi un caffè.

Stava per entrare nel Musain, quando la sua mente annebbiata realizzò che qualcosa non andava. Le luci erano ancora accese e c’erano voci nella sala. In punta di piedi si affacciò dalla porta e un’espressione allibita gli si dipinse sul viso.

Enjolras brandiva un cucchiaino, gesticolando con la sua immancabile prosopopea. Parlava a voce troppo bassa perché Courf riuscisse a capire cosa stesse dicendo ma, a giudicare dall’entusiasmo, era probabilmente politica. Davanti a lui giaceva una fetta gigante di torta alla frutta, abbondantemente sbocconcellata da entrambe le estremità. Il proprietario del secondo cucchiaino sedeva al capo opposto del tavolo, ascoltando in religioso silenzio, con aria adorante: era Grantaire.

Courfeyrac dovette premersi entrambe le mani sulla bocca per impedirsi di urlare, e dovette costringere i piedi a sgattaiolare di nuovo di sopra invece di improvvisare una danza della vittoria.

Non aveva alternative: privato della caffeina, riprese la sua postazione sulla sua poltroncina e si addormentò. Venne svegliato da una mano gelida che gli sfiorava il collo. Sobbalzò e sbatté gli occhi nel buio, mettendo a fuoco la sagoma scura di Eponine, in pigiama, che gli stava appoggiando una coperta sulle spalle. Era bellissima, i capelli scuri che incorniciavano il viso rotondo, dall’aria dolce.

“Scusa, non volevo svegliarti” gli sussurrò.

Courf si alzò, indolenzito e stravolto: “Figurati, non c’è problema. E’ stato un angioletto e dorme come un sasso… Io vado allora.”

Eponine sorrise, guardando il fratellino: “Sono quasi le quattro, puoi restare qui fino a domattina se vuoi.”

Il ragazzo storse il naso, massaggiandosi il collo: “Non vorrei sembrare scortese, ma qualche ora di sonno in un letto valgono lo sbatti di tornare fino a casa.”

“Ho un letto matrimoniale, Courf, direi che c’è decisamente abbastanza spazio.”

Courfeyrac sgranò gli occhi, la famigliare sensazione di farfalle nello stomaco che tornava a farsi sentire: “Lo sai, vero, che Gavroche è convinto che gli faccia da babysitter solo per riuscire a venire a
letto con te?”

“Sì, lo so. Quindi faremo bene a svegliarci prima che si svegli lui. Ah e, Courf… non farti venire strane idee. Sfiorami con un dito e te lo mangio.”

Courf sogghignò, pensando a Cosette, e a quanto Monsieur-pesce-lesso-Pontmercy fosse un cretino: “Farò del mio meglio, ma ti avverto: mi muovo nel sonno…”   
 

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Il capitolo finisce volutamente in sospeso. Nella mia testa i due polli si addormentano ai due capi opposti del letto, la mattina dopo Gavroche li trova abbracciati e se ne torna a dormire sogghignate, approfittando del fatto che nessuno lo ha svegliato in tempo per saltare un giorno di scuola.

Le dinamiche Courf/Gavroche, Javert/Gavroche e Courf/Javert sono decisamente movieverse, Courf/Eponine viene di conseguenza, e l’idea che Javert si adotti Ponine e Roche è un mio personalissimo headcanon.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - POV Combeferre ***


   
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Capitolo 5 – Combeferre


Combeferre iniziava a non sentirsi più le ginocchia: il freddo della neve iniziava a trapelare attraverso i pesanti calzoni in velluto beige che indossava. Ciò nonostante, non abbandonò la sua posizione, accanto alla portiera della sua vecchia Renault, da dove stava cercando senza troppo successo di infilare la chiave nella serratura.

Era vagamente consapevole dello sguardo di disapprovazione che gli stava perforando la nuca. Enjolras era immobile sul marciapiede, le braccia conserte sul petto, grandi fiocchi bianchi che si stavano posando tra i ricci biondi. Era pallido, decisamente infreddolito nella sua immancabile giacca rossa, che si ostinava ad indossare anche in pieno inverno.

Aveva nevicato ininterrottamente tutto il giorno. In pieno stile “Bianco Natale”, Parigi si era svegliata già sommersa da una delicata coltre bianca che, entro sera, era diventata una coperta uniforme su tutta la città.

“Te l’ho detto, ‘Ferre. E’ tempo perso!” la voce di Enjolras era dura come sempre, ma una punta di stanchezza faceva capolino: “Se anche riuscissi a sgelare la serratura abbastanza da far girare la chiave, dovresti ancora spalare la neve tutto intorno, montare le catene, guidare nel traffico di Parigi con il ghiaccio e la possibilità di fare incidenti, e poi dovresti trovare parcheggio. Senza contare il tasso d’inquinamento che la tua auto senza il catalizzatore produrrebbe dato che c’è una temperatura inferiore a …”

“Va bene! Va bene! Va bene!” lo interruppe Combeferre,alzando le braccia al cielo e ruotando il capo sulla spalla per guardare l’amico: “Mi arrendo! Certo che per te il concetto di“a Natale siamo tutti più buoni” proprio non fa testo, eh?”

“Sei ingiusto, Ferre!” rispose Enjolras scrollandosi con una mano guantata i ricci biondi, liberandoli da qualche fiocco di neve: “Mi sono lasciato convincere a trasformare la riunione di stasera in una festa, direi che più buono di così è impossibile!”

“Per la miseria, ‘Joras!” esclamò Combeferre, alzandosi e infilando in tasca le chiavi della macchina, sconfitto: “E’ la Vigilia di Natale! Ci mancava solo che t’incaponissi a voler fare una riunione anche oggi!”

“Nello statuto c’è scritto tutti i martedì e tutti i giovedì, nessuno ha mai parlato di eccezioni.” rispose l’altro. Quindi estrasse dalla tasca interna un’agenda di pelle e fece scorrere l’indice su una pagina: “Se ci muoviamo, riusciamo a prendere la prossima metro, e se tu mi avessi dato retta fin dall’inizio, saremmo riusciti a prendere quella prima.”

“Pietà, Enjolras, ti prego. Dammi tregua!” sospirò Combeferre asciugandosi gli occhiali con un lembo della sciarpa: “Capisco che tu sia agitato perché è la prima festa a cui vai in anni, ma non è il caso di riversare la tua ansia sul sottoscritto.”

Gli occhi di Enjolras si sgranarono in un’espressione indispettita: “Agitato? Non sono affatto agitato! E non è la prima festa a cui vado da anni!”

Combeferre gli sorrise con affetto, prendendolo sotto braccio e incamminandosi. Enjolras lo lasciò fare, Combeferre sapeva di essere l’unico che potesse permettersi di invadere il suo spazio personale, ma solo in momenti particolari, e solo quando erano soli.

“Sono stato il tuo compagno di banco dal primo giorno dalle elementari all’ultimo di liceo, e penso di conoscerti abbastanza bene da capire quando sei palesemente a disagio. Inoltre, ti ricordo che sono il tuo coinquilino dal primo anno di università, e so per certo che in questi cinque anni non hai mai partecipato a nessuna festa, se non a un paio di compleanni a cui ti ho trascinato di peso e da cui sei fuggito appena spente le candeline.”

“Mmm…” rispose solo Enjolras, per poi schiarirsi la voce: “Ci sei mai stato in quel posto?”

“Al Corinthe?” chiese Combeferre, mentre i due imboccavano le scale della metro, reggendosi al corrimano per non rischiare di scivolare:
“No, ma so che è il club preferito di Joly, Bahorel e Bossuet. Courf ci è stato e mi ha detto che è carino, pista da ballo con bar al centro e tutto intorno delle alcove, tipo privè. Ne hanno prenotata una così abbiamo occasione di fare due chiacchiere e bere qualcosa in pace.”

Arrivarono al binario giusto in tempo per l’arrivo della metro e presero posto seduti uno accanto all’altro, in silenzio.

“A che ora passa a prenderci tuo padre?” chiese alla fine Combeferre, guardando l’orologio che segnava le nove e mezza passate.

I due amici venivano dallo stesso paese, a un’oretta di auto da Parigi, e il padre di Enjolras si era offerto di andare a prenderli entrambi l’indomani per portarli a casa. Enjolras non aveva mai fatto la patente; era un ambientalista convinto e credeva nell’utilizzo dei mezzi pubblici. Inoltre sapeva che Ferre gli avrebbe sempre dato un passaggio quando necessario, a patto che la sua vecchia Renault non gli giocasse qualche scherzo.

“Verso le 9.” fu la risposta “Il tempo di fare colazione e si mette per strada, non sai quanto è stato felice di avere una scusa per fuggire a mia madre e alle sua manie di grandezza del pranzo di Natale! Come tutti gli anni inizierà a tirare fuori l’argenteria alle sette del mattino.”

Ferre rise: “I pranzi di Natale a casa tua sembrano le cene di gala del Presidente…” commentò, pensando al grande salone di casa dell’amico, con i suoi mobili d’altro secolo tramandati da generazione in generazione.

“Ci raggiungete per il dolce?”

“Certo, le buone abitudini non si cambiano.”

