Libro Quinto - Il Bracciale

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 1
1.

Nella piazza d’armi all’interno del grande accampamento militare, voluto da Dorgan Jathro per addestrare l’esercito che avrebbe dovuto sfidare le nere orde di Dokh’iel, erano stati radunati tutti gli schiavi. I lavori di costruzione dell’accampamento, destinati a trasformarlo in un vero e proprio fortino adatto a ospitare un’intera guarnigione permanente, erano stati sospesi per quell’occasione. Sotto un grigio e immobile cielo invernale un iroso centurione camminava tra le file degli schiavi, sporchi e consumati dai lavori forzati, brandendo un grosso anello di metallo dal quale pendevano chiavi di diverse fogge. Ogni volta che si fermava davanti a uno dei poveretti lì allineati, questi gli porgeva immediatamente il braccio sinistro, cinto dall’inconfondibile bracciale di metallo scuro. Il centurione, avvolto nella sua corazza e in irsute pellicce per difendersi dal freddo, provava una determinata chiave infilandola nella serratura del bracciale. La chiave non azionava mai la serratura e a volte non entrava nemmeno. Quando anche l’ultimo bracciale fu provato, gridando minacce e maledizioni il centurione dell’esercito del Tiranno si sfogò scagliando con tutta la sua forza la chiave inutile contro il cielo indifferente. La chiave volò alta roteando, emise un debole bagliore riflesso e scomparve dietro l’alto muro di cinta che in quel punto del perimetro era ormai completato.

Lerea versò un altro calice di vino al truffatore, un mercante che vendeva chiavi false o spaiate, chiavi cioè smarrite e quindi separate dal legittimo bracciale. L’uomo era ormai ubriaco e Lerea era sempre più preoccupata: com’era possibile che quell’uomo panciuto e grasso potesse resistere tanto a lungo al vino drogato da lei stessa preparato?
- Basta bere, donna! – disse il mercante colpendo col dorso della propria mano quella di Lerea che gli tendeva il boccale di coccio colmo. Questo volò attraverso la stanza e si infranse al suolo, in un punto del pavimento dove non c’erano tappeti.
Lerea si ritrasse spaventata, improvvisamente colpita dall’evidenza dei fatti. Quel grasso maiale con fattezze umane doveva essere immune alla droga che lei aveva usato per non essere ancora crollato addormentato e avere perfino la forza e la lucidità di compiere quel gesto.
Il mercante strinse ancor di più gli occhi finché le pupille lucide parvero sparire inghiottite dalle pieghe di grasso che erano le sue palpebre. Il viso gonfio e arrossato si deformò in un grottesco sorriso che mise in evidenza i denti piccoli, ingialliti e distanziati tra di loro. L’alito puzzolente investì in pieno Lerea, acido come se le squisite vivande e il vino con cui si era ingozzato fino a quel momento si fossero trasformati all’interno di quel ripugnante corpo nelle più immonde sozzerie.
- È ora di mantenere la parola… - aggiunse soffiando ancora alito fetido dal fondo della gola.
Lerea istintivamente si ritrasse: il mercante si stava protendendo verso di lei, tentando goffamente di sollevare la propria mole dai cuscini in cui era sprofondato. Ricordava benissimo a cosa aveva alluso per attirare le attenzioni del mercante, certa però che il vino drogato l’avrebbe salvata. L’uomo, alterato dal vino, prese questo atteggiamento come un gioco e la smorfia simile a un sorriso si estese ancor di più, accompagnata da un rauco soffiare che doveva essere una risata. Con inattesa velocità egli si mosse in avanti stando sulle ginocchia, e protese le braccia in avanti per afferrare Lerea.
Questa con un gridolino si sottrasse, agevolata dall’aver bevuto molto meno vino. Il mercante cadde carponi, divertito.
- Vieni qua, bellezza… - biascicò cercando di mettersi in piedi, visto che anche Lerea si era alzata dai cuscini che occupava.
Con grande stupore della ragazza, che si aspettava di vederlo crollare da un momento all’altro, il mercante di chiavi fu in piedi, sebbene barcollante. Mosse incerto verso di lei, mani in avanti. Lerea si sottrasse ancora e l’uomo nel tentativo di cambiare direzione inciampò e cadde carponi, ridendo e gorgogliando. Alzò il viso gonfio e lucido di sudore verso Lerea e le sorrise ancora in modo disgustoso, sbavando.
- Vuoi giocare, eh…? – biascicò ancora.
Lerea si sforzò di sorridere, cercando di apparire credibile nella sua finzione. Quell’uomo le faceva schifo e la semplice idea che potesse avvicinarsi troppo le provocava ribrezzo.
Gattonando il mercante di chiavi la inseguì: Lerea lo schivò facilmente tutte le volte, fingendosi divertita da quella specie di gioco che aveva suo malgrado inscenato. Anche il mercante pareva divertirsi, così Lerea cercò di pensare a un altro metodo per raggiungere il suo scopo.
D’un tratto, distratta dai suoi pensieri o forse confusa dal vino, fu tradita da un suo stesso sandalo abbandonato durante il banchetto: il momento di incertezza che ebbe fu sufficiente al laido mercante per raggiungerla con uno scatto e afferrarle una caviglia. Lerea emise un grido di sorpresa: con forza e prontezza inattese il mercante aveva preso a tirarla a sé e poté rendere più salda la presa afferrandole anche il ginocchio, costringendola quindi a terra. Tentò di divincolarsi, ma fu bloccata dalla massa del corpo del mercante, pesante come un bue. Questi ebbe tutto il tempo di sedersi sulle gambe di lei, incurante degli sforzi frenetici che faceva per liberarsi, rendendole impossibile la fuga. Ghignando soddisfatto, il mercante cominciò a toglierle l’abito con le sue mani rozze e grasse, ora rese tremanti e imprecise dal vino drogato.
Non riuscendo infatti a slacciare legacci e allentare le asole o sbottonare i bottoni, il mercante tirò i lembi dell’abito di Lerea fino a strapparlo, denudandola. Inutilmente lei aveva tentato di impedire a lui di metterle le mani addosso: il mercante aveva reagito in malo modo facendole del male e rischiando di romperle un braccio.
Ora l’uomo stava togliendosi i propri vestiti: quando si fu liberato della casacca Lerea, ormai prossima al pianto, vide riaccendersi fulgida la speranza. Dal collo unto e lucido del grasso mercante pendeva una catenina alla quale era legata una piccola chiave lunga quanto un dito mignolo. Era senz’altro la chiave che lei cercava! La guardò penzolare sui seni flaccidi e pelosi dell’uomo, tanto grasso da avere il ventre così oscenamente gonfio e il petto così molle che le due parti venivano a contatto, tra molte pieghe della pelle gocciolante sudore puzzolente.
Lerea vide l’espressione sul viso del mercante cambiare: la bocca si era rimpicciolita fino a sembrare una piccola piaga aperta, mentre le palpebre parevano essersi saldate imprigionando i bulbi oculari sotto il grasso. Il naso rosso e schiacciato colava e il mercante di chiavi respirava rumorosamente attraverso la bocca, come se fosse asmatico e avesse la gola occlusa. Non potendo togliersi i pantaloni poiché si era seduto sulle gambe di Lerea, frugò faticosamente sotto la pancia enorme stentando a farsi obbedire dalle sue stesse mani. Frugò sotto il ricco tessuto, tra le cosce che lo tendevano ed estrasse una debole erezione. Lerea riconobbe gli effetti del vino drogato, ma riprese a dibattersi furiosamente per liberarsi temendo che il mercante non avesse bevuto abbastanza. Con molta fatica l’uomo le afferrò anche le braccia e le imprigionò col suo stesso peso, sovrastandola completamente. Lerea, costretta all’immobilità, gelida come il ghiaccio resistette alla nausea provocata dal puzzo dell’uomo e dal contatto tra la sua pelle e quella umida e viscida dell’altro. Il mercante di chiavi si abbandonò sul corpo della giovane e accennando all’uso del membro floscio, finalmente crollò addormentato per la massiccia quantità di droga bevuta col vino.
Sentendo che quel laido corpo che l’opprimeva aveva cessato di scuotersi, Lerea non senza fatica se ne liberò. Schifata dal contatto con quel mostro obeso desiderava lavarsi, ma non si dimenticò del motivo per cui si trovava lì. Chinatasi sul corpo del mercante, che respirava rantolando, mentre con una mano tratteneva il vestito lacerato sul proprio corpo con l’altra strappò decisa la catenella con la chiave, ignorando la piccola stilla di sangue che la catenella dorata fece in tempo far sgorgare dalla lardosa pelle del collo del mercante di chiavi.
Corse poi nell’altra stanza dove aveva visto il piccolo forziere e con quella chiave l’aprì. Esattamente come Gambrath le aveva detto, l’avaro mercante teneva lì buona parte della sua fortuna: molte monete, pezzi d’oro e d’argento, carte scritte fittamente e pergamene sigillate con ceralacca rossa recante impressi marchi e sigilli a lei sconosciuti. Sul fondo dello scrigno, avvolte e nascoste in un panno nero, Lerea trovò le chiavi spaiate. Il viso le si illuminò di gioia: la sua sofferenza non era stata vana e con tutta probabilità anche quella di Gambrath stava per avere termine. Ora doveva solo andarsene al più presto.
Cercò di sistemarsi al meglio l’abito, ma il mercante l’aveva strappato così in malo modo che non era più possibile indossarlo senza averlo prima ricucito. Così Lerea tornò nella piccola sala del banchetto dove il mercante narcotizzato ancora gorgogliava orribilmente e aprì il grande baule contenente gli abiti che lui stesso le aveva mostrato in precedenza, vantandosi di possedere tessuti degni di apparire alla corte del Tiranno. Lerea vi frugò fino a svuotarlo completamente, ma nulla di modesto era contenuto in quel gran baule di legno e ferro. Non volendo destare l’attenzione, Lerea avrebbe desiderato un abito modesto, ma pareva che il mercante avesse a disposizione unicamente tanti pizzi e trine che avrebbe potuto vestire dame e cicisbei in quantità.
Dopo aver riflettuto, resa inquieta dal brutto rumore del respiro del laido mercante, il cui ventre pareva una ondeggiante collina di grasso ora che giaceva supino, Lerea prese una decisione. Strappatasi nervosamente di dosso ciò che rimaneva del proprio, ormai inservibile, indossò il più bell’abito che le riuscì di trovare, con molte sottogonne immacolate, ornato di ricchissimi ricami e moltissimi pizzi e merletti. Temendo che il mercante potesse svegliarsi in anticipo, rinunciò ad allacciarlo completamente e a indossare il busto; le pareva eccessivamente stretto nonostante si rendesse conto che un tale abbigliamento lo rendeva indispensabile. Calzò poi i sandali e, tolta dal letto del mercante la più umile delle coperte, con il coltello con cui l’uomo aveva servito il cibo praticò un’apertura nel centro di questa. Ciò fatto, vi infilò la testa e l’indossò a mo’ di mantello. La modesta e scura coperta era però troppo grande: con l’aiuto del coltello la ragazza la strappò e l’accorciò. Quando ebbe finito, dello splendido abito che indossava non appariva nulla. Infilatasi tra i seni il panno arrotolato contenente le chiavi, Lerea si impossessò di tutte le monete che poté nascondersi addosso e, favorita dalle tenebre calate da parecchio ormai, uscì dalla dimora del grasso mercante. Avvolta nel cupo mantello si allontanò rapidamente.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 2
2.

Nella piazza di Bartchack, città abitata in prevalenza dai thale, Gambrath non aveva concluso tanti affari da considerarsi soddisfatto. Costretto suo malgrado a inseguire un obeso mercante di chiavi false con la speranza, alimentata da quanto gli era stato riferito, che tra le sue chiavi spaiate avrebbe potuto trovarsi anche la sua, si era presto trovato a disagio.
Aveva già sentito nominare Bartchack, ma l’aveva sempre evitata. Non per l’avarizia dei suoi cittadini, tutt’altro che poco propensi al commercio, quanto per via del borioso e tirannico signorotto locale. Mercante anch’egli, aveva di fatto guadagnato un grandissimo potere comprando con le sue monete le qualità di cui per natura era privo. Costui dopo una brillante carriera di mercante aveva trovato redditizio cimentarsi nientemeno che nel governo della città, si diceva avvelenando il precedente governatore. Poiché l’opera del suo predecessore era stata tale da non far piangere a nessuno la sua oscura e improvvisa morte, Targo Berlosa, questo il nome, aveva avuto campo libero per insediarsi al potere senza che qualcuno trovasse qualcosa da obiettare. Targo Berlosa con le sue monete, che parevano infinite, pagava anche una nutritissima schiera di armigeri: infatti costui era abituato a dare alla sua parola valore di legge con l’oro, con le armi o con entrambi.
La fonte del disagio di Gambrath era però molteplice: stava in piedi su un carro a quattro ruote rubato, trainato da un robusto cavallo da tiro rubato anch’esso, commerciando merci comprate dopo un’onesta contrattazione sì, ma pagate con denaro rubato. Come se non bastasse, sotto le ampie e spesse vesti invernali che indossava, camuffato sotto quella che poteva e voleva sembrare una fasciatura a protezione di una ferita, un bracciale da schiavo cingeva saldamente il suo braccio sinistro. A togliere del tutto il sonno al mercante poi ci pensava la sua compagna con la sua audacia e la sua incoscienza: il giorno precedente aveva osato, senza il suo consenso e alla luce del sole, avvicinare il laido mercante di chiavi e coprirlo di lodi e complimenti per la merce che vendeva. Lerea aveva inoltre finto di desiderare un abito e di confessare di non avere monete per pagarlo. Gambrath aveva sentito brividi lungo la schiena alla vista di Lerea che si allontanava ridendo insieme al grasso truffatore. Quella notte era tornata da lui con indosso una coperta tagliata, un lussuoso abito, monete rubate e soprattutto chiavi di bracciali. Nessuna di quelle aveva però aperto il suo.
Gambrath non aveva chiuso occhio per il resto della notte, invidiando e biasimando contemporaneamente Lerea per essersi invece rapidamente addormentata tra le sue braccia, un’espressione angelica e innocente sul viso. Per il mercante il sonno era stato invece un vero tormento: ogni passo nella strada fuori della locanda dove avevano trovato alloggio era quello di un sicario, ogni carro, ogni cavallo erano quelli degli armigeri di Targo Berlosa che venivano a prenderlo per imprigionarlo per sempre.
Con la grigia luce del mattino non era giunta certo né pace né serenità per il mercante: alzatosi come sua abitudine un poco prima dell’alba aveva fatto rapidamente colazione e con l’aiuto di Lerea si era sbarazzato delle chiavi spaiate o false che fossero. Con l’intento di liberarsi della merce vendendola, onde non destar sospetti, e di partire prima possibile, si erano poi recati in piazza. Qui stavano già giungendo i primi contadini e i più mattinieri tra i mercanti e i cittadini di Bartchack stavano già comprando e vendendo la loro merce. Lerea si era allontanata con la borsa delle monete per cercare i viveri per il viaggio e Gambrath, stanco per la nottata insonne ma tenuto ben sveglio dalla paura, stava cercando di vendere la sua merce, cercando di non dare l’idea di avere fretta di farlo.
Il sole era ormai alto e tutto sembrava procedere come al solito nella piazza ora affollata e fervente di attività. Lerea era già tornata a posare sul carro il primo carico di provviste e di nuovo si era allontanata, poiché per il viaggio che Gambrath progettava quella quantità non era sufficiente. Gli saltò il cuore in gola quando vide ben sei armigeri fare la loro apparizione nella piazza, cosa abbastanza insolita. Ancor più si spaventò quando vide che scortavano il grasso mercante che Lerea aveva osato ingannare.

Dora si chiese quando cominciasse l’estate in quel maledetto posto. Non appena uscita dal Varco aveva cominciato a tremare dal freddo e ben presto aveva rinunciato all’idea di andarsene in giro seminuda com’era stata abituata a fare in precedenza. La cosa dapprincipio le era parsa strana: ricordava infatti che il “di là”, come aveva battezzato quello stranissimo posto, era sempre caldo e afoso a dispetto di ciò che aveva a suo tempo dedotto dagli abiti indossati dai suoi abitanti.
Ora invece il freddo c’era ed era pungente: ben presto aveva dovuto utilizzare i poteri che le derivavano dall’attraversamento del Varco non per procurarsi armi, ma vestiti per l’inverno. Dopo qualche incertezza iniziale era riuscita a procurarsi una bella pelliccia, una insolita calzamaglia di lana morbida e caldissima, gambali di lana, una corta tunica di lana e una di cotone. Non era riuscita a fare a meno di modernissimi stivali anfibi, però: il terreno era gelido e duro e non le sembrava il caso di utilizzare gli stivali che ricordava di aver visto indosso agli abitanti del posto.
Abitanti che sembravano spariti: si trovava nel mezzo di una brulla pianura totalmente deserta. La nebbia le impediva di vedere a più di un centinaio di metri di distanza e per quanto camminasse, non riusciva a incontrare nessuno. Nemmeno animali. Solo il disco del sole, sospeso opaco sopra di lei, e qualche albero morto che appariva di tanto in tanto le facevano compagnia.
Camminò per un bel po’ e solo quando il terreno divenne un po’ più aspro e ondulato si accorse di non essere più sola. Il terreno arido si era gradualmente coperto prima di curiosa vegetazione che vi si aggrappava con tenacia, poi di arbusti e addirittura alberi, molti spogli ma altri sempreverdi. Proprio mentre camminava tra i tronchi alti decine di metri ebbe la sensazione di qualcuno che si trovasse alla sua sinistra, a una certa distanza. Più di una volta aveva infatti sentito rumori di rami e fruscii non sincronizzati con i suoi movimenti. Ogni volta si era fermata e aveva teso le orecchie, ma non aveva potuto percepire nulla di certo. Strinse la mano sullo spadone e si sforzò di non fermarsi. Non ancora. Prima o poi se quel qualcuno avesse avuto intenzione di aggredirla avrebbe dovuto uscire allo scoperto. Il sole era ancora alto e nonostante la nebbia, in quel bosco di alberi scheletriti la visibilità non era così pessima. Dora inoltre contava di raggiungere uno spiazzo aperto prima del tramonto, costringendo così il suo misterioso inseguitore a farsi vivo prima o ad agire allo scoperto.
Passato poco tempo infatti Dora sentì chiaramente alle sue spalle uno scalpiccio di cavalli a bassa andatura. Si voltò verso la fonte del rumore e strinse la mano sull’impugnatura della spada. Chiunque fosse non stava venendo direttamente verso di lei e soprattutto non tentava di passare inosservato: ora poteva infatti sentire delle voci, come se venissero impartiti degli ordini.
Apparve dapprima un soldato a cavallo: bardato con placche di metallo, l’animale soffiava nuvolette di fiato bianco e poteva quasi sembrare un drago, viste le finte corna che ornavano la placca messa a protezione del muso. Il cavaliere era sicuramente un soldato appartenente alle schiere dei cattivi: era passato un bel po’ di tempo dal suo ultimo viaggio, ma Dora ricordava benissimo le insegne che quei soldati portavano. Se le ricordava perfettamente indosso al brutto ceffo a cui aveva piantato una scure nel petto dopo che lui l’aveva ferita, ricordandole che non era affatto immortale. Da sotto l’elmo il soldato a cavallo le rivolse un’occhiata severa e poi gridò un ordine. In pochi secondi altri soldati a piedi e a cavallo fecero la loro apparizione.
- Chi sei? - le chiese il soldato a cavallo con voce imperiosa. Sembrava che avesse impartito l’ennesimo ordine. Dora, spinta dall’autorità di quella voce, non pensò nemmeno a non rispondere.
- Sono Dora.
- E chi saresti?
Dora si ricordò che da quelle parti avevano tutti quanti nomi piuttosto pomposi. Pensò a qualcosa di roboante per darsi un tono: non le piaceva essere “Dora e basta”, ma lì per lì non le venne in mente nulla.
- Sono Dora la guerriera di Tesmacher – disse, riciclando il proprio cognome, sperando che non ci fosse nessun luogo che si chiamasse davvero Tesmacher.
Il soldato, che aveva il suo da fare a trattenere la sua ombrosa cavalcatura che non stava un attimo ferma, parve riflettere per un attimo, non ricordando assolutamente dove potesse essere la città di Tesmacher.
- Io sono Klug Batarn, caporale dell’esercito del Sommo Tiranno. Stiamo inseguendo un ladro di chiavi e l’abbiamo visto dirigersi a piedi dentro questo bosco. La legge del nostro Illuminato Tiranno ti impone di rivelarci ogni cosa tu abbia visto o sentito per aiutarci a catturare il ladro, straniera.
Il soldato aveva pronunciato l’ultima parola caricandola di dubbio, quasi di disprezzo. Dora aveva visto che lo sguardo dell’uomo era caduto più volte sullo spadone che lei continuava a stringere. Era possibile che i soldati avrebbero cercato di attaccarla anche solo per avere quell’arma e mise all’erta tutti i suoi sensi.
- Non ho visto proprio niente – disse, sincera.
- La pena per chi mente agli armati del Sovrano è la frusta! – annunciò il soldato a voce alta. Il suo cavallo scartò ancora, come se ci fosse qualcosa che lo spaventava.
Dora stava per rispondere che non aveva visto davvero nessuno quando il caporale diede un nuovo ordine e tutti i soldati si misero in movimento, ricominciando la ricerca. Il caporale squadrò nuovamente Dora dall’alto del suo ombroso cavallo e disse:
- Spera di non incontrarci ancora… guerriera! – Spronato il cavallo, superò Dora passandole vicinissimo. Ancora una volta Dora sentì disprezzo e astio nell’ultima parola pronunciata… tanto evidente da trasformare quella parola quasi in un insulto. Avrebbe voluto replicare adeguatamente, ma non le venne in mente nulla e in breve tutti i soldati furono fuori portata di voce.
Non le rimaneva che rimettersi in marcia, alla ricerca di nemmeno lei sapeva cosa. Quietatosi il tumulto per l’incontro con i soldati e smaltita l’adrenalina accumulata per la battaglia mancata, il pensiero le tornò da solo all’ultimo viaggio, intrapreso tanto tempo prima. Anche se erano passati solo alcuni mesi, le parevano ricordi vecchi di anni. Ricordava quella specie di stregone medico che fumando la pipa le aveva detto in faccia ciò che nemmeno lei aveva avuto il coraggio di ammettere di fronte a se stessa. I suoi viaggi in quel mondo non servivano a liberare gli oppressi, a riparare torti come lei credeva di fare, come si era convinta per mascherare il proprio egoismo. La verità era che lei si recava laggiù perché solo così poteva sentirsi ciò che non poteva essere nel mondo reale. Anche in quel momento sentiva su di sé la metamorfosi che quel posto rendeva possibile: una cosciente e consapevole modifica del proprio corpo per renderlo migliore, più forte, più bello. Dora sentiva la propria carne cambiata: dove era solita lamentarsi della cellulite ora c’erano robustissimi muscoli, potenti e scattanti; il ventre era ora piatto e duro, e non molle e sporgente. Non stava cercando qualcuno da salvare da morte certa per mano di qualche prepotente: stava cercando qualcuno a cui dimostrare la propria forza, qualcuno a cui ostentare il proprio corpo nuovo. Nonostante ciò le rendesse un po’ amara la permanenza, decise di continuare lo stesso, stavolta ripromettendosi di stare lontana da ogni evento catastrofico però.
La sua falcata aveva raggiunto un ritmo ben cadenzato e deciso, come se riflettesse il corso dei suoi pensieri. Quando la sua attenzione si spostò nuovamente all’ambiente circostante, non trascorsero che pochi minuti prima che le fu chiaro di non essere sola. Di nuovo.
Questa volta la sensazione le arrivava da quella sorta di sesto senso che aveva solo in quel mondo: riusciva a percepire se qualcosa di vivente le si avvicinava molto prima che gli altri suoi cinque sensi potessero metterla in allarme. Era molto lontano e mentre correva rapidissima seguendo le indicazioni di quella sorta di sesto senso, si chiedeva come mai non l’avesse percepito prima e soprattutto come mai non avesse percepito allo stesso modo i soldati.
Dora sfrecciò tra gli alberi, sorpresa lei per prima per la velocità che riusciva a tenere senza sforzarsi troppo. In breve seppe di essere vicinissima e infatti i suoi occhi colsero presto la sagoma scura di un uomo che le dava le spalle. Questi si voltò, la vide e si mise a fuggire, ma fece in tempo a percorrere solo pochi metri prima di essere acciuffato dalla vigorosa stretta di Dora che, con una sola mano, lo afferrò per i vestiti e arrestò la sua corsa con uno strattone tale che quelli scricchiolarono. L’uomo gridò per lo spavento e cercò di gettarsi a terra, ma Dora lo sostenne in piedi sempre tenendolo per gli abiti invernali.
- Pietà! – implorò l’uomo, guardandosi bene dal gridare.
- Tu devi essere il ladro che stanno cercando… - osservò Dora.
- No! Vi prego, nobile guerriera, Signora delle Armi, Illustre Principessa! Fulgida luce che m’abbaglia con la sua beltà! Non chiamate i soldati! Se solo un briciolo della Vostra benevolenza ricadesse su me misero, io sarò salvato!
Sorridendo alle sperticate lusinghe dell’uomo, Dora lasciò la presa, pronta a scattare nel caso l’uomo tentasse nuovamente la fuga. Questi invece si gettò ai suoi piedi.
- Grazie! Grazie! Grazie, nobile guerriera, Regina delle Lame, mia Signora e Padrona! La Vostra generosità è pari solo alla Vostra bellezza! Non sono degno della Vostra presenza, io zolla di terra sotto le vostre scarpe, insetto notturno scacciato dalla Vostra fulgida presenza! Principessa! Regina! Non son degno di servirVi, ma comandate e io obbedirò! Se solo voleste Voi…
- Basta, basta… stai zitto un attimo… - Dora divertita interruppe la logorrea dell’uomo che ancora prostrato ai suoi piedi non aveva smesso un attimo di parlare, ma senza mai alzare la voce oltre un bisbiglio.
- Sì, sì! Come comandate, Regina! Sono ai vostri ordini, Signora delle Lame, dominatrice delle battaglie! Conquistatrice di fortezze, bal…
- Vuoi stare zitto? - esclamò lei seccata.
Stavolta l’uomo si ammutolì davvero.
- Cazzo, che lingua lunga! Alza la testa. Chi sei?
- Sono Ander, figlio di Aevir, colui che rubò il calice di Raluqe. La mia è una stirpe di ladri da più di sette generazioni, Eccelsa… mi inchino a Voi e mi metto a Vostra più totale disposizione!
- Allora è vero! Sei un ladro!
Ander rimase in ginocchio ma mise le mani avanti, gesticolando rapidamente.
- No, no, Vostra Maestà, no! Non un ladro… il ladro… modestamente fui io a sottrarre Saggra dalla sala del trono dell’Usurpatore! Una grande impresa, se mi è consentito l’ardire…
L’uomo, piuttosto giovane e fisicamente ben messo nonostante l’aspetto trasandato, sorrise mostrando denti regolari e solo leggermente ingialliti.
- Vorresti farmi credere che non sei tu il ladro ricercato dai soldati? – chiese Dora stando al gioco. Quel tipo le pareva buffo e simpatico, ma non sapeva ancora se era anche inoffensivo. Per il momento era l’unica creatura viva nei paraggi.
- Un banale equivoco, Eccellenza, Maestà! Sicuramente uno scambio di persona, una disattenzione burocratica, un caso di miopia politica, una disattenzione, sì, un caso! Io non ho fatto nulla per meritare tutti quei soldati sulle mie tracce, Signora delle Lame, potente guerriera, nobile Principessa, illustre…
- Ok, ok, smettila… va bene. Perché fuggi, allora?
La maschera di Ander cadde per un attimo e il suo sorriso artificiale assunse una sincera sfumatura divertita. Ma durò solo un breve istante.
- Mia Signora, Principessa, invincibile guerriera! Sicuramente Voi provenite da terre lontane dove il Malvagio è poco noto! Magari potessi dire altrettanto! È noto a tutti che i soldati del Tiranno non vanno tanto per il sottile: basta loro un sospetto, un’accusa, una calunnia ed ecco che inseguono, catturano, imprigionano, frustano e uccidono! Sempre meno raramente agiscono in questo modo anche per meno! Ogni ordine che ricevono è per loro legge e la trasgressione vuol dire morte!
- Che ladro sei allora se non hai rubato nulla?
Ander si rabbuiò per un istante, ma riprese subito il suo ubriacante eloquio.
- Regina, Signora delle Armi e distruttrice di fortezze, Principessa dei guerrieri, io sono Ander, figlio di Aevir! Fu mio padre a rubare il calice di Raluqe, sottraendolo alla vigile sorveglianza del guardiano dai tre occhi! Fui io a sottrarre al Tiranno Saggra, la Spada del Potere, rubandola da sopra lo scranno dell’Usurpatore stesso! Fui io che… ah!
Dora aveva afferrato per un braccio Ander e lo aveva alzato di peso, facendogli anche un po’ male. Ora lo stava trascinando con sé.
- Finché non mi dirai che cosa hai rubato, tu verrai con me.
- Ma Regina, nobilissima…
- Cammina davanti a me! E silenzio!

