Nato per vivere, nato per morire.

di AshHurricane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo / Finalmente il vecchio stronzo è morto ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo / Those blue eyes ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo / Those hungry eyes ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo / Those frightful eyes ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto / Those sad eyes ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto / Those tired eyes ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto / Those smiling eyes ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo / Those beautiful eyes ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo / Those resigned eyes ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono / Those burning eyes ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo / Those dead eyes ***
Capitolo 12: *** Epilogo / This is the end ***



Capitolo 1
*** Prologo / Finalmente il vecchio stronzo è morto ***


Nato per vivere, nato per morire

 
 
 
 

 Prologo / Finalmente il vecchio stronzo è morto

 

Le sbarre come limitazione a quella libertà tanto agognata negli anni dell’adolescenza. I muri spogli, il grigio cemento e un colore smorto, un verdino pallido, a coprirlo. L’intonaco si stacca dalle pareti più isolate, il corridoio che passa tra le celle è vuoto e rumoroso, insulti e mani si fanno strada dalle celle, in una rabbia che di muto non ha nulla. Le manette stringevano i polsi vicini, arrossavano la pelle. L’intero corpo gli gridava di scappare, le palpebre sbattevano freneticamente per via della luce troppo intensa dei neon sul soffitto. In quel momento Kagami si fidava solo del suo istinto, e del suo udito. Seguiva i passi del poliziotto davanti a lui, lo sguardo sulle sue spalle, e il passo affrettato dalla mano di un secondo poliziotto premuta insistentemente sulla sua schiena. La sua mente elaborava le possibili via di fuga, la distanza che lo separava dall’entrata sorvegliata, e da quella di servizio. Lo sguardo coglieva ogni oggetto che si sarebbe potuto prestare alla fuga, ogni oggetto utile per colpire il cranio calvo davanti a lui.
Non aveva mai considerato la possibilità di finire in prigione, né aveva mai pensato a quel luogo in sé, ma aveva visto abbastanza film da potersi concedere di pensare esistesse una vaga e remota speranza di fuga che non comprendesse l’uscire in un sacco dei rifiuti, morto s’intende.
Sentiva le gambe molli e lo stomaco ingarbugliato. Flashback delle due settimane precedenti scorrevano nella sua mente, confusi e distorti. Il corpo di suo padre, morto, il sangue che usciva dalle labbra e dallo squarcio sul petto, la casa in fiamme, la corsa all’esterno, la terra che sotto ai suoi piedi sembrava sprofondare, in una corsa verso la libertà. Sua madre che urlava. Sei un mostro aveva detto, vero, Kagami?
Nella sua testa il suono del martelletto battuto dal giudice al processo tormentava le sue notti, non lo faceva dormire, gli occhi di suo padre sgranati che si chiudevano a ogni “toc” secco. Non sognava più, Kagami. La sua mente gli regalava visioni febbrili di se stesso intento ad aprire lo squarcio mortale nel petto del padre, se stesso che gli spaccava il cranio con il bastone da passeggio del nonno.
Doveva ammettere però, che farlo ero stato facile e gli aveva riempito così tanto il cuore di felicità che, se non fosse stato per le fiamme attorno a lui, sarebbe rimasto a godersi la scena per ore. Finalmente il vecchio stronzo è morto, eh, Kagami?
Questo pensiero gli strappò un ghigno che gli costò uno strattone. Le manette tintinnarono di nuovo, ora c’era silenzio nel corridoio, o almeno così pareva.
Finalmente il vecchio stronzo è morto




n.d.a. 
Bene, che dire, sono tornata con un'altra long! (?) 
Si, ho in corso l'altra KagaKuro, ma che dire, questa era li, attendeva, mi chiamava cwc non ho saputo reistere haha
beh, che dire, questa è un AoKaga ambientata in prigione. 
Il basket non c'entra un cavolo, lo sso, lo sso. 
Però mi sono fatta questo viaggio, della progione, e, boh, l'ho vista troppo °w° 
Probabilmente andrò un po' OOC, però insomma haha 
Buona lettura, grazie a tutti coloro che leggeranno tale aborto in anticipo :33
Miki!

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Capitolo 2
*** Capitolo primo / Those blue eyes ***


Capitolo primo / Those blue eyes

 
Diciotto.
Questo era il numero della cella. Poco distante dai bagno, cinquecento metri dall’uscita di sicurezza più vicina. Le speranze di fuga si riducevano ogni secondo passato in quella cazzo di prigione, gli stronzi andavano presi in contropiede, magari colpiti alle costole.
Se ci metto tutta la forza che ho gli posso fare seriamente male.
Il poliziotto alla sua destra, Paul –così era scritto sull’etichetta attaccata all’uniforme, lo strattonava e camminava a passo veloce.Che cazzo di fretta hai? Si chiedeva Kagami. Si sarebbe dovuto fare un bel po’ di anni in quel buco del cazzo, tanto valeva ritardare un pochino l’entrata nel suo alloggio.
Prima classe m’immagino. Pensò ironicamente. Le manette tintinnavano e si confondevano tra gli schiamazzi dei detenuti e le loro imprecazioni. Lanciando sguardi qua e là lungo il percorso Kagami ne aveva visti alcuni masturbarsi, il pudore svanito da una convivenza forzata e dalle sbarre che eliminavano la privacy. Non si era nemmeno sentito poi tanto schifato, piuttosto si era ripromesso che mai, mai, avrebbe fatto qualcosa del genere.
Non davanti a una delle guardie, almeno. Il minimo era cercare di mantenere una buona condotta. Magari da 25 scendeva a 20 anni. Che non era tanto ma era già qualcosa, e a lui qualcosa bastava, visto che non aveva proprio niente. A parte una sacca con un paio di vestiti e qualche libro, uno spazzolino, una penna. Null’altro. A pensarci era una cosa triste.
Ma le sue cose erano bruciate in quella casa assieme al vecchio stronzo. Il pensiero gli faceva sopportare l’idea di aver perso per sempre l’album di foto di famiglia che amava riguardare da piccolo.
Avrei dovuto salvarlo, cazzo.
La cella diciotto di avvicinava inesorabilmente. Sperò che al suo interno non vi fosse uno di quei detenuti grossi e muscolosi che si masturba a guardarti e pretende il tuo culo, perché a quel punto la sua pena sarebbe aumentata se l’avesse fatto fuori. O anche solo pestato. Storse la bocca e lanciò un’occhiata alla cella diciassette alla sua sinistra, dove un uomo dal ventre pronunciato e la divisa arancione stretta lo fissava, un certo ghigno sulle labbra. Kagami storse la bocca e mosse l’ultimo passo che lo portò davanti alla cella diciotto.
Era vuota. Il pensiero che fosse vuota e si sarebbe trovato solo non l’aveva minimamente sfiorato. Ne rimase in qualche modo sorpreso, forse un po’ deluso. Paul, il poliziotto che lo aveva strattonato e che pareva avere il fuoco dietro il culo, lo spinse all’interno, il ghigno bastardo di chi ha il coltello dalla parte del manico. Anche Kagami aveva avuto il coltello dalla parte del manico quando aveva spaccato la testa a suo padre. Quest’uomo pare essersene scordato, si disse. La cella fu richiusa alle sue spalle. Sporgendo le mani dalla fessura tra le sbarre le manette gli furono tolte, rivelando i polsi arrossati e doloranti. Taiga se li massaggiò uno alla volta, voltato verso la cella, perso ad esaminarla qualche secondo, con occhio critico. Un letto a castello –così poteva definirlo? Piuttosto erano due brandine impilate- stava all’estremità sinistra della stanza. C’erano due armadietti, un lavandino sotto l’unica finestrella -50 centimetri per 50 centimetri valeva come finestra?- e un tavolino. Il pavimento era spoglio, grigio, le pareti del solito verdino smorto. Non una foto, non un segno di un altro inquilino nella cella.
Vuota.
Kagami lanciò la sacca sul letto più alto e vi salì con pochi sforzi, facendo peso unicamente sulle braccia, dimentico della scaletta che avrebbe potuto aiutarlo a salire. Lì si stese e portò le mani dietro la nuca. La divisa arancione spento che portava prudeva leggermente e stringeva appena sui fianchi. Chiuse gli occhi e sbadigliò appena, l’intenzione di dormire e non pensare che si trovava in quel cazzo di buco, almeno per le prime ore della sua permanenza.
Fu risvegliato dalla dormiveglia in cui si era rifugiato da una sacca che atterrava dritta sul suo stomaco. Si sedette all’istante, quasi sbattendo contro il soffitto, data la sua altezza.
Ai piedi del letto, lo sguardo fiero, gli occhi da puma, stava un ragazzo. La divisa arancione a lui calzava a pennello, seppur stonasse con i capelli blu elettrico e la pelle scura. Non che fosse di colore, o mulatto. Solo, abbronzato, o almeno così pareva. Taiga lo guardò qualche secondo, gli occhi di fiamme che ardevano di irritazione.
-Quella è la mia brandina, finocchietto-
Sbottò l’altro, il ghigno bastardo a coronare il tutto, la voce calda e roca che risuonava tra le quattro pareti verdino. Iniziava ad odiarlo tutto quel verdino Kagami. Iniziava ad odiare persino il soffitto troppo vicino. Iniziava ad odiare, ed era tutto dire visto da quanto lo conosceva, anche quell’idiota che aspettava scendesse dalla sua brandina.
Afferrata la sacca la lasciò cadere a terra, i suoi piedi che la seguivano poco dopo. Avrebbe pensato poi ad accaparrarsi il letto sopra, ora, di rogne, proprio non ne voleva.
L’altro lo squadrava con lo stesso ghigno esibito qualche secondo prima, lo sguardo da puma di quegli occhi blu elettrico che, Kagami lo ammetteva, facevano un po’ girare la testa da quanto erano intensi.
Si fissarono, lotta sguardo a sguardo, gli occhi ardenti di rabbia e cieca irritazione, e un fondo di attrazione, come sentissero di essere più simili di quanto ci si possa aspettare, la tensione che riempiva la stanza.
Fuoco e fiamme gli occhi di Taiga, un oceano in tempesta quelli di Daiki. Nessuno vinceva sull’altro, troppe le fiamme per essere spente, troppo irruenta e aggressiva l’acqua per essere domata.
-Sono Aomine. Daiki.-
Le ultime parole che nel corso della giornata uscirono dalle sue labbra. Kagami annuì si lasciò andare sulla brandina più bassa, la sacca ancora abbandonata a terra, reliquia di un salto nel vuoto, e, le mani portate dietro la nuca e gli occhi che già si chiudevano, mormorò un flebile, sibilante “Taiga”, che si perse nel soffocante verdino vomito dei muri della cella.
Daiki, inutile dirlo, nemmeno rispose