Combeferre era figlio unico, viveva con i suoi genitori, ormai non più giovanissimi, a un isolato da casa di Enjolras, e tutti gli anni per Natale, dopo il piccolo pranzo, si univano alla sua numerosa ed elegante famiglia per un aristocratico caffè.

Proseguirono il viaggio in silenzio, e riemersero nelle strade di Parigi nella gioiosa atmosfera del Quartiere Latino. Davanti all’insegna luminosa del Corinthe, i buttafuori stavano controllando i documenti di una lunga fila di persone in coda. Ferre diede di gomito a Enjolras, alzando una mano in saluto:“Hei, Bahorel!” chiamò.

Bahorel era appoggiato al muro dell’area fumatori, nonostante il freddo era in maniche di camicia, sfoggiando il tatuaggio sull’avambraccio destro. Stava flirtando con una tizia molto appariscente e molto poco vestita. Al richiamo di Combeferre le strizzò un occhio e spense la sigaretta sotto la suola di uno stivale per poi scambiare qualche parola con uno dei buttafuori, quindi fece cenno ai due amici di raggiungerlo.

“Non è molto etico saltare la coda…” provò a protestare Enjolras, prima che Bahorel lo salutasse con una pacca sulla schiena che rischiò di sfasciargli una scapola.

“Rilassati, capo, è un amico che mi deve un po’ di favori, e gli altri sono già tutti qui! Aspettavamo solo voi!”

Appena aperta la doppia porta del locale, una folata di caldo, alcool, corpi in movimento, luci stroboscopiche e musica a palla si riversò fuori. Combeferre sorrise tra sé, sentendo la mano di Enjolras afferrargli un polso con tutta l’aria di volerglielo stritolare. Trascinandoselo dietro, seguì Bahorel, che si stava facendo largo tra la folla scalmanata che invadeva la pista da ballo.

Per la prima volta Les Amis avevano deciso di festeggiare la vigilia insieme. Alcuni di loro abitavano a Parigi, gli altri avrebbero affrontato il breve viaggio fino a casa la mattina dopo, per raggiungere le famiglie per il pranzo. Per quasi tutti loro era l’ultimo anno di università, l’ultimo Natale insieme.

Quando Combeferre ed Enjolras fecero il loro arrivo insieme a Bahorel, dal tavolo si levò un entusiasta e già alticcio coro di benvenuto.

“Hei!” li apostrofò Joly, alzandosi e lasciando loro posto sul divanetto: “Bene arrivati alla nostra seconda casa!”

Il quasi medico raggiunse Bossuet, che stava chiacchierando con una cameriera che sfoggiava uno sfilacciato caschetto rossiccio e un succinto costume da babba natale. La afferrò per la vita, facendola voltare verso i nuovi arrivati: “Enjolras, Combeferre, lei é Musichetta.” disse fiero, indicandola.

La ragazza ammiccò sorniona ed Enjolras bofonchiò un “Piacere…” lasciandosi cadere tra Grantaire e Feully. Bahorel prese posto a capotavola e Combeferre occupò l’ultimo posto vuoto, sullo spigolo. Stava ancora osservando Musichetta, sovrappensiero, quando realizzò che c’era qualcosa di stonato.

Sbatté un paio di volte le palpebre, notando come le mani di Joly e quelle di Bossuet si intrecciassero attorno ai fianchi della cameriera, ciascuno dei due le stava mormorando qualcosa ad un orecchio e lei, nel mezzo, rideva.

“Non ti stupire” commentò la voce divertita di Bahorel “non chiedermi come, ma va avanti da qualche mese, e funziona. Io non mi lamento, con loro due che si concentrano su Musichetta io ho il campo libero con tutto il resto del campionario!” gli strizzò un occhio e Combeferre tossicchiò, con il sospetto di aver appena capito perché il Corinthe era il club preferito dei tre amici.

“Posso portarvi qualcosa da bere?” chiese Musichetta poco dopo, liberatasi dalla stretta dei due.

Combeferre ordinò un Martini e Grantaire chiese a gran voce un secondo giro di shot per tutto il tavolo, ma Enjolras scosse il capo: “Un analcolico alla frutta per me, grazie.”

“Oh, anche per me!” cinguettò Cosette, seduta con Marius poco lontano.

Seduta di fronte a Combeferre, Eponine sbuffò sonoramente: “Oh anche per me, non bevo alcolici perché la mamma non vuole, e sia mai che mi senta la testa leggera e diventi inopportuna!” la mimò sottovoce, e Courf, al suo fianco, rischiò di strozzarsi con la caipirinha che stava mandando giù.

“Chetta, annegala nella vodka!” continuò Eponine con un sorrisetto.

“Sì, e anche il biondo!” rincarò Courfeyrac a bassa voce “mettici tanta frutta in modo che copra il sapore dell’alcol, mi raccomando!”

Combeferre li osservò scambiarsi un cinque mentre Musichetta se ne andava con gli ordini e scosse il capo con un sospiro divertito: “Voi due siete un’associazione a delinquere.”

In attesa del suo cocktail, Combeferre si concesse un attimo per passare in rassegna il tavolo, guardando con affetto gli amici, uno a uno.

Alla sua destra, Cosette cinguettava nell’orecchio di Marius che la guardava con la sua solita espressione da pesce lesso, accanto a loro
Feully e la sua fidanzata polacca, Agata, avevano deciso di rimediare al problema della barriera linguistica impegnando la bocca in altro modo. Prouvaire stava scribacchiando su un tovagliolo una poesia mentre Sophie lo guardava ridendo e, seduti tra le due coppie, stavano Grantaire ed Enjolras, il moro che continuava a cercare di convincere Enjolras ad assaggiare il suo assenzio.

Alla sua sinistra, Leigle e Joly erano in piedi fianco a fianco, appoggiati alla ringhierà del privé, e osservavano Musichetta che stava arrivando con un vassoio carico, Bahorel era tornato a flirtare con la tizia di prima mentre Courf cercava – momentaneamente senza troppo successo – di convincere Eponine a ballare.

Sospirò, realizzando improvvisamente di essere solo tra gli amici. Spaiato.

Prese il suo cocktail e lo sorseggiò piano, pensando a Claire. Avevano iniziato a frequentarsi quando erano entrambi matricole, erano stati insieme per quattro anni e già Ferre stava pensando al mettere su casa insieme quando lei lo aveva piantato in tronco, prima dell’estate.
Erano passati sei mesi, sei mesi in cui Ferre non aveva più pensato né guardato una donna, senza sentirne la mancanza. Certo, abitare con un coinquilino asessuale come Enjolras aveva aiutato. Ma ora, per la prima volta da molto, molto tempo, si sentiva abbandonato. Solo. 

Rimase immerso nei suoi malinconici pensieri fino a quando un’improvvisa agitazione attorno al tavolo lo fece riscuotere. Cosette si era alzata, prendendo Marius per mano e conducendolo verso la pista da ballo.

Subito, Eponine sogghignò, battendo una mano su una spalla a Courfeyrac: “Ed ecco l’alcol che entra in circolo amico mio! Andiamo, è tempo che ‘Ponine faccia vedere a Monsieur Marius di che cosa è capace!” annunciò sistemando le spalline del vestitino nero che indossava, accentuandone la scollatura, già generosa.

Courfeyrac deglutì vistosamente, alzandosi a sua volta, cercando di non guardare con troppa insistenza il decolté dell’amica o l’orlo sfrangiato del vestito che lasciava ampiamente scoperte le lunghe gambe.

“Certo.. Marius, sempre Marius…” bofonchiò in un tono sconsolato che sfuggì ad Eponine ma non a Combeferre, che gli lanciò un sorriso solidale per poi osservare i quattro immergersi nella calca.

Poco dopo Eponine aveva iniziato a strusciarsi contro Courf in modo molto ambiguo e con un equilibrio molto precario. Probabilmente, l’intento originale era stato di far ingelosire Marius, ma quello non aveva occhi che per Cosette che, resa un po’ più coraggiosa dall’alcol, sembrava divertirsi un mondo.

Non ci volle molto prima che Eponine sembrasse dimenticarsi completamente dell’altra coppia, lasciandosi andare e ballando senza contegno. Combeferre sogghignò bonario, notando come Courf avesse un’aria molto accaldata e sembrasse fortemente indeciso tra il tenere Eponine a distanza di sicurezza o stringerla ancora più vicino.

A quel punto Feully e Agata si unirono alle danze e Sophie si alzò, dando un bacio sulla guancia a Jean e infilandosi il cappotto: “Io devo scappare, ragazzi, ho due fratellini piccoli a casa e i miei mi aspettano per preparare la grande apertura dei regali domattina. Buon Natale!”


Sophie stava per imboccare i gradini verso la pista da ballo quando si voltò con un sorrisone sul viso, strizzando un occhio al suo ragazzo: “Bhe, fa piacere vedere che Courf si è trovato una donna! Fatemi sapere se dura, le premesse sembrano buone!”

Sganciata quella bomba, era sparita nella folla, lasciando Combeferre e Prouvaire con i colli protesi, curiosi di capire a cosa alludesse.

