Il Matrimonio Del Mio Migliore Amico… Non S’Ha Da Fare

di Lady Vibeke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Notizia ***
Capitolo 2: *** La Westling Che? ***
Capitolo 3: *** I Guai Non Vengono Mai Soli ***
Capitolo 4: *** L'Idea Geniale ***
Capitolo 5: *** Imprevisti ***
Capitolo 6: *** Pimp My Tari (titolo idiota, suggerito da un fratello idiota) ***
Capitolo 7: *** Lezioni di Finlandese ***
Capitolo 8: *** Addio Al Celibato... O Quasi ***
Capitolo 9: *** Una Spalla Su Cui Sorridere ***



Capitolo 1
*** La Notizia ***


Nota dell'Autrice: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo.

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[ GEORG ]


La situazione mi puzza di bruciato. C’è qualcosa di inquietante nel sentirsi chiamare al cellulare da Gustav Klaus Wolfgang Schäfer il venerdì sera per un invito a cena per il giorno seguente, tanto più che non credo di aver conosciuto persone meno inclini di lui ad autoimmolarsi nel caotico sabato sera di Amburgo, in piena frenesia pre-estiva, per giunta.

Sapevo che c’era qualcosa sotto prima ancora che lui aprisse bocca, e ora sono qui, seduto da due ore al tavolo migliore del più rinomato ristorante della città con l’artefice della serata e due alquanto perplessi gemelli Kaulitz, a domandarmi quale metaforico coniglio bianco stia per saltare fuori dal cilindro. È da ieri, veramente, che me lo chiedo.

Gustav è nervoso. È facile da notare, perché fa di tutto per non farlo notare affatto: se ne sta tranquillo nella sua sedia, ad osservare con aria annoiata il bicchiere pieno di vino rosso, e non solleva gli occhi di mezzo millimetro dalla tavola, anche mentre intenta una conversazione casuale su questi tre mesi di pausa assoluta che ci sono stati generosamente concessi. Per la verità il management non aveva una gran scelta, stavamo tutti e quattro per essere ricoverati d’urgenza per esaurimento nervoso.

“Allora, Schäfer,” esordisce Tom, spingendo da parte il piatto ormai vuoto per appoggiare i gomiti al tavolo, sfidando apertamente ogni legge di galateo e buona educazione. “Fuori il rospo.”

La faccia da finto tonto che Gustav si affretta a procurarsi non convincerebbe nemmeno la forchetta che tiene distrattamente in mano. Non potrà mai farci niente, è sincero ed onesto per natura, non è fisicamente in grado di mentire, e nessuno meglio di noi lo sa.

“Su, Jutschel, vuota il sacco,” lo esorto io. “È tutta la cena che hai qualcosa sulla punta della lingua che deve saltar fuori, si vede lontano chilometri che devi dire qualcosa.”

Gli sto direttamente di fronte, ed è inequivocabile il modo in cui il suo pomo d’adamo sale e scende mentre deglutisce: è a disagio. Devo dire che comincio ad essere leggermente preoccupato.

“Beh…” Gustav tentenna come un topo in mezzo ad un branco di gatti affamati. Non sarà mica così grave? “Si tratta di Michelle…”

Ah, lo sapevo! Lo sapevo! Ha finalmente aperto gli occhi ed ha capito che Miss Figlia di Papà non fa per lui. Meno male, cominciavo a pensare che prima ho poi avrebbe commesso qualche sciocchezza, tipo…

“Ci sposiamo.”

Tipo questa.

Avverto distintamente la mia mascella cedere e precipitare verso il basso, assieme alle mie braccia. Bill e Tom sono due mie perfette immagini speculari: atterriti, scioccati, sconvolti, e chi più ne ha più ne metta. Ci guardiamo a corto di parole, e tutti e tre sappiamo cosa gli altri due stanno pensando.

Michelle è, a suo modo, una ragazza deliziosa, e certamente esistono interi eserciti di uomini che darebbero volentieri qualche organo vitale pur di averla, ma, mi duole dirlo, con Gustav ha davvero ben poco a che fare. Lo so che la diversità in genere completa vicendevolmente una coppia, ma in questo caso si tratta dell’eccezione che conferma la regola: non funziona. L’unico problema è che sembra che Gustav e Michelle siano gli unici due al mondo a non vederlo.

Eravamo all’inaugurazione di un nuovo locale, l’anno scorso, quando abbiamo conosciuto Michelle Keller, figlia poco più che ventenne del facoltoso proprietario del locale stesso. Devo ammettere che a prima vista ha fatto colpo: alta e snella, con un minuto abito bianco che le faceva risaltare l’abbronzatura, e due occhi neri che incantavano. Sembrava perfetta, un musa scesa in terra per fare la felicità di chiunque la incontrasse, ma il problema è proprio quello: Michelle è veramente perfetta. Troppo perfetta, per un ragazzo semplice e alla mano come Gustav. Insomma, hanno cominciato a uscire praticamente per scherzo! E ora stanno per sposarsi. Non ha senso!

“Congratulazioni, sono felice per voi!” esclama Bill, e mi chiedo dove abbia trovato abbastanza faccia tosta da sparare una palla così grossa. Anche per i suoi standard, è davvero notevole.

Gustav pare rilassarsi un po’ e si concede una mezzo sorriso tirato.

“Grazie.” Poi guarda me e Tom, evidentemente aspettandosi degli auguri, o quantomeno un minimo cenno di vita.

“Ehm,” Mi inumidisco le labbra, supplicando i miei neuroni di tirare fuori al più presto qualcosa di intelligente da dire. “A quando il gran giorno?”

Okay, potevo fare di meglio, ma se non altro sono riuscito a ricacciare quell’imbarazzante ‘È un’emerita cazzata, cretino!’ in qualche oscuro anfratto della mia testa, dove spero che resti, almeno finché questa storia non sarà chiarita.

“Il diciassette di luglio.” Risponde lui in tono casuale, vuotando il bicchiere in un sorso.

Come? Il diciassette luglio? Scherza, giusto?

“Il diciassette luglio di che anno?” indaga Bill, che evidentemente è scettico quanto me. Gustav lo guarda come se fosse scemo.

“Duemilaundici.” Specifica in tono ovvio. Per poco non mi viene una sincope.

“Gustav,” replico allibito. “Il diciassette luglio duemilaundici è fra due mesi.”

Lui inarca semplicemente le sopracciglia.

“Sette settimane, per la precisione.” Puntualizza.

“Ma vi conoscete da meno di un anno!” insisto, infervorato.

“E allora?” Gustav sembra genuinamente stupito. “Stiamo bene insieme.”

Ma che cazzo di risposta è?

“Che cazzo di risposta è?” prorompe Bill, in perfetta sintonia con la mia lunghezza d’onda.

Gustav si limita a guardarci tutti quanti con espressione vacua, neanche fossimo un trio di alieni che parlano lingue strane.

“Un anno non è poco,” dice. “Conviviamo da sei mesi, tanto vale ufficializzare la cosa.”

Okay, fermi tutti: chi ha fatto il lavaggio del cervello a quest’uomo? Lui che a stento riusciva a stare con una ragazza per più di qualche settimana, adesso se ne esce con un annuncio di matrimonio, così su due piedi?

Il mio impulso è quello di afferrarlo per il colletto della camicia e scuoterlo fino a che non riacquisti un briciolo di sanità mentale, ma ho come la sensazione che la cosa darebbe nell’occhio.

“Ed è stata un’idea di Michelle?” azzarda Tom, occhieggiandolo circospetto. Un tempo ci sarebbe stata l’ombra del suo cappellino da baseball a coprirgli lo sguardo, ma ora porta gli irriducibili rasta semplicemente legati sulla nuca.

Un principio di rossore sale a sfiorare le orecchie di Gustav, ma lui non si scompone di una virgola. Dio, come vorrei che fosse ancora come quindici anni fa, quando bastava fissarlo negli occhi per farlo capitolare in una confessione dettagliata.

“Non esattamente,” mormora, sistemandosi meglio sulla sedia. “Noi… Beh, stavamo guardando un film, e alla scena del matrimonio Michelle ha detto ‘Che bello, dovremmo sposarci anche noi!’ e io, senza nemmeno pensarci, ho risposto ‘Già’, e da lì abbiamo cominciato a discuterne…”

“E tu ti sei fatto infinocchiare.” Completa Tom, con tutto il suo solito tatto.

Gustav rotea gli occhi spazientito, emettendo un suono gutturale frustrato.

“Va bene, vi ho invitato qui stasera per rendervi partecipi del passo più importante della mia vita, ma vedo che siamo in vena di polemiche…”

Sento dell’acidità nella sua voce. Qui urge un dietrofront repentino.

“Dai, non fare così,” mi affretto a sdrammatizzare. “Ci hai colti alla sprovvista, tutto qui.”

“Esatto,” mi da man forte Bill. “Non ce lo aspettavamo, ecco.”

Gustav ci scruta uno ad uno dubbioso e noi cerchiamo di sorridere nel modo più efficace possibile, e a quanto pare funziona: Gustav sospira ed annuisce, rasserenato.

“Meglio così,” dice, e abbozza un sorriso timido. “Perché ci sarebbe una cosa che vi devo dire…”

Alt. Cos’è questa serietà improvvisa? Cerco di scrutare nei suoi occhi per capire cosa diamine stia covando, ma lui non me lo permette. Maledetto, ormai conosce tutte le mie mosse e le relative contromosse. Cos’altro potrebbe avere da rivelare? Non c’è niente di più eclatante di un matrimonio, nulla di più sconvolgente, a parte forse…

No. No, non può essere. Mi rifiuto di pensare che loro…

“Non sarà mica incinta?” mi precede Tom, quasi urlando, dimostrando per l’ennesima volta la propria delicatezza. A Gustav va di traverso il vino; diventa subito paonazzo ed è costretto a premersi un tovagliolo sulla bocca per non sputare in giro.

“Non dire stronzate!” biascica, ansimando, mentre Bill ha l’accortezza di versargli dell’acqua e dargli delle piccole pacche sulla schiena, ma ha un’energia tale che dubito Gustav sia in grado anche solo di accorgersene. Sempre delicato, il nostro Bill, non cambierà mai.

Non appena il rischio di annegamento asciutto è sventato, Gustav si ricompone e ci osserva solenne. Adesso ho seriamente paura.

“Insomma, abbiamo fissato una data relativamente vicina, e Michelle ha già tutte le sue cose in mente, io le ho dato carta bianca,” borbotta. “Però c’è un dettaglio che spetta solo a me decidere, e questo dettaglio comprende voi tre.”

Sento una strana tensione crescere dentro di me, come se il mio sangue stesse diventando denso e freddo e faticasse a scorrermi nelle vene, provocandomi un profondo senso di stordimento. Dove vuole andare a parare?

Io, Bill e Tom ci scambiamo delle occhiate ansiose, pronti per il peggio. Dannazione, credevo che questo giorno esistesse solo nei miei peggiori incubi, ma evidentemente ho sbagliato qualche calcolo. Gustav inspira e alla fine si decide a parlare.

“Vorrei che mi faceste da testimoni.”

Sto per scoppiare a ridere, quando mi rendo conto che non è una battuta. Parla sul serio. Non sta scherzando, vuole davvero che io e questi due gli facciamo da testimoni.

È legale fare da testimone ad un matrimonio al quale si è contrari? E cosa faremo quando il prete o chicchessia arriverà al punto del ‘Chi è a conoscenza di qualche impedimento per il quale quest'uomo e questa donna non dovrebbero unirsi in matrimonio, parli ora o taccia per sempre’?

Non si può fare, non esiste. Adesso tiriamo fuori le palle e riveliamo a Gustav tutte le nostre perplessità in merito a questa sua folle decisione.

Proprio adesso.

Tra un attimo aprirò la bocca e gli dirò che non può commettere un errore simile. Al tre.

Uno…

Due…

“Ne sarei onorato.” Mi sento rispondere, ed inorridisco all’istante, ma non posso certo darlo a vedere. Bill e Tom sembrano pesci rossi a cui è stato asportato il cervello: boccheggiano interdetti, forse sforzandosi di trovare una manciata di sillabe da appiccicare l’una all’altra nella speranza che abbiano un senso compiuto.

“Grazie, amico, sono commosso.” risponde Tom, ma il suono della sua voce è impercettibilmente strozzato. Bill si schiarisce la gola e in qualche modo riesce a riesumare un embrione di sorriso.

“Mi farebbe piacere.”

Siamo tutti pazzi, qui dentro, uno più rincoglionito dell’altro, a partire da quest’idiota che vuole accasarsi con la Principessa Perfezione.

Prima che io possa mordermi la lingua e sferrare un calcio sottobanco ai due Kaulitz, Gustav si alza e in automatico ci alziamo anche noi, ed un istante più tardi ci stiamo tutti e quattro abbracciando e dando pacche sulle spalle. Questo non va bene, sto mentendo spudoratamente. Mi sto congratulando per qualcosa di cui sono tutt’altro che lieto. Io, Georg Moritz Hagen Listing, sono un amico di merda che non è capace di dire ciò che pensa veramente ad una delle persone che più gli sono care sulla faccia della terra. Grandioso, non c’è che dire.

“Grazie, ragazzi.” Sussurra Gustav, mentre ci risiediamo, e sembra veramente felice.

Che io e gli altri ci sbagliamo su di lui e Michelle?

No, assolutamente no.

Però magari…

No! Non posso essere complice di questo delitto, mi rifiuto!

Anzi, dobbiamo trovare il modo di impedire questo scempio, ma al momento sono così sconvolto che la mia mente è tabula rasa.

Gustav fa portare dello champagne per brindare, ma i miei pensieri sono già volati alla scelleratezza che tra due mesi sarà compiuta: Michelle infiocchettata in una nuvola di pizzi e trine candidi, il mio amico intrappolato in uno smoking ridicolo, e io, Tom e Bill a fare da spettatori impotenti a tutta la tragica commedia.

In una sola parola: disastro.

Tracanno il mio calice di champagne con tutta la disperazione consentitami dalle mie vesti di neoeletto testimone di nozze che deve dimostrarsi felice e partecipe della gioia del momento, pregando che la sveglia suoni e mi riporti alla realtà, nella quale Gustav ha ancora un senno e nessuno mi da notizie tragiche come quella che ho appena ricevuto, ma tanto non succederà.

Farò così: discuterò con Bill e Tom di questa storia e insieme troveremo una soluzione. Non possiamo lasciare Gustav in balia degli eventi e permettere che si rovini la vita legandosi alla persona sbagliata. Siamo dei veri amici, lo salveremo, punto e basta.

Questo matrimonio non s’ha da fare.




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A/N: bene, eccomi qui, dopo lunghi secoli, con una nuova ff! Sarà a più capitoli, decisamente diversa dai miei lavori precedenti: una commedia romantica con tanto umorismo e tre Tokio Hotel che cercano disperatamente di salvare il quarto dal matrmonio sbagliato... Immaginate un po' voi. Come vedete la storia sarà narrata in prima persona, sotto diversi punti di vista, che saranno sempre specificati ad inzio capitolo. Questo è un capitolo di introduzione ed è relativamente breve, ma i prossimi saranno leggermente più lunghi, quindi non temete, ora che vi ho introdotti nella storia, si potrà entrare nella storia vera a propria... Aspettatevi di tutto!

Ringrazio già ora chi ha letto e soprattutto chi commenterà.


Dedico questa storia alle mie care MS e ai nostri amati US, BS, OS e PS... Tutte per i Tokio Hotel, Tokio Hotel per tutte!

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Capitolo 2
*** La Westling Che? ***


[ BILL ]


Dolore. Un lancinante, insoffribile, disumano dolore. È tutto ciò che provo quando acquisto conoscenza, reduce dal sonno più tormentato della mia vita. La mia testa pulsa talmente forte che per un attimo mi viene il dubbio che il cuore mi sia schizzato nel cranio e lì abbia deciso di mettersi a martellare contro le mie tempie come un metallaro sotto cocaina, ma poi mi ricordo dei cinque Sex On The Beach extraforti che mi sono ingollato ieri sera e tutto ha un senso. Dannati postumi!

Apro prima un occhio, poi l’altro, e mi guardo pigramente intorno, non senza una buona dose di timore: riconosco l’armadio e i vari dischi d’oro e di platino appesi alle pareti. Bene, è la mia stanza, una buona notizia.

Richiudo gli occhi quasi subito, infastidito dalla lama di luce che penetra dalle imposte, e mi torna in mente l’incubo che ho fatto stanotte, una di quelle cose assurde che sai che nella vita reale non succedono, ma che ti spaventano a morte comunque.

Ho sognato che Gustav annunciava di voler sposare Michelle. Ridicolo, no? Insomma, è più che evidente che una simile eresia non potrà mai e poi mai…

Un momento…

Questa maledetta sbronza me la sono presa con Tom e Georg in quel bar di infima categoria vicino al Luna Park. E ci siamo andati dopo la cena al Florence. Cena offerta da Gustav perché…

Già, perché? Per quale motivo Gustav avrebbe dovuto…?

Oh, cazzo.

Ora ricordo! Quel coglione vuole davvero sposare Michelle!

Se la mia testa non mi stesse uccidendo, mi metterei a sbatterla contro il muro, ma meglio evitare. I vicini hanno già abbastanza da ridire sul casino che facciamo di solito, soprattutto quando io e Tom ci mettiamo a litigare. Il che non capita spesso. Quell’una o due volte al giorno. Fortuna che raramente siamo in casa.

Sto già per far partire una lunga e lamentosa serie di riflessioni su questa cavolata del matrimonio, quando mi accorgo che c’è qualcun altro nel letto con me.

Non può essere Tom, non mi sento soffocare dalle esalazioni pestilenziali del suo nuovo dopobarba. Ma se non è lui, allora chi è?

Merda, vuoi vedere che mentre ero ubriaco qualcuno si è approfittato di me? Dio, spero di non essere finito a letto con Georg. Gustav mi pagherà anche questa, giuro.

Mentre un brivido di raccapriccio mi scuote, cerco di farmi forza e coraggio e lentamente riapro gli occhi, voltandomi piano di lato. L’ignota presenza non si muove. Anzi, non da proprio segni di vita.

Non ho commesso un omicidio, vero?

Sollevo esitante una mano e la allungo verso la grossa sagoma che si cela sotto le coperte, poi afferro un lembo del lenzuolo e lo scosto con uno scatto deciso, pronto a tutto.

O quasi.

Per poco non mi viene un infarto: un paio di abnormi occhi neri e lucidi mi fissa in modo inquietante e piuttosto insistente. Mi ci vuole una manciata di secondi per riuscire a mettere a fuoco il proprietario: si tratta di un gigantesco coniglio rosa che occupa più di metà del letto e porta un orrido fiocco rosso al collo.

Beh, se non altro non è Georg.

Ma che diamine ci fa un coniglio rosa alto un metro e mezzo nel mio letto?

Mi sforzo di ricordare cosa sia successo ieri sera, dopo la cena, e vaghi flash emergono nella mia mente, tra cui anche l’ingresso al Luna Park. Non voglio sapere cosa ci abbiamo fatto, noi tre, in quel Luna Park, per portarci a casa questo bestione di peluche.

E poi, perché è nel mio letto? Dovrebbe stare nella stanza di Georg, è lui il collezionista di peluche.

Mosso da un impellente desiderio di ficcare la testa in un secchio di acqua gelata e poi scolarmi almeno una dozzina di caffè forti, mi districo dalle lenzuola e, barcollando, mi alzo. Quando finalmente ho raggiunto un equilibrio quasi stabile e mi sono accertato di indossare almeno i boxer, recupero un paio di occhiali da sole dal pavimento e me li infilo alla meno peggio, poi afferro l’ospite indesiderato e me lo trascino dietro attraverso il corridoio, che non mi è mai parso così accecante e tremendamente luminoso. Mentre cammino mi appoggio con la mano libera alla parete, onde evitare sbilanciamenti eccessivi della mia già scarsa stabilità. Ignoro deliberatamente lo specchio che c’è a metà strada: preferisco non sapere in quale vergognoso stato di trascuratezza io sia ridotto al momento.

Arrivo in cucina con un cerchio alla testa di intensità triplicata rispetto a quando mi sono svegliato e trovo Georg e Tom stravaccati al tavolo su due sedie ciascuno, una per sedersi ed una su cui hanno allungato le gambe. Sono entrambi nelle mie medesime condizioni: boxer e occhiali da sole calcati sul naso, le teste reclinate all’indietro con espressioni di stoica sofferenza, e stringono in mano una tazza di fragrante caffè fresco che devo assolutamente avere anch’io, e al più presto.

“Buongiorno.” Mormoro ancora mezzo addormentato, piantando il coniglio sul tavolo senza minimamente curarmi di cosa ci sia sotto.

“Non gridare, ti prego.” Rantola Tom, in un tono da moribondo.

“Non sto affatto gridando,” mi difendo io. “Riesco a malapena a parlare.”

“Allora non parlare.” Interviene Georg, con lo stesso tono di Tom. “Anzi, non respirare nemmeno.”

Grandioso. Siamo tutti e tre in piena fase di stronzaggine post-bevuta e nel pomeriggio dobbiamo incontrare la famiglia di Michelle, perché – l’avevo dimenticato – lei e Gustav fra due mesi si sposano.

Sono subito assalito da un’ondata di panico, ma cerco di sedarla versandomi tutto il caffè rimasto nella caffettiera della macchinetta (mi chiedo come abbiano fatto a farlo, tra l’altro, visto che qui dentro l’unico che sappia usare quest’aggeggio sono io), poi mi prendo un Mars dalla credenza e lo scarto con i denti.

“Hey, che fine ha fatto la pattumiera?” domando quando apro l’anta sotto il lavandino e la trovo sprovvista del solito cestino.

“Sul balcone” Mi comunica Georg. “Ci hai vomitato dentro ieri sera.”

Ah. Buono a sapersi. Ecco perché non ho la nausea, adesso.

“Poi ti toccherà pulire, ovviamente.” Soggiunge Tom, amabile come sempre.

“E dovresti anche dare da mangiare al criceto.” Prosegue Georg, sorseggiando il suo caffè.

“Noi non abbiamo un criceto.” Faccio notare io, ma Tom punta un dito verso un piccolo scatolone in un angolo della stanza che non avevo notato.

“Adesso sì.”

Mi avvicino riluttante allo scatolone. All’inizio mi sembra vuoto, a parte uno straccio appallottolato, ma poi vedo qualcosa muoversi, e accanto allo straccio individuo un batuffolino di pelo bianco che rosicchia felicemente il cartone. Strano, non ricordo di aver svaligiato un negozio di animali, ieri sera, ma effettivamente non ricordo un bel niente delle ultime dodici ore.

“Non chiedermi come,” dice Tom. “Ma l’hai vinto ieri sera al tiro al bersaglio. L’hai chiamato Elvis e gli hai promesso che quando sarà grande gli permetterai di farsi un giro su Jumbie.”

Che? Sono posso aver detto una cosa simile. Ad un criceto, per di più. Io, Bill Kaulitz, il ragazzo più serio e maturo…

Ehm…

Okay, è possibile che io l’abbia detto, ma ora non ha importanza, abbiamo cose ben più urgenti di cui preoccuparci.

“Qualcuno di voi rammenta a che ora dobbiamo essere alla tana del lupo?” domando, mentre comincio ad aprire tutte le ante del mobile e metto tutto a soqquadro alla ricerca delle confezioni di popcorn da microonde.

Tom fa schioccare la lingua.

“Se intendi il solenne ricevimento a Villa Keller, Gustav ha lasciato un messaggio in segreteria, ha detto che è rimandato a dopodomani.”

“Vogliono unire l’utile al dilettevole e approfittarne per presentarci la wedding planner.” Aggiunge Georg, schifato.

Io batto le ciglia perplesso.

“La wrestling che?”

“La wedding planner!” sbuffa Tom. “Quella che si occupa di organizzare il matrimonio.”

Io gli rispondo con uno sguardo vacuo.

“Dai, Bill, non hai mai visto il film con Jennifer Lopez?”

“Sai, Tom, non siamo tutti tv-dipendenti come te, a qualcuno piace farsi una vita.” Ribatto, indignato. Se per lui queste sono le cose importanti da sapere nella vita, comincio a spiegarmi molte, moltissime cose.

“Meglio essere tv-dipendenti che ‘farsi una vita’ con Michelle Keller.” Borbotta allora Georg, e stavolta non posso contraddirlo. Ha assolutamente ragione. Dobbiamo risolvere questa folle storia del matrimonio al più presto.

“Si può sapere che cazzo stai facendo?” mi chiede Tom, mentre io sono ancora immerso nella mia ricerca.

“Devo dare da mangiare al criceto, no?” rispondo, disseppellendo finalmente l’ultima busta di popcorn da sotto un cumulo di sacchetti di caramelle gommose.

“Guarda che i criceti mangiano semi di girasole ed affini,” Bofonchia lui. Deve sempre avere qualcosa da ridire. “I popcorn non sono esattamente il loro piatto preferito.”

“I popcorn no, ma il mais sì, e visto che in casa non abbiamo niente di meglio, dovrà accontentarsi. A meno che non abbia voglia di un panino al prosciutto.”

“Fate come vi pare con il roditore, io mi metto a mollo in una bella vasca di acqua fresca e mi faccio un idromassaggio.” Annuncia Georg.

“Bastardo!” si lamenta Tom. “Lo volevo io!” Ma non ha la forza di opporsi oltre, così Georg posa la propria tazza sul tavolo, proprio tra le zampe del coniglio gigante, e se ne va, lasciandosi dietro una scia di lamenti e brontolii.

Io intanto mi sono versato dei piccoli chicchi di mais sulla mano e sto tornando verso lo scatolone.

“Vieni qui piccolo Elvis, vieni dalla mamma…”

“Non confondere quella povera creatura,” mi rimprovera Tom, non pago di aver già abbondantemente rotto nei precedenti minuti. “Avrà già i suoi dubbi sulla tua identità sessuale, se poi ti ci metti anche tu…”

Ma quanto è simpatico. Almeno quanto un riccio di mare conficcato nella pianta del piede, solo molto più spinoso e fastidioso. Un giorno gli rivelerò che quella foto che tiene in bella vista sulla sua scrivania di me vestito da mucca Milka, in realtà è sua.

Lui si alza in piedi, va verso il lavandino e si riempie un bicchiere d’acqua.

“Sai dove teniamo le aspirine?” mi chiede, rovistando freneticamente in tutti gli armadietti che ho lasciato aperti.

Io sollevo lo sguardo dal mio piccolo amico peloso, a cui sono già irrimediabilmente affezionato (anche se nemmeno ricordavo esistesse), ed inarco le sopracciglia. Mio fratello non è molto sveglio, ma, poverino, non è colpa sua se i geni dell’intelligenza sono passati tutti a me.

“In bagno?” suggerisco, con tutto il mio notevole buonsenso.

“No,” grugnisce Tom, richiudendo bruscamente un cassetto. “Erano qui, da qualche parte.”

Io sospiro, mentre Elvis comincia a rubare ad uno ad uno i chicchi di mais e se li divora alla velocità della luce, riempiendosi le guance fino a sembrare una pallina di pelliccia con gli orecchioni.

“Hai guardato nella biscottiera?” ritento allora. Lui rotea gli occhi, come se stesse parlando con un minorato mentale e cercasse di non perdere la pazienza, giusto per buona educazione.

“Perché dovremmo tenere delle aspirine della biscottiera?” obietta ostinato.

Che male ho fatto perché il mio dna avesse una copia così ottusa?

Assumo un’aria che sia il più possibile compassionevole per quel suo cervello raggrinzito e sottosviluppato e cerco di non fargli pesare la sua inferiorità.

“Perché i biscotti stanno nel cestino della frutta,” gli spiego affabile. “Il quale non ha mai contenuto frutta da quanto è entrato qui dentro.”

Scettico, Tom allunga una mano verso la biscottiera di ceramica che sta sul bancone e la apre, estraendone subito dopo una manciata di confezioni di farmaci, tra cui l’aspirina. Ne scarta un paio e le scioglie nel bicchiere senza dire una parola, nemmeno uno dei suoi soliti ‘grazie’ mugugnati tra i denti.

