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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
titanium1
A/N: volevo innanzitutto ringraziare tutti coloro
che hanno letto “Deal With My Devil”. Amo scrivere, ma gli impegni quotidiani
non mi permettono di dedicare tutto il tempo che vorrei a questa attività.
Avevo in mente una storia diversa, di tutt’altro genere, ma mi sono presto resa
conto che non sarei riuscita a seguirla come volevo. Ho deciso allora di
riprendere questa storia che avevo iniziato da un po’, un progetto differente e
forse un po’ più semplice da scrivere tra una cosa e l’altra. Di nuovo una
storia di genere “azione” con l’intreccio di due protagonisti forti, nuovamente
il mio amato mix di illegalità/amore/odio. Ringrazio tutti quelli che ci
daranno uno sguardo e vi amerò se troverete anche il tempo di recensire.
Qualsiasi forma di feed-back mi spingerà ad andare avanti.
Avvertimento: il
rating è rosso ed ho scelto di marcare col genere “erotico” perché prevedo un
certo tipo di interazione tra i miei personaggi, tuttavia non mi spingerò mai
nel volgare o nel troppo esplicito.
TITANIUM
Quello
era di certo il posto più lussuoso in cui avesse messo piede, il ristorante più
elegante di tutta la città. Entrando nella piccola sala privata, illuminata
dalle candele, non aveva potuto evitare di girarsi intorno con gli occhi
spalancati, tovaglie di puro lino, tende suntuose, gli stucchi al soffitto. Sua
madre si era accomodata con grazia, fingendo che quella fosse un’abitudine. Suo
padre invece, all’altro lato del tavolo, era visibilmente agitato, ancora
troppo spaventato dal luccichio delle posate d’argento per riuscire a sfogliare
il menu.
“Il
Signor Craven è stato davvero gentile a regalarci questa cena.”
Suo
padre era scattato sulla sedia, asciugandosi la fronte col polsino della
camicia
“Non
lo so tesoro, continuo a pensare che ci sia stato un errore. Il mio capo non ha
mai regalato premi agli impiegati.”
“Andiamo
Bill, dopo vent’anni di servizio alla sua azienda credo che sia un premio del
tutto meritato.”
Suo
padre continuava a guardarsi intorno, ancora spaventato dall’idea di ordinare
la cena. Chiedere solo un’insalata
sarebbe stato un peccato, ma d’altro canto scegliere ostriche e caviale poteva
rivelarsi una mossa azzardata. Forse quello era una specie di test, forse il
Signor Craven li stava osservando da lontano aspettando che lui commettesse un
errore. Del resto il suo capo era conosciuto più per il brusco temperamento che
per le sue gentilezze. Non lo aveva mai incontrato di persona in tutti quegli
anni, mai avuto alcun segno o messaggio dai piani alti, eppure, due mattine
prima, uno dei consiglieri era entrato nel suo piccolo anonimo ufficio e
sorridendo gli aveva comunicato della prenotazione alla Salle de Paris. Un
premio meritato per un impiegato così efficiente e leale.
“Cosa
ordiniamo?” Sua madre era senza dubbio la più entusiasta dei tre.
Bill
aveva sfogliato il menu con attenzione, scorrendo i prezzi prima ancora di
leggere a quale piatto corrispondessero. Alla fine avevano optato per due
filetti ed un piatto di pasta. Da bere acqua, ovviamente. Il cameriere li aveva
squadrati senza darlo troppo a vedere, probabilmente avevano scritto chiaro in
faccia la loro provenienza. Quartiere residenziale.
“Vado
a lavarmi le mani.”
Così
si era alzata per raggiungere la toilette, il bagno più grande e splendente che
avesse visto nei suoi quindici anni di vita. Tutto in quel posto era “più di
quanto avesse mai”. Guardandosi nell’enorme specchio notò quanto quella stanza
fosse immacolata, nemmeno l’alone di una goccia d’acqua sulla porcellana
bianca. Meglio mangiare con le mani sporche che rovinare quella perfezione.
Scrollò le spalle e si avviò verso la porta, abbastanza lentamente da cogliere
delle voci sconosciute provenienti dalla sala. Che suo padre avesse ragione?
Forse li stavano avvertendo dell’errore. Aprì la porta lo stretto
indispensabile per ascoltare e riuscire a cogliere uno spicchio della scena.
“Salve
Signori.”
Due
uomini in completo scuro se ne stavano dritti davanti al tavolo. Poteva vederli
solo di spalle, ma di certo erano sconosciuti.
“Salve.
C’è qualche problema?”
Ecco,
adesso suo padre stava davvero sudando. Che vergogna essere cacciati da un
posto così.
“A
dire la verità credo proprio di sì.”
“Che
succede?”
Uno
dei due si era mosso, circondando il tavolo fino a raggiungere l’altro lato
della stanza. Adesso riusciva a vederlo in viso, ma quei tratti così seri non
le dicevano niente.
“Aspettavamo
il Signor Craven stasera. Avevamo una questione importante da risolvere.”
Bill
aveva sollevato le spalle, istintivamente intimorito da quelle facce
sconosciute ed impassibili.
“Mi
dispiace signori, ma non credo che il capo verrà. Ha regalato questa cena a me
e alla mia famiglia quindi…”
“Quindi
non verrà...” L’aveva interrotto l’altro arricciando le labbra come se dovesse
pensarci su “...E’ davvero un peccato.”
Il
tono gentile e liscio come il velluto, da dare i brividi.
“Mi
dispiace.”
Il
tizio di spalle aveva infilato le mani in tasca “Oh mi creda, dispiace anche a
me dover rovinare la vostra cena.”
“Prego?”
Da
quel momento tutto era successo in una manciata di secondi, il tizio di spalle
aveva tirato fuori la pistola, mentre l’altro aveva messo le mani attorno al
collo di sua madre. Bill si era alzato di scatto
“La
prego, qualsiasi cosa sia noi non c’entriamo niente.. Davvero.. Sono solo un
semplice impiegato.. Bill Phillis.. Un semplice impiegato.. La prego.”
“Davvero
non dubito delle sue parole signor Phillis, ma è tempo che Craven impari la sua
lezione. Non si sfugge dai Michaelson.”
Uno
sparo. Un solo unico sparo. Suo padre era caduto in un tonfo sordo, il rumore
del suo corpo coperto dalle urla di sua madre.
Davanti
a quella scena si era coperta la bocca con le mani, tanto stretta che non
potesse uscirne neanche un suono, nemmeno un respiro. Scostandosi dalla porta
aveva cercato appoggio al muro, totalmente paralizzata dal terrore e dal
disgusto.
“Bill!
No Bill!” La voce stridula di sua madre come unico sottofondo.
Un
secondo sparo. Secco. Poi il silenzio.
Di
nuovo aveva impedito a sé stessa di urlare, mossa esclusivamente dall’istinto
di sopravvivenza. Così era finita dentro la toilette, la porta chiusa a chiave
senza via di fuga, arrampicata sul water immacolato, le ginocchia strette al
petto ed il viso inondato dalle lacrime. Silenziose lacrime di paura. Ora
sarebbe stato il suo turno.
La
porta si era aperta lentamente, i passi dello sconosciuto pesanti sul parquet.
Il tizio si era guardato intorno, quel bagno non era stato usato di recente,
nemmeno una goccia d’acqua nel lavandino. Accovacciandosi lo stretto
indispensabile aveva esaminato la fessura sotto la porta della toilette. Nulla
anche lì.
“Il
bagno è pulito signore!”
“Bene.
Andiamocene allora.”
Dopo
l’ultimo stridio della porta era passata un’eternità. O forse solamente cinque
minuti. Il tempo si era fermato. Il mondo intero si era fermato.
Quindici
anni, nessun fratello o sorella. Parenti più prossimi all’altro capo degli
Stati Uniti. Cheerleader al secondo anno di liceo, presidentessa nonché stella
nascente della classe di recitazione. Testolina bionda e grandi ambizioni. L’orgoglio di mamma e papà.
Quindici
anni. Sola al mondo.
///////
NOVE
ANNI DOPO
Cara sorrise a sé stessa
trovando finalmente la stanza 127b. Era stato un lungo viaggio quello da New York,
ma ora la stanchezza sembrava sparita. Non vedeva Ty da quasi un anno, da
quando il suo ragazzo aveva deciso di proseguire gli studi di ingegneria a
Jhoannesburg. L’ambizione del resto era una delle tante cose che avevano in
comune. Dopo interi mesi di comunicazioni virtuali e sesso da webcam quella di
partire era stata un’esigenza naturale, l’idea di fargli una sorpresa una
piacevole aggiunta. Già dall’aeroporto pregustava la faccia di Ty non appena avesse
aperto la porta, impaziente per quello che sarebbe avvenuto subito dopo. Bussò
decisa passando un’ultima volta l’altra mano tra i capelli.
Al di là della soglia il
viso deluso ed assonnato di una ragazza dalla chioma scura. Le gambe ed i piedi
nudi che spuntavano da una t-shirt da uomo.
“Non sei la mia pizza.”
Cara sollevò un
sopracciglio. Di certo aveva sbagliato stanza.
“Scu.. Scusami… Devo aver
sbagliato piano, stavo cercando…”
Il nome le morì in bocca.
“…Ty.”
Eccolo lì, addosso solamente
i pantaloni scoloriti di una tuta e due grosse occhiaie da chiaro dopo sbronza.
Se non altro era riuscita ad ottenere la faccia stupita che tanto aveva
sognato.
“Cara. Non è come sembra.”
Lei aveva inclinato il viso
passando gli occhi dal suo fidanzato alla sconosciuta. Le labbra strette ed il
respiro prolungato per evitare di scoppiare in lacrime o peggio, uccidere uno
dei due.
“Lascia stare.” Riuscì
infine a dire, due sole parole, ruvide in gola come carta vetrata. Strinse la
presa intorno al trolley e girò i tacchi senza bisogno di altre spiegazione.
Doveva uscire da quel dormitorio il più presto possibile, solo una volta fuori
di lì si sarebbe concessa di sentirsi una perfetta idiota.
I passi di Ty la seguivano
incerti per i corridoi. Cavolo, doveva davvero essere stata una sbronza epocale
se nonostante anni di atletica non riusciva a starle dietro. Meglio così.
“Lasciami in pace!”
“Aspetta! Lascia che ti
spieghi!”
Aveva inchiodato i passi
davanti all’ultimo portone “Cosa vuoi spiegare Ty? Vuoi forse dirmi che non fai
sesso con quella lì?”
I suoi occhi fissi al
pavimento avevano risposto. “E’ successo, è semplicemente successo… Ma questo
non vuol dire niente, non ho mai pensato di lasciarti… Sarebbe rimasto tutto
qui.”
“Ma dici sul serio!?”
improvvisamente era salita la voglia di prenderlo a schiaffi.
“Ti prego Cara, lei non
significa nulla per me.. Mi sentivo solo e allora…”
Slap. Il suono secco del palmo della sua mano
sulla guancia di Ty aveva rapidamente messo fine a quella serie di fandonie.
Solo? Si sentiva solo?? E lei allora? Lei che come una stupida si era chiusa a
vita monacale? Che aveva speso un intero stipendio per quel viaggio? Che si
fidava ciecamente di lui?
Senza degnarlo di un
ulteriore sguardo venne fuori dall’edificio e trascinò la valigia fino alla
strada. Giustizia divina volle che dopo una simile umiliazione ci fosse almeno
un taxi libero ad aspettare. Si lasciò cadere sul sedile.
“All’aeroporto.”
Immediatamente rovistò nella
borsa alla ricerca del cellulare. Mai prima di quel momento era stata tanto
felice che una delle sue migliori amiche lavorasse per l’American Airlines.
“Ehy! Tutto bene? Sei
riuscita a trovare Ty?”
Ignorò il suono odioso di
quel nome e la voce trillante di Sonia
“Sto tornando all’aeroporto.
Devi trovarmi immediatamente un volo di ritorno per NY.”
“Come dici? Ma che è
successo?”
“Ti dico solamente che sono
stata io a ricevere la vera sorpresa. Trovami quel volo ti prego.”
“Ma stai bene?”
“Sì Sonia, sto bene. Ho solo
bisogno di tornare a casa.”
“Aspetta… Non credo che ci
siano voli per New York questa sera.”
“Non credi?”
“No. Dovrai aspettare
domani. Ti prenoto un posto sul volo delle dieci.”
“E’ davvero possibile che
non parta nulla fino a domani? Ti prego Sonia, non importa quanti lunghi scali
dovrò sopportare, non voglio restare in questo maledetto paese un minuto di
più!” Uno sguardo veloce al tassista
sperando di non aver offeso il suo spirito patriottico.
“C’è un solo volo stasera,
ma non puoi prenderlo.”
“Che vuol dire che non posso
prenderlo?”
“Credimi, è meglio aspettare
fino a domani.”
“Sonia.” Il tono a metà tra
l’ammonimento e la disperazione.
“Parte alle sei, ma non è un
normale volo di linea. Ci saranno delle persone a bordo, persone che sarebbe
meglio evitare.”
“La smetti con questi
misteri per favore?” Un’occhiata all’orologio. Cinque meno dieci. Perfetto.
“Prenotami un posto su questo famigerato volo e ti prego, fammi saltare la fila
al check in.”
Il sospiro di Sonia
all’altro capo era stato lungo ed incerto
“Sei davvero sicura di non poter aspettare?”
“Ho appena trovato il mio
ragazzo a letto con un’altra. No, non posso aspettare.”
Di nuovo un sospiro “Allora è meglio che forse ti spieghi
prima... Questo volo sarà usato per un trasporto speciale.”
“Trasporto speciale?”
“Esatto. In casi eccezionali
le forze dell’ordine utilizzano i normali voli di linea per trasferire
all’estero i detenuti estradati. E questo è uno di quei casi.”
“Vuol dire che il mio aereo
sarà pieno di poliziotti? Beh, nella remota ipotesi di un deragliamento aereo
suppongo che la cose potrebbe tornarmi utile.”
“Non è così semplice Cara…
Non dovrei nemmeno dirti certe cose…” L’ennesimo lungo sospiro “Si tratta di
una procedura complessa, utilizzata dalle autorità internazionali solo per il
trasferimento dei peggiori criminali… Non so se mi spiego, assassini,
attentatori, capi mafiosi…”
Cara sollevò le sopracciglia
cercando di trovare un senso logico a quel discorso da film d’azione. Sonia
tuttavia sembrava davvero preoccupata.
“Ho capito Sonia. Vedrò di
stare lontana dai poliziotti e dal tizio in tuta arancione.”
“E’ questo che mi preoccupa
Cara. Non vedrai alcun poliziotto tantomeno divise carcerarie. Saranno tutti
vestiti in abiti borghesi e mischiati agli altri passeggeri, compreso il
criminale in questione.”
“Uhm… Avrà almeno le manette
spero.”
“No...”
A quella risposta secca Cara
si tirò su sul sedile, dal finestrino riusciva già a scorgere le piste
dell’aeroporto. Tornarsene a casa era ciò che più desiderava, ma il tono
preoccupato di Sonia stava cominciando a farla agitare.
“…Lo scopo di questi
trasporti è passare totalmente inosservati, senza che la stampa o gli affiliati
si accorgano di nulla. Nessuno penserebbe mai di avere un assassino seriale
seduto al proprio fianco su un volo in economy class, giusto?”
“Quindi non c’è modo che io
possa riconoscerlo e stragli lontano?”
Sonia aveva
impercettibilmente abbassato la voce “Sei davvero certa di non poter aspettare
fino a domani?” L’immagine della ragazza mora con addosso la maglietta sudata
di Ty le si piantò davanti agli occhi “Ti prego Sonia, fammi tornare a casa. Ti
prometto che non mi succederà nulla.”
Il tono dell’amica ora
ancora più basso “Ok, ascoltami bene però…” Cara aveva stretto il cellulare
all’orecchio per riuscire a sentirla nell’improvviso caos della stazione aerea “…Non
dovrei dirtelo, ma da quello che so le autorità hanno un idea precisa
dell’outfit borghese. Jeans, maglietta chiara e scarpe da tennis… L’unico
particolare che rende il detenuto riconoscibile è un braccialetto d’acciaio al
polso sinistro.”
Cara sollevò gli occhi
rendendosi conto solo in quel momento che il taxi si era fermato, mentre il
tassametro continuava a girare.
“Braccialetto ok, starò
lontana dai braccialetti. Sono già all’aeroporto, ci sentiamo tra qualche ora.”
Allungando tre banconote da cento rand al tassista raccattò i suoi pochi averi
e chiuse lo sportello, la comunicazione ancora aperta.
“Sta’ attenta Cara.”
“Grazie Sonia. Sei un’amica,
davvero.”
Spinto il tastino rosso si
tuffò nella folla vociante del Tampo Airport, accompagnata dal solo pensiero
fisso di un braccialetto d’acciaio.
///////
CENTRO DI POLIZIA DI
JOHANNESBURG
Il capitano buttò giù il
telefono con un gesto di nervosa esasperazione. Si passò le mani sulla faccia
dopo un’intera notte insonne. La porta dell’ufficio si aprì di colpo
“Salve capitano.”
“A te Vincent.”
L’altro agente sospirò con
un sorriso “Non riesco a credere che
l’abbiamo preso davvero. Non posso credere che il famoso Lupo sia sul serio ammanettato nella stanza accanto.”
Il capitano scosse la
testa “Credi a me, questo è un onore di
cui avrei volentieri fatto a meno.”
Vincent aggrottò la
fronte “Ci sono problemi capitano?”
L’altro mandò giù un sorso
di caffè nero ignorando per un attimo la mole di carte e documenti sparsi sulla
scrivania “Nessuno lo vuole. Tantomeno
io.” Vincent si avvicinò afferrando una cartella a caso “E’ nato a Londra
giusto? Contattiamo l’ambasciata inglese.”
“Ho appena concluso
un’interessante conversazione con Scotland Yard, non hanno la minima intenzione
di immischiarsi in questa faccenda.”
Vincent si grattò il
sopracciglio “E se lo processassimo qui?”
Il capitano lo guardò come
se gli avesse appena chiesto di ballare nudo di fronte al presidente Zuma “Sai bene di chi stiamo parlando… Non ho
nessuna intenzione di attirare su questo paese l’interesse dei Michaelson.”
“Eppure i giapponesi non si
sono fatti troppi problemi quando hanno chiuso in cella suo fratello Caspar.”
Il capitano scosse la testa
“Quando si ha a che fare con loro è solo questione di tempo. Dobbiamo liberarci
di lui il più presto possibile.”
“E’ ricercato in più di
dieci paesi, qualcuno dovrà pur prenderselo.”
In quel momento il telefono
squillò di nuovo, all’altro capo del filo Anthony Izzo, Capo Bureau dell’OCCB
di New York, ufficio per il controllo del crimine organizzato.
“Salve Capitano Lewis… A
quanto mi dicono ha qualcosa che potrebbe interessarmi.”
Il capitano di schiarì la
voce “Vi interessa?”
“Certo che ci interessa.
Quella famiglia muove i fili della criminalità americana da troppo tempo e mai
come ora abbiamo bisogno di un colpo di scena che riporti l’attenzione pubblica
sull’efficienza delle nostre autorità.”
“Già… Dimenticavo che siete
in campagna elettorale.”
“Quando credi di potercelo
consegnare?”
“Anche subito Izzo.”
“Bene, in tal caso mettetelo
sul volo EZY5255 delle sei. Solita procedura.”
“Solita procedura.”
La comunicazione si chiuse
senza ulteriori saluti, il capitano si lasciò sfuggire un sospiro liberatorio.
“Se lo prendono gli americani.
Preparalo per il volo.”
Vincent annuì uscendo
dall’ufficio ed entrando poco più tardi nella stanza vicina.
L’aria consumata che
stagnava tra quelle quattro mura gli riempì le narici, sapeva di sangue secco e
sudore. Lanciò un sacchetto di plastica verso l’angolo e squadrò con ritrovata
presunzione l’uomo ammanettato alla sedia. Joseph Michaelson. Il Lupo, l’imprendibile
Lupo, killer di precisione e membro di spicco della più potente famiglia
filo-mafiosa ancora in circolazione.
Il lupo sollevò la testa,
sfinito dai mille colpi ricevuti e dalla dose massiccia di calmanti iniettati
direttamente in vena. Il suo viso tuttavia non lo dava a vedere, un’espressione
fiera e sicura continuava a campeggiare tra i segni delle percosse. I suoi
occhi poi, i suoi occhi azzurro mare fissavano Vincent come se fosse una preda,
un povero piccolo agnellino smarrito. Da far alzare le pelle.
“Dobbiamo proprio darti una
ripulita…” Esordì Vincent raggiungendolo “…Te ne vai in America.”
Il lupo si raddrizzò sulla
sedia, sentir nominare gli Stati Uniti era dolce musica alle sue orecchie,
decisamente meglio delle carceri afgane o cinesi. Si schiarì la gola cercando
di ignorare che fosse asciutta come il deserto.
“La telefonata.” Disse con
voce roca, Vincent aggrottò le sopracciglia “Prego?” Lui sospirò “Ho diritto ad una telefonata.”
L’agente si morse il labbro controllando i nervi, per quanto odiasse quel
criminale, non poteva comunque negargli un suo pieno diritto legale.
“Bene.” Replicò stizzito
avvicinandosi ulteriormente a lui. Sapeva di correre un rischio incalcolabile,
ma non aveva nessun altro modo di compiere il suo dovere pur rispettando la
carta dei diritti. Doveva liberargli almeno una mano, consapevole del fatto che,
nelle giuste circostanze, la forza di cinque dita sarebbe bastata al killer per
spezzargli l’osso del collo in un momento. Fortunatamente aveva in circolo una
dose di benzodiazepine tale da stendere un cavallo.
Gli porse l’apparecchio
telefonico e si voltò. Maledetto diritto alla privacy.
Il lupo attese di essere
solo per comporre velocemente il numero impresso nella sua mente. Da usare solo
nelle emergenze. Da usare solo in caso di arresto. Da usare una sola ed unica
volta.
Dopo due squilli sentì il
respiro di suo fratello maggiore rispondere senza bisogno di parole, trenta
secondi appena per parlare prima che la telefonata fosse rintracciabile.
“Volo con l’aquila. Vedo la
libertà.”
La linea cadde
immediatamente ed il lupo lasciò cadere a terra anche il telefono,
approfittando di quel momento per distendere i muscoli del braccio. Incredibile
trovarsi in quella situazione, il più brutale dei Michaelson catturato durante
la più stupida delle operazioni, un semplice ritiro di crediti nella repubblica
sudafricana. Tutta colpa di Nathaniel. L’unica cosa che gli aveva raccomandato
quella sera era stata la puntualità. Null’altro, solo la puntualità. Eppure il
fratellino minore non si era smentito nella sua congenita incapacità di
prendere le cose sul serio. Dieci minuti di ritardo, ben dieci minuti di
ritardo! L’avrebbe pagata, questo è certo.
Fortunatamente comunque, in
aggiunta ad un fratello immaturo e sconsiderato, il destino gliene aveva
fornito un altro, Elia, intelligenza e senso dell’onore sopraffini, un
pianificatore perfetto. Il lupo sorrise a sé stesso, sapeva già bene come
sarebbe venuto fuori da quel fastidioso contrattempo. Rischioso, ma
necessario.
Vincent spalancò la porta
della stanza accompagnato da altre tre persone in divisa, raccolse la busta di
poco prima e ne tirò fuori degli abiti puliti. Un paio di jeans, una t-shirt
qualunque, un paio di anonime sneakers.
“Vediamo di fare una cosa
veloce. Prima ci liberiamo di questo bastardo meglio è.”
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
cap2
Cara era riuscita a salire
sull’aereo per prima, saltando la fila grazie al nome di Sonia. Rincuorata
dalla solitudine si era trascinata fino ai primi sedili, quelli di rimpetto
alla cabina del capitano. Da quella posizione non avrebbe visto nessun altro dei
passeggeri e quindi avrebbe evitato di chiedersi in continuazione quale degli
sconosciuti fosse l’assassino. Trovata la posizione più comoda possibile tirò
fuori dalla borsa un libro, determinata a tuffarsi in una realtà parallela per
le prossime diciotto ore. Diciotto ore a migliaia di metri di altezza con un
feroce criminale alle spalle. Maledisse Ty ancora una volta.
Diverse voci riempirono
l’abitacolo a poco a poco, uomini di mezz’età, una simpatica signora sulla
sessantina con un brutto cappello in testa, una coppia di colore. Nonostante
l’idea iniziale di estraniarsi totalmente Cara non poté fare a meno di voltarsi
e sbirciare più e più volte il portellone dell’aereo. Lo stomaco continuava a
contorcersi, incredibile quanti viaggiatori avessero optato per jeans e
maglietta. Tornò a fissare la parete grigia davanti ai suoi occhi, prese a
tamburellare sui braccioli.
“Tutto bene?”
Di scatto si voltò verso il
ragazzo che aveva appena deposto il bagaglio a mano dall’altro lato del
corridoio. Cara non poté fare a meno di esaminarlo mentre toglieva anche la
giacca. Jeans. Maglietta grigia. Un paio di converse consumate ai piedi. Scattò
sul sedile. Che fosse proprio lui?
“Sì…” Rispose incerta
“…Tutto bene.”
L’altro sorrise “Anch’io ero
terrorizzato all’idea di restare diciotto ore su un aereo la prima volta, ma se
riesci a dormire un po’ passeranno molto più in fretta.”
Dormire? E come avrebbe mai
potuto dormire sapendo di avere accanto uno spietato criminale?
Il ragazzo tirò su le
maniche della maglia prima di accomodarsi ed allacciare la cintura intorno alla
vita. Gli occhi di Cara si catapultarono sui suoi polsi. Nessun braccialetto.
Riuscì finalmente a respirare. Forse avrebbe dovuto accettare il consiglio di
Sonia.
Cinque ore, centosessantadue
pagine ed un pessimo pasto dopo, Cara iniziò a sentire le gambe che chiedevano
pietà. Provando ad allungare i polpacci capì ben presto di non avere abbastanza
spazio. Senza contare che anche la vescica iniziava a brontolare. Inspirò a
pieni polmoni, doveva alzarsi e raggiungere l’altro capo dell’aereo fino alla
toilette. Doveva andarci per forza, nonostante l’inevitabile consapevolezza che
in quei pochi passi sarebbe di certo passata accanto al criminale. Ok. Posso farlo. Devo solo alzarmi e tirare
dritto fino al bagno senza alzare gli occhi. Ce la posso fare.
Incoraggiata dalla sua
stessa voce interna slacciò la cintura e si mise in piedi, ignorando le
dolorose fitte alle ginocchia. Passò le mani tra i capelli, diede una rapida
rinfrescata all’abito ormai irrimediabilmente sgualcito, ed iniziò la sua
impresa, un passo alla volta, gli occhi tenuti incollati alla moquette.
A metà strada qualcosa
bloccò la sua marcia, lo scontro con un altro corpo. Costretta a sollevare la
testa si trovò di fronte il sorriso cordiale di un’hostess in divisa blu.
“Tutto bene signora?”
“Sì, devo solo…” Senza
specificare altro indicò la toilette con un cenno del viso. La ragazza in
tailleur sorrise di nuovo “Certo, prego.” Rispose educatamente spostandosi per
lasciarla passare. Un altro passo appena e stavolta fu un vuoto d’aria a
bloccarla, lo sbalzo dell’aereo le fece perdere l’equilibrio e finire
maldestramente contro un altro dei passeggeri, seduto e beatamente perso nello
schermo del proprio pc.
“Oddio, mi scusi!”
Si sentì immediatamente addosso
gli occhi di almeno metà delle persone presenti, l’imbarazzo vistosamente
dipinto nel rosso delle sue guance. Solita imbranata. Subito sulla difensiva,
decise di riprendere la marcia per il bagno a testa alta, dimenticando in un
nanosecondo l’accaduto.
Fu solo allora che i suoi
occhi incrociarono uno degli sguardi puntati su di lei. Un ragazzo, trent’anni
o poco più, rigido contro il sedile, un fastidioso sorrisino divertito in
faccia. Cara deglutì respingendo una nuova ondata di vergogna, avrebbe voluto
riportare il viso a terra, ma non le riuscì facilmente come avrebbe creduto.
Quello era senza dubbio l’uomo più bello che avesse visto in molto, molto
tempo. Capelli biondo cenere, non troppo corti, mossi e spettinati. Occhi
azzurri, di un azzurro freddo e limpido. Lineamenti angelici, ma
incredibilmente virili. Zigomi perfetti e delle labbra… Costrinse sé stessa a
guardare altrove per un momento e riprendere fiato. Labbra disegnate, carnose
al punto giusto, di un rosa così intenso da… Scosse la testa senza rendersene
conto, determinata a tornare alla realtà. Anche lui la stava ancora guardando,
fissando, studiando, accarezzando… L’attimo in cui riuscì finalmente a superare
il suo sedile sembrò infinito, dopodiché la corsa verso il bagno.
Si guardò immediatamente nel
minuscolo specchio. Solita sfortuna. Solita maledetta sfortuna. Il ragazzo più
bello che abbia mai visto è lì, sul suo stesso aereo, intrappolato con lei per
le prossime dodici ore, ma i suoi capelli sono un casino e la sua faccia porta
i segni di due voli extracontinentali in tre giorni. Senza contare che avrebbe
dovuto preoccuparsi di ben altre cose, vedi il fallimento della sua storia con
Ty o la presenza di uno spietato boss mafioso tra i passeggeri.
Scosse la testa e lasciò
scorrere l’acqua sulle mani insaponate, sperando che il liquido freddo lavasse
via quei nitidi ed inopportuni pensieri sullo sconosciuto.
///////
Joseph teneva la schiena
dritta contro il sedile, doveva evitare di assumere posizioni innaturali e
troppo stancanti per mantenersi pronto a scattare. Le mani poggiate sui
braccioli e l’aria più indifferente che mai. I poliziotti erano sparsi per
tutto l’aereo, poteva facilmente individuarli anche a distanza. Il resto della
marmaglia composto da persone del tutto insignificanti.
Strinse i denti e tese i
muscoli del collo tornando a contare il tempo. Ormai dovevano già essere sopra
l’oceano. Ormai doveva mancare poco. Trattenne a stento l’istinto di stirarsi,
le guardie erano ancora convinte che fosse sedato e lui doveva impegnarsi per
mantenere tale convinzione. Nessun poteva sapere che durante l’addestramento
gli avevano iniettato pressoché qualsiasi tipo di sedativo, droga o veleno,
sempre in piccole quantità affinché il suo organismo ne diventasse immune.
Qualsiasi movimento troppo ampio o veloce avrebbe rischiato di compromettere la
copertura.
Inspirò. Avrebbero almeno
potuto dargli un libro o un lettore mp3. Quel viaggio stava davvero diventando
noioso. Fintanto che il piano di Elia non fosse scattato, ogni minuto sarebbe
stato lungo il triplo.
L’ingorgo creatosi al centro
del corridoio richiamò la sua attenzione, non che qualcuna di quelle persone
avesse la minima importanza o attrattiva per lui, ma tanto valeva concentrarsi
su altro.
L’hostess in divisa blu gli
dava le spalle, anche da dietro era del tutto anonima, una bellezza nella media
non degna della sua attenzione. Fu solo quando l’hostess si tolse di mezzo che
qualcosa riuscì finalmente a catturare il suo interesse. Qualcuno, ad essere
precisi. Una ragazza, una giovane ragazza impacciata alle prese con un vuoto
d’aria. Vedendola crollare addosso al tizio con gli occhiali non riuscì a non
sorridere, l’accenno di un sorriso genuinamente divertito.
La sconosciuta si era tirata
su e le sue guance si erano accese di rosso, un rosso talmente innocente da
catalizzare la sua completa concentrazione. Accantonato il piano per un attimo
si concesse di osservare la totalità della sua figura, senza che alcun
particolare sfuggisse ai suoi occhi esperti. Lunghi capelli color platino,
lasciati liberi in morbidi boccoli. Pelle bianca e perfetta, così chiara che i
suoi occhi blu sembravano saltare fuori dal viso, grandi ed incerti. Nulla a
che vedere col colore freddo delle proprie iridi, quelle della sconosciuta
erano scure, intense, gli ricordavano il mare in tempesta dell’Irlanda del Nord.
Scorrendo più in giù ne accarezzò la figura minuta sotto il vestito blu scuro,
da come le cadeva sui fianchi era certo che il sottile strato di tessuto
nascondesse misteri altrettanto interessanti.
Oh, se solo non si fosse
trovato in quella situazione, se solo quello fosse stato un semplice viaggio
d’affari. Si passò la lingua sulle labbra mentre lei gli sfilava accanto
scomparendo alla sua vista. In altre circostanze si sarebbe già alzato e l’avrebbe
seguita nella toilette. In altre circostanze l’avrebbe spinta dentro senza
nemmeno dirgli il suo nome. In altre circostanze le avrebbe già strappato di
dosso quell’insignificante abito blu.
Si irrigidì contro il sedile
scoprendo con piacere che, nonostante la situazione, il suo corpo rispondeva
ancora benissimo agli stimoli. Peccato non poter sfogare quella voglia
improvvisa. L’immagine della ragazza gli riempì la mente. Spinta contro il
minuscolo lavandino, le gambe aperte, avvinghiate intorno ai suoi fianchi, le
guance tinte dello stesso rosso che le aveva visto addosso poco prima. Non più
di vergogna, ma di puro piacere. Il suo nome pronunciato più e più volte come
una preghiera. Nelle sue orecchie i miagolii della ragazzina.
Joseph poggiò la testa
all’indietro sghignazzando coi suoi stessi pensieri. Se ne avesse davvero avuto
modo l’avrebbe scopata come nessun altro prima, sicuro che non se ne sarebbe
dimenticata. Nessuna donna dimentica le mani del Lupo. Lui, d’altro canto,
l’avrebbe scordato subito dopo, lasciando che il ricordo del suo sapore e dei
suoi gemiti si mischiasse a quello di tutte le altre donne passate per il suo
letto.
Lo scatto della porta della
toilette lo riportò alla realtà, in attesa, con la coda dell’occhio, che la
sconosciuta ricomparisse. I suoi passi lenti e leggeri, quasi volesse ritardare
l’incontro il più possibile. Joseph sollevò l’angolo della bocca in una smorfia
compiaciuta, certo del suo effetto sulle donne, la sua arma preferita dopo i
coltelli affilati.
L’intenso profumo dolciastro
di fiori e vaniglia raggiunse le sue cellule olfattive, riaccendendo in un
istante la fantasia erotica. Doveva essere quello l’odore della sua pelle. Come
aveva potuto non notarlo prima? Ed eccola comparire al suo fianco, impossibile
resistere alla tentazione di seguirla con gli occhi e sorriderle. La sconosciuta esitò appena in prossimità del
suo sedile, quasi spaventata all’idea di incontralo ancora. Joseph voltò la
testa verso di lei, deciso a memorizzare ogni dettaglio prima di lasciarla
sfilare via. Lei rispose allo sguardo, un velo d’imbarazzo in viso mentre si
sforzava di restare impassibile. I suoi grandi occhi color lapislazzulo
brillarono contro quelli di lui, iridescenti come opali. Mai visti occhi così
prima. Di colpo l’idea che dovesse morire gli chiuse lo stomaco. Che gran
peccato.
Quasi gli avesse letto nel
pensiero la ragazza abbassò lo sguardo, seguendo la linea dei suoi muscoli
sotto la t-shirt, schiudendo appena le labbra rosse, accarezzandogli il braccio
sinistro con gli occhi, fino alla mano, fino alla punta delle dita. L’incontro
di pochi passi divenuto una scena a rallentatore per entrambi.
Di colpo la magia si
interruppe, Joseph la vide spalancare gli occhi ed irrigidirsi, l’imbarazzo
divenuto paura in un secondo. Spiazzato da un simile repentino cambio d’umore,
individuò immediatamente il punto preciso che lei stava fissando, la causa di
quell’ improvviso, incomprensibile spavento. Le pupille del Lupo finirono a
guardare il suo stesso polso, stretto dentro quell’orrendo braccialetto di
metallo. Il braccialetto.
Sollevando la testa con un
colpo secco si accorse che la ragazza era già in fondo all’aereo, come se dal
suo sedile in poi avesse corso verso la sicurezza. Joseph socchiuse le palpebre
serrando le labbra. Lei sapeva. La sconosciuta sapeva del braccialetto e di
cosa volesse dire. La ragazza dell’aereo conosceva la sua identità. Fissò il
sedile davanti quasi potesse attraversarlo ed arrivare fino a lei. Non era una
poliziotta, di questo era sicuro, tantomeno un’agente di sicurezza o una
diplomatica americana immischiata nel suo caso. Era una ragazza qualunque in
volo da Johannesburg. Come poteva conoscere la regola del braccialetto? E come
mai lui invece non aveva idea di chi fosse? Si morse piano il labbro inferiore.
Elia avrebbe fatto meglio a muoversi col suo piano di fuga, altre tre ore con
quel dubbio e avrebbe finito per avere un terribile mal di testa.
///////
Cara era crollata sul sedile
allacciando la cintura immediatamente dopo, quella breve corsa a passi veloci
sembrava averla sfinita. Inspirò piano, ripassando a mente ciò che aveva appena
vissuto. Lo sconosciuto sexy, i suoi occhi addosso, la sensazione di calore
improvvisa, l’impressione di essere nuda davanti a lui. Il suo mezzo sorriso da
ragazzo cattivo, i muscoli scolpiti sotto la maglietta bianca, l’avambraccio
teso, un braccialetto anonimo al polso, le dita lunghe lasciate riposare sui
jeans… Cosa avrebbero mai potuto farle quelle dita? Aspetta… Il suo cervello si era riacceso in
un flash… Jeans.. Braccialetto… Maglietta bianca… Ragazzo cattivo… Braccialetto…
Braccialetto d’acciaio… Assassino. Lui. Lui è l’assassino. Il suo cuore aveva preso a battere come una
mitragliatrice ed i piedi l’avevano portata a posto in un secondo. L’atmosfera
dell’aereo era mutata immediatamente dopo, l’aria divenuta difficile da
respirare. Cara strinse gli occhi chiusi cercando di cancellare completamente
la fantasia di essere toccata da quelle mani, rimpiazzandola con l’idea che
fosse un mostro. Fantastico. Era riuscita ad attirare l’attenzione del mostro.
Probabilmente, mentre lei sognava di rotolare tra lenzuola di seta, lui stava
immaginando di squartarla e dipingere un quadro con le sue budella. Le venne da
vomitare. Tirò fuori l’Ipod e decise di farsi aiutare dalla musica, per quanto
possibile.
Ad occhi chiusi lasciò che
la voce di Ed Sheeran compisse il miracolo, permettendo al tempo di scorrere
più in fretta, interrompendo il conto mentale di quanti fossero i modi per
morire torturata da un assassino psicopatico. Il suo petto andava su e giù come
stesse dormendo, l’idea che probabilmente si era fatta l’hostess al suo fianco,
intenta a studiarne l’espressione per capire se fosse il caso di disturbarla o
meno. Cara spalancò le palpebre sentendosi di colpo osservata, la ragazza
dell’American Airlines si ritirò quasi spaventata
“Mi, mi scusi signorina.
Gradisce qualcosa?”
Cara roteò in bocca la
lingua asciutta “Sì…Un caffè macchiato per cortesia.”
L’altra sorrise ed afferrò
immediatamente il bicchiere di cartone, riempiendolo quasi fino all’orlo con la
bevanda fumante. Glielo porse senza togliersi dal viso l’irritante espressione
di cortesia. Cara fece per afferrarlo, ma la sua mano non strinse abbastanza
forte la presa, il bicchiere cadde dritto sulle sue ginocchia, il caffè
bollente rovesciato in un’onda su tutto il suo vestito. La prima sensazione fu
la pelle che le andava a fuoco, l’estrema necessità di raffreddarsi il prima
possibile. Davanti allo sguardo mortificato dell’hostess balzò in piedi cercando
di staccare la stoffa bollente dalla pelle sottostante. Il fastidio sparì
abbastanza veloce da lasciare il passo alla consapevolezza di avere addosso un
vestito completamente impiastricciato di panna e caffè. Cara sbuffò ruotando
gli occhi al cielo. Possibile che non ne andasse una dritta? Scosse la testa.
Ora avrebbe dovuto di nuovo attraversare l’aereo per raggiungere il bagno e
darsi una ripulita, l’odore della miscela già divenuto fastidioso. Con un
sospiro vistoso ignorò le scuse superflue dell’hostess e si allungò per
recuperare il proprio bagaglio a mano, salviettine una e getta e fazzoletti di
carta. Guardò la porticina lontana della toilette e decise che stavolta
davvero, davvero non avrebbe distolto lo sguardo dalla meta per nessuna ragione
al mondo.
///////
Eccola di nuovo. Joseph la
vide balzare in piedi, la piccola doveva davvero essere imbranata; la sua
innocente incapacità, un interruttore per le fantasie più perverse. Sorrise
appena guardandola avvicinarsi con sguardo determinato, il suo abito un
disastro marrone, la stoffa sintetica appiccicata alla curva del suo seno. La
cosa si stava facendo sorprendente, quella ragazza attirava le sue cellule come
un magnete, come forse nessuna donna incontrata prima. Di nuovo le sue
interiora sembrarono intrecciarsi, che grande spreco lasciarla andare giù con
l’aereo.
Se solo lo show potesse
cominciare in fretta. Lanciò un’occhiata al finestrino, si era fatta notte e
ormai dovevano aver passato il confine delle acque internazionali. Strinse la
presa intorno ai braccioli cercando di riguadagnare tutta la concentrazione
necessaria. Inspirò a pieni polmoni. Due volte. Tre volte. Eccolo. Il segnale
che tutto stava cominciando.
L’odore dolciastro
dell’etere etilico diluito con qualche altro gas raggiunse le sue narici
esperte prima di tutte le altre, prese a respirare più lentamente,
intervallando venti secondi prima di inalare di nuovo. Controllò in maniera
impercettibile che tutti i suoi muscoli rispondessero ai comandi e se ne stette
ad aspettare. Elia non aveva smentito la sua naturale inclinazione verso veleni
e tossine.
Non appena il tizio alla sua
sinistra prese a sonnecchiare, del tutto ignaro dell’azione della miscela sui
suoi polmoni, Joseph staccò la schiena dal sedile. Gli occhi attenti dell’agente
accanto a lui gli piombarono addosso.
“Devo pisciare.”
Specificò senza troppe
cerimonie, l’altro rispose con un cenno della testa. Joseph non tentò nemmeno
di tradurlo, tutta la polizia a bordo si era fatta forte dietro la presunta
impossibilità di fuga a dodicimila metri di altezza. Poveri illusi. Si tirò su
lentamente e stirò la schiena smettendo di respirare, poi si voltò verso la
toilette. No. Cazzo. La sconosciuta nel
bagno. Imprecò a denti stretti, non poteva perdere tempo, anche se il suo corpo
era allenato, non avrebbe potuto resistere al gas narcotico tanto più a lungo
degli altri. Raggiunse la porta in pochi passi e bussò cortesemente.
“Occupato!”
Joseph imprecò di nuovo.
Bussò una seconda volta.
“Un attimo!”
Bussò una terza volta,
stavolta più deciso.
Cara aggrottò la fronte.
L’altro passeggero doveva davvero stare per farsela addosso. Oppure era un gran
maleducato. Il suo abito faceva comunque schifo, ma almeno era riuscita ad
asciugare il salvabile. Di nuovo un colpo secco alla porta.
“Ma che diavolo…”
Non appena girò la serratura
la porta le si aprì addosso e qualcuno piombò nella stanzetta chiudendosi a
chiave dietro le spalle. Cara si ritrovò schiacciata contro la parete, senza
capire cosa stesse succedendo. Sollevò gli occhi cercando di ricavarsi uno
spazio vitale. Oh no. No no no no no. Lui. Il mostro. L’assassino crudele. Lo
stupratore. Il pazzo maniaco.
Guardandola in viso,
sconvolta e pronta a liberare un urlo in grado di svegliare anche i morti,
Joseph le premette una mano sulla bocca. Cara prese a scalciare nello spazio
ristretto, cercando di colpire un qualunque punto doloroso. Lui sospirò per
nulla messo in difficoltà dai suoi movimenti scoordinati. Stretta alle spalle
con l’altro braccio la spinse contro il lavandino, sbattendole la testa contro
il piccolo specchio. I suoi grandi occhi blu sgranati come se sapesse di stare
per morire. Smise di dimenarsi come un’anguilla e Joseph poté allentare la
presa. Il suo seno andava su e giù ad un ritmo incredibile, consumando più aria
del consentito. Doveva riuscire a calmarla.
“Tranquilla. Non ti farò del
male.”
Cara rimase immobile,
nessuna emozione diversa dalla paura le attraversò il viso.
“Ti prego, non urlare.”
Aggiunse. Cara restò un
pezzo di ghiaccio sotto le sue mani. La presa attorno alla bocca lentamente
meno stretta, le sue labbra di nuovo in grado di muoversi e prendere aria. Gli
occhi di lui la tenevano inchiodata al muro, lo sguardo vitreo, ma anche
impercettibilmente nervoso. Cara studiò le sue carte in silenzio, mentre le dita
dell’assassino si allontanavo dal suo viso. Prese fiato e fece appello a tutta
la forza della sue corde vocali
“Aiut…”
Il suo cranio si schiantò
contro la parete, stavolta in maniera ben poco delicata, la mano di Joseph
pressata contro la bocca e l’avambraccio opposto premuto sulla trachea.
Respirare le sembrò di colpo impossibile. Scelta sbagliata quella di urlare.
“Ti ho detto di non
urlare.” Ogni parvenza di cortesia
sparita dal tono gelido della sua voce. Gli occhi di Cara spalancati ed
arrossati dall’ipossia. La paura di morire. Una visione fin troppo conosciuta
per lui, tanto scontata che riusciva benissimo ad ignorarla. Più difficile
ignorare il suo corpo premuto contro quello della sconosciuta, l’abito
sollevato all’altezza delle cosce, le mani di lei premute in difesa contro il
suo torace. Un vero peccato essersi incontrati così.
Scosse la testa e le lasciò
il respiro libero. Pian piano allontanò di nuovo la mano senza distogliere
l’attenzione, neanche per un decimo di secondo. Le labbra della ragazza restarono
serrate.
“Brava.”
Joseph riuscì finalmente a
guardarsi intorno alla ricerca del punto prestabilito.
“Che succede lì dentro??”
Due colpi alla porta e la
voce dell’agente. Joseph imprecò ancora, stavolta a voce alta. Il suo primo
pensiero rivolto alla sconosciuta, se avesse provato ad urlare, bellissima o
meno, le avrebbe spezzato il collo. Cara rispose al suo sguardo senza muovere
un muscolo, le dita strette contro il lavandino, le nocche diventate bianche
per la forza impiegata. Sotto sotto doveva essere vero diavolo.
“Tutto bene.”
“Apri la porta! Adesso!”
Lui sbuffò. Perché non era
ancora svenuto come gli altri?
“Apri Michaelson! So che
stai combinando qualcosa!”
Joseph rimase immobile, fin
troppo tranquillo, prendendo a contare a bassa voce. Arrivato più o meno ad
otto un tonfo sordo si udì al di là della porta. Lui riprese immediatamente a
muoversi, spostando di peso Cara verso la porta.
“Ora puoi urlare quanto
vuoi.”
Finalmente lei si decise a
parlare
“Che vuoi fare?”
Lui tirò un pugno al
soffitto facendo facilmente saltare il rivestimento, allungò un braccio nel
buco cercando di tirarsi su sui piedi il più possibile. Ne tirò fuori una
specie di zaino marrone. La spinse ancora contro il muro per farsi spazio nella
minuscola toilette. Cara si trovò di fronte la porta, la sua mano scivolò
immediatamente sulla maniglia.
“Fossi in te non lo farei…”
La avvertì lui senza
distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo
“…A meno che tu non voglia
morire.”
Cara si irrigidì cercando il
viso dell’assassino, poteva permettersi di disobbedirgli di nuovo?
“Che cosa vuoi fare?”
Ripeté incerta. Joseph
indossò quella specie di zaino e lei riuscì finalmente a capire cosa fosse. Un
paracadute.
“Farò precipitare l’aereo.”
Rispose. La sua espressione
quasi divertita, come fosse un bambino che sta per rubare un pacchetto di
caramelle.
“Cosa?”
Joseph controllò che le
cinghie fossero abbastanza strette e finalmente rivolse lo sguardo a Cara. I
suoi occhi blu sgranati dal terrore, sul suo viso il chiaro desiderio di
chiedere pietà, la terrificante idea di schiantarsi ed esplodere, la
determinazione di non supplicare. No. Dopo anni passati ad uccidere ormai
poteva leggere qualsiasi espressione negli occhi delle sue vittime. Quella
ragazza no, non avrebbe supplicato.
Cara rimase immobile a
fissare l’uomo di fronte a lei, consapevole di colpo che sarebbe morta col
ricordo di quel viso negli occhi. Nessun addio. Nessun abbraccio. Le lacrime
provarono ad affacciarsi, ma le scacciò via di corsa. Inspirò restando in
silenzio. Ripensò a Ty e alla ragazza mora, ma non provò niente. Pensò a Sonia
che avrebbe atteso invano all’aeroporto. Quanto si sarebbe sentita in colpa?
Contemplò l’idea di chiedere pietà, di inginocchiarsi e supplicare per la
propria vita. Sarebbe mai riuscita ad impietosirlo? E perché poi? Non si
sarebbe lasciata dietro nulla più che un lavoro da cameriera ed un bilocale
disordinato. Non ne valeva la pena.
Joseph si mosse lentamente
coprendo il piccolo spazio tra loro, di nuovo premette il suo corpo contro
quello della ragazza, stavolta senza violenza. Sollevò una mano e lasciò
scivolare la punta di un dito contro il suo viso. Quella pelle color latte
morbida sotto il suo tocco ruvido. I suoi capelli soffici come seta. Le lunghe
ciglia spalancate, decise a non cedergli. L’urgenza di baciare quelle labbra
rosse lo colpì come un pugno inaspettato. Qualcosa in lei lo teneva incollato,
qualcosa che non aveva mai incontrato prima. Mai provato. Il rimpianto. La
consapevolezza che avrebbe vissuto da quel momento in poi senza poter conoscere
il tocco ed il sapore di quelle labbra.
“Non hai paura di morire?”
“Non ho molte ragioni per
vivere.”
Cara sospirò a pochi
centimetri da lui, immobilizzata dalla paura e dalla scia di calore che il dito
di lui aveva lasciato dopo il breve percorso. L’ultimo gesto di compassione del
suo assassino.
Joseph si staccò di colpo.
Era un pazzo per pensare davvero di riuscire a farlo. Comunque ci avrebbe
provato.
“Ascoltami bene…”
Di nuovo richiamò
l’attenzione della ragazza prendendole il viso tra le mani e costringendola a
guardarlo.
“…E fa esattamente come ti
dico.”
Senza specificare oltre
allentò le cinghie del paracadute e voltò Cara così che la sua schiena fosse
premuta contro il proprio torace. La strinse forte a sé, premendo sul diaframma
quasi fino a toglierle il respiro, allungò le cinghie e le fece girare intorno
alla sua vita sottile. Dopodiché le afferrò le braccia una alla volta, senza
troppa delicatezza fece in modo che passassero sotto le bretelle del
paracadute. Sì, era davvero un folle.
“Che…che vuoi fare con me?”
Cara si ritrovò a respirare
affannosamente, la cinghia del paracadute le stringeva la vita e la posizione
innaturale le limitava i movimenti. Tutto il suo corpo era spalmato contro
quell’uomo, riusciva a sentire la solidità dei suoi muscoli addosso, il suo
respiro lento che le si perdeva tra i capelli. Un nuovo terrore la percorse
come un brivido lungo la schiena. Vuole che mi butti con lui?? Improvvisamente
l’idea di schiantarsi col resto dell’aereo non le sembrò più tanto male.
“Sta’ zitta.”
Ordinò lui prima di
muoversi, forte abbastanza da strascinarla con sé senza alcuno sforzo. I piedi
di Cara sembravano non toccare più terra.
Joseph afferrò la maniglia.
“Appena aprirò questa porta
smetti di respirare.”
Cara deglutì fissando la
porta della toilette. Come avrebbe potuto smettere di respirare? Per quanto
tempo poi?
“Io..Non po…”
Prima che riuscisse a
completare una frase di senso compiuto la maniglia scattò e lei prese a
muoversi senza intenzione, totalmente sollevata e spinta da lui. Nonostante il
cervello in completa confusione, serrò le labbra e respinse l’intenso desiderio
di riempirsi i polmoni fino all’orlo. Intorno a lei sembravano dormire tutti,
l’hostess inopportuna sdraiata e scomposta al centro del corridoio. Joseph la
saltò in un solo passo e spalancò la porta della cabina di pilotaggio. I due
piloti in divisa bianca avevano gli occhi chiusi e la testa ciondolante come
tutti gli altri. Cara sentì in gola la bruciante necessità di prendere aria,
senza nemmeno rendersene conto strinse la maglietta di Joseph nei pugni. Lui
sembrò ricordarsi solo in quel momento della sua presenza, si sporse avanti e
spinse un tasto. Un solo unico tasto.
Di colpo, come se fossero
piombati in un gigantesco vuoto d’aria, la pressione nell’aereo aumentò. Cara
si portò le mani alle orecchie cercando di uccidere quel dolore improvviso, il
suo stomaco si torse ed il suo istinto di sopravvivenza ebbe la meglio su tutto
il resto. Spalancando bocca e polmoni, si riempì le vie aeree di un intenso
odore dolciastro, in bocca il sapore fastidioso di alcool ed acetone. Stavano
precipitando. Stavano precipitando mentre Joseph armeggiava col portellone.
Cara chiuse gli occhi, non voleva più sapere come sarebbe finita.
Fortunatamente tutto intorno a lei sembrò svanire di colpo, compreso il suo
stato di coscienza.
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
cap3
Cara si sentì avvolta in
qualcosa di morbido, di caldo e morbido. Non riusciva a capire se stesse ancora
respirando o se quella fosse la sensazione della morte. Sembrava avesse la gola
in fiamme e che un treno le stesse attraversando il cervello. Sembrava fosse
schiacciata sotto una tonnellata di cemento. Tentò di intrattenere una
conversazione con i suoi neuroni, cercando di capire se potessero ancora
sentirla. Ordinò al suo indice destro di muoversi, almeno un paio di volte
prima di percepire che stava toccando qualcosa di liscio. Ordinò alle sue
palpebre di sollevarsi, ma la luce al di là sembrò ferirla come una lama
incandescente. Le sfuggì un lamento roco.. Se poteva ancora muoversi ed
emettere suoni forse non era morta dopotutto, oppure la sua versione di
paradiso faceva ancora più schifo della realtà.
Provò ancora una volta ad
aprire gli occhi, uno alla volta, il più lentamente possibile. La stanza era
avvolta in una luce gialla, i dettagli difficili da cogliere, il suo corpo
disteso sotto lenzuola bianche. Era un letto. Era sdraiata in una minuscola
stanza sconosciuta. Il letto sembrò muoversi di colpo e Cara emise un altro
gemito infastidito cercando di tenere a bada la nausea.
“Buongiorno.”
La voce sconosciuta le
arrivò alle orecchie come fosse lontana un chilometro. Cara biascicò cercando
di riportare la mente ad un piano di realtà accettabile. Aereo. Assassino.
Toilette. Paracadute. Non respirare. Assassino. Spalancò gli occhi e si tirò su
in un istante. La vista sembrò mancarle per qualche secondo, poi riuscì
finalmente a mettere a fuoco dove si trovava.
La stanza era davvero
piccola, dalla finestra tonda alla sua sinistra entrava la fastidiosa luce del
sole, le pareti erano color crema, le finiture erano in legno e l’assassino
dell’aereo se ne stava seduto su un’anonima sedia nell’angolo. Sulla sua faccia
un mezzo sorriso.
Cara indietreggiò sul
materasso fino a spalmare la schiena contro la lettiera. Il cambio improvviso
di posizione le fece vedere blu e, nel tentativo di non svenire, si portò entrambe
le mani alla testa.
Lui inclinò la testa “Vacci
piano. E’ stato un viaggio piuttosto impegnativo per te.” Disse con tono
sarcastico e divertito, mentre lei cercava di prendere ossigeno e allo stesso
tempo fissarlo in assetto da fuga.
Cara rimase immobile dopo un
paio di lunghi respiri, rivolgendo l’attenzione a sé stessa. Aveva ancora
addosso il vestito macchiato di caffè, mentre i suoi piedi erano scalzi sotto
le lenzuola. Tutta la sua pelle sembrava tirare, come se avesse fatto il bagno nel
Mar Morto senza poi spalmare l’idratante. Si portò una mano alla testa, le sue
dita rimasero incastrate tra i capelli come fossero un fitto ammasso di paglia
e lana cardata.
“Dove sono?”
Lui sollevò le sopracciglia
“Su una barca. Nel bel mezzo dell’oceano Atlantico.”
Cara cercò di muoversi e
venir via dalle coperte. La testa prese a girarle d’improvviso.
“Io te l’avevo detto di
trattenere il respiro.”
Cara poggiò i piedi a terra
ignorando la sua ironia
“Che mi hai fatto?”
Joseph si alzò dalla sedia,
aveva addosso abiti puliti e sembrava stare decisamente meglio di lei.
“Io niente. Ma l’aereo era
pieno di gas narcotico.”
Lei cercò di far quadrare
tutti i ricordi e le deduzioni logiche, ma si arrese ben presto. Fece forza
sulle braccia per tirarsi su. Barcollò vistosamente e Joseph le si avvicinò
cercando di afferrarla. Cara sgranò gli occhi e si tirò indietro.
“Non mi toccare.”
Lui sorrise di nuovo.
Nonostante il gas, il volo e la “nuotata” in quelle acque gelide, la ragazza
aveva ancora abbastanza grinta per difendersi.
“Ti ho salvato la vita.
Dovresti essere un po’ più gentile con me.”
“Che ne è stato degli altri
passeggeri?”
Joseph sollevò le spalle
cercando un modo carino per risponderle. Non gli piacevano le scene di panico e
quella risposta beh, avrebbe portato ad un’inevitabile scena di panico. Mentre
rifletteva gli occhi della ragazza si strinsero su di lui, scansando la paura
per un attimo, al suo posto il giudizio, un profondo sguardo di sdegno e
repulsione, il tutto contornato da un alone di pietà per i caduti.
Non fu necessario
rispondere. Cara spalancò di nuovo gli occhi
“Oh dio mio li hai uccisi
tutti… Ucciderai anche me adesso vero? Mi farai a pezzi!”
Dando il via al tanto
preannunciato panico, l’isteria sembrò impossessarsi di lei in un attimo,
rendendole tutta la forza persa. Cara balzò in piedi cercando la prima via di
fuga accessibile, il respiro affannato ed il preludio di un lungo pianto negli
occhi. Joseph roteò gli occhi al cielo,
fin troppo prevedibile, anche se non credeva che la sua ragazza dell’aereo
fosse un tipo dalla lacrima facile.
Cara adocchiò la porta
dietro di lui come unica possibile salvezza e decise di correre verso la
maniglia. Lui non si mosse nemmeno, bloccando la sua breve fuga con un solo
braccio. Cara balzò indietro al contatto e scosse la testa, fermamente decisa a
non essere una preda facile. Saltò sul letto e passò all’altro lato della
stanza, fiondandosi immediatamente contro la porta della cabina. Strinse la
mano intorno al metallo, ma prima che potesse fare pressione, la mano di Joseph
si spalmò contro la porta annullando qualsiasi suo tentativo di far forza. Cara
provò comunque a tirare con tutta sé stessa, arrivando presto alla conclusione
che in quel momento le sue risorse erano piuttosto scarse. Mandando giù si
voltò verso di lui, trovandosi con la schiena inchiodata all’uscita. Avrebbe
voluto intimorirlo con lo sguardo, rendergli presente che non aveva rapito la
solita ragazzina indifesa, ma non mosse un muscolo né proferì parola. Joseph la
teneva premuta contro la porta col suo corpo, senza neanche il bisogno di
toccarla davvero. Quella scintilla di combattività gli aveva ricordato il
motivo per cui l’aveva portata giù con sé, anche se solo in quel momento
iniziava a domandarsi cosa avrebbe potuto o dovuto farne di lei. Ben presto uno
dei suoi fratelli sarebbe venuto a prenderlo e di certo, non sarebbe stato
contento di trovare un ospite a bordo. Nessuno ne sarebbe stato contento. La
ragazza in fondo aveva ragione, era spacciata.
Tuttavia, oltre ad essere
condannata era anche dannatamente bella, perfino con quel disastro di capelli e
ricoperta dalla salsedine. Quegli occhi poi, quegli occhi avevano qualcosa di
innaturale, mai visto prima… E la forza con cui cercava di combatterlo, la
determinazione e l’indignazione… Joseph si morse il labbro al pensiero di
quanto gli sarebbe piaciuto portare quella lotta ad un altro livello.
Cara, d’altra parte, ancora
confusa e disorientata dallo sguardo predatore con cui lui la fissava, decise
di fare un ultimo tentativo. Su quell’aereo l’idea di morire non le era
sembrata tanto male, qualche secondo prima di svenire e poi non avrebbe sentito
più nulla, ora invece, la sola idea di essere torturata, picchiata, fatta a
pezzi, forse perfino stuprata… No, non voleva morire così.
Raccolse tutte le sue forze
e ficcò il ginocchio nel basso ventre di Joseph, non era certa di aver preso il
punto più sensibile, ma tanto era bastato per farlo scansare da lei. Aprì la
porta di fretta e si precipitò su per la scaletta di legno seguendo la luce,
continuando a correre da una parte all’altra del piccolo ponte guardando il monotono
blu dell’oceano tutt’attorno. Alla fine sbatté contro il parapetto di prua e si
fermò a riprendere fiato guardando le onde. Non aveva via d’uscita, nessuna
eccetto…
Inspirando strinse le mani
tremolanti attorno al parapetto e si decise a scavalcarlo, una gamba alla
volta. Meglio annegare che soffrire per ore le torture di quel mostro.
“Fossi in te non lo farei.”
Lui le stava alle spalle,
probabilmente già da un po’. Suonava
ancora calmo e tranquillo. Cara non si voltò
“Perché no? Morirò
comunque.”
“Quell’acqua è fredda
tesoro, molto fredda. E non dimenticare gli squali. Credevo che non volessi
finire fatta a pezzi.”
Cara deglutì continuando a
guardar giù
“Tu cosa mi farai invece?”
Joseph sorrise, doveva
davvero essersi fatta una brutta idea di lui.
“Non ho ancora deciso in
realtà.”
Lui iniziò a muoversi e
farsi vicino. Cara strinse le mani attorno al metallo freddo del parapetto. Il
rumore delle onde poteva già riempirle le orecchie.
“Scendi da lì adesso.”
Stavolta il suo tono si era
fatto autoritario, ma non abbastanza da farla demordere. Cara lo sentì
sbuffare, ormai era dietro di lei, se voleva davvero suicidarsi doveva farlo in
quel momento. Mosse le dita, ma non riuscì a mollare.
“Ok tesoro, visto che non
vuoi proprio starmi a sentire, da adesso in poi faremo a modo mio.”
Joseph la afferrò per la
vita e la sollevò come fosse fatta d’aria, totalmente indisturbato dai suoi
tentativi di scalciare, prenderlo a pugni o strillargli nelle orecchie. Era già
stanco di quella commedia, meglio rimettere le cose in chiaro.
La buttò di peso sul letto,
lasciandola rimbalzare mentre ricorreva al trattamento pesante. Cara cercò di
dimenarsi, ma lui la bloccò col proprio peso, stringendole i polsi sopra la
testa. Qualcosa le si strinse attorno alla mano e subito dopo l’assassino
sembrò mollare la presa. Cara cercò immediatamente di muoversi di nuovo, ma si
ritrovò incatenata alla spalliera del letto per il polso destro, lui le stava ancora
sopra e dallo sguardo poteva dirsi abbastanza soddisfatto.
Quel mezzo sorriso
compiaciuto, i capelli scompigliati per la lotta, i muscoli tesi per restare in
bilico su di lei senza schiacciarla. Cara sospirò guardando altrove. Doveva
esserci qualcosa di molto molto perverso nel trovare attraente il proprio
assassino.
Joseph si passò la lingua
sul labbro, dimostrarsi più forte era un dolce piacere come sempre. Prese
coscienza del suo corpo mezzo steso su di lei, della condizione da prigioniera
di Cara e delle sue lunghe gambe scoperte. Quello sarebbe stato un buon momento
per farla sua, sarebbe stato fin troppo facile e, a giudicare dall’espressione
della ragazza rivolta al vuoto, lei non si sarebbe nemmeno lamentata troppo.
Joseph sorrise di nuovo ripensando al modo in cui si erano guardati sull’aereo,
anche la ragazzina aveva fantasie peccaminose su di lui, poco ma sicuro.
Cedendo alla tentazione
passò la mano sulla gamba di Cara, la pelle ruvida per via dell’acqua salata.
Lei si irrigidì cercando di tenerlo lontano con la mano libera, provando a
spingerlo via. Era questo che l’aspettava? Essere violentata su una barca in
mezzo al nulla? La mano dell’assassino proseguì lenta, accarezzando la linea
del suo ginocchio e poi a salire lungo la coscia. Il tocco delicato, le sue
dita calde contro la pelle, gli occhi azzurri ancora incollati al suo viso. Non
sembrava la carezza di un mostro. Cara chiuse gli occhi sperando che lui non si
muovesse oltre. Non era certa di come il suo corpo avrebbe reagito.
“Adesso almeno starai
buona.”
Joseph si tirò su di colpo
sopprimendo il desiderio di proseguire l’esplorazione di quel corpo, la sua
circolazione sanguigna già fin troppo accelerata. Si ricompose velocemente e
tornò a sedersi sulla sedia all’angolo.
“Come ti chiami?”
Esordì. Cara strinse le
gambe al petto, lui continuava a fissarla con i gomiti poggiati alle ginocchia.
Deglutì
“Sonia.”
Rispose, cercando il primo
nome da dire che non fosse il suo. Joseph sollevò un sopracciglio
“Non mentire.” La ammonì,
serio come un funerale. Cara inspirò profondamente chiedendosi se fosse il caso
di continuare la commedia, probabilmente il suo era solo un bluff.
“Sonia, Sonia Brown.”
Insistette e lo sentì sbuffare rumorosamente in risposta. Joseph si alzò in
piedi e le si avvicinò con lo stesso sguardo grave, giocherellando con le sue
stesse dita come se si stesse preparando ad usarle. Cara sentì le sue falangi
scrocchiare e sussultò nel trovarselo di nuovo tanto vicino, lui si chinò
lentamente e le passò i polpastrelli sulla gola, rendendo chiaro quanto il suo
collo sarebbe stato fragile nella propria presa.
“Non. Mentire.” Precisò
ancora una volta, glaciale.
Cara annuì nervosamente e
prese coraggio
“Cara, il mio nome è Cara
Phillis.”
Joseph sorrise
allontanandosi “Come facevi a sapere?”
Lei contrasse la mandibola
“Sapere cosa?” Chiese in un mezzo sussurro. Lui sospirò tornando a sedersi
“Sapevi del braccialetto,
sapevi chi sono. Come?”
“Io non so chi sei.” Ribatté
istintivamente in difesa. Lui chiuse piano le palpebre, odiava dover ripetere
le cose.
“Come facevi a sapere?”
Cara prese fiato, la sua
inferiorità troppo palese per cercare di improvvisare un castello di bugie. E
comunque la realtà era già abbastanza ridicola.
“Una mia amica lavora
all’American Airlines. E’ stata lei a dirmi che sul volo ci sarebbe stato un
criminale con un braccialetto. Mi aveva anche detto di non prenderlo.. E avrei
fatto meglio ad ascoltarla.”
Lui aguzzò lo sguardo, senza
lontanamente cogliere il suo tentativo di ironizzare. Cercava di capire se la
ragazza stesse mentendo.
“Che ci facevi a
Johannesburg?”
Cara abbassò gli occhi,
anche se la sua sopravvivenza era ancora in dubbio, stavolta lo stomaco le si
torse al solo pensiero. Tutta colpa di Ty.
“Ero andata a trovare il mio
fidanzato.”
Joseph sorrise. Naturalmente
qualcuno aveva già messo le mani sulla ragazza. Beato lui, benché fosse un
dettaglio irrilevante nel suo piano. Improvvisamente un pensiero gli tornò alla
mente, cercò di scrutarla ancora più a fondo
“Sull’aereo hai detto di non
avere ragioni per vivere. Un fidanzato sembrerebbe una buona ragione invece.”
Cara tornò a guardare le sue
stesse mani
“L’ho trovato a letto con
un’altra” Confessò senza troppi giri di parole.
Lui rimase basito per un
secondo, uno appena. Questo fidanzato doveva essere un vero idiota. Si passò la
lingua sui denti curvando la schiena per esserle in qualche modo più vicino
“E’ per questo che volevi
morire? Perché il tuo uomo ti ha tradita?”
Stavolta Cara decise di
sollevare gli occhi ed incontrare i suoi, l’assassino la stava giudicando. La
stava giudicando una stupida. Peccato non sapesse nulla della sua vita.
“Lui è solo l’ultima di una
serie di ragioni.”
Joseph sentì il desiderio di
scavare in quell’affermazione, ma si bloccò prima di parlare. Quell’interrogatorio
si stava lentamente trasformando in una seduta psicanalitica, mentre il suo
compito era esclusivamente assicurarsi che la ragazza dell’aereo non fosse una
minaccia.
“Beh…” Prese fiato
lentamente “…Ti consiglio di trovare un buon motivo per vivere allora.”
Cara avvertì un brivido
correrle lungo la schiena
“Che..Che vuoi dire?”
Lui sollevò le sopracciglia
“Presto verranno a prendermi
e sinceramente…” DI nuovo una pausa “…Non ho idea di cosa farne di te.”
Cara deglutì
“Mi..Mi ucciderai?” Avrebbe voluto
suonare risoluta e coraggiosa, ma la voce le tremò come una foglia.
Joseph prese a fissarla. Su
quell’aereo non era riuscito a trattenere l’istinto, cosa assurda per uno come
lui, aveva afferrato la ragazza e l’aveva buttata giù con sé senza pensare.
Belle donne ne aveva viste a bizzeffe nella sua vita, tutte o quasi pronte a
rotolarsi con lui, bionde o more, europee o orientali, tutte piacevoli comparse
nei suoi soggiorni di “lavoro”. Quella ragazzina non avrebbe dovuto fare alcuna
differenza eppure, ripensando al momento preciso in cui i loro occhi si erano
incontrati per la prima volta, qualcosa in lui si era mosso. E nulla smuove mai
le viscere del Lupo. Era stato quel secondo a fregarlo, quell’improvviso
inaspettato sobbalzo all’altezza dello stomaco.
Cara teneva il suo sguardo,
sperando di leggerci dentro una risposta. Se ne stava rannicchiata all’angolo
del letto e provava ad immaginare cosa ne sarebbe stato di lei. Joseph
contrasse la mandibola, anche in quel momento, consapevole del suo errore, non
riusciva a non sentirsi attratto dal suo ostaggio. Dopotutto era quello il
motivo per cui l’aveva salvata, giusto? Per poterla avere, per potersi togliere
quel prurito e continuare con la sua vita di sempre. L’idea di farlo con la
forza, tuttavia, sembrava troppo perfino per lui. Gli venne da sorridere. Il
suo stesso codice di condotta lo stava beffando.
Le si avvicinò. Cara cercò
di farsi ancora più piccola, consapevole di avere solo un metro di gioco per
via della catena che la legava al letto. Gli occhi dell’assassino la stavano
accarezzando, caldi come il velluto, intensi come nel primo sguardo, quando lei
si era concessa di pensare che fosse l’uomo più bello del mondo. Adesso invece
quello stesso pensiero le sembrava inaccettabile, ripugnante, doveva sforzarsi
di cacciarlo nell’angolo più remoto della propria mente. Lui poggiò le mani sul
materasso e si fece alla sua altezza, scavando con forza nelle sue iridi blu,
tanto intensamente che Cara dovette spostare lo sguardo per non sentirsi nuda
di fronte a lui.
“No.”
Disse infine con la voce
bassa
“Non se mi convincerai a non
farlo.”
Cara tornò a ricambiare
istintivamente i suoi occhi, colpita dal tono allusivo delle ultime parole. Era
così vicino che poteva facilmente notare le poche pagliuzze verdi nell’azzurro
delle sue iridi, le piccole righe d’espressione sulla sua fronte, la linea
delle barba che non rasava da giorni ed il rosa perfetto delle sue labbra. Cosa
le stava chiedendo? Voleva forse che lo pregasse di non ucciderla? Era quel
tipo di criminale? La bocca di Cara si aprì lievemente per lasciar passare più
aria, non era questo che lui sembrava volere. Al solo pensiero il cuore prese a
batterle in gola, una strana sensazione di calore le riempì la pancia. Voleva
baciarla?? Quell’idea suonava assurda date le circostanze eppure pareva
alquanto difficile fraintendere la sua espressione, il modo in cui le sue
ciglia sbattevano lente mentre i suoi occhi indugiavano tra il suo sguardo
confuso e le sue labbra socchiuse.
Cara si sentì paralizzata,
ogni muscolo del suo corpo si tese all’istante, incapace di reagire davanti ad
un uomo che deteneva il potere completo, un uomo che il suo istinto di
sopravvivenza rigettava, al contrario della sua epidermide. Lo sentì
avvicinarsi ulteriormente e tutti i suoi pori si aprirono cercando di non
lasciarla andare a fuoco, il viso bloccato all’altezza del suo. Joseph indugiò
per un secondo mischiando il respiro a quello di lei, meravigliato eppure non
sorpreso del fatto che la ragazza non si fosse mossa di un millimetro.
Impercettibilmente girò la testa, inclinando il collo appena un po’, le sue
labbra sfiorarono finalmente la pelle di Cara, accarezzando la linea della sua
mandibola. Sentì il mare e la sabbia sulla bocca.
Lei chiuse gli occhi al
contatto, voltando il capo e stringendo le lenzuola nei pugni. Poteva sentire
il cuore pulsarle nelle orecchie, scorrerle dentro la testa come un fiume in
piena. Avrebbe voluto saltare e colpirlo, avrebbe voluto trovare quel tocco
rivoltante, ascoltare la voce nella sua testa che andava facendosi sempre più
lontana. Al suo posto un nuovo e sconosciuto formicolio, il risveglio
contemporaneo di tutte le sue cellule ricettive.
Joseph inspirò, riempiendosi
il naso con l’odore salino della sua pelle. Non resistette alla tentazione ed
aprì le labbra, passando la punta della lingua sul sale. In quel momento la
sentì tremare e si fermò per un secondo, notando con la coda dell’occhio come
la sua presa sulle coperte si fosse allentata. Guardò i suoi occhi chiusi e le
sue labbra, ora dipinte di un rosso acceso, i muscoli andavano pian piano
rilassandosi e lui le sorrise contro il collo. Se fosse stata di vetro si
sarebbe sciolta su quel letto, con così poco.
Il pensiero gli infiammò le
mani e allo stesso tempo lo fece gelare, costringendolo a staccarsi bruscamente
da lei. Era lui ad avere il potere, era lui a dover mantenere il controllo
della situazione, la ragazza era solo un ostaggio, una specie di passatempo,
nulla di più. Riprendendo il possesso di sé annullò in un istante il batticuore
ed i nodi allo stomaco. Nessun coinvolgimento ripeté a sé stesso. Nessun
coinvolgimento, questa è la regola.
Cara balzò sul letto come se
si fosse svegliata da un bel sogno, stringendosi in sé per calmare il freddo
improvviso. L’assassino era in piedi e guardava il vuoto, rendendole
impossibile capire cosa stesse pensando adesso. Forse non aveva capito nulla,
forse la lussuria non c’entrava, forse lui era solo una specie di psicopatico.
Finì a fissare le proprie mani e sembrò realizzare solo in quel momento le sue
condizioni, la pelle tirata, le striature bianche dell’acqua salata, il vestito
sporco, i capelli ammatassati. Ovvio che nemmeno uno psicopatico potesse
volerla in quelle condizioni. Scosse la testa perché ormai la sua mente stava
spaziando nel ridicolo, non solo si stava preoccupando di cosa lui pensasse, ma
iniziava a sperare che dopo averla uccisa avrebbe buttato il suo corpo
nell’oceano; almeno nessun altro l’avrebbe vista in quelle condizioni.
Joseph riprese a muoversi
puntando la porta
“Ti porterò qualcosa da bere.”
Disse con nonchalance, come
se il piccolo momento precedente fosse già caduto nel dimenticatoio. Cara lo
guardò afferrare la maniglia e si morse il labbro
“Aspetta.”
Lui si inchiodò sulla
soglia. Mandò giù e si voltò verso di lei senza proferire parola. Cara inspirò
profondamente e decise di tentare la propria fortuna
“Potrei.. Potrei almeno lavarmi
per favore?”
Osò chiedere con un filo di
voce. Lui aggrottò le sopracciglia, forse spiazzato dalla sua richiesta banale,
forse indeciso sulla risposa da dare. Rimase serio tutto il tempo, anche mentre
tornava sui suoi passi, facendosi vicino ancora una volta. Cara sentì l’istinto
di raggomitolarsi, probabilmente aveva tirato troppo la corda. Lui invece non
la guardò nemmeno mentre, con una piccola chiave, apriva la manetta al suo
polso. Con un cenno della testa indicò la porta di rimpetto a quella della
stanza
“Non più di dieci minuti. E
non cercare di combinare qualcosa perché potrei arrabbiarmi.”
Cara annuì massaggiandosi il
polso libero, aspettando di vederlo andar via prima di poggiare i piedi a terra
e correre verso il minuscolo bagno. Chiuse a chiave restando appoggiata alla
parete per qualche minuto. La prima cosa che le tornò alla mente fu la voce di
Sonia, ma perché cavolo non l’aveva ascoltata? Sbatté la fronte contro la
porta. Stupida. Stupida fino alla fine Cara.
Infilandosi velocemente
sotto il debole getto della doccia cercò di raggiungere contemporaneamente il
maggior numero di parti del suo corpo, di certo non voleva indispettire
l’assassino impiegando più del tempo richiesto. Ficcò tra i capelli il primo
shampoo a portata di mano e cercò di tirar via tutta l’acqua salata, quasi fino
a graffiarsi la pelle. Chiuse gli occhi e si lasciò ricoprire completamente
dall’acqua bollente, lasciando che lavasse via il sapone, lo shampoo e parte
della sua incredulità/incapacità di dare un senso a quella situazione. Risentì
in bocca il sapore della paura, il gusto metallico del terrore di morire,
mischiato all’odore dolciastro dell’aereo. Il blu che riempiva la sua vista,
ben presto rimpiazzato dal nero e dall’incoscienza. Non riusciva minimamente a
ricordare come fosse finita su quella barca, di certo era stato lui a
portarcela, ma come? E perché se ne stavano nel mezzo dell’oceano senza che
nessuno li trovasse? Doveva essersi occupato di tutto lui. Lui. Già.. Lui.
Senza rendersene conto passò una mano a cavallo tra viso e collo, ricercando il
punto preciso su cui aveva poggiato le labbra. Si sentì tremare per un istante.
Aveva creduto davvero che lui stesse per baciarla, che l’avrebbe fatto più e
più volte. Aveva creduto davvero che lui la desiderasse e che l’avrebbe presa
lì, in quel momento, senza sapere nulla più che il suo nome. Aveva sperato
davvero che quella sarebbe stata la sua salvezza.
Riaprendo gli occhi temette
di aver perso la cognizione del tempo e chiuse il rubinetto venendo fuori dalla
doccia in tutta fretta. Afferrò un asciugamano e ci si arrotolò dentro, di
colpo terrorizzata all’idea di uscire di lì. ‘No. Non
se mi convincerai a non farlo.’ Le
parole si ripeterono nella sua testa cercando un significato, cercando di
ignorare il loro implicito contrario. Se non fosse riuscita a convincerlo
sarebbe morta, proprio per mano sua.
Lasciò scattare piano la
serratura, convinta che se lo sarebbe presto trovato di fronte, ma tutto ciò
che vide fu il letto sgualcito dell’altra stanza. Calmò il respiro e si guardò
intorno nel silenzio, lui doveva essere di sopra. A destra un’altra porta
chiusa attirò la sua attenzione, un rumore insolito simile ad un borbottio
sembrava venirne fuori. Cara non aveva idea di come fosse fatta una barca,
tantomeno quante stanze potesse avere né cosa dovessero contenere, ma iniziò a
sperare che in quella camera chiusa ci fossero armi e telefoni satellitari.
Nella sua testa reminescenze di vecchi film d’azione presero forma, se fosse
riuscita a trovare una pistola, un coltello o un qualsiasi corpo contundente
avrebbe potuto colpire l’assassino a tradimento e metterlo fuori gioco.
Dopodiché avrebbe chiesto aiuto o navigato fino alla terra ferma. Annuì e mosse il primo passo a piedi nudi sul
parquet, calibrando ogni piccolo movimento per non fare alcun rumore. La
tensione era talmente forte che quasi non riusciva a respirare.
La maniglia della porta
venne giù senza intoppi e Cara si gettò nella stanza. Era caldo lì dentro. Il
borbottio proveniva da una specie di caldaia o scaldabagno nell’angolo. Girò su
sé stessa nella penombra, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse afferrare e
scagliare contro il suo rapitore. Sulle mensole impolverate se ne stavano
diversi oggetti sconosciuti, tutti apparentemente innocui. Scuotendo la testa
ed inveendo silenziosamente contro la propria fortuna, Cara si inginocchiò ad
ispezionare l’ultimo ripiano. Inaspettatamente le sembrò di avere tra le mani
la chiave della sua salvezza, una radio, uno di quei radiotrasmittori vecchio
modello in cui basta portarsi alla bocca la trasmittente, premere un pulsante e
lanciare un SOS. La poggiò su una
mensola alla sua altezza ed iniziò a premere nervosamente i tasti, ora che
vedeva una via d’uscita sembrava non poter aspettare nemmeno un secondo. Una
piccola lucina rossa si accese e Cara si lasciò sfuggire un sospiro di
sollievo. Totalmente priva di nozioni sulla radiocomunicazione decise di girare
tutte le manopole e tirar su i cursori poi, tremando e sperando, avvicinò la
trasmittente alle labbra, pronta a spingere il pollice sul bottone laterale.
Un fischio stridulo e
fastidioso riempì la stanzetta, costringendo Cara a mollare la presa e balzare
in piedi. I suoi occhi spalancati si puntarono immediatamente sulla porta,
strinse le mani al petto ed accostò l’asciugamano, pregando con tutta sé stessa
che lui non avesse sentito. Sarebbe stata la fine.
Un colpo secco spalancò la
porta, come se l’assassino l’avesse presa a calci per aprirla. Cara divenne un
pezzo di ghiaccio pulsante rendendosi conto solo in quel momento, per la prima
volta, di chi avesse davvero di fronte. Joseph era dritto davanti a lei, i
pugni chiusi e le labbra strette in una linea sottile, i suoi occhi vuoti come
vetro, il corpo mosso da un tremore generale, come se stesse per venir fuori
dalla propria pelle. Era arrabbiato. Era vistosamente arrabbiato.
Joseph rimase sulla soglia a
fissarla, i suoi muscoli vibravano, l’adrenalina gli faceva ballare il cuore
nel petto. Strinse le mani a palla cercando di trattenere l’istinto, bellissima
o meno, era riuscita a fargli saltare i nervi e risvegliare il Lupo, la parte
di sé più oscura e cattiva, quella che riservava solo alle sue vittime, solo ai
nemici della sua famiglia.
Cara indietreggiò sbattendo
ben presto contro il muro. Stava per morire. Adesso era certo, stava per
morire.
Lui deglutì rumorosamente
muovendosi di un solo passo. Se è questo che la ragazzina voleva l’avrebbe
presto accontentata. Se aveva bisogno di conoscere il Lupo per capire chi
avesse il comando, allora beh, senz’altro lui era pronto a morderla.
“Ti avevo detto di non farmi
arrabbiare.”
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Capitolo 4 *** Capitolo IV ***
cap4
“Ti avevo detto di non farmi
arrabbiare.”
La breve distanza tra loro
fu coperta in un secondo. Joseph l’afferrò stretta per la vita tappandole la
bocca con l’altra mano e la trascinò fuori senza troppa grazia. Appena qualche
passo e Cara rimbalzò di nuovo sul letto, stavolta sbattuta con forza contro il
materasso. Cercando di tenere l’asciugamano stretto a sé ignorò il dolore alle
costole e si tirò su con la schiena.
Il ritmo del suo respiro era
diventato frenetico, l’assassino stava dritto di spalle, i muscoli del dorso e
delle spalle vistosamente contratti sotto la maglietta. Cara rimase immobile
mentre lui chiudeva a chiave la porta, cercando poi di tirar fuori qualcosa
dalla tasca dei jeans.
Cara sentì il cuore mancarle
un battito, lo scatto del coltello arrivò alle sue orecchie amplificato e forte
come lo scoppio di una bomba. Scosse la testa, gli occhi sgranati e la
pressione sanguigna a mille, mentre cercava affannosamente una qualsiasi arma
di difesa.
Joseph inspirò profondamente
fissando l’italian stiletto stretto nella sua mano, il rumore del terrore di
Cara un sottofondo appena percepibile, ogni fibra del suo essere assorbita dal
riflesso della luce sul metallo. Le lame erano la sua arma prediletta, lo
strumento di morte che aveva scelto alla fine del suo lungo addestramento. Ogni
volta che teneva tra le mani un coltello, un pugnale o una katana, poteva
sentire il gelo dell’acciaio impossessarsi di lui, annullando ogni ombra di
sentimento nei confronti della vittima di turno. L’utilizzo delle armi da
taglio rendeva il suo lavoro inevitabilmente più lungo, sporco e complicato, ma
vi era un innegabile fascino poetico nel poter scegliere come e quanto
infliggere ai propri nemici, con la piacevole possibilità di guardarli in viso
durante tutto il procedimento.
La ragazza tuttavia non era
un nemico della sua famiglia, né una vittima prescelta da suo padre,
quell’omicidio sarebbe stato un’eccezione al codice, un atto di puro e
necessario sadico piacere. Sospirò stringendo le dita attorno all’impugnatura,
non poteva commiserare null’altri che sé stesso per quella situazione. Sentì in
bocca il fastidioso sapore di qualcosa simile al rimorso, come sull’aereo.
Imprecò in silenzio masticandolo via, decise di voltarsi e guardare la ragazza.
Cara stava iperventilando,
inginocchiata sul letto stringeva l’asciugamano al petto con entrambe le mani,
così stretto che le sue dita si erano fatte rosse di sangue. Sembrava ancora più
pallida, eppure aveva il viso colorato dall’ansia e le labbra scarlatte. I suoi
lunghi capelli biondi andavano lentamente asciugandosi in boccoli crespi e
scomposti, mentre i suoi occhi blu lo fissavano, lucidi e spalancati.
“No..”
Sussurrò appena al suo primo
passo, Joseph inclinò il viso verso di lei con le labbra leggermente protratte
in avanti, sul suo volto l’accenno di un broncio sardonico. Cara sentì un
brivido freddo correrle lungo la spina dorsale, c’era qualcosa di davvero
spaventoso nella sua espressione, la guardava come fosse un patrigno arrabbiato
pronto a punire la sua bimba disobbediente, come se cercasse disperatamente di
mostrare compassione, ma in realtà stesse per esplodere dall’eccitazione.
“Cosa dovrei fare adesso con
te, eh?”
L’assassino finalmente
parlò, il tono apparentemente impassibile, la voce morbida e liscia come un
liquido caldo pronto a scorrerle addosso. Più si faceva vicino e più sembrava
calarsi nei panni del sadico torturatore. Mentre lentamente passava il coltello
da una mano all’altra, riprese a fissarla nel modo che lei conosceva, il suo
sopracciglio destro si sollevò piano, come se stesse davvero attendendo una
risposta.
Cara rimase lì sul letto a
tremare, i suoi occhi dritti in quelli di lui, la pace nella stanza in completa
antitesi al subbuglio interiore.
“Dovrei liberarmi di te?”
Un angolo della sua bocca si
sollevò in un mezzo sorriso
“O forse dovrei farti male
soltanto un po’?...”
Avanzò di un nuovo passo
sollevando la lama, l’acciaio rifletteva la luce del tramonto imminente,
spandendo un alone arancione per tutta la stanza.
“…Qualcosa che ti ricordi
chi è che comanda.”
Ormai era a pochi
centimetri, il coltello puntato verso di lei, così che la punta segnasse una
linea immaginaria tra l’impugnatura ed il suo petto, in mezzo alle costole, là
dove il suo cuore sembrare voler esplodere. Cara deglutì, aveva la gola secca
ed il sentore che anche se avesse provato ad urlare, non le sarebbe uscito un
filo di voce. Ormai riusciva ad immaginare chiaramente che tipo di dolore
avrebbe provato una volta coperta l’ultima breve distanza tra lei e
l’assassino, simile alla carta che ti taglia la pelle, rapido, fastidioso,
acuto. Il tipo di dolore che svanisce ancor prima di vedere il sangue.
Lui sbatté piano le
palpebre, ormai le sue ginocchia toccavano il letto e la ragazza era sempre
immobile di fronte a lui, come se, ancora una volta, fosse pronta a morire.
Inspirò l’odore della sua paura e sentì il sangue scorrergli più veloce nelle
vene, totalmente combattuto tra la sua natura, l’istinto di uccidere e la
voglia immensa, lussuriosa, di spingere la ragazza fino al limite.
Sollevò il coltello senza
fretta ed avvicinò la curva della lama al viso di Cara, accostando lentamente
pelle e metallo. La vide chiaramente fallire nel tentativo di contenere lo
spasmo del suo corpo, stringere le spalle e trattenere il respiro.
Cara chiuse gli occhi
d’impulso alla sensazione improvvisa di freddo, non solo in faccia, ma in ogni
centimetro del suo corpo. Il coltello prese a muoversi lentamente, indugiando
con la punta sulle sue labbra schiuse, sulla curva del suo mento, sulla linea
della mandibola. Finalmente Joseph si fermò, il coltello pressato sul collo
della ragazza, la lama inclinata contro la giugulare. Cara sentì che di lì a
poco avrebbe iniziato a tremare, spaventata all’idea che, anche solo respirando
o ingoiando, la lama le sarebbe entrata nella pelle. Non era più il dolore a
farle paura, bensì l’idea di sanguinare a morte, sentire freddo, assaporare
l’aroma ferruginoso del proprio sangue, perdere la vista e l’udito prima ancora
di svenire e farla finita.
“Guardami.”
L’ordine dell’assassino la
risvegliò dalla trance. Schiuse le palpebre espirando, lui le stava di fronte,
gli occhi dritti nei suoi mentre si passava la punta della lingua sulle labbra.
Sentì il coltello iniziare a scorrere verso il basso e si lasciò sfuggire un
sospiro, la tremante premessa del pianto o forse della preghiera.
Joseph sorrise a labbra
strette, in quel momento sentirla supplicare sarebbe stata dolce musica per le
sue orecchie. Solitamente non avrebbe impiegato così tanto tempo per uccidere
qualcuno, ma in questo caso specifico non aveva alcuna urgenza anzi, ogni
secondo passato in quell’impasse accresceva la sua eccitazione. Nel retro della
sua mente la tentazione di prolungare all’infinito quella deliziosa tortura.
Tutta la rabbia era scemata
senza che nemmeno se ne rendesse conto e solo in quel momento l’assassino realizzò
che Cara gli stava davanti, inginocchiata ed avvolta in nulla più che un
asciugamano. Le sue pupille scorsero lente lungo la sua figura minuta,
accompagnando l’impercettibile carezza con la punta del coltello. L’estremità
del metallo, ormai calda del suo tepore corporeo, segnò una linea dritta dalla
gola in giù, sbattendo contro la spugna in cui era avvolta.
Cara respirò a pieni
polmoni, notando che gli occhi di lui non la stavano più fissando. Seguì il suo
sguardo e sentì presto la lama toccarla di nuovo, stavolta in gola e poi più
giù, scorrendo sopra il tessuto e lo sterno, nello spazio tra i seni, lungo la
linea dell’aorta addominale. Un nuovo sospiro, più simile ad un gemito, sfuggì
alle sue labbra. Sotto quell’asciugamano era nuda, completamente nuda e lui,
ancora una volta, la stava guardando come fosse una torta di mele calda, come
se non vedesse l’ora di addentarla.
Smise di muoversi, Cara
riportò immediatamente l’attenzione al suo viso.
“Convincimi.”
Chiese. Lei deglutì cercando
di capire.
“Convincimi a non
ucciderti.”
Precisò, la voce bassa e
vibrante, la richiesta quasi sussurrata. Cara colse un nuovo luccichio negli
occhi dell’assassino, impossibile ignorare il modo in cui il suo sguardo le si
spalmava addosso, difficile far finta che non ci fosse qualcosa di
incredibilmente seducente in ogni sua mossa. Cara comprese di colpo come doveva
essersi sentita Cappuccetto Rosso nel bosco con il lupo, perfettamente
consapevole che lui l’avrebbe divorata, ma incapace di resistere al suo invito.
Lei se ne stava lì, persa nello stesso medesimo dilemma, spaventata fino al
midollo, ma attratta dalla sua sfida come un’ape dal miele. Convincimi a non ucciderti.
Cara abbassò il viso
bagnandosi le labbra, il suo pugnale si era fermato proprio sotto l’ombelico,
la punta rivolta verso quello che sembrava essere il reale desiderio
dell’assassino. Inspirò ancora una volta sentendo un brivido correrle lungo la
schiena. Si era persa nel bosco ed ora il suo lupo chiedeva pegno in cambio di
una via d’uscita. Sollevò il mento per guardarlo dritto negli occhi
“Ti prego…”
Iniziò in un filo di voce
“…Ti prego non uccidermi.”
Joseph rimase saldo nella
sua posizione, sollevando appena un sopracciglio. Il suo sussurro tremolava,
tuttavia il tono era deciso. La ragazzina non voleva morire. Staccò il coltello
dal suo corpo e distese il braccio, lei era bella, troppo bella, con le guance
infiammate da una sorta d’imbarazzo e la presunzione di sembrare più coraggiosa
di quanto non fosse.
“Convincimi.”
Insistette. Joseph strinse
la presa attorno al coltello ancora una volta, stavolta per cercare di
contenersi, e non dal pugnalarla. Cara raddrizzò la schiena e si fece più
vicina, il respiro le tremava tra le labbra e le sue mani sembravano bollenti.
Le sollevò lente, chiudendo gli occhi per un secondo, cercando di arrivare a
lui nel tempo più lungo possibile. Gli toccò il viso, sentendo sotto le dita
l’ispido della sua barba. L’assassino sussultò al contatto
“Ti supplico…”
Ripeté. Gli era
pericolosamente vicino, ormai riusciva a sentire il calore del suo corpo e
quello del suo respiro.
“…Farò tutto quello che
vuoi… Non uccidermi.”
Joseph sentì tutto il sangue
arrivargli nei pantaloni, ormai l’idea di ucciderla era lontana mille miglia.
Le sue piccole fragili dita lo stavano toccando, inaspettatamente calde. La sua
voce lo stava pregando, dolce come lo zucchero, disperata come il canto di un
uccello in gabbia. Non poteva più resistere.
“Non è quello che voglio
farti.”
Rispose chiudendo lo spazio.
La sua bocca si lanciò contro quella di Cara in un bacio tutt’altro che
delicato, lei rischiò di perdere l’equilibrio, ma Joseph la trattenne premendo
il suo corpo contro il proprio. Ancor prima che potesse reagire, Cara sentì la
lingua dell’assassino spingersi tra le sue labbra cercando accesso, nel suo
respiro sapore di menta, fumo e metallo. Lo sentì emettere una specie di
lamento e ben presto si sentì afferrata con forza per i capelli, costretta a
sollevare il viso ed aprire la bocca. Nemmeno un istante ed ebbe coscienza che
la lingua di Joseph stava danzando con la sua, mischiando saliva e sospiri.
Cara si rese conto troppo
tardi che stava rispondendo al bacio, solamente dopo aver avvertito
un’inaspettata fitta al basso ventre, lì dove non avrebbe mai dovuto. Gli passò
le dita tra i capelli stringendo all’altezza della nuca, l’altra mano premuta
contro il suo torace, provando con tutte le forze a spingerlo via.
