Rage and Fire

di GoneWithTheWind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


RAGE AND FIRE

Dedicata al mio migliore amico, la persona che mi ha sempre sostenuta e che è la mia continua fonte di ispirazione.
                                                                               
                                                                                             CAPITOLO I
                                        

I suoi occhi erano iniettati di sangue ed era palese che la rabbia lo avesse reso cieco. Guardò istintivamente le sue mani: macchiate di sangue e, allo stesso tempo, di un crimine che avrebbe segnato la sua vita. Le pulì sulla tunica e guardò sprezzante gli occhi vitrei della vittima:” Ti sta bene, lurido bastardo!” con un colpo gli aprì in due il cranio e fece schizzare una grande quantità di sangue anche sul suo volto “Nostro padre ha sempre preferito te in qualsiasi cosa, ma non lascerò che tu t’impossessi del suo patrimonio! Saprò farne un uso certamente migliore del tuo!” Con un altro potentissimo colpo gli staccò la mandibola e restò per un attimo a contemplare la sua opera sanguinaria “Divertiti nell’Ade, cane!” sghignazzò soddisfatto. Non provava alcun rimorso, da tempo l’odio verso suo fratello logorava il suo animo e avvelenava il suo cuore. La rabbia stava via via affievolendosi, come una fiamma che in un primo tempo divampa e man mano diventa sempre meno vivida. Sembrava non averne ancora abbastanza, perciò colpì nuovamente e sempre più violentemente il cadavere, facendolo a pezzi. Recatosi sulla scogliera, affidò i resti al mare, le cui onde s’infrangevano con potenza sugli scogli: un ghigno soddisfatto s’impossessò delle sue labbra; chi avrebbe mai potuto scoprire ciò che era successo quella notte?

“Επιστροφή,Τισιφονε, τον Όλυμπο, σας περιμένει”
 
Iris si svegliò di soprassalto: non era il primo incubo che faceva e di certo non era il primo a tormentarla. Uno strano calore avvolgeva le sue membra e una strana rabbia, apparentemente immotivata, faceva battere sempre di più il suo cuore: perché continuava a sognare certi atti efferati, perché quella rabbia diveniva sempre più forte, ma soprattutto perché quella frase?
 Diede un’occhiata alla finestra e si accorse che il sole era appena sorto, tra qualche ora si sarebbe recata alla fermata del bus e sarebbe cominciata una nuova giornata scolastica. Ciabattò verso la cucina in cerca del caffè, ma qualcuno l’aveva preceduta.
“Buongiorno tesoro, dormito bene?”
“Ciao mamma, buongiorno anche a te.”
“Cosa ci fai in piedi a quest’ora? Non sono nemmeno le sei!”
“Questa mattina mi sono alzata prima.” troncò lei. Quella rabbia non era ancora svanita del tutto, ma non voleva coinvolgere sua madre.
“Va bene, tesoro. Preparo la colazione, va bene?” Sua madre riusciva a comprenderla anche in quei momenti e molte volte Iris confidava in quella sua sconfinata pazienza. Le diede un bacio e andò a prepararsi in attesa che la colazione fosse pronta. Arrivata in cucina, vide suo padre sorseggiare una tazza di caffè impegnato, come al solito, a leggere il giornale, sua madre alle prese con i cornetti e i suoi fratelli maggiori, Sergio e Fabio che discutevano della partita che avrebbero dovuto giocare il pomeriggio stesso. La colazione senza dubbio era un momento caotico, ma allo stesso tempo intriso di quel calore familiare che rassicurava Iris anche dopo i suoi incubi ricorrenti.

Dopo aver discusso della giornata che avrebbero dovuto affrontare e dei vari impegni, Iris si alzò da tavola, baciò i suoi genitori e assieme ai suoi fratelli s’incamminò alla fermata del bus. Casa loro non era molto distante dal centro, ma per arrivare a scuola avrebbero impiegato più tempo del previsto, perciò preferivano prendere il bus. Sergio era all’ultimo anno di ragioneria, mentre Fabio al penultimo, entrambi frequentavano lo stesso istituto e la loro fermata era prima di quella di Iris, la quale frequentava il terzo anno di liceo scientifico. Sul bus il tempo scorreva molto velocemente e la ragazza soleva ascoltare musica, osservando dal finestrino il risveglio della città.

Arrivata all’ingresso, si fermava come d’abitudine al chiosco adiacente alla scuola, in attesa dei suoi amici; di solito, il primo ad arrivare era sempre Davide, seguito da Giada, Alessandro, Gabriele e Silvia e insieme aspettavano il suono della campanella chiacchierando.
“Ciao Iris! Oggi inizia un’altra estenuante giornata di scuola! Sei pronta?” disse sarcastico Davide.
“Guardami bene, Davide: ti sembro pronta?” replicò sorridendo e cercando di trattenere uno sbadiglio.
“Dai Iris! E’ risaputo che alle otto di mattina nessuno studente sano di mente è pronto ad affrontare una giornata di scuola e quando, anzi SE riesce a riprendersi è suonata già la campanella dell’ultima ora!” disse Silvia.
“Hey ragazzi, vi andrebbe di vederci dopo la scuola a casa mia? Potremo studiare insieme e magari guardiamo anche un film!” propose entusiasta Alessandro.
“Certo Xander, sai che non posso rifiutare questo genere di proposte!” rispose Gabriele.
Accettarono anche gli altri e dopo pochi minuti suonò la campanella. Stranamente, quelle cinque ore passarono molto velocemente e Iris e i suoi amici stabilirono l’appuntamento per quel pomeriggio davanti al cancello della scuola, prima di prendere strade diverse.

Iris e Davide percorrevano la stessa strada e aspettavano sempre i canonici venti minuti davanti alla fermata del bus. In quel momento, quella frase incomprensibile ronzava nella testa della ragazza: cosa significava e perché si ripresentava alla fine di ogni suo incubo? Una pacca sulla spalla la fece ritornare alla realtà.
“Iris, oggi sei proprio strana! Non fai altro che stare zitta a fissare il marciapiede, dovrei iniziare a preoccuparmi oppure è solo “questione di cuore”? Sorrise beffardo Davide. Gli piaceva farla innervosire, soprattutto perché lo divertiva vedere una persona mite come Iris, prendersela per un nonnulla.
“In effetti, qualcosa c’è… Ma mi prenderesti per una stupida.”
“Su Iris, spara!”
“Beh, è da qualche notte che faccio dei sogni strani, più che sogni, li definirei incubi.”
Davide si sentiva un po’ stupido per la battuta infelice che aveva pronunciato pochi minuti prima: adesso aveva la certezza che qualcosa la turbava e certamente le avrebbe offerto tutto l’aiuto necessario. “Sai spiegare cosa sogni di preciso? “
Gli occhi marroni di Iris iniziarono a diventare sempre più scuri, le pupille si dilatarono lievemente e la fiamma della sua rabbia iniziò a bruciare debolmente. Si sentiva strana, esattamente come quella stessa mattina, era calda, ma non eccessivamente e per non far insospettire il suo amico, che ormai si era già reso conto della sua strana reazione, evitava di incrociare il suo sguardo.
“Beh, se ti turba così tanto” obiettò Davide” eviteremo di parlarne!”
“No, Dade, voglio parlarne! Questa reazione che ho è la diretta conseguenza dell’incubo”. Tirò un sospiro e riprese” Sogno persone che vivono in epoche diverse dalla nostra che commettono omicidi! Sono una pazza, vero?”
“E io che mi preoccupavo, quando sognavo di pescare mutande!” Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata: era questo il bello di Davide, trovava sempre il modo di ironizzare e di farla sorridere.
“Ma non è tutto.” continuò Iris “ Alla fine di questi sogni, una voce, apparentemente femminile, mi sussurra qualcosa che non riesco a capire: sembra un’altra lingua! Ti avverto che non sono Jennifer Lowe Hewitt e che non parlo con la gente morta!”. Scoppiarono entrambi in un’altra risata.
“Iris, scherzi a parte, secondo me non dovresti fossilizzarti tanto su questa faccenda, in fondo sono solo sogni, capita che si ripresentino perché nel tuo inconscio vorresti trovare una risposta, oppure perché sei solo troppo stressata! Se proprio vuoi capire che cosa sia quel sussurro, potresti tenere sul tuo comodino un quadernetto e annotare appena sveglia il suono delle parole che hai appena sentito.”
“Wow, da quando sei diventato un seguace di Sigmund Freud?” commentò divertita Iris.
“Da quando ho te come amica! Ti ricordo che quelli che comunemente tu chiami “consigli”, sono delle vere e proprie sedute dallo psicologo e se non sbaglio oggi dovremmo farne proprio una ad argomento “Xander”!” Iris gli diede un pugno sulla spalla e risero entrambi nuovamente.
“Beh di quello potremmo tranquillamente parlarne dopo, dato che il bus è arrivato e vorrei iniziare a leggere almeno quei pochi appunti di fisica che ho preso: è risaputo che quando Xander organizza una delle sue “giornate di studio e poi film” si passa prima al film e di studio non se ne parla proprio!”
“Avevo dimenticato che sei pur sempre un topo di biblioteca!” disse Davide cercando di provocarla, ma Iris lo ignorò. Alla seconda fermata del bus, la ragazza scese e rincasò: le era proprio servita quella chiacchierata e soprattutto una bella dose di risate!