Di niente, fratellone.

“Abbiamo già un piano per impedire a Gustav di buttarsi così irresponsabilmente tra le braccia dell’autodistruzione?” domando, tanto per cambiare argomento e non dovermi così ritrovare costretto a massacrare di botte il mio amato gemello, il quale replica sollevando le spalle.

“Ci sono due opzioni: o riusciamo a somministrargli una massiccia dose di buonsenso e troviamo il modo di fargli capire che sposare Michelle è una mossa saggia quanto mettere il sale nel caffè, o eliminiamo direttamente Michelle, e visto che il caro Gustav sembra aver sviluppato degli invincibili anticorpi contro ogni forma di ragione, direi che possiamo buttarci direttamente sulla seconda.”

Già, proprio quello che temevo.

 

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Sono circa le cinque di lunedì pomeriggio quando usciamo di casa e nessuno di noi ha ancora completamente smaltito la sbornia. Sostanzialmente siamo tre zombie con un’emicrania da record a bordo di un’auto che sfiora i cento chilometri orari, per recuperare il quarto d’ora di ritardo accumulato per via del battibecco tra Georg e Tom su chi dei due dovesse usare l’ultima goccia di crema idratante (poi la diva sono io, giustamente). Affidabilità è il nostro secondo nome.

Tom è al volante della sua Escalade e guida come se ci stessimo dirigendo al patibolo.

Beh, non è che abbia tutti i torti.

Non sappiamo molto sulla famiglia di Michelle, o, per meglio dire, su suo padre. Sua madre è morta quando lei era piccola, e non ha mai avuto fratelli o sorelle, quindi immagino che il suo ricco ed acido padre in carriera l’abbia abituata ad ottenere qualunque cosa semplicemente schioccando le dita. Forse nemmeno.

Beh, mi spiace, ma Gustav non finirà sulla lista dei suoi capricci soddisfatti e dimenticati.

Me ne sto seduto sul sedile posteriore in compagnia di Iwen, il coniglio rosa, che abbiamo deciso di chiamare così seguendo l’acrostico dell’unica risposta che abbiamo saputo trovare alla domanda ‘Sarà maschio o femmina?’, ossia: non lo so. È stata un’idea mia quella di portarlo con noi, così avrò qualche cosa da premere sul naso a punta di Michelle appena lei aprirà bocca.

Iwen mi sta seduto accanto, la cintura di sicurezza premurosamente allacciata, e anche lui sembra chiedersi cos’abbiamo mai fatto per meritare questa spinosa faccenda del matrimonio.

Nessuno fiata per tutto il tragitto, a parte occasionali insulti ed imprecazioni misti che Tom accompagna alle sue strombazzate contro i pochi malcapitati che incontriamo per queste stradine secondarie di campagna. Ci vuole mezz’ora per arrivare agli eleganti cancelli spalancati della villa dei Keller e mentre li varchiamo mi sento come Dante alle porte dell’Inferno: ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate’.

Parcheggiamo nello spiazzo davanti all’ingresso, accanto ad una Mercedes metallizzata nuova fiammante, e Tom ha a stento il tempo di togliere le chiavi dall’accensione che un acuto strillo familiare ci accoglie, e io non posso fare a meno di rabbrividire d’istinto.

“Eccovi, finalmente! Che piacere avervi qui!”

Michelle è sulla soglia e ci sorride con tutti e trentadue i suoi impeccabili denti candidi. È vestita con un abitino da cocktail di un atroce rosa confetto e un paio di sandali coordinati dai tacchi a spillo che fanno spavento. Sembra più magra dell’ultima volta che l’ho vista, o forse è solo il grosso brillante che porta all’anulare sinistro che crea quest’illusione.

Scende gli scalini di marmo ticchettando e ci corre incontro con le braccia tese, portandosi dietro un alone di Allure Chanel che mi fa quasi venire un attacco d’asma.

Ci bacia tutti e tre sulle guance, poi si tira su, battendo le mani concitata, e sfodera un sorriso abbagliante.

“Allora,” esclama entusiasta. “Come ci si sente ad essere dei testimoni?”

Mi mordo la lingua, rimangiandomi la battuta sui testimoni di omicidio che mi attraversa la mente, e mi sforzo di ricambiare il sorriso.

“Ehm… Emozionante,” balbetta Tom, insolitamente diplomatico. Georg annuisce e basta. Saggia decisione.

“Scioccante,” rispondo io, senza riuscire a tenere del tutto a freno il sarcasmo. “Una vera sorpresa.”

Michelle mulina la lunga chioma bionda e ci fa cenno di seguirla in casa.

“Venite,” gorgoglia radiosa. “Aspettavamo solo voi!”

Ci guida attraverso un corridoio pavimentato con un elaborato motivo di mosaico e noi la seguiamo come cani al guinzaglio. Sembra veramente di essere sulla via del patibolo.

Alla fine il corridoio sbocca su un’ampia sala, completamente illuminata dalla forte luce del sole che entra in abbondanza dalle grandi vetrate che danno sulla piscina.

Evviva, la mia emicrania è destinata a peggiorare drasticamente! Mi è anche toccato togliere gli occhiali da sole, e se non l'avessi fatto io, le due amebe comotose che mi accompagnano nemmeno si sarebbero scomodati a pensarci.

Gustav è seduto sul lunghissimo divano scamosciato e ci saluta con un cenno della mano. Non ha un’aria particolarmente rilassata.

In piedi poco lontano, un uomo corpulento in abbigliamento formale (presumibilmente il signor Keller) sta conversando con una donna sulla quarantina dalla vistosa acconciatura rossa che indossa un tailleur pantalone che sembra essere stato sfornato di fresco da una boutique di Gucci.

“Papà!” chiama Michelle, introducendoci. “Ecco qui gli amici di Gugu: Bill, Georg e Tom,” Ci spinge in avanti in modo un po’ troppo ansioso, ed è un miracolo che Georg non inciampi nel tappeto. “Ragazzi, lui è Michael Keller, mio padre.”

Keller ci osserva tutti dall’alto con un’espressione strana. Per la verità non ha affatto espressioni, nemmeno quando ci stringe la mano, borbottando qualcosa che non riesco ad afferrare, ma che suppongo sia da interpretare come ‘piacere’.

Quest’uomo incute timore e soggezione in modo raggelante.

Intanto non mi è sfuggito il fatto che Gustav abbia storto il naso nel sentirsi chiamato in quel modo ridicolo dalla sua adorabile fidanzata. Un altro argomento che poterò a sostegno della nostra tesi quando dovremo farlo tornare con i piedi per terra.

“E questa è Leila Strauss,” prosegue Michelle, indicando la donna. “Sarà lei ad occuparsi di qualunque dettaglio tecnico delle nozze, dalla cerimonia fino al banchetto.”

Leila Strauss ci porge una mano con una manicure perfetta.

“Lieta di conoscervi,” dice in tono annoiato. La sua stretta di mano è fiacca come la sua voce.

Ci squadra uno ad uno accigliata, come se si trovasse davanti ad una nuova specie mai vista, gli occhi azzurri e penetranti che sembrano intenzionati ad esplorare ogni centimetro, visibile e non, delle nostre persone.

“A semplice titolo informativo,” riprende compunta, sollevando un sopracciglio disegnato. “Cos’avete intenzione di fare?”

Oh, merda. Come fa a saperlo? Possibile che sia così evidente? Cazzo, doveva essere una guerra fredda, senza spargimenti di…

“Avete intenzione di partecipare alla cerimonia con quei capelli?”

Capelli? È di questo che parlava? Quindi non siamo stati scoperti!

“Che cos’hanno i nostri capelli che non va?” domanda Tom, un po’ sgarbato, e, onestamente, lui è l’ultimo dei tre che può permettersi di porre un interrogativo come questo. Quei rasta ormai sono fossili.

“Non ci facciamo un bel niente!” segue Georg, toccandosi protettivamente la coda che ha sulla nuca.

Leila si ravvia i capelli, facendo tintinnare i molti bracciali d’oro che porta al polso, senza nascondere il proprio disappunto.

“Ah, giusto,” replica con una specie di smorfia. “Avevo dimenticato che siete delle rockstar. Pazienza, troveremo una soluzione.”

Una soluzione per cosa, di grazia?

Questa messinscena ridicola deve finire, e al più presto.

“Sono spiacente, ma ora devo lasciarvi,” si scusa poi Leila, raccogliendo una borsa di pelle dal divano. “Ho molte cose di cui occuparmi.”

“Venga,” interviene Michelle prontamente. “La accompagno alla porta.”

“Lieta di avervi conosciuti tutti quanti,” saluta Leila, ma non c’è la minima traccia di espressività nelle sue parole. “Arrivederci, signor Keller, è stato un piacere.”

Keller riesce a restituirle un ‘altrettanto’, poi il suo cellulare si mette a squillare e lui si congeda in fretta, rinchiudendosi a parlare nella stanza attigua.

Leila sta per seguire Michelle fuori dalla stanza, quando sembra ricordarsi improvvisamente di qualcosa.

“Oh, signor Schäfer, quasi dimenticavo,” si volta verso Gustav, sempre impassibile. “Domani le manderò la mia assistente Almila a sbrigare un paio di informalità noiose, ma necessarie alla buona riuscita del matrimonio,” Sfila un palmare da una tasca della borsa e comincia a digitarci sopra con l’apposito pennino. “Le va bene domani mattina alle dieci?”

Gustav batte le ciglia, evidentemente preso in contropiede.

“Beh, suppongo si possa fare,” mormora. “Avrei dovuto rivedere gli arrangiamenti per un paio di nuovi brani, ma…”

“Perfetto,” lo interrompe Leila, sbrigativa. “Arrivederci allora, e ancora congratulazioni per il fidanzamento.”

Gustav esibisce un sorriso tirato, e le due finalmente se ne vanno, parlottando tra loro di location adeguate. Non chiedetemi a cosa.

Rimasti soli, io, Tom e Georg ci giriamo verso Gustav incrociando le braccia e lui si lascia cadere indietro contro il morbido schienale.

“Per favore, non una parola.” Ci supplica ad occhi chiusi, apparentemente esausto.

Ecco, è così che è destinato a finire, se sposa questa piccola strega boccoluta. Dovrebbe solo rendersene conto, sarebbe un gran bel passo avanti.

“Solo una cosa,” dice Georg, facendosi avanti con un sogghigno malcelato. “Crudelia Demon era proprio necessaria?”

Gustav gli alza un dito medio senza nemmeno aprire gli occhi. Tom e io ci scambiamo un’occhiata divertita, ma non troppo. Le cose si stanno facendo serie e il tempo vola, urge passare all’azione.

Bene, credo proprio che domani mattina andremo da Gustav a ficcare un po’ il naso. Chissà se questa assistente è uguale alla deliziosa Leila.



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A/N: grazie della calorosissima accoglienza a tutti quanti, è bello essere di nuovo in pista. Un grazie soprattutto a valux91 (i punti di vista dei capitoli sono specificati all'inzio!), L_Fy (mia adorata, è sempre bello ritrovarti tra i miei recensori! Quando posti qualche TokioHotellica novità anche tu?),  bluebutterfly (il tuo commento mi ha dato alla testa, sappilo, sono compiacuta come un Bill con in mano un premio nuovo fiammante), loryherm (graziegraziegrazie, sei sempre la migliore!), SiSi (sì, il nostro amato Gustav si chiama proprio così. tra lui e Georg, hanno dei nomi impegnativi!), NeraLuna (mi metto in ginocchio da quanto ti sono grata per i complimenti), Lidiuz93 (lol, no, non andrà esattamente così, ma quasi!), dark_irina (resto in ginocchio anche per te! Danke!), darkettone (e grazie anche a te! Spero di essere stata all'altezza delle aspettative), e poi le mie Anime Gemelle #1 e #2, starfi e sakura_kinomoto (vi adoro, leute!) e le mie stimatissime e adoratissime colleghe MS, RubyChubb, CowgirlSara e _Princess_. Un bacio a tutti!


P.S. per chi se lo domandasse, Iwen sta per Ich Weiss Es Nicht, che, per l'appunto, significa Non lo So in tedesco.

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Capitolo 3
*** I Guai Non Vengono Mai Soli ***


[ GUSTAV ]

 

Va tutto bene.

Va tutto armoniosamente, splendidamente bene.

Ho un matrimonio che si avvicina, una fidanzata con la mania delle cose in grande e tre amici fuori di testa che non sembrano troppo entusiasti dei primi due punti, ma non è un problema. Tutto va alla perfezione.

Mi passo una mano sulla fronte, sospendendo per un attimo il mio giro di flessioni mattutine. Le temperature sono già discretamente elevate per essere solo maggio, e anche se sono sul terrazzo e indosso solo un paio di bermuda, mi sembra di scoppiare dal caldo.

Michelle è al lavoro (se lavoro può chiamarsi fare la PR per conto del proprio padre), e questo significa che ho circa un’oretta per prepararmi prima che arrivi questa famigerata assistente.

Com’è che si chiamava? Almila, mi pare. Che strano nome.

Già mi figuro una Leila un po’ più giovane ma ugualmente snob che si presenta in tenuta griffata fino ai denti e trucco raffinatamente pesante.

Dio, che incubo!

Prima di riprendere con le flessioni, credo di aver bisogno di una botta di liquidi e sali minerali, quindi vado in cucina e mi tiro fuori del succo d’arancia, bevendo direttamente dal cartone. Michelle lo odia, ma occhio non vede, cuore non duole. Tanto lei nemmeno beve questa roba piena di pericolosissimi zuccheri.

Sono sudato come se avessi corso la Parigi-Dakar in tre minuti, ma se non altro ho appena dimostrato che il nuovo deodorante funziona, e anche bene. Lo devo consigliare a Tom.

Mi tampono il viso con la salvietta, pronto a terminare la sessione di esercizi, quando sento suonare alla porta. Sarà il postino.

Vado ad aprire con calma, psicologicamente pronto ad incassare la solita mazzata di bollette ed estratti conti della banca (il novanta per cento dei quali indirizzati a Michelle), ma non è la solita faccia del postino che mi ritrovo davanti.

È una ragazza di età indefinibile, vestita in un modo che Bill definirebbe ‘Tripla S’: sciatto, scialbo, squallido, che mi guarda da dietro le lenti di un paio di occhiali rettangolari. Regge tra le braccia esili una gran quantità di materiale cartaceo e su una spalla porta una borsa nera da computer portatile.

Che sia una testimone di Geova?

No, troppo malvestita.

“Buongiorno, signor Schäfer,” dice con un sorriso che forse dovrebbe apparire professionale, ma che nasconde una timidezza piuttosto evidente. “Sono l’assistente della signora Leila Strauss.”

È molto rossa in viso e sembra non sapere bene dove guardare, così mi viene in mente che sono a torso nudo e discretamente sudato. A mia difesa posso dire che se fosse arrivata all’orario prestabilito, quest’imbarazzante inconveniente si sarebbe evitato.

Cosa ci fa qui così presto?

“Ah, piacere,” biascico, preso in contropiede, e la invito ad entrare. “Scusa se mi presento così, ma ti aspettavo per le dieci.”

Lei si blocca nell’ingresso, pietrificata, e solleva il polso destro per controllare l’orologio.

“Oh, accidenti!” impreca, battendo un piede a terra. “Avevo dimenticato che la mia sveglia è avanti di un’ora!”

Si scosta una ciocca di capelli biondi dal viso, ma dubito che la matita che le fissa lo chignon molle sulla nuca tratterrà gli altri ancora a lungo.

“Sono desolata,” si scusa, assennata. “Davvero, torno tra un’ora, non volevo disturbarla…”

Cerco di allentare il suo disagio con una breve risata rassicurante.

“Ma no, figurati, stavo solo facendo un po’ di esercizio.”

Lei azzarda uno sguardo fugace e mi squadra di sotto in su, come per dire ‘Questo lo vedo’. Potrei sbagliare, ma ora non sembra poi così disturbata dalla mia relativa nudità.

“Allora… Almila, giusto?” le chiedo, temendo di ricordarmi male, ma lei annuisce. Bene. “Hai un nome molto esotico.” Osservo, facendole strada attraverso l’attico.

Lei mi segue, guardandosi intorno curiosa e quasi rovina a terra, inciampando nel tappeto del salotto.

“In realtà Almila è il mio cognome.” Dice, recuperando in fretta l’equilibrio. Io mi volto stupito.

“E il tuo nome allora qual è?”

Lei esita.

“Suometar.” Risponde, mentre le cedo il passo per entrare in cucina. Io aggrotto la fonte, non del tutto certo di aver compreso.

“Eh?”

“Sì, sì, lo so,” fa lei, appoggiando la tonnellata di fascicoli che tiene tra le braccia sul tavolo con un sospiro di sollievo. “Suona abbastanza assurdo qui. Il fatto è che sono di origini finlandesi.”

“Capisco,” Dev’essere qui da sempre, perché non c’è la minima traccia di accento nella sua parlata. In compenso il suo nome mi risulta comunque incomprensibile. “Potresti ripeterlo, per favore?”

“Suometar.” Scandisce lei, più lentamente.

“Suometar,” Me lo ripeto un paio di volte a mente, ma già so che tra un istante me lo sarò dimenticato. “Non me lo ricorderò mai. Posso chiamarti Tari?”

Lei comincia a dividere la roba che ha portato in piccole pile e fa cenno di sì con la testa.

“Certo, signor Schäfer.”

Ancora con questo signor Schäfer? Vuole per caso farmi sentire vecchio prima del tempo?

“E tu potresti chiamarmi Gustav, magari?” suggerisco speranzoso, ma lei mi getta un’occhiata oltraggiata.

“Ah, no, è fuori discussione, mi spiace,” decreta compunta. “Leila mi licenzia in tronco se dimostro troppa confidenza con i clienti, soprattutto con quelli del suo calibro, e la sua lista di moventi per la mia esecuzione è già abbastanza lunga.”

“Prego?”

“Sono una maldestra senza speranze,” spiega lei, in tono sconfortato. “Sono da Leila per uno stage e farle da assistente è un incubo, ma se passo questo periodo di prova, verrò assunta regolarmente.” Appoggia delicatamente la borsa sul quadrato di tavolo rimasto sgombro e la apre. “Purtroppo sono un vero disastro e sembra che io non ne combini una giusta.”

“Suvvia, non puoi essere così terribile.” Sdrammatizzo io.

“Vuole sapere perché Leila si è comprata una nuova Mercedes?”

Veramente non è che la cosa mi interessi – anche perché sono troppo occupato a chiedermi cosa sia tutto quel materiale che ha sparso in giro – ma suppongo si tratti di una domanda retorica.

“Perché?”

“Perché quella che aveva prima aveva un minuscolo graffietto sul fianco e lei mi ha chiesto di farla riverniciare con un nuovo colore, perciò io ho faxato alla concessionaria, ma anziché il codice del nuovo colore, ho lasciato quello di quello vecchio, così Leila si è ritrovata nuovamente con una Mercedes color champagne, e ovviamente il color champagne è out, quindi non ne ha più voluto sapere di rivederla.” Tari si lascia cadere su una delle sedie del tavolo, come se il semplice ricordo la stremasse. “L’ha venduta e se n’è comprata una nuova, non senza sottopormi ad una massacrante tirata di rimproveri.”

Se non avessi conosciuto personalmente Leila Strauss, penserei che stia gonfiando un po’ la storia, ma devo dire che effettivamente non mi riesce difficile immaginare quella donna dare in escandescenze per un inezia simile. A dire il vero mi vengono i brividi solo a pensarci.

“Certo,” dice solidale. “Capisco.”

Tari si porta un ciuffo vagante dietro all’orecchio e si mette a picchiettare sulla tastiera del portatile, ma quasi subito il suo viso si contrae spiacevolmente.

“Accidenti, ho dimenticato di caricare le batterie!” geme lamentosamente.

Perché ho la sensazione che questa mattinata sarà molto lunga e sfibrante?

“Puoi alimentarlo a corrente, se vuoi,” soggiungo. “Ecco,” Tolgo il mio cellulare dalla presa in cui è in carica. “Puoi attaccarlo qui.”

“La ringrazio.” Mormora lei, e, dopo aver estratto un cavo dalla borsa, comincia a dipanarlo da una parte all’altra della stanza.

Sto per chiederle se posso offrirle qualcosa, ma proprio in questo momento il campanello suona di nuovo.

“Faccia pure,” mi dice lei, trafficando goffamente con una serie di dispositivi USB. “Io intanto sistemo qui.”

“D’accordo.”

La lascio sola, un po’ preoccupato per cosa potrebbe accadere in mia assenza, e vado alla porta.

Sarà davvero il postino, stavolta.

“Buongiorno, principessa!” Mi salutano tre voci fresche e pimpanti.

No, non è il postino.

 

 

[ TOM ]

 

Non riesco a fare a meno di sogghignare quando la porta si apre: adoro fare questo tipo di sorprese scioccanti. Gustav ci guarda a bocca aperta, palesemente colto di sorpresa. È a torso nudo e abbastanza sudato, e mi viene da domandarmi perché, visto che Michelle è in ufficio, a quest’ora, e l’assistente di Leila dovrebbe arrivare solo tra mezz’ora.

Wow, vuoi vedere che il bravo ragazzo per eccellenza ha già un’amante? E non si è nemmeno ancora sposato! Ah, sono così fiero di lui!

“E voi tre cosa ci fate qui?” domanda dopo qualche secondo di comprensibile smarrimento.

“Oh, beh, sai…” Bill si stringe nelle spalle ed esibisce uno dei suoi sorrisi innocenti che fanno la felicità di qualunque donna e anche di diversi uomini. “Siamo capitati nei paraggi e abbiamo pensato di passare a farti un salutino.”

“Abitate dall’altra parte della città,” puntualizza Gustav seccamente. “Come diavolo potevate capitare nei paraggi?”

“Il mondo è piccolo, sai?” ribatto io, anche se non possiedo nemmeno un briciolo dell’innata innocenza di Bill. Gustav però non demorde.

“E di solito a quest’ora siete incollati ai rispettivi cuscini.”

“Siamo caduti dal letto.” Insiste mio fratello.

“Non vi sareste svegliati comunque.”

Oh, ma insomma, quant’è pignolo! Non è molto carino da parte sua trattare così dei cari amici che si preoccupano tanto per lui e per il suo futuro.

“Quanto sei scortese, Gugu!” lo rimbecca Georg, guadagnandosi un’occhiata assassina.

“Non mi chiamare mai più in quel modo.”

“Michelle sì e io no?” Georg fa una faccia offesa. “Brutto cattivone!”

“Tu non sei la mia fidanzata.” Specifica Gustav a denti stretti. Non sembra poi così felice di vederci. Chissà come mai.

Georg sorride sornione.

“È una proposta?” Si porta le mani al cuore con fare teatrale. “Gustav, non vorrei ferirti, ma lo sai che ci tengo alla nostra amicizia…”

“Zitto, cretino,” Gustav lo afferra per un braccio e praticamente lo scaraventa all’interno dell’attico. “Venite dentro, muovetevi.”

Noi, obbedienti, entriamo. La casa è silenziosa e sembra tutto in ordine, ma con questo ragazzo non si può mai dire. Il bello di avere la reputazione dell’angelo del gruppo è che nessuno sospetta mai che tu possa combinare qualcosa di losco, ma a me non la si fa.

“Gustav, posso farti una domanda intelligente e molto sensata?”

“Non ne saresti in grado.”

Georg e Bill ridono. Io faccio dignitosamente finta di non aver sentito.

“Perché sei mezzo nudo e sudato?”

“Stavo facendo un po’ di esercizio.”

“Ah, certo,” annuisco io. “Lei chi è?”

Gustav, come da manuale, fa lo gnorri.

“Lei chi?”

“Quella con cui stavi facendo esercizio,” chiarisco io, ammiccando. “Abbiamo interrotto qualcosa?”

“Sì, la mia conversazione con Tari.”

“Chi?” domandiamo io, Bill e Georg all’unisono.

Una misteriosa sconosciuta! Lo sapevo! Lo sapevo!

Quando sbuchiamo in cucina, scorgo una ragazza seduta al tavolo, con aperti davanti una mezza dozzina di cataloghi e un portatile. Non sembra in condizioni fisiche compromettenti.

“Abbiamo visite.” Le annuncia Gustav, e lei alza lo sguardo, per poi alzarsi in piedi in modo non proprio aggraziato.

Questa sarebbe lei?

Non è esattamente il tipo di ragazza con cui intavolerei una torrida relazione clandestina, ma sinceramente nemmeno una conversazione di cortesia.

Non è molto alta, una spanna meno di Gustav, e spaventosamente pallida. Gli occhiali dalla sottile montatura metallica non riescono a nascondere le profonde occhiaie che le segnano i contorni degli occhi di uno strano grigo-verde, il viso a forma di cuore è leggermente scavato nelle guance, mentre gli zigomi risaltano particolarmente. Ad occhio e croce le darei venticinque anni, forse ventisei, ma il suo abbigliamento casual è troppo trasandato per una così matura. Forse, con molto ottimismo, potrebbe risultare vagamente carina con un po’ di trucco ben studiato e magari una camicia che non sia di un così infelice color giallo canarino che la sbatte tanto.

Ci sarebbe solo un dettaglio insignificante che mi preme sapere: chi diavolo è?

Fortuna che Gustav sembra intuire i punti interrogativi dipinti a caratteri cubitali sulle nostre facce.

“Ragazzi, lei è l’assistente di Leila.”

Ah. Ma non doveva arrivare alle dieci?

La ragazza si fa avanti timidamente, inciampando nel cavo del portatile e scampando per miracolo un bel ruzzolone a terra, e ci stringe educatamente la mano in un modo un po’ impacciato.

“Suometar Almila, piacere.” Si presenta, ma io non riesco a decifrare il nome, e Bill e Georg non sembrano molto più convinti di me.

“Come, scusa?”

Lei sospira, come se fosse abituata a questa perplessità, e francamente non stento a crederlo.

“Suometar,” Ripete paziente. “Tari, se preferite.”

“Sì, grazie, preferisco,” approvo io, mentre ricambiamo le presentazioni. “Che diavolo di nome è?”

Lei arrossisce.

Mmm, forse dovrei rivedere un po’ i miei approcci con gli sconosciuti. Ho idea che ‘Che diavolo di nome è?’ potrebbe sembrare un po’ troppo aggressivo e maleducato, a primo impatto, ma forse mi sbaglio.

“Finlandese,” spiega, e, di nuovo, ho l’impressione che anche questa parte sia abituata a replicarla più e più volte. “Nella mitologia scandinava, Suometar è la figlia umana della Finlandia.”

Però, mica male. Chissà se anche la Germania ha una figlia umana. Esteticamente decente, magari.

“Wow,” fa Bill, gli occhi che si illuminano. “Questo spiega tutto, anche questi tuoi lineamenti così spigolosi.”

Tari abbozza un sorriso nervoso.

“Lei dice?”

Gustav pare in piena fase rimuginativa: si vede lontano anni luce che sta cercando di capire cosa siamo venuti a fare qui a quest’ora, per noi normalmente notturna, a seminare il caos per il suo perfetto loft da mezzo milione di euro. Non penso che possa arrivare ad intuire il nostro attentato di sabotaggio matrimoniale.

“Puoi anche darci del tu.” Si intromette Georg, con tutta la mia approvazione.

“Ah, non ci contare,” interviene Gustav. “Vi chiamerà signor Listing e signori Kaulitz a vita.”

“Mio padre è il signor Kaulitz!” esclama Bill, inorridito. “Io sono Bill!”

“E io la fata turchina.” Borbotto io, sospirando, poi mi dirigo al tavolo della cucina e mi metto a curiosare tra la roba che c’è sopra.

“La prego, non tocchi niente!” Tari corre verso di me e mi sottrae da sotto al naso un’agenda elettronica prima che io la possa toccare. Io la guardo confuso e le sue guance si tingono di un rosa acceso. “Mi dispiace,” balbetta, imbarazzata. “È che ho assoluto bisogno che le mie cose restino in un ordine preciso e rigoroso, quindi preferirei che nessuno a parte me le toccasse.”