Bastarono due secondi ai due per individuare Courfeyrac, e rimanere di sale. Lui ed Eponine erano avvinghiati in un confuso agglomerato di gambe e braccia contro una colonna, inequivocabilmente impegnati in una sessione di convinto pomiciamento.

Prima che uno dei due potesse commentare qualcosa, una sonora risata li fece girare di scatto. Enjolras stava ridendo, di cuore. Davanti a lui, sul tavolo, c’erano un paio di bicchieri vuoti e gli occhi chiari iniziavano ad essere un poco appannati.

“Che è successo di così divertente da far ridere il nostro marmoreo capo?” chiese Prouvaire, allibito.

A rispondergli fu Grantaire, decisamente alticcio: “Apparentemente Apollo trova divertente il fatto che gli abbia proposto di ballare con me.”

Jean e Ferrre si scambiarono uno sguardo a metà tra il divertito e il preoccupato, mentre Enjolras litigava con i primi bottoni della camicia, sbottonandoli, con Grantaire che lo mangiava con gli occhi.

“Sarà una lunga notte…” mormorò Jean.

“Molto lunga” confermò Ferre, buttando giù l’ultimo sorso di Martini.

Tempo di mezzanotte meno un quarto, Marius e Cosette avevano diviso un taxi con Feully e Agata, facendosi portare a casa. Bahorel stava cercando di convincere il suo rimorchio a passare la notte con lui, Legle e Joly erano seduti al bancone in attesa che Musichetta finisse il turno, Enjolras, Combeferre e Jean erano pronti ad andare e Grantaire era ubriaco marcio.

Eponine e Courfeyrac si erano finalmente scollati e aspettavano i quattro amici fuori dal locale. Aveva smesso di nevicare, e una bellissima stellata brillava nel cielo.

L’aria gelida sembrò dare una scossa ad Enjolras, che si passò una mano sugli occhi, tornando mediamente lucido.

“Un secondo” commentò, notando Eponine e Courf tenersi per mano “quello quando è successo?”

“Mentre tu eri impegnato altrove…” gli rispose Courfeyrac con un sogghigno, osservando Grantaire ciondolare lì accanto.

“Mmm, che piani avete ora?” chiese il biondo, soprassedendo.

Eponine sorrise: “Passiamo a prendere mio fratello e ci dirigiamo verso Maison Courfeyrac. Mia madre andrà in prigione da mio padre domani, e voglio che mio fratello abbia un Natale come si deve. I genitori di Courf sono stati così carini da invitarci a trascorrere le vacanze con loro, facciamo il viaggio nella notte così Gavroche può aprire i pacchetti sotto l’albero domani mattina.”

Combeferre sorrise, genuinamente felice. Diede una pacca su una spalla a Courf e abbracciò Eponine, posandole un bacio leggero sulla fronte: “Sono davvero felice, passate delle buone feste. Quando riapre il Musain?”

“Oh, quello devi chiederlo al mio socio.” Rispose Ponine, adocchiando Grantaire, che si sorreggeva a Jean: “Magari quando gli passa la sbronza…”

Scambiati gli ultimi auguri, i due si incamminarono, abbracciati, avanzando il più velocemente possibile nella neve verso la macchina di Courf.

“E così rimangono i tre Moschettieri.” commentò Combeferre con un piccolo sospiro.

Jean ridacchiò: “Andiamo, vi accompagno alla fermata della Metro e poi porto a nanna D’Artagnan, tanto sono di strada.”

Enjolras faceva strada, Ferre e Jean che, un lato ciascuno, sorreggevano Grantaire, che aveva iniziato a canticchiare tra sé.

“Bhe, almeno gli ha preso la sbronza allegra…” commentò Combeferre.

“Sì, ma allegro o no, se continuiamo a questa velocità perdiamo la metro!” borbottò Enjolras, inarcando un sopracciglio con aria di disapprovazione.

“Via, via, capo” ridacchiò Jean “con tutto l’alcol che ti sei scolato stasera, non hai proprio alcun diritto di fare il moralista. Per uno normalmente astemio come te è già un miracolo che tu non sia agonizzante a terra.”

“Io non agonizzo…” ribatté Enjolras, mettendo il broncio.

Alla sua espressione infantile gli altri due risero. Quando arrivarono alla metro però, il buon umore si infranse davanti al cancello chiuso. Tra la neve e il peso morto di Grantaire da trascinarsi dietro, avevano mantenuto una velocità di crociera decisamente lenta, perdendo l’ultima corsa.

“Oh, perfetto!” esclamò Enjolras, alzando gli occhi al cielo.

Grantaire nel frattempo si era liberato dalla presa dei due amici e si era aggrappato ad un lampione, girando in tondo canticchiando la vie en rose.

Gli altri tre erano riuniti in un capannello, cercando di discutere il da farsi. Fu in quel momento che Grantaire si staccò dal lampione, avvicinandosi ad Enjolras con passo sbilenco. Gli passò le braccia dietro alla nuca, aggrappandosi al suo collo e mormorò un “Buon Natale, Apollo” prima di chiudere gli occhi e annullare la distanza tra i loro visi, baciandolo.

Tutto era accaduto così rapidamente che, per un istante, nessuno reagì.

“Oddio!” esclamò infine Jean, aggrappandosi al braccio di Combefferre: “Chiama un’ambulanza, ora lo ammazza di botte! Anzi no, chiama direttamente la polizia e denuncia un omicidio!”

Combeferre gli posò una mano sulla bocca, zittendolo: “Shhhh… stiamo assistendo ad un momento unico nella storia.”

“Cosa?” riuscì a mugugnare Jean.

“Il primo bacio di Enjolras.”

A quel punto Jean non disse più nulla, a bocca aperta spostò lo sguardo su Enjolras, che se ne stava impalato, gli occhi chiari sgranatissimi, le mani infilate nelle tasche com’erano prima che Grantaire gli si avvicinasse. Sembrava congelato.

Grantaire era ancora appeso al suo collo, il capo posato sulla sua spalla destra e gli occhi chiusi, con tutta l’aria di uno in pace con il mondo, un sorriso sognante sulle labbra.

Dopo qualche istante, Jean si chiarì la voce, senza lasciare andare Combeferre e iniziando a tirarlo verso il lato opposto della strada: “Ok, visto che Marius è da Courgette e Courf sta tornando a casa, Ferre può venire a dormire da me.”

A queste parole Enjolras sembrò riscuotersi. Tolse le mani dalle tasche, esitando, senza ben sapere dove metterle. Spostò gli occhi da Grantaire ai due amici, a metà tra lo spaventato e l’arrabbiato: “E mi lasciate qui così? Che ci faccio con lui?”

“Bhe qualcuno deve pur riportarlo in ostello, giusto? Buonanotte, capo!”

“Ci vediamo sotto casa alle 9 e mezza per quando arriva tuo padre, Enjolras. Buon Natale!”

Detto questo, Prouvaire e Combeferre si avviarono a passo svelto, combattendo l’impulso di voltarsi a guardare cosa stesse succedendo alle loro spalle, tra i due che si erano lasciati dietro.

“Non avevo mai pensato che potesse essere la risposta!” commentò Jean poco dopo.

“Di cosa stai parlando?” chiese Combeferre, perplesso.

“Enjolras! Non è assessuale, è semplicemente gay! E’ per quello che non si è mai filato nessuna ragazza ma non ha ammazzato di botte Grantaire! Perché sotto sotto gli è sempre piaciuto!”

“Dici?”

“Trovi altre spiegazioni?”

“No, in effetti, no.” Rispose Ferre con un sospiro, prima di chiedere con tono preoccupato: “Credi sia saggio fargli passare la notte insieme?”

“No, ma di certo è divertente. Aspetta che dica a Courf che cosa si è perso…”

“Per carità, Prouvaire! Se questa storia diventa di dominio pubblico, sarà noi che Enjolras ammazzerà di botte!”

“Vedremo. Secondo me presto o tardi ci ringrazieranno entrambi, ‘Ferre. Non avremmo potuto fargli un regalo di Natale migliore neanche provando ad organizzare il tutto.”

Ferre scosse il capo: “Ammesso che entrambi sopravvivano alla notte.”

Jean gli strizzò un occhio, arrestandosi davanti alla porta di casa: “Una birra su Enjolras?”

Combeferre alzò gli occhi al cielo con un gran sospiro. Si passò una mano sul viso, pensando al bambino dai riccioli d’oro che non aveva amici perché passava gli intervalli a leggere invece che a giocare a pallone, all’adolescente riservato che buttava nel cestino con aria imbarazzata i bigliettini che le ragazze gli facevano trovare nell’armadietto, al giovane uomo che si trincerava dietro a ideali e sogni, rifugiandosi in biblioteca fino a notte fonda ogni volta che Combeferre passava la sera a casa con Claire.

“Non sopravvalutare il nostro marmoreo Apollo, Jean. Se uno dei due deve uscire a pezzi da questa storia non è di sicuro Grantaire.”

E sapeva che, come sempre, lui sarebbe stato lì, con la sua presenza costante e sicura, pronto a fare da parafulmini, in qualsiasi modo Enjolras avrebbe reagito. 