Dopo pranzo, Iris iniziò a studiare e, come le aveva consigliato Davide, preparò sul comodino un quadernetto e una penna. Qualche ora più tardi una telefonata interruppe la quiete della casa.
“Pronto?”
“Ciao Iris, sono Silvia, mi chiedevo se oggi potessimo andare insieme a casa di Xander: sai, non ho un passaggio e mi farebbe piacere fare quel tratto di strada con te! Allora, ci stai?”
“Certo! Passo da te alle cinque e mezza!”
Silvia e Iris avevano legato da poco. Per i primi due anni di liceo erano semplici compagne di classe che discutevano delle ingiustizie dei professori, chiacchieravano del più e del meno, ma mai nulla oltre ciò. Solo all’inizio di quel terzo anno, entrambe avevano realizzato di avere molte più cose in comune di quanto si aspettassero e perciò decisero di coltivare quell’amicizia. Silvia era una ragazza affabile e molto schietta e ad Iris piacevano queste sue qualità, ma molte volte parlava davvero troppo e questo difetto l’irritava alquanto. Chissà di cosa avrebbero discusso quel pomeriggio… Certamente le faceva molto piacere ascoltare le sue confidenze e condividere con lei gli avvenimenti belli e brutti della sua vita, soprattutto perché Silvia era un’ottima dispensatrice di consigli.

Dopo aver riagganciato, diede uno sguardo al quadernetto degli appunti: con suo grande sollievo aveva finito di studiare e le restava ancora un’ora di tempo per prepararsi e per dedicarsi ad una delle sue grandi passioni: il disegno. Le piaceva mettersi seduta sul davanzale della finestra: la ispirava. Era una delle poche cose che la rilassava e che le faceva mettere in ordine i pensieri quando era incerta oppure troppo confusa.

Aprì la finestra, tirò da un lato i lunghi capelli corvini e iniziò: la prima cosa che le venne in mente fu Xander.  Quel ragazzo così spensierato, impulsivo, che la maggior parte delle volte vedeva fare lo stupido con gli amici la attraeva davvero moltissimo. Era un bel ragazzo per giunta: alto, fisico slanciato, capelli biondo cenere, occhi verde scuro macchiati di marrone. Dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo, si era resa conto che sotto quella facciata scherzosa, si nascondeva un’indole profonda, sensibile. Non passavano molto tempo insieme, ma quelle poche volte che studiavano da soli o che si divertivano a fare scherzi al povero Davide, si creava una certa complicità che non faceva altro che alimentare la sua attrazione per lui. Nonostante ciò, non voleva fare il primo passo. A Davide aveva sempre spiegato di essere all’antica, ma un altro motivo la spingeva ad aspettare: non voleva perdere la sua amicizia, avrebbe preferito farsi passare quella cotta, piuttosto che rovinare tutto con quell’inaspettata rivelazione. Diede un’occhiata al grande orologio viola appeso nella sua camera: le cinque e un quarto. Infilò alla svelta un paio di jeans scuri aderenti, una maglia rossa, una sciarpa bianca e una giacca rossa di pelle e uscì a prendere Silvia.

Quel pomeriggio a casa di Xander, fu proprio come aveva immaginato: nessun libro aperto, i soliti discorsi tra amici, un film della serie “So bad it’s so good!” e qualche partita a Guitar Hero. Si divertì moltissimo quando Davide, preso dalla foga dell’assolo e dagli applausi del pubblico virtuale, ebbe la brillante idea di saltare in spaccata dal divano, cadendo col sedere per terra. Iris cercò, senza esito, di convincere Xander ad aprire i libri e, quando gli lanciò il libro di fisica in faccia al suo ennesimo rifiuto, fece scoppiare un’interminabile guerra dei libri che si concluse appena prima del rientro dei genitori.

Quando la ragazza rincasò erano le nove, giusto in tempo per la cena, e si stupì vedendo il posto a capotavola vuoto.
“Mamma, dov’è papà?” chiese sorpresa.
“Questa sera papà tornerà tardi, mi ha telefonato un’ora fa: ha delle cose da sbrigare allo studio legale, ma tornerà presto vedrai!” disse sua madre, col solito tono pacato. “Tesoro, perché non vai a chiamare Fabio e Sergio? La cena è quasi pronta.”
“Da quel che sento sembra pollo con purè”.
“Non ti sbagli mai Iris! Su va’ a chiamare i tuoi fratelli: non possiamo aspettare tuo padre, domani avete scuola e sinceramente sto anche morendo di fame!” Risero entrambe e Iris andò al piano di sopra.

La cena fu tranquilla come tutte le altre sere e, dopo aver aiutato sua madre a sparecchiare, Iris le diede un bacio e salì in camera, pronta per andare a letto. Stranamente, aveva voglia di sognare e di risentire quella frase, tanto per capire al suo risveglio che cosa fosse. Magari aveva enfatizzato troppo quelle parole, probabilmente era solo una frase priva di significato: una cosa era certa, lo avrebbe scoperto solo sognando. Era quasi arrivata alla fine della rampa di scale, aveva una buona visuale della porta d’ingresso e fu proprio in quel momento che rincasò suo padre. L’uomo aveva un aspetto strano: aveva il nodo della cravatta allentato, i capelli un po’ arruffati, non portava gli occhiali e stringeva tra le mani molti fogli sparpagliati. “Sarà tornato in quello stato per la fretta di rivederci” pensò Iris non troppo convinta. Decise di non dare peso alla cosa, salutò suo padre con un cenno della mano e salì al piano di sopra.

Dopo una bella doccia calda, Iris mise alla svelta il pigiama e si accoccolò nel letto. L’atmosfera che si era creata era davvero piacevole: la luce soffusa dell’abat-jour e il calore delle coperte conciliarono il sonno della ragazza, i cui ultimi pensieri furono rivolti al quadernetto e alla strana entrata di suo padre.

In un attimo fu catapultata in un luogo completamente diverso e probabilmente stava già sognando: riusciva chiaramente a vedere una fitta boscaglia e un piccolo sentiero che la attraversava completamente. Vi erano moltissimi arbusti dalle bacche rossastre e alberi talmente alti che la loro chioma filtrava a malapena la luce. Il sentiero terminava in un punto preciso della boscaglia dove, superati i cespugli, si ergeva un’immensa e ripida scogliera e lì, poté notare con orrore un uomo con la tunica sporca di sangue, molto probabilmente lo stesso efferato assassino del sogno precedente.
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


                                                                                                    CAPITOLO II

Le onde scrosciavano violentemente sugli scogli, instancabili. Continuava a fissare il mare, come se cercasse di veder galleggiare qualche pezzo del corpo maciullato di suo fratello: finalmente se ne era liberato. Si guardò indietro rapidamente: gli era parso di aver sentito qualcosa, come una specie di calpestio fra le foglie. “Probabilmente sarà qualche animale” pensò l’uomo.