Ho capito. È una di quelle pazze psicotiche con l’ossessione dell’ordine. Va bene, assecondiamola.

“Scusami.” Mi faccio rispettosamente da parte e lascio che lei posi nuovamente il palmare tra le varie scartoffie, gran parte delle quali costituite da depliant e riviste di matrimoni. Non me ne accorgo subito, ma parecchie immagini raffigurano l’Italia, e la homepage aperta sullo schermo del portatile mostra un primo piano molto suggestivo di una panoramica su Milano, ed i link sono tutti in italiano.

Ti prego, fa’ che non abbiano intenzione di sposarsi in Italia!

Un conto è mandare all’aria un matrimonio giocando in casa, un altro è doversi muovere in campo straniero e ritrovarsi così in doppia difficoltà.

“Ehm, Gustav,” Mi sfrego dubbioso il mento, quasi temendo di chiedere. “Vi ispirerete all’Italia per le decorazioni e tutto?”

Qualcosa mi dice che ho toccato un tasto dolente, perché lui assume un’espressione afflitta e si passa una mano tra i capelli umidi.

“Michelle ha sempre sognato di sposarsi nel Duomo.”

“Il duomo di Magdeburgo?” fa Georg, stupito. Gustav sospira.

“Macché Magdeburgo. Quello di Milano!”

Ti pareva. La legge di Murphy non sbaglia mai: se qualcosa può andare male, lo farà.

Questo costituisce una potenziale, drammatica complicazione.

“Organizzeremo là gran parte delle cose,” spiega Tari, in tono efficente. “Verso metà giugno andremo sul posto a sistemare tutto.”

Rettifico: questo costituisce una drammatica complicazione.

Mettiamo caso, per assurdo, che non dovessimo riuscire a trovare un piano efficace per uccidere Michelle e farla franca: dovremmo trovare allora il modo di seguire questo disastro ambulante di ‘Gugu’ fino a Milano e perseguire là la nostra causa.

Beh, forse non sarebbe poi così male, no? Voglio dire, stiamo parlando dell’Italia, e a giugno, per giunta! Ci saranno migliaia di ragazze in minigonne e top scollati in giro per la città, e anche i locali ne pulluleranno…

No! Tom, controllati.

Sono un buon amico, devo pensare al bene di Gustav prima che alla soddisfazione dei miei pur fondamentali bisogni. Se riusciamo a non arrivare fino a Milano è meglio.

Getto uno sguardo a Bill e Georg e, se il primo sembra solo ed esclusivamente preoccupato, il secondo ha tutta l’aria di pensarla come me, per filo e per segno.

Non che ne dubitassi, comunque.

“Quindi,” Georg si schiarisce la voce, facendosi avanti a braccia conserte. “Ci sarà una trasferta di massa per il gran giorno?”

Tari si spinge gli occhiali sul naso ed annuisce.

“In effetti,” dice. “È sostanzialmente per questo che sono qui.” Scocca uno sguardo a Gustav, poi riporta la propria attenzione su Georg. “La signorina Keller ha espressamente richiesto il pieno coinvolgimento del signor Schäfer nei preparativi, e siccome Leila si occuperà della sposa, io seguirò lo sposo.”

Lo sposo. Suona veramente disgustoso. Soprattutto se penso a chi è associato quel ‘la sposa’.

Gustav, amico mio, vedrai che ti caveremo da quest’impiccio in cui tu stesso ti sei masochisticamente invischiato.

Raggiungo Georg al tavolo e mi piazzo davanti a lei, le mani poggiate sul bordo.

“Sono invadente se ti chiedo quanti anni hai?”

Lei si irrigidisce e, con la coda dell’occhio, vedo Bill passarsi sconsolato una mano sul viso, ed è come se potessi leggere telepaticamente i suoi pensieri: ‘No, Tomi, figurati, invadente tu?’

Scuote il capo incredulo, ma io lo lascio perdere. Trovo molto più costruttivo molestare la qui presente assistente del demonio, la quale si rifiuta categoricamente di alzare gli occhi dal monitor.

“Lei quanti me ne da?”

Risposta audace, per una piccola nerd. Un punto per lei.

Mi sporgo in avanti e mi metto a studiarla attentamente, valutando ogni suo tratto.

“Non saprei,” rispondo, vago. “Venticinque?”

L’intenso rossore che le compare sulle guance mi dice che non è la risposta esatta, ma sarà più giovane o più vecchia?

“Ne ho ventidue.”

Leggasi: la mia età. Mi dispiace per lei, però: non ha affatto l’aspetto fresco e rilassato che dovrebbe avere una ragazza così giovane. Sembra addirittura un po’ malaticcia.

“Non dovresti essere all’università, alla tua età?”

La sua fronte si corruga lievemente, ma la sua espressione resta pressoché inalterata.

“Anche lei, se è per questo.”

Sento Bill che ridacchia alle mie spalle e Georg, alla mia sinistra, sta lottando per trattenersi. Due a zero per lei.

“Comunque, se la cosa la può rassicurare,” aggiunge Tari. “Sono iscritta ai corsi di Mediazione Linguistica dell’Università di Berlino.”

“E cosa studi?” indaga Georg.

Tari sembra un po’ scocciata dalla nostra presenza e non fa che occhieggiare Gustav ogni volta che uno di noi le rivolge la parola, ma lui non sembra cogliere il messaggio. Secondo me sotto sotto è ben lieto di questa nostra intrusione e ci tollera volentieri, pur di non doversi sorbire questa cavolate sulle nozze.

“Inglese, Italiano e da quest’anno Spagnolo, con affini culture.”

“Forte!” commenta Bill, con il suo solito, incontenibile entusiasmo verso qualunque cosa. “Parli anche il Finlandese, però, vero?”

Luonnollisesti minä osaan suomea.” Risponde lei, disinvolta.

Bill le sorride.

“Lo prendo per un sì.”

“Secondo me ti ha detto di andare a quel paese.” Lo stuzzica Georg.

“Anche secondo me.” Gli faccio eco.

“Ragazzi,” ci interrompe Gustav. “Lasciatela in pace, non vedete che le state facendo perdere tempo?”

Mi chino verso di lei al di sopra del tavolo e le chiedo tutto preoccupato:

“Ti stiamo facendo perdere tempo, Tari?”

Noto che lei si fa sempre più concentrata sul suo sito, ma quelle piccole increspature sulle sue labbra si direbbero proprio le conseguenze di un sorriso represso.

“Effettivamente dovrei illustrare al signor Schäfer diversi dettagli….”

“Fantastico!” approvo, mostrandomi partecipe. “Illustrali anche a noi!”

“Ma veramente…”

“Siamo i testimoni,” proclama Georg. “Vogliamo essere coinvolti anche noi!”

Tari boccheggia in direzione di Gustav, quasi sperasse in una sua smentita, ma lui non fa altro che spingerci via, afferrare una sedia e mettersi accanto a lei, imbronciato.

“Togliamoci il pensiero.”

Perfetto. Ora entreremo in possesso di preziose informazioni riservate che ci saranno utilissime per l’elaborazione del nostro piano.

Mentre Tari mostra a Gustav alcune delle location che ci sono in lizza per il banchetto, a me viene un’idea geniale, talmente geniale che mi stupisce che non l’abbia avuta prima.

Questo dannato matrimonio ha i giorni contati.



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A/N: sono di frettissima, quindi ringrazio ancora una volta tutti voi che leggete e soprattutto commentate, sono davvero felice che la storia vi stia piacendo. La frase in Finlandese che dice Tari significa "Naturalmente parlo Finlandese", e non so proprio spiegarmi come Bill possa non aver compreso!
Le recensioni sono sempre le benvenute, qualunque osservazione abbiate da fare per me è preziosa, quindi se vorrete rendermene partecipe ve ne sarò grata.
Tschüss Leute, bis zum nächsten Mal!

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Capitolo 4
*** L'Idea Geniale ***


[ BILL ]

 

“Dobbiamo trovare un bel bocconcino appetitoso per Gustav.” Dichiara Tom, addentando un trancio di pizza come se fosse a digiuno da mesi.

“Pensi non si nutra adeguatamente?” domando, la schiena appoggiata alla tonda pancia di Iwen, che siede dietro di me con aria molto tediata. Come lo capisco.

Io, lui, Tom e Georg siamo spaparanzati sul divano a guardare The Wedding Planner, in cerca di spunti interessanti per il nostro progetto estremo, con una teglia di pizza gigante davanti e una scorta epocale di coca cola e birra.

La cena ideale.

Anche se sono quasi le undici e tecnicamente quella che doveva essere la nostra cena giace miseramente carbonizzata nel lavandino. Causa della combustione una certa Karin, che ha telefonato a Georg nel bel mezzo della cottura e lui ha dovuto per forza andare a parlare nell’altra stanza, abbandonando così lo spezzatino sul fuoco. Tutto questo per dare il benservito a Karin in dieci sillabe nette.

Sta di fatto che ora ce ne stiamo qui a strafogarci beatamente di deliziose schifezze, anche se l’intrattenimento è a dir poco scadente.

Anzi, questo film è una noia, se proprio lo devo dire.

J.Lo e il suo fondoschiena latino dovrebbero fare visita a qualche palestra, di tanto in tanto, giusto per evitare di obliare ogni altra cosa che tenti di apparire sullo schermo assieme a loro.

“Ma no, scemo!” sbotta Tom, con un rutto dalla straordinaria finezza. “Una ragazza!”

Georg apre una lattina a caso e ingurgita una lunga sorsata di birra.

“Ce l’ha già una ragazza,” ricorda a Tom. “È proprio questo il nostro problema, ricordi?”

“Per questo dobbiamo trovargliene una nuova!” rincara Tom, accalorato. “In questo film il protagonista sta per sposarsi, ma alla fine salta tutto perché si riscopre innamorato della ragazza che gli ha organizzato il matrimonio!”

“Ecco, grazie, mi hai rovinato il finale.” Si lamenta Georg.

“Gustav non si innamorerà mai di Leila!” sentenzio saggiamente. Adoro puntualizzare ovvietà.

Il grugnito ironico di Tom si sovrappone ad uno strillo isterico proveniente dalle casse dell’home-theatre: J.Lo ha un tacco incastrato in un tombino e sta per essere investita da un cassonetto in discesa libera.

“Non intendevo Leila.”

“E di Tari tanto meno.” Mi permetto di osservare, urtato dal ricordo raccapricciante del pietoso stato in cui versava l’immagine di quella poverina.

“Gente, sveglia,” biascica Tom a bocca piena, i piedi graziosamente appoggiati al tavolino. “Il film era solo una metafora per farvi capire il mio ragionamento.”

“Il tuo cosa, scusa?”

“Chiudi quella fogna, Georg!

Forse – e dico forse – però Tom non è proprio un deficiente completo. Non ha tutti i torti, infondo. Magari se Gustav trova una ragazza più adatta a lui, rinsavisce e si rende conto di quello che sta facendo, vale a dire un’immane cazzata.

C’è anche da dire che se è riuscito ad arrivare fino a questo punto, probabilmente ha qualche grosso problema da risolvere a monte. Tipo: se fosse sadico e non lo sapesse? Il sadismo spiegherebbe la perversione del suo stare bene con Michelle. E anche il fatto che si alzi di prima mattina per fare le flessioni.

Dai, nessuna persona normale farebbe mai l’una o l’altra cosa, figuriamoci entrambe!

Sto cominciando a sbocconcellare la mia seconda fetta di pizza quando il telefono comincia a squillare.

“Rispondete.” Dico, voltandomi verso Georg e Tom. Georg a sua volta si volta verso Tom.

“Rispondi.”

Senza scontarci un sonoro ruggito di lamentela, Tom allunga alla cieca la propria mano verso il telefono che gli sta accanto ed attiva il vivavoce.

“Chi è che rompe i coglioni?” ringhia nel bel mezzo della masticazione.

Viva la cortesia. Se è la mamma è fritto: l’ultima volta che l’ha beccato a sputacchiare volgarità, gli ha tagliato un rasta. Fortunatamente ci vede di rado, o Tom sarebbe condannato a restare pelato per il resto della propria vita, e secondo me anche per quelle future.

“Tom, tagliati la lingua.” replica seccamente la voce di Gustav.

Mmm, devo parlare alla mamma di quest’alternativa ai rasta.

Con un gesto rapido tolgo l’audio al film, incuriosito da questa chiamata..

Che cavolo vuole a quest’ora?

“Ciao, Gugu!” salutiamo Georg ed io all’unisono. Il diretto interessato ci manda serenamente a faci fottere.

“Hai interrotto il nostro momento di solenne raccoglimento spirituale, lo sai?” fa Tom, deglutendo mezzo trancio in una volta.

“Se tutto va bene,” sbuffa Gustav. “Siete in panciolle sul divano a divorare pizza davanti ad un film stile Matrix.”

Ci fermiamo tutti e tre a fissare per un paio di secondi lo schermo della tv su cui campeggia un primo piano abbastanza sconvolto di miss Lopez e ci guardiamo con un certo imbarazzo. Sarebbe uno scoop da record se un giornalista ci beccasse adesso: ‘I Tokio Hotel si danno alle commedie romantiche in compagnia di un coniglio rosa gigante!’

Tom dovrà lavare il bagno per un mese per averci convito a sorbire questa schifezza su dvd.

“Ne hai beccate due su tre.” Si complimenta Georg, ma è inutile che facciamo finta di niente, è virilmente umiliante sapere cosa in realtà stiamo guardando.

Improvvisamente mi viene in mente che, mentre noi ci abbuffiamo, c’è qualcun altro che non ha ancora avuto la cena.

“Ragazzi,” piagnucolo, nella speranza che uno dei due mi dia retta. “Qualcuno dovrebbe sfamare Elvis.”

“Chi è Elvis?” interviene Gustav, curioso.

“Il nostro criceto.” Rispondiamo noi tre all’unisono.

“Voi non avete un criceto.”

“Sì che ce l’abbiamo,” asserisce Georg. “Bill ed Iwen l’hanno adottato.”

“E chi è Iwen?” chiede Gustav. “No, aspetta,” ci ripensa subito dopo. “Non lo voglio sapere.”

Tom sorride beffardo al telefono, e non vedo perché dovrebbe, visto che tanto Gustav non lo può vedere.

“Allora, a che dobbiamo l’onore di una telefonata notturna?”

“Tom, sono le undici, non le tre del mattino,” Da come lo dice, sembra che Gustav sia  sull’orlo di una crisi di nervi. “E non è con mia nonna che sto parlando, ma con il settantacinque percento della band che crede che la notte inizi all’alba.”

“Va bene, va bene,” lo zittisce Georg, abbandonandosi sulla morbida spalla di Iwen mentre sgranocchia popcorn (nello specifico, fatti con il mais avanzato dal primo pasto di Elvis in questa casa). “Ora dicci cosa vuoi.”

“Ho scordato di dirvi che domani ho gli assaggi della torta nuziale e…”

Torta? Ha detto proprio torta? Credo che darò una breve tregua a questa guerra contro il matrimonio. Solo per domani mattina, un armistizio a fin di bene.

“E hai pensato di invitare anche noi, perché ci vuoi bene e sai che ci farebbe tanto piacere venire!” Esclamo, commosso, ma il mio entusiasmo viene smorzato senza pietà.

“No.”

“Allora vuoi che veniamo a spiaccicare il bel visino di Michelle in una delle torte?” sghignazza Tom, prima che qualcuno possa fargli chiudere il becco. Gustav esita, probabilmente chiedendosi quanto abbiamo bevuto e se ci siamo limitati a quello.

Cosa?

“Ehm… No, niente,” si corregge Tom in fretta. “Cancella.”

“Volevo solo avvisarvi che probabilmente arriverò un po’ in ritardo allo studio.” Ci comunica Gustav.

Mi sento un tantino offeso. Non può farci venire l’acquolina così e poi mandare tutto in fumo come nulla fosse!

Cerco di rivolgermi a lui con disinteressato distacco, pieno di dignitosa indignazione.

“Quindi ora oseresti riattaccare senza invitarci a questi assaggi?”

“Era quello che contavo di fare, sì.” Risponde lui, affatto impressionato.

Accidenti.

“Siamo i tuoi testimoni!” protesta Georg, tirandosi su per rivolgersi direttamente al telefono. Devo spiegare a questi due che non abbiamo la videochiamata.

“E basta con questa stupida scusa!”

“Dai, Gugu, portaci!” lo supplico soave. “Faremo i bravi!”

“Sì, certo,” Gustav non è per niente persuaso. “E Tom è gay.”

Tom salta subito su, punto nel vivo.

“Hey!”

“Daaai, Gustaaav!” pigolo, implorante, sporgendomi al di sopra delle gambe di Georg e di mio fratello, affacciandomi sul mobile del telefono per parlare direttamente nell’uscita del vivavoce.

Giunge una lunga pausa dall’altro capo, presumibilmente dovuta all’impegno che Gustav sta mettendo nell’elencarsi a mente le schiere avverse di pro e contro riguardanti il portarsi appresso tre mine vaganti come noi. Immagino siano i contro ad allungare tanto la riflessione.

“E va bene, d’accordo,” acconsente alla fine, con un sospiro non proprio fiducioso. “Ma voi non mi chiamerete mai più in quel modo.”

“Quale modo?” fa Tom. “Gugu?”

Testa di cazzo.

“Affare fatto!” Irrompo io, prima che faccia altri danni, magari irreparabili. “Dove e a che ora ci vediamo?”

 

[ GEORG ]

 

Undici in punto, celeberrima Pasticceria Niederegger, Lubecca.

Ad Amburgo non c’erano abbastanza pasticcerie famose, Leila ha dovuto per forza convincere Michelle che dovevamo arrivare fin qui per trovare il meglio, anche se per farlo abbiamo dovuto sopportare un’ora di coda in autostrada accompagnata da una deliziosa pioggerellina torrenziale che mi ha fatto temere che saremmo tutti quanti finiti annegati nel giro di pochi minuti.

Alla fine, dopo peripezie degne di un Ulisse ostacolato da un intero esercito di Giunoni incazzate e in piena sindrome premestruale, siamo giunti a destinazione in orario (l’idea di partire mezz’ora prima in caso di intoppi è stata geniale, e mia, fra parentesi). Gustav, Michelle, Leila e Tari erano già arrivati, avendo lasciato la città circa due ore prima, evitando così l’intero ingorgo di traffico che ha fregato noi. Li abbiamo incontrati qui, alla casa del marzapane per antonomasia, bellamente accomodati all’interno a sorseggiare cappuccini mentre noi abbiamo dovuto fare mezzo chilometro per posteggiare, a piedi e sotto l’acqua.

Giuro, la prossima volta che Tom insiste per andare da qualche parte con quella sua dannata Cadillac imparcheggiabile lo eviro.

Io e Bill entriamo nel locale quasi disperati, entrambi imprecando come scaricatori di porto reumatici per via dei danni subiti dai nostri capelli a causa dell’umidità. Tom si è permesso di ridere e si è beccato un bello scappellotto da entrambi.

Leila ha fatto una faccia di sufficienza da voltastomaco quando ci ha visti entrare, proprio mentre Tari rompeva un bicchiere di cristallo di Boemia nel tentativo di non farlo rovesciare.

Benedetta ragazza.

È proprio una salopette di jeans quella mostruosità che ha addosso? Possibile che nessuno le abbia mai insegnato almeno i fondamenti teorici di Abbigliamento Adeguato? Non dico che debba presentarsi in tailleur e scarpe di Prada, ma conciata così, più che una wedding planner, sembra una bracciante campagnola.

“Buongiorno a tutti.” Salutiamo, mollando gli ombrelli zuppi in un angolo.

“Siete in ritardo.” Sibila Crudelia senza nemmeno ricambiare.

Oh, ma che palle.

Perché non si trova un marito, anziché occuparsi di matrimoni altrui?

“Scusate, ma abbiamo avuto un piccolo contrattempo.” Ci giustifica Bill, che è sempre il più indicato per porgere scuse. Un suo sorriso, anche solo appena accennato, basterebbe a sciogliere su due piedi un blocco di gelido marmo.

Leila però dev’essere una di quelle persone così aride dentro da non essere scalfibile nemmeno dall’onnipotenza di Bill. La cosa è preoccupante, a ben pensarci. Scocca a tutti e tre un’occhiata colma di disappunto e si volta dall’altra parte.

Oggi la sua tenuta è un tailleur color crema bordato di pelliccia e stivali scamosciati, il tutto coronato da un rossetto che è meglio che non definisca. Le mancano solo i centouno dalmata e siamo a posto.

“Carino qui.” Commenta Bill, guardandosi intorno.

Questo posto fa proprio per lui: tutto vetri e rifiniture in oro, elegante e raffinato, pieno di luci scintillanti e arredamento in acciaio. Ci sono vetrinette a non finire stracolme di dolci e dessert di ogni tipo, e solo a vederli mi viene la nausea. Non avessi quest’urgenza di tenere a bada i due incompetenti (Bill e Tom), me ne sarei già andato, ma dobbiamo seguire ogni movimento possibile di questi preparativi e ogni minimo indizio potrebbe essere fondamentale.

Ad esempio non è che Gustav sembri sprizzare gioia ed entusiasmo da tutti i pori, buttato lì su una sedia come uno straccio usato. L’unica che abbia una parvenza veramente soddisfatta è Michelle, che sta divorando con occhi avidi i capolavori gastronomici esposti.

Questa pasticceria è veramente enorme, ci devono lavorare un mucchio di persone per mandarla avanti.

La cosa sconcertante è che hanno chiuso per tutta la mattina, solo perché noi dovevamo venire qui ad assaggiare qualche campione! E non è tutto: la squadra di pasticceri che si occuperà della famigerata torta, verrà in trasferta con tutti gli invitati a Milano, per preparare il dolce sul luogo.

Devo ancora capire perché Keller abbia tanta voglia di dilapidare il proprio ingente patrimonio per finanziare un’unione ingiustificabile come questa.

Anzi, no, lo so: vuole sbarazzarsi di sua figlia. Che razza di scaricabarile. Poteva pensarci ventidue anni e qualche mese fa, magari.

Ad un tratto le doppie porte di vetro opaco dietro al bancone si aprono e ne esce una donna in grembiule, che si dirige svelta verso di noi.

“Eccomi qui, scusate l’attesa.” Proclama con voce stentorea e sicura.

È bassa e tarchiata, sui sessant’anni, i capelli ingrigiti raccolti in una crocchia, ed ispira una simpatia istantanea. Non ha nulla a che vedere con l’aspetto formale della pasticceria, ma meglio così.

“Ci scusi lei, signora Schumann,” Leila si avvicina alla donna, artica ed imperturbabile come non mai. “Direi che, se nessuno ha obiezioni, possiamo cominciare.”

Avverto una sottile frecciatina pungente in queste parole, soprattutto quando passa davanti a me, Bill e Tom e ci incenerisce con quei suoi terrificanti occhi metallici. Non fosse per le sei o sette lampade che deve essersi fatta in questi giorni e per la borsa formato famiglia di Vouitton, potrebbe essere tranquillamente scambiata per una stalagmite di ghiaccio.

“Chiamatemi Leah,” dice la donna con un sorriso intercontinentale che le illumina il viso rotondo. “Venite, tutti quanti, da questa parte.”

Ci conduce nel retrobottega, dove troviamo una stanza enorme piena di tavoli, a loro volta completamente ricoperti da piatti su cui sono state adagiate coppie di fette di torta che sembrano opere d’arte. In un angolo, in disparte, c’è un tavolo solitario che ospita una ventina di bottiglie di vini e spumanti vari, più una discreta quantità di calici.

Io e Tom ci intercettiamo l’un l’altro e facciamo del nostro meglio per non dare l’impressione di voler prendere d’assalto quel piccolo angolo di paradiso all’istante. Gustav ci vede e alza gli occhi al soffitto. Bill, invece, sembra essere troppo occupato a convincersi di non stare sognando per curarsi di noi.

Quando mai.

Noto che ci sono quattro belle statuine (due ragazzi e due ragazze) con indosso grembiuli identici a quello di Leah che guardano dall’uscita opposta alla porta da dove siamo entrati noi, ma non si muovono né aprono bocca.

Molto decorativi, però.

“Molto bene,” Leah abbraccia la stanza con un ampio gesto della mano, un’espressione orgogliosa dipinta in faccia assieme a due tondi pomi rossi. “Questa è la migliore selezione di dolci nuziali che la casa ha da offrire. Vi descriverò brevemente ciascun tipo e poi potrete assaggiare quelle che più vi stuzzicano.”

“Perfetto!” Michelle batte le mani estasiata e guarda Gustav come se si aspettasse la medesima reazione da parte sua. Povera illusa. L’ho visto rimanere impassibile davanti alla denudazione in diretta di una delle fan più belle e dotate di cui i Tokio Hotel possano vantare, ad un concerto a Kempten, non mi stupisco più di niente.

Intanto mi domando come le sia venuto in mente di mettersi addosso una minigonna come quella con il freddo polare che fa oggi. Non che mi dispiacciano le sue gambe nude, ma ho freddo io per lei.

“Questa è una millefoglie delicatissima con glassa di rose e farcitura di chantilly e crema di fragole.” Illustra Leah, indicando il piatto più vicino a noi.

Farei la figura del cafone se mi offrissi di assaggiare i vini, mentre loro banchettano a spese della loro glicemia?

No, credo di no. Meglio sorvolare, però, non si sa mai. Crudelia sembra disposta a farsi saltare la mosca al naso anche per una molecola di ossigeno fuori posto, non voglio diventare materia prima per la sua prossima pochette.

Vedo Tari seguire mansueta gli assaggi, un’accesa avidità che le brilla negli occhi mentre Michelle ficca in bocca a Gustav l’ennesimo boccone. Lui sorride ed annuisce, buttando lì monosillabi alternati a mugolii di assenso, ma potrei vedere un entusiasmo minore, in lui, solo se non avesse la distrazione di Bill che ronza attorno ai tavoli con occhi luccicanti, come un’ape sul miele. Tra l’altro Leah sembra aver preso il nostro piccolo Kaulitz in simpatia, perché gli ha appena servito un’enorme porzione di torta al cioccolato grondante di panna montata e ora lo guarda deliziata mentre afferra la forchettina e comincia a papparsela tutto giulivo.

Quest’esserino cotonato di un metro e novanta riuscirebbe a fare tenerezza ai muri.

“Posso offrire qualcosa anche a voi?” chiede Leah a me e a Tom. “Qualche stuzzichino? Qualcosa da bere?”

“Grazie mille!” esclama Tom, con evidente soddisfazione.

Io le sorrido, trasudando gratitudine da queste membra provate da tutto il cinguettio zuccheroso di Michelle (non bastassero le torte), e accetto di buon grado.

“Vi faccio versare subito qualcosa,” Leah fa un gesto verso le quattro statuine ornamentali e uno di loro scatta prontamente verso la zona vini. “Avete preferenze? Prosecco? Dolce?”

“Dolce.” rispondiamo in un baleno.

Ci fa versare del Dom Pérignon e ci porge due calici, sorridendo gioviale.

“Ecco qui,” Stiamo per afferrarli, quando lei li ritrae all’improvviso, scrutandoci sospettosa. “Non è che poi dovete guidare, vero?”

Il sorriso compiaciuto sulle labbra di Tom si sbriciola in un nanosecondo e leggo nei suoi occhi il conflitto esistenziale in corso nella sua mente: non bere e poter così guidare la sua adorata Cadillac in tutta tranquillità, o bere e lasciare la Cadillac in mano mia o, peggio, di Bill?

Non devo ridere. Non devo. Non posso ridere.

“Oh, che peccato,” sospiro, afferrando il mio calice con disinvoltura. “È proprio una sfortuna, vero, Tom?”

Lui tenta di riassemblare il sorriso a tempo di record e da una scrollatina di spalle nemmeno lontanamente convincente.

