Summer Vacation.

di Lauur
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** Quattro. ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Adorato e venerato Fandom. HI!

Manco dalle scene da un po’, causa crisi varie e variopinte (ancora in corso), ma stasera ho deciso di rispolverare questa cosa che stava nel mio pc da tempo immemore e di condividerla con voi. 
La storia è quasi del tutto scritta, quindi gli aggiornamenti saranno "garantiti e regolari".
La trama della storia prende spunto da un corto del 2012, Summer Vacation appunto, scritto e diretto dagli israeliani Tal Granit e Sharon Maymon,
 purtroppo non ancora reperibile in rete. Qualora riusciste a trovarlo grazie a mezzi a me sconosciuti, non esitate a segnalarlo!
 
Prima di lasciarvi alla lettura, urge un'ulteriore precisazione, oltre alle note che ci saranno alla fine.
 
La storia si svolge sedici anni dopo il ritorno di Sherlock; ma così facendo Sherl e John sarebbero troppo vetusti, onde per cui ho deciso di modificare leggermente l’età dei nostri prodi al momento del loro primo incontro: nel mio simpatico mondo John aveva trentatre anni e Sherlock trenta.  
 
Detto ciò, buona lettura,
ci vediamo in fondo.
Lauur

 
 


SUMMER VACATION



Uno


 
- Molly - disse John voltandosi verso la massa di capelli rossi che apparteneva a sua figlia - ti ho detto mille volte di mettere la crema sul naso! O vuoi che diventi un peperone, signorina!
 
- Si papà, che palle! - replicò a mezza voce la ragazza, visibilmente scocciata.
 
- Cosa? Che..COSA? - esclamò il padre sconvolto - Marie, hai sentito cosa ha detto tua figlia?
 
- John - disse Marie1 con fare divertito - fino a prova contraria è anche tua figlia.
 
- Beh, si. - replicò il marito - Ma ciò non nega la gravità di ciò che ha detto!
 
- Su John, per l'amor del cielo non essere melodrammatico. Siamo in vacanza - sbuffó Mary scostandosi il grande cappello di paglia da sopra gli occhi verdi. Era bellissima. - Molly Watson - continuò - non dire più nulla del genere a tuo padre, è troppo sensibile. E metti un po' di crema su quel povero naso.
 
Molly rovesciò gli occhi, gli occhi di sua madre, all'indietro e si diresse con passo lento verso la sua borsa da mare. Prese a spalmarsi la crema solare sul  naso, e John la guardò con gli occhi di un padre innamorato.
 
- Papà… - fu la voce di un ragazzo che sta facendo di tutto per essere un uomo a riscuotere John dai suoi pensieri.
 
- Papà!
 
- Si, James?
 
- Ti ricordo che hai perso una scommessa! Devi pagare il tuo debito! - disse il figlio guardandolo dritto negli occhi.
 
- Beh…tecnicamente… - tentò di ribattere John, con ben poco successo.
 
- Si, è vero papà! - si accodò immediatamente Molly, interrompendolo - e noi dobbiamo scegliere la penitenza più adatta!
 
- In realtà io l'avrei già scelta... - annunciò James con fare teatrale, dirigendosi complice verso la sorella.
 
I due ragazzi parlottarono per qualche minuto, tra risolini e sbuffetti divertiti, e alla fine proclamarono la loro sentenza a un John Watson che non sapeva se essere spaventato o divertito.
 
- Io, - iniziò a declamare il figlio maggiore - James Gregory Watson, supportato dall'importante, ma non fondamentale, Molly Watson - si interruppe un attimo per scoccare uno sguardo alla sorella che gli stava mostrando in maniera impertinente la lingua - dichiaro che John Hamish Watson è condannato a essere sepolto dalla sabbia sul bagnasciuga dal pomo d'adamo in giù!
 
- NO! - tuonò John, rispolverando tutta la sua autorità militare. - Non se ne parla nemmeno! Ma che accidenti di penitenza è!?
 
- Papà! - rispose il figlio ironico - Non ti ho mica proposto di farti imbottire di tritolo! È solo sabbia!
 
John lo fulminò con lo sguardo, ma fu Marie a prendere la parola.
 
- Jim, non esagerare. - ammonì il figlio - E tu John, prendila con filosofia, infondo le sabbiature fanno bene!
 
La erre arrotata della moglie, che tradiva dolcemente le sue origini francesi, aveva sempre fatto capitolare John; ma quella volta non volle desistere.
 
- Ho detto di no. - ripeté, categorico
 
- Madre! - iniziò allora James con il fare di chi ha appena ricevuto la delusione più grande della sua vita - Hai sposato un uomo che non onora le scommesse. E quest'uomo è anche, disgraziatamente, mio padre. Quale insegnamento di vita dovrei trarre dal suo atteggiamento? Quale virtù dovrebbe...
 
- Basta ti prego, James! - lo interruppe il padre esasperato - Impanatemi pure.
 
- Si! Lo sapevo! - esclamò James - Molly, iniziamo!
 
 
***
 
 
 - Bene - disse John, guardando dal basso in alto i suoi figli - adesso che sono qui sepolto come un’idiota, cosa vi aspettate che io faccia, ragazzi?
 
- Non credi di certo che dopo tutta questa fatica ti possiamo già tirare via di lì! – ribatté Molly con fare petulante.
 
- No infatti papà – rincarò la dose James – ti aspetta almeno un’ora lì sotto…o due forse!
 
- Ragazzi! – urlò Marie da sotto l’ombrellone. Un sorriso cristallino dei suoi a illuminarle il volto – Venite a mangiare un po’ d’uva!
 
- Cosa? – disse John esterefatto – Io sto qui in mezzo a questa fanghiglia e voi mangiate l’uva?
 
- Papà – ammiccò Molly, ormai arrivata sotto l’ombrellone insieme a James – dici sempre che la frutta è importante, e che noi ne mangiamo poca!
 
John sorrise, pensando che i suoi figli adolescenti fossero troppo scaltri per lui, un uomo che aveva superato la cinquantina da un po’.

Per fortuna aveva Marie, la bellissima e brillante Marie, ben più giovane e in forze di lui.
La stessa Marie che si stava avvicinando a lui con fare suadente, con un acino d’uva tra le labbra.
 
- Povero, povero papà – biascicò sua moglie con voce sensuale – forse vuole un po’ d’uva anche lui…
 
Non appena Marie si fu sdraiata per porgere, con le labbra, il chicco al marito, in un coretto di scherno dei loro due figli, un’onda abbastanza forte colpì i due coniugi in pieno.
 
- Ragazzi – disse John, leggermente allarmato – credo che sia meglio che mi tiriate fuori di qui, sta diventando pericoloso.
 
Mentre proferiva queste parole, un’altra onda investì in pieno John.
Il panico iniziò a impadronirsi di Marie, mentre cercava, con scarsi risultati, di liberare il marito dalla morsa della sabbia bagnata.
 
- Venite subito qui! – urlò terrorizzata, all’arrivo della terza onda – Aiutatemi.
 
Jim si precipitò ad aiutare la madre, cercando alla bell’e meglio di tenere la testa del padre al di sopra del livello dell’acqua.
 
Molly, invece, andò a chiedere l’aiuto ai loro vicini di ombrellone, due uomini che si resero subito disponibili ad aiutare John, mettendosi immediatamente a scavare insieme a Marie e Jim.
 
John, dal canto suo, preferì non farsi prendere dal panico, o almeno fu quello che cercò di dare a vedere alla sua famiglia.
 
Ma dentro sentiva serpeggiare un timore antico, che lo riportava a vecchie battaglie, dove la sabbia era asciutta, ma non meno insidiosa.
L’aveva scampata mille volte, era sopravvissuto a pallottole e a molto, molto peggio…a cose troppo dolorose da poter ricordare.
 
Non poteva davvero morire così, per colpa di uno stupido gioco finito male.
 
L’ultima cosa che vide, prima di perdere i sensi, fu un baluginio di un indefinibile azzurro, che, avrebbe giurato, non apparteneva affatto ai riflessi dell’acqua marina.
 
 
***
 
 
- La tua testa sbucava da lì come un’enorme… un’enorme patata, papà! – ammise tra le risa Molly, guardando il padre con i suoi occhi più brillanti.