Lerea stava trattando con un avaro contadino thale l’acquisto di due piccoli otri di vino dolce quando intravide il mercante obeso che aveva ingannato la notte prima. Doveva essere davvero resistente per smaltire così presto il vino da lei drogato con le erbe dalle proprietà soporifere di cui sua madre aveva fatto in tempo a insegnarle l’uso. L’intera mattina era ormai trascorsa e l’ora di pranzo era vicina: a giudicare dalla quantità di vino che il mercante di chiavi aveva tracannato, avrebbe dovuto dormire fin quasi a sera.
Lerea fece finta di niente e continuò a contrattare il prezzo del vino. Aveva visto che la grossa testa del mercante roteava in continuazione sul suo collo così lardoso che ricadeva sul petto tutt’uno col mento. La stava cercando.
Naturalmente non indossava né il vestito rubato né la coperta da lei tramutata in mantello: aveva sciolto i lunghissimi capelli scuriti dall’inverno che arruffati e annodati com’erano non la facevano certo sembrare la dama, seppure un po’ trascurata, che aveva finto di essere il giorno precedente. Per rendere credibile la sua storia e perpetrare l’inganno aveva raccolti laboriosamente i capelli in una elegante crocchia, non certo elaborata e precisa come quella delle autentiche dame ammesse ai ricevimenti presso signorotti e media nobiltà, ma credibile. Il vestito glielo aveva procurato giorni prima Gambrath, contrattandolo da un mercante di passaggio e nelle intenzioni del povero Gambrath quel vestito era destinato a ben altra sorte. Per dare il tocco finale alla propria acconciatura aveva poi raccolto certi fiori e bacche nella campagna intorno a Bartchack con cui aveva prodotto innocui cosmetici colorati: rosso chiaro per le labbra e sfumature di viola per contornare gli occhi. La notte precedente, tornata da Gambrath nella locanda si era lavata il viso a più riprese per cancellare ogni traccia colorata e aveva subito sciolta la crocchia.
Sentì il trambusto aumentare e non poté fare a meno di voltarsi a controllare ancora. Il pallido viso del mercante emerse tra la folla e subito dietro di lui apparvero sei armigeri armati di lunghe picche e di spade. Notò che il grasso mercante barcollava più del normale: forse l’effetto del vino non era ancora cessato. Il mercante di chiavi si avvicinò deciso a lei, gli occhietti stretti tra le fessure delle palpebre gonfie e livide. Gli occhi scavati dal vino drogato erano lucidi e acquosi come quelli di un bue. Il suo sguardo era annebbiato e il suo passo incerto: giunto vicino a Lerea le afferrò entrambi i polsi come se dovesse arrestare la sua camminata aggrappandosi a lei. La squadrò per lunghissimi momenti in volto, sudato, col fiato puzzolente che gli sibilava nella gola. Il cuore di Lerea stava battendo all’impazzata per la paura e lei temette che il mercante se ne accorgesse dai polsi. La ragazza fece tutto il possibile per sopportare quello sguardo da rospo, sguardo indagatore che sembrava poter superare gli abiti pesanti e umili per esplorare la sua pelle fin nell’intimità.
- No… - disse il mercante di chiavi - …nemmeno lei! Nemmeno lei!
Ciò detto abbandonò la presa sui polsi di Lerea e si allontanò barcollante, seguito dalle guardie.

Lerea stringeva le redini del forte cavallo da tiro che trainava il traballante carro, ormai vuoto. Al suo fianco Gambrath terminava di fare i calcoli di quanto avevano guadagnato vendendo la merce nella piazza di Bartchack. Non avevano vuotato completamente il carro: alcuni manici per attrezzi infatti rotolavano qua e là a ogni scossone, colpendo le sponde di legno. Poche altre cose erano rimaste e Gambrath le aveva avvolte in una tela. Avrebbe nascosto anche i manici, ma non aveva un telo così grande. Visti da lontano quei manici avvolti in un telo avrebbero potuto sembrare un’arma infagottata ed essere calamita per guai.
Gambrath divise in tre parti le monete: una la nascose sul carro, sotto il sedile; un’altra la nascose sotto i suoi vestiti e la terza la diede a Lerea che fece altrettanto.
- Non è andata affatto male a Bartchack – disse lei constatando il peso della borsa che il compagno le aveva dato.
- Poteva andare molto male. Hai rischiato davvero grosso con quel maiale a forma di mercante.
- Poteva avere la tua chiave – lo rimbeccò lei, non più abituata a sentirsi rinfacciare le cose.
- Ma non l’aveva. Per fortuna non ti ha trovato l’altro giorno, nella piazza del mercato. Era accompagnato da sei guardie. Capisci? Sei guardie. Deve essere un pezzo grosso da quelle parti. Una persona importante.
Lerea, sapendo quanto Gambrath fosse in grado di spaventarsi anche solo al pensiero, aveva evitato di riferirgli l’episodio avvenuto quel giorno nella piazza del mercato. Faccia a faccia con Oberto Goaf, mercante e nobile di Bartchack. Non l’aveva riconosciuta, per fortuna: doveva essere ancora ubriaco e intontito dal vino drogato. Lerea si chiese se avesse capito che il vino non era vino qualunque e dentro di sé sorrise al pensiero dell’inganno ben riuscito.
- Perché sorridi? Il ricordo di quell’ignobile grassone ti fa sorridere? – obiettò Gambrath vedendo la smorfia su quel viso che aveva imparato a leggere. O così credeva.
- Niente affatto. Ridevo per l’inganno…
- Non dirlo nemmeno! Anzi, dimenticati tutto: tu non hai mai incontrato il mercante Oberto Goaf, non l’hai mai visto, non sai chi sia! È meglio per te e per tutti.
- Ci proverò – rispose Lerea. L’espressione a metà tra il sibillino e il divertito non le abbandonava il volto. Gambrath se ne accorse e stava quasi per insistere, ma lasciò perdere. Era per lui impossibile cercare di capire cosa passasse per la testa della sua compagna.
Terminato il sentiero di Bartchack Lerea diresse il carro seguendo le indicazioni di Gambrath: avrebbero dovuto trovare un guado per attraversare un rigagnolo senza nome da cui in quel periodo dell’anno nessuno si aspettava certo problemi. Il greto del fiumiciattolo però non facilitava certo l’attraversamento: proprio nel tratto più vicino al sentiero di Bartchack era infatti scosceso e costellato di numerosissime pietre di tutte le dimensioni. Per questo motivo era necessario costeggiare il corso d’acqua per trovare un punto che offrisse un passaggio più agevole.
Raggiunsero il fiume verso l’imbrunire e si accamparono in un punto piuttosto riparato dove c’erano i resti di un accampamento precedente: legna carbonizzata a metà, cenere e resti di cibo bruciato indicavano che qualcun altro si era fermato lì di recente. Gambrath, un po’ più tranquillo da quando aveva visto scomparire dietro di sé il profilo di Bartchack, poté tornare al suo abituale sonno leggero riposando tranquillo o quasi al fianco di Lerea, riscaldato dalle ultime braci e dal corpo di lei.

Il carro era ormai a metà del guado: il torrente nel punto più profondo non arrivava ai polpacci e il robusto cavallo da tiro non aveva avuto nessun problema a vincere la debole corrente. Il problema era il terreno accidentato e sassoso: una vera insidia. Il cavallo era scivolato più volte, Gambrath lo guidava tenendolo per il morso, cercando di individuare i punti più rischiosi prima che la bestia ci mettesse uno zoccolo sopra. Lerea stava sul carro avvolta in una coperta e tremava per il freddo: era scivolata ed era caduta nell’acqua alta un palmo, ma gelida più del ghiaccio. Gambrath aveva fretta di giungere sull’altra sponda per accendere un fuoco e asciugare la giovane, ma temeva che il cavallo si facesse male seriamente e non osava aumentare l’andatura.
Il mercante stava valutando la stabilità di un piatto masso nascosto dal fango e dalle pietre quando Lerea richiamò la sua attenzione.
Gambrath guardò dove indicato e vide una ragazza che un po’ più a valle, ma ancora a portata di voce, stava smontando da cavallo e lo stava portando a bere al fiume. Doppio errore, pensò l’uomo: l’acqua poteva essere sporca perché lui stava guadando più a monte, ma soprattutto il cavallo era accaldato per la corsa e l’acqua era troppo fredda per abbeverare la bestia.
- Ehilà! Giovane signora! – gridò e si agitò Gambrath, cercando di non sembrare né scortese e nemmeno pericoloso – Non faccia bere il cavallo! Non faccia bere il cavallo!
La giovane si voltò verso di loro: fu evidente che non li aveva ancora visti, poiché sobbalzò e si guardò intorno, forse temendo un agguato. Ma trattenne il cavallo dall’avvicinarsi all’acqua. Gambrath la sorvegliò per qualche istante e poi le fece un cenno amichevole. La giovane saltò in sella e rimase lì a guardarli mentre completavano la traversata. Ogni tanto il mercante alzava lo sguardo per controllare che la giovane sconosciuta non abbeverasse il cavallo e passo dopo passo fu sull’altra sponda.
Gambrath si diede subito da fare: affidò le redini alla tremante Lerea, sempre seduta a cassetta avvolta nella coperta, prese della legna che teneva per i casi di emergenza e con un po’ di fatica accese un fuoco. Trovò la giovane cavallerizza a poca distanza, chiedendosi come aveva potuto guadare e avvicinarsi senza farsi notare.
- Che sia una buona giornata – salutò questa, cortesemente ma stando sulle sue.
- Lo sia anche per Voi, nobile signora – rispose Gambrath che, mentre aiutava Lerea a scendere dal carro, con l’occhio del mercante stava esaminando sia la giovane che il cavallo. Questo era una bellissima bestia, forte, ferrato e ben tenuto. Sarebbe stato buono per un principe o un guerriero ma mancava una buona sella: la ragazza cavalcava a pelo. Doveva essere stata una persona piuttosto importante: i lunghissimi capelli neri, più lunghi di quelli di Lerea, erano chiusi in quello che restava di una elaborata acconciatura e mal serrati da un banale laccio di cuoio, mentre il vestito, senz’altro di ottima fattura e costoso, era un po’ sporco, logoro e addirittura strappato in due o tre punti. L’aspetto trasandato che la ragazza aveva era però dovuto solo agli abiti: nonostante la pelle candida arrossata dal freddo e i piedi gonfi e sporchi chiusi in vezzosi sandali per nulla adatti al viaggio a cavallo, lo sguardo e il portamento erano quelli di una nobile dama. Con piglio orgoglioso infatti questa si rivolse al mercante.
- Chi siete voi che impedite ai viandanti di abbeverare il cavallo a questo ruscello?
Gambrath non credette alle proprie orecchie. Mentre frizionava Lerea con la coperta per riscaldarla un poco rispose che non era certo il padrone né delle terre né del torrente: era intervenuto solo per impedire che un cavallo così bello potesse ammalarsi per un errore così banale.
- Vi ringrazio – rispose la ragazza dopo qualche istante di silenzio. Nella sua voce Gambrath non sentì più alcuna traccia di arroganza.
- Io sono Gambrath il mercante e questa sotto la coperta è Lerea – Lerea cercò di salutare, ma starnutì tre volte di seguito.
- Io sono Laniira dei Cerimoniali. Lo ero, almeno.
Gambrath si congratulò con se stesso e col suo occhio da mercante, in silenzio. Aveva capito che quella non poteva essere una viandante qualunque. Una ragazza così giovane in giro da sola… era con tutta probabilità una fuggiasca, per giunta poco abituata ai viaggi. Lo si capiva dall’abbigliamento e lo confermavano quelle parole appena pronunciate. Lerea starnutì ancora.
- Non può stare con i vestiti bagnati addosso.
- Non può stare senza vestiti: fa troppo freddo – ribatté il mercante.
- Ha ragione lei: devo asciugarmi al fuoco e indossare abiti asciutti o sarà peggio… - confermò Lerea balbettando per il freddo e terminando la frase con un altro starnuto, rumorosissimo.
- Ero ancella dei Cerimoniali… conosco molti rimedi. Aspettatemi, torno subito.
Assicurato il proprio cavallo al carro si inoltrò tra la bassa vegetazione che proliferava abbondante intorno al torrente. Gambrath mentre continuava a frizionare Lerea che si spogliava, le chiese cosa pensava della fuggitiva.
- È sincera, non ha mentito – disse Lerea strofinandosi il naso.
- L’hai sognata?
Lerea rispose di no con un cenno della testa e si strinse nella coperta. Fece sporgere dai lembi la sua tunichetta di cotone, l’ultimo capo di abbigliamento che indossava direttamente sopra la pelle. Era ancora fradicia e Gambrath la appese vicina al fuoco, insieme agli altri abiti, affinché asciugasse. Lerea starnutì.
- Cosa ti fa pensare che stia fuggendo?
- Le hai visto i piedi? Indossa sandali da banchetto. Ha i piedi sporchi e gonfi per il freddo. E i vestiti…
- Sono bei vestiti – osservò Lerea.
- Certo – confermò Gambrath – troppo belli per compiere un viaggio a cavallo, cavalcando a pelo. Hai notato che il cavallo non ha sella? Secondo me l’ha ceduta per pagare lo stallaggio. È un baratto tipico di qualcuno che non ha soldi.
La ragazza tornò dopo poco con legna per il fuoco e con un mazzetto di erbe. Lerea le riconobbe e le approvò tutte, una a una, scambiando consigli e suggerimenti sull’uso con Laniira. Questa poi prese le erbe, le ripulì come le era stato insegnato e con alcune ne fece un decotto per Lerea.
Metà del pomeriggio era ormai trascorso per accudire Lerea e i vestiti non erano ancora asciutti. Gambrath decise che si sarebbero accampati e che avrebbero trascorso la notte vicino al torrente. Laniira chiese il permesso di restare con loro per la notte e Gambrath, non senza qualche sospetto, lo accordò, facendo conto sul proprio sonno leggero da mercante. Insieme a Laniira si dette poi da fare per cercare un punto migliore dove montare la piccola tenda e spostare l’accampamento.

Intenzionata a consegnare il ladro alle autorità del paese più vicino, Dora pungolò l’uomo con minacce e spintoni tutte le volte che questi tentava di rallentare o di voltarsi. Ma nonostante il buon ritmo che era riuscita a mantenere, non solo non era ancora uscita dal quel bosco spettrale ma non era nemmeno stata in grado di ritrovare i soldati incontrati prima. Dora non era abituata alla presenza di alberi: ce n’era qualcuno del tutto ornamentale vicino al Diner’s dove lavorava, ma tanti tutti insieme non li aveva mai visti. Le si frapponevano davanti in continuazione, alzavano le radici dal terreno rischiando di farla inciampare, le sembravano alimentati da una vita propria, lentissima ma determinata e ostile. In combutta con la nebbia le impedivano la vista di cosa la circondava e aveva perfino il dubbio che fossero loro a ridurre od addirittura rendere intermittente la sua capacità di percepire la presenza di persone intorno a lei prima che la vista o l’udito la potessero avvisare.
- Se la Vostra Signoria mi premettesse… - disse Ander ansimando per il ritmo della marcia, ma senza voltarsi: aveva già preso energici spintoni a sufficienza.
Dora era distratta e non lo fermò. Dal momento che non gli vennero messe le mani addosso né rivolte parole aspre o minacce, si sentì autorizzato a continuare.
- Molto umilmente Vi faccio notare, Signora delle Lame, Eccellentissima, Dominatrice delle Battaglie… stiamo andando nella direzione sbagliata…
- Eh?
- Davanti a noi non c’è altro che la brulla pianura, Nobile Guerriera, Vostra Grazia, Regina e portatrice di splendida luce… Se, come credo di aver capito, modestamente, la Vostra destinazione è la grande città di Taliba, ebbene la direzione è quella.
Ander indicò alla sua destra alzando il braccio. Col sinistro invece indicò una nuova direzione.
- Procedendo da questa parte e con una marcia di pochi giorni invece potrete trovare la città di Anderes, liberata recentemente dalle forze assedianti dell’Oscuro Malvagio. Modestamente io stesso…
- Zitto. Cammina! – gli intimò Dora – Da questa parte!
I due si ripresero a muoversi correggendo la direzione della marcia in direzione di Taliba.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 3
3.

Qarago Landalork menò un terribile fendente contro il suo avversario nell’arena, mancandolo d’un soffio. Questi infatti, più piccolo e scattante di lui, era riuscito ad arretrare con un colpo di reni appena in tempo per evitare la scure bipenne del gigante che aveva di fronte e che la sorte gli aveva dato come avversario.
Qarago si accorse che la sua seconda avversaria si era fatta troppo sotto pensando di poter sfruttare la situazione per attaccarlo alle spalle e, costretto il primo ad arretrare di fronte alla sua spada che fischiò a vuoto nell’aria, si voltò prontamente per affrontare l’altra. Questa non sapeva combattere molto bene e Qarago se n’era accorto subito: per questo motivo si era congratulato con se stesso per la propria buona sorte. La giovane straniera che aveva davanti era davvero molto forte: sotto l’insolito e bizzarro vestito di pelliccia e metallo doveva esserci un fisico ben robusto.
Il mercenario con un urlo parò un potente colpo calato dall’alto dalla riccioluta giovane e con un calcio in pieno petto la mandò a ruzzolare lontano per voltarsi subito verso l’altro avversario, non molto forte ma molto veloce. Lo aveva visto avvicinarsi con la coda dell’occhio ed eccolo infatti, colto dallo sguardo feroce dell’enorme guerriero mentre si preparava ad attaccarlo alle spalle. Qarago pensò che era ora di uscire da quella imbarazzante situazione: non poteva certo passare il resto della giornata a tenere a bada gli attacchi alla sua schiena portati da una giovane principiante e da un seccante aspirante alle sue mortali spoglie. Parò appena in tempo il colpo destinato alle sue reni e non potendo rispondere adeguatamente, menò la scure di piatto mirando alla testa e contando sulla rapidità del colpo più che sulla sua efficacia.
Metallo contro metallo risuonò fortemente e l’attaccante si ritirò con un grido, l’elmo vistosamente acciaccato e il volto ferito. Qarago non si ricordava di aver mai indossato un elmo in un corpo a corpo. Se il suo avversario fosse sopravvissuto, dopo quel colpo avrebbe certamente cambiato opinione sugli elmi. Qarago si voltò verso l’altra curiosa avversaria: spesse righe nere sul volto per conferire un aspetto feroce non riuscivano a celare un viso da ragazzina, ma dietro la voluminosa cascata di ricci neri sfuggiti a ogni controllo aveva più volte visto brillare le scintille di metallo che aveva già visto negli occhi di altri guerrieri. Si era appena rimessa in piedi e stava cercando il modo di attaccarlo, visto che ora non poteva coglierlo alle spalle e che aveva più volte sperimentato che l’attacco frontale contro Qarago non serve a molto.
La vide lanciarsi ancora in modo piuttosto disorganizzato ma veloce. Qarago ebbe appena il tempo di scansarsi e di farle uno sgambetto: con un brivido gelido nelle ossa si rese conto che se fosse stata un po’ più esperta, invece di ruzzolare ancora in terra avrebbe potuto sbudellarlo con facilità. Il mercenario non perse il suo sangue freddo e controllò l’altro avversario: il volto ora scoperto era una maschera rossa e una ferita sulla tempia gli colorava anche le mani e il collo. Gli arcieri sul palco già incoccavano, la folla schiamazzava: non era un bel combattimento, non avrebbe ricavato alcuna gloria vincendolo. Il suo avversario attaccò.
Fu un attacco quasi prevedibile: Qarago anticipò il fendente orizzontale con la scure ma non poté impedire che un calcio lo colpisse sotto l’ascella destra, il lato della spada. Conosceva quella tecnica e ne verificò di persona il doloroso risultato. Le aspre voci dei suoi maestri di guerra risuonarono nelle sue orecchie rimproverandolo come quando era un giovane combattente. Qarago accusò il colpo ma riuscì ad anticipare anche la conclusione di quell’attacco, la coltellata al petto. Col braccio sinistro in posizione estesa per aver fermato la spada nemica sembrava vulnerabile e il suo avversario cadde nel tranello: cercò di riportare un’altra volta lo stesso colpo, cercando il cuore del mercenario. La sua testa ruzzolò lontano dal corpo, staccata di netto dal collo con un solo potentissimo colpo della scure bipenne di Qarago. Con un calcio allontanò il corpo che zampillava sangue dall’orrendo squarcio e si dedicò completamente all’ultima avversaria di quel giorno.
Era in piedi a diversi passi da lui, dove il suo stesso impeto l’aveva portata con l’aiuto dello sgambetto di Qarago. Ansimava vistosamente per la fatica, ma sul suo volto non c’era un’espressione feroce. Piuttosto sbigottimento e forse anche paura, come se solo in quel momento si fosse resa conto davvero di dove si trovava e di cosa stava facendo. Il mercenario non era abituato a festeggiare la vittoria in anticipo ma vide chiaramente come sarebbe finito anche l’ultimo scontro. Il sesto cadavere di quel giorno non sarebbe stato il suo. - Sei carne per il letto! – le gridò contro più forte che poté.
La giovane sussultò e assunse una posizione difensiva, proprio come Qarago si aspettava. Attendendosi una reazione d’orgoglio da un momento all’altro, accorciò la distanza per avere il vantaggio di decidere per primo il tipo di attacco.
Infatti la giovane reagì e attaccò. Qarago parò l’attacco e con un rapidissimo scarto del corpo ridusse la distanza a zero. Con una violentissima ginocchiata al ventre alzò da terra la giovane, con l’effetto di toglierle il respiro e quindi la forza per reagire. Ma non fu necessario parare nessun attacco: l’avversaria cadde supina come un sacco, i lunghi capelli ricci neri come l’inchiostro curiosamente distesi a raggiera intorno alla testa, le braccia e le gambe leggermente divaricate. La spada e il lungo pugnale le sfuggirono di mano e caddero a poca distanza ma non più raggiungibili.
Questa volta lo sbigottimento fu di Qarago. Come aveva potuto quella giovane sconfiggere due avversari non certo pivellini come l’aveva vista fare? Certo, quasi nello stesso tempo lui ne aveva uccisi tre, ma era sicuro che la ragazza sarebbe stata un’avversaria all’altezza. Invece ora era lì, apparentemente stremata, il petto che si alzava e abbassava affannosamente, la bocca spalancata in cerca d’aria, gli occhi chiusi bagnati da copiose lacrime.
La folla oltre la palizzata rumoreggiava e gli arcieri stavano di nuovo scegliendo le frecce. Quella fanciulla guerriera non meritava la morte per sua mano, ma un’idea si stava facendo strada nella mente di Qarago: essa non meritava neanche il legno delle frecce degli arcieri del Tiranno. Il mercenario puntò la sua spada alla gola della ragazza e lo sguardo sulla folla. Alcuni facevano segno di sgozzare, molti rumoreggiavano mentre parecchi stavano già abbandonando l’arena.
- Che viva! – gridò infine Qarago levando in alto la spada. Volse lo sguardo tutto intorno: tra il pubblico quelli che si erano trattenuti all’udire quelle parole avevano gli occhi su di lui e aspettavano curiosi.
- Che viva! – gridò ancora a squarciagola, frapponendosi tra la ragazza e gli arcieri. La vita della giovane sarebbe stata sua.
La prassi per lo sconfitto era la morte, ma Qarago era davvero intenzionato a non prendere la vita che aveva tra le mani. Nemmeno lui sapeva esattamente perché. La folla rumoreggiava più forte: alcuni cominciarono perfino ad azzuffarsi tra loro.
- Che viva! – gridò ancora più forte.
Dalla folla si alzò una eco a quel grido, dapprima debole e incerta, poi sempre più decisa e ritmata. Infine divenne come un’ovazione per Qarago: totale e indiscutibile. Che viva.
Proprio mentre il mercenario incitava la folla alzando le braccia al ritmo delle loro grida come per segnarne il tempo, un acuto grido di donna vicino a lui richiamò con urgenza la sua attenzione. Si voltò appena in tempo per vedere una raffica di frecce mordere il terreno dell’arena dove un istante prima giaceva l’eccentrica giovane guerriera. Gli occhi di Qarago spaziarono immediatamente alla ricerca dell’avversaria e fu molto sorpreso di trovarla a notevole distanza da dove era caduta, offrendo facile bersaglio per gli arcieri.
La folla intorno all’arena, resasi conto dell’eccezionalità di quanto accaduto, sottolineò con grida di sorpresa l’altrettanto sorpresa reazione dei pochi occupanti il palco coperto che alla vista dell’incredibile gesto atletico erano saltati tutti su dai loro comodi e riparati sgabelli.
Gli arcieri, ripresisi rapidamente dallo sconforto per ciò che dovevano aver visto incoccarono di nuovo, un po’ meno ordinatamente del solito. Al che Qarago gridò di nuovo “che viva” a squarciagola all’indirizzo dei soldati, ma senza alcun successo: l’ufficiale che li comandava li rimise in riga e diede l’ordine di puntare.
- Fermi! – gridò Qarago correndo verso la ragazza che con un ginocchio a terra osservava gli arcieri non abbastanza preoccupata secondo quanto sembrò al mercenario. Ma il balzo che quella doveva aver compiuto era stato davvero notevole e Qarago non riuscì a raggiungerla prima delle frecce.
Dalla folla si levarono alte grida di stupore: perfino Qarago arrestò la sua corsa non credendo a quello che stava vedendo. Tutte le frecce erano rimbalzate via da uno scudo runico d’un tipo mai visto prima: era addirittura trasparente! Apparso dal nulla tra le mani della guerriera, riparava in maniera egregia la sua figura in posizione accucciata com’era. Qarago sapeva che solo le Guerriere Bianche avevano la capacità di fare qualcosa del genere con quella rapidità e quel tempismo perfetto. Sapeva anche che una delle principali regole dell’arena era stata appena infranta.
- Che la strega viva! – gridò l’ufficiale al comando degli arcieri.