Joseph si sentì esplodere di
aggressiva lussuria non appena le sue labbra l’avevano toccata. Erano carnose,
morbide e sapevano ancora di sale. La voleva, la voleva in quel momento più di
ogni altra cosa, ma non poteva permettersi di perdere il controllo, non con un
ostaggio pronto a tutto per sopravvivere. Sentì la mano di Cara poggiarsi sul
suo petto e si staccò dal bacio, ancor più eccitato all’idea di riprendere il
potere. Scosse piano il capo afferrandola per i polsi, tenendoli entrambi serrati
in una sola mano, mentre l’altra stringeva ancora il coltello. Passò la lama
un’ultima volta sulle sue labbra, gonfie ed arrossate per il loro bacio
violento, poi la gettò via in un angolo. Ormai non gli serviva più, avrebbe
usato ben altre armi per rimettere la signorina al proprio posto.
Ancora bloccata, Cara lo
sentì avvicinarsi e lasciare una scia di baci bagnati lungo il collo e la curva
della spalla, la mano libera pronta a farsi strada dalla coscia in su. Strinse
il labbro tra i denti, anticipando la sensazione delle sue dita tra le gambe.
Era sbagliato, tremendamente sbagliato, ma non riusciva più a controllare gli
spasmi del suo corpo. La realtà se ne stava lentamente andando, al suo posto la
fantasia erotica più perversa, la scena di un film che, sperò, fosse proiettata
solo nella sua testa.
Joseph le sollevò i polsi
sopra la testa e la baciò di nuovo, cercando di esplorare ogni angolo della sua
bocca, quasi fino a toglierle il respiro. L’altra mano era ferma sulla coscia
della ragazza e lui determinato a non renderle le cose troppo semplici. Il modo
in cui Cara aveva schiuso le gambe, probabilmente senza neanche accorgersene,
era un chiaro segno della sua eccitazione. La ragazzina voleva essere toccata, oh
sì… Solo che, Joseph sorrise tra sé e sé, la ragazzina non aveva ancora pregato
abbastanza.
“Vuoi che ti tocchi, non è
vero?”
Sussurrò nel suo orecchio.
Cara si irrigidì al suono compiaciuto della sua voce, tese le braccia e cercò
di scuotere la testa. Era inammissibile. inammissibile desiderare il proprio
aguzzino, inammissibile che lui se ne accorgesse.
“No.”
Rispose, cercando di suonare
decisa nonostante la voce bassa. Lui le sfiorò l’orecchio con le labbra.
“Ricordi? Riesco a capire
quando stai mentendo.”
Bisbigliando le parole
lasciò scivolare le dita sotto l’asciugamano e Cara si tese come una corda
contro di lui. La mano continuò lenta la sua risalita, trovando la propria
strada tra le cosce, adesso serrate, della ragazza. Non stava cercando di
forzare una via, stava sapientemente accarezzando la sua pelle, pregustando il
calore che riusciva già a percepire, aspettando che fosse lei a cedere e spalancare
le gambe per lui.
“Dillo.”
Ordinò, usando la lingua
contro il lobo del suo orecchio. Cara chiuse gli occhi, cercando disperatamente
di non reagire a quel piccolo gesto. Poteva sentire le gambe tremare, non più
sicura se fosse per paura o desiderio. La situazione era surreale,
sconvolgente… Lui era sconvolgente, in ogni suo piccolo movimento, in ogni
sillaba pronunciata… Lo stomaco le si annodò al solo pensiero di ammettere
quell’inaccettabile voglia, un misto di vergogna, incredulità e repulsione.
“Dillo.”
Chiese di nuovo. Cara provò
a pensare razionalmente per almeno un secondo. Stava cercando di salvarsi la
vita e quello, in fondo, era solo un modo come un altro per sopravvivere..
Giusto?
“S..sì.”
Joseph riuscì a malapena a sentirla,
ma era certo di aver capito. Riportò la faccia davanti a quella di Cara,
prendendole il viso nella mano, stringendo quel poco che bastava per catturare
la sua completa attenzione.
“Dillo come si deve.”
Scandì. Ed eccola di nuovo,
la sua espressione seria, quasi sadica. Questa volta Cara si sentì come una
scolaretta che ha sbagliato il compito di grammatica, pronta ad essere
bacchettata dal maestro cattivo.
“To..Toccami.”
Disse, incapace di guardarlo
negli occhi mentre glielo chiedeva. Le sue guance erano in fiamme.
“Ah. Ah. Ah…”
Obiettò lui, accompagnando
le parole con la testa.
“…Hai dimenticato qualcosa.”
Quella era l’ultima,
l’ultima goccia del suo autocontrollo. Il gioco era divertente, ma Joseph non
sarebbe riuscito ad aspettare un secondo di più.
Cara inspirò a fatica. Era
troppo, davvero troppo. Si ritrovò, quasi quanto l’assassino, a desiderare che
quella tortura finisse e che lui prendesse finalmente ciò che tanto voleva.
“…Ti prego.”
Sussurrò guardando a terra,
immaginando sul suo viso un grosso sorriso soddisfatto. Joseph la strinse,
poggiando la testa nell’incavo del suo collo, lì dove riusciva a sentire il
battito accelerato del suo cuore, lì dove nessun sospiro o gemito sarebbe
potuto sfuggire alle sue orecchie. Poggiando un ginocchio sul letto lo spinse
con decisione tra le gambe della ragazza per obbligarla ad aprirle, la sua mano
immediatamente pronta a farsi strada verso la meta.
Cara chiuse gli occhi
aspettando il contatto, ormai totalmente spogliata del suo falso coraggio e
della sua morale. Lui però non la toccò, bensì la spinse giù con forza,
lasciandola cadere di schiena sulle lenzuola sgualcite. Scomposta, agitata e
tremante, era l’immagine più invitante su cui mai avesse poggiato gli occhi.
Ogni donna della sua vita era stata una conquista facile, senza sforzi o attese,
ogni amante pronta e disponibile, ognuna di loro disposta a soddisfare le
richieste più scellerate per poi sparire, senza rimorsi o sprazzi di dignità.
Ed eccola lì invece, la
ragazzina dell’aereo, incerta, spaventata, accaldata, in attesa come una vergine
la sua prima notte di nozze. Joseph rimase immobile in piedi davanti a lei, gli
occhi incollati nei suoi, la voglia di esplodere sotto i vestiti. Non riusciva
a muoversi, totalmente perso in quel momento di perfezione, l’attimo in cui sai
di aver vinto e puoi già pregustare il sapore della vittoria. Il premio gli
stava di fronte e lui avrebbe assaporato ogni secondo prima di stringerlo tra
le mani.
Cara sentì i suoi muscoli
perdere forza, come se gli occhi dell’assassino la stessero lentamente consumando.
Nessun uomo l’aveva mai guardata in quel modo.. Dio mio.. Sembrava davvero
volesse mangiarla. Ed una parte di lei, una minuscola parte di lei, sorrise in
un angolo buio della sua mente.
Joseph sospirò un’ultima
volta prima di avvicinarsi, poggiando le mani sulle ginocchia della ragazza,
sollevando il tessuto mentre le accarezzava la pelle. Prese a sbottonarsi i
pantaloni, deciso ad interrompere il più presto possibile quella specie di
incantesimo, sicuro che una volta svuotato, ogni sorta d’emozione che quella
ragazzina suscitava in lui sarebbe sparita.
Si spinse tra le sue gambe,
pronto a liberarsi dell’asciugamano, pronto a scaricare su di lei tutta la
tensione degli ultimi giorni, in qualche modo determinato a punire anche la
ragazza per il suo arresto, per l’aereo, per quella stupida scelta, per la sua
vita. Per tutta la sua vita.
Al suono improvviso di passi
sul ponte Joseph si bloccò immantinente. Premendo una mano sulla bocca di Cara,
affinché non avesse la brillante idea di urlare, tese le orecchie verso il
rumore e nel giro di pochi secondi riconobbe il peso ed il ritmo di quei piedi.
Cara lo sentì imprecare il suo disappunto tra i denti e tirarsi su
“Non provare ad urlare. Nessuno
è venuto a salvarti, è solo mio fratello.”
Lei si tirò su in un
secondo, memore di ciò che lui le aveva detto in precedenza. I suoi fratelli
non sarebbero stati contenti di trovarla lì anzi, si sarebbero subito liberati
di lei. Prese a guardarsi attorno nervosamente, senza capire se fosse più
delusa o sollevata per l’interruzione. Se avesse fatto l’amore con l’assassino,
forse poi, lui si sarebbe sentito in colpa ad ucciderla. Ragionamento idiota.
Gli assassini non hanno sensi di colpa.
Joseph sospirò ancora una
volta, avvicinandosi ad un cassettone nell’angolo opposto. Ne tirò fuori un
ammasso stropicciato di tessuti e colori.
“Tieni. Mettiti qualcosa. E
resta qui.”
Ordinò senza darle troppa
attenzione, come se avesse completamente dimenticato la sua presenza. Del resto
altri pensieri occupavano ora la sua mente, primo fra tutti cosa fare del suo
ostaggio. Conoscendo Nathaniel, non l’aspettava nulla di buono.
“Aspetta!”
Cara cercò di bloccarlo
prima che sparisse, Joseph inchiodò e sbuffò rivolgendole un’occhiata
impaziente. Lei sollevò le spalle per un istante, anche se lui sembrava aver
rimosso tutto al volo, lei non riusciva ancora a togliersi dalla testa ciò che
stava per fare, rendendosi conto, all’improvviso, di non sapere neppure con chi
stesse per farlo.
“Non so nemmeno come ti
chiami.”
Precisò a bassa voce, lasciando
la domanda implicita. Joseph le rivolse finalmente attenzione, sentendo nel
petto il peso del proprio nome, pieno d’orgoglio come ogni singola volta che
gli veniva offerta l’opportunità di pronunciarlo. Non era per vanità, ma per
rispetto, sempre e comunque fiero di portare
quel cognome.
“Joseph. Il mio nome è
Joseph Michaelson.”
Disse con un lampo negli
occhi, sparendo subito dopo. Buona cosa, pensò Cara. Se fosse rimasto lì
l’avrebbe vista tremare, se fosse rimasto lì avrebbe senz’altro colto l’ombra
di una smorfia di disgusto sul suo viso, l’inevitabile contrazione al suono di
quelle parole.
////////
Nathaniel. Saliti i pochi
scalini lo vide di spalle, i capelli scuri mossi dal vento e le mani poggiate
sui fianchi. Anche guardandolo da dietro riusciva a vedere il suo perenne
sorriso compiaciuto. Lui si voltò quasi immediatamente, come previsto due
lunghe file di denti bianchi riflettevano la luce della luna sul suo viso da
bambino.
“Fratello!”
Esclamò con entusiasmo
allargando le braccia, quasi si aspettasse un caldo abbraccio di benvenuto. La
sua voce squillante, ancora forte di accento inglese, riecheggiò in mare
aperto. Joseph digrignò i denti afferrandolo per il colletto della camicia e
sbattendolo forte contro la cabina di pilotaggio.
“Stupido idiota! Ti avevo
chiesto solo una cosa, una soltanto! Tutto quello che dovevi fare era essere
puntuale!”
Nathaniel non smise di
sorridere, sforzandosi di aggrottare le sopracciglia
“Sono stato puntuale! Voglio
dire, lo sarei stato.. Ero già praticamente per strada quando..”
“Quando cosa Nate?”
“Pushkin.”
Fu come se un’incudine da
mezza tonnellata fosse piombata tra loro.
“Vladimijr Pushkin?”
“Il solo ed unico! Me lo
sono trovato di fronte mentre uscivo dal bar per venire a prenderti…”
Joseph mollò la presa sul
fratello e Nathaniel si ricompose immediatamente
“…Inutile dirti che ho
dovuto sprecare il mio prezioso tempo per ripetergli, ancora una volta, che non
abbiamo idea di dove sia finita quella cagna di sua figlia.”
Quello era ovviamente un
eufemismo. Erano stati necessari cinque uomini, due pistole, nonché una spranga
di ferro affinché il russo ed il suo entourage mollassero la presa.
Joseph si passò una mano
sulla faccia, senza alcun bisogno di pronunciare quel nome ad alta voce. Katrina.
Katrina Pushkina. L’unico grande errore di Elia. Il peggiore. La donna in
questione era effettivamente la moglie di suo fratello, se non altro
legalmente. Il loro matrimonio era stato pianificato da suo padre e Pushkin
come una qualsiasi altra transazione di lavoro, il modo perfetto per siglare
un’alleanza tra famiglie in vecchio stile regency. Purtroppo però, Elia non era
riuscito a trattenersi, si era innamorato della ragazza, sia stato per i suoi
grandi occhi scuri o per la crudeltà pura celata dietro il viso d’angelo. Ad
ogni modo la stronza aveva deciso di sparire due anni prima, fuggendo nel cuore
della notte, senza lasciarsi tracce dietro. Joseph era convinto che suo
fratello sapesse più di quanto non volesse ammettere riguardo le ragioni di Katrina,
tuttavia lei non sembrava voler essere trovata e alla fine tutti loro avevano
smesso di cercare. Tutti eccetto Vladimijr. Quell’uomo era davvero una spina
nel fianco.
“Come faceva a sapere che
eravamo a Johannesburg?”
Nathaniel sollevò le spalle
“Non ne ho idea. Suppongo
che ci spii ancora.”
Joseph afferrò il suo stesso
mento come se avesse bisogno di riflettere
“Ed io suppongo che ci sia
lui dietro il repentino arrivo degli sbirri.”
Sentì le mani stringersi in
due pugni chiusi. Maledetto il giorno in cui quell’arpia sovietica aveva
varcato la soglia della loro casa.
Nathaniel sospirò
rumorosamente passando le dita tra i capelli
“Beh…Visto che siamo in
tema, Elia ci aspetta!”
Esclamò trillando come un
ragazzino, entusiasta al pensiero di passare finalmente un po’ di tempo con i suoi
fratelli maggiori. Pur sembrando strafottente e vanesio la maggior parte del
tempo, aveva davvero un gran senso della famiglia, esattamente come ogni altro
Michaelson.
“Lui dov’è?”
“Comodamente seduto in
elicottero, sulla spiaggia di una deliziosa isoletta deserta qui vicino.”
Joseph sospirò, sentendo lo
stomaco smettere di contorcersi per un po’. Aveva bisogno di rivedere Elia, una
grossa dose della sua imperturbabilità gli avrebbe davvero fatto comodo.
///////
Cara frugò tra gli stracci
che aveva in mano, individuando una specie di prendisole bordeaux ed un bikini
nero. Non esattamente i suoi colori, ma in mancanza di una boutique e di
biancheria intima pulita, sarebbero andati più che bene. Portò i vestiti al naso e riconobbe profumo di
crema solare e cocco. Odoravano di vacanze, pensò, come se fossero stati
indossati durante un romantico viaggio alle Hawaii. Iniziò a pensare alla donna
cui potessero appartenere e lentamente unì i pezzi del puzzle, sommando
quell’odore e quei vestiti ai cosmetici che aveva intravisto nel bagno. La
barca doveva appartenere a qualcuno, qualcuno che senza dubbio non era Joseph
Michaelson. Lentamente, ma chiaramente, iniziò a tracciare le possibili
conclusioni, trovando risposta ai suoi precedenti interrogativi. L’assassino
aveva rubato la barca, togliendo di mezzo i legittimi proprietari. Dopodiché
aveva navigato il più lontano possibile dal punto d’impatto dell’aereo. O forse
i suoi fratelli l’avevano presa per lui, lasciandola a portata di mano dopo il
volo in paracadute. Senza dubbio qualcuno ci aveva rimesso la vita.
Il suono distante di una
risata mascolina la riportò alla realtà. Cara sospirò ficcandosi velocemente
costume ed abitino, poi tese le orecchie al piano di sopra. Non riusciva a
cogliere le parole precise, ma si trattava senza dubbio di una chiacchierata
amichevole. Quello sarebbe stato il momento migliore per tentare una nuova fuga.
Peccato che tutt’intorno ci fosse solo acqua e lei non avesse la minima possibilità
di riuscire a nuotare per miglia fino alla terra ferma. Ascoltò ancora una
risata e si decise a muoversi, cercando di spiare il nuovo venuto. Suonava
contento dopotutto, forse non l’avrebbe uccisa seduta stante.
Presa dall’urgenza di capire
almeno che faccia avesse, Cara cercò di sbirciare senza far rumore, sollevando
la testa al di sopra della scaletta. Sembrava solo un ragazzo, notò, più
giovane del “suo assassino” e dai tratti diametralmente opposti. Capelli scuri
e lisci, occhi castani dal taglio vagamente orientale, pelle rasata, tratti
delicati, non fosse stato per le folte sopracciglia ed il sorriso beffardo.
Il ragazzo colse la sua
presenza quasi immediatamente, interrompendo l’ultima frase a metà e
piantandole gli occhi addosso come macigni. Quello non era certo lo sguardo di
un ragazzino innocente.
Nathaniel sollevò le ciglia
senza distogliere l’attenzione da Cara
“Oh Oh Oh!”
Esclamò, come una specie di
raccapricciante Santa Klaus. I suoi piedi si mossero verso la scala, i passi
intervallati da sguardi divertiti ed ammiccanti verso il fratello.
“Cosa abbiamo qui?”
Afferrò la ragazza per il
vestito e la costrinse e venir su per gli scalini. Esaminò Cara dalla testa ai
piedi per poi rivolgersi a Joseph con un gran sorriso
“Hai preso un souvenir?”
Lui restò serio, cercando di
ignorare l’estremamente fastidiosa consapevolezza che la ragazzina aveva
ignorato i suoi ordini, ancora una volta. Doveva restarsene sotto fino al suo
ritorno. E lui avrebbe fatto meglio a legarla.
Nathaniel sollevò le mani
incapace di togliersi l’espressione compiaciuta dalla faccia
“Tranquillo fratello, non
sto giudicando! Lo so che un uomo ha bisogno di tenere le mani occupate in
certe situazioni.”
Il suo tono si era fatto
allusivo, tornando a guardare la ragazza. Cara trattenne il respiro sentendosi
scrutata come sotto ai raggi x. Quella era di certo un’abilità che i Michaelson
avevano in comune, ciononostante lo sguardo del più giovane era forse ancor più
inquietante. E perverso.
Lui si avvicinò, passandole
due dita tra i capelli, portandosi una ciocca al naso. Inspirò profondamente.
“Ha un buon odore.”
Commentò, rivolto al
fratello come se lei non ci fosse nemmeno. Cara strinse le labbra e cercò di
divincolarsi dalla sua presa.
“E non l’hai ancora domata a
quanto vedo.”
Nate ridacchiò al suo
tentativo, afferrandola con forza all’altezza del braccio. Serrò la presa e la
strattonò verso di sé
“Sta’ buona dolcezza.”
Ordinò, serio di colpo.
Cara sgranò gli occhi
avvertendo la sua mano addosso e le dita che giocherellavano col laccetto del
suo bikini.
“Ora basta.”
Joseph si decise finalmente
a parlare. La vista di suo fratello minore spalmato addosso alla sua ragazza dell’aereo iniziava a dargli
la nausea. Nathaniel mollò la presa su Cara pur restandole accanto
“Oh Joseph…”
Sospirò
“…Sempre così restio a
condividere! Toglie punti al tuo fascino, sai?”
“Ho detto basta Nate.”
Il tono ancora fermo, gli
occhi puntati sul fratello come un’aquila. L’altro sollevò le mani
allontanandosi finalmente dalla ragazza
“Come vuoi…”
Sospirò, passando i palmi
sul colletto della camicia per accertarsi che il suo aspetto fosse ancora una
volta impeccabile
“…Ad ogni modo, cosa vuoi
farne di lei? Come stavo dicendo pocanzi Elia attende.”
Cara divenne di pietra. Il
momento era arrivato ed un sospiro le sfuggì dalle labbra. Un assassino
appassionato di coltelli ed il suo terrificante fratellino stavano decidendo
della sua vita, le sue chance di sopravvivere erano praticamente inesistenti.
Joseph però non lasciò
cadere quel suono ed il suo sguardo incontrò subito quello di lei. Era
stranamente difficoltoso, per una volta, riuscire a capire cosa stesse
pensando. Aveva paura, era evidente, ma una paura diversa… Come se l’dea di morire per mano di Nathaniel
fosse più spaventosa di qualsiasi morte lui potesse offrirle. Tutta la sua
attenzione era per lui, come se suo fratello fosse divenuto trasparente, i suoi
grandi occhi blu gli brillavano addosso e Joseph sentì finalmente il peso della
vita tra le mani. Cara stava aspettando, in religioso silenzio aspettava
qualcosa. L’assassino sbatté le palpebre più volte sperando che quell’immagine
in qualche modo sparisse.
“Se preferisci me ne occupo
io.”
Si offrì “gentilmente”
Nathaniel, pronto a tornare sui suoi passi con espressione del tutto ordinaria.
Joseph chiuse i pugni
“No.”
“Ok, pensaci tu allora.”
Mandò giù. Il sapore dolce
salmastro delle sue labbra ancora in bocca.
“Non la uccideremo.”
Sentenziò. Sia Nathaniel che
Cara gli puntarono gli occhi addosso come se avesse appena detto qualcosa di
assurdo.
“Non ancora almeno.”
Si sentì di precisare,
rivolgendosi esclusivamente a suo fratello
“Era sull’aereo. Sapeva chi
ero e perché mi trovavo lì.”
L’altro arricciò il naso
“Credi sia una spia? La spia
di Pushkin magari?”
Cara si morse il labbro per
non parlare. Non aveva idea del perché l’assassino stesse mentendo, o se
davvero fosse convinto di quello che stava dicendo, ma se ciò voleva dire restare
in vita ancora un giorno, certo non avrebbe commesso di nuovo l’errore di
proclamarsi del tutto innocente.
Joseph sollevò le spalle,
serio ed impassibile
“Non lo so ancora. La
ragazzina non è stata molto disponibile al dialogo, ma sono convinto che presto
canterà.”
Nathaniel non trattenne il
sorriso
“Conoscendo i tuoi modi
fratello, non ho dubbi!”
Digrignando i denti, prese a
sfregarsi le mani
“Bene…In tal caso prendi
pure il tuo nuovo cucciolo e andiamocene. Tutta questa umidità mi rovina i
capelli.”
Il più giovane saltò giù
dalla barca con agilità, senza nemmeno barcollare, mentre tornava alle redini
del motoscafo che l’aveva portato fin lì.
Cara e Joseph si guardarono
di nuovo senza dir nulla. Davvero credeva che fosse una spia? O aveva qualche
altra incomprensibile ragione per portarla con sé? Lui abbassò gli occhi per
primo, si stava chiedendo se non fosse meglio prendere le chiavi della barca e
mollarla lì. Non avrebbe avuto nulla da bere, e non mangiava già da due giorni,
forse sarebbe morta prima che quelli della guardia costiera si decidessero a
controllare come mai la barca degli Schultz non fosse rientrata in porto.
E se invece l’avessero
trovata prima? Per il resto del mondo Il Lupo era morto in quell’incidente
aereo ed è così che le cose dovevano restare, almeno per un po’. Si leccò le
labbra. Se l’avesse lasciata lì si sarebbe per sempre ricordata di lui come del
bastardo che l’aveva rapita, quasi violentata, e poi condannata ad una morte di
stenti. Sarebbe stato solo quel brutto ricordo per lei e, sicuramente, la
ragazzina avrebbe mosso mari e monti purché lo trovassero e ficcassero a vita
in una cella senza uscita.
Ma perché se ne stava
preoccupando? Poteva spararle, strangolarla, annegarla o tagliarle la gola in
qualsiasi momento. Tutto quello che doveva fare era scegliere un’opzione.
“Muoviti Joseph! Non abbiamo
tutta la notte!”
No. Non l’avevano. Dopo le
prime 24 ore dallo schianto probabilmente stavano allargando la zona di ricerca
e ben presto avrebbero notato la loro barca nella stessa medesima posizione.
Anche se i coniugi Schultz avevano lasciato il porto con le dovute
autorizzazioni ed il permesso di attraversare le acqua internazionali, ormai
sarebbero dovuti arrivare a Capo Verde già da un po’. Senza contare che Elia li avrebbe certamente
abbandonati tutti e due al loro triste destino se non fossero tornati nel tempo
stabilito.
Indicò al di là del
parapetto con un rapido cenno della mano.
“Avanti.”
Cara schiuse le labbra senza
emettere suoni. Avrebbe potuto chiedergli di lasciarla lì, ma a che scopo?
Guardò avanti a sé e strinse
il metallo tra le dita mentre scivolava sull’altra imbarcazione. Così vicina
all’acqua, completamente avvolta dall’oscurità e dai suoi rumori, strinse le
braccia al petto. Joseph le fu subito dietro, mollando poi la cima che teneva
lo scafo legato alla barca. Le si
sedette accanto, ma non la guardò più, per tutto il tempo di quel viaggio.
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Capitolo 5 *** Capitolo V ***
cap5
A/N
Chiedo scusa per il ritardo! Giornate impegnate ahimé! Rubo
questo spazio per ringraziare chiunque mi stia leggendo e per lasciarvi
due parole. Se avete letto il resto ed ora leggete questo capitolo,
forse qualcosa potrebbe non quadrarvi.. Ecco, prometto che tutto
avrà senso alla fine!
........
.........
..........
..........
..........
.............
.............
“Eccoci qui fratello! Come
vedi, contrariamente alle tue supposizioni, sono perfettamente capace di
portare a termine un compito.”
Elia non mosse gli occhi dal
bersaglio mentre il più giovane dei suoi fratelli prendeva posto
sull’elicottero. Le sue labbra pronunciarono una risposta, ma il resto del suo
viso non si mosse nemmeno.
“Trovi sempre il modo di
stupirmi Nathaniel.”
Rimase immobile con le
braccia incrociate sul petto, seguendo i movimenti degli altri due passeggeri. Joseph
stava strascinando la ragazza, una completa sconosciuta. Per quanto fosse
sollevato alla vista del fratello, la presenza del quarto incomodo rischiava di
scalfire la sua perenne aplomb.
Joseph stava ricambiando i
suoi occhi, anche lui serio, ma coscienti entrambi che dietro quelle maschere
stavano sorridendo. Avrebbe volentieri abbracciato Elia, se non avesse avuto la
precedente urgenza di trovare una scusa per il suo “bagaglio a mano”.
“Devo essermi perso qualcosa
Joseph.”
Esordì il maggiore,
lasciando le braccia distese lungo i fianchi, lo sguardo rivolto alla ragazza. Cara
sollevò la vista da terra solo per qualche istante, giusto il tempo di capire
che aspetto avesse il terzo fratello, l’ennesimo membro della famiglia che
avrebbe votato per la sua esecuzione immediata.
Aveva chiaramente qualche
anno in più, o almeno così suggeriva il suo viso, la pelle chiara ed i capelli
scuri, esattamente come il minore. Era però più alto, composto, totalmente a
suo agio nell’elegante completo blu che indossava. Non sembrava affatto un
criminale, pensò Cara, aveva più l’aspetto di uno scaltro uomo d’affari, di
quelli che incontreresti solamente a Wall Street.
Joseph sollevò gli angoli
della bocca
“Grazie per il trucco
dell’aereo fratello.”
Elia rimase impassibile
“Hai detto Volo con
l’Aquila, il che indicava gli Stati Uniti. E non è stato difficile cogliere il
tuo sottile riferimento alla libertà, vedi statua della libertà, vedi New York.
Da lì in poi non ho dovuto fare altro che un paio di telefonate…”
Prese fiato
“… E adesso…”
Inclinò lentamente la testa
a sinistra
“…Potresti gentilmente
spiegarmi l’inaspettata presenza di quest’esausta, senza dubbio incantevole, ma
sconosciuta giovane donna?”
Cara lo guardò di nuovo,
momentaneamente distratta dall’utilizzo di tante parole per chiedere semplicemente
chi lei fosse. Il suo tono suonava così diverso da quello di Joseph e di suo
fratello, riusciva quasi a farle credere che non ci fosse nulla da temere.
Joseph le lanciò un’occhiata
veloce
“Era sull’aereo.”
Esordì. Elia sollevò un
sopracciglio
“E tu l’hai presa?”
“Io non l’avevo mai vista
prima, ma lei sapeva chi sono. Sospetto sia una spia.”
L’altro tornò a guardare la
ragazza
“Spia?”
Joseph sospirò
“Esatto. Ho sentito che il tuo
amato suocero era a Johannesburg e quindi ho fatto due più due.”
Elia inspirò profondamente,
non lasciando trasparire alcuno dei suoi pensieri
“Una spia di Vladimijr
quindi.”
Stavolta si mise ad
osservare la sconosciuta con più attenzione, tracciando due lenti passi verso
di lei. Cara cercò di guardare altrove, ormai stanca di essere il continuo
centro dell’attenzione, troppo stanca perfino per preoccuparsi ancora della sua
stessa vita. Elia curvò la schiena verso di lei, avvicinando il viso alla sua
persona, quasi volesse sentirne l’odore, quasi potesse riconoscere la Russia
dal suo profumo. Alzò la mano destra, afferrando delicatamente il mento di Cara
tra pollice ed indice, sollevando il suo sguardo senza alcuna fretta
“E dimmi…”
Iniziò, gettando i suoi
occhi scuri in quelli di Cara
“…Questa dolce creatura ha
anche una voce?”
In quel momento lei capì,
nell’istante in cui scoprì, pur volendo con tutte le sue forze, di non poter
distogliere la vista dal suo interlocutore. Poteva facilmente sembrare il più
gentile ed educato, ma era di gran lunga il più crudele di tutti.
“Come ti chiami?”
Cara annaspò nell’aria per
qualche secondo
“Cara.”
Elia mosse piano le dita dal
suo mento alla sua gola, sfiorando dolcemente il punto preciso in cui il sangue
pulsava freneticamente sotto la pelle. La ragazza aveva paura.
“Non credo che sia una spia.”
Si rivolse a Joseph
interrompendo ogni contatto, fisico o visivo, con Cara.
“Sei sicuro? Come faceva a
sapere allora?”
Elia si mosse verso
l’elicottero
“Non lo so. Chiedilo a lei,
dopodiché sbarazzatene.”
Cara chiuse gli occhi,
cercando di restare in piedi per la milionesima volta negli ultimi tre giorni.
Perché continuava a sperare? Perché? Ormai era ovvio che non ne sarebbe uscita
viva, quindi per quale strano motivo nessuno dei tre le aveva ancora sparato un
colpo in fronte? Perché nessuno voleva mettere fine alle sue sofferenze?
“Mi ci vorranno tempo e
mezzi fratello.”
Elia si bloccò sui suoi
passi, voltandosi in un unico, fluido movimento
“Questo implica forse il
fatto che vorresti portarla con noi?”
“Voglio solo arrivare in
fondo alla questione.”
Il maggiore si avvicinò a
Joseph, stavolta rigido e serio
“Stai quindi sottintendendo
che vorresti portare una completa insignificante sconosciuta a casa nostra?”
La sua voce sottolineò le
ultime parole, implicando l’assurdità del solo pensiero. Cara non riuscì a
trattenersi dal lanciargli un’occhiataccia, poteva anche tenere in mano i fili
della sua vita, ma nessuno, nessuno al mondo, doveva prendersi il diritto di
definirla “insignificante”. Non sapevano nulla di lei. Non ancora almeno.
Joseph strinse i pugni
“Me ne occuperò io.”
Elia sollevò le spalle
tornando a voltarsi
“Occupatene ora.”
L’altro gonfiò il petto e
sollevò il viso
“E da quando sei tu che dai
gli ordini fratello?”
Cara si allontanò
impercettibilmente di un passo. Non poteva fuggire, ma senza dubbio non aveva
intenzione di trovarsi nel bel mezzo di quel fuoco incrociato. Gli occhi
dell’assassino si erano tinti di scuro, i suoi muscoli stavano tremando e dopo
la loro piccola discussione sulla barca, sapeva cosa ciò volesse dire.
Elia emise una specie di
sospiro, il suono della sua esasperazione
“Non lo so fratello. Forse
da quando ho dovuto tirarti fuori dai guai per l’ennesima volta? Sono stanco di
ripulire i tuoi casini.”
“I tuoi casini vorrai dire. Se fossi stato in grado di tenerti tua
moglie tutto questo non sarebbe successo.”
Elia piombò sul fratello,
rapido ed incombente, come se volesse sfondargli la faccia a suon di pugni. Non
si mosse più una volta davanti al suo viso, gli occhi stretti in due fessure
come se potesse cavargli l’anima dalle orbite.
Joseph rimase immoto,
improvvisamente stava davvero desiderando di picchiare suo fratello, non sapeva
nemmeno bene perché.
Nathaniel saltò giù
dall’elicottero con agilità e raggiunse gli altri due
“Dateci un taglio…”
Ordinò con nonchalance,
richiamando l’attenzione di Elia
“La ragazza gli piace ok?”
Sorrise divertito “Lasciagliela portare,
tanto sappiamo bene che se ne sarà già stancato tra un paio di giorni.”
Il maggiore guardò di nuovo
Joseph, nessun segno di emozioni sul suo viso
“Molto bene…”
Esordì riprendendo la sua
postura composta
“…Andiamo via da qui.”
Cara si mosse dietro di loro
non appena avvertì la presenza di Joseph al suo fianco, senza bisogno che lui
la spingesse o trascinasse. Non era nemmeno sicura di poter sopportare che lui
la toccasse di nuovo. Le parole degli altri Michaelson avevano cambiato le
corde del suo umore, gran parte della sua angoscia tramutata in fastidio, se
non in pura avversione. Per loro era insignificante, inutile, inesistente, come
se fosse un cucciolo di una qualche specie tropicale, divertente da osservare
per qualche giorno, e poi da buttar via.
Se ne stette stretta in un
angolo per tutto il viaggio, cercando di ignorare il rumore assordante dell’elica
che non le permetteva nemmeno di pensare. Era stanca. Davvero stanca. Si lasciò
trascinare per tutto il tragitto come fosse uno zombie, senza prestare alcuna
attenzione a quello che i tre uomini stavano dicendo. Tra loro sembrava essere
tornata la pace.
Un paio di volte sentì gli
occhi di Joseph su di lei e riuscì ad incrociarne lo sguardo. La sua
espressione non diceva nulla, era come guardare una pagina bianca. Cara cercò
di immaginare cosa mai potesse star pensando e le sue guance si fecero calde al
ricordo delle sue mani addosso e del suo modo così rude di baciare, il primo
pensiero che le era tornato alla mente. Avrebbe potuto liberarsi di lei in un
istante e invece era ancora lì, viva e vegeta. Ripensò allo scontro tra Joseph
e suo fratello, lasciando che l’idea più ingenua e vagamente presuntuosa
trovasse spazio nella mente. Possibile che lei gli piacesse davvero?
Joseph stava sorridendo per
la prima volta dopo giorni interi. Amava i suoi fratelli, il solo tipo di amore
che conosceva e che gli era permesso. La famiglia prima di tutto, la loro unica
grande regola, le parole che in ogni momento riecheggiavano nella sua testa. Il
grande orgoglio e peso dell’essere un Michaelson. Mentre Nathaniel raccontava
della spogliarellista olandese che aveva legato al suo letto qualche sera
prima, Joseph guardò Cara con la coda dell’occhio. Se ne stava rannicchiata con
le braccia strette al petto, gli occhi fissi al suolo. Forse l’elicottero le
dava la nausea. Forse era stremata. Forse si era semplicemente arresa. Voltò la
testa per osservarla meglio, cercando di mandar giù. Sperò che non fosse
questo, che la ragazzina dell’aereo non avesse già ceduto. Gli piaceva la sua
grinta, il modo in cui lo combatteva, cercando di respingerlo e tenerlo
lontano. Voleva che lei lo combattesse. Voleva che lei lo respingesse.
Atterrarono su quello che
doveva essere il tetto di un edificio, il ronzio dell’elicottero rimbombava
ancora nelle orecchie di Cara, incapace di riconoscere dove si trovassero. Il
grigio paesaggio intorno a lei, fatto di ombre e grattacieli, non diceva nulla
di sé. Avrebbe voluto sporgersi e cercare qualche indizio, ma dovette muoversi
non appena sentì la mano di Joseph spingere sulla sua schiena.
Elia consegnò le chiavi
dell’apparecchio ad uno sconosciuto, quest’ultimo, occhiali da sole e giacca
nera, pronto a sparire nello stesso cielo da cui loro erano arrivati. Nathaniel
stirò le braccia con una specie di sbadiglio
“Avrei di gran lunga
preferito andare subito a casa. Sai com’è.. Jacuzzi, Champagne, massaggiatrici
cinesi.”
Il maggiore passò le mani
sulla giacca del suo completo blu, incredibilmente perfetta anche dopo il volo.
“A tempo debito Nate.”
Rispose, i suoi occhi
chiaramente diretti verso la ragazza. Joseph la spinse più forte verso la scala
di servizio, sempre mantenendo il silenzio. Doveva essere un palazzo
abbandonato, forse una specie di hotel in disuso, almeno a giudicare dal gran
numero di porte e dai cartelli verdi che segnavano ogni piano con una grande
cifra bianca e le indicazioni per l’uscita di sicurezza. Arrivati al numero 3
lui la trascinò attraverso la porta, lungo un corridoio con la moquette blu.
Cara respirò il forte odore di polvere, mischiato al rimasuglio di profumo di
fiori e detergente. Forse qualcuno aveva cercato di dare una pulita in tempi
non troppo remoti.
Joseph aprì per lei una
delle tante stanze anonime e la guidò dentro, sempre senza dire una parola. La
camera era piuttosto piccola, con la stessa moquette blu e la tappezzeria beige
alle pareti. Il poco mobilio sembrava essere lì dagli anni settanta, anche se
le lenzuola bianche sul letto erano brillanti e pulite.
Cara inspirò, pronta a
parlare per domandargli se l’avrebbe semplicemente chiusa lì dentro o se
preferiva legarle i polsi un’altra volta. Aveva ancora qualcosa da perdere dopo
tutto? La porta si aprì di nuovo e gli altri due Michaelson vennero dentro,
interrompendo sul nascere le parole di Cara.
Nathaniel si piazzò in
faccia il solito sorrisetto, indicando il letto con un cenno della mano
“Direi che qui hai tutto
quello che ti serve Jo.”
Joseph sospirò scuotendo
appena la testa, Elia si avvicinò di nuovo alla ragazza, porgendole una
bottiglietta d’acqua comparsa dal nulla.
“Ho immaginato che potessi
essere assetata.”
Cara guardò tra le sue mani
e poi nei suoi occhi, indecisa su come muoversi. Avrebbe potuto giurare che
Elia stesse tentando di sorridere, solo che quel semplice gesto sembrava
essergli terribilmente difficile. Stava morendo di sete. Allungò la mano per accettare
l’offerta, ma Joseph le tolse la bibita dalle dita prima ancora che potesse
afferrarla davvero.
Inclinò la testa verso il
fratello maggiore
“Bel tentativo Elia.”
Gli ci era voluto un secondo
di troppo per capire, anche se la natura di quell’offerta era più che ovvia. Elia
aveva avvelenato l’acqua, impaziente all’idea di liberarsi della sua ragazza
dell’aereo. Sua. Ma perché continuava a pensarla sua? Sollevò un sopracciglio
rivolto al fratello, il suo sguardo diceva chiaramente che avrebbe deciso lui
come e quando liberarsi dell’ostaggio. Elia non mosse un solo muscolo del viso,
gli diede le spalle e prese la porta. Dietro di lui Nathaniel ridacchiava
ancora tra sé e sé
“Buon divertimento!”
Qualche secondo perché il
rumore dei loro passi nel corridoio svanisse e poi il silenzio piombò
nuovamente sovrano nella stanza.
Cara cercò di mandar giù.
Aveva la gola secca come il Sahara.
“Quindi è questo che vuoi?
Lasciarmi morire di fame e di sete?”
Joseph la guardò
immediatamente, come se solo in quel momento prendesse piena coscienza della
sua presenza. Svuotò la bottiglietta nel lavandino del minuscolo bagno annesso
e tornò da lei
“Mai. Non bere o mangiare
mai qualcosa che provenga dalle mani di Elia.”
Lei lo guardò per un secondo
cercando di dar senso a quel comando. Joseph si mosse verso la porta
“Ha la tendenza ad
avvelenare le persone.”
Cara abbassò gli occhi senza
rispondere nulla, senza il coraggio di confessare che era comunque
terribilmente assetata.
“Ti porterò io qualcosa da
bere e da mangiare.”
Aggiunse lui, come se le
avesse letto nel pensiero. Uscì dalla stanza chiudendosi la porta dietro le
spalle. Lo scatto della chiave nella serratura secco e netto.
Cara si lasciò sfuggire un
lungo sospiro. Era finalmente sola, finalmente libera di muoversi, di urlare,
piangere o spaccare qualcosa. Non ne avrebbe avuto la forza. Raggiunse piano il
letto e si poggiò contro il materasso, troppo duro per i suoi gusti. Una debole
luce filtrava dalle finestre, tratteggiata dalle inferriate che ovviamente
impedivano ogni tentativo di fuga. Sospirò ancora una volta, quasi uno sbuffo
più che un sospiro, accarezzando con le mani le sue stesse ginocchia.
Senza la presenza di un
orologio nella stanza non avrebbe potuto dire se erano passati cinque minuti o
due ore. Quando Joseph riaprì la porta lei rimase immobile nella sua posizione,
voltando solo la testa per avere la non necessaria conferma che fosse lui.
L’assassino le porse una bottiglia e Cara l’afferrò senza bisogno di inviti,
portandosela immediatamente alle labbra e lasciando che il fresco liquido
trasparente le riempisse la bocca. Era dolce, dolciastra come è sempre l’acqua
quando ne hai bisogno, come quando ti svegli nel cuore delle notti d’agosto e
non desideri altro che un po’ di sollievo.
Joseph rimase lì a
guardarla, totalmente assorta in quel gesto naturale, ignorando le gocce che
sfuggivano alle sue labbra colando giù lungo il collo, bagnando il vestito
troppo grande che aveva addosso. Beveva come se quella fosse la sua ultima
possibilità, come se non avesse mai assaggiato nulla di più buono. E lui se ne
stava lì, incapace di distogliere lo sguardo, assorbito dalla sua aura. La
ragazza aveva qualcosa, una sorta di strano potere, l’abilità di mutare davanti
ai suoi occhi, un attimo terrorizzata e l’attimo dopo splendente, forte, come
se nulla potesse toccarla.
Cara si fermò per respirare,
chiudendo gli occhi per un attimo. Sentì addosso l’ombra di Joseph.
“Sai che non sono una spia…”
Esordì, la voce più nitida
dopo aver saziato la sua sete
“…Perché mi hai portata
qui?”
Lui si leccò le labbra
fissando la parete
“Perché mi hai salvata
dall’aereo?”
La seconda domanda
pronunciata con meno decisione. Joseph tese la mandibola.
“Non lo so.”
Rispose, sorpreso dalla sua
stessa onestà. Ovviamente non poteva dirle che lei gli piaceva, tanto meno che,
in qualche incomprensibile modo contorto, sentiva di averne bisogno. La ragazza
dell’aereo era bella, coraggiosa… Normale. Joseph inspirò dandole le spalle
dopo aver poggiato un sacchetto del take-away sul comodino. Naturalmente, dopo
aver saputo il suo nome, aveva scovato ogni possibile fonte alla ricerca di
informazioni sulla ragazza. Ventiquattro anni, nata nei sobborghi di New York,
una vita del tutto ordinaria fino a nove anni prima. Entrambi i genitori morti
in un incidente d’auto, era andata a vivere in Alaska con sua zia. Ora viveva
di nuovo a NY da quattro anni, pagando l’affitto di un bilocale a China Town
con un lavoro da cameriera di caffetteria. Una donna comune, una boccata d’aria
fresca nella sua vita disordinata e solitaria. Tutto quello che lui non aveva e
non avrebbe mai potuto avere.
Non poteva dirle che le
piaceva guardarla, immaginandola dietro un bancone a servire caffè o sdraiata
sul divano davanti alla tv. O nuda sotto la doccia. O stesa su un tavolo da
biliardo con lui sopra. No, non poteva.
Cara si prese il tempo di
contemplare la sua figura, scorrendo con gli occhi la sua schiena, le spalle
larghe e le gambe avvolte nei jeans. Per la prima volta in sua compagnia,
sentiva di non essere in pericolo.
“Cosa siete quindi… Mafiosi?
Killer su commissione? Stupratori?”
Joseph tornò a guardarla,
sul suo viso un accenno di sorriso
“Due su tre, tesoro.”
Cara aggrottò le
sopracciglia, non più completamente a suo agio. L’assassino si muoveva lento
verso di lei, coprendola a poco a poco con la sua ombra. Dalla sua pelle le
saliva alle narici un profumo muschiato e virile, un odore che avrebbe dovuto
odiare, ma che non riusciva a non portarsi dentro con piacere ad ogni respiro.
“Quali?”
Chiese, cercando di vincere
la lotta per la dominanza di sguardi. Lui sorrise beffardo, di nuovo calato
nella sua veste.
“Uccido le persone. E mi
piace anche…”
Cara trasalì sentendolo
incombere su di sé
“Ma quando si tratta di
donne…”
Joseph prese a giocherellare
con una ciocca dei suoi capelli biondi
“…Di certo le preferisco
consenzienti. E vive.”
Lei si sforzò di prendere un
respiro profondo, cercando di indietreggiare il più possibile senza arrivare a
sdraiarsi sul letto.
“Io posso anche essere viva,
ma non sarò consenziente.”
Il ghigno sul viso di Joseph si aprì
completamente
“Confesso che avevo avuto
tutt’altra impressione.”
Sussurrò. Davanti ai suoi
occhi ancora chiara l’immagine di lei, calda e tremolante, pronta ad essere
presa e cavalcata.
Cara sollevò il mento
“Stavo solo cercando di salvarmi
la vita.”
Lui inclinò la testa,
indugiando un paio di secondi prima di poggiare un ginocchio sul letto e
prendere posto accanto a lei.
“Stai mentendo.”
La sicurezza stampata sul
suo viso costrinse Cara a guardare il soffitto. Non sarebbe stato saggio farsi
saltare i nervi in quella situazione. Joseph si fece più vicino, assorbendo
ogni minimo dettaglio del suo viso, cercando conferma ai propri pensieri in
ogni più piccolo movimento dei suoi tratti
“Tu mi vuoi.”
Cara riprese immediatamente
contatto con le sue iridi azzurre, sconcertata ed intimamente imbarazzata da
quell’affermazione.
“Dal primo momento in cui ci
siamo incrociati sull’aereo.”
Aggiunse, senza mai interrompere
il loro contatto di sguardi. Le pupille della ragazza si dilatarono di colpo,
divorando il blu dei suoi occhi, dimostrazione che aveva colto nel segno.
Avrebbe voluto sorridere, battere il cinque al proprio ego, ma preferì
continuare a fissarla, scavandole dentro, ormai troppo perso per risalire
rapidamente a galla.
Lei si morse l’interno della
guancia, cercando di non segnare il proprio destino con un risposta troppo
istintiva e tagliente. Allungò le mani sul torace dell’assassino e lo spinse
via
“Sta’ lontano da me.”
Lui si lasciò guidare, per
nulla segnato dal suo rifiuto anzi, quella era probabilmente la parte che
preferiva, il piacere agro-dolce del sentirsi negare ciò che desiderava. Il
rigetto presupponeva, infatti, che avrebbe goduto il doppio nel prenderselo.
Joseph si alzò in piedi,
avvicinandosi lento alla finestra, sbirciando il mondo tra le sbarre, tanto
simili a quelle di una prigione.
“E’ piuttosto difficile
capirti ragazzina.”
Cara rimase a guardarlo,
aspettando che continuasse
“Un attimo sembra che tu non
abbia ragioni per vivere, che la tua stessa esistenza non abbia per te alcuna
importanza… E l’attimo dopo sei pronta a tirar fuori gli artigli e graffiare…”
Sorrise tra sé e sé
“…Non che non mi piacerebbe
sentire le tue unghie conficcarsi nella mia schiena.”
Cara strinse le lenzuola nei
pugni. L’ultima ennesima allusione pronunciata dall’assassino le riempì lo
stomaco di rabbia e la bocca di bile. Era solo quello il punto? Quella l’unica
ragione per cui stava ancora respirando? Contrasse la mandibola e balzò in
piedi
“E’ solo questo che vuoi,
giusto?”
Lui si voltò, genuinamente
spiazzato
“Bene.”
Cara mosse due passi decisi
verso di lui, afferrando stretto l’orlo del suo prendisole, pronta a sfilarselo
senza troppa grazia.
“Avanti.”
Continuò, buttandolo a terra
con forza.
“Fa’ ciò che vuoi…”
Riprese fiato a stento
“…Togliamoci il pensiero.”
Joseph avvertì ogni sfumatura
di rabbia ed acidità nella sua voce, sentendosi colpito per la prima volta. Si
prese il tempo di guardarla ancora una volta dalla testa ai piedi, apprezzando
ogni centimetro scoperto della sua pelle candida. Stavano bruciando entrambi in
quella piccola stanza, lei di collera e lui di… Desiderio? L’assassino inspirò
profondamente, cercando di capire cosa lo bloccasse dal prenderla, sbatterla al
muro e farle rimangiare quell’impeto di sfacciataggine, magari riempiendole la
bocca in tutt’altro modo. Se ne stette lì, immobile, ad aspettare che Cara per
prima divenisse cenere. Le sue mani ed i suoi piedi avrebbero voluto muoversi
per conto loro, ma qualcosa dentro lo tenne inchiodato al pavimento, qualcosa
che uno come lui, totalmente sconosciuto ai sentimenti e alle emozioni, non
riusciva a decifrare.
“Lo stai facendo di nuovo.”
Riuscì infine a parlare,
ricompattando a fatica il proprio controllo, completamente focalizzato sui soli
occhi della ragazza.
“Come se nulla avesse
importanza.”
In quel momento la ragazzina
dell’aereo era come una moneta, un moneta che gira veloce su sé stessa,
mostrando ininterrottamente le sue due facce e Joseph era quello che stava a
guardare, cercando di resistere all’urgenza di bloccarla e scoprire quale fosse
li suo vero volto. Qualcosa in quella donna lo stava incantando contro la sua
volontà. Doveva fare in modo che smettesse.
Cara non disse nulla, ma fu
la prima a mollare lo sguardo, cercando invano di sprofondare nel pavimento. L’assassino
raccolse l’abito bordeaux e glielo porse.
“E’ ora che tu prenda una
decisione…”
Lei afferrò piano il
tessuto, sentendo la mano di lui sotto la propria per un istante.
“…Vuoi vivere o vuoi morire?”
Con un sospiro sarcastico si
rivestì
“Come se fossi io a
decidere.”
Lui la catturò con un’occhiata
seria, bloccandola a metà del suo gesto
“Certamente sei tu a decidere.
Siamo noi i soli artefici del nostro destino.”
Cara aggrottò le
sopracciglia. Cosa stava cercando di dire? Stava forse prendendola in giro? Dal
momento in cui era salita su quel maledetto volo da Johannesburg tutto della
sua vita le era sfuggito dalle mani, tutto dipendeva esclusivamente da lui ora.
Joseph si avvicinò
nuovamente alla finestra, svuotato dei pensieri lussuriosi di poco prima. Seguì
il profilo delle nuvole sopra New Orleans.
“Cosa faresti se adesso
aprissi quella porta e ti lasciassi andare?”
Cara trasalì sentendosi
attraversare da un fulmine di nuova energia. Lui invece rimase perso nei propri
pensieri, ignorando quel mezzo sospiro speranzoso.
“Dove andresti? Cosa
cambieresti se riavessi la tua vita?”
Aggiunse a voce bassa, come
se stesse parlando con un interlocutore immaginario piuttosto che con lei. Cara
prese a fissare i suoi stessi piedi, scovando la sua mente alla ricerca di una
risposta. Chiunque altro al suo posto non sarebbe riuscito a frenare la lingua,
elencando decine di familiari ed amici da cui tornare, descrivendo case
accoglienti con la staccionata bianca e natali passati tutti insieme davanti al
camino. Ma lei? Lei non aveva più nessuno da cui correre.
“Londra.”
Rispose infine tornando a
sedersi sul bordo del letto.
“Avrei sempre voluto
andarci.”
L’assassino si girò a guardarla,
un nuovo e diverso luccichio nei suoi occhi
“Gran bella città. Artistica.
Eccentrica. Affascinante.”
“Ci sei stato?”
La domanda le sfuggì dalle
labbra spontanea, come se la loro fosse diventata una semplice conversazione.
Joseph sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso
“Non credo ci sia a questo
mondo un posto dove non sono ancora stato.”
Ed era vero. Dall’Europa all’Australia.
Dai deserti del Nord Africa a quelli del Medio Oriente. Dalle stravaganze giapponesi
agli intensi profumi di Cuba.
Cara sbatté gli occhi più di
una volta, trattenendo l’istinto di chiedergli di più. Il modo in cui sembrava
essersi immerso nei suoi personalissimi ricordi lo faceva sembrare diverso,
portava alla luce un nuovo aspetto dell’assassino che la teneva in ostaggio.
Era una persona, prima di tutto era anche lui una persona, con un passato, una
storia, delle passioni e dei desideri. Forse perfino dei rimpianti.
Rimpianto. Il peso se lo
sentì di colpo sulle spalle, il fardello della sua vita, tutta passata nello stesso
posto, tutta spesa rincorrendo un solo ed unico scopo.
La suoneria trillante del
telefono di Joseph interruppe quell’attimo di silenzio. Il suo viso tornò scuro
in un istante. Le voltò le spalle e si portò il cellulare all’orecchio
“Padre.”
Rispose, quell’unica parola
pronunciata tra le labbra quasi fosse tagliente. Il suo interlocutore parlò
senza bisogno di risposte per una buona manciata di secondi.
“Bene.”
Fu l’unica altra cosa che
Joseph disse prima di chiudere la comunicazione. Guardò di sfuggita Cara come
se la sua presenza avesse perso improvvisamente d’interesse. Si avviò verso la
porta in silenzio. Se ne stava andando senza dir nulla.
“Mi lasci qui?”
Una domanda retorica si
potrebbe dire, pronunciata con un brivido d’agitazione. L’assassino le rivolse
un ultimo sguardo, la sua mente era già ampiamente fuori da quella stanza e da
quell’edificio.
“Ho delle cose da fare.”
Cara sospirò, iniziando
inaspettatamente a tremare
“Non voglio stare qui…
Chiusa in questo buco ad aspettare di morire.”
Lui sollevò un sopracciglio
“Cosa vorresti? Che ti
portassi con me?”
Il tono a metà tra il
divertito e l’assurdità.
“Tu sei solo un ostaggio.
Una prigioniera. Una preda.”
Lei smise di tremare,
inchiodata dalla freddezza di quelle parole, ogni ombra della sua precedente compagnia
svanita nel nulla.
Joseph indugiò sulla soglia,
stringendo la maniglia con tutta la sua forza
“E credimi… Se hai già paura
di me, allora mio padre è davvero l’ultima persona al mondo che vorresti
incontrare.”
Concluse prima di sparire sbattendosi
la porta dietro le spalle.
Cara attese il familiare
scatto della serratura fissando l’uscita. Il suo viso mutò piano d’espressione,
ogni timore rimpiazzato dal gelo completo, il lucido dei suoi occhi sostituito
da un’inedita oscurità.
“Io non ne sarei tanto
sicuro.”
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Capitolo 6 *** Capitolo VI ***
cap6
A/N Ringrazio tutti quelli che leggono, seguono,
ricordano, preferiscono e recensiscono! Siete davvero una miracolosa meraviglia
nelle mie giornate più noiose!!
Questo capitolo (oltre ad un po' di "sana" interazione tra i protagonisti) racconta
qualcosa in più sui Michaelson, anche se c’è ancora moooolto da dire...Dal
prossimo invece, credo che la vera azione avrà inizio!
-------
Il cancello della villa si
aprì con il solito fischio. Il viale proseguiva su per la collina in curve
lente e sinuose. Le palme sventolavano piano, lasciando intravedere il grande
edificio in cima alla strada. Casa, così avrebbe dovuto chiamarlo.
Joseph respirò una lunga
boccata d’aria, l’umidità del Mississippi gli era già addosso. Lasciò scorrere
gli occhi sui muri color mattone, interrotti dalle grandi finestre bianche in
stile vagamente inglese, completamente fuori dall’impronta europea di New
Orleans. Al primo piano la grande balconata in ferro battuto era già coperta di
fiori e foglie verdi, mentre il colonnato bianco del portico risplendeva al
sole, candido e pulito come sempre.
Sua madre avrebbe adorato
quella casa, se solo avesse potuto godersela per un po’.
Il suono dei suoi passi sul
parquet scuro rimbombò nel grande soggiorno vuoto. Nessun segno del passaggio
di Nathaniel ed Elia.
Facendosi coraggio, Joseph
proseguì per il lungo corridoio fino alla porta chiusa dello studio. Affrontare
suo padre era quella parte di vita che non avrebbe mai rimpianto se fosse
rimasto chiuso in una cella per il resto dei suoi giorni. Poteva già sentire il
suono acido, intriso di superiorità, della sua voce. Sbatté piano le nocche
contro il legno.
“Avanti.”
Joseph varcò la soglia
fissando il pavimento, cercando di ritardare al massimo il momento in cui il
caro papà gli avrebbe puntato gli occhi addosso, con chiaro e palese
disappunto.
“Vieni avanti Joseph.”
Ed eccolo lì. William
Michaelson III, comodamente seduto sulla sua poltrona di pelle, seminascosto
dietro la scrivania in mogano. La giacca nera rispecchiava il suo solito umore,
mentre la barba, lasciata lunga, ma perfettamente curata, copriva a metà il
ghigno sul suo viso.
“Felice di riaverti a casa
figliolo.”
Sarcastico. Era solo
sarcastico. Joseph strinse i pugni cercando di frenare la lingua, quel
trattamento gli era riservato dal giorno della nascita, ormai avrebbe dovuto
esserci abituato. Il Signor Michaelson era tutto fuorché un padre amorevole.
Dopo aver ereditato il nome
ed il business di famiglia, si era concentrato esclusivamente su quest’ultimo,
tentando di ampliare gli orizzonti del loro potere. Le origini della casata
erano da ricercare in Europa, affondando tra la mafia siciliana e quella
francese di Grenoble, mischiatasi pian piano alle altre differenti branche
della malavita del nuovo mondo.
L’originale William
Michaelson, se questo era stato il suo vero nome, aveva messo piede sul suolo
americano all’alba del primo conflitto mondiale, approfittando della confusione
generale per piantare il seme della loro famiglia. Inizialmente il piccolo
impero criminale aveva raccolto il disappunto di poveri ed analfabeti, dedicati
per lo più a rapine ed estorsioni, ma col passare degli anni le tecniche erano
state affinate, ed il loro bacino d’azione largamente ampliato.
Oggi William Michaelson III
teneva le redini di un’intera organizzazione, traendo profitti non solo dai più
comuni illeciti, ma per lo più dal riciclaggio di denaro, dal contrabbando, dal
gioco d’azzardo e dal traffico di sostanze. Non vi era settore in cui non
avesse ficcato le mani almeno una volta. Anni di scontri ed alleanze l’avevano
infine portato a vantare la più grande rete di collaborazione criminale
mondiale.
Ciò non vuol dire che non
avesse nemici.
Aveva molti nemici.
La grande furbizia ed
intelligenza di questo piccolo uomo stava tutta nel non sporcarsi mai le mani
in prima persona. C’era sempre qualcun altro che poteva fare il lavoro sporco
al suo posto, affiliati, mercenari, corrotti, professionisti del crimine, i
suoi figli. Già, i suoi quattro bei ragazzi, i quattro soldati meglio
addestrati.
Ognuno di loro era stato
cresciuto con questo scopo, perfezionato nelle proprie personali inclinazioni,
a servizio della famiglia.
“C’è già Caspar a marcire in
galera…”
Riprese
“…Un altro Michaelson dietro
le sbarre sarebbe stato a dir poco inopportuno...”
Gracchiando quelle parole,
William si sollevò dalla poltrona e raggiunse il mobile bar per versare due
dita di Scotch nei bicchieri.
“… Qualcuno potrebbe pensare
che i miei figli non siano degni di portare il mio nome.”
Lui. Era lui il primo e
forse l’unico a pensarlo.
Joseph cercò con tutte le
sue forze di frenare i nervi, buttando giù in un solo sorso l’alcool che suo
padre gli aveva offerto. Doveva solo far finta di non sentire. Doveva solo
fingere. D’altra parte quel discorso aveva già raggiunto le sue orecchie
milioni di volte, replicandosi e ripetendosi con toni e parole ogni volta
diversi. Non sarebbe mai stato abbastanza, non per il giudizio del grande
William Michaelson III.
C’era una ragione dopotutto,
una valida ragione perché lui lo odiasse, ed un’altra altrettanto buona per non
aver alcuna considerazione del proprio primogenito. Caspar era rinchiuso in una
prigione di massima sicurezza in Giappone e suo padre non aveva ancora mosso un
dito per liberarlo.
Troppo debole. Troppo
sensibile. Troppo amato. Così lo considerava.
Sin dal momento in cui aveva
sposato la madre di Joseph, William aveva deciso che il loro primo figlio
sarebbe stato null’altro che un passo obbligato. E’ nella natura delle donne
infatti, amare la loro prima creatura con un’intensità senza controllo, che non
lascia spazio al dovere e alla disciplina. Tuttavia, troppo amore rende questi
figli deboli, fragili, senza alcuna capacità di resilienza, in altre parole
inutilizzabili. William sapeva che sua moglie non avrebbe mai rinunciato al
piccolo Caspar e così glielo aveva lasciato, facendo finta che nemmeno esistesse.
Tutto il suo interesse ed i suoi progetti si erano riversati direttamente su
Elia, all’anagrafe William Michaelson IV. Poca sorpresa che fosse il suo soldato
migliore.
“E’ stato Pushkin a far
saltare il piano.”
Ribatté Joseph come dato di
fatto, senza la minima intenzione di giustificarsi. Non c’era spazio per le
giustificazioni in quello studio.
Suo padre gli sventolò la
mano davanti alla faccia, come se cercasse di scacciare le sue parole.
“Vladimijr non è il problema…”
Si voltò di spalle e tornò
alla sua scrivania, poggiando i palmi sul legno scuro. Joseph trattenne il
fiato, spingendo tutta l’energia nei muscoli tesi.
“…Tu sei il problema.”
Aggiunse William, voltandosi
in un movimento fluido e mostrandogli il suo mezzo sorriso
“La tua incapacità mi è
costata parecchie migliaia di dollari figliolo. Senza contare lo smacco al buon
nome della famiglia…”
Si portò il bicchiere alla
bocca, bagnando appena le labbra nel liquido ambrato, spendendo una buona
manciata dei suoi preziosi secondi assaporandone l’aroma complesso.
“…Ma del resto lo sai, non
dovresti nemmeno portarlo il mio cognome.”
Concluse con voce pacata,
come se avesse espresso il più naturale e scontato dei pensieri.
L’assassino strinse il pugno
attorno al bicchiere, talmente forte da aspettarsi una pioggia di vetri sul
parquet da un momento all’altro. Quanto avrebbe voluto schiantarglielo in
fronte.
“Vattene adesso.”
Joseph trattenne a stento
l’istinto omicida, quello stesso che William aveva coltivato in lui con tanta
devozione. Nella sua mente poteva già godere la vista delle budella di suo
padre spalmate per la stanza. Girò i tacchi senza proferire sillaba.
“Ah, figliolo?”
Figliolo.
Di’ quella parola ancora una volta e giuro che ti sbudello, maledetto bastardo.
Gli tese solo l’orecchio,
perché se si fosse voltato, davvero avrebbe rischiato di perdere il controllo.
“Non andare troppo lontano.
Se Fitz non paga i suoi debiti entro lunedì, avrai un lavoro da fare.”
Meno male. Avrebbe avuto
qualcuno su cui scaricare la rabbia. Fitz non avrebbe mai pagato e lui si
sarebbe sfogato facendolo a pezzi. Doveva solo resistere fino a lunedì.
No. Non sarebbe mai riuscito
a trattenersi tanto.
--------
Cara sedeva sul letto,
rimirando le briciole del panino che aveva divorato poco prima. Il suo corpo
stava ancora ringraziando.
La porta della stanza si
aprì di colpo, sbattuta con violenza alle spalle dell’assassino.
Joseph aveva gli occhi
scuri, i capelli scompigliati e l’espressione sconvolta.
Lei balzò in piedi,
spalancando gli occhi di fronte a tanta rabbia malcelata. Ogni millimetro della
sua persona trasudava collera, cattiveria, violenza.
Indietreggiò di un passo,
valutando l’idea di dire qualcosa.
Lui le fu addosso prima che
potesse parlare, afferrandola per le spalle e sbattendola al muro. Cara
rimbalzò contro la parete fredda, incapace di opporre resistenza a
quell’attacco inaspettato. Le iridi azzurre di Joseph erano sparite, totalmente
ingurgitate dalle pupille dilatate, frutto dell’alcool in cui aveva cercato di
annegarsi.
Il suo peso la inchiodò
contro l’intonaco, mentre le sue mani tiravano su il vestito senza alcuna
cerimonia. Usando i piedi la costrinse ad aprire le gambe, emettendo una specie
di grugnito al suo tentativo di resistenza. Le premette l’avambraccio contro la
trachea, obbligandola al muro mentre lui, con la mano libera, slacciava la
cintura.
Sarebbe stata una cosa
veloce. L’unica cosa che voleva era sprofondare in un corpo caldo, stringere
qualcosa di vivo tra le mani, entrare nelle sue viscere e lasciarci dentro tutta
quella rabbia. Tutto quel dolore. Sporcarla per sentirsi pulito. Farle male per
stare meglio.
Cara prese a dimenarsi, stringendo
le unghie attorno al braccio che le impediva il respiro, facendolo sanguinare,
cercando disperatamente di strapparlo via. L’accenno di umanità che aveva
intravisto sembrava sparito, sepolto dietro una furia senza volto.
Joseph esitò per un breve secondo,
assaporando quel dolce dolore. Il suo rigetto era piacevole. Rassicurante. La
ragazzina in quel momento doveva odiarlo e tutto il suo odio era meritato,
anzi, per sicurezza, avrebbe fatto in modo di meritarlo davvero tutto.
Afferrandola ancora una volta
con decisione, la spinse sul materasso.
“No…Ti prego no.”
Ignorando completamente la
richiesta le si buttò sopra, per nulla disturbato dai suoi pugni sulla schiena.
Cara tirò indietro la testa,
cercando di evitare la sua bocca. Le labbra di Joseph, al sapore di doppio
malto e sigarette, lasciarono una scia bagnata sul suo collo, mordendo e
succhiando ogni porzione di pelle disponibile. Con un movimento deciso di
bacino aveva preso posto tra le sue cosce, strusciandosi con violenza contro di
lei.
La ragazza cercò di
respingerlo ancora una volta, provando in ogni modo a farsi sentire. Tutto ciò
che le uscì di bocca fu una lunga scia di no, alcuni urlati, altri appena
sussurrati.
Joseph proseguì cercando di
ignorare quel suono continuo, strinse uno dei suoi seni nella mano e riuscì finalmente
a strapparle un lamento diverso. Ancora una volta raggiunse i pantaloni e provò
a venirne fuori. L’ultimo strato che lo separava da lei era quel maledetto
bikini nero.
Cara riuscì a portare le
mani al petto dell’assassino e spinse più forte che poté. Il peso di lui
oscillò appena. Chiudendo gli occhi portò i palmi alle sue spalle e lo chiuse
in una specie di abbraccio stonato.
“Ti prego fermati Joseph.”
Lui sembrò paralizzarsi di
colpo. Il suono del suo nome di battesimo pronunciato da quelle labbra lo
inchiodò al letto.
Cara sospirò. Le parole
erano uscite da sole una dietro l’altra. La scelta di chiamarlo Joseph spinta
dalla naturale ed istintiva necessità di abbattere qualche barriera in un
momento rubato, ma comunque intimo.
Joseph riprese parte del
controllo, sentendo ancora viva e vegeta la fiamma del risentimento che lo
aveva spinto fin lì. Rimase nella sua posizione di comando, spingendo tutta la
sua virilità contro di lei, rendendo ben chiaro che il momento non era
sfuggito. Sollevando una mano, strinse il viso di Cara tra le dita e la guardò
dritta negli occhi
“Se non mi lasci fare
questo, ho paura che potrei farti male davvero.”
Lei riprese fiato, scrutando
quegli occhi velati. Parte della rabbia era scemata, lasciando spazio ad una
luce scura, più difficile da decifrare. Era come se il suo fosse un bisogno,
non fisico, ma spirituale. Non voleva farle male, ma doveva averla, anche
contro la sua volontà.
Cara mosse le dita e sentì i
suoi muscoli contratti sotto i polpastrelli. Non c’era fibra in lui che non
fosse tormentata.
In questo erano più simili
che mai.
Sbatté le palpebre
lentamente, portando piano le mani fino al suo polso
“Non così…”
Sospirò, spingendo
delicatamente via la mano che le teneva il viso
“…Solo non così.”
Ribadì, mentre lui piantava
i gomiti ai lati del suo capo, lasciando che fossero faccia a faccia.
Cara si morse piano il
labbro, sentendo che qualcosa stava iniziando a muoversi anche dentro di lei.
Fece forza sugli addominali e si tirò su, abbastanza da sfiorare le labbra
dell’assassino con le proprie, stavolta in un gesto lento e delicato. Il sapore
deciso della sua bocca non le sembrò più tanto spiacevole.
Joseph rimase interdetto per
un attimo, scoprendo una morbidezza che prima non era riuscito a sentire. Desiderandone
ancora. Ardentemente. Ripeté il gesto, catturando il labbro inferiore di Cara
tra le sue. Lei rispose al bacio, muovendosi ad un ritmo pacato, riportando
piano la schiena sulla coperta, trascinandolo giù con lei.
L’assassino ne tracciò i
contorni con la punta della lingua, poi affondò nella sua bocca, prendendosi
tutto il tempo per abituarsi a quel calore. Cara spinse impercettibilmente
sulle sue spalle attirandolo a sé, perdendosi in un bacio morbido e caldo, finalmente
degno di quel nome.
Joseph lasciò scorrere la
mano sul suo collo, sulle spalle e poi sul seno, passando delicatamente il
pollice sulla parte più sensibile. Cara rispose con un leggero colpo di reni,
sorpresa quanto lui della facilità con cui il suo corpo sembrava rispondere
alla stimolazione. Si staccò dal bacio per riprendere aria ed infilò le dita
sotto la maglietta dell’assassino, svelando una pelle liscia e calda, avvolta
su muscoli forti e contratti.
L’azione aumentò presto di
ritmo, trovando la mano di Joseph sullo stomaco scoperto di Cara, scosso da
brevi respiri affannosi. Il movimento continuò inesorabile, fin quando le sue
dita riuscirono finalmente ad infilarsi sotto i confini del bikini, trovando
ciò che tanto avevano bramato. Lei sussultò, quel contatto inaspettatamente
piacevole, come se lo avesse atteso da altrettanto tempo. Joseph non trattenne
un gemito d’apprezzamento, scoprendola già pronta per lui. Decise comunque di
regalarle un assaggio della sua maestria, conquistata accumulando piacevoli
randez-vous senza alcun significato.
Cara inarcò la schiena
schiudendo le labbra. Avrebbe dovuto odiarlo, ma non poteva non ammettere a sé
stessa che nessuno mai l’aveva toccata in quel modo. Aveva dentro solo le sue
dita e già si sentiva sul punto di esplodere.
Lo sentì muoversi, spostando
il peso del corpo su un solo ginocchio. L’inconfondibile rumore della zip
riempì quel secondo di silenzio. Cara rimase a guardarlo, persa ancora una
volta nello strazio dei suoi occhi. Gli accarezzò piano il viso, buttando giù
un altro mattone dall’enorme muro tra loro. Lo sentì spostare il costume con la
punta delle dita ed entrare in lei. Chiuse gli occhi, stringendo d’istinto i
muscoli.
“Apri gli occhi.”
La riprese lui, con voce
bassa, ma decisa. Aveva bisogno di guardarla in quel momento, bisogno di capire
dai suoi occhi se lo stesse odiando, se lo avrebbe respinto, se avrebbe
immaginato o desiderato di essere in un qualsiasi altro posto piuttosto che lì,
sotto di lui.
Si mosse piano, un
centimetro alla volta, sperando, in un angolo non troppo buio della sua mente,
che Cara riprendesse a scalciare. In quel caso avrebbe saputo perfettamente
cosa fare e come sentirsi… Ma in questo… La ragazzina dell’aereo non era una
prostituta, tanto meno una donna da quattro soldi di quelle che era solito
rimorchiare nei bar. Lei era vera, normale,
ed inevitabilmente avrebbe letto tra le righe di quell’amplesso, chiedendogli
qualcosa in cambio.
Scacciò quel pensiero
gustando ogni sensazione che l’interno del suo corpo riusciva a donargli. Il
viso di Cara andava tingendosi di un rosso sempre più acceso, i suoi lineamenti
ancor più belli di quanto Joseph potesse ricordare. Doveva averla. Dal momento
in cui gli era passata accanto sull’aereo lui doveva averla.
Quella consapevolezza spezzò
la dolce stasi del loro avvicinamento. L’assassino allontanò da sé le mani
della ragazza e le immobilizzò al materasso con le sue sopra, facendo forza
sulle ginocchia per aumentare il ritmo delle sue spinte. Joseph nascose il viso
nell’incavo del collo di Cara e lei chiuse di nuovo gli occhi, godendo allo
stesso tempo della frizione tra i loro corpi e dei suoi gemiti di piacere,
ovattati dalla posizione, ma chiari e continui, come una sorta di sensuale
canzone a far da sottofondo.
Il cervello sembrava essersi
spento, ogni percezione, ogni sensazione, arrivava esclusivamente dalla pelle,
dagli organi interni, dalle labbra che riuscivano a sfiorare i suoi capelli.
Joseph la strinse alla vita,
attirandola a sé, rendendo quel contatto il più profondo possibile. In quel
momento l’odio di suo padre non aveva più importanza, la morte di sua madre
sembrava un evento lontano ed i lividi dei colpi presi non bruciavano più. La
ragazzina stava prendendosi tutto, non solo il suo corpo, ma anche i suoi
tormenti. Si tirò su per guardarla ancora, osservando la sua reazione ad ogni spinta,
cercando di carpire e memorizzare ogni piccolo suono che riusciva a sfuggire
dalle sue labbra. Stava godendo, godeva anche lei, ma di certo non glielo
avrebbe dato a vedere così facilmente. La sua ragazzina ostinata e cocciuta.
Con un’ombra di sorriso in
bocca ed incapace di contenersi ancora, Joseph premette tutto sé stesso dentro
Cara, congelando ogni altro movimento, per assaporare gli spasmi del proprio
corpo che andava svuotandosi. Cara era rimasta immobile insieme a lui, con le
palpebre ancora calate e le mani tremanti, casualmente poggiate sui fianchi
dell’uomo che l’aveva appena posseduta.
Quello era un momento
eterno. Di lì in poi tutto sarebbe stato nuovamente un casino.
Joseph rotolò piano accanto
a lei, tirando giù la maglia e su la zip dei jeans. Cara sentì lo stesso
immediato bisogno di coprirsi, già convinta che non avrebbe pronunciato parola.
Se avesse detto qualcosa, qualsiasi cosa, l’imbarazzo, la vergogna e forse il
rimorso, l’avrebbero assalita, facendole desiderare di sparire all’istante.
Lui tornò in piedi,
sistemando con nonchalance i propri vestiti. Era fatta. Aveva raggiunto lo
scopo, grattato il suo prurito, vinto l’ennesima sfida col suo ego infinito.
Nel momento in cui si fosse deciso a guardarla di nuovo, non avrebbe visto nulla
più che una donna qualsiasi, senza alcuna attrattiva rimasta. Quel pensiero,
tranquillizzante sulla carta, lo teneva di fatto impalato, rivolto alla
finestra.
E se invece fosse avvenuto
il contrario? Joseph si leccò le labbra, riuscendo ancora a sentire il sapore
di Cara. Se ne avesse voluto ancora? Se si fosse trovato a desiderarla una
volta in più? E magari un’altra, ed un’altra ancora? Si passò la mano sul viso,
indeciso su quale fosse la prospettiva più spaventosa.
Cara si strinse nelle braccia,
cercando di farsi piccola. I suoi muscoli interni stavano ancora cercando di
riadattarsi al vuoto, mentre lei provava a riordinare le idee. Il pensiero di
aver fatto l’amore con lui.. O meglio, sesso con lui, la faceva sentire
violata, più in combutta con sé stessa che con l’assassino. D’altra parte era
stata proprio lei a cedere, a farsi prendere senza resistenze. Il fatto che
Joseph avesse abbassato la guardia, che si fosse comportato più come un uomo
che come un carceriere, quello poteva essere un vantaggio per lei, giusto? O
probabilmente voleva dire tutto il contrario. Forse, ottenuto ciò che voleva,
non avrebbe più avuto ragioni per tenerla in vita.
Quando Joseph si voltò nella
sua direzione, il suo sguardo indecifrabile le provocò un brivido improvviso.
Cara alzò piano gli occhi
“Mi ucciderai adesso?”
Domandò in un bisbiglio. Lui
parve colpito, addirittura quasi ferito per un secondo. Sollevò le sopracciglia
“Credi davvero che io sia un
tale mostro?”
Rispose, restituendole il
punto di domanda. Cara abbassò lo sguardo, prendendosi il tempo di pensarci
davvero.
“Io…”
Iniziò incerta, quasi in
imbarazzo a quel punto
“…Io non so cosa pensare.”
Masticò le sue stesse labbra
“Se non vuoi uccidermi…
Allora perché non mi lasci andare a casa?”
Joseph sospirò avvicinandosi
di nuovo, sedendosi piano sul letto, accanto a lei, ma stavolta ad una distanza
ragionevole.
“Non posso lasciarti andare.
Sai troppe cose di me, della mia famiglia, di quello che faccio.”
“Non dirò niente.”
Lui sorrise. Quante volte se
l’era sentito dire? Quante persone l’avevano pregato di lasciarle vivere,
giurando su dio e sulle loro madri che non avrebbero mai aperto bocca? Se
avesse ascoltato qualcuno di loro, sicuramente sarebbe già morto o rinchiuso da
tempo.
Restò lì in silenzio, senza
bisogno di ribadire il suo no. Cara riempì i polmoni fino all’orlo, guardando
in qualsiasi direzione tranne la sua.
“Io non capisco… Mi hai
salvata. Più di una volta, ma…Perché?”
Gli occhi di Joseph se li
sentiva addosso, a differenza di lei l’assassino non sembrava affatto a disagio
anzi, pareva che a stento riuscisse a trattenersi dal sorridere. Non che avesse
problemi di autostima, quello era chiaro.
“Io…”
Cara trattenne il labbro
superiore tra i denti, valutando se fosse il caso di pronunciare ad alta voce
quella scemenza.
“…Io ti piaccio?”
Stavolta lui sorrise davvero
“Sono un Michaelson. A noi
non piacciono le persone. Noi non amiamo.. E non teniamo a nessuno. I
sentimenti sono solo debolezze.”
Mentre parlava il suo
sorriso era scomparso, rimpiazzato da una maschera fredda.
Non
hai tutti i torti pensò Cara, ma decise di tenere la bocca ben
serrata. Si era già resa abbastanza ridicola con la sua ultima domanda. Annuì
in silenzio tornando a fissare il nulla.
Joseph si tirò su, cercando
ancora una volta qualcosa di interessante al di là delle inferriate. Con la
coda dell’occhio poteva ancora vederla, la testa bassa, i lunghi capelli che
scendevano morbidi verso il pavimento, le ginocchia serrate, i piedi nudi
poggiati al pavimento solo con la punta. Non riuscì a trattenersi
“Sei bella…”
Esordì senza muoversi
“…Sei forte. Hai l’aspetto
di un angelo. Piaceresti a qualsiasi uomo.”
Concluse, senza dare alla
sua voce alcun tono particolare, nulla che potesse far trasparire i suoi
pensieri.
Cara sollevò piano il viso,
sorpresa ed indecisa. Era il tipo di ragazza che snobba i complimenti gratuiti,
ma quelle poche parole erano riuscite a sfiorarla, del tutto inattese ed
inopportune. Gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso solamente
accennato
“Grazie.”
Rispose, la voce appena
percettibile.
Joseph colse al volo quel
piccolo cambio d’espressione, realizzando che era la prima volta, in tutto il
loro tempo, che vedeva sul suo viso qualcosa di diverso dalla paura. Lo stomaco
gli si torse sotto le costole e solo allora ne fu certo. Ne voleva ancora. Voleva ancora
guardarla, ancora toccarla, sentire di nuovo il calore del suo corpo addosso al
proprio.
Strinse gli occhi imprecando
contro quel momento, come se avesse appena scoperto che un tumore mortale gli
stava crescendo dentro. Quella sensazione gli era del tutto estranea ed il suo
organismo avrebbe attivato ogni singola cellula al fine di rigettarla.
Era sbagliato. Inaccettabile.
Doveva fare in modo che sparisse, il prima possibile. Doveva uscire di lì.
Mosse i primi passi veloci,
ma la porta della stanza gli si aprì contro prima che arrivasse alla soglia.
Nathaniel sporse la testa
col suo caratteristico sorriso stampato in volto. Il pullover blue navy ne
sottolineava il contrasto tra pelle chiara e capelli scuri, abbinandosi
perfettamente alla finitura cromata della mazza da baseball che stringeva nella
mano destra.
Si guardò intorno
“Ammetto di essere deluso.
Speravo di interrompere una scena ben più interessante…”
Lanciò un’occhiata a Cara
“…Tipo lei nuda e tu…”
Guardò suo fratello per un
secondo. Arricciò il naso ed emise un chiaro segno di disgusto
“No. Tutto sommato meglio
così.”
Joseph roteò gli occhi al
soffitto
“Cosa vuoi Nate?”
Lui giocherellò con la
mazza, passandola da una mano all’altra
“Come avrai intuito, ho
interrotto il mio allenamento settimanale per venirti a prendere.”
“Perché?”
“Indovina chi è arrivato in
città?”
Joseph divenne la
personificazione della serietà
“Pushkin.”
Rispose. Più un’affermazione
che una domanda. Nathaniel prese a fissare Cara, lasciando che la sua mente
vagasse mentre la sua lingua esponeva la questione
“La notizia della tua sfortunata
dipartita si è sparsa in fretta e pare che il vecchio muoia dalla voglia di
offrire le sue personali condoglianze al nostro affranto papi.”
“Non verrebbe mai qui. Non
per questo.”
Il più giovane riportò gli
occhi su Joseph
“Lo so.”
Mosse qualche passo nella
stanza prima di riprendere
“Date le sfortunate
circostanze, potrebbe sembrare che la scomparsa di Katrina e la tua morte
rendano pari le nostre famiglie… Personalmente però, credo che un trattato di
pace sia l’ultimo punto al suo ordine del giorno, direttamente sotto “massacrarci
tutti” e “far tornare di moda il colbacco”.”
Joseph sospirò, palesemente
esasperato.
“Quindi?”
“Se ne occuperà il caro papi.
Noi ce ne andiamo. Veloci come la luce.”
Joseph annuì. Benché una
nuova ragione per innervosirsi fosse l’ultima delle sue necessità, sparire era
esattamente ciò di cui aveva bisogno.
Guardò Cara, rimasta in
silenzio per tutto il tempo. Sì, doveva sparire. E così anche lei. Fuori dalla
vista, fuori dai pensieri.
“Bene.”
Aggiunse, pronto a seguire
suo fratello in capo al mondo. Nathaniel si schiarì la voce indicando l’angolo
con un gesto della testa.
“Che ne facciamo della tua
bambolina?”
Joseph non la guardò nemmeno
“Lasciamola qui.”
Cara spalancò gli occhi.
Morire di stenti in un vecchio palazzo abbandonato?
Nate aggrottò le
sopracciglia
“Davvero Jo? Ci metterà
almeno una settimana a morire.. E non è divertente se non possiamo stare qui a
guardare!”
Cara balzò in piedi d’istinto,
nel suo petto il rumore netto di un’esplosione. Per qualche assurda ragione
stava davvero aspettando che lui dicesse qualcosa. Joseph le restò di spalle,
senza pronunciare alcun suono.
Nathaniel si mosse invece
verso di lei. Sollevò un sopracciglio
“Di certo è un peccato…”
Esitò per un secondo,
mostrando un’espressione vagamente simile alla pietà. Sparì immediatamente.
“…Ma togliamoci il pensiero!”
Concluse sollevando la mazza
sopra la testa per caricare il colpo. Cara spalancò la bocca per urlare, ma
nulla ne venne fuori. Istintivamente si coprì il viso con le braccia cercando
di indietreggiare. Dio.. Avrebbe davvero fatto male.
“Aspetta.”
Eccola. Finalmente la voce
dell’assassino. Nathaniel bloccò il gesto a mezz’aria, voltando la testa con
nonchalance
“Cosa?”
Joseph sapeva che sarebbe
stato un grosso errore, ma dovette comunque girarsi e guardare. La ragazza si
lasciò cadere sul letto, visibilmente sul punto di svenire o vomitare.
Nate sfoderò il sorrisetto,
suo marchio di fabbrica
“Ma non mi dire! ...E’
davvero così brava a letto?”
Joseph scosse la testa,
cercando di spegnere ogni alito di umanità. Cosa diavolo le aveva fatto quella
donna?
“Non puoi farlo qui…”
Si giustificò
“…L’ultima volta Rosalinda ha
impiegato tre giorni per togliere il sangue dalla moquette.. E credimi Nate, l’ultima
cosa che potrei sopportare adesso è il suo fastidiosissimo accento spagnolo
nelle orecchie.”
Nathaniel corrugò la fronte
pensando alla chiara immagine della loro corpulenta domestica ultrasessantenne.
Odiava sentirla bofonchiare in una lingua sconosciuta.
“Sono d’accordo.”
Concluse tirando giù l’arma.
“Dove allora?”
Joseph impedì a sé stesso di
incrociare gli occhi di Cara, fosse stato anche solo per una frazione di
secondo.
“La portiamo all’appartamento.
Devo comunque fermarmi a prendere un paio di cose.”
Nate ridacchiò afferrando la
ragazza per il polso. Doveva essere davvero un bocconcino saporito se suo
fratello si stava rammollendo come un adolescente in calore. Magari avrebbe
avuto il tempo di “dare un morso alla mela” anche lui prima di fracassarle il
cranio.
Joseph attraversò la porta
per primo. Nella sua testa il flashback di una scena appena vissuta
I suoi occhi blu si erano
sollevati lentamente da terra
“Mi ucciderai adesso?”
Le aveva chiesto in un
bisbiglio.
“Credi
davvero che io sia un tale mostro?”
Sì, ragazzina. E’ questo
quello che sono. Un mostro.
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Capitolo 7 *** Capitolo VII ***
cap7
Ciaoooo!
Questo capitolo era in sospeso da un po’, ma sto avendo uno dei mesi più
incasinati della mia vita! Oggi ho così deciso di mollare tutto il resto,
starmene a casa in pigiama e finirlo una volta per tutte.
Vi
ringrazio come sempre! Siete la mia motivazione e la mia costanza!
----------
Avevano raggiunto il centro
della città in macchina. Adesso era chiaro anche a Cara che si trovavano a New
Orleans, era riuscita facilmente a riconoscerla, benché fosse premuta
all’angolo del sedile posteriore della berlina scura, il più lontano possibile dal
sorrisetto psicotico di Nathaniel.
Scesi in una via qualsiasi,
Joseph aveva abbandonato l’auto per primo, sicuro che suo fratello avrebbe
provveduto alla ragazza. L’idea che le tenesse le mani addosso, quasi sbavando
all’idea di farle del male, era piuttosto fastidiosa, pertanto aveva deciso di
restare almeno quattro o cinque passi avanti a loro. Non guardare gli avrebbe
consentito di rimanere lucido.
Dopo una breve camminata per
la strada deserta si trovarono faccia a faccia con un anonimo palazzo di mattoni
rossicci. Al primo piano l’insegna spenta indicava la presenza di uno jazz bar,
lo Sweet Lorraine. Appeso alla
vetrina dondolava un cartello rosso con la grande scritta CLOSED in bianco.
Joseph spinse comunque sulla
porta e questa gli si aprì davanti senza resistenze. Entrò tranquillo e
spigliato come fosse a casa sua. Bé, tecnicamente quel posto era davvero casa
sua. Nathaniel lo seguì in silenzio strattonando Cara e tenendole la mano
libera premuta sulla bocca. Non si sa mai che avesse la stupida idea di urlare
e farsi uccidere in mezzo alla strada.
Non appena la porta si
richiuse con un breve ticchettio metallico, una voce di uomo li accolse da
lontano
“Siamo chiusi!”
Joseph sembrò non farci
nemmeno caso, raggiunse il retro del lungo bancone in legno e si versò
un’abbondante dose di bourbon.
Dal retro del locale venne
fuori questo tizio, lo stesso che aveva parlato poco prima. Era un ragazzo
piuttosto alto, dal fisico scolpito e dalla pelle ambrata, probabilmente frutto
di una benedetta unione genetica tra bianco e nero.
“Hey, ho detto che siamo…”
Il suo sguardo torvo si
sciolse in un sorriso
“Joseph!”
L’assassino ricambiò l’espressione,
abbandonando il bicchiere per raggiungere il ragazzo. Scambiarono una specie di
stretta segreta da confraternita, concludendo con un amichevole reciproca pacca
sulla spalla.
“Si vociferava che avessi
tirato le cuoia amico!”
“Così si dice.”
Il ragazzo sbottonò
velocemente il bottone più alto della sua camicia bianca e si abbassò per tirar
fuori una bottiglia dalla dispensa.
“L’occasione merita qualcosa
di speciale.”
Allineando sul bancone tre
piccoli bicchieri di vetro da shot, rivolse finalmente l’attenzione alle altre
due presenze nel locale. Sollevò la bottiglia a mo’ di saluto, accompagnando il
gesto con un cenno della testa
“Nathaniel…”
Riempì i bicchierini e posò
i suoi grandi occhi scuri su Cara
“…Uno anche per la vostra
ospite?”
Il giovane Michaelson
avvicinò la bocca all’orecchio sinistro della ragazza
“Che ne dici tesoro, vuoi
farti un goccetto prima del tuo ultimo desiderio?”
Cara non poteva rispondere
perché il palmo di lui era ancora saldamente spalmato sulla sua faccia. Si
limitò a guardarlo, stavolta più con sdegno che non paura.
Nathaniel ridacchiò prima di
spingerla con forza all’angolo della stanza accanto al bancone. Le puntò
l’indice dritto in viso
“Se provi a muoverti o a
strillare ti farò soffrire il doppio.”
Lei abbassò gli occhi senza
rispondere, massaggiando la spalla che aveva sbattuto contro il muro a
mattoncini. Joseph le lanciò un’occhiata veloce. Doveva restare calmo. Freddo e
razionale.
Mandarono giù un altro paio
di shottini lodando, di tanto in tanto, l’amabilità del liquore invecchiato ben
trentacinque anni. Il barista spostò qualche bottiglia dalla mensola più alta
ed aprì una specie di cassettino nel muro, fermamente serrato. Ne svelò il
contenuto porgendo a Joseph due chiavi attaccate ad un cerchietto di metallo.
“Eccoti le chiavi
dell’appartamento. Lo troverai esattamente come l’hai lasciato.”
Joseph le strinse nella mano
con un mezzo sorriso
“Grazie Xavier.”
Cara era rimasta nell’angolo
ad osservare la scena in silenzio, lasciandosi distrarre per qualche secondo
dall’atmosfera del posto. I muri in pietra naturale circondavano la piccola
sala in parquet lucido, il soffitto aveva la volta a botte ed il grande
lampadario di cristalli al centro, tocco elegante benché azzardato, illuminava
i piccoli tavoli di legno. All’altro capo della stanza c’era poi il palco, con
sopra due sgabelli con l’imbottitura rossa e qualche bottiglia vuota abbandonata.
Non poté non immaginare un’improvvisata jam session, il suono sinuoso dei
sassofoni e l’intensa puzza di sigari e fumo.
“Muoviti bambolina.”
Nathaniel l’afferrò per il
braccio, riportandola alla realtà con un brivido di freddo. Ancora una volta
Joseph guidò la marcia tenendosi avanti al gruppo, attraversando il retro del
locale fino ad aprire la stretta porta in fondo che dava su una rampa di scale.
Salirono almeno trenta gradini nella polvere prima di arrivare al grosso
portone in cima. L’assassino sbloccò le due serrature con le chiavi che gli
aveva dato Xavier ed entrò, aspettandoli al di là della soglia.
L’ambiente all’interno era
diverso da ciò che Cara si sarebbe aspettata, di certo completamente in
antitesi all’apparenza trasandata del palazzo e all’atmosfera jazz del bar al
piano di sotto. L’entrata apriva infatti su un salotto con i divani bianchi
dallo stile moderno, il tutto ovattato dalla semioscurità.
“Casa dolce casa, eh?”
Esordì Nathaniel spingendola
dentro ed accomodandosi su uno dei cuscini. Joseph richiuse a chiave la porta.
Quello era il suo appartamento. Solo suo. L’unico posto in cui potesse starsene
beato in solitudine. Il fatto che si trovasse sopra il club lo rendeva
abbastanza anonimo, potendo sempre contare sul controllo e la discrezione di
Xavier. In cambio, i Michaelson garantivano ordine e protezione per il suo
locale.
“Non metterti troppo comodo,
siamo solo di passaggio.”
L’altro sospirò incrociando
i piedi sul tavolino
“Esatto. Prendi le armi,
uccidi la ragazza, fuggi più veloce della luce.”
L’assassino sparì dietro una
delle porte, lasciando Cara in piedi al centro della stanza, vittima delle
fantasie sadiche di Nate. Lei se ne stava lì, senza muoversi, non aveva più
detto una parola da quando avevano lasciato il vecchio hotel.
“Che succede bambolina? Non
vuoi nemmeno provare a pregarmi un po’?”
Cara si strinse nelle
braccia
“Servirebbe a qualcosa?”
Lui sfoderò un ghigno
compiaciuto. Se non fosse stato per la crudeltà che emanava a fiotti da ogni
poro, lo si sarebbe davvero potuto definire un gran bel ragazzo.
“Intelligente. Ottima
qualità. Sopravvalutata nelle donne comunque.”
Ecco, se non fosse stato per
la crudeltà e per l’ostentato presuntuoso maschilismo congenito. Cara non
trattenne un chiaro suono di disgusto. Nathaniel allora aggrottò le
sopracciglia e lasciò la sua comoda posizione per venirle vicino. Strinse gli
occhi come se la stesse scrutando a fondo
“Dimmi. Com’è che riservi i
modi da gattina in calore solo a mio fratello?”
Cara incrociò i suoi occhi
scuri e deglutì, facendosi indietro di un passo. Nello stesso momento Joseph
riapparve con una specie di valigia in mano, interrompendo sul nascere
l’indagine dell’altro Michaelson.
L’assassino aprì la
valigetta e guardò con ammirazione i due pugnali che vi riposavano dentro,
avvolti nel velluto blu. Uno era più lungo, dalla lama affusolata ed appuntita,
l’altro più piccolo, con la lama tonda e l’impugnatura in pelle nera.
“Qualcosa di più pratico
magari?”
Nathaniel gli era già
vicino. Joseph rimase a fissare le sue due armi preferite, già compagne di tante
missioni e testimoni di altrettante morti. Suo fratello non avrebbe mai capito.
“Tu puoi prendere una delle
pistole.”
L’altro annuì soddisfatto e
si mosse verso il mobile alla sua destra, aprendo un cassetto e scoprendo una
ricca collezione di semiautomatiche. Le scorse tutte passando sul metallo con
la punta delle dita ed infine optò per la Desert Eagle. Non era una novità.
Quel pistolone da quasi due chili era senza dubbio il suo preferito,
soprattutto dopo aver visto Bill sparare a Beatrix con la stessa identica arma.
Ah, Tarantino, un vero genio.
Calibrò il peso della
pistola nella mano e, dopo aver fatto scattare la sicura, la puntò dritta verso
Cara. Lei divenne una statua di marmo.
“Ora puoi andare Nate.”
Ancora una volta la voce
provvidenziale di Joseph. L’altro ruotò la testa verso il fratello
“Prego?”
Joseph se ne stava di spalle
alla scena, passando delicatamente la pelle di daino sui suoi pugnali. Non
aveva bisogno di guardare per sapere cosa esattamente si stava svolgendo dietro
di lui.
“L’auto ha bisogno del
pieno. Vuoi pensarci tu?”
Aggiunse con tono
distaccato. Nathaniel strinse le labbra in una linea sottile, spostando
velocemente il tono del suo umore da euforico a irritato.
“Ma fai sul serio?!”
Finalmente Joseph interruppe
la sia mansione e si voltò, serio ed impassibile. Nate abbassò il braccio ed
alzò il tono della voce
“Sei davvero rimbecillito
fratello? Guardala…”
Sollevò di nuovo la pistola
per indicare Cara
“…E’ solo una troietta
qualsiasi!”