- Grazie, cara. Davvero gentile! – disse John facendo finta di mettere il broncio. – È del tuo padre-quasi-morto che stai parlando!

- John, ci siamo presi un grande spavento – disse Marie posandogli un bacio delicato sulla tempia sinistra. – Ma, grazie a Dio, adesso abbiamo la fortuna di poterci ridere su. Lasciacelo fare.

Marie. Lei e la sua capacità di mettere ogni tassello al proprio posto. Con semplicità e pacatezza.

- Già, è vero, papà – aggiunse James, prendendo una pannocchia tostata dalla ciotola che si trovava al centro della loro panca da pic-nic. – La situazione era abbastanza tragicomica, ammettilo!
John si limitò a sbuffare, tradito però da un sorriso che stava affiorandogli sulle labbra.
Un sorriso che si spense quando vide sua moglie alzarsi da tavola per andare in contro a due uomini alti ed abbronzati, più giovani di lui.
Gli uomini che avevano contribuito a salvargli la vita.
 
- Ragazzi, John – disse Marie con fare da padrona di casa – vi presento Victor e Sherlock, i nostri eroi!
 
- Su, Marie, non esageri! – si affrettò a dire Victor, in uno slancio di modestia – Chiunque, al nostro posto, avrebbe fatto lo stesso.
 
- Oh, io non lo darei tanto per scontato! – cinguettò Marie all’uomo – Ma prego, prego accomodatevi, unitevi a noi per mangiare qualcosa. È il minimo che possiamo fare per voi!
 
Lo sguardo della donna cercò quello del marito, come a richiedere una sorta di approvazione per il suo gesto d’ospitalità, e come invito a pronunciare delle parole di benvenuto e di ringraziamenti verso quegli uomini che avevano fatto tanto per lui.
 
In risposta però trovò solo una maschera imperscrutabile, costituita da sopracciglia aggrottate e mascella serrata.
 
- Tutto bene, amore? – John la sentì sussurrare.
 
- Io… - iniziò balbettando l’uomo – io si, deve essere stato lo spavento di prima a avermi messo un po’ di confusione in testa. Beh – aggiunse poi voltandosi verso i nuovi arrivati – credo di dovervi dei ringraziamenti.
 
- In realtà, ci devi la vita.
 
Furono queste le prime parole pronunciate, con tono greve, dall’uomo introdotto da Marie come Sherlock.
Era alto, con una folta coltre di boccoli sale e pepe, che un tempo dovevano essere stati corvini. Aveva una bellezza altera, coronata da un paio di occhi di un azzurro cangiante che sembrava potessero leggerti dentro.
 
- Sherlock! Che modi! – esclamò Victor con un gridolino – Scusatelo, ma a lui piace essere così un po’…come dirlo senza essere offensivi? Teatrale. Ecco.
 
- Credo solo di aver detto la verità. – disse a mezza voce l’uomo, incatenando gli occhi a quelli di Marie – O forse mi sbaglio?
 
La donna arrossì, trovandosi investita da quello sguardo penetrante, e si limitò ad annuire con un impercettibile cenno del capo.
 
- Che ne dite di fare un brindisi? – si risolse infine a dire – Prima però, ragazzi, è meglio che andiate a letto. È tardi, ed è stata una giornata intensa.
 
- Ma mamma, noi… - provò a ribattere James con fare petulante.
 
- Niente ma né però, James. – intervenne John, in maniera risoluta.
 
I due ragazzi andarono via dal giardinetto borbottando, e biascicando dei poco convinti buonanotte.
 
- Quindi – riprese Marie, una volta che i ragazzi ebbero imboccato il vialetto per il loro bungalow – facciamo un brindisi ai due uomini che hanno salvato mio marito, il mio adorato John!
 
Marie alzò in aria il suo bicchiere incitando gli altri a fare lo stesso. Non riusciva a spiegarsi del perché l’aria intorno a quella panca da pic-nic fosse così tesa. Pensò che i suoi ospiti fossero molto timidi.
Ma quello che davvero non riusciva a capire era perché John si stesse comportando in quel modo.
 
- Beh, ma da queste parti non c’è proprio nulla da fare dopo il tramonto? – le parole di Victor, per quanto fuori luogo, furono un’ancora di salvezza a cui Marie si decise ad aggrapparsi per risollevare le sorti della serata; suo marito, però, decise di batterla sul tempo.
 
- Questo è un posto per famiglie. – disse John impassibile, sfiorando con lo sguardo il volto del compagno di Victor.
 
- John… - iniziò Marie, visibilmente imbarazzata per l’ingiustificata reazione del marito – John intende dire che qui tutti hanno bimbi piccoli, per questo non c’è una vita notturna degna di nota!
 
- Oh! – rispose l’uomo con fare affabile, come se non avesse colto il commento acido di John – In fin dei conti a noi non importa, vero Sherl? – intrecciò le dita della mano destra a quelle affusolate della sinistra del compagno -  Siamo qui in vacanza, sole, relax e…
 
Marie sorrise di cuore all’allusione di Victor e spostò il proprio sguardo sugli occhi magnetici di Sherlock, che sembravano non stare fermi più di due secondi nello stesso punto.
 
- Quindi anche voi siete una coppia affiatata! – disse la donna con fare tenero e divertito, cercando di scatenare una qualsivoglia reazione in Sherlock, ma fu sempre Victor a risponderle.
 
- Affiatata si, ma non abbiamo di certo bambini! Figurati, con il lavoro che fa Sherl!
 
- Ah si? – incalzò Marie, sempre più curiosa, ignorando il marito a cui sembrava essere andato di traverso l’ultimo sorso di vino – Perché Sherlock, che lavoro fai?
 
John sbuffò, contrariato, mentre Sherlock posava nuovamente lo sguardo su Marie.
La fissò un po' troppo, come per soppesarla, ma quando Victor aumentò leggermente la pressione sulla sua mano, l'uomo aprì la bocca per rispondere.
Proprio in quel momento, però, il telefono di quest'ultimo prese a suonare.
Una musica celestiale riempì l’aria, e Marie riconobbe subito quelle che erano le note più intense dell’intermezzo della Cavalleria Rusticana2, eseguite magistralmente da un violino.

- Ti prego, non rispondere! – disse la donna con una voce più stridula del solito, riuscendo a catalizzare su di de l’attenzione di tutti e tre gli uomini contemporaneamente.

- Veramente dovrei. – sibilò Sherlock.

- No, per favore, voglio sentirla! – insistette Marie con fare da bambina – È una coincidenza incredibile, vero John? Sapete – continuò la donna raggiungendo il marito e abbracciandolo dolcemente da dietro – questa è la musica sulle cui note John mi ha chiesto di sposarlo! È da una vita che non l’ascoltavo.

Sherlock guardò i coniugi con fare incredulo, per poi osservare Marie chiedere al marito di concederle un ballo sulle note dell’opera. Lui rifiutò.
Un sorriso sghembo si dipinse sul suo volto.

- Beh, John, non è da gentiluomini rifiutarsi di ballare con una dama così bella. – disse con fare sornione, porgendo la destra alla donna, in un chiaro invito a danzare.

Marie arrossì violentemente, ma non esitò un attimo ad accettare.
Non appena Sherlock cinse la vita della donna per dare inizio alle danze, il suo cellulare smise di suonare.

- Che disdetta, il ballo è annullato – disse John a denti stretti.

- Oh, no! – piagnucolò Marie triste. – Per favore, Victor, potresti far squillare il telefono di Sherlock nuovamente?

- Mi dispiace, cara – rispose l’uomo, dispiaciuto. – Ma ho lasciato il telefono nel bungalow.

- Ah! Beh, allora, John – disse lei, decisa a non demordere. – Ti prego, potresti farlo tu?

Il marito la guardò con enorme disappunto, ma davvero non riuscì a dirle di no. Prese il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e, con lo sguardo fisso sulla tastiera, chiese:

- Numero?

Sherlock iniziò a dettare le cifre, cercando invano lo sguardo di John con il suo.

Quando John premette il tasto di avvio della chiamata, la musica tornò ad avvolgerli trasportandoli via da lì, in un altro tempo, come in una bolla argentata.

