BLEAK - Intrappolata nel buio

di CamillaAngelotti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO: 12 Aprile 1991 ***
Capitolo 2: *** PREFAZIONE: 21 Marzo 2000 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 1O ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 11 ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 12 ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 13 ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 14 ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 15 ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 16 ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO 17 ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO 18 ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO 19 ***
Capitolo 22: *** CAPITOLO 20 ***
Capitolo 23: *** CAPITOLO 21 ***
Capitolo 24: *** CAPITOLO 22 ***
Capitolo 25: *** CAPITOLO 23 ***
Capitolo 26: *** CAPITOLO 24 ***
Capitolo 27: *** CAPITOLO 25 ***
Capitolo 28: *** CAPITOLO 26 ***
Capitolo 29: *** CAPITOLO 27 ***
Capitolo 30: *** CAPITOLO 28 ***
Capitolo 31: *** CAPITOLO 29 ***
Capitolo 32: *** CAPITOLO 30 ***
Capitolo 33: *** CAPITOLO 31 ***
Capitolo 34: *** CAPITOLO 32 ***
Capitolo 35: *** CAPITOLO 33 ***
Capitolo 36: *** CAPITOLO 34 ***
Capitolo 37: *** CAPITOLO 35 ***
Capitolo 38: *** CAPITOLO 36 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO: 12 Aprile 1991 ***


Chissà che stavo facendo in piedi davanti allo specchio… sola, immobile, le iridi castane fisse davanti a me.
Forse mi chiedevo solo cosa vedessi, mi chiedevo chi fosse l’immagine riflessa nei miei occhi, cercando disperatamente una risposta a tutte le mie domande.
Un lungo vestito in pizzo bianco donava al mio viso fresco e vellutato un’aria ancora più ingenua, dolce, splendida, e continuavo a fissare lo specchio, cercando semplicemente di leggere attraverso quegli occhi marroni così profondi, così bui, pieni di coraggio e di paura. I lunghi capelli castani ricadevano come una dolce cascata sulle mie spalle, coronando quel viso ingenuo dalle guance morbide e rosse, mentre le labbra di fuoco tentavano di sorridere senza sembrare bugiarde.
Gli occhi cercavano di trattenere delle lacrime da tanto,  troppo tempo.
E, lo sapevo, stavo mentendo a me stessa.
Perché rimanevo ferma? Stavo aspettando qualcosa?
C’era silenzio in quella stanza, fin troppo silenzio… le lancette dell’orologio risuonavano forti e decise, più spietate che mai, accrescendo la mia sensazione di inadeguatezza, insicurezza, panico. I miei polpastrelli sfiorarono le guance rosse, accarezzandone la purezza, come se non cercassi altro che una spiegazione, un qualsiasi conforto o, al contrario, un’incitazione.
E quel silenzio continuava ad incombere intorno a me, più tagliente e rumoroso che mai.
I miei occhi timidi si mossero con una certa accortezza verso destra… c’era una finestra, una grande finestra aperta e quello che potevo vedere attraverso il vetro non era altro che un vero paradiso. Un sole caldo e luminoso brillava nel cielo azzurro e donava calore agli immensi prati verdi, ai fiori colorati e al grande lago, mentre il canto dolce e melodico degli uccellini rendeva quella vista ancora più tenera… eppure il mio sguardo era strano, mi sentivo a disagio.
Le mie iridi scure continuarono a indagare quell’ambiente tristemente dolce che mi avvolgeva: al centro di quella camera c’era un letto rosa a baldacchino, pieno di pupazzi, di oggetti femminili e bellissimi, pieno di tutte quelle cose che qualsiasi bambina avrebbe desiderato. Ma io no. La mia camera era luminosa, colorata, sgargiante e felice in ogni suo particolare, ma i miei occhi non sembravano catturarne la bellezza; si soffermarono su una grande foto sopra il letto, invece.
Si trattava di me, mia sorella e di un uomo… il mio sguardo rimase immobile e vuoto per qualche secondo, quindi tornò a fissare lo specchio.
C’era un profumo dolce intorno a me, un variopinto profumo di lavanda e vaniglia, un’avvolgente fragranza che impregnava i muri color crema di quella tenerezza che il rossore delle mie guance lasciava trapelare. Eppure c’era qualcosa dentro di me, proprio nel mio piccolo cuore, che chiedeva aiuto… c’era un forte dolore dietro tutti quei colori, una lacrima nascosta in un sorriso che ero stanca di forzare.
Quanti anni avevo? Ah, chi più se lo ricordava?! Dieci? Sei? Dodici?
Ah, no… otto, ora ricordo. I miei non erano gli occhi di una bambina di otto anni, però… i miei erano gli occhi di un’adulta, di un’adulta che ha sofferto, di un’adulta che ha vissuto tanti anni, che ha conosciuto la vita in tutti i suoi aspetti. E quello sguardo, indossato da quella dolce figura infantile, faceva paura. Tanta paura. Faceva paura anche a me, riflessa in quello specchio ingannatore.
Le mie mani silenziose e accorte si allungarono sotto il letto e mi mossero goffamente nel tentativo di raggiungere qualcosa; mi inginocchiai e con un piccolo sforzo riuscii a tirare fuori da sotto il letto un grande bauletto rivestito in pizzo rosa. “Per la mia principessa” lessi su di esso… ah, doveva essere speciale! Mi guardai ancora intorno, come se temessi di essere spiata da qualcuno, quindi le dita veloci e piccole cercarono di aprire la serratura con una piccola chiave, nascosta sotto l’armadio. E per la prima volta dopo tanto tempo, in quel momento sembravo una bambina… una bambina entusiasta mentre apre un regalo. Quasi immediatamente spalancai il bauletto e ne feci uscire un piccolo diadema argentato… oh, era bellissimo! Esterrefatta, lo appoggiai delicatamente sulla testa e mi guardai ancora allo specchio; sorrisi per qualche secondo, il diadema brillò alla luce del sole… ma, nonostante la bellezza di quell’oggetto, le mie labbra si richiusero praticamente subito, una volta che quel regalo divenne banale, vecchio, noioso.
Ah, ora ricordo! Era il mio compleanno... chissà perché ero sola nel giorno del mio compleanno. Forse me lo stavo proprio chiedendo o forse già lo sapevo e cercavo solo di non pensarci. Ecco perché quel diadema non mi aveva reso troppo felice: era bello, molto bello… ma cosa se ne fa un cuore di un corpo senza un’anima?
Ancora i miei occhi indagarono la stanza, forse cercando un divertimento, forse cercando una spiegazione ai miei dolori. Ero bellissima con quel vestito, con quel diadema e con quel viso pulito, puro e ancora privo di un’evidente sofferenza. La camera era ricca, colorata, eccezionale… ah, probabilmente una grande festa mi aspettava, tanti amici e parenti a complimentarsi per il mio bel viso di cera! Mi ero preparata per una festa, per divertirmi… per celebrare il giorno più bello dell’anno, probabilmente! O forse no. O forse non c’era una vera ragione per cui avevo indossato quell’abito, se non per fingere che niente negli ultimi tempi fosse cambiato nella mia vita.
Sapete cosa successe dopo? Dopo che, intendo, mi fui guardata allo specchio ancora una volta, quasi soddisfatta per il mio aspetto?
Rimisi la coroncina nel bauletto, mi sfilai il vestito e sciolsi la deliziosa mezzacoda che raccoglieva i miei capelli. La mia festa era finita. Ripiegai il delizioso abito e lo rimisi nell’armadio… era l’unico bello che avevo. Gli altri erano vecchi, non mi stavano neppure più. Indossai un morbido pigiama bianco e il mio piccolo corpo saltellò, cercando di non piegarsi, fino al letto.
E sapete cosa feci?
Iniziai a saltare. Feci un paio di salti: uno, due, tre. Ma quel silenzio buio e gelido continuava a regnare intorno a me, e quelle lancette spietate e crudeli continuavano a muoversi… il tempo passava inesorabilmente, ed io rimanevo lì, sola e rinchiusa nella trappola dei miei stessi pentimenti.
Tuttavia saltai ancora un po’: quattro, cinque, sei salti. Mi fermai, sorrisi, cercai di ricordare come ci si sentisse ad essere felici… e poi scesi di nuovo. No, non ero felice.
Mi sedetti sul grande letto, alzai teneramente le spalle con un piccolo sorriso. E poi osservai un grande peluche proprio di fianco a me e sorrisi, parlando con una voce dolce e buona, eppure strozzata dal dolore:
-Tanti auguri- mormorai con un piccolo sorriso, che si spense spietatamente troppo, davvero troppo presto -Buonanotte- sussurrai ancora. Ero sola, non avevo niente.
Ero un angelo. Un angelo soffocato dal dolore, un angelo racchiuso in una trappola mortale, un angelo condannato a una vita crudele. Ero morta, non esistevo più.
Un tempo, forse un tempo ero stata una bambina felice, ma il mio sorriso si era spento terribilmente presto e i miei occhi si erano chiusi quando ancora ero troppo piccola per riuscire a difendermi.
Eppure, nonostante tutto, è così che, ad occhi chiusi, sono arrivata ai miei trent’anni… e mi sono salvata. Ce l’ho fatta. Incredibile, ma vero: dopo tutto quello che ho patito, sono diventata una donna, mi sono ripresa la vita che meritavo e che mi apparteneva.
Il mio nome è Camilla Ori, ho esattamente ventinove anni, ma ho l’impressione di aver vissuto cento vite… spesso mi illudo di conoscere tutto di me stessa, della vita, di ciò che ci circonda… ma non smetto mai di sorprendermi, in realtà. Tutti cambiamo, tutti cresciamo, ma a volte è impossibile liberarsi del proprio passato… a volte è impossibile dimenticare i dolori, sorridere, andare avanti. Spesso il cuore è così ferito che diventa difficile riuscire a guarirlo… ma io ci sono riuscita, e sono fiera, orgogliosa di me stessa. Gli errori che ho fatto sono acqua passata, la persona che sono stata per tanti anni è ormai sepolta: il tempo passa in  fretta, ma non lo temo più. Ho imparato ad alzarmi dopo essere caduta, ho imparato a difendermi tanto quanto ho imparato ad attaccarmi e a riconoscere le mie colpe.
La mia vita cambiò di colpo intorno ai miei sei anni, mi chiusi involontariamente in una trappola mortale, infinita, in un intreccio di paure impossibile da sciogliere, in un tunnel nero e soffocante… e ho sofferto, ho sofferto molto. Tutte le lacrime che ho versato sono state dolorose e crudeli, ma ora ho di nuovo la mia vita e ho capito che andare avanti, sorridere e accettare il proprio passato è l’unico modo per sentirsi bene con sé stessi.
Quindi, con la mani tremanti, continuo a scrivere, nonostante il dolore, e a ripercorrere, passo dopo passo, la mia vita; voglio che ogni singola parte di me ricada sulle pagine bianche e le riempia con tutte quelle sensazioni che per tanti anni mi hanno inseguito e soffocato e che ricordo ancora fin troppo bene.
Non so perché stia scrivendo in realtà, ma penso che anche la testimonianza di una sola vita sia un patrimonio troppo prezioso per essere buttato al vento… ed è così che ho deciso di raccontare la mia grande avventura. L’avventura di un’ombra minacciosa e nascosta, di un dolore soffocato, di un segreto mai confessato… l’avventura di un angelo, di un piccolo angelo a cui tanti anni fa furono spezzate le ali.

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Capitolo 2
*** PREFAZIONE: 21 Marzo 2000 ***


Era una mattina di marzo come tutte le altre, se non addirittura migliore. Il debole calore del sole, che spuntava appena dall’orizzonte, riscaldava un piacevole paesaggio di montagna vicino a Trento.
Una fresca brezza mattutina accarezzava con la sua delicatezza le chiome degli alberi, creando un’impercettibile coreografia dettata dal lento e carezzevole ritmo del dolce canto degli uccellini, che preannunciava l’arrivo imminente della primavera. Due fitti boschi si ergevano ai lati di una strettissima strada di montagna, in modo da creare un fresco mosaico di ombreggiature con le grandi chiome vivaci, trafitte dai tiepidi raggi di sole. Quasi nessuno passava mai da quella strada, ma era un luogo magnifico, che attraversava quasi tutto il bosco, ricco di piacevoli ed incontaminate distese sulle quali l’uomo si era per il momento risparmiato di mettere lo zampino.
Tuttavia, in quella giornata di primavera, intorno alle undici di mattina, una macchina passava per quella strada di montagna, che sembrava isolata dal resto del mondo; c’erano a bordo due ragazze intorno ai venticinque anni, delle quali una sembrava più grande dell’altra, ma non di molto. Era alla guida, si chiamava Luisa; a rispecchiare la sua personalità ribelle, i capelli biondi ricadevano selvaggi fin sotto le spalle mentre cantava a squarciagola, finché l’altra, seduta accanto a lei, non spense la radio con una certa irritazione volutamente evidente. Quest’ultima, di nome Viola, aveva invece un aspetto estremamente calmo e, in realtà, piuttosto triste; i capelli castani chiari e il vestitino viola la differenziavano dallo stile sportivo e semplice di Luisa, la spinta e allegra ragazza alla guida. Erano entrambe incinta e la più grande delle due, in altre parole quella bionda, che si stava godendo le note della sua canzone preferita, fulminò Viola con lo sguardo per averle interrotto il divertimento. La mora sembrò non reagire a quell’occhiata infastidita e tornò a guardare malinconicamente fuori dal finestrino, passando i polpastrelli sul pancione.
Luisa la osservò spazientita per qualche secondo, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare, finché non frenò di colpo, alzando un gran polverone sullo sterrato:
-Non possiamo continuare così, Viola!- la rimproverò infastidita, catturando l’interesse della mora, che di colpo sussultò al gesto violento mettendo la mano sulla pancia:
-Perché hai frenato così? Sei impazzita?-
-Perché hai spento la musica? Che cos’hai?- chiese Luisa con un tono a metà fra la curiosità e il dispiacere
-Non hai più sedici anni, a volte dovresti ricordarlo- farfugliò con gli occhi bassi –Non c’è bisogno di urlare a squarciagola, non siamo in discoteca-
-Ho ventisei anni, non cinquanta! Credo che sia peggio fare come stai facendo tu… guardare fuori dal finestrino non ti porterà ad essere felice- la rimproverò la bionda con un dolce dispiacere nella voce
-Beh, forse perché a me interessa essere una brava persona, forse perché io mi preoccupo davvero degli errori che faccio e non ci passo sopra tranquillamente... -
-Se intendi accusare proprio me di non imparare dai miei errori, stai sbagliando persona, Viola-
-Ne sei sicura, sorellina?! Non penso di aver sbagliato ad accusarti di superficialità. Almeno ammetti i tuoi errori, sarebbe il primo passo per cambiare…-
-Io devo cambiare?! Non scaricare su di me i tuoi problemi, non è certo colpa mia se non sei soddisfatta della tua vita...- questa frase sembrò offendere molto la povera Viola, che urlò contro la sorella, dopo qualche secondo di silenzio:
-Parli proprio tu? I tuoi figli non hanno neppure un padre… e, dopotutto, neppure tu sai chi sia!- la offese piuttosto pesantemente, senza rendersi conto della gravità di ciò che aveva detto; doveva essere un area di conversazione piuttosto delicata a giudicare dagli occhi sconvolti e umiliati di Luisa. Il silenzio calò fra di loro, la bionda sospirò e con un gesto veloce mise di nuovo in moto la macchina, continuando a fissare il paesaggio davanti a lei e cercando forse di non mostrare le proprie debolezze. Dopo qualche minuto di silenzio, Viola si voltò verso la sorella e parlò con calma, con occhi sinceri e dispiaciuti, cercando di scusarsi per lo sfogo che aveva avuto poco prima:
-Senti, Luisa, io... non volevo, scusa... - cercò di finire la frase, ma si rese subito conto che non era il momento di discutere. Luisa sembrava strana, fissava fuori dal finestrino, immobile e rigida
-Che ti prende?- chiese la sorella piuttosto preoccupata, appoggiandole una mano sulla spalla
-Viola… credo che dovresti guardare anche tu- riuscì a mormorare debolmente, tendendo l’indice in direzione del piccolo bosco che fiancheggiava la stradicciola. Viola si guardò intorno, eppure non vide niente; c’erano alberi, solo alberi:
-Di che parli?- chiese con una leggera paura alla sorella ancora sconvolta e fissa a guardare in quel boschetto –Non vedo niente-
Luisa deglutì e socchiuse le palpebre con un sospiro, quindi indicò ancora, cercando di essere più precisa:
-Laggiù, Viola… laggiù- borbottò con la gola secca, cercando di non far tremare la voce. Viola credette che la sorella stesse scherzando, quindi inizialmente sorrise e la guardò ridacchiando. Ma si ricredette subito. Non ci volle troppo perché anche lei si accorgesse di ciò che aveva appena pietrificato la sorella; la guardò interrogativamente, in silenzio, senza parlare, come se la paura fosse diventata troppa per lasciare spazio alle parole.