Joseph sbatté le palpebre
lentamente, avanzando a lunghi passi verso Nathaniel
“Lasciaci. Fratello.”
Scandì una volta arrivato a
pochi centimetri dal suo consanguineo. Nate, in risposta, gli lanciò una chiara
occhiata di sfida. Adesso, ufficialmente, moriva dalla voglia di uccidere la
ragazza. La guardò con la coda dell’occhio per un paio di secondi
“Non mi fido di lei.”
Joseph espirò rumorosamente,
tornando sui suoi passi per afferrare uno dei pugnali, quello dalla lama lunga
ed affusolata.
“Ci penso io. Tu torna a
prendermi tra quindici minuti.”
Nathaniel lasciò cadere gli
occhi sulla lama, ammirando la leggiadria con cui ruotava tra le dita del
fratello, come fosse un pennello nella mano di un pittore pronto a creare un
nuovo capolavoro. Protrasse le labbra cercando di trattenere il primo istinto
di rabbia, resistendo alla tentazione di spararle un colpo in fronte e farla
finita, fosse anche solo per far dispetto a Joseph.
“Bene…”
Concluse, sollevando il golf
blu per piantare la pistola dietro l’orlo dei pantaloni. Di nuovo guardò Cara
“…Ma quando torno voglio
vedere il suo sangue. Molto sangue.”
Precisò e prese la porta.
Joseph scosse il capo in
silenzio, perso nei suoi pensieri per qualche secondo. Sollevò piano il
coltello e sospirò, rivolgendo finalmente gli occhi a Cara. Lei, vicina al
muro, resettò immediatamente l’impulso di ringraziarlo. Le sue pupille si
persero, accecate dal riflesso della luce sulla lama.
L’assassino sembrò guardarsi
brevemente intorno, poi mosse il primo passo verso di lei. Cara si riempì i
polmoni, sentendo che dietro di lei non vi era altro che la parete. Incontrò
gli occhi di lui
“Avrei preferito la
pistola.”
Sarcasmo. Inappropriato,
agitato sarcasmo. Le parole le uscirono di getto, spaventata e allo stesso
irritata all’idea di dover essere necessariamente fatta a pezzi.
Lui sfoderò un sorriso a
labbra strette, altrettanto fuori luogo.
Cara poggiò i palmi alla
parete e mosse di fretta gli occhi, cercando di individuare qualsiasi porta,
uscita o arma disponibile nel suo campo visivo. Si gettò velocemente verso
destra, ma lui non ne sembrò sorpreso. Joseph la seguì con lo sguardo e si
avvicinò ancora un po’, trovando immensamente divertenti i suoi tentativi di
fuga.
Cara si morse le labbra per
riuscire a trattenersi dall’immensa voglia di chiedere cosa cavolo avesse da ridere.
Di nuovo si mosse di scatto, infilandosi dietro la prima porta disponibile. La
sbatté forte cercando immediatamente la chiave da girare, ma non la trovò.
Sollevando gli occhi al cielo decise di spalmarsi contro la porta e utilizzare
la sua misera mole per tenerlo fuori.
“Perché vuoi rendere le cose
più difficili?”
Lo sentì chiedere dall’altra
parte, la sua voce lontana, come se non avesse ancora lasciato il soggiorno.
Cara spinse la schiena contro il legno e si guardò attorno. Che stanza era
quella? Non troppo grande, una sola piccola finestra chiusa, lunghe pareti
completamente occupate da librerie, file e file di volumi perfettamente
ordinati, due poltrone ed un tavolino da fumo per terminare l’arredamento.
L’assassino amava leggere, a
quanto pare.
Cara sospirò di fronte
all’inevitabile realtà, non c’erano mobili che potesse spostare per bloccare
l’entrata. Lentamente si scostò dalla porta e raggiunse il centro della stanza.
In altre circostanze avrebbe adorato poter passare il dito su quella lunga
serie di copertine, apprezzando l’odore di carta e cultura. Non era mai stata
una grande studentessa, tuttavia c’erano storie che aveva letto e mai
dimenticato. Tragedie per lo più.
La maniglia si abbassò piano
e lei ruotò adagio verso la soglia. Joseph le comparve dinanzi senza fretta,
tenendo tra le mani il pugnale e qualcos’altro, una specie di groviglio di corda
e… Cara socchiuse le palpebre per mettere meglio a fuoco, corda e nastro
adesivo, spesso e scuro.
Bene. Ha in mente di legarmi
prima.
Lui lasciò cadere a terra il
rotolo di nastro e prese a far scorrere la corda tra le dita.
“Non ho mai detto che il
coltello fosse per te.”
Precisò, usando la lama per
tagliare la giusta misura di fune. Cara sollevò gli occhi nei suoi, ancora una
volta incerta su cosa stesse per succederle. Istintivamente indietreggiò,
finendo per inciampare in una delle poltrone. Maldestramente riprese
l’equilibrio e mosse lo sguardo per capire quale fosse le sua posizione.
“Mettiti pure comoda.”
Aggiunse lui facendosi più
vicino. La sua voce ed il suo viso non lasciavano trasparire umana emozione.
Cara rimase in piedi.
“Siediti.”
Insistette Joseph.
Chiaramente non era un invito di cortesia.
Lei mandò giù il magone che
le impegnava la gola. Le lunghe ciglia le tremavano appena, ma rimase con gli
occhi incollati ai suoi per tutto il tempo, cercando la poltrona dietro di sé.
Sentendo la pelle fredda della seduta dietro i polpacci, cercò i braccioli con
la punta delle dita e lentamente, molto lentamente, si accomodò.
Joseph sembrò annuire. A
piccoli passi raggiunse la seduta e poggiò il pugnale sul tavolo, prendendosi
una breve pausa per ordinare i pensieri.
Cara non poté non fissare la
lama abbandonata sul legno.
“Non.. Non vuoi uccidermi?”
Domandò. Lui strinse più
forte la corda che aveva in mano, la sua espressione si fece ancor più scura
“Voglio.”
Rispose tornando a guardare
la ragazza
“Voglio davvero ucciderti. Probabilmente
non ho mai desiderato tanto uccidere qualcuno.”
Cara strinse la presa
attorno ai braccioli, attraversata dal freddo della sua voce composta. Lui le
si pose dritto davanti, incombente come un vero lupo di fronte alla preda
“Ma c’è qualcosa…”
Joseph abbassò lo sguardo su
di lei
“…Qualche strana,
incomprensibile ragione che mi impedisce di farlo.”
Era semi-perso nei suoi
pensieri, cercando di definire le fastidiose sensazioni che gli ribollivano
dentro. Non riusciva a comprendere e, se già ciò non fosse abbastanza
irritante, le sue presunte emozioni gli stavano impedendo di prendere la decisione
più saggia. Saggia, necessaria ed apparentemente, anche più semplice.
-------
Nathaniel si spinse in
strada sbuffando, ormai il suo umore e la sua giornata erano ufficialmente
rovinati. Stupido Joseph. Un idiota rincoglionito succube dei suoi ormoni
impazziti. Ok, a scanso di equivoci anche lui era solito apprezzare le belle
donne, ma questo era decisamente troppo. Per i Michaelson le donne non sono
altro che un corpo caldo da riempire e rivoltare, questa è una regola. Una
regola. Non bastava Elia a sbavare dietro quella stronza di una russa? Adesso
doveva cominciare anche lui? E per chi poi? Per una bionda qualunque piovuta
dal cielo?
Scosse la testa. Il nuovo
passatempo di suo fratello gli dava decisamente sui nervi. La ragazza aveva il
viso d’angelo e di certo s’impegnava al massimo per sembrare una fragile
creatura indifesa, ma l’idea che sotto sotto nascondesse qualcosa continuava a
serpeggiare nella mente di Nate. Il modo in cui lei aveva risposto al suo
sguardo quando erano da soli. Lo sdegno che non aveva minimamente nascosto
mentre Joseph non guardava. Il velo d’arroganza nei suoi grandi occhioni blu...
Mmmh… Doveva essere tolta di mezzo, il prima possibile.
Uno scricchiolio improvviso
lo rimise sull’attenti. Nathaniel si irrigidì in mezzo alla strada, guardando
rapidamente a destra e sinistra. Nulla. Assolutamente nulla. Raggiunse
inconsapevolmente il calcio della pistola con la mano, tutti i suoi sensi
allertati dalla netta sensazione di essere osservato. Scrutò a fondo i
dintorni, ma non colse segno percettibile di presenza umana.
Quel silenzio pastoso non
prometteva nulla di buono. Meglio sparire in fretta.
-------
“Voglio davvero ucciderti. Probabilmente non
ho mai desiderato tanto uccidere qualcuno… Ma c’è qualcosa… Qualche strana,
incomprensibile ragione che mi impedisce di farlo.”
Cara sentì netta la tensione
che la risaliva, dalla punta dei piedi fino ai capelli. Lui le era vicino,
rischiosamente vicino. Il doppio pericolo di quella situazione imbottiva
l’ormai minimo spazio tra loro. All’assassino sarebbe bastato allungare le mani
per immobilizzarla o, peggio, strangolarla con la sua corda. A Cara sarebbe
bastato allungare le mani per toccarlo ancora una volta, prospettiva per lei
ancor più terrificante. Il ricordo del suo peso addosso era ancora ben chiaro,
spalmato sulla sua pelle come una specie di elisir stupefacente. Era attratta
dal suo assassino, attratta dal nemico. Peccato mortale.
Decise di spezzare l’impasse
“Quale…”
Scivolò appena sulla
poltrona
“…Quale ragione?”
Domandò sottovoce.
Joseph inspirò
profondamente, curvando piano la schiena fintanto che i loro occhi furono alla
stessa altezza. Poggiò i palmi sui braccioli, ad un millimetro dalle sue mani.
“I tuoi occhi.”
Rispose, penetrando adagio
nelle sue pupille dilatate dall’agitazione e dall’onda d’emozione improvvisa.
Cara avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non le riuscì.
“Non solo il colore…”
Riprese lui, scrutandola con
impegno, affascinato dalle contrazioni involontarie delle sue iridi.
“…Hanno qualcosa… E’ come se
stessero per rompersi.”
Lei sussultò appena
“Rompersi?”
Sussurrò. Di certo aveva
scelto un termine piuttosto insolito per descrivere gli occhi di qualcuno.
Joseph inclinò appena la
testa
“Come se avessi qualcosa
dentro che preme per uscire. Come se fossi costantemente sul punto di
esplodere.”
Cara sbatté più volte le
palpebre, cercando di cancellare qualsiasi cosa lui stesse leggendo sulle sue
cornee. Tanta minuziosa attenzione la rendeva nervosa, ma allo stesso tempo
accarezzava la parte più presuntuosa e seduttiva della sua psiche.
“Che cosa vedi?”
Joseph sollevò appena
l’angolo destro delle sue rosee labbra carnose, genuinamente intrigato dalla
sua sfida
“Riconosco l’infelicità
quando me la trovo davanti, ma non è solo questo…”
Si spinse ancor più vicino,
lasciando nulla più che una manciata di centimetri tra i loro nasi
“…Dimmi Cara Phillis.. Qual
è il tuo mistero?”
Lei socchiuse le labbra, il
suo calore e la scia del suo respiro lento le arrivavano addosso
“Se te lo dico poi vorrai
uccidermi davvero.”
Joseph sollevò il sopracciglio.
La ragazzina dell’aereo stava forse flirtando con lui? Il rosso dipinto sulle
sue guance lo accese come una miccia ancora una volta.
“Qual è il tuo piano
allora…”
Si leccò le labbra arrivando
a pochi millimetri da lei
“…Preferisci restare mia prigioniera
per tutta la vita?”
Cara non disse nulla, ma strinse
i braccioli con tutta la forza, respingendo l’urgenza di baciare quella bocca.
Se fosse stato l’assassino a cedere per primo bene, avrebbe potuto incolpare
lui e le circostanze ancora una volta, ma lei no, lei non poteva arrendersi.
Lasciando in vita quel bacio
sospeso Joseph spostò le mani sulle sue e si lasciò cadere piano sulle
ginocchia. Il suo viso adesso era più lontano, ma le sue dita erano pronte a
riprendere il controllo della situazione. Lasciò girare la corda attorno al
polso sinistro di Cara e strinse, spegnendo sul nascere il suo tentativo di
ribellione. Lentamente raggiunse anche l’altro polso e lo legò assieme al
primo, così che non potesse più muoversi.
Cara strattonò la corda cercando
di produrre una qualche parola di senso compiuto. Le sue fauci erano
completamente asciutte e nulla più ne venne fuori che una specie di infantile
lallazione. Conosceva fin troppo bene quello sguardo negli occhi
dell’assassino.
Prendendo per tacito consenso
il suo silenzio, Joseph decise di trarre il massimo piacere dalla sua posizione
di carceriere. Poggiò le mani sulle ginocchia di Cara e le lasciò scivolare
giù, fino alle caviglie. Risalì poi lento e, con un gesto secco, la costrinse
ad aprire le gambe, trovando posto in quel nuovo spazio. Le sue labbra si
posarono subito sulla sua coscia destra, all’altezza della piega col ginocchio,
lasciando il primo di una lunga serie di umidi baci.
Cara chiuse gli occhi
sentendolo risalire verso il centro, il suo centro già in fiamme. Avrebbe
dovuto scacciarlo, stringere e scalciare, ma l’eccitazione di quel momento
stava sconvolgendo ogni pensiero razionale. Si lasciò sfuggire il suono a metà
tra sospiro e gemito… Ancora una volta, meglio questo che farsi uccidere,
giusto?
Joseph indugiò sulla sua
pelle candida per sentirla tremare ancora un po’, mordendola appena per rubarle
un altro gemito. L’avrebbe davvero volentieri tenuta lì, così, bagnata ed inerme
per sempre.
Una specie di tonfo sordo
proveniente dal piano di sotto interruppe la magia. L’assassino si ritrasse
provando a riconoscere le vibrazioni nelle sue orecchie. Si tirò su di colpo
cercando nell’orologio appeso alla parte un punto di riferimento temporale.
Troppo tempo era passato da che Nathaniel aveva lasciato l’appartamento. Troppo
tempo.
Aggrottò le sopracciglia e
buttò un’occhiata a Cara.
“Tu resta qui.”
Raccomandò tornando con
fatica alla sua espressione e freddezza di sempre. Uscì dalla stanza e si
sbatté la porta dietro. Lo scatto della serratura costrinse Cara a corrugare la
fronte e balzare in piedi. Afferrò la maniglia con qualche difficoltà, ma trovò
la porta irrimediabilmente chiusa. Ma dove cavolo era la chiave quando serviva
a lei?
Ancora una volta si ritrovò
con la schiena contro l’infisso e sospirò. Stava per farlo, di nuovo. Sesso con
l’assassino. Quella storia doveva finire, il prima possibile. Doveva trovare il
modo di venirne fuori.
Sollevando lo sguardo trovò
risposta alle sue preghiere. Nella fretta Joseph aveva dimenticato il suo
pugnale sul tavolino. Sospirando, per una volta di sollievo, Cara si precipitò
verso il mobile, più che pronta ad utilizzare la lama per liberarsi,
innanzitutto della corda e poi, eventualmente, anche del suo rapitore.
--------
Xavier, intento ad impilare
casse di liquori, sentì ancora una volta il ticchettio della porta del locale e
ripeté la sua battuta d’esordio
“Siamo chiusi!”
Ottenendo nulla più che
silenzio in risposta, lasciò la dispensa e si affacciò nella sala. I due
corpulenti sconosciuti appena entrati se ne stavano in piedi di fronte al
bancone, con i piedi solidamente piantati a terra.
Il barista tese i muscoli e
si sforzò di sfoderare un’espressione cortese
“Apriamo tra un paio d’ore.”
Uno dei due, capelli biondi
e lineamenti spigolosi, allentò la cinta dell’impermeabile
“Non siamo qui per bere…”
Esordì col suo accento
spiccatamente russo
“…Dove è il lupo?”
Xavier si fece serio
“Siete male informati
ragazzi. Il lupo è morto.”
L’altro intruso, grosso e
moro, se ne uscì in una risata glaciale, mostrando senza preamboli la sua
pistola. Il tizio dai capelli biondi insistette
“Ti consiglio di parlare.
Subito.”
Xavier indietreggiò,
scattando verso la dispensa per prendere le sue armi. Gli altri gli furono
subito dietro e la breve colluttazione si concluse con qualche cassa rovesciata
a terra ed il barista in ginocchio in un angolo.
“Parla.”
Ordinò lo sconosciuto
sovietico, afferrando Xavier per la nuca così che la sua fronte fosse dritta al
buco della pistola. Il ragazzo mandò giù il sapore di sangue e strinse i pugni.
Il rapporto che lo legava a Joseph era più che un semplice contratto di
collaborazione, era un’amicizia, una sincera amicizia che lo spingeva alla più
solida lealtà. Non avrebbe barattato la sua vita con quella del lupo, anche
perché, a giudicare dalle facce che aveva di fronte, c’era ben poco da barattare.
“Dove è??”
Gridò il russo dai capelli
chiari, stringendo la presa ancora più forte. Xavier lo guardò dritto nelle
pupille
“Va’ all’inferno bastardo.”
L’altro non si scompose di
un millimetro anzi, accennò un sorriso compiaciuto. Con un gesto della mano
invitò il suo complice a venire avanti e quest’ultimo, presa sicura e faccia di
cera, piantò la pistola dritto in mezzo agli occhi del giovane barista.
--------
Joseph guardò fuori dalla
finestra del soggiorno. Nulla sembrava fuori posto eppure era certo che
qualcosa non andasse. Nathaniel doveva già essere lì e tutto doveva esser
pronto per sparire. Con Pushkin non c’era da scherzare, ogni momento era
fondamentale.
Il suono netto dello sparo
lo colpì alle orecchie come un cazzotto. Tutti i suoi recettori risposero alla
stimolo simultaneamente e l’istinto del pericolo lo drizzò come fil di ferro.
Corse ad afferrare il coltello nella valigetta e si piazzò davanti alla porta
dell’appartamento. Doveva essere rapido e silenzioso. Voltare a sinistra il più
in fretta possibile, raggiungere la scala d’emergenza e correre fuori.
Contrasse la mandibola e chiuse gli occhi per un momento, accarezzato dall’eco
dello sparo. Xavier… Nathaniel… Chi c’era lì sotto? Per chi era quella
pallottola?
Aprì la porta senza produrre
suoni e si riempì i polmoni, pronto a trattenere i fiato e fuggire.
Non appena il pianerottolo
si aprì davanti ai suoi occhi, anche le due losche figure gli riempirono la
vista, ancora forti dell’adrenalina post-omicidio a sangue freddo.
“Dobryj vecher Lupo.”
Il biondo si prese la briga
di salutare nella sua lingua madre, sventolandogli davanti una pistola. Joseph
raccolse il saluto e sentì la carica salire, come fosse sul punto di mutare.
L’assassino letale si stava risvegliando. Contraendo tutti i muscoli, privo di
vero timore, Joseph si scagliò contro il primo russo, brandendo il coltello
verso la giugulare. L’altro non si sforzò troppo, schivò appena il colpo e si
lasciò sbattere al muro dalla forza del lupo, piantandosi tra lui e la parete con
un botto secco.
Joseph lesse immediatamente
le sue intenzioni, ma non ebbe il tempo materiale di reagire al secondo agguato
da dietro. Il sovietico dai capelli scuri gli piantò un grosso ago nel collo e
spinse nel suo sistema il liquido giallastro.
L’assassino si sentì invaso
da un insopportabile calore improvviso e lasciò presto cadere il pugnale,
incapace di reagire mentre il più grosso dei due lo trascinava dentro. Sembrava
che le sue membra non rispondessero più ai comandi.
Una volta sbattuto sul divano
come un sacco inerme, il biondo gli si parò davanti
“Miorilassante.”
Joseph imprecò nella sua
testa contro tutti i santi che conosceva, il suo corpo era allenato ai farmaci,
ma non a simili dosi. Sarebbe stato fuori gioco per un po’, giusto il tempo di
smaltire il grosso della tossina.. e farsi massacrare dagli uomini di Pushkin.
“Non avete ancora imparato
di non scherzare con mio signore.”
Esordì il tizio dai
lineamenti spigolosi
“Voi avete preso Katrina…”
Continuò spostandosi sulla
destra per lasciar spazio al compagno
“…Noi ci prenderemo te. E
tuoi fratelli.”
Il sovietico moro venne
avanti caricando il colpo e scaricò un potente gancio destro sulla faccia di
Joseph. Lui raccolse abbastanza forze per non cadere sul fianco, sputando
sangue e saliva contro il suo aggressore. L’altro sorrise, aveva appena
cominciato.
-------
Cara smise di roteare i
polsi liberi non appena si accorse del trambusto fuori dalla sua stanza.
Silenziosamente poggiò l’orecchio alla porta ed ascoltò la voce degli intrusi.
Criminali. Altri criminali.
Russi. Crudeli.
Se ne stette lì, immobile
contro il legno, presa d’improvviso dalla spirale dei ricordi. Il pericolo, la
necessità di restare nascosta, il bisogno di trattenere il respiro per salvarsi
la vita… Erano tutte sensazioni che aveva già sperimentato nella sua vita,
ancora capaci di farla sentire una bambina indifesa. Quasi riusciva ad
immaginarsi ancora dentro quel piccolo bagno immacolato.
Dai colpi era chiaro che
stavano massacrando di botte Joseph. Al suono di ogni pugno Cara chiudeva gli
occhi ed ammirava la forza e la leggerezza con cui incassava il dolore. Doveva
davvero esserci abituato.
Il suo istinto alla
compassione fu presto zittito dal fastidioso accento sovietico di uno degli
uomini presenti.
Lo chiamavano Lupo.
E stavano cercando una certa
Katrina.
Katrina.
Cara si spalmò completamente
sulla porta e cercò di capire dove quella conversazione a senso unico volesse
parare.
Lo scatto della sicura di
una pistola rese chiare le intenzioni dei russi. Volevano uccidere l’assassino.
Il suo assassino.
Cara strinse le dita attorno
all’impugnatura del coltello di Joseph e poggiò l’altra mano sulla maniglia. La
porta era chiusa, gli uomini ignoravano la sua presenza, se non avesse fatto
alcun rumore probabilmente l’avrebbe scampata. Stavolta come allora. Purtroppo
o per fortuna però, c’era una donna nuova e forte dentro la stanza, non più una
bambina spaventata.
Respirò a fondo per tre
volte, spingendo il diaframma in avanti, cercando di incamerare più ossigeno
possibile.
Era finalmente tempo di fare
i conti col passato.
--------
“Tu oggi muori Lupo.”
Sentenziò il biondo, ancora
algido ed impettito nonostante la resistenza di Joseph alle loro torture. Poco
importa che il bastardo non volesse parlare. Uno di meno sulla lista. Vladimijr
ne sarebbe di certo stato contento e lui non aveva altra missione che rendere
fiero il proprio signore.
Joseph rimase impassibile,
fissando il bestione che gli puntava la pistola dritta in fronte. I suoi
muscoli intorpiditi cominciavano a rispondere, se fosse riuscito a guadagnare
qualche altro minuto avrebbe potuto ribaltare la situazione.
Lo scatto della sicura gli
fece temere che non ci fosse più tempo.
Così finisce il Lupo, con
una pallottola in fronte per colpa di una maledetta troia sovietica. Oh Elia,
avrai il mio nome sulla coscienza per molto, molto tempo, almeno finché non
faranno a pezzi anche te.
“Aiuto!”
La voce di donna,
accompagnata da colpi disordinati contro la porta, costrinse il tizio ad
interrompere la spinta dell’indice sul grilletto. Vistosamente spaesato rivolse
lo sguardo al suo complice, ancora immobile con i timpani tesi verso la voce
femminile.
“Aprite! Aprite! Fatemi
uscire!”
Il russo biondo afferrò
Joseph per la mandibola, spingendo forte il pollice contro la guancia tumefatta
“Chi è?”
L’assassino guardò al cielo
indeciso. Doveva ringraziarla o assicurarsi che facesse una fine degna della
sua stupidità? Possibile che fosse tanto sciocca da farsi scoprire e, peggio
ancora, pensare che due animali a sangue freddo come quelli l’avrebbero
aiutata?
“Nessuno.”
Rispose tra i denti.
Il russo, insoddisfatto, si
avvicinò al richiamo della sconosciuta. Di certo non si trattava di Katrina.
Meglio aprire e liberarsi anche di questo impiccio.
Tirò fuori la sua pistola,
ruotò la chiave nella serratura e spinse la maniglia in un movimento fluido,
per nulla scalfito dall’idea di dover aggiungere un ulteriore cadavere alla sua
già lunga lista.
Aprì, nessuna tremante figura
di donna gli si parò davanti, bensì il vuoto. Corrugò appena le sopracciglia e
mosse un passo verso l’interno, senza avvertire il bisogno di puntare l’arma.
Grave errore di valutazione.
Dall’angolo Cara gli balzò
addosso come un’arpia, stringendo le unghie della mano sinistra al bavero del
suo impermeabile ed affondando la lama, stretta a destra, dritta nella gola del
russo. Un taglio netto e preciso delle vie respiratorie. Il biondo sovietico
cadde in ginocchio, pronunciando nulla più che un rantolo. Già gonfio per la
mancanza d’aria, si portò le dita a gola e viso, macchiandosi gli zigomi col
suo stesso sangue. Continuando a rantolare, con le sue ultime forze, cercò di
afferrare la ragazza sconosciuta che aveva di fronte.
Cara si limitò ad
indietreggiare di un passo, lasciando sgocciolare il coltello sul parquet. Alla
rabbiosa rassegnazione del russo rispose con un sorriso, un angelico sorriso
compiaciuto.
Joseph riuscì finalmente a
muovere tutte le dita, anche se il resto del corpo rifiutava di tirarsi su e
scoprire cosa stesse accadendo nella sua piccola biblioteca. I rumori erano
confusi e nessuno aveva ancora sparato né parlato, l’energumeno tantomeno Cara,
non che la ragazzina dell’aereo avesse qualche remota chance di sopravvivere.
Peccato averla persa così
dopo tutto. Una ragione in più per mettere Pushkin al primo posto tra le sue
prossime vittime.
Contro ogni sua possibile
supposizione, Cara venne fuori dalla stanza per prima, l’abito sporco di sangue
ed il suo pugnale stresso nella mano.
Il suo pugnale.
Joseph si maledì, credendo
ancora che il sangue fosse suo e che la ragazza stesse sfilando dritta incontro
alla morte.
“Hey!”
Cara richiamò l’attenzione
del grosso tizio dai capelli scuri nascondendo l’arma dietro la schiena. Questi
si voltò e rimase interdetto alla sua presenza, a giudicare dai lineamenti e
dal candore della pelle, la sconosciuta avrebbe quasi potuto essere una di
loro. Quasi. Il russo sollevò di nuovo la pistola e ruotò la mira verso di lei,
pronto ad eliminarla senza secondi pensieri.
Cara sorrise di nuovo,
aguzzando lo sguardo e lanciandosi contro l’avversario col pieno delle sue
forze, pronta a far saltare la pistola dalla sua presa con un calcio ben
assestato.
Joseph sgranò gli occhi
davanti alla scena. Nella sua posizione di semi-paralisi si concesse, per una
volta nella vita, di essere totalmente, incredibilmente, infinitamente
sorpreso.
Rimase a fissare con
attenzione e perplessità il film che andava consumandosi davanti a sé. Non
riusciva a capire come fosse possibile.
Cara, con tre o quattro
colpi ben assestati, mandò giù al tappeto anche il secondo uomo. Prima che potesse
provare a rialzarsi di nuovo, gli piantò un calcio nella nuca e si inginocchiò,
pronta a ficcare tutta la lama nel suo torace, sempre senza il minimo segno
d’esitazione.
Il russo smise ben presto di
contorcersi ed agonizzare, lasciando Cara immobile, in piedi accanto al suo
cadavere. Lei se ne stette lì a riprendere fiato, il torace su e giù in lenti
movimenti, mentre il dolore dei colpi presi iniziava a scemare.
Joseph si irrigidì contro il
divano, cercando immediatamente di muovere quanti più muscoli possibile.
Ennesimo tentativo inutile. Le sue gambe non avevano intenzione di camminare.
Cara si voltò verso di lui
sentendolo muovere. I capelli scompigliati nascondevano i futuri lividi sul suo
viso. Venne avanti saltando il corpo e raccolse lentamente la pistola della sua
vittima, accovacciandosi e tornando su per guardare ancora l’assassino, gli
occhi di lui appena più aperti del normale e le sopracciglia ravvicinate per l’espressione
confusa.
Joseph mosse finalmente le
braccia, ma non riuscì comunque a tirarsi su. L’incredulità del momento non gli
permetteva di affilare pensieri logici.
La ragazzina dell’aereo
aveva davvero ucciso i due scagnozzi di Pushkin!? Così, come se nulla fosse?
“Aiutami.”
Le chiese. In fin dei conti
era in debito con lui, giusto? Sia che fosse una ragazzina innocente che una
specie di Mr Hyde al femminile.
Cara sorrise con un sospiro,
la fatica stava lentamente scomparendo, rimpiazzata da una nuova scarica di
adrenalina. Lasciò roteare la pistola nella mano guardando il pavimento per
qualche secondo
“In realtà…”
Esordì
“…Non credo di poterlo
fare.”
Joseph sollevò il mento
diventando una specie di blocco di marmo, i pugni stretti a tentare ancora una
volta di rimettersi in piedi.
“Che vuoi fare allora?”
Domandò con voce bassa. Gli
occhi puntanti sull’arma in suo possesso.
Cara inspirò fino a
riempirsi lo sterno, sollevò piano la pistola all’altezza degli occhi di
Joseph, la tenne dritta di fronte a sé e buttò fuori l’aria
“Credo che ti ucciderò…
Lupo.”
Finalmente in grado di
guardarla in viso, fu come scoprire una nuova persona, come se nuovi lineamenti
si fossero mostrati sul viso della sua angelica ragazzina, come se un’anima
nuova l’avesse abitata di colpo.
Un sorriso genuino, un
sorriso compiaciuto, soddisfatto, cattivo.
Quella non era la ragazza
maldestra che aveva salvato dall’aereo, il suo non era un mero tentativo di
liberarsi e quello non era il colpo di fortuna e ribellione di un ostaggio. Il
modo in cui si era mossa, forte e precisa, colpendo quei tizi solo nei punti
giusti… Il modo in cui impugnava la pistola, braccia ferme, ginocchia
leggermente piegate, gambe divaricate… La posizione di chi sa come si spara, la
sicurezza di chi ha già sparato altre mille volte… La luce nei suoi occhi,
divenuti di colpo blu come la notte, il sorrisetto difficile da tenere a freno,
la completa mancanza di incertezze.
Il cuore gli si fermò nel
petto.
Aveva addosso lo sguardo di
un killer.
“Chi sei tu?”
--------
Et
Voilà! Per caso non si è capito nulla alla fine di questo capitolo? Non so se
sia un bene oppure un male a questo punto, comunque vi assicuro che darò un
senso a tutto!
Questo
è il punto di svolta che attendevo sin dall’inizio. Voi che ne pensate? Largo
spazio alle vostre ipotesi!
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Capitolo 8 *** Capitolo VIII ***
cap8
Vi chiedo sinceramente scusa
per il ritardo! Più il mio esame di abilitazione si avvicina, più il mio tempo
e le mie risorse mentali scarseggiano! Vi ringrazio tutti per la pazienza e l’attesa...
Risponderò ad ogni recensione appena possibile!
A/N In questo capitolo
inizio a spiegare il nuovo lato di Cara, ma ovviamente mancano ancora molti
pezzi che svelerò di volta in volta. Sono un po’ distratta ultimamente, quindi,
se qualcosa non dovesse filare, fatemelo notare! Grazie ancora!
/(/(/(/(/(/(/(
Il cuore gli si fermò nel
petto.
Aveva addosso lo sguardo di
un killer.
“Chi sei tu?”
Cara inclinò la testa da un
lato
“Conosci già il mio nome.”
Cara Phillis. Cara Phillis. Cara Phillis. Joseph
lo ripeté un milione di volte nella sua testa. Continuava a non dirgli nulla,
non aveva nemici o conoscenti che portassero quel nome, nessuno nella malavita
che si chiamasse così. Eppure era certo che la ragazza non avesse mentito.
“Sembri perplesso…”
Riprese lei con tono
sarcastico, mettendo giù l’arma per concedersi una postura più comoda.
“…per cui proverò ad
aiutarti. Cara è il nome che mio padre mi ha dato, ma gli amici mi chiamano
Barbie.”
Joseph la vide muoversi per
casa sua come se ci fosse già stata una decina di volte. Barbie. Senza dubbio
un nome d’arte azzeccato, ma anch’esso del tutto sconosciuto alle sue orecchie.
Chi diavolo era la ragazza? Che cazzo stava succedendo? L’assassino prese a
muoversi cercando in ogni modo di tornare in piedi. Chiunque fosse quella
specie di automa ricondizionato, di certo non si trattava di un’amica ed il
groviglio di domande che rapidamente gli stavano intasando il cervello
avrebbero atteso per una risposta. Controllo e difesa prima di tutto.
Cara riapparve con la corda
in mano, la stessa che Joseph aveva usato con lei. L’assassino tese i muscoli
delle braccia. Non amava particolarmente l’idea di picchiare a sangue una
donna, ma come si dice, a mali estremi estremi rimedi.
Barbie, se quello era il suo
altro nome, si avvicinò di nuovo al cadavere della sua seconda vittima
“Odio i sovietici. Sono così
pieni di sé. E per quale motivi poi? Solamente perché bevono fiumi di vodka e
riescono comunque ad eseguire un perfetto triplo axel?”
Joseph ne seguì i movimenti
senza tener conto del suo sparlare. Cara si abbassò piano e tastò le tasche del
defunto
“Ma bisogna dargliene atto…”
Riprese, tirando fuori
un’altra siringa, perfettamente identica a quella già svuotata dal russo nelle
vene del Lupo.
“…Sono sempre previdenti.”
“No.”
Intimò Joseph, sperando in
qualche modo di bloccare le sue evidenti intenzioni. Cara gli sfilò attorno,
prima sbattendo delicatamente la punta dell’indice sulla siringa e poi
lasciando uscire dall’ago metà del contenuto. Non voleva stenderlo dopotutto,
voleva solo tenerlo buono per un altro po’.
Lui prese a respirare
affannosamente, quella mancanza di controllo era la peggior tortura che avesse
mai subito. Poteva usare le mani, ma non poteva alzarsi ed i suoi muscoli erano
ancora troppo intorpiditi per poter contare sui riflessi. Fece per lasciarsi
cadere da un lato e sollevare il gomito, ma Cara non si scompose, del resto non
mirava al suo collo, bensì alle gambe. Da dietro, con un rapido gesto, gli
piantò l’ago nella coscia destra.
Joseph strinse i denti
ignorando il dolore, approfittando della vicinanza per afferrare i capelli
della ragazza ed immobilizzarla a pochi centimetri dalla sua faccia. Cara
sorrise trovandosi così vicina a lui. Era solo questione di attimi, non poteva
farle niente. Quasi subito la presa del Lupo iniziò ad allentarsi e lei
concluse la manovra storcendogli il polso con uno scatto brusco. Joseph
trattenne a stento un lamento e tornò a guardarsi di fronte.
“Bene.”
Mugugnò lei passandogli la
corda attorno a polsi e caviglie, realizzando due grossi nodi a prova di
Houdini. Soddisfatta della sua opera, tornò a guardare Joseph negli occhi,
completamente affascinata e galvanizzata dalla sua candida confusione.
“Non hai ancora capito
vero?”
Lui non si mosse. Lei
accennò un sorriso
“Ti darò un altro indizio
allora…”
Inspirò profondamente con
una strana espressione in volto, come se allo stesso tempo stesse per svelare
il quarto segreto di Fatima ed annunciare il vincitore dell’oscar per il
miglior attore protagonista.
“…Mancini…”
Si spinse avanti quasi fino
a poggiare la fronte su quella di lui
“...Merli mancini.”
Joseph spalancò gli occhi
facendo appello a qualsiasi briciolo di energia rimasta pur di muoversi.
Mancini, la Compagnia dei Merli Mancini. La peggior cosa che potesse
capitargli.
Se si dovesse fare una lista
dei nemici dei Michaelson bhé, senza dubbio l’elenco sarebbe lungo. Tuttavia,
laddove si dovesse assegnare un premio per il più subdolo e pericoloso, il
vincitore sarebbe senza dubbio Robert Mancini.
Ultimo membro di una lunga
dinastia di mafiosi italo-americani, Robert era stato espulso dalla sua stessa
famiglia per, come lo si potrebbe definire, eccesso di zelo forse? La sua
infinita sete di potere e totale irrispetto delle regole, lo avevano visto
impersonare perfettamente la cacciata di lucifero dal paradiso. Al pari del
diavolo stesso infatti, Robert aveva deciso di fondare la sua personale
organizzazione di killer professionisti, la “Compagnia dei Merli Mancini” per
l’appunto.
Joseph scosse nervosamente
la testa. Non aveva comunque senso. Anche i Michaelson, come chiunque altro
avesse un po’ di buon senso, evitavano accuratamente di pestare i piedi a
Mancini. Perché mai mandare uno dei suoi sicari per ucciderlo? E questa ragazza
poi? Chi diavolo era Cara Phillis? Joseph conosceva a memoria tutti i volti
della compagnia e la ragazzina dell’aereo di certo non ne faceva parte.
Cara si tirò su e tornò a
girovagare per la stanza, stavolta diretta verso la giacca dell’assassino
appesa all’entrata. Ne tirò fuori pacchetto ed accendino. Accese una delle
sigarette e tirò una lunga, piacevole boccata.
Il fumo le uscì di bocca in
un sinuoso intreccio grigiastro
“Aww.. Quanto mi mancava.”
Di nuovo si riempì i polmoni
di catrame e nicotina
“Mi spiace propormi così. Secondo
il piano avrei dovuto aspettare che ti fidassi di me abbastanza da presentarmi
i tuoi, ma devo ammetterlo…”
Stirò i muscoli del collo
ruotando lentamente la testa e portando i lunghi capelli sulla spalla sinistra
“…tutti quei sospiri, quelle
lagne, ‘no, ti prego Joseph fermati’.. Iniziava a diventare davvero
frustrante.”
Concluse mimando ed
enfatizzando un’espressione disperata. L’assassino digrignò i denti, la vista
era quasi annebbiata ed il suo cervello faceva fatica a seguire il nesso logico
delle sue parole. Lei sorrise
“Almeno ho raggiunto lo
scopo.”
“Quale scopo?”
Cara si avvicinò stringendo
la sigaretta accesa tra indice e medio, curvò la schiena fino alla sua altezza
e gli roteò l’indice libero davanti agli occhi
“Entrarti nella testa.”
Gli poggiò il polpastrello
freddo sulla fronte mentre lui fremeva, mosso dal barbarico istinto di uscire
dalle proprie inutili membra. Gli uscì di bocca una specie di grugnito
“No.”
“No?”
Cara si avvicinò ancora,
sfiorandogli la tempia col naso e l’orecchio con le labbra, lasciando una
seducente scia di respiro al tabacco
“Un altro paio di giorni
insieme e scommetto che avresti anche ucciso per me.”
Joseph scansò la testa il
più lontano possibile e strinse i denti. Lei si tirò su buttando la cicca sul
pavimento
“Non sentirti in imbarazzo
adesso, è esattamente così che sarebbe dovuta andare…”
La schiacciò
“…D’altra parte, ero la
stella della classe di recitazione qualche anno fa sai? Certo non pensavo che
il mio talento potesse tornare utile in così tanti modi.”
L’assassino strattonò le
corde con tutta la forza possibile
“Che cosa vuoi?!”
Sbottò. Il viso angelico di
Cara divenne duro come la pietra
“Tuo padre.”
Rispose guardandolo dritto
negli occhi
“Lui mi ha tolto qualcosa anni
fa e adesso io mi prenderò quel che ha di più prezioso…”
La sua espressione di
sciolse in un misto di fascino ed eccitazione
“…Suo figlio.”
Inaspettatamente Joseph
sbuffò l’accenno di un sorriso e sollevò il mento nella sua direzione
“Se è a lui che vuoi fare un
dispetto, hai preso il figlio sbagliato.”
Barbie sollevò un
sopracciglio, genuinamente incuriosita dalle parole di lui. Gli si avvicinò di
nuovo
“Che vuoi dire?”
L’assassino cercò di
stringere i pugni, bloccato in una sorta di scontro tra incudine e martello. Il
suo cognome era la cosa più importante che avesse, ma allo stesso tempo l’idea
di poterlo rigettare era un sollievo infinito, una specie di via di fuga sempre
aperta che, tuttavia, amava attraversare esclusivamente in solitudine. In
quella bizzarra situazione avrebbe finito per rivelarsi un’arma a suo
vantaggio.
“Non sono suo figlio…”
Rivelò, lasciando trasparire
un’ombra di orgoglio. Odiava William.
“…Non biologicamente almeno.”
Cara sollevò le ciglia. Wow,
una rivelazione degna della soap-opera più kitch. In quel momento osservò i lineamenti
del lupo ancora una volta con più attenzione, lasciando scorrere la punta delle
dita sui suoi zigomi e sulle sue labbra piene, così diversi da quelli degli
altri Michaelson.
“Mmm…”
Mugugnò mentre lui cercava
di ritrarsi, quasi le sue mani fossero acido muriatico
“…Questo spiega gli insoliti
tratti svedesi.”
Si tirò indietro di colpo,
mettendosi a camminare su e giù per la stanza e giocherellando con le dita
“Facciamo un riassunto
allora…”
Le sue labbra erano
protratte in una sorta di broncio, quasi dovesse realmente concentrarsi
“Tuo padre è un mostro… Tu sei
un bastardo… E tua madre era una puttana.”
Joseph saltò sul divano come
se gli avessero conficcato uno spillo aguzzo nella carne
“Non osare nominare mia
madre!”
Urlò, lasciandola sconvolta
per un breve secondo
“Hey, quanta foga!”
Tornò accanto a lui e riuscì
a stringergli il viso tra le mani
“Non preoccuparti. Potrai
non essere utile come speravo, ma per fortuna abbiamo già anche il fratello
numero tre.”
Sorrise di gusto mentre lui
si dimenava
“Dov’è Nathaniel??”
Cara inspirò profondamente e
mollò la presa spingendolo con poca grazia contro lo schienale del divano
“Temo che la tua domanda
debba aspettare…”
Si diede un’occhiata
passando i palmi sulle macchie di sangue già rappreso
“…Ho bisogno di una doccia.”
--------
Nate sputacchiò cercando di
riprendere respiro. Le ultime due ore della sua vita le aveva passate con un
cappuccio nero in testa, perdendo completamente il senso dello spazio.
Sforzando le retine per mettere a fuoco il prima possibile, si vide in una
stanza vuota con le pareti di mattoni, i polsi legati ed il viso dolorante per
le percosse. L’odore umidiccio di muffa e polvere era quasi insopportabile.
“Una vera topaia, non
credi?”
Quella voce profonda, dal
tono irrimediabilmente sarcastico, lo colpì come una doccia fredda. Niente
russi, tuttavia nessun sollievo, anzi.
“Il posto perfetto per un
verme come te.”
Aggiunse la voce, girando
piano in circolo fino a pararglisi di fronte. Nathaniel contorse le labbra e
tese il collo. Avrebbe davvero preferito essere col sanguinario Vladimijr
Pushkin.
Incarnato pallido, ma
perfetto, capelli scompigliati color ebano e grandi occhi verde bottiglia, il
tutto inscatolato su un fisico esile, tuttavia solido come il marmo. Ghigno da
duro e chiodo di pelle. In due sole parole Morgan Pryce, il gemello terribile.
“Dov’è la tua brutta copia?”
Esordì Nate, lasciando
scontrare la sua fastidiosa sicurezza contro quella del nemico.
“Aveva delle commissioni da
fare, ma non preoccuparti Michaelson, sono sicuro che riusciremo a divertirci
anche da soli.”
Nathaniel buttò indietro la
testa, già esasperato nel vederlo indossare il pugno di ferro. La sua faccia
perfetta, merito di madre natura, della settimanale maschera al polline
egiziano e due iniezioni di costoso filler biologico, stava per dirgli addio.
Morgan Pryce del resto, era
ben famoso per i suoi modi poco delicati e per il sarcasmo congenito, unico
tratto, assieme al taglio di capelli, che lo rendeva distinguibile da Little K,
suo fratello gemello. L’ultima volta che Nate si era trovato faccia a faccia
con i Pryce, circa cinque anni prima, il tutto era finito in una mega rissa per
via di un’auto distrutta. La preziosa Mercury Comet del ’65 con i sedili in
pelle rossa che Nate e un altro idiota avevano deciso di rubare. Pessima idea.
Joseph era intervenuto in suo aiuto come sempre, ma se non fosse stato per
l’intervento delle guardie di William, molto probabilmente i gemelli pazzi
avrebbero avuto la meglio.
“Ancora per la storia della
macchina? Dopo cinque anni? Andiamo amico, fatti una vita!”
Morgan interruppe la discesa
del suo gancio destro
“Giusto. Mi hai appena
ricordato che dovrei massacrarti anche per quello. Amico.”
E detto ciò gli sparò in
faccia le nocche tese, squarciando la pelle come fosse carta. Nate non
trattenne la sua protesta, sentendo il sangue scorrergli fino alle labbra,
tuttavia smise di preoccuparsi per il conto del chirurgo plastico ed accese il
cervello
“Anche per quello?”
Ripeté le parole del gemello
“Perché sono qui?”
Morgan sfoderò un sorriso
obliquo
“Perché sei un idiota,
incapace, senza spina dorsale. Ma a parte questo non è stata una mia
iniziativa.”
“E di chi allora?”
Il gemello premette i
polpastrelli sullo zigomo ferito di Nathaniel, godendo del suo tentativo di
mascherare il dolore pungente
“Ti dice niente il nome
Mancini?”
Nate spalancò gli occhi
facendo del suo meglio per venir fuori dalla presa di Morgan. Bastava quella
parola per capire che era finito in guai ben più grossi del previsto.
“Sei uno dei merli adesso?”
Domandò cercando di
mantenere un’apparenza più rilassata possibile. Non voleva davvero dargli la
soddisfazione di riconoscere il suo immenso vantaggio nell’essere parte della
compagnia.
Morgan sorrise ancora
“Cosa credevi? Che il mio
talento sarebbe andato sprecato ancora per molto?”
Guardando il nemico brillare
di luce propria mentre vantava la nuova posizione, Nate si dette il tempo di
respirare e valutare la situazione. Robert Mancini ed i suoi merli erano i più
temibili antagonisti che si potesse incontrare, crudeli, decisi, senza scrupolo
alcuno. Del resto, tutta l’organizzazione basava proprio su tali principi e
dalla mancanza di vincoli traeva la forza. Dopo essere stato rigettato dalla
sua stessa famiglia, Robert aveva infatti rivalutato totalmente il valore dei
legami di sangue, trovando nel loro esatto opposto una formidabile risorsa.
Mentre i Michaelson poggiavano il loro impero proprio sulla condivisione del
dna, i merli ingaggiati da Mancini non avevano nulla in comune se non le doti
criminali e la gran sete di riscatto. Tutti raccolti negli orfanotrofi, nei
riformatori o perfino in strada, i suoi ragazzi creavano un perfetto sistema di
isole indipendenti. Letali nel lavoro di squadra, erano in grado di esprimere
il loro pieno potenziale esclusivamente in solitaria, totalmente spogliati
della necessità di rispettare o difendere qualcun altro. I merli non avevano
limiti o regole, ciò li rendeva pressoché imbattibili.
“E che mi dici di Little K,
fa anche lui parte della squadra?”
“Ovvio.”
Ottimo, pensò Nathaniel, se
non altro poteva ancora contare su un punto debole.
“E non è contro le regole?”
Cercò di indagare, ma Morgan
parve presto indispettito dalle sue domande. Si rivestì della sua glaciale
perfezione e riportò l’attenzione sul suo ostaggio, massaggiando la mano in
prospettiva di un nuovo pugno
“Non ci provare Michaelson.
Sai bene che ucciderei anche lui se fosse necessario.”
Nate chiuse gli occhi per un
secondo. Morgan era un osso duro, troppo duro. Per capire le motivazioni di una
simile personalità antisociale avrebbe dovuto conoscere meglio la storia dei
gemelli, ma tutto ciò che sapeva è che i due erano venuti fuori
dall’orfanotrofio verso gli undici anni, affidati ad una famiglia da cui erano
fuggiti qualche anno più tardi. Da quel momento in poi poteva solo supporre che
l’istinto di sopravvivenza avesse loro insegnato tutto ciò che sapevano. Certo,
doveva essere stata davvero una vita di merda per ridurli così.
“Che cosa vuoi da me?”
Decise allora di mirare
dritto al punto. Morgan si attaccò ad una bottiglia di birra che Nathaniel non
aveva notato fino a quel momento. Dio se aveva sete.
“Voglio solo che tu mi
faccia un po’ di compagnia…”
Suonò angelico dopo la sua
serie di sorsi
“…Almeno finché non
arriveranno gli altri.”
Nate sentì la pelle d’oca
sulle braccia. La faccenda andava complicandosi. Chi sarebbe dovuto arrivare?
Little K? Un’intera squadra di torturatori? Mancini in persona?
“Chi?”
Domandò con la gola già
secca. Il gemello sorrise di gusto ancora una volta
“Oh, non temere Michaelson,
conosci già tutti gli invitati a questa festa.”
---------
“Sta succedendo qualcosa
padre.”
Esordì Elia dopo essere
piombato nello studio del padre, la sua impeccabile apparenza segnata da un
velo di agitazione. William girò sulla sua sedia di pelle e sorseggiò il suo
whiskey.
“Vladimjir se n’è appena
andato. Temo sia più che consapevole delle nostre menzogne.”
“Appunto…”
Elia avanzò dopo aver
sbottonato l’unico bottone della giacca
“…Joseph e Nathaniel non
rispondono alle mie chiamate. Dovrebbero essere fuori città ormai.”
William senior abbassò le
palpebre scuotendo lentamente il capo. L’incompetenza dei suoi figli minori era
come sempre fastidiosa.
“Credi abbiano avuto
problemi?”
“Temo di sì padre.”
Lui non parve scosso né preoccupato,
ancora una volta si bagnò le labbra perdendosi nei propri pensieri. Mosse la
sedia e contemplò una foto della sua famiglia appesa al muro. In perfetta
armonia di altezze e proporzioni, il capofamiglia sedeva al centro, con accanto
la sua signora, avvolta in una camicia di seta bianca, i lunghi capelli ramati
raccolti in uno chignon perfetto. Attorno a loro i quattro ragazzi, impeccabili
nei loro abiti puliti. Quell’immagine esprimeva a pieno l’ordine e la gerarchia
della famiglia.
“Le donne sono creature
semplici figlio mio…”
Elia raggiunse con gli occhi
il punto d’attenzione del padre, cercando di star dietro al suo repentino
cambio d’argomento
“…Vogliono essere
conquistate. Vogliono essere possedute, tenute a freno dai loro uomini…”
Elia fece per rispondere, ma
si fermò, finalmente in grado di capire a cosa sua padre stesse riferendosi.
Katrina.
“…Tuttavia figliolo, hanno
bisogno di illudersi di poter prendere le loro decisioni. Necessitano di essere
soddisfatte nelle loro velleità…”
Lanciò un’occhiata al suo
secondogenito
“…Dentro e fuori dalle
lenzuola.”
Elia distolse d’istinto lo
sguardo. Da ormai due anni, ogni notte, si interrogava sui propri errori e
tanto bastava, di certo non aveva bisogno che suo padre fra tutti lo accusasse
di aver mancato. Fortunatamente William parve reimmergersi nei propri ricordi
“Anche tua madre era così…”
Sospirò
“…Timida e delicata
all’apparenza, ma selvaggia come una tigre. Avrei dovuto costruirle una gabbia
molto più grande.”
Si perse nella propria
metafora, spandendo sale sulla ferita del tradimento subito. Come aveva osato?
Portare in casa sua il bastardo di un altro… Sperando per giunta che non se ne
accorgesse. Elia ne approfittò per tirarsi fuori
“Perdonami padre, ma credo
di dovermi occupare di un altro problema adesso.”
“I tuoi fratelli?”
Elia annuì.
“Cosa intendi fare?”
“Andrò al vecchio hotel e
all’appartamento di Joseph. Voglio controllare che tutto sia andato come
previsto.”
Il Michaelson più anziano
rispose con un gesto di assenso
“Occhi aperti William. Occhi
aperti.”
Elia voltò lentamente le
spalle e lasciò lo studio. Odiava sentirsi chiamare col proprio nome di
battesimo. Odiava essere una semplice copia dell’originale.
--------
Cara venne fuori dal bagno
avvolta in un morbido e profumato asciugamano azzurro, seguita da una nuvola di
vapore al sandalo indiano. Joseph drizzò muscoli e orecchie sentendola
arrivare. Durante l’ultima mezz’ora aveva sforzato le sue cellule celebrali per
ricordare quel nome, ma la sua ricerca non aveva dato frutti. Barbie doveva
essere un nuovo acquisto della compagnia e lui non aveva idea del perché
volesse tanto arrivare a suo padre.
La ragazza gli si parò
davanti esaminando attentamente uno dei flaconi che aveva scovato in bagno.
“Dovresti usare un vero
idratante. Questa roba è una schifezza per la pelle.”
Joseph sospirò esasperato.
Non ricordava minimante come quel cosmetico da donna fosse finito a casa sua e
soprattutto, non poteva fregargliene di meno. Cara strizzò la confezione e
prese a spalmarsi il fluido bianco sulle gambe con pigri movimenti circolari,
quasi stesse improvvisando uno spettacolino sexy. L’assassino sbuffò
nervosamente ancora una volta.
“Che c’è?”
Domandò lei innocentemente,
sollevando l’asciugamano per stendere la crema sulle cosce.
“Ti piace quello che vedi,
non è forse vero?”
Joseph girò gli occhi
all’altro lato della stanza, determinato a mantenere la concentrazione. Essere
stato ingannato era già abbastanza fastidioso, non c’era bisogno che “Barbie”
glielo sbattesse in faccia, tanto meno che le curve del suo candido corpo lo
distogliessero dai suoi pensieri, primo fra tutti l’incolumità di Nathaniel.
“Guardami.”
Ordinò lei, ma il lupo non
si mosse. Cara allora lo raggiunse e sollevò il piede nudo sul divano,
lasciando che un solo angolo di tessuto coprisse l’ultimo spazio tra le sue
gambe. Riprese ad accarezzarsi cercando di far assorbire la lozione e piegare
la sua resistenza.
“Mi è piaciuto sai? Fare
sesso con te.”
Joseph vacillò, preso dal
ricordo del loro amplesso e dal profumo del suo doccia schiuma addosso alla
ragazza dell’aereo.
“Avrei voluto urlare…
Chiederti di spingere più forte.”
Riprese lei con tono
seducente e finalmente lui si voltò, risalendo con gli occhi la linea della sua
gamba scoperta fin su alle spalle ed al suo viso pulito. Erano state
l’ingenuità e la sua infantile ed indifesa innocenza ad attrarlo, entrambe
totalmente sparite, ciononostante quell’espressione decisa ed il broncio da
poco di buono solleticavano i suoi ormoni. Se la vecchia pudica ragazzina
dell’aereo aveva acceso le sue fantasie erotiche, questa nuova versione,
malvagia e lasciva, avrebbe meritato i suoi più oscuri, perversi e sadici
desideri sessuali. Peccato avere le mani legate e cose più importanti a cui
pensare.
“Dov’è Nathaniel?”
“In buone mani.”
Si limitò a rispondere lei
chiudendo il flacone.
“Se gli fate qualcosa giuro
che…”
“Cosa?”
Lui digrignò i denti
“Ti faccio a pezzi.”
Cara sollevò le spalle
allontanandosi dal divano
“Ho già sentito questa
minaccia decine di volte. Non hai nulla di meglio?”
Se ne stette immobile al
centro del soggiorno per una manciata di secondi poi lasciò cadere
l’asciugamano, mostrando a Joseph la schiena nuda e la perfetta rotondità delle
sue natiche. L’assassino dovette guardare per forza, sorpreso e allo stesso
tempo colpito dal piccolo dettaglio di un tatuaggio a forma di M sotto la sua
scapola sinistra. Aveva il marchio, era davvero una dei Merli.
Cara gli lanciò un’occhiata
voltando il collo
“E’ possibile che tu abbia
dei vestiti da donna decenti qui?”
Joseph non rispose nemmeno
Lei sospirò sollevando le
spalle e sparì nell’altra stanza. Tornò da lui una manciata di minuti più tardi.
L’armadio dell’assassino era privo di vestiti femminili, per cui aveva
arrangiato una delle sue camicie come fosse un mini dress, tenendo sotto nulla
più che una t-shirt scura. L’assassino ne accarezzò con gli occhi le gambe
nude, inevitabilmente scoperte fin più su di metà coscia. I suoi vestiti
addosso ad una donna. Era una novità. Una piacevole novità, se non fosse che la
donna in questione era uno dei merli e non vedeva l’ora di strappargli il cuore
dal petto.
“Dimmi chi sei e cos’hai
fatto a Nathaniel.”
Ordinò secco.
“Una cosa per volta.
Nathaniel è con un mio amico, ma non preoccuparti, presto lo raggiungerai anche
tu.”
Apostrofò lei puntandogli l’indice
e la vista addosso.
L’assassino rispose allo
sguardo reggendo i suoi occhi con tutta la decisione possibile. Non vi era più
timore in quelli di lei. Nessuna emozione riconoscibile, se non un profondo
stato di eccitazione, fosse per la sua nuova posizione di comando, fosse per il
piano diabolico che aveva in mente. Se solo avesse potuto allungare le mani le
avrebbe strappato quell’espressione compiaciuta dalla faccia, rimettendola al
suo posto in men che non si dica.
“Chi sei tu?”
Scandì ed ottenne uno sbuffo
in risposta
“Sei ripetitivo.”
“Conosco quelli della
compagnia. Tu non sei mai stata con loro.”
“Sbagliato. Innanzitutto non
conosci affatto tutti i merli e, secondo, io sono una di loro, da nove anni
ormai, il che prova ancora una volta che tu non sai niente sulla compagnia.”
Joseph digrignò i denti. Se
la ragazza aveva ragione, i suoi problemi sarebbero diventati ancor più complessi.
“Vediamo…”
Barbie afferrò una sedia e
si accomodò dritta di fronte al suo ostaggio
“L’incendio che ha distrutto
“La Salle de Paris” di New York due anni fa. Ti dice niente?”
Lui non si scompose. Non era
solito seguire la cronaca locale, tantomeno gli affari della microcriminalità
della grande mela.
Cara si leccò le labbra
“Forse questo lo ricordi. Gordon Craven, della Craven Enterprise. Trovato
carbonizzato nella sua Ferrari dopo un terribile incidente d’auto. Credo fosse
amico del tuo caro paparino.”
Craven Enterprise, il nome
non gli era nuovo. William aveva prestato una grossa somma al capo,
un’operazione di Import-Export che avrebbe dovuto fruttare milioni e si era
invece rivelata una completa fregatura. L’idiota in questione si era schiantato
contro un palo della luce prima che i sicari di suo padre potessero fargliela
pagare.
Cara colse il bagliore di
consapevolezza negli occhi di lui e sorrise appena
“Opera mia.”
Joseph la guardò stupito,
lei riprese
“E te ne dirò anche
un’altra. Ti ricordi di Coleman e Brian?”
Coleman e Brian. Esecutori
materiali delle sentenze di William, il primo trovato morto con un colpo in
mezzo agli occhi, il secondo sparito nel nulla.
“Sono stata io.”
L’assassino aggrottò le
sopracciglia
“Perché?”
Cara spostò lo sguardo. La
scena era ancora chiara nella sua mente. I loro completi scuri freschi di
tintoria, l’indifferenza dei loro occhi, le mani di Brian addosso a sua madre,
gli spari secchi. Il tonfo sordo.
Tentò di ricomporre la
propria gelida figura
“Come se ti importasse. A te
non importa di nulla. Tu sei come lui…”
Di nuovo gli arrivò vicina,
prendendogli il viso nella mano e stringendo con forza
“…E come lui meriti di
soffrire.”
Joseph si tese nella sua
presa, scavandone lo sguardo alla ricerca di un indizio qualsiasi. La ragazza
aveva dentro rabbia e dolore, rimorso e sofferenza. Qualunque motivo l’avesse
spinta ad unirsi ai merli, l’organizzazione non era ancora riuscita a succhiare
tutta la sua umanità. Quel turbine di emozioni era il punto debole che lui
avrebbe dovuto colpire.
“Che cosa ti ha fatto mio
padre?”
Lei si staccò,
improvvisamente infastidita
“E tu perché lo chiami
padre?”
Bella domanda.
Cara si strinse nella
camicia che sapeva di lui e mosse qualche passo nella stanza, ritrovando pian
piano la sua facciata impassibile. Gran parte di lei fremeva dalla voglia di
vomitare addosso a Joseph tutto l’odio che le bruciava dentro, ma la metà più razionale
sapeva di non dover scoprire troppe carte. Non ancora almeno.
Gli lanciò un’occhiata
micidiale
“Ucciderò te, tuo padre e i
tuoi fratelli. Questo è tutto ciò che devi sapere.”
Prese a muoversi verso
l’altra stanza, ma la voce di Joseph la bloccò
“Avete preso me e Nate è
vero, ma Elia è un’altra storia. Non riuscirete mai a prendere anche lui.”
Cara indugiò appena. E’
vero, Elia era di certo il più difficile dei tre, molto più brutale ed
intelligente dal vivo piuttosto che nei dossier. Tuttavia…
Voltò la testa sulla spalla
destra, schiudendo le labbra in un mezzo sorriso seducente
“Non preoccuparti. Ho
un’arma segreta riposta per lui.”
Joseph rimase a fissare il
punto in cui lei era sparita, rimuginando in silenzio sulla situazione. Elia
era più furbo di tutti loro messi insieme, qualunque fosse il tranello non
avrebbe abboccato, ne era sicuro.
Bussarono alla porta.
Joseph si irrigidì, pressoché
certo che si trattasse proprio del fratello giunto in suo soccorso. La
ragazzina, merlo o meno, non avrebbe avuto chances.
I colpi alla porta di
ripeterono, cadenzati e ritmati così da comporre una specie di melodia. Cara tornò
in soggiorno, si riempì i polmoni passando le mani tra i capelli e studiando
attentamente la sua figura allo specchio. Quella specie di musichetta ed il
sorriso di Cara spensero in Joseph qualsiasi entusiasmo.
“La nostra limousine è qui.”
Scherzò lei.
Non appena la porta di aprì,
il tizio sulla soglia venne dentro con passi fluenti. Pelle chiara, capelli
d’ebano tenuti su dal gel, grandi occhi color verde bottiglia. L’assassino
imprecò contro il cielo, l’ultimo tassello da aggiungere alla lista delle sue
disgrazie. Little K. L’altro gemello Pryce.
Il nuovo arrivato si guardò
attorno brevemente, poi rivolse gli occhi a Cara. Il suo sguardo la analizzò da
capo a piedi
“Hai un aspetto orribile.”
Sentenziò, ma in risposta
non ottenne altro che un grosso sorriso. Cara gli si buttò letteralmente
addosso e le loro bocche si fusero in un lungo bacio tutt’altro che romantico.
Joseph riuscì a cogliere chiaramente l’intreccio delle loro lingue, così come
le mani di lui ficcate sotto l’orlo della sua
camicia. Quella scena gli chiuse lo stomaco. La sua ragazzina dell’aereo…
Quella era tutt’altro che una ragazzina innocente e, soprattutto, era chiaro
quanto non fosse sua. Che idiota.
Spostò gli occhi e si sforzò
di pensare. Perché Little K era lì? Era anche lui uno dei merli? E Morgan
allora? Se i gemelli erano immischiati nella faccenda forse c’era davvero
qualcosa di cui preoccuparsi.
L’ombra di Little K su di
lui lo riportò al presente. Il suo sorrisetto, in perfetta stonatura con l’aria
da bravo ragazzo, gli tese ancor più i nervi. Odiava i gemelli Pryce, così come
si odia una scheggia di legno conficcata nel dito. Detestava le loro facce
pulite e non sopportava non sapere per cosa stesse quella stupida K. Nessuno lo
sapeva.
“Andiamo amico…”
Esordì il gemello
“…Il tuo caro fratellino ci
attende alla festa.”
Ad un suo schiocco di dita
due possenti energumeni entrarono in casa sua e lo sollevarono di peso,
trascinando i suoi piedi molli fuori dal portone. Dietro di lui Cara e Little
K, probabilmente di nuovo avvinghiati come piovre in amore.
“Hai lasciato l’invito per
Elia?”
Domandò lui a Barbie,
continuando a tenere in piedi la metafora celebrativa. Lei si arrotolò una
ciocca di capelli attorno al dito, fiera ed impaziente
“Certo. L’invito lo attende…
In carne ed ossa.”
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Capitolo 9 *** Capitolo IX ***
cap9
Ciao!!!
Scusate l’immenso ritardo.. Il mio esame di abilitazione si avvicina e le mie
risorse scarseggiano! Volevo comunque pubblicare qualcosa per ringraziarvi
tutti della lettura e delle vostre splendide parole! Non è molto lungo, ma
spero faccia un minimo di chiarezza… A presto! E se avete tempo, pregate un po’
per me!!!
Martina
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Quel posto era una vera
bettola, i muri gocciolavano e tutta quell’umidità puzzolente iniziava a
penetrargli la pelle della schiena. L’effetto del miorilassante era ormai
sparito, quindi, ad occhio e croce, erano passate almeno due ore da che gli
scagnozzi di Mancini l’avevano depositato in quella stanza scura. Il tizio che
aveva di fronte, incaricato di “intrattenerlo”, si era già stancato da un pezzo
di prenderlo a pugni ed ora ne stava lì, con gli occhi incollati al suo
telefono e la mente rapita da qualche stupido videogame o sito porno.
Joseph stirò i muscoli del
collo, prima a destra poi a sinistra, finendo testa al muro nel tentativo di
roteare il capo. Era attaccato alla parete di mattoni e cemento, letteralmente
incatenato per i polsi come in una sorta di stanza delle torture medioevale,
senza poter far altro che allungare e piegare le ginocchia. Il suo cervello era
tornato al pieno dell’attivazione e tutti i suoi pensieri giravano attorno
all’unica idea di uscire di lì, possibilmente intero. Continuava a chiedersi se
Nathaniel fosse da qualche parte nella sua stessa situazione o se la sua
assenza significasse che qualcuno di quegli psicopatici aveva osato fargli del
male. La sola idea gli fece ribollire il sangue. Finì inevitabilmente per
fissare il tizio davanti a lui ed immaginarsi, a chiari colori, l’intreccio
delle sue budella sul pavimento. Poco male che non avesse coltelli con sé,
avrebbe squartato tutti a mani nude se fosse stato necessario.
La porta della stanza si
aprì di colpo mostrando, nella scia di luce dall’esterno, il nuovo aspetto
pulito ed ordinato di Cara. Doveva essersi fatta un’altra doccia o magari un
idromassaggio con quel coglione di Little K perché l’odore di muschio bianco
era stato completamente sovrastato da una nuova fragranza di miele e lavanda.
Stucchevole. I suoi capelli rimbalzavano perfetti in morbide onde ed indossava
disinvolta un paio shorts e una maglietta.
“Vattene Call.”
Ordinò senza nemmeno
guardare l’altra persona nella stanza, i suoi occhi erano fissi, puntati come
armi addosso alla miseria di Joseph. Il tizio eseguì senza fiatare. La porta
gli si chiuse dietro e Cara rimase in silenzio all’angolo della stanza. Quello
era il suo mondo, quelle le sue persone, eppure, dopo solo qualche ora
trascorsa tra le dita ruvide di Little K e le risate sguaiate degli altri
merli, una specie di forza inconscia l’aveva trascinata fino a quel
sotterraneo. Scemata l’onda d’adrenalina ed eccitazione, nel profondo di sé era
emerso il bisogno. Bisogno di pace, di silenzio, bisogno di tornare a quella
semplice dimensione in cui null’altro importava tranne lei, lei e la sua
vendetta, lei ed il suo scopo, lei e Joseph Michaelson.
Non era così che doveva
andare. Cara era volata in Sud Africa col solo scopo di monitorare la
situazione, seguire le mosse delle autorità, trovare un buco nella sorveglianza
che le permettesse di prelevare il Lupo. Ironia della sorte, l’assassino era
stato rispedito negli Stati Uniti mezz’ora dopo il suo atterraggio. Aveva
dovuto pensare in fretta, disponendo un perfetto piano B nel giro di qualche
minuto.
Ty le aveva fornito la scusa
e Sonia gli strumenti.
Una volta sull’aereo tutto
ciò che avrebbe dovuto fare era attirare la sua attenzione, distrarlo da
qualsiasi fuga avesse pianificato, studiare le sue mosse fino all’atterraggio.
Arrivati poi a terra, con l’aiuto degli altri merli, avrebbe raggiunto lo scopo
originale. Non erano previste conversazioni, non erano previsti contatti
diretti, tantomeno era previsto il sesso… Ma cos’altro avrebbe potuto fare in
fin dei conti? Lo schianto dell’aereo era fuori da ogni ipotesi e mai, mai,
nemmeno trovandocisi in mezzo, Cara avrebbe potuto immaginare che uno come il
Lupo l’avrebbe salvata. Da quell’istante in poi non aveva potuto far altro che
improvvisare, cercare di calarsi nella parte, usare ogni arma in suo possesso
per conquistarne la fiducia e garantirsi la sopravvivenza. Era brava in questo,
dopotutto aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita fingendo di essere nulla
più che una cameriera squattrinata eppure, dopo pochi giorni in quella recita,
non avrebbe più saputo indicare con certezza la linea di confine tra finzione e
realtà.
Odiava l’uomo che le stava
davanti, disprezzava il suo nome, le sue mani sporche di sangue, la sua
presunzione. Mosse qualche passo verso il prigioniero, ispezionandolo
attentamente con lo sguardo. Detestava i suoi lineamenti marcati, le sue labbra
morbide e perfette, i capelli scompigliati, i suoi muscoli scolpiti… Lo odiava
così tanto che non aveva resistito più di tre ore senza tornare a guardarlo.
Cara si avvicinò di due
passi ancora, guardandolo dall’alto. Dalla tasca posteriore dei pantaloni tirò
fuori dell’acqua e piano svitò il tappo.
“Scommetto che hai sete.”
Piegò le ginocchia e gli
avvicinò la bottiglia alla bocca solo per vederlo ritrarsi e girare il capo
dall’altro lato a labbra serrate.
“Credi che sia davvero così
vile? Non copierei mai lo stile di un Michaelson.”
Precisò, mandando giù due
sorsi pieni di liquido trasparente. Joseph tornò a guardarla, ancora
sospettoso, ma assalito dai bisogni primari. Mosse i polsi cercando ancora una
volta di venir fuori dalle catene, ma rinunciò ben presto. Cara gli si
inginocchiò di fronte, incrociando le gambe a quelle di lui, portandogli
lentamente la bottiglia alla bocca. Il liquido gli scivolò abbondante sulla
lingua e sul viso. Joseph si sforzò di mandarne giù quanto più possibile. Quel
gesto di pietà avrebbe di certo avuto un caro prezzo.
Cara lasciò cadere il
contenitore a terra. Barbie, pensò l’assassino, Barbie, sforzandosi di ricordare
il suo vero nome e non più quello della ragazza che aveva salvato e desiderato.
Doveva dimenticare quel nome per sempre, anche se la donna di fronte a lui in
quel momento, così vicina ed apparentemente inoffensiva, le somigliava tanto.
“Perché sei qui? Perché non
mi uccidi e basta?”
Lei gli poggiò le mani sulle
cosce.
“Tu sei stato gentile con
me. Sto solo cercando di ricambiare il favore.”
“Non voglio la tua pietà.”
“E non ne avrai, sta’
tranquillo.”
Ribatté lei, come se in
quell’istante preciso si fosse ricordata di cosa rappresentasse Joseph. La sua
vendetta. Si tirò su ed afferrò una sedia. Per almeno cinque minuti nessuno dei
due disse nulla.
“Tu e Little K, eh?”
Alla fine fu Joseph a
parlare per primo, incapace di resistere alla tentazione di guardarla con
sufficienza. Cara sollevò le spalle
“Perché? Credi di essere
migliore di lui?”
L’assassino incatenato
accennò un sorriso sardonico
“Perfino un cane sarebbe
meglio di lui.”
Cara lasciò cadere le sue
parole senza degnarle di una risposta, come se fosse troppo impegnata a pensare
ad altro per affrontare una simile conversazione.
“Sarebbe lui?”
Incalzò Joseph
“…Il tizio che ti ha
tradita, quello per cui avevi perso la voglia di vivere.”
Stavolta lei sollevò gli
occhi, colpita dall’incredibile attenzione che lui sembrava aver prestato ad
ogni sua parola.
“Non sprecherei mai le mie
lacrime per un uomo.”
“Quindi era una bugia… Ogni
tua parola lo era.”
Era un’ovvietà, ma Joseph
dovette sforzarsi per non suonare disperatamente deluso nell’ammetterlo ad alta
voce. Cara gli rivolse uno sguardo più attento, ricercando nel suo aspetto una
conferma della vulnerabilità traspirata dalle sue parole. Se ne stava lì,
forzatamente fermo ma rilassato, le mani ciondolanti e le gambe allungate,
senza ombra di timore in viso.
“In realtà non ti ho mai
mentito…”
Lui sollevò il mento. Mai
come in quella situazione aveva dubitato della sua capacità di leggere le
persone.
“…Cara è il mio nome… E
negli ultimi quattro anni ho davvero vissuto un’insulsa vita da cameriera
aspettando questo momento, fidanzato traditore incluso…”
Si prese un attimo di pausa,
accogliendo alla mente un’immagine di Ty e dei suoi hotdog affogati nella
senape
“…Ovviamente sapevo già che
si sbatteva un’altra, ma non posso lamentarmi troppo… Dopotutto non sono mai
stata una fidanzata appassionata.”
Joseph trattenne tra le
labbra un commento sarcastico. Lui riusciva a vedere passione in ogni sua
mossa.
“Dimmi come hai fatto.”
La richiesta dell’assassino
attirò gli occhi di Cara su di sé, lucidi e brillanti come veri lapislazzuli.
“Fatto cosa?”
“Come sapevi che mi sarei
trovato su quell’aereo? Come sapevi cosa fare?”
Lei inspirò. Non è bene
aprirsi con le proprie vittime, è vero, la si potrebbe anzi definire una vera
mossa da dilettanti eppure, guardando Joseph seduto a terra, sporco di sangue e
polvere, quasi crocifisso al muro e coi polsi stretti nel ferro, Cara sentì che
le parole le danzavano dentro impazienti di uscire. Averlo lì, dove nessun
altro poteva vedere o sentire, proprio come nel minuscolo bagno dell’aereo,
risvegliava in lei la voglia di non essere null’altro che il ciclone di
emozioni che si portava dentro. Sorrise d’orgoglio, ma di un orgoglio amaro
“Tutta la mia vita negli
ultimi nove anni, tutto ciò che ho fatto, detto o anche solo pensato, tutto è
stato per arrivare fino a qui, ad un solo passo da William Michaelson.”
“E’ per questo che Mancini
ti ha assoldata?”
Cara scosse la testa
“Lui non mi ha assoldata, mi
ha salvata.”
Joseph sollevò un
sopracciglio perplesso, nella varietà del lessico umano di certo non avrebbe
mai definito Robert Mancini un salvatore.
“…Negli ultimi nove anni,
mentre mi addestravo e vivevo la mia finta esistenza, ho studiato ogni più
piccolo aspetto della tua famiglia, seguito le vostre mosse, cercato i vostri
punti deboli… Aspettato pazientemente che arrivasse il momento giusto…”
“Johannesburg.”
Dedusse lui.
“…Non riuscivo a credere che
ti fossi fatto fregare dalla polizia, tanto meno che Vladimijr Pushkin fosse
riuscito a farmi un simile favore. Il Lupo servito su un piatto d’argento e
dietro di lui, inevitabilmente, un fratello dopo l’altro.”
“Non ha senso…”
L’assassino scosse la testa
“…Come potevi sapere che ti
avrei salvata?”
Qualcosa si accese nelle
iridi della ragazza
“Non lo sapevo. Non sapevo
nemmeno che ti avrebbero reimbarcato per New York mezz’ora dopo il mio arrivo a
Johannesburg. Se l’avessi saputo mi sarei di certo risparmiata uno scomodo
viaggio…”
Prese fiato
“…Nessuno aveva previsto che
Elia buttasse giù un intero aereo per te. Tutto quello che dovevo fare era
attirare la tua attenzione. Starti dietro. Una volta a terra gli altri merli
avrebbero fatto il resto.”
“E come sapevi che avrebbe
funzionato?”
Si mosse lentamente
raggiungendolo di nuovo. Gli si inginocchiò di fronte
“Perché conosco tutto di te,
perfino le tue fantasie più nascoste. E so che tutte o quasi prevedono un
piccolo angelo biondo desideroso di sporcarsi le ali...”
Con quegli occhi blu gettati
nei suoi, Joseph non trattenne un brivido. Molto probabilmente quella donna
sconosciuta avrebbe potuto cavargli l’anima e srotolargliela davanti come un
libretto d’istruzioni.
“…Quello che non potevo
immaginare è che ti sarei piaciuta tanto da salvarmi.”
Joseph abbassò lo sguardo,
sbuffando nel tentativo di sminuire e deridere quella sua assurda convinzione.
Riusciva a sentir chiara la vergogna della sua stupidità, ma non le avrebbe di
certo concesso un balletto di esultanza.
“Il modo in cui mi hai
guardata in quel bagno, come se fossi la creatura più fragile ed innocente del
pianeta, come se mi desiderassi più di ogni altra cosa al mondo…”
Cara sentì il cuore battere
più veloce
“…Mi hai fatto desiderare di
esserlo davvero.”
Eccola. Chiara e
terribilmente fastidiosa. La vera ragione per cui si trovava lì.
L’assassino sollevò il viso
e se la trovò vicina, di nuovo a pochi centimetri di distanza, candida e
delicata come la prima che l’aveva vista, con i suoi grandi occhi color oceano
sgranati e luccicanti. La sicurezza di pochi minuti prima svanita nel nulla, il
desiderio di vendetta offuscato dalla semplicità della vicinanza.
Cara lasciò scorrere i
polpastrelli sul taglio ancora aperto sopra il suo zigomo, delicatamente, quasi
non volesse provocargli alcun dolore. Joseph trattenne il respiro stringendo le
redini della sua psiche. Lo stava fregando ancora, giocando con la sua mente
come un’abile illusionista. La ragazza che aveva davanti non esisteva davvero,
la sua ragazzina dell’aereo non era reale, anche se in quel momento sembrava
tornata, nulla di lei era reale, nulla. Doveva convincersene una volta per
tutte, prima che la voglia di riaverla riuscisse a sgattaiolare fuori dalle
barriere della sua ragione.
Quella donna era un mostro.
Doveva essere un mostro. Una specie di mutaforma in grado di trasformarsi
all’occorrenza, ora una spietata assassina, ora un’innocente ragazzina.
Cara si portò le dita alle
labbra, senza nemmeno rendersene conto, assaggiando per la prima volta il gusto
di un assassino. L’aveva sempre immaginato amaro, avvelenato dalla rabbia e
dalla morte, e invece no… Sulla sua lingua Joseph fu dolce come zucchero filato
e salato come il mare.
Lui si irrigidì, spiazzato
da quel gesto totalmente inaspettato. Non poteva farci nulla. Nonostante fosse
il nemico, nonostante desiderasse ora più che mai spezzarle il collo, se lei lì, in quel preciso momento, l’avesse
toccato ancora una volta, non avrebbe potuto dirsi certo di saper controllare
il proprio corpo.
Trattenne a stento la voglia
di roteare gli occhi al cielo. Vendetta o meno, quella donna sarebbe stata la
sua fine.
La cosa più sicura da fare
era cambiare argomento. Immediatamente.
“Che cosa ti ha fatto mio
padre?”
Ogni ombra di seduzione le
sparì dal viso nell’arco di un secondo. Cara si ritirò nel guscio come una
lumaca quando gli si toccano le antenne. Allontanandosi da Joseph il più
possibile inspirò a pieni polmoni.
Sapeva come rispondere, ma quel
macigno non sembrava proprio voler venir fuori.
“Ha ucciso la mia famiglia.”
Rispose infine senza
guardarlo. Le parole uscirono come lame, come se per la prima volta stesse
verbalizzando il suo dolore, come se fino a quel momento le avesse tenute
dentro, respinte, rimosse, stipate nel subconscio per non sentirne il peso
insopportabile.
Joseph aggrottò le sopracciglia,
non aveva idea di cosa c’entrasse la famiglia di Cara Phillis con la sua, ma
l’ombra apparsa di colpo sul viso di lei non lasciava adito a dubbi. In qualche
modo William era responsabile della morte di queste persone e la ragazza viveva
solo per un unico scopo, ripagare la morte con la morte. Vendetta, il più
antico dei moventi dopo la gelosia.
“Io ucciderò la sua…”
Aggiunse fissando il nulla,
pregustando il sapore dell’espiazione e lasciandosi colare in una specie di
realtà parallela.
“…E poi ucciderò anche lui.”
“Il rapporto della polizia
dice che i tuoi sono morti in un incidente.”
Cara sorrise a labbra
strette
“E’ quello che volevo
credessi, ma non è andata così…”
Inevitabilmente i ricordi
presero a scorrerle davanti agli occhi
“…I tirapiedi di tuo padre
hanno ucciso i miei genitori a sangue freddo, senza pensarci due volte.”
Strinse i pugni e finalmente
gli rivolse lo sguardo
“Vuoi sapere qual è il
ricordo che ho più nitido di quella sera?”
Joseph non osò rispondere.
“Non si sfugge da Michaelson…”
Ripeté cercando di
trattenere il disgusto ed imitare lo stesso tono solenne
“…Così hanno detto. Le
ultime parole che mio padre ha sentito prima di morire.”
Lui rimase in silenzio,
bloccato dall’autenticità di quei pezzi di memoria che lei gli stava offrendo e
che lui non riusciva a collegare. Per amor della sua stessa sopravvivenza
avrebbe dovuto indagare, cercare di capire, individuare il punto debole della
sua motivazione eppure, consapevole di essere nulla più di un assassino, non
avrebbe mai potuto mancare di rispetto alla morte. Anche lui aveva perso sua
madre qualche anno prima, l’unico genitore biologico che avesse ed unica
persona al mondo che mai lo avesse amato.
Era stata una stupida
emorragia celebrale a portarla via e Joseph non aveva potuto far altro che
accettarlo. Il caso, il destino o Dio, se così lo si vuol chiamare, non sono
certo nemici che puoi rincorrere e massacrare. Nessuna vendetta per lui.
Guardando il vuoto negli
occhi di Cara in quel momento qualcosa gli si mosse dentro. Se l’assassino di
sua madre avesse avuto un nome ed un volto, anche lui avrebbe spaccato le
montagne pur di aver giustizia.
Cosa avrebbe potuto mai dire
o fare che potesse farle cambiare idea? E perché poi? William meritava di
morire, per mano di Cara e di almeno un milione di altre persone.
“Perché vuoi uccidere anche
noi?”
Lei sospirò, come se fosse
ovvio
“Morire e basta sarebbe
troppo semplice. Voglio che prima sappia cosa vuol dire restare soli al mondo.”
--------
Elia spinse la porta dello
Sweet Lorraine seguito da due dei suoi uomini più fidati, troppo nervoso e
preoccupato per notare le guardie di Pushkin che lo seguivano ormai da ore.
Il suo olfatto allenato non
mancò di cogliere immediatamente l’odore di sangue stagnante che riempiva la
sala. Ogni nervo nel suo corpo si tese, ormai era certo che qualcosa fosse
andato storto ed il cadavere scomposto di Xavier, imbrattato delle sue stesse
cervella, ne fu la conferma.
Salì le scale due gradini
alla volta, la pistola stretta nella mano destra.
Dentro l’appartamento di
Joseph la puzza di morte divenne quasi insopportabile. Un altro cadavere. Lo
raggiunse di fretta, sollevato alla scoperta che non si trattava di uno dei
suoi fratelli. Quella faccia sconosciuta portava chiari i lineamenti del suo
tormento. Russi.
Notando i segni netti di
un’arma da taglio se ne sentì sollevato. Doveva essere opera di Joseph, il che
poteva solo dire che suo fratello si era difeso. Tirò fuori il telefono dalla
tasca della giacca e compose nuovamente lo stesso numero. Nessun segnale
all’altro capo. Idem per il cellulare di Nathaniel.
Senza trattenere
l’esasperazione, si rivolse ai suoi compagni
“Controllate il palazzo.”
Loro si mossero e lui rimase
lì, fermo ed inerme, totalmente perso nelle supposizioni. Dove diavolo erano
finiti? Era così assorto nei propri pensieri che solamente dopo un secondo si
rese conto di non essere solo. La presenza era palpabile, vicina, respirava la
sua stessa aria in maniera quasi impercettibile.
Strinse l’impugnatura
dell’arma e si voltò di scatto, più che pronto a fare fuoco.
Lei.
Il mondo di Elia smise di
girare. Il freddo, crudele, intoccabile William Michaelson IV riuscì chiaramente a sentire il crack del suo
cuore di ghiaccio sotto la camicia di cotone italiano.
Lei era lì.
In carne ed ossa davanti ai
suoi occhi.
“Sei anche più bello di
quanto ricordassi.”
Il dolce suono della sua
voce gli piombò addosso come un treno in corsa. Due anni, due interi anni di
nottate in bianco, tutte spese a chiedersi dove fosse finita ed eccola lì, comparsa
dal nulla come un fantasma, come se non se ne fosse mai andata davvero. I
lunghi capelli, scuri e mossi, le incorniciavano il viso, la pelle chiarissima
sempre perfetta ed i suoi grandi occhi marroni che sembravano volerne saltar
fuori, contornati dal pesante trucco nero.
Katrina.
Sua moglie.
“..Tu?”
Lei sorrise, riempiendo la
stanza di luce e togliendo ad Elia ogni forza rimasta. In quel momento non era
più uno spietato assassino, tantomeno un soldato addestrato alla peggior
guerra. Era solo creta, morbida creta nelle mani di una donna.
Gli fu chiaro più che mai.
E’ proprio questo che intendono dire quando descrivono l’amore come la peggiore
delle debolezze.
Katrina, stretta in un paio
di aderentissimi pantaloni neri, si mosse a passi lenti verso di lui,
costringendolo ad abbassare pistola e difese senza che nemmeno se ne
accorgesse.
“E’ davvero passato troppo
tempo.”
Aggiunse, lasciandogli
notare di non aver mai perso il marcato accento sovietico. Lui non mosse un
muscolo, tramutato in pietra dal tocco delle sue dita sottili sul collo della
giacca. Poteva sentirla. Era reale.
Lei era reale.
“Dov’eri?”
Katrina sollevò le iridi
scure, accarezzando quel viso che credeva d’aver dimenticato.
“Perdonami Elia.”
Sussurrò. Lui chiuse gli
occhi per un solo istante.
“Per cosa?”
Anche l’altra mano di
Katrina si posò sul suo petto, leggera e morbida contro il lino del vestito
“Per tutto quanto…”
I loro corpi si sfiorarono.
Il suo profumo gli riempì le narici. Tuberosa. Lo stesso di sempre.
“…Ma soprattutto…”
Per l’ombra di un secondo
sentì il suo respiro sulle labbra
…Per questo.”
Concluse stringendo la presa
attorno al bavero della giacca e facendo forza. Il ginocchio destro di Katrina
gli si piantò dritto tra le gambe, togliendogli di colpo la vista. Tramortito
dal dolore non si accorse nemmeno della sua maestria nel togliergli di mano la
pistola.
Un rapido cenno verso la
porta ed altri tre, forse più, gli furono addosso. Elia sentì lo scatto
consecutivo di almeno tre semiautomatiche. Sollevò piano lo sguardo. Lei era
ancora lì.
“Che stai facendo?”
Teneva la sua pistola tra le
dita, ma senza puntargliela contro.
“Ti spiegherò tutto Elia…”
Gli girò intorno a debita
distanza
“…Ma prima dovrai venire con
me.”
Elia seguì i suoi movimenti,
registrando con la coda dell’occhio ogni minimo particolare. Quattro uomini
armati, di certo non russi. Vicini, ma pur sempre troppo lontani. Nonostante
avesse con sé un’arma di riserva sarebbe stato impossibile raggiungerne anche
solo uno senza lasciare agli altri il tempo di sparare.
Ma gli avrebbero sparato sul
serio? Katrina avrebbe davvero lasciato che gli sparassero?
“Dove?”
Domandò dopo l’attenta
valutazione di ogni via di fuga.
“Dove i tuoi preziosi
fratelli aspettano.”
Spalancò gli occhi. Se c’era
Pushkin dietro quest’attacco e quello di Johannesburg, e se c’era anche Katrina
in mezzo, avrebbe solo potuto dire che sua moglie era tornata al padre già da
un pezzo. Perché continuare quella faida allora? Perché Pushkin era in città?
Perché sembrava non voler dar loro pace?
C’era un solo modo per scoprirlo.
Seguirla.
-----------
Il russo vestito di nero,
appollaiato sul tetto come una poiana annoiata, strinse gli artigli attorno al
binocolo al primo cenno di movimento. Più figure di quante ne fossero entrate
stavano uscendo dal palazzo.
Ruotando l’obiettivo mise a
fuoco la silhouette di Elia Michaelson. Non c’era dubbio che fosse lui. La
donna che gli sfilava accanto d’altra parte… Consumò il tasto dello zoom
cercando di arrivarle il più vicino possibile.
Quei capelli e quel viso,
stampati nella sua memoria.
Katrina Pushkina, la figlia
perduta del suo signore, camminava a passi svelti nel centro di New Orleans
accanto al suo indegno marito.
Che fosse tornata? Che i
Michaelson la stessero tenendo nascosta?
Spinse immediatamente il
tasto della trasmittente
“Signore?”
All’altro capo il famigerato
Vladimijr Pushkin
“Sono tutti morti?”
“Non ancora signore.”
“Allora perché sprechi il
mio tempo Dmijtri?”
“Katrina signore.”
L’improvviso silenzio
dall’altro lato fu il segno del suo completo interesse
“Perché osi nominare mia
figlia?”
L’altro mandò giù calibrando
le parole. Due sillabe di troppo ed avrebbe pagato lui le conseguenze di quella
scoperta.
“E’ viva. Ed è qui signore, a
New Orleans. Con Elia Michaelson.”
Non poteva vederlo, ma
riuscì perfettamente ad immaginare la collera che riempiva ogni cellula del suo
corpo. Il solo sentir nominare Elia aveva annullato ogni gioia nel saper viva
la sua unica erede.
“Seguiteli. Dovunque
vadano.”
Quella non era questione per
i suoi scagnozzi. Una tal rivelazione meritava il suo intervento in carne, ossa
ed esercito completo.
“Dmijtri?”
“Sì signore?”
“Perdili di vista e pagherai
con la tua testa.”
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Capitolo 10 *** Capitolo X ***
cap X
Ciao!
Lo so… Era ora!!
Pregate
per me perché la terza prova del mio esame si avvicina!!
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Elia sospirò silenziosamente, lasciando
scivolare la cravatta di seta nel tentativo di ottenere un perfetto nodo
Windsor. Ad ogni modo non era la sua apparenza a preoccuparlo, bensì il peso di
quella responsabilità che lo attanagliava ormai da settimane. Sposare una donna
per far piacere a suo padre. Forse era davvero troppo. Non che credesse
nell’istituzione matrimoniale, tantomeno nella storia dell’anima gemella, ma
l’idea di legarsi a qualcuno solo per siglare un contratto riusciva a renderlo
nervoso. Katrina Pushkina, l’ultima ed unica volta che l’aveva vista avrà avuto
non più di dodici anni, uno sguardo di pudore ed ansia sul suo giovane viso,
nulla più che le sembianze di una bambina spaventata. Altri dodici anni erano
passati da quella “vacanza di famiglia” a San Pietroburgo e adesso non aveva idea
di cosa aspettarsi, o di cosa dire, o di cosa fare.
“Vuoi farlo davvero?!”
Sarà stata la ventesima volta in quella
sola ora che Joseph ripeteva la domanda, incapace di credere che Elia volesse
sposarsi. Sposarsi. Non riusciva nemmeno a pensare quella parola senza il
desiderio di vomitare.
Elia sistemò il colletto evitando di rispondere.
Nathaniel si aggiunse alla conversazione
“Joseph ha ragione. Non vediamo questa
ragazza da un secolo! Voglio dire, potrebbe essere grassa come una balena o
magari calva…”
Elia sollevò un sopracciglio
“…Vuoi davvero andare a letto con una
balena calva?”
Il maggiore scosse la testa, ma senza
dubbio anche lui ci stava pensando, seppur in altri termini. Suo padre aveva
buttato giù un contratto, aspettandosi un matrimonio ed ovviamente dei sani
nipoti che perpetrassero il nome dei Michealson. Ciò voleva dire che avrebbe dovuto
dormire con questa donna qualunque fosse il suo aspetto attuale e, soprattutto,
qualsiasi fosse il suo stato d’animo. Probabilmente la ragazza era disperata o
spaventata e gli sarebbe toccato consumare i suoi doveri coniugali con un corpo
freddo ed immobile, solamente per accontentare William, come sempre.
“E’ per la famiglia.”
“E’ solo per lui!”
Ribatté Joseph
“…E’ solo per i suoi sporchi scopi e lo
sai bene.”
Non era nemmeno troppo chiaro perché
quell’idea gli bruciasse tanto. Suo fratello sposato ad una russa, una russa
sconosciuta che avrebbe un giorno ereditato l’intero mercato malavitoso del metano
e del petrolio. Il matrimonio. Inutile negare l’ovvietà, se William non avesse
sposato sua madre nessuno di loro sarebbe stato lì, eppure l’idea di ripetere i
passi dei suoi lo disgustava. Silenzi senza fine. Discussioni agguerrite.
Gerarchie intoccabili. Fotografie di sorrisi fasulli appese alle pareti. Come
biasimare sua madre per aver dormito un altro?
Katrina avrebbe prima o poi fatto lo
stesso, sbattendosi l’autista o il giardiniere alle spalle di suo fratello,
finendo per sfornare un altro piccolo bastardo come lui. Elia lo avrebbe
odiato, maltrattato, umiliato, trasformandosi lentamente in una nuova copia di
William. La storia trova sempre il modo di ripetersi.
La porta della stanza si spalancò,
riportando tutti alla realtà. Caspar, relegato al ruolo di annunciatore,
rivolse loro un cenno del capo
“Di là ti aspettano.”
Il taciturno primogenito, capelli lisci,
naso appuntito e spalle larghe, non aggiunse nulla di più. Stare in secondo
piano rispetto ad Elia aveva dei lati positivi dopo tutto, ad esempio il potersi
scegliere una donna da solo. Non che William fosse minimamente al corrente
della sua liaison con la figlia della governante.
Elia annuì. Era il momento di compiere
l’ennesimo dovere. Con un po’ di fortuna Katrina si sarebbe rivelata una moglie
silenziosa e lui avrebbe trovato abbastanza improrogabili impegni da non
doverle stare vicino troppo a lungo.
Ignorando Joseph e lo scuotere del suo
viso, raggiunse a testa alta il grande salotto. Il camino era acceso e
l’argenteria brillava sulla tovaglia damascata, segno che suo padre voleva far
colpo. E che a lui non era concesso sbagliare.
“Ecco qui il fortunato!”
Tuonò Wiliam raggiungendolo sulla soglia
“Vieni figliolo.”
Poggiandogli una mano sulla spalla,
proprio come un vero padre avrebbe fatto, lo condusse al centro della stanza
dove Vladijmir sorseggiava vodka pura senza ghiaccio. Un gentile omaggio
portato dalla sua terra. Ogni aspetto di quella situazione ricordava
fastidiosamente la dinastia Tudor. Il magnate russo sgranò lentamente un
sorriso, quasi fosse un gesto innaturale
“Elia.”
Gli porse la mano, gelida come la neve
nonostante il fuoco acceso. Il giovane Michaelson rispose alla stretta con
altrettanta energia.
“Sto per affidare a te il mio più
prezioso tesoro…”
Elia si limitò ad annuire. Il ghigno
forzato sul viso pallido del sovietico lasciava intendere tutt’altro avvertimento.
Gli avrebbe fatto patire amare sofferenze se non avesse garantito l’incolumità
e la soddisfazione della sua unica figlia, sangue del suo sangue.
“…Vieni figlia mia.”