Era stata un’insolita serata per Qarago. Era capitato nella città di nome Oona, una città mista, abitata dai thale e dai minuti ma dalla popolazione molto varia, quasi per un caso seguendo le debolissime tracce di Laniira. Ma alla vista dell’arena non aveva resistito e si era presentato per combattere. Al solo sentire il suo nome il preposto dell’arena era sobbalzato e non aveva avuto nulla da obiettare. Normalmente sarebbe stato necessario un piccolo esame di ammissione, per cercare di mantenere alto il livello dello spettacolo nell’arena. Per divertire, il combattimento non doveva essere troppo breve né troppo lungo, ma soprattutto incerto fino all’ultimo, se possibile.
Invece si era presto reso conto che quel giorno sarebbe stato difficile divertire combattendo. Gli avversari non erano stati all’altezza, ma lo spettacolo era stato assicurato da quella guerriera strega o strega guerriera, chissà. Nonostante la vittoria Qarago si era visto pressoché ignorato a favore della strega che aveva ovviamente calamitato l’attenzione di tutta Oona. Non era certamente una Guerriera Bianca e il fatto che aveva opposto resistenza non gli andava giù del tutto. Una strega, continuava a ripetere tra sé e sé il colosso barbuto, seduto con i gomiti sulle ginocchia e in mano un frutto consumato a metà. A poca distanza da lui molte persone, le più importanti del paese, gareggiavano nel portare doni alla strega per conoscerla e ingraziarsela. Perfino i messi del Tiranno, che avevano dato ordine di infilzarla sulle frecce degli arcieri, ora si arruffianavano sciogliendosi in mille lodi e complimenti. E quella? Strana strega: giovane e bella, oltre che armata fino ai denti, invece di fuggire la folla e ricercare la solitudine come tutte le streghe stava là, più ubriaca di chiacchiere che di vino. Non era certo solitaria e sospettosa, dagli ispidi capelli rossi e dallo sguardo fiammeggiante come quella che aveva visto molto tempo prima aggirarsi nei pressi del sentiero che attraversava una selva. Non appena l’aveva visto, lui che viaggiava da solo, era fuggita rapidissima prima ancora che potesse anche solo aprire la bocca. Più tardi l’oste di una stazione di posta gli aveva confermato che una strega abitava quella selva, ma che come tutte le sue simili difficilmente si lasciava avvicinare o anche solo guardare troppo a lungo. Qarago ricordò inoltre che quelle creature potevano mutare aspetto a piacimento e diventare bellissime donne di giorno oppure orribili mostri di notte, ma al sorgere e al calar del sole sarebbero state smascherate. Potevano inoltre compiere diverse magie tra cui mutare gli uomini in bestie come maiali e rospi, materializzare gli oggetti più diversi e scagliarli a grandissima distanza senza nemmeno sfiorarli con la punta delle dita. Era noto infine che le streghe conoscevano strani linguaggi e che ogni sette anni si riunivano in un preciso giorno d’estate, Qarago ignorava quale, e insieme consumavano strani riti per i quali necessitavano di giovani vittime cui sottraevano anni di vita per mantenere se stesse e il loro potere.
- È permesso sedersi al fianco del nobile lottatore?
Scosso dai suoi pensieri, il mercenario si accorse solo allora dell’uomo che si era avvicinato al suo fianco ma che stava a rispettosa distanza dal grande triclinio, quello dell’ospite d’onore, che gli spettava per trascorrere la serata. Non era armato e c’era alle sue spalle una sottile figura incappucciata in una tonaca grigia: la luce delle lampade e delle torce non raggiungeva il volto che restava invisibile. L’uomo doveva essere stato alto e forte in passato: gli anni l’avevano incanutito e curvato ma la sua vecchiaia doveva essere agiata poiché gli abiti che indossava erano ricchi e curati e un vago sentore di lavanda stava raggiungendo le narici del guerriero. Stabilito che l’individuo non era pericoloso, almeno per il momento, gli fece cenno di accomodarsi alla sua sinistra e gli versò del vino in una modesta coppa di coccio. La figura incappucciata, le cui mani sparivano nella tonaca che sfiorava il terreno, non si mosse di un solo passo.
- Caso curioso… il sole è tramontato da parecchio ormai e non c’è stata mutazione… - esordì l’uomo dai candidi e radi capelli, come se gli avesse letto i pensieri.
- Si potrebbe pensare che quello sia il suo vero aspetto – ribatté Qarago, constatando che l’uomo non accennava a portare il boccale alle labbra.
- Guardatela, nobile guerriero… i suoi capelli sono più neri delle ali di un corvo e la sua pelle è così candida e liscia che tutti fanno a gara per portarle fiaccole, lampade e candele... per ammirarla e vederla risplendere…
- Neanche una cicatrice in vista – constatò il gigante grattandosi la barba. Diede un altro morso al frutto che teneva in mano e poi costrinse l’uomo a brindare porgendogli il proprio calice di coccio e facendolo risuonare contro il suo.
- Eppure i prodigi a cui abbiamo assistito stamattina sono possibili solo per le Guerriere Bianche e per le streghe. Cos’altro ha in serbo per noi l’insondabile futuro?
- Vieni al fatto, uomo – disse Qarago senza nemmeno guardare in faccia il vecchio. Terminò la frase con un rutto. L’uomo controllò il proprio disappunto sia per la rozzezza del guerriero sia per aver visto il proprio gioco subito scoperto.
- Mi sia consentito quindi di mostrare a Voi, nobilissimo Qarago Landalork, una ehm… parziale, modesta risposta a tutti questi interrogativi… - disse l’uomo cercando di ripristinare la sua agile parlantina. Qarago si voltò: l’uomo indicava con la mano la figura incappucciata che, chiamata in causa, si avvicinò ma solo di un passo o due. Il guerriero ebbe la sensazione che l’incappucciato non camminasse, ma sfiorasse soltanto il terreno: i piedi erano coperti dalla tonaca e quindi attribuì quella curiosa sensazione a un momentaneo appannamento dei propri riflessi a causa del vino e della stanchezza. - Sono Mastro Mahil Eionson, notabile del Regno e maestro d’arti giuridiche di Oona. Costei è mia figlia Rafi Ailana e porta con onore il saio dell’Ordine delle Iniziate.
Per Qarago tutte quelle parole erano come il fumo dell’arrosto. Maestro d’arti giuridiche voleva forse dire che quell’Eionson era un giudice. Questo poteva tornare utile, ma l’Ordine delle Iniziate proprio non l’aveva mai sentito.
La figura avvolta nel saio estrasse le mani e scostò il cappuccio quel tanto che bastò perché qualche debole raggio di luce proveniente da una torcia vicina lo illuminasse. Qarago non poté vedere molto: notò lineamenti affilati, una bocca dalle labbra sottili e gli occhi che splendevano come se contenessero gli stessi fuochi accesi nel grande cortile della villa signorile in cui si trovavano ospitati. Non seppe spiegarsi il perché ma quel volto toccò qualcosa dentro Qarago e dal centro del corpo il mercenario sentì diffondersi il ben noto gelo della paura.
- Abbiamo assistito al combattimento nell’arena, oggi – disse Mastro Mahil sentendosi autorizzato a proseguire dal silenzio di Qarago, non immaginando che questi era impegnato a capire perché il suo istinto gridava l’allarme. Il tono del vecchio era cambiato: al mercenario sembrò quello di qualcuno che stava per chiedere qualcosa.
- Dunque? – disse Qarago cercando di dissimulare l’inopportuna sensazione che gli si agitava ancora nel petto.
- Ebbene… mia figlia è molto desiderosa d’intraprendere la via della Sorellanza, ma come ben sapete è necessario un periodo di tirocinio che le Sorelle considerano propedeutico all’attività ascetica che solo in seguito, badate, le novizie potr…
- Fermo. Mi stai forse chiedendo di addestrare tua figlia alle armi, uomo? – chiese il gigante barbuto puntando il grosso dito indice verso il petto del vecchio.
- Vi seguirà, a Voi piacendo, e non vi darà disturbo alcuno… - ora il tono del vecchio era quasi di supplica – Imparerà quello che Voi vorrete insegnarle o se ne starà in disparte per osservarvi. È già molto abile e...
- Non se ne parla. Non sono la nutrice di nessuno.
- Nobile guerriero… - ricominciò il vecchio.
- Ho detto di no! – ribadì Qarago a voce più alta – Davvero tieni così poco alla vita di tua figlia? Sette giorni al mio fianco e sarà sette volte morta!
Il vecchio tacque e Qarago si complimentò per l’efficacia delle parole che gli erano venute alla bocca spontanee. Ma il loro effetto durò pochissimo.
- Perdonatemi, nobile Qarago… mia figlia è Iniziata e le sue arti magiche, nelle quali è invero valente, non potrebbero che giovarVi… Vi chiedo perdono, ma stamane avreste potuto subire le potenti malie della bella e insolita strega straniera…
Qarago arrestò la risposta che spontaneamente gli stava salendo dalla gola e tacque un istante. Prese tempo bevendo del vino e pensò che purtroppo il vecchio aveva ragione. La strega, se strega era davvero, aveva dapprima incassato un tremendo colpo che avrebbe tolto le forze a centurioni ben più imponenti di lei, in seguito era sfuggita due volte alle frecce, dapprima con un balzo da ferma di molti passi, in seguito materializzando uno scudo portentoso che con le sue rune bianche impresse sulla superficie miracolosamente trasparente aveva fatto rimbalzare via i dardi. Se fosse riuscito a strappare alla giovane Iniziata anche solo pochi segreti magici avrebbe potuto forse prolungare la sua carriera di mercenario e frequentatore di arene. Si chiese se quell’uomo stesse dicendo il vero.
Finse di mostrare incertezza, titubanza, dubbio. In realtà la decisione era già presa.
- E sia – disse infine – sta bene.
- Oh, grazie! – esclamò l’uomo. Ma non pareva gioioso. Il viso della giovane poi era come di marmo.
Non si era mossa, non aveva mutato la sua severa espressione. Non le si era spento il fuoco negli occhi.
- Aspetta a ringraziarmi – disse Qarago alzandosi in piedi. Seppe abilmente mascherare il suo stupore nello scoprire che la giovane era alta quanto lui.
- Voglio dare a entrambi voi il tempo di pensare a quanto avete chiesto. Partirò domattina presto per la mia strada: se non avrai cambiato idea vieni da me alle prime luci dell’alba. Qarago distolse lo sguardo dal duro viso della giovane che lo fissava senza timore e si volse verso il padre.
- Se lei farà come ho detto, dall’alba di domani tu non avrai più una figlia.

Qarago aprì gli occhi di scatto, già completamente sveglio. Il senso del pericolo lo destava in un baleno e la mano era già corsa al pugnale, ma nella stanza della locanda che aveva preteso e ottenuto per sé solo era vuota. Nemmeno la prostituta con cui aveva diviso il giaciglio era lì: l’aveva eletta a sua regina, ricordava d’aver sfogato su di lei l’ansia e la fatica della giornata mantenendo alta la reputazione della sua fierezza perfino tra le coperte. L’aveva scelta tra tutte e lei l’aveva ricambiato abbandonandolo al freddo centro del cuore della notte. Che ingratitudine, pensò Qarago mentre per puro istinto tendeva le orecchie per cogliere eventuali suoni sospetti oltre la porta fatta di assi un po’ sconnesse. Ancora non riusciva a scoprire cosa l’avesse svegliato di soprassalto.
Decise infine di abbandonare le coperte e cominciò a vestirsi, tenendo sempre a portata di mano il pugnale. Infatti ecco che udì dal corridoio passi leggeri da assassino, furtivi. Scattò più silenziosamente possibile al fianco della porta. Era l’alba e tutto ancora taceva nella locanda. Lontano un gallo cantò. I passi si fermarono davanti alla sua stanza. Attese che qualcuno provasse la porta per strappargliela di mano e colpire. Ma nessuno osò toccare il battente. Eppure era certo che qualcuno fosse lì fuori. Avrebbe dovuto sentirne l’odore, il respiro, invece nulla. Doveva esserci qualcuno. Il sole basso entrava dalla misera finestra che era rimasta aperta (e questo gli spiegò il freddo patito nottetempo) e batteva direttamente sulla porta. Se vi si fosse parato davanti, dal corridoio l’avrebbero notato attraverso gli spiragli delle assi. Col piede ancora scalzo quindi il mercenario si preparò ad aprire, mentre lentamente con la punta del pugnale alzava la misera corda che fungeva da catenaccio. D’un tratto ebbe, chissà come, la consapevolezza dell’identità del visitatore. Rafi Ailana Eionson. Non poté certo fidarsi di quel ridicolo presentimento e spalancò la porta, pronto a colpire. Davanti a lui il saio grigio, il cappuccio alzato.
Qarago seguì il lento movimento calcolato delle mani pallide che illuminate dal sole invernale salivano splendenti verso il cappuccio, lo afferrarono placidamente e lo fecero ricadere sulle spalle. Colpita in pieno viso dai raggi del sole sorgente, Rafi quasi non sembrava la stessa persona della sera precedente. Il suo viso era per lo più triangolare, acuminato; i suoi lineamenti erano affilati, piacevoli ma non belli, resi sottili e spettrali da ciglia e sopracciglia biondissime e dai lunghi capelli raccolti strettamente in più crocchie da semplici nastri. Il sole del mattino pareva giocare con quei capelli e trasformarli in oro. Le labbra erano esangui e sottili, serrate, sormontate da un naso lungo e dritto come il filo d’un pugnale. A colpire il mercenario più d’ogni altro dettaglio furono gli occhi: le pupille ridotte a un puntino nero per contrastare l’alba abbagliante, l’iride color del ghiaccio, un ghiaccio che prometteva di poter resistere al più spietato sole estivo.
Come se fosse stata colpita da un maglio invisibile, Rafi si gettò ai piedi del mercenario. Puntato un ginocchio a terra, quasi posò la fronte sull’altro.
- Maestro.
- Cominciavo a credere che fossi muta – disse Qarago, sorpreso di sentire una voce così decisa e solida provenire dal corpo di una ragazza così giovane.
- Alzati – aggiunse poi Qarago, visto che Rafi si era immobilizzata in quella posizione. Ma quella non si mosse.
- Alzati, ho detto.
Rafi obbedì e riprese a fissare impassibile Qarago con i suoi spietati gelidi occhi.
- Come ho già detto, da adesso Mastro Eionson non ha più una figlia e tu non hai più un padre – disse il mercenario con tono solenne, per nulla imbarazzato dal fatto d’essere seminudo.
- E non ti azzardare a chiamarmi maestro. Noi due saremo compagni di ventura, o saremo morti. Chi è solo conta su se stesso e non sbaglia, ma chi ha un compagno fidato è due volte più forte. Scegli bene i tuoi compagni di ventura e invecchierai. Scegli male, e saranno solo le tue ossa a invecchiare da qualche parte, al sole.
Rafi rimase immobile, attentissima. Qarago aveva usato più o meno le stesse parole che il suo primo maestro d’armi aveva usato con lui, a suo tempo. Non ne ricordava altre e visto che Rafi non commentava, pensò di dover proseguire. Non aveva mai avuto prima d’ora un compagno che si sarebbe rivolto a lui chiamandolo Maestro.
- Hai mangiato? – chiese il mercenario grattandosi il petto peloso. Era nudo dalla cintola in su. Rafi fece cenno di no.
- Allora và e cerca qualcosa per entrambi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 4
4.

- Non temere, mercante: le mie mogli si occuperanno della tua donna ammalata.
Così dicendo il thale di nome Sebian fece sparire le dieci monete di Gambrath nella borsa appesa alla sua cintura. L’uomo, alto e robusto, si girò verso una delle sue due mogli e le diede alcune istruzioni nel loro dialetto. Poi si voltò nuovamente verso Gambrath e Laniira.
- Dal momento che avete chiesto rifugio presso la mia stazione di posta, le mie figlie si occuperanno di voi.
Le giovani figlie dell’oste servirono ai due zuppa calda con patate molto piccole e verdure dall’aspetto piuttosto modesto. Gambrath si trovò subito a rimpiangere l’ospitalità del lontano Cambler. Poco più tardi l’oste, che a giudicare dall’odore che aveva addosso accudiva di persona i cavalli, si unì a loro a tavola. Era troppo tardi perché altri ospiti fossero presenti nella sala illuminata da numerose lampade a olio.
- Vendi chiavi forse, mercante? – chiese a bruciapelo, prima ancora di ingoiare un solo cucchiaio di zuppa. Gambrath trasalì.
- Non possiedo alcuna chiave da venderti, nobile oste – rispose Gambrath, cercando di non fare troppo caso al fetore di stalla che emanava l’uomo. Sperò che la zuppa non fosse opera sua. Il bracciale al suo polso sembrava di ghiaccio.
- Per Elzer! Quale maledizione sarà mai caduta sulla mia testa? Ho due mogli, due figlie e due schiave. Sono circondato da donne incapaci e devo badare alla stalla io stesso. La mia stazione di posta cade a pezzi e io mi vergogno a chiedere monete per la zuppa.
- Non la chiamerei maledizione, nobile oste: i tuoi ospiti saranno ben contenti della dolce accoglienza e non sono tanti coloro che possono permettersi tanto personale – osservò Gambrath.
- Non faccio mercato delle mie mogli e delle mie figlie – ribatté l’oste con sguardo ostile.
- Non l’ho pensato nemmeno per un istante – si affrettò ad aggiungere Gambrath, molto imbarazzato e intimidito dal tono di voce dell’altro – intendevo solo che…
- Le schiave ti costeranno quattro monete l’una, da quando avranno finito il giro delle altre camere fino all’alba, se la tua borsa e il tuo inguine te lo permettono. Non osare sfiorare le mie donne o potresti pentirtene – aggiunse l’oste minaccioso.
- Non leggere inganni o frodi nelle parole di Gambrath, poiché non ve ne si trova. È la parola di Laniira dei Cerimoniali – ciò dicendo sfilò dal vestito un ciondolo che appeso al collo pallido con un ruvido laccio di cuoio era riconoscibile inequivocabilmente come lo stemma araldico dei Cerimoniali, recante incastonata al centro la Sacra Perfezione. Il thale-ma parve sorpreso dall’intervento di Laniira, che aveva visto sbiancare Gambrath alle poco velate minacce dell’oste. Infatti questi alla vista dell’emblema si affrettò ad aggiungere parole un poco più moderate.
- Molte persone chiedono rifugio presso di me e non sempre è possibile distinguere l’onesto e il malfattore. Molte monete ho perduto per queste difficoltà: vogliate perdonare il mio povero modo d’esprimermi dovuto più all’ignoranza che alla cattiva volontà.
L’oste di nome Sebian chiamò a gran voce la figlia e le ordinò di portare vino e frutta.
- Non vi chiederò monete per il vino di stasera per riparazione all’offesa e come segno di buona volontà.
Gambrath stava per ringraziare l’oste, rassicurato dall’improvviso cambiamento d’umore dell’uomo, ma Laniira lo anticipò.
- Non vi è offesa da riparare, nobile oste: avrai tutte le monete che ti spettano. Gambrath rimase interdetto: Laniira aveva appena rifiutato del vino gratis e il fatto travalicava le sue capacità di comprensione.
- Ora è tardi e devo ancora accudire la stalla. Una sola stanza è rimasta al piano di sopra: dovrete dividerla tra di voi. Le mie mogli hanno tentato di preparare due giacigli con i mezzi che abbiamo. Nobile mercante, ti prego di darmi fin d’ora le due monete per quello che hai mangiato e bevuto e le altre quattro monete per la schiava – disse Sebian che avendo finito la zuppa, s’era alzato dal tavolo.
Gambrath armeggiò un poco tra le tasche palesi e nascoste dei suoi vestiti per dare l’idea che trovare due monete fosse una cosa piuttosto complicata. Lasciò il denaro sul tavolo di legno poco piallato con una espressione quasi addolorata sul viso e disse all’oste di non desiderare la compagnia di nessuna delle sue schiave. Chiese invece notizie di Lerea.
- Trascorrerà questa notte con le mie mogli mentre io dormirò qui sotto vicino al focolare. Anvaea ha detto che la febbre non è alta né contagiosa: la tua donna è indebolita dal viaggio e necessita solo di riposo. Ora lei dorme e dormi tranquillo anche tu, mercante.
Gambrath non si accontentò di quella risposta, ma per non rischiare altri attriti con l’oste Sebian lasciò stare. Scambiato uno sguardo con Laniira, che aveva divorato la frutta accompagnandola con il vino, decise di andare a vedere a cosa avrebbe dovuto rinunciare quella notte. Era noto a tutti infatti che le ancelle dei Cerimoniali venivano scelte tra le molte aspiranti non solo per le loro doti di intelligenza, forza e beltà ma anche per il loro grande senso del pudore. Facevano tutte voto di castità. Mai e poi mai qualcuno avrebbe visto un’ancella dei Cerimoniali dare confidenze a chiunque: in quei due giorni che avevano impiegato a raggiungere quella stazione di posta infatti Laniira non aveva mai dormito vicino a Gambrath e Lerea nemmeno per mitigare il pungente freddo della notte.
La stanza a loro riservata era l’ultima del corridoio, la più lontana dal focolare che trovandosi al centro della grande stanza al piano di sotto, riscaldava meglio le camere che si trovavano di sopra grazie alla canna fumaria in pietra e calce. Le mogli di Sebian avevano dato per scontato che i due avrebbero dormito l’uno accanto all’altra per difendersi meglio dal freddo e avevano disposto a contatto le coperte e i materassi di paglia. Laniira non attese neanche un istante: si lasciò andare subito sul primo sacco che fungeva da materasso, dall’aspetto non eccessivamente rassicurante, e cominciò a slacciarsi i sandali. Gambrath, in piedi sulla soglia, non sapeva cosa fare ma, notando i piedi della giovane gonfi e piagati dal freddo, non poté fare a meno di commentare.
- Avrai bisogno di calzature adatte per l’inverno.
- Eh già. Ogni stanza del Tempio è riscaldata d’inverno. Calzo i sandali tutto l’anno poiché solitamente è Sanija a uscire in città – tristezza e malinconia velarono così tanto le sue parole che perfino Gambrath intuì il tormento che vi si celava dietro.
- Domani ci incammineremo per Tendria e al mercato cercheremo anche delle calzature adatte a te – aggiunse Gambrath. Laniira aveva finito di togliersi i sandali che le avevano lasciato orribili segni sui piedini, sporchi e resi lividi dal freddo.
- E Lerea?
- Da Tendria convincerò qualche uomo di medicina a seguirmi fin qui. Per guarire Lerea spenderei tutte le mie monete – disse Gambrath sottovoce.
- Allora sarà meglio dormire più a lungo possibile – disse Laniira sciogliendo e rifacendo meglio i nodi che trattenevano la sua lunga chioma nera, spettinata e aggrovigliata. Vedendo che Gambrath esitava, lo esortò ad andare a dormire.
- Ma… veramente mi chiedevo se… posso prendere qualche coperta?
Laniira comprese il dilemma del mercante e gli sorrise dolcemente nonostante i piedi doloranti.
- Il mio cuore non mi appartiene più da molto, ormai. Ho abbandonato il Tempio per non farvi più ritorno. Dormi tranquillamente al mio fianco, Gambrath, ma non pensare di poterti prendere delle libertà. Limitati a dormire.
Ciò detto Laniira si infilò sotto le coperte ma, forse per un caso, Gambrath ebbe modo di scorgere un lungo e sottile stiletto nella sua guaina appeso al fianco della giovane ancella. Angosciato dal fatto che la giovane rinnegata avrebbe anche potuto tagliargli la gola nella notte per rubargli tutte le sue monete, il mercante si coricò al fianco dell’ancella e si lasciò andare, nonostante il tepore del corpo al suo fianco, a un sonno leggero e agitato da lugubri fantasmi.

Gambrath aveva seguito con ansia la snella figura di Laniira sparire dentro la tenda della guaritrice, una delle tante nella piazza grande della città di Tendria dove sorgeva il mercato. La giovane, che zoppicava sempre più, aveva con sé calzature nuove e bende per i suoi piedi piagati, beni comprati con le monete del mercante poiché l’ancella aveva candidamente confessato di aver speso tutte le poche monete prima del loro incontro al fiume. La guaritrice le avrebbe lavato e spalmato le piaghe con unguento medico e con i nuovi stivaletti di spesso cuoio alti fin oltre le caviglie Laniira non avrebbe più dovuto temere il fango, l’acqua e forse nemmeno la neve, mentre le bende di cotone e di lana, pagate ben due monete, avvolte sulle gambe fino al ginocchio l’avrebbero difesa dal freddo.
Il suo pensiero si spostò subito su Lerea: l’oste lo aveva lasciato entrare nella camera delle sue mogli quella mattina e l’aveva vista addormentata, pallida e scavata in viso, sotto le coperte che le donne le avevano premurosamente rimboccato. Una delle due donne gli aveva detto che la febbre era passata nel primo mattino, ma che Lerea aveva sofferto tutta la notte. Dovette confessare a se stesso che non si fidava: sapeva benissimo che non tutti potevano essere onesti e ospitali come Cambler, ma non riuscire a determinare da che parte stessero Sebian e tutte quelle donne che spuntavano da ogni dove in quella stazione di posta lo rendeva irrequieto. A stento riusciva a distinguerle l’una dall’altra tale era la confusione che generavano nella sua mente; giunse perfino a chiedersi se una o più di quelle donne fosse in realtà una strega sotto mentite spoglie. Ma non gli era sembrato di vedere chiome fulve, denti affilati o altri segni di palese stregoneria e la notte era trascorsa tranquilla. O quasi.
I lembi della tenda si scostarono e apparve la guaritrice, protesa premurosamente verso Laniira che camminava zoppicando vistosamente.
- Faccia piano, padrona, o si riapriranno le ferite! E voi, mercante! Conducetela subito al vostro carro, che stia seduta il più possibile! Non può camminare a lungo!
Gambrath rimase stupito dalle parole e dal tono della guaritrice. Ebbe una sensazione tale che gli parvero rivolte non a un modesto ma dignitoso mercante, com’era facilmente deducibile dai suoi abiti, ma bensì come se fossero state rivolte all’ultimo degli stallieri che sorpreso a oziare gli si affibbia il primo incarico che si riesce a trovare. Lì per lì Gambrath non seppe che fare se non porgere il braccio come sostegno all’ancella: non riuscendo a trovare in fretta parole utili per rimbeccare la guaritrice però, si allontanò piano insieme alla zoppicante Laniira.
- Abituata a comandare, la nostra guaritrice – osservò Gambrath a bassa voce – una nobildonna caduta in disgrazia forse, e costretta all’arte della guarigione per vivere?
- Colpa mia – rispose l’ancella tra una smorfia e l’altra – Nel chinarmi per bendare i piedi il pendaglio dell’Ordine dei Cerimoniali è scivolato fuori dal mio abito. La guaritrice l’ha visto subito ed essendo lei seguace della Divina Perfezione ha cominciato a fare molte domande.
- Come ha osato?
- Non volevo insospettirla con un rifiuto quando mi ha detto che c’è un Tempio a poca distanza da qui. Non è normale che un’ancella dei Cerimoniali se ne vada in giro, ancor meno se accompagnata… da un mercante, poi…
Gambrath aprì la bocca per replicare, sdegnato. Come se i mercanti fossero nel numero dei più infimi malfattori!
- Quindi ho dovuto dirle alcune cose non esattamente rispondenti al vero. Altrimenti sarei dovuta recarmi al più vicino Tempio per essere curata e in seguito rispedita alla mia assegnazione… Taliba. - E, di grazia… cosa hai detto, se posso saperlo? – chiese il mercante temendo di conoscere la risposta.
- Ho detto di avere ricevuto un incarico segreto da parte del Sommo Scelto del Tempio di Taliba, e che tu, travestito da mercante, sei un servo fidatissimo incaricato di custodire la mia persona. Gambrath inghiottì anche questo boccone, ringraziando educatamente per essere stato considerato “fidatissimo”.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 5
5.

Dora decise d’aver indugiato abbastanza a lungo sotto le coperte: il mattino era dolce e soleggiato nonostante la stagione piuttosto rigida, ed era bello poter sonnecchiare tranquillamente soprattutto se si poteva usufruire di un letto quasi comodo e di coperte in quantità. Nella stanza entrava luce e aria fredda dalle molte fessure delle finestre, semplici telai di legno con vetri colorati così grezzi che non erano neanche lontanamente trasparenti. Non li aveva notati la sera precedente probabilmente a causa del buio ma, in prossimità del soffitto c’erano piccoli fori rettangolari completamente aperti, attraverso i quali avrebbe forse potuto infilarci un braccio. Come si mosse sotto le coperte sentì fitte di dolore ai muscoli del ventre: anche le gambe e le braccia le dolevano, a ricordo dell’attività fisica straordinaria del giorno precedente. Scostò dalla propria pelle nuda le coperte aggrovigliate e si puntellò sui gomiti, non riuscendo a trattenere le smorfie di dolore. Subito sotto le costole c’era un bel livido piuttosto esteso dove il ginocchio di quella specie di bisonte umano l’aveva colpita il giorno prima, sollevandola letteralmente da terra e togliendole tutto il fiato. Provò a inspirare profondamente e i muscoli protestarono vivamente. Stringendo i denti scalciò via del tutto le numerose coperte e pellicce che il suo ospite le aveva messo a disposizione e si mise a sedere su quello che per la gente di quelle parti doveva essere un letto di gran lusso. Faceva freddo e nella stanza non c’era alcun genere di riscaldamento oltre al focolare al centro, spento poiché lei non aveva consentito a nessuno della servitù di entrare ad accudire le fiamme durante la notte. Cercò subito i suoi abiti e li trovò esattamente dove li aveva abbandonati la notte precedente. Indossò subito la spessa calzamaglia: aveva dei curiosi buchi in corrispondenza delle ascelle e, per ragioni più ovvie, un’apertura in corrispondenza dell’inguine. Senza accorgersene si trovò a pensare a Marcus: avrebbe voluto farsi vedere da lui così con quel corpo. Se n’era andato da lei senza troppe spiegazioni e lei non si era mai saputa spiegare il motivo. Si era trovato un’altra donna, alta e magra, Sarah, cintura nera di chissà che cosa. Se era quello il tipo di donna che gli piaceva, sarebbe impazzito per lei. Avrebbe voluto che la vedesse adesso: poteva modificare a piacimento il suo corpo e riusciva a mantenerlo snello e muscoloso senza sforzo grazie ai poteri che il passaggio attraverso il Varco le donava. Tese i muscoli e sebbene le dolessero godette nel sentirli induriti come non mai.
Mentre terminava di vestirsi, variando un po’ il suo guardaroba nello stesso istante in cui le veniva in mente una nuova idea, si chiese se il tempo scorresse nello stesso modo in entrambi i mondi. Se così era, in quel momento avrebbe già dovuto trovarsi al Diner’s a lavorare. Si infilò gli anfibi da combattimento e la morbida pelliccia, lasciando perdere le armi. Aveva fame e decise di andare a cercare la colazione, ammesso che si usasse fare colazione da quelle parti. Mentre varcava la soglia si chiese se qualcuno nel suo mondo si fosse accorto della sua assenza.