Tra gli alberi, in quel paesaggio così piacevole, così pacifico e calmo, avevano appena visto una macchia bianca; inizialmente, non era altro che una lontana e confusa figura, ma subito si era fatta più chiara: era una persona. Una ragazza. Aveva una veste bianca, una specie di camicia da notte rotta e quasi interamente sporca di sangue, i capelli sporchi erano selvaggiamente sciolti sul viso, tanto da nascondere quasi gli occhi. La figura debole e traballante si fece estremamente chiara e spaventosa non appena riuscì ad uscire dal groviglio di alberi dal quale era arrivata, trascinando i piedi nudi sul ghiaino di quella piccola stradicciola. Sembrava un fantasma. Chiunque avrebbe avuto i brividi a vederla, così apparsa dal nulla, così misteriosa… come aveva potuto ridursi in quel modo? Non poteva essere reale. Entrambi le ragazze per un paio di minuti la fissarono come se, appunto, non esistesse, come se quel piccolo incubo non stesse davvero accadendo. Eppure i piedi feriti ma veloci della ragazza si avvicinavano alla macchina piuttosto in fretta; iniziò infatti ad affrettare il passo non appena si accorse della loro presenza, tentando di correre per arrivare alla macchina, probabilmente per chiedere aiuto... o per fare loro del male, al contrario. Chi avrebbe mai potuto saperlo? Viola iniziò a spronare la sorella di muoversi per tornare a casa, fingendo di non aver visto niente:
-Vai, avanti! Andiamocene via!- farfugliò cercando di mantenere quella poca calma che la paura le aveva lasciato
-No... - rispose Luisa, i cui occhi sembravano piuttosto concentrati su quella misteriosa figura bianca
-Ho detto di schiacciare quel maledetto pedale, Luisa!-
-Non possiamo lasciarla qui- disse severamente la bionda, rimproverando l’egoismo della sorella con tono fermo e autoritario
-Smettila di fare l’eroina, sai bene che in questi casi cercare di essere coraggiosi può essere pericoloso!-
-Aspetta...- mormorò Luisa con perplessità, chiedendosi quale sarebbe stata la cosa giusta da fare. Non voleva sbagliare, non voleva fare una scelta della quale poi si sarebbe pentita… e quella scelta sarebbe stata fuggire. Intanto la ragazza cercava di avvicinarsi alla macchina senza cadere, inciampando sui sassi del sentiero sterrato; non appena allontanò una ciocca di capelli dagli occhi, Luisa poté vedere i suoi occhi. Erano orribili. Orribili in quanto specchio di un dolore infinito, di un’agonia continua… il suo sguardo non faceva paura. Faceva solo pena, tantissima pena. Piangeva, le lacrime avevano scavato due righe sul viso incrostato di sangue e fango e gli occhi arrossati si guardavano intorno cercando forse di orientarsi. I capelli castani erano lunghissimi, sporchi e annodati, buttati sul viso provato dal dolore… era davvero gravemente ferita, il suo occhio destro gonfio e nero. Era stata picchiata? Entrambe le ragazze per un secondo pensarono alla possibilità di scendere e di aiutarla, credendo che non potesse fare loro del male, ma poi la figura bianca, a circa una ventina di metri di distanza dalla macchina immobile, mise la mano sotto la grande camicia sgualcita e ne tirò fuori un’ascia. Una vera ascia, sporca di sangue, tagliente... né Luisa né Viola ne avevano mai vista una così da vicino.
Luisa imprecò e schiacciò il pedale per tornare indietro, vedendo la ragazza continuare a fare loro dei gesti dei quali non riuscirono a decifrare il significato, quando decise di frenare per fermarsi ancora:
-Aspetta, Viola... dobbiamo aiutarla- mormorò, indecisa e spaventata
Effettivamente, non sarebbe mai potuta sembrare un pericolo... tutt’altro. Era completamente tagliata e riempita di lividi sul viso, sulle braccia e le gambe; la camicia da notte sembrava di almeno due taglie più grande, era quasi completamente macchiata di sangue e, rotta e sgualcita, lasciava scoprire alcune parti della pelle. C’era una scritta con il numero trecento, in nero, in alto a sinistra... sembrava stata scritta con un pennarello, a mano. Le gambe erano completamente tagliate, il sangue usciva ancora; erano ferite fresche. Sembrava essere passata attraverso un rovere, i tagli erano numerosi e i piedi erano incrostati di sangue e terra, pieni di lividi e di ferite. Camminando sul sentiero sterrato, aveva lasciato una scia rossa sul terreno e probabilmente i sassi non aiutavano i piedi doloranti; come se tutto quel dolore non fosse abbastanza, due grandissime macchie di sangue ancora fresche si notavano all’altezza dello stomaco e del petto, dove la ragazza stava tenendo premuta la mano sinistra. Nonostante quelle terribili condizioni, sembrava trovare ancora un barlume di speranza di essere aiutata, usando le sue ultime forze per raggiungere la macchina, ma le ragazze non sapevano minimamente come avrebbero reagito se si fosse avvicinata ulteriormente e le avesse raggiunte. Stavano solo a guardare, non avendo abbastanza coraggio per aprire gli sportelli, ma neppure per andare via facendo finta di niente, trascinandosi a vita un enorme peso per non averla aiutata.
Luisa si decise ad ignorare qualsiasi esitazione e con un grandissimo atto di coraggio, sentendo il battito salire a mille per la tensione del momento, aprì lo sportello della macchina; un leggero venticello le smosse i capelli, e un grandissimo senso di angoscia l’assalì non appena vide la ragazza da vicino: non sembrava neppure umana ed era difficile sorgere della pelle pulita nel suo corpo distrutto e accasciato sulla strada… Luisa sentiva il bisogno di andarle incontro, ma aveva sempre un’ascia in mano e non avrebbe mai avuto il coraggio di tentare di aiutarla quando avrebbe potuto ricevere la morte come ricompensa. Tuttavia la fissò piena di compassione, mentre piangeva e cercava disperatamente di parlare, le ginocchia nude buttate sul ghiaino e le mani che ricadevano arrendevoli sulle cosce.
Probabilmente capì il motivo dell’esitazione delle sue “soccorritrici”, perché, dimostrando una grandissima forza e volontà d’animo, si alzò sulle povere ginocchia tagliate e buttò l’ascia in terra con un goffo movimento tremante. Si guardò piena di terrore ripetutamente all’indietro, tentando di spiegare qualcosa a Luisa; con le poche forze che sembrava le fossero rimaste, fece con la mano destra il simbolo del telefono e l’appoggiò all’orecchio, chiaramente pregando chi aveva davanti di chiamare qualcuno per chiedere aiuto. Cercava di parlare, ma tremava così tanto che dalla sua bocca uscivano solo disperati gemiti e suoni gutturali privi di senso. Ormai fra Luisa e la ragazza c’erano solo un paio di metri, ma l’insicurezza e l’indecisione bloccavano entrambe; l’una per l’indecisione su come comportarsi, l’altra per la poca fiducia che probabilmente tutti i dolori le avevano lasciato.
Luisa lanciò alla sorella uno sguardo serio, determinato e convinto, per farle capire di stare tranquilla e di chiamare ambulanza e polizia, dopodiché sussurrò un debole “va tutto bene”, forse con l’intento di rassicurare paradossalmente più se stessa che la ragazza sul punto di morte davanti a lei. Scandì bene le parole:
-Puoi capire la mia lingua?- con uno sguardo straziato la ragazza ferita annuì, così Luisa prese carta e penna dalla propria borsa e si avvicinò ancora di più, senza però osare toccarla e voltandosi continuamente per tenere l’arma sotto controllo:
-Come ti chiami?- La ragazza tentò inutilmente di aprire la bocca, ma, per quanto si sforzasse, non uscivano parole dalle labbra screpolate e ghiacce
-Non puoi parlare?- insistette Luisa; la ragazza fece di no con la testa e allungò il braccio, così Luisa le dette un foglio, in realtà il retro di una vecchia ricevuta che aveva in borsa, perché tentasse di scrivere qualcosa. Oh, era orribile vedere quelle povere mani tremanti cercare inutilmente di tener ferma la penna! Ci provava con tutto l’impegno del mondo, impugnava la penna e tentava di scrivere, ma le ricadeva subito dalla mano debole e tremante… ci stava mettendo tutte le sue forze, ma non era abbastanza. La camicia da notte era completamente bagnata, il corpo livido e ghiaccio, mentre le labbra viola tremavano tentando di pronunciare delle parole. Dopo aver provato più volte a scrivere, con due grossi lacrimoni che le rigavano le guance buttò in terra il foglio, sconfitta, ma Luisa si accucciò e glielo porse nuovamente, incitandola:
-Avanti, puoi farcela- La figura bianca mugolò e tentò ancora di afferrare la penna… era forte, si vedeva. Era un animo potente intrappolato in un dolore lancinante, ma non si sarebbe arresa, i suoi occhi riflettevano un cuore battagliero, vincente. E così, in una scrittura da prima elementare, stavolta scrisse sul foglio “300”. Un numero. Luisa cercò di sorridere per nascondere la paura che stava provando:
-No, io ti ho chiesto il nome… io sono Luisa, tu come ti chiami?- la ragazza annuì di nuovo e, vedendo lo sguardo incerto di Luisa, le mostrò il numero sulla camicia da notte. Quella ragazza non aveva un nome. Chi era? Cosa le era mai successo? Luisa ebbe una mezza idea di tornare in macchina e scappare, ma non lo fece, quindi si limitò ad annuire e a chiederle altre informazioni:
-Sono molto gravi le tue ferite?- sebbene la domanda fosse banale, la ragazza assentì con un piccolo fioco suono della voce, alzandosi la camicia con le mani tremanti e mostrando una grande ferita sullo stomaco e un’altra sull’addome, proprio dove si trova il cuore, a sinistra; la prima era molto profonda, la seconda probabilmente un po’ meno, cosa che le aveva permesso di restare in vita. E il dolore sembrava tremendo a giudicare dallo sguardo della ragazza, che fra le lacrime rosse e fredde continuava a premere su entrambe le ferite
-Conosci il nome della persona che ti ha fatto del male?- chiese Luisa, trattenendo a stento la nausea. A quella domanda, la ragazza sembrò spaventarsi ancora di più di quanto potesse mai esserlo, si girò in fretta all’indietro e iniziò a respirare affannosamente, quindi Luisa cercò di tranquillizzarla, facendola sdraiare sulla stradina e tentando di aiutarla con la respirazione. A quel punto Viola, finalmente, con passi lenti e accorti raggiunse la sorella:
-Dove si trovano le persone che ti hanno fatto questo?- non ci fu risposta. Luisa provò molta pena per quella giovane ragazza e si mise a piangere, scaricando la tensione accumulata:
-Ti prego, devi avere coraggio!- dopo aver detto di no più volte, probabilmente per far capire che non poteva parlare, infine tentò di spiegare, prese il foglio e scrisse il nome “Matilde”.
-Oh, Matilde è il tuo nome! Ok, Matilde, a breve arriveranno i dottori e andrà tutto bene... sei stata rapita?-.
Ancora la reazione fu la stessa. Continuava a negare, ma… perché?  Indicò goffamente il bosco, riabbassando subito il braccio per il dolore e tornando a premerlo sullo stomaco. I suoi gesti non erano chiari, aveva troppa paura, i muscoli erano troppo deboli… eppure aveva ancora un po’ di speranza, cercava di dire qualcosa, di spiegare cosa le fosse successo; ma, forse, si trattava di una storia troppo complicata anche per lei stessa.
-So che stai molto male, ma devi scrivere il nome della persona che ti ha fatto del male qui... conosci il suo nome?- la risposta fu positiva, ma lo sguardo era straziato, la ragazza si guardava indietro e piangeva, mugolava, farfugliava suoni che forse sarebbero dovuti essere parole sensate. I suoi occhi erano gli occhi più terrorizzati che le due sorelle avessero mai visto… quelle iridi marroni erano impregnate di paura e dolore, cercavano aiuto, cercavano una via di salvezza. Eppure rimanevano aperti, nonostante i lividi rendessero anche solo un piccolo movimento della palpebra più doloroso che mai… quella ragazza era pronta a lottare. Sembrava che temesse di essere osservata, muoveva la testa in modo strano e gli occhi si muovevano pieni di lacrime ovunque intorno a lei, come se aspettasse qualcosa… se si fosse calmata, sarebbe forse riuscita ad esprimersi, ma non faceva altro che smaniare cercando di spiegare qualcosa di probabilmente indispensabile alle ragazze. Tremava come né Luisa né Viola avevano mai visto qualcuno fare, le misero una giacca sulle spalle. Era bagnata e completamente ghiaccia, così Viola finalmente trovò il coraggio di usare la propria voce:
-Sei tutta bagnata… sei caduta nell’acqua, per caso?- stavolta la ragazza annuì e sembrò quasi sollevata di essere finalmente riuscita a far capire alle ragazze una delle tante cose che aveva bisogno di dire.
-Hai paura di qualcuno in questo momento?- con ansia la ragazza indicò il foglio -Hai paura di quella persona? Sei spaventata da chi ti ha fatto questo?-.
Matilde riprese nuovamente in mano la matita, tracciò finalmente una riga, poi si bloccò, gli occhi si spalancarono, la bocca si aprì in un lamento di dolore, le mani tremanti iniziarono a premere sulle ferite, ma soprattutto si strinsero sul petto, dal quale stava uscendo troppo sangue; probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Le rimanevano gli ultimi minuti di vita.
Le due sorelle si resero conto che la ragazza, per il dolore, non avrebbe potuto parlare, né tentare di scrivere ancora o di interagire minimamente con loro. Da seduta, si buttò in terra senza respirare, stringendo le mani intorno al collo, come se si sentisse soffocare. Divenne completamente bianca in viso, il sangue non sembrava scorrere più nelle sue vene… era ghiaccia e tentarono di riscaldarla con dei vestiti ma non sembrava servire a niente. La ragazza con le mani cercava aiuto, come se si sentisse cadere, e tentava di trovare aria, rantolando. Viola scoppiò a piangere, non aveva mai visto una cosa del genere e non aveva idea di come comportarsi; Luisa sbiancò per la paura, ma non disse nulla e cercò inutilmente di riscaldarla e di aiutarla in tutti i modi possibili, sperando che l’ambulanza arrivasse in fretta. Sarebbe morta fra le mani delle due sorelle… sarebbe morta a minuti. Furono prese da un panico inimmaginabile e iniziarono a urlare per avere aiuto, piene di ansia e paura, finché, finalmente, non sentirono il rumore dell’ambulanza, portatore di speranza, ma, allo stesso tempo, di sofferenza.
Arrivò subito un dottore, le ragazze spiegarono l’accaduto in poche parole, mentre Matilde veniva messa con cautela sul lettino dentro il veicolo. Viola e Luisa furono costrette ad andarsene, furono entrambe allontanate, quindi, piene di paura, si abbracciarono e rientrarono in macchina. Lasciarono il numero al dottore, perché le avvertisse per sapere se la ragazza ce l’avesse fatta o no... ma la risposta sembrava praticamente già ovvia: Matilde non sarebbe rimasta in vita. Le due sorelle si allontanarono con un nodo alla gola, si sentivano in qualche modo legate all’accaduto, responsabili di quello che sarebbe successo. Tentarono un’ultima volta di entrare nell’ambulanza, ma gli fu ordinato di tornare a casa e di andare dalla polizia, spiegando l’accaduto. Il dottore le salutò educatamente, mantenendosi calmo, probabilmente abituato a situazioni simili e le ringraziò con la mano per il gesto coraggioso. Si voltò verso la ragazza e tentò di nuovo:
-Cerca di scrivere il nome... - Matilde si sforzò di tracciare un’altra linea, ma era storta e i segni confusi non avevano alcun senso. Cercò di riaprire la bocca e stavolta riuscì a pronunciare un suono simile alla lettera B, così il dottore le si avvicinò, con occhi speranzosi:
-Lettera B? Intendi la B, B di Bologna?- fra le deboli lacrime, annuì per l’ultima volta, riuscì a far uscire un minimo suono dalla bocca, cercando di far capire la parola, ma il suo modo di parlare era troppo confuso, capire sarebbe stata un’impresa più che ardua. Matilde iniziò a dimenarsi, a fare gesti, ma tremava, era debole e non poteva dire parole di senso compiuto... quando ormai forse stava per riuscire a dire il nome, iniziò a tossire, il battito cardiaco aumentò considerevolmente, così disse, dando la mano al dottore:
-Do... dovete... cercarlo-
-Chi? Chi?-
-Lui cerca... me... - socchiuse gli occhi lentamente, le uscirono due grandi lacrime dagli occhi gonfi e rossi, con la mano raggiunse il viso del dottore e lasciò una piccola carezza, quindi trovò le ultime forze per parlare:
-Io non sono... ca... cattiva, ma... lui mi cer... cerca ancora- mormorò con tono sofferente, mentre le palpebre si abbassavano
-Avanti, Matilde, resisti, arriveremo a breve...-
-Sono... stanca...- mormorò con un’altra lacrime, appoggiando la testa ferita al piccolo cuscino
-No, no, non devi addormentarti... puoi farcela, devi combattere, devi combattere!- la spronò il dottore, con speranza, tenendole la testa rialzata. Ma la ragazza era distrutta, sentiva queste parole molto confuse e  riuscì con l’ultimo respiro, a mormorare un debole, fioco “No...” e fu così che appoggiò ancora la testa al cuscino, lasciando che le palpebre si richiudessero. La mano ricadde sul materasso, magra e fredda, due lacrime amare le rigarono le guance sporche di fango, il corpo distrutto dal dolore e dalla sofferenza rimase immobile. I battiti scesero a zero, un pallido da morta le cadde sul viso, togliendo la vita da quel debole corpo.
Iniziarono le scariche elettriche. Niente. Ci fu un secondo tentativo: nessun risultato. Era morta. Il dottore fece una smorfia di dolore:
 -Non ce l’ha fatta- Il viso mostrava tanto dolore subito, le ferite erano tanto profonde... la sua vita era finita lì, per sempre. L’ambulanza mise la sirena, iniziò a dirigersi in fretta verso un ospedale... ma ormai ogni speranza era persa, sembrava quella ragazza avesse sofferto troppo per riuscire a rimanere in vita.
Non fu così, invece. A volte ciò che si pensa sia ovvio accadere, ciò che è chiaro agli occhi di tutti, non avviene, e fu proprio così che successe in quel caso. Quella ragazza, per destino o per pura fortuna che fosse, riuscì a sfuggire ad una morte che sarebbe sembrata inevitabile. Il cuore non aveva smesso di battere per sempre, perché già fin da quel momento si era dimostrato forte e pronto a combattere, un cuore potente, che non si fa abbattere dalle difficoltà... un cuore che aveva sofferto, che aveva tante cicatrici, ma che era ancora pronto a difendersi. Quella misteriosa ragazza apparsa dal nulla non era morta, ma in coma. Riaprì gli occhi solo quattro mesi dopo in un ospedale, vedendo offuscatamene i dottori in un luogo sconosciuto, senza ricordare niente. Senza avere la minima idea di chi fosse, senza saper parlare, senza saper fare qualsiasi altra cosa. Sola.  Confusa. Senza sapere chi fosse lei stessa o cosa le fosse successo... quella ragazza aveva dimenticato tutto, e per lei un grande incubo era appena cominciato. Quella ragazza ero io.