Dall’angolo della stanza, fuori dal
rifugio offerto dalla grande libreria di quercia, si rilevò la tanto attesa
promessa sposa. Lunghi capelli scuri, mossi e voluminosi sulle spalle minute,
grandi occhi d’ebano, lunghe ciglia nere ed una piccola bocca a cuore, carnosa
e perfetta su quel viso bianco come latte.
Avanzò abbassando appena lo sguardo, le
gambe tornite esposte fino al ginocchio, la vita sottile ed i fianchi rotondi,
abbracciati dal raso del vestito nero. Pareva fosse vestita per un funerale
piuttosto che per una festa di fidanzamento, non fosse per i piccoli bottoni in
madreperla lasciati aperti sulla scollatura. Il seno piccolo e rotondo si
lasciava facilmente immaginare.
Nessun dubbio, la piccola Katrina era
venuta su bene.
Elia deglutì davanti a quella visione.
Si sarebbe aspettato di tutto, ma mai quel vuoto al cuore.
Katrina gli improvvisò un inchino di
fronte, mostrando il giusto rispetto al futuro suocero.
“Felice di rivedere voi.”
Azzardò, con l’accento di chi,
nonostante l’altissima educazione, non parla spesso la sua seconda lingua.
Elia sentì la gola secca e le mani
umide, come mai gli era successo prima, nemmeno quella volta che aveva versato
cianuro nel bicchiere dell’ambasciatore cinese, proprio nel bel mezzo del gran
gala alla Sotheby’s. La pronuncia marcata, il suono quadrato di qualche vocale
in più, non toglieva alcun fascino a quella visione celestiale. La sua futura
moglie.
------------
“Spero
non sia necessario incatenare anche te.”
Il
suono della sua voce non era cambiato, tantomeno l’abitudine di raccogliere
continuamente i capelli sulla spalla sinistra. Elia rimase in piedi, braccia
tese sui fianchi e spalle al muro, così da poter monitorare tutti i 180 gradi
della sua visuale.
Katrina
aveva lo stesso aspetto, lo stesso fuoco negli occhi, le stesse movenze
sinuose, tuttavia sembrava una persona del tutto diversa. Continuava a tenergli
gli occhi addosso, ma ogni singola volta che rischiava di incrociare quelli di
lui, il suo sguardo cambiava immediatamente direzione. Strano, vista la
sicurezza con cui gli si era avvicinata nell’appartamento di suo fratello.
Lui,
d’altro canto, non riusciva a proferire parola.
Al
di là della porta Joseph e Nathaniel attendevano buone nuove seduti su scomode
sedie impagliate, le mani legate dietro la schiena. Entrambi segnati in viso
dalle percosse subite, si erano intesi alla perfezione con un solo sguardo:
nessuna inutile conversazione, nessuna parola di troppo, nessun segno di
ribellione o cedimento.
Joseph
rivolse un nuovo sguardo ai gemelli con la coda dell’occhio. Rispetto alla sua
prima sistemazione quella sedia sembrava morbida come piume d’oca sotto il suo
sedere ed aveva almeno due buone ragioni per sentirsi sollevato: prima che lo
trascinassero lì, lasciato finalmente solo, era riuscito a concedersi qualcosa
come un’ora di sonno Rem. Fondamentale. Seconda e più importante ragione,
Nathaniel era ancora vivo, tutto intero ed accanto a lui. Ora non restava che
trovare una falla nel piano dei Pryce e non vi era dubbio che ve ne fosse
almeno una, specialmente conoscendo la loro impulsività.
L’atmosfera
era troppo rilassata lì dentro. Little K era appoggiato alla parete con tutto
il proprio peso, la gomma del suo scarpone destro raschiava l’intonaco cadente.
Morgan dava loro le spalle, tenendo le mani in tasca mentre sussurrava qualcosa
alla sua copia. Nessun altro nella stanza, nessuna traccia di Cara. Joseph strinse
i denti di riflesso, non era proprio il caso di pensare a lei adesso,
soprattutto dopo l’ultima conversazione. Con tutto quel desiderio di vendetta e
quei meccanismi mentali contorti, la ragazza dell’aereo era ormai una causa
persa.
La
morte dei suoi genitori tuttavia, raccontata attraverso pezzi di flashback che
lui poteva solo immaginare, aveva inevitabilmente risvegliato i nitidi ricordi
di un’altra dipartita.
Riusciva
ancora a vederlo perfettamente, il volto di sua madre addormentato, il suo
corpo steso a terra, stranamente privo della sua compostezza, in mezzo ad una
nuvola di pillole per il mal di testa sparse sul tappeto. Si era avvicinato
lentamente urlando il nome di Elia, per la prima volta in vita sua terrorizzato
da qualcosa. Le si era inginocchiato accanto allungando piano la mano,
invocando più e più volte “mamma” a mezza voce. Era ancora calda e morbida. I
lunghi capelli ramati stesi sul pavimento, il pallore della morte che pian
piano si prendeva le sue labbra. In quel momento infinito aveva urlato anche il
nome di suo padre, desiderato perfino la sua presenza purché qualcuno
condividesse quel dolore, quel taglio al cuore che non poteva, non riusciva a
sopportare.
Dopo
l’arrivo del fidato medico di famiglia ed una seduta privata in stanza da letto
cui William aveva voluto partecipare da solo, il verdetto era stato
inimpugnabile. Morte naturale per emorragia subaracnoidea, fatale e del tutto
imprevedibile. Pur essendo un Michaelson, un uomo senza amore né sentimenti, quella
scena l’avrebbe tormentato per sempre.
La
porta si aprì di scatto, spingendo dentro un tizio in completo scuro.
Elia.
I
fratelli minori tesero i muscoli contro il legno, Elia era lì presente, senza
segni di percosse né catene ai polsi. Dietro di lui il picchiettio di tacchi
sul pavimento, una donna dai lunghi capelli scuri che avanzava con la sicurezza
di una top model, una scarpa firmata dietro l’altra. Sollevò appena lo sguardo
con la sfida tra le ciglia.
Katrina
Pushkina. Ancor più troia di quanto ricordasse, stretta nella sua tenuta da
film sadomaso.
Non
aveva senso, ma comunque resistette alla tentazione di parlare. Con Elia non
era necessario. Come se non fosse abbastanza si aggiunse alla scena Cara,
sfilandogli davanti con gli occhi al pavimento e le sue belle gambe avvolte nei
jeans slavati. I suoi stivali di pelle marrone la portarono fino all’angolo, a
mezzo metro almeno da Little K.
“Ecco.
Vivi e vegeti.”
Katrina
rivolse loro un cenno disinteressato, mantenendo gli occhi su Elia.
L’attenzione di quest’ultimo totalmente catalizzata al centro della stanza.
“Liberali.”
Lei
si concesse un sorriso sardonico
“Non
così semplice.”
Stavolta
Elia si voltò a guardarla, sforzandosi di patire la sua concreta presenza
“Che
cosa vuoi?”
La
stanza era affollata, piena di persone nervose che consumavano ossigeno, eppure
la scena pareva svolgersi tra due attori solamente.
“Chiama
tuo padre.”
“Perché?”
“Fa’
venire qui tuo padre e ti prometto che almeno uno di tuoi preziosi fratelli
uscirà da qui sulle sue gambe.”
Il
tono ancora caldo ed avvolgente nonostante le minacce. Elia strinse i pugni
“No.”
Katrina
sollevò il viso, scontrandosi con i suoi occhi per la prima volta, ardente
dello stesso risentimento che alimentava il marito
“Non
ti fidi?... Io mantengo sempre mie promesse.”
“Non
sempre.”
La
risposta fu immediata ed inevitabile, sfuggita alle sue labbra con uno spasmo
di muscoli addominali. Più o meno fasulla che fosse, aveva comunque infranto la
più solenne delle promesse. Finché morte non ci separi. Probabilmente era convinta che con uno come
lui la morte non si facesse attendere poi tanto.
Quella
piccola provocazione le rimbalzò di fronte, facendo tremare le morbide curve
del suo labbro superiore. C’era così tanta rabbia dentro di lei, così tanto
risentimento nascosto dall’ostentazione, un bruciore ancora insopportabile.
Elia non poteva vederlo, non ne era capace, non si era mai neanche minimamente
accorto che fosse lì.
“Chiama
William.. Myж.”
Katrina
era sempre stata la più brava dei due ad individuare i punti deboli. Non a caso
la scelta di chiamarlo “marito” in un russo suadente, così come era solita fare
nell’intimità della loro stanza, quando il riverbero dell’orgasmo abbassava le
loro difese, facendoli sembrare la più comune delle coppie.
I suoi fianchi stretti tra le mani, la
pelle liscia appena un po’ umida dopo la prolungata frizione tra i loro corpi,
i suoi lunghi capelli mossi che gli solleticavano il petto, le ginocchia di lei
incollate alla vita, il respiro ancora accelerato e quel sorriso… Quel sorriso.
“Moй Myж.”
Katrina lasciò scorrere le dita sul viso
di Elia, indugiando con l’indice sulle sue labbra schiuse.
Elia inspirò accarezzando il suo seno
con gli occhi ancora una volta, concedendo a sé stesso il più disarmato dei
momenti. La donna che suo padre aveva scelto per lui riusciva a svuotargli
corpo e mente, riempiendolo di pensieri che non avrebbe mai pensato di avere.
La fredda sconosciuta venuta dall’est portava il fuoco dentro.
“Moя Жeha.”
Rispose lui contraendo gli addominali
per tirarsi su, gambe intrecciate tra le lenzuola ed occhi allo stesso livello,
scuro contro scuro. Katrina sorrise di nuovo come ogni volta poiché adorava
sentirlo usare la sua lingua natia, perché riusciva a sentirsi a casa. Il sorriso sparì presto lasciando spazio all’emozione del momento, insicura,
fragile ed inaspettata. Gli poggiò le mani sulle spalle, avvicinando lentamente
la bocca a quella di lui, prendendola in un bacio lento e delicato.
Poteva succedere davvero? Innamorarsi di
qualcuno che non abbiamo scelto? Innamorarsi?
La vibrazione del telefono contro il
legno del comodino distrusse il momento. Katrina abbassò gli occhi spostandosi
nella sua parte di letto, Elia allungò il braccio per afferrare il cellulare
“Padre…”
Una breve attesa silenziosa
“…Va bene. Arrivo subito.”
Sempre così, le telefonate di William
non duravano più di trenta secondi. Le sue richieste erano sempre dirette e
mai, mai, si era posto il problema di chiedere se Elia avesse qualcosa di più
importante da fare.
Non che Elia avesse qualcosa di più
importante da fare.
Katrina tirò su le lenzuola che lui
aveva scostato e si coprì fino alle spalle. Elia infilò calzini e pantaloni
dandole le spalle.
“Che succede?”
Lui raggiunse l’armadio scegliendo una
camicia pulita color panna
“Non lo so.”
Rispose. Ogni mattone del suo muro era
già tornato al proprio posto. Si infilò la giacca e passò il pettine tra i
capelli, rimettendolo nel suo esatto posto sulla mensola di marmo del bagno.
Girò attorno al letto e le si avvicinò, curvando la schiena per poggiarle un
bacio sulla fronte
“Torno più tardi.”
Non poteva darle indicazione migliore.
Katrina sprofondò nel materasso dopo lo sbattere del portone, trovandosi sola col
resto della sua giornata ancora una volta.
-----------
“Chiama
William.. Myж.”
Era
riuscita a scurirgli lo sguardo
“Perché?”
Non
gli piaceva ripetere le domande. Katrina indicò i suoi fratelli ancora una
volta
“Perché
loro sono l’unica cosa di cui ti importa…”
Sollevò
il sopracciglio destro
“…Non
è vero?”
Elia
strinse i pugni trattenendo l’istinto di afferrarla per il collo e sbatterla al
muro.
“Fallo
venire qui o muoiono subito.”
A
quelle parole Little K si scostò dalla parete, brandendo un coltello finora
nascosto sotto la maglietta. Afferrò Nathaniel per i capelli e mostrò le sue
chiare intenzioni. Il minore dei Michaelson non si scompose, mentre Joseph gli
digrignava i denti accanto.
Quella
scena gli spostò un nervo di troppo. Elia espirò rumorosamente e fece per
muoversi verso il gemello dai capelli gellati
“Io
ti…”
“Fermo
Michaelson…”
Lo
interruppe Morgan con nonchalance, abbandonando l’angolo per andargli vicino,
ruotandogli intorno fino a raggiungere il fianco di Katrina. Le avvolse la vita
con un braccio, un gesto semplice che svelava una certa confidenza
“…Ti
consiglio di valutare bene la prossima mossa.”
Concluse
avvicinando il viso alla chioma di Katrina, inspirando il dolce antico profumo
di tuberosa. Lei non si mosse di un millimetro, tesa per la situazione, ma a
suo agio nella presa del nemico. Morgan sorrise osservando la reazione di Elia
con la coda dell’occhio, godendo della rabbia pura che gli andava dipingendo il
viso. Non troppo inconsciamente sperava che l’altro cedesse alla tentazione e
gli fornisse una buona scusa per scatenare la rissa. Il suo amore per il sangue
non aveva limiti, non gli sarebbe dispiaciuto mandare tutto a monte per lo
scrocchio di ossa rotte sotto le sue nocche anzi, avrebbe volentieri
organizzato una parata per sbattere in faccia ad Elia ciò che gli aveva preso.
Presuntuoso Michaelson.
“Porta
qui quel coglione di tuo padre.”
Elia
non aveva occhi che per lei mentre lentamente tirava fuori il cellulare dalla
tasca. Tutta quella vicinanza tra Pryce e Katrina gli aveva portato alla mente
un’immagine insolita, uno strisciante crotalo adamantino. Cosa non avrebbe dato
per avere una dose del suo veleno da sputare in faccia a Morgan, cosa non
avrebbe dato in quel momento per guardare la sua faccia perfetta decomporsi tra
atroci dolori, lasciandolo dissanguare senza pietà.
“Padre,
ho bisogno di te qui. Vecchio deposito di Lewis. Capannone 19.”
Era
fatta. Con la speranza che William portasse con sé un intero esercito.
Morgan
sorrise di nuovo
“Padre.”
Ripeté
accentuandone il suono per schernirlo
“Dev’essere
alquanto castrante dover ancora sottostare alle regole del vecchio…”
Di
nuovo passò le sue sporche mani tra i boccoli della russa, attorcigliando una
ciocca attorno al dito e premendo il suo corpo contro il fianco di Katrina
“…Non
mi sorprende che tua moglie abbia cercato qualcosa di meglio.”
Colpo
basso. Joseph assisteva alla scena dalla sua postazione, sperando che suo
fratello non abboccasse all’amo. Per quella troia non valeva davvero la pena.
William non si sarebbe mai presentato da solo e le corde attorno ai suoi polsi
iniziavano già ad allentarsi per il lento movimento continuo. Sarebbe arrivato
anche a slogarseli fosse servito ad uscire vivo da lì. Non poteva certo dare la
soddisfazione della sua morte a questi vermi. I suoi occhi si spostarono su
Cara, unica anima nella stanza che non aveva ancora aperto bocca. Era
visibilmente nervosa, rigida come un palo contro la parete. Poteva vederlo
anche da lì, bramava quel finale, bramava l’arrivo di William più di ogni altra
cosa al mondo, del resto di loro non le importava assolutamente nulla,
alimentata dall’adrenalina più che dall’ossigeno.
Il
Lupo si prese un attimo per riflettere, arrivando alla conclusione che quel
misero piano faceva acqua da tutte le parti. Per quanto i gemelli fossero
stupidi, non potevano aspettarsi davvero che William si presentasse da solo ad
un invito inaspettato, benché fosse venuto dal suo figlio preferito. Quattro
contro quattro, un incontro alla pari, solo che… Si guardò di nuovo attorno…
Morgan e Little K non avevano remore né scrupoli, probabilmente erano pronti a
scagliarsi in mezzo a qualsiasi mischia... Cara era una bomba ad orologeria
arrivata all’ultimo minuto di conto alla rovescia, un elemento del tutto inaffidabile…
Katrina d’altro canto… Non che avesse una qual si voglia ammirazione per le
abilità della cognata, ma senz’altro l’effetto sorpresa poteva rivelarsi a loro
vantaggio, lasciando il tempo ad uno degli altri tre di sparare un colpo in
più.
Ma
dov’era Mancini in tutto questo? Non era forse sua l’idea di base di far fuori
William e prole? Possibile che lasciasse organizzare ai suoi soldati un piano
tanto scadente? A meno che… Gli balenò nel cervello l’idea che anche Robert
Mancini fosse lì, attorniato dai migliori cecchini, comodamente seduto da
qualche parte ad aspettare l’istante perfetto per la sua entrata in scena.
Ecco, quello sì sarebbe stato un buon piano. Wiliam poteva aspettarsi parecchie
grane, ma non avrebbe mai pensato che fossero i merli a pestargli i piedi.
Doveva
muovere le mani in fretta, dislocando il pollice dalla sua sede naturale per
liberarsi il più velocemente possibile. Il tutto senza fare alcun rumore, restando
ai margini della scena come fino a quel momento.
“Brucia
vero Michaelson?”
Morgan
non mostrava intenzione d’interrompere la sua tortura, suonando i nervi di Elia
in un ritmo veloce e sguaiato, fatto di sorrisetti ammiccanti e strusciatine
alla sua donna. Katrina restava immobile, forte di una ritrovata sicurezza. Era
anche la sua vendetta dopo tutto.
“Sarà
questa l’ultima scena che ricorderai.”
Aggiunse,
passando volgarmente la lingua sulla guancia della donna, lasciandogli
esclusivamente immaginare quante altre confidenze si fosse preso con la sua
consorte. Elia raggiunse il limite, pur essendo un eccellente freddo
calcolatore, il suo orgoglio ribolliva nero e pastoso come catrame. Era pronto
a scagliare ogni sua arma, pronto a massacrare quell’essere ripugnante. Strinse
i pugni e si piegò su sé stesso in un rapido movimento fluido. Dietro di lui la
canna di una pistola si tese tra le sue scapole, tenuta dritta e ferma tra le
mani della giovane Barbie, l’insignificante biondina che suo fratello aveva
ripescato nell’oceano e che lui avrebbe dovuto uccidere immediatamente. C’era
da ammetterlo, tra tante capacità e specialità cui erano stati addestrati,
proprio nessuno aveva speso una parola con loro sul come comportarsi con le
donne.. Che venisse da lì il pessimo gusto nello sceglierle?
Joseph
piantò gli occhi sulla scena. Non c’era certo da affidarsi all’autocontrollo di
Cara, totalmente sul punto di esplodere non avrebbe pensato due volte prima di
fare secco Elia.
“No!”
Le
urlò, bloccando il suo dito sottile sul grilletto. Cara sussultò appena,
spostando la mira dal maggiore verso il Lupo. Tutta la stanza sembrò tremare,
satura di tensione ed eccitazione. Qualcosa doveva succedere lì dentro.
Cara
inspirò profondamente sollevando appena le ciglia. I suoi grandi occhi blu
oceano sembravano quasi riuscire ad attraversarlo da parte a parte. Aveva
condiviso qualcosa con quell’uomo che tanto odiava, singoli momenti in cui
aveva concesso a piccoli frammenti di sé di venire a galla. Ora le sembrava
quasi di riuscire a sentir qualcosa, qualcosa di simile ad un’emozione vera,
una sensazione che non avrebbe potuto decifrare. Joseph Michaelson era l’unica
persona a cui avesse raccontato la sua storia. Aveva sempre pensato che il
mondo sarebbe crollato se avesse confessato a qualcuno di aver sofferto, di
sentire la mancanza dei suoi genitori come una bimba spaurita ed indifesa…
Eppure il mondo girava ancora, incasinato come sempre.
Una
cosa doveva comunque riconoscergliela, aveva avuto abbastanza umanità e
rispetto da non riderle in faccia. Non le aveva risposto nemmeno, nonostante il
prezzo da pagare fosse la sua stessa vita. Sorprendente.
Cara
sistemò il peso del proprio corpo sulle assi del pavimento allargando
leggermente le gambe e decise che avrebbe sparato. Adesso, lì, senza aspettare
William, senza ripensamenti. Non poteva sopportare un secondo in più di
quell’umano sentire, non poteva tollerare l’idea che il suo subconscio stava
suggerendo.. Non l’avrebbe lasciato vivere. No. Riusciva a renderla debole. Non
l’avrebbe lasciato vivere.
Trattenne
il respiro e strinse la pistola.
Joseph
deglutì. Stava succedendo tutto in un secondo, ma sembrava scorrere come un
film al rallentatore. La sua mano destra stava lentamente scivolando fuori dal
triplo nodo, ma le era comunque troppo lontano, non l’avrebbe mai raggiunta in
tempo.
La
ragazzina dell’aereo si era rivelata la peggior scelta della sua vita. L’unica
buona azione della sua esistenza che gli si ritorceva contro. Che ironia. Tutto
per aver ascoltato uno stomaco ed un cuore che credeva ormai morti da tempo,
fino all’attimo in cui Cara Phillis gli aveva attraversato la vista.
Gli
venne da sorridere ed abbassò lo sguardo.
Solo
allora riuscì a notarlo. Il minuscolo puntino rosso luminoso che tremava appena
addosso a Cara, più o meno all’altezza del suo fegato. Un mirino laser.
Calcolò
in una frazione di secondo l’angolazione e la distanza. Veniva da dietro di
lui, dal piccolo lucernaio che lasciava filtrare una lacrima di sole. Qualcuno
li stava osservando, qualcuno la teneva sotto tiro.
Possibile
che William fosse stato tanto rapido e previdente?
Cara
si accorse del repentino cambio d’espressione ed allentò ancora una volta la
presa sul grilletto, seguendo con gli occhi lo sguardo di Joseph rivolto alle
sue budella.
Puntino
rosso. Immediatamente puntò le pupille al lucernaio, facendo gli stessi calcoli
di Joseph in una frazione di secondo.
“Ma
che…”
Non
finì nemmeno la frase. I suoi muscoli scattarono d’istinto e saltò in avanti, finendo
dritta contro la sedia di Joseph, facendolo cadere e liberandolo dell’ultimo
pezzo di corda senza nemmeno accorgersene.
Il
proiettile diretto al suo fegato espose in un mezzo boato e si conficcò nel
muro, scatenando in un secondo la più inaspettata confusione. William? Mancini?
Un’altra trappola?
Qualcosa
si scagliò contro la porta chiusa della stanza, mettendo in seria difficoltà il
legno della sua struttura. Un tonfo e un altro ancora, accompagnato dallo
scricchiolio del rovere. Le facce di Morgan e Little K confermarono la loro estraneità alla
situazione ed Elia non attese un secondo in più prima di approfittarne. Doveva
trattarsi di William, solo lui avrebbe potuto seguirli fin lì.
Concluse
il movimento iniziato poco prima e dall’interno del calzino sinistro tirò fuori
una specie di capsula metallica. Premuto solo un tasto la lanciò a terra e
l’aggeggio iniziò immediatamente a sputare denso fumo grigiastro dall’odore
pungente. Ne aveva sempre un paio con sé, nascoste nei posti più impensati,
pronto a lasciarle esplodere per sparire dalle situazioni scomode come un
vecchio mago o il ninja di un film di serie b.
A
lui quell’odore non dava alcun fastidio, lasciandogli fiato e vista più a lungo
che ai merli. Si scagliò contro Morgan mollandogli un pugno sul naso ben
assestato, mentre con l’altra mano afferrava l’avambraccio di Katrina in una
stretta presa.
Joseph
riuscì finalmente a tirarsi su, la mano sinistra era ancora intrecciata alla
corda, ma poteva bastargliene una per rubare il coltello di mano a Little K e
concludere l’opera silenziosamente iniziata da Nathaniel. Anche l’altro
fratello balzò in piedi, bloccato nelle sue intenzioni dallo spalancarsi della
porta. Tre tizi incappucciati di nero si gettarono nella stanza coi fucili
puntati, accolti dalla nuvola di grigio ed acre.
Non
è così che vestono i soldati di William.
La
rissa fu inevitabile, seppur inscenata nella semi cecità. Elia voleva solo
uscire dì lì il prima possibile, ma uno degli sconosciuti gli bloccava l’uscita
e probabilmente una sola mano era davvero troppo poco per fermare un
kalashnikov. Poco male, non avrebbe mollato Katrina per nessuna possibile
ragione al mondo, nonostante lei continuasse a graffiargli il polso nel
tentativo di liberarsi.
Nathaniel
mise definitivamente a terra Little K, correndo in aiuto del fratello maggiore
preso a disarmare un altro degli imbucati. Quest’ultimo respinse Joseph con un
calcio, allontanandolo abbastanza da potergli puntare il fucile in fronte. Ci
fu un solo secondo di panico, uno appena prima che Cara sparasse il colpo
decisivo con la sua pistola, dritto nella tempia dello sconosciuto.
Joseph
rimase di sasso. Sbaglio o la ragazza dell’aereo gli aveva appena salvato la
vita?
Cara
puntò l’arma verso l’uscita. Le bruciavano gli occhi e non vedeva molto più che
sagome in movimento, tuttavia doveva fuggire in fretta e quella era la sola via
di fuga possibile. Se avesse preso Elia tanto meglio. Se fosse stata Katrina
bhé, comunque non erano mai state troppo amiche.
Sparò
tre colpi, uno dietro l’altro, guardando cadere la silhouette scomposta del suo
ostacolo. La porta fu libera e tutti, senza distinzione di sesso o fazione, si
precipitarono fuori dalla nuvola. Qualcuno riuscì a passare subito, qualcuno
forse no.
Elia
sbatté contro un corpo duro e gelido appena fuori dalla soglia del capannone
19. Katrina smise di tirare verso la parte opposta.
Pochi
secondi per riabituare gli occhi alla luce e gli fu di colpo chiaro chi fossero
quelle persone. Quel maledetto viso spigoloso.
Dietro
le spalle di Elia Katrina allentò la presa sulla mano che la teneva
prigioniera, il suo tocco non più ostile, ma deciso, come se gli si stesse
aggrappando per sfuggire da un nuovo pericolo, ben più temibile di un
matrimonio fallito.
Fu
proprio lei a parlare per prima
“Oteц.”
Sussurrò
tra i denti.
Oteц,
parola russa che sta per “Padre”.
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Capitolo 11 *** Capitolo XI ***
capXI
CIAO!! Ritardo, ritardassimo!
Vi chiedo di perdonarmi perché stare dietro a tutto mi è ultimamente molto
difficile.. Grazie per aver atteso e scusate se ci sarà qualche errore… se mi
metto a rileggere ancora una volta non pubblico più!
Grazie davvero!!
Martina
///////////
“Oteц.”
Elia mosse un istintivo
passo indietro, mollando lentamente la presa sul braccio di Katrina. Lei avanzò
tremolando, con gli occhi sbarrati e l’espressione di una bimba scoperta a
rubare i biscotti dal vaso sul frigo. Tutta la sua sicurezza, tutta la sua
arroganza e l’insolenza si sgretolarono all’istante, incenerite dagli occhi
scuri e pesanti di suo padre, avvolto in un cappotto nero dal colletto
sollevato. Il vento sembrava soffiargli attorno senza il coraggio di sfiorarlo.
Si gettò sulle ginocchia,
prostrata dinanzi a lui.
Elia la guardò piegarsi su
sé stessa come una foglia accartocciata, con la testa bassa ed i capelli che
sfioravano l’asfalto. Quella rapida caduta era più di quanto avesse mai visto
di sua moglie.
“Perdonami padre.”
Le uscì un filo di voce ed
Elia socchiuse le labbra. Era davvero tanto terrorizzata o semplicemente una
grande attrice?
Valdijmir abbassò lo sguardo
sulla figlia, serio e muto come una tomba. Analizzò la sua figura interamente e
si sentì disgustato dal suo aspetto volgare, dagli abiti da prostituta,
dall’uomo che si portava dietro. Mosse un solo passo, allungando la pallida
mano per sollevarle il mento. Incredibilmente riuscì a farsi più cupo di quanto
già non fosse, ulteriormente offeso dal trucco pesante sul viso della sua
bambina, educata con sforzo e pugno fermo come degna erede del suo impero, protetta
come una novizia fino all’ultimo momento.
Col dorso della mano destra
le tirò uno schiaffo in viso, tanto forte e tonante da farle perdere
l’equilibrio. Elia sobbalzò contro la propria volontà nel vederla crollare sui
palmi, ignorando totalmente il cellulare che aveva preso a vibrare nel taschino
interno della giacca.
L’atmosfera cambiò in un
solo istante. Vladijmir si avvicinò di nuovo a Katrina, stavolta sciolto nei
suoi movimenti. Si abbassò alla sua altezza ed afferrandola piano per le spalle
la sollevò per stringerla in un abbraccio. Una stretta rigida, muta, ma pur
sempre paterna.
“пpoctиtе mehя oteц.”
Lo pregò di nuovo, stavolta
nella loro lingua, ricercando un’ulteriore intimità cui, chiaramente, non erano
soliti.
“ты moя kpobь.”
Rispose lui tornando dritto
davanti alla figlia. Elia doveva ammetterlo, non era mai stato un brillante
studente di russo, ma gli arrivò chiara alle orecchie la parola “sangue”, il
liquido rosso che scorre nelle vene, che pompa nel cuore e che conserva
l’eredità degli antenati. Per persone come loro il sangue è il più forte dei
legami, un vincolo che nulla può spezzare, nemmeno l’alto tradimento.
Fu solo allora che il
magnate sovietico si rivolse a lui, dopo aver ridato a Katrina il posto che le
spettava di diritto, la sua destra.
“Sei un uomo morto Elia
Michaelson.”
Cadde il silenzio, venuto
giù col macigno di quella sentenza. A far da unico sottofondo il cupo bzzzzz
che continuava a vibrare contro il petto di Elia.
//////////
Joseph stava correndo,
sentendosi come se stesse correndo per la sua stessa vita. Più i suoi piedi
battevano sul cemento, più le sue anche ruotavano, più forte sentiva ogni segno di stanchezza e
fatica lanciato dal suo corpo. L’aria fresca gli penetrava le narici tagliando
come lame nel petto, la gola era ormai secca, ma i suoi occhi continuavano
imperterriti a seguire la sagoma saltellante di Nathaniel poco avanti a lui.
Sentiva i passi veloci del
fratello, mischiati al suono dell’aria tagliata dal suo corpo e ai lontani
rumori della città. Dietro di sé tutto sembrava arrivare più attutito. Avrebbe
voluto esser certo che Elia stesse tenendo il suo passo a poca distanza, ma
voltarsi sarebbe stata una perdita di secondi ed energie non necessaria. Tese
appena l’orecchio ricercando il tonfo secco delle scarpe toscane di Elia sul
concreto, ma riuscì a captare solamente il rapido picchiettio di passi ben più
corti e ravvicinati. Tacchi di donna, tacchi spessi e suole di gomma, non certo
gli stiletti di Katrina.
Cara.
La scena di poco prima si
ripropose nel retro dei suoi occhi. La sua materia grigia sarebbe schizzata
dappertutto non fosse stato per l’intervento della ragazzina. La precisione del colpo alla tempia non
lasciava dubbi, aveva mirato dritto con lo scopo di uccidere. Non era stato un
caso. Sì, ma perché?
Con l’irritante
consapevolezza di non saper capire, senza il tempo né la voglia di arrovellarsi
il cervello, pressoché sicuro che dopo quell’esperienza avrebbe tenuto a debita
distanza Cara Phillis e qualsiasi altra sconosciuta al mondo, Joseph cambiò
bruscamente direzione, trovando riparo tra pile di casse e pallet.
Si prese il tempo di
respirare a pieni polmoni mentre ascoltava il ticchettio farsi più vicino.
Barbie avrebbe dovuto scegliere scarpe diverse se sperava di passare inosservata. Non appena sentì che
le stava per sfilare vicino allungò il braccio, tendendo i muscoli perché le
sembrasse di impattare contro un muro di pietra.
////////////
Cara si sentiva il cuore
nelle orecchie. Le sue gambe avanzavano da sole, i suoi capelli andavano
annodandosi nel vento polveroso del deposito di Lewis. Tutto a monte. Un’altra
volta tutto da rifare. Se si fosse fermata in quel momento di certo avrebbe vomitato,
ne era sicura. Tutta la rabbia e tutta la tensione sarebbero venute dritte fuori
dal suo stomaco.
Fu come un colpo secco
contro il diaframma. All’improvviso le sembrò di perdere il fiato e la nozione
dello spazio, come se si fosse spiaccicata sull’asfalto. Un secondo prima di
chiudere gli occhi fu certa di non aver davanti niente più dell’orizzonte.
Qualcosa l’afferrò alla vita, spostando il suo peso dalla strada e
schiantandola nell’angolo più lontano di quello spazio angusto, tra casse e
scatoloni.
Tornò a respirare tirandosi
su, ignorando totalmente il dolore all’osso sacro sbattuto sul cemento.
“Non così in fretta.”
Riconobbe quella voce
all’istante, prendendosi tutto il tempo necessario per sollevare il viso.
Joseph la guardava dall’alto, gambe leggermente divaricate e l’aspetto più
stravolto che gli avesse mai visto addosso.
“Che vuoi?”
Sputò tirandosi su, mettendo
il piede sinistro avanti all’altro in un’istintiva posizione di difesa. Joseph
si mosse lentamente, avanzando a passi silenziosi e con la mascella serrata,
costretto ad abbassare il mento per tenere gli occhi alla sua altezza. Cara non
si mosse di un millimetro, aguzzando lo sguardo contro il suo. Labbra e pugni
stretti.
Non era cosa nuova la
vicinanza tra loro, fosse per strusciarsi l’uno contro l’altro o cercare di
strapparsi le carotidi a morsi. Probabilmente era questa la ragione per cui
nessuno dei due sembrava troppo sulle spine. Cara conosceva ormai a memoria le
tre rughe che si stringevano sulla fronte di lui quand’era arrabbiato e non le
facevano più alcuna paura.
“Mi hai salvato la vita.”
La ragazzina non riuscì a
trattenere un sorriso mentre abbassava il viso. Non uno vero, bensì la smorfia
di un paio di secondi, sarcastica e lievemente offensiva. Stava ridendo di lui.
Joseph strinse i pugni ancor più forte sentendo la pressione salire al cervello.
Questo era un lusso che davvero nessuno poteva permettersi.
La spinse indietro con un
gesto deciso, di nuovo contro un muro, di nuovo con poca grazia.
“L’hai fatto.”
Ribadì con un tono ben più
deciso, pronto a scattare qualora quell’irritante espressione fosse comparsa
ancora una volta.
Cara rimase seria
“Perché mai avrei dovuto?”
Quella scintilla di sdegno
nei suoi occhi gli riportò alla mente un’altra scena che avevano già vissuto.
Le sue insuperabili doti d’attrice.
“Non lo so…”
Intavolò la sua risposta
facendosi nuovamente avanti, forte della mancanza di vie d’uscita da quel buco.
“…Perché ti piaccio forse?”
Riuscì a dirlo senza
sorridere, consapevole che in un modo o nell’altro stava citando le sue stesse
parole. Rimase con gli occhi dritti in quelli di lei, aspettandosi la risata
fatale che avrebbe liberato il suo animale interiore. Cara mantenne lo sguardo
fermo, ma le sue palpebre si chiusero ed aprirono velocemente.
Tese le braccia lungo i
fianchi e piano scosse la testa
“No…”
Si sollevò sulle punte
perché gli fosse chiaro
“…E’ perché ti odio…”
Parlò tra i denti,
rimarcando quanto stesse stretta in quella perfetta circostanza
“…E sarò solamente io ad
ammazzarti.”
Joseph si accorse solo
allora del proprio respiro che andava stabilizzandosi, mentre il petto della
ragazzina si muoveva su e giù all’impazzata. Stava affondando le dita in una
ferita piuttosto fastidiosa. Si leccò le labbra muovendo gli occhi da una pupilla
all’altra, addolcì volutamente il tono
“Sai…”
Le respirò in viso
“…L’odio è quasi sempre
l’inizio di una storia d’amore.”
Cara scattò immediatamente,
piantandogli un gomito in bocca perché si rimangiasse all’istante quelle parole
assurde. Non gli avrebbe permesso di prenderla in giro come un’idiota. Se
voleva una dimostrazione dei suoi sentimenti tanto meglio.
Joseph indietreggiò per
nulla sorpreso. Erano infinitamente simili dopo tutto. La sola idea di provare una
qualche emozione scatenava in loro una specie di reazione immunitaria, mettendo
in allarme ogni cellula dell’organismo.
L’amore rende deboli, così è
stato loro insegnato.
Distruggi tutto ciò che ti
minaccia, ma ancor prima distruggi tutto ciò potresti mai amare.
Riuscì a fermare un altro
pugno prima che gli arrivasse allo zigomo, bloccando la mano di Cara nella
propria. Il codice morale gli impediva di picchiare le donne, ma stavolta
avrebbe forse potuto fare un’eccezione. Per la terza volta la scaraventò contro
il cemento con uno spintone deciso.
Lei balzò in piedi e gli
caricò contro, spingendo sulle gambe per fargli più male possibile. Joseph
intercettò il colpo e riuscì a scansare il suo piede prima che gli arrivasse
agli stinchi. La ragazzina non si stava affatto impegnando. Prendendola per il
polso e la spalla, la costrinse ad una rotazione del busto e per l’ennesima
volta la spinse all’angolo
“Troppo lenta.”
Le suggerì, bloccando il
ginocchio che mirava alle sue parti basse
“Troppo prevedibile.”
Aggiunse. Cara tornò a
guardarlo negli occhi prendendo un lungo respiro, la rabbia stava offuscando le
sue capacità. Mosse lo sguardo rendendosi conto solo in quel momento dei pochi
centimetri tra la faccia del lupo e la sua. Poco più in basso i loro corpi si
toccavano già e lei, fino a quell’istante, non se n’era accorta, come se per la
sua epidermide ed il suo subconscio fosse una cosa del tutto accettabile.
Ingoiò quel momento
“Troppo vicino.”
Ribatté trovando finalmente
la forza di spingerlo via. Un pugno nello stomaco ben assestato e riuscì a passare
dall’altro lato dello spazio, libera di fuggire verso il nulla. Joseph tuttavia
non sembrava dello stesso avviso, pochi secondi gli erano bastati per tornare
alle sue calcagna.
“Jo!”
L’urlo arrivava da di
fronte. Cara mise a fuoco ed individuò il minore dei Michaelson che si muoveva
nella loro direzione. Con la coda dell’occhio si accorse che Joseph aveva
rallentato e ne approfittò per voltare verso destra e sparire una volta per
tutte.
“Joseph! C’è una macchina che ci aspetta, corri!”
Gli suggerì Nathaniel con un
gesto della mano e lui, per qualche secondo ancora, rimase indeciso su quale
direzione seguire. Alla fine optò per il dritto e seguì suo fratello verso il
SUV scuro. Forse non l’avrebbe più vista. Forse, nella più rosea delle ipotesi,
la ragazza dell’aereo sarebbe rimasta solo un dolce ricordo amaro, una
manipolatrice bastarda che gli aveva momentaneamente incasinato il cervello.
Già, momentaneamente, poiché era più che deciso a dimenticare, sia il suo viso
che gli inaccettabili pensieri ispirati dalla sua pelle candida e dalla sua
arroganza. Cara Phillips, una psicopatica, un mix esplosivo di almeno tre
diverse personalità, tutte ugualmente incasinate: un soldato assassino al
servizio di Mancini, una bimba mai cresciuta, triste per la morte dei genitori,
un’innocente cameriera fasulla, in una vita fasulla, recitata senza arte né
parte. Una trappola, una trappola dai lunghi capelli biondi.
“Ancora dietro a quella
troia?”
Joseph si era meccanicamente
seduto sul sedile di pelle ed aveva sbattuto lo sportello, tenendosi alla
maniglia mentre l’auto partiva a tutto gas. Nathaniel lo guardava incerto,
visibilmente irritato, quasi incredulo.
“Ho un conto in sospeso con
lei.”
“Abbiamo…”
Lo corresse l’altro cercando
di guardarsi nello specchietto retrovisore
“…Taglierò la gola a lei e a
tutti gli altri, compresa la russa.”
Sottolineò mentre passava il
dito sui lividi che aveva in viso, sentendo la rabbia ribollire ulteriormente.
Joseph drizzò la schiena
“Dov’è Elia?”
Guardò dietro l’auto e
nessuno li stava seguendo. Ripensò di non aver mai visto il fratello corrergli
appresso. Un brivido lo attraversò da capo a piedi.
“Avrà preso un’altra strada.
Il vecchio ha mandato più di una macchina.”
La risposta non servì a
farlo rilassare
“Ha mandato più di una macchina.”
Ripeté tra i denti con tono
sarcastico. Ovviamente lui non ha mosso
il culo dalla sua preziosa poltrona.
“Dammi il tuo telefono.”
Si rivolse all’autista del
SUV che li stava sparando a tutta verso casa. Quello gli ubbidì senza fiatare e
Joseph compose il numero. Squilli a vuoto. Se non altro stava squillando. Spinse
di nuovo il pollice sul tastino verde. Ancora squilli a vuoto.
//////////
Elia rimase immobile. Negli
ultimi due anni della sua vita aveva sentito quelle parole almeno un centinaio di
volte. Pushkin l’aveva accusato di aver ucciso sua figlia, di averla fatta
sparire, di non aver saputo proteggerla… Perfino di averla venduta come una
schiava per riuscire ad infilare un piede nel mercato mediorientale del
petrolio. Per la prima volta non gli sarebbero servite arringhe difensive,
l’unica prova che poteva scagionarlo era lì, in piedi accanto a loro.
“Katrina è qui. In salute
nondimeno.”
Ribatté con un cenno della
mano destra a sottolinearne l’ovvietà. L’altro si leccò le labbra
“Tua famiglia rovina tutto
ciò che tocca.”
Poteva dargli torto dopo
tutto? Una madre morta e depressa, una moglie fuggita, un fratello a marcire in
galera ed altri due abbandonati a loro stessi, un padre tiranno ed un esercito
di persone asservite e terrorizzate. Tutti con lo stesso futuro segnato.
“Guardala…”
Pushkin guidò gli occhi di
Elia verso la figlia. Due sole lacrime cadute le segnavano il viso di nero, ma
lì dove Vladijmir vedeva solo immoralità e delusione, lui continuava a vedere
la bellissima donna che aveva scaldato il suo letto. Quant’era ancora chiaro
nella sua testa il ricordo di quel calore.
Com’era stato strano, seppur sorprendente, sentire quella sensazione
lottare contro l’abitudine al gelo, il freddo che aveva patito da bambino tutte
le volte che un temporale o un brutto sogno l’avevano spinto fino alla stanza
dei suoi. “Non essere codardo William. Torna
subito in camera tua!” Così diceva suo padre.
Ed Elia Michaelson non era
certo un codardo.
“…Tu hai fatto questo di mia
figlia!”
Il suo tono si era sollevato
di colpo, la sua ultima frase quasi un urlo. I preliminari erano ufficialmente
conclusi.
Del tutto inattesa la sua
discendente ruppe il proprio voto di silenzio
“No padre…”
Poggiò lenta una mano sulla
spalla del più anziano
“…Non è stato Elia.”
Pushkin la guardò senza
muovere un muscolo in viso, impietrito davanti alla figlia così apertamente
disdegnata.
“Io sono scappata.”
Concluse sottolineando il
soggetto, in attesa di un altro schiaffo meritato. Tutti gli sforzi, tutto il
mistero, un’intera guerra messa in piedi solo ed esclusivamente a causa sua.
Elia sollevò le dita, ma
solo per chiudere un bottone della giacca. Pushkin meritava l’espressione
inebetita che adesso campeggiava sul suo viso spigoloso. Chi è causa del suo
mal pianga sé stesso.
Per quale strana ragione
Katrina avesse deciso proprio in quel momento di sputare finalmente la verità? Non
voleva nemmeno chiederserlo.
////////
“Dov’è vostro fratello?”
Domandò William guardandoli
entrare nello studio con la coda dell’occhio, la sua attenzione rivolta al
distruggidocumenti che ingoiava, una alla volta, le prove dell’ultimo appalto
truccato.
“Speravamo fosse già qui.”
Rispose Nathaniel senza
aggiungere altro. William infilò un sottile foglio rosa nella fessura e rimase
a fissarlo mentre la macchina lo divorava.
“Andate a darvi una
ripulita. Puzzate come animali.”
Ordinò lasciando cadere la
questione, quasi non avesse alcuna importanza.
Joseph sbatté i palmi sulla
scrivania richiamando la sua considerazione
“Maledetto bastardo!”
Era stanco, furioso e
preoccupato, ma di sicuro non provava vergogna per il pensiero che voleva
uscirgli di bocca. Se William fosse andato al deposito ed i merli l’avessero
fatto a pezzi, lui avrebbe brindato assieme a loro col miglior champagne in
circolazione.
“Tieni a freno la lingua
Joseph…” Ribatté l’altro con tono calmo ed un’occhiata di sufficienza “…Tuo
fratello sa badare a sé stesso.”
“E’ sempre e solo colpa
tua.”
Rispose. Il tono più pacato,
ma il disprezzo sempre più evidente. Se fosse successo qualcosa ad Elia… Se
fosse successo qualcosa ad Elia mentre il suo surrogato di padre si compiaceva
del proprio riflesso nel bicchiere di bourbon, allora bhé, avrebbe fatto lui
stesso un favore ai merli, ai russi e probabilmente all’intera umanità.
“C’è Mancini dietro tutto
questo, non Pushkin.”
Nathaniel decise di
intromettersi, seppur inopportuno, cercando di contenere il fratello. Da come
pulsava freneticamente la vena della sua tempia sinistra, mancava davvero poco
perché esplodesse.
William sorrise con
apparente gusto mentre sfregava i palmi sul panciotto. Si avvicinò al minore
dei suoi figli, sangue del suo sangue, e finse d’osservare con apprensione il
grosso taglio che occupava la sua guancia
“Devi farti sistemare
figliolo…”
Con una pacca sulla spalla
lo spinse impercettibilmente verso la porta dello studio
“…Non vorrai certo rovinarti
la faccia. Sei quello che mi somiglia di più qui dentro.”
Ed era vero. I lineamenti di
Nate ricordavano in maniera evidente quelli di suo padre alla sua età e
sicuramente William godeva nel vederlo orgoglioso, ambizioso, al limite del
superbo, così come avrebbe voluto che fossero tutti i frutti dei suoi lombi.
Il minore lanciò un occhiata
non corrisposta a Joseph. Non era certo fosse una decisione saggia lasciarli
soli, ma il sottile invito di suo padre era, come sempre, nulla più che
un’imposizione. Annuendo in silenzio prese la porta.
“Quanto a noi…”
Riprese accarezzando la
folta barba che gli copriva il mento
“…Se non fossi l’incapace che
sei Joseph, sapresti che Robert si trova in Belgio in questo momento. A Mortsel
precisamente…”
Gli rivolse un sospiro di
sufficienza
“…E sapresti anche, che dopo
l’ultima volta vige tra noi un mutuo tacito accordo di rispetto. Almeno finché
gli lasceremo campo libero giù al confine.”
Un accordo? Joseph non era a
conoscenza di un simile patto e ad ogni modo non credeva nemmeno un po’ alla
buonafede dell’italoamericano. Aveva vissuto per trentadue anni accanto ad un
uomo come Mancini e proprio da William aveva imparato, suo malgrado, quanto
poco vale la parola di un capo se i termini dell’ accordo non si firmano col
sangue.
“E tu ci credi? I gemelli
Pryce erano lì e Kat…”
William tornò a dedicarsi
all’alcool per qualche istante
“Io non credo. Io so.”
Lo interruppe prima di
scuotere il capo con fare quasi giocoso. Joseph inspirò profondamente al centro
della stanza, i suoi nervi stavano per esser messi a dura prova
“La tua ingenuità è
disarmante figlio mio…”
Non passò inosservato il
modo in cui quella parola rotolava giù dalla sua lingua, solo per schernirlo
“…Davvero credi che io non
sappia tutto quello che stai per dire?”
Volò l’ennesimo sguardo di
sfida reciproca
“Ho mandato degli uomini ad
indagare, sperando che facciano un lavoro migliore del vostro.. ma posso già
assicurarti che Mancini non c’entra niente col piccolo eccesso di zelo dei suoi
leccapiedi.”
Joseph aguzzò lo sguardo
mirando ad un punto qualsiasi sulla parete opposta, non che stesse davvero
concentrandosi su quel che aveva davanti. Se Mancini non era il mandante di
quella sciarada, allora si trattava davvero di una maldestra vendetta personale
o forse sarebbe meglio dire una doppia vendetta, vista lo concomitante presenza
di Cara e Katrina. Quanto ai gemelli invece, probabilmente era bastato che
tutt’e due si sfilassero le mutandine per far loro accettare di buon grado
l’ammutinamento.
Le donne, che brutta razza!
Il commento gli venne spontaneo, cosa mai non riuscirebbe ad ottenere una donna
con un bel culo e grandi occhi blu? Proprio lui era stato il primo a cascarci
come un idiota.
“Quanto a Katrina…”
Riprese il vecchio
recuperando il suo interesse
“…Credo che William abbia ben
capito come dovrà comportarsi con lei d’ora in poi.”
D’ora in poi? D’ora in poi?!
Non erano abbastanza tutti i casini che quella troia aveva già procurato?
Pretendeva forse che Elia se la riprendesse?
Quasi fosse riuscito a
leggergli nel pensiero William senior precisò
“E la sua ricomparsa ci
toglierà finalmente Vladijmir dai piedi.”
Una lampadina si accese nel cervello
di Joseph. Ecco chi aveva mandato quei sicari al deposito, ecco la ragione per
cui, nonostante i kalashnikov alla mano, non avevano sparato. Pushkin non aveva
mai smesso di seguirli e sapeva che sua figlia era in quella stanza.
Un brivido all’adrenalina lo
mise in allarme
“Se Pushkin ha preso Elia
potrebbe…”
William lo zittì con un
cenno della mano, quasi stesse dicendo la più insignificante stupidaggine
“Come ho già detto pocanzi,
tuo fratello è in grado di badare a sé stesso.”
Quel tono indifferente fece
saltare Joseph sul posto, strinse i pugni e si rivolse a suo padre con lo
stesso sdegno dovuto al più insignificante servitore
“Se succede qualcosa ad Elia
io giuro che ti…”
William drizzò la schiena ed
arruffò le piume come un pavone irritato, gelando Joseph con una sola occhiata
“Ti consiglio di ponderare
la tua prossima scelta di parole Joseph…”
Una specie di ghigno gli
comparve in volto
“…Da che tua madre è morta
non ho più alcun obbligo verso di te, anzi… forse dovrei decidermi a
schiacciarti come l’insetto che sei.”
Il tono monocorde era una
delle armi che avevano reso William quello che era. Sembrava non provare più nulla,
in nessun momento. I suoi nemici lo trovavano terrificante. Joseph d’altra
parte, era più che abituato al suo disprezzo e sebbene non fosse riuscito a
finire la frase, l’intenzione restava la stessa. Qualora Pushkin avesse anche
solo torto un capello a suo fratello, William si sarebbe ritrovato coi suoi
stessi occhi in bocca.
Joseph allargò le braccia
“Perché sono ancora qui
allora?”
Domanda velatamente ironica,
ma a dirla tutta se l’era sinceramente chiesto parecchie volte. William sembrò
cambiare d’umore, tornando ad essere il genitore orgoglioso dei suoi soldati
col perenne ghigno in faccia
“Perché devo ammetterlo
figlio…”
Di nuovo quella parola fuori
posto, di nuovo quella cadenza. Si allontanò tornando alla scrivania dove
un’altra pila di documenti lo attendeva
“…Tu sei un artista coi
coltelli, così come tuo padre lo era coi pennelli.”
Lasciò cadere quella frase
così, tra un foglio e l’altro, come non avesse detto nulla d’importante. Joseph
si gelò all’istante, completamente travolto da emozioni contrastanti. Suo
padre, il suo vero padre, un pensiero che raramente gli attraversava il
cervello, un’ombra nella sua vita che odiava di cuore, quasi quanto il
rimpiazzo senza coscienza che ora aveva di fronte.
Il suo nome era Stig, un
pittore svedese che sua madre Amelia aveva conosciuto a Londra durante una
mostra. Una relazione proibita durata un paio di mesi, giusto il tempo
necessario per mettere in cantiere la sua inutile esistenza. Detestava William
per averlo ucciso a sangue freddo dopo l’infausta scoperta, ma ancor più
disprezzava quell’altro per non aver lottato, per non averli portati via da
Londra e dai maledetti Michaelson. Forse semplicemente non gli importava nulla
di sua madre, tantomeno di lui.
Eccola di nuovo, quella
terribile rabbia che gli caricava dentro e gli formicolava nelle mani. William
non si lasciò sfuggire la scintilla nei suoi occhi, fiero di essere
perfettamente riuscito nell’intento desiderato. Piegò un foglio tra le dita e
se lo infilò nel taschino della giacca
“A proposito di coltelli…
Dick Moreau, sulla Orchard Road.. Non ha pagato questo mese.”
Joseph annuì benché
sembrasse totalmente calato in altri pensieri. Uccidere Moreau o chiunque
altro, solo questo gli serviva adesso. Dopo tutto lui era il Lupo e come tale
doveva tornare a comportarsi.
Si sentì una mano poggiata
sulla spalla
“Fa’ questo favore al tuo
vecchio e poi va’ pure a cercare Elia se vuoi.”
A scopo raggiunto il tono di
William si era ingentilito e sul suo viso campeggiava un mezzo sorriso di
soddisfazione.
/////////
Cara entrò nella stanza 7b
del motel François nettamente in ritardo e visibilmente stremata. Neanche
s’aspettava che dopo quell’epico fallimento Morgan le facesse recapitare un
messaggio per dirle dove s’erano nascosti. Tra i merli solitamente non funziona
così, se uno resta indietro gli altri se ne fregano alla grande.
La camera puzzava di vecchio
e di stantio, mentre le pareti a righe avranno avuto almeno quarant’anni, se
non altro a giudicare dagli strappi della tappezzeria. L’arredamento nel
complesso non era male, soprattutto il tavolino shabby-chic che faceva bella
mostra delle sue gambe storte accanto al minifrigo degli anni ’80.
Era riuscita a sentire i
lamenti di Little K già fuori dalla porta e adesso eccolo lì, con le gambe
stese e la schiena poggiata alla testiera del letto, sudato fradicio e con un
asciugamano insanguinato spinto contro il fianco.
“Quel figlio di puttana mi ha accoltellato!”
Precisò davanti allo sguardo
perplesso di Cara. Morgan li raggiunse poggiando una mano sulla spalle di lei e
porgendo al fratello una birra gelata.
“Non preoccuparti. L’ho già
rattoppato per bene… E tu smettila di lamentarti come una femminuccia!”
Preoccuparsi? Non si sarebbe
certo strappata i capelli se Little K avesse perso un rene o un paio dei suoi
sette metri d’intestino.
“Vieni qui Barbie...”
Il gemello ferito richiamò
la sua attenzione e Cara, senza ancor dire una parola, si avvicinò al letto.
Little K allungò una mano umidiccia e cercò la sua, stringendola come nel più
naturale dei gesti. Gli occhi di Cara caddero dritti su quell’unione di dita e
a stento trattenne il bisogno di ritirare il braccio il più in fretta
possibile. Certo, lui era un bel ragazzo, con grandi occhi verdi e pettorali
scolpiti, e lei c’andava a letto di tanto in tanto, ma questo non li rendeva
certo una coppia o qualcosa del genere.
“…Ho davvero bisogno di un
po’ di conforto...”
Da come aveva stressato la
parola sarebbe stato chiaro perfino ad una monaca di clausura che col termine
“conforto” non intendeva certo abbracci e carezze. Cara sollevò il sopracciglio
in un arco perfetto, la sola idea di prenderglielo in bocca in quelle
condizioni la faceva vomitare. Senza contare che non se l’era guadagnato
comunque, dato il fallimento palese del piano.
Inspirò. A pensarci bene, ultimamente
anche il solo guardarlo la faceva vomitare.
“…Me lo merito dopo quello
che mi ha fatto il tuo amico.”
Continuò a perorare la sua
causa mollandole la mano per indicare la profonda ferita al fianco destro, i
due gonfi lembi di pelle tenuti insieme da una cucitura maldestra e sangue
secco tutt’attorno.
“Fammi vedere.”
Finalmente Cara parlò,
cogliendo al volo l’occasione per cambiare argomento. Senza preoccuparsi troppo
dei suoi lamenti, spinse le mani gelide sulla pancia del ragazzo e testò quanto
il lavoro di Morgan, improvvisato con filo da sarta ed un ago bruciato con
l’accendino, potesse tenere.
Una gran bella ferita,
Little K avrebbe dovuto ritenersi fortunato di non essere finito a far terra
per i vermi. Di nuovo passò le dita sul taglio. Era opera del Lupo dopo tutto.
Le tornò immediatamente in
mente l’ultima conversazione al deposito. Avrebbe dovuto spaccargli i denti per
la sua arroganza. Credeva di piacerle il pallone gonfiato. Avrebbe mai sentito
qualcosa di più ridicolo?
“Lo ucciderò quel coglione.”
Concluse lui immaginandosi
la scena sul soffitto e Cara sospirò tornando dritta accanto al letto. Scosse
la testa, ma non sentì in bisogno di intavolare una conversazione con Little K
sull’argomento. Ammazzarlo era una soddisfazione che spettava a lei, a lei
soltanto. Senza degnare il gemello d’ulteriore nota indirizzò i passi stanchi
verso il bagno
“Dove vai adesso?”
Si lamentò Little K ancora
una volta, allungando il labbro inferiore come un bambino. Cara tirò dritto
verso la sua meta.
//////////
“Ti prego! Ti prego basta!
Pagherò! Giuro che pagherò!”
Ormai dalla sua bocca veniva
fuori una soluzione continua di suppliche e promesse, impastate tra saliva,
sudore, lacrime e paura. Era diventato difficile capire cosa stesse dicendo, ma
comunque a Joseph non importava più. Se si fosse fermato in quell’istante, il
magro signore dalla pelle olivastra e dalla barba incolta, avrebbe di certo
tirato fuori dalla cassa il doppio dei soldi pur di salvarsi la pelle. Tuttavia
al Lupo non interessava portare a casa quei quattromila dollari, lui era lì per
un solo motivo, tornare a godersi la magia di una morte qualsiasi. Per questo
motivo era nel retro di quel negozio da quasi un’ora, godendosi l’attrito tra
la punta del suo pugnale e la pelle di Moreau.
“Ti supplico… Ho dei figli…
Dei nipoti…”
Ora stava piangendo, cosa
che un uomo non dovrebbe mai fare. Giusto Joseph? Poco importa che tua madre
sia morta da un giorno all’altro o che le uniche due persone a cui tieni
davvero si stiano trasformando sempre più nel padre che odi. Poco importa che
tu di figli non ne avrai mai, tanto meno nipoti. E come potresti? Serve una
donna per quello, servono amore, rispetto, pazienza, responsabilità. Quale
donna al mondo potrebbe mai amare un mostro come te? Quale donna potrebbe mai
capire?
L’immagine di Cara gli passò
davanti agli occhi come un flash. Sociopatica, sola, arrabbiata. Disperata.
Scosse la testa ed ammazzò
quel pensiero, senza nemmeno rendersi conto che nello stesso istante aveva
spinto il coltello dritto nel petto dell’uomo dinanzi a lui. Lo sfortunato
inadempiente Moreau gli boccheggiava davanti, cercando di afferrare le ultime
gocce d’ossigeno della sua esistenza. Joseph mollò la presa e fece un passo
indietro restando a guardare.
Quello era il momento,
l’unico istante in cui finalmente aveva il controllo. Poteva decidere se finire
le sofferenze di quel disgraziato o lasciarlo in agonia fino all’ultimo. Teneva
la sua vita tra le mani, la sola cosa al mondo che potesse controllare.
Tutto il resto gli scorreva
attorno senza poter essere fermato, William per primo. Eppure, anche se un
benaugurato giorno il capofamiglia si fosse tolto di mezzo, ci sarebbero
comunque stati i suoi fratelli. Non avrebbe mai abbandonato Elia, senza il suo continuo
cinismo e le iniezioni di buonsenso sarebbe potuto diventare uno zerbino al
servizio di Katrina in men che non si dica… Per non parlare di Nathaniel, la
sua mancanza di limiti e congenita immaturità gli avrebbero riservato nulla più
che il posto d’onore in un penitenziario di massima sicurezza.
Moreau rantolò un’ultima
volta e venne giù, sbattendo il viso sul pavimento polveroso. Joseph sospirò
quasi deluso, preso dai suoi mille pensieri si era perso il momento migliore,
l’esatto istante in cui la vita abbandona il corpo e sparisce in un gelido soffio.
Guardò dall’alto la sua ultima vittima e quasi sbuffò, ripulire la scena è
senza dubbio la parte più noiosa. Si abbassò sulle ginocchia e rivoltò il corpo
del povero cristo, imbrattando le proprie mani nel denso liquido carminio.
Era già sul punto di
trascinarlo via quando il suo telefono prese a squillare. Lasciò andare le
gambe molli del cadavere e si pulì le mani sulla maglietta senza troppe
cerimonie. Sul display lampeggiava un ID sconosciuto.
“Pronto?”
Esordì con tono minaccioso,
non era certo un buon momento per importunarlo.
“Fratello.”
Joseph raddrizzò la schiena
“Elia. Dove sei? Stai bene?”
Elia inspirò guardandosi
attorno, al centro di quella grande stanza con le tende di velluto rosso ed il camino
acceso.
“Sto bene.”
“Dove sei?”
“Nella Grand Suite di un
hotel a cinque stelle.”
Joseph aggrottò le
sopracciglia
“Di che diavolo stai
parlando?”
Elia passò la mano libera
sul collo della giacca e rivolse lo sguardo alla porta, attirato dal chiaro rumore
di un’altra presenza in arrivo
“Il caro Vladijmir mi ha
offerto la sua ospitalità.”
Rispose, celando il chiaro
sarcasmo con tono sereno, pur potendo immaginare l’espressione nervosa e
contrariata del fratello
“Mi prendi in giro? Se quel
bastardo ti…”
“Sto bene Joseph…”
Lo interruppe l’altro con
decisione
“…Io e Pushkin abbiamo delle
cose da chiarire. Farò ritorno presto.”
Tra quelle tre parole
Katrina comparve sulla soglia dell’attico, il viso lindo e le curve del suo
corpo opportunamente nascoste sotto un abito di cotone bordeaux. A dispetto
dell’apparenza pulita, la sua espressione restava un misto di sfida, seduzione
e ripugnanza. L’inganno era chiaro, nonostante i lampadari di cristallo, i
tappeti orientali e l’intenso profumo di pot-pourri, quelle mura segnavano i
confini di una prigione.
“Dimmi dove sei Elia. Vengo
immediatamente.”
Il tono determinato non
servì allo scopo. Elia interruppe la conversazione lasciando Joseph in un nuovo
stato di rabbia ed inutilità. Se Moreau non fosse già morto avrebbe certo
sofferto il doppio delle pene a questo punto.
//////////
Katrina avanzò in silenzio
con la mano destra tesa in avanti, nella chiara attesa di vedersi restituire il
telefono. Elia assecondò la richiesta.
Nel vederla voltargli le
spalle e dirigersi nuovamente verso la porta non riuscì però a frenare la
lingua
“Hai avuto la tua
occasione.”
Katrina fermò il piede a
mezz’aria e lentamente lo riportò giù, voltando il busto verso di lui. Sollevò
le sopracciglia come a chiedere di spiegarsi meglio. Elia avanzò di un passo
soltanto
“Potevi farmi uccidere da
tuo padre, avresti comunque raggiunto metà del tuo scopo... Perché mi reggo
ancora in piedi?”
Lei allineò torso e gambe
rivolgendogli ora la sua piena figura. Stava resistendo all’urgenza di
arricciare le labbra, il che lasciava trasparire la sua rabbia malcelata.
Rimase in silenzio per un tempo difficile da calcolare.
“Perché sei scappata da me?”
Ecco, finalmente le sue
labbra l’avevano chiesto.
Katrina strinse i pugni e
poi abbassò gli occhi scuotendo lentamente la testa. Elia temette, nel più
inverosimile dei suoi pensieri, che Pushkin le avesse tagliato la lingua per
punirla. Di nuovo fece per andarsene, ma Elia insistette, pronto perfino a far
crollare la sua elegante corazza per qualche minuto.
“Katrina di’ qualcosa per
l’amor di dio!”
Si girò di nuovo, veloce e
rigida come una colonna di marmo
“Non capirai mai!”
“Capire che cosa?”
Lei invase il suo spazio
personale in un secondo, il mento sollevato e l’espressione furiosa
“Io sono stata cresciuta per
essere una regina!”
Sbottò mentre il suo viso si
contorceva in un’espressione di disgusto
“Tu hai usato me come una
delle tue proprietà!”
Si tese ancor di più
“Come una proprietà di tuo
padre!”
Finì di urlare, lasciandolo
colpito e perplesso di fronte al suo disprezzo.
“Io avrò quello che mi
spetta…”
Aggiunse abbassando la voce
e aggiungendo qualche centimetro di spazio tra i loro corpi
“…In un modo o nell’altro.”
Elia sentì la bocca dello
stomaco serrarsi davanti alla dichiarazione del suo fallimento. Ogni pensiero,
ogni dubbio, ogni rimpianto passato per la sua mente in quei due anni era
reale. La donna che si era concesso di amare ricambiava i suoi sentimenti con
un odio intenso quanto il suo amore. Katrina disprezzava la sua fedeltà, la sua
lealtà, la sua totale devozione, ogni dote che per quasi trentaquattro anni
aveva costantemente rivolto alla famiglia… E forse mai a lei.
“Che vuoi fare?”
Fu la sua nuova domanda
pronunciata sottovoce, ma il tempo delle risposte era già finito. Katrina
indietreggiò ulteriormente
“Arrivaci da solo.”
Concluse.
///////////
L’acqua era così calda che
la sua pelle stentava a resistere, il vapore tanto intenso da impastarne il
respiro, eppure Cara rimaneva sotto il getto, grattando la spugna contro la
schiena nella più innaturale delle posizioni. Voleva togliere quel finto
tatuaggio a tutti i costi. Era arrabbiata e nervosa per il risultato dei suoi
sforzi, letteralmente incazzata per non essersi guadagnata quello stramaledetto
marchio dopo ben nove anni di servizio. L’ultimo tentativo di ribaltare la
situazione non era certo andato a buon fine. Quando mai le sarebbe ricapitato
di avere tutti i fratelli Michaelson alla sua mercé? Mai, appunto. Poteva solo
sperare che al proprio ritorno Robert riuscisse ad apprezzare lo sforzo.
Ma perché cavolo non aveva
semplicemente ucciso Joseph alla prima occasione?
Joseph e il suo maledetto
modo di guardarla.
Joseph e i suoi odiosi occhi
azzurro cielo, in grado di spogliarla senza nemmeno toccarla.
“Barbie? Hai finito?”
Morgan batté insistentemente
contro la porta chiusa
“Non ti ho portato qui per
farti prosciugare l’intera riserva idrica di New Orleans!”
Cara digrignò i denti e
chiuse il rubinetto in un gesto stizzito.
“Che vuoi?”
Venne fuori dalla stanza
qualche minuto più tardi con i vestiti appiccicati addosso ed i capelli ancora
gocciolanti.
Morgan ghignò osservandola
con attenzione
“Sei sexy quando fai la maleducata.”
“Non pensarci nemmeno. Mi
fai ribrezzo.”
Ribatté Cara senza filtri
tra lingua e cervello. Il gemello ridacchiò
“E chi dice che non abbia
già messo le mani sul tuo prezioso culetto?”
Insinuò col suo mezzo
sorriso compiaciuto
“Avere un gemello identico ha
i suoi lati positivi dopo tutto… Specialmente nella semi oscurità.”
Agitò le sopracciglia su e
giù un paio di volte. Cara aguzzò lo sguardo in riposta
“Come mai sei così di buon
umore?”
L’altro sorrise puntandole
gli indici contro
“Sexy ed anche intelligente.”
“Arriva al punto Morgan.”
Gli sfilò davanti senza
dargli ulteriori attenzioni e raggiunse Little K, letteralmente steso dal
cocktail di birra ed antidolorifici.
Il gemello le lanciò una cartellina
marrone
“Tieni.”
Cara la sfogliò velocemente
tra le dita. Fotocopie di una cartella clinica o qualcosa del genere.
“Che cos’è?”
L’altro sembrò emozionarsi
ulteriormente
“Non avrai mica pensato che
non avessi un piano b?”
Cara esaminò le pagine
ancora una volta, cercando il nome del paziente cui appartenessero.
“E chi sarebbe Amelia Fisher
in tutto questo?”
Morgan si bagnò le labbra
con la lingua e le si fece vicino
“Fisher era il suo nome da
ragazza…”
Le indicò un punto preciso a
pagina sei
“…Prima che diventasse…”
Gli occhi di Cara furono più
veloci della voce di Morgan.
Amelia Michaelson.
A quel punto fu facile fare
due più due e quel fascio di fotocopie divenne immensamente interessante,
specialmente gli ultimi due fogli.
“Dove li hai presi?”
Lui gongolò gonfiandosi il
petto
“Ho i miei mezzi bambola.”
Cara continuò a leggere
avidamente, curiosa e al tempo stesso raggelata da quello che il rapporto tra
le sue mani lasciava intendere.
Morgan ghignò di nuovo
“Che dici, come pensi che la
prenderà il tuo amato lupo?”
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Capitolo 12 *** Capitolo XII ***
capXII
INCREDIBILE
MA VERO SONO TORNATA! NON VI FARO' L'ELENCO DELLE MILLE COSE CHE MI
SONO SUCCESSE, PERCHE' COMUNQUE SONO E RESTO UN'AUTRICE TERRIBILE, LO
SO! CHIEDO SCUSA A TUTTI!
SEX ALERT: scene di sesso in questo capitolo. Niente di che, ma vi avverto comunque qualora l'idea di leggere vi infastidisse.
A PRESTO!
//////////
Freddo.
Faceva un freddo terribile e nonostante la sciarpa stretta attorno al
collo Cara continuava a sentire i brividi percorrerle le ossa. Aveva
visto vento, pioggia e neve anche a New York, ma nulla di
paragonabile alla miseria dell’Alaska. Tutt’attorno le persone
sembravano starci dentro benissimo e lei continuava a non capire come
fosse arrivata fin lì, seduta sui gradini gelidi di un cinema
chiuso, sperando di morire prima della prossima seduta di
psicoterapia.
Ancora
una volta spinse il pollice sulla rotella dell’accendino sperando
che la fiamma riuscisse a sopravvivere. Aveva quella sigaretta in
bocca da quasi mezz’ora ed ormai sentiva il sapore del filtro sulla
punta della lingua. Non le piaceva fumare, era solo un modo come un
altro per sentirsi più grande e più forte dei suoi sedici anni.
L’orologio
della chiesa in lontananza segnava le dodici e venti, ancora un paio
d’ore prima di poter tornare a casa e fingere che un’altra
giornata di scuola fosse finita. Casa… Non sarebbe mai più tornata
a casa.
Ancora
una volta vide la flebile fiammella spegnersi all’istante davanti
ai suoi occhi.
“Hai
bisogno di accendere?”
Una
voce sconosciuta attirò la sua attenzione dalla sinistra. Un uomo
sulla quarantina dai capelli castani, avvolto in un cappotto non
troppo pesante, lasciato aperto sulla camicia a righe bianche e blu,
se ne stava con le mani in tasca ed un mezzo sorriso in faccia. Come
faceva a non morire assiderato?
Cara
sentì la schiena drizzarsi ed il panico affacciarsi sotto i mille
strati di abiti invernali. Non le piacevano gli sconosciuti. Non più.
Lui
tirò fuori le mani e le sollevò prima di farsi più vicino. Le
porse un accendino verde di quelli che vendono a cinquanta centesimi.
Cara rimase impietrita, senza saper decidere se fuggire a gambe
levate o cedere al suo imminente attacco di cuore.
Lui
sembrò sorridere di nuovo. Si sedette sul suo stesso gradino,
qualche metro più in là.
“Non
sei di qui, vero? Ti si legge scritto in faccia che vorresti essere
da tutt’altra parte.”
Esatto.
Vorrei essere a casa mia, a New York, litigando il coprifuoco con mia
madre mentre aspettiamo che il polpettone sia pronto e che mio padre
rincasi dal lavoro.
Cara
ingoiò la sua stessa saliva stringendo la borsa tra le mani.
“Mi
scusi…”
Iniziò
in un mezzo sussurro
“…Ma
non parlo con gli sconosciuti.”
Lui
allargò il sorriso mostrando i denti bianchi ed il loro piacevole
contrasto contro l’abbronzatura.
“Saggia
abitudine…”
Scivolò
sul cemento facendosi più vicino, allungò la mano destra
“Il
mio nome è Robert.”
Cara
lo guardò finalmente negli occhi, anonimi occhi castani splendenti
di una luce del tutto particolare. Qualcosa nel suo sguardo e nella
sua sicurezza abbassò il suo livello di panico.
“Potresti
comunque essere un serial killer.”
Rispose
senza accettare la stretta, sorpresa della sua stessa audacia.
L’altro
sollevò un sopracciglio in apprezzamento, ma quasi immediatamente la
sua ilarità scomparve
“Potrei…”
Abbassò
la mano poggiando il palmo sul gradino freddo e sporco
“…Ma
lascia che ti dica una cosa…”
Cara
tentò di scivolare via, ma rimase inchiodata al suo posto
“…A
volte le persone meritano di morire.”
Inclinò
la testa intenerendo lo sguardo
“Sono
comunque certo che non fosse il caso dei tuoi genitori.”
Cara
spalancò gli occhi
“Come
fai a sapere dei miei genitori?”
Lui
sembrò ignorare l’ovvia domanda, soffermandosi sul panorama di
fronte, attendendo il rintocco delle dodici e trenta. Il suono
solenne sovrastò per un secondo tutto il resto.
“Io
so molte cose Cara Phillis.”
Al
suono del suo stesso nome, nome che non aveva mai rivelato allo
sconosciuto, il cuore le si gelò nel petto. Non si sfugge dai
Michealson.
L’avevano
trovata. Avevano scoperto la sua esistenza ed ora l’avrebbero tolta
di mezzo.
“S…Sei
uno di loro?”
Gli
domandò in un sussurro, la bocca secca e la lingua attaccata al
palato. Lui esplose in una risata genuina, quasi avesse detto la più
assurda stupidaggine. Pochi attimi dopo gli piombò in faccia
un’espressione a metà tra il disgusto e l’esaltazione
“Io
odio i Michaelson… esattamente come te.”
Quel
nome pronunciato ad alta voce le provocò un brivido ancor più
gelato del vento che le soffiava in viso. La paura, il terrore, la
rabbia, ogni singola fastidiosa emozione si prese nuovo spazio tra le
sue viscere.
“Se
ti dicessi che puoi avere la tua vendetta…”
Lo
sconosciuto riprese a parlare, abbassando il tono benché non ci
fosse nessuno attorno
“…Che
io posso aiutarti a vendicare la morte dei tuoi genitori…”
I
suoi occhi brillavano, la sua voce liscia e morbida come il più
abile dei venditori
“Che
cosa risponderesti?”
La
stava fissando, studiando, in attesa di cogliere un qualsiasi barlume
d’entusiasmo alla sola idea. La ragazza aveva potenziale, di questo
era certo.
Cara
mandò giù, accarezzata da quella proposta, lasciando fluire per
qualche secondo i suoi pensieri più reconditi. Per quanto fosse
sbagliato desiderava la morte di quelle persone, lenta e dolorosa, la
desiderava più di ogni cosa.
Scostò
lo sguardo da quello di Robert e le parve di tornare improvvisamente
alla realtà. Scosse il capo
“Sono
solo una ragazzina.”
In
quella parola tutto il suo senso d’impotenza. Lo sconosciuto si
fece qualche centimetro più vicino, la sua voce ed il suo caldo
respiro le arrivarono dritti all’orecchio
“Ma
non sarà sempre così. Presto sarai una donna…”
Con
la coda dell’occhio lo guardò ancora, terrorizzata dall’evidenza
di come quelle sue parole riuscivano ad incantarla, alla stessa
maniera di un flauto magico
“…Una
donna forte, coraggiosa, indipendente.. E bellissima lasciami
aggiungere.”
La
prospettiva sembrò riscaldarla di colpo.
“Ti
insegnerò tutto quello di cui hai bisogno...”
I
loro occhi si incrociarono, il blu intenso di quelli di Cara
totalmente divorato dall’oscurità di quell’incantatore. Le
parole dello sconosciuto stavano leccando le sue ferite, le stesse
che lei cercava di nascondere, le stesse in cui il suo terapeuta
sembrava voler ficcare le dita ad ogni costo. Robert riusciva a
vederle e le stava offrendo la più miracolosa delle cure.
“…E
quando verrà il momento, sarò al tuo fianco mentre la tua vendetta
si compie.”
La
sola vaga fantasia di quel momento accese in Cara la voglia di
sorridere, cosa che non capitava ormai da mesi. Esterrefatta lo
guardò alzarsi e scendere l’ultimo gradino
“Chi
sei tu?”
Domandò.
Robert sorrise allungando la mano verso di lei
“Vieni
con me e ti spiegherò ogni cosa.”
Avrebbe
dovuto sentirsi terrorizzata alla sola idea, eppure quell’uomo
pareva conoscerla meglio di chiunque altro. Con poche semplici parole
le aveva detto tutto ciò che il suo cuore e le sue orecchie
bramavano sentire.
“Che
cosa ti è rimasto ancora da perdere?”
Nulla.
Non
ho più nulla da perdere.
--------
Cara
entrò nell’appartamento scuotendo la testa. Quel ricordo
continuava a tormentarla. Da quando aveva parlato con Morgan, dopo
quell’inaspettata scoperta, frammenti della sua infanzia e della
sua vita prima della Salle de Paris continuavano a presentarsi senza
alcun invito. Dentro la sua mente si combatteva una continua
battaglia.
Aveva
in mano la più tagliente delle armi, eppure non riusciva a
convincersi ad usarla.
Cercando
di non far rumore passò la soglia e si guardò attorno. Si sarebbe
aspettata una grossa macchia sul pavimento e l’odore di sangue
stantio dappertutto, tuttavia ogni cosa sembrava brillare, avvolta in
un dolciastro odore di limone ed aceto di mele.
Fissò
il punto preciso in cui aveva ucciso il secondo russo. Quasi riusciva
ad immaginarle, due cameriere in uniforme francese curvate sul
pavimento, impegnate a spazzolare via ogni traccia di sangue. Non si
sarebbe aspettata nulla di meno da gente arrogante e pomposa come i
Michaelson.
Girò
attorno al divano rivivendo il momento in cui si era rivelata.
Impagabile.
Ripensandoci
meglio forse era stata un po’ troppo teatrale. Troppo drammatica.
Troppo volgare.
Eccoli
di nuovo. I ricordi della sua infanzia stavano influenzando il suo
giudizio. Lo sguardo deluso di suo padre, lo stesso identico sguardo
che avrebbe avuto sapendola così, un'assassina sola e senza remore,
una donna senza innocenza e senza pudore.
Scosse
la testa ancora una volta. Doveva liberarsi di quelle emozioni e
tornare lucida. Joseph sarebbe presto tornato e lei non era certa di
come giocarsi quell'ultima mano. Guardò i fogli tra le sue dita
ancora una volta prima di piegarli e nasconderli sotto uno dei
cuscini del divano. Un simile colpo di scena meritava una degna
introduzione.
Girò
su sé stessa e si avviò verso il mobile bar, forse un po' d'alcool
avrebbe sciolto quella tensione. Poteva finirlo, sferrare un colpo
talmente potente da destabilizzare la sua intera esistenza. Le
fondamenta della famiglia Michaelson si sarebbero sgretolate, un
lento ed inesorabile processo di autodistruzione, uno spettacolo da
non perdere.
Il
cuore le batteva forte e le mani si muovevano da sole nel tentativo
di strappare quella carta a strisce il più in fretta possibile.
L'odore
dei waffle appena staccati dalla piastra le riempiva il naso e si
mischiava al pungente odore d'abete. L'albero che aveva scelto
insieme a suo padre troneggiava in salotto, completamente ricoperto
di luccichi e decorazioni. Il più bell'albero di Natale che avessero
mai realizzato.
“Mamma!
Mamma!”
Alla
vista di quella scatola rosa, la casa per le bambole che aveva tanto
desiderato, si sentì la persona più felice del mondo. Cos'altro mai
potrebbe desiderare una bambina di sette anni?
Cara
si portò le mani alla fronte. Basta!
Smettetela!
Mandò giù mezzo bicchiere di
whisky e finalmente quella scena sparì dalla sua mente.
“Già ti mancavo?”
Cara scattò sull'attenti
voltandosi verso la porta. Joseph ne stava appoggiato allo stipite
con un sorrisetto in faccia ed i vestiti imbrattati di sangue. Non è
così che immaginava di vederlo arrivare, non come uno appena uscito
dal set di un film splatter.
Di colpo le si chiuse lo
stomaco.
Lui varcò la soglia del
proprio appartamento a passi lenti, scrutando ogni angolo del suo
campo visivo. Non sarebbe stato eccessivo aspettarsi un attacco
combinato da quattro fronti, non dopo quello che aveva già visto.
Cara indietreggiò d'istinto,
lasciandogli il tempo di realizzare che erano soli. Il suo sguardo
non riusciva a staccarsi dalla maglietta insanguinata che aveva
appiccicata addosso, dai capelli scompigliati, da quelle mani che non
molto tempo prima avevano ucciso qualcuno.
Quanto era sbagliato, se non
perverso, volerle toccare?
Quanto era sbagliato, se non
patetico, sentire la colpa di ciò che stava per fargli?
Joseph si rese presto conto
che non c'era nessun altro. Lui e la ragazza dell'aereo erano soli
ancora una volta. Pregò che non fosse per battersi ancora. Non ne
aveva alcuna voglia.
Per cos'altro mai poteva
essere lì? Per parlare forse? Non avevano molto da dirsi. Si
odiavano, punto e basta. Per sbandierare qualche nuova minaccia?
Joseph la guardò dall'alto in basso nel suo abito a fiori, coi suoi
biondi capelli sciolti e le lunghe gambe scoperte. Cosa mai avrebbe
potuto fargli? Nulla. Non lì, non nel suo territorio.
Perché era a casa sua allora?
“Che cosa vuoi?”
Esordì, meno minaccioso di
quanto avrebbe voluto.
Cara si leccò le labbra, fino
a quel momento presa dall'idea perfetta di come quella scena avrebbe
dovuto compiersi. La lingua le si bloccò tra i denti. Le parve di
sentire la voce di suo padre dritta nell'orecchio, come fosse davvero
lì. Scosse il capo, non era il momento per inutili sentimentalismi.
Joseph sollevò il
sopracciglio, per la prima volta vedeva aprirsi un varco di
vulnerabilità nella gelida corazza della ragazzina.
Lei sospirò forte e riprese
la postura fiera e sicura. Leggere quei documenti ed immaginare cosa
fosse successo aveva risvegliato i suoi demoni personali. Inutile
provarci ancora, se non poteva zittirli, li avrebbe usati contro di
lui.
“Mio padre era un impiegato.
Uno qualsiasi. Uno di quelli che nessuno nota...”
Lui sembrò genuinamente
perplesso
“...Mia madre invece
lavorava part-time in una casa di riposo per arrotondare. Volevano
che avessi il meglio. Che diventassi il meglio.”
Senza
troppo pensarci si versò un altro dito di liquore e mandò giù,
guardando con la coda dell'occhio l'espressione disorientata del suo
nemico. Prenditi
il mio dolore Michaelson. Prenditelo. Io ho preso il tuo, l'ho
trascinato fin qui e l'ho nascosto sotto un cuscino. Proprio come
avrei fatto con un cadavere.
“Volevano che andassi alla
NYU e che diventassi un medico...”
Riprese, riuscendo finalmente
a guardarlo
“...Erano fieri di me.”
Quell'ultima affermazione
riuscì a smuovere Joseph dalla sua immobilità
“Perché mi dici queste
cose? A me non importa.”
Ed era vero. Non gli importava
nulla del suo passato, della vita che aveva vissuto, dei bei ricordi
che ancora conservava. Non voleva sapere nulla di chi Cara fosse
prima di incontrare suo padre. Non voleva provare pena né
compassione. Non voleva provare nulla per lei.
Cara strinse i pugni
“Non tutti hanno avuto ogni
cosa servita su un piatto d'argento come te.”
Lo stava giudicando, come si
giudica lo spocchioso figlio del re, troppo pigro perfino per
prendere le proprie decisioni.
Quanto
ti sbagli ragazzina.
Ore d'allenamento,
addestramento anche sotto la pioggia, prove infinite, mai una
carezza, mai un bacio, mai un apprezzamento. Solo il sorriso di sua
madre che gli portava di nascosto i biscotti e che gli raccontava di
fretta una storia per farlo addormentare quando William non c'era.
I ricordi lo accesero come una
miccia, alimentata dal disprezzo che colava a fiotti dalle parole di
Cara.
“Sta' zitta.”
Intimò una prima volta.
Lei scosse piano la testa, si
sentiva meglio dopo aver sputato fuori quel ricordo. Non era
diventata un medico, bensì un mostro, proprio come l'uomo sporco di
sangue che le stava di fronte, ma almeno aveva avuto una famiglia
normale e due genitori che l'amavano. Questo la rendeva più forte di
lui, più forte di tutti i Michaelson messi insieme.
“Oppure cosa?”
Decise di attizzare la fiamma
andandogli incontro. Joseph fremeva e tutta quell'eccitazione la
attirava come una falena estiva.
Raccolse i capelli sulla
spalla sinistra scoprendo l'altra, inconsapevolmente seducente.
“Mi avete già tolto tutto.”
Ti
sbagli di nuovo. Mille altre cose potrei toglierti, a cominciare da
quell'espressione compiaciuta che ti sei sbattuta in faccia.
Joseph avanzò a sua volta di
un passo.
“Non hai idea di quanto ti
sbagli ragazzina.”
Ribatté serio, resistendo
all'urgenza di sfregarsi le mani. Non sarebbe dovuta venire nella sua
casa, non vestita così, non con simili arroganti accuse, non mentre
il suo corpo affogava ancora nella dopamina post-omicidio.
Quel dolce appellativo le
scivolò addosso come il miele. Le piaceva sentirsi chiamare così,
la faceva sentire candida, come se avesse ancora una speranza.
“Ce l'ho...”
Rispose cercando i suoi occhi
“...Ecco perché so che la
mia famiglia, per quanto modesta, era mille volte meglio della tua.”
Joseph scattò verso di lei
squadrando le spalle
“Smetti di parlare della tua
vita!”
Le intimò in pieno viso,
sovrastandola con la sua altezza e la sua mole possente
“Non. Mi. Interessa.”
Scandì con tono più basso,
ma con più decisione. Il concetto doveva assolutamente entrarle in
testa.
Cara annuì, per nulla toccata
dalla sua mancanza di interesse. Si bagnò le labbra con la punta
della lingua e si diresse nuovamente verso il mobile bar. Non voleva
bere, il sapore del whisky le faceva ancora bruciare la bocca, per
cui iniziò a giocherellare col bordo dei bicchieri di cristallo.
Joseph prese un lungo respiro
nell'inutile tentativo di calmarsi. Non l'aveva mai guardata con
attenzione da quell'angolatura, non aveva mai notato il suo profilo,
la linea delle labbra schiuse, la schiena tesa e dritta, il disegno
dei fianchi e dei glutei che sollevavano appena il vestito nel punto
più giusto. Strinse i pugni perché odiava quella sensazione, ma non
riusciva a liberarsene. Continuava a volerla, a desiderarla,
esattamente come nel primo istante in cui le aveva posato gli occhi
addosso, e poco importa se anche quell'attrazione era frutto di un
calcolo attento di Mancini e company al solo fine di fotterlo.
Aveva già sentito quell'esile
corpo sotto il suo, aveva accarezzato quella pelle e assaporato
quelle labbra rosse. Nonostante i fumi dell'alcool ricordava
perfettamente la sensazione di esserle dentro. Stretto e bollente.
Ne voleva ancora. Glielo
dicevano le mani e glielo dicevano i pantaloni, diventati
improvvisamente troppo stretti.
Lei se ne stava lì, passando
i polpastrelli sul vetro, in attesa di non si sa cosa.
“Perché sei venuta qui?”
Le domandò, la voce già
tradita dal desiderio.
Cara sollevò lo sguardo,
notando immediatamente il cambio d'atmosfera. I suoi respiri erano
più profondi, i suoi occhi più scuri, i suoi muscoli tesi e la voce
più roca. Quell'espressione bramosa e quegli abiti imbrattati si
fondevano in una visione magnifica davanti ai suoi occhi, creando
l'irresistibile illusione che vita e morte potessero convivere
amichevolmente. Che ce ne fosse anche per mostri come loro.
Perché stai ancora
temporeggiando? Perché non glielo dici e basta?
Falla
finita Cara. Falla finita. Adesso.
Benché lo ripetesse senza
sosta era ormai chiaro il motivo per cui le sue labbra volevano
disperatamente restare serrate e le sue gambe disperatamente aprirsi.
“Rispondimi!”
Stavolta Joseph urlò
facendola sussultare. La ragazzina si voltò verso di lui sollevando
piano le ciglia scure di rimmel
“Te...”
Inspirò quell'aria densa di
ormoni
“...Sono venuta per te.”
Sembrò onestamente scioccato
per la frazione di un secondo. Era forse possibile? La ragazzina
aveva cospirato contro di lui addirittura per anni, cercato di
ucciderlo in almeno dieci modi, programmato al secondo la morte di
ogni suo consanguineo. Possibile che nonostante tutto si sentisse
proprio come lui?
Aguzzò lo sguardo e si fece
avanti, non le avrebbe permesso di prenderlo in giro ancora una
volta.
“Ti suggerisco di ponderare
attentamente la tua prossima scelta di parole...”
Ad ogni lungo passo
silenzioso, Cara indietreggiava verso le parete, lì dove lui la
stava sapientemente guidando.
Con la schiena spalmata contro
l'intonaco gelido non poté più evitare di guardarlo. Le era quasi
appiccicato e riusciva a sentire addosso tutto il suo calore. Joseph
poggiò i palmi sulla parete dietro di lei, imprigionandola tra il
muro ed il proprio corpo
“...Non sono dell'umore
giusto per un altro dei tuoi giochetti.”
Il respiro dell'assassino le
accarezzò la pelle ed il suo corpo reagì senza remore, diventando
bollente sotto la biancheria.
“Perché sei venuta qui?”
Chiese di nuovo, stavolta in
un mezzo sussurro, già terribilmente vicino al suo viso, respirando
a metà tra le sue labbra ed il suo orecchio.
Diglielo.
Digli che è stato suo padre.
Quel pensiero non lo sentì
nemmeno. Le dita di Joseph giocavano con i piccoli bottoni di
madreperla sulla scollatura del suo abito troppo leggero. Cara
combatté l'urgenza di chiudere gli occhi e graffiò il muro con le
unghie
“Ti ho già risposto.”
Riuscì infine a buttar fuori,
cercando di far passare una punta di acidità. Il suo ultimo stralcio
d'orgoglio. Joseph ribatté con un sorriso a labbra strette, un
sorriso di puro compiacimento.
Il tempo di sentirsi uno
stupido per lui era finito. La ragazzina dell'aereo che voleva tanto
rovinarlo sarebbe ben presto stata rovinata a sua volta. Si sarebbe
assicurato di farle dimenticare quel coglione di Little K e qualsiasi
altro uomo al mondo.
Stringendo la stoffa tra le
dita tirò tanto forte da strappare quella scusa di vestito in un
secondo. Lo strappo riempì il silenzio piombato nella stanza mentre
l'abito le si apriva addosso fino all'ombelico. Cara poggiò la testa
al muro e seguì i suoi occhi mentre prendevano possesso della nuova
visuale. Le pupille dell'assassino erano dilatate, i suoi denti
serrati, il respiro profondo, ma non ancora accelerato. Stava
prendendo il suo tempo, fissando ogni centimetro scoperto, valutando
accuratamente quante e quali torture infliggerle.
Cominciò dal seno, ancora
nascosto dietro il pizzo azzurro della sua biancheria, stringendolo
tra le mani con non troppa delicatezza. Continuava a guardarla in
viso mentre lei cercava di resistere all’urgenza d’inarcare la
schiena e gemere sotto il tuo tocco. Strinse di nuovo, i suoi piccoli
seni gli riempivano le mani a perfezione e per qualche strana
ragione, ogni volta che le era così vicino, il viso di Cara tornava
a sembrare quello di un angelo, fomentando le sue peggiori fantasie.
Le si spinse addosso, anche
contro anche, facendole sentire sulla pancia quanto fosse eccitato
alla sola idea di averla di nuovo. Nascose il viso nell'incavo del
suo collo abbandonando la dolce tortura per qualche istante,
sollecitando la pelle sottile con la barba incolta.
Cara strinse il labbro tra i
denti lasciandogli più spazio. La maglietta insanguinata le sfiorava
il corpo e le mani di Joseph risalivano lente la curva della sua
cosce, sollevando piano ciò che restava del suo vestito. La sua
carne pulsava di già.
“Dillo ancora.”
Le sussurrò contro
l'orecchio. Tono basso ma autoritario.
Le mani di Cara si staccarono
finalmente dalla parete e risalirono i suoi bicipiti tesi cercando un
appoggio più stabile. Poteva sentire le sue dita tra le gambe,
sfiorarla appena nella peggiore delle torture, senza concederle la
frizione che tanto desiderava.
Joseph si allontanò di
qualche centimetro per poter cercare il suo viso, afferrandolo con
una mano per costringerla a guardarlo. L'altra accarezzava ancora
l'evidenza bagnata della sua eccitazione, resistendo a malapena
all'urgenza di strappare quell'inutile pezzo di stoffa e affondarle
dentro.
“Dillo ancora.”
Stavolta scostò le sue
mutandine mentre lo diceva, ma senza toccarla ancora, godendo del suo
disperato tentativo di strusciarsi contro il ruvido dei jeans. Come
se non fosse già abbastanza eccitato.
Le mani di Cara raggiunsero la
sua nuca, i polpastrelli persi tra i suoi capelli mossi.
“Sono qui per te...”
Ribadì a bassa voce ed in
tutta risposta sentì due delle sue dita entrarle dentro senza
preavviso, costringendola a trattenere il fiato per non buttarglisi
addosso. Joseph continuava a fissarla come un lupo affamato mentre
lei si contorceva attorno alla sua presa. Era quasi insopportabile.
Cara strinse ancor più forte
le mani attorno al suo collo e lo guardò negli occhi un'ultima volta
“...Solo per te.”
Concluse, senza sapere se
fosse il suo stomaco, il suo cuore o la sua vagina a parlare. Si
schiantò contro la sua bocca a palpebre chiuse, sentendo la sua
lingua ancor prima delle sue labbra. Baci umidi, baci profondi, una
scia di baci bagnati lungo la linea della mandibola e della spalla
mentre le mani di Joseph la sollevavano di peso fino alla superficie
piana più vicina.
Le piccole mani della
ragazzina si insinuarono sotto il bordo della sua maglietta tirando
su, costringendolo a staccarsi per il tempo necessario a sfilarla.
Subito dopo la sentì attaccare i bottoni dei jeans nel tentativo di
liberarlo il prima possibile. Pelle contro pelle riusciva a sentire
il calore del suo corpo addosso, così come sentiva la pressione
delle sue ginocchia sollevate contro i fianchi. Non c'era più tempo
per i preliminari.
Stringendola con forza alla
vita la attirò ancor più a sé, spendendo pochi istanti d'attesa
per sfilare l'ultimo inutile indumento tra loro. Mischiando il
proprio respiro affannato a quello di Cara si posizionò tra le sue
gambe e la inchiodò al tavolo mentre, con una sola spinta,
finalmente la prendeva.
Il suo primo gemito, simile ad
un miagolio, lo costrinse a fermarsi perché tutto non finisse troppo
presto. L'interno del suo corpo era esattamente come ricordava, forse
anche meglio, ancor più accogliente dell'ultima volta. Le unghie di
Cara conficcate nella schiena lo spronavano a muoversi, le sue gambe
strette contro le anche chiedevano attrito e la sua bocca attaccata
alla spalla, con i denti che gli accarezzavano la carne, soffocava la
voglia di ansimare.
Prese a muoversi lento, ma
solamente per trovare l'angolo perfetto, quello che la faceva
tremare, che l'avrebbe fatta esplodere in pochi secondi. Il ritmo
divenne allora frenetico, le sue forti mani la stringevano
all'altezza dei fianchi accompagnando ogni spinta, non lasciandole
respiro, nemmeno per un attimo.