Diede uno sguardo alle mani sporche di sangue e alla sua tunica “Non potrei mai tornare al villaggio conciato in questo modo, devo trovare dell’acqua!” Si fece spazio tra i cespugli e guardingo si rimise in cammino su quel sentiero che divideva a metà quella fitta boscaglia: ormai il sole era già calato e avrebbe dovuto fare in fretta per evitare di destare sospetti e soprattutto per non restare intrappolato in quella foresta ricca di insidie.

Dopo aver percorso quasi due miglia, vide in lontananza un pozzo e vi si avvicinò correndo goffamente: aveva un brutto presentimento e la fretta ne era un’evidente manifestazione. Riempito il secchio fino all’orlo, versò dell’acqua sulla sua tunica e poi sulla sua faccia; di quelle macchie di sangue restò solo un alone marrone che si vedeva a malapena: era sufficiente, nessuno ci avrebbe mai fatto caso, soprattutto a notte fonda. Si sentì soddisfatto, quasi invincibile: nessuno avrebbe mai scoperto il suo segreto.

Gli scappò un ghigno, ma in quello stesso istante sentì lo stesso scalpiccio che aveva udito nella foresta: che qualcuno lo avesse seguito?

Si girò di scatto indietro, poi nuovamente avanti, a destra e poi a sinistra “Chi è là! Fatti avanti, ti ho sentito!”. Non ricevette alcuna risposta. L’uomo sentiva sempre più quella brutta sensazione e decise di darsela a gambe: se non si fosse fatto notare e avesse corso abbastanza velocemente, sarebbe riuscito a seminare il suo inseguitore.

Si sentì “salvo” solo quando arrivò al villaggio: ne attraversò buona parte e si fermò davanti ad un’abitazione che a prima vista sembrava abbandonata. L’uomo spalancò la porta e i suoi occhi furono costretti ad assistere ad uno spettacolo orripilante: i pezzi del cadavere maciullato di suo fratello erano sparsi per tutta la casa, topi che si avventavano sulla carne fresca, le pareti sporche di sangue. Quel senso di invincibilità che aveva provato poco prima, svanì del tutto: era totalmente bloccato davanti a quell’orrore. 

A un tratto, sentì che le forze lo stavano abbandonando: cadde sulle ginocchia e iniziò a pregare gli dei di perdonarlo.

“Figliolo, per Zeus, perché giaci immobile davanti all’uscio di casa?”. Una mano si posò sulla sua spalla e l’uomo si voltò istintivamente: era Costa, il vecchio pastore.
“Costa, guarda! E’ la punizione degli dei! Aiutami!” rispose l’uomo, spaventato e in preda alla pazzia.
Il vecchio pastore scrutò l’uomo stupito:” Di cosa stai parlando, Horestes? Quale punizione degli dei?”. L’uomo sembrava sempre più sconvolto, si mise le mani nei capelli e continuava a guardare pietrificato all’interno dell’abitazione: non sembrava capace di proferire parola, perciò, senza chiedere altro, il vecchio Costa fece capolino dalla porta. Si guardò attorno e non vide altro che pareti bianche, un pavimento di pietra lurido, un vecchio tavolo malconcio di legno scuro e due sedie.
“Horestes, io non so di cosa tu stia parlando ma qui all’interno non c’è proprio niente! Sarà forse perché hai bevuto un po’ troppo vino anche stasera?”. Gli diede una leggera gomitata, mettendo in mostra il suo sorriso sdentato. “Su forza, entra e riposati! Se ti sei ridotto così, dubito che domattina sarà un buon risveglio!” Costa gli prese un braccio e cercò di aiutare Horestes a sollevarsi, ma questi oppose resistenza, scaraventando il vecchio sulla strada. Aveva uno sguardo torvo e sul suo viso vi era un sorriso invasato.
“Horestes!” gridò il pastore con tutte le sue forze. “Cosa ti sta succedendo, per tutti gli dei dell’ Olimpo!”
“Hai visto troppo Costa! Non avresti mai dovuto impicciarti dei miei affari personali! Ti pentirai amaramente della tua eccessiva curiosità!” disse Horestes, con un sorriso sempre più malevolo.
“Ma di cosa parli?” il vecchio era in preda al panico “ All’interno di casa tua non c’era assolutamente nulla”
“Taci vecchio bastardo! Dici così solo perché hai paura di incontrare il tuo destino!” Horestes prese un’ascia poggiata vicino ad un ciocco di legno, pronto ad uccidere barbaramente quella che ormai era divenuta la sua seconda vittima.
“Horestes!” il vecchio iniziò a piangere disperatamente. Non aveva nulla con cui proteggersi, sapeva benissimo che il suo assassino sarebbe riuscito ad incalzarlo lo stesso. Per puro istinto di sopravvivenza raccolse della terra e gliela lanciò negli occhi, continuando a trascinarsi e gridando a squarciagola.
Horestes colpì Costa alla schiena, poi alle gambe, poi alle spalle e quando il vecchio crollò a terra dissanguato gli diede il colpo di grazia, mozzandogli la testa. Fu scosso da una strana sensazione: era soddisfazione mista a quella sensazione di invincibilità che aveva provato poco prima.  Scappò via, senza una meta.

Passarono diversi giorni vagabondando di villaggio in villaggio, Horestes era distrutto, la vita dell’assassino non era per nulla semplice, ma era sempre meglio che tornare al villaggio e pagare il misfatto con la pena di morte. Quella stessa notte, trovato rifugio in una grotta, accese un fuoco e dopo qualche minuto crollò. Uno strano rumore, simile a quello che aveva sentito nella foresta qualche giorno prima, lo destò dal suo sonno.
“Chi è là!” Si sarebbe aspettato un animale feroce, invece spuntò una donna. Aveva i capelli corvini, lunghi fino a metà schiena, gli occhi erano di un marrone intenso, la carnagione era molto chiara, quasi splendente, il fisico era snello e slanciato e portava una lunga tunica bianca.
“Oh miei dei!” fu l’unica cosa che riuscì a dire Horestes di fronte a tale bellezza.
La misteriosa donna iniziò ad avvicinarsi sempre più all’uomo e, arrivati faccia a faccia, il suo sguardo divenne così intenso che egli non riuscì più a sostenerlo, abbassando di conseguenza la testa.
“Dimoro in questa grotta da molto tempo ormai, sembrerà strano, ma anch’io preferisco questi luoghi così…solitari. Dovrete essere molto stanco e mi dispiace avervi destato dal vostro sonno.”. La voce della donna era molto suadente e riuscì a catturare ancor di più l’attenzione dell’uomo.
“Non vi scusate, dovrei farlo io piuttosto, dato che questa è la vostra dimora.” Rispose Horestes.
Fece per andarsene quando una stretta decisa lo trattenne. “Perché non restate qui con me, lì fuori è pieno di insidie e a quest’ora della notte le guardie potrebbero rendersi conto del fatto che siete fuggito.” Disse la misteriosa donna melliflua.