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 1 ***


“E’ sveglia?” Di colpo una voce mi minacciò, tagliando spietata il ghiaccio silenzio del mio sonno. Buio. Era completamente buio.
Il cadenzato e pungente ticchettio delle lancette mi spaccava la testa, delle voci confuse e fastidiose mi ronzavano nelle orecchie tappate. Non capivo. Avevo paura. Ancora buio.
Di colpo vidi un’immagine confusa, una macchina… poi dell’acqua… un fruscio, un’ombra, un rumore assordante. E di nuovo buio.
“E’ sveglia” ripeté quella voce, più convinta. Sentii la testa scoppiare, lo stomaco contorcersi e di colpo tutti i rumori divennero soffocati, ovattati, spaventosi e a me sconosciuti. Credevo di prendere fuoco, mi sentivo minacciata, come se qualcuno cercasse di farmi del male, di ferirmi.
Mi mossi leggermente, almeno credo… cercai di muovermi, comunque, cercai di uscire da quella strana ragnatela nella quale mi sentivo rinchiusa; e di colpo vidi qualcosa. Una piccola luce, un punto bianco davanti a me. Stavo usando i miei occhi, ma non sapevo neppure cosa fossero.
La prima cosa che vidi, la prima immagine che le mie palpebre socchiuse svelarono, fu il viso rugoso e segaligno di un dottore sporto su di me, intento ad osservarmi le pupille con una torcia; la mia vista era completamente offuscata, anche se potevo intravedere la luce abbagliante e la sagoma del viso del dottore. Dove mi trovavo? Perché ero in quel posto orribile? Il dottore stesso mi sembrava troppo vicino, tanto da creare intorno a me una sensazione di soffocamento; qualsiasi cosa, dalle persone agli oggetti, sembrava girare davanti ai miei poveri occhi e anche le dimensioni erano sproporzionate, dandomi un impressione di un luogo spaventoso, misterioso e pieno di minacce. Presa dal panico e muovendo goffamente la testa, pesante e debole, in tutte le direzioni, realizzai di trovarmi al chiuso; le pareti erano bianche e c’era una piccolissima porta, che mi pareva lontanissima; il dottore sembrava abbastanza tranquillo, il suo sguardo concentrato non accennava né ad un sorriso né ad una smorfia di disappunto; appena puntò di nuovo la luce della torcia su di me, d’istinto chiusi gli occhi lamentandomi, così la spense e si girò verso un gruppo di infermiere:
-Sì, è sveglia- dopo che il dottore ebbe pronunciato quella frase per la terza volta, sentii moltissime voci differenti ripeterla con entusiasmo, i dottori e le infermiere entravano e uscivano freneticamente dalla stanza… oh, ma io non capivo. Ero appena tornata da un viaggio, da un’avventura, anzi da un vero e proprio incubo troppo grande perché riuscissi subito a ritrovare il mio posto nel mondo… in fondo, forse non ne avevo mai avuto uno e neppure ne avrei avuto mai. Tuttavia quel giorno le solite fastidiose miriadi di dubbi e paure che hanno assillato la mia mente per anni non si presentarono, essendo il mio cervello troppo occupato a cercare disperatamente di orientarsi nel buio. Strizzando gli occhi, misi le mani sulle orecchie proprio come quella bambina spaventata che ero stata un tempo e urlai istintivamente, cercando di sfogare tutte quelle sensazioni orribili. Percepivo la debolezza del mio corpo ma, non avendo avuto la possibilità di testarne i momenti di forza, ero certa che quello stato fosse l’unico esistente e non mi preoccupai del dolore lancinante al petto o alla testa.
Andai ulteriormente nel panico quando, nel tentativo di muovermi, mi accorsi che non riuscivo a percepire le gambe, ma solo il busto. I dottori e le infermiere parlavano, parlavano, parlavano così tanto da farmi venire il mal di stomaco… ma cosa dicevano? Vedevo fronti accigliate, sguardi confusi, labbra che si muovevano freneticamente cercando di risvegliarmi, ma sentivo solo suoni, suoni primitivi e privi di senso. E continuavano a dirmi cosa fare e a tentare di tranquillizzarmi, ma io non facevo neppure attenzione a quei suoni indistinti. Riuscivo solamente ad emettere lamenti e grugnii incomprensibili, il lettino dondolava e girava instabile davanti ai miei occhi doloranti, tanto che avevo l’impressione di non riuscire a tenere l’equilibrio: il mio istinto fu quello di scappare, credevo di essere in pericolo.
Ed ecco che di colpo mi sedetti sul lettino con il respiro affannato, guardandomi intorno terrorizzata da quel nuovo mondo del quale ero bruscamente entrata a far parte; il dottore tentò di farmi sdraiare nuovamente, ma io lo colpii con le poche forze che avevo, costringendolo ad allontanarsi. Le gambe non rispondevano ai miei comandi, non potevo contare su di loro; erano storte, buttate sul lettino come se non facessero più parte di me.
E poi… chissà cosa successe dentro di me. Chissà cosa successe intorno a me, soprattutto.
Qualcosa, e mai ho capito esattamente che cosa, mi fece sentire il bisogno di difendermi; iniziai a colpire con tutta la mia forza chiunque si avvicinasse a me, presi in mano degli oggetti dal comodino e li lanciai ai dottori, credendo che mi volessero aggredire. E non so come potessi trovare tanta energia in un corpo piegato, abbattuto e debole… eppure c’era.
C’era un fuoco potente che ardeva in quel cuore spento e oscuro, c’era una fiamma ardente, che nessuno sarebbe mai riuscito a soffocare… ma ancora di me non sapevo niente. Né del mio passato, né, purtroppo, di quel futuro decisamente burrascoso che mi aspettava; ero solo un’immagine, un’immagine che non riusciva a prendere una forma.
E il tentativo pazzo e selvaggio di fuggire, cercando di buttarmi giù dal lettino, la realtà mi si rivoltò contro: non ero libera, e tanto meno sarei stata capace di esserlo. Sentii subito la presa insistente di un gruppo di dottori e giuro, giuro che avevo davvero paura… una grandissima paura, tanto che mi ribellai a quella “violenza” con tutte le mie forze, ovvero con le poche energie che avevo in quel momento, finché non mi ritrovai bloccata sul lettino.
E ancora una volta ero stata sopraffatta, spenta, razionalmente vinta: non si può volare con le ali spezzate. Delle grandi mani premevano sulle mie braccia, sulle spalle e sul busto, mentre con le ultime energie mi dimenavo, senza nemmeno cercare di capire la situazione in cui mi trovavo. Qualcuno mi attaccava. Dovevo combattere. Ecco il ragionamento che feci inconsciamente, prima che il mio respiro e il mio battito diminuissero lentamente… mi avevano sedato. Come un animale in gabbia, che cerca solo di riavere la propria vita… ma io non potevo ritrovare me stessa, era troppo tardi per riavere il mio cuore. Lentamente, i dottori lasciarono la presa, il mio corpo ricadde molle sul letto, così da darmi quasi l’impressione di cadere in un burrone; mi afferrai al braccio di un dottore, come se rischiassi di precipitare.
Vidi passare davanti agli occhi delle immagini, quelle del mio passato, quelle immagini che non ebbi la forza di accettare e di catturare, per farle mie… fui così debole da farmele scappare via. La mia vita… la mia vita mi stava scivolando fra le dita e io la lasciavo cadere, la lasciavo fuggire dalla sua proprietaria. Mi lamentai per l’orribile sensazione che quella puntura mi stava provocando, la vista si offuscò, di colpo non percepii neppure più la voce dei dottori e le mia palpebre si abbassarono lentamente.
Questo fu il mio primo approccio con la vita, la prima cosa che ricordo, come se effettivamente fossi nata quel giorno. Venti luglio del duemila: la mia data di nascita. Ero stata in coma per quattro mesi precisi, ma quella sfortuna non fu niente rispetto a quello che dovetti patire dopo… fu solo l’inizio di una serie di eventi disastrosi. Quando mi risvegliai, vidi di nuovo i dottori intorno a me, che, presa una giusta distanza, avevano una grande siringa pronta in mano, vista la violenta reazione che avevo avuto la volta precedente; non capivo cosa stesse accadendo, non ricordavo del mio primo risveglio, come se non fosse mai successo niente. I dottori iniziarono a parlarmi, ma non capii bene le loro parole. Stetti immobile senza parlare, senza capire, confusa… come se fossi morta. Il mio cervello smise di elaborare e ogni cosa si spense in me… avevo le palpebre aperte, ma gli occhi chiusi. Non vedevo, non sentivo… non ero niente. E rimasi in quelle condizioni addirittura per qualche giorno, senza alcuna facoltà di movimento o di parola; paradossalmente, avevo reagito “meglio”, ovvero mi ero ripresa più fretta, appena uscita dal coma che al mio secondo risveglio.
Ogni giorno entravano visi nuovi, ogni giorno mi facevano visita tristi camici bianchi, ma mai un vestito colorato… ed io mi rigiravo in quel lettino incapace di parlare, stanca e delusa, aspettando che qualcosa illuminasse quel buio immenso dentro di me, quella voragine incolmabile che mi opprimeva con la sua vuotezza.
Il sole nasceva fuori dal vetro opaco e il giorno aveva inizio, ma non riuscivo ad assaporarne neppure un secondo, tanto che, per me, qualche istante dopo era già il momento del tramonto… e poi della notte, della notte che mi rispecchiava. Perché mi fossero date delle spiegazioni e perché il mio cervello iniziasse a comprendere e la mia voce ad uscire, dovetti aspettare un mese circa, un mese che mi sembrò lunghissimo in tutta la sua confusa pazzia.
Il mondo era frenetico là fuori, nessuno si curava di me, ero solo una dei tanti pazienti, solo metà del più piccolo granello di sabbia che compone la superficie terrestre… e i secondi mi sembravano anni, chiusa fra quei muri bianchi. Non avevo niente nella testa, il mio sguardo era vuoto, nero e fisso nel nulla, le mie labbra continuamente socchiuse come se la mia intenzione fosse quella di parlare, ma il mio cervello non c’era, mi aveva abbandonato ormai da un paio di mesi e non sarebbe tornato troppo in fretta. In ogni modo, non so come, ma passò quasi un mese, un mese che per me, nella totale confusione, fu un grande tunnel buio. Lentamente, iniziai a dire qualche piccola parola, a muovere meglio il corpo, a vedere gli oggetti e a distinguere anche alcuni oggetti, e, passo dopo passo, iniziavo a prendere la strada che, dopo tanti ostacoli, un giorno mi avrebbe davvero portato alla salvezza: la vita. Ricordo ancora il primo giorno in cui mi fu spiegato perché mi trovassi in quel luogo. Non me l’ero mai chiesto.
Non ero mai riuscita a collegare gli avvenimenti e farmi domande era qualcosa di fin troppo complicato per me, ma, passato un mese, i dottori decisero di iniziare una riabilitazione più intensa. “Non ha reagito bene” ricordo le loro voci parlare con perplessità del mio caso. Oh, ma se solo avessero saputo da quale situazione mi ero salvata con le mie uniche forze! Se solo avessero saputo che miracolo inspiegabile mi aveva tenuto in vita! Il mio cuore batteva, i miei occhi erano aperti… c’era un castello gigante da ricostruire, ma ero pronta a impegnarmi per crearne le fondamenta. Avevo un mondo da scoprire, una vita da cominciare tutta dall’inizio ed ecco che, dopo un mese e mezzo, capace di parlare, sebbene poco e non troppo chiaramente, un dottore entrò nella mia stanza richiudendo la porta dietro di sé. -Buongiorno- fu la sua unica parola, accompagnata da una specie di smorfia che sperava potesse somigliare ad un sorriso. Era lo stesso dottore che avevo visto appena sveglia, proprio lui… il mio ricordo più lontano. Armeggiò abilmente con gli oggetti posti accanto al mio letto e sistemò con accortezza un paio di macchine, osservandomi attentamente gli occhi:
-Allora, come andiamo qui, signorina?- chiese con un sospiro quasi affettuoso, appoggiando la mano sulla mia spalla. Io alzai lentamente la mascherina dell’ossigeno e con voce tremante cercai di parlare:
-Lei chi è?- mormorai con gli occhi socchiusi
-Sono il dottor Bianchi, ricordi? Ci vediamo tutti i giorni…- con la testa che andava a fuoco negai piuttosto confusa, tanto che il dottore mi sorrise con un velo di compassione -Non importa, impareremo a conoscerci. Stai già un po’ meglio… hai molto dolore a parlare?- Annuii appoggiando la mano alla gola, quindi feci leva sulle deboli braccia e mi sedetti sul duro materasso:
-Ieri avevo la febbre- sussurrai con la voce impastata, toccandomi la fronte accaldata
-Lo so, ti abbiamo già dato moltissime medicine, fra poco starai meglio. Riesci a capire ciò che dico, non è vero?- Annuii ancora, riappoggiando la mascherina sulla bocca per prendere ossigeno. Il dottore mi rivolse uno sguardo preoccupato e alquanto indeciso:
-Sai perché ti trovi qui? Sai almeno dove ti trovi e da quanto tempo?-
-Mi fa sempre male la testa- mi lamentai con voce fievole, incapace di reggere una vera conversazione -D’accordo, non lo sai... mi diresti qual è il tuo ultimo ricordo?- Nuovamente non detti segno di poter parlare, quindi scrisse sul suo blocchetto qualcosa che non riuscii a leggere, nonostante i movimenti strani e misteriosi di quell’oggetto sulla carta bianca mi affascinassero ed incuriosissero allo stesso tempo: -Ora ti spiegherò alcune cose, va bene? Tu devi stare tranquilla e ascoltare, avremo molto tempo per discuterne. Oggi è il venti agosto del duemila, ci troviamo nell’ospedale di Trento, nel nord Italia, e cinque mesi fa, il ventun marzo, due ragazze ti hanno trovato vicino a Trento, in un bosco, da sola. Le hai pregate di aiutarti e non stavi molto bene, così ti hanno portata qui; ti sei risvegliata un mese fa. Ricordi niente di questo?- Io cercavo di seguire, ma ero molto confusa. Scossi la testa, ma non saprei dire se davvero non conoscessi la risposta o se stessi soltanto trovando un modo per non pensare a quelle cose che mi facevano star male, o se, ancora, non avessi la minima idea di che cosa l’uomo davanti a me stesse parlando.
-Hai detto a queste ragazze- continuò, sedendomisi accanto con accortezza -di chiamarti Matilde... ricordi qualcosa di quel momento?-
-No- riuscii a mormorare, fissando il muro bianco davanti a me. Non avevo paura. Come potevo averne se a malapena sapessi cosa significasse stare al mondo? Mi guardavo intorno e vedevo luci e colori, ma nessuno di essi mi ricordava qualcosa... era tutto incredibilmente e spaventosamente nuovo. -Sei sicura di capire bene quando parlo?-
-Non so cosa è successo- sussurrai scuotendo la testa -Ma sono molto confusa- Il dottore si zittì e scrisse di nuovo qualcosa nel blocchetto, mi fissò immobile per qualche secondo e io non reagii, socchiudendo gli occhi stanchi sul cuscino. Stavo male, anzi malissimo. E non mi ero ripresa, a differenza di quello che probabilmente i dottori avevano immaginato: un’infermiera scosse infatti la testa fissando con preoccupazione il dottor Bianchi, che reagì con un lungo, pesante sospiro
-Starai meglio fra poco, non è vero?- sorrise gentilmente, appoggiando una mano sulla mia spalla. Ma io non risposi. Le mie labbra secche cercarono di aprirsi ma si richiusero subito, il mio respiro affaticato sentì il bisogno di ossigeno ed ecco che le nocche tremanti sfiorarono la mascherina, riappoggiandola sulla mia bocca:
-Allora, c’è molto sole oggi- cercò di rimanere positivo il dottore, osservando l’ammasso distrutto di ossa davanti ai suoi occhi. Annuii con un breve movimento del collo, ma i miei occhi si richiusero immediatamente, bisognosi dell’unica cosa che mi faceva sentire a mio agio, ovvero del sonno. Senza nessun preavviso, senza nessuna parola, appoggiai la guancia destra al cuscino duro e bianco del lettino e tornai a dormire, come d’altronde avevo fatto per tutti quei mesi. Sentii la voce del dottore... la sentii, ma le sue parole al momento non ebbero alcun significato:
-Sono molto preoccupato- sospirò, rivolgendosi probabilmente a una delle infermiere
-Dottore, è sotto morfina- rispose una voce femminile avvicinandosi al letto -Sentiva molto dolore per via dell’intervento- Il silenzio tornò a regnare nella stanza, il dottore sospirò e lanciò un occhiata verso quell’essere buttato con debolezza sul lettino. Non potevo sentire nient’altro che il battito del mio cuore e quel rumore, assordante, sofferente e doloroso del mio respiro all’interno della mascherina di plastica... le uniche cose che mi tenevano in vita: cuore e polmoni. Per il resto, ero del tutto morta. Quel silenzio tremendo fu interrotto dalla voce cupa e preoccupata del dottor Bianchi, insieme al suo insistente passo svelto e nervoso:
-Ah, che brutta situazione!- E con quella frase, con quelle parole che sentii sussurrare come sottofondo dietro al rumore intenso e lancinante del mio stesso respiro fiaccato, si concluse un’altra giornata. Un’altra lunga giornata che non aveva portato a niente.
E i giorni passavano. Il tempo non aveva pietà di me, anzi sembrava volermi sfuggire dalle mani deboli... ogni giorno fissavo le lancette, fissavo quell’orologio bianco e nero appeso in alto proprio sul muro della mia stanza: e le lancette non smettevano mai di muovere, proprio mai. Avevo un grande dolore alla testa e al petto, ma nonostante le mie situazioni fisiche più che tragiche in un altro mese la mia testa iniziò a ragionare molto meglio, i miei occhi a capire con più precisione e le mie mani a muoversi più in fretta. Potevo parlare e potevo farlo anche piuttosto bene; gli infermieri, ormai affezionati, scherzavano con me come se fossi una bambina, mi raccontavano le storie, mi accarezzavano la testa; e ogni tanto le mie labbra si aprivano in un piccolo sorriso coraggioso e ottimista.