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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - POV Enjolras ***


Capitolo 6 – POV Enjolras

I nostri eroi ce l’hanno fatta e hanno portato a compimento l’opera. E’ un capitolo lunghetto, in cui succedono un sacco di cose e il tempo scorre molto velocemente. Vi chiedo scusa se questo vi crea qualche scompenso, ma è l’unico modo che ho trovato per mantenere una coerenza temporale con gli eventi e raccontare tutto dal POV di Apollo. Spero anche che non troviate Enjolras OOC, ho tentato di dargli quel pizzico di umanità in più che a volte rimane nell’ombra. Fatemi sapere cosa ne pensate e, come sempre, se trovate errori o refusi segnalate e avrete la mia gratitudine eterna.

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Il secondo semestre dell’anno accademico era volato. Enjolras aveva alzato il capo dai libri un pomeriggio, concedendosi per un attimo di far vagare lo sguardo fuori dalle grandi vetrate della biblioteca, e aveva scoperto che la primavera era arrivata.

Il parco del campus era illuminato dal sole di maggio, gli alberi erano in fiore, e ovunque capannelli di studenti stavano distesi sull’erba, tra panini e ripassi.

Tuttavia, nonostante l’arrivo della bella stagione, c’era ben poco di festoso in Università. Agli inizi di febbraio, appena dopo il rientro dalle vacanze invernali, era stato annunciato agli studenti che la Riforma dell’Istruzione era stata approvata. Sarebbe entrata ufficialmente in vigore agli inizi di giugno e, con l’inizio del nuovo anno scolastico a settembre, i fondi sarebbero stati dimezzati.

Quando Grantaire, in una delle prime riunioni del nuovo anno, aveva commentato che erano fortunati, perché la riforma non avrebbe toccato tutti loro che, con un po’ di fortuna, si sarebbero laureati entro l’estate, aveva seriamente rischiato di ricevere un pugno dritto sul naso.

Grantaire. Enjolras scacciò il pensiero con un vago fastidio, appoggiando gli occhiali sul tavolo e massaggiandosi il naso con un sospiro. L’incidente della notte di Natale non era mai stato affrontato, nessuno ne aveva mai parlato.

Sapeva che Combeferre e Prouvaire avevano raccontato tutto a Courfeyrac, se n’era accorto dai sogghigni e dalle allusioni che quest’ultimo gli aveva lanciato più di una volta. Da parte sua, Enjolras aveva fatto di tutto per mettere a tacere illazioni e battutine, e aveva ripreso a trattare Grantaire con la solita freddezza. Eppure, nei momenti più impensabili, il ricordo di una fetta di torta condivisa in piena notte o la sensazione di quelle labbra fredde e sottili appena posate sulle sue facevano capolino, distogliendo la sua attenzione dalla tesi e dai suoi piani per cambiare il mondo.

“Enjolras!” la voce di Combeferre alle sue spalle aveva un tono insistente, e al tempo stesso preoccupato, come se lo avesse chiamato più volte senza ottenere risposta.

Il biondo si voltò nella sedia, adocchiando l’amico che era appena rientrato in casa, la borsa a tracolla e un plico di appunti sotto braccio.

“Hei, bentornato. Come è andato l’appuntamento con la relatrice?” gli chiese.

“Benone, l’ho portata a bere un caffè al Musain - sorrise Combeferre - Avresti dovuto vedere Courf e Gavroche, seduti a un tavolo pieno di libri e quaderni, uno impegnato con la tesi e l’altro con gli ultimi compiti in classe del quadrimestre. Sono davvero teneri, e le cose tra Eponine e Courf sembrano andare alla grande. Oh, e Martine ha detto che la mia tesi è perfetta, abbiamo concordato la discussione per il 28, così il 27 posso venire alla tua!”

Enjolras si stiracchiò, indossava ancora i calzoncini e la t-shirt con cui aveva dormito, se le quattro ore appisolato sul divano potevano considerarsi dormire: “Fammi capire, chiami la tua relatrice per nome e invece di un appuntamento nel suo ufficio la porti fuori a bere qualcosa. Interessante…”

Inaspettatamente, Combeferre arrossì. Si schiarì la voce, indicando la pila di carta che occupava il tavolo della cucina, cambiando argomento: “Tu piuttosto? Come sei messo?”

“Quasi finito, ma l’organizzazione della manifestazione mi ha portato via tempo e sono in netta carenza di sonno.”

Ferre annuì, dando un’occhiata all’orologio, che segnava le cinque e mezza: “Va bene, ascolta, ti metto su un caffè e scrivo su Facebook che la riunione di stasera salta. In compenso facciamo una cena qui da noi con solo la vecchia guardia e vediamo di venire a capo della situazione una volta per tutte.”

Enjolras gli rivolse un’occhiata riconoscente, annuendo: “Grazie, ‘Ferre…”

Per le due ore successive tornò ad immergersi nell’ultima correzione della sua tesi, che recava il provocante titolo di “La rivoluzione è un dovere morale”. Alle otto meno un quarto, Combeferre lo spedì a rendersi presentabile, iniziando a spadellare la cena.

Enjolras era appena uscito dalla doccia, quando sentì suonare il campanello. Sentendo l’urlo di Combeferre dalla cucina “Mi si attacca la crepe!” sospirò. Avvolgendosi attorno ai fianchi snelli un asciugamano e tamponandosi i capelli bagnati con un altro, si diresse alla porta, sgocciolando sul pavimento della sala.

Aprì la porta e il “ciao” gli morì in gola quando vide Grantaire sul pianerottolo, gli occhiali da sole che tenevano fermi i ricci scuri sulla fronte, una scatola di cartone tra le mani. Non erano così vicini da mesi, non avevano una conversazione decente da mesi, ed Enjolras era mezzo nudo sulla porta di casa.

“Ho… ho portato il dolce” mormorò con un filo di voce Grantaire dopo un istante, deglutendo forzatamente, senza sapere dove guardare.

Enjolras si affrettò a farsi da parte, lasciandolo entrare. Aveva il cervello improvvisamente annebbiato, per qualche ragione non riusciva a trovare niente da dire.

“Courf ha dato un passaggio a me ed Eponine, stanno cercando parcheggio…” aggiunse ancora Grantaire, e ancora una volta le sue parole caddero nel vuoto.

Fu in quel momento che Combeferre emerse dalla cucina, armato di paletta e grembiule. Enjolras lo vide spostare lo sguardo tra i due e gli lanciò un’occhiata di supplica che l’amico colse al balzo: “’Taire! Proprio l’uomo che speravo di vedere! Non è che mi daresti una mano con le crepes?”

R balbettò un assenso, dirigendosi verso la cucina. Enjolras si rifugiò in camera, annaspando nell’armadio alla ricerca di un paio di jeans e una camicia pulita. Una volta vestito si sedette sul letto, prendendosi la testa tra le mani. Sentiva le voci famigliari degli amici dalla sala, eppure l’unica che gli rimbombava nelle orecchie era quella, allegra e canzonatoria come sempre, di Grantaire.

Per la prima volta in mesi, Enjolras scese a patti con il pensiero che si era tanto a lungo negato: gli era mancato. Gli era mancato sentirsi lo sguardo di quei beffardi occhi verdi addosso, gli era mancato il sentirsi chiamare Apollo, gli era mancata la sfida perenne che Grantaire sapeva lanciargli con una sola occhiata o una sola parola.

Avevano passato quattro mesi ad evitarsi e, per la seconda volta della sua vita, Enjolras si sentì un codardo.

La prima volta era stata quattro mesi prima, la notte di Natale. Aveva portato Grantaire in ostello sorreggendolo quasi di peso, accettando con inaspettato piacere il suo peso addosso e il contatto con il suo corpo esile. Lo aveva aiutato a mettersi sotto le coperte e si era steso accanto a lui nel letto singolo dell’ostello, perfettamente vestito, sopra il piumone. Non aveva chiuso occhio, lo aveva guardato dormire, aveva lasciato che lo abbracciasse nel sonno, posandogli la testa sul petto, ripromettendosi di voler essere lì a vederlo svegliarsi, a guardare la reazione che avrebbe avuto nell’aprire gli occhi e trovare Enjolras al suo fianco. E alle prime luci del mattino era sgattaiolato via, aspettando nel gelo che la metro riaprisse.

Di che cosa aveva paura? Aveva cercato a lungo una risposta, ne aveva trovate parecchie. Paura di aver bisogno di qualcuno, paura di scendere a patti con le sue debolezze, paura di accettare una sessualità di cui non si rendeva pienamente conto. Ma la consapevolezza che lo aveva colpito più duramente era la paura che per Grantaire fosse solo un gioco. Sapeva che ‘Taire aveva la fama del libertino, era un cinico senza ideali e senza legami, ed Enjolras era arrivato a dover ammettere che teneva troppo a Grantaire per rischiare di scoprire di essere solo l’ennesimo dei suoi sfizi: la seduzione di Apollo.

Un leggero bussare alla porta lo riscosse, il viso delicato di Cosette fece la sua comparsa: “Enji, Combeferre dice che è in tavola.”