Victor iniziò a guardare Sherlock e Marie danzare con fare divertito. 
Aveva sempre pensato che il suo uomo avesse un che di aristocratico e vederlo lì, su una spiaggia del Nord della Francia a improvvisare un valzer con una sconosciuta, non fece che confermare la sua teoria. 


Si ritrovò, poi, a fissare il cellulare di Sherlock, e notò un dettaglio che gli fece gelare il sangue nelle vene.

Lì dove avrebbe dovuto esserci scritto Numero Sconosciuto, il nome John lampeggiava insieme all’avviso di chiamata in entrata.

Si alzò di scatto, senza dire una parola, andando via a grandi falcate verso il proprio bungalow. 


Nello stesso istante, la musica cessò.







Note:

1 Per necessità di svolgimento e trama Mary diventa qui per noi Marie, cambiando nazionalità: da inglese a francese.
2 La Cavalleria Rusticana è un'opera in atto unico, scritta da Mascagni nel 1890, basandosi sull'omonima novella di Verga, storia di passione, amori e tradimenti. La parte qui citata è un intermezzo sinfonico tra la nona e la decima scena, http://www.youtube.com/watch?v=be5JYY4Wuvo , qui in versione per violino.

Se siete arrivati fin qui senza desistere, hey, siete stoici!
Spero che avrete voglia di leggere il seguito di questa storia...
A presto
Lauur

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Capitolo 2
*** Due. ***


 
Due.

 

John aveva sempre adorato la spiaggia di Roscoff1
Soprattutto quando il sole lambiva con i suoi raggi rosati l’incresparsi delle onde, proprio come stava accadendo in quel momento.
La quiete del mare, l’isola all’orizzonte, l’aria da cartolina anni '50... avevano il potere di trasmettergli e infondergli una calma interiore che aveva cercato per anni ed anni.
Solo una persona avrebbe potuto distruggere l’equilibrio che quel posto magico gli regalava.
E, guarda caso, quella persona era seduta sulla battigia, gambe incrociate e sguardo perso nell’orizzonte, con i riccioli sale e pepe scompigliati dal vento.


- Sei invecchiato, John – fu il suo buongiorno.


- Anche io ti trovo bene, Sherlock – replicò John, senza guardarlo in volto. – Credo comunque che dovrei denunciarti per stalking.

Lo sguardo di Sherlock lo investì in pieno e si sentì annegare molto più del giorno precedente, quando la marea aveva deciso di fargli quel brutto scherzo.

- John, non essere ridicolo! – disse lui con il suo consueto tono baritonale. - Coincidenze. Per coincidenza mi trovo qui, in questa sperduta spiaggia francese. Per coincidenza ti ci trovi anche tu. Per coincidenza mi devi la vita.

- Ben tre coincidenze? – sbuffò John, decidendosi a sostenere lo sguardo dell’uomo che gli sedeva accanto. – Dov’è il tuo amico?

- Dov’è tua moglie? – ribatté Sherlock, sottolineando la parola moglie con marcato sarcasmo.

- L’ho chiesto prima io – lo incalzò Watson, irremovibile.

- È partito. Salpato con il primo traghetto di stamani. Abbiamo avuto una discussione – asserì l’uomo, come se stesse parlando del meteo.

- Una discussione? – ripeté John, vagamente inquietato.

- Ha discusso lui, più che altro. A me non andava. Sai, però, pare gli sia risultato sospetto che il numero di un perfetto sconosciuto fosse registrato nella rubrica del mio cellulare sotto il nome “John” – rispose con perfetto tono monocorde. - In fin dei conti è più sveglio di quanto pensassi. Lo stesso, però, non si può dire di tua moglie. Non si è accorta di nulla, o sbaglio?

- Cosa diamine c'entra adesso Marie! - rispose John, rosso in viso. - Non avrebbe mai potuto vedere il tuo dannato cellulare sul tavolo.

- Certo, certo... - annuì Sherlock con falsa accondiscendenza. - E poi, anche se avesse potuto vedere, dubito che avrebbe afferrato, brilla com'era...

John decise di fare cadere quell'ennesima provocazione. Conosceva Sherlock da tempo, anche se non lo vedeva da molto, ed era ben consapevole di quali mezzi usasse per "sostenere una conversazione".
Optò, quindi, per l'utilizzo dei suoi stessi mezzi.
 
- Credo che nemmeno lasciare il mio numero registrato in rubrica sia stato un colpo di genio - John pose particolare enfasi su quell'ultima parola, prima di continuare. - Perché lo hai fatto Sherlock? Non ci vediamo da dieci anni.
 
- Che senso avrebbe avuto? - disse Sherlock, con tono piatto. - Non è cancellando un numero che ci si scorda di una persona, ma cancellando ricordi, e da posti ben più scomodi ed inopportuni di una rubrica telefonica.
John, sentendo quelle parole, cercò lo sguardo dell'uomo, ma non lo trovò. Era nuovamente impegnato a scrutare il mare.
 
- L'hai fatto, John? - incalzò Sherlock, incoraggiato dal silenzio dell'altro. - Mi ha cancellato, ad esempio, dalla tua coscienza?

A John iniziò improvvisamente a mancare l'aria. Cosa diavolo ci faceva lì, su una spiaggia a parlare di coscienza con Sherlock Holmes?
 
- È meglio che vada - disse a mezza voce, alzandosi.
 
- Non sarebbe la prima volta - replicò acido Sherlock, aggiungendo un acido: - Desumo dunque che tu l'abbia fatto.
 
- Fatto cosa, di grazia? – chiese John, non riuscendo a trattenersi.
 
- Cancellare me dalla tua coscienza – disse con un ghigno – O dal tuo cuore.
 
John strinse i pugni finché le nocche non gli diventarono bianche.
 
- È stata solo una fottuta notte, Sherlock – sibilò. – Un fottuto errore di dieci anni fa. E non ha avuto alcuna importanza.
 
Sherlock si voltò e fissò John con il più limpido dei suoi sguardi. Nonostante stesse fissando l’uomo dal basso verso l’alto, emanava un’aura di estrema sicurezza e potere.
 
- Come è stato toccarla dopo, John? – gli chiese con estrema naturalezza.
 
Ma non ricevette alcuna risposta.
 

***

 
La pelle di Marie era calda. Calda e cosparsa di nei. 
Si muoveva silenziosa sotto John che la ricopriva di piccoli baci umidi su tutto il corpo, sorpresa dal dolce risveglio di quella mattina.
Quando John era rientrato dalla sua passeggiata, che gli era costata un’estrema dose di pazienza e un’altrettanto enorme valanga di sensi di colpa, aveva pensato che l’unico modo per farsi perdonare da un’ignara Marie fosse quello di amarla.
In realtà cercava, nei gesti lenti e rassicuranti che avevano sempre contraddistinto il loro modo di fare sesso, un’indulgenza per se stesso. Per la sua coscienza.
 
Come è stato toccarla, dopo?


Era stato difficilissimo. 
La cosa più difficile della sua vita, più che uccidere degli uomini in Afghanistan, più che essere imbottito di tritolo da uno psicopatico. Aveva tradito la donna cha amava, e non poteva perdonarselo. Gli riusciva difficile persino dopo dieci anni.
 
Aveva sfiorato con un indice i seni di sua moglie, provocando in lei un leggero brivido di piacere, che l’aveva scossa dal sonno.
L’espressione di dolce stupore dipinto sul suo viso le aveva regalato un bellezza disarmante e John aveva pensato che la sua, di coscienza, aveva fatto bene a tacere per tutti quegli anni.


Aveva sollevato la camicia da notte di Marie con estrema facilità, rivelando il corpo tonico e armonioso della moglie. Ci era voluto solo un attimo per liberarla del resto.
Lei, dal canto suo, lo aveva osservato con amore e una punta di malizia, decisa a ricevere tutte quelle attenzioni senza fare nulla, godendo della devozione che il marito le stava dimostrando.
Le mani di John erano scese sui fianchi della moglie, che avevano vibrato sotto il suo tocco. Con un rapido colpo di reni era sopra di lei, e la ammirava estasiato.
Come avrebbe mai potuto perderla?
Come, anche solo per una notte, aveva potuto pensare di sostituire quella pelle meravigliosa e calda - di donna - con quella di un altro?


Marie lo aveva accolto con un piccolo gemito di piacere, e John aveva iniziato a spingere delicato e dolce dentro di lei. 
Ma ad ogni affondo, una voce baritonale si faceva più spazio nella sua testa.
 
