Escaping Brain Detonation.

di hithisisfrollah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** We use our penguin costumes more than our evening dress. ***
Capitolo 2: *** Your tongue is the gun and your brain is the trigger. ***
Capitolo 3: *** The sound of an old guitar is saving you from sinking, that song you softly sing is keeping you from breaking. ***
Capitolo 4: *** I didn't say it but we've never seen eye to eye and it's not trough a lack of trying. ***
Capitolo 5: *** you and i are just walking disasters. ***
Capitolo 6: *** I'm sick of dancing with the beast. ***
Capitolo 7: *** School Sucks, Start A Band. ***
Capitolo 8: *** Fist Up, Head Down. ***



Capitolo 1
*** We use our penguin costumes more than our evening dress. ***


Il locale era pieno di gente, il soffitto era basso, c'era poco spazio tra i tavoli e coltri di fumo si diradavano in quel poco di ossigeno rimasto con lentezza. 
Posizionai meglio il microfono e mi sedetti sullo sgabello, la mia fedele acustica in grembo e il solito tremore alle dita.
Uno strascico d’emozione che mi trascinavo dietro ogni volta. Anche se lì nessuno mi calcolava.  
Nessuno era lì per sentire me, ero solo un sottofondo incolore ad una serata scialba passata in un pub. 
Ero certa che anche se avessi stonato, nessuno se ne sarebbe accorto. Come non si accorgevano dei testi o di come le canzoni scorrevano velocemente riempiendo il tempo. 
Suonai i nuovi pezzi che avevo scritto in quel mese. Uno era uscito fuori mentre aspettavo l'autobus, un altro quando rimasi chiusa fuori casa, un altro in macchina con mio zio. Il fatto era che l'ispirazione mi colpiva solo in date circostanze, non esisteva per me il classico "mi siedo, prendo carta e penna e scrivo qualcosa". Per non parlare di questa cosa assurda di scrivere prima i testi e poi dover pensare alla melodia da affiancarci. In genere sono cose che vanno di pari passo, per me, ma non nell'ultimo mese. 
Sono successe cose strane nell'ultimo mese. No, non strane. Sono cose e basta.

Quindi ho buttato fuori la mia coinquilina, dopo che l'ho trovata a frugare tra la mia roba in cerca di soldi. 

Ho trovato lavoro in un negozio di musica nel quartiere, ma non si prospetta eccitante. 

Mia madre ha smesso, di nuovo, di parlarmi. Routine. 

Ho perso il mio plettro preferito, quello che mio padre mi aveva regalato al mio dodicesimo compleanno, quello che Kurt Cobain usò la prima volta che si esibì al Reading. E mi sento un pezzo di merda acciaccato al suolo dallo pneumatico di una Jeep. 

Il signor Parsons mi ha detto che non vuole più che suoni nel suo locale. C'era da aspettarselo.  
E poi ho scritto tutta questa roba sulla mia vita, che un po' mi deprime, ma sembra che al tipo seduto al tavolo sotto il palco piaccia. 

 

L'ultimo accordo strozzato chiude la canzone e il mio concerto. Che è davvero un parolone in questo caso. 
Non si leva nessun applauso, ma ci sono abituata. Capisco perché Parsons non mi vuole più tra i piedi. Rovino i giovedì sera. 
Rimetto Leo nella sua custodia e sgattaiolo via dal palco, sospirando. 

«E' vero che vai via, allora.» disse Chelsea, avvicinandosi a me con un vassoio pieno di bicchieri dal contenuto traballante. Aveva una smorfia di disappunto sulle labbra.
«Già. E' stato bello finché è durato.» le sorrisi, facendole un cenno con la mano e uscendo dal locale. 
Probabilmente quella sera avrei mangiato i soliti popcorn burrosi guardando le repliche di NCIS. Come ogni giovedì sera. 

 

Da quando avevo mandato via Lory, casa mia sembrava decisamente più grande. E più silenziosa. 
Avrei voluto chiamare mia madre, ma mi ricordai le sue ultime parole da genitrice ferita nel profondo ed ebbi un moto di stizza. 
Capivo di essere stata una totale delusione per chiunque mi avesse conosciuto, ma ormai credevo ci fossimo tutti passati sopra. C'è chi diventa un chirurgo con l'hobby del golf, per esempio mio fratello maggiore James, e chi diventa la commessa di un negozio di musica sull'orlo del fallimento con l'hobby dell'autocommiserazione, per esempio io. 
Lanciai il pacco di popcorn nel microonde e andai ad accendere la tivù. C'era solo CSI a quell'ora e mi maledii per essere passata al supermercato per comprare altre schifezze. Mi avvicinai alla mensola sopra la tivù e scartabellai i vari dvd che avevo collezionato negli otto mesi in cui avevo abitato quel buco. 
La custodia malridotta di Ghost mi fece pensare a quell'idiota di Carl e a quanto baciava bene. E a come avessi sbattuto fuori di casa anche lui, dopo quasi due mesi di convivenza. 
Beh, almeno avevo scoperto un altro mio talento: sbattere fuori di casa la gente. 
Non è cosa da tutti, mi dicono. Aggiungiamolo alle cose di cui dovrei essere orgogliosa. 

 

«Ciao Reth! Sono Ray.» 
Il cellulare aveva squillato per un bel po', mentre dormivo e sbavavo sul divano. 
Mi risvegliai e mi asciugai la guancia, intontita, prima di rispondere. 
«Oh, ciao. Dimmi tutto.» 
Ray era un vecchio amico del liceo. Un ragazzone dalla chioma indomabile e un ottimo chitarrista. Avevamo frequentato dei corsi insieme e mi aveva insegnato a suonare un po' di batteria. 
«Volevo chiederti se domani hai impegni, uhm... nel pomeriggio.» 
«In realtà sarebbe il mio primo giorno di lavoro.» brontolai, pensando alla faccia da boxer del mio nuovo capo.
«E' che... io e alcuni ragazzi abbiamo messo su una band, ma ci manca un chitarrista. E io ho subito proposto te, così gli altri vogliono sentirti e conoscerti.» 
Uh, una band. Sarebbe una svolta per la mia vita del cazzo.
Cominciai ad accarezzare l'idea di accorciare il mio già corto periodo di prova part time al Music Corner. 
«Quindi sarebbe una specie di provino?» 
«Una specie. Ci sarebbe anche un altro ragazzo e siamo indecisi...» 
«Beh, allora vedo di raggiungervi verso le... sei. Va bene verso le sei?» 
«Okay, alle sei. Grazie mille, Reth, a domani!» 
Quando agganciai mi sentii un tantino strana. Mi sentii strana per Ray, che, insomma, dopo non so quanto tempo, mi chiamava così alle undici di sera per chiedermi di fare un provino come chitarrista per la sua band di perfetti sconosciuti. 
E mi sentii strana per me, che, insomma, avevo detto di sì senza neanche pensarci troppo.
Capii che il mio livello di disperazione doveva aver raggiunto vette leggendarie e sbuffai.
Forse diventare un chirurgo con l’hobby del golf non sarebbe stato male. 

Cazzo, i popcorn.

 

 
Lessi di nuovo il numero civico che mi ero scritta sul palmo della mano e guardai di fronte a me.
Sì, era proprio quella la casa. Spostai lo sguardo verso destra e vidi un garage, che doveva essere il famoso luogo del provino.
Mi avvicinai e, titubante, bussai. Un clangore precedette uno schiocco e la porta del garage iniziò ad alzarsi.
Rivelò un Ray più alto di quanto ricordassi e altri tre tizi, che intuii dovessero essere i ragazzi della band.
«Ciao, Reth! Come stai?» chiese lui di slancio, facendomi entrare.
«Bene, grazie.» dissi con un sorrisetto. Boh, è che sorridere mi veniva spontaneo. Sul serio, spesso avrei voluto strapparmi le labbra.
«Allora ti presento la band.» fece, spostandosi vicino agli altri. «Lui è Gerard.»
Capelli neri, abbastanza alto, occhi un po’ scavati e chiari. Mi strinse la mano frettolosamente e io mormorai un Piacere, Aretha.
«Lui è Mikey, fratello di Gerard.»
Occhiali, capelli castani, alto, niente occhi chiari di Gerard. Mi sorrise un po’. Sì, si somigliavano.
«E lui è Matt.»
Bassino, capelli scuri, occhi idem, bacchette alla mano.

 
Beh, il resto fu un tantino imbarazzante. Erano tutti tesi, tutti così attenti ad ogni mio movimento, e mi sentii a disagio.
Come primo approccio non fu proprio esaltante come pensavo.
Suonai qualcosa dal mio repertorio, poi provammo qualche loro canzone e scoprii che Gerard aveva una voce sorprendente. Dall’aspetto non l’avrei detto. Né dalla sua vocetta. 
Alla fine mi scrollai di dosso la tensione e tutti si congratularono. Risi quando Matt disse che dall’aspetto non sembravo neanche una chitarrista.
«L’avevo detto che dovevate sentirla prima di fare i maschilisti del cazzo.» disse Ray, appoggiando un braccio intorno alle mie spalle.
«Sarà difficile scegliere, adesso.» sospirò Mikey, guardando suo fratello. Lui non sembrava affatto ad un bivio, anzi. E poi non mi aveva parlato per tutto il tempo.
Il ragazzo che si contendeva il posto in quella band con me doveva avere già il suo fan club.
Poco male, io neanche volevo venirci in questo garage muffoso.
Ci bevemmo una birra e parlammo di niente, dei vecchi tempi del liceo e di musica.
Il ragazzo non si era presentato, quindi quando levai le tende dal garage, immaginai Gerard che strillava sulla mia incompetenza e su quanto sarebbe stato sbagliato prendermi tra loro.
Cazzo, non ero stupida. Era l’unico che mi guardava di sbilenco e non aveva accennato a complimentarsi per quella prova d’assolo che m’avevano fatto fare. Che era andata alla grande, per inciso.
Ero convinta che non voleva neanche che facessi quel provino merdoso.
E io avevo lasciato il lavoro prima per questo. Avrei voluto farmi lo sgambetto da sola e cadere faccia a terra, sbucciandomi ogni parte del corpo raggiungibile dall’asfalto.