Dopo una colazione piuttosto insolita per lei, a base di carne arrosto, frutta fresca, vino e un saporitissimo latte, visto che il suo ospite si era allontanato per non aveva capito bene quali improvvise necessità, informò la servitù che sarebbe andata a farsi un giro. Aveva voglia di vedere com’era fatta una città in quel posto che per certi versi sembrava fermo a un milione di anni prima del suo mondo. La città era Oona: l’aveva capito dal fatto che era stato un nome spesso ripetuto la sera precedente. Lo aveva memorizzato durante le solenni presentazioni di quelli che dovevano esserne i capi. Oona ferveva di attività: ovunque circolavano persone indaffaratissime. Chi a piedi, chi conduceva carretti trainati da bestie curiose, chi carri enormi trainati a volte anche da quattro o sei massicce bestie sbuffanti dotate di corna curve. Le sembrò che non ci fosse traccia di una palese regolamentazione del traffico, almeno fino a quando non tentò di attraversare una grande strada. Al primo tentativo rinunciò per via di un veloce carretto a due ruote il cui conducente sembrava un militare che non si lasciò per nulla impressionare dalla sua presenza. Nonostante moltissimi la salutassero con mille riverenze e la additassero da lontano per via della sua prestazione nell’arena il giorno prima, Dora scoprì che evidentemente la strada era uguale per tutti. Al secondo tentativo infatti dovette tornare indietro rapidamente: per lasciar passare due uomini che portavano una lunga e massiccia scala di tronchi, non si era resa conto d’essersi messa sulla strada di uno di quei carri trainati da massicci animali bruni e cornuti, nonché discretamente puzzolenti.
Finalmente riuscì a raggiungere la piazza aggregandosi prontamente ad altre persone a piedi, donne che si recavano al mercato a giudicare dai cesti semivuoti che portavano. Notò pani simili a pietre, carne dall’aspetto poco rassicurante, patate scure di terra, pochissima verdura e neanche un frutto nei cesti di quelle donne vestite di panni scuri. Ma ad attirare la sua attenzione una volta nella piazza furono dei lunghi bastoni che, dotati di sonagli luccicanti all’estremità alta, ondeggiavano nella folla come se si muovessero da soli. Dopo pochi istanti, seguito uno di quei curiosi bastoni con gli occhi, notò che era portato da un ometto scuro dal viso grinzoso, vestito di abiti un po’ sporchi. Non si trattava esattamente di un nano, questo le parve chiaro, anche se le proporzioni potevano farlo pensare. Il corpo di quell’individuo non era deforme ma anzi, rivelava una robustezza invidiabile: Dora si accorse dai bicipiti gonfi e dal collo taurino che doveva essere un uomo forte e, a giudicare dalle mani, abituato ai lavori pesanti. Il suo bastone, da cui pendevano quei curiosi sonagli fatti con cocci colorati e pezzetti di metallo lucidato, non serviva come sostegno per camminare poiché era evidente che il piccolo uomo non ci si appoggiava mai.
Dora seguì il piccoletto, se così si poteva dire, fino a quando sparì nuovamente inghiottito dalla folla. Si incamminò poi diretta a quelle che sembravano tende che, coloratissime e sostenute da pali di legno infissi nel terreno polveroso, dovevano corrispondere secondo lei ai negozi nei centri commerciali. Non ebbe fatto che pochi passi che subito le venne incontro un uomo vestito con abiti stravaganti il quale cominciò a riempirla freneticamente di parole, per lo più lodi e complimenti. Stringeva tra le mani qualcosa a cui di tanto in tanto faceva riferimento e scacciò via con rabbia e violenza un suo pari che aveva subito tentato di avvicinarsi.
- Ma che vuoi? – gli chiese infine Dora, confusa da tutte quelle chiacchiere.
- Mia Signora, Regina dell’arena! Come le ho già detto, non può perdere questa occasione di possedere questo miracoloso unguento! Guarisce dalle ferite, rinvigorisce la carne, rinforza lo spirito e prolunga l’estasi amorosa! Solo sei monete per questo portento delle terre di Candria!
Dora capì al volo che doveva trattarsi di una fregatura ma non ebbe tempo per rispondere: qualcuno dietro di lei le stava strattonando con decisione la pelliccia e gridava con voce acuta. Si voltò e vide un bambino vestito di stracci che la stava tirando pigolando così acutamente che stentò a capire cosa volesse. Stava tentando di portarla da qualche parte per comprare le armi fatte da suo padre fabbro. Il mercante aggredì dapprima verbalmente il bambino, ottenendo però unicamente di farlo allontanare di qualche passo: questo, scalzo e sporco dai piedi fino ai capelli, continuava a strillare che il suo papà era il miglior fabbro e che lei avrebbe dovuto vedere le sue armi.
Dora pensò che avrebbe dovuto dispiacersi per il bambino che era ridotto proprio male, ma questo continuava a strillare con la sua insopportabile vocina stridente e così lo mandò al diavolo insieme al mercante, che smise di seguirla solo dopo che lo ebbe minacciato. Tentò di respingere allo stesso modo l’assalto degli altri venditori che non attesero un attimo a farsi avanti ma evidentemente le sue minacce non erano giudicate credibili perché in breve fu letteralmente assediata, circondata completamente da venditori di carne, di abiti, di amuleti, di una montagna di cose che non riconobbe nemmeno. Qualcuno tentò perfino di venderle uno schiavo e glielo mostrò completamente nudo tranne che per un bracciale metallico al polso sinistro. Dora non sapeva più come dire di no e quindi decise di sfuggire all’accerchiamento utilizzando un linguaggio universale. Afferrò il mercante di schiavi per le sue ricche vesti e lo alzò più in alto che poté; questi non osò divincolarsi più di tanto però la sua aggressiva litania di vendita mutò in un accorato lamento. Dora sentiva soddisfatta la stoffa scricchiolarle tra le dita e quando non poté più sopportare il dolore ai muscoli del ventre dove era stata colpita, fece fare al mercante un bel ruzzolone nella polvere diversi metri più in là. Si voltò poi con una feroce espressione sul viso e afferrati altri due seccatori uno a destra e uno a sinistra, li staccò da terra di una spanna e li fece volare allo stesso modo in direzioni diverse. L’assedio fu tolto immediatamente e Dora ebbe finalmente la strada libera. Dopo aver dato spettacolo in quel modo però non le rimaneva che dire addio al giro per le bancarelle.
Il cerimonioso eloquio che accomunava i mercanti nella piazza le fece venire in mente quel tale che aveva incontrato nella foresta, poco dopo essere uscita dal Varco. Avevano fatto insieme molta strada e dormito all’addiaccio per una notte prima di giungere a Oona. Era stato dietro suo consiglio che era andata a sbirciare nell’arena. L’idea le era subito piaciuta e aveva chiesto di partecipare. Quale occasione migliore per mostrarsi a tutte quelle persone contemporaneamente? Il suo ego vanitoso non aveva resistito e presa la cosa quasi come un gioco si era messa in lista. Le avevano fatto anche un ridicolo esamino: con un bastone di legno a mo’ di spada aveva affrontato una specie di ciccione che avrebbe dovuto verificare la sua idoneità a portare le armi nell’arena. Dopo aver incrociato per due volte i legni col pancione, questo aveva detto che non c’era bisogno di altre prove e, insieme ad altri sei candidati uno dei quali grosso come una casa, era stata fatta entrare nell’arena. Ander, quel tale che aveva incontrato nella foresta, aveva promesso che non si sarebbe allontanato ed era stato di parola: terminato ogni scontro nell’arena con esito insolito fortunatamente per lei, l’aveva ritrovato presso la grande casa del tizio che le aveva offerto ospitalità e organizzato una festa in suo onore.
Se l’era vista brutta nell’arena: dopo la ginocchiata inattesa aveva deciso di usare il suo nuovo potere per far apparire tra le sue mani un'arma da fuoco per eliminare quel gigante che l'avrebbe uccisa. Ma gli arcieri si erano messi di mezzo e non ne aveva avuto occasione. Si ripromise di non accettare più un combattimento nell'arena senza prima essersi fatta spiegare le regole.
Avrebbe voluto quindi informarsi sul motivo della festa: tecnicamente aveva perso. Ma aveva avuto paura di urtare la suscettibilità del suo padrone di casa e aveva deciso di lasciar perdere. L’unico che avrebbe potuto forse dirle qualcosa era quel tale Ander, ma da quando era cominciata la festa era sparito. L’aveva notato un paio di volte durante la serata intento a gozzovigliare in dolce compagnia, ma si era dimenticata di tenerlo d’occhio. Tutto sommato aveva detto lui stesso di essere un ladro.
Rientrata nella lussuosa villa dove aveva trascorso la notte, si rivolse alla servitù che solerte le venne incontro non appena si fu affacciata alla soglia dell’ingresso del grande giardino. Questo era circondato da un portico ed era lo stesso giardino dove si era svolta la grande festa di cui non vedeva più traccia. A venirle incontro fu un bell’uomo, completamente calvo ma con una bella barba scura e curata sul mento. Non sembrava certo un servo dal modo di camminare, ma solo per via della pesante tunica chiara che aveva visto indosso solo ai servi.
- Dove si trova Ander? – chiese senza preamboli dopo che il servo ebbe terminato il saluto dovuto a un ospite del suo rango.
- Il Nobile Ander è partito stamane presto. Ha lasciato un messaggio per Voi, Nobile Signora.
Il sorrisetto che era affiorato sulle labbra di Dora al sentir nominare il “Nobile Ander” sparì immediatamente.
- Che cosa? Partito per dove?
- Non ha detto nulla al riguardo. Ha chiesto cibo e abiti in Vostro nome ed è partito.
- Che verme… non vi avevo forse detto di tenerlo d’occhio?
Il servo non fece una piega. Evidentemente per lui è tutto a posto, pensò Dora.
- Così è stato fatto. Il Nobile Ander ha avuto ogni riguardo.
- Porca puttana… - Dora era intenzionata ad affidare alle autorità locali quello che era un ladro reo confesso e invece gli aveva dato modo di squagliarsela. A pancia piena. Sperava solo che quell’Ander non fosse un grande farabutto magari ricercato, altrimenti potevano essere guai grossi per lei. Dora accennò ad andarsene: era inutile stare lì, forse anche rischioso. Doveva cercare il modo di non urtare la suscettibilità di nessuno e forse fare due passi l’avrebbe aiutata a schiarirsi le idee. Si avviò subito.
- Nobile Signora! Il messaggio per Voi!
- Sentiamo… - disse Dora fermandosi sulla soglia. Con sua grande sorpresa, che badò bene a celare il più possibile, il servo riferì a memoria.
- Regina delle Lame, Nobile Guerriera, Distruttrice di fortezze, Signora delle Armi, Illustrissima Principessa…
È lui, non c’è dubbio, pensò Dora.
- …Dominatrice della Guerra io Vi saluto e mille volte mi inchino ai Vostri piedi, indegno come sono della Vostra presenza. Mille e una volta Vi sono debitore di ogni cosa, prima tra tutte della mia ignobile vita. Che Elzer possa ripagarVi dieci volte tanto per tutto quello che ho avuto da Voi.
Acuto…
- È con grande rammarico che parto senza potermi gettare ai Vostri piedi e, indegno come sono, abbracciarVi le ginocchia implorando il Vostro perdono. Ma affari urgenti mi attendono lontano e dovrò rinunciare alla Vostra vista che è benedizione. Oso augurarVi la miglior sorte certo che nella Vostra infinita magnanimità abbiate perdonato la mia improvvisa partenza.
- Ha superato se stesso, direi – commentò Dora. – Tornerò per il pranzo – disse poi al servo che era rimasto lì impalato dopo aver riferito il messaggio parola per parola con precisione tale che non ci si poteva sbagliare sull’identità del mittente. Voltate le spalle al ricco giardino, si rituffò in strada in mezzo alla folla.

Il sole lampeggiava tra gli alberi scheletriti dall’inverno e Qarago, senza sapere esattamente perché, ne godeva. L’aria era gelida e il cielo era così limpido e brillante da sembrare di ghiaccio e faceva sembrare le nuvole un pallido ricordo, ma Qarago stava bene. Cavalcava piano e attento alla strada, ma si sentiva come se ci fossero due Qarago dentro uno solo: uno badava a dove il cavallo metteva le zampe, scandagliava con gli occhi tutto intorno a sé alla ricerca di possibili nascondigli per ladri in vena di imboscate o di tracce di altri viaggiatori, era pienamente cosciente della posizione della sua compagna di viaggio e della sua velocità, suddivideva mentalmente le provviste per i giorni di viaggio. L’altro era come sollevato da tutto questo e, con sua stessa meraviglia, contemplava ora un tronco curiosamente storto, ora coglieva le tracce lasciate da qualche predatore notturno, ora ammirava il volo planato di una grossa cornacchia dalle penne grigie e nere che andava a posarsi in terra a poca distanza per poi risollevarsi sbattendo le grandi ali cupe dopo aver zampettato impettita verso di lui. Questo secondo Qarago si trovò poi chissà come a pensare alla sua morte. Un giorno certo sarò morto, si disse, e vorrei che fosse un giorno bello come questo. Cosa sarebbe accaduto dopo? Pensò: al giorno segue sempre la notte e poi un altro giorno; così sarebbe stato anche dopo la sua morte. Cercò di immaginarselo: non credeva ad alcuna dottrina religiosa che non avesse la forma di un’arma e per lui fu spontaneo immaginarsi cosa sarebbe accaduto nel mondo dei vivi. Qualcuno avrebbe festeggiato, molto vino sarebbe stato versato ma né più né meno che per qualsiasi altro vincitore nell’arena. Forse qualche condottiero in arme l’avrebbe cercato per ingaggiarlo nel proprio esercito e venuto a conoscenza della sua morte avrebbe forse bestemmiato per la cattiva sorte, ma certamente si sarebbe subito rivolto altrove senza rimpianto poiché la lista dei mercenari era molto lunga. A quante donne aveva promesso di tornare? Poche. Ancor meno quelle che l’avrebbero aspettato invano. Quante l’avrebbero ricordato? Quante cicatrici ancora lo separavano dalla sua ultima giornata? Sarebbe morto con onore nell’arena o combattendo sotto i colori di qualche vessillo? Non certo di vecchiaia, si disse trattenendo un sorriso sotto la barba nera. Il Qarago vigile e attento pose però presto fine all’incantesimo. Doveva battezzare la sua nuova ma soprattutto non richiesta compagna di viaggio.
- Ti piace qui? – disse senza nemmeno voltarsi, senza arrestare il cavallo. La risposta si fece attendere e giunse incerta: Rafi Ailana non si aspettava forse una domanda simile.
- Sì. C’è pace.
Qarago smontò da cavallo e si tolse il pesante mantello che aveva preteso per la sua mezza vittoria.
- Scendi da lì – disse mentre prendeva la sua spada lunga e sottile.
La giovane ancora chiusa nel saio grigio scese dalla sella e stette immobile, col cappuccio sulla testa, come in attesa di ulteriori istruzioni.
Incerto se fosse il caso di dire qualcosa, Qarago cercò le belle parole che i suoi maestri avevano usato quando era stato il suo turno di essere battezzato. Non trovandole, optò per la formula breve.
- Difenditi.
Vide Rafi che con un gesto rapido si liberava del saio. Indossava una leggera e incompleta armatura di cuoio rinforzato con borchie di metallo. L’armatura le riparava il torace e doveva essere stata fatta appositamente per lei in quanto prevedeva la presenza dei seni. Le gambe non erano riparate da altro che un corto gonnellino di strisce di cuoio e placche di metallo. Un lusso inutile, pensò Qarago mentre estratta la spada svelto attaccava controllando la forza del primo colpo. Rafi estrasse una bella spada dall’elsa dorata e un corto pugnale che incrociati pararono agevolmente il primo colpo del mercenario. Questi rimase sorpreso sia dalla velocità che dalla forza della giovane che, giudicando dalle braccia e dalle gambe, appariva esile e magra. L’uomo si ritrasse immediatamente poiché Rafi aveva fatto scendere le lame dalla parte del pugnale tenendo imprigionata la sua spada fino all’ultimo momento. Dalla velocità con cui il pugnale passò fendendo di taglio l’aria dove un attimo prima c’era il suo ventre, Qarago dedusse che la giovane non stava scherzando. Non molto, almeno. Va bene, disse a se stesso: vediamo fin dove è disposta ad arrivare.
Gridando a squarciagola attaccò di nuovo e di nuovo vide i suoi colpi parati o deviati con forza. Aumentò la velocità e trovò finalmente un fianco indifeso: la sua lama era troppo lontana per il battesimo così mandò Rafi a ruzzolare in terra con un calcio. Questa si rialzò immediatamente come un gatto, inespressiva. Gli occhi gelidi da rapace e il viso contornato dai ciuffi di capelli sfuggiti ai nastri che li legavano incorniciavano il viso affilato e immobile di lei. Solo la bocca sottile e fredda dischiusa per respirare tradiva l’affanno del duello. Qarago si aspettò un attacco, ma quella si mise in guardia aspettandolo. Era una tattica pericolosa: colpire l’avversario approfittando dei suoi stessi attacchi poteva rivelarsi una strategia vincente anche se richiedeva assoluta precisione in difesa, ma lasciare ogni iniziativa all’altro poteva essere un drammatico sbaglio. Qarago attaccò nuovamente, badando a non esporsi e stavolta fu colpito alla bocca da un pugno guantato di cuoio. Non c’era tantissima forza nel colpo ma era ugualmente notevole per una giovane come Rafi.
- Non male, ma non basta – disse Qarago sputando goccioline di sangue. Attaccò di nuovo e stavolta fu la giovane a doversi lanciare a terra per sfuggire all’attacco che la stava sopraffacendo. Qarago le fu sopra e lei tentò di farlo cadere incrociando i suoi piedi con quelli del mercenario, ma il peso dell’uomo era eccessivo e non ci riuscì. La spada di Qarago calò con precisione proprio mentre il pugnale di Rafi si alzava in una ultima disperata difesa.

- No, non così… fallo passare dall’altra parte…
Le dita impacciate e callose di Rafi Ailana si lasciarono sfuggire l’ago curvo col quale stava cercando di suturare la ferita che il suo pugnale aveva inflitto al braccio di Qarago.
- Per Elzer, Rafi… stai facendo più danni con quell’ago che col tuo pugnale! – esclamò il mercenario coprendo per un attimo la ferita al braccio con una pezza molto sporca di sangue. La ferita non era certo grave ma continuava a sanguinare e andava chiusa. Quando aveva capito che Rafi non aveva mai chiuso una ferita nemmeno superficiale, si era bendato rapidamente per fermare l’emorragia e poi aveva subito cucito il taglio alla spalla scoperta col quale aveva battezzato la giovane. Poi le aveva messo tra le mani lo stesso ago ricurvo ancora sporco e col filo avanzato le aveva imposto di chiudere la sua ferita al braccio. Non certo perché lui stesso non fosse in grado di farlo da solo, anche con una sola mano: voleva che la giovane guerriera imparasse anche a chiudere le ferite oltre che a infliggerle.
- Perdono, Maestro.
- Ti fa male la spalla? – chiese Qarago con gentilezza.
- Non molto.
- Allora prendi quell’ago e chiudi la mia ferita! – aggiunse con impeto il mercenario, scostando bruscamente la pezza insanguinata. L’ago pendeva dalla ferita parzialmente cucita e il filo di cotone era interamente tinto di sangue, sangue che riprese subito a fluire lentamente dalla ferita, anche attraverso i punti già chiusi.
Qarago osservò quelle mani bianche e affusolate ma già callose per l’uso delle armi afferrare l’ago ricurvo e, tremanti, ricominciare a chiudere la ferita tingendosi nuovamente di rosso. Per distrarsi e per sentir meno dolore osservò il viso della giovane. Era severo e chiuso, ma i lineamenti affilati erano ora meno sicuri, meno decisa l’espressione degli occhi chiarissimi separati dal naso dritto e sottile come un pugnale. Con l’uso, come ogni buona spada, anche Rafi avrebbe perso un po’ di filo.
Non aveva ancora sistemato le ciocche di capelli sfuggite ai nastri e l’acconciatura un po’ scarmigliata le donava un aspetto meno ultraterreno. La macchia rossa sulla spalla sinistra della casacca, tagliata dove la spada del mercenario era passata col filo, ne sanciva la mortalità terrena: nonostante l’aspetto fiero e il portamento apparentemente studiato per distaccarsi il più possibile dai comuni mortali, Rafi Ailana Eionson non era un essere sovrannaturale. Doveva essere però stata addestrata rigidamente fin dalla più tenera età: le aveva fatto togliere corazza e casacca per chiuderle la ferita e aveva trovato muscoli duri e ben allenati sotto la sua candida e liscia pelle di giovane femmina.
- Quanto tempo hai? – le chiese. L’ago si fermò un attimo e gli occhi dei due si incrociarono, ma solo per un attimo.
- Mio padre mi ha sempre detto d’avermi concepita nell’autunno del secondo anno del Tiranno.
- Sei giovane… non hai nemmeno diciotto inverni.
Il mercenario si attese una sorta di reazione che però non venne. Si sentì quasi obbligato ad aggiungere qualcosa.
- Quando il mio primo Maestro mi battezzò avevo già venti primavere. Rafi puntò l’ago un po’ troppo dentro la ferita e Qarago non poté trattenersi dal sobbalzare.
- Sei pericolosa davvero, per Elzer! – Qarago tamponò nuovamente la ferita dalla quale ancora sgorgava lentamente sangue. Osservò Rafi in viso poiché un’ombra era sembrata attraversarlo.

Contrariamente a quanto s'era aspettato, l'oste non fece alcuna difficoltà e gli consentì di salire per vedere in quali condizioni versasse Lerea.
Alla vista della giovane il cuore di Gambrath si strinse su se stesso: era pallida e smagrita e lui non aveva monete abbastanza per portare fin lì un uomo di medicina che non fosse un ciarlatano imbroglione. Aveva però acquistato dalla guaritrice un unguento profumatissimo da spalmare sul petto di Lerea che, a detta della donna che sosteneva d'averlo preparato con erbe aromatiche finissime, avrebbe notevolmente contribuito a migliorare le condizioni della malata. Il mercante aveva appena cominciato a scostare le coperte che proteggevano Lerea dal freddo quando apparve una delle schiave dell'oste Sebian. Gambrath sospettò che questi si fosse risentito del suo rifiuto della sera precedente poiché la donna, giovane e snella, cominciò a sfarfallare intorno a lui e a Lerea offrendosi ora di ungere lei stessa il torace della giovane malata, ora di portarle coperte, ora di preparare cibo per tutti e tre. Niente di sospetto a prima vista, ma Gambrath non poté non notare con quanti mielosi sorrisi e inutili insistenze venissero fatte le proposte. Notò anche come, sicuramente per sbadataggine, l'abito della schiava fosse stato male allacciato sul seno tanto da scivolarle dalle spalle e da scoprirla in parte, inducendo lo sguardo dell'uomo a precipitare tra le più intime e odorose curve della costosa giovane, evidentemente già abile nell'arte del sedurre.
Il mercante, non nuovo a espedienti di questo genere, resistette alla tentazione aiutandosi sia con la vista di Lerea che gli rivolgeva sguardi liquidi per la malattia sia con le truci occhiatacce che Laniira non risparmiava né a lui né alla frivola e calorosa serva. Quest'ultima, constatato forse che a nulla valeva il suo fascino di giovane e graziosa fanciulla, fece un inchino appena abbozzato e si tolse di torno.
Apparve subito chiaro che il tanto declamato unguento non doveva essere così miracoloso poiché una volta spalmato sulla pelle di Lerea esso spariva in breve tempo lasciando dietro di sé nient'altro che un forte e piacevolissimo profumo.
- La tua amica guaritrice seguace della Sacra Perfezione non ha esitato a imbrogliare un'ancella dei rispettati Cerimoniali, sembra... - commentò sarcastico Gambrath annusandosi le profumatissime dita.
- Non è amica mia – ribatté seccamente Laniira che però non aveva argomenti da opporre al mercante.
- Spero che almeno non le faccia del male.
- Una seguace della Sacra Perfezione non potrebbe mai nuocere a qualcuno con intenzione e trarne profitto senza patire la giusta punizione del potere temporale prima e di quello spirituale poi!
- Fossi in te non farei troppo affidamento nella giustizia degli uomini – disse Gambrath che aveva ancora ben viva nella mente una terribile notte passata in una gabbia di ferro appesa fuori dalle mura di Taliba. Laniira stava per rimbeccarlo ma dall'espressione canzonatoria dell'uomo si rese conto che sarebbe stato tempo sprecato. In lei ardeva ancora la sacralità del suo ruolo di ancella ma rammentò a se stessa di aver rinunciato per sempre al Tempio.
Terminata la medicazione Lerea si addormentò e Gambrath trascorse un po' di tempo al suo fianco, semplicemente guardandola riposare. Il viaggio a Tendria compiuto in un giorno solo lo aveva spossato e per un paio di volte Laniira, seduta accanto a lui, lo aveva visto cedere al sonno. Nessuno dei due aveva ancora cenato e quando l'oste Sebian salì da loro a rammentare che l'ora della cena era quasi trascorsa, Gambrath si decise ad alzarsi. Lerea dormiva ancora.
All'improvviso alle sue spalle udì un sospiro. Il mercante si voltò e vide una smorfia di dolore sul volto di Laniira, ancora seduta sul pavimento di assi.
- Che ti succede ora?
- I piedi... l'effetto dell'unguento comincia a svanire...
Gambrath tese la mano per aiutare l'ancella a sollevarsi, ma questa non dette cenno di volersi muovere.
- Dài, alzati... ti aiuto io.
La giovane si decise ad accettare l'aiuto del mercante e afferrata la mano di lui si rimise in piedi, non senza sofferenze.

Quando furono nella grande sala al piano di sotto dove l'oste aveva apparecchiato per la cena per tutti i suoi ospiti, Gambrath e Laniira si resero conto del tempo trascorso: un solo uomo si attardava ancora al suo tavolo, degustando del liquore da un piccolo bicchiere di legno tornito. Si accomodarono a un altro tavolo di legno rozzamente sgrossato e unto dai resti di molti pranzi e cene e Sebian portò loro zuppa di patate e pane duro.
- Cosa pensi di fare domani, mercante? Taliba non è lontana e tu hai poca merce.
- Il mercato di Taliba è ricco, ma la città pullula di malintenzionati. Non me la sento di rischiare per nulla – rispose Gambrath guardandosi bene dal rivelare il vero motivo per cui era per lui opportuno stare alla larga da Taliba, almeno finché avesse avuto al polso quel dannato bracciale di metallo.
- E quindi? - lo esortò Laniira, incuriosita. Sapeva bene che Taliba era un ottimo mercato per qualunque commerciante.
- La prossima città è Oona, e il suo mercato è ricco e ben frequentato. Appena Lerea sarà in grado di viaggiare, mi recherò laggiù.
- Faremo tappa a Tendria?
- Certamente.
- Quando pensi che Lerea potrà mettersi in viaggio?
- Lo vedremo domattina. Se non sarà migliorata, mi recherò al mercato di Tendria e cercherò là i miei affari finché non sarà guarita. Sempre che tu sia d'accordo... - il mercante pronunciò l'ultima frase sospesa, volutamente provocatoria.
- Non ti sto processando, mercante. Semplicemente sto valutando se continuare il mio viaggio al vostro fianco oppure no - fu la risposta, risentita.
Terminata la cena entrambi andarono di comune accordo a dormire: la stanchezza si faceva sentire per entrambi e non c'era nulla da fare per ingannare il tempo. Di nuovo si coricarono uno al fianco dell'altra per difendersi dal freddo e Laniira pianse a lungo in silenzio per i forti dolori ai piedi piagati.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 6
6.

- Maestro.
- Che c'è? - rispose Qarago senza nemmeno voltarsi.
- Non conosco molto bene queste terre, lo confesso... ma sembrerebbe che stiamo evitando di proposito tutte le città e i villaggi.
- E quindi?
- Le provviste scarseggiano.
- E quindi?
- Dovremmo rifornirci.
- Stai proponendo una razzia?
Rafi Ailana Eionson ebbe un momento di incertezza.
- Razzia? - chiese.
- Se fossimo in piena campagna di guerra credi forse che mangeresti pane bianco e salsiccia tutti i giorni?
- Tutti gli eserciti hanno le loro linee di rifornimento – obiettò lei.
- Linee che possono essere interrotte dal nemico.
- È da dieci giorni che duelliamo e basta.
- Peggio per te che li hai contati.
Stettero a lungo in silenzio, ascoltando i rumori della Foresta Rada in cui si erano inoltrati poco dopo aver abbandonato i sentieri noti di Oona. Solo il ritmato scalpiccio degli zoccoli ferrati dei loro cavalli rivelava la loro presenza. L'inverno con i suoi artigli aveva preso possesso di quella terra: tappeti di foglie brune ai piedi degli alberi erano fertili produttori di funghi e odorose muffe, piccoli uccellini color del piombo vi saltellavano in mezzo rovesciando cortecce cadute e larghe foglie alla ricerca degli ultimi vermi che ancora non si erano chiusi nel loro bozzolo per dar vita alle più strane creature che avrebbero assistito con i loro occhi sfaccettati al sopraggiungere del gelo e della neve, ormai prossimi.
- Non siamo in guerra – disse d'un tratto la giovane incappucciata, come se la conversazione non si fosse mai interrotta.
- Io sono sempre in guerra. Tutto il mondo è sempre in guerra. Cambiano gli alleati, s'invertono le fazioni, si sostituiscono le armi... ma è sempre guerra.
- Non capisco, Maestro – dovette confessare Rafi.
- Un pugno di monete può ucciderti esattamente come una spada che trapassa il tuo giovane cuore. E potrebbe accadere proprio quando sei circondata da “amici”.
- Ora capisco, Maestro - e sguainò la spada.

