Overwhelm me

di haev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One. ***
Capitolo 2: *** Two. ***
Capitolo 3: *** Three. ***
Capitolo 4: *** Four. ***
Capitolo 5: *** Five. ***



Capitolo 1
*** One. ***


‘And I walked this line,
a million and one fucking times,
but not this time
I don't feel any shame,
I won’t apologize.’

-Jesus of Suburbia; Green Day


 

 

1
 

Abbassai il libro di fisica sorridendo e complimentandomi con me stesso per essere riuscito a capire le regole che la prof. spiegava male a ogni sua lezione. Era una di quelle insegnanti che una volta ottenuta la cattedra se ne sbatteva dei suoi alunni e spiegava in turco le regole, e noi, poveri ragazzi, dovevamo scervellarci a casa per comprenderle e prendere una minima sufficienza nella verifica o interrogazione.
Spensi anche il computer, ringraziando mentalmente un sito che m’aveva aiutato a capire le formule di cui avevo bisogno.
Non ero mai stato un grande studioso, a essere onesti, non ero uno che dava molto importanza allo studio, adoravo di più suonare il pianoforte, ma mi piaceva portare a casa buoni risultati, quindi quando c’era una verifica immergevo la testa nei libri e riempivo il mio cervello di formule.
M’alzai dalla sedia della mia scrivania e mi diressi a passo lento alla finestra, socchiusa per far entrare un briciolo d’aria. Appoggiai le mani al davanzale e iniziai a picchiettarle a ritmo d’una sinfonia di Debussy che avevo imparato l’altro ieri. Non amavo particolarmente la musica classica, ma sapevo che dovevo avere qualche brano classico nel mio repertorio, quindi, quand’ero in vena imparavo alcuni pezzi.
Il mio sguardo cadde, come tutte le sere, alla casa davanti alla mia. Più gli anni passavano e più quella casa s’incupiva, come se sapesse il motivo per cui chi vi abitava se ne fosse andato. Le pareti in undici anni, erano passate dal giallo chiaro a un grigio martoriato, spento. I balconi in ferro erano rotti e ricoperti di foglie d’edera, in alcuni potevi notare il calcare bianco. Le fessure delle porte si erano sgualcite, il legno era diventato nero, tutto rotto. Infine, vi era un ammasso di sterpaglie giallo a farle da recinto e giungere sino alle fondamenta, dove in un alcuni punti si insinuava nella casa.
Alcuni dicevano che quando la famiglia Tompson s’era trasferita, quella casa era stata abitata dai fantasmi o spettri morti, cercando di trovare l’assassino che li aveva ridotti in quello stato, ma io sapevo che erano tutte fesserie, e quella casa era abitata solamente da qualche corvo durante l’inverno e una marea di roditori, alcune volte vedevo qualche barbone infilarvi dentro per trarre rifugio durante la notte. Non c’era nessuno in quella casa, e molto probabilmente, nessuno ci sarebbe mai stato, a meno che qualche buon’anima avrebbe risvoltato le sue maniche e l’avrebbe riaggiustata e poi messa in vendita, ma non era da un cittadino di Santa Barbara quell’atteggiamento.
Sentii il rumore di una macchina provenire dalla via, e rientrai di corsa in camera, spegnendo e buttandomi sotto le coperte. Sapevo che al mio patrigno non piaceva che ero ancora sveglio quando tornava dal lavoro, forse perché aveva paura di sentire i suoi grugniti con mia madre nella camera da letto, ma ero pur certo che se stessi dormendo, mi sarei svegliato per quanto urlavano forte.
Appoggiai la testa al cuscino e chiusi gli occhi, dopo neanche cinque minuti, udii la porta aprirsi e il capo rotondo di Bob sbucare dalla mia porta per vedere se dormivo. La porta della mia stanza si richiuse frettolosamente e prima che potessi cadere nel sonno, sentii un urlo di piacere.
 
Chiusi la porta della biblioteca con cauto silenzio, consapevole che a quell’ora non si potrebbe stare in biblioteca poiché orario di lezione, ma saltavo spesso le lezioni di religione e mi rintanavo in biblioteca con un buon libro, ormai il professore c’aveva fatto l’abitudine e non mi chiedeva nemmeno di rientrare presto in classe, consapevole che non l’avrei fatto.
Afferrai un romanzo dalla mensola e m’accomodai a un tavolo, iniziandolo a leggere. Mi piaceva leggere nel più totale silenzio, se c’era anche solo un rumore in lontananza non riuscivo a concentrarmi abbastanza da entrare nel libro e immedesimarmi nei personaggi, quindi ci rinunciavo e facevo qualcosa d’altro. Si dà il caso che in biblioteca, c’era un tombale silenzio, quindi ebbi la possibilità di immedesimarmi nel medico che cercava di aiutare un bambino autistico.
Boom.
Alzai la testa di scatto, mentre il cuore prendeva a battere fortissimo e le mani si gelavano intorno alla copertina del libro. Tornai a leggere pensando che quel rumore fosse stato solamente frutto della mia immaginazione. Sapevo che nella biblioteca non c’era nessuno forché io, non c’era mai nessuno in quell’ora.
Boom.
Di nuovo, ora a gelarsi non erano state solo le mani, ma pure le gambe e le braccia. Il fiato era corto per cercare di calmarmi, e mi sentivo un bastone, incapace di muovermi. Abbassai lo sguardo e mossi le dita dei piedi all’interno delle Vans, poi m’alzai.
Tenevo le mani rivolte in avanti, pauroso che un qualcosa poteva comparire da un momento all’altro e farmi andare direttamente nel paradiso. Volsi lo sguardo dietro un armadio da cui avevo sentito provenire il rumore e fui sollevato, notando che non vi era nulla, tirai un sospiro di sollievo, ma mi agitai di più nel vedere solamente un paio di libri caduti sul pavimento.
Chi li aveva fatti cadere? E soprattutto, perché non m’ero accorto prima che in biblioteca c’era qualcun altro?
Scossi la testa e pensai che ero troppo immedesimato nella lettura e m’ero immaginato quei rumori, perché era ovvio che quei libri si trovavano già così prima del mio arrivo.
Sollevato da quell’idea li rimisi sullo scaffale, poi tornai con un mezzo sorriso al mio tavolo.
Feci un passo indietro e trattenni un urlo.
Lì sul tavolo, con i piedi appoggiati alla sedia, c’era una ragazza che leggeva tranquillamente un libro.
La osservai e m’accorsi che non l’avevo mai vista, d’altronde una tipa come lei non passava inosservata nemmeno in una scuola di mille allievi.
I capelli erano acquamarina e le ricadevano in boccoli fino alle spalle, teneva il viso abbassato, ma potei immaginare ch’era d’un ovale perfetto.
Potei notare le gambe magrissime e le braccia fragili, quest’ultime erano coperti da vari tatuaggi che ritraevano alcuni fiori, teschi e alcune scritte, scorsi pure una data; i polsi erano coperti da braccialetti.
Il petto minuto era racchiuso in una camicetta nera senza maniche e le gambe erano fasciate in un paio di legging a fiori neri, ai piedi indossava degli anfibi neri.
La osservai e mi sembrò familiare, anche se non l’avevo mai vista.
«Che hai da guardare?» la sua voce era incredibilmente dolce, anche se cercava di emanare un tono serio e scontroso.
«Io? Oh, nulla, nulla.» mormorai abbassando il capo e scuotendolo, non ero abituato a parlare civilmente con le persone, per lo più erano loro che mi davano ordini.
La ragazza posò il libro sul tavolo e picchiettò le mani sulle ginocchia, poi tossì e mi guardò con un sorriso beffardo.
Fui costretto ad abbassare lo sguardo da quegli occhi neri, così profondi, sembrava vi fosse un mare in tempesta dentro quelle perle. Per non parlare delle labbra, così morbide e perfette, coperte da quel rossetto rosso, e in più quel piercing le dava un’aria così azzardata.
Infine le guance rosse, in netta contrapposizione con il resto del viso ch’era bianco cadaverico, come se fosse quello di un fantasma.
Quel viso era un viso d’angelo reso con quel trucco e quel piercing, un viso da diavolo.
Posò le braccia sulle ginocchia secche e mi fissò: «So quando qualcuno mi guarda. – Si batté le mani sulle ginocchia, gesto che mi dava particolarmente fastidio, – Comunque, sono nuova, come ti chiami?» domandò.
«Louis.» risposi osservandola per cercare di capire cosa volesse da me, anche se non trovavo nessuna risposta.
«E’ un peccato che non possa venire in questa scuola.» mormorò sorridendo e fissandomi, notai nei suoi occhi una scintilla di comprensione.
La guardai stranito, e allora che ci faceva lì?
«Ma questa è l’unica scuola della città.» risposi chiedendomi dove potesse andare.
Sorrise beffarda e si picchiettò un’altra volta le mani sulle ginocchia, poi rispose: «Oh, ai criminali non è concesso d’andare a scuola, Louis. – Mi fissò sorridente e poi scosse la testa, i boccoli le danzarono intorno al viso, – Posso rimanere qui?»
Non potei far altro che annuire, senza parole.
Mi riaccomodai dall’altro capo del tavolo, posando il libro e prima di continuare a leggere, la scrutai. Sembrava indifferente a tutto quello che aveva intorno, come se fosse spuntata fuori da un film con la differenza che lei era reale e interpretava se stessa.
Non potei non pensare che tralasciando la sua stranezza, fosse molto bella.
Sapevo anche che però, io, non potevo certo avere nessuna possibilità con lei, non ero mai stato preso in considerazione da nessuna ragazza, troppo strano per loro perché mi piaceva leggere e suonare il piano, cose troppo all’antica per le ragazze di oggi.
Scuotendo la testa ritornai a leggere, ma non riuscii a concentrarmi perché lei continuava a picchiettare le sue mani sulle ginocchia, in un ritmo che a me pareva assordante, all’inizio cercai di non farci caso, ma notai che era un tic che aveva.
Mi dava ai nervi quel suo tic, non c’era nient’altro che potesse fare?
E poi, come faceva a leggere e battere le mani insieme?
Poggiai il libro sul tavolo e chiesi gentilmente: «Potresti smetterla?»
Smise di leggere e m’incendiò con gli occhi neri: «Di far cosa?»
«Di picchiettare con le mani. – Risposi sorpreso, possibile che non si rendesse conto di quello che faceva? – Mi dai fastidio.»
Sorrise e rispose: «Allontanati, allora.»
Strabuzzai gli occhi, l’idea che m’ero fatto di lei d’un tratto crollò nella mia testa, portandomi a un sentimento di astio nei suoi confronti. Come poteva essere così maleducata? Le avevo offerto di rimanere lì e mi diceva di andarmene? Per di più, era una biblioteca, era regola che vigilasse il massimo silenzio.
«E’ una biblioteca, questa.»
Scoppiò in una risata sommessa, «Hai finito di rompermi? E’ una biblioteca, appunto. Luogo pubblico, può venirci chi vuole.»
Alzai le sopraciglia, ma non dissi nulla, sembrava talmente cocciuta che nemmeno un sasso lanciato in testa le avrebbe fatto cambiare idea, così appoggiai i gomiti al tavolo e mi serrai le orecchie con le dita, rendendo tutti i rumori più ovattati.
Riuscii a leggere nonostante alcune volte batteva troppo forte, finché non sentii più nulla, così alzai la testa e notai che stava rollando una sigaretta.
«Ma che fai?» esclamai sorpreso.
«Che ti urli? – Fu la sua risposta, cercai di tenere i nervi saldi e non dimostrarle il mio pensiero nei suoi confronti, – Non la fumo qua, stupido.»
Passò un minuto in cui rimasi lì in preda all’ansia pensando che la iniziasse a fumare, facendo suonare l’allarme anti-incendio, ma la campanella suonò prima che potesse prendere l’accendino.
La ragazza balzò in piedi e si diresse verso la finestra, dove s’arrampicò e uscì, la guardai sorpreso, pensando che avrebbe usato un’altra via, ma poi mi ricordai che m’aveva detto che era una criminale e non poteva stare in quella scuola, mi chiesi come aveva fatto a entrarci.
«Oh, e comunque. – La sua testa sbucò fuori dalla finestra, sorridendomi gentile, – Sono Seline.»
E prima che potessi ribattere, s’era già volatilizzata.
Strabuzzai gli occhi.
Non poteva essere vero.