Cara si stringeva a lui
ansimandogli nelle orecchie, in un rapido crescendo di graffi e
gemiti che ben presto raggiunse il suo apice. Joseph la sentì
stringere la morsa attorno al suo corpo e trattenere il fiato mentre
i suoi muscoli si scioglievano in spasmi violenti e ripetuti.
Rallentò per qualche istante, godendosi la vista delle sue pupille
dilatate e del suo viso arrossato dall'orgasmo, ma prima ancora che
potesse rilassarsi spinse di nuovo e più forte, stavolta concentrato
sulle sue sole esigenze.
Avrebbe voluto continuare per
ore, fino a farle dire basta, ma era troppo anche per lui. Troppa
eccitazione, troppo piacere, troppe emozioni tutte in una volta. Le
si mosse dentro ancora una volta prima di venire, soffocando una
specie di ringhio tra i suoi capelli che sapevano di albicocca.
Rimasero immobili per minuti
infiniti, le mani di Cara aggrappate al bordo del tavolo per
sostenersi e le sue poco distanti, annaspando alla ricerca
d'ossigeno. Joseph si mosse per primo facendosi indietro e tirando su
i jeans. Lei scese dal tavolo cercando di coprirsi coi resti del suo
abito a fiori, un gesto pudico che non le s'addiceva affatto.
Era strano, quasi
imbarazzante, difficile di certo. Nessuno dei due aveva idea di cosa
dire adesso. Cara in realtà sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto
dire, ma tutte quelle endorfine le avevano annebbiato il cervello.
Fu di nuovo lui a muoversi,
allontanandosi ancora
“Ho bisogno di una doccia.”
Si giustificò prima di
lasciare lentamente la stanza, abbandonandola coi suoi pensieri.
Cara guardò allo specchio il
disastro che era la sua faccia. Tentò ancora una volta di coprirsi,
ma era impossibile con l'abito strappato. Cercò allora le sue
mutandine sul pavimento e le infilò velocemente, non riuscendo ad
ignorare la sensazione ancora viva delle mani dell'assassino lungo le
sue gambe.
Non aveva idea del perché gli
avesse detto in quel modo che era lì per lui, come se avesse voluto
dirgli che stava morendo all'idea di non vederlo più. Non era una
bugia dopotutto, era davvero lì per lui, ma solamente per
raccontargli ciò che aveva scoperto, solo per fargli del male.
Buttò gli occhi verso il
divano che nascondeva il suo segreto e lasciò cadere le spalle. Chi
voleva prendere in giro?
Era lui.
Il motivo per cui la sola idea
di sfiorare di nuovo Little K la faceva vomitare.
Il motivo per cui aveva
sparato in testa a quel russo, giù al deposito.
Il motivo per cui il ricordo
dei suoi genitori e della sua infanzia era di nuovo lì a
tormentarla.
Era lui.
Chiuse gli occhi
concentrandosi sulle immagini di quella sera alla Salle de Paris.
Lo odiava ancora. Lo odiava da
morire. Doveva odiarlo.
Valutò allora l'idea di
lasciare quei documenti sullo stesso tavolo dove avevano fatto sesso
e andarsene. Avrebbe potuto goderne anche a distanza in fondo, e
Joseph era certo abbastanza intelligente da arrivarci da solo.
Raggiunse a passi lenti la
camera dell'assassino e raccolse la prima maglia che le capitò
davanti agli occhi. Non poteva certo uscire in strada mezza nuda.
Indossò la sua t-shirt nera e rimase lì, accanto al suo letto,
guardandosi di nuovo in uno specchio.
//////////
Elia uscì dalla suite
scortato da due uomini. Nessuno dei due aveva proferito parola, ma
quello più alto l'aveva indirizzato verso destra con un gesto della
mano ed un cenno del capo. Aveva addosso un nuovo completo italiano
ed una camicia bianca inamidata di fresco, un gentile omaggio
recapitato nella sua stanza dallo staff dell'hotel. Si stavano
dirigendo verso una sala privata per la cena.
Non aveva idea di cosa sarebbe
successo una volta lì dentro. Non aveva più parlato direttamente
con Pushkin dopo il loro ultimo confronto al deposito di Lewis.
Le parole di Katrina gli erano
ancora chiare in mente, sua moglie voleva prendersi ciò che gli
spettava, ma non era ben chiaro cosa pensasse di meritare,
soprattutto dopo una fuga durata due anni. Il suo disprezzo e la sua
rabbia l'avevano colpito profondamente, costringendolo a mettere in
discussione il suo intero operato. L'obbedienza ed il rispetto che
mostrava verso suo padre per lui non erano altro che lealtà, la
sacrosanta lealtà che si deve alla famiglia, la stessa che avrebbe
mostrato sia a William che ai suoi fratelli in qualsiasi circostanza.
Ed il matrimonio non è nulla più che una circostanza come le altre,
giusto? Cosa si aspettava Katrina da un'unione pianificata a tavolino
ed un contratto finanziario siglato a quattro mani? Avrà pur
sbagliato in mille modi, primo fra tutti innamorandosi di lei, ma
restava Katrina quella in torto, era stata lei ad abbandonarlo senza
una parola. Se avesse parlato prima magari... Elia sentì lo stomaco
chiudersi. Su una cosa sua moglie aveva avuto ragione, se anche
avesse chiesto o preteso qualcosa di più, lui di certo non l'avrebbe
ascoltata, avrebbe sempre messo al primo posto la famiglia. La sua
famiglia.
La grande e spessa porta della
sala lo distolse da quel pensiero. E se Pushkin avesse preparato
un'esecuzione dall'altra parte? Forse è questo che Katrina intendeva
dicendo che si sarebbe presa tutto in un modo o nell'altro,
togliendolo di mezzo non sarebbe più stata obbligata a dividere la
sua eredità con lui. Di conseguenza non avrebbe mai messo le mani su
metà delle proprietà di Elia, ma poco importa, quasi sicuramente
disprezzava quelle quote proprio disprezzava lui e tutti i suoi
parenti.
Non avrebbe avuto molte
possibilità di salvarsi, non stavolta.
Mandando giù la tensione
solcò il primo passo nella stanza e si trovò inaspettatamente
avvolto in una nuvola di aromi e profumi. L'acre si fondeva con
l'odore denso della carne e, solo in sottofondo, riusciva a percepire
una nota dolciastra e zuccherina.
Pushkin si tirò su lasciando
strisciare la grossa sedia sul pavimento, agghindato nella giacca
grigio scuro che contava quattro stelle su ogni spalla, il ricordo
dei suoi giorni da generale cui tanto era ancora legato.
“Elia.”
Lo salutò col proprio nome ed
un mezzo sorriso, invitandolo con un cenno ad unirsi a loro. Accanto
a lui sedeva infatti Katrina nel suo abito blu notte, il viso pulito
ed i capelli raccolti sulla nuca in uno chignon ordinato.
Elia si avvicinò lentamente e
circospetto, scegliendo infine la sedia di fronte, quella che gli
dava maggior controllo della situazione. I due tizi che l'avevano
accompagnato sparirono chiudendosi la porta alle spalle.
“Serviti pure.”
Lo invitò il russo tornando
al proprio posto. Elia guardò i vassoi che gli stavano davanti e
riconobbe immediatamente zuppa di barbabietole e straganoff di manzo,
un menu da grandi eventi e grande tradizione sovietica. Pushkin aveva
già un'abbondante dose di spezzatino nel piatto e pareva per nulla
scosso dalla sua presenza mentre ammollava grossi tozzi di pane nella
salsa. Accanto a lui Katrina giocava col cucchiaio e con la zuppa.
Il più anziano si schiarì la
voce dopo aver mandato giù un grosso sorso di vino rosso.
“Mi dispiace per nostra
piccola incomprensione Elia...”
Esordì, apparentemente
sereno, ma non meno inquietante
“...Mi spiace di incidenti
accaduti in questi anni. E anche di aver fatto arrestare tuo fratello
in Johannesburg.”
Elia continuava a guardarlo
con sospetto, nemmeno sfiorato dall'illusoria sincerità di quelle
parole.
Pushkin rivolse un gesto a sua
figlia senza spostare gli occhi da quelli del suo ospite
“Mia figlia qui...”
Si interruppe per un altro
sorso di vino
“...ha spiegato il suo
piccolo colpo di testa...”
Di nuovo indicò le pietanze
“...Spero tu voglia
accettare nostre scuse.”
Raggelato dalla costante
presenza delle sue pupille addosso, Elia allungò la mano e si servì
della carne che non aveva alcuna intenzione di mangiare.
Il russo parve totalmente
preso dal suo pasto per qualche minuto, dopodiché si pulì il viso
col tovagliolo e si rivolse nuovamente a lui con tono apparentemente
indifferente
“Dimmi Elia... Cosa vedi
quando guardi mia figlia?”
Domanda da un milione di
dollari. Domanda trabocchetto.
Elia spostò immediatamente
gli occhi sulla sua consorte, studiando la tenacia con la quale
sembrava voler restar zitta ad ogni costo. Lei alzò infine lo
sguardo e sollevò un sopracciglio, sfidandolo a trovare una risposta
degna, quella che forse gli avrebbe salvato la vita.
“Vedo la donna bellissima ed
intelligente che ho sposato.”
Rispose con la bocca secca, ma
senza interrompere lo scambio di occhiate.
Pushkin annuì mandando giù
il suo boccone e sempre con la stessa apparente calma proseguì
“Vuoi sapere cosa vedo io?”
Domanda retorica che entrambi
ignorarono
“Una regina...”
Al suono di quella parola Elia
tornò a guardare suo suocero
“...Una regina degna del mio
regno ed anche di più. Non sei d'accordo?”
In quell'istante tutta la
messinscena di compagnia e convivialità crollò, l'espressione del
russo nuovamente gelida e ferma come la pietra.
Elia inspirò drizzando la
schiena, osservando attentamente i movimenti dell'altro mentre tirava
su qualcosa dalla sedia vuota alla sua sinistra. Non era una pistola
come poteva aspettarsi, bensì un fascicolo di fogli che il vecchio
lasciò scivolare sulla tovaglia di lino.
“Credo sia ora di risolvere
qualcuna di nostre ostilità...”
Spostò il piatto da una parte
poiché il tempo della comunione era finito
“...Darai a Katrina la
proprietà di tutti tuoi beni in Europa.”
Elia aggrottò le sopracciglia
“Abbiamo già un contratto
prematrimoniale. Katrina avrà metà dei miei beni ed io metà dei
suoi al nostro decimo anniversario.”
L'altro ghignò
“Ammiro tua fiducia nel
sacro vincolo di matrimonio Elia, ma stavolta prenderò mie
precauzioni.”
Il maggiore dei Michaelson
afferrò i fogli e tentò di leggerne il contenuto nonostante il
nervosismo crescente. Non voleva rinunciare alle sue proprietà
cedendole a Pushkin su un piatto d'argento. Era certo infatti che
l'unico motivo per cui il russo chiedeva quei beni era per poterli
gestire lui, direttamente dal suo comodo trono di San Pietroburgo.
Katrina sarebbe stata solo un'utile prestanome.
“E lei? Tornerà in Russia
con te?”
Pushkin sospirò gesticolando
in quell'aria pesante
“E' tua moglie Elia. Mi
aspetto che tu la tenga con te in vostra casa.”
“ Oteц!”
Katrina finalmente parlò
facendosi dritta sulla sedia. Chiaramente non si aspettava quel
piccolo colpo di scena. Suo padre la zittì con un solo sguardo
glaciale e tornò a rivolgersi all'alto
“Mi occuperò io di sue
proprietà in Europa.”
Elia aveva smesso di
guardarlo, troppo preso dai tremori di Katrina che, piegata sulla
sedia, sembrava voler esplodere da un secondo all'altro. Sfogliò i
documenti cercando la conferma nero su bianco che sarebbe stata
Katrina, e solo lei, la nuova proprietaria dei suoi beni. Mentre
fingeva ulteriore interesse per le clausole di quel contratto,
continua solamente a pensare che in cambio di qualche terreno e di
pochi milioni di dollari in quote azionarie, avrebbe avuto sua moglie
di nuovo a casa. Di certo Katrina non ne sembrava entusiasta, ma lui
trovava terribilmente attraente l'idea di chiuderla a chiave in una
stanza ed assicurarsi che non potesse più scappare.
“Bene...”
Esordì raggiungendo la penna
“...Affare fatto.”
Concluse apponendo la sua
firma completa sull'ultimo foglio. Katrina lo guardava adesso
furibonda, ma a lui non importava, non vedeva l'ora di uscire da quel
posto e riportarla, consenziente o meno, nel loro letto.
////////
Joseph si avvolse un
asciugamano attorno alla vita e passò le dita tra i capelli bagnati.
Si sentiva leggero e pesante allo stesso tempo, soddisfatto nella
carne, ma comunque vuoto nell'anima. Era certo che uscendo dal bagno
non l'avrebbe più trovata, sicuro che Cara fosse già sparita nel
nulla com'era suo solito. Parte di lui sinceramente ci sperava,
sperava di non doverla guardare ancora, di non doverle parlare, di
non doversi chiedere se davvero provava qualcosa di diverso per lei,
qualcosa in più del semplice disprezzo che si deve al nemico.
Continuava a pensare alla
ragazzina imbranata che aveva incontrato sull'aereo, quella dall'aria
innocente che aveva immaginato tra i banchi di scuola e dietro il
bancone di un bar. Aveva fantasticato un'intera vita per lei in pochi
minuti, una vita qualsiasi, fatta di impegni insignificanti, amiche
un po' puttane e magari un padre bigotto e geloso. Una vita che lui
avrebbe sconvolto con un solo breve incontro.
Quella ragazza non esisteva e
lui non voleva più pensarci, voleva togliersi dalla mente l'immagine
della sua cerimonia di laurea in medicina. Maledetto il momento in
cui aveva aperto bocca, costringendolo a conoscere cose di lei che
non avevano alcuna importanza.
Si guardò brevemente allo
specchio e notò il marchio che i suoi denti gli avevano lasciato
sulla spalla sinistra. Benedetto il momento in cui aveva invece
aperto le gambe. Contava sulle dita di una mano le donne che si era
portato a letto più di una volta e Cara sembrava sovrastarle tutte,
forse perché cattiva, forse perché proibita. Forse perché tanto
simile a lui, non fosse per i continui voltafaccia e sbalzi d'umore
che lo tenevano continuamente sulle spine.
Se anche fosse rimasta, chissà
mai che donna avrebbe trovato fuori da quel bagno.
Uscendo notò immediatamente
la desolazione del suo soggiorno. Proprio come immaginava. Si avviò
silenzioso verso la propria stanza da letto pensando a come avrebbe
passato la notte che lo attendeva. Al di là dei suoi drammi
relazionali aveva ancora un fratello scomparso a cui pensare.
Di certo non si aspettava di
trovarla lì, nel suo piccolo mondo privato, con addosso una delle
sue magliette usate. Cara se ne stava poggiata all'armadio persa in
chissà quali piani di vendetta, totalmente ignara della sua presenza
vicino alla porta.
Joseph aspettava di sentirsi
infastidito ed invaso, ma in realtà nessuna delle due parole
definiva il suo nuovo inaspettato stato d'animo. Era bella nella luce
del tramonto che filtrava dalle tapparelle nella penombra, bella
nella sua apparente tranquillità e nei suoi vestiti. Il collo troppo
grande le lasciava la spalla scoperta, le maniche troppo lunghe
nascondevano le mani e l'idea che il suo odore le sarebbe
inevitabilmente rimasto sulla pelle accese di nuovo la sua virilità.
Facendosi avanti rese nota la
sua presenza. Cara gli scattò in piedi di fronte. Per quanto tempo
era rimasta lì ferma a chiedersi come meglio avrebbe potuto
sbattergli in faccia l'amara verità? I suoi occhi non resistettero
alla tentazione di accarezzare il torace scoperto di Joseph, la linea
degli addominali fino all'ombelico e quei tre numeri tatuati sotto al
cuore che per lei non avevano alcun significato.
Il suo viso aveva la stessa
espressione di poco prima, come se la sua grande fame non fosse
ancora placata. Quegli occhi azzurri riuscivano a spogliarla e
toccarla senza nemmeno essergli troppo vicini, ma lei non doveva e
non poteva più cedere.
Joseph avanzò di un passo
verso Cara e lei sollevò immediatamente le mani
“Non farlo.”
Intimò autoritaria, vedendolo
rispondere nel più inatteso dei modi. Un sorriso. Cara ingoiò la
saliva che le aveva riempito la bocca alla vista del suo corpo
seminudo e dei suoi capelli bagnati
“Ti odio ancora.”
Specificò stringendo i pugni.
Lui rispose annuendo, sempre più vicino.
“Ti voglio comunque morto.”
Aggiunse restando rigida in
mezzo alla stanza. Joseph annuì di nuovo, ormai a meno di mezzo
metro da lei
“Intanto però sta' zitta.”
Ribatté, afferrando il suo
viso tra le mani e soffocando ogni ulteriore protesta con la sua
bocca. Cara cercò di respingerlo con tutte le forze, ma il tocco
della sua lingua sul palato era così piacevole che dovette
arrendersi. Il suo bassoventre si contraeva di già, seguendo la
propria autonoma volontà di accoglierlo di nuovo.
Stavolta fu lui ad infilare le
mani sotto la maglietta per aiutare a toglierla di mezzo, spingendo
poi giù, lungo le gambe nude, l'abito strappato che non gli era
piaciuto dal primo momento. Cara sembrava improvvisamente così
piccola e leggera tra le sue mani. Sganciò il reggiseno con la
maestria di un veterano e la spinse sul letto, infilando le dita ai
lati dei suoi slip per farli scorrere giù il più veloce possibile.
In piedi di fronte a lei tolse
di mezzo l'asciugamano che aveva addosso e si godé il piacevole
attrito tra umido ed asciutto mentre si sdraiava tra le sue cosce. Le
passò le labbra sul seno, lasciando scivolare la lingua sulla pelle
più rosa e delicata. Cara inarcò la schiena e chiuse gli occhi.
Poteva aspettare, tutto il resto poteva aspettare.
Un lamento le uscì di bocca
quando al suo ennesimo tentativo di sollevare le anche ed
incontrarlo, lo sentì tirarsi indietro e rallentare. Quest'uomo,
quest'insensibile, avido e crudele assassino, si dedica ai
preliminari con la stessa accuratezza e grazia che mette nelle sue
esecuzioni, torturando con baci e carezze una vittima che ormai sa di
non potersi più salvare.
Cara Phillis non è una
vittima, non è una donnetta rimediata fuori da un pub, Cara Phillis
è un killer spietato, proprio come lui. Con questo pensiero strinse
gli addominali e premette sulle sue spalle fino a farlo rotolare
dall'altra parte del letto, ovviamente con lei sopra. Joseph sembrò
spiazzato per un istante, trovandosi ora in posizione sottomessa, con
le sue mani poggiate sulla pancia e la punta dei suoi capelli che gli
solleticava il petto. Fu solo un attimo però, giusto il tempo di
sentire la sua carne bollente addosso, scendere lentamente su di lui
ed avvolgerlo come la più calda delle coperte.
Iniziò a muoversi piano,
ondeggiando in un ritmo quasi crudele, il suo ritmo. Joseph sentì le
dita dei piedi arricciarsi e trattenne l'istinto di rispondere ai
suoi colpi, deciso a gustare quell'immagine ancora per un po'. Cara
aveva drizzato la schiena, il suo corpo nudo completamente esposto ai
suoi occhi, compresi i due nei vicino all'ombelico che prima non
aveva notato. Aveva gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta,
la testa rivolta all'indietro ed una mano ancora appoggiata su di
lui. Sembrava quasi che all'improvviso lui nemmeno ci fosse ed il
pensiero lo fece finalmente muovere, portando le mani attorno alla
sua vita sottile ed aiutandola a settare una nuova velocità. Lui era
un cavallo da corsa, non da passeggiata nei boschi.
Tirando su la schiena e
portandosi alla sua altezza, la afferrò per le ginocchia così da
rendere il contatto più profondo possibile e toglierle di nuovo il
controllo. Cara lo afferrò per le spalle e si lasciò guidare verso
un nuovo orgasmo, troppo stanca e stordita per continuare quella
battaglia di potere. Joseph spinse, spinse e spinse fino al punto di
non ritorno, tenendola stretta a sé con più forza del necessario,
ma senza davvero preoccuparsi dei lividi che probabilmente avrebbe
lasciato sul candido della sua pelle.
I loro gemiti lasciarono
spazio al silenzio e all'oscurità della stanza. Cara lo sentì
mollare finalmente la presa e si lasciò lentamente cadere sul
materasso, fissando il soffitto. Senza cercarlo, nemmeno con la coda
dell'occhio, allungò le mani fino alle lenzuola sgualcite e coprì
la propria nudità. Il sesso è una cosa, l'intimità è tutt'altro.
Erano entrambi sdraiati e
nudi, entrambi terrorizzati all'idea di dire qualcosa e far scoppiare
la bolla che li aveva inghiottiti nelle ultime due ore. Joseph
riprese il controllo del proprio respiro, notando con una punta di
piacere il modo con cui Cara si era subito coperta, come se lui non
avesse già scattato un milione di foto mentali di ogni centimetro
del suo corpo. Era nel suo letto. Dentro il suo letto. Avrebbe potuto
allungare la mano e toccarla ancora, avrebbe potuto voltarsi e
guardare il suo viso rivolto all'insù, determinato ad ignorarlo. Non
ne aveva voglia, non ne aveva la forza. Le sue palpebre sembravano di
colpo troppo pesanti da tenere su ed una voce gracchiante ed
insistente nella sua testa aveva preso di colpo a parlare di Elia.
Perché suo fratello non aveva ancora richiamato? E se avesse avuto
bisogno d'aiuto mentre lui stringeva i fianchi della donna che aveva
dato inizio a tutto? Perché tutto sembrava di colpo più lontano?
Cara rimase immobile per un
tempo senza fine, pensando a com'era arrivata fin lì e a come tutto
era cominciato, pensando al bagno immacolato della Salle de Paris e
all'orgoglio di sua madre nell'indossare le perle delle nonna almeno
per una sera. Ripensò al sudore sulla fronte di suo padre e alla sua
convinzione che fosse tutto un equivoco. Aveva ragione come al
solito. Ripensò a Robert e alla prima volta che l'aveva fatta
sparare, a come aveva immaginato la faccia di William Michaelson
dritta davanti ai suoi occhi.
Certo, non era stato William a
sparare ai suoi. Quei due insignificanti energumeni erano terra per i
vermi già da un po', ma era stato comunque lui a provocare tutto e
meritava di pagare fino alla fine.
Il figlio bastardo sdraiato
accanto a lei non aveva la minima idea di che faccia avessero i suoi
genitori, tanto meno della maniera sporca ed ingiusta in cui erano
morti lontani dalla loro casa. Joseph Michaelson non c'entrava nulla
con la morte della sua famiglia. Avrebbe anche potuto ammettere che
non meritava di morire a causa sua, ma ciò non voleva dire che non
dovesse come minimo soffrire.
Cosa stava pensando? Doveva
uscire da quel letto. Scivolò sui gomiti cercando di evitare
qualsiasi contatto visivo o verbale, ma nulla si mosse accanto a lei.
Inevitabilmente finì per guardarlo, ancora supino, ma chiaramente
addormentato come un sasso. Cara sentì la rabbia accendersi, due
sole scopate e già era così sicuro che non avrebbe provato ad
ammazzarlo nel sonno? Pensava davvero che fosse così debole?
Finalmente in piedi raccattò
la biancheria e la maglietta che indossava poco prima, correndo fuori
da quella stanza per indossarli. I piedi nudi la portarono
immediatamente fino al divano e lì si inginocchiò, finalmente
decisa a far esplodere quella bomba.
Afferrò i pochi fogli senza
preoccuparsi di rimettere a posto i cuscini, tesa e nervosa nella
semioscurità. Come poteva pensare così poco di lei? Tutta la sua
vita, la vendetta è tutta la sua vita. Non si fermerebbe nemmeno se
glielo ordinasse il Signore in persona, figuriamoci rinunciare per un
po' di sesso, non importa quanto piacevole.
Iniziò a camminare avanti e
indietro stringendo la carta tra le dita, tentata dall'idea di
svegliarlo con un pugno per non aspettare ancora, terrorizzata al
pensiero che forse il tempo avrebbe spento nuovamente le sue
convinzioni.
Per fortuna non dovette
aspettare troppo. Joseph, con addosso solo un paio di jeans, accese
la luce della lampada e la osservò con sospetto. Ancora non riusciva
a credere di essersi davvero addormentato con lei accanto. Desiderava
così disperatamente un po' di pace e normalità da mettere a
repentaglio la propria esistenza? Davvero?
“Che stai facendo?”
Chiese serio dopo aver notato
il suo divano scomposto.
Lei strinse i denti
“Te l'avevo detto.”
Si stava chiaramente riferendo
al fatto che nulla era cambiato e che la sua amata vendetta era
ancora in atto.
Invece di partire all'attacco
si sentì terribilmente frustrato, tanto da alzare gli occhi al cielo
e spalancare le braccia
“Non sei ancora stanca?”
Domandò
“La tensione costante. La
paura. Gli stessi circoli distruttivi ancora, ancora e ancora...”
Cara se ne stava lì,
apparentemente intoccata
“...Ti fermerai mai?”
Stava cercando di essere
onesto, in barba agli insegnamenti di una vita intera. Si sentiva
come uno stupido adolescente imbarazzato, ma era stanco di fingere di
non sapere ciò che ormai sapeva benissimo
“Non posso...”
Gli rispose lei con
naturalezza, ma non meno tormentata
“...Io non ho niente. Questa
vendetta è tutto quello che ho.”
Joseph sospirò cercando di
arrivarle più vicino
“Hai avuto occasione di
uccidermi almeno dieci volte...”
Riprese. Eppure eccomi
ancora qui. Concluse nella sua testa senza bisogno di dirlo
davvero.
“...Crollerebbe davvero il
mondo se ammettessi una volta per tutte che provi qualcosa per me?”
Stavolta lei saltò come se le
avessero appena conficcato un ago da dieci centimetri tra le scapole
“Io non sento niente per
te!”
Ribatté secca e decisa, forse
anche troppo.
Joseph allungò un altro passo
“Anche se mi uccidessi
adesso, anche se facessi a pezzi il mio intero albero genealogico, i
tuoi genitori resterebbero comunque a marcire sotto terra.”
Lui era quello razionale, lei
preferiva continuare a credere che ogni cosa sarebbe tornata a posto
e che quel buco in mezzo al suo cuore si sarebbe finalmente chiuso.
Le emozioni sono solo un impiccio. Le emozioni lei le ha spente tutte
parecchio tempo fa.
“Io non provo niente per te.
Niente che non sia odio.. o disprezzo.. o compassione.”
“Non sembrava così mezz'ora
fa.”
Non
osare. Non osare credere di conoscermi solo perché sei stato tra le
mie gambe.
Cara sentì la rabbia montare
ancora una volta come un toro inferocito e senza pensarci due volte
gli sbatté i preziosi fogli addosso
“Lascia che te lo dimostri
allora.”
Joseph afferrò il fascicolo
dalle sue mani ed iniziò a sfogliarlo senza capirci troppo, in
attesa che le sue pupille riuscissero a mettere a fuoco nella
penombra.
Lei non poteva aspettare
“E' stato tuo padre.”
Sentenziò senza
apparentemente avere la sua attenzione
“Tuo padre ha ucciso tua
madre.”
Al suono di quelle parole
Joseph prese a sfogliare più in fretta, il nome di Amelia Fisher
prima, ed Amelia Fisher Michaelson poi, in cima ad ogni pagina.
C'erano numeri e paroloni medici che gli annebbiavano la vista, già
provata dallo sforzo di metabolizzare quelle parole. Non poteva
essere vero. Lui era lì, lui l'aveva trovata sul pavimento, lui
l'aveva raccolta dal suo ultimo letto di pillole. Era un bluff, solo
uno stupido bluff per fargli perdere la concentrazione.
Cara lo sentì ridere sotto i
baffi ed aggrottò le sopracciglia
“Davvero pensi di fregarmi
con una simile assurdità?”
Era chiaramente in fase di
negazione.
“Va' all'ultima pagina.”
Joseph era ormai così certo
della sua teoria che obbedì senza fiatare. Era il referto
dell'autopsia che, tra l'altro, aveva già letto decine di volte.
“E' il vero rapporto
dell'autopsia, non quello che tuo padre ha fatto stampare per pararsi
il culo.”
Non aveva intenzione di
crederle, ma nonostante ciò prese a leggere quelle poche righe
“Tua madre aveva un tasso
altissimo di Midodrine nel sangue, un vasocostrittore comunemente
usato per curare l'ipotensione.”
Joseph scosse la testa.
Davvero in quel momento pensava di parlarle con un medico di ER?
“Considerate quelle dosi,
sono sicura che non lo prendesse di sua spontanea volontà.”
Lui sollevò gli occhi per un
attimo, confuso e vulnerabile come non l'aveva mai visto
“La mia teoria?”
Il momento era arrivato
“Tuo padre ha sostituito le
sue pillole per il mal di testa col Midodrine facendole salire la
pressione alle stelle. I suoi mal di testa saranno diventati
terribili, tanto da richiedere almeno quattro o cinque analgesici al
giorno.. E più ne prendeva, più stava male.. Più ne prendeva più
la pressione saliva.. Fino a che non le è esploso il cervello.”
Lui non si mosse nemmeno, come
una statua di pietra in mezzo al soggiorno. Stava diventando più
pallido ed i suoi occhi avevano ormai smesso di cercare conferme
sulla carta
“E perché mai l'avrebbe
fatto?”
La domanda gli uscì dalle
labbra in un soffio di voce come quella di un bambino. Cara mandò
giù, il suo stomaco si torceva sotto lo sterno e doveva sforzarsi di
ignorare la voce che le urlava di fermarsi. Lui era già distrutto,
ma nemmeno a lei stava piacendo.
“Guarda nello specchio.”
Concluse, cattiva come forse,
in fondo, non era mai stata prima di quell'istante. E Dio... Dio mio,
quanto avrebbe potersi rimangiare ogni parola immediatamente dopo.
Joseph Michaelson, il grande
Lupo, l'assassino senza morale, stava cadendo a pezzi davanti ai suoi
occhi. Immobile gli si sgretolava davanti. In silenzio scivolava giù,
desiderando di diventare tutt'uno con la polvere sul pavimento.
Cara sentì il cuore fermarsi.
Se non era un'emozione quella, cos'altro poteva mai essere? Qualcosa
dentro bruciava e non era la solita rabbia. Non voleva affatto
ridere. Voleva piangere, voleva prendersi a schiaffi, voleva
graffiarsi la pelle fino a sanguinare. Voleva toccarlo... Che Robert
possa perdonarla, che possano perdonarla i merli.. e perdonarla sua
madre e suo padre... Voleva toccarlo.
Nel giro di un istante
l'intera atmosfera nella stanza mutò da un estremo all'altro. Joseph
uscì dalla sua catatonia ed il tavolo del soggiorno volò in aria
con tutte le sue riviste ed il suo posacenere di vetro. Subito dopo
le sue mani si chiusero attorno al collo di Cara, spingendola con
forza contro la parete attrezzata. Stringeva forte, così forte da
sentire sui palmi il battere incessante delle sue carotidi che
cercavano ossigeno. Il suo pallido viso diventava più rosso ad ogni
secondo, i suoi grandi occhi blu sgranati e le sue unghie conficcate
nei polsi, cercando in maniera scoordinata, ma non meno disperata, di
farlo smettere.
La stava guardando, ma non la
vedeva davvero. Vedeva solo il suo dolore e quello stava cercando di
uccidere. Ancora pochi secondi e la ragazzina dell'aereo non sarebbe
stata nulla più che un cadavere sul suo tappeto persiano.
Anche lei lo sapeva, lo sapeva
perché le sue unghie avevano smesso di graffiare e le sue gambe di
dimenarsi. Non l'avrebbe più vista. Non l'avrebbe vista né toccata
mai più.
Lasciò la presa. Cara cadde a
terra tossendo alla ricerca d'aria, aspettando che la stanza
smettesse di girare.
“Vattene!”
Ordinò mentre afferrava la
bottiglia di bourbon e si preparava a tracannarlo tutto d'un fiato.
Lei provò a tirarsi su, con la gola ancora in fiamme ed i polpacci
invasi dal formicolio.
“VATTENE!”
Stavolta urlò come un
dannato. Cara riuscì a mettersi in piedi e raggiungere la porta
mentre lui mandava giù mezza bottiglia
“ESCI DALLA MIA CASA!”
Aveva già una mano sulla
maniglia e l'altra sul collo, ma continuava a guardarlo come un
povero cucciolo bastonato. Era davvero troppo.
La bottiglia le si fracassò
accanto alla testa in mille piccole schegge di vetro, l'alcool
schizzato dappertutto in un momento.
“ESCI DALLA MIA VITA!”
Cara ignorò la scheggia che
le aveva trafitto la guancia e si decise ad uscire. Aveva vinto.
////////
La terza valigia riempì il
cofano dell'auto che Pushkin aveva pronta per loro. Stavano tornando
a casa. Elia salutò con un ultimo cenno suo suocere e salì in auto,
trovando inevitabilmente posto accanto ad una Katrina immobile e
muta. Non gli avrebbe reso le cose semplici, poco ma sicuro.
Incredibile ma vero, delle
proprietà perse non gli importava nulla. William non sarebbe certo
stato dello stesso parere, ma per una volta, per una sola e singola
volta, aveva deciso usando null'altro che la sua testa. La vista alla
sua sinistra lo ripagava di ogni perdita. La sua preziosa Katrina,
disarmata ed arresa, pronta a pagare le conseguenze di ogni suo
stupido gesto.
Per tutto il viaggio cercò
qualcosa di brillante da dire, qualcosa che avrebbe potuto scuoterla
da quel torpore. Nulla venne fuori dalla sua bocca. Come sempre si
confermava il fratello più incapace, con tanta devozione, ma nulla
da dire.
Di fronte alla loro casa, poco
distante dalla grande proprietà di famiglia, l'auto accostò e
l'autista scaricò le valigie di Katrina prima di sparire.
Elia rimase indeciso se
prenderle o meno, come probabilmente avrebbe fatto un normale marito.
Continuava a chiedersi se sua moglie sarebbe scappata di nuovo appena
voltata la testa, magari giusto il tempo di ficcare la chiave nella
serratura. Lei si mosse sui gradini del porticato, cercando i piccoli
dettagli che non sapeva di non aver dimenticato.
Alla fine si schiarì la voce
“Mi spiace che il tuo piano
sia finito così.”
Fece per prendere la prima
valigia, ma quando Katrina si voltò finalmente verso di lui dovette
fermarsi. Un sorriso, quello era un sorriso.
Lei si avvicinò lentamente,
sfoderando per lui uno dei suoi magnetici sguardi da cerbiatta.
Sollevò una mano verso il suo viso e, con lo stesso sincero sorriso
ancora tra le labbra, gli accarezzò la guancia
“Il mio dolce, nobile
Elia...”
Era senza parole, senza
respiro, senza la forza di muoversi
“...Questo è solo
l'inizio.”
|
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Capitolo 13 *** Capitolo XIII ***
capitolo13
Ciao
a tutti! Arrivo come sempre dopo un'eternità e vi chiedo scusa. Ci
tengo a continuare e concludere questa storia senza mollare a metà,
ma non riesco quasi mai a dedicarle il tempo che merita. Tra il
lavoro, i progetti matrimoniali, il master, l'esame da rifare ecc ecc
non arrivo più! Spero abbiate pazienza con me...
Vi
ringrazio come sempre infinitamente!
PS.
Troverete una frase in russo detta da Katrina. Non ho voluto tradurla
intenzionalmente. Il traduttore di google potrà aiutarvi a risolvere
il mistero :)
Martina
////////
“...Questo è solo
l'inizio.”
Elia si congelò, sentendosi
di colpo più vuoto di prima. Quanto avrebbe voluto stringere quella
piccola mano nella sua e portarsela alle labbra. Quanto avrebbe
voluto poter credere che quel sorriso fosse vero e quelle parole
fossero sincere. Non poteva. Improvvisamente realizzò l'inutilità
del suo gesto. A che scopo sacrificare i beni di famiglia se non
poteva, non doveva e, soprattutto, non riusciva a crederle? Era lì,
davanti a lui, così vicina da avere la sua ombra addosso, eppure
c'erano ancora due anni di distanza tra loro. Due lunghi anni di
dubbi, incertezze, sensi di colpa e frustrazione. Due anni passati a
progettare la disfatta della sua famiglia, ventiquattro mesi e più
tra le braccia di Morgan Pryce e chissà quanti altri.
Accennò l'ombra di un sorriso
prima di staccarsi dal suo tocco leggero, afferrò le valigie ed aprì
la porta della loro casa. L'odore di fiori e pulito era sempre lo
stesso, nemmeno un granello di polvere sui mobili di legno antico,
nemmeno un'arricciatura sul grande divano color ecru. Tutto
ugualmente perfetto. Tutto ugualmente anonimo.
Improvvisamente gli venne da
chiedersi perché Katrina non avesse voluto modificare qualcosa in
quella calma piatta. Perché, come ogni altra moglie al mondo, non
avesse cambiato le tende o comprato qualche tappeto pacchiano, o
magari provato a dipingere le pareti della cucina di un improbabile
color lavanda.
Poggiò le valigie sul parquet
della loro stanza, rimirando per un secondo di troppo quel letto
immacolato in cui non aveva più dormito. Katrina gli fu subito
dietro. Sembrava che d'un tratto avesse mille cose da dire, proprio
ora che lui non aveva alcuna voglia di parlare.
“Puoi sistemare le tue
cose.”
Disse la prima cosa che gli
uscì di bocca, senza alcuna cadenza particolare. Katrina lo seguì
nel soggiorno.
“Elia...”
Tentò di fermarlo prima che
uscisse e ci riuscì. Lui si voltò lentamente
“Che c'é?”
Rispose. Gli serviva aria
fresca.
“...Aspetta.”
Di nuovo gli fu vicina,
avvolta nel suo maledetto profumo di tuberosa. Non sorrideva più, ma
i suoi grandi occhi brillavano.
“C'è voluto tutto questo
per avere tua reazione.”
La derise con un sospiro.
Reazione. Voleva solo una reazione. Tutto questo casino per avere un
po' d'attenzione? Davvero Katrina?
“Ciò che hai fatto oggi...”
Abbassò gli occhi ed afferrò
la mano di Elia nella sua.
“...Adesso sarà diverso.”
Elia guardò le proprie dita
intrappolate nella piccola mano di sua moglie. Se solo non avesse già
alzato le barricate... Forse a quel punto ci sarebbe caduto davvero.
Si ritrasse di nuovo
“Poco ma sicuro.”
Ribatté serio, cercando di
sfuggirle il più in fretta possibile. Katrina gli bloccò il
passaggio.
“Per favore. Ho bisogno di
uscire da qui.”
La pregò con la più cruda
sincerità. Lei scosse piano la testa
“Ho bisogno di parlare con
te.”
Elia contemplò l'idea per
qualche secondo. Chissà cosa sarebbe potuto venir fuori da quella
piccola bocca a cuore? Quante storie poteva ancora raccontare?
Stavolta fu lui a farsi
vicino, curvando la schiena per farsi alla sua altezza
“Risparmia il fiato
Katrina...”
La guardò dritto negli occhi,
freddo e diretto come solo lui sapeva essere
“...Non crederei ad una sola
parola.”
Lei scosse la testa cercando
il miglior modo di ribattere, Elia non gliene lasciò il tempo
“Volevi una reazione,
giusto?”
Nuovamente sua moglie cercò
di toccarlo, ma stavolta fu lui il più veloce, afferrandole entrambi
i polsi in una stretta morsa
“Eccola qui.”
Concluse trascinandola quasi
di peso verso la camera da letto.
“Elia ti prego lasciami!”
La spinse dentro senza troppa
delicatezza e, dopo averle lanciato un ultimo sguardo, si chiuse la
porta alle spalle. Girò la chiave nella toppa.
“Elia!”
Katrina stava già battendo i
palmi contro il legno, ma lui decise di ignorarla. Doveva uscire da
quella casa e fermarsi a pensare. Aveva bisogno di vedere i suoi
fratelli e calmare i nervi, almeno per un po'.
///////
“Borderline. Questo è il
termine tecnico.”
“Cosa?”
Cara sollevò gli occhi dal
bicchiere ancora pieno. Non aveva idea di cosa la barista stesse
dicendo, aveva smesso d'ascoltare parecchi minuti prima. A dire la
verità non sapeva nemmeno perché fosse finita davanti a quel
bancone, blaterando della sua vita sessuale con una perfetta
sconosciuta.
“Senza offesa tesoro, ma
credo che tu sia parecchio incasinata.”
Sai che novità. Anche avesse
avuto voglia di rispondere, Morgan non gliene avrebbe lasciato il
tempo. Piombando alle sue spalle sbatté il bicchiere vuoto sul
bancone, facendo cenno alla barista di ricaricare.
“Così rovini l'atmosfera
Barbie.”
“Voglio dormire.”
“Non si dorme stanotte. Si
festeggia!”
Il gemello afferrò il
bicchiere e si scolò l'ennesimo gin lemon tutto d'un fiato. Cara
sembrò ricordarsi solo in quell'istante che stava partecipando al
party della vittoria. Missione compiuta.
Little K la raggiunse
dall'altro lato e le poggiò il braccio attorno alle spalle
“Ed io mi sento
particolarmente ispirato.”
Sorrise stringendo la presa e
poggiando le labbra al sapor di tequila sulla sua tempia. Cara chiuse
gli occhi cercando di resistere all'urgenza di spingerlo via. Doveva
dimenticare ciò che era successo tra le lenzuola di Joseph, doveva
spegnere quell'inutile senso di colpa, doveva smettere di pensare a
lui.
Little K cercò il suo viso ed
accarezzò col pollice il taglio ancora fresco sulla sua guancia
destra
“Quanto avrei voluto vedere
la faccia di quel bastardo.”
Cara abbassò lo sguardo
ancora una volta, sforzandosi di fingere un sorriso compiaciuto.
“Dovremmo decisamente
continuare i festeggiamenti a letto...”
Parlandole all'orecchio poggiò
la mano libera sulla sua coscia scoperta.
“...E' passato troppo tempo
dall'ultima volta.”
Le sue dita iniziarono a
salire di pari passo alla sua ansia. Aveva sperato che una doccia
veloce ed un nuovo vestito potessero cancellare le tracce di Joseph
dalla sua pelle, ma chiaramente aveva sperato troppo in grande.
“Sono troppo stanca.”
Little K si fece serio di
colpo
“Come al solito.”
Cara cercò di alzarsi dallo
sgabello, ma lui le afferrò il braccio e la costrinse a guardarlo in
viso
“Dovremmo iniziare a
sospettare qualcosa Barbie?”
Lei non si lasciò minimamente
intimorire
“Magari sono solo stufa di
fare del sesso mediocre con te.”
Little K improvvisò una
risata sarcastica che morì immediatamente. Strinse la presa tanto
forte da farle male
“Sta' attenta...”
Intimò
“...Ricordati che siamo
merli, non amici.”
Cara si divincolò dalla morsa
ed uscì dal locale senza aggiungere nulla. Era pronta a perdersi nel
buio di quella notte.
////////
“DIMMELO!”
Era completamente distaccato
dalla realtà, non aveva più idea di che ora fosse, tanto meno di
quanto alcool avesse in corpo, tutto ciò che riusciva a vedere era
il riflesso sulla sua lama piantata contro il collo del dottor
Griffith, il caro vecchio medico di famiglia.
L'altro tremava nel suo
pigiama grigio, trascinato fuori dal suo letto nel peggiore dei modi.
Sapeva di essere condannato, poteva solo ringraziare che
quell'incapace di suo figlio fosse ancora fuori e che sua moglie
avesse scelto proprio quel week-end per il suo usuale giro di
shopping a Parigi.
“L'ha uccisa lui?”
Stava sudando, sul punto di
piangere, preparandosi a morire come fanno tutti i codardi. Non
riusciva a credere che fosse lo stesso uomo che aveva amorevolmente
curato il suo braccio rotto e la mononucleosi di Nathaniel.
“E' STATO LUI, SI O NO??”
La mano di Joseph gli spinse
la testa ancora una volta contro il muro e quel dolore pulsante,
mischiato al metallo che lentamente gli tagliava la pelle, lo
convinse ad arrendersi. Il dottor Griffith annuì preparandosi a
morire. Se lo meritava, meritava una fine del genere. Non avrebbe mai
dovuto violare il giuramento di Ippocrate, non avrebbe mai dovuto
cedere alle lusinghe del denaro svendendo la sua vocazione ad un
bastardo come William Michaelson.
Ogni piccola speranza che Cara
stesse solo mentendo svanì in quell'istante, Joseph sentì spegnersi
l'interruttore della sua ragione ed urlando contro il nulla prese a
sbattere il medico contro la parete bianca, tante volte e tanto forte
da vederla presto macchiarsi di rosso. Lasciò cadere il corpo
svenuto del dottor Griffith a terra, probabilmente era ancora vivo,
ma in quel momento non poteva importargli meno. Qualcun altro
meritava di morire ancor più di lui.
Si fermò per qualche istante
a respirare, afferrando una bottiglia qualsiasi dalla collezione
del dottore. Nessun liquido aveva più sapore, tutto gli bruciava la
lingua allo stesso modo. L'importante era non fermarsi, non lasciar
modo ai suoi pensieri di farsi sentire, non permettere alla sua mente
di immaginare come sarebbe stata la sua vita ora se sua madre non
fosse mai morta.
Uscì dalla villa il più in
fretta possibile, convinto che la tappa immediatamente successiva
sarebbe stata la casa di suo padre. L'aria fresca lo colpì in viso
come uno schiaffo, scontrandosi col calore dovuto all'ebrezza.
Nathaniel stava sicuramente dormendo tra le sue lenzuola di seta come
nulla fosse, cullato dall'idea di assomigliare ad un padre orgoglioso
e potente che, nonostante tutto, ammirava ancora. Suo padre.
Non si era reso conto fino a quell'istante di quanto la situazione
fosse diversa per Nate e per Elia. William era solo un estraneo per
lui, ma non certo per i suoi fratelli. Non poteva piombare a casa nel
cuore della notte ed ucciderlo come tanto profondamente stava
desiderando, non poteva fare questo a Nathaniel e non poteva farlo
nemmeno ad Elia. Elia.. Dove diavolo era suo fratello maggiore quando
più ne aveva bisogno?
La nuova consapevolezza lo
fece urlare di nuovo, stavolta contro il vento. Non poteva fare
nulla. Quel dolore terribile lo stava mangiando dall'interno e lui
non poteva fermarlo, non poteva cancellarlo, non nell'unica maniera
che conosceva, uccidendo e tagliando. Aveva bisogno di bere ancora,
di altro alcool che cancellasse i suoi pensieri e zittisse
quell'insopportabile sofferenza.
Si diresse a passi veloci
verso casa, senza alzare mai lo sguardo da terra, ignorando l'allegro
vociare che proveniva dai locali ancora aperti e gli sguardi storti
dei pochi passanti. Doveva tornare al suo appartamento. Anche se le
sue personali scorte d'alcool erano finite, la dispensa dello Sweet
Lorraine doveva essere ancora piena. Dopo la morte di Xavier
nessuno era venuto a reclamare il locale e poiché si sa, le voci
corrono veloce, né turisti né abitanti fremevano dalla voglia di
tornare in un posto dove i russi ti sparano addosso.
Riuscì a trovare due
bottiglie di bourbon e si accasciò dietro il bancone, usando i denti
per aprirle il più in fretta possibile. Mandò giù finché ci
riuscì, poi poggiò la testa contro il legno e chiuse gli occhi.
Voleva svenire, voleva solo svenire.
//////////
“Joseph...”
Lui si tirò su dal letto
con difficoltà, le due costole rotte facevano un male bestiale,
tanto che perfino respirare era una gran fatica. Suo padre gli aveva
ordinato di affiancare Boss e Jimmy nella sua prima ronda notturna al
quartiere francese. Una tranquilla discussione sulla spartizione
delle zone di spaccio si era presto trasformata in un'allegra rissa
di gruppo. I pugni veri fanno male.
Sua madre entrò nella
stanza avvolta nella vestaglia di maglina viola, i capelli ancora
sciolti ed il viso pulito da ogni traccia di trucco. Joseph guardò
l'orologio, sei e dodici del mattino, sicuramente William stava
ancora dormendo. Amelia chiuse piano la porta e si avvicinò al
letto, sedendosi sul bordo accanto a lui. Gli esaminò il viso con
attenzione ed accarezzò il grosso livido che andava scurendosi sullo
zigomo, giù fino al labbro tagliato.
“Il mio bambino.”
Sussurrò con voce
tremante. Non era poi così grave e, nonostante l'età, Joseph si
rendeva già conto che quel tono non era di preoccupazione, bensì di
colpa e rimorso.
“Ho quasi diciassette
anni mamma, non sono più un bambino.”
Ribatté sforzando un mezzo
sorriso cui Amelia rispose prontamente. Joseph osservò ancora una
volta il volto di sua madre, segnato da più anni di quanti non ne
avesse davvero. Era sempre impeccabile, educata e ben vestita, sempre
dritta e fiera al braccio di suo padre, sorridente davanti agli amici
di famiglia e determinata accanto ad una marito che chissà, forse
amava, forse no, forse aveva amato solo tanto tempo fa. In
diciassette anni di vita mai, mai aveva visto quello stesso viso
illuminato da un'ombra di reale felicità o almeno così gli
sembrava. Non aveva ancora un'idea precisa di cosa fosse la felicità,
tanto meno di cosa fosse l'amore coniugale.
Si mosse di nuovo cercando
di incrociare le gambe nel più sciolto dei movimenti, un mero
tentativo di tranquillizzarla e rimandarla a letto prima che William
si svegliasse. Purtroppo non riuscì a trattenere quell'unica smorfia
di dolore.
“Joseph devi stare
fermo.”
Raccomandò Amelia, ma lui
insistette provando a raggiungere lo scopo che si era prefisso
“Tranquilla mamma, tanto
devo abituarmi al dolore. Devo imparare ad ignorarlo.”
Lei gli posò una mano sul
ginocchio
“No tesoro mio...”
Parlò con voce ancor più
bassa, quasi stesse per confidargli un segreto
“...Non ignorare il
dolore. Non ignorare nulla di quello che provi.”
Lui aggrottò le
sopracciglia
“Ma è questo che papà
cerca di insegnarci.”
Non è per questo che mi
tratta costantemente come un cane? Concluse nella sua testa. Amelia
strinse le labbra, per un attimo sembrò che stesse per piangere, ma
presto quell'impressione svanì. Scosse la testa
“Non ascoltarlo...”
Inclinò la testa e di
nuovo allungò la mano per accarezzargli il viso
“...Le tue emozioni sono
importanti Joseph.”
“Ma io voglio essere
forte.”
Sua madre sorrise, forse a
malincuore
“Tu sei già forte
Joseph, più forte di tutti i tuoi fratelli...”
Stavolta sorrise anche lui,
abbracciato da quelle parole e dal calore della sua mano sul viso
“...Le tue emozioni ti
porteranno fuori da qui un giorno.”
Avrebbe voluto ribattere,
assicurarle che non voleva affatto andarsene, che non l'avrebbe mai
abbandonata e che l'avrebbe resa fiera di lui, ma Amelia lo zittì
con un dito sulla bocca
“Devo tornare di là
prima che tuo padre si svegli...”
Si alzò lisciando le
grinze sulla vestaglia
“...Tu cerca di non
muoverti troppo.”
Era perplesso, genuinamente
perplesso, incapace di dare senso a quelle parole in un momento della
sua vita in cui non poteva desiderare altro che diventare il soldato
perfetto, forte e coraggioso, principe di ghiaccio di un'intera città
e di un intero impero. Decise quasi subito che non le avrebbe dato
ascolto, non sarebbe mai stato una mammoletta piena di paure e di
debolezze. Doveva essere ferreo e tenace, non lasciarsi piegare né
scalfire dai pugni dei nemici, non lasciarsi ferire dall'indifferenza
e dagli insulti di un padre che sembrava amarlo di meno, o meglio non
amarlo affatto. Già dal giorno del suo quindicesimo compleanno aveva
promesso di smettere di chiedersi cosa avessero in più Caspar, Elia
o Nathaniel e voleva mantenere quella promessa.
///////
Elia sbottonò la giacca
mentre l'alba iniziava ad alzarsi su New Orleans. Era stanco, ma non
voleva tornare a casa da suo padre, tanto meno da sua moglie. Katrina
era forse abbastanza forte da sfondare quella porta, ma non avrebbe
mai potuto superare le inferriate alle finestre o il portone blindato
che non aveva più la stessa serratura né la stessa combinazione.
Joseph non rispondeva al
telefono e non era nel suo appartamento. Dopo averlo cercato in ogni
angolo e bar del centro decise di tornare comunque a casa di suo
fratello ed aspettare. Se non altro avrebbe finalmente posato le sue
stanche membra da qualche parte.
Spinse la porta dello Sweet
Lorraine lasciandola poi sbattere su sé stessa, già diretto
verso il retro. Fu la scarpa scura che spuntava da dietro al bancone
a fermare il suo ultimo passo a mezz'aria, girò la testa e seguì
quella traccia umana fino a scoprire il corpo di Joseph privo di
sensi sul pavimento. La schiena poggiata al bancone e la testa
abbandonata sulla spalle destra, una gamba lunga e l'altra ancora
piegata, le braccia stese lungo i fianchi, la bottiglia vuota ancora
stretta in una mano.
L'odore d'alcool era così
forte che di certo suo fratello non s'era limitato alle due sole
bottiglie che poteva vedere. S'inginocchiò davanti a lui e controllò
che stesse ancora respirando normalmente, gli afferrò la testa e
cercò di svegliarlo.
Joseph non disdegnava bourbon
e whisky, ma non era solito stravolgersi fino a tale punto. L'ultima
volta che l'aveva visto così risaliva a qualche anno prima, dopo il
funerale della loro madre.
Qualcosa come cinque minuti
dopo, quand'era ormai pronto a procurarsi un secchio d'acqua gelata e
ricorrere alle care vecchie maniere, Joseph aprì un occhio solo,
cercando di tener su con fatica la pesantissima palpebra.
La testa pulsava come se lo
stessero prendendo a martellate e la nuvola di colori confusi davanti
ai suoi occhi stentava a ricomporsi. Sentì una mano forte e calda
che lo colpiva in viso, aiutandolo pian piano a tornare alla realtà,
prendendo lentamente la forma di suo fratello
“Elia?...”
La lingua asciutta raspò
contro il palato, mentre le sue pupille s'adattavano alla luce
dell'alba
“...Stai bene?”
Elia si allontanò restandogli
di fronte a ginocchia piegate
“Sicuramente meglio di te,
fratello.”
Joseph si passò una mano
sulla fronte sperando di fermare il continuo tamburellare delle sue
tempie. Elia si tirò su e cercò di procurarsi della semplice acqua
“Che cosa ti ha ridotto in
una condizione così miserabile Joseph?”
Gli domandò porgendogli il
bicchiere. L'altro mandò giù trovandosi travolto dalla realtà come
da un treno, era reale, ogni avvenimento del giorno prima era reale.
Aveva ancora una madre morta ammazzata ed un padre bastardo a cui
farla pagare. Tutta la rabbia era sparita, ma il dolore era sempre
lì. Il suo stomaco minacciò di volersi svuotare sul pavimento,
poggiò le mani sulla pancia e prese un paio di lunghi respiri prima
di guardare Elia
“La mamma.”
Rispose a bassa voce, cercando
inutilmente parole più adatte per dire ciò che doveva dire. Suo
fratello sospirò, erano passati anni ormai, ma sapeva benissimo che
proprio Joseph era stato il più colpito da quella perdita. Con la
scomparsa di Amelia infatti, non solo aveva perso una madre, ma anche
ogni legame col suo passato e con le sue origini. Sebbene riuscisse
benissimo ad ignorarlo per la maggior parte del tempo, non scorreva
alcuna goccia di sangue Michaelson nelle vene di Joseph. Era sì suo
fratello, ma solo per metà.
“Stavi pensando a lei?”
Domandò con casualità,
sperando fosse Joseph ad approfondire la questione se ne aveva
bisogno. Quest'ultimo scosse piano la testa
“Non è stata una fatalità
Elia.”
L'altro sospirò
“Che vuoi dire?”
Joseph cercò di tirarsi su,
ma non ci riuscì.
“Non è stato un malore...”
Guardò suo fratello dal basso
“...E' stata punita.”
Elia aggrottò le
sopracciglia, probabilmente Joseph era ancora ubriaco e solo per
questo ogni sua parola suonava criptica e fuori contesto.
“Punita per cosa?”
“Me.”
Rispose immediatamente
cercando di evitare lo sguardo di Elia che dall'alto lo giudicava
ripetitivo, infantile ed auto commiserevole. Non era esattamente
questo che il maggiore stava pensando, anche se ormai Elia conosceva
bene gli incastri ed i meccanismi nella mente di Joseph. Era
brillante, intelligente, non un ottimo stratega, ma comunque
affidabile, eppure riusciva a perdersi in così poco, che fosse la
pozzanghera della sua solitudine o lo sguardo blu di un'affascinante
sconosciuta. A volte aveva bisogno di ricordare che, a dispetto del
dna, era comunque cresciuto come uno di loro.
“Sei ancora ubriaco Jo.
Parliamone più tardi.”
Il tentativo di Elia di
lasciar cadere la cosa fallì miseramente
“E' stato William. L'ha
uccisa lui.”
Elia si bloccò tenendogli le
spalle. Questo era decisamente più di quanto si sarebbe aspettato
dal post-sbronza di suo fratello. Nonostante il brivido gelido che
gli percorse la schiena, lasciò sfuggire una mezza risata
“Non so proprio da dove
venga fuori quest'assurdità.”
Provò a muoversi di nuovo
senza nemmeno voltarsi, lo stava tranquillamente abbandonando su quel
pavimento come fosse un pazzo visionario e miserabile. Joseph tornò
a sentire la rabbia che fino a quel momento era riuscito ad annegare
“Ho le prove.”
Elia stoppò i passi, voltando
la testa verso l'altro, lo sguardo affilato in attesa delle prossime
parole. Joseph si tirò su ignorando la stanza che gli girava attorno
“Ho i documenti
dell'autopsia...”
Indicò poco distanti i fogli
ormai stropicciati che Cara gli aveva consegnato
“...Il Dottor Griffith ha
confermato.”
Elia raccolse i documenti e li
sfogliò con più attenzione possibile
“Dove li hai presi?”
In quel momento Joseph sentì
di nuovo addosso gli occhi pietosi di Cara. Non poteva dirgli di lei,
del loro incontro, del modo in cui l'aveva lasciata fuggire ancora
una volta. Decise di non parlare e quel silenzio ad Elia sembrò
bastare, poggiò i documenti sul tavolino e restò impalato senza
dire o fare nulla.
Doveva esserci qualcosa di
veramente sbagliato in lui. Quella notizia avrebbe dovuto fargli
crollare la terra sotto i piedi, farlo infuriare, far cadere le sue
certezze. Avrebbe almeno dovuto stringergli il cuore nel petto. Suo
padre aveva provocato la morte di sua madre e lui non sentiva niente,
assolutamente niente.
Joseph aguzzò lo sguardo, non
era certo la reazione che si sarebbe aspettato
“Tutto qui?”
Si avvicinò ingoiando la bile
che gli risaliva l'esofago
“E' questa la tua reazione?”
Elia mandò giù guardando il
soffitto per qualche istante, come se quella bomba gli fosse appena
esplosa accanto senza sfiorarlo nemmeno. Joseph sentì un nuovo pugno
colpirlo allo stomaco
“Sembra che quasi te
l'aspettassi.”
L'altro sospirò
profondamente. William era un vero capo, fiero e senza scrupoli, di
quelli che non tollerano il minimo sgarro. Non era forse tanto più
strano aspettarsi che perdonasse sua moglie dopo un tradimento come
quello? Aveva partorito il figlio di un altro sotto il suo tetto
dopotutto.
Scosse piano la testa
“Ovviamente no Joseph.”
“Allora perché te ne stai
lì impalato? Aiutami.”
“Aiutarti a fare cosa?”
Joseph strinse i pugni
“A vendicare la mamma.”
Elia chiuse gli occhi per un
paio di secondi. Se conosceva bene suo fratello, non aveva dubbi
sulle parole che sarebbero seguite
“Cosa vuoi fare Jo?”
Il più giovane respirò a
pieni polmoni, l'alcool stava già lasciando spazio ad una ritrovata
energia
“Voglio ucciderlo.”
Sentenziò senza dubbi,
gustando quelle parole sulla punta della lingua. Non aveva altro
desiderio, non vedeva altre possibili punizioni che valessero la vita
di sua madre.
Ed eccole lì, esattamente le
parole che Elia stava aspettando. C'era un motivo se aveva sempre
preferito i veleni alle armi e quel motivo era il tempo, il breve
lunghissimo lasso di tempo in cui la vittima si porta il bicchiere
alle labbra, i lunghi minuti con la siringa stretta nella mano
aspettando che il bersaglio ti passi accanto, gli agonizzanti istanti
di dolore in cui resti a guardare, sapendo che hai ancora tempo, che
basterebbe una sola dose d'antidoto per rimediare al tuo gesto. Se
spari in testa a qualcuno o se gli tagli la gola, non c'è antidoto
che tenga.
Joseph vuole tutto e subito.
C'è un costante vuoto dentro di lui che nulla riesce a riempire, il
continuo desiderio di qualcosa che non sa identificare, l'inutile
speranza che un giorno la sua sofferenza sparisca davvero.
“Non farai nulla...”
Lo fissò negli occhi,
guardandolo dapprima raggelarsi per poi contorcersi in una smorfia di
rabbia e d'orgoglio
“...Qualsiasi cosa tu stia
pensando di fare non riporterà indietro nostra madre.”
Cercò di muoversi di nuovo,
stavolta verso la porta d'uscita. Joseph gli si parò davanti
squadrando le spalle
“Non puoi darmi ordini
Elia.”
Era di nuovo furioso ed il
tono, basso ma profondo, lasciava benissimo intendere il suo
ritrovato stato d'animo. Il più anziano sospirò, stimolando ancor
più i suoi nervi scoperti
“Quel maledetto ha ucciso
mia madre!”
Gli urlò in faccia, cercando
di far capire ad Elia quanto la sua reazione fosse dannatamente
assurda.
“E' colpa sua se io non...”
La frase rimase a metà,
interrotta dal repentino movimento di Elia. Joseph si ritrovò in un
istante afferrato per il collo della maglia, spinto contro il
bancone, inchiodato dagli occhi seri e decisi di suo fratello
“Ascoltami bene Joseph.
Questo non riguarda solo te, ma tutti noi. Farai esattamente come ti
dico io.”
La sola idea d'essere
comandato gli fece formicolare le mani. Joseph afferrò i polsi del
fratello ed allontanò le sue mani, l'angolo destro della sua bocca
si sollevò in un sorriso amaro intriso di sarcasmo
“Tutti noi...”
Ridacchiò tra sé e sé
“...Tutti voi vorrai dire.”
Guardò Elia con una nuova
espressione, gelida e distaccata. L'altro scosse la testa
“Non è quello che
intendevo.”
“Ah no? Non stavi forse
cercando di ricordarmi che quel bastardo non è il mio vero padre?
Che io non sono uno di voi? Che l'unico a poter dare ordini qui sei
tu, il solo ed unico William Michealson quarto?”
Sputò il suo nome completo
con sdegno e disprezzo, come mai aveva fatto prima. Elia sospirò
lasciando che l'altro continuasse a studiare il suo sguardo. Non
aveva mai davvero pensato a Joseph come un fratello a metà, mai
prima di quel momento almeno. Per lui William non era altro che un
tutore legale, nulla più del capo crudele e manipolatore che per
tutta la vita l'aveva trattato da cane bastardo. Per lui William non
era mai stato un padre e non c'era in Joseph una sola goccia d'amore
o di rispetto nei suoi confronti, nulla più che disprezzo e voglia
di riscatto.
Per quanto si sforzasse di
ricordare sua madre, Elia non riusciva nemmeno lontanamente a
sentirsi allo stesso modo. Amelia aveva sempre preferito Caspar a lui
e con l'arrivo di Joseph in famiglia, le cose erano ulteriormente
peggiorate. Nessuno più si era preoccupato del piccolo Elia,
abbastanza forte ed indipendente da non aver bisogno di niente.
Assassino o meno, suo padre
era ancora suo padre. C'erano voluti anni, ma alla fine era riuscito
a compiacere le sue aspettative e a guadagnarsi il suo rispetto,
tornando finalmente al primo posto. Che fosse un mostro o meno,
restava comunque l'unico padre che lui, Caspar e Nathaniel avrebbero
mai avuto e non l'avrebbe guardato morire solo per soddisfare i
personali desideri di vendetta di Joseph. La famiglia prima di tutto.
Si bagnò le labbra e fissò
le pupille del più giovane
“Pensa pure ciò che vuoi
Jo, ma non farai niente. Intesi?”
L'altro digrignò i denti,
frenando il desiderio di picchiarlo a sangue. Era davvero stato uno
stupido a cercare il sostegno di suo fratello, avrebbe dovuto
aspettarsi quell'immediato cambio di fronti. Elia si sarebbe sempre e
comunque schierato dalla parte della famiglia, famiglia di cui lui
chiaramente non faceva più parte.
Era solo. Completamente solo
al mondo.
Non avrebbe potuto distinguere
tra paura e sollievo in quel momento, attraversato da una corrente
continua d'emozioni in lotta tra loro. L'uomo davanti a lui non era
più suo fratello, ma un altro tra le migliaia di sconosciuti che
negli anni avevano incontrato il suo sguardo, un'altra persona al
mondo con cui aveva poco in comune, nulla più che qualche cromosoma
e spiacevoli ricordi d'infanzia.
William aveva ucciso i suoi
genitori e l'aveva condannato all'ignoranza. Non avrebbe mai saputo
nulla più della sua nascita, della relazione tra Amelia e Stig o
della terra di suo padre. Non era un Michaelson, ma non aveva altro
cognome. Non era nessuno, non era più nessuno.
Inspirò un'ultima profonda
boccata d'aria stantia
“Esci da casa mia.”
Ordinò, ormai protetto
dall'invisibile muro di cemento che si era costruito attorno in quei
pochi secondi.
Elia si bagnò le labbra,
contemplando l'idea di aggiungere qualcosa. Non riusciva a pensare
chiaramente. Emozioni che non voleva sentire rischiavano di arrivare
in superficie, impegnate nella loro personale rissa tra amore
fraterno, orgoglio e paura, un fiume in piena che non avrebbe mai
saputo gestire.
Ammonì Joseph con un ultimo
sguardo prima di sbattere la porta e sparire.
L'altro rimase immobile nel
silenzio per un paio di minuti, il tempo necessario perché tutta la
rabbia accumulata lo risalisse lentamente e raggiungesse le sue mani
chiuse a pugno. Esplose all'improvviso scaraventandosi contro sedie e
tavoli con tutta la sua furia, spaccando e sbattendo senza remore,
ignorando il vetro tra le dita ed il peso della solitudine sulle
spalle. Chi mai al mondo sarebbe stato dalla sua parte? Chi mai
avrebbe potuto capire cosa stava provando? Così solo, respinto,
accecato dalla sete di vendetta?
Si accasciò ancora una volta
chiudendo gli occhi, sentendo ogni più piccolo dolore che affliggeva
il suo corpo stanco, lasciando che la mente vagasse dove voleva.
Era come lei. Adesso era
esattamente come lei.
/////////
Trovare casa ancora
perfettamente in ordine fu una vera sorpresa. Elia chiuse il grosso
portone e digitò rapidamente il codice, lasciando il mondo fuori da
quelle spesse mura.
La porta della sua stanza da
letto era ancora chiusa ed intatta, nessun pugno sbattuto contro il
legno e nessuna protesta. Elia prese a salire le scale verso il piano
superiore, diretto verso il suo personale studio, lì dove avrebbe
potuto riflettere in pace sulla nuova prospettiva. Joseph si sarebbe
calmato alla fine, ne era quasi certo.
A metà rampa il suo passo si
bloccò a mezz'aria e guardò con la cosa dell'occhio quella porta
chiusa. Katrina era già rimasta lì dentro per ore.
Scese e girò la chiave nella
toppa, aspettando che lei gli si parasse di fronte come una furia.
Quando nulla successe, qualcosa di simile alla più genuina
preoccupazione lo spinse ad entrare.
Con la luce del mattino che
filtrava dalle fessure della persiana, Katrina dormiva stesa sul loro
letto. Si mosse silenziosamente nella penombra finché non riuscì a
guardarla, i capelli ora sciolti e sparsi sul cuscino che stringeva
tra le braccia, i piedi nudi abbandonati sulla coperta scura. Non
riuscì a non sentire quel battito in più del suo cuore, l'ennesima
emozione che spingeva dall'interno. Senza nemmeno accorgersene
allungò una mano e spostò delicatamente una ciocca di capelli che
le copriva il viso. La sua dolce rovina.
Katrina si mosse nel sonno e
lui si scostò subito. Era già di fronte alla porta quando lei aprì
gli occhi ed immediatamente si tirò su, le iridi scure ancora velate
e la voce più roca del solito.
“Elia.”
Lui chiuse le palpebre per un
istante, sforzandosi di tornare fermo e deciso. Si voltò verso
Katrina e scrollò appena le spalle
“Non hai cercato di
fuggire.”
Sottolineò. Lei si ricompose
appena continuando a guardarlo
“Perché non voglio.”
Elia inspirò profondamente.
Non era il momento per le sue bugie. Si limitò ad annuire,
lasciandole intendere quanto le sue parole suonassero inverosimili.
Katrina si alzò in piedi e lo raggiunse, per nulla intimorita dalla
sua reazione.
“Ti prego, lasciami
parlare.”
Stavolta lui scosse il capo.
“Non è davvero il momento
per i tuoi discorsi Katrina.”
Solo al suono del suo nome la
russa riuscì a notare quanto il viso di Elia fosse stanco e
stravolto. Aggrottò le sottili sopracciglia
“Cosa è successo?”
A lui venne quasi da sorridere
“Non giocare a fare la
moglie proprio adesso per favore.”
Voltò le grandi spalle ancora
avvolte nella giacca e spinse sulla maniglia per andarsene il più
lontano possibile
“Ancora non capisci, vero?”
Katrina abbandonò la parvenza
di dolcezza per la sua tipica determinazione, attendendo, coi piedi
ben piantati a terra, che Elia tornasse sui suoi passi. Non ci volle
molto perché tornasse a guardarla, un sopracciglio sollevato che la
sfidava a stupirlo
“Volevo che combattessi.”
Lui aguzzò lo sguardo
“Combattere per cosa? Per
te?”
Già pregustava il
fiammeggiante finale che quella conversazione avrebbe presto
raggiunto. Stavolta fu lei a scuotere la testa e stringere i pugni
“Volevo essere regina...”
Elia rivolse gli occhi al
cielo, quella parola la odiava ormai con tutto il cuore
“...Tua regina.”
Il suo sguardo tornò
immediatamente sulla figura minuta che gli arrivava a malapena alle
spalle, così piccola e così pericolosa
“Quello che ho fatto... Ho
fatto per noi.”
Quelle parole suonarono
assurde, offensive perfino. Se n'era andata, senza nemmeno la decenza
di un biglietto, lasciandolo solo a leccare il suo orgoglio ferito,
schierandosi dalla parte del nemico senza ripensamenti, godendo sotto
il corpo di un altro. Come osava adesso?
“Per noi?!”
Suonò ancora più ridicolo
venendo fuori dalle sue stesse labbra, mentre squadrava le spalle e
l'avvolgeva nella sua minacciosa presenza. Katrina si lasciò coprire
d'ombra senza indietreggiare.
“Te ne sei andata senza una
parola Katrina!”
Le urlò in viso, deciso a
farle rimangiare quelle assurdità
“Ma tu hai cercato me.”
Ribatté lei senza scomporsi,
alimentando la sua incredulità ed il suo nervosismo
“Ti sei alleata con i merli
di Mancini!”
“Perché mi trovassi!”
Anche la voce di lei trovò
nuovo corpo. Possibile che non volesse proprio capire?
Elia allungò le mani per
afferrarla, ma le ritrasse subito al pensiero di ciò che stava per
dire
“Sei stata a letto con Pryce
per Dio!”
Katrina non ribatté
immediatamente, lasciandolo per quegli attimi nella più intensa
agonia.
Scosse il capo fissandolo
dritto negli occhi
“Non mi ha mai toccato.”
Elia indietreggiò d'un passo
cercando d'assorbire quelle parole. L'immagine di Morgan spalmato
addosso a sua moglie era ancora vivida nella sua testa, così come la
sua sporca lingua che ne assaporava la candida pelle. Saltò
afferrandola per le spalle e sbattendola contro il muro
“Non mentirmi!”
La sorpresa sparì di fretta,
Katrina poggiò la mano sul suo polso e lentamente spostò la mano di
Elia dalla spalla al collo, lì dove poteva sentire il suo cuore
battere
“Sai che non è bugia.”
Le vene di Katrina gli
pulsavano addosso, anche se lui non avrebbe mai voluto ascoltare quel
ritmo lento e costante. Non voleva crederle. Non poteva credere che
fosse tutto un piano per portarlo fin lì, per costringerlo ad
attraversare l'inferno e tornare al punto di partenza.
Che razza di marito era mai
stato?
“Perché?”
Domandò, stavolta a mezza
voce, la presa ormai allentata. Katrina inspirò profondamente, i
grandi occhi scuri ancora sgranati, prendendosi il tempo di scegliere
con cura le prossime parole. Il concetto era fin troppo semplice,
l'esito imprevedibile.
“потому
что я люблю тебя.“
Suonava sempre meglio nella
sua lingua natia, come ogni singola volta che l'aveva detto.
Elia le si pietrificò
dinanzi. Era del tutto inaspettato ed era troppo. Troppo presto,
troppo per quel momento già così carico di chiassosi sentimenti,
troppo per le sue orecchie ormai così diffidenti.
Si staccò da sua moglie
indietreggiando immediatamente, lo sguardo perso nel vuoto, ovunque
tranne che su di lei. Katrina preparò il suo ultimo tentativo
“Elia ti prego...”
Non aggiunse altro, gli occhi
di lui restarono piantati a terra.
Katrina aveva tutt'altro
aspetto, ma era in quel momento proprio come Joseph. Tutti e due gli
chiedevano ascolto, tutti e due volevano attenzione, tutti e due con
le loro assurde verità.
Suo fratello e sua moglie, due
estranei che non sapeva più come gestire e come accontentare. Due
pezzi di sé che non sapeva più come amare.
Decise di fare ciò che gli
riusciva meglio. Sollevò lo sguardo per un breve momento, puntando
l'indice al cielo perché il concetto ne fosse amplificato
“Lasciami in pace Katrina.”
Non fu una gentile richiesta,
ma l'ennesimo ordine che aveva sputato in quella giornata, sperando
che almeno uno dei due l'ascoltasse.
////////
Era di nuovo notte. Il giorno
si era spinto lento e pesante fino alla sua inevitabile fine,
trovandola ancora una volta persa per le vie affollate di New
Orleans. Perché fosse ancora lì era un mistero perfino per lei,
quel chiasso non le era familiare come quello di New York e tutti
quegli occhi addosso la facevano sentire continuamente in allerta.
Poteva andarsene quando voleva, tutte le sue poche cose erano chiuse
in una borsa e l'aspettavano nella stanza di un hotel. Tre stelle
stavolta, con le piccole saponette rosa sul bordo della vasca da
bagno e la vista sul fiume. Dopo l'ultima discussione con Little K
era volata a riprendere i suoi averi, decisa a continuare da sola
quel percorso. Nulla era andato come si immaginava, ma aspettava
ancora che da un momento all'altro qualcuno per strada mormorasse di
una lotta intestina scoppiata tra i famosi Michaelson o magari della
morte del grande William, proprio per mano di suo figlio.
Aspettava quel momento per
sparire, trovare Robert e sperare che quanto fatto bastasse.
Varcò la soglia di un locale
e camminò dritta fino al bancone. Avrebbe preso una birra e nulla
più. Non era entrata in quel posto per ubriacarsi infatti, l'aveva
fatto seguendo la musica, la calda ed esuberante voce di un uomo che
ora poteva vedere in carne ed ossa, un tizio dalla pelle scura che si
dimenava sul palco come una vera star.
Li sentì di nuovo in quel
momento, occhi puntati addosso come fulmini. Si voltò di scatto
senza trovarsi dietro nulla più che un branco di persone intente a
vociare rumorosamente, del tutto disinteressate alla sua presenza.
Mandò giù ciò che restava nella bottiglia e lasciò pochi dollari
sul bancone.
Non le piaceva quella
sensazione, il dubbio costante che dietro di lei ci fossero i Pryce o
qualche altro merlo, che fosse Robert in persona venuto a punirla,
che i russi le fossero ancora addosso o che magari proprio uno dei
Michaelson fosse pronto a spararle da un momento all'altro... Magari
proprio Joseph... Dopotutto gli aveva spezzato il cuore, esattamente
dopo aver scoperto che ne aveva uno.
Era strano. Strano, assurdo e
fastidioso. Il pensiero la spaventava giusto un po', ma allo stesso
tempo era come se nell'intimo sperasse di vederlo accadere davvero.
Doveva lasciare quella città
il più presto possibile.
Salì le scale velocemente e
passò la chiave magnetica nella serratura della sua stanza. Sebbene
avesse fretta si prese il tempo d'inalare quell'odore di pout-pourri
che trovava magnifico. Dolci note di cannella miscelate ad arancia e
cedro, col sottile retrogusto di... cos'era quell'odore? Sandalo?
Muschio? Dopobarba da uomo? S'irrigidì nel mezzo della camera.
Quell'odore non c'era la prima volta.
Senza produrre il minimo
rumore indietreggiò d'un solo passo ed allungò la mano verso
l'interruttore della luce. Non aveva armi addosso, avrebbe potuto
contare solo sulle proprie forze.
La stanza s'illuminò in un
singolo istante, rivelando l'intruso comodamente seduto sulla
poltrona accanto al suo letto.
Il cuore le saltò in gola.
“Come mi hai trovato?”
Lui sollevò solo una mano per
rafforzare l'ovvietà della sua risposta
“Questa è la mia città. Ho
occhi dappertutto.”
Joseph se ne stava lì,
apparentemente comodo e rilassato, gli occhi stanchi in contrasto col
bianco pulito della sua camicia. Nulla nella sua espressione lasciava
intravedere le sue intenzioni.
Cara respirò a pieni polmoni
nel tentativo di calmarsi
“Pensavo non volessi più
vedermi.”
Lui staccò la schiena dalla
poltrona continuando a fissarla intensamente
“Infatti...”
Rispose tirandosi su senza
fatica
“...Ma poi ho realizzato...”
Lento e sinuoso coprì i pochi
passi tra loro, arrivandole vicino. Il suo respiro sapeva d'alcool,
ma il suo sguardo era lucido e deciso
“...Sei tutto quello che ho
adesso.”
Cara sollevò gli occhi
aggrottando leggermente le sopracciglia. Il sangue pompava forte
nelle vene e la pancia formicolava.
Lui sollevò la mano e gliela
posò delicatamente sulla guancia in una carezza. Il suo palmo era
bollente contro la pelle, il pollice ruvido contro la ferita che lui
stesso aveva inflitto. Lo stesso dito scivolò poi più giù, a
sfiorare le labbra socchiuse
“Aiutami ad uccidere
William.”
|
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Capitolo 14 *** Capitolo XIV ***
capitoloXIV
GRAZIE! GRAZIE A TUTTI, PER
LA PAZIENZA E PER L'AFFETTO!
Martina
///////
“Pensavo non volessi più
vedermi.”
Lui staccò la schiena dalla
poltrona continuando a fissarla intensamente
“Infatti...”
Rispose tirandosi su senza
fatica
“... Ma poi ho realizzato...
… Sei tutto quello che ho
adesso.”
Joseph sollevò la mano e
gliela posò delicatamente sulla guancia in una carezza.
“Aiutami ad uccidere
William.”
Cara spalancò gli occhi
contro i suoi e staccò il viso dal suo tocco bollente
“Cosa?”
Aveva perfettamente capito le
parole, ma non era affatto sicura che facesse sul serio. Poteva
essere l'ennesimo trucco, sarebbe stato più che plausibile.
Joseph si mosse nella stanza e
lontano da lei, giocherellando coi pendenti dell'improbabile
abat-jour, riprendendo a parlare senza guardarla
“Mi hai detto la verità...
Proprio tu, di tutte le persone al mondo, mi hai detto la verità.”
Gli venne da sorridere.
Cara stette in silenzio
limitandosi ad ascoltare quella che sembrava solo una mera
introduzione al vero discorso. Non attese molto, Joseph riprese fiato
e si spostò nuovamente nelle sue vicinanze
“Ero così arrabbiato
qualche ora fa. Furioso, sconvolto, disperato...”
Tornò a guardarla negli
occhi, ancora senza avvicinarsi. Indicò il nulla con la mano destra
“...Quell'uomo ha ucciso
l'unica persona che avessi al mondo e mio fratello... beh, quello che
consideravo mio fratello, mi ha praticamente riso in faccia...”
Cara sbatté le palpebre un
paio di volte cercando di reggere il suo sguardo così acceso
“...Sono solo adesso.”
Ammise infine, a metà tra la
vergogna e l'orgoglio. I suoi occhi si posarono a terra per qualche
istante e si rialzarono di colpo, ancor più ardenti
“Ora so esattamente cosa hai
sentito mentre guardavi i tuoi genitori morire...”
Stavolta fu Cara a guardare il
pavimento, attraversata dal più rapido e tagliente dei flashback.
Joseph l'obbligò delicatamente a sollevare il mento, poggiando
ancora una volta le dita sul suo viso
“...Dopotutto siamo uguali
io e te.”
Il respiro iniziava a starle
stretto nei polmoni, mentre si perdeva nell'azzurro dei suoi occhi.
Riusciva quasi a vedere le immagini e le idee che prendevano forma
dietro quelle iridi cristalline, terrificanti e seducenti,
esattamente come il loro padrone. Non era il bianco il suo colore,
ogni goccia di luce sembrava infrangersi addosso a lui, risucchiando
tutta l'aria che Cara avrebbe voluto respirare in quel momento.
“Questa ragazzina
misteriosa...”
Lasciò passare una ciocca dei
suoi capelli color platino tra le dita, sfiorandole appena la pelle
col dorso della mano. C'era un mezzo sorriso sul suo viso, non uno di
gioia o d'umorismo, bensì un sorriso compiaciuto e beffardo, quello
di chi pregusta l'atto finale della propria tragedia
“...che è riuscita ad
entrarmi nella testa come niente fosse...”
Lasciò scorrere il dito giù
lungo il suo braccio sottile, lasciando una scia di piccoli brividi
“...che sapeva esattamente
cosa volevo...”
Le accarezzò piano il palmo
della mano, guardandola tendersi come una corda di violino
“...Che sembra conoscermi
meglio di chiunque altro al mondo...”
Smise di toccarla e tuffò gli
occhi nel blu profondo ed agitato di quelli di Cara
“...Dimmi ragazzina. Cos'è
che voglio adesso?”
Avrebbe potuto suonare come
una domanda retorica, ma non lo era affatto. Dall'alto della sua
torre d'avorio, forte della sua armatura di ghiaccio, Joseph sperava
davvero che almeno lei potesse leggergli la mente, che almeno lei
potesse portare un attimo di chiarezza in quella dolorosa confusione.
Cara si leccò le labbra e si
perse nelle sue pupille. Poteva vedere nulla più che il suo stesso
riflesso, ma tanto bastava per avere tutte le risposte
“Vuoi vendetta...”
Iniziò con la parola più
banale
“...Vuoi che William
muoia...”
Strinse il proprio abito tra
le dita
“...Vuoi che sia lento...
lungo.. E straziante...”
Descriveva il delitto come
avrebbe descritto il più erotico degli incontri, con la voce bassa
ed il respiro profondo, passando le mani sui fianchi nel tentativo di
spegnere il calore che le stava rapidamente crescendo dentro.
“...Vuoi che muoia
guardandoti negli occhi, sapendo esattamente perché sta morendo...”
Joseph l'ammirava come si
ammira il raro capolavoro di un artista, totalmente assorbito dalle
sue labbra e dal suo inconsapevole e sensuale ondeggiare
“...Vuoi essere libero.
Libero da tutto questo.”
Non aggiunse altro e stavolta
fu lui a leccarsi le labbra, accarezzandola ancora una volta con gli
occhi dall'alto in basso. Forse la ragazzina dell'aereo non aveva
tutte le risposte, ma di certo sapeva come portare la sua mente a
livelli completamente diversi. William era adesso un pensiero
lontano, come fosse già morto, ucciso dalle sue fantasie. Tutto ciò
che gli sembrava di sentire in quella stanza era l'odore
dell'eccitazione di Cara.
“Hai dimenticato una cosa.”
Provocò lui. Cara prese un
respiro profondo ed abbassò gli occhi, riprendendo l'aspetto della
più innocente creatura. Joseph sentì le mani fremere ed i pantaloni
farsi ancor più stretti
“Già...”
Lei risollevò lo sguardo col
labbro tra i denti
“...Vuoi strapparmi i
vestiti di dosso.”
////////
Nel corridoio che portava allo
studio di suo padre l'aria sembrava improvvisamente farsi fredda.
Elia si passò la mano sulla fronte mentre sudava freddo. Era la
prima volta che guardava in faccia William dopo le rivelazioni di suo
fratello e non aveva idea di come avrebbe reagito. Non sapeva però
cosa lo spaventasse di più, l'eventualità di sentirsi paralizzato e
disgustato o la più probabile possibilità di non sentir nulla.
Quasi certamente era davvero un mostro senza emozioni e varcando
quella soglia l'avrebbe presto scoperto.
William l'accolse di spalle
mentre sistemava un volume sulla mensola più bassa della libreria
“Era ora che ti facessi
vedere figliolo.”
Si voltò nella sua mattiniera
serietà, avvolto nella giacca di lino grigia che teneva aperta sul
gilet dello stesso colore. Dietro di lui il grosso orologio d'ebano
batteva ogni secondo come una martellata. Nulla sembrava diverso dal
solito.
“Sono stato piuttosto
impegnato.”
“Già...”
William sospirò tamburellando
sulla scrivania
“... Pare che tu abbia
venduto le mie proprie europee al caro Pushkin.”
Elia sollevò un sopracciglio
“Le mie proprietà
padre.”
L'anziano sospirò tirandosi
su dalla poltrona di pelle. Sollevò l'indice
“Partiamo da un presupposto
figliolo...”
Aggirò il mobile e gli fu di
fronte
“...Tutto quello che tu e i
tuoi fratelli pensate di possedere non è affatto vostro. Tutto
proviene da me.”
Una prima ondata d'acidità
sembrò riempire la bocca di Elia mentre l'altro continuava
“Vuoi spiegarmi la ragione
di una simile trattativa?”
Elia si sforzò di respirare a
fondo, cercando con tutte le proprie forze di non pensare alle parole
di Joseph.
“Katrina...”
Rispose ed il vecchio aggrottò
le sopracciglia
“...L'ho riportata a casa.”
William tornò serio di colpo,
come se quella rivelazione fosse del tutto inaspettata. Afferrando i
lembi della giacca raggiunse il mobile bar e si versò un dito di
buon whisky. Poco importa che la lancetta più corta sfiorasse a
malapena le nove. Mandò giù e si voltò nuovamente verso suo figlio
“In tutto onestà figliolo,
sono deluso.”
Elia spalancò le braccia
perdendo la sua aplomb per qualche secondo
“Perché? Non era questo che
volevi? Che mi riprendessi ciò che è mio?”
L'altro contemplò l'idea d'un
secondo bicchiere, ma poi si limitò a sospirare, sfoderando un
improbabile sorriso
“Spero solo che tu abbia
imparato la lezione...”
Passò il dito sul bordo del
bicchiere vuoto
“...Tieni tua moglie
tranquilla. Tienila soddisfatta. Tienila fuori dai tuoi affari.”
Moglie. In quel momento
pensare a sua madre fu inevitabile.
“Posso farti una domanda
padre?”
William sembrò spiazzato per
un istante, ma annuì non di meno.
“Certo. Chiedi pure.”
Elia inspirò a fondo
“Come hai fatto a perdonare
la mamma?”
Chiaramente non era la domanda
che poteva aspettarsi. Lo sguardo di William si fece più scuro di
colpo, ma lo sdegno si tramutò presto in una maschera seria senza
ulteriore espressione
“L'ho riportata a casa, le
ho lasciato tenere il suo piccolo bastardo... ma non ho mai detto di
averla perdonata.”
A quelle parole un brivido
gelato attraversò Elia dalla punta dei piedi alla cima dei capelli.
Aveva perfettamente senso, tutto prendeva perfettamente senso.
“Figliolo?”
William lo riportò alla
realtà con una pacca sulla spalla. Elia si tirò indietro
immediatamente, senza controllo sui propri muscoli.
“Ho bisogno che tu stia
concentrato Elia...”
A quel punto suo padre tornò
a sedersi alla scrivania come nulla fosse
“...Sto aspettando un grosso
carico d'armi dalla Serbia e mi aspetto che tu sia lì a gestire le
trattative con me. Dopotutto sei tu il mio erede.”
Il mio erede. Quelle parole
lenivano il suo shock come un balsamo malefico, accarezzando la parte
più presuntuosa ed egoista della sua psiche. Elia scosse la testa
cercando di tornare lucido.
“E saluta tua moglie da
parte mia.”
Che fosse sarcastico o meno,
Elia prese al volo quel saluto e si avvicinò alla porta. Non
riusciva a decifrare il suo stesso stato d'animo. L'aria in quella
stanza sembrava irrespirabile, eppure continuava a soffiargli addosso
senza nemmeno toccarlo.
“Padre?”
“Sì Elia?”
Restando di spalle sentì i
muscoli tendersi
“Tu hai...”
Qualsiasi cosa volesse dire
era sparita, fuggita via più veloce della luce
“Ho cosa figliolo?”
Tutte quelle domande erano
decisamente insolite.
Ucciso nostra madre per
caso?
Elia scosse la testa e spinse
giù la maniglia
“Non importa.”
Corse fuori dallo studio ed
incappò nella scia di profumo di Nathaniel.
“Hey fratello!”
Eccolo lì, nella sua più
completa e vanesia ingenuità
“Finalmente facce familiari,
iniziavo davvero ad annoiarmi!”
Elia cercò di risvegliare la
sua bocca asciutta
“Hai visto Joseph
ultimamente?”
L'altrò corrugò la fronte di
fronte a tanta serietà
“Non negli ultimi due o tre
giorni. E non risponde nemmeno alle mie chiamate... Suppongo stia
ancora smaltendo il suo epico fallimento.”
Elia annuì come se non lo
stesse nemmeno ascoltando
“Puoi farmi un favore Nate?”
L'altro scrollò le spalle
“Certo.”
“Se Joseph dovesse venire
qui chiamami subito, ok?”
L'altro annusò l'insolita
agitazione
“Qualcosa che dovrei
sapere?”
A cosa sarebbe servito
coinvolgere anche il piccolo Nate? Elia scosse il capo e si sforzò
di sorridere
“Niente d'importante.”
Pur non essendo convinto,
Nathaniel sapeva quand'era il caso di star fuori dalle lotte di
potere tra i suoi fratelli, quasi potesse già vederli scontrare le
corna o mordersi al collo solo per il posto da capobranco.
“Ci vediamo fratello.”
Elia sfilò via e Nate riprese
la strada verso il salotto, totalmente ignaro dell'orecchio di
William attaccato alla porta. Solo quando fu certo che i suoi figli
se ne fossero andati prese il telefono e digitò la chiamata breve
“Damien sono io... Ho
bisogno che sorvegli la casa di mio figlio... Elia, sì... E quella
sgualdrina di sua moglie... Chiunque vedessi entrare o uscire
chiamami immediatamente.”
//////////
Era lì nuda, coperta di
sudore, che fissava il soffitto. Poteva ancora sentire la schiena
inarcarsi... Le sue mani erano dappertutto... Le sue labbra sui suoi
punti più sensibili... Il suo viso tra le gambe... Cara strinse le
lenzuola tra le dita, proprio come aveva stretto i capelli di Joseph
mentre lui l'assaporava, lento ed instancabile... Aveva chiuso gli
occhi e serrato le labbra per non urlare, determinata a non perdere
il controllo, nemmeno per un secondo.
Lui voleva sentirla gridare,
voleva che urlasse il suo nome o quello di Dio, che quella voce gli
risuonasse nelle orecchie per tutta la vita.
Voleva i suoi graffi sulla
pelle, sperando di non vederli mai guarire.
Trovò di nuovo la sua bocca.
Il corpo di Cara sembrava così piccolo sotto il suo peso, le sue
lunghe gambe l'abbracciavano alla perfezione, così comodamente che,
fosse stato capace di resistere, avrebbe prolungato quella tortura
all'infinito.
Lei trattenne il fiato quando
lo sentì entrarle dentro... Lento... Quasi dolce perfino... Così
crudele da farle assaporare ogni istante di quel contatto,
costringendola ad ascoltare il tumulto delle sue emozioni.
Quando aprì finalmente gli
occhi lui era lì, immobile dentro di lei, le pupille piantate nelle
sue.
Spostando il peso su un solo
gomito aveva sollevato la mano e le aveva accarezzato il viso,
spostandole dalla fronte una ciocca di capelli. Quel semplice gesto
le aveva provocato un'esplosione nel petto, più forte di qualsiasi
orgasmo, sballo o gioia che avesse mai provato in vita sua.
“Aiutami ad ucciderlo.”
“Dici davvero?”
“Non è quello che volevi
dall'inizio?”
Se ne stette lì seduta sul
letto e basta, mentre il calore di lui l'avvolgeva lentamente,
cercando di capire che razza di trucco fosse... Non era passato molto
dall'ultima volta in cui l'aveva visto perdere il controllo, perso e
disperato.
Ora sembrava determinato,
fermo, di nuovo forte come l'assassino senza pietà che avrebbe
dovuto essere.
Sembrava serio.
Sbottonava piano la
camicia.
Stregante.
Di nuovo le fu vicino e
Cara indietreggiò sulle coperte
“Mi hai distrutto la
vita...”
Iniziò, seguendo il suo
inutile tentativo di star lontana
“...Mi hai fatto quasi
impazzire...”
La inchiodò alla testiera
del letto, rapito per qualche secondo dalla magnifica visione della
spallina che le scendeva sul braccio
“Eppure ti voglio...”
Si avvicinò proprio a
quella spalla ora scoperta
“...Ti voglio in
continuazione...”
Ora le dormiva accanto, pancia
sotto su quel materasso da quattro soldi, le braccia strette al
cuscino ed il viso rilassato di chi non chiude occhio da giorni.
Respirò a pieni polmoni tracciando la linea dei suoi muscoli e del
suo profilo, il suo profilo perfetto.
Non voglio andarmene.
Non voglio fuggire.
Non voglio più fuggire.
Il pensiero le fece sollevare
la schiena in un istante, preoccupandosi solo dopo di averlo potuto
svegliare. In lontananza l'orologio del campanile rintoccava le prime
ore del mattino. Fortunatamente Joseph non si mosse.
Mise i piedi a terra ed
afferrò i suoi vestiti sparsi per il pavimento. Si rivestì nel più
completo silenzio, senza preoccuparsi di sistemare viso o capelli.
Aveva assoluto bisogno di uscire da quella stanza prima che lui si
svegliasse, la sua nuda presenza tra quelle quattro
mura le impediva di pensare lucidamente.
///////
Quando Joseph finalmente aprì
gli occhi, la stanza era quasi completamente inondata di luce, segno
che ormai il sole cadeva a picco su New Orleans. Stirò gambe e
braccia tra le lenzuola, le lunghe ore di sonno avevano dato sollievo
al suo cervello, ma i suoi muscoli pativano ancora la lunga ed
appassionata attività della notte prima. Trattenne il ghigno che
minacciava di affacciarglisi in viso e constatò l'assenza di Cara
dal suo fianco. Nulla di più prevedibile. Nonostante fosse
esattamente ciò che s'aspettava non si sentì meno deluso, se non
altro nel proprio intimo, perché a voce alta non l'avrebbe mai
ammesso, né a lei né a nessun altro.
Sospirando tirò su la schiena
ed allungò nuovamente le braccia. Eccola lì, seduta silenziosamente
sulla stessa poltrona dove lui l'aveva attesa la sera prima. Aveva il
viso pulito ed i lunghi capelli sciolti sulle spalle. Non sembrava
felice, tanto meno delusa o arrabbiata. Era semplicemente lì che lo
fissava, chissà da quanto.