n.d.a.
Ecco anche il primo capitolo v.v 
Diciamo che mi tengo occupata mentre cerco di far passare il blocco dello scrittore per la long KagaKuro. e.e 
Beh, che dire, spero piaccia, e di nuovo grazie a chiunque legga :33 
Un bacio, 
Miki!

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo / Those hungry eyes ***


Capitolo secondo / Those hungry eyes

 
La sveglia alle otto del mattino, a volte prima, a volte dopo. Una sgomitata con Daiki per lavarsi il viso per primo, un’altra sgomitata con più o meno tutti i carcerati del settore per fare la doccia prima che l’acqua calda finisse. Un’altra sgomitata ancora, come se non bastasse, per il vassoio della mensa, e un’altra per sedersi dove non si prendevano altre sgomitate. Una specie di lotta alla sopravvivenza, si contavano i lividi sulla pelle, chi ne aveva venti a fine giornata prendeva un premio. Ci facevano la lotteria coi lividi, i carcerati. Già dopo due giorni Kagami aveva preso a pugni due omoni grandi e grossi che volevano metterglielo in culo, letteralmente. Li aveva sbattuti al muro e aveva fatto sanguinare loro le labbra. Avevano vinto la lotteria coi lividi, quel giorno.
Tutti i 30 giorni di Aprile trascorsero, un mese esatto dal suo arrivo in carcere. Divertente come fosse entrato in prigione il primo del mese, un pesce d’Aprile perfetto. Non si era ancora preso la brandina sopra, Daiki ci dormiva, la sorvegliava come un cane col suo territorio, Taiga faceva finta di riderci sopra. Non ne era affatto divertito.
Né da Aomine, né dal verdino dei muri, né dai carcerati, né dalle sgomitate. Specialmente dalle sgomitate. Non era divertito da quella sbobba che sarebbe dovuta essere latte e cereali che gli propinavano la mattina, e nemmeno dalla pasta che sembrava colla a pranzo, e dalla carne che era cemento alla sera. Non era divertito dal materasso di pietra, e dal respiro spezzato di Daiki la notte, che tutte le sere sembrava dimenticare come si respira, mentre Taiga lo sentiva artigliare le dita ai bordi del letto.
Faceva gli incubi come lui, Daiki. A volte si svegliava e gridava, poi calava il silenzio, all’improvviso, quasi fosse morto. Nonostante l’irritazione, Kagami non aveva mai sperato lo fosse davvero.
Nessuno gli aveva ancora detto nulla a lui, Kagami era curioso di sapere che cazzo aveva fatto Daiki per finire li dentro. Aveva sentito dire che gli mancavano due mesi. Non a uscire, intendiamoci.
Due mesi alla sedia elettrica.
Un idiota senza capelli, grosso perché dormiva quasi tutto il giorno, gli aveva detto che Daiki era pericoloso, che faceva paura. Taiga notò che nessuno gli parlava, pensò fosse per via degli occhi affamati, quasi volesse strapparti la pelle, affondarti dentro e tirarti fuori tutto, ogni cosa, tutte le sensazioni, tutto quello che hai, sembrava volere tutto. No, anzi, lo pretendeva.
Kagami iniziava a sognare di nuovo. Sognava gli occhi selvaggi di Daiki, sognava di perdercisi, sognava di affogarci, sognava di lasciarsi sbranare dalla belva che dormiva nel letto sopra il suo, sognava di scoparselo, e di lasciarsi scopare da quell’animale, da quel puma. A volte si svegliava madido di sudore, pregava qualcosa, qualcuno, chiunque, che gli incubi non tornassero. Pregava, artigliava il lenzuolo, e s’addormentava così, una posa innaturale, tesa, da preda pronta a fuggire. Lui nemmeno ci credeva in Dio, e ora, in quel buco, in quella fossa, si trovava a pregare. A volte, pregava addirittura lo spirito di suo padre.
Quando suonava la sveglia spalancava gli occhi di colpo, e se si fosse visto probabilmente qualche volta avrebbe pensato di essere in uno dei suoi incubi. Toc, il martelletto.
 
-Che cazzo hai combinato per finire qua dentro, ne Aomine?-
Li separava il materasso di Daiki, Taiga stava steso a pancia in su, iniziava a fargli male la schiena per via del materasso duro e del cuscino troppo basso. La voce dell’altro arrivava attutita, gli penzolava un braccio dal bordo del letto.
-Sai, alcuni pensano che uccidere i propri genitori perché non ti amavano sia davvero orribile. Io credo non sia tanto peggio che strappare delle erbacce da un giardino curato. Tu che pensi?-
Taiga ghignò appena, se lo sentiva che erano simili. Anche il bastardo che dormiva sopra di lui aveva ucciso suo padre. E anche sua madre. Questo lo rendeva più squilibrato di lui, il che un po’ lo rincuorava. Capiva i suoi incubi adesso.
-Penso che se non tieni bene il giardino sei un idiota-
Sussurrò, lo sguardo al viso dell’altro che si era sporto dal bordo del letto. Daiki lo guardò, occhi affamati. Taiga pensò “sbranami”, gli ardeva lo sguardo, fuoco e fiamme contro un oceano in tempesta, ancora. Occhi negli occhi, Aomine ghignò, e tornò steso. La mano era ancora penzoloni dal letto. Kagami la prese, la strinse. “Soffocami” pensò. Strizzò gli occhi, attese. Mai la morte gli era parsa una prospettiva tanto allettante. Le mani di Daiki sapevano di morte, sapevano di forza, e rabbia, e il loro calore si diffondeva lentamente nelle sue viscere, in tutto il suo corpo, lo intorpidiva.
-Sei proprio un finocchietto-
Gli sussurrò Daiki. Taiga aprì gli occhi, ghignò di nuovo, quasi quell’appellativo ricorrente iniziasse a divertirlo. Daiki gli strinse la mano, non la lasciò. Lo sapeva Taiga, gli dai la mano e si prende il braccio, come il detto. Risero entrambi, uomini cresciuti in cattività, c’avevano vent’anni e lo sguardo di belve, vent’anni e le occhiaie dei settantenni.
Daiki gli lasciò la mano, Kagami lo sentì muoversi, Aomine non sapeva cosa stesse facendo ma gli fece spazio, aspettò, tacque. Stava per dirgli che poteva venire sulla brandina di sopra, più vicino al cielo, più vicino alla libertà, magari serviva a qualcosa, chissà. Taiga salì da solo, lui ancora non gli aveva detto nulla, quasi sembrava si fossero letti nella mente.
Si guardarono e basta, il rosso si stese affianco a lui. Stavano stretti, Daiki su un fianco, il culo premuto al muro, Taiga una gamba che penzolava dal letto. Si guardarono, si tirarono una gomitata, tanto per fare.
I neon si spensero, rimase una luce di emergenza fuori accesa, illuminava lo spazio a dividerli, illuminava un occhio di Daiki, solo uno, un quadro tetro a vedersi.  Oceano calmo ora, la tempesta si era placata. L’incendio in quelli di Taiga era stato domato. Si guardarono, stavano sempre stretti in quel letto duro.
Taiga chiuse gli occhi, cercò la nuca di Aomine, la afferrò, lo tirò vicino, più vicino, non sapeva quanto, c’era buio e aveva gli occhi chiusi, quando li aprì di nuovo gli occhi illuminati di Aomine riflettevano i suoi, ce l’aveva a un palmo. Chiuse di nuovo gli occhi e se lo tenne così vicino, la mano alla sua nuca, e Daiki che gli rubava il respiro, se lo scambiavano in una lotta continua, c’era poca aria. Taiga non sognò, non fece incubi. Dormì.
Daiki sognò, per la prima volta da anni. Sognò la mano di Taiga, gli occhi ardenti, l’incendio che aveva nel petto, la schiena rigida mentre faceva i pesi. Si sognò i suoi occhi e un oceano calmo. Si sognò l’oceano. Lui manco l’aveva mai visto dal vivo l’oceano


n.d.a.
Bene, che dire ewe 
ci vedo ancora sfuocato e ho le pupille ultra dilatate dalla visita oculistica di questa mattina ma, who cares? haha
allloooora, ho sistemato i tempi verbali in un lampo e ho corretto il capitolo, così da poterlo postare u.u 
Ora, dopo aver scritto il cap. 14 della long kagakuro, mi metto a scrivere il terzo di questa, che ho già in mente v.v 
Mh, che direeeee, grazie a tutti coloro che leggono, as always <3 
un bacio, Miki!