Angolo autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera! 

E tadadaaaaan! Eccomi qui con una nuova FF c:
Penso che molte di voi mi conoscano per
 Onset (se volete dargli un'occhiata, cliccate sul nome) e altre FF che troverete nel mio account, ma questa è una storia molto differente dalle altre. 
Tanto per cominciare avrà un solo personaggio dei ragazzi, ossia Louis, e come avrete capito è scritto secondo il suo punto di vista (spero che riesca a immaginarmi bene nei pensieri di un maschio) e per di più, non è famoso.
Poi, poi ci sarà questa Seline, v'avverto che i capitoli dedicati a lei saranno scritti in terza persona, perché a me piaceva così. 
Ci sarà molto mistero in ogni capitolo, a partire da questo, chi è Seline? Perché Louis se la ricorda? E' davvero una criminale?
Si capirà tutto mano a mano, non preoccupatevi. 
Beh, questo è solo il primo capitolo, e penso che abbiate le idee abbastanza confuse, per questo, se avete qualche domanda o dubbio, non esitiate a chiedermelo. 
Infine, beh, spero d'avervi stupite! ((:
Ah, ultima cosa. Aggiornerò molto raramente, una volta ogni due settimane, credo. Questo perché siete in vacanza, e io devo scrivere i capitoli di questa FF e dell'altra, e voglio prima di tutto terminare Onset, per questo, mi dedicherò più a quella, senza trascurare questa, ovviamente. 

Spero recensiate in tante!

A presto,
Giada.

Crediti al banner per: hjsdjmples

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Capitolo 2
*** Two. ***


‘And I walked this line,
a million and one fucking times,
but not this time
I don't feel any shame,
I won’t apologize.’

-Jesus of Suburbia; Green Day
 


 

 

2

Non poteva essere vero.
Era impossibile che fosse lei. Sapevo quello che era successo, mi ricordavo alla perfezione il giorno in cui mia madre mi comunicò quello che aveva fatto, quello che era accaduto.
Quel ricordo era ancora livido nella mia mente, come se non avesse voglia di andarsene. Come se mi apparteneva talmente tanto da uccidermi tutte le sere.
Uscii dalla biblioteca come paralizzato e mi sentii prosciugare, prosciugare da tutte le mie forze.
Non poteva essere tornata, e poi, come?
Lei era un’assassina. Ricordavo i telegiornali che parlavano d’ergastolo, da piccolo non sapevo cosa significasse, ma ora lo sapevo.
Carcere a vita.
E da un carcere a vita non potevi di certo uscire, era impossibile che lei fosse riuscita a scappare.
Fosse riuscita a tornare. Ricordai il barlume di speranza nei suoi occhi quando le avevo detto il mio nome, ora capivo perché. Seline si ricordava di me, ma io dovevo far finta di non ricordarmi di lei.
Trattarla come un’estranea, anche perché in quegli undici anni sia io sia lei eravamo cambiati a dismisura, come se non ci conoscessimo.
Non sarò mai più il suo migliore amico, non di quella Seline.
Percorsi il corridoio per andare in aula sovraccarico dei miei pensieri, erano come una cascata, si susseguivano nella mia mente procurandomi troppe domande, alle quali non trovavo nemmeno una fottuta risposta.
«Tomlinson!»
M’irrigidii e maledissi da chi proveniva quella voce, era mai possibile che ogni volta che c’era una cosa che andava di merda, doveva aggiungersene una peggiore?
Chiusi gli occhi e mi voltai, cercando di mantenere il mio sangue freddo.
«James.» dissi secco.
Gli occhi azzurri del ragazzo si puntarono nei miei ghiaccio e mi fecero percorrere un brivido di paura, sapevo cosa significavano quegli occhi, glielo leggevo ogni qualvolta voleva lasciarmi un tocco sul mio corpo, ma non potevo permettermi d’arrivare a casa con un nuovo segno violaceo. Mia madre non credeva più al fatto che inciampassi in un gradino e s’era accorta che usavo il suo fondotinta.
Il biondo si fece vicino opprimendomi con il suo torace largo e quel sorrisetto strafottente che si portava sempre sul volto, abbassai lo sguardo e deglutii.
Quando fu a un soffio dal mio viso, sussurrò: «La ricerca, Tomlinson.»
Sbarrai gli occhi, me n’ero dimenticato di fargli una copia della mia, ieri sera. E non potevo nemmeno dargli la mia perché l’avevo lasciata a casa, cercai al volo una scusa e risposi: «L’avrai per domani.»
«E come cazzo pensi che potrò studiarla, coglione?» m’urlò in faccia, facendomi tremare e storcere la mia bocca in una smorfia di paura, sentii la sua mano stringersi al tessuto della mia maglietta e alzarmi di peso.
Chiusi gli occhi, ormai consapevole che il dolore sarebbe arrivato a momenti. Il mio cuore non batteva più di paura da molto tempo, tante le volte che dovevo sopportare la furia di James. La testa attutì il colpo all’armadietto, non sentii nessun rivolo di sangue cadere e per questo ne fui lieto, sarebbe stato solamente un bernoccolo.
Aprii gli occhi e li fiondai nei suoi azzurri, maligni come non mai, «Puoi sempre passarla a prendere da me, questo pomeriggio.» risposi.
Mollò la sua presa e mi guardò con sufficienza, ruotò sui tacchi e ritornò dai suoi amici. Mi passai una mano sulla maglietta e affannai velocemente, poi mi diressi all’armadietto, mettendomi un promemoria in testa dove diceva che James sarebbe passato nel pomeriggio.
Arrivai in aula di storia massaggiandomi la testa e mettendomi al consueto posto infondo, vicino a Cathrin, alla quale le rivolsi un cenno di saluto.
Passai il resto della giornata pensando a Seline e al motivo per cui si trovasse in biblioteca, proprio quando c’ero io, era come se fosse capitata lì per puro caso, come se quello che cercasse fossi io. E se mi stavo immaginando tutto?
Scossi la testa, non ero un pazzo. Lei era lì, con me.
Eppure il modo in cui era entrata, i due libri a terra, il suo atteggiamento… No, era per forza lei, non ero un pazzo e ci vedevo bene, sapevo riconoscere una persona vera da un fantasma.
Seline.
Dio, quanti ricordi.
Le corse nella via, le torte di fango, la piccola casetta nel suo giardino, il nostro albero nel bosco.
Un ammasso di ricordi a dominarmi la mente e trascinarmi sempre più giù nell’oblio, a risucchiarmi dalla realtà. Eravamo migliori amici, lo eravamo sempre stati, nati nello stesso mese, in due giorni importanti, io alla vigilia di Natale e lei all’ultimo dell’anno.
Primo giorno d’asilo insieme, all’elementari ci tenevamo sempre per mano e stavamo sempre seduti vicini, fino a che non successe quello che successe.
Era la mia migliore amica, non provavo amore, solo ammirazione e una profonda amicizia.
Ricordai il segno indelebile che ci facemmo in prima elementare, un taglio, profondo, vicino al gomito e poi avevamo unito il nostro sangue ai piedi dell’albero in cui ci rintanavamo sempre, tra quelle radici ora scorrevano il nostro sangue unito, segno che ci saremmo sempre stati l’uno per l’altra.
Navigai ricordando i ricordi della mia infanzia, sino a quel giorno fatidico.
Ricordo che mia madre mi trattenne nelle sue braccia per non andare alla finestra e vedere la macchina della polizia portare via la mia unica amica, la migliore. Non seppi fino a una settimana dopo ciò che successe, lo scoprii guardando la televisione.
D’altronde il fatto che una bambina di soli otto anni uccideva un suo compagno non passava inosservato, nemmeno se accadeva nelle periferie di Santa Barbara, luogo in cui succedeva di ogni.
Guardavo i notiziari con gli occhi velati di lacrime, sussurrando che non era colpa sua, ch’era innocente.
E più passava il tempo, più i telegiornali trasmettevano altri fatti di cronaca, più non si parlava di lei, e più io la ricordavo come un innocente, ogni sera osservavo la casa che diveniva sempre più trasandata e si riempiva di fantasmi, a detta dei cittadini.
Più non si parlava di lei, e più io non vivevo.
Gli anni passavano e non ebbi mai amici, pauroso che potesse succedere una cosa simile, che potessero andare via da me.
M’attaccai al pianoforte e ai libri, cercando di studiare e portare a casa buoni voti. Misi contro di me la maggior parte delle persone in buone condizioni, facendomi ricattare per la merenda, per i compiti e per il mio essere me.
E forse era proprio il mio essere me che non piaceva agli altri, e per questo venivo sempre preso di mira.
Capelli verdi, fisico magro, occhi neri penetranti, tatuaggi, piercing.
Non avevano nulla a che fare con la Seline che mi ricordavo io, a parte gli occhi neri.
 