Avevo capito la mia situazione, ma ancora non l’avevo digerita; ogni giorno i dottori trovavano il modo per ripetermi quella che era stata la mia “storia” prima di andare in coma, ma quell’immagine di una me tanto distrutta non mi toccava minimamente: -Lo so- rispondevo sempre con un piccolo sorriso fievole, mentre le infermiere si guardavano scuotendo la testa. Non volevo accettare, non volevo e forse neppure potevo capire quanto grave fosse e, soprattutto, sarebbe stata la mia situazione. Ma prima o poi, i dottori lo sapevano, la dura e aspra realtà mi sarebbe bruscamente balzata davanti agli occhi; e fu proprio così che un giorno, parlando come d’abitudine con il dottor Bianchi, dalla mia bocca uscirono parole che mai avrei creduto di poter pensare in quelle circostanze:
-Dottore...- lo chiamai debolmente, facendolo avvicinare premurosamente al lettino -Io voglio tornare a casa- Quella frase volò via dalla mie labbra come se fosse stata dentro di me da sempre, come se, sebbene tutte le difficoltà, ciò che ero stata prima del coma non fosse del tutto sparito
-Casa?- ripeté il dottore, con un tono che fu un misto fra la pietà e la curiosità
-Sì, a casa- ribadii più convinta che mai, appoggiando la schiena al letto -Dalla mia famiglia- Non sapevo di non avere nessuno. Ovvero, non l’avevo mai voluto capire. Forse, per non accettare un così grande dolore, mi ero scioccamente illusa di avere qualcuno ad aspettarmi in una bella casa confortevole, qualcuno ad amarmi… invece no, ero solo io. Io contro il mondo. Io e nessun altro.
-Tu sai chi è la tua famiglia? Sai dove vivono?- chiese il dottore. Quella domanda mi fece pensare, cercai di collegare con la mente e di far affiorare qualche ricordo: no, non lo sapevo. Aggrottai le sopracciglia e scossi la testa, mettendo la mano sulle tempie, con un gesto triste e debole, che avrebbe impietosito anche il più duro individuo al mondo:
-No… non ricordo-
-Stiamo cercando la tua famiglia, ma per adesso dovrai rimanere qui, perché non sappiamo ancora chi siano i tuoi genitori-
-Cosa?- mormorai, guardandomi intorno -Io... ora che farò?- Il dottore non rispose, abbassò leggermente lo sguardo; era la prima volta che avevo avuto l’occasione di realizzare quanto fossi sola e confusa. Mi sentii come se non potessi più respirare, i miei occhi si offuscarono di lacrime per la prima volta dal mio risveglio e il mio corpo iniziò a tremare: -Ma... quanti anni ho?- chiesi da un momento all’altro
-Noi non lo sappiamo, ma lo scopriremo...-
-Non mi ricordo più- mi lamentai nel panico; il mio respiro si fece più affannoso, mi sentii svenire, tanto che mi dovetti aggrappare alle lenzuola, mentre continuavo a tenere le mani sulle tempie, cercando di capire, di far riaffiorare qualcosa -Non ho nulla nella testa, non capisco...- -Ti prego, cerca di mantenere la calma, va tutto bene...- cercò di tranquillizzarmi il dottore, prendendomi le mani, che subito rifiutai con un gesto veloce e istintivo:
-Chi... chi sono io? Dove sono?- Avevo dimenticato. Tutto, ancora una volta. Il dottore non rispondeva, vidi che aveva pronte delle pasticche e me le porse, ma io le buttai in terra:
-Dove mi trovo? Chi è lei?-
-Matilde, stai calma, io sono il dottor Bianchi-
-Chi è Matilde?- mormorai con un gemito -Mi fa male la testa!- urlai fra i singhiozzi.
-Tranquilla, passerà presto...-
-Fa malissimo!- piansi con le dita che premevano sulle tempie. Sentivo davvero dolore, e una grandissima confusione, che mai, sebbene la mia situazione fosse stata statica per ormai un paio di mesi, avevo sperimentato prima -Io non riesco a… a… pensare a niente!- mi lamentai, cercando di lottare con il mio inutile cervello marcio
-Prendi queste- mi disse con calma, avvicinandomi un paio di pasticche, ma le rifiutai
-Mi aiuti, perché sta scoppiando!-
-Che cosa?-
-La testa!- urlai ancora con tutta la mia voce. Oh, quel dolore. Il dolore della consapevolezza di aver perso tutto, di non aver mai avuto niente. Era una sensazione terribile, dolorosa e crudele. Non riuscivo a pensare, non riuscivo a vedere nulla, il cervello non aveva immagazzinato niente, c’era il buio totale dentro di me. Vuoto e buio... e di nuovo non ero altro che una stupida sagoma.
-Respira, respira, passerà subito, stai tranquilla…- sfiorò le mie tempie con i polpastrelli. Ed io, ancora proprio come una bambina spaventata, iniziai a piangere sul suo camice:
-Non riesco a pensare, dottore…- ripetei ancora per l’ultima volta, in un pianto soffocato. I miei occhi distrutti da quel pianto improvviso e da quel dolore lancinante sfiorarono speranzosi e addolorati la luce intensa e calda fuori dalla finestra:
-Sono morta?- sussurrai. E non ci fu risposta. Il dottore non disse niente. Purtroppo ciò che stavo vivendo era la realtà e non c’era modo di negarlo, né di consolarmi. E avevo scordato di nuovo tutto. Il dottore iniziò ogni sua mossa dall’inizio, si presentò come se i due mesi che avevo appena passato non fossero mai esistiti:
-Voglio solo dormire, sono molto stanca...- furono le ultime parole che dissi quella sera, dopo che fui lasciata in quella stanza di nuovo sconosciuta. Poggiai la mano sulla fronte e lasciai ricadere la testa sul cuscino, bagnandolo delle ultime lacrime che straziavano il mio viso. E fu così che, d’istinto, per la prima volta dal momento in cui mi ero svegliata provai il desiderio di vendicarmi, di sconfiggere quella debolezza che mi ingannava e mi impediva di andare avanti: ma io ero forte, io volevo andare avanti. I miei occhi ricaddero sulle gambe immobili e buttate sulle coperte; erano paralizzate e non avevo bisogno di conoscere il significato di quella parola: non potevo muovermi, era abbastanza. Accanto al lettino c’era una sedia a rotelle, quell’oggetto misterioso e spaventoso che tante volte avevo passivamente guardato mentre portava la mia compagna di stanza al di là della porta bianca, limite che mi sembrava qualcosa di enorme pensare di superare.
Ripensai a tutte le volte che la mia compagna di stanza ci era salita... io potevo farlo. Dovevo e volevo farlo. Allungai le mani un po’ tremanti e la spinsi con fatica verso il letto, cercando di tenermi in equilibrio e di avvicinarla il più possibile. Con il battito a mille e l’espressione concentrata mi assicurai che nessuno potesse vedermi, quindi lentamente afferrai quella sporgenza che spuntava dalle bianche coperte, ovvero le mia gambe livide e insensibili: le toccai e non sentii niente, quindi lentamente cercai di portarle fuori dal letto. Non mi ero mai alzata da lì... per quasi due mesi io non mi ero mai alzata da quel maledetto letto. Le mani fecero fatica a muovere i piedi con tutta la loro energia, quindi mi ritrovai sul limite del letto e, spingendo sui gomiti, scivolai sulla sedia a rotelle. E neppure io capii come ci fossi riuscita da sola, ma la voglia di andarmene da quel materasso mi aveva portato a superare gli ostacoli.
Calmai il respiro, appoggiai la schiena e appoggiai una mano al cuore, sperando di calmarmi, dopodiché mossi le ruote proprio come tante volte avevo visto fare... e di colpo in lontananza vidi qualcosa di strano: uno specchio. Non capivo, rimasi confusa per qualche secondo, anche piuttosto spaventata, ma non appena realizzai che si trattava della mia immagine riflessa, la mia espressione cambiò del tutto. Volevo vedermi, volevo scoprirmi, sapere qualcosa in più della persona nella quale stavo vivendo ed entrare del tutto in quel corpo con il quale avrei un giorno condiviso tante avventure ed esperienze.
Avrei potuto avere intorno ai sedici anni, sebbene il mio viso fosse piuttosto scarno e rovinato da tutte le sofferenze e fosse perciò difficile riuscire a darmi un’età. Non ero troppo alta, la mia figura, magra stecchita a causa del coma e delle condizioni in cui ero stata trovata, rimaneva immobile seduta su quella sedia a rotelle e mi sembrava impossibile che ciò che stavo guardando fossi proprio io stessa. Avevo i lineamenti dolci, due grandi occhi castani, chiusi da una corona di ciglia lunghissime, bagnate dal pianto. Avevo le guance molto rosse e accaldate, il naso dritto che in alto si apriva su un’ampia fronte, in basso su delle labbra piene e rosse come il fuoco.
Gli occhi scintillarono dalla gioia, fu una sensazione strana; quella era la prima immagine di me stessa, non sapevo come fossi, non l’avevo neppure immaginato. Spostai dalla fronte i lunghi capelli castani per farli ricadere indietro sulla schiena. Con le mani mi sfiorai le guance che stavano andando a fuoco per il pianto, come se non credessi di essere davvero io, come se fosse qualcosa di incredibile vedere la propria immagine riflessa. Notai che il mio corpo era a posto, o almeno lo sembrava da quello che intravedevo dalla veste da ospedale, ma non ebbi il coraggio di alzare la camicia da notte per guardare le gambe; sapevo cosa avrei visto, o forse solo lo intuivo, ma c’era un motivo se i dottori e le infermiere non mi lasciavano mai scoperta. Tuttavia era passato tanto tempo, e, ad esempio, il viso non era segnato in alcun modo, se non per un paio di piccole cicatrici. Avevo il contorno degli occhi un po’ scuro e gonfio, ancora, e la testa fasciata, poiché ero stata operata da poco. A parte quello, però, il mio corpo si era ripreso decentemente.
Con un leggero velo di tristezza, mi sfiorai ancora le gambe e osservai con dolore i piedi lividi, scuri e morti. Ma la consapevolezza di non avere più le gambe non poteva spaventarmi, dal momento che non le avevo mai avute e non avevo idea di cosa sarebbe cambiato se ne avessi avuto l’uso.
A rendermi triste era più che altro il fatto di essere sola... magari la mia famiglia mi stava cercando, ma io non potevo trovarla. Mi avvicinai alla bassa finestra e mi sporsi leggermente, cercando di rialzare il busto, finché non vidi qualcosa che forse avrei fatto meglio a non notare. La scritta dell’ospedale. Non eravamo al semplice ospedale di Trento, come, mi era stato detto fin dall’inizio ma all’ “Ospedale psichiatrico di Trento”.
Ed io, per qualche strano motivo, capii subito il significato di quelle parole e ne percepii ogni centimetro di durezza.
Feci uscire un lamento dalle labbra gonfie e di colpo sentii una gran dolore allo stomaco. Era una situazione troppo grande per una ragazzina giovane e confusa e non sapevo come uscirne da sola. E in tutto questo c’era una domanda, un’orrenda domanda che nel corso della mia vita non avrei mai smesso di farmi, una tremenda domanda che mi martellava e assillava la mente ogni secondo: chi era la ragazza che avevo visto riflessa nello specchio?
Io non la conoscevo, non sapevo chi fosse... ma il suo corpo, lo sentivo, non mi apparteneva. Le lacrime scendevano amare sulle guance mentre pensavo a queste cose, il rossore della pelle si tramutò in bianco mentre sentivo le urla giocose dei bambini che giocavano, provenienti dal mondo fuori dalla finestra. Ma io persa, assolutamente persa, confusa e disperata, non sarei mai più stata felice e bagnando la camicia da notte con le lacrime lasciai che il mio corpo stanco fosse preso dal sonno e sorrisi pensando che forse, fra quei bambini che giocavano per la strada, un tempo c’ero stata anche io, ingenua e felice.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 2 ***


Non c’era niente che potesse portarmi indietro nel tempo, niente che mi avrebbe dato di nuovo la mia identità: e a quel punto la cosa giusta da fare, ovvero l’unica possibile, sarebbe stata accettare la mia situazione.
Il giorno dopo vidi di nuovo il dottore, mi disse che sarei dovuta stare in seduta con lui per un paio d’ore tutti i giorni, che dovevo essere sincera e raccontargli tutto, che potevamo parlare come amici e non dovevo temere nulla; e fu così che cercai di fare, iniziando a digerire tutte quelle informazioni che il mio cervello aveva da poco imparato ad analizzare: era tutta questione di tempo.
Almeno, lo sarebbe stata se mi fossi impegnata davvero e se avessi collaborato con chi cercava di aiutarmi. E fu proprio da quel giorno che iniziai a cambiare, forse consapevole di ciò che significava andare avanti, nonostante la mia ingenuità e gli ostacoli che mi impedivano fisicamente di essere una persona del tutto normale.
Io e il dottor Bianchi passavamo le giornate insieme; non avevo nessun altro, ero sola e triste, ma quando entravo in quella stanza mi sentivo diversa, come se in fondo avessi potuto trovare un barlume di speranza per riprendermi; ricordo bene una conversazione importante che ebbi con lui un giorno, forse un paio di settimane dopo che iniziai a riprendermi e capii la mia situazione.
Durante una delle tante sedute con il dottore, interruppi uno dei suoi soliti discorsi retorici e mi rivolsi a lui con serietà, mostrandomi più interessata a ciò che avevo in mente piuttosto che alle sue parole:
-Dottore, posso chiederle una cosa?- annuì, stupito dal mio coraggio e dal mia piuttosto inaspettato tentativo di prendere la parola -Rimarrò qui tutta la vita, non è vero?- Dissi quelle parole tutte d’un fiato, con un angoscia e un tremolio nella voce fin troppo esagerati per una ragazza che a malapena poteva parlare. Il dottore rimase inizialmente in silenzio, poi si tolse gli occhiali e li ripulì sospirando, senza neppure guardarmi negli occhi, come se non avesse il coraggio di mentirmi:
-Noi non dobbiamo pensare a questo ora, tu devi solo guarire. Poi vedremo come andranno le cose. Comunque no, non abbiamo mai tenuto pazienti per più di due anni-
-Non voglio restare qui- sussurrai con un sospiro profondo –E non sono pazza-
-Oh, chi ha detto che sei pazza?-
-Il nome dell’Ospedale, dottore- mormorai con aria malinconica, indicando la finestra del suo studio. Da quando avevo visto la scritta “ospedale psichiatrico” avevo avuto una terribile fitta allo stomaco, la paura di rimanere lì a vita mi aveva assalito e avevo davvero bisogno di chiarimenti. Vedendo che il dottore stava in silenzio, lo guardai afflitta, scuotendo la testa come se non avessi più via d’uscita da quel tunnel buio:
-In questi mesi abbiamo parlato di tante cose, ma io sto sempre peggio. Voglio sapere tutto: perché mi trovo qui e non in un ospedale come tutti gli altri?!- il mio tono era tremante, temevo la risposta che avrebbe potuto darmi ma allo stesso tempo la desideravo più di qualsiasi altra cosa. Sbuffò in un modo che non riuscii molto bene a decifrare, cosa caratteristica della personalità estremamente complessa e intrigante di quell’uomo:
-Ascolta, noi non abbiamo idea di quello che ti è successo, ma voglio essere sincero con te; sei stata fortunatissima, per diversi motivi. Intanto, saresti potuta morire, ma questo non è successo: le ferite che avevi erano molto profonde e le tue condizioni tremende... per una fortuna davvero rara sei rimasta in vita. Inoltre le tue gambe erano praticamente rotte e...-
-Ed è per questo che sono paralizzata?- chiesi con tono angosciato, interrompendo le parole calme del dottore. Quella era effettivamente la prima volta in cui mi venivano date serie spiegazioni su quello che mi era capitato e volevo approfittarne al meglio, chiarendo tutti i miei dubbi; e in quella situazione mi rivelai davvero matura, poiché decisi che sarei dovuta andare avanti... e per andare avanti... beh, per passare al futuro dobbiamo tutti conoscere il passato, no? Ecco quello che pensavo, mentre parlavo col dottore davanti a me, che spostò uno sguardo freddo e professionale, ma pur sempre carico di dispiacere, sulla parte inferiore del mio corpo:
-Sì, almeno molto probabilmente. Potresti guarire, però... non è detto che le tue gambe rimangano così a vita. Ma di queste cose parleremo in altre occasioni...- concluse cercando di deviare la conversazione, tornando a fissare la pila di fogli sulla scrivania proprio davanti a lui -Sai, carissima...- sospirò con tono grave -Purtroppo non tutti reagiamo nello stesso modo a ciò che ci succede e il tuo cervello ha deciso di eliminare tutto quello che ti ha fatto soffrire. Vedi, ogni singola immagine è ancora dentro di te, solo che tu non la tiri fuori... ovvero, il tuo cervello non ci riesce, in parole povere-
-Questo non è vero- ribadii polemica -Non capisco quello che vuole dire... mi sta accusando di fingere?-
-Nessuna accusa, Matilde; sono solo cose complesse da capire-
-Non sono stupida- mormorai scuotendo la testa, offesa e umiliata dalla posizione di inferiorità in cui mi sentivo messa in quell’ospedale
-Non è questione di intelligenza, ma di esperienza... e sono cose complicate anche per me, questioni delicate che affronteremo con il tempo-
-E io intanto che farò?- mugolai sottovoce, parlando più a me stessa che all’uomo davanti ai miei occhi. Il dottore rimase in silenzio, mi fissò per qualche secondo, quindi si accarezzò la barba e cambiò argomento, alzandosi dalla sua poltrona in pelle:
-Dunque... l’unica cosa importante al momento è che riaffiorino dei ricordi, d’accordo?-
-Non voglio ricordare- risposi bruscamente con un occhiata di fuoco; uno sguardo intenso e incuriosito mi incitò a continuare, il dottore si tolse gli occhiali e li appoggiò sul comodino in legno bianco, accanto alla scrivania del suo studio. Io scossi la testa, indecisa sulle parole con cui sarei riuscita a spiegare un sentimento che neppure io capivo:
-Io... beh, non mi interessa sapere le cose che non ricordo. Cosa cambierebbe, in fondo? Non posso tornare indietro nel tempo- borbottai nervosamente, giochicchiando con una ciocca di capelli rimasta fuori dalla mia coda trasandata -E non capisco perché non posso uscire- Il dottore sospirò, i suoi occhi mi rivolsero uno sguardo interrogativo, avvicinò la piccola seggiolina cigolante a me e mi guardò fissa negli occhi, corrugando la fronte:
-Per andare dove?- Quella domanda fece male. Fece un male concreto, fisico, sentii qualcosa dentro di me spezzarsi... e abbassai lo sguardo ferito. La voce profonda e roca del dottore pronunciare quelle parole riecheggiò dentro di me, sentii le membra tremare al solo pensiero di non avere davvero nessuno.