Decisi di fare di nuovo un salto al negozio, giusto per fare da zerbino un altro po’ e beccarmi una ramanzina e una minaccia di licenziamento. Non sono mai abbastanza quelle della mia collezione.   

 

 

 «Resti fino alla chiusura, Lloyd.» borbottò Howard Montagna Di Lardo. Alias il mio nuovo capo. Alias il mio nuovo peggior nemico.

Mi fece un cenno che non ricambiai e uscii.
Quando non fu più in vista, scavalcai il bancone della cassa e mi fiondai in mezzo agli scaffali di cd. Emisi un sospiro rassegnato quando vidi l’ultimo disco dei Foo Fighters bellamente fisso al suo prezzo di ventidue dollari e settantacinque.
E poi si lamentava perché non c’era mai un’anima qui dentro. Dio, chi vuoi che compri un cd ad un prezzo del genere?
Mi voltai e guardai negli angoli del soffitto quelle piccole telecamere bianche che fissavano l’interno il negozio.
Presi in mano il cd e lo strinsi un po’.
Decisi che avrei buttato il nastro della sorveglianza. Potevo farlo, ero dello staff adesso. Certo che potevo.
Magari avrei lasciato i ventidue dollari e settantacinque nella cassa quando Howard mi avrebbe pagato il primo stipendio.
Ma dubitavo che sarei arrivata al primo stipendio.
Focalizzai la copertina del cd. Avevo davvero così bisogno di rubarlo? O volevo solo fare un dispetto a Howard?
E poi da quando i Foos erano diventati così importanti? Okay, mi piacevano tanto, ma-

«Ti decidi a prenderlo o no?»
Sobbalzai, senza respiro e sgranando gli occhi.
Rimisi a posto il cd tutta tremante.
«Non sono mica uno sbirro. Prendilo e basta, non c’è nessuno.»
Perché un ragazzino mi stava incitando a rubare un cd? Un ragazzino carino, poi. Con la faccia pulita.
Presi un respiro e scossi la testa.
«Ci sono io. Sono la nuova cassiera.»
La cosa era ai limiti dell’imbarazzante. Avrei preferito ritrovarmi in topless all’Oprah Show piuttosto che in quella situazione.
Che esempio stavo dando a quel ragazzino? Oddio, uccidetemi, sono troppo pessima per vivere. 
«Complimenti, allora. Sei una lavoratrice nata.» disse ridacchiando. Poi prese a sfogliare con gli occhi tutti i cd di quello scaffale, come se nulla fosse.
In tutta onestà mi sembrava molto da stronza tornare dietro al bancone. Molto da me, alla fine.
«Credo ti convenga bruciare il nastro delle telecamere prima di andare via. Non si sa mai.» aggiunse il ragazzino.
«Sì, c’avevo già pensato.»
«Non mi sorprende.» ghignò.
«Guarda che io non sono una ladra.» sbottai, cercando di salvare il salvabile. Ch’era infinitesimale rispetto alla parte andata a puttane.
«Ci scommetto.»
Non capii se era sarcasmo ben celato o davvero mi credeva. Abbassai gli occhi sulle mie scarpe per un momento.
«Comunque è orario di chiusura. Se devi comprare qualcosa fa in fretta.» borbottai, allontanandomi.
Erano appena le otto, e CiccioBomba Howard mi aveva detto di chiudere alle nove meno dieci, ma sinceramente me ne sbattevo.
La giornata poteva anche finire lì per me, e tanti cazzi degli orari.
«Vabbè, tornerò domani.» disse lui.
Scrollai le spalle e aspettai di sentire il rumore della porta chiudersi.

Dopo tre secondi volai di nuovo verso lo scaffale per prendere quel dannato cd. Se dovevo addirittura bruciare un nastro, che almeno ne valesse la pena. L’avevo messo nella fila sbagliata, davanti a quello dei Deep Purple.
Ma non c’era.
Quel brutto figlio di puttana.

 








sì, lo so che ho altre ff da aggiornare e blablabla, ma questa qui volevo troppo scriverla. 
è meglio delle altre, secondo me. 
siete fighe tutte quante se mi lasciate una recensione çç
e vi regalo un unicorno col boa fucsia (?)
sciao, belle gioie <3

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Capitolo 2
*** Your tongue is the gun and your brain is the trigger. ***


heilà c:
lo so, questo capitolo ha tardato ad arrivare, ma la buona scusa è che sto traslocando .__. 
beh, che dire. spero che vi piaccia e che recensiate, così potrete mettere per iscritto gli insulti coloriti che partorirete (?) leggendo. 
xo,
tool. 



Si preannunciava una mattinata scialba. Colazione con cappuccino istantaneo e un cornetto secco. Il cappuccino era acqua fresca color caffè, come al solito quando decidevo di mettermi a trafficare con la cucina. Con qualsiasi tipo di cucina.
Mentre lavavo la mia tazza cremisi, sbuffando, qualcuno mi pizzicò i fianchi. «Buongiorno, Ree.» disse con voce assonnata.
Uh, sì.
Vi presento Nick.
Il mio… ecco, il mio… spacciatore. No. Il mio scopamico. Neanche. Il mio più intimo conoscente. Sì, direi che “intimo” rende l’idea.
«’Giorno, Nick.»
«Colazione?»
«Te la fai da solo.»
«E dire che gli scienziati sostengono che il sesso addolcisca le donne.»
«Dipende dalle prestazioni, sai?»
«Stai insinuando che sono scarso?»
«Assolutamente no. Ma se una mia insignificante precisazione mina la tua autostima, probabilmente, nel tuo profondo, sai di essere stato scarso.»
Sorrisetto.   
Lui scosse la testa e rise.
«Che stronza.»
Zampettai verso di lui e gli sfiorai le labbra, piano. Era il mio solito “scusa”.
Nick mi carezzò le guance con le dita affusolate e ricambiò. Era il suo solito “ti perdono”.
In due anni che lo conoscevo, tra noi non era mai cambiato nulla. Sempre questo rapporto strano, ai limiti del comprensibile per chiunque.
Nick era come il migliore amico delle superiori che tutte le ragazze vogliono farsi, ma che lasciano perdere per “non rovinare l’amicizia”. E io ero la cattiva migliore amica, la pessima, che aveva deciso di farselo comunque. Perché tanto poi le cose erano rimaste più o meno le stesse. Adesso avevamo solo annullato ogni imbarazzo.
Era come se avessimo fatto un patto, la prima notte insieme.
Facciamo che ‘sta cosa non è niente di definitivo. Facciamo che si sta insieme finché ci va e poi se uno va via, nessuno ci resta male. Facciamo così, perché non voglio niente che mi mandi il cervello in tilt più di quanto gli spinelli già fanno. Ma hey, il nostro è sempre amore. Solo che ho troppa paura per amarti come si deve, quindi facciamo che ci basta così.

Ammetto che, a pensarci concretamente, la cosa sembrava un filo contorta, ma quando ci guardavamo negli occhi, i pensieri non contavano. Contava quel patto nelle mani della notte, nelle mani delle lenzuola e della paura.
Quando mi fidanzai con Carl non fu un problema. Li presentai e dopo Nick scomparve. Qualche messaggio ogni tanto, ma si era fatto da parte, perché c’era qualcuno che voleva qualcosa di definitivo con me. Quando poi lo mollai, non ci fu bisogno di parole. Vide le mie lacrime e fu lì per me, punto. Proprio come un migliore amico.  

Quando aprii la porta, skate sotto braccio, mi trasse a sé e mi baciò sulla punta del naso. I ciuffi biondi mi solleticarono la fronte.
«Fai la brava, Ree.» solo lui mi chiamava così.
 
 
«Brano sgarzolino che ti prende e non ti lascia, gente. Godetevelo.» e partii Girls Just Wanna Have Fun. La filo diffusione nel negozio era stata una buona idea. Almeno quando parlavo da sola, potevo rivolgermi allo speaker.

Erano passati tre giorni da quando il ragazzino aveva rubato quel cd. Ogni volta che ci ripensavo, mi saliva una rabbia bollente fino alla punta dei capelli. Era certo che avrei dovuto bruciare il nastro di sorveglianza, quindi gli avevo servito su un piatto d’argento la possibilità di farmi fessa. Strano che non avesse preso altre cose. In realtà neanche avevo controllato, mantenendo fede al mio mantra di indifferenza totale verso quel posto squallido.
Mentre riflettevo su quanto sbagliata fosse la disposizione degli scaffali, mi arrivò una voce alle orecchie.
«Ancora qui? Credevo ti avessero licenziata.»
Sorrisetto. Gomiti sul bancone e mani sulle guance.
«E io che ti avessero arrestato. Che peccato, vero?»
«Sono incorreggibile, lo so.» sorrisetto.
«Perfetto Lupin, allora vai a sfuggire agli sbirri da qualche altra parte.» sbuffo.
Mi allontanai, avviandomi agli scaffali in disordine che Ciccio Bomba mi aveva chiesto (più imposto, ma non facciamo i pignoli) di riordinare.
Lui mi seguii, dicendo che avrei dovuto essere più gentile con i clienti.
Risposi che non rientrava nelle credenziali richieste per quel lavoro, l’essere gentile.
«Chiedono le credenziali in questo tugurio?» sembrava davvero scettico, si lasciò sfuggire una risatina.
Scossi la testa, mentre rimettevo gli Oasis dopo i Nirvana e i Guns n’ Roses prima dei Pink Floyd.
«Probabilmente. Sarà stata una di quelle domande a cui non ho risposto.» glissai.
Si allontanò. C’eravamo solo noi in negozio, sentivo che strisciava i piedi sul pavimento.
Passò un po’ di tempo, il silenzio era opprimente. Cominciai a canticchiare una vecchia canzone dei Green Day.
I’m having trouble trying to sleep. I’m counting sheep but running out. As time ticks by. And still I try. No rest for crosstops in my mind.
«On my own, here we go.»
Mi sorrise, un pochetto. Io accartocciai le labbra di lato. Aveva cantato la mia parte preferita, cavolo.
«Ti piacciono i Green Day?» chiese. Sembrava improvvisamente sveglio. Ebbi come un flashback di me a quindici anni, che andavo in giro chiedendo la stessa cosa a chiunque. Stavolta sorrisi.
«Dire che mi piacciono è un eufemismo del cazzo.»   
 