“Pazienza.” Dice, ed è con grande rammarico che guarda Leah far portare via l’altro calice, ma si lascia corrompere con una bella porzione di crostata ai frutti di bosco.

So che l’unica cosa che lo trattiene dal prendermi a calci sugli stinchi è la consapevolezza che si farebbe più male lui di me, ma non esiste solo la violenza come mezzo di vendetta, e la diabolicità di Tom non va sottovalutata.

Mentre Michelle continua ad ingozzare impietosamente Gustav sotto la supervisione e il consiglio di Leila, l’occhio mi cade su Tari, mogia mogia appoggiata ad una parete, sempre con quell’aria da svenimento imminente.

“Hey,” bisbiglio rivolto a Tom. “Secondo te perché ha sempre quell’aspetto così malandato?”

Tom la guarda in tralice per un attimo.

“Non so,” mormora, non troppo interessato. “Ha il cancro? È anoressica?”

Mmm, ipotesi interessanti, anche se dubito fortemente che una ragazza con il cancro si metta a fare i salti mortali per farsi assumere per un posto che probabilmente non occuperà a lungo.

È macabro, lo so, ma ho appena dimostrato che non può avere il cancro.

Sto per passare alla valutazione della seconda opzione, quando scorgo Leah che si avvicina ad un’esitante Tari con un vassoietto di praline dall’aspetto invitante e gliene offre qualcuna, l’espressione di Tari mi ricorda molto quelle delle nostre fan davanti a noi: ha davanti a sé la cosa che più brama al mondo, ma è come se non potesse raggiungerla.

Comincio seriamente a pensare che Tom abbia ragione.

“Almila, stiamo lavorando, non è professionale magiare davanti ai propri clienti!” abbaia Crudelia, facendo sussultare Gustav e Michelle, che stanno valutando con lei le cinque torte che hanno scelto per l’elezione finale.

Tari ringrazia Leah e rifiuta educatamente l’offerta. Non è anoressica, ma gli effetti sono gli stessi. Credo che nella lingua corrente si definisca schiavismo.

“Hey, Tari,” la chiama Tom. “Vieni qui.”

Lei si avvicina con passo quasi strascicato e ci rivolge un sorriso tirato.

“Buon giorno signor Kaulitz, signor Listing.”

Senza emettere un suono, Tom le spiattella la propria crostata sotto il naso e poco ci manca che lei ci si avventi sopra senza il minimo ritegno.

“Mangia.” Le intima, mettendole in mano piatto e forchetta.

Lei si trattiene, anche se è evidente che sta morendo dalla voglia di far sparire tutto in un sol boccone.

“Ti copriamo noi,” la rassicuro, e io e Tom ci mettiamo fianco a fianco davanti a lei, nascondendola alla vista di Crudelia. “Se non metti qualcosa sotto i denti, ci svieni davanti.”

“Non sarebbe una gran novità per noi avere ragazze che ci cadono ai piedi,” scherza Tom, con uno dei suoi ghigni maliziosi. “Ma forse Leila ti riterrebbe inefficiente, se tu ti accasciassi a terra così, no?”

Tari sembra aver ingaggiato una lotta selvaggia con il proprio timore di essere scoperta, ma non resisterà ancora a lungo. Penso le darò il colpo di grazia, prima che sia troppo tardi.

“Che se ne fa di un’assistente morta?”

I suoi occhi stanchi si sollevano su di me e Tom, il quale le fa un cenno di esortazione con la testa.

Tari si lecca le labbra, ma alla fine ci sorride riconoscente.

“Grazie.”

La osserviamo divertiti mentre divora la generosa fetta in un minuto scarso e pulisce minuziosamente ogni briciola e goccia di panna. Aveva davvero fame.

Mi viene da chiedermi se non sarebbe più carina dopo qualche pasto decente e un paio di notti di sonno.

“Almila, vieni qui, mi serve l’agenda!” la chiama Leila imperiosa, e Tari salta come una molla in tensione.

“Grazie.” Ripete un’altra volta a voce bassa, poi lascia piatto e forchetta a Tom ed accorre.

Il mio cervello, intanto, sta elaborando un pensiero sorprendentemente sottile e sagace, che spero Tom sarà in grado di afferrare.

“Senti,” gli sussurrò, tirandolo da parte. “La tua idea della ragazza alternativa è buona, ma Gustav dovrebbe passare molto tempo con lei per innamorarsene, giusto?”

Con mio grande sollievo, Tom afferra subito il concetto.

“Non riusciremmo mai a convincerlo a vedersi con una ragazza,” riflette. “E, anche se il miracolo dovesse accadere, non avrebbe tempo per conoscerla senza far sorgere dei sospetti.”

Ecco, qui arriva il punto critico.

“Quindi,” aggiungo io. “A noi serve una ragazza che già passi del tempo con lui e di cui nessuno sospetterebbe mai.”

Tom mi fissa interdetto, le sopracciglia corrugate, poi sembra realizzare quello che ho tentato di comunicargli. Allunga un’occhiata incredula verso Tari, poi torna a guardare me, poi ancora Tari, ed infine me.

“Georg, ci serve un piano concretizzabile, non fantascientifico.”

“Ma immaginatela con un colorito umano, vestita bene e con un po’ di trucco, senza occhiali…”

Sento la fervida immaginazione di Tom mettersi in moto e cominciare ad elaborare quanto gli ho appena suggerito. Poco dopo la sua espressione si illumina lievemente e il suo sguardo schizza verso Bill, intento ad assaporare beato una nuova fetta di torta sotto agli occhi adoranti di Leah.

“Avremo bisogno di lui e di ogni briciolo della sua esperienza estetica,” dice serio, e la determinazione che dimostra mi fa capire che ripone fiducia in questa prospettiva. “Ma non è del tutto impossibile.”

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A/N: sono consapevole della relativa banalità dell'idea di tramutare il brutto anatroccolo in un cigno, ma abbaite fede, non si tratterà della classica cignificazione suvrannaturale, ma ben altra cosa. Avrete modo di scoprirlo più avanti, comunque. Inoltre, vorrei rassicurare chi si stesse ventualmente domandando che ne è delle sensazioni di Gustav. Anche questo avremo tempo per affrontarlo nell'imminente futuro, quindi niente panico!

Ora vorrei finalmente ringraziarvi uno per uno in modo decente, quindi...

Schwesti: li amo anch'io, ma forse tu questo non lo sapevi, perché non te l'ho mai detto, giusto? Del resto nemmeno io sapevo che tu li amassi. Che cose scioccanti che si vengono a scoprire!

sososisu: spero che il capitolo meriti una recensione più approfondita, anche se ti assicuro che quelle tue poche parole mi hanno fatta gongolare non poco!

tokiohotellina85: concordo con la preferenza verso il terzo capitolo, anche se devo dire che sono affezionata ad Elvis ed Iwen e sono un po' combattuta con il secondo. Magari più avanti ci saranno capitoli ancora più meritevoli di preferanza, o almeno spero.

loryherm: carissima, è sempre un piacere sapere che la mia lettrice più fidata apprezzi le mie fatiche. sono sempre in attesa della tua opinione!

Lidiuz93: magari sapessi il Finlandese! No, in realtà mi sono sono solertemente documentata ed informata, anche se sono innamorata dei paesi nordici e il Finlandese è la lingua che più mi affascina al mondo, ha delle sonorità irresistibili, per me.

dark_irina: eccotela qui l'idea geniale (geniale... certo, come no), riveduta e corretta dalle brillanti menti dei nostri combinaguai preferiti. Non dirò nulla in merito alle tue ipotesi su Tari, ma ti rimando al futuro per scoprire cos'ha in serbo per noi.

NeraLuna: non morire dal ridere al terzo capitolo, c'è tutta una storia da leggere davanti! Grazie mille, però, dei complimenti!

RubyChubb: MS power! Mi piace l'idea delle citazioni di tratti di storia nelle recensioni, lo sai, e vedo che ti sei sbizzarrita... Bene, spero di averti dato altri spunti in questo nuovo capitolo, sai che amo le recensioni lunghe chilometri!

CowgirlSara: appoggio anch'io! Appoggiare è sempre la cosa migliore, soprattutto se si tratta di questi quattro. Mi auguro di non averti delusa nemmeno stavolta e di averti fatta rotolare ancora.

_Princess_: anche tu, mille mila chilometri di recensione... Ti adoro! Vedi di darti da fare con Lullaby, perché sai quanto le mie crisi di astinenza siano devastanti. E comunque sì, Tari rievoca senza ombra di dubbio una certa divinità nordica di nostra conoscenza, ma, come hai giustamente puntualizzato, certa gnocchezza non è raggiungibile da noi umili esseri umani.

L_Fy: mia adorata! Sono sempre così fiera di meritare l'onore di una tua recensione che riesco a stento a formulare parole per ringraziarti. Mi sto leggendo la tua favolosa storia pian piano(sono al capitolo 6) e posso affermare conuna certa sicurezza di voler sposare Dieci... credi sia possibile?

Vorrei inoltre scusarmi con i miei lettori e commentatori per via dell'intrusione di Facy. Ci sono persone che non sono in grado di accettare le critiche costruttive e finisce che decisono di vendicarsi in modo abbastanza puerile com'è successo con le due maturissime recensioni che è venuta a snocciolare qui, violando tranquillamente il regolamento del sito e la buona educazione. Verranno cancellate, comunque, Ladynotorius se ne occuperà al più presto.

Per il resto, un grazie generale a tutti quanti, sapete che ogni commento per me è prezioso e ben accolto, quindi se vorrete spendere le solite due paroline per il capitolo, ve ne sarò grata.

Hasta la vista!

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Capitolo 5
*** Imprevisti ***


[ GUSTAV ]


Sono estremamente irrequieto.

Non c’è una ragione precisa, ma qualcosa mi dice che faccio bene ad esserlo. Il sospetto mi nasce dal fatto che quei tre ficcanaso abbiano evitato di ficcanasare per tutta la settimana, quindi che significa tutto ciò?

La calma prima della tempesta, esatto.

Abbiamo inciso un paio di brani nuovi e abbiamo riveduto un altro paio di demo che avevamo nel cassetto. Fin qui nulla di strano: quando c’è da lavorare, né io né i ragazzi abbiamo granché da lamentarci – ci piace, ce lo siamo cercati noi, ci mancherebbe – ma la cosa strana è che, durante le pause, nessuno di loro ha fatto il minimo accenno al matrimonio, a Michelle o qualunque altra cosa possa avere a che vedere con essi, dopo che per giorni non hanno fatto altro che immischiarsi spudoratamente nei miei affari.

Non mi è forse legittimo essere preoccupato?

A ben pensarci, è abbastanza squallido doversi preoccupare quando i propri amici rispettano la privacy altrui, ma non è colpa mia se ho tre fratelli di vita con qualche strana anomalia cerebrale. Può dipendere dal fatto che ci vediamo di meno, ultimamente, e, in effetti, da quando sono venuto a vivere con Michelle, credo che il vecchio appartamento non sia più lo stesso. Dio, non voglio immaginare che casino ci sia là dentro, in balia di Georg e Tom, e figuriamoci se la principessina Bill alza un dito per mettere un po’ d’ordine.

Devo ricordarmi di andare a verificare lo stato di degrado e, eventualmente, denunciare qualche ratto annidatosi qua e là.

Quei tre sono proprio persi senza di me.

Sono in salotto, al momento, e sto disperatamente cercando di montare il nuovo mobile per la tv. Le istruzioni sono chiarissime, ci mancherebbe, e i pezzi sono relativamente pochi da assemblare. Peccato solo che sono lavori che andrebbero fatti in due, ma è venerdì, e Michelle il venerdì ha la sua giornata Fitness e Beauty Center con le sue amiche, quindi l’uomo di casa deve fare da sé.

Che bellezza.

Mi asciugo una goccia di sudore con il dorso della mano e tento nuovamente l’impresa impossibile di tenere dritto il ripiano superiore per fissarlo ai supporti laterali, ma è un fiasco completo.

Con un gesto irritato, sbatto tutto sul tappeto e mi alzo in piedi, fiaccato dalla fatica e dal caldo insopportabile. Mi chiedo quando il pianeta impazzirà definitivamente: ventinove gradi a maggio sono pura follia.

Vado in bagno e butto la maglietta sudata nel cesto della biancheria da lavare, poi mi sciacquo il viso con l’acqua fredda e torno di là, pregando che sia rimasto qualche cosa da bere che non sia qualche abominevole intruglio erboristico di the ed erbe officinali.

Apro il frigo e resto incredibilmente sollevato nel notare che all’incetta salutistica new age di Michelle è riuscita a scampare una lattina di aranciata. Avrei anche un certo languorino, ma non so se ho così fame da arrivare a sgranocchiare quei cracker al delizioso gusto di nulla con cui è stata stipata la dispensa. Ripiegherò su una mela, credo.

Prendo la golden più grossa che scovo nel cesto della frutta e la lavo. Sto già per addentarla, quando il suono del campanello mi distrae.

Getto un’occhiata all’orologio appeso sopra la porta: le dieci e trentacinque.

Chi sarà mai a quest’ora? Non aspettavo nessuno.

Mollo la mela sul bancone e vado ad aprire. Se sono quei tre, giuro che sbatto loro la porta in faccia prima che possano anche solo aprir bocca.

Ma quando apro la porta non potrei essere più stupito di chi mi ritrovo davanti: non è il pacchetto convenienza ‘Doppio Kaulitz + Listing’, bensì un articolo singolo che proprio non mi aspettavo di vedere.

“Tari,” saluto, dissimulando un certo stupore. “Ciao.”

La vedo rossa in viso ed apparentemente accaldata, probabilmente per via del fatto che l’ascensore è rotto e si deve essere fatta sei piani a piedi, o forse, semplicemente, perché è la seconda volta che le apro la porta in condizioni di seminudità.

Grandioso.

C’è forse una legge di cui io non sono a conoscenza che le vieta di vedermi completamente vestito?

“La prego, sono mortificata,” farfuglia, imbarazzata. “So che avrei dovuto essere qui mezz’ora fa, ma avevo completamente scordato…”

“Tari, calmati,” La interrompo educatamente. “Di cosa stai parlando? L’appuntamento era per le dieci, ma di domani.”

Lei smette di mordicchiarsi il labbro e mi guarda a bocca aperta.

“Cosa?”

L’espressione che ne consegue sta per strapparmi una risata, ma non credo sia saggio cedere alla tentazione, la poveretta mi sembra già abbastanza costernata così.

“Hai detto che oggi ti saresti occupata delle partecipazioni, ricordi?” le rammento gentilmente.

“Oh, dio, è vero!” Si porta una mano alla fronte con una smorfia. “Mi perdoni, sono un disastro.”

Vacilla mentre si sistema la maxi borsa sulla spalla e deve appoggiarsi al muro per non perdere l’equilibrio. Mi sembra ancora più pallida del solito, e forse è un’impressione, ma anche il suo viso è più affilato.

“Hai fatto colazione?” le domando, già immaginandomi la risposta.

“Beh, no, non ne ho avuto il…”

“Per curiosità,” la interrompo. “Da quant’è che non mangi?”

Lei si tira indietro i capelli pensosa.

“Ho mangiato un panino ieri a pranzo.” Dice, come se la cosa dovesse rassicurarmi.

Sono senza parole. Ma questa ragazza crede veramente di poter vivere d’aria?

“Dai, entra,” le dico, impietosito. “Metto su un po’ di caffè, ti offro qualcosa.”

“Non posso!” fa lei, inorridita, neanche le avessi proposto di scuoiare vivo un bambino.

“Perché no?”

“Sarebbe un segno di confidenza, e Leila è stata adamantina su questo punto: mi è severamente proibito di…”

Appunto mentale: chiarire con Leila questa ridicola storia della confidenza. Ne ho fin sopra i capelli di essere apostrofato come ‘Signor Schäfer’.

“Tari, sei matta?” esclamo. “Di questo passo morirai di fame prima del matrimonio!”

“Ma io…” Lei si strige nelle spalle, palesemente allettata dall’invito, ma altrettanto frenata dalla perenne incombenza del fantasma di Leila.

 “Devo essere costretto a portarti da mangiare qui sul pianerottolo?” minaccio, portandomi le mani sui fianchi.

Tari getta uno sguardo verso sinistra: la signora Braun, una vecchia pensionata molto educata ma disgustosamente snob, ha appena messo il lungo naso adunco fuori dalla porta e ci spia con tutta l’indiscrezione possibile.

“Ehm…” Tari le sorride goffamente. “Non mi sembra il caso.”

Mi incrocio le braccia sul petto ed inarco un sopracciglio con fare ovvio.

“Allora?”

“La prego…”

Tari è praticamente violacea in faccia e non fa che fissarsi le scarpe, sollevando gli occhi solo per brevi istanti.

Cazzo, avevo dimenticato di essere mezzo nudo. Mi affretto a sciogliere le braccia, cercando una posizione che non le faccia pensare che io mi voglia mettere in mostra o chissà che, ma proprio adesso mi viene un’idea.

“Dirò a Leila che ci hai provato con me.”

Tari impallidisce sensibilmente e si porta le mani alla bocca, gli occhi sgranati dal terrore.

Ah! Centro!

“No! Non oserebbe!”

“Oh, sì che oserei.” Mi schiarisco la gola e le illustro il mio ipotetico discorso minatorio. “‘Lo sa, Leila, la sua assistente è davvero molto espansiva. Ieri si è addirittura presentata al mio appartamento senza il minimo preavviso, e quando ho aperto la porta a torso nudo…’”

“Va bene, d’accordo, ha vinto lei!” strilla Tari, impotente, e finalmente si lascia invitare ad entrare.

Venti minuti dopo siamo seduti al piccolo tavolo bianco della cucina, con una tazza di cappuccino freddo (gentilmente preparato dalla macchinetta) e un paio di toast alla marmellata di mirtilli senza zucchero in un piatto per Tari.

“Insomma, il lavoro mi piace veramente tanto,” mi sta raccontando, mentre sbocconcella uno dei toast. “Ma Leila ogni tanto è veramente difficile da seguire,” Un sorso di cappuccino. “Voglio dire, sapevo che avrei dovuto sgobbare, ed onestamente credevo che il lavoro duro sarebbe giustamente spettato a me, ma le assicuro che in confronto a lei io non faccio praticamente niente.” Un altro sorso. “È anche così gentile dal non caricarmi troppo con quelle cose odiose sugli abbinamenti di colori e tonalità… Con quelli sono un disastro, devo ancora imparare tutto, ma l’argomento non è dei miei preferiti, diciamo, anche se c’è da dire che questi dettagli modaioli non fanno per me, ecco…”

Questa ragazza ha una parlantina degna di Bill. Chi l’avrebbe mai detto?

Non ha ancora ripreso fiato da quando l’ho fatta sedere e finora ho già scoperto più cose di lei di quante non ne abbia scoperte su Michelle dopo tre settimane che uscivamo. Per esempio, i genitori di Tari si sono trasferiti in un cottage in Scozia da qualche anno, lei è figlia unica e abita nella vecchia casa dei suoi, appena fuori Berlino, con un terranova che si chiama Blue e due soriani gemelli dagli occhi azzurri di nome Taivas e Meri, che in Finlandese significano rispettivamente Cielo e Mare, tutti e tre curati in sua assenza dalla sua migliore amica e dirimpettaia Franziska (come mia sorella).

È bastato metterle davanti del cibo perché perdesse completamente ogni traccia di timidezza e si trasformasse in una mitraglia di parole a profusione.

Temo di averla sottovalutata.

“Ma mi dica lei, piuttosto,” Tari si rivolge a me con lo sguardo che le brilla. “Non è entusiasta di questo matrimonio così fastoso?”

Ehm…

Come glielo posso dire senza offenderla indirettamente e compromettere la mia stessa posizione?

“Diciamo che sono molto, molto stupito.”

Tari annuisce mentre mastica con calma. Ha qualche briciola attorno alla bocca e anche un po’ di marmellata, e io non devo assolutamente ridere.

“Sa, non sono in molti quelli che possono permettersi delle cose così,” dice. “Lei e la signorina Keller siete molto fortunati.” Un sorriso luminoso le affiora sulle labbra. “È molto importante essere ben affiatati in certi eventi, vedere come voi due condividete tanto serenamente tutto mi rincuora. Non sa quante coppie che ho visto litigare per sciocchezze come il colore della glassa della torta!”

Glassa? Cosa me ne importa del colore della glassa della torta?

“Beh, non sono certo quelle le cose che mettono in crisi una coppia, no?” osservo.

“Oh, no, certo che no!” specifica lei in fretta, pulendosi la bocca con un tovagliolo. “Ma sa, se manca l’affiatamento, è una pessima avvisaglia, non le pare?” Allunga la mano verso il piatto ed afferra il secondo toast. “Voglio dire, magari fossero tutti come lei e la sua fidanzata! Non vi ho mai visti discordare su qualcosa, sembrate perfettamente in sintonia! Certo, è anche vero che dove non si vedono problemi, è perché si nascondono bene, ma non credo sia il vostro caso, dopotutto.”

Il suo entusiasmo è così genuino che mi manca il cuore di dirle che tutto questo succede perché sono un tipo decisamente accomodante. Se non andassi incontro a Michelle su determinate questioni, credo finiremmo per accapigliarci al minimo screzio.

“Mmm, già.”

“E poi,” prosegue Tari. “Anche i suoi amici sembrano molto partecipi! Non ho mai visto dei testimoni cercare un tale coinvolgimento nei preparativi di un matrimonio!”

Oh, mia piccola Tari, quanto sei deliziosamente ingenua.

Se conoscesse veramente quei tre, non parlerebbe così. Anzi, credo li abbia presi in simpatia solo perché le hanno offerto quella fetta di torta, a Lubecca.

“Lei cosa ne pensa di tutto questo?”

Sollevo gli occhi dalla mia tazza e la guardo accigliato.

“Di tutto questo cosa?”

“Beh, delle nozze, della cerimonia, del banchetto… di Milano!”

“Oh,” Per la verità non è che ci abbia riflettuto poi molto. Cioè, che differenza c’è tra sposarsi in chiesa o in comune, o tra un banchetto principesco o uno come tanti? O a Milano piuttosto che ad Amburgo? Il punto è che ci si sposa, non come ci si sposa, no? “Ehm, è molto… Molto interessante.”

“Sa, non vado in Italia da ormai diversi anni,” dice Tari. “L’ultima volta è stato nel duemilacinque, per una vacanza studio.”

“E ti è piaciuto?”

“Bellissima esperienza, ho migliorato tantissimo il mio Italiano, in quel mese di permanenza a Firenze,” Assume un’espressione indefinibile, come se stesse ricordando qualcosa di buffo. “E ingrassai di cinque chili.”

La squadro un attimo, pensando che cinque chili in più non guasterebbero alla sua immagine, ma, anzi, credo che la aiuterebbero a riempire meglio quel top rosso scolorito, e magari anche i jeans le starebbero meglio.

Tari si lecca le dita, a quanto pare soddisfatta dallo spuntino, e io la guardo divertito. Dopo un po’ lei se ne accorge ed avvampa.

“Oh, mi dispiace!” Afferra il tovagliolo le di pulisce frettolosamente le mani. “Che maleducata, non intendevo…”

“Ma figurati!” rido io. “La spontaneità è sempre apprezzata, credimi. Anzi, ti preferisco così che tutta seria ed impacciata come al solito.”

Tari cerca di sorridermi, ma la vedo piuttosto agitata. Se arrossisce ancora un po’ sarà più rossa della sua maglietta.

Noto che sta per dire qualcosa, ma vengo distratto dal rumore della porta d’ingresso che si apre e dalla voce squillante di Michelle che mi saluta.

“Amore! Sono tornata!”

È tornata? Sono le undici, a quest’ora non aveva la seduta al Beauty Center?

“Hey, ciao!” entra trafelata in cucina, lasciandosi dietro una scia di profumo di bagnoschiuma al muschio bianco, i capelli raccolti in una coda alta. Si ferma davanti a Tari, un po’ perplessa.

Accidenti! Devo spiegare, prima che…

“Suometar!” Esclama frizzante, chinandosi su Tari per baciarle le guance. Non mi spiego come faccia a ricordare quel cavolo di nome impossibile. “Che bella sorpresa! Come mai qui?”

“Beh, ecco…” Tari mi lancia un’occhiata che implora soccorso.

Non ci credo. Michelle torna a casa in anticipo, mi trova a petto nudo in compagnia di un’altra e non batte ciglio?

“Michelle,” mi alzo in piedi. “Tari si è confusa con le date e…”

Ma lei fa un gesto incurante, la sua Louis Vouitton nuova fiammante ancora al braccio, mi si avvicina e mi stampa un bacio sulle labbra.

“Scusa l’improvvisata, ma ho avuto un’idea grandiosa e ho disdetto l’appuntamento con Klara al centro di bellezza.”

Un’idea grandiosa.

Se non ricordo male è quello che ha detto quando ha organizzato quel pigiama party con le sue vecchie compagne di liceo e io mi sono ritrovato messo alla porta con il borsone in una mano e le chiavi della Volvo nell’altra, finendo così per chiedere asilo ai tre scapoli reietti che da giorni non si fanno vivi.

“Tesoro, ho bisogno della casa,” dice Michelle, e dentro di me mi dico che non dovrei affatto esserne stupito. “Le altre sono andate a casa a farsi una doccia, poi vengono qui, pranziamo e ci mettiamo a provare i campioni di vestiti che ha mandato la sartoria,” dice elettrizzata. “Sai, quelli delle damigelle.”

No, non so, ma meglio non indagare oltre.

Michelle molla la borsa sul bancone, prende la mela che io avevo lavato e ne prende un morso.

“Perché non vai a trovare Georg e gli altri?” mi suggerisce. “O a farti un giro…” Ad un tratto la sua espressione si illumina. “Anzi, porta Suometar fuori a pranzo, che ne dici?” si volta a guardare la diretta interessata. “Così potete continuare la conversazione senza che noi quattro vi disturbiamo.”

Tari sembra volersi fare piccola piccola sotto al suo sguardo esortativo.

“Ma… Michelle…”

“Dai, Gustav, non vorrai restare tra i piedi mentre io e le ragazze ce ne andiamo in giro per casa mezze nude!”

Fossi matto. So bene come vanno a finire queste riunioni fra donne: risolini isterici e pettegolezzi su pettegolezzi, accompagnati da musica di Norah Jones e Cosmopolitan a fiumi.

No, grazie, non fa per me.

“D’accordo,” mi arrendo alla fine, scambiando con Tari un’occhiata impotente. “Mi faccio una doccia e sono pronto.”

Mentre vado di là, sento una sedia che si sposta e Michelle che inizia a parlare con Tari.

“Secondo te,” la sento chiedere. “Per le damigelle è meglio il rosa antico o rosa salmone?”

Ridacchio tra me e me, e quasi mi pare di sentire Tari che prega nel panico: ‘Signor Schäfer, si sbrighi, per l’amor del cielo!’

 

-------

 

Tari e io sediamo sotto ad un gazebo nel giardino di uno dei ristorantini del quartiere ed attendiamo che ci portino le insalate che abbiamo ordinato. Ogni tanto scorgo qualcuna delle persone sedute agli altri numerosi tavoli allungare occhiate interessate verso di me, ma fortunatamente è praticamente tutta gente di mezza età, che al massimo mi conosce perché qualche figlia è nostra fan, ma di certo non verranno a chiedermi un autografo nel bel mezzo del pranzo.

O almeno lo spero.

Tari sembra ancora abbondantemente scioccata dall’atteggiamento di Michelle, ma io penso di aver capito perché si sia dimostrata così assurdamente tranquilla: non vede tari come una minaccia, ed onestamente capisco perché. Primo, Tari pare del tutto disinteressata a qualunque cosa abbia a che vedere con l’ambito femminile, a partire dal trucco e dai vestiti trendy; secondo, non ha esattamente l’aspetto sexy e provocante che dovrebbe avere una presunta ‘minaccia’.

Del resto, Michelle non è mai stata il tipo da soffrire di gelosia o sentirsi inferiore a qualcuno. Non sarebbe da lei farsi certe paranoie.