Mi bloccai all’inizio della via di casa, il respiro mi mancava talmente tanto che temetti di svenire.
La casa che fino a ieri sera avevo visto distrutta, ora era come nuova. Un giallo era steso sulle pareti, il prato verde circondava la casa, la quale aveva gli infissi delle porte bianche e la porta d’entrata era un marrone quercia.
Stavo impazzando.
Questa era una certezza, non poteva essere che fino all’altra sera quella casa fosse desolata e ora sembrava che non fosse passato nemmeno un secondo da quando la vidi undici anni prima, era assolutamente impossibile tutto quello.
Va bene ritrovarsi Seline a scuola, come una qualsiasi ragazza.
Ma che quella casa fosse rimessa in sesto in nemmeno sette ore era totalmente, palesemente impossibile.
Chiusi gli occhi e m’avviai verso casa, cercando di non guardare l’abitazione accanto alla mia e convincendomi che fosse solo frutto della mia immaginazione.
Entrai in casa con la testa afflosciata dalle troppe cose successe quel giorno, trovai mia madre in cucina seduta al tavolo.
«Ciao, ma’.» salutai poggiando la cartella allo stipite della porta e sorridendo a mia madre.
«Ciao, tesoro.» rispose sfogliando una pagina di giornale.
Guardai mia madre, aveva sul collo un segno rosso ben visibile.
Trattenni il disgusto che mi saliva dall’intestino e ricacciai il conato di vomito, mia madre, dopo essersi separata da mio padre, aveva conosciuto Bob, che a parer mio, era stato la rovina della sua vita, poiché il mio patrigno la usava solo per sesso e per quanto potesse dire di amarla, sapevo che erano solo balle quelle che uscivano dalla sua bocca. La cosa, che però mi dava più ai nervi, era che mia madre non se ne accorgeva e continuava a vivere come nulla fosse.
«Mamma, ma la casa di fronte a noi, da quand’è che è così?» domandai mangiando un pezzo di pane, mentre aspettavo che la pasta si scaldava nel microonde.
«Quale casa, Louis?» chiese posando il giornale sul tavolo.
La guardai confuso, adesso mi immaginavo pure la casa? «Quella di fronte alla nostra, fino a ieri era mezza distrutta.»
Mia madre mi guardò perplessa e poi disse: «E’ già da un po’ che è così, non ti ricordi?»
«I Tompson abitano qui?» esclamai sorpreso.
Mia madre annuì: «Sì, Louis. Da quando Seline è uscita dal carcere sono ritornati qui, ma non ti ricordi, scusa? Mi sono incontrata con la madre di Seline ieri pomeriggio, te l’ho pure detto!»
La guardai con un sopracciglio alzato, ieri pomeriggio mia madre era stata in casa tutto il giorno a sistemare delle carte per il suo lavoro, non era uscita nemmeno cinque minuti e quindi, non aveva mai avuto una conversazione con la signora Tompson.
Scossi la testa, stavo impazzando, lo sapevo.
Che m’era successo durante la notte? Ero stato catapultato in una galassia parallela con le stesse persone e solo io ero cambiato?
«Mi sarà sfuggito. – Risposi scrollando le spalle e prendendo la pasta dal microonde, la condii con un po’ di sugo al pomodoro e m’accomodai a tavola, con mia madre di fronte, – Oh, oggi ho preso B in filosofia.»
«Bravo, tesoro.» si complimentò dolce.
Continuai a mangiare pensando alla casa di fronte e a Seline, arrivai alla conclusione che ne dovevo sapere di più.
 
M’accomodai sul letto, poggiandomi il portatile sulle gambe e andai su ‘Google’.
Feci il tutto colto da una determinazione che non provavo da un bel po’ di tempo.
Seline Tompson. Digitai nella sezione ricerca e premetti ‘invio’ con un leggero brivido sulla schiena, subito mi si aprirono milioni di pagine, alcune su articoli di anni fa e altri più recenti.
Li aprii uno a uno, piano, leggendo tutto ciò di cui avevo bisogno.
 
‘Seline Tompson, una bambina di soli otto anni, residente nelle periferie di Santa Barbara, ha ucciso soffocando contro una pietra un suo coetaneo, non si sa la causa di questo omicidio. La bambina stessa dichiara di non ricordare nulla dell’accaduto, la corte suprema deciderà sul futuro della bambina.’
 
‘La bambina che ha ucciso un suo coetaneo è stata interrogata a lungo dagli agenti della polizia, ma nessuno di essi è riuscito a estorcerle la causa di tale omicidio. «Non so perché l’ho fatto, è come diventato tutto buio e l’unica cosa che volevo fare era strozzarlo.» Parole molto forti sia per la famiglia della vittima sia per la madre della bambina, e queste parole lasciano alla polizia una miriade di domande, tanto che alcuni pensando che Seline, la bambina, abbia problemi mentali.’
 
‘Seline Tompson, la bambina che ha ucciso un suo coetaneo, sarà ricoverata in un istituto per disabili, successivamente sarà trasferita al riformatorio dove vi starà sino ai diciotto anni e poi andrà in prigione per ergastolo.’
 
Lessi tutte quelle cose con il cuore in gola, nessuno di esse diceva di una possibile fuga di Seline, nessuna. Eppure lei oggi si trovava a scuola con me, ci avevo parlato. Non mi ero immaginato il tutto.
Scrissi nella barra di ricerca ‘Seline Tompson fuggita’, ma tutto ciò che trovai furono altri articoli della morte del bambino che aveva ucciso o della sua condanna.
Più d’un articolo alludeva al fatto che Seline avesse problemi mentali, ma io sapevo com’era, era una bambina come tutte le altre, sapeva controllarsi. Quindi, la cosa mi fece rabbrividire al sol pensiero, Seline sapeva quello che faceva. Era a conoscenza delle sue azioni, mi ricordavo che era una bambina molto sveglia.
Scorsi con il mouse sino a un articolo che attirò la mia attenzione, lo aprii con il fiato sospeso.
 
‘La bambina assassina, Seline Tompson, durante il trasferimento alla prigione, luogo dove avrebbe trascorso il resto della sua vita, pare che sia riuscita a sfuggire e prendere un’altra via. La polizia la sta cercando da tutte le parti, ma sembra che la ragazza sia scomparsa nel nulla. Molti sostengono che abbia cambiato identità.’
 
Allegato insieme a esso vi era una foto di Seline, il viso era più paffuto, le braccia non erano coperte da tatuaggi e i capelli erano d’un marrone chiaro.
Ben presto tutti i pezzi si collegarono.
Seline era riuscita a scappare e s’era tatuata le braccia, tinto i capelli verdi, fatto un piercing, aveva cambiato totalmente la sua personalità trasformandola nella ragazza che era ora.
Aveva cambiato se stessa per continuare a vivere.
Ricordai che mia madre mi disse ch’era venuta ad abitare lì un po’ di tempo fa, così guardai la data dell’articolo, era di circa un anno e mezzo fa, tempo perfetto per ricostruire una casa e comportarsi come se niente fosse.
Ma Seline non partecipava alle lezioni. E poi, com’era possibile che fino a ieri la casa era desolata e ora era in ordine? Non poteva essere passato un anno in una notte.
Per non parlare che nessuno aveva avvertito la polizia che Seline si trovava lì, ognuno l’avrebbe fatto, conoscendo Santa Barbara, i cittadini paurosi com’erano, avrebbero chiamato subito la polizia per avere risposte.
Era come se Seline non fosse mai scappata dalla prigione.
In quel puzzle c’erano sia pezzi che coincidevano, sia pezzi che non s’attaccavano per niente. E io mi sentivo in dovere di riaggiustare quel puzzle, far coincidere il tutto, come un mosaico.
Tutto questo perché io ricordavo che la sera prima avevo visto la casa desolata.
Ricordavo che in biblioteca non c’era nessuno quando arrivai.
Ricordavo che avevano dato a Seline l’ergastolo.
E, soprattutto, ricordavo di non essere pazzo.



Angolo autore.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Ed eccomi qui, dopo due settimane d'attesa, ad aggiornare!
Prima di commentare il capitolo, volevo ringraziarvi per le recensioni lasciate al capitolo, per le persone che l'hanno messa nelle seguite, ricordate e preferite, grazie di cuore.
E, grazie ai lettori, che si son fatti sentire con le visite. 

Ora, passiamo al capitolo. Quanto mistero, eh? 
Louis e Seline erano migliori amici, la lei è un'assassina. 
Louis è vittima di bullismo.
Seline e la casa di fronte a quella di Louis, sono tornate.
Ecco i punti di questo capitolo, dite un po', che ne pensate?

A presto,
Giada.

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Capitolo 3
*** Three. ***


‘And I walked this line,
a million and one fucking times,
but not this time
I don't feel any shame,
I won’t apologize.’

-Jesus of Suburbia; Green Day
 


 

 