Come è stato toccarla, dopo?
 
John scosse la testa, cercando di scacciare quel tarlo, mentre il numero di spinte aumentava, insieme alla loro intensità, insieme alla sua voglia di liberarsi dai sensi di colpa.
 
Poteva vedere il piacere liquido prendere possesso degli occhi della moglie, tramutandone il colore da verde foglia a verde smeraldo.
 
John si ancorò ad essi con i suoi, cercando di non perdere la concentrazione a causa della voce, mentre sentiva l’orgasmo montare dentro di lui.
 
Ma fu proprio mentre il piacere prese il sopravvento, in quel preciso istante in cui ogni cosa perde la sua dimensione reale e tutto diventa sfocato, che gli occhi di Marie lo tradirono.
Il loro verde smeraldo si tramutò in un azzurro indefinito screziato di tempesta.
John fu costretto a distogliere lo sguardo.
 

 
***

 
Il senso di colpa aveva deciso di annidarsi definitivamente nell’animo di John Watson.
Guardava se stesso abbracciato a quella donna che gli aveva sempre dato tutto e non poteva fare a meno di provare uno spiacevole senso di nausea.
E la colpa era solo sua.
Fu lei a interrompere quel silenzio che aveva due significati totalmente opposti per i due coniugi.

- Amore – disse con la voce ancora impastata dal piacere e gli occhi socchiusi. – Andresti a vedere cosa combinano i ragazzi?

- Mmm, sì, certo – rispose John, ringraziando mentalmente la moglie per avergli concesso l’occasione di uscire da quella stanza.
 
John si concesse una doccia veloce, durante la quale si impose di non pensare a quello che era appena successo. 
Soprattutto dovette sforzarsi di non pensare a Sherlock Holmes, ma fu tutta fatica sprecata.
Si erano amati. 
Era vero. 
Era durata poco più di un anno. 
Con il passare del tempo aveva archiviato la loro storia come il semplice bisogno di ritrovarsi, di vivere nuovamente l’uno per l’altra, dopo la parentesi di tre anni da “fuggitivo” di Sherlock, durante la quale John l’aveva creduto morto.

Ma erano bastati meno di dodici mesi per fare affiorare tutte le crepe che si erano create - quelle parole non dette, quella fiducia mancata - che loro cercavano di nascondere tra passioni mai consumate e casi intricati da risolvere.
 
E poi Sherlock l’aveva fatto di nuovo.
 
Era sparito per una settimana e John semplicemente non ce l’aveva fatta più.
Quando Sherlock era rientrato, euforico per la soluzione di quell’enigma, non aveva trovato più il suo fido blogger (così lo chiamava) ad aspettarlo, ma solo un biglietto e cassetti vuoti.
Non lo aveva cercato. Era stato meglio così. 
 
Dopo c’era stata la Provenza, un nuovo inizio e quel raggio di sole chiamato Marie.
Una vita normale che aspettava solo di essere vissuta.
 
Se non fosse stato per quella volta, quell’unico errore dieci anni prima…
John si costrinse a non pensare a quello. Cercò di arginare i pensieri il più possibile: aveva già avuto a che fare abbastanza con i sensi di colpa ed erano ancora le dieci del mattino.
 
 
Appena arrivato in spiaggia, John cercò con lo sguardo quelle canaglie dei suoi figli.
Quell’estate avevano preteso un bungalow indipendente, quindi controllarli era abbastanza complicato.
 
Individuò subito Molly, stesa sotto l’ombrellone a leggere un romanzo che, ad occhio e croce, doveva pesare più di lei. John non poté trattenere il caldo sorriso che gli affiorò sulle labbra.
 
Cercò allora di individuare James, il più scalmanato e imprevedibile dei due.
Ai tempi della gravidanza di Marie aveva fatto di tutto per fare ricadere la scelta su un nome diverso da quello, ma la moglie non aveva voluto sentire ragioni.
John però, dal canto suo, si era sempre rifiutato di chiamarlo con il diminutivo Jim. Non ci riusciva, solo al pensiero gli veniva l’orticaria.
 A volte temeva che quel nome avesse trasmesso al figlio quell’aria pomposa e scanzonata.
 
Proprio mentre si ritrovò a pensare che quelle, in fin dei conti, fossero tutte sciocchezze, li vide.
Vide James seduto sulla battigia insieme a Sherlock, proprio nello stesso punto in cui erano stati seduti loro qualche ora prima.
 
Un’ondata di panico investì John, non sapeva proprio come comportarsi.
Non poteva andare di certo lì a fare una scenata e dare di matto, anche se quello era ciò che avrebbe voluto fare con tutto se stesso.
Allo stesso tempo, non poteva far finta di niente: conosceva Sherlock fin troppo bene,  sapeva che non avrebbe esitato a raccontare la loro intera storia a suo figlio, nel nome di una verità superiore e di non un sopito senso di rivalsa.
 
Decise di improvvisare.
Si avvicino ai due finché Sherlock si accorse della sua presenza e gli rivolse uno dei suoi sorrisi sghembi che un tempo gli facevano scaldare il cuore.
 
- Salve, John. – disse con tono piatto. – Io e James stavamo giusto parlando di te.

James si voltò lentamente verso il basso, e a John non sfuggì il fatto che le sue guance diventarono d’improvviso rosse.

- C..ciao papà. – lo salutò il figlio con fare quasi colpevole.

- James. Cosa stai facendo qui? – chiese John con la voce più calma che riuscì a trovare.

- Niente papà, - rispose il figlio guardando dietro di lui - stavamo solo parlando di…cose.

Lo sguardo di John passò dal ragazzo a Sherlock, che lo guardò con aria compiaciuta. John sapeva perfettamente che in quel momento lui stava leggendo tutta l’ansia che c’era nei suoi occhi. E sapeva anche che poteva elencarne le cause in ordine alfabetico e/o cronologico.

- Tua madre ti stava cercando. – si risolse a dire Watson, dopo alcuni secondi di pesante imbarazzo – Va da lei.

- Certo. Vado subito. – replicò immediatamente il ragazzo – Ciao Sherlock, e, ehm, grazie.

Sherlock si limitò a rispondere con un cenno del capo, per poi rivolgere immediatamente la sua attenzione a John.

- C’è qualche problema, John? – disse con la più innocente delle voci.

- Si. Decisamente si. E più di uno. – sibilò John. Poi continuò, - Devo parlarti. Ma non qui. Dov’è il tuo bungalow?

Sherlock alzò il sopracciglio destro con fare divertito. Non sembrava minimamente intenzionato a rispondere.

- Ho chiesto: Dov’è. Il. Tuo. Dannato. Bungalow. – incalzò l’uomo, visibilmente alterato.

- Nel settore nord. – rispose il moro con aria annoiata.

- Benissimo. Adiamo.
 
 
***
 
- Cosa stavi facendo con mio figlio? – chiese John, trattenendo a stento la rabbia, afferrando Sherlock per il costoso colletto di lino con la mano sinistra.

Quello lo guardò con aria interrogativa, le spalle poggiate contro il muro del suo bungalow, gli occhi accesi da una strana luce.

- Niente – disse seraficamente. - Stavamo solo chiacchierando.

- Devi stare lontano da lui – asserì Watson, con tono inconfondibilmente militare. 

Sherlock distolse lo sguardo e non lo degnò di una risposta; questo non fece altro che gettare benzina sul fuoco della rabbia dell’altro. 

- Sherlock, cazzo, guardami! – urlò. Poi, continuò abbassando il tono di voce. – Hai capito, non devi avere più niente a che fare né con lui né con il resto della mia famiglia.

- La tua famiglia – gli fece il verso Sherlock, mettendo un accento di disgusto sull’ultima parola. – Di cosa hai paura John? Che riveli alla tua allegra famigliola il nostro piccolo segreto? 

Le pupille di John avevano completamente inghiottito il blu delle sue iridi. 

- Non oseresti… - sibilò.

- Oppure, pensi che potrei attentare alle grazie del tuo ometto? – aggiunse in un soffio l’altro, gli occhi ridotti a una fessura. 

John perse completamente il controllo di se, e il suo gancio destro andò immediatamente a colpire il naso di Sherlock. 