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo / Those frightful eyes ***


Capitolo terzo / Those frightful eyes

Kagami si era svegliato da cinque minuti buoni. Stava fermo a guardare gli occhi chiusi di Aomine, respirava il suo respiro, sfiorava la sua mano e nella penombra del mattina attendeva il suono della sveglia.
Daiki stava fermo, steso su un fianco, il culo premuto al muro, non si era mosso dalla sera prima, stava solo un po’ più vicino a Taiga, quasi nel sonno gli si fosse spremuto addosso.
Dormiva Daiki, dormiva e basta, i sogni erano finiti, mentre Kagami lo fissava, e gli osservava gli zigomi, le labbra un po’ secche, il naso, gli occhi chiusi con le ciglia folte, i capelli scompigliati. Aveva la mano ancora sulla sua nuca Taiga, la stringeva forte tra le dita. Gli girava la testa, non voleva alzarsi, forse avrebbe dovuto.
Si era svegliato male, aveva la schiena dolorante, il braccio destro che teneva sotto la testa di Daiki pure. S’era svegliato con la voglia di scappare addosso, voleva prendere a pugni qualcuno. Non sapeva ancora chi e più passava del tempo a guardare Aomine, più voleva prendere a pugni proprio lui, manco sapeva perché. Forse perché erano così simili, forse perché sapeva che gli avrebbe dato filo da torcere e voleva tenersi occupato per un po’, non solo per cinque minuti, voleva farsi del male nella speranza che il dolore fisico lo distraesse dalla matassa di pensieri che la sua mente continuava a masticare senza sosta.
Forse gli faceva rabbia che fosse così bello. Gli faceva rabbia perché così bello lui non si era mai visto, e Daiki aveva gli occhi oceano cupo che lo facevano un po’ tremare. Si alzò, si spinse giù dalla branda e atterrò male su un piede. La caviglia dolorante, tirò una bestemmia, una di quelle forti, che servono a svegliarti di prima mattina, probabilmente lo sentirono per tutto il corridoio, ma era scusato, era un novellino, la crisi del primo mese chiuso in gabbia l’avevano avuta tutti. Il trillare della sveglia lo fece bestemmiare di nuovo, diede un calcio al tavolo al suo fianco, si fece male ancora.
Daiki si svegliò con un rantolo, il culo quadrato che si staccò finalmente dal muro, dolorosa separazione. Si sedette sul bordo della brandina e guardò l’altro bestemmiare e agitare il piede per aria, saltellando su quello rimasto indenne. Si mise anche a ridere, pensò fosse divertente, chi non lo avrebbe pensato?
Taiga si voltò a quel riso, quasi smise di sentire male al piede, anche se, porco cane, aveva tirato una bella botta. Insomma, si voltò e squadrò l’altro, ancora là seduto sulla brandina, sporto sul bordo, la curiosità cattiva di chi gode a vedere gli altri soffrire. Perché Daiki era un sadico, eccome se lo era. Più gli altri soffrivano, più il suo ghigno da bastardo s’allargava, poi ti saliva il nervoso e avresti solo voluto ammazzarlo, ma era così lui. Poi l’apprezzavi, forse col tempo.
Ad ogni modo, lui stava ancora là, sulla branda, il culo sempre quadrato, i soli boxer scuri addosso che lasciavano ben poco all’immaginazione. Kagami lo guardò, quasi ringhiò, le mani presero a prudergli così forte che ben presto l’unico pensiero chiaro in mente, era quello che esprimeva la voglia di spaccare il cranio di Aomine contro al muro.
Lo prese in contropiede, si scagliò contro la sua gamba e tirò con tutta la forza che aveva Daiki, facendolo scendere, la rabbia che lo faceva addirittura tremare. L'altro atterrò con un balzo felino, da puma, com’era lui, e squadrò l’altro con occhi di tempesta, le palpebre appena abbassate, guardingo. Si lanciarono occhiate rabbiose per qualche secondo, poi, non si sa nemmeno dove trovò il coraggio per sfogare tutta quella rabbia, Taiga scagliò un destro che andò a finire dritto sullo zigomo sinistro di Aomine, facendolo arretrare di un passo, giusto per il rinculo del colpo. Ma non era una femminuccia Daiki, al dolore avrebbe pensato più tardi. Non diede a Taiga nemmeno il tempo di respirare che già gli era addosso, il pugno che affondava dritto nello stomaco dell’altro, mozzandogli il respiro.
Lo spremette al muro allo stesso modo in cui il suo culo aveva stretto amicizia con la parete verdina la notte passata, e accostò il viso al suo, un ginocchio premuto tra le sue gambe, il braccio a bloccargli le spalle, mentre Taiga riprendeva a respirare.
Attese, Daiki, il ghigno sadico che apriva il viso come un taglio netto, attese, e non appena Taiga fu tornato a respirare in modo quantomeno decente, gli piantò un altro pugno, con meno forza stavolta, giusto perché gli servisse di lezione, sulla guancia. Gli spaccò il labbro, non volontariamente, ma glielo spaccò. Attese ancora poi, il viso sempre accostato a quello dell’altro, che Kagami si leccasse le ferite, con cura, e che tentasse di ribellarsi, come da copione.
Non ci vollero che un paio di secondi. A quel punto Daiki piantò gli occhi in quelli di Kagami.
Taiga raggelò. Quegli occhi gli fecero paura, era come se l’altro fosse sul punto di farlo fuori. E nonostante nell’ultimo mese qualche volta Taiga avesse sperato di morire, in quel momento, pregò di poter vivere, quantomeno un altro giorno. Si immedesimò nelle vittime di Daiki per qualche secondo, immaginò lo sguardo dell’altro -lo stesso che ora gli stava puntando addosso, su di loro, e sentì come la lama che gli trafiggeva il petto in uno squarcio mortale. In quel brevissimo lasso di tempo, Taiga si rese conto che l’uomo che aveva davanti –sempre se di uomo si poteva parlare, era più forte, e pericoloso, e probabilmente anche pazzo, di lui. Sbatté le palpebre e fu come risvegliarsi da un sogno. Daiki stava ancora li, a guardarlo con quegli occhi da predatore, ma ora, tutto ciò che Taiga riusciva a vedere, erano le labbra rosse dell’altro, sottili, aperte in un ghigno così bastardo da far accapponare la pelle. Da farla accapponare per lo meno agli altri detenuti. Non a Taiga.
Si dimenò appena, un’ultima volta, nel tentativo di sporgersi abbastanza da poter assaggiare quelle labbra con le sue, gli occhi fuoco improvvisamente colmi di desiderio.
Aomine lesse quello sguardo e ne seguì brevemente la traiettoria. Puntò il suo sulle labbra dell’altro, rosse del poco sangue perso, e il suo ghigno si spense piano, a poco a poco, gli occhi che si accendevano dal desiderio di mordere quelle labbra.
Taiga si mosse ancora, dimenò le spalle, ed Aomine lasciò cadere il braccio, gli liberò il collo, piantò il gomito sul muro affianco al viso dell’altro e con la mano libera gli premette il bacino alla parete verdognola. Kagami fu percosso da un brivido, portò la mano alla nuca dell’altro e se lo tirò vicino ancora, la fronte premuta a quella di Daiki, gli occhi negli occhi e le labbra vicine, il respiro comune, ancora. Strinse le unghie sulla pelle dell’altro, incastrò le dita tra i capelli cortissimi, e tentò un ultimo, rabbioso, avvicinamento, dato dall’esasperazione di avere quelle labbra a così poca distanza e non poterne sentire il sapore. Daiki cedette con troppo entusiasmo, si incollò a Kagami, e lo schiacciò ancora di più al muro, la mano che andava a stringergli la vita, mentre quelle dell’altro vagavano tra i suoi capelli e sulla sua schiena.
Più che un bacio quello, era una guerra, una lotta per la sopravvivenza, un po’ come la lotteria dei lividi, solo che Daiki ne usciva vincitore a priori, Taiga l’aveva capito subito. Sapeva che l’avrebbe divorato, sapeva che l’avrebbe reso schiavo, e sapeva anche che lui, l’avrebbe lasciato fare. Aveva le labbra che sapevano di bramosia e di sangue –del suo sangue, Daiki, mordevano, erano le labbra di un puma, di un predatore, e quelle di Taiga, succubi, da preda, ne seguivano i movimenti, affamate, inebriate. Daiki gli stava mangiando il labbro, e oltre quello, anche l’anima.  