Qarago controllò la ferita al collo della povera bestia. Non era grave ma sanguinava e giustamente il cavallo era innervosito. Rafi aveva pensato di prendere l'iniziativa per una volta e aveva attaccato Qarago a cavallo. Il duello era stato interrotto da un colpo di spada finito per errore sul collo del cavalcatura della giovane.
- Non sarà facile cavalcarlo. E nemmeno prudente – confermò Qarago.
- Ci accampiamo?
- Proseguiamo a piedi. Avevi voglia di fare un po' di movimento, no?
Tenendo i cavalli per le briglie i due proseguirono a lungo a piedi nella foresta. Di tanto in tanto il cavallo di Rafi s'impuntava o minacciava di imbizzarrirsi: evidentemente gli faceva male la ferita e dovevano fermarsi un poco. Ne approfittava Qarago per mantenere pulita la ferita per evitare infezioni che avrebbero condannato quella splendida bestia.
Giunta la sera avevano percorso ben poca della strada che il mercenario si era proposto per quel giorno e quando non ci fu più luce a sufficienza per proseguire erano ancora ben addentro nella foresta. La ferita del cavallo non sanguinava più e sembrava che la bestia si fosse calmata. Qarago sapeva bene che quella sera avrebbero consumato quasi tutto quello che rimaneva delle scorte di viveri che si erano portati appresso e quindi dal giorno successivo avrebbero dovuto cominciare a cacciare. Ma la Foresta Rada non era certo nota per la ricchezza di selvaggina: avrebbero dovuto uscirne al più presto e dirigersi ai piedi delle Colline dell'Orso. L'inverno era ormai giunto e nemmeno lì avrebbero trovato abbondanza di prede; ma c'era qualche piccolo villaggio al quale chiedere ospitalità in caso di estrema necessità. L'importante era che Rafi credesse in un incontro fortuito.
Si fermarono presso un grosso tronco abbattuto e Qarago si occupò dei cavalli mentre Rafi andava, come al solito, a cercare legna da ardere. Quando questa tornò e scaricò le braccia dai legni secchi che era riuscita a trovare, Qarago le fece cenno di non far rumore portandosi il dito indice davanti alle labbra. Rafi dapprincipio non dette cenno di badargli più di tanto, già avvezza alle stranezze del suo Maestro. Ma quando si accinse ad accendere il fuoco, Qarago le afferrò una mano con forza e scosse la testa.
- Maestro, calano le tenebre – disse lei, stupita di dover far presente una cosa così ovvia. Ormai non era possibile vedere che fino a pochi passi di distanza. Inoltre il fuoco li avrebbe aiutati a resistere al gran freddo della notte.
Qarago per risposta accostò il proprio volto al suo.
- Non dare questo vantaggio ai nostri inseguitori... - bisbigliò.
Il mercenario non faticò a leggere la più grande sorpresa sul volto duro e affilato della giovane che la sera stava scavando ancor di più con le sue ombre.
- Non ti sei accorta che siamo seguiti? - bisbigliò ancora, lasciandole andare la mano che ancora stringeva l'acciarino per accendere il fuoco.
Qarago andò a prendere prese la spada grande e la sua scure bipenne e, come se niente fosse, tornò a sedersi dov'era, come se Rafi avesse effettivamente acceso il fuoco e stessero per cominciare la loro frugale cena.
Rafi, compresa solo in quel momento la situazione, si diresse verso la sua spada ma non fece in tempo a raggiungerla. Dalle ombre che li circondavano saltarono fuori diverse figure scure, armate di spade e altre armi corte. Uno armato di una scure da taglialegna attaccò Rafi immediatamente, senza una parola, ponendosi tra lei e la spada. Alla giovane non rimase altro che il pugnale per difendersi.
Qarago ne ebbe addosso due subito e un terzo si aggiunse subito. Erano feroci ma non addestrati e solo uno richiese davvero uno sforzo per essere respinto. Qarago si trovava a mal partito per via del numero degli attaccanti e non si fece scrupolo. Abituato a essere in inferiorità numerica nell'arena e sul campo di battaglia, non si fece scoraggiare. Parati un paio di colpi provenienti da due direzioni diverse, spezzò una spada sotto la sua pesante scure bipenne e costrinse uno degli attaccanti a ritirarsi almeno per il momento.
Due contro uno, pensò mentre si rivolgeva contro un altro avversario armato di un lungo bastone falcato a una estremità. Tenere occupato questo e difendersi dall'altro che lo attaccava cercando di girare alle sue spalle impegnò Qarago piuttosto a lungo. Al primo errore però l'asta nemica volò in aria e la spada del mercenario bevve il primo sangue di quella battaglia.
- Rafi! - chiamò Qarago che non sentiva altro che il rumore delle proprie armi. Non ci fu risposta. L'ultimo suo aggressore, il viso nascosto da una sorta di bendaggio nero da ladro tagliagole, muoveva la testa a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcosa alle spalle di Qarago. Indietreggiò brandendo la sua spada lunga e sottile e Qarago ne approfittò per incalzarlo e indurlo all'errore. Il mercenario notò che se il malintenzionato avesse fatto ancora qualche passo all'indietro in quella direzione avrebbe potuto inciampare in una radice che si sollevava dal terreno.
- Maestro! - finalmente Rafi si faceva sentire.
Qualcosa colpì piuttosto duramente la schiena di Qarago. Un tronco, un sasso forse. Il dolore di qualche istante, la tentazione irresistibile di voltarsi. Il guerriero resistette e fu premiato. L'aggressore di fronte a lui lo credette in difficoltà e gli diede le spalle per fuggire. Qarago caricò bene il braccio sinistro, valutò la distanza e scagliò la scure bipenne. Nell'ombra, un sinistro tonfo, un gemito, il breve frusciare di passi nelle foglie, un altro tonfo ovattato. Il mercenario si voltò appena in tempo per vedere Rafi trapassare con la ritrovata spada il primo dei tre che lo aveva aggredito, quello cui aveva infranta la spada.
- Quanti? - chiese Qarago.
- Questo è il secondo – rispose la giovane pulendo la sua lama sugli abiti neri della sua ultima vittima.
Qarago vide il terzo cadavere poco distante. Non rimaneva che andare a riprendere la scure. Non dovette cercarla a lungo: a pochi passi di distanza da dove credeva d'aver colpito stava riverso un fagotto scuro e la scure era in esso conficcata, con la robusta impugnatura come un indice puntato verso l'ultimo bersaglio raggiunto.
Con un sinistro rumore d'ossa spezzate Qarago estrasse dalla schiena della vittima la sua scure e con un piede la voltò supina. Il volto era coperto da bendaggi scuri per non farsi riconoscere.
- Guarda chi è - ordinò a Rafi che obbediente s'inchinò e tolse le bende dal viso dell'aggressore, rivelando una pelle candida e giovane lorda del sangue uscito da bocca e naso. Con grande sorpresa di entrambi, la vittima era una giovane donna. Non doveva essere con l'età di molto più avanti di Rafi.
Controllarono gli altri tre cadaveri e scoprirono un uomo, un vecchio e un altro giovane, tutti piuttosto magri ed emaciati.
- Perché ci hanno attaccati? - chiese Rafi.
- E come faccio a saperlo? Sembrano aver sofferto la fame. Non si tratta certo di comuni gaglioffi: raramente consentono alle donne di unirsi alle loro bande. Preferiscono usarle come sguattere e per scaldare il letto. Frughiamoli.
- In cerca di cosa? - chiese Rafi sconcertata. Qarago stava già perquisendo il cadavere dell'uomo da lei abbattuto col solo pugnale. Non era ancora morto.
- Monete. Cibo. Armi. Qualsiasi cosa possa essere utile.
Qarago si lasciò scappare un'esclamazione di soddisfazione: le sue tozze dita avevano incontrato qualcosa di promettente. Da sotto i vestiti del moribondo estrasse un lungo stiletto col manico di corno grigio. La soddisfazione si mutò in disappunto.
- Non mi interessa: ti piace? - disse rivolto a Rafi che ancora in piedi aveva sul viso un'espressione indecifrabile.
Visto lo scarso interesse che Rafi dimostrava nei confronti dello stiletto a doppio taglio, Qarago lo mise da parte dichiarando l'intenzione di ricavarne qualche moneta. Terminata la perquisizione, Qarago ebbe rimediato poche monete, un pugnale di fortuna, una spada malconcia, una scure da legna e un'inservibile arma, la lancia falcata che s'era rivelata costituita da una lunga asta con fissato in cima una lama piatta e larga, rozzamente affilata, più adatta forse a essere usata per sfrondare un albero piuttosto che per attaccare qualcuno e ucciderlo.

La notte trascorse senza ulteriori incidenti e il giorno successivo cavalcarono abbastanza a lungo da raggiungere il limitare della Foresta Rada e da incontrare selvaggina che non sfuggì all'arco e alle frecce che Qarago aveva saputo ricavare da ciò che aveva con sé e da ciò che la foresta aveva da offrire. Ai piedi delle Colline dell'Orso si imbatterono in un piccolissimo villaggio, esattamente come Qarago aveva previsto, e qui scambiarono le armi tolte ai loro aggressori con cibo conservato per il viaggio. Si trovarono così bene che Qarago stesso decise di passare lì la notte: tra gli abitanti pareva che nessuno l'avesse riconosciuto come un combattente dell'arena e nemmeno come Qarago Landalork.
Per i due giorni che seguirono cavalcarono, cacciarono e duellarono continuamente. Qarago stava impartendo lezioni sempre più dure alla sua giovane allieva ed era sempre più difficile per lui riuscire ad averne ragione: era difficile da ammettere per lui ma Rafi Ailana Eionson imparava davvero in fretta e difficilmente compiva due volte lo stesso errore. I lividi e le escoriazioni sui corpi di entrambi aumentavano di pari passo.
Qarago aveva deciso di allontanarsi ancor di più dai sentieri a lui noti e, sebbene molte di quelle terre le avesse già visitate, si diresse oltre le Colline dell'Orso intenzionato a raggiungere le pendici delle lontane montagne da dietro le quali il sole sorgeva ogni mattina.

Qarago stentò a credere alle proprie orecchie.
- Come sarebbe a dire che i miei insegnamenti non ti basteranno mai? Prima che tu mi incontrassi sarebbe bastato il primo manigoldo armato per ridurti all’impotenza… e adesso mi dici che io non posso insegnarti più nulla?
La mano del mercenario corse da sola alla spada. Rafi parve non perdere la propria freddezza nemmeno quando il gigante barbuto che aveva di fronte la caricò armi in pugno.
- Non ho detto questo! – gridò per superare il clangore delle armi: aveva solo deviato il primo colpo e si era resa conto con spavento di quanta forza il suo Maestro stava mettendo nei suoi colpi. Doveva essere davvero adirato. - Ah, no? – controbatté Qarago menando un fendente orizzontale pauroso. Se Rafi Ailana non avesse tolto il suo collo dalla traiettoria della lama con uno scatto da serpente, la sua testa ora rotolerebbe nel fango.
- Non mi accontento di entrare nell’Ordine! Aspiro alla Gerarchia della Sorellanza!
- Ah, però! Niente male! Così io sarei solo il primo gradino di una lunga scala, eh?
- Non ho detto questo! – Rafi stava cercando di difendersi disperatamente sia con le parole sia con il ferro. Ma Qarago era furioso e la stava mettendo in difficoltà: già due volte aveva temuto che la sua spada lunga le volasse via di mano.
- Quant’è vero Elzer, lo hai detto! Ma posso assicurarti che quella scala finisce prima di quello che credi, piccola serpe!
Qarago, forte della sua esperienza, accorciò bruscamente le distanze con Rafi e con un’abile mossa la mandò a ruzzolare in terra. Rafi ebbe la prontezza di rotolare su se stessa e poté così evitare d’essere infilzata, ma quando tentò di rialzarsi Qarago riuscì a disarmarla dolorosamente. Guardò la sua bella lama cadere nel fango a diversi passi di distanza e poi poté vedere solo l’acciaio di Qarago giunto a poche dita dalla gola.
- Dì la tua ultima parola! – gridò lui.
Trasse un sospiro di sollievo: Qarago non aveva alcuna intenzione di ucciderla, altrimenti lo avrebbe già fatto. Le stava dando una possibilità di riparazione.
- I Dormienti – disse lei. La lama di Qarago era ferma e immobile.
- Storie per far dormire i bambini! – protestò lui. La lama si avvicinò.
- Forse. Forse no – ribatté lei. Nella certezza della sua voce c’era la sua ultima carta da giocare col suo Maestro.
- I Dormienti non sono mai esistiti! Tutti sanno come il Tiranno ha preso il potere! - Tutti sanno quello che Lui vuole che sappiano.
Forse la frase ebbe qualche effetto su Qarago, o forse la punta della spada tentennò per altri motivi. - E cosa sapresti tu, che tutti gli altri non sanno?
- Il mio nobile padre ha speso gran parte della sua fortuna per costruire una biblioteca. Piccola ma interessante.
Qarago ebbe un’incertezza. Lui sapeva fare i conti, sapeva leggere molto male e faticava a scrivere il suo stesso nome. Aveva visto ben pochi libri in vita sua e ne aveva toccati forse un paio, ma non certo per leggerli. A suo tempo era rimasto sbalordito dalla diversità delle cose che potevano essere scritte in un libro, ma l’interesse era presto scemato. Un libro era un’arma scomoda e poco efficace per le battaglie che combatteva lui, tuttavia temeva e invidiava coloro i quali riuscivano a leggerli e soprattutto a scriverli. Ritrasse la sua spada.
- Vai avanti.
Rafi raccontò di come suo padre l’avesse istruita alla lettura e alla scrittura: quasi si compiacque per l’espressione del mercenario alla propria affermazione di essere in grado di leggere un libro intero. Raccontò anche di come un giorno intraprese la lettura di un libro piuttosto recente che narrava proprio gli avvenimenti che avevano preceduto l’ascesa al trono del Tiranno.
Proprio in quel libro si descriveva, anche se con parole nebulose e solo per poche righe, di come Vorgo era riuscito a vincere ogni resistenza a lui opposta anche dal gruppo dei mistici sette Comandanti, i cui nomi da quella disfatta in avanti sarebbero stati persi nell’oblio e nella dimenticanza. Rafi raccontò in poche parole a Qarago come pochi altri riferimenti qua e là nel libro e riferimenti trovati in altre opere rare l’avessero convinta dell’esistenza di un legame tra i Comandanti e i Dormienti, primo tra tutti il loro numero. Sette.
- E che cosa c’entra la Sorellanza con la leggenda dei Dormienti?
- La Gerarchia della Sorellanza non prende in considerazione nessuna iniziata che non si sia resa meritevole compiendo qualche impresa di valore. Portare loro uno dei sette Comandanti, anche solo un osso, sarebbe un bel punto di partenza.
- Peccato che sia tutta una leggenda. Non esistono i Dormienti. E forse non sono esistiti neanche i Comandanti.
- La leggenda dice che Vorgo si scontrò il secondo giorno con due Comandanti proprio alle pendici del Monte Nero, a un solo giorno di cammino da qui. Nulla ci attende, nulla ci ostacola il cammino, Maestro!
- La tua ricerca è inutile come andare a caccia di rane per cenare. Ciò che troverai non ti riempirà lo stomaco.
- Chi non tenta ha già fallito – rispose Rafi, tagliente.

Qarago non credeva ai propri occhi. Dopo aver passato gli ultimi due giorni sentendo ciance riguardanti i Dormienti o Comandanti che fossero senza lasciarsi minimamente impressionare, doversi improvvisamente ricredere e alla svelta inoltre, incalzato da incontestabili fatti, lo aveva sconvolto. Di fronte a lui era apparso infatti nientemeno quello che dalle descrizioni udite doveva essere il potente Belmokt, un orrendo essere alto come un albero, puzzolente tanto da indurre il vomito, un colosso deforme dal pelo ispido e scuro. L’orribile testa pareva quella di un cinghiale e gli occhi suini erano iniettati di sangue tanto da farne sembrare rossa la porzione bianca. Emerse dall’ombra del suo rifugio, quel foro nel fianco della montagna dove avevano riposato la notte avendolo scambiato per l’ingresso di una banale caverna naturale.
Qarago notò che quell’abominio dalle vaghe forme umane non doveva sentirsi molto bene poiché pareva incerto sulle pur muscolose gambe storte sulle quali si teneva in piedi, terminanti con piedi di porco dall’unghia nera più grande degli zoccoli d’un cavallo. Il mercenario cercò di mettere subito una buona distanza tra lui e la creatura che avanzava incerta fuori della sua tana. I gorgoglii e brontolii che emetteva erano tanto rumorosi quanto terrificanti. Dov’è ora quella sciagurata? si chiese Qarago, cercando con gli occhi la nota sagoma della sua compagna di viaggio. Ora ha sicuramente un’occasione d'oro per rendersi degna della Gerarchia della Sorellanza, se ci arriva viva, si disse. Un pauroso ruggito parve travolgere ogni cosa e Qarago lo sentì con le orecchie, con lo stomaco, con le ossa. Belmokt doveva essersi accorto di lui poiché volgeva la testa ora da un lato ora dall’altro come se volesse guardarlo bene con entrambi gli occhi che si trovavano distanziati tra loro, ai lati del cranio. Infine il mostro caricò.
Il mercenario cercò rifugio tra alcuni alberi, convinto che i grandi tronchi avrebbero costretto l’essere immondo a rallentare i movimenti mentre lui poteva agilmente zigzagarci in mezzo. Quando si voltò per constatare quale fosse il suo vantaggio, il suo sangue si gelò due volte nelle vene: il legno degli alberi gemeva e scricchiolava e si piegava al passaggio dell’essere senza rallentarlo significativamente e Rafi, spuntata da chissà dove, aveva sguainato la spada e si apprestava ad attaccare alle spalle quell’abominevole creatura. A Qarago parvero chiare le sue intenzioni un attimo prima che la giovane sferrasse il colpo: da come aveva caricato il braccio voleva sferrare un fendente alla zampa sinistra per tranciare il legamento e costringere il mostro in difficoltà. Bella idea, pensò il mercenario: una volta azzoppato sarebbe stato tutto più facile. Ma la spada di Rafi si arrestò di colpo molto prima di raggiungere il suo bersaglio: la giovane aveva sbagliato la mira e la lama doveva aver incontrato l’osso.
Rafi ottenne il risultato di distogliere l’attenzione di Belmokt da Qarago: con un urlo possente l’essere si voltò verso la nuova minaccia e Rafi fu costretta a darsela a gambe molto rapidamente. Il mercenario poté vedere il danno inflitto dalla giovane: dalla ferita sgorgava lentamente sangue nero come la pece. Trattenendo a stento il vomito per il fetore, Qarago si avvicinò alle terga dell’abominio per tentare di completare l’opera. Sentì Rafi gridare e d’istinto la sua scure bipenne scattò, temendo che fosse troppo tardi. Il fendente non andò a segno come avrebbe voluto anzi la scure parve quasi rimbalzare indietro, ma dall’urlo che Belmokt produsse e dalla sua violenta reazione Qarago dedusse che qualcosa di definitivo s’era compiuto. Un attimo dopo una zampata potentissima schiantò un albero a due passi dal mercenario che d’istinto si ritrasse con un balzo, rendendosi conto che il povero tronco gli aveva salvato la vita: se non ci fosse stato quell’albero il braccio sinistro di Belmokt avrebbe schiantato lui.
Col cuore in gola Qarago corse in mezzo agli alberi che però in quella direzione si diradavano paurosamente. Alle sue spalle le urla terrificanti della creatura e gli schianti non accennavano a diminuire, segno che Belmokt aveva deciso d’inseguirlo. Eccolo giungere infatti, zoppicante ma ancora troppo veloce, aggirando gli ultimi alberi che si frapponevano fra lui e la sua preda. Qarago.
Consapevole di non poter nulla in campo aperto, Qarago si preparò a morire. Non avrebbe mai potuto raggiungere in tempo nessuno dei ripari e i suoi polmoni sembravano dover scoppiare. Belmokt stava accorciando le distanze e Qarago valutava da che parte sarebbe arrivato l’ultimo attacco quando dal cielo piovve una enorme spada che si conficcò nel terreno tra Belmokt e Qarago scuotendo il terreno sotto i piedi dei due.
Il mercenario la riconobbe subito: le rune dell’elsa parevano risplendere più delle gemme che l’adornavano e l’acciaio lucidissimo della lama dava la sensazione d’essere bollente. Non poteva essere che Saggra, una delle più ambite Spade del Potere in circolazione. Era finita nelle mani del Guardiano, uno dei più potenti gregari del Tiranno ma era poi sparita dopo la sua caduta in disgrazia e nessuno aveva più saputo nulla né dell’uno né dell’altra.
Belmokt fu quello che si riprese per primo dalla sorpresa: Qarago comprese il pericolo solo quando la zampa della creatura si tese verso l’impugnatura dell’arma. Poco prima che quella potesse stringersi sulla spada, un fulmine si abbatté su Saggra con uno schiocco tale che Qarago sentì l’aria caricarsi di una energia sovrannaturale e tutti i peli del suo corpo si rizzarono dolorosamente. Quando riuscì a riaprire gli occhi abbagliati dal lampo, Saggra non era più visibile: su di essa era china una grande figura ammantata di nero. Qarago poteva vedere una ginocchiera di metallo nero bordata d’oro lucente. Era enorme.
La figura si rizzò in piedi, venendo a superare in altezza l’orrendo Belmokt. Saggra fu sfilata dal terreno e lucida e scintillante piroettò elegantemente tra le mani di quello che a giudicare dall’elmo nero decorato con oro zecchino poteva essere nessun altro se non il Guardiano.
Belmokt, per nulla impressionato dall’apparizione, si lanciò addosso al nuovo venuto il quale forse non s’era aspettato una tale furia e violenza e dapprima parve essere in difficoltà. Avendo infatti Belmokt accorciato drasticamente le distanze, Saggra era inutilizzabile. Qarago paralizzato dall’incredibile visione del duello fra giganti fu contento di vedere che il Guardiano, ormai era certo fosse lui, risolveva la situazione proprio come avrebbe fatto lui. Avendo le mani bloccate ed essendo costretto a indietreggiare per la spinta e il peso superiore dell’avversario, il Guardiano fece scattare in avanti l’elmo nero colpendo il grufolante Belmokt in pieno muso. Ci vollero ben tre colpi prima che l’essere orrendo mollasse la presa e si ritirasse. Il Guardiano ci mise un istante di troppo a riguadagnare il controllo della situazione e Belmokt parve poterne approfittare, ma Qarago regalò al Guardiano il tempo necessario colpendo nuovamente la zampa ferita dell’orribile mostro con la grande scure bipenne. Belmokt reagì scalciando in direzione di Qarago ma un attimo dopo Saggra si infilava per metà della lunghezza nella sua gola.

Qarago era cosciente anche se il dolore lo aveva accecato al punto da non sapere dov’era caduta la sua arma. La sua gamba destra doveva essere rotta, non poteva muoversi senza rischiare di svenire per il dolore. Molti puntini luminosi gli danzavano davanti agli occhi e non se ne volevano andare. Quando vide un globo di luce apparire nel suo limitato campo visivo non si stupì: pensò anzi che le sue ferite dovevano essere più gravi di quello che pensava se aveva allucinazioni di quel genere. Il globo di luce ondeggiava leggermente sopra il terreno e sembrava usasse numerosi piccoli fulmini silenziosi per sostenersi come fossero gambe. Ogni tanto uno o due saettavano obliquamente e toccavano pietre e tronchi d’alberi come se li tastasse, come se cercasse la strada migliore per raggiungerlo. Poi una di quelle saette toccò le sue gambe, prima una poi l’altra; il globo di luce era così vicino a lui che non poteva più vederlo bene a causa del fulgore che emanava e le saette lo toccavano in tutto il corpo, lo avvolgevano. La luce divenne insopportabile e Qarago chiuse gli occhi per proteggersi, ma quella luce soprannaturale poteva superare la barriera delle palpebre. Qualcosa fatto di luce si muoveva nella luce ora, era sempre più distinguibile. Era una sagoma umana, un lungo abito di luce indossato da una creatura di luce. Qarago pensò di essere morto e probabilmente qualcuno che gli aveva predicato, molto tempo prima, la vita dopo la morte, doveva aver ragione. Non ricordava bene chi, però.
- Non essere sciocco, non sei ancora morto.
La voce, delicatissima e bellissima, giunse alle sue orecchie limpida e chiara come se la donna che la possedeva fosse lì insieme a lui. Ma poteva vedere solo quella sorta di vapore cangiante e luminoso che cambiava forma continuamente, apparendo ora come un essere umano, ora come un aggraziato animale di cui non ricordava il nome, ora come una nuvola del cielo.
- Sono Maluce, la sposa del Guardiano. Sto guarendo le tue ferite, Qarago Landalork.
Curiosamente il primo pensiero che seguì quelle parole fu per Rafi.
- Mi occuperò anche di lei. So dov’è.
Il vapore luminoso prese di nuovo forma e agli occhi abbagliati di Qarago apparve una donna splendente. Di corporatura filiforme, pareva fatta di luce e che la luce la attraversasse come se fosse una coppa di cristallo. Qarago avrebbe voluto toccarla ma sapeva che il suo corpo non poteva muoversi.
D’un tratto la visione sparì nella luce da cui era venuta e il cupo grigiore del giorno prese il posto di tutto quel fulgore abbagliante che lo aveva costretto a chiudere gli occhi. Il terreno tornò sotto la sua schiena in tutta la sua durezza e solo il ricordo del dolore che aveva patito lo teneva fermo: ora sentiva che ogni osso, ogni muscolo taceva. Si decise a sollevarsi in piedi: stava bene, come se il calcio di Belmokt non l’avesse mai colpito. Intorno a lui non c’era nessuno oltre a Belmokt che giaceva in un lago di sangue nero.
Si fece guidare dall’elmo del Guardiano che si intravedeva da sopra gli alberi e dai bagliori luminosi: giunse dov’era caduta Rafi. Vide quello che doveva essere accaduto anche a lui: il globo luminoso sovrastava il corpo immobile della giovane e lo tastava con mille piccole saette crepitanti. Le saette non sembravano arrecare alcun danno a Rafi che rimaneva però immobile. Qarago si chiese come mai lui non avesse sentito alcun rumore ma solo la voce della donna. Maluce. Si ricordò di come si dicesse che il Tiranno per punire il Guardiano per la sua ribellione avesse ucciso il corpo di Maluce usando i suoi poteri per non arrecare nessun danno allo spirito di lei, condannandola così ad un’esistenza incorporea tra i vivi e negandole per sempre l’accesso al mondo dei morti. Il mercenario non aveva mai creduto molto a quel genere di storie, considerandole buone solo per scacciare la noia dei lunghi banchetti, ma ora doveva ricredersi. Li aveva davanti entrambi e parevano indubbiamente veri.
- Piaciuto il mio ingresso, Qarago Landalork?
La voce incredibile del Guardiano pareva giungere da ogni dove. Qarago rimase stupefatto.
- Tempestivo, fortunatamente.
- Era da un po’ che non mi sgranchivo e ho pensato a qualcosa di speciale. Spero di essere arrivato in tempo.
- Vivrà – Qarago ebbe un tuffo al cuore. La voce della donna di luce.
- È rimasta sotto quel tronco – spiegò il Guardiano, indicando un tronco abbattuto un po’ più in là – La permanenza di Maluce nel vuoto interdimensionale le ha conferito nuove capacità: appena uscita dal Varco ha “sentito” di essere in grado di guarire e con te c’è riuscita.
Qarago lo aveva quasi capito da solo e quella era la conferma. Il globo di luce era la donna che aveva intravisto. In quel momento il globo di luce si scostò e le saette gradualmente smisero di danzare sul corpo di Rafi. Il globo luminoso si accostò al Guardiano a una distanza tale che di tanto in tanto una saetta scoccava orizzontalmente tra i due. Qarago si chinò sulla sua compagna di viaggio e si accorse che respirava normalmente: dopo che le ebbe sollevata la testa Rafi aprì gli occhi. Per la prima volta forse Qarago vide un’espressione morbida sul viso di quella giovane addestrata a prendersi molto sul serio.
Tutto il corpo di Rafi ebbe un sussulto improvviso che Qarago scambiò per l’inizio di una crisi di convulsioni: aveva visto molti uomini continuare ad agitarsi anche dopo essere stati gravemente feriti sul campo di battaglia come se dovessero lottare anche tra le braccia dei portaferiti.
- Quella donna! – disse Rafi quasi spaventata. Respirava come se fosse appena sfuggita all'annegamento. Poi volse lo sguardo dal viso di Qarago ai due nuovi venuti: il Guardiano la cui sagoma torreggiava su di loro e l’incredibile globo di luce abbagliante che scaricava a terra piccole sfrigolanti saette come se servissero per sostenersi a mezz'aria.
Rafi Ailana sfuggì dalle braccia di Qarago come un gatto selvatico e balzò in piedi. La sua espressione mutò dallo spavento iniziale all’abituale maschera di fredda calma controllata che le era solita. Mai Qarago aveva visto tante sfumature di sentimenti diversi attraversare il volto da uccello rapace della sua compagna di viaggio. Ansimava tanto che le placche della corazza battevano e strisciavano tra di loro con suono udibile.
- Il Guardiano e la sua sposa, Maluce – disse a bassa voce, ansando.
- Rafi Ailana Eionson – rispose la potente voce del Guardiano.
- Conoscete il mio nome…
- Tu conosci il nostro… - obiettò il gigante con tono quasi canzonatorio.
- Avete sentito il risveglio di Belmokt…?
- E chi non l’avrà sentito? Quel bestione puzzava da vivo come se fosse morto… chissà ora che è morto davvero. Vorrei sapere chi non si è accorto del risveglio di Belmokt. Tu piuttosto… perché sei venuta a disturbare il sonno di quello schifo ambulante?
Sul viso di Rafi apparve una remota traccia di imbarazzo. Probabilmente non si aspettava che il suo operato potesse essere messo in discussione in quel modo.
- Ma… ma come… in quella caverna giace il terzo Dormiente e Voi non ne siete al corrente?
- E a te chi l’ha detto? – chiese il Guardiano. La sua voce era così potente che la leggera sfumatura ironica era evidentissima. Rafi riferì con poche parole del libro nella biblioteca del padre.
- Tu ne sapevi qualcosa? – chiese il Guardiano rivolgendosi a Maluce.
- Naaah... sai, Vorgo è uno che legge poco…
- Sei intenzionata a entrare?
- Certo! E Vi prego di volermi svelare come si sveglia il Dormiente! – a Qarago parve che Rafi fosse risentita per l’atteggiamento disincantato dei due esseri soprannaturali. Provò una sensazione di leggerezza: Rafi col passare del tempo avrebbe imparato a non credere troppo a tutto quello che si sente e si legge in giro.
- Beh, non saprei… presumo ci sia qualche Sigillo da infrangere… - l’elmo di metallo nero e oro non permetteva di vedere il viso del Guardiano, ma Qarago era sicuro che il sorriso dell’essere doveva essere ormai arrivato alle orecchie.
- Beh, io vado! – disse Rafi decisa. Di scatto raccolse la sua spada da terra e si diresse decisa verso l’ingresso della tana di Belmokt. Non era più affannata.
- Se aveste qualche suggerimento su cosa potremmo incontrare là dentro… - disse Qarago rivolto ai due cui doveva la vita.
- Potreste trovare… beh, i resti dell’ultimo pasto di Belmokt… - alle parole del Guardiano fu il turno di Qarago di sentirsi deriso.