3
 

Afferrai la ricerca al volo e mi cimentai giù dalle scale, sperando di non fare ritardo.
Una volta chiuso Internet per le varie ricerche su Seline, m’ero messo un paio di cuffie alle orecchie e la musica dei Green Day mi aveva trascinato sino a farmi entrare in dormiveglia, come se mi fossi fatto di qualche sostanza, esattamente come Billie Joe.
Aprii la porta con il fiatone e mi trovai davanti James, lo scrutai con sguardo critico: non sembrava né incazzato né desolato di stare lì, ciò significava che avevo sentito il suono del campanello in tempo.
Tirai un sospiro di sollievo e gli porsi la ricerca.
«Grazie, Tomlinson.»
Inarcai un sopraciglio, basito per quelle parole. Non si degnava mai di dire grazie a uno come me, che si trovava a livelli inferiori rispetto ai suoi. Non ero degno di ricevere l’attenzione di uno popolare, potevo solo lasciarmi picchiare e sbattere al muro, consegnare e fare le ricerche per lui, prestargli e non chiedergli i soldi.
Ero come una macchinetta per i suoi svaghi, peccato che quelle abitudini si rigettassero sul mio corpo, facendomi comparire un alone viola intorno agli occhi o un labbro più grosso.
Che poi non capivo proprio cosa ci provasse a picchiare uno come me.
Ero abbastanza minuto e di una piccola statura, non potevo certo competere con il torace e le spalle larghe di James, per questo non capivo perché il biondo si divertisse tanto a sbattermi contro il muro.
«Non è un problema.» risposi con una scrollata di spalle e feci per richiudermi la porta alla spalle, ma quella venne fermata dalla mano pesante di James.
D’un tratto il cuore prese a battermi all’impazzata. Il ragazzo non si era mai permesso di picchiarmi al di fuori della scuola, lo faceva sempre in compagnia dei suoi amici, per acquistare maggior rispetto. Sapevo che avrebbe potuto perfino uccidermi con tutti gli spigoli che casa mia possedeva.
Deglutii e abbassai lo sguardo, «Carina la tua vicina.» disse malizioso.
Tirai un sospiro di sollievo e annuii all’affermazione del biondo, poi, non capendo dove volesse andare a parare lo fissai interrogativo.
«Secondo me, scopa pure bene.» ammiccò rivolto alla casa gialla.
Strabuzzai gli occhi incosciente che James stava facendo un discorso di sesso con me, ma non focalizzai nemmeno che la mia mente lavorava già alle parole del biondo.
Voleva portarsi a letto Seline. Solamente a quel pensiero una rabbia rimontò dentro me stesso, non potevo permetterglielo. Non sapevo cos’era diventata la ragazza in quegli ultimi anni, ma potevo immaginare che teneva ancora alla sua dignità e sperai tra me e me che non aprisse le gambe al primo che passava, eppure quei tatuaggi, quell’abbigliamento e quel piercing, facevano supporre tutt’altro.
Forse andava a letto con il primo che le capitava a tiro, ma non avrei mai permesso che si concedesse a James.
Giravano cattive voci sul suo comportamento a letto con le donne, e la sola idea del suo corpo così fragile e magro, dei suoi capelli sudati sulle guance, del rossetto sbavato avvinghiati a quell’essere che mi trovavo davanti, mi dava la nausea.
«Ci farò qualche pensierino. – Mi sventolò la ricerca sotto il naso e scese un gradino della mia casa, – Se non va bene, sai quello che farò.» minacciò riferendosi al voto.
Annuii e mi chiusi la porta alle spalle.
D’un tratto  mi venne una voglia incredibile di urlare.
Urlare la mia stanchezza al mondo, stanco perché non ce la facevo più. Il peso di sopportare tutti quei calci, quegli insulti era divenuto troppo. Urlare che odiavo studiare, perché pareva che dovevo farlo per me e non per gli altri.
Urlare perché non capivo più il senso della mia vita.
Che poi, un senso per me, non l’aveva proprio. Era possibile vivere senza un pretesto? Che cosa ci facevo al mondo se non avevo alcun amico, fratello, possibilità?
Vigliacco, avrei dovuto farla finita molto prima.
Salii in camera e mi buttai a peso morto sul letto, affondai la testa nel cuscino.
Volevo soffocare. Rimasi lì sino a che i polmoni non iniziarono a bruciare, cercando aria.
Le lacrime scendevano dal mio viso violente, alla ricerca di un qualche posto dove andare a insidiarsi.
I polmoni richiedevano aria, ma non me ne preoccupai, sarei rimasto lì fino a perdere i sensi, e poi trovare il paradiso.
Ma l’istinto di sopravvivenza prevalse e mi tolsi dal cuscino, annaspando e riempiendo la mia bocca di quell’aria così buona, nuova. Mi odiai per questo, non riuscivo a porre fine a una vita che non valeva un cazzo.
Una vita dove non avevo nulla, e niente avrei mai avuto.
Presi il cuscino e me lo appiattii sul viso, poi, gonfiai i polmoni e sputai fuori tutto ciò che provavo.
Rabbia, furore, incomprensione, desiderio, angoscia, stanchezza.
Urlai fino a che i polmoni non furono vuoti e il mio cervello un po’ meno pieno.
Poi, appoggiai il cuscino al letto, e m’alzai per andare a studiare, come se nulla fosse.
Come se tutto quello fosse normale.
 
La sera m’appoggiai al davanzale della finestra, come mia consueta abitudine, ma questa volta, notai la luce della camera di fronte a me, accesa.
Serrai gli occhi, cercando di cacciare pur quel pensiero della mia testa. Nel pomeriggio avevo ripensato alle informazioni che avevo trovato in Internet, a quello che disse mia madre e a ciò che io mi ricordavo, ed ero arrivato alla conclusione che tutto si univa in un unico tassello e tutto si scioglieva per un nuovo pezzo, ritornando a punto a capo. Quindi, optai per prendere quella situazione così com’era, accettare Seline, la casa e tutto.
Accettare così come gli abitanti di Santa Barbara avevano fatto.
«Ci si rivede, eh.» una voce poco distante colse la mia attenzione, alzai lo sguardo e la vidi lì, appollaiata sul muretto di camera sua con in bocca una sigaretta.
«Già.» mormorai, incapace di dire altro. Erano passati undici anni da quando ci eravamo visti l’ultima volta e le nostre vite avevano preso una svolta talmente diversa da trasformarci in estranei. Non saremmo mai più stati migliori amici.
«Come te la passi, Louis?» chiese aspirando forte da quell’assassina.
Abbassai il capo, cosa potevo risponderle? L’idea che non avevo più avuto una vita sociale da quando lei se n’era andata, mi pareva di offenderla in qualche modo e di mettermi in cattiva luce.
Ero solo uno sfigato, nulla di più e nulla di meno.
Non avevo mai baciato una ragazza, ne tantomeno fatto sesso.
Non avevo mai fumato e non mi ero mai drogato.
Non avevo mai bigiato a scuola e mai stato bocciato.
Non avevo mai preso la vita per divertimento da quando tutto cambiò.
«Non male, dai.» risposi incassando la testa nelle spalle.
«Non ti credo. – E mi indicò con l’indice e uno sguardo serio, – So riconoscere quando c’è qualcosa che non va.»
Scossi la testa e la fissai, mi guardava tranquilla, come una persona che aveva il cuore in pace e non aveva nulla da perdere.
Una di chi, anche se non lo ammetteva, ne aveva già passate sin troppe.
«Ci sono tante cose che non vanno.» affannai sorridendo amaro.
«Dovresti smetterla di cercare di soffocarti con il cuscino.»
Sbarrai gli occhi.
Come poteva sapere uno dei miei più grandi segreti? Lo facevo quando in casa non c’era nessuno e quando soprattutto, avevo la certezza che nessuno mi potesse vedere o obbligare a fare qualcosa. Lo facevo quando sapevo che se sarei morto, avrei avuto una lunga agonia e mi avrebbero trovato dopo un bel po’, perché se non accettavo la mia vita, era giusto che un po’ dovessi soffrire anch’io.
«C-come fai a s-saperlo?»
Scosse le spalle e buttò il mozzicone nel prato, «Intuito.»
«Mentre tu, come te la passi?» cercai di deviare discorso.
«Come una che si nasconde dal resto del mondo.» rispose ridendo.
Mi venne in mente l’articolo che diceva che probabilmente era scappata e aveva cambiato identità, ovviamente doveva pur sempre nascondersi.
«Da cosa ti nascondi?»
«Non sono cazzi tuoi.» rispose brusca e senza dire una parola, rincasò.
Certo che era proprio strana come ragazza, all’inizio sembrava volesse far conoscenza e poi, non mi diceva nulla di lei.
Evidentemente era un altro difetto che solo le donne possedevano.
Sospirai e rientrai in casa.
 