Joseph non seppe cosa dire,
girò gli occhi per la stanza e solo allora si accorse dei bicchieri
di carta poggiati sul piccolo tavolo/scrivania accanto alle buste di
carta marrone. Ogni singola cosa riportava il marchio del CaFé Noir,
una caffetteria non troppo distante dall'hotel.
In quel momento Cara decise
finalmente di parlare
“Il tuo caffé é freddo
ormai.”
Disse atona e lui tornò a
guardarla, sentendosi un completo idiota.
Grande Joseph! Per la prima
volta quest'essere umano prova ad aprirsi con te e tu, come un
coglione, dormi fino a mezzogiorno.
Provò in qualche modo a
sorriderle, ma lei non rispose al gesto. Accavallò le gambe e
intrecciò le mani sul ginocchio scoperto
“Allora, qual è il piano?”
Joseph cercò di accendere il
cervello al volo, ma era ancora troppo stordito dal sonno e dalla
scena che aveva appena vissuto. Sentiva la bocca impastata e non
avrebbe affatto disdegnato una doccia bollente. Si schiarì la voce
“Posso almeno lavarmi la
faccia prima?”
Lei annuì abbassando lo
sguardo e trattenne la voglia di sbirciare mentre Joseph raccoglieva
ed indossava boxer e jeans. Che fosse così maledettamente bello
anche appena sveglio, coi capelli scompigliati ed i segni del cuscino
sul viso, era una vera ingiustizia.
Gli sfilò davanti e stette
non più di cinque o dieci minuti chiuso in bagno. Tornando nella
stanza, ancora a petto nudo, si bloccò di fronte al tavolo e non si
trattenne dal guardare dentro le buste della caffetteria. Dopotutto
il suo stomaco brontolava e negli ultimi giorni non aveva visto nulla
più che alcool e salatini. Trovò un po' di tutto in quei sacchetti,
dai croissant ai muffin, dalle omelette ad un improbabile sandwich
che profumava di funghi o salmone affumicato.
Guardò Cara che fissava
ancora il pavimento, sentendosi i suoi occhi addosso fu però
costretta a ricambiare lo sguardo sorpreso di lui. Scrollò le spalle
cercando di non mostrare l'imbarazzo che lottava per tingerle le
guance di rosso carminio
“Non avevo idea di cosa ti
piace.”
Lui addolcì lo sguardo. Era
la prima cosa gentile che Cara faceva per lui, la prima cosa gentile
che qualcuno faceva per lui da tanto tempo. Forse c'era davvero una
speranza per loro.
“Grazie.”
Rispose convinto, ma a mezza
voce. Non era una parola che diceva spesso. Allungò la mano nel
sacchetto e decise di iniziare dal dolce al cioccolato.
Anche se sapeva che non
avrebbe dovuto importargli, Cara prese mentalmente nota di quella
scelta. Girò rapidamente il volto perché davvero, dopo averlo visto
nudo, arrabbiato, disperato o contorto dall'orgasmo, non voleva
vederlo anche mangiare. Le azioni più semplici creano confidenza e
lei era già convinta che fossero andati troppo in là.
“Che cosa vuoi fare?”
Joseph mandò giù l'ultimo
boccone seguito da un sorso d'acqua, poi si pulì distrattamente le
mani sui jeans e si sedette sul letto
“Non posso andare a casa e
sparargli un colpo in fronte.”
“Appunto.”
Lui sospirò
“Elia conosce le mie
intenzioni. A questo punto immagino che la villa sia già sorvegliata
da cima a fondo.”
Lei scavallò le gambe e
raddrizzò la schiena
“Credi che abbia detto a
William quello che vuoi fare?”
Joseph fissò il nulla per
pochi istanti poi scosse la testa
“No. Anche se considera
William una specie di dio, sono sicuro che cercherà di risolvere le
cose nel modo più pacifico possibile.”
Cara prese a masticarsi in
labbro
“E se invece l'avesse
fatto?”
Lui inspirò sollevando le
sopracciglia
“Non resterei vivo più di
cinque minuti una volta uscito da qui.”
I loro occhi si incrociarono
ancora una volta. L'entusiasmo era sempre lì, ma realismo, tensione
e tristezza cercavano d'ammantarlo. Era pericoloso, unirsi in quel
piano ed uscire da quella stanza senza sapere esattamente cosa li
attendeva fuori era decisamente pericoloso. Per quanto bastardo
William teneva comunque le redini della città ed a quel punto,
quando ormai metà delle carte erano già scoperte, sarebbe stato
difficile sorprenderlo.
“Che facciamo allora?”
Joseph non abbandonò il suo
sguardo mentre verbalizzava l'idea più plausibile
“Le guardie che Elia avrà
piazzato aspettano me. Immagino siano pronte a scattare appena mi
avvicinerò alla villa, ma di certo non mi spareranno a vista.”
“Che vuoi dire?”
“Che darò a loro e ad Elia
ciò che esattamente vogliono...”
Lei aggrottò le sopracciglia
“...Uscirò da qui ed andrò
dritto a casa.”
Cara sembrò ancor più
confusa
“Tutto qui? L'hai appena
detto anche tu, non puoi semplicemente entrare e sparare.”
Joseph sollevò l'angolo della
bocca
“E qui entri in scena tu...”
Lo sguardo di lei s'aguzzò
alla prima ondata d'adrenalina
“...Una volta preso me
abbasseranno la guardia. Tutti pensano che tu sia ormai fuori dal
quadro e di certo non s'aspettano di vederci collaborare.”
“Che dovrei fare?”
L'anticipò lei come una bimba
impaziente.
“Ti dirò esattamente come
intrufolarti alla villa senza essere notata e una volta dentro dovrai
aspettare il momento giusto per muoverti. Elia avrà sicuramente
deciso di isolarmi e farmi il lavaggio del cervello, ma prima o poi
si stancherà e mi lascerà solo. Solo allora dovrai raggiungermi e
tirarmi fuori...”
Si fermò a prendere fiato
“...A quel punto saremo
dentro, liberi di agire.”
Il cuore di Cara batteva forte
sotto le costole, già la scena le sfilava davanti come in un film.
“Quando vuoi farlo?”
Joseph inspirò a pieni
polmoni una volta ancora, portando gli occhi alla finestra che dava
sulla via gremita e pulsante. Non vedeva l'ora di trovarsi a tu per
tu con William, solo loro due ed il suo coltello, tuttavia la bocca
dello stomaco si stringeva fuori dal suo controllo. Forse non sarebbe
mai nemmeno arrivato alla villa, forse Elia l'aveva davvero tradito
nel peggiore dei modi, probabilmente avrebbe perso la vita o comunque
tutta la sua famiglia. Sentiva gli occhi di Cara addosso ed il peso
di quello sguardo continuava a piacergli, lontano da tutto e tutti,
godendo dei loro corpi e delle loro fantasie. Quella bolla di sapone
era la più accogliente in cui si fosse mai rifugiato.
“Appena avrò calcolato
tutto.”
Espressa la sentenza Cara
iniziò a sentirsi scomoda nella poltrona. Stava lasciando ogni cosa
in mano a lui, come un comune soldato di fronte al proprio
comandante. Non poteva fidarsi di lui. Accantonato il fatto di aver
più volte indugiato nel piacere carnale erano comunque nemici,
giusto? Venivano ancora da pianeti diversi e condividevano nulla più
che il desiderio di veder morire un essere spregevole. Una volta
ucciso William non sarebbe rimasto nulla tra loro. Così sperava.
Così temeva.
Si passò le mani sulle
ginocchia fredde, si bagnò le labbra
“Pensi di stare qui nel
frattempo?”
Lui sollevò le spalle
“E' il posto più sicuro per
me.”
Cara annuì abbassando gli
occhi al pavimento. Non faceva una piega, nessuno lo avrebbe cercato
nella sua stanza d'albergo. Si sollevò in silenzio e sollevò
la sua borsa sul lato del letto che Joseph non stava occupando.
Iniziò a ficcarci dentro i pochi stracci sparsi per la camera
“Che stai facendo?”
Le chiese genuinamente
sorpreso. Lei sfilò in bagno ad afferrare spazzola e spazzolino.
Li gettò sgraziatamente nella
stessa borsa
“Se tu starai qui, io mi
troverò un altro posto.”
Joseph si alzò e la guardò
muoversi alla rinfusa
“Puoi anche restare.”
Cara si bloccò di scatto e
gli propose la sua espressione più seria
“Non voglio stare qui con
te.”
Ancora una volta Joseph si
sentì uno stupido. Quella risposta secca non avrebbe dovuto
provocargli alcuna reazione, di certo non fargli male.
“Non ti sei certo lamentata
la notte scorsa.”
Ribatté, più sgarbato di
quanto avrebbe voluto. Non desiderava certo che lei capisse di averlo
ferito.
Cara trattenne il suo sguardo
deciso per qualche secondo in più, poi abbandonò la borsa e
raggiunse il piccolo tavolo. Gli indicò il caffé ormai gelato ed i
sacchetti di carta
“Questa non sono io...”
Joseph sospirò. Il problema
era sempre lo stesso. Nessuno dei due voleva sentirsi vulnerabile.
Nessuno dei due voleva sentire.
“...A me non importa cosa ti
piace o non ti piace...”
Gli fu di fronte, il braccio
sinistro teso lungo il fianco e l'altra mano piantata nello stomaco
“...Queste cose che sento
non significano niente. Non sono niente...”
Lui si limitò ad annuire
lentamente
“...Non starò qui con te.”
Ribadì infine, appena prima
di tirare la zip della borsa e cercare il suo giubbotto. Joseph non
aggiunse o ribatté nulla, diventano una presenza invisibile al
centro della stanza.
“Ti chiamerò qui, così
saprai dove trovarmi.”
Di nuovo nessuna risposta.
Cara passò velocemente davanti allo specchio e sistemò i capelli
sulla spalla, poi aprì il cassetto del comodino e si infilò in
tasca il suo contenuto, all'apparenza nulla più che un documento ed
un paio di fogli piegati.
Infilò ai piedi un paio di
sneakers senza nemmeno slacciarle e sollevò la borsa che non pesava
più di qualche chilo.
Non voleva davvero andarsene,
ma il suo codice di valori la obbligava a fuggire. Non poteva davvero
provare qualcosa per Joseph Michaelson. Se fosse arrivata a quel
punto nessuno avrebbe più potuto salvarla, nemmeno un altro Robert
Mancini.
Aprì la porta senza nemmeno
salutarlo, ma immediatamente la stessa porta le si richiuse davanti
spinta dalla mano di Joseph, più grande, in alto e forte della sua.
Sentiva il peso di lui spinto
contro la schiena, il suo respiro deciso nei capelli, poteva vedere
ogni muscolo del suo braccio ancora teso contro il legno.
“Resta qui.”
Erano le parole di una
preghiera, ma gli uscirono di bocca come un ordine.
Cara chiuse gli occhi mentre
la barba incolta di Joseph le pizzicava il lato del viso. Col braccio
libero le circondò la vita
“Non voglio nulla più che
il tuo corpo...”
Le sussurrò all'orecchio, un
secondo prima di far forza e costringerla a voltarsi verso di lui
“...Te lo prometto.”
Non era esattamente vero, ma
se lo sarebbe fatto bastare.
///////
Elia entrò in casa sua come
una furia, buttando con forza la giacca sul divano. Era così
frustrante per lui non sapere cosa fare.
“Dove sei stato?”
Da dietro la voce di Katrina
lo raggiunse come un macigno dritto sulle spalle. Si voltò verso di
lei
“Ma non ti stanchi mai?”
Ribatté scocciato con
un'altra domanda. Lei, ancora appoggiata allo stipite della porta
della cucina, sgranò i grandi occhi scuri
“Perché io, in tutta onestà
Katrina, sono stanco...”
Allentò la cravatta
“...Voglio dormire. Voglio
farmi una doccia. Di sicuro non voglio sentire i tuoi sproloqui.”
Si avviò verso le scale
“Non so nemmeno perché ti
ho riportata qui.”
Quelle parole fecero vacillare
la perfetta facciata di sua moglie per un istante. Elia non poté
nemmeno vederla tremare, dato che era di spalle, ma ciononostante si
fermò dopo pochi gradini. Usare quel tono e quello sdegno non era
da lui, il Michaelson famoso per la sua calma, la sua lealtà e la
sua gentilezza. Aver già perso un punto fermo era abbastanza, non
serviva dare il via all'ennesima orribile giornata.
Tornò giù, guardando la
donna a piedi nudi che gli stava di fronte
“Ero a parlare con mio
padre.”
Si spiegò con poche
necessarie parole. Di rigetto vide Katrina tendersi come una corda di
violino e trattenere a stento una smorfia.
Rise tra sé e sé
“Anche tu...”
Allargò le braccia guardando
al cielo
“...Possibile che abbiate
tutti la stessa reazione? Appena nomino mio padre è come se avessi
nominato satana!”
Katrina evitò di usare il suo
tono più sprezzante, ma nondimeno rispose
“Lui è un mostro.”
Suo marito scosse la testa
“Davvero? E a te cos'ha
fatto?”
Stavolta lei abbassò lo
sguardo tenendo il labbro tra i denti
“Come immaginavo.”
Sottolineò Elia davanti al
suo silenzio
“Non dovresti ascoltare
lui.”
Riprese Katrina cercando
d'essere il più possibile convincente. Lui sollevò un sopracciglio
“E chi dovrei ascoltare? Te?
Non mi hai certo mentito meno di lui.”
Fantastico. Il festival
dell'ovvietà sembrava pararglisi dinanzi. Esattamente come previsto
lei strinse i pugni e si fece avanti
“Ti dirò la verità Elia.
Stavolta ti dirò la verità.”
Lui scosse la testa
“Non sai neanche cosa voglia
dire quella parola.”
“William non vuole il tuo
bene. Vuole solo controllo... E potere.”
“Ti prego, dimmi qualcosa
che non abbia già sentito un milione di volte.”
Katrina prese fiato
“Non ho mai voluto uccidere
te o tuoi fratelli...”
Sfoderò lo sguardo ammaliante
con cui più e più l'aveva incantato
“Volevo uccidere solo tuo
padre. Così sarebbe stato fuori da mia vita. Da nostra vita.”
Quel maledetto accento. Come
poteva amarlo ed odiarlo allo stesso tempo?
“Non è certo lui il nostro
problema.”
“E' nostro problema!”
Il tono di Katrina si sollevò,
richiamando la completa attenzione di Elia
“Hai sempre messo lui in
primo posto.”
Non sapeva davvero se sentirsi
offeso oppure in colpa, ma al momento il rimorso sembrava poter
vincere su tutto il resto
“Avevo un piano.”
Elia si sedette sul terzo
gradino poggiando i gomiti sulle ginocchia
“Che piano?”
Il tono era esasperato, non
sapeva che altra invenzione aspettarsi da Katrina
“Sono andata via. Sono
andata dai merli perché sono unici che possono competere con voi...”
Le fece cenno di continuare,
non avrebbe saputo come ribattere
“...Tu non avresti mai
ascoltato mie ragioni, ma loro potevano aiutarmi a togliere tuo padre
da nostra strada... Per avere nostra vita.”
Lui scosse di nuovo la testa
“Non capisco. Credi davvero
che uccidere mio padre sarebbe stata una specie di dimostrazione
d'amore?”
Katrina era visibilmente
nervosa, tremava tutta senza nemmeno accorgersene
“Con padre che tu hai? E'
cosa migliore che posso fare per te.”
Stavolta gli venne sul serio
da ridere. Cosa poteva mai saperne Katrina di suo padre? Era arrivata
dritta dalla Russia pochi anni prima e si erano scambiati a malapena
dieci parole in tutto.
“Non capisci?”
Riprese lei sbattendo i piedi
sul pavimento
“Senza di lui avresti più
potere di tutti tuoi fratelli. Saresti re di tutto questo!...”
Anche lei spalancò le braccia
“...Ma senza un capo che
dice tutto quello che devi fare. Senza paura... Senza vergogna di
amare tua moglie.”
La sua voce si abbassò di
colpo, lasciando Elia nel silenzio a guardarla. Non si era mai
vergognato di amarla anzi, era forse stata la più bella scoperta
della sua vita. Ne era terrorizzato, questo è vero, ma aveva cercato
poco per volta di sgretolare i propri muri. E' anche vero che non lo
avrebbe mai urlato ai quattro venti e forse mai nemmeno ammesso
davanti a William o ai suoi fratelli, ma nondimeno l'amava.
Katrina, dal suo canto,
continuava a pensare a tutte le volte che era rimasta sola tra quelle
mura, tutte le volte in cui William aveva chiamato ed Elia era corso
via come un cagnolino al richiamo del suo padrone. Amava la lealtà
di suo marito, ma avrebbe tanto voluto che quella stessa lealtà
fosse stata rivolta a lei e non solamente a quel mostro che lui
chiamava padre.
“Non mi sono mai vergognato
di te.”
Precisò davanti alla rabbia,
mista a tristezza, che le tingeva il viso. Katrina tenne i pugni
stretti benché improvvisamente sentisse la voglia di piangere
“Mi hai nascosta qui, come
se fosse mia prigione. Sempre sola. Sempre zitta.”
Quelle parole gli trafissero
il petto. Non solo era persona ignobile senza sentimenti, non solo
era uno schifo di fratello, era anche il peggiore dei mariti. Ormai
oltre i suoi trentacinque anni, non c'era una sola cosa che avesse
fatto bene nella sua vita, nemmeno quella che aveva amato di più.
“Mi dispiace.”
Riuscì a dire tra le labbra.
Avrebbe avuto voglia di raggiungerla e magari toccarla, ma tutto ciò
che fece fu afferrare la giaccia ed uscire di nuovo, ripetendo lo
stesso schema malato che Katrina gli aveva appena rinfacciato.
Lei sospirò sentendo la porta
sbattere. Avrebbe voluto spaccare a pugni ogni cosa che aveva
attorno, ma doveva contenersi se sperava prima o poi di recuperare un
po' della fiducia persa.
Quando bussarono alla porta
pensò immediatamente che Elia fosse tornato sui suoi passi e corse
ad aprire.
Divenne bianca come un
lenzuolo alla vista di suo suocero, serio come una lapide sull'uscio
della sua casa.
Non si sprecò a chiedere il
permesso di entrare
“Dovrei dire bentornata, ma
sai già che non sarà un felice ritorno.”
Katrina chiuse la porta. Aveva
imparato qualche trucco o due negli ultimi anni, stavolta poteva
difendersi.
“Che cosa vuoi?”
Lo sfidò. Per quanto ne
sapeva avrebbe tranquillamente potuto avere una pistola in tasca con
un colpo in canna destinato a lei, ma la ragione le urlava che non
avrebbe mai ucciso la moglie del suo figlio preferito nel loro
soggiorno.
Lui divenne una maschera di
ghiaccio
“Non sei nella posizione di
fare domande Pushkina.”
Le si avvicinò minaccioso
“Non saresti dovuta
tornare.”
Lei sollevò il mento,
determinata a mostrare che stavolta non l'avrebbe intimidita
“Elia ha pagato per me. Cose
avrei dovuto dire? No? Avrei dovuto spiegare lui perché?”
William sembrò sputar fumo
dalle orecchie di fronte a tanta audacia. Sentì le mani formicolare
al chiaro desiderio di farle del male
“Se gli hai raccontato
qualcosa ti strangolo con le mie stesse mani.”
Katrina deglutì. Avrebbe
potuto farlo, fregandosene di Elia o addirittura inscenando una nuova
fuga. Si sforzò di respirare
“Pensi che parlerebbe ancora
con te se sapesse verità?”
L'altro aguzzò lo sguardo
“Bene.”
Come fosse il padrone di casa
raggiunse la bottiglia di vino aperta sul bancone dalla sera prima e
se ne versò un abbondante bicchiere. Lo mandò giù d'un fiato
“Io ho rispettato la mia
parte dell'accordo. Tu perché sei di nuovo qui?”
Katrina digrignò i denti e
strinse i pugni
“Noi non abbiamo accordo! Tu
hai obbligato me ad andare via!”
Lui quasi sorrise, ancor più
agghiacciante della sua più seria espressione
“Questione di semantica cara
Katrina... Questione di semantica.”
Le girò attorno come un
predatore. Nonostante l'aspetto un po' attempato era ancora
perfettamente in grado di mettere in soggezione le sue vittime da
solo, senza l'aiuto di schiavi e scagnozzi. Le si parò di fronte e
le toccò i capelli sciolti sulle spalle. Katrina si ritrasse
sforzandosi di trattenere l'ampio disgusto. Lui sorrise
“Mi aspetto che tu sparisca.
Stavolta per sempre.”
Lei indietreggiò appena un
po'
“E se non volessi?”
William tuonò in una
fragorosa risate che immediatamente morì tra le sue labbra coperte
di barba
“Dimmi Katrina, tu vuoi
morire?”
La russa respirò a pieni
polmoni cercando di ridarsi un tono, nella mente ripassò rapidamente
ciò che Morgan Pryce e gli altri merli le avevano insegnato. Drizzò
la schiena come una gatta e sfoderò il suo sguardo migliore
“E tu vuoi che dica a Elia
cosa hai fatto due anni fa?”
William sembrò pietrificarsi.
Lei continuò
“Anche se uccidi me adesso,
Elia saprà che sei stato tu. Lui odierà te. Tutti tuoi figli
odieranno te.”
Con uno scatto altrettanto
felino William le chiuse la mano destra attorno al collo e la spinse
al muro
“Non è una guerra che puoi
vincere sgualdrina russa.”
Le sussurrò all'orecchio
facendola contorcere di disgusto e ribrezzo, cercando con la mano
libera dei punti del suo corpo che mai e poi mai Katrina avrebbe
voluto sentir toccati dal padre bastardo di suo marito. Si fece di
pietra e non si mosse, se l'avesse provocato ancora un po' avrebbe
quasi certamente dovuto poi spiegare i suoi lividi ad Elia, non si sa
con quali parole.
“Sparisci da qui.”
Concluse lui mollandola con
un'ultima spinta sgraziata. Con un colpo secco della porta fu
finalmente fuori di lì.
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Capitolo 15 *** Capitolo XV ***
capitoloXV
CAPITOLO
XV
Quando
aveva detto di volere nulla più che il suo corpo, nel momento in
cui aveva tacitamente accettato quell'accordo, di certo Cara aveva
sottovalutato le capacità dell'uomo che gliel'aveva proposto. Le
gambe le facevano male, gli addominali tiravano e sotto le dita
riusciva a sentire i due lividi all'altezza del bacino che sembravano
non voler più guarire. Sei giorni, sei interi giorni in cui non
avevano fatto altro che provare ad evitarsi per poi accoppiarsi come
animali sulla prima superficie utile.
Succedeva
così, a volte dal nulla, a volte in risposta a qualcuno dei suoi
acidi commenti, altre volte alla fine dell'ennesima lite sul da
farsi. Qualsiasi cosa significasse, di certo li aiutava a non legare
troppo, costretti com'erano sotto lo stesso tetto. Consumavano i
pasti in silenzio, condividendo poi lo stesso letto ogni notte, lui
dal proprio lato e lei che gli dava le spalle, stringendo sé stessa
negli ultimi venti centimetri di materasso. Poteva sentire gli occhi
di Joseph che le accarezzavano le spalle per poi tornare a fissare il
soffitto, aveva qualcosa da dire, ma continuava a trattenersi,
consapevole del fatto che lei non avrebbe voluto ascoltare.
Ci
aveva provato. Aveva provato ad accettare la sua presenza tra quelle
quattro mura, fingendo che non fosse nulla di diverso dall'avere tra
i piedi Morgan o Little K, ma la realtà l'aveva presto smentita. Tre
sere prima aveva diviso con lui un sacchetto di patatine davanti
alla tv. Il silenzio era esattamente lo stesso. Cara si era voltata
distrattamente verso di lui ed era rimasta a guardarlo mentre si
leccava il sale dalle dita. Joseph aveva intercettato il suo sguardo
curioso e per una volta, senza lussuria e senza malizia, le aveva
sorriso. Il suo minuscolo cuore aveva sobbalzato, mettendosi a
battere forte. Da quel momento le condivisioni si erano interrotte ed
i suoi occhi raramente lasciavano il pavimento. L'unico argomento
consentito era il piano per uccidere William.
Il
sesso era tutta un'altra storia. Senza vestiti ogni parola era
concessa, soprattutto qualsiasi cattiveria potesse venire fuori dalle
labbra di Joseph e portarla all'orgasmo ancor più velocemente. Era
arrabbiato con lei, così profondamente arrabbiato da farle scontare
le sue colpe ogni volta che poteva. Contro il muro, sul pavimento, su
quella pidocchiosa poltrona.
Ed
eccolo lì, entrare dalla porta interrompendo i suoi pensieri prima
che scavassero troppo a fondo. Era uscito nel cuore di quella notte
fredda, indossando nulla più che dei jeans ed una t-shirt grigia,
per incontrare il suo uomo, una delle guardie di suo padre disposta a
rischiare la pelle per consegnargli le mappe dei sotterranei della
villa. Conosceva le gallerie sotto quei terreni come il palmo della
sua mano, ma non sarebbe potuto essere al fianco di Cara mentre le
attraversava e voleva che tutto fosse preparato alla perfezione.
Stese
la mappa sul letto dopo aver preso a calci l'ennesimo cartone della
pizza che gli intralciava il cammino
“Vieni
qui.”
Le
ordinò piuttosto atono, aspettando che si alzasse dal suo angolino
sul pavimento e lo raggiungesse. Cara obbedì al comando senza
proteste, portandosi al suo fianco a piedi nudi, scrutando le linee
confuse che spiccavano sulla carta giallastra. Joseph si chinò
abbastanza da raggiungere un punto preciso del disegno col
polpastrello dell'indice
“Entrerai
da qui...”
Il
suo dito prese a scorrere sulla carta
“...Destra.
Sinistra. Dritta fino al secondo snodo. Destra di nuovo e sali la
scala fino alla botola.”
Lei
ripercorse la traccia immaginaria lasciata dalla sua mano
“Destra.
Sinistra. Dritto fino al secondo. Destra.”
Ripeté
a mezza voce ancora una volta benché quelle istruzioni fossero già
incise a fuoco nella sua mente. Lui continuò invece ad esplorare la
cartina, cercando bene che non ci fossero variazioni fatte negli
ultimi anni che lui ignorava. Tutto sembrava a posto. Rimasero a
fissare il foglio ancora per un minuto, poi lei si allontanò per
prima
“Sei
sicura di avere tutto chiaro?”
Chiese
Joseph continuando a darle le spalle. Non gli serviva voltarsi per
sapere che stava fissando la moquette con sufficienza.
“E'
il mio lavoro. Sono capace di farlo.”
Lui
strinse i pugni, ormai abituato a sentire i nervi solleticati da quel
tono distaccato, quasi saccente. Era cambiato tutto di botto, proprio
nel momento in cui pensava di essere riuscito a scalfire la sua
solida corazza. L'aveva vista rilassata, riempirsi la bocca di
schifezze come se non ci fosse un domani, appallottolarsi tra le
lenzuola e cercare più calore avvicinandosi piano al centro del
letto. Aveva visto il suo lato umano, apparso lentamente e poi
sfuggito in un batter d'occhio. Ora stava andando dritta in bagno,
senza più degnarlo di uno sguardo.
“Fermati.”
Cara
bloccò i passi sulla soglia del bagno, attendendo la sua calda
presenza alle spalle. Malgrado i muscoli chiedessero già pietà, non
avrebbe disdegnato un altro round. Era tesa, nervosa, perfino
spaventata al pensiero dell'ultima missione che di lì a poco avrebbe
affrontato. Le serviva una distrazione efficace.
Il
braccio di Joseph le cinse la vita e strinse, forte. L'altra mano le
afferrò i capelli e tirò. La barba incolta le solleticava
l'orecchio e la curva del collo appena scoperti
“Non
c'è bisogno di fare la stronza...”
Piazzò
un primo bacio umido sulla sua pelle
“...O
l'insolente.”
Il
suo tono era suadente, ma autoritario, il suo tocco leggero, ma
possessivo. La vide chiudere gli occhi e capì di avere ancora una
volta libero accesso. Era il loro gioco e lui doveva giocare. Aveva
promesso di non chiedere nulla più di quel corpo e l'orgoglio gli
impediva di ammettere che era ormai stanco. Non di lei, no, solo di
quella partita, della freddezza, del dover essere dominatore a tutti
i costi. Aveva bisogno di qualcosa in più, soprattutto adesso che la
sua vita volgeva al punto di svolta. Sarebbe morto o sarebbe stato
libero, non c'era via di mezzo.
Allentò
la presa appena un po' per sollevare l'orlo della maglietta di Cara e
sentire la sua pelle contro la propria. Aveva davanti il lavandino
del bagno e decise che proprio lì l'avrebbe presa, da dietro, tanto
per testare una nuova variazione sul tema. Prima però l'avrebbe
spogliata. Tutta.
Nonostante
avesse un gran bel corpo, la ragazzina sembrava avere problemi con la
propria nudità. Pareva sempre ritrarsi, cercando di nascondersi nel
buio o dietro le proprie mani, quasi riuscisse a provare della
genuina vergogna. L'idea lo faceva eccitare.
Strinse
di nuovo la presa, mordendo la tenera carne della sua spalla,
cercando la zip dei suoi jeans con la mano libera. Cara se li lasciò
sfilare lungo i fianchi, calciandoli via non appena sul pavimento.
Solo allora lui la spinse dentro la piccola stanza dalle piastrelle
color pervinca e contro il bordo della fredda ceramica.
Immediatamente poggiò i palmi su quello stesso gelido materiale,
aspettando trepidante che lui facesse tutto il resto. Joseph le
sollevò velocemente la t-shirt sulle spalle e senza troppa grazia
gliela sfilò dalla testa. Cara cercò subito di voltarsi verso di
lui, ma Joseph la spinse di nuovo giù sul lavandino, il suo
tentativo di protesta presto soffocato dalla sua mano sulla labbra
“Nessuna
chiacchiera. Guarda e basta.”
Ordinò
con un cenno del viso rivolto allo specchio che avevano davanti. Cara
incontrò i suoi occhi riflessi sul vetro e rimase immobile mentre lo
guardava sbottonare i pantaloni, scuro e freddo come al solito. La
guardava ancora con lo stesso disperato desiderio, ma mal celava la
rabbia e l'odio che gli si mescolavano dentro. Avrebbe probabilmente
provato lo stesso identico piacere nel sbatterle la testa al muro.
Cara
sentì il tessuto leggero della biancheria accarezzarle le gambe e si
tese come una corda di violino. Abbassò le palpebre appena un
attimo, ma immediatamente sentì le sue dita sotto il mento
“Ti
ho detto di guardare.”
Quel
tono glaciale le faceva tremare le ginocchia e contrarre le viscere,
ma non era certo eccitante quanto quella scintilla, quell'impeto di
passione e speranza che aveva spinto il Lupo a lottare per lei e che
adesso sembrava sparito. Per colpa sua.
Le
afferrò la vita con le mani ancora una volta, stringendo con
fermezza mentre la penetrava con una sola spinta decisa. Cara strizzò
gli occhi per un istante e lui non poté non apprezzare quella
smorfia di dolore. Non voleva che soffrisse, ma nemmeno che le
piacesse troppo. Per avere ancora la sua completa attenzione la
ragazzina avrebbe dovuto mettere sul piatto molto più che le sue
sole carni. Un paio di gambe tornite ed una vagina calda non erano
certo abbastanza per uno nella sua posizione. Joseph voleva scalfire
lo spessore del suo orgoglio, voleva veder la sua corazza sanguinare
il fuoco delle sue emozioni e convincersi attraverso lei che qualcuno
al mondo l'avrebbe finalmente amato di nuovo.
Spinse
ancor più forte pensando a Mancini, digrignando i denti al cocente
pensiero che proprio lui tra tutti possedeva l'anima di quella donna.
Forse l'aveva anche scopata per primo, prendendosi la sua verginità
e la sua innocenza per sempre, rendendola inservibile, lasciandogli
null'altro che un guscio vuoto in cui riversare le sue inutile
fantasie. L'immagine delle mani del vecchio su quella stessa pelle
infuocarono l'ira che aveva dentro, trasformando quell'amplesso in
una tortura. Conficcò le dita nella carne di Cara fino a toglierle
il respiro, spingendo come un forsennato e da un angolo innaturale
che sapeva avrebbe fatto null'altro che male contro le sue pareti
interne. Lei tentò di sollevarsi , ma la sua forza la teneva giù,
con gli occhi piantati contro lo specchio. Joseph non la stava più
guardando però, fissava il vuoto perso in non si sa quali pensieri,
gli occhi anneriti dalla rabbia e la mascella serrata. Le sue mani la
stavano ferendo deliberatamente ed il dolore che sentiva dentro aveva
ormai cancellato ogni ombra di passione.
“Ba..
Basta.”
Balbettò.
Il suo respiro appannò il vetro, ma la sua voce non coprì il rumore
dei loro corpi che sbattevano con violenza. Ancora una volta cercò
invano di sollevarsi dalla sua morsa e lanciò indietro il braccio
destro cerando di colpirlo e riportarlo alla realtà. Un pugno. Due
pugni. Un colpo ancora contro il braccio, più forte che poteva.
“Fermati..
Ti prego basta!”
Lui
si congelò all'istante, finalmente immobile. Nel battere inesorabile
del suo cuore poteva ora sentire il lontano ma pesante respiro di
Cara. Abbassò lo sguardo lì dove le sue dita avevano ormai lasciato
profondi segni rossi ed immediatamente ritrasse le mani.
Inaspettatamente lei non si mosse. Teneva di nuovo la testa giù, non
abbastanza bassa da nascondere quella sola singola lacrima che
pendeva dal monte del suo zigomo, pronta a cadere e sparire tra altre
mille gocce d'acqua, come non fosse mai stata lì.
Joseph
sentì il mondo fermarsi. Era anche quella un'emozione, ma non certo
la stessa che aveva sperato di farle provare.
“Mi...
Mi dispiace.”
Fu
un suono appena udibile. Non abbastanza da farla smuovere. Provò a
toccarla di nuovo, ma non ne ebbe il coraggio. Le sue gambe
tremavano, ma non accennava a volersi muovere o a voler dire
qualcosa. Un nuovo tipo di panico gli si dipinse in volto in quel
silenzio assordante. Era davvero un mostro dopo tutto.
Dopo
brevi secondi che a lui sembrarono ore finalmente Cara si mosse,
sollevandosi piano, facendo ben cura che i loro occhi non si
incrociassero più in quel maledetto specchio. Si voltò sentendosi
più nuda di quanto già non fosse, incapace di guardarlo in faccia e
chiedergli di sparire il più veloce possibile dalla sua vista. Se
avesse aperto bocca, fosse stato anche solo per una sillaba,
tonnellate di lacrime e singhiozzi si sarebbero riversati senza
sosta. Se lo sentiva dentro quel fiume in piena, pronto a trascinarla
via.
“Mi
dispiace.”
Ripeté
lui, ancora esitante, ma più convinto di pochi secondi prima, pronto
a sollevare piano una mano alla ricerca del suo viso. Cara scosse
subito la testa e lui si ritirò, senza sapere che pensieri
diametralmente opposti affollavano le loro menti. Non lo stava
scacciando per paura di lui, e nemmeno per il dolore fisico, a quello
era abituata. Ciò che la teneva incollata a quelle mattonelle era il
timore di frantumarsi tra le sue mani, l'immensa sorpresa ed il
terrore di desiderare un po' di umano conforto, la voglia di essere
abbracciata.
Come
quasi potesse leggerle nella mente Joseph fece un altro tentativo,
allungando le dita e sfiorandole appena la guancia. Cara chiuse gli
occhi, ma stavolta non si mosse, lasciando che pian piano le
spostasse una ciocca di biondi capelli arruffati dietro l'orecchio.
“Scusami.”
Sussurrò
e fuori dalle sue labbra fu una parola così strana e preziosa che
quell'onda la travolse ancora, affacciandosi ai suoi occhi ancor più
prepotente. Joseph non poté non notare il bordo delle sue ciglia che
diveniva lucido e d'improvviso, mentre lo stomaco gli si torceva
dietro le costole, si sentì a disagio davanti a quel corpo nudo che
tanto amava. Senza chiedere più permessi la sollevò di peso tra le
braccia e la portò in stanza, adagiandola sulle lenzuola sgualcite
con quanta più delicatezza possibile. Tirò su le coperte fino alle
spalle e solo allora lei riaprì gli occhi. Gli fu immediatamente
chiaro che tratteneva un singhiozzo di pianto con tutte le sue forze,
le labbra serrate e le iridi lucenti che lo fissavano in cerca di
qualcosa, non aveva idea cosa.
Fu
come un miracolo che gli si palesava davanti, esattamente come il
primo momento in cui l'aveva vista. Il suo cuore prese a battere
veloce ancora una volta e decise che, proprio come su quell'aereo,
anche stavolta avrebbe giocato tutta la sua fortuna.
Delicatamente
salì sul letto e le si sdraiò accanto, sopra le coperte ma
abbastanza vicino da poter poggiare la testa sul suo stesso cuscino.
L'odore dolce dei suoi capelli gli riempì il naso non appena posò
le labbra sul suo scalpo. Allungò il braccio e le cinse la vita
ancora una volta, nel più inesperto e tremolante abbraccio di
sempre. Lo spasmo delle spalle di Cara lo fece quasi ritrarre, ma non
gli ci volle molto più di una manciata di secondi per realizzare che
non lo stava scacciando. Stava piangendo.
Il
suono delle sue lacrime riempì la stanza sovrastando ogni altro
rumore, singhiozzava e tremava come una foglia, totalmente spogliata
di ogni superbia ed ogni armatura, immensamente piccola e fragile nel
suo grande abbraccio.
Era
qualcosa di completamente nuovo per tutti e due, lei disperata e lui
terrorizzato, del tutto ignaro di cosa avrebbe dovuto dire o fare.
Avrebbe voluto accarezzarle i capelli e sussurrarle dolci nonnulla
nelle orecchie, ma le sue mani pesavano come massi e la sua lingua
era incollata al palato.
Cara
aveva ormai le guance infiammate ed il respiro corto, ma non riusciva
a fermarsi, neanche provando con tutte le sue forze. Improvvisamente
la realtà le era crollata addosso da tutti i punti, colpendola di
forza coi macigni del dolore e gli schiaffi sonanti della paura. Era
sola ed impaurita come quella sera nella toilette della Salle de
Paris, troppo piccola e debole per affrontare i mostri che la
circondavano. Le mancava sua madre e le dolevano tutti i lividi e le
cicatrici dei colpi presi. Le mancava il suo letto ed il profumo dei
panni puliti. Non ne avrebbe più avuti, non avrebbe più avuto nulla
eccetto quel vuoto dentro, quell'enorme voragine che inghiottiva
tutto ciò che toccava, che minacciava di mandarla giù tutt'intera.
Riusciva
bene a sentire il corpo di Joseph accanto al suo e quel calore la
faceva sprofondare ancor più in fretta nell'oblio. Non voleva e non
poteva aver bisogno di lui. Se l'avesse lasciato entrare, quel pesto
buio avrebbe presto masticato anche lui, lasciandola senza cuore e
senza più nemici da combattere.
William.
Un
altro sussulto l'attraversò da capo a piedi. Il terrore. E se non
fosse stata abbastanza forte? E se non fosse stata abbastanza brava?
Non era la morte a spaventarla, ma l'idea che forse nulla sarebbe
cambiato, quel dubbio strisciante con cui aveva sempre convissuto, ma
che solo ora urlava libero nella sua testa. Joseph aveva ragione. I
suoi genitori non sarebbero più tornati. Nessuno l'avrebbe più
abbracciata.
-------
Elia
spalancò gli occhi di colpo. Gli ci vollero un paio di secondi
almeno per mettere a fuoco la stanza e capire che si trovava nel suo
studio, con la faccia spalmata sulla scrivania ed il braccio destro
addormentato. Si tirò su lentamente, allungando la schiena affinché
quelle fitte dolorose sparissero il prima possibile. Non ricordava
come e quando si fosse addormentato, l'ultima reminiscenza un sms da
uno dei suoi collaboratori che confermava di non aver visto Joseph
avvicinarsi alla villa. Prese immediatamente il telefono in mano e
controllò che non ci fossero nuovi messaggi. Nulla. Suo fratello
sembrava sparito nel nulla. L'aveva cercato dappertutto in quei
giorni, in tutti i posti che era solito frequentare, ma niente,
nessuno sembrava averlo più visto o sentito. L'idea che si fosse
lasciato la vendetta alle spalle non lo sfiorava nemmeno da lontano,
temeva piuttosto che stesse preparando un colpo in grande stile e che
alla fine della fiera sarebbe riuscito solo a farsi ammazzare.
Si
passò una mano sulla faccia cercando di scrollarsi definitivamente
il sonno di dosso. Era così frustrato che non riusciva più a
mangiare né a riposare decentemente, le sue camicie erano ormai
sempre stropicciate e la sua barba non veniva rasata da almeno tre
giorni.
Era
anche stato alla tomba di sua madre con un mazzo di rose gialle.
Aveva fissato la lapide per quasi mezz'ora sperando che il riverbero
del sole sul marmo bianco gli illuminasse la mente. Niente.
Continuava a sentirsi vuoto ed inerme come al solito.
Si
trascinò fino alla doccia e per mezz'ora almeno lasciò che lo
scroscio dell'acqua gli riempisse la mente. Dov'era Joseph? Che cosa
stava tramando? Sarebbe mai riuscito a fermarlo? E cosa avrebbe fatto
William se lui non fosse arrivato in tempo? Gli si torse lo stomaco.
Quella domanda aveva già una riposta. Lo avrebbe ucciso senza
pensarci due volte e lui avrebbe perso suo fratello. La famiglia
viene prima di tutto per un Michaelson ed Elia continuava a chiedersi
incessantemente se avesse dovuto seguire solo il sangue o ascoltare
il film nella sua testa che continuava a riproporre tutti i ricordi
della sua infanzia. Joseph era sempre lì con lui. William no.
Scese
le scale e fu avvolto dall'odore forte di qualcosa di caldo e
saporito. Fu come entrare nella sua cucina in una domenica mattina
nel periodo di Natale, aspettandosi pile di piatti sporchi nel
lavandino ed i piatti del servizio buono sulla tovaglia di lino
bianco. Katrina gli dava le spalle, tutta indaffarata sul piano di
lavoro. I lunghi capelli scuri raccolti in un chignon spettinato ed
il corpo avvolto in un grembiule verde che lasciava appena
intravedere l'abito chiaro che indossava sotto. Gli si strinse il
cuore, sicuro per un attimo di essersi di nuovo addormentato sotto la
doccia.
Si
schiarì la voce e Katrina si voltò immediatamente, scattando sul
posto e quasi rovesciando la ciotola che teneva tra le mani. Prese un
lungo respiro e tentò di sorridere, ma quello stesso sorriso le morì
subito tra le labbra. Tornò a dargli le spalle
“Il
pranzo è quasi pronto.”
Esordì,
fingendo di essere più interessata allo sportello del forno che a
lui. La bocca di Elia salivava di già per la fame, ma era nuovamente
incerto sul da farsi. Non era la prima volta che Katrina tentava
l'approccio “come se nulla fosse mai successo”, solo che lui non
era ancora pronto a lasciar andare l'ascia di guerra
“Non
dovevi.”
Le
rispose restando impalato e continuando a fissare la sua schiena. Lei
sembrò scuotere il capo come per ricomporsi e finalmente si voltò
di nuovo
“Mangia...Per
favore.”
Senza
aggiungere altro Elia prese posto a tavola e rimase in attesa della
sua prossima mossa. C'era qualcosa di diverso in Katrina, qualcosa
che ancora non riusciva ad identificare, ma che certamente gli dava
un pensiero in più. Aveva smesso con gli attacchi diretti, senza più
urlare o pararglisi di fronte come una furia. Aveva lasciato che si
rifugiasse ogni notte nel suo studio senza proferire parola, senza
più piangere le sue lacrime di coccodrillo. Ciononostante pareva più
tesa di prima, sfilava per casa dritta e guardinga come un'aquila,
cercando di tenersi impegnata in faccende casalinghe che mai prima
l'avevano interessata.
Un
piatto traboccante di arrosto e patate gli comparve sotto gli occhi.
L'odore intenso della carne e del rosmarino gli riempì le narici.
Quando aveva imparato a cucinare? Rimase immobile ancora un po'
aspettando che anche lei prendesse posto a tavola, tuttavia Katrina
non si mosse dalla sua nuova posizione davanti al lavandino. Sentiva
i piatti sporchi scontrarsi violentemente l'uno contro l'altro, ma
all'apparenza tutto continuava a sembrava inverosimilmente calmo.
Si
ficcò in bocca un primo boccone e rimase immediatamente colpito dal
sapore ricco che andava risvegliando le sue papille gustative. Quella
donna era davvero un mistero, bella ai suoi occhi come nessun'altra,
così tanto che a stento riusciva ancora a trattenersi.
Si
alzò piano dopo l'ultimo boccone ed un sorso di vino bianco,
stringendo il suo piatto sporco tra le dita. La raggiunse alle spalle
e la vide immediatamente irrigidirsi. Katrina bloccò ogni movimento
lasciando che l'acqua continuasse a scorrere da sola, in attesa nulla
più che dell'ennesima ammonizione da parte di suo marito. Avvertì
il suo calore alle spalle ed inaspettatamente sentì la mano di Elia
posarsi sul suo fianco sinistro con delicatezza, sfiorandola appena
mentre l'altra si allungava a poggiare il piatto ormai vuoto nel
lavandino.
“Grazie.”
Lo
sentì pronunciare in tutta la sua imperturbabile grazia, il suono
attutito alle sue orecchie come se provenisse da metri di distanza.
Quelle stesse dita le indugiarono addosso abbastanza da farle
chiudere gli occhi per un istante e dimenticare tutto ciò che
avevano attorno.
Elia
aveva pianificato quell'azione della sua mente, un semplice gesto
gentile per ricambiare la cortesia di quel pranzo. Non aveva però
calcolato quanto sarebbe stato difficile staccarsi da lei, così
piccola contro la sua mole e così profumata. Sapeva bene di doversi
allontanare il prima possibile, ma non riusciva a muovere mezzo
passo. Quando finalmente pensò di farcela, sentì di colpo la mano
bagnata di Katrina sulla sua che supplicava di non lasciarla andare
proprio adesso. Invece di indietreggiare come avrebbe dovuto fare,
rimase attaccato a lei ancora un po', sfiorandole il capo col viso e
respirando la sua dolce essenza. Solo allora gli sembrò di riuscire
finalmente a sentire qualcosa, solo ora che stringeva tra le mani la
stessa donna che gli aveva spezzato il cuore.
“Katrina...”
Sussurrò
il suo nome in una debole richiesta. Voleva che lo lasciasse andare,
ma allo stesso tempo voleva stringerla ancor più forte e trascinarla
fino alla loro camera da letto, quello stesso letto che da troppo
tempo non vedeva l'intreccio di due corpi caldi. Le mani fremevano
contro la stoffa ruvida del suo grembiule e quasi cedettero a quel
languido pensiero, giusto un attimo prima che si sentisse battere
forte contro la porta d'ingresso della loro casa.
Tump.
Tump. Tump.
Elia
si staccò immediatamente da quel mezzo abbraccio gettando gli occhi
all'orologio. Chi poteva essere? Katrina invece non si mosse nemmeno,
quella era la loro fortuna, un destino beffardo che trovava sempre il
modo di separarli. Riprese ad occuparsi dei piatti sporchi
esattamente da dove aveva lasciato.
Elia
lisciò la camicia ed andò ad aprire la porta. Un ragazzo dai
capelli biondicci che riconobbe quasi immediatamente come Rob, nuova
recluta di suo padre, sorrise porgendogli un cesto avvolto nel
cellophane trasparente
“Da
parte di suo padre Signor Michaelson.”
Osservò
scetticamente quell'offerta, ma non di meno la prelevò dalle mani
del ragazzo
“Grazie
Rob.”
L'altro
rispose con un nuovo sorriso ed un saluto militare mentre la grande
porta gli si chiudeva in faccia. Elia ripose immediatamente il cesto
sul tavolo e ne osservò il contenuto. Vino rosso, cioccolatini al
caramello e sigari pregiati. Passò allora ad esaminare il biglietto
che portava sopra la caratteristica ed irripetibile firma di suo
padre. All'interno stava un cartoncino bordato d'oro che portava le
sue iniziali ed un messaggio nella sua calligrafia. Erano invitati ad
una cena alla villa il prossimo sabato. Elia rivoltò il biglietto
tra le dita un paio di volte, strano che suo padre continuasse a
mandare omaggi ed inviti a casa anche se si vedevano o sentivano
praticamente tutti i giorni. E' vero che la sua mente era stata
particolarmente altrove negli ultimi giorni, tuttavia non aveva
lasciato trapelare alcun sospetto alla presenza di William.
Solo
allora Katrina emerse dalla cucina senza più il grembiule addosso,
avvolta solamente nel suo morbido abito color avorio. Le sue iridi si
posarono immediatamente sul cesto e senza che proferisse parola Elia
chiarì i suoi dubbi
“Un
altro omaggio da parte di mio padre.”
Katrina
respirò a fondo per non sgranare gli occhi di fronte a lui. Quelli
non erano gentili omaggi, bensì silenti minacce nei suoi confronti.
“Siamo
invitati alla villa questo sabato.”
Stavolta
sentì le ginocchia minacciarla di interrompere il loro sostegno
“Io
non verrò.”
Sentenziò.
Nulla di più scontato per le orecchie di suo marito, anche se Elia
non riusciva ancora a capire da dove venisse tutto quel disprezzo. I
regali di William restavano a marcire sul pavimento o finivano
diretti nella pattumiera, senza che Katrina avesse mai assaggiato un
singolo biscotto o annusato uno solo di quei fiori. Lei sfilò su per
le scale lasciandolo solo ancora una volta, del tutto privo della
voglia di controbattere.
Katrina
si chiuse dietro la porta del bagno girando immediatamente la chiave
nella toppa. Le mancava il fiato. William era dappertutto e da ogni
angolo si sentiva i suoi occhi addosso. Anche se teneva tutte le
porte e le finestre chiuse sapeva che lui la stava osservando e che
presto o tardi avrebbe fatto la sua mossa. Aveva solo tre opzioni per
risolvere quel problema: chiedere aiuto a suo padre, raccontare la
verità ad Elia o fuggire di nuovo, stavolta più lontano e per
sempre.
L'idea
di contattare Vladijmir l'aveva sfiorata più di una volta, ma non
avrebbe portato a nulla più che ad una nuova guerra. Era abbastanza
grande da risolvere i suoi problemi da sola, era una regina dopo
tutto.
Elia.
Se gli avesse raccontato di quell'ultima notte più di due anni
prima, se gli avesse raccontato di come William l'aveva convinta a
sparire, allora la terra gli sarebbe crollata sotto i piedi. Voleva
liberarsi di suo suocero in ogni modo, ma non voleva che fosse
proprio Elia a pagarne le conseguenze, senza contare che
probabilmente avrebbe di nuovo perso quell'ombra di fiducia che con
tanta tenacia e tanta pazienza sembrava essersi riconquistata.
Restava
l'opzione numero tre. La fuga senza più ritorno. Ci aveva già
provato, ma i suoi stessi piedi l'avevano riportata al punto di
partenza. Aveva pensato a suo marito ogni singolo giorno, sentito la
mancanza del suo abbraccio forte ogni singola notte. Non avrebbe
sopportato quella tortura di nuovo, non sapendo che stavolta sarebbe
durata per sempre. Inspirò a fondo. Non poteva permettergli di
metterla al tappeto ancora una volta, doveva trovare il modo di
reagire. Ed in fondo forse un modo c'era, una quarta opzione che non
aveva ancora realisticamente vagliato. Poteva ucciderlo, poteva farlo
fuori con le sue stesse mani senza bisogno dei merli o di chiunque
altro.
Elia
l'avrebbe odiata. Elia non l'avrebbe mai compreso, nemmeno sapendo la
verità.
-------
Era
già più che mattina inoltrata quando Joseph sentì quei fastidiosi
raggi di sole tentare di ferirgli gli occhi. Ancor prima di aprirli
il ricordo della notte precedente gli piombò addosso con tutta la
sua pesante mole e solo allora si accorse di essere esattamente nella
stessa posizione. Sotto il braccio poteva ancora sentire il corpo di
Cara che respirava piano nel silenzio della loro stanza. Mosse appena
le dita ed avvertì distintamente di non essere più a contatto con
la coperta, ma di avere addosso nulla più che la sua pelle. Nel
sonno doveva essersi scoperta.
Valutò
l'idea di fingersi addormentato ancora per un po', godendo nel suo
intimo di quella vicinanza. Non aveva mai visto nessuno piangere
così, nemmeno i tizi che aveva massacrato senza pietà, nemmeno sua
madre nei suoi momenti peggiori. Adesso la ragazzina dell'aereo
dormiva beata tra le sue braccia e nessun rumore al mondo sembrava
più piacevole di quei respiri lenti e cadenzati. Che cosa gli aveva
fatto? Dove era finito il famoso Lupo che tutti temevano e
rispettavano? Dovunque fosse in quel momento, non ne sentiva la
mancanza.
Non
resistette all'urgenza di aprire gli occhi ed apprezzare lo
spettacolo dei suoi capelli sparsi sul cuscino. Brillavano nel sole
ed incorniciavano a meraviglia il pallido profilo del suo viso
sprofondato nel cuscino. Il silenzio le donava più di ogni abito
avesse mai indossato, vestendola di una luce del tutto sua, la stessa
abbagliante luce che aveva risvegliato il cuore sopito di Joseph
Michaelson. Se solo fosse rimasta sempre così, ferma e zitta tra le
sue braccia. Quella lingua pungente era probabilmente in grado di
uccidere più uomini di tutte le sue armi messe insieme.
Controvoglia
si mosse piano per risvegliare qualcuno dei suoi muscoli. Aveva
dormito un'altra volta vestito e adesso ne avrebbe pagato le
conseguenze per tutto il giorno. Solo che oggi non era un giorno come
un altro, oggi era il giorno alla cui fine il piano avrebbe preso il
via. William sarebbe morto entro la prossima mezzanotte o giù di lì.
A quel pensiero una nuova ondata d'adrenalina e piacere lo attraversò
da capo a piedi e di nuovo guardò verso Cara. Il suo corpo era
ancora nudo sotto le lenzuola e si lasciava intravedere abbastanza da
suggerirgli un piacevole modo per farsi perdonare dopo l'ultima
volta. I suoi occhi accarezzarono adagio la curva della spalla
seguendola lungo il braccio fino al gomito piegato, lì dove i loro
arti si sfioravano. Contrastò il bisogno di toccarla per non
svegliarla ed interrompere quelle pace, ma i suoi occhi continuarono
a rimirare la lattea perfezione della sua schiena. Salì e discese la
sua colonna vertebrale un paio di volte prima che quel dettaglio gli
saltasse finalmente al naso, bloccando all'istante la lascivia dei
suoi pensieri mattutini. Aguzzò lo sguardo, ma non poté avere
dubbi. Quel giorno diventava migliore ad ogni secondo che passava.
Cara
aprì i suoi occhi, gonfi e pesanti, solo mezz'ora più tardi.
Sentiva freddo e pigramente ficcò le braccia di nuovo sotto le
coperte. Nel momento in cui riuscì a muoversi senza alcun intralcio,
d'improvviso realizzò che le mancava qualcosa, il peso addosso di
Joseph. Strizzò le palpebre cercandolo mimeticamente con la coda
dell'occhio. Non c'era. Per fortuna. Davvero non se la sentiva di
affrontare i suoi occhi pietosi di prima mattina. Si tirò su
lentamente riprendendo possesso della stanza e della realtà, gli
occhi bruciavano ancora e facevano fatica a restare aperti, nulla di
più atteso dopo il piagnisteo della sera prima. Si coprì il volto
con le mani scacciando la vergogna che andava annunciandosi sulle sue
guance. Come aveva potuto perdere il controllo così vistosamente?
Scosse il capo. Si sentiva più leggera e più rilassata, tuttavia
poteva solo guardare con terrore la porta della stanza. Aveva dato a
Joseph esattamente ciò che voleva, un appiglio per credere che
dentro di lei ci fossero ancora sentimenti, che potesse ancora
provare ciò che lui sperava... Se fosse stata sincera per una sola
frazione di secondo in vita sua, avrebbe anche potuto lasciargli
sapere che qualcosa c'era davvero dentro di lei, qualcosa che
continuava a bruciare ininterrottamente. Di nuovo scosse la testa.
Come l'avrebbe guardata? Cosa avrebbe detto? Come avrebbe potuto
continuare a nascondersi da lui? Sospirando scivolò di nuovo sotto
le coperte avvolgendosi nel buio. Era il loro grande giorno.
Quando
finalmente trovò il coraggio di attraversare quella soglia, Joseph
sedeva tranquillamente sulla poltrona reggendo una rivista tra le
mani. “Moto e motori”. Cara trattenne l'istinto di sollevare le
sopracciglia scetticamente e ringraziò il cielo di essere
magicamente invisibile ai suoi occhi. Inspirò più silenziosamente
che poteva, sistemò i capelli sulla spalla e decise di attraversare
la stanza fino alla prima risorsa d'acqua disponibile. Solo nel
momento in cui gli passò materialmente davanti, Joseph lasciò
cadere la rivista:
“Dormito
bene?”
Cara
riuscì chiaramente a cogliere il suo tono e, del tutto incredula,
voltò lo sguardo verso di lui. Un sorriso beffardo campeggiava sul
suo viso, rilassato e splendente come fosse tornato un ragazzino, le
iridi luccicanti di palese reale buonumore. Sentì la pressione
salire immediatamente alle stelle mentre il suo viso s'infiammava di
rabbia ed imbarazzo
“No...”
Intimò
stringendo i pugni
“...Togliti
immediatamente quel sorriso dalla faccia se non vuoi che ti prenda a
calci.”
Aveva
cercato di essere il più minacciosa possibile, ma evidentemente lui
la trovava divertente stamane, tanto era difficile trattenere quel
fastidioso sorrisetto. Joseph sospirò distogliendo lo sguardo per
primo, si schiarì la voce ed indicò le buste sul tavolo. Era stato
il suo turno di comprare la colazione.
“Oggi
è un grande giorno. Ho pensato che un caffè e delle calorie extra
potessero farti comodo.”
Cara
si rilassò lentamente e raggiunse il fumante bicchiere di cartone.
Il primo sorso andò giù come velluto. Doppio zucchero e un goccio
di latte. Joseph era senz'altro un osservatore migliore di lei. Era
sul punto di ficcare la mano nel sacchetto alla ricerca di una
ciambella quando la voce di lui la inchiodò di nuovo
“Dov'è
finito il tuo tatuaggio?”
Domandò
casualmente, quasi non fosse una bomba appena sganciata in territorio
nemico. Cara si congelò e stavolta il suo viso passò da roseo a
bianco cadavere in pochi istanti
“Quale
tatuaggio?”
Tentò
di mantenere la stessa aplomb, ma dentro andava maledicendosi. Come
aveva potuto dimenticarsene e dormire completamente nuda accanto a
lui? Era il suo segreto e Joseph non avrebbe mai dovuto scoprirlo,
era già abbastanza debole ai suoi occhi. Lui si alzò e la raggiunse
lentamente, nelle sue iridi un accenno del predatore che era sempre
stato
“Il
marchio di Mancini...”
Cara
gli diede subito le spalle per nascondere il panico che le si
dipingeva in volto, ma Joseph non si lasciò sfuggire l'occasione.
Poggiò il dito esattamente nel punto in cui l'aveva visto, il
ricordo indelebile nella sua mente
“Era
qui. Ricordo perfettamente il momento in cui l'ho visto, il giorno in
cui ti sei rivelata.”
Fece
una pausa per riprendere fiato. Quel momento era davvero inciso nella
sua memoria.
Lei
chiuse gli occhi scoprendo qualcosa di nuovo e di terrificante. Il
tocco di Joseph attraversava il suo abito blu come fosse fuoco,
facendola ardere non di sola lussuria come al solito, bensì di
imbarazzo.. e vergogna.. e timore, incertezza.. e trepidazione. Era
quasi insopportabile e Cara scattò voltandosi verso di lui
“Non
ce l'ho ok?!”
Joseph
indietreggiò di un passo e lei riprese allargando le braccia in
arresa, segnalando che ormai era rimasto ben poco di cui lui potesse
ancora spogliarla
“Non
me lo sono ancora meritato...”
Le
parole le uscirono a forza, quasi ferissero le sue labbra morbide e
carnose
“...Devo
uccidere tuo padre prima.”
Concluse
stringendo i pugni ancora una volta e guardando dritto nei suoi occhi
azzurri. Era stanca di sentirsi come una bambina, se voleva prenderla
ancora in giro bene, l'avrebbe lasciato fare, ma senza lasciargli la
soddisfazione di vederla piangere anche una sola singola lacrima in
più. Joseph ricambiò quello sguardo con altrettanta tenacia, ma il
suo viso si aprì quasi subito in un nuovo sorriso, lasciandola senza
parole e senza respiro
“Non
sei una di loro.”
Diede
voce al pensiero che gli affollava la mano da quando era sveglio. Se
Mancini non l'aveva ancora marchiata, Cara era ancora libera, libera
di fuggire da quella faida continua, libera di appartenere a chiunque
volesse. Il nodo nel suo stomaco si sciolse in quella consapevolezza
e tentò di raggiungerla, prendendole il viso tra le mani. Cara
riprese finalmente contatto con la realtà ed afferrò i polsi di
Joseph con le proprie dita, cercando di allontanare i palmi dalle sue
guance bollenti
“Sono
comunque una di loro...”
Avrebbe
voluto essere più decisa che mai, ma la speranza che leggeva negli
occhi di lui continuava a farle girare la testa
“...Quel
tatuaggio non cambia niente.”
Fu
il suo turno di scuotere il capo, Joseph si mosse di nuovo verso di
lei, cercando ancora di toccarla
“Non
capisci?”
Di
nuovo afferrò il suo volto tra le dita trovando quegli stessi occhi
blu, grandi e tremolanti
“Tu
non gli appartieni... Non sei sua... Sei libera...”
Cara
si sentì come se stesse entrando in una qualche forma di trance,
quegli occhi le scavavano dentro ad ogni respiro, cercando qualsiasi
piccolo dubbio o debolezza a cui aggrapparsi. Quel calore addosso e
quel suo profumo riuscivano a mandarla completamente in confusione,
lasciandole credere che dopotutto avesse ragione, che fosse ancora
possibile cambiare le cose. Non lo era, non più. Troppo sangue si
era asciugato sulle sue mani e troppa crudeltà avevano visto i suoi
occhi.
“...Quando
tutto questo sarà finito...”
Cara
fuggì dal suo tocco lasciando a metà le parole di Joseph
“Allora
cosa?”
Di
nuovo aveva allargato le braccia in rassegnazione, lasciandole cadere
senza resistenza sui suoi stessi fianchi
“Cosa
cambierà? Cosa sarò mai libera di fare...”
Cercò
gli occhi di Joseph mandando giù quel fastidioso boccone di paura e
d'imbarazzo
“...Innamorarmi
di te magari?”
Lui
trattenne il respiro, pensando che a quel punto sia Cara che l'intero
palazzo potessero sentire i potenti colpi del suo cuore contro le
costole. Era la prima volta che quell'ipotesi usciva dritta dalla sua
bocca senza suonare come uno scherno pietoso, quasi ci stesse
pensando davvero. Per la terza volta lui la raggiunse cercando un
contatto diretto coi suoi occhi e con la sua pelle
“Magari.”
Rispose
in un sussurro e lei chiuse le palpebre, respirando quella
possibilità per un secondo. Un secondo soltanto. E fece così male e
così terrore che le riaprì immediatamente
“Non
succederà mai.”
Lui
sembrò ferito per un istante, ma mise da parte l'orgoglio e strinse
la presa attorno al suo viso
“Puoi
avere una vita tua lontana da tutto questo. Con o senza di me.”
Lei
fece cenno di no con decisione
“Non
la voglio.”
Uscì
dalla sua presa e si allontanò raggiungendo l'angolo opposto della
stanza
“Non
ho nulla a parte questo. E nemmeno lo voglio... Sono un'assassina...
Un mostro... Non avrò mai nulla più di questo.”
Lui
si mosse richiamando l'attenzione di Cara. Rimase lontano abbastanza,
ma non di meno attraversò la sua vista
“Quindi
è solo questo che vedi quando mi guardi? Sono solo un assassino, un
mostro che non merita nulla?” Se valeva per lei, per lui era anche
peggio.
Cara
lo accarezzò con gli occhi dall'alto in basso. Aveva sempre saputo
di avere davanti un killer professionista, nondimeno aveva visto i
suoi splendidi lineamenti, ascoltato la sua voce vellutata e
desiderato la sua pelle addosso. Nondimeno si era lasciata cullare
nel sonno, mostrando la parte più fragile di sé proprio a lui. Era
pericolosamente più vicina al precipizio di quanto avesse mai
davvero realizzato
“Sì.”
Gli
sputò in viso benché non fosse vero. Joseph incassò il colpo
abbassando gli occhi per un solo secondo, passando la lingua sul
labbro superiore prima di guardarla di nuovo
“Bene.
Buono a sapersi.”
Voleva
davvero credere che non fosse sincera, ma quel gioco correva troppo
velocemente verso il suo estremo e Joseph non voleva finire ancora
una volta per sentirsi come il ragazzino con l'apparecchio con cui
nessuna ragazza delle superiori vorrebbe uscire. Lui era il Lupo.
Poteva avere qualsiasi donna volesse. Fanculo la stronza.
Il
silenzio aveva risucchiato la stanza sotto una coltre fredda e
pesante. Erano entrambi immobili, freddi come statue. Cara poteva
chiaramente vedere la sua schiena tendersi sotto la maglietta nera.
Sapeva di essere stata gratuitamente cattiva ed iniziava a sentire la
colpa farsi strada sotto i nervi tesi. Lei si sentiva davvero un
mostro senza speranza, ma non aveva alcun diritto di proiettare
quella paura su Joseph. Lui era chiaramente più forte di lei e
chissà, magari avrebbe davvero potuto farcela un giorno. Un giorno
dopo questo giorno. Un giorno dopo la vendetta.
“Io
non...”
Esordì
senza sapere cosa avrebbe potuto dire. Fortunatamente lui la bloccò
subito sollevando una mano
“Ti
sarei grato se stessi zitta.”
Il
suo tono era diventato freddo come la stanza, le parole affilate come
spade. Cara sospirò decidendosi a muovere qualche passo verso la
stanza da letto.
“E
sarei ancor più grato se te ne andassi.”
Aggiunse
lui con lo stesso tono, cogliendola totalmente di sorpresa. Cara
sollevò un sopracciglio
“E
dove dovrei andare?”
Finalmente
si voltò, il suo viso una maschera di freddo distacco
“Onestamente
non lo so e non mi interessa.”
Cara
sospirò. Aveva chiaramente colpito un punto debole.
“Ascolta.
So che quello che ho detto...”
Le
fu di fronte in un secondo, afferrandole il viso ancora una volta,
stavolta stringendolo con una sola mano
“Ascolta
tu...”
Guardò
dritto negli occhi sgranati di Cara. Qualsiasi cosa fosse, rabbia,
cattiveria o umiliazione, era scritto a chiare lettere e non lasciava
adito a dubbi. La modalità Lupo era di nuovo attiva.
“Non
sentirò più una sola parola uscita dalla tua bocca.”
Le
si avvicinò pericolosamente, tanto che Cara poté sentire il suo
respirò dritto in viso. Quegli occhi azzurri scavarono dritto fino a
sfiorarle l'anima, quella mano ruvida strinse la presa ancor più
forte
“Hai
ragione. Tu non meriti niente. Nemmeno da un mostro come me.”
Detto
ciò mollò sgraziatamente la presa e di nuovo le diede le spalle.
Cara riuscì a sentire chiaro il taglio netto nel suo ego e negli
stessi sentimenti che con tanto ardore aveva nascosto. Era proprio
quello che voleva, no?
Inspirando
per l'ultima volta l'aria densa di quella stanza che sapeva di
rabbia, di caffè e di sesso, strinse la maniglia nella mano
“Ci
vediamo stasera.”
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Capitolo 16 *** Capitolo XVI ***
capitolo XVI
CAPITOLO
XVI
Il
sole iniziava a tramontare sulla città. Joseph se ne stava immobile
davanti allo specchio. Aveva lavato il viso, lavato i denti, rasato
la barba perfino. Fissava la sua stessa faccia, cercando di
immaginare che espressione avrebbe avuto una volta in piedi di fronte
a William, con la lama del coltello piantata nella sua gola. Poteva
sentire i brividi alzargli la pelle e la bocca salivare al solo
pensiero.
Un
rumore dalla stanza lo fece trasalire ed improvvisamente ripiombò
nella realtà
“Hey?”
La
rossa nel suo letto era rotolata fin quasi al comodino e, col viso
appoggiato sulla mano, teneva un gran broncio da troia per attirare
la sua attenzione. Non gli erano mai piaciute molto le rosse e questa
qui in particolare era decisamente troppo rumorosa e sguaiata. Non
aveva certo perso troppo tempo a scegliere del resto. Quand'era
entrato in quel bar, scrutando la folla di ninfomani ed ubriachi,
stava solo cercando un buco da riempire ed un profumo. Già, un
profumo, uno abbastanza forte e pungente da coprire quello di Cara
sulle lenzuola. Questo in particolare stava quasi per farlo vomitare
ad un certo punto, ma alla fine della fiera la ragazza aveva servito
il suo umile scopo.
Fanculo
amore e redenzione.
Ignorò
completamente la sua presenza scivolandole di fronte per raggiungere
la maglietta bianca che aveva intenzione d'indossare per l'occasione.
L'altra protruse le labbra e sollevò il sopracciglio, ancora
convinta che i suoi zigomi cesellati ed il suo bel nasino alla
francese fossero armi abbastanza affilate da ingabbiare qualsiasi
uomo.
Era
sul punto di parlare ancora, ma lui la precedette
“Devi
andartene adesso.”
Buttò
lì senza nemmeno guardarla con la coda dell'occhio. La rossa sospirò
e, suo malgrado, venne fuori dalle lenzuola per raccattare i suoi
quattro stracci
“E'
stato davvero bello, sai?”
Joseph
continuava a tenere l'attenzione al livello più basso possibile,
cercando solo di concentrarsi su ciò che l'aspettava
“Lo
so.”
Rispose
casualmente, mentre la ragazza giocava con le unghie laccate di
rosso. La sua piccola mente era sul punto di andare in fiamme, tanto
cercava una frase brillante da dire che potesse convincere il gran
figo che aveva davanti a scoparla di nuovo.
“Ci
vedremo ancora?”
Fu
il suo meglio. Joseph si voltò finalmente verso di lei, accendendo
in un secondo tutte le speranze della ragazza cresciuta a pane e
“Pretty Princess”. Guardò dritto nelle sue iridi scure ed
inalò per l'ultima volta quel profumo da quattro soldi
“No.”
Sentenziò,
poggiando delicatamente la mano sulla curva della sua schiena per poi
spingere, stavolta con decisione, verso la porta. La rossa non ebbe
tempo di elaborare una risposta, o magari riuscì a trovare una
briciola di amor proprio cui aggrapparsi per non dire nulla ed
incassare quel colpo con un minimo di dignità. La porta le si chiuse
in faccia con un tonfo sordo.
Finalmente
era solo di nuovo, pronto ad accarezzare l'unica pelle che in quel
momento potesse desiderare, la lama gelida del suo pugnale più
affilato. Il cellulare prese presto a vibrare contro il legno
scadente del tavolino e lui se lo portò subito all'orecchio
“Trovata.”
“Dove?”
Non avrebbe dovuto
interessargli, ma finse di volersi solo accertare che Cara non si
stesse ubriacando in qualche vicolo in preda alla tensione.
“Alla
biblioteca pubblica.”
Bella scelta pensò, un
posto caldo e tanto silenzio per riflettere. L'ombra di un sorriso
gli sfiorò le labbra, solo per mezzo secondo. Doveva smettere di
ammirarla, di valutare le sue scelte, di cercare d'allentare i
meccanismi del suo cervello.
“Lasciale la borsa e
vattene.”
Quando aveva cacciato la
ragazzina dalla stanza, non aveva certo tenuto conto delle necessità
del caso. Come avrebbe potuto attraversare il bosco sulla collina,
strisciare nei tunnel sotto la proprietà e bypassare le due guardie
nel seminterrato con addosso nulla più che quella scusa di vestito?
Avrebbe forse potuto sgranare gli occhioni e sorridere, magari
avrebbe funzionato.
Tornò alla sua
respirazione lenta e costante, aspettando i sette rintocchi
dell'orologio sul campanile per uscire finalmente dall'albergo.
-------
Stretti
pantaloni neri, un paio di anfibi ed una maglietta nera. Il
portantino di Joseph aveva lasciato la borsa ai suoi piedi senza
proferire parola, sparito nello stesso nulla da cui era apparso. E
nella toilette della biblioteca pubblica era avvenuta la magia. Aveva
raccolto i capelli in una crocchia spettinata ed indossato il
giubbotto scuro che il Lupo aveva scelto per lei, abbastanza caldo da
non farla rabbrividire nel settembre di New Orleans, ma abbastanza
leggero da lasciarle tutta la libertà di movimento necessaria. La
pistola in una tasca, la trasmittente nell'altra.
Cara
tirò su il cappuccio e si coprì il viso aspettando il settimo
rintocco del campanile. Era solo una macchia nera nel buio pesto e,
prendendo un lungo respiro, prese a salire la ripida collina che
accoglieva in cima la grande reggia dei Michaelson.
L'aria
attraversava gelida le sue narici e non riusciva a non stringere
forte la pistola che teneva nella tasca destra. Ancora ed ancora le
conversazioni con Joseph risuonavano nella sua testa, più forti
degli strepitii tra le foglie secche e degli ululati delle civette
dopo il crepuscolo. I suoi occhi continuavano a fissare le luci
lontane in cima alla salita, nascoste tra i grandi alberi ricoperti
di muschio spagnolo e le palme taglienti. Non riusciva a scorgere la
strada o i cancelli, ma sapeva che di lì a poco anche Joseph avrebbe
attraversato quella soglia e non ci sarebbero più state scappatoie
possibili. Gran parte del suo cuore stava battendo erraticamente per
l'eccitazione del momento, ma l'altra piccola parte continuava a
chiedersi se ce l'avrebbero fatta, se non fossero stati troppo
ingenui e frettolosi, se non si fosse fidata troppo a cuor leggero
del Lupo e della sua voce dannatamente sensuale.
“Salirai
la collina con tutta calma...”
Il
dito di Joseph aveva risalito piano la curva del suo fianco
accompagnando quelle
parole
“...piazzerai
la trasmittente sull'impianto elettrico...”
Aveva
poggiato delicatamente il polpastrello sulla sua pancia,
girando
attorno all'ombelico un paio di volte
prima
di iniziare a scorrere verso sud
“...poi
raggiungerai la botola vicino alla grande quercia...”
Lo
stesso dito malizioso aveva attraversato i confini della sua
biancheria intima
“...e
scenderai giù...”
Era
già bagnata e pronta, cullata nelle sue fantasie erotiche da quel
dolce bisbiglio nel suo orecchio...
“...aspettando
che l'orologio ti indichi il momento di venire...”
Ed
era venuta. Oh se era venuta.
Solo adesso, mentre i
suoi anfibi calpestavano cose non poteva e non voleva identificare,
iniziava a chiedersi se tutto quel piacere sessuale non avesse
offuscato la sua mente. Sentì i brividi correrle lungo la schiena
benché fosse adeguatamente coperta. Come Joseph riuscisse a farle
dimenticare ogni cosa con un sussurro o un singolo tocco era ai suoi
occhi ancora un mistero. Se lui fosse stato lì accanto a lei anche
adesso, quasi sicuramente non ci sarebbe lo strascico della paura a
rallentare i suoi passi. Si era sentita invincibile tra le lenzuola
stropicciate, mentre adesso era solo un ammasso di nervi ed ansia
anticipatoria. Con tutta la forza possibile teneva a bada l'immagine
dei suoi genitori che scalciava dal retro della sua testa. Aveva
bisogno di concentrarsi. Un uomo stava per morire e non certo un uomo
qualsiasi.
Mentre contava i passi
ricordò a sé stessa che non c'erano vie di mezzo, nessuna zona
grigia, nessun margine d'errore.
Trentatré. Voltò il
capo verso destra e cercò tra gli arbusti la cassetta dell'impianto
elettrico a cui attaccare la trasmittente. Al momento debito sarebbe
saltata la corrente in tutta la proprietà, creando abbastanza buio
ed abbastanza sconcerto da permetterle di raggiungere Joseph e
liberarlo dalla “sala delle torture morali”.
Cara inalò una lunga
boccata d'aria che sapeva di foglie secche ed umidità. Altri
cinquantadue passi ed avrebbe trovato la grande quercia, quella che
Joseph le aveva descritto con tanto ardore, il grande albero sotto
cui i fratelli Michaelson si erano giurati eterna lealtà. Beata,
candida infanzia.
Eccola lì, enorme e
maestosa anche nell'oscurità, ruvida ed umida sotto le sue dita.
Poggiò il palmo sul tronco per un minuto, respirando a fondo per
recuperare in fretta la fatica fatta, facendo scrocchiare le caviglie
negli stivali. Poi s'inginocchiò di nuovo, passando le nude mani sul
manto di foglie secche, cercando a tentoni la botola di legno che
Joseph le aveva indicato, nascosta esattamente sotto il lato più
bitorzoluto della grande quercia. I suoi occhi si erano ormai
adattati al buio pesto, ma doveva comunque affidarsi a tutti i suoi
più basilari sensi per esser certa di non commettere errori.
Battendo i palmi sul nudo terreno riuscì finalmente a sentire lo
scricchiolio di un materiale diverso e liberò frettolosamente la
zona circostante, cercando con fervore l'appiglio che le avrebbe
finalmente concesso l'ingresso alle famose gallerie sotto la
proprietà.
Qui Joseph ed i suoi
fratelli avevano giocato, rincorrendosi come normali ragazzini,
fuggendo per qualche ora agli ordini continuamente impartiti da quel
mostro di padre. William... Caro William... presto non potrai più
vomitare la tua crudeltà e la tua insolenza su nessun altro.
La botola cigolò più
forte di quanto Cara avrebbe voluto e per un istante il respiro le si
bloccò nel petto, lasciandola avvolta nel silenzio e
nell'immobilità. E se ci fosse qualcun altro là fuori insieme a
lei? Qualche guardia? Qualche spia? Se si fossero dimenticati di
valutare il più insignificante seppur pregnante dei rischi? Il suo
cuore prese a battere violentemente ancora una volta. Era Cara
Phillis dopo tutto. Uno dei merli. Un'assassina di professione.
Cos'era allora quel fastidioso rimestamento nel suo stomaco? Da dove
venivano quei pensieri che le affollavano la mente? Cos'erano quelle
fitte di eccitazione, paura, dubbio ed entusiasmo che si alternavano
nel suo petto?
Emozioni. Chiuse gli
occhi per un momento decidendosi a scendere la lunga e gelida scala a
pioli, serrando la botola sulla sua testa dopo il passaggio.
Emozioni.
Ed era colpa sua.
Maledetto Joseph. Era solo colpa sua.
“Hai
ragione. Tu non meriti niente. Nemmeno da un mostro come me.”
L'aria nei tunnel era
pesante e stantia, costringendola a pensare con più fatica del
necessario. Destra, sinistra, secondo snodo, destra di nuovo. Cara
mosse un primo passo, ma subito si bloccò, consapevole che se si
fosse allontanata troppo non sarebbe più riuscita a sentire il nono
rintocco dell'orologio sul campanile.
--------
Elia stirò le spalle
continuando a fissare le ultime luci del tramonto dalla finestra.
Riusciva già a sentire la tensione dell'ennesima scomoda notte da
passare sulla poltrona del suo studio. Nessun rumore dal resto della
casa. Dopo le sue ultime parole Katrina si era mossa come un fantasma
per tutto il giorno, sfuggendo volontariamente ad ogni possibile
contatto. Ora era probabilmente chiusa a chiave nella loro stanza e
la sola idea di bussare a quella porta era un nuovo strazio.
Dopo il breve momento che
avevano vissuto in cucina le sue dita formicolavano ancora e l'odore
di tuberosa accarezzava persistente le sue narici. Quella situazione
avrebbe inevitabilmente finito per farlo uscire di testa e per buttar
giù quel pensiero scolò in fretta il suo bicchiere di vino rosso,
lo stesso vino che William aveva fatto recapitare la mattina
precedente. Il liquido color rubino aveva avvolto il suo palato e
riportato la sua mente ad un nuovo costante stato di allerta. Tutta
quella gentilezza e tutta quella calma stonavano non poco con il
classico stile di vita dei Michaelson. Joseph sembrava sparito nel
nulla, Katrina aveva smesso di urlare ed iniziato a cucinare, William
ricopriva lui e sua moglie di omaggi senza ragione, proprio lui che
non aveva mai nascosto di disprezzarla. La Pushkina era solo merce di
scambio per lui e non una volta, non una, s'era trattenuto dal
sottolineare la sua debolezza e la sua inettitudine per essersene
innamorato. Tienila tranquilla e fuori dai nostri affari, così
diceva.
Stava facendo bene
adesso? Tenendola chiusa in casa come un giocattolo prezioso con cui
aveva paura di giocare, troppo orgoglioso e spaventato per affrontare
qualsiasi tipo di conversazione, troppo nervoso e ferito per sperare
di poterle star vicino senza scattare ancora una volta.
Stava facendo bene
adesso?
Ingoiò un altro sorso di
vino passandosi una mano in viso. Tutto quel silenzio suonava proprio
come la quiete prima della tempesta.
Bzzzzz
Bzzzzz
Il cellulare vibrò nel
taschino sopra il suo cuore
“Sì?”
“Suo fratello è qui
signore.”
Quelle parole gli
piombarono addosso come macigni ed improvvisamente, dopo settimane di
piani e macchinazioni, non seppe più cosa fare.
“Dove?”
“Ha appena passato il
cancello...”
Risposte la voce piatta
all'altro capo della chiamata
“...Cosa vuole che
facciamo signore?”
Bella domanda. Ancora una
volta Elia scrutò il paesaggio fuori dalla finestra, ma non riuscì
a scorgere movimenti
“Cosa vuole che
facciamo signore?”
Ripeté la voce con la
stessa atona cadenza. Elia deglutì la sua ansia
“Fermatelo. Portatelo
nella stanza. Io arrivo.”
La linea cadde
immediatamente e lui rimase impalato al centro della stanza. Se il
momento fosse davvero arrivato chi avrebbe scelto alla fine? Suo
padre o suo fratello? Mettendo da parte il pensiero ancora una volta,
lisciò il collo della giacca ed afferrò la prima arma a sua
disposizione prima di correre giù per le scale a passi veloci.
“Dove stai andando?”
Katrina si era affacciata
alla porta della stanza da letto, la sua attenzione richiamata da
quella corsa furiosa, così distante dai modi soliti di Elia. Lui non
aveva tempo da perdere
“Fuori.”
Lei gli lesse la tensione
in faccia ed incalzò malgrado l'inopportunità di un'altra domanda
in quel momento fosse palese
“Fuori dove?”
Elia sentì l'ombra
d'allarme nel suo tono di voce e si permise di perdere un secondo per
rivolgerle uno sguardo veloce
“Non aspettarmi
sveglia.”
La porta fu chiusa prima
ancora che Katrina potesse anche solo prendere respiro per parlare
ancora. Doveva essere qualcosa di importante. Lavoro, come sempre
lavoro. Era sola di nuovo ed in quelle condizioni non poteva che
esserne felice. Aveva bisogno di tempo per pensare, pensare ancora ed
ancora al peso delle sue opzioni. Una nuova idea si era fatta strada
nella sua mente durante l'ultima notte insonne, la più semplice
eppure la più pericolosa.
Doveva parlare con
William. Subito.
--------
Joseph passò lentamente
i cancelli della sua grande casa, mettendo in scena un'entrata
d'onore a bordo di una Panamera nera che, con non troppa gentilezza,
era riuscito a farsi prestare da JJ del club sulla quinta strada.
Parcheggiò davanti al portone principale e spense il motore,
guardandosi attorno come un falco dagli specchietti. Da che parte
sarebbero arrivati? Destra? Sinistra? Dietro? Sarebbe almeno riuscito
a varcare la soglia?
Sapeva che lo stavano
aspettando, sentiva i loro occhi addosso senza nemmeno doversi
chiedere dove fossero. Respirò a fondo ancora una volta, piazzandosi
in volto la calma apparente di un figlio con le migliori intenzioni.
Strinse la maniglia nella mano ed in un solo sinuoso movimento venne
fuori dall'auto, trovandosi a contatto con l'aria fresca ed
appiccicosa della sua città. Attese tre secondi appena prima di
dirigersi con nonchalance verso il grosso portone tra le colonne
bianche. Azzardò e decise di bussare.
Il viso che gli diede il
benvenuto non fu però quello si aspettava. Non fu Berta la cameriera
ad aprire la porta, bensì un uomo alto e muscoloso stretto in una
giacca nera. Joseph ne osservò con attenzione i tratti e confermò a
sé stesso di non averlo mai visto prima. Viso squadrato e mandibola
decisa, capelli scuri rasati a pelle ed espressione illeggibile.
“Salve Signor
Michaelson. La prego di venire con me.”
Era gentile e pacato, ma
non di meno suonava deciso e minaccioso.
Joseph sorrise allo
sconosciuto, non per cortesia, bensì per l'eccitazione che sentiva
nascere dentro ancora una volta. Voleva prenderlo a pugni lì e
adesso, voleva tirar fuori la pistola e spararli un colpo nel petto
senza secondi pensieri.
“Sono qui per parlare
con mio padre.”
Rispose con nonchalance
conquistando la soglia con una falcata decisa. L'altro non si mosse
d'un millimetro, fermo come pietra con la sua mole imponente. Joseph
gli respirò in viso sforzandosi di restar calmo.
“Il Signor Elia ha dato
il preciso ordine di accompagnarla nella stanza. Lui arriverà
immediatamente.”
Non c'era alcun bisogno
di specificare quale stanza fosse. Quel luogo non aveva mai avuto un
titolo preciso o una parola chiave, ma tutti sapevano benissimo a
cosa servisse.
Joseph squadrò le spalle
“Tu prendi ordini da
Elia. Non io.”
Cercò ancora una volta
di dribblare il gorilla, più per far fede alla sua parte che per
creare veri conflitti. Se avesse voluto liberarsi dello scimmione,
sarebbe già steso sul parquet in una pozza di sangue.
“Prendo molto sul serio
il mio lavoro Signore.”
Il palestrato in giaccia
gli parò un braccio davanti
“La prego di seguirmi
nella stanza ed attendere il Signor Elia.”
Anche la sua calma
apparente iniziava a vacillare, dai tremolii della sua voce era ormai
chiaro che le mani gli fremevano e che temeva per il suo incarico
così come per la sua inutile esistenza.
“Bene...”
Joseph inspirò e sospirò
a pieni polmoni, fingendosi più menefreghista e sbruffone del solito
“...Sentiamo cosa ha da
dire quell'idiota di mio fratello.”
Il gorilla fece per
muoversi al fine di circuirlo e poterne controllare i movimenti da
dietro, ma Joseph sollevò immediatamente le mani e lo bloccò con
un'espressione gelida
“Conosco la strada.”
Senza degnarlo
d'ulteriore attenzione voltò a sinistra verso il lungo corridoio che
portava alle scale. In fondo alla scalinata di marmo, dietro la
pesante porta d'acciaio, l'attendevano quattro mura insonorizzate.
Quante persone avevano pianto tra quelle pareti, quante avevano
urlato, quante ancora avevano confessato dubbi e tradimenti
imperdonabili.
Non appena fu sulla
soglia della grande porta in metallo, dal nulla quattro uomini gli
furono addosso. Si aspettava un Elia piuttosto sospettoso e prudente,
ma questo andava ben oltre le sue aspettative. Assecondò il suo
innato bisogno di ribellione scalciando e brandendo i pugni contro i
leccapiedi di Elia. Due colpi andarono a segno, lasciando uno dei
quattro a sputare sangue contro lo stipite. Fu necessaria gran parte
del suo autocontrollo per tenere a mente il piano, imponendo a sé
stesso di non andare oltre. Alla fine si lasciò spingere al centro
della stanza e, senza troppa resistenza, permise al più alto dei
quattro, capelli castani e mascella squadrata, di legargli le mani
dietro la schiena.
“Pagherete per questa
mancanza di rispetto. Tutti.”
Puntualizzò regalando
un'occhiata glaciale ad ognuno dei quattro malcapitati, marcando a
fuoco i loro visi nella mente. Il più magro abbassò gli occhi al
pavimento, sperando di fuggire agli occhi vitrei del Lupo, mentre un
altro, pieno del suo senso di dovere, prese a perquisirlo
attentamente, trovando quasi subito il pugnale e la semiautomatica.
Poggiò le armi sul tavolo, unica altra mobilia presente, e fece
cenno agli altri di farsi indietro. Mentre quelli si avvicinavano
alla soglia, i caratteristici passi lenti di Elia venivano verso
l'entrata.
“Potete andare ora.”
Esordì il fratello
maggiore puntando dritto verso il tavolino. Gli uomini eseguirono
l'ordine senza fiatare, chiudendosi dietro la porta blindata.
Joseph sospirò
visibilmente irritato
“Era davvero necessario
fratello?”
Elia tolse il caricatore
alla pistola continuando a dargli le spalle
“Non saprei...”
Ripose l'arma sulla
liscia superficie di legno scuro
“...Ti presenti qui al
calare della notte ed armato fino ai denti. Dimmelo tu.”
A quel punto finalmente
si voltò. Indossava una camicia azzurro chiaro sul suo classico
completo nero, ma ogni angolo e ruga del suo viso trasudavano
stanchezza e nervosismo.
“Volevo solo parlare
con William.”
Elia sollevò
scetticamente il sopracciglio. Siamo davvero qui per prenderci in
giro?
“Voglio che ammetta
quello che ha fatto.”
Incalzò Joseph
drizzandosi contro la sedia. L'altro sospirò
“Per poi cosa?
Sparargli un colpo in fronte?”
“Perché no?”
Elia scosse il capo
passandosi una mano sul viso
“Senti Joseph... Anche
a me manca mamma, so come ti senti.”
“No, non lo sai.”
Lo interruppe il più
giovane con decisione, digrignando i denti di fronte a quel patetico
tentativo di ammansirlo con futili parole
“So che vuoi
giustizia...”
Riprese Elia ignorandolo
“...Ma uccidere William
non cambierà le cose, anzi... Pensa a Nathaniel, pensa agli affari,
pensa a...”
“A te?”
Lo interruppe di nuovo
Joseph, stavolta con tono di sfida e di sdegno
“Al mio caro fratello
che per tutta la vita è stato trattato come il prezioso principe del
regno?”
“Non dirlo...”
Elia si scostò dal
tavolo per farsi più vicino, sollevando l'indice a mezz'aria per
chiarire il suo punto
“...Ho subito soprusi e
fatto sacrifici anch'io come tutti voi.”
La sua voce solitamente
liscia iniziava a far trasparire rabbia ed agitazione. Joseph ribatté
con una mezza risata amara
“Sacrifici? Intendi
sposare quella troia russa che ti ha fregato come un povero idiota?”
Elia strinse i pugni
trattenendo la collera
“Non avevo mai
realizzato quanto fossi egoista Jo.”
L'altro rimase seduto ed
impassibile, cercando di non far trasparire ciò che aveva in mente.
Elia era abbastanza furbo da leggergli la mente, se solo non fosse
stato così stanco e visibilmente provato. Era solo per colpa sua?
Per l'ansia di proteggere William? O forse c'era altro che lui non
sapeva?
“Voglio solo liberarmi
di lui...”
Joseph prese un lungo
respiro sollevando la schiena il più possibile
“...Liberare tutti noi.
Sai bene che William non merita il tuo rispetto e la tua lealtà. Ha
ucciso nostra madre cristo santo! Ma prima ancora di quello sai bene
cosa ha fatto a tutti noi...”
Riusciva a vedere le
spalle del fratello contrarsi di più ad ogni parola
“...C'eri anche tu
Elia. Gli allenamenti forzati, le urla, gli insulti, le botte
prese... C'eri anche tu.”
Il maggiore rimase ancora
nel suo angolo di silenzio, cercando le parole giuste per ribattere a
quell'appello. Certo che lo ricordava, ricordava ogni livido ed ogni
notte passata a consolare il piccolo Nate, ancora troppo piccolo per
capire cosa stesse succedendo. Ricordava la paura del buio ed il
freddo della notte. Ed il senso di colpa crescergli e crescergli
dentro ogni volta che uno schiaffo schioccava sul viso di Joseph e
lui restava immobile a guardare, in rispettoso silenzio ed in vile
accettazione. Non stava mettendo in dubbio le inesistenti capacità
genitoriali di William, stava solo difendendo il sistema, quel grande
intruglio di illeciti ed alleanze che garantiva a tutti loro
incolumità e benessere. Stava solo difendendo il “piccolo”
Nathaniel. Non era più il codardo di un tempo. Non più.
“Non hai bisogno di
lui.”
Incalzò Joseph
interrompendo i quesiti interiori del fratello
“Non hai bisogno di lui
per essere il re di tutto questo.”
Finalmente Elia si voltò
“Non voglio affatto
essere il re!”
“Certo che lo vuoi!”
Ribatté immediatamente
Joseph, prendendo al lazo la crepa nella perfetta armatura dell'altro
“...E va bene Elia, va
benissimo. Puoi avere tutto questo e di più, io non voglio niente da
quel bastardo, voglio solo farla finita.”
Elia scosse la testa
“Se ti lascio fare
quello che hai in mente la sola cosa che avrà fine sarà questa
famiglia.”
Joseph sospirò cercando
gli occhi del maggiore
“La tua
famiglia. Io non ne sono parte. Non più.”
L'altro gli si avvicinò
con decisione, reggendo quello sguardo carico di consapevolezza e
decisione
“Tu sei mio fratello
Joseph. Non importa quanto dna condividiamo o quanti dei tuoi casini
debba ancora aggiustare. Sto cercando di difendere anche te qui.”
Il Lupo aguzzò lo
sguardo
“Non ho bisogno di
essere difeso. Non ho più dieci anni.”
Ancora una volta sentì
la rabbia riversarglisi addosso come una cascata. Per quanto bene
volesse all'uomo impettito che gli brandiva l'indice in fronte, non
poteva e non voleva vedere al di là dell'unica evidenza della sua
vita. Per colpa di William era un essere solo, ormai troppo laido e
danneggiato per poter aspirare a qualsiasi forma di riscossa.
Elia incassò la nuova
ondata di tagliente senso di colpa, abbassò gli occhi e di nuovo
diede le spalle al fratello perché non lo vedesse tentennare.
“Perché lo difendi
tanto?”
Domandò il più giovane,
i polsi ormai doloranti per quanto avesse provato a divincolarsi.
Avrebbe voluto usare le mani per sottolineare le sue parole, cercando
ancora una volta di convincere Elia di quanto la morte di suo padre
fosse l'unica soluzione possibile. Nathaniel era abbastanza giovane,
viziato e psicopatico da superare la cosa in men che non si dica.
Probabilmente non se ne sarebbe neanche accorto se gli avessero
subito messo davanti la sua parte di eredità.
Elia si riempì i polmoni
ancora una volta. Non aveva una vera risposta da dargli. Continuava a
ripetersi in testa che rispetto e lealtà sono i pilastri di ogni
buona famiglia, che non importa cosa sia successo non si può venir
contro al proprio preciso dovere di figlio... Ma se avesse potuto
esser sincero, avrebbe dovuto ammettere a Joseph e a sé stesso che
aveva una paura fottuta. Non era affatto pronto a diventare William
Michaelson Quarto. Non avrebbe saputo da dove cominciare e di certo
sarebbe stato un fallimento, soprattutto considerato che non riusciva
a gestire nemmeno una moglie bugiarda ed un fratello stizzito.
“Ascoltami Joseph...”
Gli rivolse gli occhi per
l'ennesima volta
“...Non intendo perdere
tutto il mio tempo cercando di farmi ascoltare da un sordo.”
Si avvicinò al tavolino
e prese le armi nelle sue mani. Meglio essere prudenti.
“Ti lascerò del tempo
per sbollire e ti prego davvero di usarlo per rivedere la tua
posizione...”
Joseph lo osservò mentre
infilava il suo arsenale nelle tasche. Questo non lo aveva calcolato.