Per un attimo, Horestes non si rese conto della gravità della situazione: quella donna mai incontrata sapeva ciò che era successo prima del suo arrivo. La guardò di nuovo negli occhi: c’era qualcosa in quella donna bellissima quanto misteriosa che gli incuteva paura, un brutto presentimento. Fece nuovamente per andarsene ma la stretta divenne sempre più salda, quasi inumana; guardò nuovamente la donna “Lasciatemi andare” rispose cercando invano di trattenere la paura “ Sono certo che lì fuori non ci saranno poi così tanti pericoli: siamo in una zona molto isolata dal villaggio e le guardie non saranno di certo qui!”
“Horestes… credo che vi convenga restare.”
“Come fai a sapere il mio nome?”
“Chiamatelo intuito femminile se vi va…”
Sempre più spaventato, l’uomo rispose: “Non so come tu faccia a sapere il mio nome e per quale motivo io sia qui, ma le uniche cose di cui sono certo sono che questo non è intuito femminile e che non resterò un minuto in più in questa grotta.” Si liberò da quella presa così salda e fece nuovamente per andarsene quando qualcosa catturò la sua attenzione.

Gli occhi della donna iniziarono a cambiare colore, da quel marrone intenso a un arancione sempre più scuro e proprio al centro dell’occhio quattro piccole fiamme rosse attorniavano la pupilla. I suoi capelli iniziarono ad arricciarsi e ad assumere la forma di serpenti, due ali spuntarono dalla sua schiena e dalle sue mani uscirono due fiamme, che a poco a poco l’avvolsero fino al polso.
Horestes lanciò un grido di terrore e arretrò velocemente verso l’uscita della grotta, ma alle sue spalle ebbe la sensazione di sentire ancora versi di serpenti e quando si voltò ebbe una visione ancor più raccapricciante: altre due creature simili a quella donna misteriosa lo avevano immobilizzato prendendolo per le braccia, mentre la terza di avvicinava sempre più pericolosamente. Iniziò a piangere disperatamente, pregò gli dei e allo stesso tempo cercò di divincolarsi, ma quelle creature erano decisamente più forti di lui.
“Che cosa volete da me?” disse Horestes piangendo.
Quella donna che pochi secondi prima poteva far invidia ad una dea, era a pochi centimetri da Horestes : sembrava quasi che provasse la stessa sensazione di invincibilità che egli stesso aveva provato dopo aver ucciso suo fratello.

Iniziò a passare un dito infuocato dall’ombelico in su, fino ad arrivare al volto; superato il mento e il naso, arrivò agli occhi e con un gesto velocissimo glieli cavò. L’uomo urlò di dolore e i due mostri alle sue spalle risero in modo sempre più malvagio.

“Horestes, Horestes, Horestes… Noi non vogliamo nulla da te, dobbiamo solo riportare il giusto equilibrio. Prima tuo fratello, poi il pastore: pover’uomo, vero sorelle? Ucciso brutalmente a causa della pazzia di un povero stolto! Non pensavamo che fosse così facile indurti alla pazzia: se ci volessero sempre solo topi, sangue e un po’ di budella sparse qua e là…” disse la creatura ghignando.
L’uomo pianse sempre più disperatamente: ripensò ai crimini commessi, agli ultimi giorni di fughe, alle guardie che cercarono invano di catturarlo. Questi pensieri furono interrotti dalle frustate che gli stavano dando le altre due creature dietro di lui.
“Basta, vi prego! Uccidetemi!” urlò Horestes disperato.
“Oh sarebbe troppo facile, mio caro!” rispose una delle due alle sue spalle. “La pagherai cara! Certi crimini non possono restare impuniti! Ricorda ciò che tuo fratello ha fatto per te!”.
“Ti ha ospitato in casa sua alla morte di vostro padre” continuò l’altra dietro di lui “ Ha pagato per te molti dei tuoi debiti, ha provato a riabilitare il tuo nome nonostante la tua fama di ubriacone.”
La donna mostruosa dinanzi a lui continuò “ E’ per questo che tuo padre ha sempre preferito lui a te: sei un buono a nulla e la tua miserabile vita è finita!”.
“Lasciatemi! Oh potente Zeus, aiutami!” pregò terrorizzato Horestes.
“Taci! Pregare non ti servirà a niente e a proposito di cose che non servono a niente…” Con un colpo secco, una delle due creature alle sue spalle gli staccò la lingua di netto.

Improvvisamente, le due creature lasciarono le braccia dell’uomo e questi, disorientato per la perdita della vista e stordito per l’ingente quantitativo di sangue che stava perdendo, cadde a terra respirando a fatica. Le tre creature si riunirono in cerchio attorno all’assassino, lasciando avanzare quella che era sempre stata davanti a quest’ultimo; con una forza sovrumana, ella prese per il collo Horestes bruciandolo vivo: una fiamma nera incenerì il corpo e dell’uomo non vi fu più traccia.

Επιστροφή, Τισιφονε, τον Όλυμπο, σας περιμένει”
 
La prima cosa che Iris riuscì a vedere al suo risveglio furono i grandi occhi verdi di suo fratello Sergio: riuscì ad intravedere una grande preoccupazione nel suo sguardo.
“Ma… cosa ti prende Sergio?” chiese disorientata.
“Cosa mi prende? Sono le tre del mattino, hai lanciato un urlo disumano, ti contorcevi come un’ossessa, la tua pelle bruciava e dicevi cose senza senso! Mi hai fatto prendere un coccolone!” rispose Sergio ancora preoccupatissimo.
Dopo aver ripetuto mentalmente ciò che le aveva riferito suo fratello, si rese conto che era davvero bollente e che non era quella la cosa peggiore: quel calore era dovuto alla rabbia, la stessa che aveva provato il mattino precedente, solo amplificata.
Suo fratello, intanto, continuava a parlarle della reazione dei loro genitori e di Fabio, che da quanto aveva capito erano giù in cucina: la madre le stava preparando una camomilla, suo padre era andato a prendere un termometro e dei medicinali, mentre Fabio era indeciso se andare a letto e farsi altre tre belle ore di sonno, oppure assistere ai deliri notturni di sua sorella.
“Te lo giuro, mi hai spaventato a morte! Non sapevo che cosa fare: fortunatamente è durato meno di quanto credessi.” Disse Sergio.
Iris diede un’occhiata al comodino: c’erano un quadernetto e una penna… Ricordò immediatamente il consiglio di Davide.
“Sergio, calmati! Sto bene adesso e questo è l’importante. Ora voglio che tu mi dica esattamente nei dettagli che cos’è che ho detto e che ho fatto in quei sette minuti.”
Suo fratello contribuiva a renderla sempre più nervosa con quell’atteggiamento iper- protettivo, ma per un attimo s’immedesimò in lui e riuscì quasi a calmarsi.
“Beh, appena sono entrato in camera respiravi affannosamente e cercavi di strapparti le coperte di dosso, come se fossi in preda ad un gran caldo; mi sono seduto sul letto accanto a te e ti ho toccata per vedere se avevi la febbre e scottavi come se ce l’avessi a 42! Mi sono accostato per un attimo allo stipite della porta per vedere se papà avesse portato il termometro, quando inizi a farneticare qualcosa che nemmeno io riuscivo a capire. Non era per niente simile alle cretinate che dice Fabio nel sonno, era inquietante, somigliava ad un bisbiglio. Se non sbaglio hai detto qualcosa, tipo “sifone… ti-tisifone” e poi “be-pe… rima-rime... perimenéi, ecco!” rispose il fratello alquanto confuso.
“Non preoccuparti, però, scotti molto e probabilmente hai la febbre, capita di avere incubi del genere quando si è in questo stato…” Alzò gli occhi al cielo per un attimo e poi continuò sorridendole, quasi per confortarla “Non ti azzardare mai più a fare una cosa del genere, mi hai tolto dieci anni di flirt, partite, scherzi e roba simile!” Sergio scoppiò a ridere, facendo spuntare un sorrisino anche sulla bocca di sua sorella.