 
 
«E così ti chiami Frank.»
«Affermativo.»
«Beh, non hai la faccia da Frank.»
«Dici?»
«Mmh. Proprio per niente. Sembri più un Caleb.»
Risi. Caleb era davvero orribile.
«Chiamami Tony, se vuoi.»
«No, non mi piace.» disse, accartocciando le labbra di lato. Lo faceva spesso. Prese a scrutarmi, con gli occhi stretti dal tramonto. In quella luce sembravano ancora più chiari. Le pupille ci stavano affogando, in quei laghi ghiacciati.
«Credo ti chiamerò Seth. Sì, Seth è perfetto.»
Da quando mi aveva detto dei Green Day, non avevamo più smesso di parlare. Sempre punzecchiandoci, ma era divertente sparare le più grandi cazzate, miste a dichiarazioni d’amore alla musica.
Alle sei finii il turno e c’incamminammo insieme verso casa. Io più tardi tornavo alla mia, meglio era. Intuii fosse lo stesso per lei.  
Non era male. Contornati da quei capelli scuri, i suoi occhi bruciavano. E aveva una spruzzata di lentiggini sul naso, uscita da non si sa dove, secondo lei. Più o meno era alta quanto me, e non fece battute di sorta sulla mia altezza. Un altro punto a suo vantaggio.
«Sai cosa, neanche a me piace il tuo nome.» dissi.
Inspirò l’ultima boccata dalla sua sigaretta e poi se la buttò alle spalle. Incrociò le gambe sulla panchina dove eravamo seduti e si voltò di nuovo verso di me.
«Allora come vuoi chiamarmi, Seth?»
«Pensavo a Megan, guardandoti.»
Restò a soppesare, reclinando la testa all’indietro e fissando il cielo.
«Ma sì, può andare.»
Reclinai anche io la testa all’indietro.
«Ti chiamerò così, da oggi. Magari anche Meg.»
«D’accordo, Seth.»
Passarono minuti velocissimi, poi lei si alzò, si passò una mano tra i capelli e disse che doveva andare.
La guardavo, semplicemente. Annuii, con un Oh.
«Tanto ci vediamo in negozio, prima o poi.»
«Certo. Torno presto.»
Suonava come una promessa. Lei annuii, l’imbarazzo era palese.
Io mi sentivo intontito, non avevo neanche capito che se ne sarebbe andata davvero.
«Allora ciao, Seth.»
Mi sorrise.
«Ciao, Meg.»

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Capitolo 3
*** The sound of an old guitar is saving you from sinking, that song you softly sing is keeping you from breaking. ***


the sound of an old guitar is saving you from sinking,
that song you softly sing is keeping you from breaking.




«Oggi non posso venire, signor Howard… sì, lo so, mi dispiace, ma non mi sento bene… certo, certo che recupererò nel weekend… d’accordo… arrivederci a lei.»
Sbuffai. Possibile che uno faccia tutte ‘ste storie per un giorno di assenza? Come se quel negozio schifoso brulicasse di clienti. Pazzesco.
Mi gettai sul divano e scavai sotto il cuscino, certa di trovare il mio cellulare. Avevo dovuto chiamare Ciccio Bomba con quello di Nick, visto che proprio lui, la sera prima m’era letteralmente saltato addosso mentre guardavo la tv. È per forza qua in mezzo, pensai mentre passavo al setaccio tutti gli angoletti del divano. Non che mi fossi lamentata dell’assalto di Nick, ma cavolo, stavo guardando la puntata nuova di NCIS. Certe cose si intuiscono.
Trovato il cellulare, sospirai e scrissi un messaggio a Frank.
“Come non detto. Sono lì tra un’ora.”
Era un giovedì giugno particolarmente afoso, quindi starmene fuori da quel tugurio era meglio di qualsiasi cosa. Inaspettatamente, dopo un mese, non ero stata buttata fuori a pedate nel didietro. Sarà stato perché Seth aveva iniziato a frequentare quel posto un giorno sì e l’altro pure. Cioè, Frank.

Alla fine avevo scoperto che era lui il fantomatico ragazzo che concorreva con me per il posto di secondo chitarrista nella band di Ray.
Non mi avevano presa, ma neanche avevano preso Frank. Cioè, Seth. Insomma lui.
Il frontman, Gerard, era piombato in una delle sue ennesime crisi, a detta di Ray. Alcool, droga. Non usciva più di casa. Nessuno aveva capito perché, ma un bel giorno non si era presentato alle prove, mandando un Mikey dall’occhio nero a spiegare che la band era sciolta. A dirla tutta, neanche avevano un nome, ancora.
Frank non volle parlarne, ma si vedeva che c’era rimasto male.
Rimase cupo per un po’, poi se ne uscii che voleva suonare con me.
Mettere su un’altra band.
Gli avevo detto che componevo e aveva voluto ascoltare qualcosa.
Aveva detto, testuali parole, che è roba forte, ci si potrebbe lavorare sul serio.
Inutile mentire. Mi esaltai.
Decidemmo un posto per le prove, ossia un Seven Eleven abbandonato nel quartiere di Frank, e cominciammo.
Ci serviva un batterista di supporto, ma Frank mi disse di non preoccuparmi, che conosceva qualcuno che sarebbe stato perfetto.
Era una settimana scarsa che provavamo e mi sentivo bene a cantare con lui, a mio agio. E buttavamo giù un sacco di idee, versi smozzicati e coca cola.
Ogni volta, prima di aprire la porta di quel posto ammuffito, mi chiedevo se ne saremmo mai usciti.
Se saremmo mai diventati famosi.
Cavolo, neanche lo conoscevo, ma sentivo che se quel giorno era entrato in negozio, non era stato un caso.
Sognavo tutte le notti il nostro primo concerto al Wembley.
Era come tornare a quei sogni che facevo a quattordici anni di salire sul palco con Billie Joe Armstrong e baciare Tré Cool.
Mi sentivo parte di qualcosa, era una bella sensazione.

Sospirai, mi infilai il cellulare in tasca e feci capolino nella mia camera, dove Nick ancora dormiva.
Gli sorrisi, presi fiato e urlai:
«Oh cazzo, no! Lo skate di Nick è caduto dalla finestra!»
Silenzio. Uno sbuffo.
«Smettila, Ree. Lo so che Cocca è sotto il letto.»   
Sì, Cocca. Avete letto bene. E poi diceva che Leo era un nome stupido per una chitarra.
«Okay, volevo solo dirti che devo uscire. E anche che mi faresti un gran favore se rifacessi il letto.»
Si girò, stropicciò un po’ gli occhi e si mise seduto.
«Venti dollari.»
«Che?»
«Se ti rifaccio il letto mi dai venti dollari.»
Per un secondo avevo pensato…
Mi voltai, stranita, mi infilai le converse, afferrai Leo e aprii la porta. Qualcosa prese a pugnalarmi lo stomaco con mille spilli. La sensazione era quella, più o meno. 
«Ree! Ree, dove cazzo vai?» si era catapultato fuori dal letto e mi stava davanti in boxer, gli occhi neri spalancati.
Scrollai le spalle, guardando il pavimento improvvisamente sfocato. Davvero Ree, dove cazzo stai andando? Che cazzo ti prende? 
«Ti ho detto che devo uscire, mi sembra. Ci si vede.»
Chiusi piano la porta e ci rimasi ferma davanti per un po’.
Nick non la spalancò. Nick non cercò di portarmi indietro.
Ma era ovvio. Era nel patto. Noi eravamo solo un qualcosa di provvisorio. Di latente, sullo sfondo.
Dio, ma perché non ci stavamo sgretolando?
In quel momento avrei voluto che Nick uscisse e mi urlasse contro, che mi sbattesse in faccia le chiavi di casa e se ne andasse. Mi sorpresi a volerlo disperatamente.
Scesi le scale di corsa.
Sembrava un cazzo di film. Uno di quelli in cui la protagonista cogliona non sa che fare della sua vita di merda e non fa altro che mandare a fanculo tutto e tutti. Senza una ragione precisa.  
Perché un moto di stizza mi aveva sconvolto la testa e lo stomaco? Per quei fottuti venti dollari. Perché anche io stavo cominciando a pensare che questa storia con Nick non funzionava, probabilmente.
Trattenni un singhiozzo.
Venti dollari.
Era una cosa buttata lì a caso e, per un attimo, mi sentii un’adolescente suscettibile, un’idiota.
Ero sbottata per niente. E forse Nick aveva avuto ragione a non seguirmi.
Si era detto ma vaffanculo, ‘sta distonica e basta. Aveva ragione. Aveva ragione, cazzo. 
Mi sentivo una puttana, per quei venti dollari.
Era questa la verità.
Pensavo a quanto fossi stata stupida.
Era bastata quella frase e mi si erano aperti gli occhi.
Non m’ero incazzata tanto perché se lo avessi davvero pagato mi sarei sentita una specie di sfruttatrice, ma perché probabilmente lui aveva fatto finta di tenere a me per tutto questo tempo, solo per avere una scopata assicurata quando voleva.
Dio, chi mi aveva messo in testa quella cazzata del patto? Lui non m’aveva mai detto che m’amava. Mai. Erano tutte convinzioni che pensavo ovvie.
Che cogliona, masticai serrando gli occhi per un secondo.