N.d.a.
Allora, che dire, grazie mille a tutti, davvero cwc 
Mi sento particolarmente seguita nonostante l'Aokaga non vada per la maggiore cwc
Grazie!
Non sapete che bello aver scritto sto capitolo. Già amo scrivere questa ff, non so nemmeno bene perchè. Il mio lato un po' sadico ne viene fuori ahem haha
Beh, che dire, vado a scrivere del sano fluff, ora, che è meglio haha 
Notte, grazie a tutti :3
Miki
ps: ho trovato il modo per farvi capire come davvero li immagino sti due. Amo sti cosplayer cwc

http://worldcosplay.net/photo/1104372/

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto / Those sad eyes ***


Capitolo quarto / Those sad eyes

-Quindi sei qua dentro da tre anni?-
-Già. A quanto pare c’era coda per le pene capitali e mi hanno messo in fila-
Borbottò Daiki, una lieve risata dal tono quasi arreso, che a Taiga suonò come un tentativo di nascondere l’ombra che sembrò passargli sul viso. Camminava lentamente Aomine, quasi si stesse avvicinando alla fine che lo attendeva ogni secondo di più.
-Quindi è vero..-
-Cosa? Che mi accopperanno?-
-Che ti sei beccato la sedia.-
Di nuovo, Aomine si stampò un sorriso plastificato sul viso e scrollò le spalle, una mano che si infilava nella tuta arancione a grattare una coscia. Si trovavano nel cortile cementato per la loro ora d’aria giornaliera, le nuvole cariche di pioggia che minacciavano una doccia indesiderata.
-Perché non scappi?-
-Credi non abbia provato? Finocchietto, anche io ho paura di morire-
Abbassò il tono di voce Daiki, quasi non volesse gli altri detenuti lo sentissero, quasi non volesse smontare la sua fama da duro sino all’ultimo secondo. I suoi occhi non mostravano segno di lacrime, né di cedimento, ma le ombre scure che li cerchiavano indicavano notti insonni in cui il terrore era l’unico compagno. Kagami lo guardò a lungo, prima di decidersi a parlare di nuovo.
-Dicono sia una cosa istantanea, nemmeno te ne accorgi che è finita-
-Stai cercando di consolarmi?-
Si guardarono qualche secondo, improvvisamente fermi, gli occhi ben sgranati di Daiki, e quelli dallo sguardo tranquillo di Taiga, le mani strette a pugno nelle tasche della tuta ruvida. Effettivamente sì, stava cercando di consolarlo. Aomine scoppiò a ridere e gli passò un braccio attorno alle spalle, riprendendo a camminare, la solita lenta consapevolezza di essere ogni secondo più morto che sembrava impressa a fuoco su tutta la sua persona.
-Hai mai visto morire un uomo sulla sedia?-
Domandò. Taiga non rispose, attese e basta, lo sguardo fiero puntato sul cemento che li circondava, sul canestro a pochi metri da lui, sul pallone che passava di mano in mano. Gli era sempre piaciuto il basket. Si lasciarono andare su una panca arrugginita che nessuno aveva ancora occupato con un sospiro leggero. Daiki prese fiato, frugò nelle tasche della tuta e ne ricavò un pacchetto di sigarette schiacciato. Ne offrì una a Taiga, e ne portò una alle labbra. Solo dopo che ebbero entrambi fatto qualche tiro di sigaretta, parlò di nuovo.
-Io, ho visto tre dei miei vecchi compagni di cella morire li sopra. Non è come muori che ti fa pisciare nelle mutante.. è l’attesa, è sapere che ci finirai sopra. Sapere che c’è qualcuno che decide della tua vita. Loro, hanno deciso della mia vita. Hanno deciso quando porvi una fine.-
Fece un tiro, espirò il fumo. La sigaretta tra le mani di Taiga si stava lentamente consumando, non era mai stato un gran fumatore.
-Appena passavano la cinghia attorno al petto del condannato, quello prendeva a muoversi come un ossesso. Si rendeva conto solo in quel momento, che era finita. Che aveva.. quanto? Venti, trenta secondi ancora di vita al massimo.-
Fece un altro tiro e Taiga non fu troppo sorpreso nel notare che gli tremava la mano. Portò la sigaretta alle labbra e prese la mano libera di Daiki nella sua, la strinse appena. Aomine si voltò e lo guardò negli occhi di fuoco, quel novellino che sembrava sorprenderlo ogni secondo di più. Sorrise appena, ancora.
-Sei credente, finocchietto?-
Stavolta fu Taiga a ghignare e a inspirare un po’ di fumo.
-Non finirai all’inferno, Daiki, non c’è nessun inferno.-
Disse solo, il ghigno che s’allargava di più sul viso. Daiki rise appena, e schiacciò quello che rimaneva della sigaretta sotto la scarpa. S’alzò e porse la mano all’altro.
-Dai, facciamoci una partita-
Borbottò, alludendo al canestro. Taiga afferrò la mano che gli veniva porta, nonostante potesse alzarsi benissimo anche da solo, e ghignò, ancora.
-Vuoi proprio perdere?-
-L’unico che può battermi, sono io, finocchietto-



N.d.a.
Lo so, questo capitolo è poco più corto, ma volevo fermarlo qui v.v Si, ho tenuto la passione per il basket di Taiga e la celebberima frase di Aomine, " l'unico che può .. sono io". Ci stava dai haha 
Che dire, volevo far vedere come Aomine affronta la sua immininente morte. Non dimentichiamoci che è condannato eh! Chissà se lo farò evadere <3
eh eh eh 
Grazie a tutti ancora, 
Baci, 
Miki :3

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto / Those tired eyes ***


Capitolo quinto / Those tired eyes

La partita era durata quasi un’ora, un pareggio infinito che gli aveva rubato tutto il tempo all’aperto che veniva loro concesso. Le docce erano così affollate a quell’ora che Kagami dovette aspettare quasi mezzora prima di potersi infilare sotto un getto d’acqua caldo –dopo aver ovviamente spintonato un’idiota sul punto di rubargli il posto.
Il rientro nella cella portò con sé un silenzio strano, tranquillo. Daiki era già steso sulla sua branda, i soli boxer addosso, non lo guardò nemmeno. Aveva un libro in mano, il dorso era rovinato così come la copertina. Sembrava averlo letto un’infinità di volte ormai.
-Che leggi?-
Brontolò Taiga, poggiando il gomito sulla brandina dell’altro, e il mento lì affianco. Era stanco, la tuta pizzicava, e aveva ancora i capelli umidi. Avrebbe potuto mettersi semplicemente a dormire, ma proprio non ne aveva voglia. Aomine non rispose, lo guardò con la coda dell’occhio e tornò a leggere.
-Ti verrà un accidente-
Borbottò, alludendo ai suoi capelli bagnati. Taiga sbuffò e, facendo pressione solo sulle braccia, si issò sulla branda, lo sguardo di Aomine che all’improvviso era su di lui, scocciato. Kagami lo spinse appena, per ricavarsi un angolo dove potersi sedere.
-Cavati-
Sbottò, l’ennesima spinta all’irremovibile Aomine. Daiki lo guardò ancora storto, il libro stretto contro al petto, quasi lo stesse proteggendo.
-Scendi finocchietto-
-No-
Si guardarono storto, a lungo, prima che Aomine si facesse da parte e tornasse, imperterrito, a leggere. Taiga sbuffò ancora, gli prese il libro di mano e, in bilico sul bordo del letto, ne lesse il titolo: Il ritratto di Dorian Grey. Aomine lo spinse, lui quasi cadde e bestemmiò forte, mentre l’altro si riprendeva, fulmineo, il libro a cui sembrava tenere particolarmente.
-Mi piace perché il protagonista ha sostanzialmente portato alla sua stessa morte in un modo o nell’altro. E perché cerca di sfuggire da se stesso. Ora mi lasci in pace?-
Brontolò Daiki, il libro poggiato sul petto nudo.  Aveva lo sguardo stanco e rassegnato, uno sguardo nuovo, Kagami non glielo aveva mai visto. Prese il libro dal petto dell’altro e lo lanciò, senza troppe cerimonie, dietro di se, lo sentì atterrare sul pavimento, e riuscì a schivare per un soffio il pugno che Daiki aveva tentato di sferrargli. Si guardarono ancora in cagnesco, troppo stanchi però per litigare e picchiarsi ancora, i lividi ancora dalla mattina precedente.
Taiga osò, ancora, si mise a cavalcioni sul bacino dell’altro, la schiena piegata al massimo per non sbattere la testa al soffitto. Occhi negli occhi, Taiga si chinò di più, verso Daiki, verso il suo viso, verso le sue labbra. Non si baciarono. Kagami arrivò a poco dalle labbra morbide di Aomine, e si scostò, piano, il viso che affondava nel collo scuro dell’altro, le mani che si andavano a insinuare sotto la schiena, mentre Daiki passava le braccia attorno al suo busto, le lasciava vagare sotto la tuta aperta, sotto il tessuto ruvido. Si strinsero così forte che per qualche momento a entrambi sembrò le costole, e l’intera cassa toracica si fossero fuse, unico corpo a due teste vicine, due cervelli distinti eppure così simili nei pensieri. Non si conoscevano davvero, ma per Kagami, e avrebbe giurato fosse lo stesso per Aomine, guardare l’altro era come vedere se stesso in uno specchio. Gli sembrava di conoscere Daiki da sempre, di sapere preventivamente, quasi gli leggesse la mente, cosa avrebbe detto, cosa avrebbe fatto.
Sapeva che Daiki l’avrebbe stretto sino a fargli male, e sapeva che prima o poi si sarebbero cercati con un’irruenza tale da sbattere i denti su quelli dell’altro durante un bacio. Sapeva che Daiki avrebbe infilato le mani sotto la tuta, più in basso, sotto la stoffa morbida dei boxer neri che portava.
Sapeva che l’avrebbe fatto impazzire.
Questa convinzione aleggiava nella stanza e sembrava entrare nei polmoni ad entrambi, e fargli venire voglia di stringersi ancora più forte nonostante la certezza che, se l’avessero fatto, si sarebbero distrutti. Soprattutto perché, assieme alla convinzione che si sarebbero divorati, che non si sarebbero mai bastati, c’era quella muta rassegnazione che non sarebbe durata abbastanza a lungo, che presto, la morte, avrebbe affondato i denti nei loro colli, e che, volenti o nolenti, si sarebbero arresi ad essa, cacciatori che diventano prede.
E mentre il bacino di Daiki spingeva forte contro il suo, il desiderio di sentirsi ancora più vicini, mentre entrambi ansimavano forte, mentre le braccia di Daiki tremavano, lui che aveva ribaltato le posizioni e ora stava sopra Taiga, a sottolineare la sua supremazia, mentre Taiga gli tirava i capelli, mentre divorava il collo scuro dell’altro, mentre i baci diventavano morsi, e i morsi diventavano strette voraci, mentre Daiki spogliava Taiga dell’ultimo indumento che gli rimaneva, e mentre si appropriava di quel corpo, mentre Kagami si sentiva riempire per la prima volta, e gli occhi si sgranavano a causa del male e per via di qualcos’altro, mentre Daiki spingeva il bacino contro quello dell’altro, mentre le carezza diventavano graffi, Taiga sentì i pensieri annebbiarsi e uno di essi farsi strada, diventare così forte chiaro da fargli paura. Ad Aomine rimanevano due mesi scarsi. E lui se ne stava innamorando. E sapeva, ne era certo, che ne sarebbe morto. Il pensiero, lo fece sorridere