La porta si spalancò piano ed entrarono i genitori dei due ragazzi: sua madre si sedette accanto alla ragazza, le scostò i capelli dalla fronte e le fece una carezza.
“Come ti senti Iris? Ti ho portato una tazza fumante di camomilla. Sembri molto nervosa, che cos’hai sognato?” le chiese dolcemente sua madre, accarezzandole una guancia.
Iris abbassò lo sguardo, non sapeva cosa fare: se gliel’avesse detto l’avrebbe fatta preoccupare, se avesse taciuto l’avrebbe fatta preoccupare lo stesso.
Si mise a sedere “Nulla mamma, il solito sogno della ringhiera del palazzo della nonna.” Mentì sforzandosi di sorridere; sua madre sembrava che avesse abboccato e ne fu certa quando vide ricambiato il suo sorriso.
“Oh, amore” l’abbracciò premurosamente la donna “ questo sogno ti tormenta da quando avevi cinque anni! Non sarebbe ora di affrontare la paura delle altezze una volta per tutte?”
Iris afferrò la tazza di camomilla e iniziò a sorseggiarla con calma, non le era mai piaciuta, ma in quel momento le serviva qualcosa per calmarsi. “Devo trovare una soluzione!” pensò.

Stava per prendere il quaderno per annotare quella strana frase, quando anche suo padre si sedette accanto a lei e le infilò il termometro sotto al braccio.
“Papà non credo di averne bisogno, mi sento già molto meglio!” disse Iris alquanto stizzita.
“Iris, finiscila di fare storie. Scotti ancora molto e comunque è questione di cinque minuti!” replicò suo padre.
Dopo cinque interminabili minuti, suo padre estrasse il termometro e lo scrutò stupito.
“ Trentasei e mezzo! Ma non è possibile, tu scotti tantissimo!” esclamò l’uomo.
“Te l’avevo detto che stavo bene!” sbuffò Iris “Che ne dite di tornare a letto? Sto morendo di sonno e dal vostro aspetto non credo che abbiate riposato granché!”
“Per una volta hai ragione, piccola testarda che non sei altro.” Sorrise suo padre “Andiamo tutti a letto: domani ci aspetta un’altra giornata!”

Dopo averle augurato la buonanotte, i suoi genitori tornarono in camera, lasciandola nella quiete della sua stanza. La ragazza afferrò il quaderno e iniziò a scrivere quelle strane parole: “Tisifone… perimenei… che cosa significano queste parole? Deve essere per forza un’altra lingua, non sono solo farneticazioni notturne…” rifletteva la ragazza “Davide è l’unico che può saperlo. Sarà meglio che ci dorma su.” Appoggiato il quadernetto sul comodino e chiuso l’abat-jour, si addormentò, sperando che per quella notte non ci fossero altri incubi in serbo per lei.

Un raggio di sole entrò dalla grande finestra della sua stanza, illuminando di una luce arancione il volto di Iris. La ragazza, infastidita, si stropicciò gli occhi e guardò pigramente la sveglia: venti minuti alle otto. Prima controllò meglio l’orario, poi sgranò gli occhi sorpresa, cercò di prepararsi come meglio poteva, ma all’evidenza dei fatti tutto ciò che stava facendo era inutile: aveva perso il bus, i suoi erano già al lavoro, Fabio e Sergio erano già a scuola e lei doveva ancora prepararsi e fare colazione. Per tutta risposta, si buttò a peso morto sul letto, accoccolandosi nuovamente nelle coperte ancora calde: saltare un giorno di scuola non le avrebbe fatto poi così male!
Ciabattò qualche minuto dopo verso la cucina, si avvicinò al microonde e notò che su di esso c’era un post-it:

Non ti abbiamo svegliato perché sembravi molto stanca. Tua madre ti ha preparato la colazione e spero che sia ancora calda (sai che cosa succede quando i cornetti di tua madre si raffreddano!). Goditi questo giorno di libertà, ma non ti ci abituare troppo!
                                              Ti voglio bene, papà.


Iris non si aspettava un gesto simile da suo padre. Era un uomo di poche parole, dall’ordine maniacale, molto risoluto e incredibilmente orgoglioso e tra loro non c’era il tipico legame “padre affettuoso- figlia ubbidiente”. Per via del lavoro, passavano poco tempo insieme, ma nelle sue sempre più rare giornate libere e di domenica si divertivano molto a preparare il pranzo insieme e il più delle volte bisticciavano su cose banali, per esempio troppo sale nella pasta. Il pomeriggio guardavano i loro film preferiti sul divano, se invece era una bella giornata facevano una bella corsa oppure andavano al lago con tutta la famiglia. Era un uomo non troppo espansivo, il “ti voglio bene”, il “ti amo”, le coccole li usava poche volte e quando riceveva simili attenzioni il più delle volte arrossiva. Non voleva mostrare il lato più vulnerabile di sé e quelle rare volte in cui diceva ai suoi figli “Sono orgoglioso di te” era perché se lo sentiva dal profondo del cuore.

Iris conservò quel biglietto nella tasca del pigiama e tirò un sospiro di sollievo quando sentì che i cornetti erano ancora un po’ tiepidi. Si sedette a tavola e pensò a ciò che era accaduto quella notte: com’era possibile che avesse parlato un’altra lingua? E chi era quel tipo? I mostri erano certamente qualcosa che aveva già visto da qualche parte, ma chi era Horestes? Perché l’antica Grecia? Troppe domande, ma nessuna risposta e quella gliel’avrebbe dovuta dare Davide.

Mise la tazza nella lavastoviglie e salì al piano di sopra. Entrò in camera sua, accese lo stereo e mise una delle sue canzoni preferite, “Coffee and Tv” dei Blur, poi prese il quadernetto dei suoi disegni e si sedette sulla finestra. Il sole illuminava la città nel pieno del suo risveglio, gli alberi spogli erano scossi dal gelido vento di gennaio e la neve imbiancava i tetti delle case circostanti.

Nonostante quel panorama invernale, Iris non faceva altro che pensare a quelle mostruose creature, da donne simili a dee a mostri con capelli di serpente, quelle fiamme che avvolgevano le mani, quelle orribili torture che praticavano sui colpevoli. Perché quelle atroci torture? Come conoscevano ogni singolo dettaglio della vita di quell’Horestes?  

Improvvisamente, una folata di vento mosse le pagine del quadernetto di Iris, la quale scese dalla finestra per poi sedersi sul letto. Si rese conto di essersi talmente immersa nei suoi pensieri da non ricordare ciò che aveva disegnato, perciò riaprì quel quadernetto alla pagina del disegno e rimase sconcertata alla visione di quella stessa bellissima donna del suo sogno, trasformata in quell’orribile e sanguinaria creatura. Le tremavano copiosamente le mani “Devo chiamare Davide! Un momento, sono solo le dieci, dev’essere ancora a scuola…” si girò il telefono tra le mani e decise di mandargli un messaggio per avvisarlo che quel pomeriggio sarebbe passata da lui.

Le ore passarono molto lentamente e per un attimo le parve che il tempo fosse rallentato di colpo, ma quando scoccarono le cinque uscì per recarsi dal suo migliore amico. Il quartiere in cui abitava non era molto lontano da casa sua e le era sempre piaciuto molto, era ricco di viali alberati e sul davanzale di ogni casa c’erano sempre vasi colmi di fiori profumatissimi e molto colorati. Davide abitava alla fine della strada, di fronte al parco comunale, in un piccolo appartamento di un condominio di dieci piani. Iris bussò, salì le scale molto velocemente e, una volta arrivata al quarto piano suonò il campanello: una donna le sorrise e la invitò ad entrare, poi chiamò Davide urlando a gran voce.
“Ecco la mia Jennifer Love-Hewitt! Oggi te la sei presa libera, vero?” disse il ragazzo sorridendo maliziosamente
“Io non scherzerei poi così tanto…” disse Iris
“Non dirmi che è successo di nuovo!” esclamò Davide non troppo sorpreso. La ragazza annuì quasi rassegnata. “Okay: abbiamo molto di cui parlare!”

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


                                                                                         CAPITOLO III

In quel momento, lo sguardo di Davide comunicava perplessità più che stupore. Se ne restava lì fermo, reggendosi il mento col pollice e l’indice, con lo sguardo nel vuoto e un’espressione leggermente accigliata, tipica di quando si ritrovava un caso difficile sul quale riflettere.  A un tratto, espirò profondamente e tornò alla realtà.