Ero arrivata davanti al Seven Eleven di corsa, avevo il fiatone e spalancai la porta col cuore in gola.
Frank ancora non c’era, ero io in largo anticipo.
Due giorni prima Frank mi ci aveva fatto trovare un divano a due posti e un paio di sgabelli. Visto che ci staremo per un po’, tanto vale che ci mettiamo comodi. Dopo era arrossito, convinto di aver infuso in quel “comodi” qualcosa di malizioso. Era tenero, alla fine. Certo, quella scorza da stronzetto usciva ancora fuori, a volte, ma d’altronde ci conoscevamo neanche da due mesi.

Mi sedetti sullo sgabello e aprii la custodia di Leo. Me lo poggiai in grembo e incespicai un po’ nelle corde, indecisa su che suonare. Di solito, quando ero sola, non suonavo mai roba mia.
Inaspettatamente, non mi consolava come le parole scritte da qualcun altro. C’era una sorta di sollievo barra commozione nel sapere che la vita non bastonava solo te, al punto da spingerti a scrivere cazzate poetiche.
E alla fine, mi venne fuori il primo accordo di Iris. Così, spontaneamente.
Ah, benedetti Goo Goo Dolls.
Improvvisamente la stanza vuota fu gremita di gente, di transenne.
Tutti aspettavano che cominciassi.
Avevo sempre avuto queste strane allucinazioni, figlie della mia fantasia allo stato brado. Mi dava la forza di cantare, quel fantasma di un urlo registrato.
La folla gridò il mio nome.

And I give up forever to touch you, cause I know that you feel me somehow.

Un coro di voci strozzate mi seguiva, mi guidava.

And all I can taste is this moment, all I can breathe is your life. Sooner or later it’s over, I just don’t wanna miss you tonight.  

Il ritornello mi uscii rauco come volevo, e lasciai che le parole mi lenissero dall’interno.
La parte strumentale mi portò alle lacrime. Ci voleva.
Adoravo lasciare le lacrime in mano ad una canzone. Sapevo di non sprecarle.

And I don’t the world to see, cause I don’t think that they’d understand. When everything’s made to be broken, I just want you to know who I am. 

Allungai sul finale, per riallacciarmi all’accordo iniziale. Volevo ricantarla. L’avrei ricantata all’infinito.
La musica mi stava trascinando fuori dal burrone dov’ero caduta. Di nuovo. Per fortuna.
La folla scomparve. I riflettori blu si spensero.
Eravamo solo io e Leo, come sempre.

Mentre cantavo il secondo ritornello, come in trans, sentii una seconda voce unirsi alla mia.
Non aprii gli occhi per controllare, lasciai che mi accompagnasse.
Si aggiunse una cristallina chitarra elettrica, che poi prese a piangere assieme alla mia classica.
E il ritornello ritardò un po’, perché aprii gli occhi, un po’ appannati.
«Ciao.» dissi, in punta di labbra, quasi non volessi sfaldare il castello di note che ci proteggeva, alzando troppo la voce.  
Frank mi sorrise.

Finimmo la canzone, mi assecondò nel mio allungare ancora il finale. Sorridevo.
«Dovremmo farne una cover, Meg.»
«Ci pensavo anch’io.»  









okay, ciao gente c: 
ho pubblicato questo capitolo e boh, ci tengo. mi piace. 
specie l'ultima parte, e chi mi conosce l'avrà capito. 
sono già al lavoro sul quarto, quindi aspettatevi un mio ritorno al più presto (condoglianze ç-ç)
se vi va, recensite. ci terrei tantissimo a sapere che ne pensate. davvero. 

three cheers for you, belle gioie.
tool.

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Capitolo 4
*** I didn't say it but we've never seen eye to eye and it's not trough a lack of trying. ***


sono tornata, chiedo venia per questo ritardo mostruoso, ma sapete che è da me. 
quindi godetevi questo capitolo figlio del nonsense e pace c: 






«Frank tesoro, torni per cena?»
«No, ma’, non m’aspettare.»
Mi chiusi la porta alle spalle, sulle quali gravava il peso della mia Pansy e del mio (seppur mini) amplificatore.
Ogni volta dovevamo fare avanti e indietro con gli strumenti, visto che non potevamo lasciarli in quel postaccio abbandonato.
Provare con Meg si faceva ogni giorno più stimolante. Voglio dire, con Reth. Era una tipa stramba, divertente e, santo iddio, scriveva dei testi assurdi. Bellissimi. 
Quando le avevo chiesto di metter su una band nostra ero arrabbiato con Gerard. Prima mi scopava e poi che faceva? Non mi prendeva nella band, smetteva di chiamarmi, si faceva venire le crisi da drogato. Cancellai il suo numero, atto maggiormente simbolico, visto che lo sapevo a memoria, e cercai di lasciar perdere. Di non pensare.
Andavo ogni giorno al negozio di Meg, cioè… di Reth, e stavo con lei il più possibile, perché tutto quel punzecchiarci mi distraeva. Ma questa cosa continuava a bruciarmi dentro e ad incenerire ogni più piccola forma di autocontrollo.
Volevo sbattere in faccia a Gerard che non m’importava del suo gruppo di sfigatelli del cazzo, che potevo scoparmi chi volevo, che quei baci per me non avevano significato nulla, che lui non era significato nulla. Perché c’ero stato male, in verità, e volevo vendicarmi. E mi sono detto la vera vendetta sarà sentire il singolo della mia band alla radio, sarà vedermi mano nella mano con qualcun altro. Sarà fare qualcosa di me stesso.  
Però poi ho trovato Reth con in braccio la chitarra e la voce tremula, quel pomeriggio, tre settimane fa. L’ho vista ficcare tra le parole biascicate un brandello di cuore alla volta. L’ho vista sconquassata, con gli occhi rossi. L’ho vista credere in quello che stavamo facendo e non poteva più essere solo vendetta. Non era giusto.
Così ho cominciato a crederci anch’io. Ci sto credendo anch’io, adesso.
L’altro giorno è arrivata tutta trafelata, ha cacciato dalla Eastpack consumata dei fogliacci e ha detto “Abbiamo una nuova canzone!”. Ed era bellissima. Lei, Reth, dico. Mentre mi spiegava come immaginava la melodia e io non riuscivo a starle dietro perché le fissavo le mani, i polsi, le dita. Perché volevo capire dove nasceva la magia che portava ogni volta in quel postaccio umido. Perché poi ho letto la canzone e, cazzo, era stupenda.
E allora ho proprio buttato giù la porta della speranza e mi sono buttato a capofitto nei sogni ad occhi aperti.
È così, quando sei ai primordi con qualcosa di nuovo e sconvolgente, credo. Sei convinto che potrebbe spaccare i culi in quattro, che potrebbe essere il trampolino di lancio verso il tuo sogno.
E tutta quest’euforia non si contiene, devi in qualche modo esporla, farne parte integrante del tuo aspetto. Così adesso mi ritrovo il labbro inferiore bucato. La tipa gnocca del negozio l’aveva chiamato labret, credo.
Ormai ero a pochi passi dal Seven Eleven e cercavo di immaginarmi la faccia che avrebbe fatto Meg alla vista del labret.  
Aprii il portone del Seven Eleven, attraversai una sala grande quanto la hall di un maxi-cinema, dritto verso una porta laterale che conduceva al nostro covo per le prove. Più mi avvicinavo, più la voce di Reth si faceva chiara e forte.
Spalancai l’ultima porta, e lei non alzò la testa. Non lo faceva mai, era sicura che fossi io. Non smise neanche di cantare.
Poggiai a terra le mie cose, mi avvicinai, mi sedetti sullo sgabello accanto al suo.
Stava suonando una delle sue vecchie canzoni, solo chitarra classica e voce. Faceva And I’m sleeping, asleep but awake, awake in my dream, only in my dream.
Cantava ad occhi chiusi.
Muoveva appena le labbra, stringeva impercettibilmente le sopracciglia, come sentisse dolore.
Till the last hour pass, dream your new life, sleepin’ on the grass.
Ultimo pizzico di corde.
«Sei sempre in ritardo, Seth.» ridacchiò lei, aprendo finalmente gli occhi.
«Ringrazia che sono riuscito a sfuggire a mia madre.» dissi, sorridendo.
«Ah, è vero. Qui sono io la giovane indipendente.» e assunse un’espressione fiera, mal celando una risata.
«Ancora per poco.» sbottai «Presto lascerò anche io la prigione.»
Lei si alzò, annuendo, poi si avvicinò alla custodia della sua chitarra elettrica borbottando qualcosa. Forse canticchiava.
«E dov’è che andrai?»
La osservai che se la metteva a tracolla e portava i capelli su un lato.
«Da un mio amico. Sai, uno dei Pencey Prep.»
Fece un sorrisetto, annuendo.
Inserii il cavo nel jack e strimpellò un paio di note. Avevamo provato un arrangiamento, qualche giorno prima, ed era rimasto in sospeso. Non c’era un modo di continuarlo che suonasse come volevamo.
Afferrai Leo e ripetei lo stesso giro di note di Reth.
Azzardavo, ricominciavo. Sembrava un vicolo cieco, quella base.
«Gli piaci.»
Alzai di scatto lo sguardo e vidi che Meg mi guardava con un gran sorriso.
«Cosa?»
«Ho detto che gli piaci. A Leo.» ridacchiò con ovvietà. Come se fosse di dominio pubblico il fatto che credeva nello spirito delle chitarre. Ecco cosa intendevo quando ho detto ch’era stramba. Era una specie di Luna Lovegood versione grunge. Intrigante.
Restammo in silenzio per tanto, concentrati su quella base. Reth prendeva seriamente le prove, e all’inizio mi metteva un po’ a disagio tutto quel silenzio, ma mi stavo abituando ad osservarla e capire.
Provammo per qualche ora, prima che le squillasse il cellulare.
Quando lo cacciò dalla tasca, lo fissò e sospirò.
«Dimmi. Oh, beh, non lo so. Senti, torno quando mi pare, è casa mia. No, vedi tu di calmarti, idiota. Dillo di nuovo e-» si fermò, emise un grosso sospiro e riprese. «Ascolta. Ascoltami. No no, adesso arrivo. E vabbé, vedrò di organizzarmi. Però diamine, potevi dirlo prima. Sì, okay. Boh, non so, controlla. Ah, è vero.» si fermò di nuovo e rise. «Okay, okay. Arrivo, ciao.»
Chissà perché, intuii che doveva andarsene. Che genio che sono.
Stava per dirmi qualcosa, ma la anticipai.
«E’ tutto a posto, possiamo vederci domani.»
«Grazie Frank, scusami.» disse. «Il mio ragazzo ha perso le chiavi di casa.» spiegò poi, ridacchiando. Era nervosa. E, da come disse la parola ragazzo, sembrava volesse metterci le virgolette.
«Tranquilla.» fu tutto quello che dissi, oltre a qualche ‘ciao’, prima che se ne andasse.
Me ne andai dopo poco, rimuginando sulla possibilità di chiudere una porta a chiave e lasciarci le nostre cose. Boh, avrei potuto chiedere a mio padre di insegnarmi a montare una serratura. Sempre che lo sapesse fare.
Poi, inevitabilmente, pensai al ragazzo di Reth. Probabilmente era alto, bello, biondo, denti smaglianti. Un dio delle ceppe. Qualcosa del genere, insomma. Reth non era tipo da perdere tempo con gente come me. Io andavo bene come membro-amico della band. Era un ruolo che mi calzava a pennello. Lo pensava anche Gerard, sicuramente. Ecco perché non mi chiamava più.
Ero tornato al rango di pezza-da-piedi-che-un-tempo-scopai o robe simili. Non c’erano altre spiegazioni. Calciai un sassolino e mi detti del coglione. E che coglione.
La porta di casa si avvicinava sempre più e pensai di sedermi in veranda e dormire all’aperto. Ero sicuro che mia madre avrebbe capito che qualcosa non andava. Che poi, cos’è che non andava? Reth mi piaceva? Ma non avevo detto che era solo una distrazione? Ah no, poi ho cominciato a crederci. Ma lei è… non ero sicuro che mi piacesse in quel senso. Era più una cosa da gatto col topo, suppongo. Solo che non avevo ancora capito se ero il topo o no.
E Gerard? Era escluso che me ne dimenticassi, ovviamente. Però ci pensavo sempre meno ogni giorno.
Spalancai la porta di casa. Il salotto era buio, mia madre doveva essere già a letto. Ma che cazzo di ore erano? Presi il cellulare. Le nove e mezza.
Che orario improponibile per andare a dormire.
Salii in camera mia per lasciare Pansy, poi scesi a prepararmi qualsiasi cosa di commestibile ci fosse nel frigo.