Non risposi, rimasi ferma immobile su quella sedia come una vera stupida, umiliata e ingenua; il dottore sembrò soddisfatto della mia reazione, si risedette senza parlare contro lo schienale in pelle e solo dopo almeno un minuto ricominciò a parlare:
-Avresti il coraggio di andartene senza sapere niente di te? Vorresti costruire un edificio con del cartone? Crollerebbe subito, questo lo sai-
-Perché? Non sarebbe tutto ugualmente deprimente e brutto anche se rimanessi in ospedale a cercare di ricordare qualcosa a cui non arriverò mai?-
-Credo che tu stia perdendo il fulcro della conversazione, Matilde. Le cose per te non saranno facili e, che tu ricordi subito il tuo passato o che tu decida di ritardare questo momento, inizialmente ti sentirai sola e sarà difficile imparare a convivere con una sconosciuta-
-Sconosciuta?- balbettai. Il dottore mi guardò in silenzio, poi con un sospiro mi fece cenno di rigarmi
-Guardati- mi incitò, girando la sedia a rotelle verso un grande specchio -E dimmi che cosa vedi-
Un’immagine sconosciuta mi si presentò per l’ennesima volta... non riuscivo a capire come quella figura mi appartenesse, la sentivo lontana e distaccata, diversa da ciò che mi sentivo di essere
-Niente- fu la mia secca e sincera risposta, che fece calare il silenzio in quello studio -Vedo un’immagine, un’immagine qualsiasi... ed è strano, è strano vedere quella ragazza nello specchio fare i miei stessi movimenti- sospirai piuttosto spaventata e allo stesso tempo triste
-Quella persona che vedi nello specchio, per te, Matilde, non è niente. E tu, è vero, non le appartieni, perché non la conosci, perché non sai niente di quegli occhi castani che vedi riflessi nello specchio. Ma un giorno, un giorno l’anima di quella ragazza uscirà fuori, Matilde, e prenderà il tuo posto... e tu cercherai di non farla entrare. Ed ecco perché soffrirai tanto se cercherai di ritardare quel momento in cui ricorderai tutto- le parole del dottore mi avevano pietrificato, sentii il cuore scoppiare e gli occhi riempirsi di lacrime mentre fissavo l’immagine nello specchio -E ricorda- continuò il dottore -Che finché vorrai essere solo ciò che sei ora, tu non sarai niente; per sentire tua quell’immagine riflessa, non solo devi essere ciò che sei ora, ma anche ciò che sei stata... e solo ritrovando il tuo passato ritroverai la tua storia, quindi te stessa-
Ecco. A questo punto, se avessi voluto mi sarei salvata: avrei potuto accettare la situazione, ascoltare le parole del dottore, cercare di migliorare, fare progressi... ma non lo feci.
Ero incosciente ed ogni singolo secondo il pericolo si avvicinava, eppure io non me ne accorgevo; ero troppo occupata a scacciare l’idea di essere consapevole per ammetterlo e salvarmi. Ricordo ancora la pacca sulla spalla del dottore, prima di allontanarsi da me... e i miei occhi rimasero fissi su quell’odiosa immagine davanti a me: no, non ero io. Non volevo esserlo.
Mi spaventavano quegli occhi che avevo paura di ricordare e mi sentivo inseguita, soffocata, uccisa da quel corpo che non mi apparteneva. Ero un’anima intrappolata, ero un errore, nient’altro che un errore che voleva prendere vita propria. La vita della ragazza che vedevo nello specchio era stata bruscamente interrotta... e io le avevo rubato l’anima, le avevo preso il corpo e le avevo avidamente strappato una parte della sua vita. Avevo paura che quell’immagine se la riprendesse... come aveva detto il dottore, un giorno quella ragazza sarebbe tornata e io avrei dovuto combattere con lei; non potevo lasciarmi vincere da una sconosciuta, non potevo lasciarmi uccidere da uno scheletro del passato.
E quel giorno, fissando le lacrime che uscivano da quegli occhi scuri, capii cosa volevo davvero: rinascere. Volevo crearmi una vita, volevo staccarmi dalla stupida e dolorosa idea di dover essere qualcuno del quale non sapevo niente: e decisi così, con dolore, di odiare per sempre il mio passato, di disprezzarlo, di allontanarlo e reprimerlo finché non sarebbe soffocato, finché non sarei rimasta solo io, perfettamente a mio agio con l’immagine nello specchio. Io non volevo un passato, ecco cosa decisi quel giorno.
E la porta di legno dello studio si richiuse dietro di me, mentre mi avviavo in quegli odiosi soffocanti corridoi dai quali non volevo far altro che fuggire. Il tempo passò e le lancette dentro di me non smisero mai di muoversi: passai due lunghissimi anni all’ospedale. Due.
Per me furono infiniti.
Bui, vuoti, tristi e insignificanti... proprio come me, o almeno come consideravo me stessa in quel periodo. Ogni giorno era uguale agli altri e non c’era mai nulla di nuovo: mi svegliavo la mattina, facevo colazione, avevo dei controlli medici e a seguire tre ore di terapia col dottor Bianchi. Poi mangiavo, sempre lo stesso insipido cibo per malati, e nel pomeriggio stavo fino alle cinque con dottori e malati in una sala che chiamavano “ricreativa”, dove i pazienti potevano sperimentare le proprie passioni, interagire con gli altri e fare cose del genere.
Dalle cinque alle sei avevo di nuovo un’ora col dottor Bianchi, durante la quale parlavamo delle tristi e insignificanti ore che avevo passato, dopodiché mi aspettava una cena a base di cibo insipido e andato a male, durante la quale mi immergevo nei miei pensieri, del tutto bui e vuoti. Dopo cena c’era un’ora con una dottoressa che mi insegnava a leggere e a scrivere, poiché avevo perso tutte le mie conoscenze, in certi casi anche quelle basilari.
E, come se non fosse abbastanza, per illuderci di essere persone come tutte le altre, il direttore aveva addirittura avuto l’accortezza di lasciarci un’abbondante mezz’ora dopo cena per incontrare gli altri pazienti, di inverno in una tristissima sala con qualche libro, d’estate in giardino, ovvero in un orrendo cortiletto recintato, proprio come nelle prigioni. Io stavo sempre sola, comunque, e odiavo l’idea di legare con le persone, perciò per me quell’ora non aveva proprio nulla di speciale e non rappresentava alcun tipo di svago.
Uscivamo in gruppo, ma io mi isolavo e mi sedevo da sola, osservavo le persone ritrovarsi intorno ai tavoli come dei normalissimi amici e parlare, ridere e scherzare, mentre io stavo in una panchina davanti alla recinzione... e guardavo fuori... fuori. Avrei potuto farlo per ore. Da sola, attraverso le inferriate. Le altre persone avevano deciso di accettare quella vita… ma io no. No, no, io non avevo accettato proprio niente. L’ospedale si trovava in una via del centro chiamata “San Colombano”, posso ancora ricordarlo, ancora riesco a vedere dal ferro della recinzione, se chiudo gli occhi... quella scritta, quel cartello davanti ai miei occhi... sì, lo ricordo ancora bene, vivido e doloroso! Da quella panchina potevo vedere una bella villa dove viveva una famiglia qualsiasi, che a me sembrava troppo fortunata anche solo per il fatto che era libera di muoversi, mentre io non avevo mai visto il mondo, mentre per me era tutto un grande mistero che avrei voluto scoprire il più in fretta possibile. Avevano tre bambini e ridevano, giocavano, si divertivano in continuazione, nuotando nella piscina e giocando a palla nel giardino. Ogni tanto capitava che i bambini si fermassero ad osservarmi, ricambiando il mio sguardo, così io li salutavo, ma scappavano in casa spaventati.
Perché la gente aveva paura di me? Io non ero cattiva, non volevo fare del male a nessuno, ero solamente invidiosa di ciò che aveva quella famiglia, perché sapevo che non l’avrei mai ottenuto. Forse avevo il viso scarno, gli occhi stanchi e rigonfi, un aspetto triste e sofferente... ma non ero cattiva, bensì tremendamente sopraffatta dal dolore e dalle mie paure. Nel giardino di quella famiglia, proprio davanti al cortile dell’ospedale, dal quale solo la strada mi divideva, c’era un grande tavolo e spesso cenavano lì all’aperto; io mi fermavo allibita ad osservare i loro movimenti, a cercare di capire i loro discorsi, a immergermi nella loro vita, visto che non avevo mai provato il gusto di averne una. Quella famiglia era diventata la mia, ogni volta stavo ferma a guardarli per tutto il tempo che avevo e spesso mi accorgevo di quanto reagissero in modo negativo ai miei sguardi; ma io non potevo capire, non potevo rendermi conto di quanto il mio comportamento fosse sbagliato e, devo ammetterlo, piuttosto inquietante.
Quanto avrei voluto tuffarmi in quel mondo meraviglioso, quante volte sentii il desiderio di rompere la recinzione, di passare oltre le inferriate! Oh, c’era così poca distanza, eppure così tanta differenza!
Vivevo i miei giorni all’ospedale come una punizione, una privazione che mi era stata data e non ne capivo il perché, ma in fondo l’unica che cercava di togliersi qualcosa ero io, che mi deprimevo di più ogni singolo secondo che passavo in quel luogo… ricordo bene come fissavo le lancette dell’orologio, il tempo sembrava non passare mai, l’odio verso il corpo in cui mi sentivo costretta a vivere non finiva più. Ero magrissima, non volevo mangiare, mi dovevano costringere a partecipare ai pasti, perché il cibo era qualcosa di troppo prezioso per me, non ero all’altezza di una persona che mangia, mi sentivo diversa dagli altri… in realtà, non mi sentivo proprio nessuno. Io non ero una persona, ma solo una figura, solo un’anima tormentata che non aveva più niente. Niente.
Un’anima tormentata... ecco, non avrei potuto trovare parole migliori per descrivere il mio stato d’animo in quel periodo... ero una sagoma, un corpo senza un cuore o una mente; non ero altro che un ammasso di ossa. E non smettevo di farmene una colpa.
Un giorno il responsabile dell’ospedale si sedette accanto a me mentre osservavo la casa della solita famiglia, come se fosse preoccupato dal peggioramento delle mie condizioni. Non mi voltai neppure, ma lo riconobbi dal modo di sbuffare, piccolo gesto fastidioso che era diventato un modo per riconoscerlo ogni volta che mi si avvicinava; tuttavia, continuai a fissare con tono impassibile le inferriate e inizialmente ci fu un momento di silenzio, quando decisi di voltarmi con tono scorbutico:
-Ha bisogno di qualcosa?-
-La domanda è se tu hai bisogno di qualcosa, Matilde- rispose sbuffando nuovamente, passando una mano sulla folta barba. Lo fissai per qualche secondo, quindi scossi la testa e cambiai argomento:
-Non c’è nessuno oggi. Intendo, nella casa…-
-Guardi molto spesso quelle persone? Ti sembra di conoscerli?- Non risposi; in quel luogo avevo ormai praticamente perso la testa. Con le iridi ghiacciate e fisse oltre le inferriate, stesi l’indice davanti a noi e indicai la casa:
-Vede, quella casa è molto vicina… i bambini possono correre e giocare. Noi, invece, non possiamo uscire-
-Ah, lo so, ma è per il vostro bene e un giorno anche tu potrai uscire di qui, nel frattempo pensa a farti degli amici… il dottor Banchi mi ha detto che è molto preoccupato per il fatto che ti chiudi così tanto in te stessa-
-Io non voglio parlare con le persone- mormorai, fissando ancora il vuoto davanti a me
-Perché? Guardati intorno, tutti si divertono, dovresti provare a conoscere qualcuno…-
-Io non voglio conoscere le persone- ribadii alzando un po’ il tono, continuando a fissare fuori dalle inferriate, desiderando più che mai di poter uscire
-Matilde, ti stai sbagliando! Devi cercare di legare, perché non vuoi conoscere nuove persone?-
-Perché io non sono una persona! Non sono una di loro!- urlai con tutta la mia voce, facendo girare di colpo tutta la gente nel cortile. Lo fissai negli occhi grigi, lucidi e sconvolti, dopodiché senza dire altro mi alzai, tornando nella mia stanza e fulminando gli sguardi sconvolti di tutte le persone nel cortiletto, senza curarmi minimamente di loro. Superai quel gruppetto di curiosi sfortunati che avevano accettato di non poter vivere una vita normale, passai attraverso quegli sguardi sconvolti con un’apparente sicurezza che non era altro che il soffocamento di terrore e dolore.
Quella frase che avevo detto riassumeva in poche parole ciò che pensavo, ovvero di dovermi distinguere per il fatto che io non ero nessuno. In quei mesi all’ospedale non ricordo di aver parlato neppure con una persona. Mai.