M’alzai di scatto dal letto sentendo il rumore di un oggetto che cadeva dalla scrivania.
Nella mia camera entrava la luce del sole e fuori si poteva sentire il cinguettio degli uccelli all’alba, era ancora presto per svegliarsi.
Mi guardai in camera spaesato fino a che notai una figura mingherlina posare sulla scrivania un libro, i suoi capelli verdi mi tranquillizzarono.
M’aveva fatto prendere un colpo e per attirare la sua attenzione, tossicchiai un paio di volte.
Si voltò subito, infuocandomi con lo sguardo e accusandomi di un qualche crimine all’interno della sua testa, come se io fossi la causa di tutto quel casino che lei stessa aveva combinato.
«Non volevo svegliarti.» si scusò brusca, poi adocchiò il mio petto nudo e sorrise maliziosa. Mi coprii imbarazzato con il lenzuolo e abbassai lo sguardo.
Non mi era mai piaciuto che le ragazze mi guardassero il fisico, sapevo che non ero messo male e avevano dei bicipiti ben formati, aggiungendo la pancetta che molte definivano adorabile. Nonostante fossi piccolo, avevo un bel corpo, ma non mi piaceva né ammetterlo né mostrarlo.
«Carino il tatuaggio.» disse azzardando al braccio.
Lo alzai tenendo il lenzuolo sul petto e m’osservai il cervo in cui, incastonate tra le due corna, vi era un cuore. Un piccolo sfizio che m’ero tolto l’anno scorso, al compimento dei diciotto anni.
Era come una lotta a rimanere sempre forte, invulnerabile, il cervo simboleggiava il coraggio e la voglia di continuare a vivere, mentre il cuore era il simbolo dell’amore.
Il cervo ero io, che dovevo essere forte, e il cuore i pochi che mi volevano bene.
Seline si avvicinò e mi afferrò il braccio, venni preso da un brivido, sia per le sue mani gelide sia per l’estrema vicinanza con la ragazza.
I suoi occhi neri scrutarono il tatuaggio con occhi esperti, accarezzando il viso del cervo e sorrisero mentre percorrevano il contorno del cuore.
Era dannatamente bello il suo tocco.
«Avanti alzati, devi andare a scuola. – E mi tolse la coperta di dosso, costringendomi a coprirmi solo con le mani, – E io voglio un croissant. Oh, andiamo, leva quelle mani, ho già visto un uomo nudo.»
Mi chiesi cosa c’entrasse il croissant con me, ma il viso della ragazza non ammetteva nessuna replica, così m’alzai e mi stiracchiai.
Uscii dalla camera con lo sguardo puntato addosso della ragazza, sospirai pensando che presto c’avrei dovuto fare l’abitudine.
Feci le solite azioni quotidiane, lavai i denti, il viso, mi guardai se dovevo sistemare la leggera e malmessa barba che contornava la mandibola, sistemai i capelli portandoli a un piccola cresta, e poi ritornai in camera, dove sul letto vi erano un paio di Jeans neri e una maglietta.
«Scusa se ho rovistato nel tuo armadio, ma ho fame.» dichiarò spostando vari libri dalla scrivania e mettendosi sopra, il suo corpo era talmente minuto da occuparne solo una piccola parte.
Mi vestii con gli abiti consigliati da Seline, la quale continuava a picchiettare sulle ginocchia con il solito ritmo che mi dava ai nervi.
Stupida abitudine ch’aveva.
«Fatto?» domandò speranzosa, la fissai e solo ora m’accorsi che indossava un paio di calzoni neri a vita alta in cui era infilata una camicetta bianca trasparente, lasciando visibile il reggiseno che racchiudeva un seno minuto, ai piedi aveva i soliti anfibi.
Annuii distogliendo lo sguardo dal suo seno e afferrata la borsa di scuola, uscii dalla mia camera.
Seline mi raggiunse trotterellando al mio fianco e una volta appoggiata alla stipite della cucina, la sentii dire: «Arrivederci, signora Tomlinson!»
«Ciao, cara! A dopo, Louis!»
Rimasi sorpreso nel vedere mia madre già sveglia, di solito mia madre si alzava nella mattinata tardi, dato che il suo lavoro era pomeridiano.
«Come sei entrata?» chiesi prendendo una via che portava a un bar.
«Ho lanciato dei sassi alla camera di tua madre.» rispose con nonchalance.
Sbarrai gli occhi sorpreso: «Potevi lanciarli da me.»
Scoppiò in una fragorosa risata, «Nemmeno una tromba potrebbe svegliarti, Louis.»
Incassai il colpo abbassando lo sguardo, aveva ragione.
Alcuni atteggiamenti non erano per niente cambiati negli ultimi undici anni.
Camminammo in silenzio fino all’arrivo al bar, esso possedeva degli infissi neri e una porta rosso fuoco con stampato sopra il numero civile, le pareti erano bianche e inondate di edera verde, il tutto gli dava un aspetto arretrato e misterioso, ma ognuno sapeva che faceva le migliori brioche del paese.
«Oh, finalmente.» sussurrò entrando.
Venimmo inondati da un dolce profumo di caffè misto a zucchero, e il vociare dei vecchietti dava un’aria sociale al bar. Ci accomodammo in un tavolo in disparte, vicino alla parete, dove potevi avere la visuale su tutto, compresa la strada.
Ordinammo e aspettammo in silenzio la colazione, mi sorpresi costatando che non provavo imbarazzo a stare con lei; di solito, quando mi trovavo solo con una ragazza, iniziavo a sudare e non riuscivo a spiaccicare parola, solo monosillabi, per non parlare del mio cuore che batteva sempre all’impazzata. Invece con lei, mi sentivo quasi al sicuro.
La colazione arrivò in breve tempo e gli occhi di Seline s’illuminarono alla vista del suo croissant.
Ringraziai il barista e iniziai a sorseggiare il caffèlatte.
«Stai bene?» domandò dopo aver dato due morsi.
«Al solito, tu?»
Posò il croissant sul tavolo e m’infuocò con lo sguardo: «Cosa intendi con ‘al solito’? Perché, Dio. – Esclamò, – Quando uno risponde ‘al solito’ vuol dire che il suo mondo va tutto una merda.»
Alzai le sopraciglia e risposi: «C’è solo un mondo.»
«Ognuno ha il proprio modo di vedere le cose e quindi si creano diversi mondi, e le tue, di cose, come sono?»
«N-normali, credo.» risposi nervoso, non mi piaceva parlare dei miei problemi. Era già difficile conviverci da solo, figuriamoci ammetterli con qualcun altro.
«Normali, già. Normale è il fatto che fai i compiti agli altri o è normale che tua mamma scopi tutte le sante sera con il tuo patrigno, o ancora, è normale che tu non stia bene.» sbottò.
M’avvicinai al suo viso, «Invece, è normale nascondersi?» urlai quasi, tanto che il bar scese in un silenzio gravoso e il chiacchiericcio riprese solamente quando il barista tossicchiò e ci fulminò con lo sguardo.
«Sai bene perché mi nascondo.» ringhiò tra i denti.
«Dovresti essere in prigione, ora.»
«Il mio posto è qui.» rispose sorridendomi e prendendo a bere il tè.
Scossi la testa, «E perché saresti qui?»
«Perché lo vuoi tu, Louis.» e mi sorrise furba.
La guardai sconcertato, non volevo assolutamente niente.
Volevo solo che tutta quella pazzia finisse e che avrei ricevuto delle risposte.
«Non penso che tu sia scappata perché io lo volevo.»
Appoggiò il braccio sul tavolo e m’indicò un segno più bianco rispetto alla sua carnagione candida, si trovava all’altezza del gomito e non era tatuato, anzi sembrava che i fiori dipinti sulla sua pelle, gli facessero da cornice.
Indicò con un dito quella riga bianca e sussurrò: «L’ho fatto perché abbiamo stretto un patto. – E mi fissò negli occhi, – O non ricordi chi ero undici anni fa?»
In quel momento seppi che la vera Seline era ritornata. 



Angolo autore. 

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Eccomi qui, bellezze. Voglio aggiornare ogni giorni dieci, perché mi piace. 
Mi piace il numero dieci, okay, la smetto. 
Comunque, vi ringrazio tantissimo per le recensioni che mi lasciate, i vostri dubbi riguardo a Seline mi fanno contenta, nel senso che grazie a voi, capisco che sto scrivendo davvero qualcosa di misterioso.
Quindi, grazie, grazie, grazie.

Ora, passando al capitolo.
Abbiamo James, e come forse vi aspettava, al di fuori della scuola è un ragazzo normale, gentile perfino.
Poi, scopriamo che Louis non è per niente contento della sua vita.
Non ho voluto mettere autolesionismo o cose varie, perché ormai è una roba naturale nelle Fiction, quindi ho messo lo 'sfogo cuscino'. 
Cosa ve ne pare di quella scena? 
E poi, Seline come fa a sapere che Louis lo fa? 
E la parte al bar, vi piace? 
Secondo voi, Seline è realmente tornata perché lo voleva Louis? 
Aprite le vostre meeenti! E, beh, per qualsiasi cosa, lasciate una recensione. c:

A presto, belli.

Giada.

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Capitolo 4
*** Four. ***


‘And I walked this line,
a million and one fucking times,
but not this time
I don't feel any shame,
I won’t apologize.’

-Jesus of Suburbia; Green Day
 


 

 