n.d.a.
Che dire, ce l'ho fatta a scrivere questo capitolo. Allora, se qualcosa non fosse chiaro, non esitate haha Mi sono abbastanza impegnata, e insomma, boh, questo ne è uscito o.ò La parte finale ammetto potrebbe essere ambigua, ma va beh insomma, chiedete se qualcosa non è chiaro u.u
Ringrazio come al solito tutti :33 
Alla prossima, Miki!

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Capitolo 7
*** Capitolo sesto / Those smiling eyes ***


Capitolo sesto / Those smiling eyes

Faceva caldo quando si svegliò. Il corpo bollente di Daiki stava incollato al suo, il lenzuolo era diventato un tutt’uno con la pelle, le gambe di Aomine un nodo indissolubile con le sue, le sua mani a artigliare i suoi fianchi, a graffiare la pelle, anche nel sonno.
Se gli si fosse chiesto cosa stesse provando in quel momento, Taiga non avrebbe saputo rispondere, probabilmente. Sentiva come se fosse in pace, come se non ci fosse altro da chiedere, da aspettare. E allo stesso tempo, si sentiva come ansioso, spaventato, allo stesso modo trepidante, quasi la morte imminente dell’altro non rappresentasse altro che una sfida, un’altra avventura. Un gioco, da cui sapeva sarebbe uscito sconfitto, e oltremodo distrutto, ma che comunque non poteva fare a meno di evitare.
Ad aggiungersi a quel turbinare di sensazioni che gli appesantivano la mente, gli doleva in una maniera allucinante il culo. Tanto da farlo bestemmiare a denti stretti mentre, da sopra il lenzuolo ci passava una mano sopra.
Gli occhi di Daiki si aprirono piano, quasi a comando nel sentirlo bestemmiare, si posarono su di lui, lo guardarono intensamente, e, appena un secondo prima delle labbra, i suoi occhi sorrisero. Taiga non aveva mai visto gli occhi di qualcuno sorridere, eppure, quelli di Daiki, ora, puntati nei suoi, sorridevano. In un modo dolce. Non era il solito ghigno rabbioso, o il solito sorriso di scherno. Era un sorriso dolce. Non pensava tale aggettivo si potesse associare a una personalità come quella di Daiki, eppure.. eccolo li, un nuovo lato di Aomine a lui sconosciuto che spuntava fuori, prepotente come gli altri, e pretendeva di essere apprezzato. E Taiga, che poteva fare, si piegava anche a quello. Sbuffò piano, indeciso se uscirsene con un banale “buongiorno” o con un espressione più colorita che sicuramente gli si addiceva meglio.
-Potevi fare più piano. Mi hai fatto male-
Brontolò. Aveva lo sguardo orgoglioso di chi non vuole cedere alle dolcezze e con i suoi modi rudi cerca di farti capire quanto, in realtà, ci tenga a te. Aomine lo capì, lesse tra le righe.
-Scusa-
Borbottò. Lui, il puma che non si scusava mai, borbottò uno scusa. Sorridendo. Ora, le opzioni erano due. O quel ragazzo lo stava davvero cambiando, o si stava rincoglionendo, del tutto. E mentre si arrovellava su questi pensieri, l’altro, lo sbuffo facile e il culo mezzo fuori dalla branda, gli salì ancora addosso, un po’ per rubargli il posto e stare più comodo, un po’ per stargli incollato sopra e basta, cosa che ad entrambi non dispiaceva affatto. Nonostante il caldo che faceva quel giorno.
-Ne, Aomine-
Mormorò Taiga, il naso premuto contro il collo dell’altro, gli occhi socchiusi, quasi nel mondo dei sogni, di nuovo. Daiki aveva la mano tra i suoi capelli corti, li stringeva appena, ci passava le dita, il braccio di Taiga sul petto che quasi gli rendeva difficile respirare. Diede un “mh?” tanto, per fargli capire che stava ascoltando e baciò piano la tempia di Kagami.
-Non è che adesso sono la tua puttana o cosa, eh-
Borbottò l’altro, più piano di prima, gli occhi definitivamente chiusi e la mano che andava a stringersi sul fianco di Daiki, una gamba mollata su quelle dell’altro. Aomine rise appena, e scosse la testa, carezzò appena la schiena di Taiga e chiuse gli occhi anche lui.
-No, non lo sei-
Mormorò.
 
-Questa insalata fa davvero cagare-
Borbottò Daiki. Taiga sbadigliò, girò la forchetta nel piatto, infilzò una foglia verde e quasi se la spinse a forza in bocca, affamato.
-Come fai a mangiarla?-
Daiki lo guardò mentre masticava, la forchetta in mano, l’insalata ancora li, mai toccata. Taiga mandò giù il boccone verde che rigirava tra le fauci da tigre da ormai troppi secondi, e scrollò le spalle.
-Ho fame-
Disse solo. Daiki storse la bocca, e allontanò da sé il piatto, disgustato. Taiga ghignò appena e buttò giù un altro po’ di insalata. Dopo di che la abbandonò anche lui e si alzò, il vassoio con i rimasugli del pranzo in una mano, e quella di Daiki nell’altra. Aomine lo guardò, da seduto, l’insalata ancora davanti a lui, lo stomaco che brontolava appena.
-Andiamo-
Mormorò Taiga. Daiki annuì e lo seguì, il vassoio in una mano, come l’altro. Il ciccione della cella affianco alla loro sedeva qualche tavolo distante, nella mensa rumorosa. Le pareti lì non erano verdine, ma di un giallo spento. Anche quel colore a Taiga ricordava il vomito. I tavoli erano tondi, grandi, le sedie cigolavano e stridevano quando le strisciavi sul pavimento. Le guardie ti urlavano addosso quando succedeva, ti puntavano contro un manganello che molti avevano avuto sulla pancia. C’era poca luce. Ad ogni modo, il ciccione della cella affianco alla loro sedeva qualche tavolo distante, lo sguardo spento, il coltellino di plastica della mensa in una mano, e la condanna a morte che scadeva due giorni dopo a pesargli sulle spalle. Taiga lo stava guardando, quando passò la finta lama seghettata sul polso. Non che facesse molto un coltellino di plastica, ma uno squarcio sbrindellato lo aprì lo stesso. Sembrava quasi un morso, il sangue usciva copioso, Taiga ne rimase quasi confuso, quasi pensasse si trattasse di uno scherzo. Il ciccione lo guardò a lungo negli occhi, prima di svenire e prima che una delle guardie corresse a coprire la ferita con un panno. Daiki, al suo fianco, sussultò, e lanciò un’occhiata alla plastica sul suo vassoio. Il coltellino bianco ora, sembrava quasi una valida alternativa



n.d.a.
Ecco, è uscito abbastanza di fretta questo capitolo v.v 
Spero la zona post sesso iniziale non sia troppo smorta, o boh. Io ce li vedo a comportarsi in modo normale, non da coppietta, non so se rendo haha
Insomma, Aomine che bacio sulle labbra Kagami stile "oh, questa notte è stato meraviglioso" proprio non lo vedo haha 
Che dire, grazie a tutti! 
Miki :33

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Capitolo 8
*** Capitolo settimo / Those beautiful eyes ***