Tari, in compenso, sembra sopraffatta dal nervosismo. Non fa che mangiucchiarsi le unghie e guardarsi febbrilmente intorno, come se dovesse per forza tenersi occupata ed evitare me.

“Che ne diresti di lasciare in pace quelle povere unghie innocenti?” esordisco con una piccola risata, quando arrivo ai limiti della sopportazione.

Tari sobbalza e si volta così in fretta che quasi temo che si sia rotta qualche legamento del collo.

“Mi dispiace!” mugola affranta, e nella fretta di togliersi la mano da davanti alla bocca fa rovesciare il bicchiere d’acqua che ha davanti.

È un disastro senza speranze.

“Smettila di scusarti,” Incrocio le braccia sul tavolo e mi sporgo leggermente in avanti. “Hai la pessima abitudine di chiedere sempre scusa, qualunque cosa ti si dica.” Le sorrido incoraggiante. “Non ti viene mai in mente che magari siano gli altri a sbagliare, ogni tanto? Anche se sulle unghie mi reputo dalla parte della ragione.” Aggiungo infine.

Lei è colpita. Sbatte le ciglia chiare da dietro agli occhiali e mi scruta perplessa.

“Beh, sì, ma…” Sta per riprendere a mangiarsi le unghie, ma si ferma quando nota il mio sorrisetto beffardo. “Il cliente ha sempre ragione, no?”

“Sì, certo, ma questo entro certi limiti che…”

“Heylà, Gusti!”

La voce di Bill mi chiama, e un brivido istantaneo mi percorre la schiena.

Cosa ci fa la voce di Bill qui?

“Ciao! Ciao, Tari!” Una mano ossuta mi si posa sulla spalla e sul tavolo incombe la familiare ombra di una testa dalla voluminosissima chioma spinosa.

Mi giro e mi ritrovo davanti un paio di occhi nocciola tutti allegri e sorridenti, una delle espressioni angeliche meglio riuscite che abbia mai visto.

Cosa ci fa Bill qui?

Prima che io possa dire qualcosa, altre due voci ben note mi precedono:

“Ciao, Gustav!”

Tom.

“Buongiorno, voi due, vi spiace se ci aggreghiamo?”

Georg.

Diverse teste si allungano per riuscire a vedere e perfino qualche cameriere si ferma a metà strada. Devo dire che questi tre sanno perfettamente come non dare nell’occhio.

So che dovrei in qualche modo sentirmi sollevato nel vedere che sono vivi e rompiballe come e peggio del solito, ma mi viene anche da chiedermi come facciano a scovarmi ogni volta.

Qui i casi sono due: ho mi hanno impiantato una cimice sottopelle, oppure hanno assunto un investigatore privato per tenermi d’occhio.

“Abbiamo chiamato a casa tua,” annuncia Tom. “Michelle ha detto che eri qui.”

Oppure la mia fidanzata mi odia a tal punto da sguinzagliarmi contro senza pudore l’ottava piaga d’Egitto.

“Ciao, Tari, come va?” fa Georg, accomodandosi con assoluta nonchalance accanto a lei. I gemelli lo imitano, prelevando una sedia libera dal tavolino accanto.

“Buongiorno signor Listing,” risponde lei, riacquisendo la sua solita timidezza. “Tutto bene, la ringrazio. Buongiorno anche a voi, signori Kaulitz.”

“Allora,” Bill allunga una mano ed afferra il menu, cominciando a sfogliarlo, passandosi l’altra tra i capelli lisci. “Cos’hai preso di buono, Tari?”

“Una… Una insalata mista con germogli di soia.” Risponde lei titubante, e Bill storce il naso.

Lui, Georg e Tom si scambiano qualche strana occhiata e scuotono impercettibilmente il capo.

Che diavolo…?

“Niente insalata per te,” dichiara Tom, perentorio. “Per te ci vuole…” Scorre con il dito la lista dei primi, fermandosi a metà pagina. “Penne ai quattro formaggi. E poi…” Volta pagina e cerca tra i secondi. “Spezzatino con contorno di patate arrosto.” Volta di nuovo pagina ed arriva ai dolci. “E un bel tiramisù per concludere.”

“Ma io ho già ordinato.” Tenta di obiettare lei. Tom prò la zittisce con un gesto della mano.

“La tua insalata la mangia Georg.”

Ma che sta succedendo qui?

Prima arrivano e si intromettono come fossero a casa loro, poi pretendono di decidere chi mangerà cosa… Mi è forse sfuggito qualcosa?

“Perché proprio io?” si lamenta Georg.

“Perché sì.” Replica Tom seccamente.

“’Perché sì’ non è una risposta.”

“Sì che lo è.”

“No che non lo è.”

“Invece sì.”

“Nient’affatto!”

Tom sbuffa e chiude bruscamente il menu.

“E va bene, prendi quello che ti pare,” sbotta. “L’insalata la prende Bill.”

“Hey, un momento!” protesta Bill. “Io volevo un hamburger con patatine!”

Tom sospira e gli mette un braccio sulle spalle, guardandolo dritto negli occhi.

“Bill, io sono tuo fratello maggiore, mi devo occupare di te e della tua salute,” dice serio. “Pensa a cosa ne sarebbe delle tue minuscole coronarie delicate se tu ingurgitassi l’ennesimo concentrato di colesterolo!”

Bill fa una faccia sdegnata.

“Non dire cazzate,” sbuffa. “È da quando abbiamo sei mesi che cerchi di farmi fuori perché sei geloso del fatto che io sia il gemello carino!”

Tom boccheggia come se fosse stato preso a schiaffi e si ritrae sconcertato.

“Dirò ad Elvis che è stato adottato!”

Oh, dio, mi tirano in ballo il criceto!

Sconvolto, Bill si porta le mani alla bocca.

“No!”

“Oh, sì.”

“Basta!” esclamo esasperato, sbattendo le mani sul tavolo. Li scruto uno ad uno, mentre loro abbassano la testa con fare colpevole. “Ma che vi prende, si può sapere?”

Tari fa da spettatrice, schiacciata contro lo schienale della propria sedia con un’espressione atterrita.

“Scusa.” Mormorano tutti e tre.

È una fortuna che il ristorante si così affollato e rumoroso, altrimenti credo mi avrebbero sentito fino in Australia. O anche su Marte, penso.

Grazie al cielo arriva il cameriere a prendere le nuove ordinazioni e per un paio di minuti la pace è garantita. Quando tutti hanno ordinato – compreso il quintale di roba unta che intendono propinare a Tari – l’atmosfera è leggermente più rilassata.

In attesa che ci portino da mangiare, ammazziamo il tempo chiacchierando un po’ del più e del meno, le solite cose di rito, come il tempo, il lavoro e simili. Quando Tom tira fuori l’argomento ‘vacanze’, mi metto a scongiurare che a nessuno venga in mente di…

“Gustav, dove pensate di andare in viaggio di nozze?”

Fare domande sul viaggio di nozze. Appunto.

Sgranocchio distrattamente un grissino, alzando le spalle.

“Non so, in qualche posto assolato, immagino.”

Il che è quasi vero. Il fatto è che Michelle ed io non abbiamo ancora finito di discuterne: lei insiste nel voler andare in uno di quei villaggi turistici ai carabi, dove tutto è organizzato da cima a fondo e ci sono più comodità che in un hotel a cinque stelle, io invece preferirei vedere un po’ qualche bella capitale, ad esempio quelle della zona britannica e scandinava. Sarebbe perfetto: Londra, Belfast, Dublino, Edimburgo, Copenaghen, Oslo, Stoccolma e Helsinki.

Il massimo.

Ma a Michelle non piacciono molto i luoghi freddi e così incontaminati, né tanto meno girare a piedi per le città. A meno che non si tratti di shopping, in quel caso nessuno ha più energia e volontà di lei, e io e la sua collezione di scarpe lo sappiamo meglio di chiunque altro.

Nel frattempo un gruppo è salito su un piccolo palco in un angolo del giardino e si stanno mettendo a suonare della musica esotica, tutta tamburelli ed ukulele.

“Wow, suonano!” Bill salta in piedi, battendo le mani. “Chi viene a ballare?”

Io, Georg e Tom rispondiamo alla vecchia loquace maniera: dito medio alzato e silenzio eloquente.

Bill ci manda al diavolo nel modo fine che solo a lui potrebbe mai riuscire, poi si volta verso Tari e le prende una mano.

“Dai, andiamo, questi idioti non sanno cosa si perdono.”

Tari si artiglia con la mano libera alla sedia di vimini e mi lancia segnali disperati di aiuto, ma la determinazione di Bill è un avversario invincibile, anche per un esperto veterano come me.

“Signor Kaulitz, la prego,” piagnucola. “Io non so ballare!”

“Ti insegno io!”

Tari guarda di nuovo me, supplichevole.

“Signor Schäfer…”

Non ho comunque il tempo di aprire bocca: Bill la tira su di peso – e se lei non fosse più bassa di lui di almeno trenta centimetri , sono certa che gli sarebbe risultata troppo pesante, pur magra com’è – e se la trascina nel piccolo circolo di spazio che si trova davanti al palchetto, dove già qualche coppia si è messa a ballare.

Tom e Georg sghignazzano nel vedere Tari che cerca di seguire – in maniera decisamente imbranata – le movenze fluide e sicure di Bill, ma io la trovo adorabile, così rigida e sconnessa, mentre pesta i piedi a Bill e lo fa ridere come un matto.

Quando Bill le fa fare una specie di piroetta su se stessa, lei mi getta un’occhiata imbarazzata e io le sorrido sollevando i pollici, poi lei torna a concentrarsi sui passi e io scuoto la testa, divertito.

È veramente senza speranze.




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A/N: grazie mille a tutti! Soprattutto alla carissima Samia, che è tornata alla vita EFPiana dopo tanto tempo che non si faceva vedere in giro! Mi raccomando, qualunque sia il vostro giudizio, lasciatelo, per me è tutto importante, ed un commentino, anche di poche righe, non costa niente a voi, ma serve tantissimo a me.
Grazie ancora e al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 6
*** Pimp My Tari (titolo idiota, suggerito da un fratello idiota) ***


[ GEORG ]

Il pranzo di venerdì è stato una mossa a dir poco strategica, devo dire. Non ci fossi stato io a suggerire l’incursione pro monitoraggio interazioni Gustav/Tari, credo non avremmo mai scoperto un sacco di cose. Una fra queste è che dovremo accantonare uno dei punti fondamentali del piano ‘Pimp My Tari’, ossia quello che prevede di farle assumere una forma più femminile con un buon anticipo rispetto al matrimonio, perché tanto sarebbe impossibile, visto l’andazzo: alla fine siamo riusciti a convincerla a prendere quello che Tom aveva scelto per lei, ma non è nemmeno riuscita a finire le penne, così io e i ragazzi ci siamo divisi il resto.

Potrebbe essere stata solo una sensazione, ma Gustav sembrava molto soddisfatto delle pietanze eccedenti che gli abbiamo somministrato quasi con la forza.

Magari Michelle lo sottopone a regimi alimentari dispotici e lui la lascerà per non morire di fame. Sarebbe giustificato, no?

Comunque sia, Bill, Tom ed io siamo in macchina, a litigare sulla direzione da prendere per raggiungere l’hotel dove alloggiano Tari e Leila. Niente Cadillac, stavolta, troppo vistosa. Tom ha allora suggerito, in alternativa, la mia Lamborghini, ma gli è stato saggiamente fatto notare che aveva solo due posti, e che comunque di più vistoso di una Cadillac nera, ad Amburgo, ci può essere solo una Lamborghini rossa.

Alla fine abbiamo optato per l’auto relativamente meno vistosa: la Mini blu di Bill.

Siamo tutti e tre vestiti il più casual possibile, il che si traduce in baggy jeans e maglietta XXL per Tom, jeans D&G e maglietta bianca Carhartt per Bill, jeans Diesel e t-shirt Affliction per me.

Assolutamente irriconoscibili.

Più o meno.

È anche merito degli occhiali da sole e delle pettinature alternative: io e Bill ci siamo fatti la coda e lui se l’è nascosta sotto ad un cappellino bianco, mentre Tom non ne ha voluto sapere di tagliarsi i rasta per l’occasione (per quanto l’effetto mimetico sarebbe stato garantito) ed ha preferito infilarsi una di quelle sue orrende cuffie alla Bob Marley che prima o poi Bill ed io gli bruceremo in massa.

“Se evitiamo il centro, siamo lì in dieci minuti.” Dico a Bill, quando lo vedo mettere la freccia verso destra.

Accanto a me, lui sbuffa e toglie la freccia, cambiando corsia all’ultimo momento per spostarsi su quella che tira dritto, conquistandosi così un coro di strombazzate irritate da parte degli altri guidatori.

“Ma vaffanculo!” strilla, profondendosi in una serie di gesti non proprio educati.

Tom ed io ci guardiamo dallo specchietto retrovisore.

Non gliel’abbiamo mai detto e non lo faremo certo ora, ma il suo stile di guida non è proprio quel che si dice una meraviglia. Ha la patente da tre anni, ormai, eppure guida ancora come uno che l’ha appena avuta in mano, e di gran lunga più sconsideratamente.

Il semaforo scatta sul verde e Bill riparte con un brusco strattone, non molto salutare per la povera Bonnie (ha chiamato così la Mini, perché l’ha comprata a Bonn, e questo la dice lunga sulla funzionalità dei suoi neuroni).

Nel tentativo di dimenticarmi che la mia vita è appesa a un filo, rileggo ancora una volta la nostra bozza del piano che abbiamo studiato, trascritto dall’ordinata calligrafia di Bill:

 

PIANO B: PIMP MY TARI (titolo idiota, suggerito da un fratello idiota)

 

  1. farla diventare bella
  1. sperare in un mirac
  1. truccarla in modo da far risaltare un po’ la sua parte più attraente, cioè gli occhi
  2. convincerla a continuare a truccarsi
  3. metterle un po’ di carne e qualche curva addosso
  4. procurarle qualche vestito decente
  5. farle indossare il vestito decente
  6. toglierle gli occhiali
  7. insegnarle a ballare
  8. insegnarle ad arrossire il meno possibile
  9. portarla ad una seduta intensiva dall’estetista
  10. in caso di fallimento dei precedenti punti, pregare Dio, Buddha, Allah, etc…

 

Il tutto allo scopo di salvare il futuro di Gustav, in caso in piano A (Farlo Ragionare) non dovesse funzionare.

Non abbiamo ancora tentato la via del piano A, veramente, ma lo faremo presto. Gustav ha bisogno che qualcuno gli inculchi un po’ di buonsenso in quella sterminata distesa di nulla che è il suo cranio, soprattutto in vista dell’imminente attuazione del piano B.

Sospiro, infilando nuovamente il foglio nel portaoggetti davanti a me. Salvo sfiducia completa negli ultimi quattro punti, direi che come piano è più o meno fattibile.

Bill svolta a sinistra all’ultimo momento, facendomi sbattere la testa contro il finestrino, mentre Tom per poco non cade a terra, stravaccato sul sedile posteriore assieme ad Iwen, su cui stava sonnecchiando.

Ora, io mi domando: come si fa a sonnecchiare in un’auto al cui volante sta un simile pazzo scriteriato? Va bene che sono gemelli omozigoti e che i neuroni inibiti di uno sono gli stessi dell’altro, ma, anche senza cervello in attività, uno lo deve pur avere un minimo di istinto di sopravvivenza, no?

Tom gli impreca contro e si mette a sedere, Bill restituisce l’affetto con un epiteto decisamente colorito e accelera.

Ci siamo preparati una scusa ineccepibile per attirare Tari con noi: ufficialmente la porteremo al centro commerciale per farci aiutare a scegliere il regalo di nozze a Gustav; in realtà, una volta là, cercheremo di convincerla – molto velatamente – a comprare qualche capo d’abbigliamento che non sembri uscito dall’armadio di un cieco, poi – idea discretamente intelligente di Bill (cosa davvero stupefacente) – magari riusciremo anche a trascinarla in una di quelle profumerie dove fanno il make up gratuito alle clienti, e vediamo come procede.

Se il fato ci assiste, forse riusciremo a renderla remotamente appetibile entro breve.

La giornata non è delle più soleggiate: ci sono delle nuvole grigiastre che ricoprono quasi completamente il blu del cielo e l’umidità che c’è nell’aria indica pioggia a venire. Spero che il clima si rinfreschi un po’, non se ne può più di questo caldo, anche se un temporale significherebbe danni mostruosi ai miei capelli.

Questo mi fa sovvenire un particolare.

“Hey, ragazzi,” Riprendo la lista e la scorro con lo sguardo. “Ci siamo dimenticati il punto ‘parrucchiere’.”

Bill si sta sistemando una ciocca di capelli sfuggita al berretto, mentre aspettiamo che il semaforo ci dia il via libera.

“Non ce lo siamo dimenticati,” dice Bill. “È semplicemente troppo complicato da attuare.”

“Un tentativo lo potremmo anche fare…”

“Cosa vorresti fare?” replica. “Narcotizzarla, legarla e portarla priva di sensi da un coiffeur?”

Tom e io ci guardiamo nuovamente attraverso lo specchietto, irritati. È qualche tempo che Bill ha preso la fastidiosa abitudine di usare termini stranieri ovunque possibile, spesso decisamente a sproposito. Così sono capitati episodi come quello del mese scorso, a quella cena con i sommi capi della Universal, in cui ha ordinato escargot, credendo che si trattasse di gamberi, e ha poi scoperto che invece erano viscide lumache all’aglio; o ancora (esperienza che voglio dimenticare al più presto) quando, a Roma, con la candida convinzione che per parlare italiano bastasse mettere una ‘o’ alla fine di qualunque parola, ha detto a quel vecchiettino che sfamava i randagi del Colosseo che aveva un bellissimo ‘katzo’.

È stato un pessimo modo di scoprire a cosa corrispondesse quel suono in italiano (la nostra dotta cultura si fermava alla conoscenza di termini quali ‘vaffanculo’ e ‘scopami’). Stavamo per essere denunciati per molestie sessuali.

Se andiamo a Milano dovremo mettergli una museruola preventiva.

“I capelli di Tari non sono messi male.” Interviene Tom, con uno sbadiglio grosso come lui.

“Sono molto belli,” fa Bill, sfrecciando per il viale quasi deserto. “Solo che avrebbero bisogno di un tocco di personalità.”

Sto per concordare, quando lui sterza bruscamente a destra e poi inchioda due metri dopo l’angolo, proprio davanti all’Hotel Mayfair, la nostra destinazione.

“Cristo, Bill!” abbaia Tom, sballottato assieme ad Iwen dalla parte opposta dell’abitacolo. “Ma quanto hai pagato gli esaminatori che ti hanno dato quella cazzo di patente?”

Due riccioli compaiono agli angoli della bocca di Bill.

“Niente,” dice con modestia. “Ho sorriso.”

Io e Tom non possiamo fare a meno di guardarci per l’ennesima volta.

Ha sorriso.

Ha sorriso.

Gli hanno messo in mano una licenza di uccidere perché lui ha sorriso!

Beh, se devo essere del tutto sincero, anch’io ho sorriso.

Il fatto è che l’esame era andato alla perfezione, ma proprio non avevo visto quelle strisce pedonali e stavo per investire una coppia con tanto di passeggino, ma l’esaminatore era una donna a cui stavo particolarmente 'simpatico', quindi… Insomma, il punto è che io so guidare, Bill no.

Scendiamo dall’auto e solleviamo lo sguardo verso l’imponente altezza della lussuosa struttura. Mi sorge spontaneo chiedermi quale misterioso meccanismo scricchioli nella mente malata di Leila: il suo studio e il suo loft stanno a poco più di un’ora dal centro, chi glielo fa fare di alloggiare in un albergo come questo? Spende di più qui che a fare avanti e indietro ogni santo giorno.

Bah, suppongo non capirò mai la logica di un’ultraquarantenne zitella ed inacidita.

Tom, Bill ed io ci scambiamo un cenno di intesa: si comincia.

Saliamo rapidamente i gradini ed entriamo attraverso le enormi porte scorrevoli, ritrovandoci in una hall grossa quanto il nostro appartamento (e non è che abitiamo in un buco), arredato in modo troppo raffinato per i miei gusti, ma suppongo che Leila ci sguazzi in ambienti snob come questo.

Andiamo alla reception e Tom si appoggia al bancone con un gomito, con la sua solita aria da spaccone annoiato, salutando l’austero receptionist:

“Salve,” gli fa, disinvolto. “Siamo qui per vedere Tari.”

L’uomo (Ludwig, stando alla targhetta che porta appuntata al taschino della camicia) si sofferma brevemente su ciascuno di noi, valutandoci come se stesse cercando di decidere in che bidone della raccolta differenziata andremmo buttati, poi assume un’aria professionale e vagamente schifata.

“Il nome completo, prego?”

Tom si gratta la fronte perplesso.

“La signorina… Ehm…” Guarda me e Bill con espressione interrogativa. “Com’è che si chiama?”

“Almila,” risponde Bill. “Di cognome fa Almila.”

“E di nome?”

“Non guardate me,” li avverto, sollevando le mani, quando si voltano nella mia direzione. “Non sono bravo con gli scioglilingua.”

Sospirando come se il peso dell’universo intero stesse sulle sue spalle, Tom torna a rivolgersi al receptionist.

“Era qualcosa di bizzarro e incomprensibile. Tipo Solestar, o qualcosa del genere…”

Onestamente, non so come si possa pretendere che ci ricordiamo quel nome assurdo. Me lo dovrò scrivere da qualche parte, non si sa mai.

Ludwig arriccia quei suoi baffetti ridicoli e consulta il registro informatico, ritto e rigido come un palo.

“Immagino stiate parlando della signorina Suometar Almila.”

“Sì, proprio lei!” esultiamo noi tre.

“Ce la potrebbe chiamare, per favore?” aggiunge Bill.

“I signori sono attesi?” domanda, con una cortesia così finta che praticamente è come se ci avesse chiesto se siamo autorizzati a rompere determinate parti anatomiche nel suo preziosissimo hotel.

“No,” rispondo affabile. “Ma siamo suoi amici.”

“Chi devo annunciare?”

Tom si passa una mano sul viso, sospirando. C’è una nostra gigantografia pubblicitaria proprio qui fuori, come fa a non sapere chi cavolo deve ‘annunciare’?

“I Tokio Hotel.” Specifica Tom, come se stesse parlando ad un idiota (e secondo me lo sta facendo).

“Certo,” L’uomo inarca un sopracciglio, ben poco convinto. Solleva il ricevitore e digita un codice sulla tastiera. “Buongiorno, signorina Almila, è la reception. Mi dispiace disturbarla, ma ci sono delle visite per lei,” Una breve pausa, durante la quale ci occhieggia sospettoso. “I Tokio Hotel.”

“Le dica che è piuttosto urgente.” suggerisco.

Lui obbedisce con chiara riluttanza e infinite occhiatacce verso di noi, poi annuisce un paio di volte e chiude la chiamata.

“Allora?”

“La signorina scende tra un minuto.” Ci comunica.

“Oh, bene, grazie mille!” cinguetta Bill, sgraffignando una caramella dalla ciotola di cristallo sul bancone. La scarta con gusto sotto gli occhi pieni di spocchia di Ludwig e se la gusta compiaciuto.

Quando finalmente Tari arriva, Bill ha già fatto incetta di tutte le caramelle della ciotola ed ha anche avuto la faccia tosta di chiedere a Ludwig se ne avesse altre. Io e Tom lo abbiamo trascinato via prima che venisse elegantemente defenestrato.

Tari scende precipitosamente le scale e quasi manca l’ultimo gradino, ma alla fine riesce a raggiungerci sana e salva (per quanto sana possa essere una ragazza del duemila che porta una salopette di jeans).

“Signor Listing, signori Kaulitz,” ci saluta uno ad uno, ansante. “Buongiorno.”

Ogni volta che la vedo mi sembra più pallida, quasi consumata. Mi domando quando comincerà a diventare trasparente. Sicuramente non finché si mette certe magliette viola che la sbattono tanto.

“Dire Georg, Bill e Tom non sarebbe molto più comodo?” borbotta Tom in tono spiccio.

La reazione di Tari è esattamente quella che avevo previsto:

“Non ricominciamo, la prego,” piagnucola implorante. Si passa una mano tra i capelli arruffati, parzialmente tenuti fermi da un fermaglio verde mela. Tom e Bill hanno ragione: ha dei capelli piuttosto belli, in effetti, ma non ha la minima idea di come tenerli e, come direbbe Bill, di come valorizzarsi. “Allora,” fa poi. “Di cosa si tratta?”

“Di cosa si tratta cosa?” mugugna Bill, intento a succhiare la sua ultima caramella.

“L’emergenza.”

“Oh, giusto, è vero,” Tom si affretta a sorridere soave. “L’emergenza!”

Bill gli da man forte:

“Ecco, noi avremmo bisogno che tu ci aiutassi a scegliere il regalo di nozze.”

Tari è lievemente confusa.

“C’era bisogno che veniste fin qui a chiedermelo?”

“Ci servi adesso.”

Adesso?”

“Proprio così,” annuisce Bill. “Dai, andiamo,” Le afferra un polso e se la trascina dietro verso l’ingresso, sotto gli occhi esterrefatti di Ludwig. “È già tardi.”

“Ma non ho la borsa,” si oppone Tari, spaesata. “E nemmeno un centesimo in tasca!”

“Non ti serviranno,” la mette a tacere Bill. “Adesso andiamo, prima che rimuovano Bonnie dal passo carrabile.”

Tari gli barcolla dietro e poi giù per i gradini, senza smettere per un secondo di battere le ciglia smarrita.

“Chi è Bonnie?”

“La sua macchina.” Sospiro, seguendoli assieme a Tom. Tari mi guarda come per dire ‘Scherzi?’, ma io faccio significativamente spallucce. Lei fa una faccia strana.

Pensa che siamo pazzi, tutti e tre, questo è poco ma sicuro. Non ho la faccia tosta di darle torto, soprattutto mentre Bill le apre la portiera e lei resta immobile lì davanti, fissando l’interno della vettura.

“C’è qualche problema, Tari?” le chiede Tom, avvicinandosi.

“C’è un coniglio rosa gigante sul sedile.” Ci fa notare lei.

Bill le sorride allegramente.

“Non ti preoccupare, è Iwen.”

“Iwen?” Tari sembra davvero sul punto di chiamare un manicomio.

“Teneva compagnia a Tom mentre venivamo qui.” spiega Bill, come se questo chiarisse alcunché.

Mi accosto a Tari e le do un paio di pacche rassicuranti sulla schiena.

“Se ci tieni alla tua salute mentale,” le consiglio. “Non fare domande.” E prendo posto davanti.

“Tutti a bordo!” miagola Bill, sventolando le chiavi felice e contento.

Tom sale dopo Tari, imprigionandola così tra sè e la discreta mole pelosa di Iwen. Lei non pare particolarmente rilassata.

“Preparati,” le sussurra Tom, mentre Bill riesce ad avviare il motore, dopo il terzo tentativo fallito. “Sarà un viaggio avventuroso.”

L’eufemismo del secolo.

 

[ TOM ]

Se volevamo sconvolgere una povera ragazza innocente, ce l’abbiamo fatta.

Tari è sbiancata fin dal momento in cui Bill si è messo in carreggiata senza controllare, rischiando così di farci tamponare da un camion della frutta, fortunatamente vuoto, che ci ha mancati di un pelo, e non ha ripreso il minimo accenno di colore fino a che è scesa dalla macchina, al sicuro nel parcheggio del centro commerciale.

Per farci perdonare le abbiamo offerto un milkshake al cioccolato (che lei ha spontaneamente accettato dietro ad esplicite minacce e ricatti vari), così ora ci aggiriamo oziosi per i vasti corridoi pieni di vetrine, con lei e Bill che si gustano i loro frappè e Georg ed io che mandiamo messaggi cifrati a quel cretino di mio fratello per ricordargli che siamo qui per una missione ben precisa, e non fare shopping ed ingozzarci di schifezze.