Quando la mattina, alle sette e mezzo, suonava la mia sveglia, il rumore rimbombava fra i muri bianchi, rompendomi le orecchie; ogni volta che sentivo quello spiacevole rumore, una grande fitta mi contorceva lo stomaco... e sarei voluta morire. Un altro giorno da passare in quel posto infernale. Mi alzavo e un’infermiera mi portava la colazione: si chiamava Sandra ed era oggettivamente molto gentile, ma ai miei occhi semplicemente insopportabile. Una mattina, a precisamente sei mesi dal mio traumatico risveglio, Sandra entrò sorridendo come faceva sempre nella mia stanza e spense la sveglia:
-Buongiorno, Matilde! Come stai?- la guardai accigliata, come per farle capire quanto la domanda fosse irrispettosa e non risposi, così si sedette accanto a me; con fare scorbutico, le strappai di mano la ciotola del latte con i cereali, che ovviamente non avrei neppure mangiato. Essere maleducata e cattiva era l’unica difesa che avevo contro il mondo; Sandra ebbe una reazione un po’ offesa e preoccupata inizialmente, tuttavia mascherò la sua indecisione e sorrise:
-Oggi sono passati sei mesi, Matilde... sei migliorata tanto, lo sai?- la fissai piena di odio alzando il viso dai cereali, per riabbassare la testa quasi subito, in silenzio. Sapevamo entrambe che non avevo fatto progressi e che, al contrario, stavo sempre peggio. Sandra, come faceva sempre, sorrise di nuovo:
-Avanti, non si sta poi tanto male in questo posto!-
-Non sei tu quella che non può uscire- risposi con convinzione e una leggera sfumatura di acidità nel tono, tenendo lo sguardo fisso sulla tazza -Ma certo, questo è ovvio, io non sono...-
-Cosa vuoi dire, eh?- la interruppi fissandola negli occhi –Che tu non sei pazza? Bene, non lo sono neppure io! Non è bello essere qui senza un vero motivo!- le sue labbra si richiusero con un piccolo sospiro, ci fu un attimo di silenzio, così tornai a muovere il piccolo cucchiaino nel latte, parlando con voce bassa e lieve -Non ero pazza... ma lo si diventa in questo posto- Sandra mi sentì, rimase piuttosto sconvolta dalle mie parole e subito abbassò lo sguardo:
-Beh, dovrai stare in questo posto solamente per poco, non per tutta la vita... dobbiamo cercare di aiutarti. Ma ora devi mangiare qualcosa, lo sai bene-
-No, ho la nausea. Non mi piace il cibo- abbassai la testa, allontanando da me la tazza di cereali. Ero triste, distrutta al pensiero di non avere uno scopo, di non avere un futuro stabile a consolarmi, oltre ad un passato che non avrei più ottenuto. E non volevo stare ancora in quel luogo; speravo di andarmene a breve... sei mesi erano stati infernali ed ero peggiorata davvero, davvero troppo. Nessuno mi aveva mai detto quanto tempo sarei dovuta rimanere fino a quanto Sandra mi sorrise e parlò in tutta inconsapevolezza:
-In fondo, si tratta solo di due anni e sei ancora giovanissima! Hai tanti anni davanti- E quelle parole mi sfondarono il cuore. Ricordo ancora la sensazione che provai in quel momento, posso ancora sentire lo stomaco contorcersi, il cuore fermarsi per un attimo e il respiro interrompersi; mi scivolò addirittura la tazza dalle mani:
-Cosa?- risposi debole, cercando di non svenire
-Sì, due anni. Avanti, imparerai a stare bene qui!- sorrise di nuovo e di colpo sentii un misto di odio, rabbia, paura e disperazione scorrermi nelle vene. Mi alzai dal lettino e iniziai a darle contro:
-Due anni? Siete degli assassini! Io non me lo merito, capito? Io non posso farcela, non posso sopportare più questa tortura, sto male, è difficile capirlo?! Eh?! Siete dei pazzi, io non starò qui due anni, non posso vivere, morirò; mi sento soffocare in questo posto, mi manca l’aria...-
-Calma, sono solo crisi di panico- mi disse con tono calmo, allontanandosi, mentre io continuavo ad urlarle contro con tutta la mia voce, rossa per la rabbia e con la voce strozzata per la voglia di piangere:
-No, non sono solo crisi di panico, non è così semplice... siete voi che me le state causando, mi avete rovinato la vita! Voglio morire, non posso farcela... uccidetemi ora, vi prego!- vidi Sandra preoccupata e sconvolta da quella reazione così drammatica e violenta, prese di colpo una grande siringa, avvicinandosi accortamente di nuovo a me:
-E ora vuoi anche farmi la puntura?! Perché non posso neppure parlare, non posso dire la mia... se lo faccio, vengo sedata come gli animali!!!- continuai ad urlare, del tutto fuori di me mentre Sandra stava per farmi quella ormai abituale puntura, quando vidi il dottore passare nel corridoio e lo chiamai; fermò subito Sandra, togliendole la siringa di mano:
-Cosa sta facendo? Deve chiedere il mio permesso prima!- esclamò infastidito, facendo uscire dalla stanza l’infermiera. Io lo guardai disperata e alzai nuovamente la voce:
-Due anni? Perché mi fate questo?- il dottor Bianchi scosse la testa, togliendosi lentamente gli occhiali
-Sandra non avrebbe dovuto dirtelo... ha sbagliato, ma ormai che lo sai non avrebbe senso mentire, quindi sarò sincero: la tua cura durerà circa due anni, poi potrai uscire... non prima. Questa scelta è definitiva- con questa frase sentii il cuore farsi a pezzi, non ebbi più la forza di dire niente:
-Perché?- chiesi con tono sottomesso
-Perché ne hai bisogno-
-Perché, dottore? Non va bene così? Io ricomincerò dall’inizio-
-No, no... io ho il dovere di portare fuori i tuoi ricordi... non per me, ma solamente per te-
-Non starebbero meglio nascosti? Non potrei ricominciare tutto dall’inizio, dottore?-
-No, perché i ricordi tornerebbero comunque; non sono stati cancellati, solo oscurati. In questi due anni cercheremo di fare due cose: una- disse alzando il pollice -tenteremo di farti ricordare qualcosa, anche se ci vorrà un po’ di tempo e due...- continuò alzando anche l’indice -ti faremo tornare nelle condizioni di vivere una vita normale per una ragazza della tua età-
-Non è giusto! Come potete dirmi che per altri due anni dovrò stare qui passando le ore a pensare... ma a pensare a cosa, alla fine?! Spaziare con la mente? Neppure, in realtà! Perché io non ho un passato, e non avere un passato significa non esistere! Tutto quello che faccio, ogni singola cosa è vana, perché io non ho un’ identità, un carattere, una personalità, un nome, una famiglia... ho solo me stessa: sto vivendo dentro il corpo di una sconosciuta, l’ha detto anche lei, no?! E sa bene quanto questo mi sia difficile, lei sa bene quanto sia impossibile che io ricordi anche solo una singola cosa riguardo al mio passato! E se solo potessi uscire... io rinascerei e potrei essere felice- esclamai, rossa per la collera, con il fiatone per l’agitazione che le mie parole avevano appena causato. Il dottore rimaneva, come sempre, seduto con calma sulla sedia e mi guardò rimettendosi gli occhiali, sistemando con naturalezza lo schienale della sedia:
-Effettivamente hai ragione, non hai davvero più niente...- disse per provocarmi, usando quello strano metodo per farmi parlare, come sempre
-Oh e lei ha anche il coraggio di dirlo! Finché starò qui come pensa che possa ricostruirmi una vita?! Ho solo sedici anni e sono ancora giovane, lo capisce?!- Subito le mie labbra si richiusero, capii non appena il dottore strabuzzò gli occhi con un piccolo sorriso di soddisfazione:
-Quello che ho appena detto non può essere vero- scossi la testa spaventata dal fatto che davvero ci fossero informazioni sconosciute dentro di me e che, soprattutto, avessero la misteriosa facoltà di uscire fuori dalla mia bocca senza che io lo volessi. Avevo quasi paura di quella mia segreta consapevolezza.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 3 ***


-Bene, significa che ora ne hai diciassette o diciotto, a seconda di quando compi gli anni, d’accordo? Lo scopriremo...-
-Dottore, non è possibile, avrò sicuramente detto un numero a caso, non credo possa essere vero... non possiamo basarci su uno sciocco numero...-
-Vedi, non si tratta di magia, ma solo di scienza. Il cervello immagazzina qualsiasi cosa... come potrebbe eliminarla del tutto? Ogni singolo ricordo è ancora dentro la tua testa...- affermò toccandomi la tempia -E le immagini non se ne andranno mai... tu dovrai essere così brava da riuscire a vederle, però!-
-Dottore!- lo fermai per un braccio, facendolo avvicinare -Dottore...- ripetei spaventata e impaurita -le dico che non è vero- sussurrai terrorizzata, sperando di essere rassicurata sul fatto che le mie parole non avessero avuto alcun fondo di verità
-Potresti anche aver detto un numero qualsiasi, chi lo sa! Ma rimane il fatto che è qualcosa di molto, molto frequente in casi come il tuo ritrovare informazioni involontariamente, proprio come ti è appena successo. Non devi avere paura- fece un paio di passi verso la porta, quindi si fermò e parlò verso i miei occhi ancora sconvolti e spaventati:
-Ah, quasi dimenticavo! Fra poco dovrebbe arrivare la polizia per parlare con te; ma non allarmarti, non è niente di cui preoccuparsi. Solo un paio di cose da chiarire, sarà questione di pochi minuti-
-No!- esclamai in ansia -Non voglio...-
-Visto che è giusto che tu abbia un’idea generale di ciò che ti sarà detto, c’è qualcosa che dovresti sapere: dunque, quando sei stata trovata dieci mesi fa a Trento, con te avevi un’ascia, ma non è stata la causa delle tue ferite, a quanto è stato verificato... quindi la domanda è: a che scopo usavi quell’ascia?-
-A che scopo usavo quell’ascia?- ripetei a bassa voce -Bella domanda- -Il sangue presente sull’ascia e in gran parte della camicia non era tuo... ma purtroppo non si può capire di chi fosse. Ovviamente, la polizia ha subito bloccato tutte le strade vicine e controllato chi potesse essere ferito, ma non è stato trovato assolutamente nessuno! Probabilmente non sono arrivati in tempo o forse qualcuno è stato abbastanza bravo da mascherare ogni sospetto. Nel bosco nessun morto, nessuna traccia di sangue. Non molto lontano da quel luogo dove sei stata trovata, a circa un’ora a piedi, c’è una piccola casetta, ma hanno confermato di non aver né visto né sentito niente. I dottori hanno affermato che quando ti hanno trovata sembravi essere stata ferita da non più di un mezz’ora... eri praticamente morta. Questo sai cosa significa?-
-Che sono stata aggredita proprio in quel bosco?- ci fu un momento di silenzio, il dottore guardò in basso sul suo blocchetto e quei secondi mi sembrarono infiniti, mentre ero costretta dalle circostanze a sfogliare le pagine della storia di qualcuno che odiavo e che volevo solo far sparire dalla mia vita. Ma non potevo fare ciò che volevo, non finché il dottore mi teneva chiusa in quel luogo infernale; quel silenzio colmo di bugie durò qualche secondo per me lunghissimo, finché non alzammo entrambi la testa, sentendo una voce provenire dal corridoio:
-Non è detto che lei sia stata aggredita, signorina- aggrottò la fronte un poliziotto in divisa, che stava ascoltando dallo stipite della porta, entrando nella stanza -Salve, io sono il questore Nucci-
-Piacere- ripetei un po’ confusa, stringendogli la mano -Mi permetta, ma in che senso “non è detto”?-
-Beh, nessuno ci dice che lei fu proprio aggredita quella mattina... la sua ascia era sporca di sangue per l’appunto non suo...-
-Lei vuole dire che io potrei essere stata l’aggressore?-
-Perché no?- rispose il questore -Noi non sappiamo che tipo di persona fosse, nessuno l’ha riconosciuta finora, nessuna analogia con le persone scomparse negli ultimi vent’anni in Italia...- prese in mano un porta listini e scuotendo la testa iniziò a sfogliare le pagine -Nessuno di scomparso col nome di Matilde e un’età che potrebbe essere la tua, nessuno con una descrizione fisica simile. Ovviamente, sai bene che senza il cognome non c’è quasi niente che possiamo fare, il campo in cui possiamo lavorare è piuttosto ristretto, avendo così poche informazioni… tuttavia nessuno ha riconosciuto le tue foto, nessuno conosce una “Matilde” scomparsa intorno ai diciassette anni, nessuno è uscito da quel bosco il venti marzo. Sembra essere uscita fuori dal nulla- concluse pensieroso, lasciandosi ricadere su una sedia -Stiamo anche facendo ricerche all’estero, su voli, treni o qualsiasi altro mezzo di trasporto in quei giorni... ma è tutto molto strano, anche solamente a partire dai vestiti che indossava quando è stata trovata. E poi i tatuaggi sono un vero rompicapo, scoprirne il significato sarà davvero un’impresa...- disse con un misto di confusione e curiosità, grattandosi dubbiosamente la barba
-Tatuaggi?- chiesi incredula, rivolgendomi al dottore, come se dovesse darmi delle spiegazioni -Di che state parlando?- mormorai confusa. Il dottore fece cenno al poliziotto di fermarsi:
-Vedi, Matilde, avevo intenzione di dirtelo a breve perché è una cosa piuttosto seria...-
-Me lo dica e basta dottore. Non potrei comunque essere più spaventata di così, non crede?- alzai la voce, piuttosto impaziente di avere una risposta. Il dottore sbuffò e, non appena il questore si sedette, lo fermò con lo sguardo, per fargli capire che era un argomento delicato e che solo uno psichiatra si sarebbe potuto prendere la responsabilità di parlarne. Quindi con calma mise le mani sulla coperta, sulle mie gambe paralizzate e insensibili, tolse la coperta e piegò le ginocchia. Lo guardai interrogativamente, chiedendomi quali fossero le sue intenzioni, quando alzò leggermente la fine camicia da notte, per poi mostrarmi un punto che non avevo mai visto personalmente, ovvero i polpacci. Erano le infermiere a farmi la doccia e a occuparsi della mia parte insensibile, ovvero delle gambe, quindi non mi era mai capitato di osservare i miei polpacci, tantomeno la mia schiena… voltarmi e piegarmi non erano solo movimenti scomodi, ma addirittura impossibili a volte, quindi avevo la consapevolezza di solo metà del mio corpo. Il dottore indicò il mio polpaccio e mi fece inclinare la testa per vedere meglio... e non potei fare a meno di piangere.
Gli occhi involontariamente si offuscarono e non riuscii più a trattenere quelle lacrime che da tanto cercavo di tenere dentro di me, che mi spaventavano mentre rigavano il mio viso pallido e mi facevano sentire debole ed esposta -Perché non mi ha detto niente?!- urlai al dottore. Non rispose. In silenzio mi sfiorai le gambe; erano completamente segnate da cicatrici, bianche, grandi, tremendamente dolorose solo a guardarsi. E, come se non fosse abbastanza, su entrambi i polpacci avevo un tatuaggio nero e spesso, con un numero raffigurato: trecento. Questo numero, per il resto del mondo una semplice banale cifra, mi riempie la pelle di brividi. Ricordai subito ciò che mi era stato raccontato, ovvero il fatto che avessi scritto “300” per rispondere alla domanda “come ti chiami”… e di colpo i miei pensieri divennero confusi e intrecciati, spingendosi verso direzioni e ipotesi che avevo troppa paura di analizzare o affrontare. Come ho già detto, non volevo rendere miei i problemi di una ragazza per me morta.
-Che cosa significano i tatuaggi? Perché questo numero?- deglutii con tono fievole -Anche noi vogliamo saperlo, ma non c’è modo di avere notizie sul significato di questi segni! Il trecento di per sé non ha alcun significato, abbiamo fatto numerose ricerche e non sembra simbolo di alcun gruppo, clan o setta! Cercheremo di trovare un significato… stia tranquilla, ci riusciremo-
Il dottore gli disse dunque qualcosa nell’orecchio, qualcosa per il quale si affrettò a lasciare la stanza, salutandomi gentilmente.
Ci trovammo soli: io e l’unica persona che avevo al mondo, il dottor Bianchi. Ricordo, o almeno mi sembra di ricordare, che restammo in silenzio per un paio di minuti, io a piangere, lui fermo a guardarmi e a pensare a come comportarsi, finché non riprese a parlare:

-Tecnicamente dovrei aspettare a dirti certe cose, ma ci sono situazioni in cui bisogna pensare con il cuore, non con il cervello, perché la vita è istinto, non scienza. All’inizio ero disperato, credevo che non ti saresti mai ripresa, avevi reagito malissimo al coma e ai vari interventi... ma sei migliorata molto, e dopo sei mesi riesci a capire tutto alla perfezione: sei stata molto coraggiosa, so che non è facile- sorrisi debolmente, ma le mia labbra facevano difficoltà a rimanere stese e feci una piccola smorfia, per ritornare alla mia triste espressione di sempre
-Scoprire il significato di questo numero sta a te. Finora abbiamo lavorato insieme e lo faremo fino alla fine, ma io posso solo darti la spinta di cui hai bisogno... io ti aiuto ad alzarti, ma poi devi camminare da sola e scegliere la strada giusta, senza cadere di nuovo. Dunque, questo sui polpacci è un tatuaggio vero e proprio, fatto da un professionista e si vede comunque che c’è da abbastanza tempo, da quattro-cinque anni almeno, questo è certo. Ma lo stesso numero si trova anche in altre parti del tuo corpo...- sentii di nuovo quella sensazione orrenda dello stomaco che si contorce e mi morsi il labbro inferiore, cercando disperatamente di contenere tutto quel dolore -Purtroppo, hai lo stesso marchio sulla spalla, proprio qua...- disse sfiorando il punto giusto -Ma stavolta non è un tatuaggio...-
-Che cos’è allora?- domandai spaventata
-Un marchio. Di quelli che vengono fatti con il ferro...-
-Con il ferro incandescente- ripetei, assorta mentre guardavo nel vuoto -Come lo sai?-
-Lo so e basta- mormorai quasi sottovoce, singhiozzando -Non ho nient’altro, vero?-
-Vorrei tanto che fossero finiti, ma ne hai un altro uguale molto piccolo sulla nuca...- alzò un piccolo specchietto e vidi il minuscolo numero sulla parte anteriore del collo, strinsi forte i pugni per il dolore... ma non si trattava di una dolore fisico, purtroppo; quello avrebbe fatto mille volte meno male -E l’ultimo si trova sulla schiena...- disse tristemente, passandomi un piccolo specchio... ma da esso vidi qualcosa di mille volte più triste del tatuaggio: la mia povera schiena era completamente graffiata e piena di cicatrici, come le gambe. Avrei voluto urlare, rompere tutto, piangere come mai, ma mi limitai a soffocare i miei sentimenti:
-Dottore...- sussurrai con voce sofferente
-Lo so... lo so- rispose lui scuotendo la testa -Mi dispiace davvero moltissimo- Il dottore stava immobile, in silenzio e con la testa bassa; alzai gli occhi lucidi e lo guardai, il viso pallido e le mani ghiacce:
-Dottore, lei... lei ha mai desiderato di essere morto? Ha mai desiderato di non svegliarsi la mattina, di non esserci più? Di fuggire?- mormorai, fissando fuori dalla finestra
-Certo che l’ho fatto- rispose con naturalezza, stupendomi –Tutti l’abbiamo fatto almeno una volta... ognuno è debole, ognuno ha voglia di piangere e abbiamo tutti, tutti una gran paura della vita. Ma alla fine, dopo aver provato tanto dolore, impariamo ad essere forti... e sai perché?- scossi la testa e lui mi prese la mano, portandola fino al mio cuore -Perché c’è sempre qualcuno che ci vuole bene proprio qui. Non siamo mai soli...- usò un tono molto tenero, le sue parole non sembravano più quelle di un medico, ma di un padre che parla con la figlia, di quel padre che non avevo e che non avrei mai avuto. Lo guardai commossa e triste allo stesso tempo:
-Ma come posso avere qualcuno nel cuore se io non conosco nessuno che mi voglia bene?!- -Per questo sei qui, tra poco lo saprai. Ma nel frattempo nel tuo cuore continuerai ad avere quella piacevole sensazione che non si è mai soli, che non bisogna perdere la speranza, che non possiamo permetterci neppure una volta di perdere colpi, va bene? Ci vuole forza, purtroppo, ci vuole molta forza, ma alla fine si riesce sempre ad uscire da qualsiasi situazione-
-Io so che non ci riuscirò- dissi triste e afflitta
-Perché dici questo, Matilde?-
-Ah, mi guardi! Cosa può fare una ragazza come me? Guardi le mie gambe! Non le potrò mai più usare, in tutta la mia vita! Non potrò più fare nulla da sola perché sono disabile... per ogni singolo giorno che passerò non potrò percepire la sensazione dei piedi sul pavimento, e la cosa peggiore è che non saprò mai cosa si prova a correre, a camminare, non saprò mai cosa si prova ad essere liberi e indipendenti. E faccio paura, sembro un mostro, ho gli occhi spenti e sono stanca, stanca da morire, ma dormire non mi fa sentire meglio. Ecco perché non cambierebbe nulla se scoprissi chi sono davvero... la mia schifosa vita non cambierebbe! Rimarrei una stupida ragazza di diciassette anni, che però sa il proprio nome... ma tanto la mia famiglia non la riavrei lo stesso. Nessuno si è fatto avanti per adottarmi, perché sarebbe troppo impegnativo fra due anni avere una sciocca disabile inutile e ignorante a casa! Che non cammina da sola, legge e scrive come una bambina di sei anni, che è fisicamente distrutta, mezza cieca... quindi perché mai dovrei essere interessata al mio passato? Il presente sarebbe ugualmente vuoto, sarei ancora sola e anzi... sarebbe peggio, perché dovrei lottare con la consapevolezza di quello che mi è successo! E se mi permette, dottore, non voglio nemmeno pensare a cosa siano dovute le cicatrici... sa quanti anni dovrò ancora vivere così? Tanti, tantissimi ma io non... non...- cercai disperatamente di prendere aria, ma non riuscivo a vedere bene, tanto che fui costretta a calmarmi e ad abbassare il tono:

-Non ce la faccio!- annaspai senza fiato -Non riesco a respirare- tentai di prendere aria, mettendo la mano alla gola e prendendo un gran respiro. E in tutta sincerità, non ricordo neppure come si comportò il dottore, ma ho ancora ben impressa nella mente la sensazione di morire, di non respirare più, che fu in quel momento più forte che mai. Sentivo proprio l’aria mancarmi, come se mi stessi strozzando... e avevo paura, tanta paura. Dondolavo col busto sul lettino e vedevo tutto sfocato... pensai davvero di essere sull’orlo della morte... sarei dovuta essere felice, ma faceva davvero troppo male. In tutta quella tragedia, non mi curavo dei dottori, che tentavano di reggermi e mi dicevano cosa fare; ero troppo persa nella mia sofferenza e nei miei tentativi di cercare di respirare, finché non caddi a terra senza forze, facendo rigirare le gambe una sopra l’altra sul duro pavimento bianco. Ero stanca, non ce la facevo più. Socchiusi le palpebre senza sensi, con le lacrime che ancora mi rigavano il viso. Quella sarebbe stata la mia vita per due anni.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 4 ***


Non appena mi risvegliai da quell’ennesima crisi di panico, mi sentii ovviamente ancora confusa e spaventata, ma soprattutto sopraffatta da un’incredibile sensazione di vuoto e incertezza. L’incertezza di un futuro scuro e sfocato, che mi si presentava a tratti spaventoso in tutta la sua negatività, a tratti del tutto neutrale, noioso e privo di sentimenti come il presente che stavo vivendo. E in tutto ciò mi terrorizzava l’idea di non avere il controllo della mia stessa vita e della mia persona, come se fossi stata presa e catapultata in un mondo che non mi apparteneva, gettata in una vita lontana anni luce da me.