“Dunque se ho ben capito, ieri notte, cioè… questa mattina alle tre ma… non fa differenza, hai sognato questo tizio che uccide senza motivo un altro tizio innocente, si reca in una grotta, trova una ragazza bellissima che si trasforma in una specie di Medusa dai pugni di fuoco che assieme ad altri due mostri come lei torturano il tizio con la scusa di “ristabilire l’equilibrio”!” sottolineò quell’ultima affermazione facendo le virgolette con le dita “ Poi tuo fratello ti ha detto che bisbigliavi qualcosa d’incomprensibile, scottavi come se avessi la lava al posto del sangue e sentivi una strana ira…” il ragazzo scosse la testa velocemente e si fece scappare un sorrisetto, poi alzò lo sguardo e lo rivolse verso Iris “ A questo punto, non so se sei davvero pazza e quindi hai un collegamento psichico con questi mostri, oppure questo è tutto un sogno, pioveranno mutande dal cielo e sentirò mia madre dirmi che devo svegliarmi perché altrimenti non mi farà più fare colazione!”

“Grazie mille per il conforto, Davide…” rispose Iris stizzita.

“Dai non dirmi che te la sei presa! Non solo fai sogni così strani, ma ti arrabbi anche se cerco di fare un po’ d’ironia?” in quel momento Davide scoppiò a ridere.

Iris sospirò e, stizzita, riprese “Non solo sogno roba di questo genere, poi devo anche farmi prendere in giro da te!”

“E va bene, la smetto…” Davide fece un sorrisino e abbassò lo sguardo, tornando di nuovo a pensare. “Secondo me, mi stai sopravvalutando… Non sono Mago Merlino, non ho un bestiario o roba del genere e non sono nemmeno Sigmund Freud, come pensi che io possa aiutarti con questi sogni?”

“Dade, so che è una cosa difficile, ma non so a chi altro riferirmi! E poi tu mi hai consigliato di scrivere sul quadernetto quelle parole. Cavolo, da quando stiamo cercando di risolvere questa faccenda, gli incubi si ripresentano con meno frequenza, quindi avevi ragione tu! Per favore, so che ci stiamo fossilizzando su degli stupidi sogni che probabilmente significano che ho degli istinti violenti molto repressi, ma non so perché voglio venire a capo di tutto ciò!” rispose Iris, sperando che Davide la prendesse sul serio.

“Va bene… va bene… Dammi quel quaderno e fammi vedere che cosa ti ha portato a disegnare quella tua mente perversa.” rise Davide.

Iris si sentiva sollevata. In quei momenti, avrebbe sempre potuto contare su Davide, perché lui non si sarebbe mai tirato indietro. Insieme avevano affrontato molte situazioni e belle o brutte che fossero riuscivano sempre a darsi forza a vicenda, erano uniti da un legame molto forte e di certo nessuno dei due avrebbe lasciato l’altro in difficoltà.
Gli sorrise e lo abbracciò forte “Grazie Sigmund, sapevo che non mi avresti lasciata nelle mani di un altro psicanalista!” Davide le diede una pacca sulla spalla e risero entrambi di gusto; il ragazzo iniziò a sfogliare il quadernetto.

“Vedo che ti sei data da fare con l’arte…” stava guardando un disegno di Xander, uno dei tanti, e sul suo viso c’era uno dei suoi sorrisetti maliziosi.

“Beh, se la metti così… Ti consiglio vivamente di girare pagina, è quella che ci interessa.” Gli rispose Iris lievemente rossa in viso.
Quando il ragazzo voltò pagina, sbiancò. I suoi occhi grigi erano fissi sul foglio, intenti a scorgere ogni singolo particolare di quell’orripilante figura. “Capisco perché hai urlato ieri notte: è orribile, Iris.” le disse senza distogliere lo sguardo dal foglio “ La buona notizia è che penso di sapere di cosa si tratti…”

Su allora, dimmelo!” rispose impaziente Iris.

“Non sono un esperto di mitologia, ma credo che questa sia proprio una Furia.” Il ragazzo la guardò stupito e anche un po’ perplesso.

“Una Furia?! E cosa diamine è?”

“Le Furie, da quanto ne so, erano creature preolimpiche, capaci di dominare il fuoco. Erano gli spiriti della vendetta e punivano chi assassinava familiari, ospiti e chiunque venisse meno ad un giuramento mediante tortura psicologica e poi fisica, fino alla morte.”

Iris sbiancò “E che mi dici del loro aspetto?”

“Beh, il loro aspetto è come quello del tuo disegno, ma possono assumere sembianze umane, credo.” rispose Davide alquanto incerto.

“E lui che pensava di non potermi aiutare…” disse tra sé e sé Iris guardando Davide, intento a sfogliare il suo quadernetto. 

In quel momento pensò che c’era una buona e una cattiva notizia: aveva capito finalmente che cosa fossero quelle creature, ma dall’altra parte non poteva fare a meno di farsi altre domande, alle quali di certo non avrebbe potuto rispondere il suo migliore amico. Una piccola parte di sé sperava che, avendo scoperto chi fossero quelle creature, non ci fosse più motivo di sognarle, mentre l’altra parte pensava che ci fossero ancora troppe cose da chiarire nonostante si trattasse di semplici sogni ricorrenti.

Iris aprì la finestra e un vento gelido le scompigliò i capelli. “In un certo senso, tutto quadra” pensò la ragazza “le Furie uccidevano coloro che venivano meno ai giuramenti, oppure gli assassini e quella faccenda del “ristabilire l’equilibrio” seppur macabra, ha un fondamento. “Certi crimini non possono restare impuniti”.

Una mano si appoggiò sulla sua spalla destra, accarezzandola “Su Iris, non pensarci troppo lo hai detto stesso tu “sono solo sogni”. Ti voglio bene e non voglio assolutamente che tu stia così!”.

Iris si voltò verso Davide e lo abbracciò: in quei momenti, con un abbraccio si potevano riassumere molte parole da “Sono contenta che tu mi stia sostenendo” al “Grazie per non avermi portato al più vicino manicomio”.

“Adesso andiamo a mangiare un bel pezzo di torta con una bella cioccolata, e non accetto un “no” come risposta!” disse il ragazzo sfoggiando un caldo sorriso.

“Ok, ma non ingozzarti come al tuo solito, però: non vorrei avere incubi anche su di te!” disse Iris maliziosamente. Lei e Davide si prendevano in giro su tutto, il sarcasmo era il loro pane quotidiano e proprio per quella ragione, un abbraccio come quello che aveva ricevuto prima era qualcosa di speciale quanto inusuale.

Verso le sette e mezza, Iris si mise in cammino per tornare a casa. Aveva da poco iniziato a nevicare e candidi fiocchi di neve si adagiavano delicatamente sui suoi capelli corvini. La città poi era stupenda in quel periodo: le luci provenienti dai negozi e dai palazzi davano un’aria scintillante alla città, i viali alberati erano imbiancati di neve e gli alberi erano decorati con lucine multicolore. Iris avrebbe tanto voluto potersi fermare per disegnare quel meraviglioso paesaggio, ma sapeva di dover tornare a casa entro le otto, perciò proseguì promettendo a sé stessa che, tornata a casa, avrebbe tramutato quella semplice idea in un altro disegno.

Il quartiere in cui abitava non era bello come quello di Davide, ma le piaceva lo stesso, perché le dava un senso di calore familiare. Le strade erano sempre molto pulite, le villette sempre curate, e la domenica mattina molti bambini giocavano in strada, creando pupazzi di neve, trainando slittini, combattendo a palle di neve e tanti e tanti altri divertimenti. Casa sua era la terzultima a sinistra, aperto il grande cancello nero, vi era un piccolo viottolo di pietra marrone chiara che arrivava ad una breve scalinata di marmo bianco e che conduceva alla porta d’ingresso. La facciata era color avorio e aveva tre piani, compresa la soffitta, vi erano cinque grandi finestre al piano terra, altre cinque al primo piano e due piccole finestrelle tonde in soffitta.