Capitolo settimo / Those beautiful eyes

Il trambusto che era conseguito all’evento aveva permesso a Daiki ti infilare discretamente il coltellino di plastica nella tasca laterale della tuta, e di giungere pressoché indisturbato sino alla proprio cella, Kagami affianco che guardava dritto davanti a sé, l’espressione vacua, un po’ sconvolta. Tanto shock derivava dalla paura che anche il suo Aomine potesse giungere a qualcosa di simile. Che potesse avere l’idea di decidere per la sua vita, e per la sua morte, quasi si trattasse di una protesta al sistema. Deglutì forte e si attaccò alle sbarre, nel tentativo di vedere attraverso le guardie che tutte insieme portavano il ciccione al sicuro nella sua cella, l’infermiera del pronto soccorso trapelata subito dietro di loro. Nonostante lui stesso avesse ucciso, nonostante il sangue non gli avesse mai fatto effetto, vedere un uomo che tentava di porre fine alla sua stessa vita, era qualcosa che lo aveva profondamente scosso. Si domandava con che coraggio si potesse decidere quando porre fine al proprio respiro, quando bloccare il cuore. Si domandava se lui ne sarebbe mai stato capace.
Quando si voltò verso l’interno della cella, Aomine si mosse bruscamente, come un bambino colto in flagrante dopo una marachella. Taiga aggrottò appena la fronte, e si mosse cauto, quasi non volesse spaventarlo, il puma pericoloso che aveva davanti seduto scompostamente sulla branda in alto, le dita a torturare appena il lenzuolo bianco sporco. Gli ci vollero tre passi giusti della sua misura per trovarsi davanti al viso di Daiki. Si guardarono un poco, l’uno in piedi, l’altro seduto.
La mano sinistra di Aomine era nascosta sotto il cuscino piatto, tastava convulsamente il coltellino bianco, lo stringeva nel palmo, quasi fosse l’unica scelta che gli rimaneva.
Kagami non saprebbe spiegarlo, ma nel momento stesso in cui il suo sguardo si posò sul cuscino, capì che nascosto sotto di esso si celava la plastica dentata che il ciccione aveva usato per aprirsi lo squarcio sul polso. Deglutì di nuovo.
-Codardo-
Sussurrò solo, quasi inconsciamente. Daiki sussultò e la presa sul coltellino si fece più debole, sino a lasciarlo andare, la mano che scivolava sotto la luce del neon nella cella. Rimase in silenzio, guardò Taiga qualche secondo, immobile.
-Codardo-
Ripetè Kagami, ancora piano, un sussurro fioco. Piantò gli occhi in quelli dell’altro, lo sguardo duro, infuocato, gli occhi di Daiki, bellissimi, quasi vuoti. Per la prima volta da quand’era entrato in quella cella, a Kagami sembrò di non potervi leggere dentro. Di non poter davvero capire cosa stesse provando. Questo lo fece incazzare quasi più di prima. Strinse i denti, e caricò un pugno che si infranse dritto sulla guancia di Aomine, e sul labbro, che come il suo tempo prima, non esitò ad aprirsi.
Daiki scivolò giù dalla branda, gli occhi ardenti, quasi più belli di prima, spinse Taiga, forte, contro la parete, quasi fosse un flashback ce lo premette contro, le spalle curve e lo sguardo basso, il labbro insanguinato. Le mani sulle spalle di Taiga, e il capo chinato quasi a sfiorargli il petto, si lasciò andare, per la prima volta dopo il processo, a un singhiozzo liberatorio, che servì ad aprire la strada alle lacrime che da tempo attendevano di poter uscire.
Non era mai stato uno che piangeva Daiki. Probabilmente si potevano contare i suoi pianti sulle dita di due mani, ad essere addirittura esagerati. Ma in quel momento, il coltellino sepolto sotto il cuscino, Taiga fermo davanti a lui, il labbro che pizzicava, e un conto alla rovescia continuo nella sua mente, non poté far altro che arrendersi all’evidenza che, il puma coraggioso e indistruttibile, questa volta, per l’ultima volta, aveva perso. E pianse. 



n.d.a.
Okay, questo capitolo è più corto rispetto agli altri. Ma direi di approfittare del fatto che sono ispirata haha
Non mi piaceva l'idea di allungarlo. Così mi piace, lo vedo giusto.
Che dire, il nostro Mr. Cuoredipietraiononpiangomai si è lasciato andare! 
Sono piuttosto soddisfatta di questo capitolo, lo ammetto. Mi piace proprio! 
Spero piaccia anche a voi x'D 
Grazie a tutti :3
Miki!

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Capitolo 9
*** Capitolo ottavo / Those resigned eyes ***


Capitolo ottavo / Those resigned eyes
Durante i due giorni seguenti la cella del ciccione con lo squarcio sul polso si fece piuttosto rumorosa. Alla mattina, appena sveglio, Kagami lo sentiva prendere a calci le sbarre di ferro della cella e piangere sommessamente. Daiki nel sonno si irrigidiva e Taiga lo stringeva di più a se, gli tappava anche le orecchie a volte, sino a che il ciccione si calmava, o sino a che Daiki si svegliava e gli tirava una gomitata mirata. All’ora di pranzo, quando si dirigevano verso la mensa, il ciccione –chiuso a mangiare nella propria cella panini che non avrebbero richiesto l’ausilio di una coltello, si metteva a strillare e tentava di afferrare le loro tute, il polso fasciato e gli occhi stralunati dal terrore. A volte, durante la notte, prima di addormentarsi, Aomine letteralmente sopra di lui, le gambe intrecciate, Taiga sentiva un raschiare sommesso provenire dalla cella accanto, come di unghie sulla parete, e un sommesso piagnucolare, come un lamento, che gli faceva rizzare i peli sulla nuca tutte le volte. Di nuovo, tappava le orecchie all’altro, nella speranza che non sentisse.
 
Non parlarono più del pianto di Aomine, o di come Taiga l’avesse stretto a sé mentre le lacrime cadevano copiose, un piccolo lago che si formava sul pavimento grigio. Non parlarono nemmeno della mattina in cui il ciccione fu trascinato a forza fuori dalla cella, inerme, lo sguardo spento. Nessuno aveva osato fiatare in tutto il corridoio. Daiki si era arpionato alle sbarre e Taiga l’aveva stretto così forte da fargli male, le braccia passate attorno al suo petto, da dietro. Non parlarono più nemmeno del coltellino, lo lasciarono sotto il cuscino, nessuno dei due ebbe il coraggio di toccarlo, o buttarlo. Lo abbandonarono nel suo nascondiglio precario, la presenza confortante della plastica che alleggeriva le spalle di Daiki, giusto un po’. Quelle di Taiga, invece, iniziavano a dolere particolarmente.
 
Erano passate tre settimane scarse, Daiki aveva ripreso a fare brevi incubi, un intervallo di un paio di giorni dopo ogni incubo. La notte Taiga se lo stringeva addosso, gli baciava le palpebre la mattina, prima che si svegliasse, benediva quegli occhi che, in un modo strano, l’avevano salvato. O condannato. Dipendeva dai punti di vista. Si trovava a riflettere sempre più spesso sulla morte Taiga, si chiedeva cosa ci fosse una volta smesso di respirare, si chiedeva dove sarebbe andato l’altro, si chiedeva chi avrebbe trasportato il suo corpo fuori dalla prigione, chi avrebbe premuto il pulsante che azionava la scarica elettrica, si chiedeva se avrebbe sofferto. A volte, sotto la doccia, mascherato dall’acqua che cadeva sul suo viso, lasciava che un paio di lacrime scivolassero fuori. Più spesso invece, finiva col tirare pugni al muro, o al primo malcapitato che si avvicinasse troppo.
Daiki, in silenzio, lo guardava, e contava i giorni che gli restavano.
 
-Mi rimane un mese-
Sussurrò una mattina, le lenzuola incollate al petto dal caldo di Giugno. Taiga lo guardò in silenzio, passò una mano sul viso e sospirò piano.
-Cosa ti aspetti che dica?-
Disse solo, piano, il tono arreso di chi inizia a prendere coscienza del tempo che gli rimane. Non che fosse lui quello sul punto di morire, ma l’attesa iniziava a straziare anche lui, allo stesso modo.
Daiki scrollò piano le spalle, si voltò a guardarlo e sorrise piano, gli angoli delle labbra incurvate appena, il ghigno bastardo mostrato i primi tempi completamente sparito.
-Dovresti essere felice, ti cedo la brandina-
Ironizzò. Taiga si trovò costretto a una risata spenta che gli costò una leggera sgomitata. Quando riaprì gli occhi Aomine lo guardava, sorridendo appena.
-Non voglio che tu muoia-
Sussurrò Taiga, piano, sottovoce, confessione che gli prese via il fiato per un paio di secondi e gli rese gli occhi estremamente lucidi. Sbatté le palpebre un paio di volte, sorrise piano di nuovo, e non appena fu certo di riuscire a reggere lo sguardo di Aomine si concesse di incontrare i suoi occhi coi propri.
Daiki non sorrideva più. Se lo tirò vicino per la nuca e poggiò la fronte alla sua, gli occhi oceano fissi in quelli di fuoco di Taiga. La rassegnazione nello sguardo di entrambi era evidente. Le labbra si cercarono con foga, le mani strinsero fianchi, nuche, spalle.
Si baciarono a lungo, scoparono, a lungo.
 