Il moro gli scoccò un’occhiata glaciale, liberandosi dalla sua presa con un rabbia.
Si portò subito la mano destra sul volto e l’altra alla nuca: sbattendo sul muro doveva essersi ferito anche lì.
La vista di quel rivolo di sangue che colava dal naso di Sherlock provocò in John un brivido di piacere lungo la schiena; lo archiviò come un moto di soddisfazione per aver finalmente sfogato la rabbia che covava nei confronti di quel pazzo sociopatico.
Se ne andò senza degnarlo di uno sguardo.












Miei prodi, l'aggiornamento arriva leggermente in anticipo.
Spero che la storia stia suscitando in voi interesse, ringrazio tutti coloro che la stanno seguendo!
Vi lascio alle note, a presto


Lauur

Note:
Roscoff  è un comune francese situato nella regione della Bretagna. Le foto delle sue spiaggie mi hanno conquistata e ho deciso di ambientare qui la storia.
 

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Capitolo 3
*** Tre. ***


 

Mi sono fatta attendere molto e questo è, in fin dei conti, un capitolo di passaggio.
Ma pare che la prof. non abbia accettato il mio progetto di scrivere FF come tesi di laurea, e quindi la mia fase di scrittura creativa deve subire una certa fase di arresto.
A presto, stato in vita permettendo.
Lauur

P.S. Le parti dialogate in corsivo fanno parte dei ricordi di John. Si riferiscono ad un avvevenimento in particolare, avvenuto dieci anni prima, a cui John e Sherlock hanno già fatto riferimento nei capitoli precedenti. :)



Tre.



Durante il tragitto verso il suo bungalow, un serpeggiante senso di nausea si impadronì di John. 
L’immagine di Sherlock che pronunciava quelle parole orribili con degli occhi fissi ed impassibili gli faceva bollire il sangue. Perché il destino aveva deciso di prendersi gioco di lui in questo modo? Perché aveva deciso di mettere Sherlock Holmes nuovamente sulla sua strada?

Una piccola voce dentro di lui provò a farsi spazio, sgomitando contro le pareti del suo esofago, per uscire fuori liberatorio.

Il risultato fu solo quello di aggiungere una solenne emicrania alla nausea.

 

Il suo incedere militare, sguardo basso, pugni serrati che si muovevano alternatamente lungo i fianchi in maniera coordinata al passo, fu interrotto da qualcosa che percepì a malapena con la coda dell’occhio.
Tornò indietro di pochi passi, e lo vide: suo figlio James, seduto su una panca di pietra all’ombra di un albero, che stava letteralmente divorando una ragazzina che, a occhio e croce, non doveva avere più di tredici anni.

Durante la sua ancora relativamente breve carriera da genitore, non aveva mai avuto modo di trovarsi dinanzi ad una scena del genere.

Si sorprese ad essere diviso tra un sentimento di cameratesco orgoglio per il figlio e un forte senso di ansia genitoriale.

Fu il secondo ad avere la meglio su un già provato John.

Si avvicinò ulteriormente alla panchina, cercando di fare il minor rumore possibile. In ogni caso non avrebbe corso nessun pericolo, i due erano fin troppo presi per accorgersi di lui. 
Appena si trovò in prossimità della coppietta, finse un colpo di tosse, atto solamente a farsi notare.

James ruotò immediatamente la testa verso la fonte di quel rumore, accorgendosi della presenza del padre.

 

- Cosa sta succedendo qui? - chiese John con voce profonda e inquisitoria. I due ragazzi fecero un leggero balzo sul posto, entrambi sorpresi dall'inaspettata visita.

Si separarono con un sonoro pop che sapeva di ventosa e di umidiccio.
John ricacciò dentro a stento la risata che quel suono ridicolo aveva scatenato in lui.

 - Papà, cosa diav... - provò ad esordire James con spavalderia.

- Signorina - lo bloccò il padre rivolgendosi invece alla ragazza, la quale lo fissava attonita con la bocca ancora semi aperta in una deliziosa "o". - Che ne dici di tornare dai tuoi? Immagino che se ti assenti per troppo tempo potrebbero preoccuparsi. Vuoi?

La ragazzina si limitò a fare un leggero cenno con il capo, alzandosi di tutta fretta, non senza aver lanciato un occhiata speranzosa a James, nella quale il padre lesse un tacito accordo per vedersi ancora un'altra volta.

Rimasti soli, John si ritrovò con un figlio muto che non lo guardava neanche in faccia. In quel momento doveva odiarlo davvero tanto.

Decise di rompere il ghiaccio.

- Non ti sembra di essere ancora un po' troppo giovane per andare in giro a fare gastroscopie approfondite a povere ragazzine innocenti? - disse sornione, dando un leggero buffetto alla guancia del figlio.

James lo guardo rifilandogli uno degli sguardi più truci del suo intero repertorio da attore nato. Poi però sorrise, un sorrido sincero e luminoso. Infondo avevano lo stesso senso dell'umorismo.

- Che schifo papà, - replicò quindi - grazie per la bella immagine. E comunque ho quasi quattordici anni! Tu quando hai baciato la tua prima ragazza?

John strabuzzò leggermente gli occhi. - A sedici anni. - rispose.

Ed era vero. Preferì non dirgli però che quello non era stato il suo primo bacio. Quello era toccato al suo migliore amico Mark quando aveva tredici anni.

- Sei un tardone papà! - lo canzonò il figlio - Sedici anni!! Caspita, ti ho battuto di due anni pieni!

- Perché per te deve sempre essere tutto una gara, James? - disse John spettinando i capelli ramati del ragazzo - A ognuno capita quando è il momento giusto...non sapevo nemmeno che fossi interessato a quella ragazza.

- In realtà l'ho notata appena siamo arrivati. - disse il figlio, arrossendo leggermente - Ho cercato di parlarle, ma quando ci sono riuscito mi ha rifilato un bel due di picche.

- Era già impegnata? - lo incalzò il padre, voleva saperne di più.

- Già - rispose il ragazzo mettendo su un finto broncio, che si tramutò in un batter d'occhio in uno sguardo vincente quando aggiunse - Ma oggi c'è stata una svolta. Anzi, la svolta.

- Ovvero? Non fermarti ogni tre parole, campione! - lo rimproverò il padre.

- Sherlock. - dichiarò il figlio sibillino.

John sentì la pressione sanguigna aumentare vertiginosamente, le labbra tendersi fino allo spasmo e i pugni serrarsi fino a far diventare le nocche bianche.

- Cosa? - riuscì a sibilare.

- Cosa? - replicò il ragazzo con fare canzonatorio - magari chi! Il tizio che ti ha salvato ieri papà! Stai proprio perdendo colpi!

- E cosa avrebbe fatto, sentiamo - disse secco John.

- Quell'uomo è un genio papà! Oppure un mago, o magari tutte e due. Riesce a leggere dentro le persone e capire cosa pensano e cosa faranno in un batter d'occhio! -disse James tutto d'un fiato, entusiasta.

 La testa di John prese a girare, non riuscì a capire se per l’ondata di adrenalina che lo stava abbandonando o se per la quantità di informazioni che lo stava investendo.

- Questa mattina l’ho trovato seduto sulla spiaggia - continuò il figlio. – Mi è sembrato educato avvicinarmi e lui mi ha detto che sa leggere le persone. Mi ha detto proprio così: "leggere". Ha iniziato a dimostrarmi le sue capacità descrivendo vita, morte e miracoli dei bagnanti che ci circondavano –. Si prese una piccola pausa, poi riprese a raccontare - È stato esilarante. Ha detto anche di avere un sito internet… ma non ricordo esattamente il nome… qualcosa come la scienza di non so che…

- La scienza della deduzione – disse funereo John.

- Sì, papà! – esclamò il figlio incredulo. – Come fai a saperlo?

John fece un mezzo sorriso, dando una risposta che seppe di deja-vu.

- L’ho cercato su Google, ieri sera.

- Che cosa inquietante, pà – replicò il figlio, squadrandolo dalla testa ai piedi. – Comunque, stava descrivendo le persone come se stesse leggendo le informazioni su un foglio e a un certo punto indica Julia, così si chiama, sai, e mi dice che quella ragazza mi fissa e che sicuramente ha un debole per me. Io dico che no, non può essere. Lui capisce dal mio sguardo o dalle mie pupille o non so da cosa che mi piace, e allora mi dice di provare. Il resto lo sai – prese fiato per un attimo concedendosi un sorriso a trentadue denti. – Quell’uomo è il mio nuovo idolo.