La tana di Belmokt era una caverna piuttosto profonda e buia. Il soffitto si riduceva in altezza quasi subito e proprio come aveva detto il Guardiano, incontrarono i resti dei pasti del mostro in forma di collinette puzzolenti fino all’incredibile. Per qualche strano gioco di correnti l’aria proveniente dall’esterno impediva alla puzza di uscire concentrandola terribilmente all’interno. Più d’una volta i due dovettero appoggiarsi l’un l’altro per tentare di dare sfogo ai conati di vomito che li assalivano in continuazione e che non erano più in grado di reprimere. Infine incontrarono un’apertura nel soffitto che rese inutili le loro deboli e fumose torce che avevano dovuto preparare per addentrarsi nella tana. Grazie al curioso movimento dell’aria in quel lugubre posto la maggioranza del tanfo usciva da quell’apertura e i due fecero una piccola sosta per riprendersi. Quando si sentì in grado di farlo Rafi cercò di proseguire ma presto si rese conto che erano giunti in una specie di grande sala dal soffitto bucato. L’ambiente era così grande che nonostante la luce che passava dal foro nel soffitto di roccia illuminasse la zona per molti passi, le pareti erano invisibili nel buio. Usando Qarago come punto di riferimento fisso, Rafi percorse tutto il perimetro ma non trovò nessun passaggio oltre quello da cui erano giunti.
Rafi raggiunse Qarago al centro della zona illuminata camminando lentamente e guardandosi intorno, come se avesse dimenticato qualcosa.
- Non c’è nulla – disse Qarago.
- Dev’essere qui – rispose Rafi.
- Hai la testa dura… vedi qualche sepolcro? Vedi ossa? Una traccia qualsiasi che ti dica che questa è una tomba? Qarago si stupì per l’espressione che si dipinse sul viso della giovane. Non pensava d’aver detto niente che la potesse sconvolgere a quel punto, ma poi s’accorse che i suoi occhi non stavano guardando lui ma qualcosa che era alle sue spalle.
Il mercenario si voltò e non riuscì a tenere la bocca chiusa per lo stupore, nonostante tutto quello che aveva già visto in quel giorno. Davanti a lui, a pochi passi di distanza, c’era un fantasma. Un fantasma enorme, grande come il Guardiano, coperto da un’armatura ricca e bellissima, il fantasma di un giovane che volgeva lo sguardo lontano, verso un orizzonte invisibile, verso qualcosa di più grande, di remoto. Senza un rumore, senza il minimo spostamento d’aria, si girò di scatto e fatti pochi passi, sparì.
- Il terzo Dormiente, il terzo dei Comandanti dimenticati… Thuss lo Sconfitto… riposa qui… qui… - bisbigliò Rafi con una voce tale che la pelle di Qarago si accapponò ancor di più al sentirla. Rafi si incamminò come sonnambula nella direzione in cui era sparita l’ombra ultraterrena. Il mercenario le parlò più volte ma questa non gli rispose mai: pensando che forse era il caso di rivedere il suo scetticismo in fatto di leggende e spiritismo, Qarago la seguì meditando su quale arma adoperare contro un fantasma guerriero.
Ben presto Rafi si arrestò nel buio rischiarato a malapena dai due pezzi di legno cui avevano stentato a dare fuoco poco prima. Qarago illuminò il pavimento della grotta in quel punto ma non trovò altro che pietre umide, pozzanghere e pallidi, strani e minuscoli abitatori del buio che in preda al panico fuggivano la sua debole torcia. Qualcosa di scuro si mosse all’estremo limite dell’area illuminata dalla fiamma. Qarago se ne accorse e spostò il legno acceso che minacciava di spegnersi ogni momento. In quel momento un altro movimento: una goccia scura cadde su un sasso rotondo lì vicino e rotolò fino alla pozzanghera più vicina. Sangue. Altre gocce caddero sempre più rapidamente fino a unirsi in un sottile filo di rosso; l’eco delle gocce rimbalzava stranamente lungo le invisibili pareti di roccia spegnendosi rapidamente. Qarago inseguì quel filo di sangue e risalì fino al braccio sinistro di Rafi: si era aperta una ferita col suo stesso pugnale e ora guardava attenta il sangue colare.
- Ma cosa stai facendo, sciagurata!
- È qui.
- Chiuditi quella ferita… l’odore del sangue potrebbe attirare qui chissà cosa. Non ti basta un brutto incontro al giorno?
Rafi non si mosse, guardando inebetita il proprio sangue colare dalla ferita che lei stessa si era inferta. Alla debole luce balbettante delle torce di fortuna il suo volto sembrava quello di una pazza, una pazza spiritata. Qualcosa di freddo come il ghiaccio cominciò a scorrere dentro le ossa di Qarago. D'improvviso la luce irruppe vivida e innaturale all'interno della grande sala di roccia, proiettando mille e mille disegni d'ombre mobili ovunque. Il gelo che Qarago appena provato fu sostituito dalla sana e usuale paura che precedeva ogni combattimento: il guerriero era allarmato dall'improvviso cambiamento e tutte quelle ombre in movimento gli avevano dato l'idea d'essere circondato da un esercito.
- Tutto bene?
La sposa del Guardiano aveva fatto il suo ingresso.
- Gentile a interessarsi – rispose Qarago, memore di come era stato trattato poco prima.
- Non è il momento di discutere – disse la creatura di luce – dovete venire via di qui.
- Sono d'accordo. Che pericolo c'è?
- Nessuno evidente per ora. Abbiamo visto...
- Thuss lo Sconfitto... riposa qui... - bisbigliò ancora Rafi, senza rivolgersi a qualcuno in particolare come se nella caverna non ci fosse nessun altro. Maluce le si avvicinò e la sua luminescenza parve incresparsi e indebolirsi, ma solo per un istante e Qarago credette d'essersi sbagliato.
- Oh, no... - disse la splendida voce senza corpo. Qarago capì che ora era davvero preoccupata.
- Presto, fuori da qui...! Conduci la tua compagna di viaggio fuori da qui!
Il tono con cui Maluce aveva pronunciato quelle parole valeva mille spiegazioni. Senza bisogno di aggiungere altro afferrò Rafi per il polso scivoloso per il sangue e la tirò e strattonò fino all'uscita, rischiando più volte di farla cadere. Solo quando furono in prossimità dei resti dei pasti del mostro ucciso Rafi parve riprendere consapevolezza di ciò che accadeva. Maluce era davanti a loro e Qarago notò che non emanava più le sottili saette crepitanti.
Una volta all'aperto Maluce non si fermò fino quando giunse al fianco del suo sposo, fermo a poca distanza dall'ingresso della tana.
- Gradirei qualche spiegazione – cominciò Qarago ansando per la corsa – Là dentro abbiamo visto...
- Sappiamo cosa avete visto – lo interruppe Maluce – ma è più importante cosa avete fatto!
Qarago rimase sorpreso dall'improvviso tono accusatorio.
- Fatto cosa? - disse guardando Rafi che sembrava destarsi da un sogno.
- Quello che avete visto era una sorta di... proiezione dello spirito di Thuss lo Sconfitto... il fantasma di un fantasma, qualcosa di abbastanza raro. I nostri complimenti – cominciò il Guardiano.
- Quello che invece non sapete è che questo genere di apparizioni sono molto legate al luogo dove esse avvengono e sono tipiche di quei posti che hanno visto svolgersi avvenimenti violenti – proseguì Maluce.
Rafi, che stava tentando di fermare il lento scorrere del sangue dalla ferita che non sapeva d'essersi inferta, s'interruppe di colpo.
- No, non è la tomba di Thuss lo Sconfitto – disse Maluce come se avesse letto la mente della giovane armata – ma è ugualmente un luogo caratterizzato da una forte... come dire... spiritualità.
- Questi luoghi sono molto ambiti da maghetti e streghette d'ogni tipo... - continuò il Guardiano con la sua potentissima voce – anche un principiante ancora alle prese con le code di rospo potrebbe riuscire a combinare qualcosa tanta è l'energia che era sopita qui.
- Era sopita? - chiese Qarago che forse cominciava a capire.
- Ma non sapete proprio un bel niente... - osservò Maluce seccata.
- Alla base di moltissimi riti magici e non... c'è il sangue di vergine. E qui ce n'è una bella scorta. - il Guardiano allargò le braccia come per esprimere rassegnazione.
Rafi guardò la sua ferita: nel tentativo di chiuderla il suo sangue le aveva imbrattato le mani e le braccia. Poi alzò lo sguardo verso Qarago, verso Maluce e infine il Guardiano. La scintilla di durezza e decisione nei suoi occhi vacillava, i lineamenti del suo viso parevano lottare contro una forza interna che spingeva per deformare la sua maschera di inespressività.
- Vergine? Per Elzer... alla tua età?
- Non sono il trastullo di nessuno, non sono una vacca da monta come quelle a cui siete abituato, Maestro!
- Che caratterino... - commentò a voce alta il Guardiano.
Riecco la Rafi Ailana Eionson che conosco, pensò Qarago con una certa soddisfazione. Per la prima volta in tutta la sua vita qualcuno gli aveva gridato in faccia che era un puttaniere e quel qualcuno non sarebbe morto con la testa staccata dal corpo dalla sua scure bipenne.
- Insomma, cosa avremmo fatto là dentro? - aggiunse Rafi, irosa.
- Hai versato sangue di vergine in un luogo carico di energie. Le conseguenze non sono prevedibili. Tutto qui.
La situazione che Maluce dipingeva con così poche parole pareva non trovare alcuna conferma: tutto era calmo e tranquillo, silenzioso. Un certo vociare in lontananza distrasse Qarago dai suoi pensieri.
- Sta arrivando qualcuno... sono in molti.
- C'è un villaggio a mezza giornata di cammino da qui... era da parecchio che Belmokt rendeva loro la vita difficile... molto difficile – disse Maluce. Curiosamente il tono della sua voce era adombrato dalla preoccupazione.
- Meglio che non ci trovino – disse infatti il Guardiano – a voi la gloria di questo momento, guerrieri... solo una raccomandazione...
- Non tornate mai più in questo luogo - concluse Maluce.
A grandi passi il Guardiano scomparve alla vista e l'incredibile sua sposa insieme a lui.

- Direi che sarebbe il caso di togliere il disturbo. Riesci a cavalcare?
- Certamente, Maestro.
Corsero insieme verso il luogo dove avevano lasciato i cavalli. Il rumoreggiare che s'approssimava sempre più era senza dubbio quella di una folla agitata e i cavalli non c'erano più. Qarago si sentì perduto.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 7
7.

Gambrath era molto irrequieto: era da ben tre giorni che non poteva proseguire verso Oona come desiderava, prima a causa della malattia di Lerea, poi a causa delle piaghe ai piedi di Laniira, piaghe che le avevano procurato una notte di febbre piuttosto elevata. Così si trovava nuovamente a fare la spola tra la stazione di posta dell'oste Sebian e Tendria, del cui mercato non si decideva a fidarsi. Il carro sobbalzava dentro e fuori le buche piene d'acqua che la pioggia ininterrotta degli ultimi due giorni aveva scavato nel sentiero dandogli l'aspetto di un ruscello di fango. Con tutta quella pioggia il mercante temeva per la giovane Lerea, appena ripresasi dalla malattia, che aveva insistito per accompagnarlo nel viaggio e ora si riparava insieme a lui stretta al suo fianco sotto il medesimo telo che stava ormai inzuppandosi sempre più
.
- Tutta questa pioggia è memorabile – commentò Lerea.
- Hai sognato? - le chiese il mercante.
- No... - rispose la giovane, dandogli a intendere che le dispiaceva non poter rispondere diversamente.
- Non converrebbe puntare verso Taliba? Almeno là molte strade sono lastricate – aggiunse Lerea poco dopo. A sottolineare la sua osservazione il carro entrò con due ruote in una buca piena di fango e solo la prontezza di riflessi di Gambrath e la forza del cavallo da tiro impedirono che si impantanasse. Lerea si avvinghiò al mercante temendo di essere sbalzata dalla cassetta.
- Sii cortese, Lerea... addormentati e sogna un po' di sole e strade asciutte...
- Non è colpa mia se recentemente non ho sognato nulla.
- Non voglio certo fartene una colpa. Ma a Taliba non ci possiamo andare. Ricordi il mio braccialetto?
- Le nostre monete non dureranno ancora molto se non ci decidiamo ad abbandonare la stazione di posta.
Gambrath tacque. Lerea aveva ragione: se avesse speso ancora monete per ripagare l'ospitalità di Sebian l'oste thale, non avrebbe potuto comprare nuova merce e ormai il suo carro era quasi completamente vuoto. Senza quelle monete non avrebbe potuto guadagnarne altre e per lui sarebbe stata la fine. Meditò a lungo la decisione e alla fine la comunicò a Lerea: sarebbero partiti il giorno successivo appena levato il sole e si sarebbero recati al mercato di Oona. Gambrath ricordava d'aver sentito parlare di Oona come una città sufficientemente ricca da ospitare un mercato grande e vario dove avrebbe potuto trovare molta merce da comprare certo di rivenderla senza difficoltà altrove. Inoltre proseguendo verso est avrebbero raggiunto in cinque o sei giorni di viaggio la stazione di posta di Cambler, dove il mercante era certo di trovare ottima ospitalità a un costo ragionevole.
- E se Laniira non fosse in grado di cavalcare?
- Non è obbligata a partire con noi. Può restare da Sebian fino alla guarigione.
- Non ha monete per pagare.
- È un'ancella dei Cerimoniali. L'oste non oserà nemmeno sfiorarla - Nemmeno lo stesso Gambrath credeva alle parole che aveva appena pronunciato e Lerea lo sapeva: aveva imparato a conoscerlo molto bene.
- Sai bene che non è così. Laniira non gode più di alcuna protezione!
- Se escludi la nostra poiché le paghiamo i conti, ebbene temo di sì.
- Come puoi essere così cinico? Si è presa cura di me!
Gambrath capì d'aver parlato troppo. Lerea aveva ragione: la giovane Laniira non si meritava d'essere abbandonata senza troppi complimenti come lui aveva appena pensato di fare. Mentalmente cominciò a calcolare i pasti basandosi sul numero dei giorni di viaggio, sulla merce che aveva intenzione di acquistare... ben presto si rese conto del gran numero di incognite che quel calcolo includeva e molteplici dubbi e angoscie lo assalirono.
- Non fare quella faccia, mercante... vedrai che ce la faremo – lo rimproverò Lerea che leggeva in lui come in un libro aperto.
- E smettila di pensare sempre ai soldi! - aggiunse subito dopo.

Il giorno seguente minacciose nubi grigie oscurarono l'alba che, dopo aver annunciato un nuovo giorno dardeggiando debolmente con i propri raggi obliqui, nulla poté contro lo strapotere della coltre di nubi sotto la quale Gambrath, Lerea e Laniira si congedarono dall'oste Sebian e dalla sua numerosa famiglia che nessuno dei tre, come più tardi osservarono, aveva mai visto tutta insieme in una sola volta.
I piedi della giovane ancella dolevano ancora troppo per permetterle di cavalcare e quindi Gambrath, a malincuore, aveva provveduto all'acquisto di costosi cuscini e coperte per adattare a carrozza un angolo del carro ormai vuoto. Gambrath aveva fatto del suo meglio, ma il suo rimaneva un carro per trasportare merci e solo la cassetta, occupata da lui e da Lerea, era degnamente molleggiata. Ma Laniira non si lamentò mai.
Trascorsa la prima notte a Tendria Gambrath puntò dritto verso Oona temendo sia la Foresta Scheletro sia la pianura dove sorgevano Tendria e Oona: con la nebbia dovuta a tutta la pioggia caduta nei giorni precedenti sarebbe stato fin troppo facile sbagliare strada e andare a finire chissà dove, oppure fare semplicemente qualche brutto incontro non potendo avvistare da lontano le possibili minacce e scansarle. Già il terzo giorno dalla partenza dalla stazione di posta Laniira insistette per scendere dal carro e montare a cavallo: i suoi piedi avevano ancora un brutto aspetto ma lei sosteneva di non sentire più dolore. Fu proprio Laniira che, potendosi muovere più velocemente e agilmente di Lerea e Gambrath sul carro, avvistò per prima nella pioggia il profilo e le deboli luci di Oona.

Dora smontò da cavallo come le era stato richiesto e si complimentò con se stessa per essere riuscita ad atterrare sui piedi. Sperò che quella specie di rozzo soldato che la stava guardando con espressione vorace non si rendesse conto che lei non era esattamente un'abile cavallerizza come cercava di dare a intendere. In realtà aveva ancora una discreta paura di quelle grandi bestiacce e quando il suo cavallo soffiò rumorosamente dalle nari uno sbuffo di alito bianco, dovette trattenersi dal gridare.
Cercò di darsi un tono seguendo con lo sguardo i soldati che perquisivano la sua sella mentre lei teneva il bestione per le briglie. Era da un pezzo che attendeva che venisse il suo turno e aveva avuto molto tempo per osservare le perquisizioni a cui tutti o quasi tutti erano sottoposti prima di entrare attraverso la grande porta che si apriva nelle mura. Aveva avuto anche molto tempo per osservare ciò che della città si poteva veder spuntare al di sopra dell'imponente muro difensivo che, a giudicare da quello che aveva visto avvicinandosi, la cingeva tutta. Diversi edifici, presumibilmente di natura militare, superavano in altezza le mura ed erano tutti caratterizzati da pareti esterne costituite da grandi pietre grigie squadrate, pareti robuste e uniformi nelle quali a intervalli regolari si aprivano strette fessure verticali, tutte buie, alcune addirittura protette da inferriate. Oltre queste costruzioni si poteva intuire la presenza di altri edifici: fili di fumo grigi si innalzavano al cielo denunciando la presenza di camini; attraverso la grande porta aperta era possibile vedere vie trafficatissime da carri, pedoni, cavalieri, soldati: una folla eterogenea sempre in movimento.
Ma ciò che più la colpiva rimanevano le imponenti mura: una sorta di largo fossato asciutto e parzialmente colmato di detriti le circondava, fossato in cui avevano trovato posto povere bancarelle, mendicanti e molta altra gente, tra cui moltissimi bambini, la maggior parte sporchi e con poveri abiti laceri. In cima alle mura il tocco di originalità che l'aveva dapprima incuriosita e poi riempita di raccapriccio: dal camminamento ricavato dietro i merli delle mura pendevano grosse catene con gabbie di metallo grandi appena appena quanto bastava per contenere i loro inquilini. Da dove si trovava ne poteva contare una dozzina, appese a diverse altezze: dentro ciascuna gabbia un uomo.
Alcuni, a giudicare dalla puzza che di tanto in tanto le arrivava al naso, dovevano essere morti da tempo; altri dovevano essere vivi per puro caso mentre uno o due ancora si dibattevano gridando. La vittima a lei più vicina si animò d'un tratto facendo ondeggiare la sua prigione: un soldato si era sporto dal camminamento e stava pisciando sulla gabbia sottostante. Dora inorridì davvero quando si rese conto che il recluso stava cercando di bere.
- Perché vuoi entrare?
Dora ci mise un secondo di troppo a rendersi conto che lo sgherro stava parlando con lei e questo le rivolse di nuovo la stessa domanda molto meno cortesemente.
- Ho fame – mentì lei – cerco da mangiare.
- Mi prendi per il culo? - Dora notò con dispiacere che aveva richiamato l'attenzione degli altri tre soldati del posto di blocco.
- Sto cercando un uomo – Dora si convinse a dire la verità – il mio servo – aggiunse subito, contenta che le fosse venuto in mente quel bizzarro costume degli abitanti del posto.
- Se puoi comprarti uno schiavo allora paga sei monete per il pedaggio.
Dora stava per protestare. Aveva osservato la perquisizione di diversi cavalieri e a tutti erano state chieste due monete. Nemmeno un tizio con un carro e due buoi aveva pagato sei monete. Era chiaro che la stavano ricattando, ma decise che era il caso di pagare e stare zitta. Aveva avuto molte monete per l'ultimo combattimento a Oona e non era il caso di ricorrere alla violenza anche con i soldati: quella le pareva una città vera e probabilmente quei quattro sporchi gradassi puzzolenti che la stavano squadrando in attesa dei soldi dovevano essere il corrispondente dei poliziotti. Pagò e la lasciarono passare.
Così questa sarebbe Taliba, la città più grande, pensò Dora immettendosi a piedi nel traffico intenso tirando per le briglie quel bestione che le avevano dato chiamandolo cavallo. Non si fidava a cavalcare in mezzo a tutta quella confusione: se il cavallo si fosse imbizzarrito e se l'avesse fatta cadere, difficilmente avrebbe trovato qualche bravo dottore che la rimettesse a posto in un bell'ospedale pulito, ordinato e asettico. Nemmeno a pagamento. Si rese conto che cercare Ander lì in mezzo sarebbe stato un vero problema. Il riccastro che l'aveva ospitata a Oona era certo che se Ander era davvero un ladro e fuggiva perché aveva rubato qualcosa, solo a Taliba poteva essere sicuro di trovare un ricettatore per la sua merce. A Dora non era andato per niente giù il fatto di essersi fatta fregare da quel tipo e visto che tutto sommato non aveva niente di meglio da fare, aveva deciso di mettersi sulle tracce del ladruncolo adducendo una fragile questione d'onore che nessuno aveva osato mettere in dubbio. Così in nome dell'onore di un guerriero aveva avuto un cavallo enorme, viveri, denaro e indicazioni in abbondanza su come raggiungere Taliba. Il problema era che, adesso che era arrivata, non sapeva cosa fare: il sole stava calando ma non aveva né fame né freddo. Presto sarebbe stato buio e non sapeva se era il caso di andarsene in giro per una città così grande oltretutto alla ricerca di un ladruncolo.
Dora immaginò che se Taliba era la città più grande nel raggio di molti giorni di cavallo, come le era stato detto, facilmente era anche la città col tasso di criminalità maggiore. Inoltre nessuno la conosceva, lì: mentre a Oona era additata da molti per strada e addirittura alcuni avevano chiesto ospitalità al suo padrone di casa pur di poterla incontrare, per le strade di Taliba doveva fare attenzione a non finire travolta. Nessuno la salutava, nessuno si scansava per lasciarle via libera, nemmeno alla vista dello spadone che portava appeso al fianco. Gironzolò a lungo fin oltre il calar delle tenebre, cosa che la affascinava moltissimo, proprio come assistere all'alba. Poi decise di cercare una sistemazione per la notte: ci mise un po' a risolvere il problema dell'alloggio e dovette accontentarsi di un giaciglio in una stamberga dove probabilmente il cavallo avrebbe alloggiato meglio di lei.
Il mattino seguente si svegliò intorpidita dal freddo e affamata. Non si era tolta gli abiti per il freddo e per gli insetti; rimpianse subito la doccia e l'acqua calda del suo monolocale. Così com'era scese al piano terra dove l'oste le propose una colazione che lei, nonostante si stesse adeguando alle abitudini alimentari di quel posto, trovò disgustosa: latte di vacca cagliato e pezzi di quello che sembrava pane bruciato unto di qualcosa di viscido. Dora aveva davvero fame e il pane era caldo: mangiò senza fare storie, certa che se ne sarebbe pentita piuttosto presto.
Si recò immediatamente alla stalla della taverna e scoprì che mancava il suo cavallo. Sentì un'ondata di rabbia montarle dentro e salirle immediatamente alla testa. Tornò di corsa dall'oste che nel vederla si sforzò di mantenere la calma: lì per lì Dora pensò che fosse spaventato poiché aveva la coda di paglia e cominciò a torchiarlo.
- Dov'è il mio cavallo? - chiese irosa.
- N-non è forse ne-ella stalla, n-nobile signo...
- Chiudi con le stronzate, pezzo di merda! Non c'è più!
L'oste cominciò ad arretrare, pallido. Dora lo incalzò, sempre più furiosa.
- Nobile guerriera, non so proprio come...
Di fronte alla colpevole reticenza dell'oste, Dora perse le staffe. Gridò un insulto e un istante dopo aveva tra le mani una sega a flusso ionico lunga un metro e sessanta, un gingillo che nel suo mondo era molto usato nell'edilizia per la sua capacità di tagliare in modo preciso e controllabile anche gli acciai migliori. Senza sporcare.
Dora si avventò contro l'oste che, terrorizzato, non poté far altro che assistere impotente ai due fendenti che tagliarono in un istante il bancone di legno e pietra unico baluardo tra lui e la furia scatenata. Scavalcato il bancone con un solo passo attraverso il rozzo taglio a V praticato con la sega a flusso ionico, Dora si avvicinò all'oste baffuto e gli puntò contro l'attrezzo che emetteva solo un basso ronzio e una debole luce azzurra là dove era teso l'arco ionico scoperto, pronto per il taglio.
- Prova a pensare com'è facile tagliarti un pezzo alla volta, stronzo – ringhiò contro l'oste che pareva sul punto di perdere i sensi.
- Rivoglio il mio cavallo! - scattò all'improvviso Dora gridando e l'oste se la fece addosso. Dora se la prese prima con l'arredamento e poi con le pareti del locale: aveva appena finito di aprire un foro quasi perfettamente circolare in una parete di pietre spessa almeno una ventina di centimetri quando si accorse del pubblico che si era radunato fuori, in strada. Con un calcio abbatté la parte tagliata che franò proprio in strada, frantumandosi con gran fragore. Vedendola armata di quel magico e potentissimo congegno, alcuni si lasciarono prendere dal panico e fuggirono via spintonando furiosamente tra la folla, moltissimi rumoreggiarono impauriti e indietreggiarono, ma non se ne andarono. Dora sorrise: in mezzo alla folla il suo cavallo si stava facendo largo verso di lei.
La folla finalmente si aprì e lasciò passare la sua massiccia cavalcatura che era portata per le briglie da una bambinetta. Che infami, pensò Dora. Hanno mandato una bambina pensando che io non abbia il coraggio di prendermela con lei. Provò anche un po' di invidia: sembrava che il cavallo, nonostante avesse la forza e il carattere giusto per impennarsi e scappare via con o senza la bambina attaccata alle briglie, avesse assunto di proposito un atteggiamento remissivo e si dimostrasse mite come se sapesse che a condurlo era una fragile bambinetta. Dora guardò la piccolina: chissà dove l'hanno pescata, poverina, pensò. Era una bella bimba ma magra, sporca, vestita con straccetti e camminava a piedi scalzi. Aveva un bel visino incorniciato da capelli scuri lunghi e tutti arruffati. Se Dora l'avesse vista altrove, l'avrebbe messa senza esitazione sotto la doccia senza nemmeno spogliarla per non perdere troppo tempo.
Si avvicinava timorosa: dopo averla vista aveva rallentato il passo e il cavallo la seguiva alla stessa andatura. Dora spense la sega a flusso ionico pensando che fosse spaventata dall'attrezzo, ma la piccolina, preoccupata, non si convinse e si fermò a pochi metri da lei.
- Ciao! - la salutò Dora, dimenticata in un attimo tutta l'ira di poco prima.
Non ottenendo risultati, Dora lanciò dietro di sé la sega che si dissolse nel nulla prima di toccare il suolo, tra il massimo stupore e clamore della folla che ora la accerchiava completamente. Si inginocchiò in modo da raggiungere col suo viso l'altezza di quello della bimba e la invitò ad avvicinarsi. La piccola incoraggiata dall'atteggiamento amichevole di Dora riprese ad avanzare timidamente fino a giungerle davanti e le mise in mano le briglie.
- Oh, che brava... - disse Dora quasi in falsetto – mi hai riportato il mio cavallino! Come ti chiami, bella bimba? Eh?
La piccina non rispose: se ne stava lì col suo visino sporco e gli occhioni scuri che sembravano non poter staccarsi dal viso di Dora.
- Guarda: ti faccio un regalino... sei contenta?
Dora estrasse una moneta da un nascondiglio segreto ricavato tra il cinturone che indossava e gli spessi abiti invernali. La porse tra due dita e la bimba, scattando come un serpente, la afferrò e corse via senza che nessuno osasse fermarla.
- Però... addestrata bene... - disse tra sé e sé Dora. Controllò il cavallo e la sella: non mancava nulla. Si avvicinò al foro preciso e liscio che aveva aperto nella parete di pietre dell'edificio e attraverso di esso si rivolse al disonesto oste baffuto. È giunto il momento di farsi un nome, pensò, cercando anche una battuta a effetto. Aveva visto un sacco di film pieni di battute a effetto come quella che stava cercando, ma non se ne ricordava neanche una. Misurò coi passi la distanza fino al foro e poi, all'ultimo momento, decise che qualsiasi cosa avesse detto, dopo lo spettacolo che aveva dato, sarebbe stata una frase a effetto.
- Ehi, stronzo... hai fatto incazzare il cliente sbagliato.