Chiunque altro sarebbe morto per averlo chiamato così, ma Cosette possedeva l’innata dote di annichilire chiunque con il suo sorriso innocente, per cui Enjolras si limitò ad alzarsi e seguirla nell’altra stanza, dove il gruppo ristretto degli originali amis aveva preso posto attorno al grande tavolo, su cui troneggiavano pile di crepes e bottiglie di vino.

Con un’inaspettata risolutezza, Enjolras si avvicinò, dando un colpetto alla sedia di Joly: “Questo è il mio posto, Joly. Ti scoccia sederti accanto a Feully?”

Il medico lo guardò un attimo perplesso prima di alzarsi e spostarsi, lasciando che Enjolras prendesse posto tra Marius e Grantaire.

Quest’ultimo lo sbirciò con la coda dell’occhio, palesemente stupito, per poi appoggiarsi comodamente contro lo schienale della sedia e sollevare una bottiglia di Bordeaux. Si voltò verso Enjolras, piantandogli gli occhi addosso: “Vino, Apollo?”

Una vampata improvvisa di calore prese vita nel basso ventre di Enjolras, vagamente consapevole che la conversazione attorno al tavolo si era bloccata e decisamente consapevole del sorriso sghembo sulle labbra, troppo vicine, di Grantaire.

“Sì, grazie.” Si limitò a rispondere, miracolosamente riuscendo a tenere la voce salda. Taire gli riempì il bicchiere, facendo poi passare la bottiglia tra i commensali.

Quando tutti furono serviti, Enjolras si schiarì la voce: “Un brindisi, amici. Al giorno prima della tempesta, che rapido si avvicina, e alle barricate di libertà. Quando i nostri ranghi inizieranno a serrarsi, prenderete il vostro posto al mio fianco?”

Un coro convinto rispose alle sue parole.”

Al vino seguì il cibo, e ben presto un vivace dibattito si era acceso, avente come argomento primario i progetti di protesta ormai quasi pronti ad entrare in atto. Solo Cosette ed Eponine, sedute fianco a fianco a capotavola, sembravano più interessate a decidere quale negozio di scarpe avesse già iniziato i saldi di fine stagione, ma ben presto, colta l’occhiata mortale di Enjolras, tornarono a concentrarsi su argomenti meno frivoli.

“Abbiamo una data, capo?” chiese Bahorel, agenda alla mano, mentre Joly e Courfeyrac sparecchiavano.

Enjolras annuì, muovendosi un poco sulla sedia. Da quasi un quarto d’ora aveva un fastidioso crampo alla gamba sinistra, che si stava sforzando di tenere il più lontano possibile da quella destra di Grantaire, operazione tutt’altro che banale dato il numero elevato di sedie ammassate nello spazio ristretto attorno al tavolo. “L’entrata in vigore della riforma è confermata per il 5 di Giugno, e in quel giorno ci sarà il corteo di protesta, l’occupazione dell’Università inizierà nella notte tra domenica 5 e lunedì 6.”

Jean si grattò pensieroso una guancia, commentando: “Questo ci lascia all’incirca un mese esatto, e di cose da fare ce ne sono ancora parecchie, volantinare, fare i cartelloni, raccogliere le firme, organizzare i turni dei picchetti e via dicendo. Dove la vuoi fare la manifestazione di protesta?”

“Davanti al Palazzo del Ministero dell’Istruzione”  fu la risposta di Combeferre “partiremo dall’Università e arriveremo a alla piazza.”

“Gente,” si intromise Feully “Io lavoro e voi siete tutti, o quasi” precisò lanciando un’occhiata a Bahorel e Legle “alle prese con le tesi, ammesso che dopo l’occupazione vi facciano ancora laureare. Credo sia il caso di affidare il grosso del lavoro pratico ai giovinastri della Society e noi occuparci della supervisione. Che ne dite?”

Enjolras annuì, nonostante fosse palese che l’idea non lo entusiasmasse più di tanto: “Sì, è giusto così. Noi abbiamo messo in piedi Les Amis cinque anni fa, ma la nostra parentesi universitaria è ormai al termine ed è tempo di lasciare spazio ai giovani.”

“Apollo, mi fai sentire con un piede nella fossa.”

Enjolras si voltò nella sedia per fronteggiare Grantaire, un’espressione serena sul volto perfetto: “Dei ed eroi non muoiono, ciò che fanno in vita riecheggia nell'eternità.”
Esitò solo un istante prima di aggiungere: “Ma che cosa te lo dico a fare? Grantaire, tu sei incapace di credere, di pensare, di volere, di vivere o morire.”
Avrebbe potuto essere un critica, o uno dei mille rimproveri di Enjolras a Grantaire, non fosse stato per l’insolito, inspiegabile, quasi beffardo sorriso sulle labbra del biondo.

Un’occhiata tacita passò tra i due e Grantaire alzò il bicchiere, andando a rispondere: “Lo vedrai.”
 
***

Altri giorni di sole e caldo, altre settimane di frenetici preparativi e ultime revisioni alle tesi di laurea. Ma, tempo dei primi di giugno, ogni pensiero che non fosse strettamente legato alla Rivoluzione aveva completamente abbandonato la mente di Enjolras, che si faceva in quattro giorno e notte per supervisionare ogni gruppo di studenti che stava lavorando per preparare l’occupazione.

La mattina del 5, alle 7 in punto, il biondo era il primo a presenziare davanti al cancello principale dell’Università, iperattivo e con già quindici caffè in corpo, al suo fianco, come sempre, Combeferre, che era stato buttato giù dal letto all’alba.

Enjolras stava passeggiando nervosamente avanti e indietro quando vide una sagoma famigliare avanzare a passo baldo lungo la strada, un fagotto voluminoso sotto braccio.

“Heilà, Apollo!” Grantaire alzò la mano libera in cenno di saluto, avvicinandosi agli amici: “Ti ho portato un regalo.”

Enjolras sollevò un sopracciglio, apparentemente scettico, ma in realtà piacevolmente stupito e divorato dalla curiosità. Con un gesto teatrale, Grantaire srotolò il fagotto, che si rivelò essere tutt’altro che un fagotto ma un grande stendardo rosso. Lo tese a Enjolras con un piccolo sorriso, stringendosi nelle spalle magre: “Si intona alla giacca…” commentò, accennando alla giacca rossa che il biondo indossava.

Enjolras se lo rigirò tra le mani, colpito e incredulo. Solo ad un esame più approfondito notò che lungo il bordo della stoffa rettangolare erano state scritte delle parole nella calligrafia sbilenca di Grantaire.

Do you hear the people sing? Singing the song of angry men? It is the music of a people
who will not be slaves again! When the beating of your heart echoes the beating of the drums,
there is a life about to start when tomorrow comes!”


Enjolras sgranò gli occhi, cercando lo sguardo dell’altro: “’Taire…”

“Ah, no!” rise Grantaire, alzando le mani e scuotendo il capo: “Non è merito mio, con le parole proprio non ci so fare, è frutto di Prouvaire, è un estratto della poesia che ha scritto per la grande occasione.”

Proprio in quell’istante, con un colpo di clacson, la macchina di Courfeyrac si accostò al marciapiede, lasciando scendere Jean, Feully, Eponine e Gavroche.

“Allora, capo? Che ne pensi?” chiese Prouvaire.

Nello stesso istante, la vocetta acuta di Gavroche si fece sentire: “Pronti alla Rivoluzione, capo! Che si fa?”

Enjolras scosse i ricci biondi, rifilando un’occhiataccia a Eponine: “Si può sapere cosa ti è venuto in mente di portarti anche lui?”

La ragazza si strinse nelle spalle: “Me lo ha chiesto come regalo per la promozione, e in più mi sarebbe toccato legarlo a una sedia!”

Alla spicciolata, il piazzale dell’Università iniziò a riempirsi: gli altri membri della society, studenti e persone di ogni tipo si stavano accalcando attorno ad Enjolras.

Qualcuno gli aveva trovato un sostegno su cui montare lo stendardo, che ora sventolava nel venticello del mattino.

Quando il corteo si mise in movimento, la coda si snodava lungo le vie ed era impossibile precisarne il numero; chi diceva duecento, chi diceva duemila, la verità, probabilmente, da qualche parte nel mezzo.

Vedendoli sfilare per le vie e le piazze, convinti e fieri, altri si univano alle loro fila. Enjolras era così emozionato da sentirsi sul punto di esplodere. Conservava il solito aspetto tranquillo e fiducioso, ma una miriade di sentimenti lo attraversavano mentre guidava quella marea umana verso quella che lui vedeva come l’alba di un’era di libertà. Combeferre procedeva come sempre alla sua destra, ma Courfeyrac si era spostato alle sue spalle, con Eponine e Gavroche. Il buco lasciato da Courf era stato occupato da Grantaire, che procedeva baldanzoso guardandosi attorno con l’aria di un turista che si era trovato in mezzo a quel parapiglia per caso. Gli altri li seguivano in ordine sparso, ma nelle prossime vicinanze.