Reth non aveva notato il labret.  
 
 
 



«Che?»
Nick era furibondo. Spalancò gli occhi e non so dove trovai il coraggio di ripetergli di andarsene.
«E dammi le chiavi.» aggiunsi, cercando di tener salda la voce. L’avevo immaginato così diversamente nella mia testa. Una cosa molto da sitcom. Divertente, senza tensioni. “Hey, direi che la puoi piantare di vivere a scrocco da me, bello. Addio, evapora” sarebbe stato un discorso bellissimo.
E invece eccoci qui, io mezza cagata sotto e lui che mi scrutava con gli occhi da pazzo.
«Tu non vuoi davvero che me ne vada.» disse.
«Certo che lo voglio.» replicai. Nella mia versione sitcom sarebbe stato un “Oh certo, infatti le parole levati dai coglioni lasciano un largo margine di dubbio”.
Ci guardammo in silenzio. Indurii lo sguardo. Basta farsi fregare, Reth. Casa tua, tue le decisioni.
«Allora, staremo così ancora per molto? Ho fame.» sbottai, infastidita.
Lui prese un gran respiro e disse:
«Va bene. Me ne vado.» e prima che potessi replicare sulle chiavi, aprii la porta e se la sbatté alle spalle.
«Brutto pezzo di merda! Se torni ti uccido, ti denuncio! Mangiatele quelle cazzo di chiavi, hai sentito? E vaffanculo!» urlai nel pianerottolo. Senza averlo davanti era più facile. Che razza di codarda.
Rientrai in casa e sbarrai la porta.
Dovevo cambiare serratura adesso. Magari Frank poteva aiutarmi. Sempre che lo sapesse fare.
Mi accasciai sul divano, la fame m’era passata.
Scrissi un messaggio a Frank.
Che fai domani alle undici? Ti va di uscire? 

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Capitolo 5
*** you and i are just walking disasters. ***


hola people c:

vi dico subito che mi piace davvero questo capitolo. 
è uno dei più deliranti che abbia mai scritto e ne vado fiera (?)
spero tanto che apprezziate e recensiate ç_ç
xoxo, tool.

 




Il messaggio lo scrissi, ma non lo inviai.
Restai col pollice sospeso sul tastino per un minuto buono.
E alla fine niente, non glielo inviai.
Cosa gli avrei raccontato? Che il mio ragazzo era uno stronzo e purtroppo non avevo nessun altro con cui parlarne? Nemmeno io sono così rude.
E poi eravamo passati al livello “amici” da poco, non potevo già cominciare a parlargli di tutte le turbe che mi infestavano il cervello.

Il giorno dopo rimasi chiusa in casa, al buio, a scrivere una canzone che m’aveva assalito durante la notte. Il cuscino puzzava ancora di Nick e provai una rabbia ceca, inesprimibile a parole, che richiedeva uno di quei pianti da sedicenne. Piuttosto infiniti e dolorosamente insensati.
Nel pomeriggio bussò la vecchietta che abitava di fronte a me.
«Le ho preparato dei biscotti.» disse con la voce che hanno le persone sagge.  Le aprii la porta che sembravo Rudolf la renna, quella col naso rosso. La feci entrare e mi scusai del disordine procrastinato, le chiesi se voleva un caffè, ma rifiutò con un sorriso. La ringraziai tanto, dissi che non ce n’era bisogno e mentre le parlavo la notai per la prima volta. C’eravamo sempre solo incrociate per le scale o quando uscivo e le tenevo il portone aperto mentre entrava carica di buste della spesa. Notai i capelli corti e grigiastri, le rughe intorno agli occhi scurissimi e il gilet rosso sopra la camicetta bianca. C’era qualcosa di familiare in quel suo modo di comportarsi. Familiare non nel senso che mi ricordava qualcuno, ma proprio familiare, come una nonna. La sentivo così, e credo sia una cosa non esattamente comune. Sapeva come tutte le volte che invecchiavo tra gli scaffali dei cd e li sentivo proiezioni della mia vita, delle mie parole.
Rimasi a pensarci quando se ne andò. Faccio sempre così, penso all’impressione che mi fa la gente quando ormai se n’è andata. Era stata gentile e i biscotti con le scaglie di cioccolato furono deliziosi. Si chiamava Rose. Io mi chiamo Aretha, dissi. Oh, ma tu guarda, come la cantante, fece lei entusiasta. Parlammo e se ne uscii dicendo che conosceva un falegname, un tipo che avrebbe potuto cambiarmi la serratura.
Come sa che voglio cambiarla?, le chiesi. Beh, insomma, non credere che certe cose non siano successe anche a me, ai tempi, rispose. È proprio un mascalzone, eh?, domandò. Non se l’immagina, mormorai. È uno di quelli che ti fa credere di poterti fidare e tutto, poi in realtà capisci che si serve di te, che è uno spiantato e basta, borbottai. Lei tirò fuori un foglietto e una matita microscopica dalla tasca del gilet e scrisse un numero. Tieni, chiamalo appena puoi e digli che Rose ti ha consigliato i suoi servigi, mi sorrise.
 