4
 

Entrai in classe con una sensazione di vuoto sulle spalle, non appena io e Seline avevamo lasciato il bar pochi minuti prima, lei si era come volatilizzata sulla strada opposta alla mia, costringendomi ad andare verso la scuola da solo, nel primo freddo d'ottobre.
Il tempo in quel periodo sembrava bipolare, alcuni giorni faceva un caldo torrido, altri era così freddo da avvolgerti in strati e strati di vestiti. Forse quei cambiamenti derivavano dal fatto che gli dei, su nel cielo, litigassero per scegliere il tempo che avrebbe dovuto fare.
A mio discapito, non vedevo l'ora che arrivasse l'autunno, era la mia stagione preferita e il rumore della pioggia che picchiettava sui vetri era una melodia così sublime che mi spingeva a creare nuovi spartiti per il mio pianoforte. Per non parlare dei numerosi colori che adottavano le foglie degli alberi, eccezione i biancospini che rimanevano perennemente verdi, gli altri alberi creavano un gioco così ricco di colori da lasciarti senza fiato e immergerti in quelle sfumature calde.
Sorrisi stringendomi nella felpa ch'avevo preso prima d'uscire di casa, vedendo il cielo cupo.
Mi sedetti al solito posto, infondo all'aula, vicino a Kathrine, la mia inseparabile vicina di banco negli ultimi due anni.
Presi a fissare la lavagna color nero, ben presto essa prese la forma di un paio d'occhioni scuri e una chioma verde, poi scomparve quando il professore scarabocchiò una formula matematica.
Scossi la testa. Che andavo pensando? Seline era ritornata, secondo lei perché io lo volevo.
Certo, negli ultimi undici anni non c'era stato giorno in cui non avessi rimpianto la sua scomparsa, ma fondamentalmente non avevo mai desiderato il suo ritorno, pauroso che potesse riaccadere.
E ora mi trovavo davanti a me una Seline che non vedevo da anni, con un solo taglietto a ricordarci ciò che eravamo un tempo.
L'idea di riniziare l'amicizia con lei mi esaltava e incupiva al tempo stesso.
Le motivazioni erano palesi.
Alla fine tutti se ne vanno, e tu marcisci con seicento rimpianti, ognuno dei quali non puoi realmente colmare e t'aggrappi alla stanchezza di vivere e all'istinto di sopravvivenza.
Cose che facevo ormai da tempo, e la mia routine stava diventando noiosa.
Che, dovessi provare a vivere?
Sarebbe arrivata sofferenza e delusione, e altri soffocamenti non riusciti con il mio cuscino.
Ero sbagliato, o diverso, sino al midollo.
Il filo dei miei pensieri venne tagliato dalla porta dell'aula che s'apriva.
La classe cadde in un silenzio curioso; il professore rimase con il gessetto in aria, sorpreso che non vi fosse alcun brusio proveniente dai suoi alunni e ignaro che la porta si fosse aperta; in cuor mio, immaginai una ragazza bassina, con i capelli verde acqua e svariati tatuaggi a coprirle le braccia a varcare la soglia.
Entrò un uomo tarchiato, i capelli luridi legati in un codino basso e piccolo, mani grandi in contrapposizione al suo corpo basso e alla leggera pancetta che si intravedeva sotto la divisa da bidello, un misero camice color arancione smorto.
«Salve, professore. – Elargì facendo due passi ampi alla cattedra, non rivolse nemmeno un cenno alla classe, – I ragazzi avranno l'ora buca la prossima ora, purtroppo non potranno lasciare l'istituto visto che richiediamo un comunicato dalla famiglia, seppur maggiorenni. – Lanciò un'occhiata d'avvertimento a noi, – Firmi questo, per favore.» chiese gentile all'insegnante.
Mi rasserenai, diritto era una delle materie che odiavo, e la professoressa non era da meno.
Vecchia e severa come non mai, un paio di giorni di riposo non avrebbero di certo placato il suo modo d'insegnare, ma avrebbero donato un po' di santa pace a noi studenti.
M'immersi nei miei pensieri non appena il bidello ebbe lasciato l'aula, e il professore rincominciò a scarabocchiare formule alla lavagna.
I miei occhi ghiaccio erano rivolti a quest’ultima, la mia mente a una chioma verde, mossa.
Riemersi dal mio oblio dopo una mezz’oretta, quando il professore lanciò il gessetto nell’apposito contenitore insieme al cancellino e guardò la classe.
«Allora, ragazzi. – Esordì guardandoci amorevolmente, – Per la prossima volta mi terminate gli esercizi riguardo questo capitolo e imparate le nuove formule.» scrisse qualcosa sul registro e iniziò a mettere via i suoi libri.
«Prof? – Chiamò Marika dalla seconda fila, il professore fece un cenno con la mano per lasciarla parlare, – Interrogherà?»
«No, finirò di spiegare il capitolo.»
La classe tirò un sospiro di sollievo, le interrogazioni di matematica erano delle peggiori. Se il professore sembrava volerci bene durante le ore di spiegazione, ci stramazzava al suolo nel momento dell’interrogazione, dove dovevi sudare sette camicie per assicurarti la sufficienza.
«Ragazzi. – Ci richiamò, – Penso che se non fate molto casino, potete andare in giro per la scuola, senza fare casino.» lasciò un’occhiata loquace al tavolo infondo, dove v’era seduto James.
La campanella trillò e metà della classe sciamò fuori, l’altra metà si mise a fare i compiti di matematica e io rimasi lì per dieci minuti, a fissare il banco vuoto di Kathrine scervellandomi.
Alla fine, m’alzai di colpo e volai fuori, feci il giro largo per arrivare sin dove volevo, entrai pure dal dietro per non farmi vedere da nessuno.
Camminai piano vedendo vari abiti da principessa, armature di guerrieri accompagnate da spade, alberi fatti con carta pesta, teloni di colori antichi ammucchiati a caso in un angolo e un grande tendone rosso fuoco a coprire il dietro delle quinte.
Non c’andavo molto spesso nel teatro della scuola, recitare non era il mio forte, ma quello possedeva un piano con tasti morbidi e un pedale perfetto per il mio piede, quindi la tentazione di posarvi le dita era estremamente alta e in più non avevo molto da fare.
Cacciai la testa fuori e mi ritrovai la cavea vuota, sospirai e m’avvicinai al piano. Il teatro era in penombra, vi era una sola luce a illuminare tutta la sala che proveniva da una porta in fondo, quindi sarei stato al buio. Non me ne preoccupai, conoscevo a memoria i tasti e lo spartito.
Tossicchiai e depositai le dita della mano destra su un Fa minore, mentre quella sinistra iniziava a suonare le note alte.
Serrai gli occhi, riportandomi alla mente lo spartito.
Era una rivisitazione di Rolling In The Deep, canzone che trovavo al dir poco fantastica, ma mi piaceva rivederla a modo mio. Il piede batteva a ritmo della batteria che si poteva sentire nel video e le mani scorrevano sulla tastiera veloci, esperte e serie, tranquille.
Muovevo le labbra cantando piano la canzone e sorridendo.
Il mondo intorno a me era letteralmente scomparso.
C’eravamo solo io, il pianoforte e la musica.
«Ma che bravo, il nostro checca Louis.»
Poggiai il mignolo su un Do, il quale doveva essere un Mi bemolle, facendo crollare tutta la canzone, come se fosse la ciliegina sulla torta.
Per una piccola cosa, la mia rivisitazione di Adele era andata a fottersi.
Non feci nemmeno in tempo a imprecare che il cervello si ricollegò al mondo esterno e il cuore mi saltò alla gola.
James.
M’alzai dallo sgabello e feci per andarmene, ormai doveva essere terminata l’ultima ora.
«Dove vai? – Sogghignò avvicinandosi al palco, – Non vuoi più suonare con il tuo fidanzatino?» disse riferendosi al piano.
Abbassai il capo, la storia del darmi del gay era iniziato alla fine dell’anno scorso, quando un crampo al polpaccio m’aveva fatto cadere pesantemente sul campo d’erba mentre giocavamo a calcio, lì, Morrison, un tipo alto due metri con due spalle altrettanto grosse, m’aveva dato scherzosamente della checca e poi m’aveva aiutato ad alzarmi.
Quell’episodio però, aveva fatto accendere il pallino rosso a James, che aveva iniziato a darmi del gay.
«Ho sempre saputo che eri gay. – Iniziò a blaterare, – Ma questa ne è la conferma, solo le femminucce suonano il piano.» e si mise a ridere con la sua aspra risata.
Avrei voluto ribadire che i più grandi musicisti dei secoli precedenti erano uomini, e nemmeno gay. Che poi, onestamente, non ci trovavo nulla di male nell’essere gay, ognuno a letto fa ciò che vuole, con chi vuole. Avrei voluto dirgli che Mozart aveva iniziato a suonare a soli dodici anni, ed era stato un prodigio musicale, oppure che Beethoven era sordo, ma riusciva a comporre musica straordinaria, per non parlare di Bach, Debussy, Rubinstein e molti altri.
Tutti maschi, ma la testa di James era solo un pallone vuoto e non era il caso di riempirla con aria superflua.
Lo fissai inespressivo e girai sui tacchi, deciso ad andarmene a casa.
Il mio polso venne afferrato da una presa ferrea, mi voltai bruscamente e sbattei la testa sul petto di Jackson, fedele compagno di James, sul suo volto vi era un ghigno terrificante.
«Non t’hanno insegnato che è maleducazione voltare le spalle a chi ti sta parlando, Tomlinson?»
M’irrigidii e mi maledissi per la stronzata ch’avevo appena fatto, subito mi resi conto dei piani di James. Abbassai il capo riluttante e attesi.
Il colpo fu fulmineo, così come venne il dolore.
Partì dalla testa e m’arrivò sino alle dita dei piedi, il fiato mi mancò per un millesimo di secondo, alzai il capo sentendo la guancia pulsare.
Il biondo caricò, mi piegai su me stesso, quando il ginocchio colpì il mio torace.
L’aria mancava anche se il teatro era vuoto.
«Ah, già. – Sorrise mentre Jackson mi teneva le braccia sulla schiena, – Tuo padre è scomparso, e mh, tua madre s’è trasformata in una sorta di puttanella.»
Stronzo.
Gemetti quando il colpo cadde per la seconda volta alla tempia, una nuova scarica di dolore mi prese tutto il corpo. Era da un po’ che James non mi picchiava così voracemente.
«Tra l’altro, la tua ricerca era perfetta.» e tirò un ultimo pugno alla mia faccia, poi se ne andò.
E io rimasi lì come una merda, come al solito, steso sul pavimento.
Un paio di lacrime mi rigarono il volto, rabbiose.
 
«’Fanculo.» ringhiai lanciando lo zaino sul pianoforte al muro di camera mia.
Stronzo di merda.
Non era la prima volta che James rimarcava sulla mia situazione famigliare, mia madre era un’amica stretta della zia del biondo, e più d’una volta si erano incontrare anche con la madre.
Mia madre era una che parlava molto, soprattutto della sua vita.
Così James era venuto a sapere di mio padre, e del mio patrigno.
Mi tastai la testa, una fitta di dolore mi partì da tutte le parti. Mi strinsi le labbra a sangue per evitare di gemere dal dolore.
Un po’ di dignità, Louis.
Il cuscino mi chiamava inesorabilmente sul letto, ma pure il dolore al capo necessitava di placarsi.
«Che cazzo hai fatto alla faccia?»
M’irrigidii di colpo, possibile che era da tutte le parti quando la situazione non era delle migliori?
«Vai via, Seline. Non è il momento giusto.» e senza fissarla in volto, me ne uscii da camera mia.
Sentii piccoli passi seguirmi verso il bagno, iniziai a innervosirmi. Non volevo che mi guardasse in quel modo, lei non lo sapeva quello che mi facevano a scuola e non doveva nemmeno saperlo.
«Capisci il senso delle parole ‘vai via’?» domandai entrando in bagno e aprendo il lavandino.
«Bell’accoglienza, Louis.» rispose senza il minimo segno d’offesa.
Alzai un sopraciglio, quella ragazza era proprio strana. S’intrufolava sempre quando volevo rimanere solo con me stesso, era come se avesse appiccicato un radar che attirasse quei momenti.
«Vattene.» farfugliai riempiendo con dell’acqua le mie mani a coppa.
«Se sei così scontroso anche con chi ti mena, è ovvio che sei soggetto a risse.» disse con nonchalance poggiandosi alla vasca e perforandomi con il suo sguardo scuro.
«Chi ti dice che mi hanno picchiato?» soffiai, era impossibile che lo sapesse.
Le risse tra me e James, si svolgevano solo a scuola, davanti a occhi di studenti che sapevano ch’ero soggetto a prese di mira e si divertivano a vedermi picchiato da quel bastardo.
Gli altri, invece, quando vedevano il biondo in corridoio, si volatilizzavano come mosche.
«Certo, perché sei inciampato nel terreno e caduto su un palo mentre tornavi a casa.» rispose ovvia, mi morsi un labbro e scossi la testa, sorpreso che avesse usato una delle scuse che rigettavo a mia madre.
«E’ andata così, vero Louis? – Chiese senza espressione, – Sono certa che il comune di Santa Barbara sia disposto ad ascoltarti per togliere di mezzo quel palo. – Spiegò, – Mi hanno ridato la casa senza problemi, un palo non è certo un affare disastroso.» 
«Non ci sono pali, qui.» sussurrai.
La vidi alzarsi e poggiare una mano sul mio braccio, era fredda, congelata.
«Lo so. – Rispose, e mi diede una leggera pacca sul braccio, – Vai in camera.»
Feci come mi disse, incosciente di contraddire.
Ritornò con un paio di bende, una pomata, dei cerotti e un scotch medico.
Non chiesi dove li avesse trovati, troppo intento a osservare le sua labbra concentrate e cosparse di burrocacao a pochi centimetri dai mio occhi.
Il piercing nero incastonato nel labbro superiore, gli dava un'aria austera, invitante quasi.
Erano così morbide, sembravano persino carnose.
Seducenti.
Scossi la testa.
«Sta’ fermo, cazzo.» esclamò e ripose il fazzoletto sulla tempia, medicandomi con del disinfettante.
Chiusi gli occhi, offuscando la vista sulla sua bocca, e rilassandomi al tocco della sua mano fredda sul mio petto e il tocco pacato del fazzoletto sulla mia testa.
Mi fasciò la testa con una benda, girandomela un paio di volta intorno al capo, per poi fermarla con dello scotch.
«T’ha picchiato da qualche altra parte?»
Il torace.
Non era il caso che mi vedesse il petto per la seconda volta quel giorno, non era proprio il caso.
«No.» risposi massaggiandomi la tempia e abbassando lo sguardo.
«Va bene, dov’è che t’ha picchiato?»
Non era possibile, mi leggeva in testa?
«Da nessuna parte.» risposi tenendo lo sguardo sulle mie scarpe e passandomi la lingua sulle labbra.
«Quando menti ti tocchi la testa, abbassi lo sguardo e ti passi la lingua sulle labbra. – Spiegò, – Alcune abitudini non si perdono mai.»
«Al petto.» m’arresi.
Mi tirò quasi su di peso e mi fece distendere sul letto, infine si mise davanti a me e tirò su piano la maglietta.
Mi trovavo in un silenzio imbarazzante che provavo solo io, lo sguardo di Seline percorreva i miei pettorali per poi scendere sulle lieve pancetta, valutandone la gravità.
Mi stava innervosendo tutto quel silenzio, non ero abituato a trovarmi in compagnia di una ragazza, da solo, in camera mia, e quella situazione mi faceva offuscare la mente facendomi fare pensieri poco casti data la situazione.
Una mano gelata si posò sul petto, schiacciò e lanciai un gemito: «Porca puttana, fa male!» urlai quasi.
«L’ho notato.» rispose sorridendomi sfottente.
Imprecai nella mia testa, e mi mossi sul letto nervoso.
«Sta’ fermo, ti serve un po’ di crema anche qui.»
Così iniziò a spalmarla, il suo tocco era così soffice da non sentirlo quasi, la mia pelle assumeva la pomata silenziosamente con un effetto calmante.
Era così bello il suo tocco fresco e curatore.
Seline avrebbe potuto continuare per l’eternità con quel ritmo soave, che non mi stancherei mai.
«Louis!»
M’alzai di scatto e strabuzzai gli occhi.
«Signora Tomlinson! – Scattò in piedi Seline, – Nulla di preoccupante! Finita la scuola, ho portato Louis a una pista di pattinaggio, ma suo figlio non sa pattinare. – Spiegò con voce sicura,– E quindi è caduto e ora lo stavo medicando.» concluse con un sorriso a trentasei denti.
Mia madre si tranquillizzò sulla porta, poi annuì e disse: «Vuoi una tazza di tè, cara?»
«Volentieri, signora.» rispose sempre sorridendo.
«Tu stai bene?» domandò rivolta a me, annuii freneticamente incapace di formulare una frase senza dire una qualche stronzata.
Una volta che mia madre fu uscita, Seline tornò come prima. Occhi inespressivi e sguardo serio, potei notare però le sue spalle rilassarsi.
«Pista di pattinaggio?» chiesi risoluto, abbassandomi la maglietta.
«Sempre meglio che un palo, no?» ribatté.
«Sempre meglio. – Mormorai tra me e me, poi m’accorsi d’una cosa,– Come hai fatto a entrare?»
«Finestra.» disse con una scrollata di spalle, volsi lo sguardo a quest’ultima, ma era chiusa.
Non feci altre domande, consapevole che avrei formulato altre ipotesi strambe sul suo arrivo in città e la casa ricostruita in poco tempo.
Mia madre entrò in camera e ci lasciò il tè ai piedi del mio letto.
Seline s’affrettò a prendere sia la sua che la mia, dopo che me l’ebbe passata, si accomodò sulla scrivania.
Come quella mattina notai quanto fosse piccola.
«Chi è lo stronzo, quindi?» chiese sorseggiando il tè bollente.
Incrociai le gambe e abbassai lo sguardo.
Da una parte volevo dirglielo, dall’altra no.
Ma se le avrei mentito, l’avrebbe scoperto. Aveva ragione nel dire che alcune abitudini non si perdono. Rimasi a fissare il tè oro per diversi minuti, torturandomi sulla risposta. Mi sorpresi vedendo che aspettava la mia risposta senza problemi.
«Si chiama James. – Risposi e feci un sorriso amaro,– Non è una novità che mi picchi.»
«Perché?» domandò.
«Sono strano, e diverso.»
«Non è una spiegazione sensata, Louis. – Rispose,– Ognuno è diverso a modo proprio.»
«Per lui è un motivo molto accattivante, me ne sto sempre per conto mio.» sputai fuori.
«Non hai amici?» chiese con un leggero tremito della voce.
Scossi il capo: «No.»
Si rizzò sulle gambe, e lasciò la tazza sulla scrivania, s’avvicinò e la sua mano sfiorò la mia guancia in una leggera carezza.
Prima d’uscire dalla stanza, alzai lo sguardo. Rimasi pugnalato dalla sofferenza che emanava dai suoi occhi, quasi sempre spenti. 