Ander approfittò della ressa intorno al tavolo del mercante per alleggerire qualche borsa, ma d'un tratto alle sue orecchie giunsero troppe parole a lui familiari e si fermò. Continuò ad ascoltare attentamente, senza fingere, ciò che il mercante stava raccontando tra un boccone e l'altro della sua cena e altrettanta attenzione pose alle domande e risposte che gli altri curiosi fecero al mercante. Questi raccontava fatti incredibili accaduti quella mattina, in una taverna dalla parte opposta della città. Apparentemente una potente strega s'era infuriata perché qualche ladro od oste disonesto aveva osato sottrarle il cavallo durante il sonno: grazie a potentissimi malefici era riuscita a riaverlo e a mandare in rovina l'oste.
Già il fatto che una strega o presunta tale potesse trovarsi in città era di per sé una notizia interessantissima. Ander si stava chiedendo cosa ne avrebbero pensato i soldati della guarnigione permanente quando un petulante commensale interruppe il racconto del mercante insistendo per avere una descrizione della strega.
- Invero non sembra una strega, te lo dico io che l'ho vista con questi occhi... come ora vedo voi tutti! Immediatamente fu sommerso dalle domande: chi chiedeva se i capelli fossero rossi oppure no, chi desiderava sapere se fosse giovane o vecchia, brutta e sgraziata o bella e voluttuosa.
- Ella ha i capelli neri come le penne di un corvo, e ricci. Tanto lunghi da coprirle le spalle e voluminosi da sembrare un mantello. Io la vidi passare attraverso il foro in una spessa parete da lei stessa aperto per magia: era adirata e il suo viso era nero come per i segni di guerra. Quando le è stato restituito il cavallo la pelle è ridiventata bianca e il viso era quello di una bella giovane.
Ander ebbe un tuffo al cuore: si trattava quasi certamente della strega guerriera che lo aveva portato a Oona per consegnarlo alla giustizia del Tiranno, cioè a morte certa. La chiave del bracciale che teneva nascosta sotto le vesti parve diventare improvvisamente più grande e più pesante. Quando l'uomo sentì che il mercante descrisse gli abiti della strega come somiglianti a quelli di un combattente e non certo fatti di nere tele di ragno come quelli di tutte le streghe, non ebbe più dubbi. Il mercante ammise di non conoscere il nome della strega, ma Ander lo sapeva bene: Dora la Strega di Tesmacher era giunta a Taliba.
Si guardò bene dal divulgare l'informazione e si dileguò lasciando la compagnia nell'ignoranza. L'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era l'attenzione di qualcuno: una domanda chiama un'altra domanda e prima o poi qualcuno avrebbe anche potuto controllare la propria borsa, quindi Ander decise che era il momento di cambiare aria.
Ora che poteva saldò il conto per il pasto e uscì: le strade di Taliba erano illuminate da torce, ma il quartiere in cui aveva trovato alloggio era lontano dal ricco centro della città e le uniche fonti di luce erano i miseri raggi che sfuggivano attraverso le imposte delle finestre che si affacciavano sulla via e le piccole lampade a olio delle prostitute che si offrivano ai passanti, invitandoli a seguirle. Ander ne ebbe subito una addosso: una giovanissima, spettinata e maleodorante, che lo invitò a constatare con mano la bontà della propria merce, visibile attraverso i lacci aperti della misera veste che indossava. Sapendo perfettamente come anche le puttane fossero sensibili alla presenza di denaro e talvolta leste di mano almeno quanto lui, respinse bruscamente le offerte e si avviò, controllando dopo pochi passi con pochi gesti ben dissimulati di non essere stato derubato. Constatato che nessuno dei suoi nascondigli segreti era stato violato, Ander cominciò a pensare a come risolvere il suo nuovo problema. La strega guerriera era a Taliba: perché? Lo stava forse seguendo per via dell'innocuo scherzetto che le aveva giocato a Oona? Perché mai avrebbe dovuto farlo? Come vincitrice nell'arena nessuno le avrebbe chiesto una sola moneta qualsiasi cosa avesse preso, anzi: una discreta somma le era dovuta. O forse si trattava di una coincidenza: sarebbe giunta ugualmente a Taliba? Era una delle mete del suo viaggio di cui lui non conosceva né le tappe né la destinazione? Ma era noto che molti guerrieri, a caccia di gloria, bottino o chissà cos'altro, intraprendono spesso viaggi senza sapere nemmeno loro la destinazione o le tappe intermedie. In ogni caso Ander decise che era meglio non farsi trovare. Se la strega era giunta fino a Taliba per lui, potevano essere guai grossi. Sia le streghe che i guerrieri erano tutti piuttosto lunatici, permalosi e di conseguenza vendicativi, pronti le prime a lanciare sortilegi inimmaginabili, a mozzare teste e squarciare gole i secondi per sciocchezze come essere vittime di furtarelli e piccole astuzie. Dora da Tesmacher apparteneva a entrambe le categorie.
Concluse in fretta che doveva liberarsi della chiave: era entrato in Taliba spacciandosi per il regolare possessore di uno schiavo mandato giorni prima in avanscoperta per determinare quale fosse la migliore locanda per alloggiare. I soldati del Tiranno di guardia alla porta sembravano averla bevuta e, con poche monete in più, era riuscito a passare senza troppe domande. Aveva ancora monete ma che scusa avrebbe inventato se gli avessero trovato addosso la chiave? Non voleva poi nemmeno pensare a cosa gli sarebbe successo se la strega guerriera lo avesse trovato e consegnato alle autorità com'era intenzionata a fare in occasione del loro primo incontro. Con la sua testimonianza e con una inspiegabile chiave di un bracciale nascosta addosso, non avrebbe avuto scampo. Se fosse stato fortunato gli avrebbero presentato il boia, altrimenti sarebbe penzolato anche lui dalle mura, chiuso dentro una gabbia e condannato a restarci fino al distacco delle ossa.
Ander si sentì in trappola: con la strega in circolazione nessun posto era sicuro, ma non poteva abbandonare Taliba con la chiave nascosta addosso. Chiave che sul mercato nero poteva valere parecchio: la maggior offerta ricevuta fino a quel momento era di trenta monete. Non poco, ma Ander aveva intuito che il guadagno era potenzialmente molto maggiore, soprattutto considerando il fatto che voci che aveva raccolto sull'offerente lo descrivevano come il più bieco commerciante di Taliba, il meno provvisto di scrupoli in assoluto. Se aveva offerto trenta monete per quella chiave, era certo che lui ne avrebbe guadagnate almeno novanta e quindi Ander, a suo modo di vedere le cose, poteva sperare di trovare un acquirente per quaranta o cinquanta monete. Per questo motivo scartò a priori l'ipotesi che gli era balenata alla notizia dell'arrivo di Dora da Tesmacher a Taliba: scaraventare la chiave il più lontano possibile, lasciarla cadere in una cloaca, lanciarla sul tetto di qualche edificio senza mai farsi vedere.
Stabilì di rimandare ogni decisione al giorno seguente: era buio da parecchio ormai e le porte erano già chiuse.

Quando Gambrath si destò dal suo sonno leggero da mercante a causa dei primi rumori segno della ripresa dell'attività nella modestissima locanda dove avevano trovato alloggio, anche Lerea, a lui abbracciata teneramente, si mosse.
- Era ora che ti svegliassi – disse lei.
Allarmato dal tono della voce della compagna, il mercante scacciò in un sol colpo le residue nebbie del sonno dalla sua testa.
- Ho sognato – disse Lerea. Gambrath ben sapeva che i sogni della giovane spessissimo erano presagi che non conveniva ignorare.
- Cosa hai sognato? - chiese lui, più ansioso che curioso.
- Ho sognato il tuo bracciale che si apriva e cadeva in terra ai piedi di un grande muro.
- Ssssh! Sei matta? Abbassa la voce! - la rimproverò Gambrath. Ovviamente non ci teneva che si sapesse del bracciale da schiavo che gli era stato inflitto tempo prima dai soldati del Tiranno.
- È un segno! Dobbiamo andare a Taliba!
- Ma tu sei matta! Non voglio finire un'altra volta nella gabbia! - bisbigliò Gambrath. Laniira dormiva a un passo di distanza da loro, su di un pagliericcio separato.
- È l'unico posto dove possiamo trovare un muro come quello che ho sognato. E poi anche ragionando si capisce: solo a Taliba abbiamo possibilità di trovare la chiave giusta.
- Già... in mezzo ad altre mille... Non mi sembra un buon affare: abbiamo anche la certezza di trovare i soldati. E se mi riconoscessero?
- E se tu non trovassi mai la chiave? Cosa farai all'arrivo della stagione calda? Ti vestirai di pelli e lana per non mostrare le braccia? Dirai a tutti d'essere ferito?
Gambrath era spaventato. Lerea aveva ragione. Avrebbe finito col fare lo stesso una vita da schiavo. Schiavo di un bracciale, uno schiavo senza padrone. Peggior sorte non riusciva a immaginare, se escludeva la tortura e la morte.
- Tu mi vuoi male... a Taliba sarà la mia fine! Sarò incarcerato, torturato, giustiziato...
- Non esagerare... uno schiavo rappresenta un valore non indifferente. Al massimo ti sarà cambiato bracciale e sarai venduto a qualcuno.
Gambrath lanciò un'occhiataccia a Lerea, seduta sulle coperte accanto a lui. Spettinata per aver passato la notte senza aver legato i lunghissimi capelli, la sua pelle pallidissima sembrava risplendere tra i fili scuri della chioma. Con quale leggerezza aveva pronunciato tali parole! Gambrath fu travolto per un solo istante da un vortice di pensieri tra i quali quello che Lerea non fosse ciò che sembrava.
- Tu non sai quello che dici – bisbigliò lui.
- Ho sognato. Ciò mi basta.
- Un tempo eri la prima a non dare troppo peso ai tuoi sogni.
- Sono cresciuta, mercante. E poi ho portato anch'io il bracciale, ricordi?
- Io ti donai la sua chiave. Ricordo bene.
- Andrò io. Cercherò la chiave per te! - esclamò Lerea stringendosi Gambrath al seno con passione.
- È fuori discussione. Non ti lascerei andare da sola a Taliba nemmeno in sogno.
Il fagotto di coperte sotto il quale giaceva Laniira si animò e interruppe la conversazione dei due. Gambrath ebbe la sensazione che la giovane ancella avesse udito tutto, ma non osava verificare direttamente.
I tre si lavarono sommariamente con la poca e gelida acqua disponibile e si recarono al piano inferiore per mangiare. Qui l'attività già ferveva: l'oste accudiva il pentolone posto sul fuoco dove avrebbe cucinato il cibo per tutti i clienti per quel giorno; mentre la moglie e la giovanissima figlia si occupavano di riempire le tazze di acqua calda e latte versati sopra pane giallo tagliato a pezzi, il figlio maggiore stava senz'altro accudendo le bestie nella stalla adiacente, a giudicare dai rumori. Gambrath, Laniira e Lerea non erano stati i primi a presentarsi per mangiare: c'erano già due avventori che con rudimentali posate mangiavano carne salata, frutta disseccata e bevevano il latte caldo col pane. Gambrath si sedette al tavolo e chiese latte e frutta per sé e per le due donne: mangiò in fretta poiché ardeva dal desiderio di controllare che la merce acquistata il giorno prima fosse ancora sul carro. L'oste gli aveva assicurato di essere in regola con i pagamenti ai soldati per la protezione contro i furti, ma Gambrath sapeva per esperienza che non c'era da fidarsi di nessuno, nemmeno di quell'oste che a prima vista pareva una brava persona. Figurarsi dei soldati. Recatosi nella stalla verificò che effettivamente tutto era come l'aveva lasciato: scambiò quattro chiacchiere col figlio dell'oste e gli diede una moneta di nascosto dal padre affinché avesse un occhio di riguardo per il suo cavallo e per quello di Laniira che, essendo stato rifocillato e strigliato a dovere, appariva davvero come il cavallo di un ricco nobile. Il suo povero cavallo da tiro che sostava al fianco di quello della giovane ancella faceva una ben misera figura: tozzo, muscoloso e potente, non aveva certo la grazia, il portamento e l'agilità che contraddistinguevano l'altro, davvero una bellissima bestia. Il primogenito dell'oste, forse incoraggiato dalla confidenza che Gambrath fingeva di dargli, forse spinto dalla moneta intascata di nascosto che gli avrebbe permesso di bere del vino, proibitogli dal padre, fece alcune confidenze al mercante. Non tutte interessanti, come quella d'essersi invaghito di Laniira. Una in particolare colpì però il mercante: parlando del cavallo di Laniira il giovane, di nome Nardo, riferì d'averne visti di altrettanto belli solo negli irraggiungibili recinti del Nobile Jon Berardo Hoss. Il giovane riferì inoltre del proprio disappunto nel constatare quanto poco ci tenesse il Nobile Hoss alle proprie bestie: infatti uno dei maschi più belli era stato donato a una insolita strega guerriera che si era scontrata nell'arena col famosissimo Qarago Landalork il quale le aveva, chissà per quale motivo, risparmiato la vita.
Il mercante sapeva bene infatti che dove ci sono duellanti famosi nell'arena, c'è una grande folla e dove c'è grande folla ci sono anche più affari per i mercanti. Insistette col chiacchierare col giovane fino a quando questi gli rivelò che sia Qarago Landalork che la strega guerriera erano già partiti, uno diretto chissà dove, l'altra diretta a Taliba.
Al sentir pronunciare il nome della grande città Gambrath si disperò, anche se non lo dette certo a vedere al giovane Nardo. Era un segno, un altro inequivocabile segno: anche stavolta il sogno di Lerea era stato profetico. Ancora una volta la sua strada portava verso le pericolose mura (e i ricchi mercati) di Taliba.
Gambrath controllò ancora una volta, e minuziosamente, che il carro e i cavalli non fossero stati toccati da nessuno con cattive intenzioni e poi tornò dalle donne. Una volta abbandonata la locanda a bordo del carro, a esse riferì ciò che aveva saputo dal primogenito dell'oste e non poté fare a meno di notare la reazione, ben celata, che Laniira ebbe nel sentir pronunciare il nome di Qarago Landalork, il famoso mercenario e combattente dell'arena. Lerea fu contenta di sentire che Gambrath aveva cambiato idea riguardo il viaggio a Taliba a tal punto che il mercante dovette chiederle di moderare l'entusiasmo se non voleva dare nell'occhio. Gambrath quindi stabilì che era ormai troppo tardi per mettersi in viaggio verso Taliba poiché non avevano provviste sufficienti e per procurarsele ci sarebbe voluta almeno metà della mattina. Quel giorno sarebbe stato dedicato ai rifornimenti e agli ultimi acquisti per viaggiare col carro ben carico: i mercati di Taliba erano ricchi e si poteva vendere e comprare qualsiasi cosa, ma solo chi avesse saputo scegliere le merci accuratamente avrebbe fatto gli affari migliori e Gambrath era intenzionato a partire da Taliba con la borsa piena e il carro vuoto. I tre si suddivisero gli incarichi e le monete e procedettero ognuno per proprio conto.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 8
8.

Qarago pensò seriamente di torcere il collo a Rafi Ailana Eionson, che cavalcava impettita al suo fianco. Dietro di loro tre armati cavalcavano canticchiando una canzone di guerra che Qarago non aveva mai sentito in vita sua.
- Tu e la tua impresa... - concluse la frase con una imprecazione che ebbe l'effetto di interrompere la canzone dei tre uomini che li accompagnavano.
- Cosa accidenti te ne farai della Gerarchia della Sorellanza...
- Molta gloria ricadrà anche su di Voi, Maestro.
- L'unica cosa che è ricaduta su di me da quando ho detto sì a tuo padre è stata una disgrazia dopo l'altra.
- Avete ucciso l'orrendo Belmokt che chiedeva sempre più tributi di sangue, Nobile Qarago! - si intromise uno dei tre, il più svelto con la lingua.
- Ah, già... - bofonchiò Qarago.
- Il che non è una disgrazia per nessuno, eccetto Belmokt!
I tre si lasciarono andare a sguaiate risate. Qarago pensò che probabilmente non avevano ancora smaltito il vino della festa che c'era stata al villaggio. Dopo essere incappati in Belmokt infatti era stato praticamente sequestrato insieme a Rafi dagli abitanti di un villaggio vicino preso di mira dall'orrenda creatura che lo aveva scambiato per la sua dispensa personale. La gioia degli abitanti aveva uno strano modo d'esprimersi: erano stati proclamati dal loro capo Abe Kano sette giorni di festa per celebrare la morte di Belmokt e Qarago, che aveva già partecipato a razzie, saccheggi e altre forme di feste private in vita sua, era rimasto imbarazzato dalla rapidità con cui la festa paesana si era trasformata in sfrenati bagordi con orgie di tutti i tipi. Parte dell'imbarazzo derivava dal fatto che non era stato lui a far fuori il mostro, ma vista la piega che avevano preso gli eventi, s'era guardato bene dall'informare quella brava gente.
Infatti durante i sette giorni di festa in onore suo e di Rafi, festeggiati come gli Uccisori del Mostro, come gli Eroici Liberatori eccetera, né a lui né a Rafi era stato concesso di restare soli troppo a lungo: i loro cavalli erano stati nascosti ed entrambi venivano fatti passare in corteo con i massimi onori da un banchetto all'altro, da una cerimonia a una festa che puntualmente si trasformava in un'orgia con abbondanza straordinaria di cibi e vini. Ogni volta che Qarago aveva parlato di partenza aveva visto i volti dei paesani adombrarsi di colpo e in alcuni casi diventare addirittura minacciosi. L'ospitalità però era delle migliori: a Qarago e Rafi non veniva negato nulla a eccezione delle loro cavalcature. Il mercenario si trovò perfino sull'orlo di un serio incidente diplomatico avendo tentato di respingere la giovane figlia ancora vergine di una delle poche personalità del villaggio. La tensione era salita d'improvviso e non s'era allentata fino a quando il padre tutto contento ebbe da mostrare stendendole al sole le lenzuola sporche del sangue perduto dalla figlia insieme alla sua verginità. Qarago si trovò a invidiare Rafi che per mettere al corrente l'intero villaggio della solidità del suo voto di castità aveva dovuto fare ricorso alla spada.
Il settimo giorno le provviste e il vino avevano cominciato a scarseggiare, con un certo sollievo di Qarago che avrebbe voluto andarsene: il ventre era teso per il cibo e temeva di rammollirsi eccessivamente stando sempre tra le coperte e le braccia candide delle donne del posto che lo assillavano giorno e notte. Chiedere nuovamente che gli venisse portato il suo cavallo però aveva ottenuto un risultato leggermente differente dal solito: Kano, il capo del villaggio, aveva voluto parlare con entrambi e in buona sostanza aveva chiesto loro di far fuori un altro mostro.
Qarago ricordava piuttosto bene con quanta rapidità Abe Kano aveva liquidato la faccenda: vivevano felici e contenti oltre il Monte Nero quando un giorno una Bestia Innominabile era comparsa a chiedere un tributo di sangue. Esasperati dagli attacchi e dalla voracità di questo mostro erano giunti alla drastica e sofferta decisione di traslocare l'intero villaggio. Ma ben pochi anni dopo essersi stabiliti dalla parte opposta al Monte Nero ecco apparire Belmokt. In pratica Kano stava chiedendo a Qarago e Rafi di andare a saldare il conto alla Bestia Innominabile, qualunque essa fosse: come una sorta di tabù infatti nessuno al villaggio osava parlarne.
Quando Qarago fece notare, neanche tanto bruscamente, che non sarebbe servito a molto eliminare l'Innominabile dal momento che ormai aveva traslocato tutto il villaggio, ottenne il medesimo risultato ottenuto rifiutando di sverginare le giovani che erano state a lui condotte, amplificato su larga scala. Come a chi avesse pronunciato una gravissima eresia senza rendersene conto gli era stata opposta moltissima inattaccabile retorica e concesso tempo per riflettere, avvisandolo senza mezzi termini che se avesse insistito a opporre un rifiuto avrebbe dovuto temere il sonno.
Così ora Qarago pensava a se stesso in viaggio con tre sgherri alle calcagna pronti a trafiggerlo alle spalle se si fosse allontanato di un solo passo dall'impervio sentiero che scavalcava le asperità dalle quali si innalzava il Monte Nero.
Tutto a causa della Gerarchia della Sorellanza o cosa diavolo era ciò a cui Rafi aspirava con tanto ardore.
Ormai la parte peggiore del viaggio era passata: il Monte Nero era alle loro spalle e anche se il sentiero era ancora difficile per via della ripida discesa, non doveva mancare molto alla destinazione finale. - Dov'era ubicato il vostro villaggio? - chiese Qarago approfittando di una curva del sentiero da cui era possibile scorgere una grande parte della verde valle sottostante, chiazzata dal cupo smeraldo di molti sempreverdi.
- Dietro quelle colline, Nobile Qarago. Lo raggiungeremo entro sera.
- E l'Innominabile?
I tre si adombrarono immediatamente.
- Nessuno sa dove si trovi esattamente. I nostri vecchi raccontano che appare e scompare volando ogni volta da una direzione diversa.
Qarago fu sul punto di impugnare la spada e la scure bipenne e far volare due o tre teste.
- Quindi vola, perfino – disse senza nascondere d'essere molto seccato.
- Certo. Credevamo lo sapeste, Nobile Uccisore.
- C'è forse qualcos'altro che voi tre credete che io sappia?
I tre armati, affidati come scorta ai due Eroici Uccisori dal capo del villaggio si guardarono l'un l'altro, incerti.
- Beh, veramente... - cominciò uno.
- Il fuoco...
- Sì, ci sarebbe il fuoco...
- Per Elzer! Ne ho abbastanza! - scattò gridando Qarago. Due cavalli scartarono spaventati.
- Mi state dicendo che l'Innominabile è un drago sputafuoco?
Nessuno dei tre sembrava in grado di tenere testa all'ira di Qarago: si fecero piccini sulla sella dei loro cavalli mentre cercavano di dare qualche giustificazione.
- E sia... meglio tardi che mai! La parola è data... certo bisognerà cambiare tattica, ora che sappiamo con chi abbiamo a che fare! - Esclamò Qarago che in realtà stava pensando a come tagliare la gola ai tre senza dare loro il tempo di reagire per poter cambiare aria in fretta. Quel luogo pareva ameno e pacifico, ma sapere che da quelle parti c'era la tana di un drago in grado di volare e sputare fuoco riduceva drasticamente le possibilità di stabilirsi felicemente da quelle parti. Rendeva pericoloso anche il semplice transito.
Qarago si volse verso Rafi cercando un cenno d'intesa che non giunse. Forse che anche lei crede nella sacra missione affidataci da Abe Kano, si chiese Qarago. Pensò che non era affatto difficile che Rafi avesse deciso di scambiare i Dormienti con un bel drago alato. Farne fuori uno era certo una bella impresa per sole due persone.
- Proseguiamo! - ordinò Qarago, prima che la situazione prendesse una piega a lui poco favorevole.

Raggiunsero il villaggio ben prima di sera. I tre non avevano dubbi: l'ammasso di macerie che si trovava al centro di un gran pezzo di terra nera, bruciata e sterile era il loro antico villaggio.
Rimaneva davvero poco: qualche moncone di parete era riconoscibile a stento, le case di pietra erano state distrutte completamente e i detriti erano sparsi ovunque. Tutto quello che era possibile bruciare era bruciato. Non era possibile distinguere le strade dalle fondamenta degli edifici, quelli che ne avevano avute, naturalmente. Dopo un attento esame un buco per terra fu identificato come il pozzo principale, ma era pieno di terra nera franata. Il villaggio doveva essere stato bello e grande: a giudicare dalla vastità della zona bruciata, che avevano avvistato da lontano dall'alto di alcune colline, era stato molto più grande di quello da cui provenivano. Nessuna meraviglia quindi per il sentimento di vendetta covato da Abe Kano, il capo della comunità. Qarago non era certo un contadino, ma presa tra le mani una manciata di quella terra scura non stentò a comprendere che lì non sarebbe cresciuto nulla, a dispetto dell'evidente fertilità della terra circostante e del molto tempo trascorso.
- È l'effetto della fiamma del drago – lo informò Rafi, fredda e impassibile di fronte a tutta quella distruzione – non si limita a bruciare... consuma. Consuma ogni cosa. Non c'è magia maggiore di questa.
- Se conosci qualche trucco, tu che sei esperta nelle arti magiche, sarà meglio che ti prepari a metterlo in pratica – la informò il mercenario, sarcastico. Non gli interessava certo la magia, ma ricordava le parole di Mastro Eionson: Rafi non aveva dato cenno di conoscere alcuna pratica magica a eccezione di quanto aveva fatto nella caverna di Belmokt.
- Potremmo accamparci laggiù, dove ci sono quegli alberi - propose uno dei tre armati, loro “scorta”.
- No. Se qualcuno volesse attaccare dalla parte degli alberi, ce l'avremmo addosso all'improvviso. Ci accampiamo proprio qui, in mezzo al niente. Chi si avvicinerà dovrà per forza venire allo scoperto – lo corresse Qarago, pensando al grande valore di quegli uomini. Buoni forse come sicari, ma non certo validi combattenti. Non riusciva nemmeno a ricordarne i nomi.
L'oscurità cadde presto su di loro e prepararono il fuoco per scaldarsi: esposti al freddo pungente della notte, in mezzo a quella grande spianata devastata dalle fiamme del drago un semplice alito di vento acquistava la forza di raggiungere le ossa. In tutti quei giorni di viaggio era stata Rafi a occuparsi del fuoco poiché il suo acciarino era molto più efficiente di quello di Qarago. In quel momento però ad affannarsi per accendere il fuoco erano i tre uomini: Qarago vide Rafi allontanarsi, frugare a lungo nelle bisacce della sella, al buio, e poi avvicinarsi di nuovo. Capitava spesso, e non era ancora riuscito a capire cosa facesse. Ma ora teneva qualcosa tra le mani: la vide compiere qualche gesto verso la legna del falò che non voleva saperne di prendere fuoco e, all'improvviso, da una singola scintilla dell'acciarino tra le mani di uno dei tre uomini della scorta divampò una lingua di fuoco che attecchì con rapidità sorprendente al resto della legna.
Sbalorditi, i tre vicinissimi alla fiamma sobbalzarono e si ritrassero: la luce del fuoco animava già le ombre sul saio di Rafi e sul viso affilato oscurato dal cappuccio, rendendolo sinistro e inquietante. Le mani di Rafi erano già nascoste nelle maniche del saio, come sempre. Qarago, meno sorpreso dei tre uomini ma ugualmente impressionato, pensò contento che evidentemente le sue parole erano giunte come frecce sul bersaglio.