Verso le otto scesi nella lavanderia e occupai quasi tutte le lavatrici con i miei vestiti e le lenzuola. Mi sedetti e ascoltai il ronzio delle lavatrici per un po’. Avevo pianto metà del giorno, ero certa che i miei occhi fossero gonfi e rossi.
Probabilmente era un mercoledì. Il mercoledì sera cosa facevano in tivù?
Fissai la lavatrice dal colore anonimo e presi a pensare a mia madre.
Chissà che stava facendo in quel momento. Chissà dov’era.
Sicuramente era ancora incazzata con me per quella storia del suo compleanno. Perché secondo lei avrei dovuto farmi non so quante ore di volo per andare dal lei in Virginia. Per un compleanno. Roba che ritorna ogni sacrosanto anno ed è palesemente inutile dopo i trentotto anni. Che, scontato, mia madre aveva superato da secoli.
E magari era arrabbiata anche perché due anni prima ero scappata di casa, per così dire. Finito il liceo non avevo alcuna intenzione di rinchiudermi in un’altra istituzione votata allo studio e all’arrampicamento sociale, quindi un pomeriggio feci i bagagli e presi un bus per il Jersey.   
Tanto ero comunque la pecora nera della famiglia, una cazzata in più non avrebbe fatto differenza.
Non avevo proprio un piano, avevo solo seguito l’istinto di sopravvivenza che ad una certa età ti porta dove dovresti essere. Dove avresti sempre dovuto essere.
Il mio posto era in quella lavanderia di condominio, alle otto e mezza, con un sogno in via d’allestimento.
Sapeva tanto di bohémien quindi sì, doveva essere per forza quello il mio posto.
Lo schermo del telefono, elegantemente appoggiato sulla lavatrice in preda ad attacchi epilettici, s’illuminò di colpo, attraendo il mio sguardo.
Aspettai per capire se era un messaggio o una chiamata.
Chiamata.
Giuro che se è Nick butto il cellulare nella lavatrice.
Ma sullo schermo minuscolo del mio cellulare c’era scritto “numero sconosciuto”. Nick poteva benissimo star chiamando da una cabina telefonica, squattrinato com’era. E alla fine risposi.
«Sì?» rantolai. Avevo la voce roca da fumatrice incallita.  
«Reth? Sei tu?»
«No, sono Rocky.»
«Il pugile?»
«In persona.»
«Ah beh, piacere. E dov’è Reth?»
«Un attimo che gliela passo. È stato un piacere anche per me.» mi allontanai dal cellulare per un paio di secondi, poi mi riavvicinai.
«Al momento Reth non è in casa.»
«E non sa che fine ha fatto?»
«Sarà a caccia di procioni. Oggi è mercoledì.»
«A caccia di procioni.»
«Precisamente.»
«Beh, allora credo che lei potrà aiutarmi. Dovrebbe darle un messaggio da parte mia.»
«Ma certo.»
«Le dica che oggi sono rimasto tre ore ad aspettarla al Seven Eleven e purtroppo ho finito tutta la pizza che avevo portato.»
Sgranai gli occhi, improvvisamente lucida. «Oh porca troia! Frank, oddio, mi dispiace. I-io… non lo so, scusami, ma come ho fatto a dimenticarmene?, cristo, ma che testa di cazzo che sono, scusa, scusa, scusa.» sbottai, schiaffeggiandomi la fronte ripetutamente.
Lui rise. «Ma guarda, allora sei tornata. Com’è andata la caccia?»
«No, Frank, sul serio. Dio, ho pure fatto Rocky.»
«Già, è stato divertente. Hai una voce orrenda.»
«Non ti ci mettere anche tu, adesso. Ma tu guarda, ho anche sentito la tua voce e non mi sono ricordata nulla. Cazzo, ma dimmelo che sono una cazzona, dimmelo.»
«Sei una cazzona.»
«Grazie, sei un amico.»
«Sì certo, intanto ho fatto indigestione di pizza per colpa tua.»
«Ai peperoni?»
«Me l’avevi detto che ti piaceva.»
«Ma che cazzo. Dici che devo farmi curare? Magari qualcosa per la memoria.»
«Dico che se domani non porti minimo dieci lattine di cola non ti faccio neanche entrare.»
«Promesso. Promesso, Seth.»
«Sarà meglio, Meg.»
«Magari anche la pizza?»
«Lascia perdere.»
«Giusto, sì.»
«In caso avessi fame potrai sempre mangiare i procioni cacciati stasera.»
Ridemmo un sacco. Inventammo una ricetta a base di procioni e coca cola, da cuocere a fuoco d’accendino. Roba da campeggiatori esperti.
«E oggi non è mercoledì, tanto per la cronaca.»
«E che cazzo di giorno è?»
«Venerdì.»
«Porca paletta. Sono proprio sfasata.»
«Ho notato. Ma è successo qualcosa?»
Tre secondi di silenzio in cui mi vennero in mente trenta bugie diverse da raccontargli.
«Niente di particolare. Ma ho scritto una nuova canzone. Domani arrangiamo qualcosa, sento che quella base è perfetta.»
«Quella bastarda?»
«E’ perfetta.»
«Okay. Sicura che è tutto a posto?»
«Forse ti racconterò quando avrò sistemato tutto. Intanto conosco un tizio che potrebbe mettere la serratura alle porte del Seven Eleven.»
«Grandioso. Allora ci si vede domani, Meg.»
«Arriverò puntuale e ricca di vivande, caro Seth.»
Rise e mi salutò. Attaccai e controllai la lavatrice. Il lavaggio non sarebbe finito prima di due ore. Tanto valeva andare a dormire e si sarebbe visto domani.
 
 
 
Una brutta stronza. Ecco cosa sono.
Trattenni a stento le lacrime, mentre biascicavo bestemmie che neanche un arabo avrebbe potuto inventare.
Ero nel panico. Composi di nuovo il numero di Frank. Erano le quattro del mattino ma non c’era nessun altro al mondo che potessi chiamare.
«Chi è?» bisbigliò una voce ancora addormentata.
«Frank, sono io.»
«Reth? Che succede?» sentii la rete del suo letto che cigolava mentre si metteva seduto.
«Ho…» e la voce mi mancò. Guardai lo scempio che giaceva sul mio pavimento. «Ho spaccato Leo.»
«Oh merda.»
«Sono pessima. È morto, Frank. Il top è in pezzi, non ce la faccio neanche a guardarlo.» piansi, asciugandomi le lacrime.
«Tranquilla, tranquilla. Dammi il tempo di alzarmi e sono lì da te.»
«Ma no, non devi. Ti ho chiamato perché se mi fossi messa a piangere per telefono con…»
Con chi? Mi venne ancora più da piangere.
«Lascia stare, solo smettila di piangere, okay?»
«Okay.» annuii tirando su col naso.
«Vengo lì. Tanto ormai sono sveglio.»
«Sicuro? Insomma, credo di farcela a costruirgli una bara da sola.»
«Ma che merdate spari? No, dai, basta coi singhiozzi. Su tranquilla, adesso arrivo. Ma… com’è successo?»   
«Gli è caduto sopra il ferro da stiro.»
Silenzio tombale.
«Perché hai un ferro da stiro?»
«Per stirare, genio.» risi, passandomi una mano sulla faccia.
«Va bene, non farò domande. Sul serio, cinque minuti e sono lì.»
«D’accordo.»
Attaccai.
Neanche due minuti e il cellulare squillò di nuovo.
«Dimmi.»
«Dove hai detto che abiti?» 

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Capitolo 6
*** I'm sick of dancing with the beast. ***


ssssalve gente c: 
eccomi tornata, ho fatto abbastanza presto stavolta, vero? 
sarà che il pensiero di cominciare la scuola e lasciarvi senza capitoli
per tempi indeterminati mi angoscia lol 
no, vabbé, spero di non ridurmi a scrivere dopo mesi D: 
pregate per me e intanto godetevi questo robbo (?) 
<3



L’indirizzo era giusto.
Morrow Street 13.
Dall’esterno si vedeva una sola finestra illuminata in tutto l’edificio.
Doveva essere il terzo piano.
Il portone si aprii con uno scatto e salii le scale due a due.
Il pianerottolo del terzo piano aveva tre porte, solo una senza nome all’esterno.
Era per forza di Reth.
Bussai e dopo poco la porta si spalancò. Reth mi strinse a sé prima che avessi il tempo di guardarla in faccia.
«Grazie, Frank.» disse. La strinsi anch’io, senza parole.
Non mi aveva mai abbracciato prima. I capelli odoravano di pesca.
«Dai, vediamo come sta Leo.»
Si allontanò e la misi a fuoco. Gli occhi rossissimi e incavati, i capelli scompigliati, i pantaloncini rossi e la maglietta bianca.
Mi sembrò così fragile. Quella non era la Reth che conoscevo. Che credevo di conoscere.
Mi condusse alla sua stanza, passando attraverso il salotto. L’unica luce era data da una lampada accanto al divano. C’era una calma irreale, interrotta. Avevo immaginato casa sua diversamente. Una specie di bazar con le cianfrusaglie più inutili, pieno di colori e cartoni di pizza. Invece era vuota. Grigia e solitaria. Accese la luce nella sua camera e Leo stava sul pavimento freddo, con la tastiera in due e il top fracassato. Le corde erano inutilizzabili.
«Dov’è il ferro da stiro?»
«L’ho buttato dalla finestra.»
La guardai a occhi spalancati. Lei ricambiò lo sguardo senza emozione, tirò su col naso e disse:
«Erano le tre di notte, non c’era un’anima per strada.» poi scrollò le spalle. Restammo a fissare quella povera chitarra senza parlare.
«Te l’avevo detto che non potevamo fare nulla.» disse lei, serrando le braccia al petto. Stava appoggiata allo stipite della porta, rannicchiata quasi. Effettivamente faceva freddo lì dentro, le finestre erano quasi tutte spalancate. Abbassò la testa e starnutii.
«Salute.»
«Grazie.» e tirò su col naso. «Non so che fare.»
«Puoi vedere se il tuo capo conosce qualcuno ch-»
«No. Non so davvero che fare. La mia vita fa schifo.»
Quella frase non c’entrava niente. Iniziai a pensare a Reth come ad una di quelle che fanno certe cose, tipo cominciare a parlare di altre cose in situazioni che già ne hanno prestabilite. Di cose. Okay, questo pensiero non ha senso.
Lei mi guardava con lo sguardo colpevole. Come se si aspettasse che iniziassi a giudicarla.
«Ma che dici, Reth.»
«Dico la verità, Frank. Ti ho chiamato a quest’ora improponibile, scusami ancora. È assurdo, ma non potevo chiamare nessun altro.» iniziò a tremarle la voce.
«T’ho detto che non importa, tranquilla.» dissi, avvicinandomi a lei.
«No, invece importa. Ci pensavo ieri.» e si sedette a gambe incrociate sul pavimento. «Ti va di parlare?» chiese.
Annuii e mi sedetti di fronte a lei. Sospettavo che fosse successo qualcosa.
Reth prese un respiro e cominciò, senza guardarmi.
«Beh, avrai capito che non sono esattamente quello che si definisce “una ragazza stabile”» ridacchiò. Giuro che in tutta la mia vita, l’espressione “una ragazza stabile” non l’avevo mai sentita. Quindi risi anch’io.
«L’altro giorno ho litigato con quel tipo per cui ho lasciato prima le prove.»
«Il tuo ragazzo?»
Reth mise su una strana smorfia. Come se le prudesse il naso. «Non l’ho mai considerato così, ma non credo esista un termine adatto a questa situazione. Perciò diciamo ch’era il mio ragazzo.»
Io annuii. «E quindi?»
«Quindi lui potrebbe arrivare da un momento all’altro e pretendere di tornare a vivere a scrocco da me. Solo che mi sono rotta le palle e avevo in mente quella cosa della serratura.»
«Drastica come cosa.» osservai.
«Tu che faresti? Non è che posso farci a pugni, quello è il doppio di me.» fece lei, stizzita.
«Beh, magari non tornerà.»
Lei mi guardò alzando un sopracciglio. «Dico, ma hai ascoltato quello che ho detto? Quello è un rompicoglioni di prima categoria, è ovvio che tornerà.»
«Era per dire.» dissi, e scrollai le spalle. Reth rise e si passò una mano in faccia.
«Come si chiama questo?»
«Nick.»
«Cognome?»
«Hopkins.»
«Nick Hopkins.» mormorai, cercando di dissimulare il gelo che mi attanagliò. Nick Hopkins era il peggior bullo del mio liceo. Non so quante volte mi ficcò negli armadietti, mi fece lo shampoo nel cesso e mi buttò nei bidoni della spazzatura della mensa. Se ne andò prima che iniziassi il quarto anno, ma il suo nome ancora mi fa rabbrividire.
«Lo conosci?» mi chiese Reth. La guardai. Come poteva stare con quel tipo? Quel farabutto, quel coglione. La guardai bene e capii che Nick aveva scelto lei, non il contrario.
«No, non mi viene in mente nessuno che abbia questo nome.» mentii. Okay, con questo avevo toccato il fondo.
«Beh, meglio. Non vorrei che ci avessi a che fare.» fece lei, passandosi una mano tra i capelli. Poi sorrise mestamente.
«E pensare che neanche volevo dirtelo, sai? Pensavo “ma tanto che gliene frega a Frank, sono cazzi miei, devo vedere come risolverli” oppure “come minimo mi ride in faccia”. E invece sei bravo ad ascoltare.»
Questo mi fece sentire una merda. E lei mi guardava anche compiaciuta. Che scena patetica. Tentai un sorriso. «Devi avere più fiducia nei nani, siamo pieni di sorprese. E poi sei mia amica.»
Mi sorrise anche lei, un po’ imbarazzata, e s’alzò. «Facciamo un po’ di caffè, va’. Tutti questi sentimentalismi mi fanno venir sonno.» borbottò senza levarsi il sorriso dalla faccia. Continuai a pensare ch’ero una merda per tutto il tempo. Cominciavo a sentire il bisogno di fuggire da quella casa.
Era quasi l’alba e la casa era freddissima, ma Reth continuava a stare in pantaloncini. Mi sfiorò l’idea che fosse un vampiro, ma questo mi ricordò Gerard. In effetti Reth gli somigliava in certi atteggiamenti, certi modi di parlare, anche fisicamente.
Era davvero bella, comunque. Raccolse dal divano una felpa di lana verde e se l’avvolse addosso. Le stava enorme e la faceva sembrare più minuta.