Scoprire quelle cicatrici fu per me qualcosa di terribilmente doloroso, ma le cose non cambiarono e tutto continuò ad essere lo stesso, ovviamente: ebbi, come sempre, la mia seduta col dottore, ma quasi non aprii bocca e non riuscii a concentrarmi neppure per qualche minuto... i miei pensieri erano altrove. E non lo furono solo quella mattina... ma sempre. Come se il mio precedente peggioramento non fosse stato abbastanza, iniziai da quel giorno a reagire ancora peggio a quella sorta di prigionia, o almeno a quella che io vedevo come una crudele punizione, quando, in realtà, se avessi aperto davvero gli occhi, avrei visto la luce, avrei capito che quel triste ospedale non era che l’unica possibilità che avevo di riprendermi la mia vita. Eppure lo vidi sempre come un grande incubo dal quale sarei dovuta fuggire a tutti i costi.
Passarono, fra le sfumature di grigio e nero che caratterizzavano le mie giornate, dieci mesi di assoluta tortura... niente di nuovo uscì da quelle giornate buie, ero sinceramente ed oggettivamente distrutta... fisicamente, moralmente, psicologicamente.
Soffrivo di anoressia, ma il motivo per cui non mangiavo non era il disgusto per il mio corpo, del quale non mi curavo neppure, bensì l’idea che il cibo mi tenesse troppo legata a qualcosa dal quale volevo scappare, come se volessi dimostrare a qualcuno di odiare quel luogo tanto da dare una prova estrema di ciò che ero capace di fare pur di uscire dalla realtà che mi circondava. Mi davano pasticche ed erano costretti a forzarmi a mangiare, certe volte, in modo che non fui mai sull’orlo della morte, ma solo grazie ai dottori, perché se fosse stato per me non so dove sarei finita. Soffrivo anche di una leggera forma di autismo, che si presentava solo in alcune situazione e che, a quanto dicevano i dottori, sarebbe potuta migliorare con il tempo: mi isolavo, in certi momenti la mia mente spaziava, spaziava in dimensioni in realtà vuote, ma infinite e intrecciate.
Le sognavo spesso... nodi. Mi trovavo in una stanza bianca, non c’era niente, solo il mio respiro, e di colpo tutto si riempiva di fili neri, ostacoli e nodi: e cercavo di passare, cercavo di fuggire. Non appena vedevo una porta davanti a me, mi precipitavo verso di essa, ma era troppo lontana e quei fili neri troppo fitti: ero intrappolata, intrappolata nel buio. Nel buio di me stessa, di tutte quelle bugie che mi ero detta e di tutte quelle stupide regole con cui credevo di poter comandare e controllare un cervello malato come il mio. Sognavo ogni notte di andare in quel luogo, in quella famosa stanza bianca: e spesso durante il giorno mi sembrava di trovarmi là, mi sembrava di non vedere altro che il vuoto riempire lo spazio intorno a me. Ma il vuoto... il vuoto non può riempire niente.
E così ero condannata a soffrire cercando risposte che non mi permettevo di dare, facendo domande alle quali non rispondevo e cercando una vita che avevo paura di avere.
E tutto quel contrasto dentro di me mi rendeva insicura, spaventata e sola. Io ero ferma, ma il mondo girava e non c’era tempo per rimanere indietro: nonostante il silenzio dentro di me, la sveglia continuava a suonare con quello stupido rumore assordante ogni mattina, le persone continuavano a parlare con quel fastidioso odioso ronzio e il terrore di vivere mi prendeva ogni giorno di più. Volevo scappare, volevo scappare così tanto da rimanere con i piedi inchiodati in terra. Volevo avere una vita, ma facevo di tutto per non ricostruirne tutta e pretendevo di avere ciò che con un po’ di fatica avrei ottenuto. Fu così che, in tutta quella depressione che mi soffocava, mi sentii costretta a trovare la via più facile per lasciare gli opprimenti muri del centro psichiatrico di Trento: doveva essere una lotta, una lotta fra me e chi sosteneva che avrei dovuto riscoprire un passato sepolto.
Ebbi un’idea e decisi di parlarne una mattina, circa un anno dopo il mio risveglio, con il dottore; fui molto vaga per tutta la seduta, risposi alle svariate sue domande contraddicendomi in continuazione e di proposito, così che capisse che avevo qualcosa in mente; la cosa più strana fu che se ne rese ovviamente conto, ma non mi chiese niente e non dimostrò alcun dubbio davanti al mio comportamento palesemente strano e, probabilmente, immaturo, per quanto a me sembrasse assolutamente logico. Il dottore mi conosceva meglio di qualunque altro, ma soprattutto mi prevedeva e sapeva bene che chiedermi cosa stesse succedendo sarebbe stata una mossa troppo comoda per la mia posizione e mi avrebbe portato un vantaggio non educativo.
Dal momento che non si dimostrò minimamente infastidito dal mio comportamento del tutto inusuale, alla fine della seduta, dopo essere stata due ore con le braccia incrociate, fui costretta a fare io il primo passo:
-Dottore, ha notato che sono stata un po’ strana stamani, non è vero?-
-Davvero? No, a dire il vero, non me ne ero accorto- scosse la testa, fissando i fogli sotto di lui, così da costringermi a continuare:
-Vede, devo parlarle di un’idea che ho avuto. Io ho pensato, mi corregga se sbaglio, che lei non può assolutamente nulla contro la mia volontà- assentì, ovviamente, avvicinando la sedia, come se fosse finalmente interessato a ciò che stavo per dire -Ho capito che non è giusto che io stia qui senza una motivazione... perciò d’ora in poi io farò uno sciopero-
-Uno sciopero? Ah, davvero? E che tipo di sciopero?- Davanti al suo chiaro divertimento, risi amaramente e lo fissai con quell’assurda pazzia che mi stava facendo cadere sempre più in basso:
-Lei non mi crede abbastanza forte, non è vero? Lei non sa quanto io sia determinata...- mi fissò in silenzio, con uno sguardo impossibile da decifrare, quindi mi rivolsi a lui con un finto sorriso crudele, che nascondeva milioni di insicurezze -Ride, eh? Ride, pensa che stia scherzando. Bene, invece ci terrei ad avvertirla che sono seria- esclamai sbattendo una mano sulla scrivania, continuando ad accumulare odio verso l’uomo che sorrideva davanti a me -Senta, ho sopportato un anno infernale in questo posto, fra una crisi di panico e l’altra, fra la noia di ogni singolo giorno e le sue inutili sedute. Ma lei, dopo aver fatto il suo lavoro, se ne torna a casa… io resto qui, invece. E sa questa tortura a cosa mi ha portato, dottore? A sapere tre cose: nome, età e data di nascita. E ho sudato sangue per queste stupide informazioni, lo giuro!-
-Beh, è normale andare piano con questo genere di cose, ma per adesso abbiamo già le idee più chiare. Hai avuto anche il ricordo della tua camera e di alcuni dei tuoi parenti, ad esempio, il che è molto positivo-
-Oh, non mi prenda in giro, dottore! Forse non sono poi così sveglia, ma neppure stupida: il prossimo anno cosa scoprirò? Colore preferito, nome dei genitori e carattere? Avanti, tutto questo è ridicolo! Non uscirò dal mio trauma in un altro anni, lei lo sa bene...-
-E’ vero, forse. Tanto vale provarci, però-
-Tanto vale lasciarmi libera, dottore- ribadii fredda e autoritaria, fissandolo negli occhi con amarezza... con tutta quell’amarezza che avevo accumulato in quei mesi, giorno dopo giorno. Mi stavo sfogando, dando voce a tutte le mie debolezze, fingendo di essere forte, convinta e sicura, mentre in realtà non ero altro che impaurita, sola e bisognosa di aiuto… ma non riuscivo a capirlo neppure io stessa, purtroppo.
-Quello che scoprirai dipende da quanto duramente hai intenzione di lavorare...-
-Oh, avanti, non si prenda gioco della mia apparente ingenuità! So bene come andranno le cose: sono consapevole del fatto che mi terrete qui più di due anni, alla fine. Voglio dire, è impossibile che riesca a riacquistare la memoria a questi ritmi... avete idea di quanto ci vorrà? Se in un anno ho ricordato tre cose insignificanti... in un anno e mezzo saprò una decina di cose su di me, ma non in questo modo capirò da cosa è stato creato il mio trauma. Che poi…- mormorai fissando il dottore negli occhi, cercando di buttare le mie sofferenze su di lui, accusandolo -… che poi non si può neppure chiamare trauma! Non so se n’è accorto, dottore, ma io soffro a causa vostra, non a causa di quello che mi è successo prima di andare in coma. Come potrei star male per qualcosa che non conosco?- esclamai, per poi appoggiarmi ancora allo schienale della sedia a rotelle; fissai l’uomo davanti a me con determinazione. In realtà, non stavo facendo altro che negare l’evidenza, poiché era ovvio che il dolore che provavo era legato a ciò che mi era stato fatto prima che fossi trovata in quel bosco. Infatti il dottore accennò a un piccolo sorriso, ma non rispose subito; si prese il suo tempo, bevve un bicchiere d’acqua, sistemò i fogli davanti a sé, dopodiché si schiarì la voce e mi rivolse uno sguardo tranquillo, ma piuttosto convinto:
-Visto che hai appena affermato che il dolore che provi è causato da noi, voglio farti una bella domanda: che mi dici dei tatuaggi? E le cicatrici? E sai bene che questi sono solo due piccoli e insignificanti esempi di ciò che sto tentando di dirti- mi puntò subito uno sguardo allo stesso tempo sia sarcastico che interrogativo, così decisi che avrei smesso di dargli la soddisfazione di avere ragione e reagii con uno sguardo convinto:
-Ascolti, dottore, io le ho detto ciò che ho in mente e, dopo che avrò finito di spiegarmi con chiarezza, lei lo farà sapere agli altri “capi della prigione”: il mio sciopero che la fa tanto ridere consiste nel fatto che io non farò più un solo sforzo per ricordare. Lei non può costringermi in alcun modo ad ascoltarla durante le sedute, quindi d’ora in poi starò qui seduta senza dirle nulla. E al centro ricreativo farò ciò che ho voglia di fare, anche nulla se mi andrà così! Questo perché voglio dimostrare che non posso più essere presa in giro. I servizi sociali come sempre verranno a farmi la visita dei tre mesi... e proprio in quell’occasione vedranno che non ho fatto alcun progresso e decideranno di portarmi in orfanotrofio, dove starò meglio che qui! Quindi l’ho avvertita, d’ora in poi lavorerete a vuoto con me, non mi impegnerò più...- dicendo questo mi avvicinai alla sua scrivania e fissandolo appoggiai i gomiti su di essa. Ero solo una sciocca bambina che cercava di fare una bizza… ma dentro di me credevo di essere forte, potente, un uragano. Il dottor Bianchi scosse la testa, non sembrava per niente preoccupato:
-Guarda che non devi dirmelo con questo tono, non mi fai paura... e forse ti credi più importante di quello che sei al centro. Abbiamo centinaia di pazienti e tu sei uno di loro, niente di più. Non sei l’unica a start male ed io ti ho già avvertito: pensa e fai ciò che vuoi, ma se non ci lavorerai su, quello che ti terrorizza tanto chiamare “trauma” si ripresenterà con spiacevoli conseguenze...-
-Oh, sciocchezze!-
-Bene. Se questa è la tua decisione, allora sarà così. C’è un ragazzo di nome Ivan che ha avuto problemi molto gravi, si sta impegnando tanto e sarà felice di fare tre ore in più di terapia, uscirà sicuramente prima! Quindi tu verrai ugualmente e starai qui nella seggiolina a fare ciò che vuoi mentre io lavorerò con Ivan. Se poi vorrai dirmi qualcosa allora ti farai avanti, io sono qui. Però io ti avverto, la tua scelta ti metterà solo in difficoltà... a me non creerà problemi, ma a te sì. Sei una delle mie pazienti, ma io ho tanto lavoro e non posso perdere tempo... quindi da domani tu farai lo sciopero, ok? Ora, se non ti dispiace, dovresti tornare nella tua stanza, siamo un pochino in ritardo!- Lo odiavo. Era troppo furbo, troppo superiore, troppo maturo... e lo odiavo per questo. Lo fissai senza sapere come ribattere, un po’ offesa poiché speravo in una reazione del tutto diversa da parte sua. Delusa, mossi la carrozzina verso l’uscita e parlai con fare polemico:
-Certo, infatti è ciò che farò, almeno non potrete più farmi del male- ma proprio in quel momento il dottore disse qualcosa che mi fece fermare sulla soglia della porta, una delle sue solite frasi d’effetto, che m’impressionò così tanto che ancora potrei risentire la sua voce pronunciare quelle parole:
-Ricorda ciò che ti sto dicendo, perché un giorno avrai modo di pentirti per non avermi ascoltato: non dimenticare mai che il tuo problema non è l’ospedale, né la tua salvezza sarà l’orfanotrofio. Il luogo non c’entra niente... il vero problema sei tu, e per non accettare questa consapevolezza dai la colpa a quello che ti circonda. Finché non ti deciderai a lavorare sodo per riprenderti ciò che era tuo, soffrirai sempre, in qualsiasi luogo... e questo comportamento prepotente è solo una corazza perché tu sai benissimo quanto in fretta stai rischiando di ricordare il tuo passato e questo ti spaventa, ti spaventa da morire... ecco il tuo trauma, ecco dov’è. E cerchi di allontanarti dai ricordi, ma più ci si allontana da essi... più ci si avvicina. E poi d’un tratto ce li troviamo davanti-
Dopo aver detto ciò, rimase in silenzio. L’avevo ascoltato dandogli le spalle con la carrozzina quando, ancora senza guardarlo o girare minimamente la testa, dissi questo, fingendo che il suo discorso non mi avesse fatto venire la pelle d’oca:
-L’inconscio è qualcosa di astratto, dottore... il fatto concreto è che io non ricordo e sicuramente vivere in un manicomio non è il modo per far tornare alla mente ciò che deve tornarci- parlando così, uscii dalla grande porta in legno, terrorizzata dal mio passato e quindi ancora più convinta della mia decisione: continuavo a ripetermi quanto avessi messo in difficoltà le persone che mi stavano facendo del male. Ma se il mio scopo era attaccare chi mi procurava sofferenza… e stavo attaccando me stessa… allora ciò che mi faceva soffrire ero solamente io.
In ogni modo, da quel giorno, per quanto anche questo aumentasse il mio livello di depressione, iniziai a non ascoltare più i consigli degli altri e a chiudermi ancora di più in me stessa. Non facevo più niente che mi veniva consigliato, tanto sapevo che ogni tre mesi sarebbero arrivati a fare il controllo degli assistenti sociali, che avrebbero visto le  mie condizioni e mi avrebbero portato in un orfanotrofio. Ma... volevo davvero andare in un orfanotrofio? Oh, credevo che la mia felicità dipendesse dalla lontananza dall’ospedale, quando per essere felice avrei soltanto dovuto accettare di non avere più un paio di gambe e di essere ciò che ero.
Passai in quelle condizioni altri quattro mesi, sfortunatamente i sevizi sociali rovinarono i miei piani, ritardando la loro visita; ed io, in quelle condizioni, stavo letteralmente diventando pazza... facevo finta di prendere i medicinali che mi davano i dottori, tenevo il pugno stretto con dentro le pasticche e fingevo di averle messe in bocca o le nascondevo sotto la lingua, per poi buttarle. Era diventata una stupidissima sfida fra me e i dottori, ma l’unica interessata a giocare ero io.
E se avessi vinto, avrei perso tutto.
Finalmente arrivarono, esattamente dopo un anno e quattro mesi dal mio risveglio, i servizi sociali ed entrammo in una stanza per il colloquio. Non avrei sopportato altri otto mesi.