Il corteo sfilò per buona parte della mattina, su e giù per il centro di Parigi, vociando e ingrossandosi, per poi arrivare a destinazione. Davanti al palazzo del Ministero della Pubblica Istruzione un piccolo drappello di gendarmi stazionava come prassi davanti al portone. L’agitazione suscitata dall’arrivo improvviso di una folla arrabbiata nella piazza era palpabile.

Enjolras fece arrestare il suo tumultuoso seguito e lasciò che Jean prendesse il megafono, leggendo con enfasi i versi che aveva scritto per l’occasione. Le parole vennero subito riprese dalla gente, che iniziò a ripeterle e ripeterle, quasi trasformandole in un inno.

Urla di protesta, insulti e impeti di violenza minacciarono di scatenarsi tra le fila di coloro che si erano aggiunti alla manifestazione con il solo scopo di protestare, ma non appena Enjolras arrivava tra i capannelli e catechizzava i sovversivi con poche parole ad effetto, la situazione tornava sotto controllo.

Enjolras non si rese conto di quando, nel corso dell’assedio al palazzo, avesse perso di vista Grantaire. Stava appunto iniziando a prendere in considerazione l’idea di andarlo a cercare, quando si sentì tirare per una manica. Abbassò gli occhi, trovandosi di fronte Gavroche.

“Hei, capo” esordì il bambino con fare serio “la vedi mia sorella?” chiese, indicando con un dito Eponine, poco distante, immersa in una fitta conversazione con un uomo di mezza età: “E’ l’ispettore quello, lo sbirro che ha messo dentro papà e che ci sta dando una mano. Tira brutta aria qui…”

Poco dopo Eponine arrivò di corsa, tallonata da Courfeyrac: “Enjolras, Javert dice che ci sono corpi di polizia in arrivo, squadre antisommossa e tutto, pare che qualcuno si sia preso un po’ male.”

Enjolras annuì, spostando lo sguardo tra i due e Combeferre: “Bene, abbiamo detto ciò che avevamo da dire qui, torniamo verso l’Università e iniziamo l’occupazione, togliamoci dallo scoperto.”

Il ritorno verso l’Università fu decisamente più veloce dell’andata, e non altrettanto trionfale. Enjolras fece del suo meglio per non farlo sembrare una fuga, e si fermò sulla porta dell’università, forzata aperta, ad assicurarsi che tutti entrassero. Non poté fare a meno di notare che i loro ranghi si erano già notevolmente ridotti: curiosi, paurosi, e non convinti avevano ben pensato di tornare a casa per ora di pranzo.

Quelli rimasti presero posto nel cortile centrale, mangiando e riposando, mentre qualcuno montava la guardia fuori e cartelli e striscioni recanti la scritta “Occupiamo per tutelare il nostro futuro” e “Ci ribelliamo perché è nostro dovere” facevano capolino da ogni finestra e ogni cancellata.

Il pomeriggio trascorse lento, qualcuno si unì al gruppo, tra cui Cosette (che aveva dovuto presenziare al pranzo della domenica in famiglia), nessuno se ne andò.

Il sole iniziava a tramontare quando Combeferre, Courfeyrac e Marius raggiunsero Enjolras, che per tutto il tempo se ne era stato appollaiato sul davanzale della finestra del rettorato, al primo piano, esattamente sopra il portone principale.

“Un penny per i tuoi pensieri.” Sorrise Courf, notando che il biondo neanche si era accorto del loro arrivo.

Enjolras si voltò di scatto, piegando il collo, sgranchendolo: “Mmmm, è solo che mi sembra tutto troppo tranquillo.”

Combeferre si tolse gli occhiali, pulendoli con un fazzoletto, andando a rispondere: “E’ un’occupazione, Enjolras, il che significa lento e costante logorio, noi dentro e il resto del mondo fuori. Un po’ come un assedio.”

“Lo so” rispose Enjolras con un piccolo sospiro “Eppure mi sembra troppo strano che nessuno ci sia venuto a dire niente nemmeno quando abbiamo forzato il cancello dell’Università!”

“Oh verranno, vedrai!” rispose Marius, avvicinandosi e affacciandosi a sua volta alla finestra: “Spero solo che il padre di Cosette non venga a sapere che sto facendo una cosa del genere, o tanti saluti alla benedizione paterna.”

“Lasciatelo dire, Potmercy” sospirò Courf, esasperato “hai rotto!”

Combeferre ridacchiò: “Mai dire mai, potrebbe addirittura apprezzare il fatto che tu sia un giovane uomo pronto a combattere per i tuoi ideali.”

“Ciò che conta” aggiunse Enjolras, serio “E’ che tu decida una volta per tutte quali sono le tue priorità, Marius. So che Cosette deve tornare a casa per cena, se vuoi andare con lei e toglierti da qui nessuno te ne avrà a male.”

“No” rispose Marius, deciso “il mio posto è qui. Combatto con voi.”

Enjolras lo gratificò con uno dei suoi rari sorrisi, al quale seguirono qualche attimi di silenzio, di quiete, prima che il biondo si schiarisse la voce: “Avete per caso visto Grantaire?” chiese, con fare troppo casuale per risultare credibile.

Fece accuratamente finta di non notare lo sguardo scambiato tra Courfeyrac e Combeferre, mentre Marius andava a rispondere che no, era un po’ che l’amico non si vedeva. Enjolras annuì, apparentemente accantonando la cosa, mentre un vago sentore di paura, mista a disappunto, faceva capolino.

Che si fosse perso? Fosse stato fermato? Gli fosse successo qualcosa? O peggio, che ad un tratto avesse semplicemente perso interesse ed entusiasmo per la crociata e avesse preferito fare tappa in un pub a bere qualcosa?

Enjolras non sapeva quale delle due possibilità lo disturbasse di più.

Prima che potesse arrovellarsi troppo sulla cosa però, un insistente rumore di passi in marcia si fecero sentire lungo il viale che portava all’Università. Qualche attimo dopo file ordinate di poliziotti in tenuta antisommossa, con tanto di scudi, caschi e manganelli, fecero la loro comparsa voltato un angolo.

“E la miseria…” borbottò Courf a mezza bocca, saltando in piedi. Enjolras lo aveva già preceduto, scattando verso la porta.

“Avvisate tutti! Bisogna rinforzare la barricata all’ingresso, lasciamo perdere cortili a ingressi laterali, concentreremo l’occupazione  nel rettorato, finché il centro nevralgico sarà occupato avremo in mano l’intera struttura accademica!”

Detto questo era sparito, scendendo le scale facendo tre gradini alla volta, rischiando di rompersi l’osso del collo. Gli amici lo aspettavano davanti all’ingresso, Prouvaire gli tese lo stendardo rosso, un’occhiata fu sufficiente ad Enjolras per rendersi conto che, ancora una volta, tra le facce famigliari dei suoi compagni, l’unica a mancare era quella che, suo malgrado, più avrebbe voluto vedere.

Facendosi forza prese la bandiera ed avanzò verso il portone, fronteggiando le fila di poliziotti che si erano fermati nel piazzale. Vedendolo comparire, un uomo, probabilmente un ufficiale, mosse un paio di passi avanti, apostrofandolo: “I reati di scasso, occupazione non autorizzata di luoghi di proprietà dello stato e  interruzione di un servizio pubblico sono stati riscontrati. Liberate immediatamente gli ambienti universitari e non ci saranno ulteriori ripercussioni, rifiutate e non avremo altra scelta che procedere per altre vie.”

Enjolras prese un bel respiro e drizzò le spalle, niente di ciò che lo circondava esisteva più, se non la bandiera nella sua mano e la consapevolezza dei suoi compagni alle sue spalle.

“Occupiamo senza autorizzazione luoghi dello stato, dite? Ebbene, nessuno di noi ha dato la propria autorizzazione allo stato per distruggere il nostro futuro e quello di generazioni di studenti e cittadini dopo di noi. Questa è la nostra università, e ce ne andremo solo quando avremo fatto il nostro dovere di cittadini, di uomini e donne, di combattere per i nostri diritti.”

Un coro di approvazione e incoraggiamento gli fece eco dall’interno dell’università, mentre il poliziotto scuoteva il capo e voltava loro le spalle.

Fu questione di un attimo prima che i poliziotti caricassero, Enjolras fece appena in tempo a rientrare prima che una pioggia di fumogeni nascondesse alla vista ogni cosa.

Stava ancora tossendo, appoggiato pesantemente ad una parete, quando i poliziotti furono addosso alla barricata di fortuna che proteggeva l’ingresso. Gli studenti si precipitarono a puntellare tavoli, cattedre, sedie e lavagne, proteggendosi alla meno peggio dai colpi di manganello e respingendo i poliziotti tirando loro addosso qualsiasi cosa capitasse sotto mano.

Enjolras era nel mezzo del tumulto, tenendo sotto controllo la situazione e assicurandosi con la coda dell’occhio che i suoi compagni stessero bene. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato quando, infine, l’assalto perse di intensità e i poliziotti si ritirarono.

“State tutti bene?” chiese guardandosi attorno. Le facce che lo circondavano erano sorridenti, i suoi compagni erano un po’ ammaccati, un po’ contusi, ma tutti galvanizzati da quel primo successo.