La seguii in cucina e parlammo ancora un po’ della band.
Venne fuori che non avevamo ancora un nome e buttammo giù qualcosa su un fazzoletto.
«Che ne pensi di Funny Detonation
Ci fissammo per qualche attimo.
«Boh. Credo che per ora possa andare.» feci io. Reth annuii, fissando il fazzoletto pieno di scritte e anche macchiato di caffè.
«Magari teniamo Detonation ma ci mettiamo qualcos’altro accanto.» e si mise una mano nei capelli, picchiettandosi la testa con l’indice. Io le stavo di fronte e avevo il mento appoggiato alle braccia incrociate sul tavolo. Cominciavo ad avere sonno.
«Trovato!» sbottò lei all’improvviso. Sobbalzai e quasi persi l’equilibrio. Lei mi guardò con gli occhi accesi, sorridenti, la luce del mattino alle spalle e i riflessi biondi dei capelli che spiccavano.
«Dimmi.» feci io, stropicciandomi gli occhi e nascondendo a malapena uno sbadiglio.
«Escaping Brain Detonation.»
«Wow.»
Era wow davvero. La vidi compiacersi e sorridermi trionfante. Mi fece l’occhiolino e disse: «Basta sedersi con un buon caffè davanti e tutto si risolve.»
Si alzò di scatto e mentre mi passava dietro, mi scompigliò i capelli.
«Vedi di non addormentarti, stamattina si va a caccia.»
«Di che?»
«Roba grossa. Chitarre acustiche.» rispose Reth, e sentii le ante dell’armadio che sbattevano. Mi alzai anch’io e mi stiracchiai. Probabilmente a mia madre sarebbe venuto in infarto non appena avrebbe scoperto della mia fuga notturna. Specie perché ero a casa di una ragazza. Le madri pensano sempre male, è un dato di fatto.
«Ma come ti è venuto in mente questo nome fighissimo?»  
«Guardandoti mentre suoni. Sai, quando fai head banging e ho paura che ti si spezzi l’osso del collo.» rise lei, camminando per la stanza. «Immagino che il tuo cervello sbatacchi sulle pareti del cranio e stia per esplodere, tutto il tempo. Perciò tu devi trovare un modo per detonare l’esplosione senza danneggiare il cervello. Non è che puoi spruzzarne pezzi ovunque. E allora suoni. E funziona, esplodi in altri modi.»
Raccolse Leo da terra e, sospirando, lo nascose sotto il letto.
Io ero rimasto basito a guardarla, senza batter ciglio, senza quasi respirare. Non so, ho sentito solo io quello che ha detto? L’avete sentito anche voi? Oh, cazzo. Il nome della band era ispirato a me. Mi sentii come lo scioglimento di un iceberg di zucchero nello stomaco. Con quelle parole aveva descritto esattamente come mi sentivo. Cos’era la mia vita. Un continuo conto alla rovescia per la detonazione del mio cervello, evitato all’ultimo secondo grazie alla mia musica, alla mia Pansy.
Questo mi spaventò un po’, ma mi affascinò anche. Non so, probabilmente iniziai quel giorno a volerle bene sul serio. Quando disse “guardandoti mentre suoni”. Smisi di pensare che somigliava a Gerard. Lui non si era mai interessato a conoscere parti di me che non fossero sotto la cintura.

«Hey Ho! Let’s Go!» gridò Reth aprendo la porta. Mi afferrò la mano e mi trascinò fuori. Aveva una stretta forte, sicura, da chitarrista insomma. Questo mi rassicurò, inconsciamente. Reth era come me, provava ciò che provavo io riguardo la musica.
Per questo aveva indovinato i miei sentimenti.
Guardando la sua mano stretta alla mia cercai di immaginare i suoi giorni bui, senza speranza. Forse ieri lo era stato. Per colpa di Nick. Eppure adesso mi sorrideva e diceva convinta che quel nome ci avrebbe portato lontano. Che noi ce l’avremmo fatta. Magari se ci procuri quel batterista, disse. Oh cazzo, hai ragione, sbottai io. Me n’ero completamente dimenticato. Piano piano, camminando, sciolse la nostra stretta e si mise la mano in tasca.
Pensai ai suoi giorni bui e provai un moto di rabbia verso chiunque avesse potuto farle del male. Se immaginavo Nick che la baciava avevo il voltastomaco.
Mi dissi che ci avrei vendicati.
Avrei vendicato le sue lacrime e la mia adolescenza.
Nick Hopkins aveva i giorni contati.  

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Capitolo 7
*** School Sucks, Start A Band. ***


oilà salve. sono passati secoli, i know. ho anche cambiato nome (?)
mi dispiace molto, ci tenevo a questa fic, ma per un po' ho creduto di non essere più all'altezza di scriverla.
o forse, principalmente, mi faceva troppo male, dopo che i My Chem hanno deciso di sciogliersi. 
ieri sera, poi, dopo mesi, l'ho riletta e ho capito che proprio perché loro hanno chiuso il loro libro, io devo continuare il mio. 
dopotutto, andare avanti è il primo insegnamento che ci hanno dato.

spero di non deludervi, ne ho scritti addirittura due di capitoli lol  
buona lettura <3
 





«Lei mi sta dicendo che non ha mai giocato a Uovo Pong.»
Frank scosse la testa, divertito. «Che cazzo sarebbe?»
«Giocare a ping pong con un uovo sodo al posto della pallina.» risposi seria.
Lui rise strizzando gli occhi. «E come diavolo fai?»
«Effettivamente una partita non dura mai moltissimo.» risi «In compenso ci si diverte molto di più che giocando normalmente.»
«Ma perché, cristo santo? Perché non c’ho mai pensato?» si chiese gettandosi sul divano a peso morto e coprendosi il volto con le mani.
«Non te la prendere, dolcezza. Non tutti hanno la mente stocazzosa adatta.» dissi, ritornando ad accordare Marauder. La mia nuova acustica, già. Vi lascio immaginare la libera ispirazione del nome. Molto libera, direi. Liberamente imposta da un folletto fuggito dalla Gringott per inseguire il suo sogno di chitarrista. Un folletto di nome Frank.
«Ah, domani dovrebbe venire a provare il batterista che ti dicevo.» disse Frank, stiracchiandosi.
«E com’è?» chiesi.
«Non te lo dico.»
Lo guardai fingendomi adirata. «Almeno dimmi come si chiama.»
Frank si portò le mani dietro la nuca e, con un sorrisetto da demente, scosse la testa.
«Bene, perfetto. Scordati che ti porti i biscotti al cioccolato di Rose.» ribattei, strimpellando qualcosa a caso.
Con la coda dell’occhio vidi Frank con l’espressione più scioccata che avessi mai visto. Scoppiai a ridere, mentre lui mi malediva borbottando. Si era conosciuti, lui e Rose, quando una sera mi aveva accompagnato a casa e lei era sul pianerottolo ad innaffiare le sue piante. Da lì al sapere dei suoi biscotti era stato un attimo.
Ormai le prove andavano avanti così. Ci vedevamo un giorno sì e uno no, a turno portavamo bibite e cibo e passavamo ore a scrivere, suonare, sparare le peggiori cazzate e raccontarci piano l’uno all’altra.
Sentivo di star trovando un grande amico in Frank, l’amico che mai avevo avuto. Al liceo ero stata la ragazza diversa da tutte le altre, che vedi sempre vestita di nero e con i capelli disordinati, magari le cuffie nelle orecchie e lo sguardo assente. Di conseguenza, zero amici.
Riuscivo ad immaginarmi con Frank, al liceo, che ci prendevamo gioco di tutti gli altri, che vedevamo il mondo allo stesso modo e ascoltavamo la stessa musica. Mi sarebbe piaciuto incontrarlo lì, in quella prigione di zombi, in quella solitudine.
«Quindi hai deciso di fare quel piercing, alla fine?» domandò Frank, mettendosi a sedere.
«Decisamente sì. Ma mi aspetto che m’accompagni, bello.» ridacchiai in risposta, posando la chitarra un attimo. Frank restò in silenzio a guardarmi e mi sentii imbarazzata. «Insomma… tu hai più esperienza di me in queste cose.» cercai di giustificarmi, indicando il suo labret. Lui annuii.
«Certo che ti accompagno.» sorrise poi.
 