Come sempre il mercenario si destò alle prime luce dell'alba. Era un mattino gelido, il cielo era popolato da rare nuvole e il freddo gli aveva morso le membra tutta la notte, ma non ferocemente come si sarebbe aspettato. Forse qualcuno col sonno leggero aveva alimentato il fuoco anche nel cuore della notte come altre volte era accaduto in quei giorni di viaggio: i suoi compagni di viaggio imposti dal capo del villaggio dormivano a turni per non perderlo d'occhio.
Poco avvezzo a trastullarsi nella quiete che segue il risveglio e già dimenticati gli agi delle lenzuola profumate e la tenera dolce carne delle donne che per sette notti consecutive avevano giaciuto con lui, Qarago si apprestò ad affrontare un nuovo giorno e scacciò il sonno residuo. Ma ancor prima di aprire gli occhi i suoi sensi dettero l'allarme. Al naso gli arrivò per un solo istante un odore a lui ben noto ma che non sentiva da tempo: cadaveri bruciati. Pensò che dovesse essere il luogo dove aveva scelto di accamparsi, il centro di un villaggio completamente bruciato. Ma il suo acuto spirito di osservazione lo contraddisse in un lampo: il giorno prima non aveva percepito alcun odore di bruciato e quell'odore di carne carbonizzata non potevano essere gli avanzi della cena buttati nel fuoco la sera prima. Si rese poi conto di un suono insolito, una sorta di fruscio che però non era certo il vento tra gli alberi, visto che erano tutti spogli e piuttosto lontani. Quel fruscio veniva da un punto vicino a lui. Fece tutte queste osservazioni in un battito di ciglia e, abituato com'era a prendere rapide decisioni in battaglia, trasse subito la conclusione che doveva esserci compagnia.
Quello che i suoi occhi videro non se lo sarebbe scordato fino alla vecchiaia, ammesso di averne ancora una a disposizione. Non un plotone di soldati, nemmeno un esercito schierato contro lui solo avrebbe potuto spaventarlo così. A pochi passi da lui, oltre il falò spento, oltre i poveri resti carbonizzati dei tre sgherri di scorta, due dei quali rimasti nella stessa posizione in cui li aveva visti coricarsi la sera prima, acquattato e sornione come un gattone domestico stava un enorme drago alato. E lo guardava.
Aveva gli stessi colori di una normale lucertolina, di quelle lunghe un palmo che aveva sempre visto arrampicarsi sui muri per stare al sole. Ma questa creatura era tanto lunga che sulla schiena avrebbero potuto trovare comodamente posto sei o più uomini di robusta corporatura. Alla lunghezza totale contribuiva notevolmente una lunga coda terminante con un affilato sperone corneo ricurvo simile a un doppio amo da pesca che in quel momento danzava ritto in aria come un serpente pronto ad attaccare. Anche il collo della bestia incredibile era lungo e sinuoso: esattamente come la coda prometteva di essere costituito da grossi e poderosi muscoli. L'intero corpo era ricoperto da squame e scaglie che parevano durissime e molti corni e spine di diverse dimensioni spuntavano dovunque, acuminate e letali armi di difesa. Perfino la testa, orrenda e feroce, era irta di numerosi corni e il muso terminava con una sorta di rostro appena accennato. Incastrati sotto la fronte corazzata e difesa da piccoli corni, ai lati della testa c'erano due piccoli occhi gialli da serpente che saettavano velocemente in tutte le direzioni. Proprio mentre Qarago li stava osservando impietrito, una palpebra trasparente si chiuse orizzontalmente sull'occhio visibile in quel momento e subito un'altra palpebra spessa, pesante e opaca calò dall'alto: il mercenario ebbe la sensazione che il grande drago gli avesse fatto l'occhiolino.
- Salve.
Qarago aveva già fatto un notevole balzo all'indietro alla vista del mostro: le sue gambe avevano reagito così velocemente nel farlo saettare fuori dal suo giaciglio che le mani non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alle armi che ora distavano pochi passi. In quella condizione anche un solo passo equivaleva a una distanza incolmabile. Riuscì quindi a stento a dominare le proprie gambe che ancora volevano darsi a una fuga precipitosa e incontrollata: ci riuscì col pensiero che era già morto. Qualsiasi fosse la velocità che fosse riuscito a raggiungere nella fuga, non poteva competere con quella di un drago volante. All'udire la voce però qualcosa scattò dentro Qarago. Rafi era ancora un fagotto di coperte, i cavalli non davano il minimo segno di paura e nemmeno di nervosismo e il drago aveva salutato educatamente col suo vocione profondo e gutturale e un lieve difetto di pronuncia.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 9
9.

Bastò la vista in lontananza delle mura di Taliba a provocare in Gambrath una certa dose di agitazione. Quando fu in vicinanza della porta divenne intrattabile e cominciò a tremare alla sola vista dei soldati che, di guardia alla grande porta che s'apriva nelle imponenti mura, perquisivano i viaggiatori in ingresso e riscuotevano le tasse. Senza sapere esattamente da dove provenisse la sua forza in quei momenti, lui e Lerea recitarono adeguatamente la farsa dei mercanti squattrinati, lui cercando a lungo le cinque monete chieste per il carro e lei fingendo di estrarre da una riserva nascosta le tre monete richieste per se stessa e per Laniira e il suo cavallo. Le guardie non si lasciarono ingannare e attesero impazientemente che venisse pagato il balzello, apostrofando volgarmente sia il mercante che le sue compagne di viaggio. Oltrepassata finalmente la porta e tolte dagli occhi le orrende decorazioni che pendevano dalle mura, Gambrath ricominciò a respirare.
In ben poco tempo il caotico traffico di Taliba lo mise a suo agio: ogni tipo di veicolo e cavalcatura circolava per le affollatissime strade e il mercante non si fece pregare per mischiarsi alla folla. Era ormai piuttosto tardi e tra poco sarebbe divenuto buio, ma Gambrath insistette per vedere una delle piazze dove si svolgeva il mercato degli schiavi, che sapeva essere lì vicino. Come temeva non vi trovò grande folla ma non era certo lì per comprare o vendere schiavi. Il suo obiettivo era molto più delicato e pericoloso: cercare venditori di chiavi spaiate, delle quali cioè s'era perso il bracciale. Mestiere pericolosissimo, sia per chi vende che per chi compra, pensò. Punibile anche con la morte. Eppure era la sua unica speranza per liberarsi del bracciale che gli cingeva il polso.
Si separò quindi da Laniira e da Lerea, poiché contava di utilizzare la medesima tattica che aveva funzionato con Oberto Goaf. Il solo pensiero gli fece correre brividi lungo la schiena: mettere a repentaglio la vita di Lerea non gli piaceva affatto ma, se voleva un futuro con lei, non poteva essere certo un futuro da schiavo.
Sul palco grande s'agitava in quel momento un mercante di schiavi che aveva appena denudato un uomo e una donna dalla pelle scura, probabilmente due thale-ra caduti in disgrazia per essere stati sconfitti in qualche guerra tra clan, cosa piuttosto frequente per quella gente. Gambrath notò subito che l'uomo era stato ferito al ventre di recente poiché, nonostante la pelle scura, era possibile vedere la ferita e i segni lasciati dai punti di sutura. Con poca gente in piazza era possibile avvicinarsi parecchio al palco e certi importanti dettagli era difficile perderli. Ne approfittò per esprimere un commento a voce alta, un amo a cui prontamente un suo vicino abboccò. Poco dopo Gambrath stava conversando con un mercante molto giovane che era stato così sprovveduto da intavolare una discussione piuttosto delicata riguardo truffati e truffatori. Con l'aiuto di un po' di vino Gambrath prima che la ronda iniziasse il suo giro ebbe i nomi di un paio di probabili venditori disonesti da cercare in piazza il giorno seguente.

Ander consumò rapidamente la povera colazione e, pagato il conto con la borsa altrui, s'incamminò di buon'ora per le vie della periferia di Taliba. Doveva sbarazzarsi della chiave, ma come fare? Non poteva certo metterla in vendita in piazza: anche il commerciante più sprovveduto sapeva che ogni contratto d'acquisto di uno schiavo doveva concludersi con l'apertura, anche se per pochissimi istanti, del bracciale dello schiavo venduto per dimostrare l'effettiva proprietà.
Vendere la chiave a un mercante di chiavi false? Era una possibilità, una pericolosissima possibilità. Se possedere una chiave falsa poteva essere punibile con la reclusione immediata, tentare di venderne una spaiata poteva essere anche peggio. Impossibile prevedere l'applicazione della legge se ad amministrarla erano i soldati del Tiranno. A Taliba ce n'era una guarnigione intera.
Assorto nei sui pensieri Ander si strinse nelle sue vesti che mal lo difendevano dal freddo e, dovendo pur andare da qualche parte, decise di recarsi in una delle più grandi piazze del mercato di Taliba. Lì forse avrebbe avuto qualche idea.

Lerea aveva cercato in tutti i modi di liberarsi di Laniira ma questa, nonostante sembrasse non battere ciglio a tutte le menzogne che le aveva fino a quel momento propinato, sembrava fermamente intenzionata a restare con lei. Lerea aveva tempo a disposizione, ma prima o poi avrebbe dovuto cominciare la sua parte: non potendo uscire liberamente dalle mura avrebbe dovuto acquistare dei cosmetici senza dare nell'occhio e poi, indossato l'abito da nobildonna gelosamente custodito nel proprio magro bagaglio, avrebbe dovuto acconciarsi meglio possibile per avere qualche speranza di ingannare i mercanti di chiavi che Gambrath le aveva indicato. Facendo leva sulla loro sensibilità alla lusinga e con un gioco d'equivoci avrebbe dovuto introdursi nella loro dimora e, neutralizzato l'ospite con un intruglio narcotico da lei precedentemente preparato, cercare le chiavi spaiate e fuggire non vista. Con Oberto Goaf era stato facile poiché troppo avaro per avere schiavi o servitù: avrebbe dovuto stare attenta nel caso avesse incontrato altri mercanti più vanitosi e spendaccioni.
- Lerea...
- Sì...? - disse quella quasi contenta dell'interruzione: stava faticosamente mentendo a ruota libera, ormai.
- Scusa se ti interrompo così, ma non sarebbe meglio che tu la smettessi di mentirmi?
- Ma come puoi dire...
- Vi ho sentiti parlare, ieri. So del bracciale.
Lerea non si era mai sentita un'idiota così come in quel momento. Tutte le parole che le venivano in mente le si fermavano nella gola dolente, che le pareva fatta di metallo caldo. Il silenzio si protrasse così a lungo che Laniira si sentì in dovere di continuare.
- Invece di tenermi all'oscuro, avreste potuto chiedermi aiuto. Vi capisco, e capisco il vostro imbarazzo.
- Beh... - cominciò Lerea. Ma non riuscì ad andare avanti.
- Vi aiuterò. Ho un'idea di come farlo.

Gambrath era concentratissimo: non doveva far altro che essere se stesso. Nel piano congegnato insieme a Lerea gli toccava certamente la parte più semplice, ma non riusciva a dispiacersene. Tremava al solo pensiero di Lerea avvinta dalle braccia di qualche untuoso mercante come Oberto Goaf, ma non poteva certo mettersi lui al suo posto. Parte del piano era che, se fosse capitata l'occasione, Gambrath avrebbe dovuto fingere di vendere qualcosa a Lerea trattandola come una nobile d'alto rango per dare credibilità alla recita. In piedi sul carro aveva un'ottima visibilità su gran parte della piazza che si era scelto per fare affari. Aveva tessuti, attrezzi, vino e molte altre cose che potevano interessare diversi clienti e infatti questi non tardarono a farsi vivi. Non molti compravano, con gran dispiacere del mercante che vedeva il sole alzarsi sempre più e la sua borsa pesare sempre la stessa misura.
Era quasi giunta ormai l'ora del pasto e la piazza era affollatissima: stava cercando di vendere diversi attrezzi a un sospettoso minuto assistito dalla figlia che non staccava gli occhi dalle sue pezze di tessuto acquistate a Oona. Più che i ferri da agricoltore, Gambrath mirava a vendere molte braccia di tessuto alla vezzosa figlia del minuto quando sì sentì chiamare dalla sua sinistra.
- Mercante! Mercante!
Gambrath si voltò per un solo istante, chiedendo più gentilmente che poté di attendere. Il minuto infatti pareva convinto sia per gli attrezzi che per la stoffa poiché la figlia lo stava esasperando al punto tale che pur di farla tacere le avrebbe acquistato anche tutta la pezza.
- Mercante! Ascoltami, mercante!
-Un momento, per Elzer! Sto concludendo un affare!
Il minuto stava tendendogli la mano con le monete e Gambrath, indispettito per l'insistenza dello sconosciuto che lo stava pericolosamente distraendo, si accorse appena in tempo che il contadino stava tentando di concludere un prezzo un po' troppo favorevole per sé.
- Ascoltami, ne va della tua vita!
Come se non avesse udito, Gambrath concluse la vendita degli attrezzi riuscendo a guadagnarci e il minuto portò finalmente via con sé la petulante figlia avvinghiata a dieci braccia di tessuto di buona qualità. Solo dopo aver contate e nascoste le monete appena incassate il mercante si issò nuovamente sul carro da cui era sceso per concludere la vendita di poco prima e si voltò verso il seccante acquirente. Per poco il suo cuore non si fermò.
Era il tizio a cui aveva sottratto il cavallo e il carro che aveva sotto i piedi in quel momento. Questi per la cavezza stava conducendo Oslob, il suo bue grigio aggiogato al suo carro a due ruote, entrambi creduti irrimediabilmente perduti dopo la sua prigionia all'accampamento militare. Un esercito fatto di brutti ricordi assalì Gambrath che per lo spavento ebbe la sensazione che il cavallo da traino avesse dato uno strattone al carro.
- Dove hai preso il carro e il cavallo, mercante? Rispondi subito, o saranno i soldati a chiedertelo la seconda volta!
- L'ho comprato a Oona dopo che mi fu rubato il mio carro e il bue grigio che era aggiogato, quello che tu porti per la cavezza!
Gambrath sorprese l'uomo e perfino se stesso per la rapidità e decisione con cui aveva risposto, ribattendo le accuse al mittente con una piccola ma inattaccabile menzogna. L'uomo che aveva Oslob con sé parve imbarazzato al punto da non saper cosa rispondere.
- Chi ti ha venduto il carro e il cavallo ha derubato me, tramortendomi con una gran botta in testa! Gambrath aveva ben chiaro chi aveva davanti: facilmente si trattava di un contadino o di un fattore di qualche latifondista come ce n'erano diversi intorno a Taliba. Rozzo e ignorante, vistosi smontare la sua accusa che credeva assolutamente fondata e legittima e scaraventato d'un tratto dal lato degli accusati, era chiaramente disorientato. Il mercante pensò a una soluzione che avrebbe accontentato entrambi.

Era passata da molto l'ora del pranzo quando Ander si decise a mangiare qualcosa. Era una giornata dura: stando in mezzo alla folla gli pareva di sentire meno freddo però era difficilissimo alleggerire le borse altrui a causa della moltitudine di occhi puntati ovunque. Aveva poi assistito alla cattura di un giovanissimo ladruncolo che poco prima aveva tentato di borseggiare pure lui. Ander figlio di Aevir derubato da un principiante? Mai! aveva pensato mentre con uno schiaffo sulla mano dissuadeva il giovane apprendista dall'avvicinarsi ulteriormente alla sua borsa la quale, per precauzione, non conteneva che ben poche delle monete che aveva “guadagnato”.
La vista del giovane trascinato via dai soldati dopo che una grassa serva l'aveva colto sul fatto e s'era messa a strillare a squarciagola “un ladro, un ladro!”, doveva ammetterlo, lo aveva turbato. Non doveva dimenticare in nessun momento che Taliba era la sede di una nutritissima guarnigione di soldati del Tiranno i quali non sembrava avessero voglia di scherzare.
Ma un'altra vista gli fece dimenticare ogni altra considerazione: a diversi passi di distanza da lui, a cavallo d'una bellissima bestia condotta da un'ancella, una nobildonna di un certo rango gettava languidi e solo vagamente interessati sguardi alla merce che era esposta sui carri e bancarelle. Ander si mise subito al lavoro: innanzitutto doveva scoprire se stavano abbandonando la piazza oppure no. Infatti solo in quest'ultimo caso avrebbe potuto agire con maggior sicurezza. Ne approfittò per studiare bene la vittima: la giovane nobile era piuttosto in carne, come si poteva vedere chiaramente dal candido seno che si sollevava dalla scollatura del vestito. Il denaro non doveva mancarle e nemmeno il gusto e la raffinatezza: poteva spendere per abiti costosi come quello che indossava, per truccarsi il viso e possedeva un bellissimo cavallo. Era accompagnata da un'ancella che a piedi teneva il cavallo per le briglie e quindi aveva certamente casa entro le mura di Taliba. I lunghissimi capelli erano acconciati in modo molto elaborato e pettinati con grande cura tanto da sembrare splendenti nonostante mancasse il sole; il trucco sul viso era molto ben dosato nei colori e nella quantità e applicato sapientemente rendeva il viso ancora più bello e incantevole. Perfino il portamento, l'eleganza che aveva nel stare a cavallo ne denunciavano l'appartenenza alla nobiltà tanto che sembrava irradiare beltà tutt'intorno.
Ma non era certo lei che avrebbe conosciuto l'abilità di Ander figlio di Aevir: come ogni nobile che si rispetti, mai la dama si sarebbe insozzata le candide manine col vile denaro; la borsa stava certamente appesa alla cintura dell'ancella. Sarebbe bastato attendere, dal momento che il percorso della nobile signora, assediata da mercanti e venditori, procedeva a zig zag verso la parte opposta della piazza. Ad Ander apparve chiaro che la signora, annoiata della sua villa, era uscita per una passeggiata scortata dalla fedele ancella.
Era piuttosto facile seguirla: nonostante non fosse certo l'unica persona a cavallo in tutta la piazza, ad Ander bastava seguire il piccolo affollamento che la presenza della nobile creava intorno a sé. Riuscì perfino a diventare il nuovo proprietario della borsa di un allocco che non sapeva quanto potesse essere dannoso tenere il naso all'insù troppo a lungo.
Come se l'avesse saputo, quando la nobildonna a cavallo si fermò per fare acquisti lui era alla distanza giusta. Vide benissimo l'ancella estrarre la borsa per pagare un mercante che esponeva discrete pezze di stoffa sul suo carro a due ruote trainato da un bue grigio un po' malconcio. Fece in modo di trovarsi nella posizione migliore e giudicando la densità della folla quella adeguata, si avvicinò all'ignara ancella dal lato della borsa.

Lerea aveva fatto del suo meglio per non tradirsi: aveva, senza volerlo, incontrato Gambrath e finto di acquistare la stoffa. Gambrath aveva ora il suo carro e Oslob, il suo bue grigio, era a esso tranquillamente aggiogato. Credeva d'aver avuto una visione: forse non era Gambrath, forse era un mercante che gli somigliava soltanto e aveva appena sperperato molte monete per comprare dell'inutile stoffa. Eppure giorni e giorni passati a cassetta con Gambrath non potevano mentire: nemmeno tutte le volte che aveva accudito il bue grigio dopo una giornata di viaggio potevano ingannarla. Conosceva il dorso di quella bestia quasi come le proprie mani. Gambrath aveva di nuovo Oslob e il suo carro e non aveva più quel bel cavallo da tiro e il carro grande. Infatti aveva notato che la merce era stata stivata frettolosamente e che il carro a due ruote era prossimo a essere sovraccarico. Poi all'improvviso qualcuno vicinissimo a Laniira gridò.
- Fermo lì!
Laniira si fermò di colpo e impedì al cavallo di scartare bruscamente. Spaventata Lerea si aggrappò alla bella criniera per non cadere. Ci fu un breve tumulto e la piccola folla intorno a lei si diradò un po'. Un uomo grande e muscoloso, con tatuaggi sulle mani e sul viso, aveva immobilizzato un altro più magro e più piccolo di lui, vestito in modo approssimativo. Lo teneva per entrambe le braccia e lo portò quasi di peso al suo cospetto.
- Restituisci! - disse l'uomo tatuato, con voce potente. Lerea lo riconobbe come un thale-ra. Quello nella stretta del thale non si mosse né fiatò e subito una mano tatuata afferrò il suo polso destro e lo sollevò torcendolo. Dalla mano prigioniera cadde in terra una borsa tagliata. Laniira esclamò: la sua mano corse subito alla cintura dove teneva la borsa, ma non trovò altro che i lacci tagliati.
Lerea spostò lo sguardo fino a incrociare quello del ladro e vi lesse terrore. Subito questi tentò di lasciarsi cadere ma il thale che lo tratteneva era così forte che le sue ginocchia non toccarono terra.
- Eccellenza, Nobile Signora, mia Regina, perdono! Vi prego, Nobilissima Dama, Sposa del Sole, Principessa, Regina delle Rose, vi prego... perdonate il vostro servo, il vostro umilissimo, indegno servo che tanto ha osato...
Lerea si accorse che nel dibattersi tra le braccia del thale qualcosa aveva brillato tra gli strappi dell'abito del ladro. Attese ancora per essere sicura e... sì! Ne era certa, ora: in un solo battito di ciglia aveva fatto la sua comparsa, ma ne era sicura. Appesa al collo del ladro c'era certamente una chiave!
- Lasciatelo! - disse Lerea, chiamando a sé tutte le sue forze per non far tremare la sua voce. Aveva intravisto una via per non rischiare troppo quella sera e intendeva provare subito.
Senza nemmeno pensare di poter discutere un comando così imperioso, il thale-ra lasciò la presa e il ladro cadde a terra sulle ginocchia. La chiave appesa al suo collo sfuggì dagli abiti e balenò sotto gli occhi di Lerea e pochi altri. L'uomo fu lestissimo a inchinarsi fin quasi a toccare il fango con la fronte per coprire col corpo un rapidissimo gesto con il quale nascose nuovamente la chiave sotto gli abiti.
- Questo sciagurato è un mio servo... – disse Lerea – così sfrontato da derubare la sua padrona! Io stessa lo punirò!
Dopo uno sguardo d'intesa con Laniira, questa afferrò il ladruncolo per gli abiti e lo trascinarono via.
Nessuno osò fermarle.

Gambrath non riusciva a stare tranquillo in nessun modo. Ora che la giornata volgeva al termine, non aveva più nemmeno gli affari per distrarre i propri pensieri da ciò che poteva succedere a Lerea. L'aveva vista quel giorno bella come una divinità, regale nel portamento e fine nei modi e ne era rimasto estasiato. Si congratulò mille volte con se stesso per averle donato la sua chiave, quel lontano giorno. Era stato davvero un grande affare, il migliore della sua vita, forse. Ora probabilmente quello stupendo fiore stava rischiando la vita per la sua chiave che, forse, si trovava tra le mani di qualche sudicio malfattore travestito da mercante. Non osava nemmeno pensare a cosa le sarebbe potuto accadere se fosse stato svelato l'inganno. Taliba non era piccola come Bartchack, certo, e i rischi erano tutti collegati alla presenza della guarnigione.
Gambrath si costrinse a restare fino al calar del sole come ogni buon mercante. Gli affari non erano andati granché bene e una sua partenza anticipata avrebbe destato sospetto negli altri mercanti e venditori che, naturalmente, lo avevano tenuto d'occhio come lui aveva tenuto d'occhio tutti gli altri. Era buona regola infatti conoscere la concorrenza e in piazza ognuno sorvegliava l'attività degli altri per ricavare informazioni preziose sul miglior posto dove fermarsi a vendere, sulla qualità della merce altrui e soprattutto per far sì che nessuno vendesse le medesime merci a pochi passi di distanza l'uno dall'altro.
Fingendo rammarico per doversene andare senza aver concluso un affare soddisfacente, Gambrath, che aveva avuto il suo da fare per sviare i sospetti e per soddisfare la curiosità altrui a causa del cambio improvviso del carro e del traino, abbandonò senza fretta la piazza del mercato che si andava ormai inesorabilmente svuotando e si diresse alla locanda, rassegnato a passare la notte col cuore in gola attendendo il ritorno di Lerea.
Lasciò Oslob e il carro alle cure del figlio dell'oste che lo costrinse a ripetere la tiritera che aveva già ripetuto fino alla nausea per giustificare l'assenza del carro e del cavallo da tiro e, elargita una moneta in più in cambio di un trattamento di favore per Oslob, si recò nella piccola stanza affittata rifiutando il cibo che l'oste gli offrì adducendo come scusa quella d'aver già cenato.
In realtà il mercante sentiva il suo stomaco troppo stretto e rigido per accogliere cibo e il suo palato si ribellava all'idea di gustare qualsiasi pietanza mentre Lerea era chissà dove, forse in pericolo. Salì le scale di legno e ascoltò le travi scricchiolare sotto i piedi fino a quando giunse di fronte alla porta della stanza. Attraverso le ruvide assi di legno della porta filtrava una luce gialla: qualcuno aveva acceso la candela. Gambrath pensò che Laniira fosse già rientrata e cominciò a pensare a delle scuse per giustificare l'assenza di Lerea. Non glie ne veniva in mente neanche una ma era troppo stanco e demoralizzato per stare fuori della porta. Senza sapere cosa avrebbe risposto alle domande dell'ancella dei Cerimoniali, spinse la porta che resistette.
- Chi è? - la voce di Laniira dall'interno.
- Gambrath.
- Avanti.
Il mercante vide un'ombra dall'interno avvicinarsi alla porta e togliere il legaccio che la teneva chiusa. Spinse di nuovo e questa si aprì. Alla luce dell'unica candela, due sagome. Una era Lerea.
- Che fai qui? - esclamò sorpreso Gambrath. Si maledisse subito dopo: Laniira non doveva sapere nulla del suo bracciale e ora avrebbe sospettato. Una fitta al centro del petto sottolineò il suo errore. Lerea non disse nulla: alzò la mano destra davanti al viso. Tra le dita stringeva la chiave di un bracciale da schiavo.
- So ogni cosa, Gambrath – disse Laniira con sguardo severo. Stavolta la fitta trafisse le budella del mercante che non poté trattenere un'espressione di sconforto, sentendosi per metà perduto e per metà salvato.
- Dài, sbrigati. Scopriti il braccio.
Con movimenti impacciati e mani tremanti per le contrastanti emozioni che combattevano dentro di lui, Gambrath mise a nudo la fasciatura fatta con vecchie bende sporche del sangue di chissà chi. Ebbe un attimo di esitazione, poi cominciò a svolgerle fino a rivelare l'odiato bracciale. Lerea gli prese il braccio e provò subito la chiave: questa entrò docilmente nella serratura e senza impuntarsi minimamente, ruotò e fece scattare la complessa serratura. Con un tonfo attutito dal pagliericcio preparato per la notte il bracciale cadde e Gambrath, non trovando altri modi di esprimere la sua gioia, si lasciò andare a un silenzioso pianto tra le braccia di Lerea.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Libro Quinto - Il Bracciale 10
10.

Non poteva esserne sicuro a causa dei sobbalzi del carro, ma guardando Taliba da lontano ad Ander sembrò che qualcuno stesse ritto sulle mura, tra la porta e uno dei tozzi torrioni dove si trovavano le guardie. Quel qualcuno non sembrava un soldato: ne aveva visto passare uno poco prima e nonostante la distanza le due piccole sagome non corrispondevano.
- Quando mi darai le mie dieci monete? - chiese il vecchio contadino quasi sdentato girandosi verso di lui.
- Quando saremo ben distanti, come promesso.

In piedi sulle mura della città Dora guardava lontano senza sapere bene cosa cercare. Aveva rinunciato a trovare il ladruncolo in quella città: poteva essere letteralmente ovunque. Ogni sacrosanto giorno c'era la coda per entrare e uscire da ognuna delle porte della città e le piazze e le vie erano sempre affollate. Chi me lo fa fare, si disse stringendosi nella pelliccia: da lì si dominava sia la città sia la valle dove essa sorgeva, ma soffiava un vento gelido da far rabbrividire fin dentro le ossa. Volse lo sguardo entro le mura, sulle centinaia di testoline che vedeva agitarsi in continuazione ovunque, tutte indaffarate, tutte con i propri pensieri. Dora sentì d'un tratto di non appartenere a quel posto. All'improvviso voleva andarsene, tornare al Diner's, voleva di nuovo poter stuzzicare Marcus anche se avrebbe dovuto farlo col suo fisico da lasagne al forno, come diceva lui per prenderla bonariamente in giro. Dora non mangiava mai le lasagne.
Proprio quella possibilità di essere un'altra l'aveva attirata in quel posto ora non sembrava più così irresistibile. La chiamavano strega, era temuta perfino dai soldati. Era forte, poteva diventarlo ancor di più, poteva essere bellissima, le bastava pensarlo. Per un attimo pensò che non era quello che voleva.
Riprese a camminare verso il torrione dove aveva trovato il passaggio per arrivare al camminamento, contando per distrarsi gli anelli infissi nelle pietre che sostenevano le gabbie appese lungo le mura.

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