John non sapeva se credere o meno a quelle parole. Sherlock - lo Sherlock che lui conosceva, sociopatico ad alta funzionalità, vendicativo e razionale fino allo sfinimento - aveva consigliato al suo figlio adolescente di abbordare una ragazzina, invece di approfittare della succulenta occasione per sputtanare il perfetto padre ai suoi occhi?

No. Non aveva senso. C’era un secondo fine. Doveva esserci.


Nonostante ciò, il rimorso lo investì immediatamente. Aveva trattato quell’uomo in maniera terribile. L’aveva picchiato, insultato e minacciato.
In quel momento, non importava il passato: doveva come minimo scusarsi.


Ignorò una vocina dentro di sé - "la decisione che stai prendendo non è saggia!" e "non lascia presagire nulla di buono!" - e si alzò lentamente dalla panchina.

- Va da tua madre, James – disse al figlio senza guardarlo negli occhi, i pensieri altrove.

- Ok papà – rispose il ragazzo, pensieroso: suo padre aveva decisamente qualche rotella fuori posto.

Tutta colpa della vecchiaia, pensò.

 

***

 

Il tragitto inverso dalla panchina al bungalow di Sherlock gli costò non poca fatica. Fu come fare un percorso a ritroso nei propri ricordi, quelli che aveva deciso di eliminare per sempre dalla sua memoria.
C’era stato un tempo in cui il percorrere una strada, una qualsiasi, che lo portasse da Sherlock Holmes, era il momento migliore della sua giornata.
C’era stato un tempo in cui lui e quell’uomo erano una cosa sola, il braccio e la mente, il detective e il suo blogger.
O semplicemente due metà della stessa mela che solo insieme ricostituivano quell’unità ancestrale che conduceva alla perfezione.

Ma quel tempo era finito. E John Watson lo sapeva bene.

Vero?

 

- Non pensavo che ti dessero la libera uscita.

- Vedo che sei sempre il solito stronzo.

- Non ti sono mancato neanche un po’?

- No, Sherlock. Ero troppo occupato a farmi una vita.

- A farti una donna, nello specifico.
- È mia moglie e la madre dei miei figli, idiota.
- Siamo già a quota due? O tre?
- Quasi due.
- Ami proprio riprodurti, vedo. Lasciare su questa terra qualcosa di te. È così…
- Umano?
- …stavo per dire patetico. Ma se preferisci metterla in questi termini...
- Dov’è lei?
- La bara è già stata portata alla cappella di famiglia. Il funerale sarà celebrato tra un paio d’ore.
- Capisco.

 

Arrivato dinanzi alla porta del bungalow John si sorprese nel trovarla aperta. Quel fottuto genio sapeva esattamente che lui sarebbe tornato a chiedergli scusa.
L’avrebbe facilmente catalogata come un’azione così da John.

 

- Le tue parole durante la celebrazione sono state davvero...stupende.
- Mm mm.
- Beh, io sono passato solo a prendere queste tazze, l’album e il cuscino che lei ha deciso di lasciarmi. Quindi, credo che adesso andrò a prendere il primo treno disponibile.
- Mm mm.
- Allora… ciao.
- Scusa, John.

- Prego?
- Ho detto scusa, sai che odio ripetermi.
- Scusa per cosa, nello specifico?
- Per averti lasciato andare.
- Sherlock, io... Non è da te chiedere scusa.
- Devi aver avuto davvero una cattiva influenza su di me.

 

Spinse leggermente la porta di legno e si ritrovò all’interno del minuscolo salottino che faceva anche da ingresso a quelle piccole villette.

- Eccoti – disse Sherlock, la sua voce proveniva dal bagno.


- Sono ancora così prevedibile? – si ritrovò a rispondere John.

- Certe cose non possono essere cambiate – asserì il detective, facendo il suo ingresso trionfale. – Neanche se lo si vuole.

John si ritrovò a fissare il naso tumefatto dell’ex-coinquilino e l’annesso livido giallastro che stava iniziando ad irradiarsi da esso.
Fece finta di non notare che Sherlock non indossava altro che un candido asciugamano di spugna.

- Sei venuto davvero a chiedermi scusa? – continuò, visibilmente scocciato ed annoiato, lo sguardo fisso sull’enorme specchio che arredava la stanza.

- Se la cosa non ti reca eccessivo disturbo… - replicò John.

La voce nella sua testa adesso disse “Stai flirtando con lui”. La scacciò via come si scaccia una mosca. - Io non porto rancore, John – rispose il consulente investigativo. - Io…


 

- Io… Non so cosa mi sia preso.
- Sta un po’ zitto, John.
- No… non posso. Non possiamo.
- Sei poco credibile, dato che, tecnicamente, lo stiamo già facendo. E che, sempre tecnicamente, hai iniziato tu.
- Sta un po’ zitto, Sherlock.


- Io… non so cosa mi sia preso, Sherlock. Scusa, davvero. Deve essere stato quest’insieme di emozioni… non so. Mi ha mandato fuori di testa. – ammise infine il Dottore.

Non riuscì a vedere il suo volto riflesso nello specchio, dato che la sua figura era completamente coperta dall’abbacinate distesa di pallore e bianco che era il corpo di Sherlock.
Erano al mare ma, evidentemente, la pelle di quell’uomo era refrattaria ai raggi UV.

Il suo volto era fermo, immobile, venato solamente da un’espressione che poteva essere definita, da un osservatore poco attento, di attesa, o di sfida.
Ma John non era un osservatore disattento.
Non quando si trattava di Sherlock Holmes.
Quello era lo sguardo del trionfo.


- Cosa ci fai qui, Sherlock? – chiese, non riuscendo a trattenersi. La voce ridotta a un sussurro.

- Credo che tu me l’abbia già chiesto – rispose il detective calmo. – Credo anche di averti cortesemente risposto.

- Cristo, Sherlock – esclamò John, esasperato. – Non fare i tuoi giochetti con me. Sono in vacanza, cazzo, la mia fottuta vacanza di famiglia. Mia moglie e i miei figli. E…

La sua voce si ruppe.

- E? – lo incalzò Sherlock, lo sguardo del trionfo sempre più evidente.

- E tutto ciò che vorrei è trovare una via d’uscita. Una via di fuga da questo incubo, Sherlock – disse il dottore, tutto d’un fiato. Poi richiese, incalzante – Cosa ci fai tu qui, Sherlock?

Il moro si voltò di scatto, e il suo sguardo si ritrovò puntato dritto negli occhi di John.

Quando si era fatto così vicino? Quando si erano annullate le distanze tra di loro?

- Credo che la domanda corretta sia: cosa ci fai tu qui – sentenziò.

John cercò invano di replicare, ma Sherlock gli afferrò il polso con uno scatto felino.

– Zitto. Adesso parlo io. Guardati, dottore - disse strattonandolo dinanzi allo specchio. – Guarda i tuoi occhi, la tua bocca. Ascolta il battito del tuo cuore. Tutto ti tradisce. Tutto tende a me. Tutto mi vuole. Tu mi vuoi, John. La tua vita medio-borghese non potranno mai riempire il vuoto che la nostra vita ha lasciato. Tu sei un soldato, ma ti sei arreso. Avevamo un patto, John. Un tacito patto. Sapevi chi ero, chi sono adesso. Ed ancora ti illudi che fare l’amore con tua moglie cancelli ciò che provi? Quella scossa di adrenalina che attraversa il tuo organismo ogni volta che mi vedi, che anche solo respiri la mia aria... Tu, John Watson, sei drogato. Drogato di cose che nessuna famigliola felice può darti: la sensazione del sangue che pompa nelle vene, la sensazione di sfidare il mondo intero. Solo io e te.

John sentì i polmoni svuotarsi.
Aveva ascoltato il monologo concitato di Sherlock trattenendo il fiato, fissando se stesso su quella superficie riflettente.
Era come avere un’esperienza extracorporea.
Lo sguardo che riceveva di rimando da quello specchio non apparteneva a lui, ne era certo.