Ora che siamo lontani dai pericoli mortali della strada (e della guida di Bill), però, Tari sembra molto più rilassata e serena e sembra godersi il suo milkshake con una certa soddisfazione.

“Tari, sai che secondo me quel vestito azzurro ti starebbe bene?” esclama Georg mentre passiamo davanti ad unnegozio di abbigliamento, inviando frecciatine piuttosto esplicite a quell’anima beata di Bill, il quel, perso com’è nel suo dolce mondo, non afferra nemmeno a ficcargli il concetto direttamente in mano.

“Concordo,” allungo una gomitata esortativa a Tari, sostenendo Georg. “Perché non lo provi?”

“Ma siamo qui per il regalo di nozze…”

“Ah, sì, giusto.” Avevo completamente scordato che dobbiamo attenerci alla scusa.

“Cosa credi che dovremmo prendere?” interviene Georg, distraendola.

“Avete già consultato la lista nozze?” chiede lei, e si volta verso di me, come se io sapessi di cosa diamine sta parlando.

“La cosa?”

“La lista nozze,” sbuffa Georg impaziente. “Sai, dove gli sposi elencano gli oggetti che farebbe loro comodo ricevere in regalo.”

“Beh, noi questa cosa non l’abbiamo vista.” Affermo, un po’ offeso dal suo tono. Cosa cazzo ne so io di liste nozze?

“Potreste andare sul classico, comunque,” ci blandisce Tari. “Lavatrice, lavastoviglie, forno, frigorifero…”

“E cosa succede se, per assurdo, il matrimonio dovesse… Saltare, diciamo?”

“Beh, in genere si può tranquillamente restituire tutto ed ottenere il pieno rimborso.”

“Cerimonia e banchetto compresi?”

“Se è stata stipulata un’assicurazione, sì.”

“E Keller si è assicurato?”

“Sì, certo.” Fa lei, aggrottando la fronte sospettosa.

“Lo chiediamo per essere preparati quando capiterà a noi,” mente Bill prontamente. “Sposarci, intendo, non stipulare un’assicurazione.”

Da dietro alle spalle di Tari, Georg gli fa segno con le dita di darci un taglio con i farfugliamenti insensati. Miracolosamente, Bill capisce e chiude il becco, tornando saggiamente ad occupare le labbra con la cannuccia del frappè.

“Prenderemo una lavastoviglie,” improvviso, fingendo risoluzione. “Problema risolto.”

Bill vuota rumorosamente il maxi bicchiere del milkshake e lo butta in un cestino, leccandosi i baffi.

“Bene,” Esordisce poi. “Visto che siamo a posto, possiamo farci un bel giro per negozi, che ne dite?”

Tari, che regge ancora il suo bicchiere mezzo pieno, si blocca nell’atto di succhiare dalla cannuccia, con un’espressione vacua che mi fa lo stesso effetto del solletico. Questa ragazza è una comica nata e naturale.

Potrei suggerirle una carriera alternativa.

“Io avrei del lavoro che mi aspetta…” biascica, presa alla sprovvista. “Leila mi ha dato un paio di libri sulla moda da leggere…”

Sto per cercare di dissuaderla, quando mi balugina in testa un’idea non poco astuta. Un po’ subdola, forse, ma, a mali estremi, estremi rimedi. Se funziona, ne varrà la pena, anche se tecnicamente significherebbe usare lei e approfittare della sua fiducia, ma non c’è tempo per i sensi di colpa, il giorni passano in fretta e il matrimonio si sta avvicinando pericolosamente.

“Tari, cosa ne diresti se ti aiutassimo noi?”

Lei fa una cosa strana con il naso, arricciandolo in modo buffissimo, come fanno i bambini quando vogliono scacciare via un un insetto.

“Cosa vuole dire?”

“Che abbiamo qui un esperto di moda e cavolate simili,” dice Georg, seguendo abilmente la mia lunghezza d’onda, e prende Bill sottobraccio, mentre lui grugnisce infastidito. “Possiamo darti una mano ad imparare, e direttamente sul campo!” fa un gesto circolare verso i negozi. “Magari ti diamo anche qualche consiglio sull’abbigliamento professionale.” Aggiunge, senza riuscire ad impedirsi di lasciar scivolare gli occhi verso i suoi vestiti.

Tari tentenna. Resta immobile per un attimo, poi abbassa lo sguardo verso il proprio corpo.

“Secondo voi mi vesto male?” ci chiede candidamente.

Mi impongo di non ridere, perché così facendo la offenderei, ma non sono domande da farsi quando ti vesti come un reperto archeologico.

“Ma no, affatto!” Bill mette rapidamente la retro. “Ti vesti in modo… Ehm…”

“Molto personale.” Gli viene in aiuto Georg.

“Però, sai,” azzardo io. “Magari se curassi un po’ di più l’aspetto, Leila ti troverebbe una collaboratrice più papabile, no so se mi spiego.”

Georg e Bill mi scoccano due occhiate taglienti, quasi fosse colpa mia se lei non sa vestirsi in modo decente. Va bene, forse potevo trovare un modo più garbato di comunicarglielo, ma perché se la devono prendere con me? Sono soltanto sincero, e la sincerità andrebbe premiata, no? E poi certa gente è davvero troppo permalosa.

Mi ricordo di una volta che ho incontrato quella ragazza strepitosa, Julia, in un locale a Vienna. Era davvero perfetta, il massimo che uno come me possa sognare, ma aveva un piccolo difetto: era spaventosamente strabica. L’ho voluta comunque invitare a bere qualcosa, premurandomi però di chiederle, con tutta l’accortezza possibile, di mettersi un paio di occhiali da sole perché se no non riuscivo a concentrarmi, e lei per tutta risposta mi ha mollato un ceffone da body builder professionista, senza nessuna ragione al mondo. La mia mascella se lo ricorda ancora.

Tari, comunque, sembra colpita da questa osservazione, e grazie al cielo non da segni di volermi malmenare (cosa che, in ogni caso, mi spaventerebbe ben poco, perché, magra com’è, deve avere la stessa micidiale potenza di Bill, cioè zero).

“Leila me l’ha suggerito un paio di volte di essere più elegante,” ammette avvilita. “Ma io non mi trovo a mio agio in certi vestiti,” Dice ‘certi’ facendo un gesto distratto verso la vetrina alle nostre spalle, che espone modelli ultrafirmati di abiti chic. “L’avete visto anche voi, sono goffa già di mio, chissà cosa combinerei con una gonna e dei tacchi. E non parliamo nemmeno di trucco. L’ultima volta che ci ho provato, mi sono infilata lo spazzolino del mascara in un occhio, e mi ha lacrimato per ore.”

Noto che Bill è vicino alla disperazione, e credo si stia demoralizzando per via del crescente calo delle possibilità di successo del piano B.

“E quest’ultimo, glorioso tentativo a che epoca risale?” domanda, con il tono di chi teme di scoprire la risposta.

“Cinque anni fa.” Confessa Tari, le guance che le si fanno rosa acceso.

“Va bene, Tari, nulla è perduto,” dice Bill, determinato, mettendole le mani sulle spalle. È più alto di lei di una trentina di centimetri e lei sembra esserne intimidita. “Se collabori, possiamo aiutarti a diventare l’assistente ideale.”

Sono dell’umile parere che, anche al meglio delle sue possibilità, Tari sarà ben lungi dall’essere qualcosa di anche solo lontanamente simile ad un’assistente ideale, ma me lo terrò per me. In questo momento è fondamentale che lei ci creda e ci assecondi.

Se non ricordo male, tra un paio di giorni dovrà accompagnare Gustav a fare la prova dello smoking (Gustav in smoking… Questo la dice lunga su quanto Michelle lo conosca, e su quanto lui stia per diventare un futuro marito represso): se oggi riusciamo nell’intento, già per domani avremo una Tari tutta nuova e sensuale (all’incirca), e magari venerdì Gustav sarà abbagliato dalla sua stupefacente trasformazione, cadrà ai suoi piedi e si accorgeranno di essere follemente innamorati l’uno dell’altra.

Si conoscono solo da pochi giorni, ma sono dettagli trascurabili. Nei film funziona, no?

“Vedrai che poi Leila non avrà più il benché minimo dubbio sulla tua assunzione definitiva.” Insisto, supportato da cenni di approvazione di Georg.

Tari ci squadra incerta, ma si vede benissimo che è tentata. Ci tiene davvero a questo lavoro, e credo che sia disposta a scendere a questo tipo di compromessi.

E infatti, dopo un’esitazione non indifferente, abbassa la testa ed annuisce remissiva.

“D’accordo,” Si arrende. “Tentar non nuoce.”

Su questo non ci giurerei.


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A/N: grazie infinite a voi che avete lasciato tutte quelle lusinghierissime recensioni, ed anche a voi che avete soltanto letto o avete aggiunto la storia tra i preferiti. Mille volte ancora grazie! Mi mancano all'appello le mie adorate Anime Gemelle, ma non importa: Schwesti e Da, ovunque voi siate, grazie lo stesso, so che avete letto e avrò modo di fare l'offesa in privato. ;)

Grazie in particolare a: dark011 (anch'io AMO Georg!), L_Fy (Camden Town è stato il mio paradiso. Ancora oggi si ricordano di colei che in un pomeriggio da scucito centinaia di sterline nei vari nogozi gotici), CowgirlSara (sì, sei imperdonabile, ma Bill mi ha detto che vuole che io ti perdoni, e a Bill non si può dire di no. MS rule!), carol22 (oh, beh, che dire, anch'io adoro il pacchetto 'Doppio Kaulitz+Listing', ma mai quanto il 'Tokio Hotel Deluxe Tutto Compreso'! Grazie mille dei complimenti, mi hai resa molto molto compiaciuta di me stessa), Loribi (grazie infinite anche a te! Tari si darà una mossa se e quando aprirà gli occhi... Ho detto tutto), Muny_4Ever (grazie! Cerco sempre di attenermi il più possibile ai caratteri che loro ci mostrano, per me è fondamentale rispettare le vere personalità dei personaggi che si prendono in prestito), RubyChubb (ho una sola dichiarazione: appoggio!),  Samia (la mia diletta! Ogni volta che vedo una tua recensione, gongolo come un'idiota. Danke!), CaTtY (sono felice di essere riuscita a catturare la tua attenzione nonostante l'inizio ti avesse convinta poco. Spero continuerai a seguirmi!), valux91 (Bill balla divinamente sul palco! Lo stesso non si può dire di quell'impiastro di Tari, ma, poverina, anch'io avrei serie difficoltà di coordinazione se Bill mi invitasse a ballare), NeraLuna (non sono io a farti scompisciare, ma loro, i personaggi: ti giuro che fanno tutto da soli, io mi limito a trascrivere quello che li sento dire e fare, qui nella mia testolina), loryherm (mia cara! Mi eri mancata! Guai se sparisci di nuovo, adesso!), Lidiuz93 (Michelle sta sulle scatole un po' a tutti, ma sinceramente nemmeno a me dispiace. Certo, se in alternativa e ìa lei c'è una finlandese imbranata e adoVabile come Tari, non c'è storia su a chi vada la mia preferenza), _Princess_ (nooo, non morire, altrimenti io finisco al rogo per avere ucciso l'autrice più letta e recensita della sezione! E poi tu mi hai torturata a non finire con la tua storia, quindi se permetti mi prendo anch'io qualche libertà!), picchia (grazie! Sono ben umile cosa in confronto a certe pesonalità, qui dentro, ma fa sempre piacere sentirsi dare della grandiosa!), btb (temo di doverti deludere: Michelle non si romperà niente, ma in compenso sonoriuscita ad aggiornare, finalmente! Anche a te, grazie dei complimenti!).

A risentirci, leute, e se mi lasciate una recensione, anche piccina, ne sarò ben lieta!

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Capitolo 7
*** Lezioni di Finlandese ***


[ GUSTAV ]

Sono sinceramente perplesso.

E preoccupato.

E non sono il tipo di persona che si preoccupa per un nonnulla.

Anzi, chiunque può affermare con una certa sicurezza che ho abbastanza sangue freddo da essere l’unico del gruppo a non avere sfiorato un mancamento quando lo scorso anno abbiamo sbancato agli MTV Europe Music Awards, portandoci via il Best Intenational Act, Best Band, Best Album e Best Video. Quella volta Bill ha avuto una crisi respiratoria, Tom è inciampato in se stesso e Georg si è quasi strozzato con la sua stessa saliva. Io ero l’unico in grado di gioire senza mettere a repentaglio parti anatomiche vitali. Ho detto tutto.

Comunque sia, il fatto che siano le dieci e cinque, che io sia perfettamente pronto ad uscire e che l’appuntamento con la sarta è per le dieci e mezza mi fa domandare: ce la farà mai Tari ad arrivare in orario? Doveva essere qui cinque minuti fa. Ci sono tre possibilità che possono spiegare questo ritardo, e sono una meno confortante dell’altra. Uno: ha di nuovo sbagliato orario; due: ha di nuovo sbagliato data; tre: le ha sbagliate entrambe.

Come sia finita a fare da assistente a una precisa e rigorosa come Leila, nessuno lo sa.

Lo so che non dovrei dimostrare tanta sfiducia, ma l’esperienza insegna, e se devo proprio dire la mia, quella ragazza non è proprio l’affidabilità personificata, in quanto a puntualità. Se siamo fortunati, arriverà per le undici; nel, peggiore dei casi, arriverà domani.

La casa è vuota, Michelle è al lavoro, il telefono tace, la tv è spenta, la pace assoluta regna. Gironzolando per il salotto mentre aspetto che il prodigio si verifichi e Tari si presenti alla porta per l’ora stabilita, non posso fare a meno di osservare con un’attenzione superiore al solito i dettagli dell’arredamento: le pareti sono di un bianco splendente, che con questo sole fa quasi male agli occhi, qua e là sono sparsi vasi di fiori finti e di colori che oscillano esclusivamente tra il rosa e l’arancione, in tinta con i cuscini del divano, anch’esso bianco, con le tende e con il grande tappeto. Sparse un po’ in ogni angolo della casa ci sono quelle ridicole riviste patinate che, fosse per me, non dovrebbero nemmeno essere vendute. C’è un’intensa fragranza di rose nell’aria, proveniente dal profumatore posato sulla mensola dell’ingresso. Non è il massimo, a mio modesto parere.

Ci sono tracce evidenti di Michelle ovunque, e ci mancherebbe, è il suo appartamento, ma se uno non va a rovistare negli armadi o a guardare in bagno, non si accorgerebbe nemmeno che qui dentro ci vivo anch’io.

Certo, ho montato io quello stupido mobile della televisione, e ho fatto io quella striatura nera sul muro, che Michelle ha prontamente coperto con un quadro astratto che non ho mai capito da che parte guardare, ma qualunque cosa provenga da me, qui dentro, potrebbe tranquillamente provenire da chiunque altro, e non farebbe alcuna differenza.

Dalla finestra aperta entra una piacevole brezzolina fresca, che mi si insinua tra i primi bottoni slacciati della camicia e mi fa venire voglia di strapparmela di dosso per mettermi qualcosa di più consono alla bella giornata, ma, no, non posso presentarmi alla prova dello smoking (a me! Uno smoking!) in tenuta casual, ne va dell’immagine che ne darei, e sono già fortunato se mi sono stati concessi i jeans.

Come se a quella gente importasse cosa indossano i loro clienti. Con un bel fascio di soldi in mano, potrei anche andarci vestito da clown.

L’orologio del lettore DVD scatta sulle dieci e otto minuti. Sto per sospirare sconfortato, quando finalmente suona il campanello. Con mio immenso sollievo, quando apro c’è esattamente che mi auguravo ci fosse ad aspettarmi: Tari ansima reggendosi una borsetta al petto, vestita con un elegante tailleur grigio perla che non avrei mai creduto di poterle vedere addosso.

“Ciao,” la saluto sorpreso. “Ti stavo per…”

Hyvää päivää, Herra Schäfer. Anteeksi, kuinka minä olen myöhästynyt! Meidän täytyy mennä!”

Eh?

Sbatto le palpebre interdetto, cercando di capire se sono io ad essere completamente impazzito, o lei.

La seconda, probabilmente.

“Oh, dio, mi scusi!” balbetta lei, portandosi imbarazzata le mani alla bocca. “Ero al telefono con mia madre, poco fa, sono ancora in modalità finlandese. Mi dispiace, non volevo…”

Non posso fare a meno di ridere. Se non ci fosse lei, questo matrimonio sarebbe molto più noioso.

“La prego,” prosegue lei, ancora ansante. “Mi dica che la data e l’ora sono giuste. Ritardo a parte, ovviamente.”

“Ma certo,” la rassicuro. “Non vedi che sono vestito, per una volta?”

Lei mi scocca un’occhiatina torva. Devo riconoscere che così incute un certo timore.

“Mi risparmi la crudele ironia, per favore, non è giornata.”

“Qualcosa non va?”

“Questi tacchi mi stanno facendo impazzire,” si lamenta, abbassandosi per massaggiarsi un polpaccio sottile.

Soltanto adesso noto che porta un paio di scarpe con un tacco a spillo di neanche cinque centimetri, che per Michelle equivarrebbe circa a dei comodi mocassini, ma che a vederli portati da lei sembrano trampoli vertiginosi ed ingestibili.

“Lei non ha idea di cosa significhi farsi sei piani a piedi con queste mostruosità addosso!” Sembra davvero disperata. “Per non parlare della gonna, poi! Ho paura di strapparla appena muovo un passo.”

Una delle tante cose che non capirò mai delle donne (e di Bill): farebbero di tutto per la bellezza, compreso sottoporsi a torture disumane. Se qualcuno facesse loro ciò che loro fanno a se stesse, verrebbe considerato un sadico criminale.

“Perché ti sei vestita così se non ti trovi bene?” le domando, attonito.

Lei rantola.

“Perché Leila esige un’immagine più curata, e se voglio che mi assuma, devo adeguarmi.”

Si parlava di sadici criminali…

“La trovo una cosa parecchio stupida,” osservo, ma poi scrollo le spalle indulgente. “Ma se è quello che vuoi, allora fai bene a non mollare.”

“Grazie,” replica Tari, ancora china sofferentemente sulle proprie caviglie. “Senta, prima di andare…” Solleva timidamente gli occhi su di me, praticamente implorandomi. “Ehm… Non è che per caso ha un paio di cerotti e della pomata per distorsioni?”

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Credevo che ci fossero dei limiti, sebbene ampiamente estensibili, alla comicità involontaria di Tari, ma ero in errore.

Quando l’ho fatta entrare per darle i cerotti e la pomata, ho notato che zoppicava in modo un po’ troppo marcato e le ho chiesto di farmi vedere in che stato fossero le sue caviglie.

Pietoso.

Erano gonfie e leggermente livide, e c’erano delle vesciche poco sopra il tallone. Quelle scarpe dovevano farle davvero un male cane, così l’ho aiutata a medicarsi e le ho offerto in prestito un paio di scarpe da tennis di Michelle, nuove di zecca, che lei si è naturalmente rifiutata di accettare, tirando fuori per l’ennesima volta quella stupida storia del distacco professionale, ma ormai ho imparato a minacciarla, quindi alla fine si è dovuta piegare alla mia cordiale proposta.

Il problema è che adesso è ridicola, con quel tailleur così chic e scarpe da ginnastica ai piedi, e quando siamo entrati nel laboratorio della sartoria, tutti la guardavano male.

Forse avrei dovuto suggerirle di cambiarsi anche i vestiti, ma poi la mole di convincimenti sarebbe diventata ingente, ed eravamo già in ritardo. Anzi, è un miracolo che siamo riusciti ad essere qui quasi puntuali.

Siamo stati fatti accomodare in una minuscola saletta di prova, rivestita in legno chiaro, con grandi specchi sparsi in giro e sgabelli ammassati in un angolo. È un posto molto pulito e luminoso, che profuma di detersivo alla lavanda, e mi sentirei perfettamente a mio agio se non fossi appena uscito dal camerino di prova con addosso un’uniforme da pinguino.

La sarta, la signora Braun, è una donna sui settanta dai corti capelli bianchi e ricci, professionale e molto amichevole, che però odierò in eterno per aver confezionato questa trappola mortale che mi sono appena infilato.

“Su, su vieni avanti, ragazzo,” mi esorta, facendomi cenni spicci con la mano. “Qua sopra, svelto.”

Mi indica una specie di rialzo circolare di legno alto un paio di spanne e io non posso far altro che obbedire, ritrovandomi così in piedi davanti ad uno specchio che non fa che rigirare il coltello nella piaga.

Faccio ridere.

Tari osserva silenziosa, seduta in una poltroncina in un angolo, palmare alla mano, con cui di tanto in tanto traffica febbrilmente. Si è portata dietro uno dei libri che le ha dato Leila, ma lo tiene aperto sulle ginocchia, senza leggerlo.

Immagino che il sottoscritto che viene reso un fenomeno da baraccone sia di gran lunga più interessante.

“Sta’ dritto, ragazzo!” mi rimprovera la sarta, bacchettandomi sulla schiena con il dorso della mano. “Con questi muscoli dovresti avere una bella postura eretta, non questa gobba da minatore!” borbotta, strattonando lembi di tessuto qua e là. “Che razza di lavoro fai, giovanotto?”

“Il batterista.” Rispondo, il colletto inamidato che mi irrita il collo. La signora Braun mi guarda come se parlassi Zulù, o qualche altra lingua strana. Forse una della sua età l’unica batteria che conosce è quella di pentole. “Insomma, faccio il musicista.” specifico.

Scorgo Tari nello specchio che armeggia con i propri lunghi capelli, attorcigliandoli in malo modo attorno ad una matita. Si è tolta la giacchetta del tailleur ed è rimasta con la maglietta bianca, gli occhiali che le scivolano un po’ giù dal naso. Adesso sì che potrebbe passare per una testimone di Geova.

“Ti guadagni da vivere suonando?” domanda la donna, con un tono di rimprovero. “Non si usa più fare lavori veri, al giorno d’oggi?”

Va bene, questa donna non è come me l’ero aspettata. Sarà che questo posto ce lo ha consigliato Leila, sarà che l’ambiente appare molto esclusivo, ma me l’ero immaginata un po’ meno invadente, ecco. Non è proprio professionale come sembrava all’inizio, quando mi ha sbattuto in mano questa roba che ora mi sta sistemando addosso.

Ignoro deliberatamente la sua domanda e sposto il discorso altrove.

“Mi va un po’ stretto qui sopra,” le comunico, osservandomi nello specchio. Mi faccio pietà da solo, così conciato. Guardo Tari, riflessa alle mie spalle, e noto che sta seguendo la scena. “Secondo te dovrei perdere un paio di chili?” le chiedo, battendomi le mani sul torace.

Lei sorride appena e fa cenno di no con la testa.

“Sei perfetto così.”

Cala un attimo di silenzio.

Restiamo a fissarci, entrambi vagamente sbigottiti, ma è come se nessuno dei sapesse veramente perché, poi il mio cervello realizza, e a quanto pare anche il suo:

“Oh, mi perdoni!” farfuglia rammaricata, e salva per un pelo il palmare che stava per sfuggirle di mano. “Non intendevo darle del tu, mi è scappato!”

Esigo che ora questa ragazza mi spieghi perché mi sta chiedendo scusa per aver fatto una cosa che sono giorni che la supplico di fare.

“Tari, non ti devi scusare!” chiarisco con decisione. “Non mi sono mica offeso. Anzi…”

Ma lei ha ancora gli occhi sgranati, come se mi avesse appena rivolto chissà quale pesante insulto.

Ci rinuncio, credevo che Tom fosse il top insuperabile delle teste dure, ma avrei dovuto immaginare che se c’era qualcuno che poteva batterlo, quel qualcuno dovesse essere una donna.

La sarta continua a risistemare orli ed infilare spilli in ogni dove, con tale rapidità ed energia che temo che qualcuno finirà conficcato direttamente nella mia carne.

Ad un certo punto entra una ragazza benvestita con un grosso fascicolo in mano, da cui spuntano lembi di tessuto e fili variopinti, e lo porge a Tari con un plastico sorriso educato. Tari ringrazia e se lo appoggia alle ginocchia, sopra quello che già aveva, e sembra avere il terrore di aprirlo. Credo si tratti del campionario per le decorazioni della chiesa e del banchetto.

Mi sembra così piccola con quel colosso cartaceo in mano, ricurva su se stessa con se la testa le pesasse.

“Caro, lo so che dev’essere molto faticoso, ma dovresti tenere le braccia sollevate.” mi dice la sarta, costringendomi da assumere una posa da spaventapasseri in smoking. Colgo una certa ironia nel modo in cui dice ‘molto faticoso’. Credo che si sia fatta un’idea del tutto sbagliata su di me: non sono un perdigiorno mantenuto che se ne sta ad oziare dalla mattina alla sera. Il mio è un lavoro vero, e neanche tanto leggero come può sembrare.

Quando finalmente la donna ripone spilli e armi varie, ho le braccia e le spalle indolenzite e non mi sento più il collo. E io che credevo che i concerti fossero estenuanti. Vorrei che i ragazzi provassero anche loro a starsene un’ora impalato a farsi riempire i vestiti di spilli, poi vediamo se mi sfottono ancora quando mi trascino zoppicante nel backstage dopo un’intera serata a suonare.

“Bene, puoi andare a cambiarti,” mi dice la sarta. “Fai attenzione quando ti sfili le cose.” E mi lancia un’occhiata penetrante.

Fantastico, mi crede un incapace. Solo perché suono una batteria anziché marcire dietro una scrivania, come probabilmente staranno facendo i suoi figli.

Non è affatto simpatica come pensavo.

Barcollo fino a dietro la tenda del camerino, ben attento a non pungermi con i quintali di aghi metallici sparsi per giacca e pantaloni. Mi ci vogliono cinque minuti per uscire da questa trappola mortale senza riportare danni, e quando esco sono più che felice di lasciare i vestiti alla deliziosa signora Braun.

“Sarà pronto tra una settimana,” mi annuncia lei, mettendosi a piegare tutto con cura sopra un tavolo con svelti movimenti esperti. “E puoi dire alla tua fidanzata che è arrivato lo chiffon che aveva ordinato dalla Francia, se vuole venire a vederlo, può passare quando vuole.”

“Benissimo.” Faccio io, sbrigativo. Muoio dalla voglia di uscire di qui, arrivare a casa, sbarazzarmi di questa camicia e divorare un bel panino pieno di grassi e carboidrati. Non necessariamente nell’ordine. Anzi, necessariamente non nell’ordine, visto che grassi e carboidrati sono un tabù in casa.

“Ti prego, dimmi che non hai appuntamenti urgenti.” Dico a Tari mentre usciamo in strada. Siamo venuti con la sua auto e ho troppa voglia di schifezze per tornare subito all’appartamento.

Fortunatamente lei nega.

“Perfetto,” esulto, sollevato. “Perché ho assoluto bisogno di un bel pranzo sostanzioso da McDonald’s.”

“McDonald’s?” Tari pare sorpresa, si stringe l’immenso librone al petto guardandomi mentre camminiamo. Forse si aspettava un ristorante di primo livello, o per lo meno una pizzeria.

“Un paio di hamburger, patatine e coca cola,” tento di corromperla, prendendole il volume e portandolo per lei. Pesa più di quanto sembrasse. “Mezz’ora e abbiamo finito. Non puoi negarmi un piccolo compenso dopo quello che mi è toccato sorbire!”

Lei si mordicchia il labbro screpolato e si mette a rovistare nella borsetta – per niente consona al suo stile – e quasi inciampa in un tratto di marciapiede sconnesso. I miei riflessi, per sua fortuna, sono ottimi, e riesco ad afferrarla appena prima che il suo ginocchio picchi contro il cemento, ma nello stesso istante si sente un distinto rumore di stoffa strappata.

Perkele!” esclama lei, e, qualunque cosa abbia detto, ha tutta l’aria di essere un’imprecazione.

La aiuto a rimettersi in piedi, mentre qualche passante si volta incuriosito. Tari, rossa come un peperone, farfuglia qualche ringraziamento e si contorce per guardarsi il retro della gonna.