Iris aprì il cancello e salì la breve scalinata marmorea fino alla porta d’ingresso, che aprì con due scatti veloci. “Mamma sono tornata!” disse a gran voce, appese la sciarpa e il giubbotto all’attaccapanni e poggiò le chiavi sul mobiletto poco più in là.

“Ciao tesoro” l’abbracciò sua madre con le mani sporche d’impasto “Questa sera ho preparato io stessa il pane, ho avuto un problema alla macchina e non sono riuscita a comprarlo” le sorrise dolcemente.

“Avresti potuto telefonarmi, sarei andata io a prenderlo” le rispose la ragazza.

“Ho provato a telefonarti ma il tuo cellulare era spento, Iris. Sai bene che devi tenerlo acceso sempre.” la rimproverò sua madre “Comunque, circa mezz’ora fa ha telefonato un ragazzo, mi pare che si chiamasse Alessandro, mi ha chiesto di te e io ho detto che eri uscita”.

Un brivido percorse la schiena di Iris: non aveva mai ricevuto una telefonata da parte sua e le faceva piacere che volesse parlarle. Prese velocemente il cordless e salì in camera sua, quando sua madre la bloccò con le sue tipiche paroline magiche.
“Qualcuno mi nasconde qualcosa…”

Iris alzò gli occhi al cielo: di tutte le cose di cui avrebbe voluto parlare, sua madre avrebbe dovuto scegliere proprio Xander? Fece finta di non aver sentito e continuò imperterrita a salire le scale. Dopo aver chiuso la porta della sua camera, si sedette sul letto e compose lentamente il numero del ragazzo. “Sto davvero per farlo?” pensò la ragazza, ma ormai le sue dita avevano già fatto tutto il lavoro e non le restava altro da fare che chiedergli per quale motivo l’avesse cercata.
Uno squillo, due squilli, tre, quattro, cinque… “Pronto?”

Iris rimase pietrificata: era proprio lui e non sapeva come iniziare la conversazione. Si fece coraggio e, cercando di sembrare più calma possibile, rispose:“ Xander sei tu? Cioè certo che sei tu, è casa tua…” Iris si coprì il viso con le mani, imbarazzata più che mai: in meno di un minuto era stata capace di incasinare tutto a causa della sua timidezza. 

Sentì dall’altro capo del telefono che il ragazzo stava sorridendo “Ciao Iris, ho telefonato poco fa a casa tua, ma tua madre mi ha detto che eri uscita.”

“Ehm.. si, appunto… Cosa volevi?” chiese Iris al culmine dell’imbarazzo.

“Nulla di importante, volevo solo sentirti!” disse semplicemente Xander. In quel momento, Iris divenne rossa come un peperone: come mai voleva sentirla? Non si era mai comportato in questo modo e iniziava a chiedersi se volesse che la loro amicizia divenisse più solida oppure se anche lui provasse qualcosa di più. Cercò di contenere quell’ondata di emozioni e, in assenza di parole, le scappò un risolino.

“Allora, come mai oggi non sei andata a scuola?”

“Beh, è una lunga storia. E’ sufficiente se ti dico di essermi alzata un quarto d’ora prima dell’inizio delle lezioni?” rispose Iris, stranamente meno a disagio. La voce di Xander le piaceva molto e in alcuni momenti la calmava. “Piuttosto, come ve la siete cavata con l’interrogazione di fisica?”

“ Quell’ippopotamo spara compiti a sorpresa ci ha risparmiati. A dire il vero, ha continuato a spiegare come se lo avesse dimenticato, ma meglio così, no?” disse il ragazzo contento.

“Vi è andata bene! La prossima volta, invece di fare la battaglia dei libri dovremo studiare seriamente: non possiamo correre rischi simili!” esclamò la ragazza con tono di rimprovero.

“Che topo di biblioteca che sei! Ammettilo, ci siamo divertiti tanto!”.

Sorrise. “Hai ragione, è stato divertentissimo.” ammise.

“Hey Iris, visto che domani è sabato, ti va di uscire?”.
Il cuore di Iris mancò di un battito, ma poi si accorse che Xander non aveva ancora finito di parlare “ovviamente con Gabriele, Davide, Silvia, Giada e tutti gli altri.” Ed ecco che la nuvoletta sulla quale stava viaggiando svanì nel nulla, lasciandola in caduta libera sul duro soffitto della realtà. 

“E tu credevi davvero che Xander volesse uscire solo con te?” ghignò la sua stramaledetta vocina interiore. Come poteva darle torto, ma magari sarebbe successo qualcosa lo stesso, perciò rispose: “Ehm, certo! Magari domani ci organizziamo con gli altri, okay?”

“Benissimo, allora ci vediamo domani a scuola… se ti svegli in tempo!” scherzò Xander.

“Ha-ha-ha, sto morendo dal ridere!” disse sarcastica Iris. Stava per riagganciare quando sentì il ragazzo chiamare il suo nome “Si?”

“Buonanotte, Iris”

“Buonanotte anche a te, Xander” ed entrambi riagganciarono. Iris si buttò sul letto stringendo il telefono all’altezza del cuore e ripetendo mentalmente quella dolcissima buonanotte. Stava già pensando all’indomani, quando quella vocina interiore si fece ancora sentire. “Non illuderti Iris, sai come va a finire quando non sei sicura di una cosa, ma continui a fantasticarci su.”

“Ma taci!” esclamò Iris. Era sicura che se ci fosse stato qualcuno lì con lei l’avrebbe presa davvero per una pazza.
F
aceva molto freddo e fuori aveva iniziato a fioccare molto, dunque la ragazza decise di farsi una bella doccia calda, altro modo per schiarirsi le idee e per stare al caldo allo stesso tempo. Come la sera precedente il suo unico pensiero erano le Furie, quella sera lo era Xander. “Buonanotte, Iris”… Il suo nome non era mai stato pronunciato così dolcemente, soprattutto da lui. Non voleva illudersi, ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di pensare a cosa sarebbe successo il giorno dopo: e se avessero superato quel sottile muro che li divideva? 

Il richiamo di sua madre dal piano di sotto la fece tornare con i piedi per terra. Uscì velocemente dalla doccia e si asciugò i lunghi capelli corvini: odiava quando non riusciva a dargli una forma. Poche volte li lasciava alla forma naturale, cioè lievemente mossi, infatti molto spesso preferiva piastrarli, perché le piaceva di più e perché erano anche più ordinati.

“Iris, sbrigati! La cena di raffredda!” esclamò sua madre dalla cucina. La ragazza scese velocemente e si sedette a tavola. Sua madre stava servendo la cena e dopo qualche minuto rincasò anche il padre. Aveva lo stesso aspetto strano della sera precedente: i folti capelli corvini erano spettinati, non portava gli occhiali, il nodo della cravatta era allentato, il bavero della camicia era stropicciato e i documenti non si trovavano nella valigetta, ma alla rinfusa nelle sue mani. Per un uomo impeccabile come lui, quell’aspetto sciatto era uno strano segno.

L’uomo poggiò le carte sul tavolino all’ingresso e prese posto a capotavola. “Ciao ragazzi. Ciao Diana” disse senza scomporsi troppo.

“Ciao Carlo, com’è andata la giornata, caro?” chiese sua madre. Notò che c’era qualcosa di strano anche in lei: di solito quando suo padre rincasava, nonostante non gli piacessero quel genere di attenzioni, la donna gli dava sempre un bacio. Quella sera invece erano entrambi distaccati: che sua madre avesse capito le ragioni della sciatteria dell’uomo?