Quel corpo che tremava come una foglia, nonostante il calore soffocante che regnava nel bungalow di Sherlock, non poteva essere il suo.

Non poteva nemmeno essere lui quello che, piegandosi alla propria sinistra poggiava le labbra su quelle di Sherlock Holmes.

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Capitolo 4
*** Quattro. ***


Buona Sherlock Eve mio caro fandom.
Dopo una lunga e sfiancante latitanza, eccomi qui.
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento…buon anno, e buono Sherlock a tutti voi.
Che Moffat ci assista.
 

 
Quattro.
 
 
 
L'alfabeto al contrario.
La tabellina del nove, quella che aveva sempre odiato.
Tutte le ossa presenti nella mano di un essere umano.
I nomi dei sovrani inglesi dal 1500 ad oggi.

Questo era ciò che aveva attraversato il cervello di John Watson.
Questo era quello a cui i suoi disperati neuroni tentavano di aggrapparsi per cercare di resistere all'immensa tentazione che gli stava alle spalle.

Un bacio, si era detto, solo uno. Per vedere se le sue labbra sono morbide e profumate come lo erano dieci anni fa.
Una mano tra i capelli, poi. Per saggiarne la consistenza morbida e setosa, così inusuale per una massa di capelli ricci.
Una carezza ad un fianco, infine. Puro interesse medico, si era detto. Per controllare se le sue abitudini alimentari fossero migliorate un po' con l'incedere dell'età.

Ad ogni tocco però, l'alfabeto perdeva qualche lettera, le mani delle falangi, i sovrani qualche erede. La tabellina del nove non aveva mai dato dei risultati così sorprendenti.
La strada dallo specchio al letto enorme che si trovava all'interno del bungalow del consulente investigativo fu infinita.
La coscienza abbandonava John e una sorta di trionfante euforia si impadroniva di Sherlock. Ogni cellula dei loro corpi sembrava urlare mio. Mio. Mio.
Si può odiare la persona con cui si sta facendo l'amore? Sempre che quello potesse chiamarsi amore. Era lontano anni luce dai tocchi delicati e rispettosi che aveva concesso a Marie quella mattina.

Era bisogno, disperazione, mancanza. Era odio. John Watson ne era sicuro. Era adrenalina. La stessa che si prova mentre si sta appostati dietro una duna nel deserto afghano durante una missione. La stessa che si prova a fare qualcosa di proibito ed assolutamente delizioso.
Avrebbe voluto fermarsi dire basta, ma gli sembrava un qualcosa di umanamente impossibile. La rabbia li univa ancora più dell'affetto.
Farsi male era una priorità.

- Non lasciare segni. - rantolò John mentre l'altro era intendo a fargli un succhiotto nell'interno coscia.
Quello che ricevette in cambio fu un morso dal quale fuoriuscì qualche goccia di sangue.
Il dolore fu una sorta di macabra e voluta espiazione; John sapeva di fare del male a se stesso e a tutta la sua famiglia, ma come resistere a tutto questo?
Lui non era abbastanza forte per dire di no, non era abbastanza forte per rimanere accanto a Marie e cancellare Sherlock Holmes dal suo cuore. Quel cinico fottuto bastardo aveva ragione. Sai che novità.
Si era dimenticato di quanto vocale sapesse essere Sherlock. Quei mugoli vibranti e profondi non avevano nulla a che vedere con i gemiti controllati di sua moglie. No, quell'uomo era proprio un'altra cosa. Quelle note vellutate lo accarezzavano in parti recondite di se che aveva anche dimenticato di avere.
Lo vedeva, vedeva il trionfo nei suoi occhi appannati dal piacere. E per questo lo odiava. E spingeva più forte. E lo odiava ancora.
Il piacere fu una deliziosa punizione. Arrivato come un'onda che ti travolge e ti priva di tutto ciò che hai, lo privò con la sua risacca dell'appagante senso di onnipotenza e beatitudine che il sesso sa dare. Non poteva pensare. Non poteva restare.
Doveva fuggire il più lo tanto possibile da Sherlock, dal suo odore, dalle lunghe gambe che ancora gli artigliavano i fianchi in una morsa stupenda.

- Sai dov'è la porta. Non credo di doverti accompagnare. - disse il detective con voce profonda.

John alzò lo sguardo su di lui. Fissarlo dritto negli occhi gli faceva più male di tutto.

- Come...io...devo. - balbettò.

- Non credo di dover scomodare le mie incredibili doti ed il mio intelletto superiore per dedurre che tu voglia andartene immediatamente da qui. - continuò Sherlock sciogliendo l'intreccio di gambe e lasciandolo libero.

- Perché mi fai questo, Sherlock? - chiese il dottore.

- Faccio cosa, John? - ripose il moro alzando la voce - Mi sembra di non averti costretto a fare nulla. Abbiamo cinquant'anni e credo che entrambi siamo in pieno possesso delle nostre facoltà mentali. Sei tu che fai del male a te stesso. Menti e ti illudi. Sei un codardo, John Watson. E questo non è un problema mio.

Il dottore aprì la bocca per riprendere fiato. Boccheggiava come un pesce catturato in una rete. Probabilmente era quello che era davvero. Come poteva replicare a Sherlock, offenderlo e disprezzarlo quando una parte di se stesso era d'accordo con lui?

- Vado via. Credo sia meglio. Fai finta che tutto questo non sia successo, chiudilo in un angolo del tuo palazzo mentale e getta la chiave. Non credo sia difficile per te, Sherlock. - disse tutto d'un fiato alzandosi dal letto a sguardo basso e raccattando la polo e il costume.

- Oh no. - replicò l'altro - Non è di certo di me che devi preoccuparti, John.

Un brivido percorse la schiena di John mentre apriva la porta.
Aveva ragione. Il suo problema non era Sherlock Holmes.
Il suo problema era unicamente John Watson.


***

 
- Credo che la soluzione migliore sia fare le valigie e andare via. - disse John guardando la moglie con degli occhi imploranti.

- John caro, non ti sembra di esagerare? - gli sussurrò Marie, facendogli una carezza dietro l'orecchio per farlo calmare. - Hai fatto l'antitetanica solo qualche mese fa, e anche se quel chiodo fosse stato pieno di tutti i bacilli del mondo, tu ne saresti immune.

- Ma per precauzione... - sbuffó John esasperato.

- Amore, ma non eri un medico tu? - replicò la moglie con fare divertito. - Perché voi uomini dovete sempre essere così melodrammatici?
John abbassò lo sguardo, arrossendo vistosamente. Non che le parole della moglie lo avessero in qualche modo imbarazzato, ma perché in quel villaggio vacanza c'era solo un "signor melodramma", e non era di certo lui.
 
Ma cosa gli era saltato un mente, Dio Santo?
 
Era uscito dalla camera di Sherlock come una furia, con i pensieri accavallati, devastato nel corpo e nella psiche da quell'uomo che davvero non riusciva a eliminare dalla propria esistenza. Gli si era appiccicato dentro ad un livello così profondo che non bastavano chilometri di vita ad allontanarli.
Avrebbe voluto picchiarlo, bruciare il suo bungalow e buttarsi anch'egli nel rogo, quando lo vide.
Un meraviglioso e svettante chiodo arrugginito che fuoriusciva fiero dall'infisso del bungalow del dirimpettaio di Sherlock. In quel momento gli era sembrata la soluzione migliore. Noncurante di dolore, infezioni e danni a lungo termine schiacciò con un colpo secco il palmo della sua mano destra su quel provvidenziale pezzo di ferro.
Lì per lì non gli fece nemmeno male, troppo preso dall'euforia di aver trovato la via d'uscita da quell'inferno che gli si stava sempre più chiudendo addosso. Si recò in infermeria a farsi medicare, e il suo collega gli disse che la ferita era davvero brutta, e lo riproverò dicendogli che era stato maldestro, e che era ancora sotto l'effetto dell'antitetanica ma che comunque la mano andava tenuta sotto controllo.
Si sentiva un genio. Avevo battuto Sherlock Holmes grazie a un misero pezzo di ferro, niente scienza della deduzione, niente brillanti percorse mentali. Solo ferro e chimica.
Si sentiva felice come un bambino il giorno di Natale.
Ora però, di fronte a sua moglie, il suo piano sia stava rivelando maldestro.
Lei non aveva alcuna voglia di andare via, per i bambini, diceva.
Erano le loro uniche vacanze, risparmiavano per tutto l’anno per quelle due settimane di relax, e non era giusto, diceva.