Passarono la notte col petto incollato a quello dell’altro, il respiro rubato alla bocca vicina, i minuti che scorrevano, un conto alla rovescia pesante sulle spalle.
 
 
 
 
Click, clock




n.d.a. 
Okaaaay, credo che questo sia tipo il terzultimo/quartultimo capitolo v.v siamo arrivati quasi alla fine, ehhhhh si v.v 
Beh, che dire, non vedo l'ora di scrivere capitolo finale e epilogo, sul serio. omfg troppe idee haha 
Spero abbiate gradito, e si, per inciso, ci ho messo un po' perchè non avevo proprio sbatti di scrivere haha spero sia venuto fuori qualcosa di vostro gradimento u.u 
il click clock è il rumore tipo di un orologio, ma in questo caso del tempo che scorre v.v 
ve amo tutti che mi seguite, grazie rsdhughod cwc 

Miki!

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Capitolo 10
*** Capitolo nono / Those burning eyes ***


Capitolo nono / Those burning eyes
Lo sto immaginando. Il mare dico. Si scaglia sulla terra con una furia omicida, se lo guardi bene ti sembra c’abbia pure uno sguardo. Il mare dico. Sempre il mare. Nemmeno ha gli occhi, ma se ci stai attento sembra abbia uno sguardo suo. Che poi dove punta non lo sai, ma c’ha lo sguardo. E si scaglia, feroce, terra e acqua, una fanghiglia indistinta, è sabbia alla fine, c’affondo i piedi, le impronte stanno li, un paio di secondi, l’acqua se le porta via. Sento che si porta via un pezzo di me. Quelle impronte sono mie, erano mie. Se le è prese. Prendi tutto, posso solo pensare. Via, oceano mare, prenditi tutto. C’affondo le mani, stringo questa sabbia, l’acqua di sale mi finisce in bocca, lascio cadere mollemente il corpo sulla sabbia, tra l’acqua e la terra, la zona di scontro perenne, bolle bianche che mi finiscono in faccia, mi finiscono ovunque, anche nelle orecchie. Ne ho impregnati i vestiti. Ecco, io non so che odore abbia il mare, non lo so. Mi hanno sempre detto che un po’ fa schifo, che sa di pesce, e di salmastro, a stento so cosa voglia dire salmastro. Ma ecco, io so, lo so, ne sono certo, ma proprio certo eh, roba che se mi chiedono quanto, non rispondo nemmeno, va beh insomma, son sicuro, che lui, la sua pelle, i suoi capelli, sanno di mare. Io sono sicuro, che sa di mare. Io, che non l’ho mai visto il mare, e nei suoi occhi ci vedo, per paradosso il fuoco, so che la sua pelle sa di mare, so che sa di quella furia che spinge l’acqua alla terra, e di quella furia che la tira indietro, e so che sa di quelle bolle che ora, nella mia mente mi hanno riempito la testa, le orecchie. Le sento nel cervello queste dannate bolle. Io, che avrei voluto fare lo scrittore, che avrei voluto, non lo so, una famiglia forse, che volevo vedere il mare, una volta, solo una, l’ho visto, nei suoi occhi, che sono fuoco liquido, ma io c’ho visto il mare, io, che domani morirò. Io che, ora, e per sempre, so di amare il mare, perché l’ho visto. Nei suoi occhi, di fuoco liquido, io l’ho visto. Che sembrerà assurdo ma l’ho visto. Ho visto il mare. C’ho visto il mare, e ho pregato di morirci, ho pregato di affondarci, per sempre. Io, in quegli occhi, c’ho visto il mare. Proteste dire, voi, lo stesso? Io domani morirò avendo visto, davvero, il mare. Voi magari non morirete domani. Ma lo vedrete mai davvero?
 
-Non lo so. Boh-
-Boh cosa?-
-Ma che ne so ti ho detto-
-Si, ma che ne sai di cosa? Cioè, hai farfugliato, manco ho capito-
-Boh. Credo di amarti ho detto. Però non lo so. Boh-
-Che dichiarazione da due soldi, finocchietto-
-Son sempre stato povero, non so fare di meglio-
Sorrisero entrambi, in un modo strano, la parola adatta per definirlo è sottovoce. Daiki se lo tirò vicino per la nuca, una volta aveva sentito –in un film forse, o magari l’aveva letto- che la nuca è il centro della vita, che li sta scritto il tuo destino. E lui teneva la nuca di Kagami in una mano, la stringeva appena. Sentiva di avere il suo destino in mano, lo faceva sentire meglio, più forte. Lui, che era nato, e aveva vissuto male, in modo sgangherato, lui, che da subito, era nato per morire li, in quel posto, in quel buco di merda, lui sentiva, con la mano sulla nuca dell’altro, che Taiga era nato per vivere, in un modo strano, distorto come il suo, e capì allora, che nessuno avrebbe potuto decidere della vita di quel ragazzone, all’infuori di lui.
-Boh, anch’io, credo-
Borbottò, piano. Taiga socchiuse gli occhi, sfregò la guancia alla sua, la sua che era già mezza morta, considerato che otto ore dopo il suo culo si sarebbe seduto per l’ultima, fatale, volta. Si sfregò alla sua guancia e rise sottovoce, un pazzo maniaco tale e quale a lui, che in un giorno solo, quel giorno, aveva accettato la morte, in un modo distorto forse, ma l’aveva accettata, costretto, piegato dalla rassegnazione.
-Solo tu puoi decidere della tua vita, finocchietto. Solo tu. Ma solo io, io soltanto, posso togliertela-
E parve ad entrambi come una dichiarazione, come un ti amo più sottile, più impercettibile, ma allo stesso modo, paradossalmente, chiaro, distinto. Quel lasciare il proprio destino nelle mani di qualcuno. E Daiki non poteva, il suo l’avevano già rubato. Taiga gli aveva mollato in mano tutto il proprio, ne aveva messo abbastanza per tutte e due. Come se avessero fatto a metà.
-Prenditela-
Disse solo, Taiga. Un sorriso gli incurvò le labbra.
 
A Taiga parve fosse passando un solo secondo da quando si erano addormentati, quando le luci del mattino squarciarono la notte, un taglio netto che si apriva all’orizzonte e che ricordava una ferita. Daiki dormiva sul suo petto, lo stringeva, nudo com’era nato, le labbra rosse, la pelle scura, il segno dei calzini e dei boxer, il culo poco più chiaro. Se lo strinse addosso, lo vide aprire gli occhi, ed ebbe la certezza che non avesse chiuso occhio, che fosse rimasto, in silenzio, un puma elegante, a vegliare sul suo sonno, quasi fosse lui quello condannato.
Le mani si cercarono un paio di volte, i petti s’incontrarono, il respiro si fece uno. Daiki si spinse per l’ultima volta, così forte da fargli male, dentro di lui, si strinsero come mai prima, le labbra si cercarono con irruenza, il bisogno impellente di mordere, baciare; la rabbia prese il sopravvento, terra e acqua che si incontravano, gli occhi di fuoco liquido e di tempesta, i morsi sulla pelle. Dall’ultima battaglia, ne uscirono sconfitti entrambi.
Vincitrice, la morte.
 
E mentre si riallacciavano l’ultimo bottone della divisa, mentre Taiga brontolava, perché, cazzo, prudeva ancora quel tessuto schifoso, mentre Daiki rideva e gli grattava la schiena, e lo baciava ancora, con più foga, tenendolo più stretto, mentre Taiga gli afferrava la tuta e ne stringeva la stoffa tra le mani, in un abbraccio soffocante, i passi, lenti, delle guardie, echeggiarono nel corridoio, un tintinnio di chiavi a fare da sfondo.
Cic, la suola morbida che arrivava davanti alla cella. La prima guardia li guardò di sottecchi, si schiarì la voce e giocò piano con le chiavi, prima di aprire la cella.
 