“Come al solito. Solite scartoffie, solite stupidaggini dei colleghi… A voi com’è andata ragazzi?”

“Papà oggi abbiamo giocato una partita spettacolare! Pensa che ad un certo punto è venuto anche a nevicare: è stato molto emozionante. Abbiamo vinto nove a sette! Avremmo fatto anche dieci se il signorino accanto a me avesse continuato a giocare, invece di ritirarsi negli spogliatoi perché faceva freddo” disse Fabio dando un debole pugno sulla spalla del fratello, che fece per un attimo la parte del sostenuto e poi rise.

“ Tu, Iris, stai un po’ meglio rispetto a questa mattina?” disse il padre con un tono di preoccupazione nella voce.

“Si, papà.” Guardò l’uomo cercando di capire se stesse pensando ancora al biglietto, ma non scorgendo nulla nel suo sguardo continuò “Oggi sono andata da Davide, nulla di più”.

“Iris, cosa voleva quel ragazzo, Alessandro?” disse sua madre.

La ragazza arrossì di colpo e stornò l’argomento con la scusa della data di un compito in classe. La donna, però, si accorse dalla reazione di sua figlia che le cose stavano diversamente, tant’è vero che scosse lievemente la testa con rassegnazione.

La cena proseguì come tutte le altre sere, tra chiacchiere e discussioni, e dopo più di mezz’ora tutti si alzarono dalla tavola: sua madre sparecchiava, suo padre guardava il telegiornale, Sergio litigava con Fabio per il possesso del bagno e Iris stava per entrare nella camera.

La ragazza spalancò la porta e fissò la finestra afflitta “Per questa sera nessun disegno…”pensò. S’infilò il pigiama lentamente, accese l’abat-jour sul comodino e si mise sotto le coperte. Era quasi sul punto di addormentarsi quando sentì dei rumori al piano di sotto; fece per riaddormentarsi, quando sentì le urla dei suoi genitori.

Iris si nascose sulle scale e riuscì ad intravedere sua madre con le spalle rivolte verso il lavello, aveva le mani intorno al volto e stava singhiozzando. Suo padre si avvicinò lentamente alla donna, il parquet scricchiolava sotto i suoi passi pesanti, le sollevò il mento, ma quest’ultima cercava di non incrociare il suo sguardo.

“Diana finiscila di piangere. Sai bene che non sopporto che tu lo faccia.” Disse l’uomo duro.

“Non mi toccare Carlo!” disse la moglie irata scostando violentemente la mano del marito dal mento “ Tu pensi che io sia una stupida, che non mi sia accorta che rincasi sempre più tardi, che non ti comporti più allo stesso modo nei miei riguardi!”

Gli occhi marroni della donna erano rossi dal pianto, ma stavolta cercavano lo sguardo dell’uomo, che invece abbassò di colpo la testa. Iris non capiva che cosa stesse succedendo tra i suoi genitori: certo, aveva notato un cambiamento quella sera a cena, ma non pensava che ci fosse sotto qualcosa di così grave da far piangere sua madre.

“Perché non mi guardi? PERCHE’!” urlò la donna piangendo sempre più.

Ad un tratto, l’uomo alzò la testa e fissò la moglie, sempre più irata, avvicinò sempre più il volto al suo, finché non furono entrambi a pochi centimetri di distanza e le prese le mani.

“Calmati…” disse con tono pacato “Diana, ultimamente è un periodo molto stressante, non sta andando molto bene allo studio legale, molti dei miei colleghi sono stati licenziati e non posso permettere che ciò accada anche a me, perciò molto spesso rincaso tardi.”

“Carlo…” la donna sembrava essersi calmata, si asciugò le lacrime col dorso della mano e riprese “Io… non ti credo. Se ci fossero stati tutti questi licenziamenti me lo avresti detto e di certo le tue camicie non odorerebbero di profumo femminile… Sei un pessimo bugiardo.”

“Da quando odori le mie camice?” disse l’uomo arrabbiato e sorpreso allo stesso tempo.

“Da quando ho smesso di fidarmi di te!” gli urlò contro la donna. “E per favore, cerca di comportarti decentemente: questa faccenda resterà tra me e te, per il bene dei ragazzi.”

“Ma ti rendi conto che stiamo litigando per delle tue supposizioni? Non hai prove per dimostrare che io ti stia tradendo e il profumo non è una di queste. Diana vedi di tornare in te!”

“Hai ragione, non ho prove schiaccianti, ma comunque non riesco a crederti. Ricorda che sono successe tante cose tra noi Carlo e io non ho dimenticato!” La donna si scansò e andò in direzione delle scale, lasciando il marito basito ancora davanti al lavello. 

Iris salì velocemente e chiuse con estrema cautela la porta della sua stanza: non sapeva chi avesse ragione o chi avesse torto e milioni di domande le ronzavano attorno come insetti fastidiosi. Perché sua madre non voleva credere a suo padre? Cos’era successo tra loro in precedenza? Suo padre era sincero? Ne avrebbero parlato a lei e ai suoi fratelli?

La ragazza tornò a letto col cuore a pezzi, si coprì fin sopra alla testa e senza neanche accorgersene si addormentò.

Era una notte stellata e la luce argentea della luna illuminava un vasto paesaggio verdeggiante: vi erano alberi molto alti e di diversi tipi, alcuni dal tronco grande e nodoso, altri dalla chioma ampia, altri dalle foglie lanceolate, altri ancora carichi di frutti. C’erano qualche cespuglio e diversi arbusti sparsi qua e là e fiori, tanti fiori dai petali colorati. Alcune ragazze dalle vesti bianche e dai capelli fluenti si prendevano cura di quel meraviglioso paesaggio, cantando meravigliose canzoni e giocando tra di loro. 

Un giovane in tunica bianca camminava sul morbido prato: la carnagione olivastra risaltava il candore dell’indumento, aveva i capelli neri corvini, gli occhi talmente scuri da non riuscire a distinguere la pupilla, il naso lungo e dritto, le labbra sottili, i lineamenti facciali abbastanza marcati e il fisico nerboruto. 

Lo seguiva una fanciulla altrettanto bella, dai lunghi capelli neri come le penne di un corvo, dalla carnagione chiara, quasi splendente, dagli intensi occhi marroni e dal fisico snello e slanciato: era la stessa creatura del sogno precedente.


I due giovani si sedettero ai piedi di un maestoso albero dalla chioma ampia e ricco di candidi fiori. La fanciulla era diversa dal sogno della sera precedente: quell’espressione dura era completamente scomparsa dal suo volto, i suoi occhi scuri erano dolci come quelli di un cerbiatto, aveva un sorriso splendido, nessuno mai avrebbe potuto immaginare in che razza di mostro potesse trasformarsi.

“Mia Tisifone, la tua bellezza è qualcosa di ancor più meraviglioso delle stesse stelle” il ragazzo staccò un fiore dall’albero e glielo porse con delicatezza: la fanciulla l’annusò e lo sistemò tra i capelli.

“Citerione, le tue tenere attenzioni mi lusingano.” Disse timidamente.

Restarono a guardare le stelle: Citerione le illustrava le varie costellazioni, raccontandole qualche storia e restarono sotto quell’albero quasi fino all’alba. Ad un tratto, lo sguardo di Tisifone s’incupì e si alzò di scatto.

“Cos’hai mia bella?” chiese il giovane perplesso.

“Citerione…devo andare, le mie sorelle hanno bisogno di me.” La fanciulla corse via, lasciandosi alle spalle quel meraviglioso paesaggio illuminato dalle prime luci del mattino.

“Tisifone! Tisifone!” Citerione continuava a chiamare il suo nome, ma la ragazza non si voltò nemmeno per una volta.

Arrivata abbastanza lontano, nel punto in cui la foresta s’infittiva sempre più, Tisifone si trasformò in quel mostro del sogno precedente e volò via più veloce del vento.

Επιστροφή, Τισιφονετον Όλυμποσας περιμένει”.
 

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