- Se la tua mano dovesse andare in cancrena, amore, non temere: ti porterei immediatamente a casa. – decretò Marie ridendo sotto i baffi.

Non riusciva proprio a capire il perché il marito stesse facendo tutte quelle scene per un semplice chiodo. Di solito era molto più stoico e meno apocalittico, un vero soldato.
Colpa dell’età, si disse.
Diede un leggero bacio sulla fronte a John, il quale fu scosso da un brivido di disgusto verso se stesso.

- Vado in spiaggia a controllare i piccoli mostri, John. – gli disse la moglie, salutandolo.
 
John rimase davanti alla porta del proprio bungalow, solo e in preda al panico e alla nausea più nera. Una doccia era quello che ci voleva.
Spogliarsi dagli indumenti impregnati di sudore e senso di colpa fu, in un certo senso, l’inizio di un cammino di espiazione che ebbe il suo culmine nell’intimità del box doccia.
Fu lì che il dottore si impose di smettere di pensare a Sherlock-fottuto-Holmes, alle sue brillanti deduzioni e al meraviglioso, rabbioso, adultero sesso che avevano appena fatto, per concentrarsi invece su tutti i modi in cui avrebbe potuto evitarlo o ignorarlo o evitarlo ed ignorarlo allo stesso tempo.
 
In fondo John era un uomo, fragile, e Holmes, beh, lui era l’unico consulting detective al mondo; e, per l’amor del cielo, era ancora bello come lo era quindici anni prima, la prima volta che lo aveva visto.
Errare era umano, ma continuare a pensarci era da stupidi.

 
***

Uscito fuori dalla doccia, il dottor Watson si sentì un uomo nuovo.
Tonificato da ogni gocciolina d’acqua che si era infranta sulla sua pelle, percepiva una nuova energia positiva scorrergli nelle vene.
Voleva che quella vacanza tornasse sui giusti binari, lo doveva ai suoi figli e soprattutto a Marie, la sua Marie.
Le doveva tutto, in realtà, sempre di più.
Appena tornati a casa le avrebbe fatto un regalo.
Magari un bel gioiello, dal valore direttamente proporzionale al suo enorme, maledetto senso di colpa.
Quindi era quello ciò che era diventato: un uomo che comprava un diamante alla propria moglie per assolversi dai peccati commessi.
 
Scosse via dalla sua testa quel pensiero mentre si infilava il costume.
Voleva raggiungere la sua donna in spiaggia e passare la giornata insieme a lei, a leggere e punzecchiarsi, per far sì che quella parvenza di normalità che teneva maldestramente insieme la sua vita tornasse a calare tra di loro.
 
Una volta giunto sulla spiaggia, John si mise a cercare l’ombrellone preso in affitto dalla sua famiglia. Non appena lo ritrovò in mezzo a quel dedalo di tele a strisce rosse e bianche, però, un brivido percorse la sua spina dorsale.
Marie non era da sola: stava ridendo amabilmente in compagnia di Sherlock.
Quel fottuto miserabile bastardo.
Si precipitò verso l’allegro duo, raggiungendoli in preda ad una furia incontrollabile.
 
- John, caro! – esclamò Marie, allarmata appena lo vide arrivare a quel modo.

- Dottor Watson – lo salutò Sherlock con un sorriso sghembo. – Cosa è successo alla sua mano? Non me lo dica. Un incontro ravvicinato con un oggetto appuntito, magari un chiodo sporgente da una persiana. Spero per lei che non fosse arrugginito. O forse lo era, considerando lo stato fatiscente degli infissi di questo villaggio. Ma di certo lei, da bravo e previdente medico avrà fatto modo di non avere mai in un buco nella sua copertura antitetanica; può dunque dormire sonni tranquilli. Inoltre, per quanto posso vedere, non le fa male. Non la mano, almeno.

- Io… - balbettò John, fulminandolo con lo sguardo, sperando con tutto il cuore che Marie non avesse colto l’ultima frecciatina dell’uomo.
- Mio Dio, Sherlock! – cinguettò Marie con fare estasiato. – Sei davvero formidabile, come hai fatto a capire che si trattava di un chiodo, uno di un infisso poi!
Il sorriso del consulente detective diventò sornione, mentre con un gesto pigro della mano sinistra tentava di minimizzare la portata del complimento della donna.
- Anni e anni di esperienza, mia cara, nulla di più – affermò infine, lanciando uno sguardo a dir poco esplicito verso il dottore.
 
John non riusciva a mantenere lo sguardo fisso su nessuno dei due.
Gli sembrava di essere in un incubo.
Il suo peggior incubo.
 
- Prima che John ci interrompesse - esordì Marie. – Mi stavi raccontando del perche il tuo compagno avesse lasciato l’isola così presto.
John portò il pollice e l’indice all’altezza dell’attaccatura del naso, sconsolato.

- Ah sì - replicò Sherlock, riscuotendosi da altri pensieri. - Direi che abbiamo messo fine alla nostra relazione.

- Oh, mi dispiace molto, sembrava tanto un bravo ragazzo – disse la donna, leggermente in imbarazzo per essersi impicciata troppo.

- Di certo lo è – iniziò il detective. – Sono io a non essere adatto. Per me era solamente un rimpiazzo, non ci tenevo a lui. C’era un uomo, una volta. Avevamo delle cose in comune… la dipendenza da adrenalina, per citarne una. Ma poi l’ho lasciato indietro e lui, invece di colmare la distanza tra noi, ha deciso di adagiarsi. Di spegnersi e diventare qualcun altro. Un uomo di mezza età con una famiglia, un cane e un’utilitaria. Un uomo normale.

Pronunciò l’ultima parola sputandola come un gatto sputa una palla di pelo particolarmente grande.

Lo sguardo di John era vitreo e fisso, mentre dentro di se sentiva una rabbia primordiale montare senza freno. Poi Sherlock si decise a dare il colpo di grazia.

- Una pappamolla con tanto di pancetta da sposato – disse, spostando i suoi occhi da John a Mary e alzando il labbro superiore in un sorriso sghembo. – Sai, Marie? Mi ricorda molto tuo marito.
 
Mentre una risatina stridula usciva sommessa dalla bocca di sua moglie, il dottore strinse i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche, e poi si sentì dire, con una voce che non sembrava nemmeno la sua:
- Io non sono una pappamolla.

Sherlock spostò lo sguardo su di lui con la flemma studiata che lo aveva sempre contraddistinto in queste occasioni.
- Ah, no? – disse con fare sornione.

- No, per niente – rispose John, ostentando una calma del tutto finta. – Anzi, ti sfido.

La risposta che ottenne fu solo un’alzata di sopracciglio sinistro.

- Vedi quell’isoletta al largo? – chiese il dottore indicando un isolotto a largo. – Ti sfido a battermi. Chi ultimo arriva all’isola è la vera pappamolla.
Lo sguardo di Sherlock si assottigliò notevolmente, riducendosi a una fessura.
Il lampo della sfida guizzò nei suoi occhi, mentre si alzava, liberandosi della camicia di lino e facendo sfoggio della sua distesa di pelle candida costellata da qualche livido violaceo che John conosceva fin troppo bene.

- Dopo di te – si limitò a dire.

Marie guardò il marito leggermente sorpresa e anche un po’ preoccupata. Aveva notato sin da subito che John non nutriva una grande simpatia per quell’uomo, anche se non ne aveva capito il motivo. In fondo Sherlock gli aveva salvato la vita; magari aveva dei modi particolari, non era proprio una persona comune, ma tutto quell’astio e quella voglia di mettersi in mostra non erano propri dell’indole del suo compagno. Davvero non capiva.

- John, caro – disse al marito con fare condiscendente. - Non credi che sia il caso di evitare, viste le condizioni della tua mano?

L’uomo si girò mentre stava togliendosi la polo, rivolgendole un sorriso tirato.

- No, Marie, non preoccuparti – le rispose. – Come hai già detto tu, non è nulla di grave.

E mentre pronunciava quelle parole i suoi piedi avevano già toccato il bagnasciuga.

 

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