Hitto!”

C’è un lungo spacco che parte dal bordo e arriva fino ad appena sotto il fondoschiena. Non è rotta, solo scucita, e non viola nessun pubblico pudore, ma le lascia scoperte praticamente tutte le gambe, e non posso fare a meno di notare che non è ossuta come sembra. Anzi…

“Mi piacciono molto queste parolacce finniche,” commento, mentre lei continua a biascicare interiezioni dal suono buffo. “Va tutto bene?”

“Sì, grazie,” Tari sospira. “Fantastico, questo tailleur era nuovo di zecca.”

“Si è solo strappata la cucitura, si può sistemare,” La rassicuro. “Facciamo così: andiamo a mangiare e poi la portiamo alla cara signora Braun a farla riparare.”

Tari esita (che novità), ma c’è un McDonald’s proprio dall’altra parte della strada, e prima che lei possa aprir bocca, la sto già trascinando sulle strisce pedonali. Tari si tiene una mano sul didietro, continuando a gettare occhiate alle proprie spalle per assicurarsi di non offrire spettacoli gratuiti e poco ortodossi.

“Lei è diverso da come mi era sembrato,” mi dice, seguendomi oltre le porte di vetro dell’ingresso. “Sa, anche a vederla in televisione, sembra così…”

Mi volto a guardarla, un sopracciglio inarcato, sfidandola a continuare.

“Così composto.” Termina, sostenendo lo sguardo, anche ha le guance praticamente in fiamme.

Beh, meglio di ‘noioso’, ‘musone’ o uno di quegli altri epiteti che mi toccano di solito.

“Sono solo meno esibizionista degli altri tre.” Spiego, accodandomi alla breve fila di persone davanti alla cassa.

Tari annuisce convinta.

“Sì, dal vivo è molto più allegro e vivace. Insomma… Non sembra affatto la stessa persona.”

“È l’effetto delle telecamere. Tutti noi cerchiamo di essere il più naturali possibile, di fronte al pubblico, ma avrai notato che presi in un giorno qualsiasi, nell’intimità di casa, siamo altre persone, tutti quanti.”

“Credo di preferire la versione casalinga.” Afferma, fissando il pavimento.

“Non parleresti così se avessi visto quei tre nel loro ambiente naturale.” Replico, strappandole una risata.

Ordiniamo due menu completi (la giovane cassiera mi chiede un autografo tutta eccitata) e devo arrivare nuovamente ai ricatti per poter offrire io. Andiamo a sederci in un angolo vuoto e ci mettiamo comodi. Fortunatamente è presto e non c’è quasi nessuno in giro.

“Allora,” esordisco, dopo aver deglutito con estrema soddisfazione il terzo morso di panino. “Insegnami qualche bella parolaccia in finlandese.”

Tari si fa andare di traverso una patatina e si affretta a prendere un sorso di coca dal bicchiere.

“Dai, avanti!” la incito. “Ad esempio, cos’è che voleva dire la prima che hai detto? PerPer?”

Perkele,” completa lei, appena riprende a respirare normalmente. “È l’equivalente di ‘maledizione’.”

Mi stuzzica l’idea di imparare questo genere di cose in un’altra lingua. Potrei insultare Tom senza che nemmeno lui sappia cosa sto dicendo.

“E l’altra?”

Hitto. Più o meno è la stessa cosa.”

“Quanti modi avete di dire ‘maledizione’, per curiosità?”

Tari fa spallucce, leccandosi le punte delle dita.

“Cinque, tradotti in tedesco,” risponde. “In realtà hanno significati precisi in suomi, ma non hanno corrispondenti letterali nelle altre lingue.”

Mastico con calma l’ultimo boccone del panino e mi pulisco le mani, sempre più interessato.

“E come si dice – che so – ‘Che giorno è oggi?’?”

Mikä päivä tänään on?” fa lei con disinvoltura.

Spero non mi stia prendendo in giro. Ricordo fin troppo bene quell’intervista, anni fa, con quella stupidissima giornalista inglese, che abbiamo preso per i fondelli per tutto il tempo davanti a decina di migliaia di spettatori.

“Non sto scherzando.” Aggiunge, come se mi avesse letto il pensiero.

Va bene, diciamo che mi fido.

“E cosa si risponderebbe dopo, per dire ‘Oggi è il ventidue maggio duemilaundici’?”

Tari non riesce a trattenere un sogghigno. Si schiarisce la gola e traduce:

Tänään on kahdeskymmenestoinen viidettä kaskituhattayksitoista.”

“Tana non cadetti minestrone vedetta…?”

Lei se la ride di gusto, un paio di lucide lacrime che le sgorgano agli angoli degli occhi.

Tänään significa ‘oggi’, e il resto sono, rispettivamente, giorno, mese e anno.”

Perfetto, adesso so con certezza che non imparerò mai il finlandese. Dio, ti ringrazio per aver reso l’inglese la lingua internazionale per eccellenza e non questo groviglio di arrotolamenti vari.

“Tutta quella roba chilometrica vuol dire ‘Oggi è il ventidue maggio duemilaundici’?” esclamo, basito.

Kyllä.” dice Tari, annuendo. Suppongo significhi ‘sì’.

Questi finlandesi sono dei masochisti mica da ridere.

“Qualcosa di più semplice?” propongo, sperando che la semplicità strutturale tedesca non sia inversamente proporzionale a quella finlandese. “Tipo ‘Io mi chiamo X’…”

Tari sembra divertita dal gioco. Accartoccia la carta del suo hamburger di verdure e beve un altro po’ di coca.

Minun nimeni on Suometar,” recita poi, e credo che l’ultima parola che ho sentito fosse il suo nome. “Altrimenti c’è la forma più semplice, olen Suometar, che significa ‘Sono Suometar’.”

Olen Gustav,” mi presento galantemente. “Olen Gustav Schäfer.”

Tari mi stringe la mano che le porgo, ridendo divertita.

“Ottima pronuncia,” si complimenta. “Dovrebbe mettersi a studiarlo!”

“Lo farò senz’altro. Anzi, sai che ti dico? Proporrò di spostare il matrimonio in Finlandia, così potrò andare in giro a dire a tutti quanti che mi chiamo Gustav. E magari, con un po’ d’impegno, anche che giorno era oggi.”

Il sorriso sulle labbra di Tari sbiadisce un po’ e i suoi occhi chiari si tuffano tra le patatine non appena incontrano i miei.

Sto per chiederle se ho detto qualcosa di sbagliato, ma lei risolleva il viso, di nuovo sorridente.

“La ringrazio per il pranzo,” dice, in un tono non esattamente naturale. “Erano secoli che non mettevo piede in uno di questi posti pieni di junk food.”

“Quando vuoi,” sollevo il bicchiere a mo’ di cincin. “Ogni scusa è buona per scampare ai cracker di polistirolo di Michelle.”

Un angolo della sua bocca si alza appena e lei ricambia il cincin.

“Al suo matrimonio.”

“E ai minestroni dei cadetti.” Aggiungo, suggellando il brindisi.

“E ai minestroni dei cadetti.” Conviene Tari, solenne.

Beviamo entrambi un sorso di coca cola, senza smetterci di tenerci d’occhio l’un l’altra, ma proprio mentre sto deglutendo mi scappa da ridere e mi finisce di traverso. Tari scoppia a ridere nel vedermi tossire, e finisce così per tossire anche lei, il tovagliolo di carta premuto sulla bocca. Ridiamo come due cretini, rossi in faccia, gli occhi umidi, e mi fanno male gli addominali.

Erano secoli che non mi divertivo tanto con qualcuno che non fossero quei tre idioti dei miei testimoni.

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A/N: parto subito col dire che sono rimasta piacevolmente colpita dal vostro entusiasmo verso lo scorso capitolo, mi ha fatto un piacere immenso vedere tante recensioni positive e ricevere tanti (nel del tutto meritati) complimenti. Quindi grazie infinite a loryherm, CaTtY, picchia, Muny_4Ever, starfi (schwesti!), billa483, NeraLuna, L_Fy, GodFather, carol22, CowgirlSara (MS!), dark011, btb, RubyChubb (MS!), Ladynotorius (ambasciatrice MS, perdono!), loribi, _Princess_ (MS!), valux91, Lidiuz93, e ruka88. Un grazie speciale a Samia, che mi lascia sempre delle recensioni così lunghe e meravigliose da farmi sempre venire gli occhioni a forma di cuore… Ti adoro!

Per i fans di Iwen ed Elvis: non temete, i vostri beniamini torneranno prestissimo su questi schermi, stay tuned, e, come sempre, le recensioni sono molto ben accette! ^^

P.S. la frase che dice Tari appena arriva a casa di Gustav significa: buongiorno, signor Schäfer. Mi dispiace, quanto sono in ritardo! Dobbiamo sbrigarci!

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Capitolo 8
*** Addio Al Celibato... O Quasi ***


[ BILL ]

 

Io ed Elvis dobbiamo fare un bel discorsetto circa le attività da svolgersi in determinati orari notturni, come ad esempio dormire.

Ora, io non so esattamente come funzioni la vita del criceto medio, ma nessuno mi aveva avvertito che una bestiolina tanto minuscola potesse essere in grado di fare un tale baccano da sola. Voglio dire, gli ho comprato una gabbia enorme e piena di comfort, il sogno di ogni roditore domestico, praticamente una villa formato criceto, ma lui anziché godersi uno dei tanti angolini morbidi ed accoglienti e farsi un bel pisolino, che fa? Corre. Corre per ore e ore, tutta la notte, causando un fracasso allucinante.

Mi rigiro nel letto abbracciato ad Iwen (la nostra intimità è molto cresciuta, di recente), le sue orecchione soffici premute contro le mie per non sentire quel piccolo delinquente che sfreccia all’impazzata sulla sua bella ruota.

Sono un uomo disperato.

Basta, ho deciso: domani va in affidamento allo zio Tomi, che tanto ha il sonno pesante e non lo sveglia nemmeno la fine del mondo.

Non sono un genitore snaturato, gli voglio tutto il bene che si può volere a dieci grammi di pelliccetta setosa, ma, come si dice, a mali estremi, estremi rimedi.

Questa notte, come se non bastasse, ho avuto un incubo di quelli che ti fanno svegliare di soprassalto, ansante e tremante, con il cuore che batte a mille miglia orarie e la fronte imperlata di sudore, e tornano a tormentarti per il resto della vita. È stato davvero, davvero orribile.

Ho sognato che era il giorno del matrimonio, ma Gustav non si presentava alla cerimonia (il che, nella realtà, sarebbe una buona idea, a ben pensarci), così Michelle si incazzava come una iena e pretendeva di sposare uno di noi tre testimoni. E Tom e Georg hanno mandato me!

Oh, dio, ma perché ci sto ripensando? Mi serve della camomilla.

No, un bel bicchiere di whisky.

Afferro alla cieca un orecchio di Iwen e me lo porto via verso la porta, lasciando Elvis a scorazzare libero e felice su quella sua ruota infernale. È solo quando mi richiudo la porta alle spalle che sento dei rumori sospetti provenire dalla cucina.

Le luci sono spente, ma se porgo l’orecchio, riesco a sentire distintamente delle voci sommesse che bisbigliano.

Cazzo, i ladri!

E adesso cosa faccio?

Se vado a svegliare Georg o Tom (preferibilmente Georg, che è un po’ più utile di Tom, in caso di necessità di difesa), rischio l’uccisione istantanea, ma se non faccio niente… Ci ripuliscono l’appartamento!

Che cosa può fare un piccolo, indifeso Bill Kaulitz contro dei feroci assassini?

Facendo piano, striscio furtivo verso la cucina, nascondendomi dietro ad Iwen, per sicurezza. Le voci si fanno più nitide man mano che mi avvicino.

Oh, dio, ma dove sono le fan inferocite da aizzare contro i malintenzionati, quando se ne ha bisogno?

Mi fermo appena dietro alla porta chiusa, senza osare toccare la maniglia. Tutte le porte di questa casa cigolano come se avessero sei o sette secoli d’età, solo la mia si salva, e questo perché ho avuto il buonsenso di ungere i cardini (adesso puzzano un po’ di oliva, ma quasi non si nota più).

Mentre sono ancora immerso nei miei pensieri, con orrore vedo la maniglia che si abbassa, lentamente, come se stessi guardando un film in slow motion.

Il cuore mi balza in gola e le ginocchia sembrano voler cedere da un momento all’altro.

All’improvviso la porta si spalanca con un colpo deciso e io mi sento urlare a squarciagola, mentre due figure alte e scure mi appaiono di fronte. Vorrei scappare, ma le mie gambe non ne vogliono sapere di muoversi. Mi stringo convulsamente Iwen al petto, accasciandomi al suolo, strizzando gli occhi dalla paura. Mi chiederanno dov’è la cassaforte. Vorranno i nostri soldi, i nostri premi… I miei vestiti! Mi picchieranno, mi molesteranno, forse mi violenteranno! E poi mi minacceranno di uccidere mio fratello e il mio amico al mio cospetto, se non darò loro quello che vogliono!

Oh, no, no, sono troppo giovane, bello e pieno di talento per morire così! Ho ancora tante canzoni da scrivere, tante persone da stupire, tutta una vita davanti, brillante e piena di prospettive e…

“Bill, ma che cazzo urli?”

Tom?

Tremante, apro lentamente un occhio, sbirciando attraverso la semioscurità. Non vedo che le stesse ombre di prima, ma mi sembra di riconoscere una massa di rasta e due spalle muscolose.

“Credo di aver perso l’udito da un orecchio.” Bofonchia la voce roca di Georg.

Un momento…

Apro anche l’altro occhio, proprio mentre la luce del corridoio viene accesa. Dopo un attimo di cecità, la mia vista mette a fuoco le facce sonnolente ed alterate di Tom e Georg, che mi guardano dall’alto come se fossi una strana creatura con otto braccia e qualche bizzarra escrescenza sulla fronte.

“Bill,” Georg si accovaccia di fronte a me e mi scruta preoccupato. “Ti senti bene?”

Sono domande da farsi ad uno che ha appena avuto dieci attacchi di cuore consecutivi?

Cerco di darmi una calmata almeno superficiale e mi rimetto insieme, alzandomi in piedi con un piccolo aiuto da parte di Tom.

“Benissimo,” dichiaro, disinvolto. “Però, insomma… Non è proprio piacevole vedervi a quest’ora di notte.”

Tom inarca un sopracciglio e incrocia le braccia.

“Non è che tu abbia l’aspetto di un bocciolo di rosa, comunque…”

Indignato, lo allontano a colpi di Iwen, le mie pulsazioni che pian piano ritornano a livelli umani. Se solo le mie ginocchia la piantassero di tremare così…

Che infarto, cazzo!

“Cosa diavolo ci fai in piedi a quest’ora?” mi chiede Georg, che ancora non sembra convinto che io sia pienamente o parzialmente in possesso delle mie facoltà mentali.

Mi ficco Iwen sotto ad un braccio, accendo a livello minimo la luce della cucina ed entro, andando a lasciarmi cadere su una sedia. Camomilla. Ora me ne servirà almeno una doppia.

“Non potete immaginare che razza di incubo ho fatto!” esclamo, portandomi una mano alla fronte. “Traumatico, vi giuro! Non potete proprio immaginare!”

Georg e Tom mi hanno seguito e mi scrutano appoggiati al bancone di fronte a me.

“Hai sognato che Gustav dava forfait al matrimonio e tu eri costretto a sposare Michelle?”

Sgrano gli occhi, incredulo. Questa è telepatia!

“Anche voi avete sognato di essere costretti a sposare Michelle?!”

“No,” dice Tom con un sogghigno. “Anche noi abbiamo sognato che tu eri costretto a sposare Michelle.”

Sono senza parole. È un complotto! Un complotto alle mie spalle! Chi mi assicura che il loro piano non sia stato esattamente questo fin dall’inizio? Che non siano d’accordo con Gustav per sbarazzarsi di me, affibbiandomi a quella megera ossigenata?

“Ho bisogno di una camomilla,” sospiro affranto. “Una abbondante e forte, ben zuccherata.”

Attendo che uno dei due si metta al lavoro, ma non si muove un sola molecola.

“Beh?” Li guardo colmo di indignazione ed impazienza. “Non vedete che sono provato? Mi servono coccole!”

“E noi dovremmo fornirti queste coccole?” fa Georg, con un tono indisponente che proprio non mi piace.

Ma insomma, sono il più piccolo, che fine ha fatto il loro senso del dovere?

Ehm… Affetto. Volevo dire affetto. Che fine ha fatto il loro affetto?

“Sono sotto shock!” piagnucolo, affondando il viso nella pancia pelosa di Iwen. “E voi siete degli egoisti schifosi e meschini che ridono alle mie spalle e non si curano minimamente del mio stato e che…”

“Va bene, va bene,” sbuffa Tom, interrompendomi in modo piuttosto maleducato. “Ti faccio questa cazzo di camomilla.”

Ecco, ora si ragiona.

“Mentre Tom ti accudisce,” esordisce Georg. “Ti spiacerebbe spiegarmi cosa ci facevi appollaiato dietro alla porta della cucina?”

“Ehm…”

Non ho la benché minima intenzione di metterli al corrente della cosa dei ladri. Ci manca solo che trovino un nuovo spunto per stressarmi con i loro simpatici commentini ironici.

“Mi è venuta un’idea.” Rispondo, sorridendo misteriosamente, o così spero. Passato lo spavento, mi è tornato un sonno micidiale e non so bene se i muscoli del mio viso stiano obbedendo a dovere al cervello.

“Che tipo di idea?” indaga Tom, versando l’acqua bollente in una tazza.

Mmh, bella domanda.

“Dobbiamo portare Gustav in un night club.” Improvviso.

Night club? Gustav in un night club? Ma cosa diamine mi è saltato in mente?!

C’è una pausa di silenzio.

“Puoi ripetere, scusa?”

“Ma sì!” insisto. Ormai la frittata è fatta. “Lo portiamo in un night club, gli facciamo vedere… Ehm… Cosa si sta per precludere andandosi ad accasare con la strega, lui rinsavisce e… Puf, addio matrimonio!”

Di cosa diavolo sto parlando? E da quando uso termini come ‘precludere’? Ma soprattutto, conosco termini come ‘precludere’?

Attimo di silenzio. So già che diranno che è un’idea cretina, perché in effetti lo è (ma non ci si poteva aspettare diversamente, visto che l’ho montata in due secondi netti, no?).

“Gustav in un night club.” Ripete Georg, poco convinto.

“Sì.”

“Il nostro Gustav in un night club.” Ripete di nuovo.

“Sì!” Ma lo capiscono il tedesco?

“Non funzionerà mai.” Osserva Tom, sbattendomi la tazza sotto al naso. Un po’ di camomilla trabocca e bagna il tavolo, ma lui se ne frega.

“Ma l’addio al celibato glielo dobbiamo fare comunque!” protesto.

Non che queste feste volgari facciano per me (e nemmeno per Gustav, veramente), ma devo pur difendere la mia idea.

L’espressione di Georg si fa pensosa.

“Anche questo è vero…” ammette, e un’ombra di preoccupazione gli attraversa il viso stanco.

È il più preoccupato, tra noi. Sarà che lui e Gustav si conoscono da una vita e che hanno mosso i loro primi passi nel mondo della musica insieme, ma Georg si è preso molto a cuore questa storia e credo che se pensasse che esista qualche possibilità che davvero Michelle possa fare felice il suo migliore amico, lascerebbe correre. Ma Georg vuole bene a Gustav, così come gliene vogliamo io e Tom, e farebbe di tutto per salvarlo da un futuro infelice, anche trascinarlo brutalmente in un nightclub, facendosi così conseguentemente odiare a morte.

Lo vedo che scambia un’occhiata dubbiosa con Tom e capisco che stanno cominciando a guardare la cosa sotto un’ottica diversa. La loro.

“Ma sì, infondo…” Tom fissa Georg con un sorrisino beffardo. “Perché non approfittarne? Bill non ha tutti i torti, no?”

“No,” conviene Georg, con lo stesso sorrisino. “L’addio al celibato è di rito.”

No, rettifico. A questi due non importa un fico secco di Gustav. Vogliono solo andare a vedere quelle ragazze mezze nude che si attorcigliano attorno ai pali e si atteggiano da pornodive. Francamente, non riesco a condividere il loro entusiasmo. D’altro canto, però, sono curioso di vedere la reazione di terrorizzata claustrofobia di Gustav quando lo avremo trascinato là dentro.

Già mi pregusto la scena…

 

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[ TOM ]

 

 

Bill è straconvinto di essersene uscito con la genialata del secolo con questa storia del night club, ma se devo essere sincero temo che un espediente simile non farà altro che convincere Gustav che la sua gnocca fidanzata sia un mogliettina perfetta ed ideale. Ed umile e morigerata, magari. Il che potrebbe anche essere vero, per qualcuno, ma per lui proprio no. A Michelle serve un ragazzo superficiale e/o smidollato, che non si curi di certi suoi vizi vanesi; a Gustav serve una ragazza semplice, senza fronzoli e manie di protagonismo (quindi, anche volendo, non potrei rifilargli Bill), che sappia accettare il fatto di dover condividere il suo cuore con la musica. In pratica, Gustav non troverà mai e poi mai un’anima gemella, figuriamoci l’anima gemella, ma di questo si dovrà preoccupare lui. Come dice sempre mia madre, quel ragazzo è troppo perfino per se stesso, qualunque cosa voglia dire.

Dopo aver definito i dettagli del piano Night Club durante il giorno, io e i ragazzi ci siamo organizzati per arrivare a casa di Gustav e coglierlo di sorpresa, in modo da non lasciargli il tempo di reagire. Michelle non è in casa, grazie al cielo, quindi l’operazione non dovrebbe risultare poi così complicata.

Fortunatamente a Bill non piace guidare di notte, quindi ha caritatevolmente lasciato Bonnie nel garage ed ha concesso a Georg di prendere la sua BMW.

Fra parentesi, prima o poi mi devo ricordare di fare un inventario del numero di auto che possiedono questi due, perché non sono troppo sicuro di saperlo con esattezza, ma dopotutto secondo me nemmeno loro lo sanno.

Lancio un’occhiata a Bill, rannicchiato sul sedile posteriore con la testa appoggiata all’enorme pancia bianca di Iwen. Non so perché se lo sia voluto portare dietro anche stavolta, ma ormai mi sono rassegnato alle stranezze di mio fratello, per cui, come si suol dire: beata ignoranza.

Abbiamo deciso che porteremo il caro Gustav in un posto che si chiama Hot Pants Party. Non ci siamo mai stati, ma abbiamo controllato il sito internet e sembra proprio un posticino niente male, pieno di ragazze a cui basta sentire il frusciare di qualche banconota per spogliarsi. Pare ce ne siano per tutti i gusti, dai più ordinari ai più bizzarri. Troveremo per forza qualcosa che piaccia anche al nostro neofidanzatino (presto neosingle, se qualcuno, lassù, ci ama).

“Ci siamo.” Annuncia Georg, accostando al marciapiede.

Siamo arrivati di fronte al condominio extralusso che ospita l’appartamento di Gustav e Michelle: è bianco e illuminato come se fosse un’opera d’arte in un museo, e l’ingresso è sorvegliato da due guardie in uniforme, impettite ed immobili come statue.

Dio, quanto se la tirano!

Sono le undici passate, penso, schifato, possibile che questa gente non abbia voglia di farsi una vita?

Scendiamo dalla macchina e ci avviciniamo al display dei citofoni. Bill tenta tre volte di comporre il numero corrispondente all’appartamento di Gustav, ma le sue unghie lunghe continuano a premere anche i tasti sopra. Alla fine, per evitare di insospettire le guardie, Georg lo scansa e digita il codice esatto.

Restiamo a guardarci incerti mentre il bip intermittente segnala la connessione all’interno 15 e aspettiamo.

In un modo o nell’altro, Gustav questa serata non se la scorderà facilmente.

 

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[ GUSTAV ]

 

Promemoria per il futuro: mai aprire la porta dopo le undici di sera, soprattutto se la tua ragazza è fuori a cena con suo padre e in casa non c’è nessuno che possa salvarti da folli incursioni semicriminose.

Io me lo sentivo che non avrei nemmeno dovuto avvicinarmi al citofono, ma quando ho visto nello schermo gli occhioni di Bill che mi sorridevano e lui, Georg e Tom mi hanno detto in coro “Rimpatriata stile vecchi tempi?”, ammetto di essermi lasciato trasportare dalla commozione, ed ho aperto.

Gravissimo errore.

Anzi, catastrofico errore, visto che non appena ho dischiuso la porta sono stato aggredito e brutalmente sequestrato dalla mia stessa abitazione, e poi costretto a seguire i miei rapitori nella loro BMW (nello specifico, quella di Georg, e, grazie al cielo, non quella di Bill, che è quanto di più atroce una macchina possa essere, sotto molteplici aspetti).

Ho protestato, ho fatto domande, ho minacciato, ma nessuno di loro mi ha degnato della benché minima attenzione. Si sono limitati a sorridere in modo strano, facendomi salire un’ansia indicibile. Era palese ed ovvio che avevano qualcosa in mente. Avevo solo troppa paura di scoprire cosa, per insistere a chiedere.

Quando poi abbiamo svoltato in una delle strade meno raccomandabili della periferia, ho capito di essere autorizzato a temere il peggio.

E infatti eccomi qui, nel club più squallido e di cattivo gusto di tutta Amburgo, inchiodato ad un tavolino, costretto a subire ridicole esibizioni di ridicole donne, tra cui alcune decisamente giovani ed altrettante decisamente mature, il tutto per un prezzo ridicolmente alto, che se non altro i miei tre fedeli testimoni hanno avuto la decenza di offrire. Come se questo potesse in qualche modo cambiare la mia opinione in merito a tutta questa buffonata imbarazzante.

Continuo a non riuscire a spiegarmi come sono finito qui, comunque. Sicuramente non sarebbero riusciti in questa follia, se Georg non avesse praticamente vissuto in palestra, negli ultimi tempi, ma una cosa è certa: voglio uscire.

Il cosiddetto “locale”, come l’ha edulcoratamente definito Tom, è uno strip club identico a quelli che si vedono nei film americani, fumoso e scarsamente illuminato, pieno di sedicenti ballerine che si dimenano sui banconi lungo le pareti.

Georg e Tom sembrano divertirsi un mondo: bevono dai loro boccali di pilsner e osservano soddisfatti le due rosse che “ballano” (se ballare si può definire un ancheggiamento fronte-retro nemmeno troppo aggraziato) di fronte a noi. Bill, invece, se ne sta ricurvo sul suo cocktail senza mai sollevare lo sguardo, ed ha l’aria particolarmente annoiata, e anche un po’ impaurita. In effetti ci sono diversi uomini dall’aria poco raccomandabile che da quando siamo entrati non hanno smesso un attimo di fissarlo in modo strano. Ho notato che la sua sedia si è lentamente spostata attorno al tavolo, fino a raggiungere Goerg, che però non lo considera di striscio.

Per quel che mi riguarda, avrei solo voglia di infilare la porta e sparire, tanto più che non riesco nemmeno a fingere di gradire l’improvvisata. Insomma, sto facendo del mio meglio per estraniami da questo schifo volgare, prego (invano, lo so) che tutto finisca presto e mi concentro sulla mia cocacola. Niente alcol, nemmeno una goccia. In posti come questo è sconsigliabile perdere  anche solo un grammo di lucidità.

Spogliarelliste da quattro soldi, ubrianconi pervertiti e cocacola: questo dovrebbe essere il mio addio al celibato.

Wow.

Per la verità non l’ho mai voluto un addio al celibato, ma se proprio lo dovevo avere, avrei preferito qualcosa di diverso, magari un po’ più elegante.

Cioè, lo so che dovrei apprezzare il pensiero, ma non mi sto divertendo affatto.

Sto per dire addio alla mia libertà, alla mia vita da single, alle nottate brave e alle pazzie in cui mi sono sempre lasciato trascinare da questi tre, e lo sto facendo…. Così.