Elia portò la sua faccia stanca al livello degli occhi del fratello
e gli parlò con la maggior grazia possibile, ricalcando lo stesso
ruolo del tempo dell'infanzia
“... Non c'è bisogno
di arrivare a tanto Jo. Siamo tutti soli, è vero, ma siamo ancora
una famiglia. Siamo ancora io, tu e Nathaniel. Questo non è mai
cambiato.”
Joseph trattenne a
malapena il sarcasmo sulla punta della lingua, gettando lo sguardo al
pavimento per non ferire il maggiore. Una parte di lui avrebbe voluto
credergli. Avrebbe tanto desiderato poter tornare a quel tempo
dell'adolescenza in cui era bello passare le serate ad immaginare
come sarebbe stato. Avrebbero avuto un garage pieno di macchine
sportive ed una sigaretta alla menta perennemente in bocca. Nathaniel
avrebbe riempito casa con le conigliette di playboy ed i rimproveri
di Elia avrebbero riecheggiato continuamente tra le stanze,
costringendoli a ridere sotto i baffi come stupidi scolari. William
sarebbe partito per l'Europa per seguire i suoi affari più da vicino
e mamma Amelia sarebbe potuta finalmente uscire di casa a testa alta,
senza più doversi vergognare degli insoliti riccioli biondi del suo
secondo figlio.
Erano ormai adulti e
nulla di quel sogno si era avverato. Perché mai continuare a
sperare?
“E se non lo facessi?”
Elia si bloccò sulla
soglia, voltando appena la testa per guardare Joseph con la coda
dell'occhio
“Spero davvero che tu
non renda la mia decisione ancora più difficile.”
E così, prima che
l'altro potesse continuare a girare il dito nella piaga, Elia aprì
la grossa porta e ribadì a sé stesso che lasciare suo fratello
dietro quel pesante muro di metallo era davvero la cosa migliore per
tutti. Se la chiuse dietro riprendendo immediatamente aria. Non aveva
idea di cosa stesse facendo. Non poteva certo tenerlo lì dentro per
sempre. Senza considerare che se William se ne fosse accorto,
sarebbero davvero stati problemi grossi per tutti.
Finalmente solo Joseph
cercò di rilassare i muscoli della schiena ed allungare le gambe.
Nonostante l'enfasi dello scambio l'avesse distratto per un po', era
riuscito chiaramente a sentire gli otto rintocchi del campanile. Era
già passato del tempo e ciò poteva solo voler dire che Cara era
vicina e che presto sarebbe tornato libero. Lo sguardo carico di Elia
era riuscito a farlo vacillare per un attimo, ma nulla al mondo
avrebbe cambiato l'idea che si era piantato in testa. Non gli restava
che aspettare la ragazzina dell'aereo ancora una volta, sperando che
almeno in questa missione gli sarebbe rimasta vicina fino alla fine.
-------
Nell'istante in cui le
campane avevano preso a suonare il cuore le era balzato in gola.
L'attesa del nono rintocco fu una delle più strazianti della sua
vita, con le mani sudate e strette nelle tasche mentre il viso le si
gelava nella polvere del tunnel. I piedi le parvero più pesanti del
solito mentre si muoveva sul suolo umidiccio e polveroso. Destra,
sinistra, secondo snodo, destra di nuovo. Le parole le
martellavano le orecchie nel silenzio più assoluto, rotto solo da
lontani lamenti notturni e scricchiolii metallici.
Sollevò gli occhi al
soffitto non appena seppe di aver raggiunto il punto preposto. La
lunga e stretta scala arrugginita portava al seminterrato della casa,
lì dove due guardie almeno attendevano di essere stese al suolo
dalle sue sole mani. Cara sospirò rumorosamente ruotando i polsi e
sperando che le sue nocche fossero abbastanza dure per ciò che si
sarebbe trovata davanti. Avrebbe dovuto passare più tempo ad
allenarsi piuttosto che a cavalcare il Lupo.
Salì il più
silenziosamente possibile. Joseph le aveva assicurato che la botola
sarebbe stata aperte e le sue parole non furono smentite. La pesante
sfoglia di ferro venne su senza cigolii molesti e Cara sbirciò
tutt'intorno trattenendo il respiro. Era buio anche fuori dal tunnel,
ma questo non era un problema visto che i suoi occhi erano ormai
abituati all'oscurità. Lenta, ma sinuosa come una tigre a caccia,
Cara si sollevò fuori dalla botola e guardò ciò che la circondava.
Il silenzio sembrava regnare sovrano, tanto che i suoi battiti erano
l'unico suono appena percepibile. Dove si trovavano le guardie
annunciate? Perché non sentiva il loro vociare da nessuna direzione.
Un primo brivido le risalì la schiena. Ancora una volta realizzò
dove si trovava e cosa stesse facendo. Era dentro la villa dei
Michaelson, nel centro pulsante del covo nemico, a solo un paio di
rampe di scale dall'uomo che aveva distrutto la sua famiglia e tutta
la sua vita. Presto l'avrebbe guardato in viso e si sarebbe sentita
finalmente viva, così viva come non si sentiva da ormai nove lunghi
anni. Strinse i pugni e decise di muoversi, riportando a galla ogni
tecnica e strategia che aveva appreso nel corso degli anni, spalmata
contro il muro e pronta a scattare come un'arma di precisione.
Sbirciò dietro l'angolo
e finalmente vide uno degli uomini di spalle. Era appoggiato con la
spalla alla parete, la sua attenzione tutta rivolta al cellulare che
reggeva nella mano destra. Se tutte le guardie di William svolgevano
così il proprio lavoro, sarebbe stato un gioco da ragazzi. Rimanendo
attaccata alla parete opposta scivolò verso di lui come come una
goccia d'olio sul vetro, preparando le gambe a scattare e le mani a
colpire il più forte possibile. Era più alto di lei il malcapitato,
ma non abbastanza corpulento da rappresentare una vera minaccia. Non
appena gli fu dietro strinse la pistola nel pugno e senza pensarci
due volte gli sbatté il calcio dell'arma sulla nuca, potente e
precisa come come un colpo d'arma da fuoco. Lo sconosciuto le cadde
subito tra le braccia e Cara si appoggiò al muro per accoglierne il
peso senza troppo sforzo. Lasciò scivolare il corpo a terra e lo
superò con un solo passo. Probabilmente non era morto, ma di certo
sarebbe stato fuori dai giochi abbastanza a lungo da non creare
problemi.
Riprese la lenta e
silenziosa camminata verso l'unica porta che lasciava trasparire luce
dai propri spifferi. Joseph le aveva detto di seguire la via sinistra
verso le scale ed ancora una volta il suo suggerimento sembrava non
fare una piega. Secondo i calcoli una sola altra guardia si sarebbe
trovata dall'altra parte, ma Cara non poteva certo esserne sicura. Un
solo uomo sarebbe stato semplice, due sarebbero già stati più
problematici. Se avesse perso troppo tempo ad occuparsi di uno,
l'altro avrebbe avuto abbastanza tempo per avvertire i piani
superiori e di certo non poteva permetterlo. Poggiò l'orecchio alla
porta e cercò di cogliere quanti più segni possibile. Una
televisione o forse una radio sembrava parlare in sottofondo, troppo
lontana per capire di che canale si trattasse. Nessuna conversazione,
il che lasciava certamente ben sperare.
“Hai finito di parlare
con la tua troia Don?!”
L'urlo rivolto alla porta
la fece saltare sul posto. Adesso, se non altro, era sicura che ci
fosse qualcuno dall'altra parte. Nessuna risposta da parte del
fantomatico Don.
“Stupido coglione senza
palle.”
Commentò la voce con
tono più basso e non ci volle molto perché Cara facesse due più
due. Don era l'uomo che aveva steso poc'anzi, troppo impegnato a
mandare messaggi romantici alla sua donna per notare la sua presenza.
Rimase ad ascoltare ancora un po', se Don era steso nel corridoio e
nessun altro partecipava alla conversazione, poteva solo voler dire
che l'uomo dall'altra parte era solo. Buon per lei. Peccato non poter
vedere che aspetto avesse e quanta forza ci sarebbe voluta per
stenderlo. Peccato non poter sapere prima se aveva anche lui armi a
disposizione. Benché avesse una pistola infatti, il piano le
imponeva di non sparare finché non fosse stato davvero strettamente
inevitabile. Troppe orecchie in quella casa.
Prendendo un lungo
respiro si decise a rischiare la partita e bussò alla porta. Sentì
lo stridere di una sedia sul pavimento ed il borbottio della stessa
voce di prima, mentre passi pesanti le si avvicinavano rapidamente.
Quando la porta si aprì incontrò quegli insulsi occhi marroni per
un solo secondo prima di avventarsi come un'arpia contro il
malcapitato. Un pugno dritto sul naso ed un altro tra le gambe. La
guardia si piegò per il dolore, ma cercò di non cedere rispondendo
all'attacco con i colpi delle sue lunghe braccia. Cara riuscì a
schivarne un paio prima che l'avversario la costringesse al muro
“Chi cazzo sei tu?”
Domandò ancora del tutto
stralunato. Cara decise di approfittare fino in fondo dell'effetto
sorpresa e riprese immediatamente a colpirlo in tutti i punti che
conosceva come più dolorosi, finché finalmente riuscì a girargli
attorno e mettergli un braccio attorno al collo. Per fortuna non era
troppo alto, ma di certo scalciava come un dannato. Nel tentativo di
togliersela di dosso le stringeva le costole con tutta la forza
possibile, facendole un male del diavolo. Cara strinse i denti e la
presa più che poteva, pensando solo a quello che sarebbe venuto
dopo. Muori. Muori maledetto.
L'altro barcollò verso
la parete cercando di sbatterci Cara contro, ma lei non mollò,
nemmeno per una frazione di secondo. Quel momento era davvero troppo
importante per lasciarsi distrarre da qualche osso incrinato.
Finalmente
lo sentì cedere alla mancanza d'ossigeno e barcollare un ultima
volta prima di venir giù come un sacco di patate. Cara si prese il
tempo di respirare di nuovo a pieni polmoni, cercando di capire se lo
stronzo le aveva davvero rotto qualcosa. Nonostante il dolore ogni
cosa sembrava al proprio posto e così la ragazzina ne approfittò
per sferrare un ulteriore calcio al petto della guardia di William.
Cara attraversò la
stanza guardinga la stanza in cui si trovava. La piccola tv
quattordici pollici gracchiava ancora, mentre nulla sembrava
succedere nel resto della casa, almeno a quanto poteva vedere dai
monitor di controllo. Sperò di poter vedere William seduto come un
papa presuntuoso nel suo studio, ma apparentemente nessuna telecamera
era autorizzata a riprendere l'interno della sua stanza personale.
Decise allora di proseguire la scalata verso i piani superiori.
L'orologio del monitor segnava ormai le 21e56, confermando che
mancavano ormai solo pochi minuti al blackout che lei e Joseph
avevano programmato. Approfittando dell'oscurità avrebbe raggiunto
ed attraversato il primo piano della villa, correndo a liberare
Joseph, prigioniero ormai da un paio d'ore dell'intaccabile falsa
morale di Elia.
Fu come un botto. Non
sentì null'altro che una botta secca,ma fu presto certo che la
trasmittente aveva funzionato. I monitor di controllo si erano spenti
così come la piccola tv e tutta la stanza era di nuovo piombata
nell'oscurità. Se i calcoli fatti erano esatti, aveva più o meno
tredici minuti per raggiungere Joseph prima che i generatori si
mettessero in moto ed i programmi di sorveglianza venissero
riattivati. Riempiendosi i polmoni d'aria e di adrenalina corse verso
le scale e le salì veloce, ma silenziosa. Sopra la sua testa poteva
sentire il chiaro trambusto di passi e voci sorprese, tutti presi a
ristabilire l'ordine, magari abbastanza da non notare la sua
volatile presenza tra i corridoi.
Girò piano la maniglia
della porta in cima alla scalinata e buttò l'occhio al di là.
Qualcuno le corse davanti, ma non notò nulla. Quella parte di casa
era la meno popolata per cui poteva ancora permettersi qualche
azzardo. Cara si affacciò nel lungo corridoio scuro, illuminato solo
dalla luce della luna e dei lampioni che filtrava dalle grandi
vetrate. Proseguì spalmata contro la parete finché non arrivò
all'angolo, lì dove la sua strada si diramava in due direzioni.
Proseguendo avrebbe presto raggiunto l'altro lato dell'abitazione e
trovato lo svincolo per raggiungere Joseph, mentre voltando a
sinistra avrebbe imboccato il lungo corridoio che portava alle stanze
principali della casa, lì dove William attendeva chiuso nel suo
studio.
Schivò una presenza
nascondendosi dietro l'angolo opposto e lì i suoi piedi divennero di
piombo. Aveva studiato per ore la piantina della villa ed era certa
che anche ad occhi chiusi avrebbe potuto raggiungere il salone,
bypassare la sala di pranzo e camminare dritta fino alla porta di
legno scuro che nascondeva l'uomo responsabile di tutte le sue
disgrazie.
Il cuore prese a batterle
forte nelle orecchie, tanto da riuscir quasi a coprire gli altri
rumori della casa. Quel bastardo aveva fatto uccidere i suoi,
lasciato che morissero come animali anche se non avevano fatto nulla,
quel mostro le aveva tolto la famiglia ed il futuro, trasformandola
nell'essere freddo e vuoto che adesso riempiva i suoi abiti scuri.
Quell'uomo meritava la morte dalle sue mani più di quanto non la
meritasse da ciascuno dei suoi figli. Era lei ad aver perso più di
tutti ed anche se il pensiero di Joseph continuava a strisciarle
nella mente, i suoi piedi avevano già preso a muoversi da soli.
Quella era la sua vendetta, lo era sempre stata. Sua e di nessun
altro.
Tirando qualche pugno ben
assestato o nascondendosi nell'ombra più cupa, Cara era riuscita a
raggiungere quel lungo corridoio più facilmente di quanto non avesse
immaginato. Il pavimento di legno scuro ed i quadri inquietanti alle
pareti calzavano a pennello alle sue fantasie di vendetta che
prendevano vita. Era davvero lì, così lontana e così vicina dalla
svolta della sua esistenza, la pistola stretta nella mano e la via
illuminata ad intermittenza da una lampada d'emergenza che sembrava
davvero non volergliela dar vinta. Se solo quella porta si fosse
aperta...
Mosse un primo passo e
poi un secondo, come fosse ipnotizzata dall'andirivieni di quella
luce e dall'incredibile di quel momento, tanto risucchiata nella
propria realtà da non sentire nemmeno i passi che si avvicinavano
veloci alle sue spalle. Ancora qualche secondo e sarebbe stata
intrappolata in quel lungo corridoio, non più carnefice, ma di nuovo
vittima, sempre dello stesso destino.
Una porta le si aprì di
fianco e lunghe braccia la trascinarono dentro in una frazione di
secondo. Una mano gelida le si poggiò sulla bocca e finalmente quel
freddo la riportò alla realtà, facendola scalpitare nell'oscurità.
“Shhhhh. Sta' ferma.”
Quelle tre parola
bastarono per bloccarla. Conosceva quella voce. La mano fredda si
scostò piano dalle sue labbra e tornò al proprio posto, permettendo
finalmente a Cara di mettere a fuoco chi aveva davanti.
“Katrina.”
Bisbigliò, ma l'altra fu
subito pronta a coprirle la bocca di nuovo. Fuori dalla porta
passarono veloci i passi di almeno tre uomini, tutti rivolti verso lo
studio di Willliam.
“Stiamo risolvendo
il problema Signore.
Ancora pochi minuti e
tutto il sistema tornerà operativo.”
Cara respirò col naso e
riprese il controllo della situazione, abbastanza da sollevare la
mano e spingere via dal suo viso quella di Katrina. Sarebbe stata in
silenzio fin quando quei passi si fossero allontanati, veloci
com'erano arrivati.
“Che diavolo ci fai tu
qui?”
Iniziò la russa a bassa
voce
“Potrei farti la stessa
domanda.”
“Io vivo qui. Ho
sposato uno di fratelli Michaelson, ricordi?”
Cara aguzzò lo sguardo
in quello scuro dell'altra
“E io sono qui per
ucciderne uno.”
Vista la loro attuale
posizione Katrina non ebbe dubbi su quale membro della famiglia Cara
volesse far fuori ed in automatico fu più felice di vederla.
“Come hai fatto ad
entrare qui?”
“Joseph mi ha detto
come fare.”
La sovietica sollevò il
sopracciglio sottile
“Joseph? Voi due siete
ancora insieme?”
Cara decise d'ignorare la
sottile insinuazione e valutò se e quanto potersi fidare della donna
che aveva davanti. Avevano già lavorato insieme e molte delle cose
che sapeva dei Michaelson le aveva sentite proprio dalla sua bocca.
Odiava William tanto quanto lei e questo era probabilmente già
abbastanza.
“Avevamo un piano...”
Iniziò, facendosi più
vicina per poter tenere la voce il più bassa possibile
“... Al momento Joseph
si trova chiuso in una stanza al piano di sotto. Con Elia credo...”
L'altra sussultò appena
al nome del marito
“...Sarei dovuta andare
a liberarlo, ma... Posso farlo da sola Katrina. Posso ucciderlo.”
Di nuovo lo sguardo
scettico della russa le piombò addosso, mentre l'illuminazione
andava lentamente ripristinandosi tutt'attorno.
“Posso farlo. Mi
preparo da anni per questo momento. Non ho bisogno di Joseph. Né di
nessun altro.”
Mentre lo diceva poté
sentire la sua stessa voce tremolare. Non era paura. Non doveva
essere paura. Non avrebbe avuto altre occasioni come questa.
“Sei sicura?”
Katrina di certo non lo
era. Il suo piano prevedeva solamente di parlare con William, eppure
le ginocchia le tremavano come gelatina. Figuriamoci affrontarlo da
sola. Cara lasciò cadere lo sguardo solo per un paio di istanti
“So
cosa sto rischiando. Per questo non coinvolgerò altre persone. Posso
riuscirci da sola.”
Mentre Cara continuava ad
auto-convincersi, Katrina poté leggere tra le sue parole ed il suo
sguardo si addolcì di colpo
“Mi accorgo solo ora
che abbiamo più cose in comune di quante pensassi...”
Cara corrugò le
sopracciglia nell'incertezza
“...Tutt'e due odiamo
stesso uomo. Tutt'e due teniamo ad uno di suoi figli.”
Cara sgranò gli occhi
sentendo le guance tingersi di rosso. Scosse il capo con decisione.
“Questa è la mia
vendetta. Solo questo.”
L'altra annuì facendosi
indietro appena un po'
“Sei davvero sicura?”
Cara tirò fuori la
pistola dalla tasca e la strinse forte nella mano. Per quanto
inaspettata, la presenza di Katrina le aveva scaldato l'animo. Se da
un lato sentiva di nuovo la paura, dall'altro sapeva di avere un
mondo intero di ragioni per tentare quella follia. Rivolse gli occhi
alla russa e fece cenno di sì con decisione.
Katrina indietreggiò
ancora restando a guardarla. Non la conosceva poi così bene, ma
aveva intravisto la sua anima travagliata. Tanto dolore e tanta
solitudine l'avevano portata fino a lì, fino al giorno in cui i suoi
occhi avevano incrociato quelli di Joseph Michaelson. Un piano
perfetto, non fosse stato per il fascino di lui e la testardaggine di
lei. Un mix perfetto che aveva inevitabilmente portato a quel
momento. Poteva davvero lasciarla provare? Se la ragazzina di Mancini
fosse riuscita a sparare quel colpo anche la sua vita si sarebbe
risolta per sempre. Se invece fosse morta in quella stanza... Chi
l'avrebbe rimpianta in fondo? La ragazzina non aveva nessuno al
mondo.
Cara prese un lungo
respiro e si voltò verso la porta prendendo la maniglia nella mano.
Fece per spingerla, ma si bloccò ed ancora una volta rivolse gli
occhi a Katrina
“So che non siamo mai
state amiche, ma ho bisogno che tu mi faccia un favore.”
Di nuovo il sopracciglio
di Katrina s'incurvò
“Cosa?”
“Se Elia o qualcun
altro dovesse arrivare mentre sono dentro ti prego, ti prego Katrina,
non lasciarlo passare.”
L'altra rimase basita per
un secondo
“Come?”
Cara scosse piano la
testa
“Non lo so... Ma per
favore, aiutami un'ultima volta.”
La donna dai grandi occhi
scuri annuì, scambiando con l'altra un ultimo sguardo d'intesa e
speranza. La mano di Cara spinse forte sulla maniglia e lei si
ritrovò presto al punto di partenza, faccia a faccia con la porta
del suo personale inferno o paradiso.
Le dita le tremarono
mentre s'appoggiavano piano sul legno freddo e si preparavano a
spingere.
Il momento era arrivato.
La porta le si spalancò
sotto le mani e la casa intera le piombò addosso. Eccolo lì.
Piccoli occhi scuri la fissavano come fosse un ragno apparso
d'improvviso sul muro. Eccolo lì. Giacca grigia e lunga barba a
coprirne le labbra avvelenate.
Eccolo lì.
“E adesso chi diavolo
sei tu?”
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Capitolo 17 *** Capitolo XVII ***
capitoloXVII
Ciao
a tutti! Stavolta mi scuso davvero per l'ennesimo lunghissimo
ritardo. La storia va a singhiozzi per mille motivi che non sto qui
ad elencare, ma vi assicuro che non ho perso la passione e che
arriveremo comunque ad una conclusione. D'altronde ve lo devo, siete
così pazienti e numerosi che ogni volta mi riempite di nuova
ispirazione. Grazie davvero, di leggere, apprezzare ed aspettare ogni
volta.
Martina
CAPITOLO
XVII
“E
adesso chi diavolo sei tu?”
Mille
volte aveva visto quel viso. Fotografie. Scatti rubati. Reportage.
Telecamere nascoste. Ogni linea ed ogni piccolo dettaglio erano
esattamente dove s'aspettava che fossero, ma quegli occhi.. Il vuoto
di quei piccoli occhi marroni l'inghiottì come una voragine. Non
c'era sorpresa e non c'era paura tra le pagliuzze dorate di quelle
iridi, nulla che riconoscesse la sua presenza nella stanza. Era come
se non ci fosse, come se non esistesse. Forse la sua vita era davvero
finita nove anni prima nel bagno della Salle de Paris. Forse
avevano sparato anche a lei quel giorno. Forse si era solo trascinata
come uno spirito tra i viventi per tutto quel tempo. Forse era già
morta.
William
corrugò le sopracciglia mostrandosi basito per un secondo appena.
Lisciando il collo della giacca, accarezzò poi il liscio legno della
sua scrivania e nascose le mani sulle ginocchia.
“E'
opera tua questo blackout?”
Di
nuovo la sua voce fredda e strafottente. Gli occhi di Cara, incollati
a quelli di lui, guardavano una scena totalmente diversa da quella
che gli si parava davanti. Il cuore batteva così forte nelle sue
orecchie che quasi non riusciva più a distinguerne i battiti, la
mano destra, ormai più gelida del metallo, stringeva ancora la
pistola, senza più la forza di sollevarla e mirare.
Era
davvero il mostro che le avevano descritto, capace di risucchiare
tutta l'energia vitale di un essere in un solo sguardo, in grado di
renderti una nullità ancor prima d'aprir bocca.
“Hai
intenzione di parlare o no ragazzina?”
Le
dita di Cara si strinsero attorno al ferro ed il suo indice accarezzò
piano il grilletto. I suoi occhi si chiusero per un solo secondo,
abbastanza lungo da ricordare finalmente perché fosse lì. Il
sorriso di sua madre ed il sudore di suo padre. Le carezze della sera
e la terribile sveglia del mattino. L'allenamento delle cheerleader e
gli scontri a corpo libero. Le costole incrinate e la mano sempre
calda di Mancini. I regali di Natale e le lacrime salate. Un funerale
doppio e mille scatoloni da riempire.
Mandò
giù l'asciutto della sua bocca e finalmente sollevò le braccia,
arma stretta tra le dita e piedi ben piantati al terreno. Questa è
la fine. Questo è il momento.
“Il
mio nome è Cara. Cara Phillis.”
E
il mostro sfoderò un sorriso, senza neanche degnare la pistola d'uno
sguardo.
“Ci
conosciamo?”
E
di nuovo era nessuno. Solo una macchia scura sul tappeto,
un'insignificante visino pallido che non spaventava nemmeno le
mosche. Il cuore vacillò nel petto, ma i suoi grandi occhi blu non
mollarono la presa, nemmeno per una frazione di secondo. Avvolta
nella semioscurità le sue guance avrebbero potuto infiammarsi e le
sue ginocchia tremolare, ma nessuno se ne sarebbe accorto, nessuno
avrebbe mai saputo che aveva paura. Ancora una volta sentì nelle
orecchie l'applauso del pubblico dopo lo spettacolo di fine anno alla
prima liceo. L'orgoglio era sbocciato nel suo petto ed il sorriso le
era esploso in volto. Sentì la carezza di Robert, bollente sulla sua
guancia destra
“Sei
la donna più bella e più forte che abbia mai visto crescere.
Le
tue ossa potranno spezzarsi e le tue ferite sanguinare,
ma
continua a tenerli fuori Cara...”
Il
polpastrello ruvido aveva battuto delicatamente sulla sua tempia
“...Tienili
fuori da qui...”
Lo
stesso dito aveva battuto il suo petto con più decisione
“...Tienili
fuori da qui ...”
Il
suo sorriso aveva brillato fiero
“...Tieni
tutti fuori e sarai invincibile figlia mia.”
Cara
riempì i polmoni d'aria e chiuse i boccaporti del suo povero cuore.
Lei era il merlo. Lei era il gelo.
“Potrei
raccontarti di me e della mia famiglia...”
Con
lo sdegno più puro sulla lingua strinse la presa e si preparò a
premere il grilletto
“...Ma
non meriti che io sprechi anche solo un altro secondo parlando con
te.”
------------
“Elia.”
“Elia!”
“ELIA!!”
La
voce di Joseph rimbombava nella stanza, inutile e stanca contro le
pareti insonorizzate. Le mani ormai ferite cercavano ancora di
liberarsi, ignare che mai avrebbero potuto sfondare una porta
blindata. Il ritorno della luce aveva ferito i suoi occhi come una
lama nel petto. Non era arrivata. Cara non era venuta a liberarlo.
Eppure la corrente era saltata, quindi lei c'era, aveva seguito il
suo piano fino alla casa e poi... L'avevano presa? Erano riusciti a
bloccarla? L'avevano già ammazzata? Una voce strisciante nel retro
della sua mente continuava a ripetere che no, la ragazzina era ancora
viva e vegeta, solo l'aveva tagliato fuori, si era liberata di lui
nel momento più opportuno ed era corsa a fare a modo suo.
“ELIA!!”
Un
altro pugno nello stomaco lo colpì. Non poteva farcela, non da sola.
Non dentro quella casa degli orrori. Troppi uomini e troppa tensione.
Di nuovo si chiese se non fosse già morta.
“ELIAA!!”
La
telecamera di fronte al suo viso stava certo trasmettendo l'immagine
scomposta dei suoi patetici tentativi di liberarsi, rabbia ed
agitazione sul suo viso e nella sua voce.
“ELIA!!!”
Finalmente
la sentì aprirsi e la grande porta metallica strisciò sul pavimento
più lenta di quanto Joseph potesse sopportare
“Fammi
uscire da qui!”
Urlò
prima ancora di vederlo entrare nella stanza. Elia lo guardò stupito
e confuso
“Ti
avevo chiesto di calmarti.”
Joseph
si sollevò sulla sedia ancora una volta
“Devi
farmi uscire da qui immediatamente Elia.”
Il
tono assertivo non bastò per convincerlo all'istante
“Non
ho alcuna intenzione di liberarti in questo stato.”
Joseph
grugnì cercando per la millesima volta di venir fuori dalle manette.
“DEVI
farmi uscire!”
Elia,
davanti a tanta foga, mangiò finalmente la foglia. Cercò gli occhi
del fratello
“Perché?”
Lo
scrutò con attenzione cercando di leggergli nella mente mentre
l'altro valutava l'idea di lasciargli libero accesso. Quanto fiato
avrebbe risparmiato.
“Non
sono venuto qui da solo Elia.”
Il
maggiore corrugò la fronte
“Di
cosa stai parlando?”
Nemmeno
il tempo di finire la frase che già gli ingranaggi della sua mente
avevano preso a girare nel verso giusto. Ora tutto quel trambusto
prendeva senso.
“Che
cosa hai fatto Joseph?”
Il
Lupo si morse le labbra
“Ero
qui per distrarti...”
Gli
occhi di Elia si strinsero nei suoi
“...Ho
detto a Cara come far saltare la corrente ed entrare in casa...”
Gli
ci volle una manciata di secondi per ricollegare quel nome alla
bionda dalla lingua lunga che aveva colpito gli occhi di suo fratello
“...Sarebbe
dovuta venire a liberarmi quasi mezz'ora fa.”
Elia
abbassò gli occhi per un momento
“Probabilmente
è già morta.”
Joseph
ignorò il brivido lungo la schiena e tese i muscoli ancora una
volta. Scosse il capo davanti all'altro
“Credo
abbia deciso di affrontare William da sola.”
Elia
sollevò un sopracciglio
“Allora
è sicuramente già morta.”
Ancora
una volta il più giovane scosse la testa, fissando il fratello col
suo stesso mix di orgoglio e paura
“Non
sottovalutarla Elia. Lo odia. Forse anche più di noi.”
Quello
sguardo impassibile fece vacillare la pesante armatura del maggiore.
Poteva fidarsi di Joseph? Forse la sua era solo l'ennesima montatura
per farsi liberare, forse non c'era nessuna Cara Phillis in casa...
Ma d'altra parte si trovava lì proprio per difendere suo padre, per
evitare che qualcuno montasse un macello e finisse per peggiorare la
situazione. Se la ragazza di suo fratello fosse davvero riuscita a
raggiungerlo? Se mai fosse riuscita a soddisfare la sua vendetta?
Come avrebbe spiegato a Nathaniel che proprio quella sconosciuta era
riuscita a distruggere il grande impero dei Michaelson? Lanciò uno
sguardo al viso speranzoso di Joseph. La prima minaccia da fermare
era li e di certo non ne aveva bisogno per bloccare l'intrusione di
una ragazzina di Mancini in casa sua.
“Andrò
a controllare.”
Sentenziò
facendosi vicino alla porta. Joseph tirò ancora forte, sperando che
finalmente il pollice si dislocasse e potesse liberarsi per conto suo
“Elia
fammi uscire!”
L'altro
prese un lungo respiro
“Non
posso fidarmi di te.”
Gli
voltò le spalle, ma Joseph insistette dimenandosi sulla sedia
“Elia!...
Elia ti prego...”
Il
maggiore si fermò sulla soglia
“...Per
favore...”
Era
più di una preghiera vuota ed Elia non poté non notare l'onedto
tremolio nella voce di Joseph. Si voltò e trovò gli occhi sgranati
dell'altro che cercavano i suoi
“...Non
m'importa del piano. Voglio solo uscire da qui.”
Elia
si bagnò le labbra e palesò ciò che finalmente era riuscito a
leggere nella testa del fratello, per quanto strano suonasse
“Vuoi
assicurarti che lei stia bene.”
Joseph
abbassò lo sguardo, ma non ribatté. La vergogna in quel momento
grattava forte il suo petto, ma non avrebbe perso quell'appiglio per
uscire da lì. Cara era da qualche parte in quella casa e per quanto
fosse forte e motivata, non poteva affrontare il mostro da sola. Il
mostro l'avrebbe schiacciata come un moscerino.
Elia
s'avvicinò al fratello ed ancora una volta piegò le ginocchia al
suo livello, cercando uno sguardo che sapeva non avrebbe trovato
“Sei
innamorato di lei.”
C'era
meraviglia nella sua stessa voce, al solo pensiero che quel fratello
così schivo e cinico avesse provato ciò che anche lui aveva
scoperto con sconcerto. La bionda sconosciuta aveva scavato nella
testa di suo fratello come una serpe scava la tana nel terreno, ma
niente meno era arrivata fino al cuore. Erano entrambi sulla stessa
barca adesso e, nonostante il cervello remasse contro, poteva sentire
le pene del fratello come fossero le sue.
Joseph
prese coraggio e finalmente sollevò la testa
“Fammi
uscire da qui.”
Saltò
a piè pari l'imbarazzo e le giustificazioni, chiedendo ciò che in
quel momento importava davvero. Elia prese fiato e finalmente si
decise a liberare le mani dolenti di Joseph. Balzarono in piedi e
senza bisogno di dire altro presero a correre su per le scale,
diretti verso il silenzioso studio di William Michaelson terzo.
-----------
Katrina
marciava a passi svelti da un lato all'altro del corridoio,
mordendosi le mani come un topo in gabbia. Poteva andarsene. Poteva
fregarsene di ciò che Cara aveva chiesto e fuggire il più lontano
possibile. Eppure era ancora lì. Il silenzio che proveniva dallo
studio era ormai preoccupante. In quella mancanza di suoni continuava
a chiedersi cosa avrebbe potuto e dovuto fare. La ragazza di Mancini
stava rincorrendo il suicidio per farle un favore, per fare un grosso
favore al mondo intero. Aspettava con ansia di sentire almeno uno
sparo o due, segno che quella tortura in un modo o nell'altra fosse
finita. Se fosse toccato a Cara, beh, avrebbe ancora avuto l'opzione
della fuga.
Appena
quel pensiero le sfiorava la mente, l'acidità le prendeva lo
stomaco. Non sarebbe fuggita ancora una volta per colpa di William.
Si voltò verso la porta, forse sarebbe dovuta entrare e darle una
mano. Non le sarebbe davvero dispiaciuto strappare la carne di quel
verme a mani nude. Le dita fremettero al pensiero di vendicare con le
proprie forze quel che lui le aveva tolto.
Fu
quasi sul punto di muoversi quando sentì passi svelti alle sue
spalle. Ruotò immediatamente il busto e subito le gambe seguirono il
movimento. Strinse i pugni ripensando a ciò che Cara ed i gemelli
Pryce le avevano insegnato. Dove colpire per rompere un naso, quanto
forte calciare per togliere il fiato.
Quando
la prima figura voltò l'angolo, i suoi occhi faticarono nel mettere
a fuoco la sagoma di Joseph. Subito dietro di lui niente meno che suo
marito. Katrina puntò i piedi al centro del corridoio, decidendo di
far fede alla promessa fatta alla ragazza sparita, forse per sempre,
dietro quella porta.
“Katrina...”
Joseph
frenò suo malgrado, apostrofandola con sorpresa e palpabile sdegno
“...Fammi
passare.”
La
russa gli si parò davanti in tutta la sua minuta stazza, lo sguardo
abbastanza aguzzo da far risuonare l'antifona. Dietro di lui Elia
faticò nel trovare da solo una spiegazione plausibile
“Che
ci fai tu qui Katrina?”
Sua
moglie cercò d'ignorare l'incertezza che quella voce le smuoveva
dentro e non si mosse d'un millimetro. Joseph avanzò con la sua mole
“Togliti
di mezzo.”
Katrina
ricambiò i suoi occhi con la stessa decisione
“E'
lì dentro, vero?”
Insistette
lui mentre l'ansia montava. Non fosse stato per suo fratello, avrebbe
già tolto la russa di mezzo senza troppa delicatezza
“Sì...
E nessuno può entrare.”
Tanto
gli bastava. Cercò di bypassare Katrina, ma lei lo respinse a palmi
aperti
“Non
andrai lì dentro.”
“Che
stai facendo Katrina?”
Finalmente
Elia s'inserì nella conversazione, consapevole che forse anche sua
moglie era parte di questo piano alle sue spalle. Ecco il perché
delle sue dolci maniere e dell'amore ritrovato. Tutto portava lì
ancora una volta, non è vero?
Katrina
gli regalò uno sguardo veloce
“Aiuto
la mia amica.”
“Cosa?!”
Elia
aggrottò le sopracciglia, onestamente perso nella scena che stava
vivendo.
“Lasciami
passare.”
Di
nuovo uno scambio di occhiate come uno scontro di spade, Joseph
incalzava premendo contro le piccole mani della cognata,
appigliandosi all'ultimo brandello di decenza prima di sbatterla al
muro e raggiungere lo studio.
“E'
sua vendetta.”
Joseph
scosse la testa
“Non
può farcela da sola!”
“Non
puoi fermarla!”
Lui
le afferrò i polsi
“Non
voglio fermarla.”
Katrina
si perse in quella confusione di voci e pensieri cercando di capire
cosa dovesse fare. Perché diavolo non succedeva ancora niente? Cosa
doveva fare a quel punto? I suoi grandi occhi scuri rimbalzarono da
un fratello all'altro prima di fermarsi su Joseph. Sembrava
stressato, frustrato, preoccupato perfino. Stando alle parole di Cara
era un alleato, non un nemico. Poteva fidarsi di lui?
Inconsapevolmente allentò la presa, quasi decisa a farsi da parte.
Il
respiro di Joseph si rilassò appena...
BANG.
BANG.
...Ed
immediatamente gli morì dentro.
Due
spari. Due spari forti e ravvicinati.
Era
successo. Era finita.
Che
si trattasse di William o di Cara, quella lenta agonia era finalmente
finita.
A
cervello spento e col gelo nel cuore Joseph sorpassò l'ormai
minuscola sagoma di Katrina e coprì a lunghi passi la breve infinita
distanza tra lui e la sua fine. Spalancò la grande porta ad occhi
chiusi, pregando un dio in cui nemmeno credeva affinché riaprendoli
potesse vedere solo il sorriso della sua ragazzina.
Elia
fissò gli occhi spalancati di sua moglie. Le avrebbe dato la colpa?
Sarebbe finalmente riuscito ad odiarla come tanto sperava? Come
avrebbero potuto sopravvivere anche a questo?
Decise
di seguire suo fratello, ma immediatamente si scontrò contro il
corpo rigido di quella donna, la stessa che forse non avrebbe più
riconosciuto
“No.”
Lei
lo spinse indietro con tutte le sue forze
“Cosa?!”
Non
l'avrebbe sopportato. Non adesso, non senza sapere se quell'impero
era davvero improvvisamente caduto tra le sue mani
“Non
andrai lì dentro.”
Era
ferma e gelida, ancor più fredda di quanto non fosse mai stata. I
pugni chiusi tremavano contro la curva tornita dei suoi fianchi ed i
suoi grandi occhi scuri andavano velandosi di lacrime e paura. Quasi
sembrava più spaventata di lui.
“Devo
sapere cos'è successo!”
Sentenziò
spostandola con un colpo di spalla, ma Katrina fu pronta ad
afferrarlo per il polso
“Spero
sia morto.”
La
cattiveria delle sue poche parole grondava di lacrime non ancora
versate
“Tu
non sai...”
Elia
la bloccò subito liberandosi il polso in malo modo
“Non
ho tempo per le tue stupidaggini adesso!”
Era
già due passi avanti a lei quando finalmente Katrina aprì bocca
“Non
vuoi sapere verità?”
L'accento
sovietico tornò ad arrotarsi prepotente sulla sua lingua, segno che
stava perdendo il suo amato controllo. Elia esitò per un momento, ma
non si voltò nemmeno
“Tu
non sei capace di dire alcuna verità.”
Aveva
già deciso di lasciarla in quell'angolo e tagliarla fuori. Se
William fosse morto non avrebbe perso solo un padre ed un fratello,
ma anche una moglie. Katrina guardò la sua schiena allontanarsi
veloce e raccolse il suo coraggio
“E'
stato lui!”
Non
fu abbastanza. Suo marito continuava ad avvicinarsi pericolosamente a
quella soglia, divenuta ormai il simbolico confine tra il futuro che
aveva cercato di costruire e la misera fine di ogni ingenua speranza
“Lui
ha mandato via me!”
Urlò
di nuovo, più forte di prima. Lui s'irrigidì ed i suoi passi
rallentarono senza fermarsi. Katrina si riempì i polmoni quasi fino
a scoppiare
“Non
ho lasciato te...”
Forse
avrebbe dovuto strillare ancora una volta, ma suo malgrado quelle
parole uscirono biascicate e spaventate. Elia finalmente si fermò
“...Lui
mi ha obbligata.”
Stavolta
suo marito si voltò, trovandola piccola e tremante. Le sue labbra
schiuse vibravano d'aspettativa.
“Vuoi
sapere la verità Elia?”
Gli
domandò. Lui buttò gli occhi alla porta di suo padre ancora una
volta
“Adesso
o mai più.”
Katrina
aveva finito gli appelli ed aveva ragione, una volta varcata quella
soglia nulla sarebbe più stato uguale. Se ne avessero trascinato
fuori il cadavere di William lui non l'avrebbe più guardata negli
occhi in quel modo, forse per mesi, forse per anni, forse per sempre.
Se invece fossero finiti a seppellire Cara Phillis ogni sua speranza
sarebbe marcita sotto terra assieme a lei. William l'avrebbe fatta
presto sparire, ne era più che sicura.
Elia
si bagnò nervosamente le labbra e tornò indietro d'un passo
“Posso
darti un minuto. Niente di più.”
Come
poteva tutta la loro vita non vissuta stare in un solo misero minuto?
Annuendo
in silenzio lo raggiunse senza toccarlo
“Ero
appena tornata a casa quella sera...”
Stava
piovendo. Le goccioline sbattevano sul parabrezza dell'auto con un
ritmo lento ed incessante, spezzato solo dal calmo andirivieni del
tergicristalli. L'autista proseguiva verso casa senza fretta, del
tutto ignaro del suo cuore, ben più battente della pioggia. Katrina
stringeva la bustina tra le mani, trepidante e terrorizzata allo
stesso tempo.
Era
corsa in casa senza nemmeno aprire l'ombrello, fregandosene dei
capelli bagnati e delle impronte sul tappeto persiano. Voleva solo un
tè caldo e magari un paio di biscotti in attesa che Elia finalmente
rincasasse.
Forse
avrebbe dormito fuori anche stanotte.
Scacciando
il pensiero poggiò la bustina sul bancone della cucina ed inserì la
spina del bollitore.
TOC
TOC
Buttò
gli occhi all'orologio. Quasi le dieci. Chi poteva essere?
La
sua espressione cadde a picco trovando William sotto il suo portico,
un sorriso plastico dipinto sul suo viso ed una bottiglia di
champagne nella mano destra. Si fece avanti senza chiedere il
permesso, riempendo la stanza di gelo come ad ogni sua visita.
Katrina mandò giù l'inevitabile timore che lui le suscitava ed
accennò un sorriso di circostanza
“Cosa
potere fare per te William?”
Lui
arricciò il naso come avesse sentito lo stridere di una forchetta
sul piatto. Con tanto tempo da perdere la cara Pushkina avrebbe
almeno potuto perfezionare il suo inglese. Sollevò la bottiglia
“Sono
qui per festeggiare!”
Lei
guardò la bustina marrone ancora in cucina e scosse il capo. Era sì
il terzo test che comprava, ma non ne aveva fatta parola né con Elia
né con altri. Era impossibile che sapesse. Vero?
“Festeggiare
cosa?”
La
sua falsa ignoranza diede ai nervi del suocero che presto poggiò lo
champagne sul tavolo e la fulminò col suo sguardo
“Avrò
presto un nipote. Non ti sembra un evento da festeggiare?”
Prese
a scartare la bottiglia
“So
che tu non dovresti bere nel tuo stato, ma andiamo, cosa vuoi che
succeda per un goccetto?”
Katrina
divenne di pietra nell'istante in cui il tappo saltò fuori col suo
“pop”.
“Come...
Come sai?”
La
lingua le si era appiccicata al palato e tutta quella sceneggiata
sapeva improvvisamente di preludio alla tragedia. Lui sfoderò un
altro sorriso, facendo brillare i denti tra la folta barba scura
“Davvero
credi che non controlli ogni tua mossa?”
Buttò
lì con leggerezza, andandosi a cercare un bicchiere degno
dell'occasione. Katrina sentì il respiro che accelerava ed
istintivamente cercò la porta con gli occhi
“Conosco
ogni tuo spostamento. Ogni cosa che fai, dove, quando e come la
fai...”
Buttò
giù d'un fiato la prima flute di bollicine
“...Ma
devo dartene atto. Questa non me l'aspettavo.”
Katrina
portò il palmo sinistro sulla pancia
“Io
nemmeno.”
Rispose
in un sussurro, ma lui scrollò le spalle e mollò il bicchiere per
avvicinarla
“Piccola
dolce Pushkina...”
Katrina
indietreggiò fino a raggiungere la parete, lui le fu presto davanti,
alto e possente
“...Così
giovane ed innocente...”
La
nocche ruvide di William le sfiorarono il viso e lei si voltò
immediatamente per evitare quel fastidioso contatto. Suo suocero le
afferrò il mento con decisione e la costrinse a guardarlo
“...Credo
che tu sia molto più furba di quanto non voglia dare a vedere.”
Lei
sgranò gli occhi. Non avrebbe saputo come difendersi se
quell'assalto fosse continuato. Fortunatamente William mollò presto
la presa e tornò ad abbeverarsi
“Ti
ho lasciato sposare mio figlio per poter siglare un contratto...”
Di
nuovo quel tono pacato l'accarezzava con false attenzioni
“...Di
certo non volevo che lo trasformassi in un bamboccio malato d'amore.”
Con
disprezzo tornò a guardarla, dall'alto in basso. Si leccò le labbra
e di nuovo le fu vicino
“Sono
certo che si stia davvero bene tra le tue gambe Katrina...”
Lei
rispose con una smorfia di disgusto, apparentemente gradita. William
rise di gusto, stavolta accarezzandole i capelli
“...Anche
a me piace la carne giovane e profumata.”
Katrina
si liberò dalle sue grinfie e corse all'altro lato della stanza
“Non
toccarmi!”
Lui
rise di nuovo versandosi il terzo bicchiere
“Sto
solo dicendo che capisco Elia. Ma un figlio?”
Buttò
giù tutto ancora una volta
“Un
figlio crea troppe complicazioni, non credi anche tu?”
“No.”
Ribatté
con decisione. Ne era felice, assolutamente felice, e lui non avrebbe
distrutto quel momento. William fu di un'altra opinione, il suo
sorriso sparì ed il volto gli si fece nero in un istante
“Non
stavo davvero chiedendo la tua opinione.”
Stavolta
la raggiunse minaccioso. Afferrò una ciocca dei suoi lunghi capelli
nel pugno e strattonò senza grazia, ignorando il suo lamento di
dolore
“Non
ti lascerò rovinare mio figlio stupida russa.”
L'atmosfera
piombò nel terrore in pochi istanti e Katrina si trovò nuovamente
spinta al muro con un tonfo secco
“Lui
ama me.”
Tentò
di difendersi, ovviamente con le parole sbagliate
“Lui
è il mio figlio migliore...”
Esordì
afferrandole la faccia e battendole la testa al muro
“...Ho
passato anni a plasmarlo a mia immagine e di certo non ti lascerò
rovinare tutto.”
Le
si avvicinò tanto da sfiorare il naso di Katrina col proprio,
mischiando il fiato alcolico a quello di lei
“Quindi
io e te faremo un accordo adesso, intesi?”
Katrina
cercò di dimenarsi, ma lui la inchiodò ancora una volta col suo
peso
“Lascia
che ti elenchi le opzioni...”
Le
cinse la vita sottile con la sinistra, stringendo più del dovuto
mentre il ruvido della sua barba pizzicava il lobo della nuora
“...Puoi
avere questo bambino e darlo a me non appena sarà nato. Posso farne
un altro ottimo guerriero...”
“NO!”
Niente
di più scontato. William strinse ancora un po'
“Bene.
Allora non avrai nessun bambino.”
Katrina
si dimenò più forte che poteva leggendo tra le righe di quelle
parole. Non avrebbe mai abortito.
“Lasciami!”
William
stavolta sembrò più scocciato che divertito. Voltò il viso di
Katrina perché i loro occhi potessero incrociarsi e si leccò le
labbra ancora una volta. La mano che le cingeva la vita mollò la
presa per impugnare quanta più stoffa del suo vestito potesse,
tirando su con decisione. Lei si mosse disperatamente come
un'anguilla, ma non v'era confronto
“Di
quante settimane sei? Tre? Forse quattro?”
Mentre
le scopriva le gambe sembrava tutt'intento a fare i suoi calcoli,
sempre e comunque freddo come un robot. Ciò che non sembrava affatto
freddo erano le sue mani che cercavano di ficcarsi sotto la gonna e
tra le sue gambe
“No
no no no no.”
I
suoi lamenti erano ormai solo un inutile sottofondo. Con la gamba
l'aveva già obbligata ad allargare le ginocchia e le sue dita erano
inesorabilmente riuscite ad accarezzare la sua parte più privata
attraverso la biancheria. Quell'unico gemito di soddisfazione che
William pronunciò nel suo orecchio la convinse che presto avrebbe
vomitato. I pugni di Katrina sulla schiena lo sfioravano appena
“Abbastanza
presto da instillare il dubbio...”
L'altra
mano di William mollò la presa per cercare uno dei suoi seni
“...Potrei
scoparti qui ed ora come la troia che sei...”
Le
si spalmò addosso tornando a sussurrarle nell'orecchio
“...Ti
piacerebbe credimi...”
Lei
trattenne un conato
“...Ma
non piacerebbe ad Elia.”
Le
sue manovre si bloccarono di colpo e tornò a fissare le sue iridi
terrorizzate
“Come
pensi che ti guarderebbe dovendosi chiedere ogni giorno se porti in
grembo suo figlio o suo fratello?”
Katrina
approfittò immediatamente di quel piccolo varco e fuggì il più
lontano possibile per riprendere fiato
“Elia
non può credere questo.”
Lui
sorrise vittorioso
“Ci
crederebbe invece. Lui ascolta ogni mia parola e tu lo sai.”
Katrina
strinse i denti. Davvero non aveva armi contro quel mostro. Si calmò
abbastanza da riuscire a star dritta e tirò su col naso, cercando di
riprendere quanto più contegno possibile
“Io
voglio mio bambino.”
Lui
non sbottò nuovamente come poteva immaginarsi, bensì si versò
l'ennesimo bicchiere come niente fosse
“Benissimo.
Vattene allora.”
La
russa scosse il capo ancora stordita
“Cosa?”
William
poggiò il bicchiere per l'ultima volta e le rivolse lo sguardo più
autoritario che avesse mai ricevuto
“Vattene
da qui. Stanotte. Subito. Prendi tutte le tue cose e sparisci il più
lontano possibile senza mai tornare. Penserò io ad Elia.”
Katrina
aprì la bocca, ma lui la bloccò con un solo cenno dell'indice
“Se
sarai ancora qui domani, il bastardo che porti in grembo non sarà
l'unico a dire addio alla sua vita.”
Non appena ebbe finito quel racconto,
durato forse un minuto forse un'ora, le parve di aver finito anche
tutte le lacrime che aveva in corpo. Era leggera adesso, era leggera
e pulita, non aveva più bisogno di piangere. Cercò Elia e lo trovò
più vicino di quanto ricordasse. Anche i suoi piangevano in
silenzio, il suo viso rigato per la prima volta di fronte ad una
donna che non fosse sua madre. Il pallore sulle sue guance a conferma
di aver vissuto quel terribile ricordo con lei. Quel padre che aveva
apparentemente distrutto ogni cosa, davvero ogni cosa.
Fu lui a muoversi per primo, provando
a toccarle la pancia, ma immediatamente ritraendo la mano
“Tu...”
Sussurrò appena. Non c'era bisogno di
chiederlo a parole. Katrina abbassò il viso e scosse la testa
“No. Ho perso il bambino... Ad
undici settimane... Su un treno per il Nevada.”
Elia strinse i denti come se avesse
preso un colpo allo stomaco. Lei inspirò
“Tutto è finito quella notte. Ha
fatto male e...”
“Ti prego fermati.”
Lei si zittì, ma solo per una
manciata di secondi
“Merita di morire.”
Aggiunse per chiudere quel cerchio,
scacciando quei terribili ricordi ancora una volta nel buio della sua
mente. Era scesa da quel treno vuota e decisa, ripartendo il più
presto possibile in senso contrario. Lei non avrebbe potuto far nulla
contro William, ma qualcun altro forse sì. I Merli Mancini. Così li
chiamava Elia ed a quello strano nome tutta la casata sembrava
tremare per un istante. Se erano abbastanza forti da spaventare i
Michaelson, allora forse avrebbero potuto aiutarla a schiacciare
William come il verme che era. Li avrebbe trovati, li avrebbe trovati
e pregati. Sarebbe diventata una di loro fosse stato necessario. Quel
crimine non sarebbe rimasto impunito.
“Lo so.”
Rispose Elia tornando a guardare la
grande porta in fondo al corridoio.
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Capitolo 18 *** Capitolo XVIII ***
capitolo XVIII
CHI NON MUORE SI RIVEDE! Grazie a tutti, non odiatemi troppo!
CAPITOLO
XVIII
A
cervello spento e col gelo nel cuore Joseph sorpassò l'ormai
minuscola sagoma di Katrina e coprì a lunghi passi la breve infinita
distanza tra lui e la sua fine. Spalancò la grande porta ad occhi
chiusi, pregando un dio in cui nemmeno credeva affinché riaprendoli
potesse vedere solo il sorriso della sua ragazzina.
Non
appena le sue palpebre si sollevarono la sua vista fu subito ferita
dall'immagine di William, vivo e vegeto, che gli dava le spalle.
Stringendo i pugni e prendendo fiato lasciò scorrere gli occhi verso
il pavimento e proprio lì, nell'angolo destro, le sue peggiori paure
presero vita nella sagoma sdraiata di Cara. Senza troppa grazia se ne
stava prona sul pavimento gelido, il viso addormentato e la pistola
abbandonata poco distante. Sotto il suo corpo la pozzanghera di
sangue carminio andava allargandosi nel silenzio più totale.
Joseph
lasciò che lo shock del momento risucchiasse tutta l'aria dai suoi
polmoni ed il sangue dal suo cervello. A stento riuscì a voltare di
nuovo il capo verso l'altra persona viva nella stanza. William si
voltò impassibile come sempre, le mani impegnate a lucidare l'arma
che aveva appena usato per sparare, scrutò il viso pallido di Joseph
e sollevò il sopracciglio
“Ti
senti bene figliolo?”
Quella
parola lo graffiò come una lama in viso ed i suoi occhi tornarono a
fissare la pace di Cara sul pavimento. William seguì pigramente la
traiettoria del suo sguardo e ripose l'arma sulla scrivania
“Era
roba tua?”
Chiese
atono, parlando di lei come fosse una cosa qualsiasi gettata a terra.
La prima ondata di sangue bollente si riversò nelle mani tremolanti
di Joseph, mentre l'altro proseguiva, osando addirittura un sorriso
sardonico
“Avrei
dovuto immaginarlo. Tutti i miei figli hanno pessimo gusto in fatto
di donne.”
Stavolta
fu un rigurgito di bile ad affacciarsi alla bocca di Joseph, amara
com'era amaro e pungente l'odore in quella stanza. William abbandonò
la sua posizione di trionfo e raggiunse il carrello degli alcolici
per versarsi due dita di whisky.
“Ne
vuoi?”
Domandò,
ma non ottenne risposta. Il figliastro era ormai una statua al centro
dello studio, il viso bianco come la maglietta sudata che indossava.
“Bella
ragazza senza dubbio... Troppo giovane... E sicuramente troppo
lenta...”
Continuava
a parlarne come se non fosse davvero lì, sdraiata a morire sul suo
prezioso parquet, come se non avesse alcuna importanza.
“Sei
stato tu a mandarla qui?”
Ancora
niente.
“Avresti
potuto almeno insegnarle qualcosa di meglio.”
Joseph
si lasciò ferire anche da quel subdolo mascherato tentativo di
addossargli la colpa. Le vene del collo iniziarono a pulsargli forte
fin dentro le orecchie ed il fischio acuto nella sua testa coprì
finalmente la voce fastidiosa di William.
“Ti
ho addestrato meglio di così.”
Scolata
l'ultima lacrima di liquido dorato il più anziano poggiò il
bicchiere e finalmente si voltò con l'indice puntato al cielo. I
suoi occhi scuri incrociarono lo sguardo in fiamme del killer che
aveva cresciuto. Scuro in volto come pece, Joseph digrignava i denti
ed espirava fumo invisibile dalle narici. Le mani strette tremavano
visibilmente ed il petto andava su e giù, veloce sotto la chiazza di
sudore che gli si stendeva sul petto. Le pupille divenute puntini
fissavano la meta come un toro fissa il telo rosso prima di caricare.
William sollevò nuovamente le sopracciglia, sul suo volto spento
campeggiò per un secondo un velo d'autentica ammirazione.
Un
ringhio profondo e spaventoso vibrò nella gola di Joseph mentre le
sue nocche si facevano bianche. Un urlo di puro disprezzo eruppe
dalle sue labbra rimbombando nella stanza chiusa, i suoi piedi si
mossero senza controllo ed il suo pugno serrato si scontrò senza
remore contro il volto dell'uomo che l'aveva cresciuto. William
barcollò cadendo contro la libreria di sinistra. Vetro e legno si
frantumarono a terra, mischiando il loro fragore alle urla disperate
di Joseph. Un cazzotto ed un altro. Ed un altro ancora. William
incassava in silenzio come un vero boss, appiccicandosi in viso il
più autentico ed inquietante sorriso divertito. Joseph gli colpì il
naso mentre l'altro gli rideva in faccia, deciso a trattarlo come
feccia fino all'ultimo.
“Questo
è per mamma!”
Gli
urlò contro assestando l'ennesimo colpo allo zigomo. Ormai non
riusciva più a vedere il volto di suo padre sotto la maschera di
sangue che andava dipingendo coi suoi pugni, ormai la sua testa era
occupata solo dall'andirivieni di immagini, ricordi e fantasie che
per quasi trentatré anni aveva represso. Il viso di sua madre, le
carezze nascoste, le ronde notturne, il braccio spezzato e l'ipocrita
torta delle domenica. Il vestito blu che Cara indossava sull'aereo,
lo shampoo all'albicocca e le sue lacrime addosso. Ogni pensiero
rifiutato andava riprendendosi il proprio posto, scansando a calci
gli ultimi brandelli di rispetto rimasti per quel figlio di puttana
che gli aveva dato nulla più che un nome altisonante. Le sue nude
mani facevano male, ma non abbastanza da volersi fermare. L'avrebbe
ucciso lì e adesso, con le sue sole dita.
“E
questo è per lei!”
Ancora
un altro pugno, ancora le sue nocche contro qualcosa di viscido e
croccante allo stesso tempo. Tutto il resto non esisteva più, il
suo sogno finalmente si stava realizzando, il suo demone si stava
scatenando ed i suoi occhi, i suoi occhi stanchi non avrebbero più
visto quel brutto muso. Trattenendo William per il collo della
camicia, respirò a fondo sollevando il pugno. Non si sentiva più le
dita e tutto il braccio parve dolergli di colpo. L'unico padre che
avesse mai conosciuto respirava ancora, l'occhio destro, appena
aperto, lo guardava con più rispetto di quanto non ne avesse mai
avuto in una vita. La sua folta barba grondava del sangue che aveva
sputato ed il suo petto andava su e giù senza sosta
“Bravo
figliolo...”
Raspò
tra sangue e saliva
“...Ecco
cosa ti ho insegnato.”
Joseph
strinse i denti caricando l'unica arma a sua disposizione. Un ultimo
colpo ben assestato e gli avrebbe spezzato il collo, liberandosi per
sempre dell'uomo che ancora una volta si era preso tutto. Sua madre,
la sua gioventù, la donna di cui si era innamorato. Solo un ultimo
colpo...
“Fermati.”
Elia.
La straziante, terribile voce di Elia. Il braccio gli si bloccò a
mezz'aria nonostante non volesse
“Fermati
Joseph.”
La
voce lenta, ferma, tranquilla quasi. Il sangue gli ribollì nelle
vene ancora una volta.
“Merita
di morire!”
Urlò
in faccia a William, ancora stretto e barcollante nella sua presa
“Lo
so... Ma non così.”
Joseph
voltò il capo senza mollare la stretta, gli occhi atterriti e
disperati rivolti al fratello. Elia si fece strada nella stanza e
raggiunse le sagome ansimanti degli altri due. Suo padre indossava
una maschera sanguinolenta, ma, come sempre nel suo stile, non
lasciava trapelare alcun dolore o sentimento.
“Credo
che abbiamo tutti bisogno di un drink.”
Si
avvicinò al carrello degli alcolici, mise tre bicchieri in fila e
lentamente li riempì dando le spalle alla scena. Due dita precise in
ognuno. Poggiò il primo drink nel disordine della scrivania e poi,
calpestando vetri e polvere, arrivò fino a Joseph. Cercò gli occhi
di suo fratello e con tutta la calma possibile gli porse il secondo
“Lascialo.”
Intimò.
Una scintilla gli percorse le pupille, mentre il suo sguardo
percorreva la breve strada tra il viso di Joseph e le sue dita
strette attorno al collo di William. Tornò a guardare suo fratello
con lo stesso fuoco negli occhi. Joseph ingoiò a forza l'adrenalina
che ancora gli scorreva dentro. C'era qualcosa in quell'occhiata
fiera e decisa, qualcosa che non poteva ancora decifrare, ma che lo
spinse comunque a mollare la presa.
William
si abbandonò con un tonfo sul legno e, curvo su sé stesso, prese a
tossire sangue e bava.
“E
adesso bevi.”
Joseph
afferrò con disdegno il bicchiere dalla mano di Elia e, senza
mollare i suoi occhi, digrignò i denti un'ultima volta prima di
mandar giù. Il maggiore annuì in maniera impercettibile e tornò
indietro per recuperare il proprio scotch. Non voleva darlo a vedere,
ma i suoi muscoli fremevano di rabbia ed incredulità, ancora
tramortito dalla storia di sua moglie. Avrebbe mai potuto mentire su
una cosa del genere? Come poteva fidarsi di lei? Davvero suo padre
aveva distrutto la sua famiglia? Davvero aveva ucciso la mamma?
Perché Katrina aveva parlato solo ora? Era forse l'ultima disperata
mossa del suo piano?
William
si tirò finalmente su e si riempì i polmoni a fatica. Gonfio e
livido, non mancò comunque di sorridere vittorioso
“Ce
ne hai messo di tempo Elia...”
Si
schiarì la voce cercando di ricomporsi
“...Il
mio figlio migliore.”
Joseph
sentì le mani tremare di nuovo e poco mancò che di nuovo partisse
all'attacco, stavolta per finire l'opera
“Fermo.”
Nuovamente
Elia lo bloccò, avanzando verso di loro. Squadrando le spalle cercò
gli occhi dell'uomo che gli aveva dato la vita
“Hai
ucciso tu nostra madre?”
L'altro
sembrò per nulla colto di sorpresa dalla domanda diretta, si passò
il dorso della mano sulla bocca
“Dopo
il modo in cui mi ha mancato di rispetto?”
Il
suo occhio buono guardò Joseph con disprezzo
“In
cui ha disonorato la famiglia?”
Si
tirò su all'altezza del suo figlio prediletto
“Sì.
L'ho uccisa. Ho vendicato il mio nome... ed anche il tuo.”
Elia
chiuse gli occhi per un istante o due, ascoltando nel silenzio solo
il ringhio di Joseph. Ogni secondo diventava più difficile star
fermo e comunque, qualsiasi strana cosa Elia avesse in mente, quel
bastardo non sarebbe mai uscito vivo dalla stanza. Mai e poi mai.
“Non
essere arrabbiato figliolo...”
Riprese
William afferrando la poltrona per tenersi in piedi e ridarsi un tono
“...Sai
bene come funziona. Il perdono rende deboli e noi non siamo deboli...
Noi siamo i Michaelson!”
Sottolineò
con fierezza accarezzando la pelle sotto il suo palmo, lanciando
un'occhiata compiaciuta, quasi divertita, al figlio bastardo che
fremeva poco più là. Elia indietreggiò di un passo facendosi più
vicino al fratello
“Giusto.”
Rispose
atono, scatenando ancora una volta il pieno stupore di Joseph
“Ma
che cazzo stai dicendo?!!”
Il
maggiore scrollò le spalle
“Ci
sono cose che non possono essere perdonate Joseph...”
Mollando
lo sguardo del fratello si diresse di nuovo verso William
“...Cose
che nessun uomo dovrebbe sopportare...”
Si
sollevò squadrando le spalle
“...soprattutto
un Michaelson.”
William
storse le labbra livide in un fiero sorriso. Ancora una volta la
ruota girava a suo favore. Sapeva di aver cresciuto bene il suo
secondogenito, ma le sue convinzioni avevano vacillato al sentir
parlare di Amelia, temendo che il ricordo materno potesse oscurare il
suo potere. Quella donna l'aveva reso ridicolo in vita, ma
fortunatamente ogni sua influenza era stata sepolta tra strati di
seta e chiodi d'acciaio. Sollevò finalmente il bicchiere e
l'avvicinò al naso per apprezzare dapprima l'odore della vittoria.
Un'altra guerra vinta.
“Hai
costretto Katrina ad andarsene?”
Le
labbra di William si serrarono appena prima che potesse assaporare il
velluto di quella bevanda pregiata. La puttana aveva cantato alla
fine. Collera e disprezzo si riaccesero tra le sue costole doloranti,
ma sul suo viso si dipinse nulla più che ilarità
“Non
crederai mica a quell'arrampicatrice sociale figliolo?”
Elia
rimase in piedi, facendosi più rigido di prima, ancor più del
fratello sconvolto che gli trafiggeva le spalle con gli occhi
William
tornò allora a sedersi sulla sua amata poltrona e, sollevando le
mani all'aria, decise di giocare la carta dell'onestà. Si trattava
di Elia dopotutto, il figlio placido ed obbediente, quel figlio che
pendeva dalle sue labbra come un leone dalla frustra del suo
domatore. Poteva sì provare a ribellarsi, ma uno schiocco o magari
due l'avrebbero di certo rimesso al proprio posto
“Va
bene, va bene, va bene...”
Incrociò
le mani sullo stomaco
“...Ammetto
di aver detto delle cose che potrebbero averla spinta ad andarsene.”
Di
fronte allo sguardo ancor più vitreo di suo figlio, sbatté i palmi
sulla scrivania
“Ma
l'ho fatto per te figliolo, perché non potevo sopportare che ti
trattasse come un burattino, che ti manipolasse come un patetico
cucciolo innamorato...”
Col
disgusto sulla lingua balzò di nuovo in piedi e puntò l'indice
contro Elia
“...Tu
sei William Michaelson Quarto! Sei l'erede del mio impero, il più
forte, il più intelligente... Il figlio che ho cresciuto con
orgoglio e dedizione... Tu non sei un debole... Nessuna donna vale
più del tuo nome, tanto meno quell'insignificante Pushkina ed i
frutti del suo sporco ventre!”
Nonostante
le carezze del diavolo, il figlio prediletto non si smosse di un
millimetro
“Elia...”
Joseph
tornò finalmente a farsi sentire. Non capiva più di cosa suo padre
stesse parlando, ma doveva assolutamente svegliare suo fratello da
quel coma apparente prima che William completasse il suo incantesimo
“...non
ascoltarlo!”
Come
poteva farsi abbindolare ancora una volta? Come poteva?
Ed
Elia finalmente si mosse. Sospirando abbassò il capo per guardarlo
con la coda dell'occhio
“Perché
no? In fondo ha ragione...”
A
passi lenti, accompagnato dalla sconcerto di Joseph, raggiunse il
carrello ed afferrò il proprio drink, finora ignorato
“...Sono
io, William Michaelson Quarto...”
William
sollevò il sopracciglio, nascondendo in maniera maldestra il suo
reale stupore
“...Ed
è tempo che renda onore al mio nome.”
Detto
ciò si voltò verso suo padre e con la schiena dritta ed il mento
sollevato, innalzò il bicchiere a mezz'aria proponendo un brindisi
silenzioso. William si gonfiò il petto d'orgoglio e contrasse le
labbra livide in un sorriso pieno. Era talmente fiero di sé che
sarebbe potuto scoppiare come la rana dalla bocca larga narrata da
Fedro. Raccolse il drink e rispose al gesto senza pensarci due volte
“A
te figlio mio.”
Tuonò
trionfante guardando non Elia, ma Joseph. Quel brindisi era per lui,
per sottolineare ancora una volta quanto fosse inutile ed
insignificante, quanto ai suoi occhi non valesse nulla. In quella
stanza era piccolo ed invisibile, pietoso come il suo misero piano
fallito, inerme ed irrilevante come il cadavere della sua donna che
si dissanguava sotto i suoi piedi.
Mandò
giù in pochi sorsi decisi, senza nemmeno sentirne il sapore. Ma
anche se si fosse preso tutto il tempo di assaporare sulla lingua le
note di agrumi, mele e vaniglia, fino a scorgere i vaghi sentori di
fumo e spezie esotiche, nemmeno allora avrebbe potuto capire cosa
stesse per succedergli.
Il
tonfo sordo del bicchiere sul legno risuonò nella stanza, forte e
vibrante come il gong dell'ultimo round.
“Noooo!”
Urlò
Joseph pronto a scagliarsi verso William come una furia. Stavolta
niente e nessuno l'avrebbe fermato e se fosse servito avrebbe
massacrato anche Elia senza pietà, tanto forte da spappolargli il
cervello. Non poteva credere che fosse successo, che quella scena
orrida e raccapricciante si fosse davvero svolta davanti ai suoi
occhi. Non era possibile.
Non
era possibile.
Non
era possibile.
Il
corpo di Elia s'interpose di nuovo tra lui e William, fermando la sua
corsa in uno scontro di mani e casse toraciche. Era così che doveva
andare allora, non solo suo padre, ma anche suo fratello. Elia gli
afferrò i pugni e lo spinse indietro con forza
“Deve
morire!”
L'ultimo
urlo disperato di Joseph si scontrò con la mano gelida di Elia che
gli afferrava il volto e lo costringeva a guardarlo
“E'
già morto.”
La
fronte di Joseph s'incurvò di confusione. I suoi muscoli, colmi di
sangue e cortisolo, tentarono di muoversi ancora un paio di volte
prima che il suo sguardo cadesse sulla scrivania di William ed il
cervello ripristinasse il flusso della ragione
“E'
già morto.”
Ribadì
l'altro, scandendo stavolta ogni parola con calma ed un alone di
dolcezza. La sua mano, non più fredda, scivolò dal viso di Joseph e
tornò morbida lungo il suo fianco. L'occhiata che i due fratelli si
scambiarono in quell'istante di realizzazione fu quanto di più
intimo avessero mai vissuto, più potente del primo omicidio e più
profonda di ogni patto di sangue condiviso. Quel momento cancellava
ogni torto, ogni dubbio, ogni gelosia. Quell'attimo li rese
finalmente fratelli, non più solo a metà.
“Che
diavolo stai...”
Le
parole di William perirono a mezz'aria. I suoi occhi caddero sul
bicchiere vuoto poggiato sulla scrivania
“Che
cosa hai fatto Elia?”
Domandò
in un onesto mix di paura, stupore ed incredulità. Elia prese un
lungo respiro ed espirando lentamente osservò per l'ultima volta i
tratti dell'uomo che gli aveva dato la vita. Amore e timore. Rispetto
e paura. Orgoglio ed incertezza.
“Te
l'ho detto padre...”
Sentenziò
muovendosi finalmente dalla sua posizione. Era ormai chiaro quanto
appena successo e quel che ora sarebbe accaduto in quella stanza.
L'acido cianidrico sciolto nello scotch di William avrebbe presto
iniziato a far effetto e nulla avrebbe più potuto fermare i suoi
respiri affannosi, la sua tachicardia e la sua copiosa sudorazione.
Poi forse sarebbe arrivato il vomito, seguito dalle convulsioni e
dall'inevitabile trapasso.
“...
Ci sono cose che non possono essere perdonate...”
Che
fine misera ed ingrata per un grande comandante come William
Michaelson III.
“...Cose
che nessun uomo dovrebbe sopportare. Soprattutto un Michaelson.”
La
consapevolezza innescò nel vecchio i primi colpi di tosse ed il
bruciore in gola, ucciso più dall'incredulità che dal veleno.
“Aiutami!”
Ordinò
William nell'ultimo impeto d'autorità, ma il suo figlio prediletto
altro non fece che tornare a fissarlo, con distacco, mentre si
abbandonava sulla poltrona. Il suo viso non si mosse di un
millimetro. Non provava più nulla, né la rabbia né il rimorso che
temeva. Nemmeno Nathaniel lo preoccupava più anzi, era ormai certo
di avergli fatto il più grande dei favori.
“Elia?”
Di
nuovo Joseph pronunciò il suo nome, gli occhi sgranati e le labbra
vuote di parole
“Pensa
alla ragazza.”
Gli
rispose lui con fermezza e Joseph corse finalmente verso il corpo di
Cara, inginocchiandosi accanto a lei. In quei momenti aveva quasi
dimenticato che fosse lì e Dio sa quanto gli sarebbe piaciuto poter
ancora credere che quel corpo fosse da tutt'altra parte, caldo e vivo
come lo era stato tra le sue braccia. Le mani gli tremavano ancora,
fosse per i pugni o per la sceneggiata che aveva appena vissuto, ma
sentiva di non aver il coraggio di toccarla. Aveva le guance pallide
ed una ciocca di capelli scomposta che le cadeva sulle labbra
violacee. Senza nemmeno rendersene conto, allungò la mano e scostò
la ciocca ribelle per scoprirle il viso. Era fredda, ma non gelida
come un morto. Aveva il viso rilassato, ma non l'espressione di pace
assoluta di chi ha già varcato l'estrema soglia. Facendosi coraggio
le poggiò i polpastrelli sulla carotide e pregò ancora una volta
con tutte le sue forze di sentirla pulsare.
Stavolta
Dio l'ascoltò, facendo battere il cuore di Cara contro le sue dita,
debole ed incostante, ma d'improvviso più forte di ogni straziante
lamento alle sue spalle. Un sorriso del tutto spontaneo s'impossessò
del suo viso. La sua ragazzina dell'aereo era viva, più forte della
pistola di William e d'ogni pronostico a suo svantaggio. Più dura e
determinata di quanto non avesse mai creduto. “Non ho molte
ragioni per vivere” Così gli aveva detto durante il loro primo
turbolento incontro, ma evidentemente qualche buona ragione l'aveva
trovata.
Fece
per girarla e cercare il foro d'entrata il più in fretta possibile,
provando a sorreggerle la testa per non peggiorare in alcun modo le
cose. Non appena fu sulla schiena le palpebre di Cara si mossero in
maniera quasi impercettibile e le sue labbra si schiusero in cerca
d'aria. Joseph le sollevò immediatamente il capo, continuando con
l'altra mano a tastare l'origine di quella copiosa emorragia. Il blu
profondo dei suoi occhi s'affacciò sbiadito tra le ciglia umide , il
viso immediatamente sconvolto dalla ritrovata coscienza
“Shhh...
Andrà tutto bene.”
Cercò
di rassicurarla lui, premendo con forza all'altezza del fegato. Ecco
perché sanguinava tanto
“Mi...”
La
voce le uscì di bocca più rauca di quanto ricordasse
“...Mi
dispiace.”
Era
un suono basso e spiacevole che gli graffiava le orecchie. Per la
prima volta guardava il viso morente di qualcuno che non aveva ferito
con le sue stesse mani. Per la prima volta non desiderava che quei
lamenti strazianti finissero il prima possibile, bensì che
continuassero all'infinito. Per la prima volta il sangue sulle mani
gli dava la nausea ed il cuore gli si stringeva nel petto,
desiderando di poter vincere contro la morte in persona. La ragazzina
dell'aereo non poteva morire, non ora, non proprio adesso che il
vecchio bastardo andava crepando. Che si prendesse lui la morte.
Il
più delicatamente possibile le poggiò un dito sulle labbra perché
non si sforzasse di parlare ancora. Era bella anche in quel momento,
innocente ed onesta, sbiadita dalla paura, ma accesa dall'innata
inevitabile voglia di vivere che le scalciava dentro.
Poteva
capirla la morte. Chi avrebbe scelto il brutto muso di William
potendo avere lei? Spinse più forte sulla ferita ignorando la sua
smorfia di dolore. Non gliel'avrebbe lasciata prendere, non ora che
conosceva bene il sapore di quelle labbra ed il calore di quella
pelle. Non gliel'avrebbe lasciata prendere.
“Shh...Ci
penso io.”
Annuì
nei suoi occhi socchiusi e le infilò un braccio sotto le ginocchia
per sollevarla. Non l'avrebbe lasciata dissanguare in quella stanza.
Elia
si voltò ed incontrò lo sconforto negli occhi del fratello. Reggeva
quel peso morto come fosse un inestimabile tesoro, determinato e
terrorizzato allo stesso tempo. Il sangue gocciolava dalle sue mani
sul pavimento, come il ticchettio di un orologio che gira troppo
veloce. Quanto avrebbe voluto poter semplicemente chiamare
un'ambulanza o precipitarsi all'ospedale sfrecciando a duecento
all'ora sulla statale. Come l'avrebbe spiegato ai medici? Come alla
polizia? Per la milionesima volta Joseph maledì il suo nome e la sua
vita, oggi con più disprezzo che mai.
“Portala
di sotto. Chiama Gregory.”
Il
tono autoritario di Elia lo riportò alla realtà. Non poteva più
permettersi di tremolare come un ragazzino, non aveva più un solo
secondo da sprecare.
Suo
fratello lo guardò sfrecciare via e tornò presto ad osservare gli
spasmi di William sulla sua preziosa poltrona, coperta di sudore.
Iniziava a sputare bava bianca dalla bocca ed il suo sguardo, fisso
sul figlio, andava perdendo lucidità. Per un attimo soltanto sentì
qualcosa di simile al rimorso nascergli dentro. Avrebbe d'ora in poi
vissuto da parricida, da traditore, da ingrato... Ma non avrebbe più
ricevuto ordini, mai più straziato tra l'obbligo di ubbidire e la
voglia di urlare, mai più schiacciato dal peso di dover essere
perfetto ad ogni costo, di doversi meritare il regno, quello stesso
regno che adesso gli si inginocchiava davanti, pronto a gettarsi
nelle sue mani. Avrebbe finalmente smesso di abbassare il viso in
vergogna davanti alla tomba di sua madre, davanti al fratello che non
aveva difeso abbastanza, davanti alla moglie che aveva trascurato e
deluso. Avrebbe avuto Katrina. Avrebbe forse anche avuto il figlio
che aveva perso per colpa sua, per colpa del padre tanto onorato, che
proprio a lui aveva tolto tutto.
Si
mosse verso William, gli occhi lucidi, ma lo sguardo fiero
“Lo
so che non dovrei dirlo, perché noi Michaelson non diciamo certe
cose...”
Nemmeno
le sue regole avrebbero più avuto importanza
“...ma
ti ho voluto bene padre. Davvero.”
Lui
gli rispose con un rantolo biascicato. Chissà cosa stesse tentando
di dirgli, probabilmente che era un debole, una delusione, un figlio
irriconoscente. Magari lo stava solo sonoramente mandando a quel
paese. Forse però, quell'ultimo guizzo nei suoi occhi, era invece
un'ondata di orgoglio pieno e sincero, così come in vita non l'aveva
mai guardato.
“Se
solo potessi capire...”
Si
passò la mano sugli occhi per un momento, cercando di cancellare
quella vista
“...Perché
non ci hai mai voluto bene? Perché...”
Abbassò
gli occhi per contenere l'improvvisa ondata d'imbarazzo
“...Perché
mai, nemmeno una volta, sei riuscito ad essere fiero di noi?”
Il
bambino rifiutato e l'adolescente insicuro presero posto accanto a
lui in quell'ultimo confronto, tornando alla luce dopo tanto, troppo
tempo. Quel dolore premeva ancora alto nello stomaco, quella perenne
sensazione di insufficienza che accompagnava ogni sua decisione,
quell'insensato bisogno d'approvazione che nessun uomo della sua età
dovrebbe trascinarsi dietro come un macigno.
“Posso
capire perché odi tanto Joseph, ma io... io... Ho sempre fatto ciò
che mi hai chiesto, obbedito ad ogni ordine... Ho provato in tutti i
modi papà...”
Ancora
una volta guardò il pavimento in un sospiro, sentendo scoppiare nel
petto quella parola tanto semplice eppure così estranea alle sue
labbra
“...Perché
hai fatto questo a me?”
Il
viso di suo padre andava ammorbidendosi, ancora gonfio e paonazzo
mentre le rughe sulla sua fronte si distendevano lentamente,
accompagnate da un respiro lento, debole e prolungato. I suoi occhi
socchiusi sbatterono le palpebre un paio di volte, fissandolo dritto
nelle orbite. Non più arrabbiato, non più deluso, non più
spaventato.
Si
sarebbe tenuto il dubbio.
Ecco
come muore un vero Michaelson.
Elia
cadde sulle ginocchia, restando ad osservare quel corpo esanime. Suo
padre. Il cuore gli ballò tra le costole ancora una volta e delle
lacrime non richieste gli bagnarono silenziose le ciglia. Quella
voragine che gli si apriva dentro non aveva il sapore della vittoria,
bensì graffiava forte come fa il rimorso, come fanno i rimpianti,
come fa l'anima macchiata delle persone per bene. Lui non sarebbe mai
stato una brava persona, mai dopo questo, eppure quella dolce
consapevolezza ne affievolì il dolore. Nonostante tutto c'era ancora
un uomo dentro la sua corazza gelida, un uomo vero e capace di
soffrire, non il mostro che tanto aveva temuto di essere diventato.
Asciugò
quella sola pesante lacrima con un gesto veloce della mano, di colpo
conscio della presenza silente alle sue spalle. Guardò la silhouette
sfocata di Katrina con la coda dell'occhio, senza nemmeno chiedersi
da quanto fosse lì.
“E'...?”
Morto.
Non vi fu bisogno di pronunciare la parola, le bastò guardare le
spalle di suo marito cadere giù in silenzio. Katrina ingoiò in un
sol boccone la voglia di saltare dalla gioia e si fece strada verso
Elia. Incerta gli posò una mano sulla spalla, un tocco appena
accennato. Non si sarebbe stupita affatto di vedere quella stessa
mano scacciata in malo modo, era anche colpa sua dopo tutto,
soprattutto colpa sua. Ed Elia amava quel padre freddo e crudele,
probabilmente più di quanto amasse lei.
Sorprendentemente
la sua piccola mano rimase lì, indisturbata su quella matassa di
muscoli, nervi e dolore che era suo marito. Katrina respirò
quell'aria pregna di sangue e morte, accovacciandosi piano al suo
fianco, guardandolo fissare quel cadavere scomposto. Con la mano
libera decise allora di interrompere quell'insopportabile trance e
raggiunse il viso di Elia, costringendolo con un accenno di forza a
rivolgerle lo sguardo. Guardavano in basso i suoi occhi, i suoi occhi
stanchi e lucidi, la scia di una lacrima nascosta sui sui tratti
stanchi. Col pollice la cancellò, perché non c'era motivo di
piangere, e allora lui finalmente la guardò, limpido come mai prima
di quel momento, quasi un bambino tra le sue dita affusolate. Venne
da piangere anche a lei, ma scansò quel desiderio con lo spettro di
un sorriso. Ancora una carezza e poi non riuscì più a resistere,
spinse le sue labbra contro quelle di Elia, la sua bocca asciutta, ma
ancora morbida come ricordava, il suo respiro caldo, denso di alcool
e rammarico. Gli strinse forte il viso tra le mani e da ultimo lo
sentì accettare quel bacio, casto all'apparenza, ma carico di
passione e significato. Erano liberi. Il re e la regina del regno
finalmente liberi dal maleficio dell'orco cattivo.
Elia
si staccò piano, le loro labbra ad accarezzarsi per un istante
ancora, le sue mani, ora bollenti, finite non si sa come a cingere
la vita sottile di quella moglie tanto odiata e tanto desiderata,
come se fosse appena tornata da un lungo, lunghissimo viaggio. Si
perse nei suoi grandi occhi scuri e di colpo la morte in quella
stanza smise di esistere.
L'era
di William Michaelson III era finita. In quel caos di vetri, sangue e
saliva, iniziava il suo momento. Iniziava la sua vita.
///////////
Qualcosa
di caldo e pesante l'avvolgeva completamente. Ciononostante sentiva
freddo, un freddo profondo che le attraversava le ossa e le faceva
tremare le interiora. I suoi occhi non vedevano altro che buio. I
suoi occhi chiusi, realizzò. Cara tentò di muoversi, ma non ci
riuscì, un peso enorme all'altezza dello stomaco la teneva giù,
incollata come un adesivo a quella superficie liscia. Il suo indice
destro si mosse appena accarezzando un tessuto tiepido e levigato.
Una netta ed improvvisa sensazione di dejavu la colpì come un
macigno. L'aereo. Joseph e la sua nave. Joseph. Il pensiero
confortante del Lupo svanì però immediatamente. William. Il suo
sorriso che la sfotteva. Le sue mani paralizzate dalla paura. I
colpi. Il dolore. Il freddo ancora una volta. La sconfitta.
Con
un respiro mozzato si tirò su di colpo, trascinando qualsiasi
barriera la stesse trattenendo. Spalancò gli occhi cercando ancora
quell'uomo ed i suoi occhi vuoti, ma un dolore improvviso e
lancinante le spezzò il fiato. Si portò le mani alla pancia. Era
ancora viva? Perché era ancora viva?
“Hey,
vacci piano.”
Joseph,
la sua voce, era lui. Lo cercò immediatamente coi suoi occhi secchi
e spalancati, costringendo le pupille a contrarsi finché la sua
sagoma sbiadita divenne l'immagine netta e nitida dell'uomo che aveva
tradito. Subito il sollievo divenne paura mista a vergogna. Evitò i
suoi occhi sentendolo avvicinare, cercò di ritrarsi, ma non ci
riuscì per via di quel maledetto pulsante dolore.
“E'
già un miracolo che tu sia viva, cerca di non strafare.”
Sentì
le sue mani calde spingerla giù con delicatezza e di nuovo la sua
testa si abbandonò su quel morbido cuscino. Deglutì un po'
dell'amaro ferroso che sentiva in bocca e prese a guardarsi intorno.
Quella stanza da letto le era del tutto sconosciuta, a differenza
dell'odore dolciastro che le accarezzava le narici. Tuberosa. Le
pareti beige circondavano una stanza non troppo ampia, di fronte a
lei un comò bianco sormontato da un grande specchio incorniciato,
uno sgabello in finta pelle e una libreria semivuota. Voltò gli
occhi alla sua destra, dove un grande armadio laccato brillava nella
flebile luce dell'abat-jour accesa sul comodino. Dietro la sua testa
un'enorme testata capitonné, quasi incombente nella freddezza della
sua pelle color testa di moro. A sinistra non osò guardare, sentiva
gli occhi di Joseph trafiggerla ad ogni mossa e non era ancora pronta
ad affrontare le conseguenze della sua debolezza. Strinse gli occhi a
quel pensiero cocente. Aveva fallito. Non era stata abbastanza forte.
Né abbastanza brava. La sua sconfitta era anche quella del Lupo e,
se lo conosceva almeno un po', adesso gliel'avrebbe fatta pagare,
così come in fondo meritava.
“Come
ti senti?”
Lo
sentì parlare di nuovo e, a malincuore, voltò il capo verso di lui,
evitando ancora accuratamente il suo sguardo. Avrebbe voluto
rispondergli, ma in tutta franchezza non aveva idea di cosa dire, a
parte le continue coltellate al fianco destro. Si morse le labbra e
cercò quel poco di coraggio ed amor proprio che le erano rimasti
“Mi
dispiace.”
La
voce le uscì roca, le corde vocali raspavano l'una contro l'altra.
Le fu subito chiaro che non parlava da un po'. Quanto tempo era
passato? Di nuovo deglutì
“Ho
fallito.”
Cercava
di parlare con il più assoluto distacco, ma dentro le si muoveva
tutto, come fosse una gelatina accanto al fuoco
“Volevo
fare tutto da sola, ma è abbastanza chiaro che sono troppo
debole...E stupida...E...”
A
quel primo accenno di autocommiserazione intervenne lui
“Hai
finito?”
Il
suo tono rilassato, quasi divertito, uccise gli insulti per sé
stessa che ancora serbava tra le labbra. Da sotto le ciglia buttò
una prima occhiata verso Joseph. Aveva il viso riposato, un bel
colore roseo sulle guance, una linea appena di barba sul viso e le
labbra strette in un accenno di sorriso. Sorriso? Dal collo in giù
il suo torso era avvolto in una t-shirt blu, pulita, non troppo
scura, ma abbastanza blu da accendere i suoi occhi. Non era certo la
faccia di un assassino deluso.
“Che
è successo?”
Domandò
allora Cara, di colpo conscia di non aver la benché minima memoria
di cosa fosse accaduto dopo gli spari. Il suo sguardo si fece
lentamente più coraggioso e raggiunse quello del Lupo.
Stavolta
Joseph non trattenne quel già malcelato sorriso, i suoi denti
bianchi si scoprirono appena
“E'
morto.”
Lei
aggrottò le sopracciglia cercando di capire chi, come e quando.
Joseph si sedette al suo capezzale
“William
è morto.”
Precisò
e di nuovo Cara si tirò su di colpo, ignorando la botta allo
stomaco, il pallido viso ora alla stessa altezza di quello di lui
“Tu?”
Il
sorriso di Joseph si spese mentre, abbassando gli occhi, scuoteva la
testa
“Elia.”
Le
ci vollero un paio di secondi per rimettere a fuoco l'immagine di
quel fratello in giacca e cravatta, lo stesso che avrebbe voluto a
tutti i costi fermare il loro piano. Ma allora perché proprio lui?
“Come?”
Domandò,
candidamente sorpresa. Lui sembrò cercare le parole per qualche
istante, poi scrollò le spalle e sospirò
“E'
una lunga storia, ma non ha importanza. Ciò che importa è che sia
finita.”
Davanti
all'evidente perplessità dipinta sul volto di Cara, decise di
sorridere ancora, stavolta fissandola dritta nelle orbite
“E'
finita...”
Ribadì
“...William
non esiste più. Siamo liberi.”
Allora
perché continuava a sentirsi intrappolata? Perché il cuore nel suo
petto non aveva preso a battere all'impazzata? Perché quegli occhi
azzurri che le brillavano addosso non riuscivano a sciogliere il
freddo terribile che la paralizzava dall'interno?
Perché
non era stata lei. Nessun festeggiamento e nessuna danza della
vittoria avrebbero cambiato quell'unico fondamentale fatto. Non era
stata lei. Non l'aveva ucciso. Non c'era riuscita.
Cara
inspirò a pieni polmoni, ma il suo viso freddo ed immobile non passò
inosservato. Joseph si bagnò le labbra cercando altre parole per
dirlo, ma lei lo scavalcò, tornando a concentrarsi
sull'insopportabile dolore che le contorceva le viscere.
“Che
mi è successo?”
Lui
si scostò di colpo, raffreddato a sua volta dall'algida reazione di
Cara
“William
ti ha sparato. Il proiettile ti ha lacerato il fegato e sei quasi
morta dissanguata. C'è voluto un po', ma alla fine Gregory è
riuscito a rattopparti.”
“Chi
è Gregory?”
Come
se avesse importanza. Joseph trattenne l'istinto e decise di porle
cortese risposta. La ragazza aveva dormito per giorni, probabilmente
era del tutto normale quello stato d'alienazione
“Il
nostro medico a domicilio.”
Di
nuovo Cara si guardò attorno, stavolta volgendo la testa da un capo
all'altro della stanza
“Dove
sono?”
“Siamo
a casa di Elia, nella stanza degli ospiti.”
“Per
quanto tempo ho dormito?”
“Dodici
giorni. Dodici giorni e nove ore per l'esattezza.”
Cara
annuì distrattamente, passando ad esaminare le coperte tra cui
giaceva. Raso di cotone, certamente costoso. Anche il pigiama che
aveva addosso non era suo, come vi fosse finita dentro un mistero.
Gli ultimi abiti che ricordava erano neri, attillati e scomodi. Gli
abiti della missione. La missione. Di nuovo quel colpo allo stomaco.
Riportò
gli occhi su Joseph, adesso in piedi, di spalle, affacciato alla
finestra. Era sera e si potevano vedere solamente le vibranti luci
della città in lontananza.
“Sei
felice?”
Gli
domandò. Lui le gettò un'occhiata senza voltarsi
“Non
userei proprio quella parola. Direi più sollevato, leggero...
Libero.”
Di
nuovo quel termine. Ma come si sente la libertà?
Cara
rimase ferma ad osservare le linee nette e decise della sua schiena,
le lunghe gambe muscolose appena divaricate. C'era davvero qualcosa
di diverso in lui. Quella tensione continua, quell'aspetto guardingo
e minaccioso, quell'aura di timore e violenza, tutto sembrava
svanito.
Finalmente
Joseph si girò a guardarla
“E
tu? Come ti senti tu?”
Era
chiaro dai suoi occhi che non parlava dello stato di salute. Voleva
sapere se anche lei si sentiva liberata, se anche lei stava
assaporando la morte di William in un dolce boccone, se anche lei
avrebbe presto sorriso. Cara fissò il vuoto cercando qualcosa dentro
di sé, qualcosa che non riuscì a trovare
“Niente.
Non sento niente.”
Joseph
riuscì a mascherare la delusione di quelle parole, ma non di meno si
sentì frustato. Cosa voleva ancora? Cosa diavolo voleva ancora
quella donna da lui? Che fosse davvero fatta di gesso e sabbia? Che
fosse davvero vuota, asciutta, ed insipida? Dov'erano finiti la
passione ed il tormento? La rabbia e la sfida? Dov'era la ragazzina
dell'aereo?
Tum.
Tum.
Due
colpi leggeri alla porta lo sollevarono dall'incombenza di quei
quesiti. Elia si affacciò alla porta con un vassoio in mano, buttò
un'occhiata al fratello accanto alla finestra e decise di entrare.
Poggiò le vivande sul comodino e rivolse un sorriso di circostanza
alla sua ospite
“Vi
ho sentiti parlare...”
Si
giustificò
“...Bentornata
tra noi signorina Phillis.”
Cara
lo guardò con la stessa incredulità con cui un bambino fisserebbe
un babbo natale dalla pancia imbottita e dalla barba artificiale.
Anche lui odorava di pulito nella sua camicia bianca, anche lui
composto e rilassato come nulla fosse.
“Katrina
ha preparato del brodo...”
Afferrò
la scodella e gliela porse
“...Mangia.
Devi rimetterti in forze.”
A
metà tra l'ordine e la premura, Cara accettò immediatamente
l'offerta. Le sue mani gelide ringraziarono non appena avvolsero quel
piatto caldo che odorava sorprendentemente di buono.
“Katrina?”
Le
uscì di bocca senza controllo, sbalordita e malfidente allo stesso
tempo. Elia sollevò il sopracciglio destro
“Non
sai che cucina? Credevo foste amiche.”
Amiche.
E chi ha mai potuto permettersi un'amica?
La
questione fortunatamente morì lì ed Elia rivolse subito
l'attenzione a suo fratello
“Vieni
Joseph. Lasciamo che Cara si riposi.”
Lo
voleva fuori di lì, era chiaro. Evidentemente anche lui aveva notato
lo sbalzo d'umore. Il più giovane sospirò rivolgendole lo sguardo
ancora una volta, lei tutt'intenta ad analizzare la sua pietanza.
Annuì e lo seguì fuori, senza dire una parola.
“Finalmente
si è svegliata. Dirò a Gregory di passare domattina.”
Elia
prese le scale verso il salotto, suo fratello una sagoma silente alle
sue spalle
“Dovresti
riposare anche tu.”
L'altro
scrollò le spalle
“Sto
bene.”
“E
sta bene anche lei. Smetti di preoccuparti.”
Non
era più la sua salute a dargli pensiero, bensì il vuoto con cui
aveva accolto la dipartita di William. Nelle sue più infantili
fantasie l'aveva vista saltare sul letto e poi saltargli addosso,
ridere di gusto come non l'aveva mai sentita. Nella razionalità
aveva poi immaginato di vederla almeno sorridere, le spalle più
leggere ed i suoi grandi occhi blu limpidi e luminosi. Nell'intimità
della solitudine aveva infine sperato che la ritrovata libertà li
mettesse insieme, uno accanto all'altro verso nuove mete, lontano per
sempre da New Orleans e dai Merli.
Che
stupido.
Nell'incastro
dei suoi pensieri non si accorse che Elia gli era di nuovo davanti
“Dalle
un po' di tempo.”
Da
dove veniva quell'improvvisa capacità di leggergli la mente? In
quale preciso momento della sua vita era diventato così trasparente?
Quasi si vergognò.
“Basta
parlare di lei.”
Sentenziò.
Elia acconsentì senza insistere, riprendendo le scale verso il piano
di sotto
“E
di cosa vuoi parlare allora?”
Joseph
fece per seguirlo, ma rimase sul pianerottolo, la mano stretta
attorno alla fredda balaustra
“Di
te. Di quello che hai fatto.”