Il calare della notte non vide la situazione cambiare, gli studenti erano asserragliati dentro, i poliziotti appostati fuori, e il mondo intero sembrava trattenere il fiato, in attesa.

Combeferre aveva finalmente convinto Enjolras a sedersi e riposare un poco, anche se non c’era stato verso di fargli ingurgitare niente da mangiare. Ora i due amici sedevano in un angolo, fianco a fianco. Davanti a loro, Courfeyrac si stava prendendo cura di Eponine che, nel tumulto, aveva collezionato una serie di brutte botte. Joly stava passando in rassegna i feriti armato di acqua ossigenata e ghiaccio spray, Marius sedeva in disparte, solo, immerso in chissà quali cupi pensieri, e gli altri chiacchieravano tra loro, passandosi una bottiglia di vino.

Era ormai buio pesto, e quasi tutti gli occupanti stavano pisolando, quando due sagome scure attraversarono svelte il cortile principale, avvicinandosi silenziose a Enjolras e Combeferre. Fu Bahorel a notarle, intimando loro di fermarsi. Enjolras fece cenno a Ferre di restare e si alzò, andando incontro ai due nuovi arrivati. Gli bastò un’occhiata per riconoscere l’ispettore Javert, l’altro era un suo coetaneo, un uomo alto e distinto.

“Cosa ci fate qui? E come avete fatto ad entrare?” furono le prime parole che, spontanee, uscirono ad Enjolras.

“Io sono Monsieur Valjeant” si presentò lo sconosciuto “è stata mia figlia, Cosette, a dirmi della vostra situazione, stavo venendo a vedere come stavate quando ho incontrato il mio vecchio amico, l’ispettore” spiegò, accennando a Javert con un cenno del capo “e siamo venuti ad avvertirvi che correte un grande rischio.”

Prima che Enjolras avesse modo di chiedere spiegazioni l’ispettore continuò, sbrigativo: “Non vi siete chiesti perché dopo un primo assalto i poliziotti se ne stiano buoni e calmi nel piazzale? Avete barricato l’ingresso principale e vi siete concentrati sul rettorato, ma l’università ha altre porte, tra cui le uscite di emergenza, e tutte queste porte hanno chiavi, che non sono in mano vostra. Non appena arriverà il custode tutti questi ingressi verranno aperti e vi ritroverete completamente circondati.”

“Ci sono un sacco di bravi ragazzi qui” aggiunse Valjeant “e tutti ragazzi con grandi potenzialità. Capisco la vostra indignazione, credetemi, ma questa cosa sta diventando pesante. Credi davvero che valga la pena bruciarsi la possibilità di un futuro solo perché si ha la fedina penale sporca per un occupazione studentesca? Se davvero vuoi cambiare il mondo, ragazzo, cambialo dall’interno. Andare contro il sistema, contro la legge… non porta mai buoni risultati.”

C’era un’espressione triste, quasi consapevole, sul volto di Valjeant mentre parlava con tono calmo e paterno, una mano posata sulla spalla di Enjolras. Il biondo prese un gran respiro e chiuse gli occhi. Da un lato vedeva se stesso, martire glorioso, armato del suo stendardo rosso e della sua passione, ergersi a monumento perpetuo contro l’ingiustizia. Dall’altro vedeva tutti i suoi compagni, che si fidavano di lui, che lo avevano seguito fin lì, immolati con lui. Per cosa?

“Avete ragione” disse, e a malapena riconobbe la propria voce “non è il caso che ci vadano di mezzo tutti. C’è un modo per farli uscire di qui?”

“Enjolras, no!” la voce di Combeferre era stupita, e al tempo stesso incerta. Non sapeva quanto l’amico avesse sentito, ma non c’era tempo per perdersi in questioni filosofiche. Lui era il capo, e lui avrebbe deciso, per il bene di tutti loro.

“E invece sì, Ferre.” Disse, secco, prima di rivolgersi a Javert: “Ispettore, capisco cosa le costi essere qui e aiutarci, e per questo avrà la mia gratitudine eterna. Se c’è un modo sicuro per portare via i miei compagni la prego di mostrare loro dove. Combeferre verrà con voi.”

“E tu?” gli chiese l’amico.

“Il comandante è l’ultimo ad abbandonare la nave.” Rispose Enjolras, serio.

“Promettimi che verrai, promettimi che ci raggiungerai anche tu e non ti fermerai indietro per qualche stupida, nobile causa. Promettimelo Enjolras.”

Mentire al suo migliore amico andava contro ogni suo principio, eppure non ci fu esitazione nella voce di Enjolras quando, sereno, rispose: “Prometto.”

Dopodiché tutto accadde rapidamente. Con un giro di indicazioni sussurrate, gli studenti si misero in moto, seguendo i due uomini verso una delle uscite di sicurezza, non ancora individuata dai poliziotti.

Quasi tutti se n’erano andati di soppiatto quando, con un gran rumore di fischietti, le forze anti sommossa fecero irruzione.

Vedendo arrivare i poliziotti Enjolras attraversò di corsa il cortile, tirandoseli dietro, e salì le scale del rettorato di corsa. Si posizionò al centro della stanza, immobile e risoluto, le nocche bianche dalla forza con cui si stava aggrappando al suo stendardo. Ne aveva bisogno, nel momento in cui il suo piano, il suo sogno, stava andando in pezzi, aveva più bisogno che mai di aggrapparsi a qualcosa di concreto e, al tempo stesso, di reggere saldo in mano il suo ideale.

Non era triste, non aveva paura, era come svuotato da ogni sentimento umano, vedeva se stesso come l’ultimo baluardo di libertà e giustizia dinnanzi alla violenza e all’oppressione. I poliziotti entrarono, accalcandosi nella piccola stanza, e si fermarono, attoniti. Se perché si  aspettassero più gente o perché fossero rimasti spiazzati da quel bel giovane biondo che si ergeva quasi marmoreo davanti a loro era impossibile dirlo.

Infine uno si fece avanti, manganello alla mano: “La dichiaro in arresto, venga con noi senza opporre resistenza.”

“Un momento!”

Quella voce. Enjolras si riscosse come da una trance, la dove la frase del poliziotto non aveva avuto alcun effetto, quelle due parole gli fecero improvvisamente contorcere le budella.

Sbatté gli occhi un paio di volte, e la vista più improbabile del mondo gli si presentò di fronte.

Grantaire. Un Grantaire particolarmente sbragato, ma tranquillo, che si faceva largo tra i poliziotti attraverso la stanza. Gli si fermò di fronte, tendendogli una mano:
“Permetti?”

La sensazione delle dita fredde e sottili di Grantaire intrecciate alle proprie, calde e sudate, fu l’ultima cosa che Enjolras percepì, prima che tutto diventasse improvvisamente nero.

****

Ci mise qualche istante a riprendere coscienza, aveva un gran mal di testa ed era tutto indolenzito, ma la cosa che più lo lasciava perplesso era la sensazione di una mano nella sua.

Con un sobbalzo spalancò gli occhi, ritrovandosi a fissare una parete di cemento in cui era incassata una piccola finestra munita di sbarre.

“Buongiorno, Apollo.” Lo apostrofò una voce famigliare: “Lo ammetto, se mi avessero detto che un mattino mi sarei svegliato al tuo fianco questo non sarebbe stato il mio scenario ideale. Ma suppongo di dovermi accontentare…”

Con non poca fatica, Enjolras ruotò il capo sul collo. Grantaire sedeva al suo fianco sulla branda della cella, il solito sorriso da stregatto sulle labbra. Sulla tempia sinistra aveva un grande livido bluastro.

Enjolras lo fissò per qualche istante prima di umettarsi le labbra: “Perché l’hai fatto?”

“Intendi il farmi prendere a manganellate?” chiese Grantaire beffardo.

“Intendo il farti arrestare con me, R, perché?”

Grantaire tornò serio, e il suo tono era sincero quando rispose: “Ti seguirei in capo al mondo, morirei per te.”

Enjolras non rispose, sostenne lo sguardo limpido e verde di Grantaire e, suo malgrado, sorrise: “Sai la notte di Natale, quando abbiamo dormito insieme…”

“Aspetta, frena, fermo un secondo!” lo interruppe Grantaire, sgranando gli occhi al limite del possibile: “Abbiamo dormito insieme la notte di Natale e io non me lo ricordo? Merda! Devo diventare astemio!”

All’espressione incredula di Grantaire, Enjolras rise piano. Infine annuì, guardandolo serio negli occhi: “Sì, devi. Perché tutta notte non ho chiuso occhio, guardandoti e desiderando che tu non fossi ubriaco marcio.”

“Perché?”

“Per fare questo.”

Non era sua abitudine motivare le proprie azioni, non era sua abitudine chiedere il permesso. Allungò le braccia e prese il viso di Grantaire tra le mani. Quindi si sporse in avanti, imponendo la propria presenza, il proprio corpo sull’altro e chiuse gli occhi, impossessandosi con foga di quelle labbra fredde e sottili che infestavano i suoi sonni da tanto, troppo tempo.