Angolo autore.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Ed eccomi qui dopo dieci giorni! 
Prima di tutto: Happy Birthday Leeyum c: che abbia già vent'anni fatidico a crederlo, ma è okay. 

Bene, la prossima volta che dovrei aggiornare, dovrebbe essere l'8 settembre, ma in quel periodo sarò al mare prima dell'inizio della scuola, quindi, la cosa dipende da voi, l'ultima volta ho notato che le recensioni sono diminuite, qualcosa non va? Devo cambiare qualcosa? Ragazze/i, so che questa storia è un mistero assoluto, e può darvi anche alla disperazione, ma ho in mente di non fare molti capitoli, credo ovviamente, quindi beh, dovrete tenervi questo mistero dentro di voi sino alla fine, solo alla fine si capirà il tutto.
Ovviamente se ci sono problemi ditemelo, stavo anche iniziando a pensare di cancellarla, ci sono poche visite, le recensioni sono diminuite e i preferiti, seguiti, etc, non aumentano.
Ditemi voi.
Quindi, se noto che la storia piacerà, la continuerò, altrimenti la cancellerò. 

Okay, ora passiamo al capitolo!
Vediamo Louis che va a scuola, e pensa a Seline. Secondo voi s'innamorerà?
E Seline? Ricambierà il suo amore?
Poi, poi abbiamo la mossa di James che lo picchia.
Louis arriva a casa e chi si ritrova? Seline. (:
Che ne pensate della loro conversazione? La verde (?) sa sempre più cose riguardo Lou, lo tiene d'occhio?
E dell'ultima battuta? Che gli occhi di Seline sono mutati, cosa pensate?

Ahw, v'avviso che se il prossimo capitolo verrà pubblicato, troverete un capitolo interamente dedicato a Seline. Il pov's sarà scritto in terza persona, ma comunque dedicato a lei. 

A presto,
Giada.

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Capitolo 5
*** Five. ***


‘And I walked this line,
a million and one fucking times,
but not this time
I don't feel any shame,
I won’t apologize.’

-Jesus of Suburbia; Green Day


 

 

5

Non si era mai sentita così giù di morale da quando era arrivata a Santa Barbara. Ben presto Seline aveva capito che i cittadini di quella stupida città non si ricordavano di lei, e se pronunciava il suo nome, solo un vago ricordo riempiva i loro occhi ciechi. Ovviamente non era passata inosservata nell’ultimo anno, una ragazzina con una chioma verde, un piercing e svariati tatuaggi non erano cose da poco, soprattutto se confermava che veniva dalla periferia della città, ma il suo rispetto fu nei cuori di tutti i cittadini che dopo svariati mesi, v’avevano fatto l’abitudine a quello scricciolo di ragazza.
Dunque Seline aveva preso sempre meno in considerazione gli abitanti di Santa Barbara, facendoli ben presto passare infondo alle sue necessità, luogo dove non avevano nessuna considerazione e quindi non contavano nulla per lei, o per il suo cuore.
Quindi, il suo morale era sempre stato positivo, anche se esprimeva al mondo la solita faccia inespressiva.
Però, da quando quel ragazzino era rientrato nella sua vita, il suo morale era calato molto, avendo degli alti e bassi.
Alcune volte Louis le dava altamente sui nervi, costringendola a mantenere i nervi saldi per non sbatterlo al muro e urlargli in faccia di vivere un po’ di più.
Quella sera, il suo umore era molto basso.
Odiava immaginarsi Louis preso a calci da James, Seline conosceva James e sapeva com’era il tipo.
Alto. Biondo. Occhi azzurri.
Un bullo di prima categoria.
Ma soprattutto odiava vedere che Louis non reagiva ai suoi pugni od ordini, anzi, proseguiva con il suo ciclo e gli consegnava una ricerca fatta prontamente. Doveva insegnare a Louis a ribellarsi.
Era un po’ di giorni che ci pensava, ma in quel momento non era quello che la preoccupava e per cui stava male.
 
«Non hai amici?» chiese con un leggero tremito della voce.
«No.» e lo vide scuotere il capo con nei suoi occhi ghiaccio un leggera accusa.
 