 
 
Il giorno dopo fu il fatidico giorno dell’arrivo del batterista. Quello stronzetto di Frank non aveva voluto anticiparmi nulla, così appena mi si presentò davanti questa specie di vichingo di nome Bob non seppi come comportarmi.
Sembrava amichevole, sotto la scorza da asociale. Frank era entusiasta di lui, quindi anche se nel nostro covo non avevamo una batteria, mi fidai. Mi feci promettere, però, che appena possibile ci avrebbe fatto sentire qualcosa.
«Beh ma come facciamo a provare qui? Non posso certo portarmi dietro la batteria ogni volta.» fece Bob, in mano una birra gentilmente offerta dalla casa.
«Abbiamo in mente di mettere una serratura e chiudere tutto qui dentro.» spiegò Frank.
Bob guardò prima lui e poi me.
«Ragazzi… non credo sia legale.» disse, scuotendo leggermente la testa.
Io e Frank ci guardammo. Dopo tre secondi eravamo in preda alle convulsioni per il troppo ridere.
Suppongo che Bob abbia soppesato in quell’istante la precarietà della nostra sanità mentale.
Perciò acconsentii ad unirsi a noi, per bilanciare la nostra demenza con il suo buon senso.
 
 
 
 
 
«Cavolo, non pensavo mi avrebbe fatto così male.» biascicai, uscendo dal negozio Dark Angel con il sopracciglio dolorante.
«Ti sei scelta il più rognoso di tutti i piercing, adesso taci.» mi rise in faccia Frank.
«Comincio a rimpiangere l’averti chiesto di accompagnarmi.» sibilai, spingendolo con una spallata.
«E io che mi aspettavo un minimo di riconoscenza.» ribatté lui.
«L’avrai quando imparerai ad essere meno stronzo.» affermai con ovvietà.
Rise un po’, compiaciuto, e lasciò cadere la discussione.
Continuammo a camminare in silenzio, interrotto da qualche mio lamento sporadico. Quel diamine di eyebrow faceva una male del cazzo che-
«Reth.» bisbigliò Frank.
«Mmh?»
«Devo dirti una cos-»
Lo squillo del mio cellulare lo fermò. Lo cacciai dalla tasca dei jeans e sul piccolo schermo spiccava il nome di Nick.
Sbuffai annoiata. «Figurati se rispondo a questo coglione.»
Ripresi a camminare a passo spedito, con Frank accanto che nemmeno si era scomodato a chiedere chi fosse al telefono per quanto era ovvio.
Non volevo averci più a che fare, e nemmeno volevo coinvolgere Frank più di tanto. Se fosse tornato avrei trovato un modo di cavarmela. Spero.
Arrivati sotto casa mia, prima di aprire il portone mi fermai, ricordandomi di qualcosa che Frank stava per dirmi.
Lui scosse la testa, dicendo che non era niente d’importante.
Restai perplessa, ma non vi diedi peso. Salutai Frank e mi chiusi la porta alle spalle, con la sola voglia di estirparmi il sopracciglio sinistro. 

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Capitolo 8
*** Fist Up, Head Down. ***


ecco il secondo, ppl. 
fatemi sapere cosa ne pensate, ho bisogno di sapere che non vi disgusta troppo ç-ç

buona lettura <3




 

Sospirando, mi voltai e presi a scendere per Morrow Street.
Ero un codardo. Un povero coniglio. Prevedevo di farmi un bagno nell’autocommiserazione appena arrivato a casa.
Stavo per confessare a Reth di Nick e poi per una chiamata del cazzo era tutto andato a farsi fottere.
Non ero sicuro del perché, ma mi sentivo in colpa a tenerle nascosto il fatto che conoscessi il suo ex. In qualche modo avrei potuto condividere con lei tutto questo, invece di lasciarmi mettere da parte perché lei voleva proteggere me.
Scesi dal marciapiedi giusto in tempo per vedere un alto e biondo tipo dirigersi a passo di carica verso il condominio di Reth.
Lo fissai, impietrito. Era lui. Nick Hopkins in persona. Come nei miei peggiori incubi.
Stava per spalancare il portone dell’edificio e io stavo per comportarmi da vigliacco di nuovo.
«Hey, tu!» urlai.
Nick si girò verso di me. Un brivido freddo mi trapassò la spina dorsale.
«Sì, parlo con te! Non ti avvicinare a Reth, capito?» continuai. Non so come dovesse suonargli la mia voce, ma sapevo che i palmi delle mani avevano cominciato a sudarmi e ancora non avevo mosso un passo.
Sogghignò. Si mosse velocemente verso di me.
«E chi saresti tu, femminuccia?»
Femminuccia. Mi chiamava così anche al liceo.
Strinsi i pugni.
Io non ero lo stesso del liceo. Potevo essere migliore, ero migliore.
«Sono uno che ti spezzerà le gambe se provi ad avvicinarti a Reth di nuovo.» sbottai.
Okay, forse avevo esagerato.
Apparve un lampo negli occhi di Nick e poi sorrise.
«Oh, ma sei tu, Iero. Come diavolo conosci la mia Ree?» ringhiò a denti stretti.
«Non è tua.» ribattei, raddrizzando la schiena. Anche così, comunque, gli arrivavo al mento.
Con un’ennesima risata amara, Hopkins scosse la testa.
«Levati di mezzo prima che finisca male per te, femminuccia.»
Prima che potessi pensarlo, il mio pugno si schiantò sulla faccia di Nick.
Arretrò di qualche passo, portandosi le mani sulla parte che avevo colpito.
Che cazzo avevo fatto?
Iniziai a tremare, preparandomi minimo ad un pestaggio in piena regola. Mai prima di quel momento avevo sfidato Nick. Non avevo trovato un motivo, né il coraggio.
Il pugno allo stomaco che mi aspettavo non tardò ad arrivare e mi spedii dritto a terra, agonizzante.
«Non mi mettere i bastoni tra le ruote mai più, stronzo. O questo sarà solo un assaggio.» sputò, tirandomi un calcio sul naso.
Non riuscii a trattenere un grido di dolore.
Provai a biascicare qualcosa in risposta, ma le parole mi si fermarono in gola.
«Che dici, femminuccia?»
Un altro calcio.
«Non ti sento, ripeti un po’.»
Un altro colpo allo stomaco.
Non so quando persi completamente conoscenza, ma non prima di sentire distintamente la voce di Reth urlare il mio nome.  
 
 
 
 
 
 
 
Aprii di scatto gli occhi, per poi richiuderli. La stanza era in penombra, ma il mal di testa che mi aveva attanagliato le tempie non sembrava giovarne. Eravamo di sicuro all’ospedale, la puzza di disinfettante mi asfissiava.  
«Frank!» qualcuno urlò, facendomi sobbalzare.
«F-frank, cazzo, apri gli occhi.» la stessa voce singhiozzò. Qualcuno mi teneva la mano.
Lentamente, li aprii e davanti a me vidi Reth, in lacrime.
«Meg…» rantolai.
«Merda, Frank. Mi hai fatto venire un infarto.» disse, gettando le braccia al mio collo. Le sue guance erano bagnate. Provai a stringerla in un abbraccio ma non c’era una parte di me che riuscissi a muovere.
«Sono stata una deficiente a parlarti di Nick, scusami. È solo colpa mia.» continuò, i suoi occhi cristallini colmi di lacrime.
Io scossi la testa debolmente.
«No. I-io conoscevo già Nick.» ammisi. L’espressione di Reth si fece confusa e s’indurii.
«A scuola era il mio bullo. M-mi chiudeva negli armadietti e cazzate del genere.» spiegai con un mezzo sorriso.
Non volevo si sentisse in colpa per qualcosa ch’ero andato a cercarmi da solo.
«Frank…»
«Non volevo che potesse farti una cosa del genere, tu non te lo meriti.»
Mi abbracciò di nuovo, senza parole. Mi posò un bacio sulla guancia e si stese accanto a me sul lettino, il volto rivolto al soffitto. Teneva la sua mano stretta alla mia.
«Nessuno ha mai fatto una cosa così per me.» disse. «E non voglio che accada mai più.»
Si voltò verso di me e io feci lo stesso. Le si era rovinato tutto il trucco a forza di piangere, ma i suoi occhi mi tenevano in sospeso come sempre.
«Ti voglio troppo bene, Frank. Basta con le risse.» sussurrò.
«Anche io te ne voglio, Reth.» risposi.   
«Prometti.»
«Te lo prometto.» 

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