Fu quando sentì il corpo di Grantaire rilassarsi contro il suo, le sua labbra schiudersi, e le sue braccia cingergli esitanti i fianchi che Enjolras improvvisamente capì che il suo mondo era completo.


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Fermi, non scappate, e non piangete. C’è un piccolo epilogo in chiusura per salutarvi. Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto e grazie di aver letto!

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Capitolo 7
*** Epilogo - POV Vari ***



Epilogo – POV vari

Ed eccolo infine, l’ultimissimo aggiornamento. Questa storia ha avuto un numero di lettori a capitolo che non mi sarei mai sognata, e lo dico per avere l’occasione di ringraziare di cuore tutte queste persone che sono passate di qui. Un grazie speciale a chi ha messo la storia tra le seguite o le preferite e, ancora di più, a chi mi ha fedelmente seguito (e pazientemente aspettato) e lasciato una recensione! Davvero, forse potete immaginare quanta gioia provochi ad un autore sapere che c’è qualcuno che legge i suoi deliri, ancora una volta grazie!

Prima di salutarvi e lasciarvi all’epilogo dedico le ultime due parole a Primavere Rouge che ha fatto un po’ da madrina virtuale a questa mia storia, correggendomi e aiutandomi a renderla migliore. Grazie Pri <3

E questo è tutto. Buona lettura e alla prossima!

Halina

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5-6 Giugno, un anno dopo. Nizza, Costa Azzurra, Francia.
 
Ombrelloni e lettini erano di un rosso fuoco che faceva un brusco contrasto con il giallo della sabbia e il blu intenso di cielo e mare, al punto che l’intera spiaggia sembrava essere stata dipinta in colori ad olio.

Marius si spostò un poco, attento a non svegliare Cosette, che pisolava al suo fianco, dividendo con lui lo stretto spazio del lettino. Le fece scorrere addosso uno sguardo colmo d’amore, soffermandosi sul famigliare anellino che le ornava l’anulare sinistro. Marius si era laureato, aveva sostenuto l’esame per diventare avvocato, e aveva iniziato a lavorare come praticante in uno studio legale. Le cose con Cosette procedevano a gonfie vele al punto che, in un impeto incontrollato di entusiasmo, Marius le aveva chiesto di sposarlo. Cosette aveva acconsentito, a patto che aspettassero che lei si laureasse e, nel mentre, i due si godevano la vita da fidanzatini. I genitori di Cosette erano stati così felici che, per portarsi avanti, avevano regalato a Marius un bilocale a metà strada tra casa loro e il suo posto di lavoro, e avevano messo la loro casa in Costa Azzurra a disposizione degli, ormai ex, Les Amis per le vacanze.

“Hei, Pontmercy!” lo apostrofò poco dopo Joly che, nonostante i 40 gradi, aveva addosso calzoncini, maglietta e cappellino “mi presti la crema solare? Ho finito la mia!”

“Per forza, Joly” commentò Bahorel, sdraiato con Leigle al sole: “se continui a cospargerti di protezione 50 da mattina a sera, te ne serve una tanica di crema solare!”

I tre amici, scapoli d’acciaio, erano rimasti a vivere insieme, ed erano anche gli unici, a parte Cosette, ad essere ancora impegnati negli studi. Joly, dopo la prima laurea in medicina, era entrato nella scuola di specializzazione di igiene, Leigle e Bahorel continuavano la loro indolente vita universitaria senza troppi problemi e senza troppi progetti.

Jean, al contrario, era super impegnato, facendo il maestro elementare di giorno e il poeta calato il sole. Li aveva raggiunti quella mattina con Sophie, concluso l’ultimo giorno di scuola, e ora se la dormiva della grossa, spaparanzato al sole, mentre Sophie leggeva.

“Come faccia a dormire con questo casino lo sa solo lui…” commentò divertita la ragazza, gettando un’occhiata al bagnasciuga, da dove veniva un allegro e variegato vociare.

Con l’acqua alla vita, Feully stava cercando di insegnare ad Agata a nuotare dato che per la ragazza, nata e cresciuta in Polonia, quella era la prima vacanza al mare.
Anche tra di loro le cose sembravano andare per il meglio, Feully aveva finalmente imparato il polacco e si era trasferito a Varsavia. Inizialmente la notizia aveva generato un po’ di tristezza negli amici, ma ben presto il trasferimento era diventato il pretesto per tutti per weekend fuori porta a casa di Feully.

A riva, poco distante, Courfeyrac ed Eponine stavano seguendo minuziosamente le istruzioni del pignolissimo geometra Gavroche, che stava dirigendo i lavori di costruzione di un castello di sabbia di proporzioni monumentali. Courf aveva deciso che ne aveva avuto abbastanza degli studi, aveva mollato tutto, iscrivendosi ad un corso per pasticcere e si era trasferito a vivere, e lavorare, con Eponine. Il Musain era rimasto il punto di ritrovo da cui tutti presto o tardi passavano, per un caffè, un aperitivo o una birra il sabato sera, e il loro tavolo nell’angolo, dove grandi progetti e grandi sogni avevano visto la luce, recava giorno e notte il segnalino “Riservato”.

Combeferre stava passeggiando mano nella mano con Martine sul bagnasciuga e si fermò bonario a guardare come procedevano i lavori. Subito dopo la discussione della tesi di laurea aveva invitato la professoressa a cena fuori, e le cose avevano avuto una rapida escalation. La relazione era stata ampiamente presa in giro dagli amici, finché ‘Ferre non aveva avuto un posto da ricercatore in Università e i due erano diventati colleghi, ponendo fine ad ogni possibilità di bonario sfottimento.
Erano infine andati a convivere, dopo che una mattina Combeferre era arrivato in cucina trovando un Grantaire completamente e felicemente nudo che gli aveva sorriso, all’insegna di: “Sto preparando la colazione per Apollo” e il giorno stesso aveva annunciato che si sarebbe trasferito.

Già. Perché Enjolras e Grantaire erano ormai a tutti gli effetti una coppia, e rivaleggiavano con Marius e Cosette in materia di attacchi di diabete provocati al prossimo in un raggio di almeno 15 chilometri da loro.

Un po’ per l’influenza di Monsieur Valjeant, un po’ per una buona parola dell’Ispettore Javert, l’incidente dell’occupazione non aveva avuto un grande eco, i due erano stati rilasciati senza intoppi, con solo un ammonimento a non lasciarsi coinvolgere da altre “bravate”.

Enjolras si era laureato a pieni voti, aveva rifiutato la proposta di rimanere a fare ricerca in università e si era dato alla politica. Mirava all’Eliseo, e nessuno metteva in dubbio che presto o tardi sarebbe riuscito a cambiare il mondo. Nel mentre, a modo suo, continuava la sua crociata per la difesa della libertà, uguaglianza e fraternità.

Non conosceva mezze misure, e dopo i primi ventiquattro anni vissuti in piena asessualità, ora era uno dei più sfegatati attivisti per i diritti degli omosessuali.
Grantaire, da parte sua, si crogiolava nella sua esistenza come compagno di Enjolras. Nient’altro sembrava avere importanza a confronto. Su incitamento di quest’ultimo aveva trovato lavoro come guida in un museo, dove lavorava part-time, per la maggior parte del tempo dipingeva Apolli, dopo che la ex camera di Courfeyrac era stata convertita in atelier.

“Uff, a volte mi viene da pensare che abbia una relazione con il suo cellulare invece che con me!” borbottò scocciato ‘Taire, che arrivava in quel momento con in mano due coni giganti di gelato, guardando Enjolras che passeggiava avanti e indietro poco lontano, telefono all’orecchio e la mano libera che gesticolava vivacemente nell’aria.

“Hei!” lo chiamò a gran voce “Mi sono fatto due chilometri per trovarti una gelateria che ti facesse lo stramaledetto gelato di soia! Vieni qui e dammi un po’ di gratificazione!”

Il biondo gli fece cenno di aspettare un secondo e gli voltò le spalle, continuando il suo nervoso andirivieni e la sua concitata telefonata.

Grantaire mise su un’espressione scocciata e raggiunse Marius sotto l’ombrellone, mettendogli in mano i coni: “Reggi un attimo. E guai a te se assaggi, è il gelato di Apollo!” lo ammonì prima di calcare la spiaggia a lunghi passi, raggiungendo il compagno. Gli arrivò alle spalle e, con un rapido gesto, gli sfilò il telefono, lanciandolo.

Sotto lo sguardo incredulo di Enjolras, il cellulare compì una graziosa parabola, atterrando con un piccolo “plop” a un paio di metri dal castello di sabbia di Gavroche, andando a fondo in pochi secondi.

Enjolras ci mise un attimo a riscuotersi: “Ma sei impazzito? Lo sai con chi ero al telefono?”

“Non con me, e mi sentivo trascurato” fu la candida risposta.

Il biondo alternò lo sguardo allibito tra il compagno e gli amici, piegati in due dalle risate, infine scosse la testa: “Questa me la paghi, R, giuro che me la paghi!”

Grantaire gli piantò gli occhi addosso, passandosi provocante la lingua sulle labbra: “Non vedo l’ora, Apollo. Non vedo l’ora.”
 

Fin.

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