Sbatté la porta di casa e si buttò sulle scale, sino ad arrivare al piano superiore, s’accomodò in un vano della finestra accendendo una sigaretta e scrutando la via desolata della città.
Doveva riflettere.
Louis non aveva amici. Da quanto non li aveva? La risposta le arrivò alle orecchie inattesa, senza esitazioni. Seline sapeva che aveva causato un grande trauma nella vita di Louis da quando ebbe ucciso quel bambino, undici anni prima, ma non si sarebbe mai immaginata che il castano non sarebbe riuscito a riprendere le redini della sua esistenza.
Si sentì addosso il peso di quello che aveva commesso anni prima e si maledisse per ciò, era una cosa a cui non rivolgeva mai il pensiero, ma quel ragazzo la costringeva a ritornarci.
‘Fanculo. Ringhiò a sé stessa.
La cosa che più non capiva era il perché stava così male da quando aveva scoperto che Louis non aveva più amici, la lasciava stupefatta e vuota.
Il senso di colpa le invase il cuore, costringendola ad aspirare più voracemente dalla sigaretta.
Doveva far qualcosa, ma non sapeva cosa.
La soluzione arrivò dopo quarantadue minuti e tre sigarette fumate di fila.
Dimenticare.
Era più un aggrapparsi agli specchi della sua esistenza, ma sapeva che per quella notte poteva accantonare il suo cervello.
Accese lo stereo a palla su un canale in cui trasmettevano musica degli anni ’80, l’aveva trovato mentre ridipingeva casa. Solo quando fu nella doccia con l’acqua fredda che carezzava il suo corpo si rese conto che erano quasi le dieci di sera e l’avrebbero potuta denunciare per disturbo pubblico, scosse le spalle.
Un giorno di galera non l’avrebbe certo segnata.
Uscì e si vestì con un paio di Jeans neri strappati, una canottiera bianca troppo grande per il suo corpo mingherlino che metteva in evidenza i suoi seni piccoli, ai piedi i soliti anfibi neri e senza preoccuparsi del freddo, sgattaiolò fuori da casa.
Il tragitto se lo ricordava alla perfezione.
«E ora sempre dritto.» disse tra sé e sé facendo un sorriso sarcastico.
Erano circa un paio di mesi che non c’andava, molto probabilmente gli altri l’avranno data per morta, visto che di solito era sempre puntuale.
Il fatto era ch’aveva promesso a se stessa di non andarci finché non avesse scoperto qualcosa in più su Louis, ma ciò che aveva trovato aveva condannato il suo morale a tornare là.
Vide un leggero fuoco in lontananza e Seline non poté non ruotare le labbra in un sorriso sollevato.
I ragazzi erano seduti in cerchio, ridendo e scolandosi qualche birra.
Riconobbe l’inconfondibile chioma arancione di Heidi, soprannominata ‘Hei’, e il suo dilatatore gigante sul lobo destro, da lontano poté scorgere il cappotto in pelle marrone accompagnato da un paio di legging neri e delle converse, indumenti che cambiava di rado. Seline aveva supposto molto spesso che la ragazza avesse una tripla copia di quei vestiti.
Il suo occhio si posò sulla chioma riccia di Mike, voltato di spalle, le quali erano coperte con una camicia a quadri da boscaiolo.
Infine ricordò Debhora, Sharon, Gianni e Billie.
Sorpassò le sterpaglie in consueto silenzio, non voleva che gli altri s’accorgessero del suo arrivo prima che lei l’avrebbe annunciato.
Si fermò dietro un albero e osservò il gruppo di ragazzi ridere e scherzare, Seline notò che le maniche delle magliette della maggior parte di loro erano risvoltate all’indietro. Imprecò da sé sperando che ne avessero avanzata un po’.
Sbucò dall’albero e s’avvicinò lentamente, gustandosi lo sguardo stupefatto di Heidi mentre la rivedeva dopo molto tempo.
«’Sera.» disse secca, accomodandosi su un pezzo di coperta posta sull’erba umida.
«Porca puttana! – Urlò Mike al suo fianco, – Eline!»
«Seline.» corresse quest’ultima, non apprezzando il soprannome di merda che il riccio le aveva attribuito.
«Pensavamo fossi morta.» sussurrò Heidi sorridendole di cuore.
Seline ricambiò senza espressione e mormorò: «Ho avuto un po’ da fare.»
«Avevamo più roba per noi, così.» disse sarcastico Gianni.
Gianni. Seline sperava che fosse stato lui a morire, non le era mai andato a genio quel ragazzo.
Possedeva un sarcasmo che le faceva alzare i nervi a fior di pelle, e poi era stronzo, fottutamente stronzo e bastardo.
«Seline è sempre la benvenuta.» commentò Sharon, ‘la dolce’ così l’aveva soprannominata la ragazza dai capelli verdi.
«E si può sapere cos’hai fatto?» chiese Billie poggiando i gomiti sulle ginocchia e spostandosi verso la ragazza. ‘Sergente Watson’, Billie, capelli corti quasi rasati, occhi verde chiaro e viso ovale, non si faceva mai i cazzi suoi.
Seline molte volte era riuscita a deviare i suoi discorsi, altre era stata costretta a tirargli un calcio nelle palle per farlo zittire, dopo un po’ il ‘sergente Watson’ aveva compreso che Seline era una ragazza riservata, ed era bene lasciarla da sola.
«Avrà scopato come una puttana.» sghignazzò Gianni.
Nessuno rise alla sua squallida battuta.
«Se anche fosse, Gian? – Disse secca Seline, – A te nessuna te la darebbe, mentre la mia vagina piace molto, a quanto pare.»
Gli occhi neri di Gianni si ridussero a due fessure, s’alzò di colpo e afferrò un qualcosa caduto a terra, poi scomparve nel nero degli alberi.
«Birra?» domandò Debhora, ‘aggiustatrice’ Seline l’aveva soprannominata in quel modo perché era sempre la prima a profilare parola finita una discussione.
Seline afferrò una bottiglia e iniziò a trangugiare l’alcolico, la birra era una delle sue bevande preferite. Semplice, amara e calda. Dava soluzioni che nemmeno il Jack Daniels più forte avrebbe saputo dare. Mise un post-it nel suo cervello, ripromettendosi di comprare un paio di birre quando avrebbe fatto la spesa per la settimana.
«Come te la passi, Sel?» domandò il ‘sergente Watson’.
Seline arricciò il naso a sentire quell’appellativo, non potevano semplicemente chiamarla Seline? Diamine.
«Non male. Tu, Billie?» chiese poggiando la bottiglia vuota a terra.
«Ho trovato un lavoro, cara mia.» sorrise orgoglioso.
Seline alzò un sopraciglio, fino a due mesi fa, Billie illudeva al fatto che si sarebbe fatto mantenere da suo padre per i prossimi…quarant’anni.
Alzò una mano e batté un fragoroso cinque sulla mano del ragazzo, complimentandosi senza sentimento.
Heidi la scrutava da testa a piedi, cogliendo il minimo dettaglio che non andasse nella ragazza davanti a lei.
Seline se ne accorse subito, ma la lasciò fare, consapevole che ‘l’arancia’ non avrebbe trovato alcuna risposta, sapeva tenere per lei i suoi segreti.
Billie le porse un drum rollato con cura, lo accese con l’accendino di Mike e iniziò ad aspirare il fumo.
«Non ti senti con nessuno?» domandò Mike portando inesorabilmente la mano sul fondoschiena di Seline, la ragazza ebbe un leggero brivido a sentire la mano calda del ragazzo sulla sua pelle fredda.
«No.» rispose circoncisa.
«T’andrebbe una scopatina?» mormorò iniziandole a baciare il collo.
Seline rimase impassibile, Mike le era mancato sotto tutti i punti di vista. Sia come amico sia come amante. Il sesso con il riccio era eccitante e soddisfacente, molte volte in quei due mesi era stata tentata di chiamarlo e farlo venire alla sua casa per una botta e via, ma aveva stretto i denti e proseguito il suo percorso.
Ma, ora che la bocca calda e seducente di Mike scorreva sul suo collo, e la sua mano massaggiava il suo gluteo, Seline si sentiva vulnerabile.
Aveva pur diciannove anni, si necessitava di scopare a quell’età.
Seline, però, odiava essere vulnerabile.
Si spostò di lato e sussurrò: «Non è te che cerco, stasera, Mike.»
Il riccio si staccò subito e vide sul suo viso un’espressione desolata.
«Mi serve.» biascicò Seline.
«Da quanto non lo fai?» domandò il ragazzo scrutandola, i suoi occhi azzurri brillarono in controluce con il fuoco.
«Due mesi e cinque giorni.» ringhiò dopo aver fatto un breve calcolo.
«I soldi?» chiese prudente.
«Coglione, mi tasti il culo e non li trovi?» sorrise la ragazza.
Mentre la mano del riccio si riempiva di cento dollari, quella di Seline si riempiva con una bustina.
 
Fece la strada di casa correndo quasi, inciampò un paio di volte nella strada.
Il drum le faceva sempre quell’effetto, per la mente di Seline la sigaretta rollata a mano era più forte di uno spinello.
Quando vide la casa gialla in lontananza, le parve di scorgere il paradiso in cui non credeva.
Entrò con il cuore che le batteva all’impazzata, le mani le tremavano leggermente.
Due mesi e cinque giorni.
S’asteneva da tutto quel lasso di tempo. Era necessario ricaderci?
Sì, lo era.
Seline odiava provare qualsiasi sentimento nei confronti degli altri. Da quando era scappata dal riformatorio aveva promesso a se stessa di non affezionarsi a nessuno, l’avrebbe condannata.
Era una promessa che voleva mantenere, una delle tante.
Quella mattina però, aveva mostrato il simbolo a Louis.
Louis.
L’immagine dei suoi occhi ghiaccio le persuase la mente, non li ricordava così belli.
Doveva aiutare quel ragazzo, e per aiutarlo doveva farlo senza sentimento. Sarebbe stata la sua migliore amica, se necessario.
L’amore di Louis avrebbe funzionato anche per lei, sapeva che il ragazzo quando amava lo faceva per davvero.
Seline non aveva mai sniffato prima, l’aveva sempre trovata una cosa complicata.
Aprì la bustina che le aveva dato Mike e ne versò il contenuto sul tavolo lustro da cucina.
Ottanta grammi di pura cocaina.
Sghignazzò all’idea che ci stava rientrando.
Prese un foglietto e l’allineò in tre righe perfette, facevano quasi paura con il riflesso della luna. Il bianco era accecante.
Rollò lo stesso foglietto che aveva usato per allinearla e lo strinse tra l’indice e il pollice.
Guardò il foglietto e la droga, un paio di volte.
Dimenticare.
Si chinò e fissò la cocaina, portò il foglio al naso e poi serrò gli occhi.
Sospirò compiaciuta e scoccò la lingua sul palato.
La testa le iniziò a ruotare vorticosamente intorno.
Proruppe in una risata di scherno pensando che avesse funzionato, e s’avvicinò al lavandino dove bevve un bicchiere d’acqua.
Il lampadario era sul pavimento, e le sedie sul soffitto.
Seline scosse la testa.
Ora anche il tavolo era sul soffitto.
Si mosse a tentoni sino alla sala, dove si buttò sul divano, un sorriso sornione veleggiava sul suo viso mentre gli occhi, dilatati in quel nero notturno, fissavano inespressivi davanti a lei.
Fissò per dieci minuti il quadro appeso alla parete girare sempre più velocemente, in un circolo.
Seline ammirava quel pezzo di carta, e sorrideva.
E intanto, dimenticava.



Angolo autore. 

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Vi devo chiedere scusa per due cose: la prima è il ritardo. Sono partita per sei giorni al mare e non ho potuto aggiornare, già aggiorno ogni morte di papa, figuriamoci questa volta.
Mi scuso enormemente, davvero.
Però, mi avete regalato delle bellissime recensioni, quindi, continuerò questa storia, sì sì, solo che dovete avere un po' di pazienza.
La seconda cosa per cui devo scusarmi è come ho impostato la pagina: il fatto è che mi sono letteralmente scordata come si metteva al centro e quindi ho dovuto metterlo così, per di più, efp ha cambiato il suo modo del codice html, quindi peggio ancora.
Spero che quest'impostazione vi piaccia comunque. c:

Ora, passiamo al capitolo!
Punto di vista di Seline! V'avviso che ci saranno altri capitoli con il suo pov's, ma non molto, infondo, il protagonista principale è Louis.
Allora, qui, scopriamo qualcosina in più sulla ragazza misteriosa.
Come ha fatto arrivare a Santa Barbara, il suo carattere.
Ciò che le causa Louis, ahw, quante robbe.
E poi, la sua compagnia! Che ve ne pare? Heidi? Mike? E Billie, Gianni, Debhora e Sharon? 
Seline alla fine si droga, lo rifarà per voi? 

Fatevi sentire, bellissime. c:

A presto,

Giada.
 

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