Il
rumoroso respiro di suo fratello lasciò intendere che non fosse
argomento gradito
“Ne
abbiamo già parlato abbastanza. Non c'è più niente da dire.”
Raggiunse
il salotto, mirando dritto alla poltrona. Sul tavolino fumavano
silenziose due tazze di caffè bollente. Dalla cucina arrivava
ovattato il rumore delle stoviglie maneggiate da Katrina.
“C'è
ancora molto di cui parlare invece.”
Joseph
gli si sedette di fronte ignorando le bevande, mentre il maggiore
afferrava la sua tazza per portarla al naso e respirare quel
rassicurante odore di casa.
“Te
l'ho già detto, ho fatto quel che dovevo...”
Abbandonò
il caffè sul tavolo
“...Non
l'ho fatto per te. Non hai motivo di sentirti in debito.”
Joseph
drizzò la schiena
“Non
mi sento in debito... Mi sento in colpa.”
A
quelle parole Elia scossa la testa. Quel peso era suo e di nessun
altro. Ed era già abbastanza pesante.
“Non
devi...”
Lo
guardò negli occhi
“...E'
stata una mia decisione e dovrò conviverci io. Non tu.”
Stavolta
fu Joseph a dissentire
“Ho
dubitato di te Elia. Ho davvero dubitato di te. Le cose che ho
detto...”
“Avevi
ragione.”
Lo
interruppe
“Non
sono stato un bravo fratello. Ho lasciato che nostro padre ti
trattasse come spazzatura, che sfogasse su di te e sulla mamma la sua
frustrazione. Avrei potuto difendervi e non l'ho fatto. Avevi
ragione, avevi ragione su tutto.”
Quelle
parole lo spiazzarono, così dirette ed inattese. Avrebbe voluto
anche lui svelare il proprio cuore con così tanta facilità, ma per
quanto si sforzasse non ne era ancora capace. Fosse colpa della
rigida educazione, fosse colpa dei troppi colpi presi, probabilmente
non lo sarebbe mai stato.
“Hai
fatto abbastanza.”
Per
spezzare il momento si interessò al caffè, affogando una zolletta
nella tazza. Il cuore gli pompava veloce nel petto. Voleva dirlo.
Aveva bisogno di dirlo.
“Ora
lo so...”
Riprese
senza spostare gli occhi dal cucchiaino
“...Non
avrò il sangue dei Michaelson, ma di certo ho un fratello.”
Una
botta improvvisa di calore gli raggiunse le guance, quasi fosse un
ragazzino alla prima cotta che sperava di non arrossire in pubblico.
“Ne
hai due!”
Il
sorriso sbiancato di Nathaniel illuminò la stanza, lasciandoli
sbigottiti. Il più giovane dei Michaelson non aveva infatti preso
bene la notizia delle gesta di Elia. Dopo aver ribaltato tavoli,
maledetto tutti i santi del paradiso e lasciato di fretta la tenuta
di famiglia, nessuno aveva più avuto sue notizie per i seguenti
dodici giorni. Nel rombo delle sue imprecazioni non era stato
neanche facile capire se fosse più incazzato per la morte del padre,
della madre o per non esser stato coinvolto nello scontro tra i
fratelli.
Ad
ogni modo eccolo lì, splendente come non mai nel suo cardigan di
Gucci
“Ho
fatto un giro in Giappone.”
Esordì.
Elia drizzò la schiena perdendo ogni residuo interesse per il caffè
“Hai
visto Caspar?”
Nathaniel
prese posto vicino a loro attorno al tavolo, accavallando le gambe in
una posa scomposta, ma rilassata
“Pare
che le carceri di massima sicurezza non concedano permessi per lutto
familiare.”
Scrollò
le spalle e tutti e tre piombarono in un religioso silenzio. Erano
soli adesso. Niente più ordini dall'alto, niente più urla dal fondo
del corridoio, niente più insulti per la loro inettitudine.
Ma
nonostante tutto il male, ad ognuno di loro William sarebbe mancato,
per un motivo o per l'altro.
Joseph
non aveva perso un padre, ma avrebbe dovuto trovare una nuova
motivazione. Elia non avrebbe certo sentito la mancanza del confronto
continuo, ma anche volendo, non aveva più un “perfetto”
capofamiglia con cui specchiarsi. Nathaniel avrebbe continuato a
vivere nella sua bolla di lusso e comodità, sapendo però stavolta
di non aver più le spalle poi tanto coperte.
Per
quanto fosse stato crudele, stronzo o svilente, William era comunque
l'uomo che li aveva cresciuti e plasmati. Se si trovavano lì,
insieme, ancora vivi, ricchi e potenti, in fin dei conti lo dovevano
solo a lui.
Il
minore scattò per primo
“Caffè?
Davvero?”
Balzò
in piedi e raggiunse la vetrinetta alla sua sinistra. Tirò fuori una
bottiglia dalla collezione di Elia. Rum scuro, distillato alle
Barbados ed invecchiato settant'anni almeno. Lo stappò senza
chiedere il permesso, prendendo con sé tre bicchierini da shot.
Sbattendoli sul tavolino li riempì fino all'orlo e li fece scivolare
verso ognuno di loro.
Sollevò
il suo a mezz'aria
“Ai
fratelli Michaelson!”
Elia
guardò quella mano alzata con indecisione. Cosa aveva lui da
brindare? Era il peggiore degli assassini. Passò lo sguardo su
Joseph e di nuovo su Nathaniel. I suoi fratelli erano ancora lì, a
brindare col peggiore degli assassini. Sbatté il suo pesante
bicchiere contro quello del più giovane
“Ai
fratelli Michaelson.”
Ripeté
ed i loro occhi si posarono dritti su Joseph. Voleva ancora quel
nome? Voleva ancora essere uno di loro? La vita misera e violenta che
aveva vissuto gli passò davanti in pochi flash. Ad ogni insulto, ad
ogni colpo, ad ogni sconfitta e ad ogni vittoria quei due c'erano
sempre stati e se non poteva essere il dna a tenerli legati, allora,
suo malgrado, sarebbe stato quello stramaledetto cognome a farlo. Il
suo drink colpì gli altri
“Ai
fratelli Michaelson.”
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Capitolo 19 *** Capitolo XIX ***
capitolo IX
E'
PASSATO TANTO TEMPO, MA NON MOLLO! ANCORA UN CAPITOLO E ANCHE QUESTA
STORIA SARA' FINITA.. CHIEDO SCUSA DI CUORE A TUTTI PER L'ORRENDA
TEMPISTICA. MARTINA
CAPITOLO
XIX
Toc.Toc.
Ancora
una volta qualcuno bussava alla porta della stanza. Cara se ne stava
in piedi di fronte allo specchio cercando svogliatamente di
sistemarsi. L'abito stretto di maglina, con i suoi colori spenti, non
stava davvero rendendo omaggio al suo incarnato. Il cerotto era ben
coperto, ma doveva comunque ricordarsi di non alzare il braccio
destro troppo in fretta o avrebbe di nuovo sofferto le pene
dell'inferno. I lunghi capelli, finalmente puliti, le scendevano
sulle spalle in onde morbide ed irregolari.
Sospirò.
Non amava ricevere visite.
Fosse
stato Joseph non avrebbe saputo cosa dirgli, ma sicuramente non si
trattava di lui. Nelle ultime settimane l'aveva evitata come la peste
e di certo non poteva biasimarlo. Buttò gli occhi allo specchio.
Anche lei avrebbe evitato sé stessa fosse stato possibile. Nel lungo
tempo speso tra quelle quattro mura non aveva fatto altro che
rimuginare sulla morte di William. Le parole di Joseph risuonavano
spesso nella sua testa
“E'
una lunga storia, ma non ha importanza.
Ciò
che importa è che sia finita...
William
non esiste più. Siamo liberi.”
William
non esiste più.
Come
se gli ultimi nove anni della sua vita fossero svaniti in un batter
d'occhio, ora si ritrovava con nulla più d'un pugno di mosche in
mano. Chi era Cara Phillis senza la sua vendetta? Cosa avrebbe fatto
adesso della sua inutile vita? Cosa avrebbe mai potuto fare?
Finì
ancora una volta a fissare il pavimento. Nella casa di Elia e
Katrina. Nella proprietà della famiglia Michaelson.
Erano
una famiglia. Nonostante i mille contrasti erano sempre una famiglia
e tolto il padre di mezzo, avrebbero comunque avuto l'un l'altro, le
cene di rito attorno ad un tavolo ed il traffico d'armi da
organizzare. Lei non aveva nessuno, tanto meno una casa dove tornare.
Avrebbe forse potuto avere nuove missioni da compiere, non fosse per
il piccolo dettaglio che aveva fallito nel suo unico e fondamentale
compito d'ammazzare William Michaelson. Nemmeno Robert l'avrebbe più
voluta.
Persa
in quei pensieri non s'accorse nemmeno che l'interlocutore alla sua
porta aveva bussato di nuovo. Solo lo scricchiolio della maniglia la
riportò alla realtà. Voltandosi di scatto maledisse ancora una
volta il profondo taglio che andava guarendo sulla sua pancia.
“Stai
bene?”
Katrina
solcò la soglia con la legittima sicurezza di una padrona di casa,
buttando immediatamente gli occhi alla pila di vestiti stropicciati
sul letto
“Hai
trovato qualcosa che ti piace?”
Cara
sottolineò il suo nuovo outfit con la mano sinistra, ma senza alcun
entusiasmo per l'abito a righe, bianco e blu, che le accarezzava la
figura fin sotto le ginocchia
“Uscirai
da questa stanza oggi?”
L'altra
sbuffò, iniziando a piegare distrattamente quegli stessi indumenti
“Posso
dirti che Joseph non c'è, se questo è problema.”
Le
pallide guance di Cara s'accesero di colpo, ciò che Katrina andava
implicando era del tutto ridicolo. Non era certo Joseph il problema,
lei non voleva vedere nessuno, assolutamente nessuno.
“Sto
bene qui.”
Rispose
senza neanche guardarla. Katrina sollevò il sopracciglio seguendo i
suoi movimenti raffazzonati.
“E'
stato qui tutto il tempo...”
Stavolta
fu Cara a sollevare uno sguardo confuso
“...Finché
non ti sei svegliata.”
Ignorando
lo scivolone del suo stomaco, scosse il capo e riprese la sua
attività
“Appena
il dottore mi darà l'ok me ne andrò.”
“Dove?”
Cara
si congelò per un istante. Bella domanda.
“Tornerai
da lui?”
Robert
Mancini. Non c'era bisogno di domandare a chi si riferisse e quella
stessa ovvietà le fece saltare i nervi
“Non
sono affari tuoi.”
Nonostante
gli abiti sobri e i capelli raccolti, Katrina sfoderò lo stesso
sguardo aguzzo e sicuro di quando lavoravano insieme
“Mangi
e dormi nella mia casa da settimane. Puoi essere più gentile.”
Il
primo istinto fu di ribattere che non aveva chiesto nulla di tutto
ciò, ma dopo un lungo respiro realizzò che la russa aveva ragione.
Davanti allo studio di William aveva chiesto il suo aiuto e Katrina
non si era tirata indietro, difendendo quella porta fino all'ultimo
secondo. Ma non l'aveva fatto per lei.
“Hai
ragione. Ed è l'unico motivo per cui non sto cercando di
strangolarti.”
L'altra
sollevò le sopracciglia
“Ricordati
che ho sfidato Joseph ed Elia per te.”
Cara
non trattenne una risatina sardonica
“Già...
Elia... Non mi pare che lo odi poi tanto.”
Katrina
tornò presto sull'attenti
“Ti
ho già raccontato tutto quanto. Non devo altre spiegazioni.”
Nonostante
Cara non avesse nessuna voglia o nessun interesse nell'ascoltarla, la
russa aveva comunque rivelato tutto il suo passato alla complice,
senza tralasciare alcun dettaglio sulla sua gravidanza e sulle
minacce di William. Avrebbe dovuto ammorbidirla, ma in realtà tutto
ciò che Cara aveva letto tra quelle parole era il tradimento, le
bugie con cui Katrina era riuscita ad intrufolarsi nel suo gruppo e
portarla fino a quel punto. Non aveva mai avuto una vera intenzione
di uccidere i Michaelson, voleva solo liberarsi di William per
potersi riprendere regno e marito. Per qualche oscura ragione questa
verità le rodeva dentro, così come la placida soddisfazione che ora
andava ostentando senza alcuno scrupolo.
“Avresti
dovuto dirmelo allora.”
Katrina
scosse la testa
“Se
l'avessi detto allora, non mi avresti presa con voi.”
Cara
squadrò le spalle di fronte a lei
“Esatto.
E nulla di tutto questo sarebbe successo.”
Aggiunse
sollevando le braccia a mezz'aria per indicare ciò che aveva
attorno. Katrina sollevò il mento ed affilò lo sguardo, in casa sua
non temeva rivali
“Nulla
di tutto questo?”
Era
palesemente sarcastica
“Intendi
forse innamorarti di Joseph?”
“Smetti
di dirlo!”
Le
urlò in faccia Cara, con un tono troppo alto e troppo veloce, senza
riuscire a controllare le sue emozioni. L'altra sorrise del suo volto
arrossato, non solo perché aveva colto nel segno, ma soprattutto per
il gusto di rivedere una scintilla accesa negli occhi della donna che
aveva di fronte. Cara Phillis, la Barbie forte e letale, era ancora
lì da qualche parte, aveva solo bisogno di essere svegliata.
La
moglie di Elia indietreggiò tenendosi quell'espressione in viso
“Non
saremmo mai arrivati a questo punto se non ti avessi incontrata. Tu e
tuo implacabile desiderio di vendetta. Non capisco perché ora tu
voglia comportarti così.”
Cara
schiuse le labbra, ma non disse nulla. Katrina le si parò davanti
“Siamo
solo io e te. Puoi parlare.”
La
bionda arricciò il naso apparentemente disgustata
“Non
siamo amiche.”
Katrina
sospirò
“Vero.
Ma tu sai del mio matrimonio e di mio bambino... Potresti
ricambiare.”
“Sai
già della mia famiglia. Non c'è altro da dire.”
Cara
cercò di scansarla e tornare alla sua precedente occupazione, ma
Katrina non mollò il colpo
“Perché
sei così arrabbiata?”
“Non
potresti capire. Tu hai avuto quello che volevi.”
“E
tu no?”
Cara
inspirò profondamente e, sgonfiatasi il petto, scosse la testa.
Katrina sollevò il suo sopracciglio sottile
“Lui
è morto. Che altro vuoi?”
Cara
ricambiò il suo sguardo curioso col silenzio, sbattendo le palpebre
con insistenza. Avrebbe voluto confessare, sputarle in faccia ciò
che le bruciava dentro, avrebbe voluto liberarsi di un po' di quel
peso insistente, ma Katrina le stava davanti e non sembrava più la
complice di un tempo. Niente più abiti aderenti, niente più
ombretto scuro ad incorniciarle lo sguardo, nulla più di quella
donna arrabbiata e cattiva che riusciva ad uccidere con uno sguardo.
Non poteva più dirle ciò che pensava.
Abbassò
il viso
“Non
ha importanza.”
L'altra
arricciò le labbra e per un istante quel fuoco si vide ancora, le
attraversò gli occhi come un lampo nel mezzo di una notte senza
stelle. Katrina squadrò le spalle e la fissò dritta negli occhi
“Io
so cosa vuoi.”
Le
loro pupille s'incrociarono a mezz'aria in quel ritrovato clima di
sfida, Cara drizzò il mento accennando un sorriso sarcastico
“Davvero?”
Finalmente
qualcosa di caldo le stava attraversando le vene, finalmente sentiva
le dita calde ed il cuore che batteva. Quell'emozione, quella voglia
di stringere i pugni ed azzannare qualcuno, ecco cosa voleva. Ma
Katrina non era della stessa opinione
“La
sola cosa che vuoi...”
E
si prese la libertà di avanzare di un passo ancora, perché quelle
parole le arrivassero dritte in faccia
“...ha
occhi azzurri, morbide labbra rosse e addominali scolpiti.”
Stavolta
fu lei a sfoderare un sorriso sfottente, ogni parola pronunciata con
un'enfasi più che voluta. Cara ingoiò il boccone amaro cercando di
trattenere l'onda di rabbia, incredulità o imbarazzo che fosse, che
su dai piedi minacciava d'infiammarle le guance. Avrebbe tanto voluto
chiudere le dita attorno a quel collo sottile e stringere, stringere
tanto forte da farle uscire gli occhi dalle orbite.
Strinse
i pugni invece, mordendosi la lingua, aspettando e sperando che
Katrina si lavasse dal viso quell'aria di vittoria. Non era ancora
abbastanza forte da reggere uno scontro corpo a corpo.
“Vattene.”
Fu
l'unica risposta che riuscì a darle, permettendole ancora per un po'
di galleggiare nella sua bolla di trionfo. Nella sua voce tutto
l'odio ed il veleno di cui si sentiva capace. Si era forse tolta la
divisa da merlo, ma non era certo meno agguerrita o potente di prima.
“Potresti
averlo, lo sai vero?”
Cara
contrasse la mandibola aguzzando lo sguardo. Nonostante il dolore al
fianco che trafiggeva i suoi addominali tesi, stava davvero valutando
l'idea di sferrare un pugno sul suo zigomo perfetto
“Voglio
solo andarmene da qui.”
Rispose
tra i denti, fumante come un calderone sul punto di esplodere.
Katrina sbatté le palpebre e tutto il suo fervore sembrò svanire in
un secondo, le sue spalle si rilassarono e, lisciando l'orlo della
sua camicetta bianca, si fece indietro
“La
rabbia è un'emozione sai?”
Cara
aggrottò le sopracciglia, totalmente spiazzata dal repentino cambio
d'umore di Katrina. Ingoiò il boccone d'istinto omicida che serbava
in gola e la squadrò
“Cosa?”
Katrina
inspirò
“Dici
sempre di non avere emozioni, ma se puoi arrabbiarti così, potresti
anche essere felice.”
Felicità?
La bocca dello stomaco le si strinse. Certo che poteva essere felice,
riusciva benissimo a ricordare come ci si sentisse ad essere
felici... i regali sotto l'albero, il pigiama party a casa di Brenda
Stone, l'applauso finale al musical della scuola, un biglietto di San
Valentino infilato nell'armadietto... Ma quelli erano solo i ricordi
di una bambina, una bimba ingenua e lontana che ormai non esisteva
più. Non è che non sapesse come essere felice, solo non voleva
esserlo, non più. L'ultima volta che lo era stata, l'ultima volta
che sua madre lo era stata, ogni cosa era svanita in una pozza di
sangue. La sua vita era finita in una serata felice, in un bagno
immacolato.
In
quel momento bussarono delicatamente alla porta. La reverie di Cara
s'interruppe immediatamente ed i suoi occhi si rivolsero alla testa
scura che faceva capolino dalla soglia. Gregory, il dottor Gregory
McCanzie, attese il suo tacito permesso per entrare nella stanza,
avvolto nella sua solita camicia a quadri, valigetta nella mano e
sorriso sulle labbra. Aveva più o meno quarant'anni e nelle ultime
settimane era già passato più volte a visitarla, la sua gentilezza
in completa antitesi al loro contesto
“Posso
visitarti?”
Domandò,
perfettamente consapevole di aver interrotto qualcosa. Cara tirò
subito un respiro di sollievo ed annuì
“Certo.
Katrina stava andando.”
Quest'ultima
le rivolse un ultimo sguardo affilato ed uscì dalla stanza, conscia
di aver perso una battaglia, ma di certo non la guerra.
Cara
seguì la solita prassi e subito sfilò le braccia dalle maniche del
suo abito e lo arrotolò fino alla vita, abbastanza da poter mostrare
al medico la ferita in via di guarigione
“Ti
senti bene?”
Domandò
lui staccando lentamente il cerotto. Nonostante Cara mostrasse la sua
biancheria, Gregory non la guardò nemmeno, professionale ed
impeccabile come sempre. Non era abituata a uomini così.
“Benissimo.”
Rispose,
sperando che l'entusiasmo mostrato aiutasse ad avere l'ok da parte
del dottore. Lui tastò i bordi della ferita e le tirò un po' la
pelle, valutando l'elasticità del tessuto cicatriziale. Spinse poi
sul fianco e stavolta, finalmente, Cara non sentì né fitte tremende
né troppo dolore.
“Direi
che anche la ferita va piuttosto bene.”
“Vuol
dire che posso andarmene?”
Chiese
subito senza nemmeno dargli il tempo di finire, lui si tirò indietro
facendole cenno di rivestirsi e scosse appena il capo sorridendo
“Non
vedi l'ora di andartene eh?”
Cara
sospirò
“Non
sai quanto.”
Gregory
raccolse le sue cose e gettò i guanti in lattice nel cestino. Perché
quella donna fosse lì e perché volesse tanto fuggire non era affar
suo, tanto più che a nessun Michaelson sarebbe piaciuta una sua
intrusione. Lo pagavano esclusivamente per i suoi servizi e tanto
doveva bastare.
“Sì...”
Finalmente
esordì
“...Se
stai attenta agli sforzi e ai movimenti repentini, se continui a
prendere le medicine e non ti strapazzi troppo, credo tu possa
andare.”
Un
sorriso spontaneo e vivace le si aprì in viso
“Davvero?”
Lui
scrollò le spalle
“Se
pensi di non poter più aspettare, direi di sì.”
Avrebbe
tanto voluto abbracciarlo, ma sarebbe stato davvero fuori luogo.
Finalmente la sua detenzione poteva finire, addio Michaelson e addio
a quella stronza manipolatrice di Katrina.
----------
Mezz'ora
dopo aver salutato Gregory era già fuori dalla stanza, per la prima
volta dopo tutte quelle settimane, senza contare il bagno ovviamente.
Negli ultimi dieci minuti era rimasta con l'orecchio spalmato contro
la porta, aspettando di sentire null'altro che silenzio. Non voleva
vedere nessuno, voleva solo uscire da lì e sparire nel nulla, la sua
specialità. Nel corridoio, dipinto di bianco, si respirava profumo
di pulito. La luce era soffusa e non era certa di che ora fosse, ma
si diresse subito, con passo felpato, verso le scale. Non aveva nulla
con sé se non l'abito che portava addosso, ogni cosa usata ed
indossata negli ultimi tempi proveniva infatti da Katrina e,
fortunatamente, quella miseria le avrebbe reso la fuga più rapida e
leggera. Le poche cose che possedeva erano rimaste della sua stanza
d'albergo e subito prese mentalmente nota di dover passare di lì
prima di raggiungere la stazione più vicina.
Un
passo dopo l'altro si trovò presto al piano di sotto. La scala
scendeva infatti nel salotto, di fronte ad un grande divano beige,
accanto a cui si trovava un tavolino basso di vetro, contornato da
sedie scomposte ed adornato da bicchieri usati, segno che qualcuno
era lì poco prima. Trattenne il respiro gettando gli occhi alla
porta d'ingresso. Presto sarebbe stata di nuovo libera, quella
libertà che nulla aveva a che vedere con la morte di William, quella
stessa libertà che Joseph non poteva capire. Scosse la testa, non
era proprio il momento di pensare a lui. Prendendo una grossa boccata
d'aria si avviò a grandi passi verso il portone.
“Signorina
Phillis?”
Si
morse le labbra. Stupido pensare che sarebbe stato tanto semplice.
“Lieto
di vedere che si sente meglio.”
Le
sue intenzioni sarebbero state ovvie anche agli occhi di un bambino,
ma Elia Michaelson, avvolto nel suo completo nero di Armani, non le
sottolineò.
Cara
si schiarì la voce. Quell'uomo, impeccabile nella sua postura e
nell'utilizzo del lei, la spaventava più degli altri.
“Gregory
ha detto che posso andare.”
Lui
annuì pronunciando un suono di approvazione. Coi suoi occhi scuri e
profondi, pareva studiarla attentamente in ogni sua piccola mossa,
capace di paralizzarla col suo solo sguardo. L'idea che proprio lui
tra tutti, il figlio leale e prediletto, avesse ucciso William, le
gelava il sangue.
“Non
ha intenzione di perdere tempo vedo.”
“Credo
di aver già approfittato abbastanza della vostra ospitalità.”
Lui
sollevò l'angolo della bocca
“Ci
siamo a malapena accorti della sua presenza in realtà.”
Cara
abbassò lo sguardo senza riuscire a controllarsi, Elia continuava a
squadrarla come fosse una specie di fenomeno da baraccone.
“E'
sicura di volerci lasciare così presto?”
Lei
inspirò a pieni polmoni. Anche se non lo era, suonava certo come una
minaccia. Ciononostante annuì con decisione. Inaspettatamente il
maggiore dei Michaelson si limitò a ruotare il busto ed indicarle,
con un palmo aperto, la via verso l'uscita. Cara esitò per un
secondo, possibile che la lasciasse andare così? Senza alcun
ammonimento o avviso? Nessun “Stia lontano dalla mia casa e
dalla mia famiglia se desidera continuare a vivere?”
Approfittando della sua fortuna resse lo sguardo di Elia per un
momento, cercando sul suo viso qualcosa di Joseph che non riuscì a
trovare. Sospirò e continuò la sua marcia verso la porta,
fermandosi però a mezza strada. Poteva correre lontano da lì più
veloce della luce, ma non avrebbe dimenticato ciò ch'era successo.
Si voltò lentamente verso Elia
“Grazie.”
Lui
sollevò un sopracciglio
“Per
cosa?”
Domandò,
come non fosse ovvio. Cara accennò un sorriso che stentava a farsi
vedere
“Per
avermi salvato la vita.”
Elia
annuì in silenzio, ripensando al momento in cui era entrato nello
studio di suo padre. L'odore pungente di sangue, la furia
incontrollata di Joseph, il viso massacrato di William. Voleva
prendersene il merito, perché di certo quel po' di gratitudine
avrebbe mitigato il peso della sua colpa, ma c'era il cuore di suo
fratello in ballo, non solo il suo
“Non
sono stato io...”
Confessò,
guardando il viso di Cara incresparsi di confusione
“...E'
stato Joseph. Avrebbe ucciso nostro padre a mani nude se non fossi
arrivato.”
Quell'immagine
la colpì al petto del tutto inattesa. Perché non gliel'aveva detto?
Perché le aveva lasciato credere che avesse fatto tutto Elia? Si
prese un attimo per assorbire l'informazione e di nuovo annuì
“Grazie
comunque.”
Stavolta
fu lui ad abbassare gli occhi, smettendo finalmente di studiare ogni
sua più piccola mossa. Non ne aveva più bisogno, il fremito delle
sue palpebre nel momento in cui aveva nominato Joseph abbastanza per
lasciarla andare.
“Buona
fortuna Signorina Phillis.”
E
stavolta Cara non si fermò.
Quasi
immediatamente Katrina venne fuori dall'angolo della cucina e sospirò
appoggiandosi alla parete
“Se
n'è andata?”
Elia
la raggiunse scuotendo il capo in assenso. Sua moglie arricciò le
labbra
“Codarda.”
Apostrofò
Cara, generando un inatteso sorriso sulle labbra del marito
“Disse
la donna che ha preferito allearsi al mio peggior nemico piuttosto
che parlare con me.”
L'espressione
di Katrina si rilassò subito e, con un lungo respiro, attese la mano
calda di Elia sul suo viso. Tanto era stato detto, ma ancora tanto
c'era da dire. Lentamente prese la mano di Elia nella sua e si staccò
dal muro
“Vieni
con me?”
Lui
sorrise di nuovo leggendo tra le righe, ma trattenne la voglia di
strapparsi i vestiti di dosso ancora per un attimo
“Arrivo
tra un minuto, devo fare una telefonata.”
“Non
metterci troppo.”
Guardando
sua moglie sfilare verso la stanza da letto ripensò alle parole di
suo padre. Costruisci una grande gabbia d'oro attorno alla tua donna
e tienicela dentro, così diceva, ma il mondo intero non è forse una
prigione troppo grande? Per quanto ancora avrebbe cercato Katrina in
lungo e in largo se non fosse stata lei a tornare? Quando si sarebbe
finalmente stancato? Cosa non avrebbe mai saputo? E cosa si sarebbe
perso? Tirò fuori il cellulare dalla tasca e compose velocemente il
numero
“Elia?”
La
voce di Joseph suonò stanca e preoccupata
“Tutto
bene fratello?”
All'altro
capo il Lupo posò il bicchiere mezzo vuoto sul bancone dello Sweet
Lorraine. Negli ultimi giorni l'alcool aveva fatto da compagno alle
sue riflessioni, al suo tempo perso e alle sue incertezze. Non sapeva
ancora se poteva restare in una città che non gli offriva più nulla
se non brutti ricordi e tristi rimpianti.
“Tutto
bene. Che succede?”
Elia
si domandò ancora una volta se parlare o tacere. Sua moglie
l'aspettava tra le lenzuola e la vita è troppo breve per restare a
guardare. Non sarebbe stato un capo freddo e crudele come suo padre,
non avrebbe preso decisioni per nessuno dei suoi fratelli
“Se
n'è andata.”
Venne
dritto al punto, senza bisogno di aggiungere il soggetto. Joseph
strinse il bicchiere tra le dita, cercando disperatamente un atteso
senso di liberazione che però non riuscì a provare. I suoi
maledetti sentimenti non sarebbero spariti con lei galoppando verso
il tramonto. Non l'avrebbe più vista. Davvero non l'avrebbe più
vista.
“Grazie
Elia.”
Chiudendo
la chiamata balzò in piedi. Non se ne sarebbe andata a modo suo.
----------
Ed
eccola lì, intenta a preparare la milionesima valigia della sua
vita. Un paio di telefonate erano bastate per trovarla nella sua
vecchia stanza d'hotel. Raccoglieva le sue poche cose una ad una,
perdendo il suo tempo a piegare ogni t-shirt ed abito con grazia e
pazienza. Era così diversa dall'ultima volta che aveva assistito a
quella scena, così calma e distaccata. I lunghi capelli color
platino, lasciati sciolti sulle spalle, accompagnavano ogni suo
movimento, spiccando come oro contro le righe del suo vestito.
Si
mosse piano per non distoglierla ancora da quella lenta attività, ma
tanto bastò per farle sollevare lo sguardo verso il suo. Lunghe
ciglia nere ornavano i suoi grandi occhi blu, ancora non abbastanza
riposati. Smise di piegare l'ennesimo paio di anonimi pantaloni
lasciandoli cadere sul letto.
Se
solo non fosse stata così dannatamente bella.
Cara
pensò per un momento che la sua immaginazione la stesse fregando,
quell'immagine una boccata d'aria fresca per i suoi polmoni. Non lo
vedeva da giorni, settimane perfino e dio, dio se quel viso le era
mancato.
Se
solo fosse rimasto così, un'apparizione zitta e ferma, balsamo per i
suoi occhi stanchi.
“Te
ne vai?”
Esordì,
sottolineando l'ovvio. Cara rimase in piedi ad assorbire il suono di
quella voce. Avrebbe voluto non rispondere, restare ferma lì ad
ascoltarlo parlare per ore, poco importa cosa avesse da dire. Era
l'ultima volta che sentiva quella voce.
Ma
si fece coraggio
“Credevo
non volessi vedermi.”
Lui
accennò un sorriso ironico tra sé e sé ed il cuore di Cara parve
rimettersi a battere con un ritmo tutto nuovo. Il sapore di quelle
labbra l'avrebbe portato via con sé, concedendosi di tanto in tanto
la tentazione di un ricordo.
“Non
in quel modo. Non volevo vederti così.”
Lei
inclinò appena il capo, senza nemmeno rendersene conto
“Così
come?”
Joseph
rivolse gli occhi al pavimento. Fredda? Vuota? Morta dentro?
“E'
morto da settimane ormai.”
E
con quella scelta di parole il clima ovattato e sicuro in cui avevano
vissuto fino a quel momento cambiò di colpo. Cara si leccò le
labbra e scrollò le spalle
“Il
fatto che sia morto non vuol dire che sia tutto finito.”
D'istinto
riprese i suoi abiti sgualciti tra le mani, stavolta
appallottolandoli nervosamente
“Non
è forse quello che volevi?”
Cara
rivolse gli occhi al cielo, quante altre volte avrebbe dovuto
rispondere a quella domanda?
“Sì”
Rispose
secca, senza nemmeno guardarlo. Lui crucciò lo sguardo
“Allora
cosa? Perché non sei felice?”
Cara
mollò la palla di poliestere che stringeva tra le mani e si voltò
verso di lui
“Felice?
Che vuol dire felice?”
Ed
ecco che la solita rabbia malcelata tornava a montare tra loro,
pronta a farli parlare ancora una volta in due lingue totalmente
diverse.
“Dimmelo
tu.”
La
sfidò Joseph, incrociando le braccia sulla sua camicia bianca. Lei
scosse la testa nervosamente
“Felice
non esiste per le persone come me.”
Lui
la guardò dall'alto in basso, fermandosi all'altezza delle sue
pupille dilatate. Quella risposta non era abbastanza. Cara sospirò
“Sollevata...”
Lui
sollevò un sopracciglio, come non avesse capito
“...Mi
sento solo sollevata.”
Era
il massimo che poteva concedergli, a lui e a sé stessa.
Joseph
lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e le si avvicinò lento
“E'
davvero tutto ciò che senti?”
Stavolta
fu lei ad aguzzare lo sguardo perplessa, indietreggiando
inconsapevolmente. Era quello il loro solito copione dopo tutto, lui
che si avvicina e lei che gli fugge lontano.
“Che
vuoi dire?”
Era
d'improvviso così vicino che poteva sentirne il profumo, dolce ed
intenso come sempre. Così vicino che il suo corpo ne assorbiva il
calore fin sotto gli abiti.
“Sai
cosa voglio dire.”
Sì,
lo sapeva. Joseph non stava più parlando di William, ma di sé
stesso. Le si seccò la gola. Avrebbe semplicemente potuto prenderla
e baciarla, senza mettere in mezzo tutte quelle maledette parole,
facendo sembrare ancora una volta che fosse solo colpa sua. Ed i suoi
occhi caddero sulla bocca di Cara per un paio di secondi,
stringendole la gola ancor di più.
Le
sue labbra tremavano, mentre cercava di apparire il più convincente
possibile
“No...”
Cercò
i suoi occhi azzurri
“...Non
c'è altro.”
Avrebbe
dovuto sentirsi ferito e rifiutato ancora una volta, ma il modo in
cui il corpo di Cara fremeva davanti ai suoi occhi e l'amara
consapevolezza che non l'avrebbe più vista, gli fornirono l'audacia
per sollevare il braccio ed accarezzarle il viso con il dorso della
mano. Lei non si mosse nemmeno
“Te
ne andrai per sempre. Puoi anche dirmelo adesso.”
Cara
controllò con la coda dell'occhio che quella mano non proseguisse
alcun tragitto sulla sua pelle scoperta. Raccolse abbastanza forze
per risollevare il suo scudo
“Dirti
cosa?”
“Cosa
provi per me.”
L'inconsueta
sicurezza con cui le torreggiava davanti riaccese in Cara la fiamma
della sfida
“Non
provo niente per te.”
Sputò
immediatamente scuotendo la testa. Lui rimase del tutto impassibile
“Allora
dillo di nuovo...”
insisté
“...guardandomi
negli occhi.”
Cara
strinse i pugni. Da dove arrivava tanta spavalderia? Dov'era finito
l'uomo incerto ed irascibile che era riuscita a smontare pezzo per
pezzo? Accolse la sua richiesta
“Non
provo niente per te.”
Lui
non si mosse ancora
“Di
nuovo...”
Ribatté
“...Stavolta
senza tremare.”
Aveva
già visto quegli occhi sull'aereo. Aveva visto il Lupo e di nuovo lo
stava guardando. Il Joseph triste e sconsolato che annegava sé
stesso nel sangue e nell'alcool era apparentemente morto e sepolto
con William.
Le
venne da sorridere. Stava provando a vincere il suo gioco. Ma bisogna
essere in due per giocare
“Non
ho intenzione di farlo.”
Rispose
dando voce ai suoi pensieri. Con una mossa fulminea scappò dalla sua
morsa.
Lui
la guardò fuggire all'altro lato della stanza
“Sii
onesta per una volta!”
Si
fece più forte senza alzare la voce. Non l'avrebbe lasciata
allontanarsi di nuovo
“Non
hai fatto altro che mentire dal momento in cui ti ho incontrata...”
Affilò
lo sguardo e la lingua
“...Prova
ad essere coraggiosa per una volta...”
Incalzò
“...coraggiosa
come il merlo che vuoi così disperatamente essere.”
Sputò
con sdegno e disprezzo. Cara sentì le mani formicolare ed il cuore
pulsarle nelle orecchie. E' davvero la verità che vuoi?
“E'
vero.”
Lui
vacillò per un istante appena, tornando immediatamente fermo e
vitreo
“E'
vero...”
Ribadì
guardandolo dritto negli occhi
“...Ma
non ha nessuna importanza.”
E
lo lasciò lì, col suo bel contentino.
Joseph
raccolse quell'osso da terra come il cane che sentiva di sentire.
Come riusciva a sbatterglielo così in faccia senza nemmeno fare una
piega? Lui aveva il vento ed il mare che gli si scontravano dentro,
violentemente sbattuto tra la voglia di baciarla a sangue e quella di
picchiarle la testa contro il muro. Provò a muoversi, ma lei sollevò
l'indice e tanto bastò per rimetterlo al suo posto
“No...”
Lo
bloccò
“Non
muoverti...”
E
finalmente abbassò gli occhi, afferrando qualcosa a caso dal
tavolino
“...Non
saremo mai quello che vorresti.”
Lui
si mosse lo stesso, deciso ad ignorare quell'ordine
“Perché?”
Cara
ficcò quell'inutile qualcosa nella sua valigia, cercando di
soffocare la voglia di rispondergli. Possibile che non capisse da
solo? L'aveva accontentato, aveva ammesso di provare qualcosa per
lui, non era forse sufficiente? Non aveva forse dimostrato abbastanza
la sua debolezza? Era fragile, vuota, instabile ed inaffidabile, cosa
avrebbe mai potuto farsene di lei?
“Smetti
di parlare. Devo andarmene.”
Gli
sfilò davanti tornando alla sua occupazione originaria, spingendo
dentro il trolley le ultime cose prima di tirare la zip
“Aspetta.”
Un
ordine, non certo una supplica, ma Cara scosse il capo e proseguì
“Non
capisci... devo andarmene.”
E
quella fastidiosa immagine tornò a far capolino nella mente di
Joseph. Robert Mancini. Quel pensiero divenne di colpo l'unico nella
sua testa e prese a pompargli come un martello pneumatico nelle
tempie. Quello stronzo poteva averla, quel vecchio bastardo sì e lui
no.
“Non
sei sua.”
Sentenziò,
disgustato dal solo pensiero del contrario. Cara rispose al suo
sguardo, c'era il Lupo dentro ai suoi occhi e per un attimo concesse
a sé stessa di sentire nella pancia quell'onda di piacere ed
eccitazione. Quello era l'uomo che aveva desiderato, per cui aveva
vacillato, per cui il suo corpo continuava a scaldarsi.
“Mi
ha salvato la vita. Gli devo ogni cosa.”
La
fiamma della gelosia divampò ancor più alta nel petto di Joseph.
Senza timori e senza controllo le si fece di fronte e le afferrò il
viso tra le mani
“Non
sei niente per lui. Nulla più che un soldato sacrificabile.”
Cara
provò a scuotere la testa, ma lui non glielo concesse
“Ti
ha solo usata per il suo scopo, fregandosene del fatto che ti avrebbe
resa sola e fredda come il ghiaccio...”
Si
bagnò le labbra affondando gli occhi il più a fondo possibile nelle
sue iridi blu
“...Se
torni da lui non cambierà nulla, non avrai nessun futuro.”
Cara
sembrò contemplare quell'evenienza, le sue piccole mani fredde si
strinsero attorno ai polsi di Joseph
“E
potrei averne uno con te?”
Domandò,
speranzosa e sarcastica allo stesso tempo, come se lui le avesse
proposto di fare il giro del mondo a bordo di un elefante volante e
lei riuscisse quasi a crederlo possibile. Joseph ammorbidì la presa
“Potremmo.”
Totalmente
fuori contesto lei sorrise, senza scoprire i denti, e le gambe di
Joseph minacciarono di crollare
“Sarebbe
bello...”
Rispose,
accompagnando le mani di lui lontano dal suo viso. Si batté le dita
sullo stomaco
“...Ma
queste cose, queste cose che sento dentro...”
Gli
rivolse lo sguardo dell'innocenza
“...Io
non le voglio.”
Joseph
sospirò ancora una volta. Perché diavolo doveva essere così
difficile? Stavolta l'afferrò per le spalle, cercando nei suoi occhi
quella piccola crepa in cui forse sarebbe riuscito ad insinuarsi
“E
io voglio te.”
Scandì
ogni parola perché le entrassero in quella testa dura. Cara dissentì
ancora una volta
“Non
c'è nessuna me...”
Fece
finalmente un passo indietro senza che lui la trattenesse
“...Senza
la mia vendetta, senza la mia missione... Io non sono niente.”
E
lo credeva davvero, sapeva di non avere una casa o una famiglia da
cui tornare, nessun titolo di studio da spendere e nessuna esperienza
che non contemplasse l'uso delle armi. Non aveva nulla e se si fosse
fermata a pensarci davvero, se davvero avesse permesso a sé stessa
di realizzare quanto fosse sola, allora sarebbe crollata a terra
senza più la forza di alzarsi.
Joseph
sollevò le mani a mezz'aria
“C'è
un intero mondo là fuori.”
“Non
per me. C'è un solo posto per me.”
Ed
il fuoco tornò ad ardere
“Vuoi
davvero tornare da lui?”
Cara
lo guardò
“Vuoi
davvero far finta di non capire?...”
Scrollò
le spalle
“...Sei
un killer anche tu, anche tu vivi per questo. Sai bene che non posso
fuggire alle conseguenze delle mie azioni.”
Joseph
aggrottò la fronte. Le rotelle dentro la sua testa giravano e
giravano cercando di risolvere l'enigma
“Quali
conseguenze?”
Lei
chiuse le palpebre respirando a fondo, il capo rivolto al pavimento
“Avevo
un solo compito... Uno soltanto...”
La
sua voce sembrò assottigliarsi, quasi volesse piangere
“...Ed
ho fallito. Ho fallito con William, con Robert, ho fallito con me
stessa.”
Ed
allora qualcosa nella mente di Joseph si accese
“E'
solo questo non è vero?”
La
vide muoversi nervosamente verso il letto, pronta ad afferrare la sua
valigia
“Siccome
non hai premuto tu il grilletto pensi che la morte di William valga
meno?”
Cara
rimase a fissare la coperta sgualcita
“Non
sono stata io.”
Ribadì.
Ed ogni volta era come ingoiare un sorso d'acido. Lui scosse la testa
“Non
conta niente.”
“Conta
tutto invece!”
Stavolta
la sua risposta fu secca e decisa, come un rombo nel silenzio.
Strinse il suo bagaglio tra le mani e lo sbatté a terra con forza
“Ma
tu non puoi capire...”
Riprese
con sdegno tornandogli vicino
“...Tu
hai avuto tutto quello che volevi.”
Joseph
sospirò
“Non
tutto.”
Il
suo sguardo, così intenso e potente, la incendiò da capo a piedi.
Poteva sentirlo, sentire quanto la desiderasse e con quanto ardore.
Anche senza toccarlo riusciva a sentire le sue mani addosso, le sue
labbra sulla pelle, le sue parole sconce nelle orecchie. Le viscere
le s'intrecciavano dentro ed il suo cuore batteva forte per colpa
sua, i suoi principi vacillavano davanti a quegli occhi e a quelle
labbra, la voce nella sua mente prendeva ad urlare a gran voce.
Baciami.
Gridava
quella stronza insolente
Baciami.
Prendimi. Stringimi. Costringimi a restare.
Avrebbe
voluto prendersi a pugni da sola pur di farla tacere
Amami.
Amami almeno tu in questo mondo.
Si
morse il labbro nel tentativo di zittirla e per un momento temette
che anche Joseph riuscisse a sentirla. Era sempre lì di fronte a
lei, immobile come una statua. No, non poteva più permettersi
distrazioni, doveva uscire immediatamente.
“Addio.”
Concluse,
sfilando di fretta verso la porta della stanza, ma ancor prima di
toccare la maniglia si sentì afferrare alle spalle con forza e
sbattere contro il muro. Joseph gli piombò addosso con tutta la sua
mole, ben poco delicato, le braccia avvolte attorno alla sua fragile
figura ed il viso accostato alla curva del suo collo. Cara chiuse gli
occhi, riusciva a sentire il pizzico della sua barba addosso, il
respiro di Joseph si perdeva tra i suoi capelli, caldo e frenetico
“Non
ti lascerò tornare da lui.”
Era
deciso, fermo e determinato, quasi potesse restare lì per sempre.
Cara buttò la testa all'indietro, lasciandogli inconsapevolmente
ancor più spazio. Le labbra di Joseph le sfiorarono il collo,
accennando l'ombra di un bacio, per poi raggiungere l'orecchio
“Non
ti lascerò tornare da lui.”
Ripeté,
netto quanto prima, la morsa ancora stretta attorno alla sua vita.
Lei provò a divincolarsi, ma lui non glielo concesse ancora. Se solo
avesse davvero potuto rimanere lì fermo per l'eternità, lontano da
tutto e tutti, avvolto soltanto da quel dolce profumo di fiori. Se
solo...
“Lasciami.”
Cara
si mosse ancora, provando a sguisciare come un'anguilla tra le sue
braccia. Doveva uscire, doveva uscire di lì veloce come la luce
“Lasciami!”
Ripetè
contro il muro di gomma che la stringeva. Joseph mollò la presa per
un solo secondo, giusto il tempo di voltarla e spingerla ancor più
forte contro la parete. Gli occhi di Cara gridavano rabbia, urlavano
paura, volevano morderlo e fuggire il più lontano possibile. Le sue
gambe scalciavano ed i suoi pugni gli colpivano i fianchi come quelli
di una preda spaventata
“Lasciami
andare bastardo!”
Nemmeno
le sue parole, piene d'astio e disprezzo, riuscirono a liberarla.
Joseph non si mosse, incassando ogni colpo come niente, fermo ed
impassibile finché lei rimase a corto d'insulti e di fiato e solo
allora, solamente allora, posò la fronte su quella di Cara. Il suo
respiro, corto e accelerato, gli arrivava in viso come una carezza
“Non
ti lascerò tornare da lui.”
Ripeté
ancora una volta, la voce bassa e le parole scandite. Era così
vicino che Cara non poteva evitare i suoi occhi, tanto meno ignorare
la sua bocca, la sua splendida bocca, così vicina e così
disponibile. Era il suo sogno, la sua fantasia più recondita che
prendeva vita, l'orlo del precipizio più alto da cui si fosse mai
affacciata.
Poteva
saltare, poteva lanciarsi e forse lui l'avrebbe afferrata, tenuta
stretta come in quel momento.
Maledetto
terrore dell'altezza.
Chiuse
gli occhi e si riempì il petto di quel respiro fatto di menta,
d'alcool e di tentazione. Un invito unico per Joseph, le sue mani ora
strette attorno ai suoi fianchi, le sue labbra ad un solo centimetro
da quelle schiuse di lei, tanto vicina che già riusciva ad
assaporare il gusto della sua lingua. Gli sarebbe bastato muoversi
appena per averla nella sua bocca. Conosceva bene quel tremolio tra
le sue ciglia e quell'agitazione nel suo respiro, la sua pelle
vibrava e sicuramente la sua biancheria era già fradicia, ma no, non
era quello che voleva, non stavolta. Cara aveva parlato e adesso
Joseph sapeva che si sentiva come lui, ok, forse non proprio come
lui, ma era comunque un inizio e non l'avrebbe rovinato per
l'ennesima, seppur deliziosa, squallida sveltina. Ora toccava a lei
chiudere quel varco.
Di
nuovo le si strusciò addosso, senza però toccare nessuno dei posti
che lei avrebbe voluto. Perché stava facendo il prezioso? Questo
continuava a chiedersi la vocina nella testa di Cara. Perché non si
muoveva? Trattenere l'urgenza di sollevarsi sulle punte ed afferrarlo
al collo stava diventando difficile, tanto difficile che le caviglie
le tremavano. Ma avrebbe significato arrendersi, dargliela vinta,
ammettere che lo desiderava almeno quanto lui e non poteva
permetterselo, non ora, non sulla soglia di una porta che avrebbe
presto chiuso per sempre. Robert poteva forse perdonare il suo
fallimento, ma di certo non avrebbe mai potuto sopportare di saperla
innamorata di uno di Michaelson.
I
suoi occhi si spalancarono di colpo.
Innamorata?
Innamorata?? Da dove usciva quella stupida parola?
Joseph
notò immediatamente il suo cambio d'umore, ma non riuscì a leggere
cosa stesse succedendo nei suoi occhi. Si allontanò appena, ma
continuò a stringerla. Era ancora lì e le guance di Cara
s'infiammarono di rosso per l'imbarazzo e lo stupore che provava
verso sé stessa, quello stesso rosso che incendiava le voglie Lupo
più d'ogni altra cosa. Era nei guai, era davvero nei guai. Doveva
salvarsi
“Io
voglio andare da lui.”
Quella
scelta di parole non se l'aspettava. E se un secondo prima era sul
punto di esplodere fuori dai pantaloni e fregarsene delle sue
speranze, adesso Joseph era freddo come la pietra. Mollò la presa
quasi immediatamente, indietreggiando per poterla guardare da
lontano, ansimante lì dove lui l'aveva lasciata. Provò ad aprire la
bocca, ma nulla ne uscì. Mandò giù la voglia di urlare.
Cara
ritrovò l'equilibrio senza il suo peso addosso, uno strano freddo
sulla pelle. Non voleva andare da Robert o meglio sì, voleva tornare
da lui, ma no, non ancora, non senza sapere come l'avrebbe presa. Di
certo non voleva restare. O anzi sì, solo non con lui. Che
sciocchezze, certo che voleva restare in quella stanza con lui, solo
non come voleva lui. Le sue promesse luccicavano come la mela
rossa dell'eden, un solo morso e poi cosa sarebbe successo? Sarebbe
stata condannata alla sofferenza eterna? Le sarebbe andata di
traverso? L'avrebbe divorata tutta fino a scoppiare?
Mentre
il suo cervello blaterava, di fronte all'evidenza malcelata della sua
delusione, Cara sentì il dovere di pronunciare qualcos'altro
“Non
è una decisione che puoi prendere tu.”
Lui
si limitò ad annuire e l'incanto fu definitivamente spezzato.
“Va'.
Torna pure dal tuo padrone.”
Indicò
la porta che lei aveva alle spalle e, con sdegno, indietreggiò
ancora. L'onda di sicurezza e presunzione provocata dalla sua
precedente confessione s'infranse, lasciando il posto al vecchio
Joseph, quello che se ne fregava, quello perfettamente consapevole
che presto o tardi si sarebbe dimenticato anche di lei, come di ogni
altra cosa.
Cara
provò a muoversi, ma non ci riuscì. Si sentiva sollevata, ma allo
stesso tempo qualcosa le mordeva dentro. Teneva a lui. Quegli stupidi
sentimenti che aveva maldestramente confessato esistevano davvero, e
per quanto non li volesse, odiava l'espressione vuota che ora
campeggiava sul viso di lui. Doveva dirgli qualcos'altro, concedergli
almeno qualcos'altro
“Possiamo
aver vissuto allo stesso modo, ma non siamo uguali...”
Non
riuscì a guadagnare il suo interesse, non con quelle che
all'orecchio di Joseph arrivavano come chiacchiere inutili
“...Io
sono fastidiosa, e instabile, e provocatoria... Finiresti per
uccidermi.”
Lui
sollevò finalmente lo sguardo, immaginando quell'evenienza nella sua
testa una volta ancora. Quante e quante volte aveva provato e perfino
desiderato di ucciderla? Ogni singola volta la sua mano si era
fermata, sia che pensasse di avere davanti un'innocente ragazzina,
sia che sapesse benissimo di aver di fronte una, se non la peggiore,
dei Merli. Dubitava di poter mai riuscire a farle del male, anche
contando la sua lingua biforcuta.
Cara
mandò giù guardandolo negli occhi
“E
io non voglio morire. Non prima di aver vissuto.”
Quelle
parole gli fecero aggrottare la fronte
“Credevo
che la morte non ti spaventasse.”
Il
ricordo del loro primo incontro balenò nella memoria di entrambi.
Gli occhi di Cara caddero sul pavimento
“Morire
per mano tua mi spaventa.”
E
lui parve ancor più confuso di prima. Non era chiaro alle sue
orecchie quanto quella morte a cui Cara enigmaticamente accennava,
non fosse letterale, ma simbolica, quanto si riferisse a lui e alla
sua capacità di farle desiderare cose nuove e terrorizzanti, quanto
temesse di perdere la sola sé stessa che conosceva, proprio per
causa sua.
“Non...”
Sollevò
le spalle
“...Non
ti farei del male.”
Poteva
esserne sicuro? Probabilmente no. Lei accennò una specie di sorriso
continuando a guardare in basso, ma subito lo mandò giù e tornò a
fissare Joseph
“Devo
andare.”
Non
era più una protesta. Era una constatazione. E lui non si mosse. Se
tanto teneva a quell'uomo e alla sua opinione, era libera di correre
a scoprire quale fosse. La tagliente abilità che aveva quella donna
di farlo sentire un mostro ogni singola volta non gli sarebbe certo
mancata. La guardò esitare ancora per un momento, ma presto le sue
dita si chiusero attorno al manico del trolley e la porta si aprì,
presto richiusa dopo l'ultimo fugace scambio di occhi.
Era
finita. Andata. Conclusa.
Finita.
Cara
si chiuse la porta alle spalle, ma i suoi piedi non si mossero più
lontano del pianerottolo. Con lo sguardo basso ed il cuore acceso nel
petto si rese conto che davvero non avrebbe più visto gli occhi
azzurri di Joseph. Nessun uomo l'avrebbe più guardata così.
Rivide
suo padre, i suoi grandi occhiali tondi ed i calli sulle mani.
L'unico uomo al mondo capace di farla sentire speciale, fosse anche
solo per una B+ al compito di algebra. Avrebbe fatto qualsiasi cosa
per lei, qualsiasi cosa per un suo sorriso.
E
lei non aveva più sorriso, non con gli occhi, non con il cuore, non
dopo quella notte terribile.
Avrebbe
voluto altro per lei, probabilmente qualsiasi altra cosa piuttosto
che questo. Il college, i palchi di Broadway, un grande matrimonio in
pompa magna, magari un paio di mostriciattoli capricciosi.
Di
certo, se poteva vederla, non era fiero di lei, né delle sue mani
sporche di sangue, tanto meno del suo cuore di pietra. Proprio lui
che di carezze non ne aveva mai risparmiate. Quanto le sarebbero
servite ora, col vuoto completo davanti e null'altro che sé stessa
da portar via, troppo spaventata per poter anche solo pensare di aver
sbagliato tutto, troppo vigliacca per ammettere di amare il figlio
del suo peggior nemico.
Non
voleva amarlo, davvero non voleva... Ma gli occhi di Joseph la
guardavano così, come fosse la creatura più bella e preziosa
dell'universo, cosi come solo suo padre era riuscito a farla sentire
quand'era bambina.
Aveva
bisogno di quegli occhi. Se davvero doveva affrontare l'ignoto sotto
forma di Robert Mancini e di un mondo in cui non aveva mai realmente
vissuto, allora aveva ancora bisogno di quegli occhi.
-----------
Joseph
masticò i primi bocconi di libertà nella polvere di quella stanza
vuota, chiedendosi quanto tempo sarebbe passato prima di smettere di
sentire il suo profumo ovunque. Nemmeno si accorse che la porta gli
si apriva di nuovo alle spalle, riportando dentro la silenziosa
silhouette dei suoi problemi
“Joseph?”
Cara
pronunciò il suo nome con un filo di voce, aspettando immobile che
lui si voltasse. Davanti al suo visibile terrore, agli occhi lucidi e
all'imbarazzo di una bambina, Joseph trattenne l'esplosione nel suo
petto e sorrise
“Mi
piace quando dici il mio nome. Dovresti dirlo più spesso.”
Ma
lei non disse nulla, percorrendo a lunghi passi la distanza che li
separava. Gli afferrò il viso tra le mani e lo baciò, premendo le
labbra sulle sue ad occhi chiusi, dritta sulle punte. Le era mancata,
dio se quella bocca le era mancata, più dell'acqua nel deserto e
della sua stessa libertà.
Quando
si staccarono il sorriso di Joseph era ancora lì, vivo e genuino
come non l'aveva mai visto. I suoi denti, bianchi e perfetti,
brillavano allo stesso ritmo dei suoi splendidi occhi azzurri.
In
quel momento Cara ne fu certa. Era ancora capace di amare. Nonostante
il funerale dei suoi genitori, nonostante le dure lezioni di Robert,
la puzza del sangue ed i morti sul suo conto, era ancora capace di
amare.
Stavolta
fu lui a stringerla forte, cercando le sue labbra con delicatezza. Il
terrore non aveva ancora lasciato gli occhi di Cara, ma Joseph decise
che sarebbe riuscito a cacciarlo, accarezzando il suo viso come mai
prima gli era stato concesso. Con le stesse labbra le baciò le
guance, il naso, la fronte.
Le
ciglia di Cara si risollevarono, i suoi zigomi coloriti
dall'eccitazione e dalla paura. Il petto le andava su e giù senza
sosta, mentre le sue piccole mani attaccavano i bottoni della camicia
di Joseph. Lui seguì il tremore di quelle dita sottili, sentendosi
in fiamme al solo pensiero che presto l'avrebbero toccato.
Quando
i suoi occhi incontrarono quelle iridi blu, lucide e spaventate, il
suo cuore quasi si sciolse. Tremava, domandando silenziosamente il
suo aiuto. Il suo viso, come quello di una vergine, cercava di
nascondersi dietro i pochi strati di mascara.
E
davvero come una novellina si sentiva, lei che in vita sua non aveva
mai fatto l'amore con nessuno, nemmeno la prima volta, la sua
verginità venduta ad uno degli scagnozzi di Mancini per qualche
lezione extra.
Joseph
sorrise ancora, più bravo di lei a celare le proprie paure.
Baciandola di nuovo la spinse lentamente verso il letto, sollevando
ad ogni passo l'orlo del suo vestito. Più piano che poteva l'aiutò
ad alzare le braccia, cercando sul suo viso la più piccola smorfia
di dolore. Sollevato che non ve ne fossero gettò l'abito a terra,
prendendosi un secondo per apprezzare la bellezza di quel corpo, così
chiaro e perfetto per le sue mani. Le sue dita accarezzarono il
cerotto sul suo fianco destro, la certezza di averla persa per sempre
ancora cocente nel retro della sua mente.
Le
mani di Cara gli sfiorarono le spalle, prendendosi il tempo di
toccare davvero ogni centimetro della sua pelle, il liscio del suo
petto, la tensione dei suoi addominali. Accompagnò i suoi jeans
verso il pavimento ed attese che venisse fuori dagli stivali prima di
baciarlo di nuovo, ancora ed ancora, raccogliendo uno ad uno tutti i
baci che avrebbe portato con sé.
Il
letto e le mani erano esattamente gli stessi, ma ogni cosa suonava
diversa. Il corpo di Joseph che si muoveva sul suo pesava di più,
caldo e sicuro come una coperta d'inverno. Le sue labbra all'orecchio
non parlavano più, sospirando profondamente al suo stesso ritmo. Le
mani di Cara stringevano forte senza graffiare la schiena, i suoi
occhi chiusi ed il suo corpo nudo, abbandonato come mai prima.
Le
braccia di Joseph la strinsero contro il suo petto, le dita
intrecciate a quelle di lei. Cara poggiò l'orecchio sul suo cuore,
lasciandosi cullare da quel ritmo forsennato.
Il
rumore dell'amore.
------------
Quando
Joseph riaprì gli occhi, senza nemmeno bisogno di voltarsi dalla sua
parte, fu certo che lei non ci fosse più. Se n'era andata nel
silenzio, come sapeva fare dannatamente bene. Scostando le lenzuola
si tirò su, il ricordo della notte precedente ancora fresco addosso.
La
ragazzina dell'aereo era sua.
Indeciso
tra l'alzarsi subito o il restare a respirare il loro odore ancora un
po', quasi non si accorse del foglio perfettamente piegato che
riposava sull'altro cuscino. Immediatamente lo raccolse. La grafia di
Cara ne riempiva la metà, piccola ed armoniosa tra vocali
tondeggianti e le lettere sottili
“Quello
che ho detto ieri sera non è cambiato,
devo
ancora affrontare le conseguenze delle mie azioni.
Voglio
vivere prima di morire...
...preferibilmente
per mano tua.
Addio
PS.
Grazie per avermi salvato la vita”
E
di nuovo Joseph sorrise.
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Capitolo 20 *** Capitolo XX ***
Capitolo XX
ECCOCI!
L'EPILOGO CHE TANTO HA TARDATO AD ARRIVARE E' FINALMENTE QUI, USCITO
TUTTO DI GETTO, TUTTO O QUASI IN UN GIORNO.
CHI
MI CONOSCE SA QUANTA DIFFICOLTA' ABBIA NEL METTERE LA PAROLA FINE,
QUINDI HO ASSECONDATO L'ISPIRAZIONE ED ECCOMI QUI.
GRAZIE,
GRAZIE MILLE A TUTTI VOI!!
MARTINA
-------------------------
CAPITOLO
XX
ESSEX,
VERMONT
Non
c'era voluto molto per scoprire dove fosse Robert. Di certo era
strano pensare che il suo destino stesse per compiersi proprio in
quella piccola città, appena 20000 anime, con uno dei più bassi
indici di criminalità di tutto il paese. Non fosse per le massicce
escursioni termiche e l'aria gelida dal Canada, sarebbe stato un
posto perfetto per vivere, magari con una grande casa dalla porta
rossa ed un'immacolata staccionata bianca.
Davanti
ai suoi occhi si apriva il largo viale verso la villa: tre grandi
facciate bianche con tetti spioventi, ogni parete ornata da grandi
finestre blu. I quattro alti comignoli di mattoni si ergevano come
torri di un castello, atte a completare il già maestoso ingresso,
con le sue colonne greche ed il suo enorme portone blu.
Cara
riprese a camminare sul brecciolino, avvolta dal giallo-verde degli
aceri in fiore. Il profumo del giardino sovrastava ogni altro odore,
accompagnando i suoi passi nervosi al ritmo del canto degli uccelli.
Quando
fu finalmente davanti al portone, lo stesso le si aprì davanti senza
che nemmeno bussasse. Stupido pensare che non si fosse ancora accorto
della sua presenza. La domestica, rigida nella sua divisa inamidata,
accennò un sorriso muto e le fece cenno di entrare
“Prego
Signorina Phillis.”
La
stava aspettando ed il solo pensiero le fece schizzare il cuore in
gola. Quanto poteva essere arrabbiato? Abbastanza da spararle un
colpo in fronte appena voltato l'angolo? Suo malgrado sorpassò la
soglia, ostentando una sicurezza che davvero non le apparteneva.
Senza rispondere al saluto respirò l'aria fresca di quella casa,
pregna di odori forti e delicati, come se l'aroma di una cucina in
opera si fosse mischiato alle rose bianche e gialle sparse in grandi
vasi per la stanza.
L'enorme
salotto, con la sua perlinatura alle pareti ed i larghi tappeti
persiani, l'accoglieva a bocca aperta come le fauci di un leone
affamato.
“Desidera
qualcosa da bere Signorina?”
Cara
sussultò voltandosi verso la domestica. Scosse il capo
“No
grazie.”
L'altra
annuì avviandosi verso le cucine
“Robert
è qui?”
Le
uscì di bocca contro la propria volontà, come se la sua paura fosse
in grado di parlare da sola. Perché tanto spavento poi? La morte era
sempre stata un'opzione negli ultimi anni della sua vita e come tale
l'aveva sempre vissuta, senza temerla. Non aveva nulla da perdere
dopo tutto. Perché mai adesso la sola idea di farla finita le faceva
tremare le ginocchia? Trattenne un lungo sorso d'aria. Maledetto
Joseph Michaelson. Era tutta colpa sua e delle sue stupide
stramaledette emozioni, della sua idea di un futuro e del suo
continuo parlare di libertà. Solo e solamente per colpa sua. Adesso
sul suo piatto c'era di nuovo qualcosa da perdere, qualcosa di grosso
oltretutto.
“Cara?”
La
voce avvolgente di Robert vibrò per la stanza, più dolce e stupita
di quanto avesse potuto aspettarsi. Bagnando le labbra e respirando a
fondo Cara voltò il capo oltre la spalla sinistra. Il più bianco e
lucente dei sorrisi si aprì sul volto del suo salvatore, una candida
mezzaluna in perfetto contrasto con la pelle liscia ed abbronzata.
Il
nodo che teneva strette le corde vocali di Cara si sciolse di colpo
restituendole la capacità di respirare. Le sue labbra risposero
involontariamente al gesto, immediatamente incantate dalla genuinità
di quell'espressione. Che le fosse mancato tanto fino a quel momento
era un mistero perfino per lei, l'uomo che le aveva restituito la
voglia di vivere, che le aveva donato uno scopo, che l'aveva resa
forte e sicura in cambio di nulla o poco più.
Le
braccia forti di Mancini la strinsero in un lungo abbraccio, il suo
profumo, intenso e muschiato, le riempì le narici come un caldo
ricordo d'infanzia. Solo quando si trovò finalmente di fronte quei
profondi occhi scuri ricordò il vero motivo che l'aveva portata fin
lì e quella meravigliosa sensazione di calore scivolò giù fino a
schiantarsi sul gelido pavimento.
Cara
fece un passo indietro, di nuovo a corto d'aria
“Mi
dispiace.”
Le
parole graffiarono contro il palato asciutto, ma l'altro parve non
scomporsi. Il sopracciglio di Robert si sollevò confuso per un
istante
“E
di cosa? Ti stavo aspettando.”
Ancora
una volta Cara mimò la stessa espressione, chiaramente spiazzata da
quella reazione. Si schiarì la gola
“Ho
agito alle tue spalle.”
Già
rimpiangeva le forti braccia paterne che non avrebbe più sentito
addosso. Robert scoppiò in una genuina risata, la stessa di sempre,
quasi avesse detto la più assurda stupidaggine.
“Vieni
con me.”
Le
porse la mano, ma Cara non riuscì ad afferrarla, muovendosi alle sue
spalle verso una meta che non conosceva.
Un'altra
sala, più piccola e profumata di menta e tabacco, li accolse mentre
un gran sole filtrava tra le tapparelle. Robert tirò fuori una
bottiglia di champagne bordata d'oro e, sottolineando il gesto con un
colpo di sopracciglia, fece saltare il tappo. Un fiotto di schiuma
bianca si versò sul parquet lucido, ma nessuno dei due parve
badarci. Due flutes vennero immediatamente riempite e Cara si trovò
di fronte agli occhi il luccichio delle bollicine e delle iridi di
Mancini
“Ce
l'hai fatta figlia mia!”
Di
nuovo il caldo l'avvolse da dentro mentre la mano continuava a
tremare. Circondata da orgoglio e soddisfazione non riusciva a gioire
nemmeno per un secondo, convinta che quella felicità non le
spettasse. La morte di William non le aveva restituito sua madre,
tanto meno lunghe notti di sonno profondo e nuova stima per sé
stessa.
“Bevi.”
A
metà tra ordine ed invito, Cara mandò giù il fresco pizzicorìo
dello champagne e per un secondo non pensò al vuoto che le si
agitava dentro.
“Ma
ti ho tradito...”
Lui
sorrise di nuovo vuotando il bicchiere
“Credi
davvero che mi importi?”
Altro
liquido ambrato si versò nel suo calice
“William
Michaelson è morto Cara. La nostra vendetta è compiuta.”
Immediatamente
lei scosse la testa
“Non
l'ho ucciso io...”
Le
voce le si spezzò in bocca
“...Ho
fallito.”
Il
pollice bollente di Robert la costrinse a sollevare il volto
“Tu
l'hai reso possibile figlia mia. Non avrai premuto il tuo grilletto,
ma non di meno l'hai ucciso...”
Le
sue grandi mani le strinsero il viso scaldandola all'istante
“...Hai
ucciso William Michaelson e diviso i suoi figli. Non potrei essere
più fiero di ciò che sei diventata.”
Ogni
sua parola suonava strana, nondimeno il suo petto divenne più
leggero e per un attimo riuscì a credere che fosse vero, che la sua
missione fosse davvero compiuta e che il suo dolore sarebbe sparito
per sempre.
L'accenno
di un sorriso le si aprì in viso, ricambiato in pieno dall'orgoglio
di lui
“Seguimi,
ho qualcosa per te.”
Di
nuovo le parve di fluttuare da una stanza all'altra, mossa solo dalla
forza che quell'uomo emanava da ogni singolo poro. Manny venne fuori
dall'oscurità con la sua valigetta in mano. Aprendola sulla
scrivania tirò su le maniche, ogni suo tatuaggio ben in vista sugli
avambracci. Un cobra reale avvolto attorno ad un fucile, puntato
contro una donna che sorrideva all'ombra di una luna rossa. Lo
sguardo di Cara si fermò lì, sulle bottigliette che andava
spandendo sopra il mogano del vecchio mobile. Solo allora realizzò
che il tatuatore dei merli era lì di fronte a lei, pronto a fare il
suo dovere. Rivolse gli occhi a Robert con un balzo, lui sollevò le
spalle
“La
prima volta che ti ho visto ho saputo all'istante cosa saresti
diventata. Quelle fiamme che ti ardevano dentro, sapevo esattamente
dove ti avrebbero portato...”
Si
appoggiò al tavolo e levò le mani a mezz'aria
“...Tutto
ciò che ho, tutto quello che ho guadagnato, ogni mattone ed ogni
uomo... E' tuo.”
Cara
schiuse le labbra genuinamente sconvolta, lui le si fece di nuovo
vicino
“Sei
la figlia che non ho mai avuto Cara Phillis...”
Indicò
Manny con l'indice destro senza distogliere lo sguardo da lei
“...Da
oggi non solo avrai il mio marchio, ma anche il mio nome.”
Lunghe
rughe comparvero sulla fronte di lei, totalmente spiazzata da
quell'offerta. Stava finalmente accadendo, il suo sogno, la sua meta,
la preziosa approvazione che tanto aveva cercato erano lì, nelle
mani di un artista sociopatico coi capelli unti.
Manny
azionò l'ago e la vibrazione la riportò in vita
“Dove
lo vuoi?”
Domandò
lui con la più piatta naturalezza ed il vuoto le si aprì di nuovo
in mente. Sulla schiena? La mano? Magari lo spalla? O forse il petto?
Un tempo sarebbe stato così semplice scegliere eppure in quel
momento nessun posto sembrava adatto. Scosse leggermente la testa in
cerca di una soluzione, ma la nebbia non si dissipò.
“Io..
Io...”
Manny
interruppe il suo attacco di balbuzie con un suggerimento
“Nel
dubbio la schiena è sempre il posto migliore. A meno che tu non
voglia guardarlo ogni giorno alla specchio.”
Nella
sua voce un velo d'impazienza. Cara ripensò al finto tatuaggio che
mesi prima campeggiava sotto la sua scapola e meditò di renderlo
permanente, ma nemmeno quella soluzione riuscì a soddisfarla. Robert
raccolse allora la sua visibile confusione e di nuovo le fu vicino,
scrutando il suo viso alla ricerca di qualsiasi fantasma la stesse
tormentando
“Stai
bene?”
Cara
mandò giù. No, non stava bene. Quante volta aveva sognato quel
preciso momento? Ora era lì, vero e reale, ma non riusciva a
viverlo. Mezz'ora o poco più ed un po' d'inchiostro sotto pelle
l'avrebbe resa “figlia” di Robert Mancini, sua per sempre.
“Dov'è
finito il tuo tatuaggio?...Il marchio di Mancini.”
“Non
ce l'ho ok?!”
“Non
sei una di loro.”
“Sono
comunque una di loro.”
“Non
capisci? Tu non gli appartieni... Non sei sua... Sei libera...”
La voce
di Joseph, benché non invitata, riecheggiò nelle sue orecchie.
“...Puoi
avere una vita tua lontana da tutto questo. Con o senza di me.”
Il
muro che così velocemente si era costruita attorno iniziò a
scricchiolare.
“...Se
torni da lui non cambierà nulla, non avrai nessun futuro.”
Ed
invece il suo futuro era lì, offerto su un piatto d'argento, più
splendente che mai. Non avrebbe più sofferto il freddo, mai più
avvolta nelle coperte mediocri di uno squallido motel, mai più
nascosta in un angolo ad aspettare di premere un grilletto. Robert le
stava offrendo soldi e potere, rispetto e prestigio, lusso e
stabilità. Già, ma a che prezzo? Non sarebbe più stata Cara
Phillis, non più la figlia di Bill, non più la ragazzina
dell'aereo. Voleva davvero smettere di essere la donna paranoica ed
instabile a cui avevano ucciso la famiglia? Voleva davvero rinunciare
ai ricordi di un'infanzia perfetta ed a quel fondo d'insicurezza che
da sempre la faceva arrossire in pubblico?
Il
viso inquieto di Robert era ancora lì di fronte a lei, solcato
solamente dall'ombra di un sorriso. Lui le afferrò la mano e Cara
tornò finalmente alla realtà, accennando appena un sì con la
testa. Voltandole la mano, ora col palmo rivolto al soffitto, Mancini
passò delicatamente il pollice sul suo polso, lì dove esili vene
violacee s'intersecavano a creare un motivo sottile ed intricato
“Se
posso darti un suggerimento, vorrei che lo avessi qui...”
Incontrò
i suoi occhi blu
“...Qui
dove batte il tuo cuore.”
Cara
tornò a fissare quel polso pallido, così fragile nell'abbraccio di
quella mano calda. Quello stesso calore, così accogliente, la cullò
nell'idea di accettare l'offerta. In quella grande casa non avrebbe
mai temuto giudizi, mai più spaventata dall'idea continua di
sbagliare, di tentare e fallire, di provare ad amare per poi scoprire
di non esserne più capace. Quel calore, così diverso e allo stesso
tempo così simile, la riportò per un secondo tra le braccia di
Joseph, nella perfezione del silenzio. Cosa gli avrebbe detto, una
volta sveglio, se non se ne fosse andata? Con quali parole avrebbe
esordito? E dove sarebbero andati da lì?
Non
ne aveva idea.
Sapeva
invece benissimo che con quella M impressa sulla pelle avrebbe
comandato gli eserciti di Mancini, facendo ciò in cui sapeva di
essere davvero brava. Diventare di ghiaccio.
Ancora
una volta annuì inconsapevolmente e Robert la guidò fino alla
postazione di Manny, abbastanza rispettoso da trattenere lo sbuffo di
noia che celava per tutte quelle smancerie.
Il
dorso della sua mano si posò sul freddo del panno sterile e lei
rimase a guardarla, quasi non fosse sua. Mentre Manny armeggiava e
l'altro assisteva, la mente di Cara continuò a vagare per quelle
semplici fantasie. Se gli occhi di Joseph si fossero aperti per
primi, se al suo risveglio l'avesse trovato già desto, cosa
avrebbero detto le sue splendide labbra? E sei lei fosse rimasta,
senza dire assolutamente nulla, sarebbe bastato accarezzargli il viso
e sorridere? E una volta fuori dalla porta, sarebbe stata capace di
stringerli la mano e seguirlo per le vie della città? Ridere alle
sue battute? Dividere un panino? Scendere a compromessi?
Ancora
una volta la pistola di Manny prese a vibrare e Cara sussultò
“Cerca
di stare ferma, non ci vorrà molto.”
Lei
deglutì, ma quell'ago era così vicino, così spaventosamente
vicino.
Portami
via.
Sentì
la sua stessa voce nella testa come se non le appartenesse
Portami
via da qui. Da tutto quanto.
I
grandi occhi blu di Cara si spalancarono. Ecco cosa avrebbe detto. Se
fosse rimasta tra quelle lenzuola, non appena le palpebre di Joseph
si fossero sollevate, l'avrebbe guardato dritto in faccia e
gliel'avrebbe chiesto.
Portami
via.
Appena
un secondo prima che l'ago la sfiorasse Cara ritirò di fretta la
mano
“Io
non lo voglio.”
Le
uscì dalla bocca senza controllo. Gli occhi ancora spiritati,
stavolta di terrore, ma il petto sorprendentemente più leggero.
“Cosa?”
Robert
cercò il suo sguardo, ora confuso per davvero. Cara cercò di
respirare facendo un passo indietro e solo dopo aver raggiunto quella
debita distanza, scosse la testa
“Non
lo voglio.”
Ripeté,
a lui e a sé stessa, consapevole di aver messo di nuovo la sua vita
nelle mani dell'uomo che gliel'aveva salvata. Con le iridi velate di
pianto decise allora di confessare
“Io
ti voglio bene. Davvero ti voglio bene... E ti sono grata,
immensamente grata per quello che hai fatto per me...”
Riprese
fiato mentre lui, ancora immobile, assorbiva quelle parole in sommo
silenzio
“...Tu
mi hai salvata. Mi hai resa forte. Mi hai insegnato tutto quello che
so ed io...”
La
voce si spezzò, ma impose a sé stessa di non piangere
“...Io
vorrei davvero, davvero volere questo...”
Indicò
sgraziatamente Manny, anche lui imbalsamato nell'inverosimiglianza di
quella scena
“...Ma
non è così.”
Cara
cadde sulle ginocchia. Se quella era una vera confessione, una che
prima non aveva fatto nemmeno a sé stessa, allora meritava una
preghiera e una penitenza. Penitenza che non avrebbe tardato ad
arrivare.
Robert
inspirò col naso
“Lasciaci
Manny.”
Ordinò
e, solo dopo aver sentito la porta sbattere, rivolse lo sguardo alla
testa chinata di Cara. Ma il colpo che lei attendeva non arrivò.
Mancini si abbassò al suo livello ed ancora una volta le sollevò il
viso, la sua espressione ferma, nessun accenno di rabbia o
compassione
“Sei
sicura?”
Lei
cercò invano nel vuoto della sua mente
“Da
qui non si torna più indietro.”
Quella
frase le strinse il petto, convinta più che mai che la via di non
ritorno fosse la morte. Nondimeno annuì.
“E
cos'è che vuoi?”
Domandò
lui, costringendola a smascherare anche l'ultimo fantasma
“Voglio
una vita. Una vita reale... Voglio viaggiare, incontrare persone,
entrare in una stanza ed uscirne senza che nessuno venga ucciso...”
Posseduta
dal demonio dell'onestà, Cara trattenne le lacrime ancora una volta
“...Voglio
vivere.”
Le
uscì come un sussurro e la sua testa si abbassò di nuovo, priva di
ogni difesa. Di rimbalzo Robert si alzò, restando a guardarla per
qualche istante
“Pensi
che ti ucciderò?”
Ingoiando
le lacrime che non aveva pianto, Cara gli rivolse lo sguardo, gli
occhi arrossati pur non avendo pianto
“Me
lo merito.”
Ed
il suo viso si ammorbidì, in un'espressione che lei non aveva mai
visto, che non sapeva decifrare. Ancora una volta Mancini si abbassò,
stavolta per afferrarle le spalle e sollevarla, i loro occhi portati
allo stesso livello, la testa scossa appena
“Credi
che ti abbia salvata solo per avere un soldato in più?”
Lei
non rispose
“Posso
avere tutti i pazzi che voglio al mio servizio, pronti a dar fuoco ad
un condominio per cento dollari o poco più...”
Le
strinse il viso tra le mani ancora una volta
“...Tu
sei diversa Cara Phillis...”
Accompagnò
la voce con il volto
“...Non
ho mai pensato né sperato che saresti stata solo un muto soldato al
mio servizio. Ho sempre saputo che un giorno avresti spiegato le tue
ali...”
Poggiò
la fronte scura alla sua, in uno smaliziato gesto d'affetto del tutto
inatteso
“...Non
è certo questo che mi aspettavo, ma se è una vita normale quello
che vuoi, allora sarà quello che avrai.”
A
corto di respiro Cara si perse nel nero delle sue pupille
“Da..
Davvero?”
Robert
sfoderò uno dei suoi magici sorrisi e di nuovo la incantò, così
come nell'attimo del loro primo incontro. Aveva perso un padre, ma un
altro ne aveva trovato. Quell'uomo, che tutti conoscevano come un
mostro, per lei e solo per lei aveva sciolto le nevi perenni.
Quell'uomo,
ancora una volta, la riportò in vita.
SEI
MESI DOPO
“Sei
davvero sicuro?”
Elia
era seduto sulla poltrona del suo studio, la schiena dritta ed i
gomiti posati sul duro legno della scrivania. Coi polsini della
camicia piegati fino ai gomiti continuava a strusciare il foglio tra
le dita, la carta liscia e pesante contro i suoi polpastrelli. Aveva
letto e riletto quel documento fino allo stremo, senza ancora
convincersi che lasciarlo firmare a suo fratello fosse la cosa più
giusta da fare. La famiglia prima di tutto. Di certo non avrebbe
voluto lasciar andare un altro pezzo della sua.
“Sono
più che sicuro fratello.”
Joseph
era in piedi davanti a lui, le spalle rilassate ed il respiro lento.
Da mesi ormai riusciva a dormire serenamente e gli si leggeva in
faccia, tra il colore roseo delle guance ed il luccichio dei suoi
occhi. Era rimasto a New Orleans tutto quel tempo per il bene della
sua famiglia, per sistemare gli affari, aiutare Elia a ristabilire
l'ordine, assicurarsi che tutto fosse a posto. Ora il suo compito era
concluso,
“Ma
non devi farlo per forza.”
Insistette
Elia. Lui scosse la testa
“Non
si tratta di dovere. Voglio farlo...”
E
finalmente afferrò la penna che ormai da lunghi minuti richiamava la
sua attenzione. L'altro gli porse lentamente il foglio e Joseph poté
finalmente poggiare il palmo sulla sua liberazione. Con quel
documento rinunciava all'eredità di William, ogni mattone ed ogni
centesimo che quel bastardo aveva accumulato in una vita di sangue e
tirannia. Non voleva nulla da lui, nulla più.
“...Ho
una casa ed abbastanza soldi da poter vivere una vita più che
agiata. Non mi serve altro...”
Cercando
per l'ultima volta di rassicurare Elia, appose la sua firma con
tratto marcato e deciso. Il suo cuore, finora pensante come una
roccia, divenne di piuma.
“...E
così avrai più soldi da lasciare ai tuoi futuri eredi. Fammi solo
un favore...”
Gli
restituì quel prezioso pezzo di carta sollevando il sopracciglio
“...Non
chiamarli William.”
In
quel momento Nate varcò la soglia, solare come non mai nel suo
golfino verde smeraldo
“E
perché mai dovrebbe quando ha a disposizione scelte ben più di
classe. Nathaniel per esempio.”
Katrina
lo seguì nella stanza trascinando con sé una nuvola di profumo
floreale
“Ed
ecco perché spero che avremo solo femmine.”
Joseph
sorrise, un gesto divenuto così semplice ultimamente. Il lungo
viaggio iniziato in quella grande casa era giunto al termine, una
strada del tutto nuova gli si apriva davanti.
Tese
la mano verso il fratello maggiore
“Non
sarò suo figlio, ma sono ancora tuo fratello. E lo sarò sempre.
Qualsiasi cosa succeda, se hai bisogno di me ti basterà chiamare. Ci
sarò.”
Elia
la strinse forte e presto trasformò quella stretta di mano in un
abbraccio. Il sorriso sincero di suo fratello valeva ogni centimetro
d'inferno.
----------
Fissando
il marmo bianco Joseph sorrise ancora. Il volto fiero e sereno di sua
madre lo fissava dalla lapide, quasi volesse sorridere anche lei.
Joseph passò i polpastrelli su quell'immagine e poggiò a terra le
rose gialle che aveva comprato lungo la strada, le sue preferite.
L'unico
rammarico della sua prossima partenza, il non poter più portar fiori
su quella tomba. Sperò che la vendetta valesse almeno un migliaio di
mazzi.
“So
che non puoi essere orgogliosa di me, non dopo tutto quello che ho
fatto...”
Il
pensiero bruciò, ma decise di ignorarlo
“...So
che non c'è nessun purgatorio o paradiso dove potremo rivederci, ma
adesso sono felice mamma.”
Sospirò
guardandola negli occhi
“Per
quel che resta della mia vita cercherò di farmi perdonare.”
Poggiò
il palmo sul freddo del marmo, sperando che in qualche sovrannaturale
maniera, ovunque fosse, potesse sentire il suo calore. Trattenne
l'urgenza di abbracciare quella fredda pietra
“Le
tue emozioni sono importanti. Le emozioni ti porteranno fuori da qui
un giorno.”
Ripetendo
le parole di sua madre a voce alta riuscì a sentire la sua carezza
in viso ancora una volta. Annuì alla foto sapendo allora di avere la
sua benedizione
“Manterrò
la promessa che ti ho fatto tanto tempo fa...”
“...Non
diventerò mai come lui...”
Per
l'ultima volta toccò quel viso incorniciato
“...Ti
prometto che la troverò.”
--------
OTTO
MESI e 12 GIORNI DOPO
Francia,
Parigi
Joseph
varcò la soglia del club di Pigalle, immediatamente avvolto in una
nuvola di alcool e sudore. Le ballerine saltellavano sul palco al
ritmo di una melodia che troppo sfacciatamente richiamava il famoso
can-can. Le piume bianche dei loro abiti riflettevano iridescenti
come polvere la luce dei riflettori, le gambe lanciate in aria con
grandi falcate per la gioia degli uomini in prima fila.
Una
cameriera in divisa tradizionale, degna di un film porno, tentò
d'intercettarlo, ma riuscì a sfuggirle facendosi strada tra la
folla. Orde di turisti ubriachi ballavano sgraziatamente sui tavoli,
quasi coprendo la musica coi loro passi e le loro fragorose risate.
Il pavimento appiccicoso di vomito e drink versati.
Joseph
scrutò la folla nella penombra. Troppi corpi e troppi odori
pungenti.
La
musica sguaiata gli feriva le orecchie. Scansò un ragazzo un po'
troppo entusiasta ed evitò d'incappare nel bicchiere di una donna
sbronza di mezz'età. Il liquido denso e rosso del suo bicchiere si
riversò a terra nella beata ignoranza di quel popolo festaiolo.
Riuscì ad avanzare ancora un po', ma senza trovare uno spazio
d'aria sufficiente.
Perché
proprio quel posto?
La
musica ripartì ancor più forte e stonata, facendogli desiderare
d'esser fuori il prima possibile. Scostando le mani invadenti di una
sconosciuta Joseph rivolse allora gli occhi al lato opposto, verso il
bar.
D'improvviso
si fece silenzio. Almeno per lui.
Eccola
lì, stretta in un abito rosso, troppo aderente perfino per i suoi
gusti. Cara se ne stava appoggiata col gomito al bancone, un
bicchiere mezzo pieno stretto nell'altra mano. Lo scemo che le stava
di fronte continuava a blaterare, probabilmente cercando di
conquistarla. Non che i suoi occhi da pesce lesso e la sua camicia
sgualcita avessero qualche speranza.
Cara
scoppiò a ridere lanciando la testa all'indietro. I suoi lunghi
capelli, ancora uguali, rimbalzarono a mezz'aria. Una risata finta,
falsa, totalmente diversa da quelle che solo lui aveva sentito.
Lo
sfigato pensò allora di potersi avvicinare, poggiando una mano
sudaticcia sul suo fianco.
Joseph
si trattenne a stento dal correre a fracassargli il cranio, restando
suo malgrado coi piedi piantati a terra, la visuale continuamente
interrotta dall'andirivieni di tutte quelle inutili comparse.
Lei
sapeva che era lì.
Ne
fu certo quando il sorriso di Cara si paralizzò, per un solo
secondo, uno appena. E se fosse stato più vicino avrebbe potuto
vedere la sua pelle d'oca, ogni pelo sollevato in allerta, ne era
sicuro.
Pur
senza aver mai rivolto lo sguardo dalla sua parte sentiva che era lì.
Considerò
allora di muoversi e raggiungerla, se non altro per togliere dalla
sua vista quell'inutile figlio di una cagna convinto di poterla
toccare.
L'ennesimo
turista gli si scagliò addosso, abbastanza ubriaco da non riuscire
più a calcolare le giuste distanze
“Excuse
moi, excuse moi.”
Ripeté
senza nemmeno guardarlo in faccia e Joseph lo scansò con una
semplice spinta, nemmeno troppo forte.
Quando
risollevò gli occhi lei non c'era più, come fosse stata magicamente
avvolta dall'ombra e dalla puzza. Il bicchiere abbandonato sul
bancone ed il suo stupido spasimante lasciato solo come il cane che
era.
Joseph
sorrise tra sé e sé senza nemmeno provare a seguirla tra la folla.
La
ragazzina non aveva perso il suo tocco.
---------
2
MESI e 26 GIORNI DOPO
Italia,
Firenze
Joseph
si fermò nel mezzo di quell'incrocio di vie, pronto ad attraversare
Ponte Vecchio ancora una volta. Anche se era completamente circondato
da sconosciuti non si sentiva troppo lontano da casa. In mezzo a quel
continuo vociare c'era infatti più inglese che italiano.
Nella
luce del tramonto guardò la cupola del Brunelleschi affacciarsi
all'altro lato e di nuovo si meravigliò di quanto fosse bella quella
città. Tutta quell'arte, tutto quel buon cibo, tutta la cultura che
trasudava da ogni chiesa ed ogni mattone. Era felice di esser giunto
fin lì.
Riportando
lo sguardo alla strada si rimise in cammino, deciso a setacciare ogni
via ed ogni piazza.
L'Arno
scorreva lento sotto i suoi piedi, coppie felici si scattavano foto
con quello splendido panorama alle spalle, un bimbo giapponese rideva
contento apprezzando il suo gelato. L'oro luccicava dalle vetrine
delle oreficerie ed un musicista di strada accordava la chitarra,
quasi pronto per lo spettacolo che di lì a poco avrebbe regalato ai
passanti.
Quando
finalmente sollevò gli occhi la trovò lì, all'altro capo del
ponte, ferma, sfiorata appena dal flusso continuo dei turisti.
L'abito bianco, le scarpe da tennis ed i capelli raccolti sulla testa
la facevano sembrare ancor più giovane di quanto non fosse,
bellissima come sempre.
Diversamente
da quanto era successo a Parigi, stavolta Cara non finse di non
vederlo, anzi, i suoi grandi occhi blu gli si piantarono addosso,
bloccando i suoi passi all'istante. Non che non volesse raggiungerla,
ma quel viso, quel viso perfetto, diceva in silenzio più di quanto
la bocca avesse mai potuto spiegare.
E
così rimase fermo a guardarla, loro due gli unici esseri immobili in
una città senza sonno.
Il
viso pulito e riposato di Cara gli raccontò la sua storia, di quanto
amasse quel posto, di quanti piatti di pasta avesse mangiato, di
quante giornate tranquille avesse già passato ad osservare gli
artisti di strada e a svaligiare i negozi di souvenir.
L'ombra
di un sorriso comparve su quel bel viso, così, solo per lui.
Era
felice di vederlo.
Felice,
ma non pronta.
Joseph
rimase fermo ancora una volta mentre lei spariva tra la folla.
10
MESI e 4 GIORNI DOPO
Cuba,
L'Avana
Era
stato difficile stavolta seguire le sue tracce. La ragazzina si era
fatta furba, ma lui aveva pazienza da vendere. Joseph sapeva in cuor
suo che Cara non voleva sfuggirli, ma voleva solo tempo. A cosa le
servisse, non ne era sicuro. Forse aveva bisogno di scrollarsi di
dosso tutti gli anni passati nell'ombra di Mancini e di suo padre,
forse voleva fare le sue esperienze, recuperare ciò che aveva perso
durante l'adolescenza. Forse voleva sfidarlo, sparire da sotto il suo
naso ancora ed ancora per scoprire dopo quanto si sarebbe stufato. Se
quello era il caso, non gliel'avrebbe data vinta.
Nella
povertà di quella via spoglia, lontano dalle luci del porto e dal
chiasso del centro, Joseph seguì il ritmo della musica fino alla
piazzetta, sul retro della Bodeguita del Corsario, dalle cui finestre
aperte proveniva a gran volume il ritmo incalzante delle chitarre e
delle percussioni. La voce di un uomo cantava in spagnolo la sua
ennesima disgrazia d'amore. Dall'alto della sua ignoranza
l'identificò come salsa.
Come
dentro al locale decine di coppie si strusciavano ancheggiando l'una
addosso all'altra, così nella piazzetta ballavano i più giovani,
cercando di sfiorarsi il più possibile sotto le stelle.
Tra
tutti quegli ormoni e quel sudore c'era lei, la sua pelle chiarissima
che luccicava alla luce della luna piena.
Ballava
Cara, ballava con gli occhi chiusi e le braccia spalancate, quasi
come ci fosse solo lei. Con addosso nulla più che un paio di shorts
e una maglietta, ballava scalza sulla terra sporca di quella
piazzetta.
Nessun
ragazzo le ballava vicino e, se qualcuno tentava un approccio, era
subito pronta a voltarsi e riprendere il ritmo un po' più in là.
Non
l'aveva mai vista così, mai così libera, mai così spensierata, mai
così indifesa.
Tanto
persa nella musica, stavolta non si accorse nemmeno che lui era lì.
E
Joseph tornò da dove era venuto.
Non
le avrebbe mai rovinato quel momento. In cuor suo sapeva bene che
dall'attimo stesso in cui fosse tornato nella sua vita, quel tipo di
serenità non sarebbe più stato possibile. Per quanto l'amasse, per
quanto potesse impegnarsi, non avrebbe mai saputo come dargliela.
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1
ANNO, 1 MESE e 19 GIORNI DOPO
Inghilterra,
Londra
Il
cielo sulla sua città è grigio e le nuvole promettono pioggia come
al solito. I giardini di Kensington sono più deserti del solito,
probabilmente perché nemmeno i turisti sono interessati a bagnarsi.
Ma
a lui non importa.
Riesce
già a vederla in lontananza e stavolta è deciso a non lasciarla
scappare. Troppo tempo è già passato.
Cara
è stretta in un cappotto grigio da cui spuntano dei lucidi stivali
neri. Indossa un cappello a falda larga di un rosso denso e scuro,
che la fa sembrare più adulta di quanto non sia potuta diventare in
un solo anno. I suoi capelli, più corti ma dello stesso biondo di
sempre, tentano di resistere al vento.
La
raggiunge alle spalle senza dire nulla, già pronto a vederla correre
via.
Ma
lei non si muove, resta lì immobile, intenta a fissare la statua di
bronzo di cui tanto ha sentito parlare.
“Ho
girovagato in questo stupido parco per ore cercando questa statua...”
Il
suono della sua voce sembra cosi diverso
“...E
guarda, nemmeno assomiglia a Peter Pan.”
Conclude
con tangibile sdegno. Joseph sorride, ma nessuno dei due si muove
ancora.
Lei
solleva le spalle
“Ci
hai messo parecchio.”
Ovviamente
lo stava aspettando, certa che non appena si fosse fermata lui
sarebbe comparso.
“Scusami
ragazzina, sono stato un po' impegnato.”
Quel
nomignolo, uscito così naturale dalla bocca di Joseph, le accende le
guance e per un momento, nonostante l'inverno, smette di fare freddo.
Dio,
quanto le è mancato.
“Tu
sei nato qui vero?”
“Nato
e cresciuto, almeno per un po'.”
Cara
inspira a pieni polmoni. Non ha paura. Non più. L'unico timore è
che le gambe non la reggano nel momento in cui i loro occhi si
incontreranno di nuovo.
“Bene...”
Rilassa
le spalle
“...Allora
spero che potrai mostrarmi qualcosa di un po' più interessante di
questa stupida statua...”
E
finalmente si volta verso di lui
“...Ti
va?”
Il
suo viso è sereno, ma i suoi occhi tremano, quasi possa davvero
temere un suo rifiuto.
Joseph
si perde tra quei tratti per tutto il tempo necessario a riprendere
fiato, improvvisamente consapevole di quanto tempo abbiano lasciato
passare.
Troppo.
La
mano di Cara si tende lenta ed incerta verso di lui, i loro occhi si
incontrano ed il mondo si ferma.
Ogni
lotta, ogni morte, ogni schiaffo ed ogni ferita è stata per questo.
Solo per questo.
Quella
piccola mano fredda si perde nella sua mentre la pioggia inizia a
cadere.
Joseph
la stringe, la stringe forte.
“Che
dici se inizio mostrandoti la mia stanza d'albergo?”
Cara
ride, pura e cristallina, solo per lui.
Ed
è il suono più bello che Joseph Michaelson abbia mai sentito.
FINE
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