Non so perché, ma sento un’improvvisa amarezza in bocca.

Sollevo un attimo gli occhi e vedo Bill con una faccia strana, appiattito contro un lato della sua sedia.

“Ciao bella,” gli sta dicendo un tizio sui quaranta che sembra appena uscito da una sessione di body building. “Cosa ci fa una cosina delicata come te in questa topaia di balordi?”

Vedo Bill che si ritrare stizzito, un’espressione di puro ed incomparabile orrore dipinta in volto. Ha gli occhi sgranati e il labbro inferiore che trema e, in tutta onestà, è uno spettacolo. Né Georg né Tom si sono accorti di niente, imbambolati a rimirare la rossa che ha cominciato a toglierswi strati di indumenti pressoché inesistenti.

“Non mi dirai che sei qui con il tuo ragazzo.” Insiste l’omaccione, sollevando lo sguardo su noi tre. Io mi affretto a guardare altrove, rifuggendo lo sguardo implorante di Bill, così lui è costretto ad arretrare ancora, annaspando alla cieca fino a che non riesce a conficcare i suoi artigli nel braccio di Georg, senza staccare nemmeno per un secondo gli occhi dal tizio.

Georg sobbalza e si volta corrucciato, pronto a rifilare a Bill qualche parolina gentile, ma Bill non gli lascia il tempo di aprire bocca.

“Sto con lui!” afferma, aggrappandosi a Georg con entrambe le braccia. Sorride nel modo più nervoso che io abbia mai visto e sarei già scoppiato a ridere, se il colosso umano non avesse un aspetto così minaccioso.

Georg impallidisce e tenta di scrollarsi Bill di dosso, ma lui lo tiene sempre più stretto e ancora un po’ che gli si avvicina, gli finisce in braccio, ma non escluderei che possa essere esattamente quello che vuole.

Il tizio scruta Georg, truce, e per un fugace momento temo seriamente che possa scatenarsi una rissa da cui nessuno di noi uscirà vivo, ma alla fine l’uomo grugnisce qualcosa e se ne va borbottando fra sé e sé.

“Gran bel posticino, vero?” commenta Tom, che non si è minimamente accorto di niente ed è ancora in fissa sulla rossa, che, me ne accorgo solo ora, porta una specie di maschera veneziana che le nascondo il viso Soltanto. Immagino sia il pezzo forte dello strip, l’ultimo che verrà lasciato cadere, e suppongo questo avverrà presto, visto che ormai è rimasta in bikini, e si tratta anche di un bikini particolarmente striminzito, che non lascia dubbi sul fatto che le sue doti frontali siano o meno frutto di un’evidente chrurgia plastica.

Mi astengo da ogni commento e prendo un sorso di coca, poi controllo l’ora: mezzanotte e mezza. Soltanto mezzanotte e mezza.

Siamo qui soltanto da una fottuta mezz’ora.

Come diavolo è possibile?

Ad un tratto mi accorgo che la rossa si è sciolta il nastro che le sorregge la maschera e se la sta sfilando con quello che devo supporre voglia essere un movimento sexy. Quando se la scosta dal viso, io, Bill, Tom e Georg non riusciamo a trattenere un moto di disgusto.

Non è affatto una ragazza, ma una donna di mezza età rifatta da capo a piedi la cui faccia è così carica di trucco che potrebbe tranquillamente togliersi una seconda maschera.

Lei evidentemente non ha notato la nostra reazione e deve aver interpretato il nostro stupore come attonita ammirazione.

Nulla di più sbagliato.

Inorridisco internamente mentre si abbassa e mi lancia la maschera di plastica con un sorriso che forse dovrebbe passare per seducente, ma che mi fa rivoltare la cena nello stomaco.

Sembra che questa donna abbia subito una specie di mummificazione al silicone: zigomi, labbra e diverse altre parti della sua anatomia a cui preferisco non pensare hanno l’aspetto rigido e plastico di pezzi di gomma impiantati e, sarò onesto, fanno abbastanza ribrezzo.

Mi fa un occhiolino, increspando le labbra contornate da infinite piccole rughe, poi si mette ad attorcigliarsi attorno al palo lì accanto, suscitando esclamazioni di approvazione da parte di molti ospiti del club. Noi sembriamo gli unici a non apprezzare, forse perché siamo anche gli unici sobri o quasi.

Tom appare sconvolto e Georg improvvisamente sembra quasi trovare allettante l’idea di tenersi Bill incollato addosso, piuttosto che guardare un simile spettacolo.

Butto giù il mio ultimo sorso di coca, proprio mentre la rossa scende gli scalini che conducono il piano del bancone al pavimento e si dirige verso di me, ondeggiando a destra e a sinistra.

Che qualcuno mi salvi. Chiunque, qualunque cosa…

Avverto una vibrazione nella tasca della giacca e trasalisco, sollevato. È come se qualcuno avesse ascoltato le mie preghiere: il mio cellulare sta vibrando.

Non ho la minima idea di chi possa essere a quest’ora di notte, ma non mi interessa. Con uno scatto mi alzo in piedi ed estraggo il cellulare.

“Esco un attimo a vedere chi è.” Comunico ai ragazzi e, prima che possano fermarmi o dire qualcosa, mi precipito fuori.

Una volta al sicuro nella strada semideserta, prendo un bel respiro d’aria fresca e finalmente controllo il display: è un numero che non conosco.

“Pronto?”

“Signor Schäfer, grazie al cielo! Non sa che spavento mi ha fatto prendere!”

Resto interdetto a fissare il vuoto avanti a me, un po’ disorientato da questo tono pieno di panico. È una voce che non mi sarei mai aspettato di sentire, non a quest’ora, non così spaventata.

“Tari?”

 

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A/N: dedicato ad Ali e Ale, per aver pazientemente atteso. Ali, sono in ritardo di almeno un paio di settimane, ma ce l’ho fatta. ^^ Ale, ti avevo promesso che avrei aggiornato lunedì, ma non ce l’ho fatta entro mezzanotte… è mezzanotte e sette, ho sforato di sette minuti… sorry. ^^

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Capitolo 9
*** Una Spalla Su Cui Sorridere ***


Osservo Tari che sorseggia la sua birra mentre si guarda intorno con occhi curiosi. Fa uno strano effetto vederla in questo contesto, in mezzo a gente così rumorosa ed espansiva – lei, così riservata e timida – ma, anche se ha l’aria leggermente spaesata, sembra trovarcisi bene. E poi devo ammettere che questa tonalità di verde le dona molto. Fa sembrare verdi anche i suoi occhi e si sposa bene con la sua carnagione chiara.

Scruta pensosa la superficie rovinata del tavolo, prendendo piccoli sorsi dalla cannuccia.

Sorrido fra me e me. Quanta gente al mondo, a parte Bill, è in grado di bere della birra con una cannuccia?

La risposta è fin troppo ovvia.

Alla fine tutta quell’urgenza che sembrava esserci nel suo tono al telefono era solo inutile apprensione: ha chiamato Michelle per chiederle se poteva passare a lasciare dei documenti da parte dei Leila e lei le ha detto che c’ero io in casa e che poteva tranquillamente dare tutto a me. Piccolo dettaglio: io in casa non c’ero, per via del sequestro subito da tre noti soggetti poco raccomandabili, quindi quando lei ha suonato e nessuno le ha risposto, ha subito pensato al peggio.

A dire la verità, mi veniva da ridere, al telefono, mentre mi raccontava tutto questo, perché quasi già immaginavo lei che chiama i pompieri, il pronto soccorso e chissà che altro, per poi scoprire che in casa in realtà non c’era nessuno. Sarebbe stato divertente, ma poi chi la sentiva Michelle, con la sua preziosa porta made in Paris sfondata e scardinata? Alla fine abbiamo deciso di incontrarci a metà strada per quei documenti, e tra una chiacchiera e l’altra, ci siamo infilati in questo pub.

Ad un tratto Tari solleva gli occhi ed arrossisce con un sorriso imbarazzato, accorgendosi di essere osservata. Le sorrido in risposta, portandomi il bicchiere alle labbra.

È incredibile come mi sia bastato poco per migliorare di netto il mio umore, non appena mi sono allontanato da quell’orrendo strip club. Erano anni che non mettevo piede in questo pub ed avevo dimenticato quanto fosse calda e accogliente la sua atmosfera. Michelle preferisce locali di classe, l’unica volta che l’ho portata in un pub come questo aveva quasi schifo a sedersi, e da allora non gliel’ho più nemmeno proposto.

Ma è bello essere di nuovo qui, è come un tuffo nel passato, un’immersione nei ricordi, quando tutto era semplice e non dovevo preoccuparmi di cosa indossavo, di cosa mangiavo o come mi comportavo. Quando io ero ancora io e non lo sconosciuto che sono diventato.

Ma cosa mi è successo, in questi anni?

Mi guardo intorno ed è come se fossi tornato sul sentiero principale dopo aver percorso un lungo tratto di deviazione. Passo in rassegna i volti ignoti eppure familiari di uomini, donne, ragazzi e ragazze, gente comune che, dopo una giornata di studio o lavoro, viene qui a godersi qualche ora di meritato svago. Nessuno di loro veste Gucci, nessuno ha una Porsche parcheggiata qui fuori, nessuno ha bisogno di milioni per divertirsi, per godersi la vita. Sono felici così, perché non hanno tutto, ma quanto basta.

Mi lascio sfuggire un sospiro abbacchiato.

“Va tutto bene?” mi chiede Tari, premurosa, sporgendosi un po’ in avanti, e nel farlo posa una mano sulla mia.

“Sì, tranquilla,” la rassicuro. “Stavo solo… riflettendo.”

Abbasso lo sguardo sulla sua mano, ma lei la ritrae all’istante e si ricompone in fretta, tornando a concentrarsi sul tavolo, le guance rosse.

Sorrido dei suoi modi impacciati e scuoto la testa. Non so cosa ci faccio qui con lei, a brindare a quello che avrebbe dovuto essere il mio addio al celibato (e che invece si è trasformato in un epocale disastro), ma so che sto bene.

Tari sembra farsi piccola piccola nella sua sedia, esile e delicata, goffa come suo solito, ma così adorabile e deliziosa, e io mi riscopro a pensare che… mi piace.

Tari mi piace.

Non so perché questo pensiero mi sconvolga tanto. In fondo lo sapevo già da un pezzo… Mi è piaciuta fin da subito, anche se era così strana, o forse proprio per quello. Non è mai stato un mistero che io la trovassi simpatica. E poi, perché stupirsi? È anche normale pensare una cosa simile. Dopotutto è una ragazza molto dolce, intelligente e simpatica, carina, sebbene in un bizzarro modo tutto suo, e poi… beh, non ne ho conosciute molte di persone così semplici e alla mano, negli ultimi anni.

Insomma, voglio dire… Che male c’è se mi piace?

Che male c’è se sono qui con lei a sorseggiare birra e fare quattro chiacchiere in tutta rilassatezza? È senz’altro un modo decisamente più intelligente di trascorrere una serata, piuttosto che inorridire davanti ad una schiera di volgari spogliarelliste siliconate. E più divertente.

“Oggi ho visto la versione definitiva dell’abito da sposa della signorina Keller,” esordisce Tari ad un tratto, riscuotendomi. “Lo trovo magnifico, molto lineare ma sontuoso… Sarete incredibili, all’altare!”

Lo dice con entusiasmo, ma il suo sguardo sembra appannato, probabilmente per via dell’alcol. A me non va di parlare di abiti da sposa, né di altari, e ancor meno di Michelle.

Non adesso, per favore. Ho bisogno di relax.

“Sì, penso di sì.” Rispondo vago, e bevo un altro sorso. È la seconda birra della sera e ancora non mi sento nemmeno un po’ brillo, anche se credo che vorrei esserlo.

Tari si spinge gli occhiali sul naso mentre con l’altra mano stringe il proprio bicchiere.

“Sa, sono convinta che il suo sarà uno dei matrimoni più belli che vedrò in tutta la mia carriera.”

Perché insiste? Perché dobbiamo per forza parlare di questo?

“Lei è un tipo molto dolce e paziente,” prosegue lei, imperterrita. “Sono certa che sarà un ottimo padre, un giorno.”

Tari ha questo potere innato: riesce a tirare fuori gli argomenti più spinosi ed imbarazzanti e a parlarne in completa disinvoltura, senza rendersi conto del disagio che provocano. È così ingenua, a volte, che proprio non so come possa essere l’assistente di un blocco di rigido pragmatismo come Leila.

Mi volto all’altra parte, fingendo di osservare un gruppo di uomini che gioca a freccette in un angolo della sala.

“No, non credo.” Ammetto a malincuore.

Questa volta non ne voglio parlare sul serio. Il fatto è che è un tasto piuttosto delicato e non mi va di toccarlo adesso. Io e Michelle ci siamo ritrovati a parlare di bambini, una volta, qualche mese fa, e lei è stata cristallina in merito: niente figli. Non vuole seccature inutili che ci sarebbero d’intralcio per il lavoro e che non avremmo il tempo di accudire a dovere.

Personalmente ho sempre pensato che avrei avuto dei bambini. Non mi dispiacerebbe fare il papà, ma effettivamente la tesi di Michelle ha molti punti validi, e forse, anche senza contare i vari tour e impegni ufficiali in giro per il mondo, non sono molto portato per questo ruolo.

Torno a guardare in avanti e scopro che Tari mi sta osservando.

“Non le piacerebbe avere dei bambini?” mi chiede, senza nascondere un certo stupore.

“Io e Michelle lavoriamo molto,” rispondo, forzando un sorriso. “Siamo spesso fuori casa dalla mattina alla sera… Sarebbe molto complicato.”

Lei batte le ciglia bionde e non demorde:

“La mia domanda era un’altra, però.” Mi fa notare gentilmente.

La guardo negli occhi e quasi mi sorprendo a scoprirla così seria e schietta. Non credevo, ma sa imporsi, quando vuole. Anche se avrei preferito che si impuntasse su qualche altra cosa. Tutto, ma non questo.

“Non ti ho ancora ringraziata per avermi salvato dagli inquietanti abissi della serata con quei tre.”

Tari inarca le sopracciglia. Sono bionde e naturali, leggermente più scure dei capelli, e probabilmente Bill le consiglierebbe di sistemarsele, ma personalmente trovo che stia bene così. È carina, Tari, in fondo, se la guardi con attenzione. Sono graziose le piccole e pallide efelidi che le punteggiano il naso e gli occhiali danno ai suoi occhi un po’ di risalto di cui pecca l’assenza di trucco. E, no, decisamente non è una per cui ci si girerebbe in strada, ma a suo modo sa affascinare.

Non che io mi senta in qualche modo affascinato da lei. Sono fidanzato.
“Era proprio così terribile?” mi domanda intanto Tari, apparentemente interessata.

Io mi porto una mano alla fronte con fare grave.
“Non puoi immaginare cosa sono in grado di architettare quei pazzi.”

“Personalmente i suoi amici mi piacciono molto.” Replica lei, in tono incolore. Quante possibilità ci sono che dica sul serio?

Irrisorie, credo.
“Davvero?”

Lei annuisce con una carte veemenza.
“Sono molto… genuini.” Afferma. “Lei, soprattutto, mi sembra il più ordinario di tutti. Cioè, ordinario in senso tutto positivo, voglio dire.” aggiunge in fretta, rossa come un pomodoro. “Non intendevo certo che non è speciale. Non che io la trovi speciale.” Farfuglia, sempre più rossa e adorabilmente imbarazzata. “O meglio, sì, ma... ecco…” Mi guarda disperata, annaspando tra le sue stesse parole, e io non posso che sorriderle comprensivo.

Sento qualcosa di caldo sciogliersi dentro di me. È una sensazione strana, che non conosco, ma che mi riscopro a gradire. Forse è l’alcol che inizia a fare effetto.

Strano, però, perché l’ho sempre retto bene.

“Tari, respira! Tranquilla, non ti accuserò certo di molestie sessuali per un paio di complimenti.”

“Pyydän sinulta anteeksi.” Farfuglia lei, in quella sua strampalata lingua dai suoni ancora più strampalati.

“Ok. Qualunque cosa tu abbia detto.”

“Le ho domandato scusa.” pigola. Sembra una bambina da quanto è imbarazzata.

“Ammetto che il finlandese mi affascina.” Rifletto io, come nulla fosse. “Ha tutti quei suoni arzigogolati e duri… dimmi qualcos’altro!”

“Che cosa?” mi chiede allora lei, battendo le ciglia. Io scrollo le spalle.
“Non so, quello che vuoi tu.”

Tari sembra pensarci su. Resta assorta per un po’, sondando il fondo del suo bicchiere come se là sotto possa trovare un suggerimento, poi a un tratto mi guarda, illuminata:

Oman taivaan tänne loin. Anna minun päästä pois.”

Ehm… sì.

“Per caso questo simpatico groviglio significa ‘Che ore sono?’?” tiro a indovinare.

Tari scuote la testa e sorride.

“A dire la verità è una poesia.” Mi rivela, gli occhi che le brillano. “O meglio, una canzone. Una delle più belle che siano mai state scritte, almeno per me.”
“E che cosa significa?”

L’ombra di un’emozione anima i suoi lineamenti in modo quasi impercettibile.

Quasi.
“Ho creato qui il mio paradiso personale. Lasciami andare via.” Recita, e la sua voce sembra rapita dalle sue stesse parole. Parole che mi entrano in testa e risuonano in modo strano – doloroso? – scuotendomi dentro.

“Di chi è?”
“Kuolema Tekee Taiteilijan, dei Nightwish.”

Ammetto di essere poco ferrato su questo gruppo, ma una cosa la so: qualche anno fa erano una band metal piuttosto famosa.

Metal.

Una band metal.

Tari.

Faccio fatica a metabolizzare il concetto.

“I Nightwish?” esclamo basito. Quasi mi vergogno di questo stupore che sa di sciocco pregiudizio, ma proprio non me l’aspettavo.
“Li conosce?” fa lei, speranzosa.

“Non molto, ma… i Nightwish? Tu?”

Tari mette su il broncio:
“Che c’è di strano?”
“Niente.” Rispondo subito. “È una sorpresa, tutto qui. Mi sa che Bill ha bisogno di ascoltare un po’ della tua musica. Magari impara qualcosa.”

“Signor Schäfer!” sbotta lei, tutta indignata, e io proprio non riesco a trattenere una risata.
“Beh, è vero. Non dico che sia un incapace, ma… insomma, bellissimo testo, punto.”

“Se avesse detto qualcosa di diverso, mi sarebbe toccato abbassare l’opinione che ho di lei.” mi avverte Tari, ed è quasi una minaccia.

“Ah sì?” Adesso tocca a me fare gli indovinelli. “La vuoi sentire un’altra poesia?”

Lei accoglie volentieri la sfida:
“Sentiamo.”
Come posso essere perduto? Nel ricordo, io vivo di nuovo. E come posso biasimarti, se è me stesso che non riesco a perdonare?

“The Unforgiven III, Metallica.” Risponde lei immediatamente, sicura, senza la minima esitazione.

Forse l’ho sottovalutata.
“Te l’ho fatta facile. Vediamo se sai questa: sono una porta girevole, ho già visto tutto questo, ricomincerò da capo, ma non posso iniziare finché non avrò visto la fine.”

Tari ci pensa un attimo, ma alla fine le tocca arrendersi:

“Passo.”
“End Over End, Foo Fighters.”

Lei inclina la testa di lato e arriccia un po’ le labbra.

“Bel testo, ma non sono il mio genere.”

“E quale sarebbe il tuo genere, sentiamo?”
“Qualcosa più tipo: ho dato inizio a qualcosa, ti ho costretto verso una certa direzione, ed era chiaro che tu non ci dovessi andare. Capelli pettinati e separati, tipico me…
Tipico me. Ho dato inizio a qualcosa, e ora non sono troppo sicuro.” Termino al posto suo una frase che conosco molto bene, ma che avevo dimenticato, e pensarci adesso mi dà una sensazione strana, quasi di disagio. “Non amo particolarmente gli Smiths, ma ammetto che questa mi piace abbastanza.”

“Non è certo una delle migliori, in quanto a base musicale.” Conviene lei. “Ce ne sarebbero un paio che dovrebbe ascoltare. Penso le piacerebbero.”

All’improvviso mi rendo conto di quello che sta accadendo: una conversazione sulla musica. Sto avendo una conversazione decente sulla musica con una ragazza.

Da quanto non accadeva?

Michelle e io stiamo insieme da un anno circa e ci conosciamo da poco più. L’ultima volta che abbiamo parlato di musica in modo semiserio è stato, se non sbaglio, a quella festa delle Pussycat Dolls che ha aiutato a organizzare, la conversazione era stata all’incirca così:

“Amore, sei in ritardo!”
“Avevo un concerto, Michelle, ricordi?”

“Ma che cosa ti sei messo? Vuoi farmi fare una figuraccia!”
“Non ho avuto tempo di andare a casa a cercare qualcosa di meglio.”

“Ah, lasciamo stare. Vieni, ti voglio presentare le artiste della serata.”

“Artiste?! Michelle, quelle sono pornostar che fanno finta di cantare. L’arte è un’altra cosa.”

“Oh, per l’amore del cielo! Saltiamo la solita diatriba sui nostri gusti musicali, per cortesia.”

Quella volta ho evitato di replicare perché non mi era sembrato il caso di intavolare una faida qualitativa tra Pussycat Dolls e Metallica nel bel mezzo di un party dedicato a quelle che sarebbero state le indiscutibili perdenti.

“Penso proprio che darò una seria possibilità agli Smiths.” Comunico a Tari. “Ho proprio voglia di qualche bella novità.”

Le sue guance sono deliziosamente rosate. Se ne sta lì e mi guarda senza più parlare, e mi sembra improvvisamente un po’ malinconica.

Piccola, assurda, buffissima Tari…

“Le posso fare una domanda invadente che sicuramente farei meglio a tenermi per me?” mi chiede a un tratto.

“Posso avvalermi della facoltà di non rispondere?”

Lei annuisce.

“La considererei comunque una risposta esauriente.”

“Allora spara pure.”

Tari si morde convulsamente il labbro. La sua indole discreta sta visibilmente lottando contro uno slancio di curiosità e penso proprio che stia per fare la fine delle Pussycat Dolls contro i Metallica.

“Ha mai pensato di lasciare i Tokio Hotel?”

La domanda delicata suona strana in mezzo al chiacchiericcio vivace del pub.

Sento le mie labbra distendersi in un sorriso comprensivo. In un certo senso, posso dire di essermelo aspettato. Non so come mai… ce l’aveva come scritto in faccia.

Suppongo sia una di quelle occasioni in cui una bugia potrebbe essere condonata e giustificata dalla necessità diplomatica. Potrei mentire. Dovrei, forse…

No, non penso che lo farò, dopotutto.

Mento sempre, a chiunque. Per una volta posso semplicemente dire la verità. Una volta soltanto.

“Ci ho pensato diverse volte.”

Tari, diversamente da qual che mi ero figurato, non sembra sconvolta né compassionevole. Mi sorride e basta, in un modo saccente che mi fa pensare che, come io avevo previsto proprio quella domanda, anche lei abbia previsto proprio questa risposta, e non ne sia affatto rimasta delusa.

“A questo punto mi dovresti chiedere cosa mi ha sempre spinto a rimanere.”

Lei sembra genuinamente perplessa.

“Nessuno che abbia avuto modo di conoscere lei e i suoi amici e vedervi insieme potrebbe mai fare una domanda così inutile.”

Qualcosa si blocca tra la mia gola e lo sterno. Non so bene cosa sia, ma provo un improvviso moto di affetto verso i tre squilibrati che stasera mi hanno regalato questo aborto di addio al celibato da cui sono così felicemente scappato.

È difficile avere a che fare con tre idioti simili. È difficile per me, molto spesso, attutire gli attriti che i loro caratteri rumorosi ed esuberanti creano con la mia introversione patologica.

Non oso immaginare, però, quanto debba essere difficile per loro sopportare uno scorbutico lunatico come me.

Lo fanno e basta. Lo faccio. Lo facciamo.

Siamo cresciuti insieme, che diamine.

Ci siamo cresciuti l’un l’altro.

Beh, a parte Bill… lui non crescerà mai. Ma lui raramente fa testo, in ogni caso.

Sollevo lo sguardo su Tari, commosso dalle riflessioni che mi ha inconsapevolmente suscitato. Lei ricambia con occhi languidi, e quando dico languidi, non intendo in senso seducente: sembra che non si senta del tutto bene.

“Tari.. che succede?” chiedo, un po’ preoccupato.

Lei si porta una mano alla fronte, strizzando gli occhi con una piccola smorfia.

“Mi sento la testa leggera come un palloncino.”

“Forse la birra irlandese è un po’ più forte di quella tedesca.”

“Lo temo anch’io.” Rantola lei.

Va bene, forse è ora che ce ne andiamo di qui. Ci siamo già trattenuti fin troppo.

“Vieni,” le dico ridendo, mentre mi alzo e la aiuto a fare lo stesso. “Ti serve un po’ d’aria fresca.”

Pago al barista e usciamo, a passo non proprio stabile. Tari barcolla al mio fianco come se si fosse ingollata venti vodka pure a stomaco vuoto, quando invece ha preso solo una misera birra media.

Fuori è buio, e l’aria della notte è frizzante e piacevole. Non so nemmeno che ora sia.

Äiti, perché hai spento la luce?” geme Tari, aggrappata non troppo saldamente al mio braccio.

Äiti?

Di che diamine sta parlando?

“Sediamoci qui un momento.” Le dico, sforzandomi di non ridere. La accompagno verso il muretto che separa lo spiazzo antistante l’ingresso del pub e il parcheggio e prendo posto accanto a lei. Sono costretto a sorreggerla per impedirle di accasciarsi su sé stessa. È un bel po’ brilla, poverina.

Sempre stretta al mio braccio, Tari si appoggia alla mia spalla con il viso e gli occhiali le si stortano tutti.

“Sei davvero comodo, signor Schäfer.” Sospira, come se avesse appena pronunciato la cosa più bella e struggente di questo mondo. L’alcol deve proprio averle dato alla testa se le ha addirittura fatto scordare di darmi del lei.

Perso nei miei pensieri, sussulto nell’udire un lieve rumore nasale. Abbasso lo sguardo e mi accorgo che Tari si è addormentata. E sta russando.

Minä rakastan sinua.” Mormora, incosciente, e si abbandona a un sospiro beato.

Qualunque cosa abbia detto, le credo sulla parola.

Stasera la mia forza di volontà sta subendo una pressione notevole, ma giuro che non riderò. Anche perché se ridessi, lei si sveglierebbe, e la sua espressione è così serena e pacifica che mi sentirei un verme a disturbarla. Non che possiamo restare qui così tutta la notte, ovvio. Però…

Solo per un po’.

Non c’è niente di male.

Qualche minuto soltanto…

 

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A/N: ok, non ho scusanti, quindi non sprecherò nemmeno inutili parole in sproloqui chilometrici sulla mia inettitudine. Più di un anno per aggiornare… che vergogna. Qualcuno nemmeno ci crederà. Ma avevo detto che non avrei abbandonato la storia, e quindi eccomi qui, anche se non so quando riuscirò ad aggiornare di nuovo. Spero presto. Perdonate la mia incostanza, ma sono finalmente riuscita a mettermi a lavorare in modo serio a un’idea che avevo da un po’ per un libro e quindi mi porta via tanto tempo e, per fortuna e sfortuna, a seconda dei punti di vista, anche tanta inspirazione.

Non so se qualcuno si ricorda ancora di questa storia e, se fosse, non vi potrei biasimare… mea culpa, lo so. Se però, o coraggiosi lettori, qualcuno di voi avesse ancora memoria di queste antiche vicende e volesse comunque lasciare un commento di bentornato (o un inno ai miracoli, che dir si voglia), lo apprezzerò moltissimo. (ah, prima che qualcuno lo chieda: la frase in finlandese dell'ultimaq parte ve la tradurrò a suo tempo, quando sarà il momento ;) ) J

Grazie a tutti!

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