 
Non ci fu bisogno di trascinare Daiki, camminò a testa alta, sino alla morte


n.d.a.
Questo è il penultimo capito, dopo di che avremo il decimo, e l'epilogo u.u 
Che dire, ammetto di amare questo capitolo. Voglio dire, penso che sia venuto davvero bene! 
L'ho scritto in un lampo di ispirazione dopo aver guardato On The Road ( Dio se ho amato quel film! ). 
Volevo chiarire, nel caso in cui non fosse chiaro, che la parte iniziale in corsivo è un pensiero di Daiki. Immaginatelo come volete, una lettera, un diario, solo un pensiero. Sta a voi la scelta. Io credo sia una sua riflessione, una cosa segreta, solo sua. Volevo che la sua mente fosse per un secondo un libro aperto, che lasciasse andare i suoi pensieri, prima di.. beh, prima di morire insomma. 
Spero di non aver deluso nessuno con questo capitolo, è venuto anche più lungo dei precedenti! v.v 
Appuru, spero che tu apprezzi di più questo capitolo, voglio sapere che ne pensi eh u.u 
Oh, per inciso, questa è la parte della storia che preferisco scrivere, perciò.. preparatevi all'angssssst! lol 
Grazie mille a tutti che leggete, siamo quasi alla fine, tenete duro haha 
Miki! :33

ps: stavolta il titolo si rifà per eccezione agli occhi di Kagami u.u 

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Capitolo 11
*** Capitolo decimo / Those dead eyes ***


Capitolo decimo / Those dead eyes
 
 
 
 
 
Tutti dobbiamo morire, non ci sono eccezioni, lo so, ma certe volte, oddio, il Miglio Verde è così lungo.
Stephen King, Il Miglio Verde
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Kagami l’aveva seguito dieci minuti dopo, l’avevano scortato a braccetto lungo il corridoio verdino spento, uno strano grigiore del cielo che incupiva ancora di più quel colore che già di per sé poteva essere definito di merda. Era calato un silenzio quasi solenne tra le celle, sembrava quasi una marcia funebre silenziosa, che svuotava i corridoi, che svuotava la mente e le bocche di parole. Solo silenzio. A Kagami piaceva quella marcia funebre invisibile, si sentiva meno solo a camminare verso il destino di Aomine, che era un po’ anche il suo, chissà perché, lo sentiva condiviso.
Si lascio quasi trascinare, mentre una porta forse fin troppo piccola per la sua statura veniva aperta alla sua destra. Chinò leggermente il capo, come la guardia alla sua sinistra, quella che sulla giacca aveva una piccola macchia di caffè nemmeno troppo vecchia e che sicuramente in ufficio teneva le foto della moglie e dei figli. Sempre se ce l’aveva un ufficio, si disse.
La stanza in cui era appena entrato sembrava più un corridoio, una specie di anticamera stretta dalle pareti grigie in cemento, un vetro spesso, probabilmente resistente a urti e spallate che Taiga immaginò fossero frequenti, subito a sinistra della porta. Non c’era nulla in quell’anticamera grigia, sembrava un luogo di passaggio, una specie di purgatorio vuoto, il passaggio all’inferno stava oltre quel vetro lucido. Taiga sperò davvero, in quel momento, che un inferno non ci fosse. Per Daiki.
In un angolo, in alto, affianco a una macchia di muffa causata dall’umidità, e a una ragnatela, stava un altoparlante, uno di quelli vecchi, che fischia periodicamente, ricordandoti che sarebbe da buttare, che dovresti prenderlo e gettarlo nel cestino, cavi consunti compresi. Probabilmente un tempo era servito per comunicare con la sala dell’esecuzione, oltre il vetro, ma Kagami era certo che ormai non funzionava più. Le due guardie lo mollarono lì dentro ed uscirono dalla stanza, quasi quello fosse uno spettacolo abituale e non volessero assistervi una sola volta di più. Probabilmente era davvero così.
L’aveva chiesto Taiga di esserci, l’aveva chiesto lui di poter assistere, quasi questo potesse essere di alcun conforto a se stesso e a Daiki. Daiki, il quale stava entrando in quel momento, dall’altra parte, da una porta ugualmente piccola, forse di più, quasi stesse chinando il capo all’evidenza, all’orrore della morte. I pochi presenti all’esecuzione, principalmente alcuni parenti di Aomine, i nonni forse, si voltarono a guardarlo, le mani strette sul grembo e lo sguardo cupo.
Kagami si spinse al vetro, ci stampò il naso, puntò gli occhi ad Aomine, oltre il vetro, oltre il purgatorio, già con un passo nell’inferno, e lo sguardo proteso a lui, a Kagami, ai suoi occhi di fuoco in cui lui per paradosso vedeva il mare, ora calmo, ora in burrasca, non si capiva, le onde arrivavano d’improvviso, così forte da sbatterlo alle rocce, e sanguinava, faceva male. Cristo, faceva male. Quasi poteva già sentire il culo poggiato su quella cazzo di sedia, che ora stava li, a un metro da lui.
Gli prese il panico. Scosse le braccia, un paio di volte, quasi per accertarsi di essere ancora vivo, che ancora la morte non se lo fosse portato via, e fu quasi un tentativo di entrambi, uno già coi piedi nella fossa, entrambi, l’altro solo con uno, che cercava di tirare su tutti e due, ma mica ci riusciva, la morte pesa troppo.
Kagami rimase immobile, guardò il terrore negli occhi di Aomine, guardò il sudore imperlargli la fronte e la nuca, asciugò il proprio e lasciò che gli occhi si inumidissero, strinse i pugni quando li strinse Aomine, chiuse gli occhi quando li sbatté l’altro, respirò addirittura con lui. Kagami Taiga, immobile oltre il vetro, nessun laccio a legarlo fisicamente, ma con la mente stretta nella morsa delle braccia di Aomine, quelle braccia forti, legate, bloccate, alla sedia, il petto pure, le gambe, i piedi, tutto. Lui, libero a metà, l’orizzonte a lui visibile era limitato, ora si fermava agli occhi di Daiki, che c’aveva addirittura trovato l’infinito dentro, che quando hai trovato il tuo, di orizzonte, mica ti serve quello degli altri.
Taiga ci si perse dentro per l’ennesima volta; non badò alle guardie che controllavano le cinghie che  stringevano Aomine, non badò ai macchinari a qualche metro di distanza da lui, ignorò completamente gli sguardi dei presenti. I suoi occhi lo presero, lo strapparono dalla realtà, come sempre, pretendevano tutto, prendevano tutto.
Si presero anche quell’ultimo respiro sano che rimaneva a Taiga, si presero anche quell’oceano che aveva dentro gli occhi, si presero tutto, decisi a portarselo dietro, ovunque sarebbero andati, sempre se un oltre c’era.
E Taiga glielo lasciò fare, chiuse gli occhi, e quando li riaprì, il suo sguardo, rifletteva quello di Aomine. Oceano in tempesta e un incendio rovente. Stavolta, per la prima volta, per l’ultima volta, domati.
 
 
 
 
 
 
 
 
Pochi secondi prima che il cappuccio nero venisse calato sul viso di Aomine, prima che la calotta di metallo fosse messa sulla sua testa, poco prima, le sue labbra si mossero per l’ultima volta, prima che la scarica elettrica attraversasse il suo corpo mozzandogli il fiato, togliendogli il respiro, togliendogli tutto. Una volta era Taiga a farlo, una volta si rubavano il respiro e lottavano sino all’asfissia. Kagami ebbe un sussulto, e quando arrivò il momento, gli parve l’aria fosse stata tolta anche ai suoi, di polmoni.
 
 
 
 
 
 
 





 
 
 
“non guardare, finocchietto”. 











 
n.d.a. 
Buongiooorno! Eccomi, sono tornata. E voi direte anche "era ora!". 
Beh, effettivamente si D: Mi scuso come sempre per l'enorme ritardo, purtroppo da quando è ricominciata la scuola non ho avuto molto tempo, così ne ho approfittato stamattina che sono rimasta a casa, per ultimare il capitolo che avevo già iniziato. 
Siamo giunti alla fine, già. A questo punto manca solo l'epilogo, ma non credo ci vorrà molto tempo per averlo, almeno spero haha 
Mi sono sentita ispirata, come presumo si sia capito, dal Miglio Verde di Stephen King, che ho finito di leggere qualche ora fa, e che mi ha fatta piangere. as always <3 
Che dire, spero vi piaccia, ci ho messo del tempo a scriverlo, e penso che in fondo sia venuto bene. 
Fatemi sapere che ne pensate, ci tengo :3 
Grazie a tutti, come sempre, 
Miki! 
All'epilogo!

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Capitolo 12
*** Epilogo / This is the end ***


 
è la prima volta che metto le note dell'autore in cima, prima di un capitolo, ma in questo caso mi sembrava più adatto. Volevo solo ringraziare tutti voi, che avete seguito, o recensito, o entrambi, questa storia, spingendomi sempre a continuarla. Ed è il risultato è che, per la seconda -e spero non ultima- volta nella mia vita, sono riuscita a concludere una storia. Quindi, grazie davvero a tutti. 
Buona lettura, 
Miki.








 
Dedico questa storia a Silvia, 
che mi ha indirettamente spinta
a scrivere quest'epilogo, 
e a scrivere in generale. 
Allora io, 
scrivo. 




Epilogo / This is the end
Li sto immaginando. I suoi occhi dico. Li sto immaginando, più che altro perché vederli non riesco, non si può, allora trovo un’alternativa, una che va bene, che non è migliore, ma mi accontento.
Li sto immaginando, dicevo. Il blu mi spiazza, c’avevo visto l’oceano, pensavo, all’inizio. Ho fatto l’ennesimo degli errori.
In quegli occhi c’ho visto il fuoco, c’ho visto me stesso, c’ho visto anche mio padre, c’ho visto lui, che ora chissà dov’è, ma non importa, tra poco lo raggiungo. Tra poco ti raggiungo, Daiki.
Li sto immaginando, e mi tremano le braccia, le mani, mi trema tutto cazzo, trema tutto, è un terremoto. È un cazzo di terremoto e sono i suoi occhi, nella mia testa, sulle pareti, li vedo ovunque, a generarlo. È un terremoto schifoso, mi scuote, e sto male. Sto male cazzo.
Ma chi se ne frega, tra poco starò bene. Non ho mai pregato ma adesso è questa, la mia preghiera. Non per me, non per gli altri detenuti. Per lui. Ti prego, aspettami. Ti raggiungo, Daiki.
 
Ti raggiungo.
 
 
 
 
 
 
Amen. 

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