-Allora, Matilde... come sta andando qui?-  Furono le prime parole della sorridente signora davanti a me, non appena richiuse la porta della camera dietro di sé
-Molto male- risposi senza alzare lo sguardo
-Il dottore mi ha detto che ti sei comportata in modo molto strano... vuoi parlarne?-
-Non collaborerò più con i dottori finché non uscirò- risposi bruscamente, tenendo lo sguardo fisso a terra
-Cosa? Vedi, ma questo è sbagliato, tu sei...-
-Ho preso questa decisione- ribadii fissandola con occhi di fuoco
-Sei minorenne e...-
-Niente è ufficiale, per lo stato io non esisto. Lo dice lei che sono minorenne, la mia data di nascita non è registrata in alcun luogo e nessuno mi ha riconosciuto-
-Va bene- rispose un po’ sconvolta -Ora, però, vorrei fare un giochetto e...-
-Basta con questi stupidi giochetti!- urlai, buttando in terra il suo blocchetto -Non sono una bambina e non sono stupida! Tantomeno malata! Nessun giochetto, voglio andarmene e basta!-
-Ma tu sei malata, noi non possiamo...-
-Qui sarà sempre peggio, volete capirlo?- urlai ancora, a spiegandole i motivi per i quali me ne sarei dovuta andare da quell’ospedale, ma la donna, spaventata, chiamò un infermiere, che subito mi prese e mi portò via dalla stanza, mentre continuavo a pregarla di ascoltarmi, dimenandomi ormai quasi priva di speranze. E le ultime parole che sentii dai servizi sociali furono dure, secche e taglienti:
-Due anni è il massimo di tempo che si può tenere una persona in questo centro... e due anni sarà il tempo che tu, come il resto delle persone, starai qui dentro. Ci vediamo fra otto mesi-
Ecco, avevo perso la mia unica occasione. Non c’era più niente da fare. Ancora quasi un anno. Non credevo che ce l’avrei fatta. Ed ogni giorno si ripetevo le stesse azioni, non cambiava mai niente. Niente. Io stavo sempre peggio, chiudendomi in me stessa, ma ormai non lo facevo più per essere portata via, ma solo perché avevo paura, ero impazzita e il mio cervello non c’era più... e i dottori non sapevano come fare, non li ascoltavo neppure.
Di questo anno non posso descrivere neanche un giorno perché non successe niente di speciale; e non ricordai niente. Al centro ricreativo facevo dei disegni diversi dalle altre persone; vortici neri e scarabocchi macabri e tristi. E non mi impegnavo in niente, come se non avessi neppure un destino... mi ero annientata da sola e non me ne ero neanche resa conto.
Arrivai alla fine di quei due anni, forse i peggiori della mia vita, con le occhiaie, i capelli unti e gli occhi spenti. Non contavo neppure più i giorni e quando mi dissero che sarei uscita non detti neanche un segno di gioia... io non c’ero più.
Ero distrutta, morta dentro. Ricordo a malapena le ultima parole del dottore, a cui tanto mi ero legata inizialmente:
-Matilde, cerca di risvegliarti... devi collaborare, devi farcela. Tu vali, tu meriti di avere una vita- lo fissai mentre mi allontanavo, senza un minimo accenno a qualsiasi tipo di espressione. I miei occhi neri lo guardarono per qualche secondo, le mie labbra tremarono ma non pronunciarono alcuna parola. E iniziai a camminare nel lungo corridoio bianco e grigio, dando le spalle al dottore e a tutto il resto, fissando il pavimento.
E me ne andai, purtroppo dando un così triste saluto a quell’uomo tanto buono. Me ne andai... non era quello che avevo sempre voluto? No. Non mi sembrava più così speciale.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 5 ***


Ebbi una terribile paura di aprire gli occhi, quindi li tenni chiusi prima ancora di aprire il portone; la donna dei servizi sociali aprì il grande cancello e sentii un caldo assurdo invadermi, bruciarmi la pelle, sentii un vento morbido e dolce sfiorarmi i capelli... provai sensazioni mai provate prima. Uscire nel cortiletto dell’ospedale era del tutto diverso. Non potei godermi niente, però… mi sentivo chiusa in una camera senza porte e senza finestre, intrappolata in una gabbia, in una ragnatela che io stessa avevo creato… dovunque andassi, sbattevo contro le pareti... dovunque andassi, rimanevo bloccata. Neppure la mia tanto agognata uscita dall’ospedale riuscì a rendermi felice.
Feci tutto il viaggio ad occhi chiusi e finalmente entrai nell’orfanotrofio, dove magicamente iniziai a riprendermi e per un attimo pensai che il dottore si fosse sbagliato: io stavo bene, il mio vero problema era l’ospedale, non io. Ma purtroppo non era così e quello stato di felicità momentaneo avrebbe dovuto preoccuparmi. Solo preoccuparmi. Mi ripresi solo per il fatto che mi ero convinta che l’ospedale fosse la causa del mio disagio, ma ben presto avrei compreso tutte le parole del dottore.
Rimasi all’Orfanotrofio Santa Maria, a Milano, da dicembre, mese nel quale uscii dall’ospedale, ad aprile, quando compii diciannove anni.
Mi ero ricordata la mia data di nascita, ovvero il dodici Aprile, appunto. All’orfanotrofio riuscii a ricostruire la mia situazione e a chiarire un po’ i miei dubbi: ero stata trovata a Marzo a sedici anni, ero nata nel 1983. Durante il coma avevo compiuto i diciassette, poiché ne ero uscita a giungo.
A diciotto anni, a Dicembre, mi ero allontanata per sempre dai muri tristi dall’ospedale di Trento: quindi ne avevo compiuti diciannove in orfanotrofio. In pratica, erano passati due anni da quando ero stata ritrovata.
Ricordo il momento in cui con la macchina dei servizi sociali varcai il cancello dell’orfanotrofio Santa Maria... c’era un grandissimo prato e molti ragazzi di età diverse stavano giocando a calcio; alla vista di una macchina, che per loro stava a significare un nuovo arrivato, si precipitarono addosso a me e iniziarono ad urlare colpendo i finestrini; inizialmente quella situazione mi dette estremamente fastidio, ma appena uscii dalla portiera cambiai idea... ero uscita dall’ospedale, ero libera. In fondo, cosa volevo di più? Ero una ragazza come tutte le altre, non avevo bisogno di rubare la vita a qualcuno perché sapevo che ne avrei ricostruito una del tutto mia. Mia. Da quanto tempo non avevo qualcosa che fosse mio? Beh, non forse l’avevo mai avuto, e l’idea di conoscere persone sole come me mi confortava, rendendomi finalmente capace di aprire gli occhi e di farmi forza. Fu proprio per questo motivo che feci amicizia con molti altri ragazzi... nessuno di loro aveva una famiglia, nessuno di loro era più fortunato di me ed era una bellissima sensazione avere la consapevolezza di appartenere ad un mondo del quale facevo assolutamente parte.
Lo psicologo dell’orfanotrofio si chiamava Marco Bester e devo dire che mi legai molto a lui, per quanto mi fece capire il vuoto che, in fondo, sapevo che il dottor Bianchi avrebbe sempre lasciato in me. Avevo una camera da sola, in modo che potessi avere il mio spazio per pensare, sfogarmi e rilassarmi, ma nel pomeriggio c’erano lezioni interessanti, gite e giochi di gruppo... stavo davvero imparando ad amare la vita, a divertirmi e a godermi le piccole cose. Imparai anche a fare alcuni sport con la carrozzina e mi resi conto di quanto quella limitazione non mi impedisse tuttavia di vivere una vita normale; potevo sempre fare ciò che volevo; c’era un’infermiera di nome Laila che mi aiutava per qualsiasi cosa, ma non credevo più che chiedere aiuto e non essere del tutto indipendente potesse essere un problema... in fondo mi piaceva stare con lei, in fondo avevo davvero trovato la forza necessaria per andare avanti, nonostante tutti gli ostacoli che avevo incontrato nel giro di due anni.
Certo, non sapevo ancora chi fosse la persona che vedevo riflessa nel mio specchio, ma non mi importava più... stavo ricostruendo una vera me, con i propri interessi, le proprie passioni e la propria personalità... di chi fossi prima del ventun marzo del duemila non mi interessava; quella era un’altra persona e la sua storia non mi riguardava.
La cosa più bella che ricordo, che fu uno dei momenti più incredibili della mia vita, avvenne quando una mattina mi svegliai con una strana sensazione alla gamba destra. A quanto ricordo, fu davvero qualcosa di incredibile riprendere un po’ di sensibilità, così, appena me ne accorsi, urlai con tutta la mia voce e Laila, che dormiva nella stanza accanto, si precipitò da me, vedendomi piangere davanti a ciò che avevo appena scoperto: il ginocchio non era più bloccato, potevo muoverlo! Scoppiai subito a piangere e ad urlare di gioia, i dottori mi fecero una visita al più presto mi dissero che in un paio di mesi forse avrei potuto riprendere l’uso delle gambe... e così successe. Da un momento all’altro, mi ritrovai in piedi.
Una mattina mi svegliai stirando le gambe... così, di colpo, senza che neppure fossi preparata a quell’avvenimento da me tanto atteso. Appena capii, sentii la voglia di urlare, ma inizialmente non ci riuscii, non trovai la voce e neppure la forza per pronunciare quelle parole: potevo camminare! Tentai di alzarmi, avrei voluto correre, il cuore mi batteva a mille, ma non sapevo come muovermi e caddi in terra non appena alzai le gambe dal letto. Che strana sensazione... mi sentivo alta, alta e potente!
Appena, con l’aiuto dei fisioterapisti, imparai ad usare le gambe, iniziai a correre nell’immerso cortile senza riuscire a smettere, ogni giorno durante il tempo libero... quanto ero veloce! Quanta forza si era nascosta dietro quelle povere gambe graffiate! Il fatto che avessi ripreso l’uso delle gambe fu il motivo principale della mia gioia in quel periodo; mi ero anche dimenticata del mio passato, del trauma e di tutto il resto e questo atteggiamento spaventava un po’ chi si occupava di me all’orfanotrofio, ma io ero troppo felice per occuparmi di ciò che pensavano gli altri!
E in questo splendido periodo fin troppo ricco di positività, ad Aprile, dopo aver compiuto diciannove anni, mi accadde qualcosa di davvero molto importante, ed ebbi una notizia che stavo aspettando da moltissimo tempo e che, sinceramente, non pensavo sarebbe mai potuta arrivare.
Appena sveglia mi vennero a chiamare, dicendo che la direttrice aveva chiesto di parlarmi quella mattina e che, di conseguenza, non avrei frequentato le mie lezioni... ebbi un presentimento, mi passò per la testa l’idea che qualcuno avesse potuto chiedere la mia adozione, ma non dissi niente per paura di illudermi su qualcosa che sarebbe stato semplicemente uno dei miei tanti sogni.
Tutti i ragazzi dell’orfanotrofio iniziarono a starmi intorno, formulando ipotesi e chiedendo informazioni, ma io ero troppo in ansia per curarmi di loro: e se la mia vera famiglia fosse venuta a riperdermi? Non sarei stata pronta di affrontare qualcosa di così forte, ero riuscita ad allontanare il mio pensiero dal passato e non volevo tornare a soffrire. Arrivarono le dieci, ora in cui sapevo che avrei dovuto varcare la soglia della porta della direzione del “Santa Maria”. Feci il lungo corridoio per arrivare a quella stanza con il cuore in gola, assolutamente preoccupata da chi avrei potuto vedere lì dentro, ma fortunatamente c’era solo la direttrice, che, appena si accorse di me, mi sorrise con gentilezza e mi invitò a sedermi:
-Buongiorno, Matilde, accomodati pure-
-Grazie...- dissi leggermente imbarazzata, prendendo posto sulla grande poltrona di pelle color nocciola, davanti alla scrivania -Non mi aspettavo di dover venire, signora-
-Infatti è stato qualcosa di piuttosto improvviso e ho seriamente bisogno di parlarti- disse con un tono che sembrava volesse preannunciare una specie di discorso impegnato o, comunque, molto importante, tenendomi ancora di più sulle spine. Io le mostrai un’espressione dubbiosa e confusa, così sospirò e si avvicinò di più a me, diminuendo l’inclinazione dello schienale della sedia:
-Vedi, si tratta della tua permanenza qui...- di nuovo non risposi, quella frase mi fece accapponare la pelle perché iniziai a pensare che per qualche motivo avrebbero dovuto spostarmi di sede e non lo avrei mai accettato, ormai avevo trovato un po’ di felicità e non volevo tornare ad avere alcun tipo di problema. Dunque la direttrice continuò a parlare con tono piuttosto grave -Sei cambiata molto nel giro di questi ultimi mesi, come sai bene; sei uscita da quell’ospedale con la convinzione che non avresti più ritrovato te stessa, mentre qui ti sei subito sentita meglio... quali sono le tue deduzioni su questo cambiamento radicale?-
-Scusi, ma non riesco davvero a capire il fulcro di questa conversazione, signora... cosa c’entrano gli anni che ho passato all’ospedale con quello che succede ora?-
-Vedi, Matilde, abbiamo avuto un piccolo problema tecnico. Quando una persona viene portata in un orfanotrofio ci vuole, come immagino tu sappia già, qualcuno a farne le veci che firmi e parli della situazione del ragazzo o della ragazza in questione. Nel tuo caso, sappiamo che sei maggiorenne ma non c’è niente a provarlo, quindi avevamo bisogno di qualcuno che presentasse la richiesta all’orfanotrofio...-
-Continuo a non capire... credevo che i servizi sociali facessero le veci dei miei genitori, credevo che avessero firmato loro...-
-Certo, non ho detto questo. I servizi sociali hanno presentato la richiesta dicendoci che avrebbero mandato una lettera con tutte le informazioni necessarie su di te. Di persona, ciò che mi hanno detto è che sei stata in riabilitazione da un coma per due anni... trovi che quest’informazione sia giusta?- chiese continuando a spaventarmi, con tono quasi di rimprovero. Io annuii debolmente, lei mise gli occhi sul foglio di carta che aveva davanti e scosse la testa, così decisi di aggiungere:
-Quello che ha detto è del tutto corretto, sono stati due anni di riabilitazione dopo quattro mesi di coma... mi sono svegliata senza ricordare nulla del mio passato e sono stata ritrovata il ventun marzo del...-
-Sì, sì, di questo sapevamo già... ma il fatto è che ciò che mi dici è davvero incompleto, non è abbastanza-
-La prego, si spieghi meglio...- chiesi con voce tremante. Avevo capito ciò che voleva sapere, ma non volevo assolutamente ammetterlo
-Come sono stati quei due anni all’ospedale?- mi spiazzò del tutto con questa domanda; iniziai a scuotere la testa nel panico, senza sapere come rispondere. Balbettai finché non mi fermò nuovamente:
-Forse dovresti sapere che, per motivi tecnici, non abbiamo mai ricevuto quella lettera dei servizi sociali, ma c’è stato un avvenimento nel tuo dormitorio che mi ha spinto a prendere una decisione importante, davvero importante-
-Sono nei guai, per caso?- chiesi terrorizzata, sentendo il cuore battere più velocemente che mai. In realtà, sapevo di non aver fatto niente di male, ma rimaneva la paura. Ma fu proprio in quel momento che ebbi un presentimento, che pensai a qualcosa che forse non avrei dovuto fare: avevo parlato ad un paio di ragazze della mia depressione e delle tendenze suicide che avevo avuto... avevo un piccolo segreto con me, ovvero delle pillole che avevo preso all’ospedale. Non sapevo cosa fossero, ma ero convinta che sarei potuta morire con quelle, poiché uno dei dottori me ne aveva parlato una volta. Le avevo rubate dall’ospedale insieme ad altri farmaci estremamente malsani che usavo di mia volontà durante i momenti più forti di depressione. Ecco perché peggioravo, quello era uno dei principali motivi. Ma nessuno lo sapeva, era il mio piccolo segreto; avevo tenuto tutto nascosto nel cassetto della biancheria, in orfanotrofio, pensando che potesse servire, ma in realtà mi ero trovata bene e non li avevo neppure toccati. Ebbi la terribile idea che si trattasse di quello, poiché ne avevo parlato accidentalmente con delle ragazze, appunto, pensando che ormai fosse un argomento del tutto passato. Tuttavia, ascoltai con calma le parole della direttrice, che purtroppo confermarono il mio presentimento:
-Credi che ci siano motivi precisi che ti hanno portato a peggiorare all’ospedale?- scossi la testa, decidendo che fingere sarebbe stata la cosa migliore... dovevo negare, ecco tutto
-Nei sei certa? Non hai mai usato farmaci sconsigliati dai dottori? Magari in grande quantità?-
-No, gliel’assicuro!- cercai di difendermi, smascherando la mia ansia con lo sguardo angosciato e la voce tremante. La direttrice fece un’altra pausa, dopodiché, con lo stesso tono serio e preoccupante, andò avanti col suo discorso:
-Proprio ieri ci è arrivata la lettera dell’ospedale dal quale sei uscita e quella dei servizi sociali; come ho già detto, avremmo dovuto riceverla quattro mesi fa, ma purtroppo c’è stato un problema tecnico con la posta e la lettera è stata ritrovata solo la scorsa settimana. Dal resoconto dei dottori, risulta una diagnosi di depressione, anoressia, sintomi di autismo e...-
-La smetta- pronunciai quella parole con tono fermo, serrando gli occhi e chiudendo i pugni saldamente. Non ero guarita, avevo solo cercato di cambiare argomento... ma tornare a parlare di quegli avvenimenti era per me come prendere una coltellata allo stomaco
-Quando sei arrivata qui sembravi distrutta, ma in un paio di giorni hai stampato un bel sorriso sulle labbra. Hai studiato senza alcun problema, con lo psicologo hai lavorato con tranquillità e ti sei dimostrata socievole... insomma, niente sembrava fuori posto con te...-
-L’anno scorso... è l’anno scorso, ecco tutto. Ciò che ero in ospedale non è ciò che sono qui- conclusi con freddezza -Due anni fa non ero nemmeno una persona-
-Perché non hai mai parlato al il dottor Bester di questi tuoi problemi?-
-Non credevo ce ne fosse bisogno...-
-Ti prego, spiegami meglio quello che intendi-
-Non pensavo che potesse esserci il bisogno di parlare di qualcosa che è ormai un capitolo chiuso della mia vita!-
-Sicura che sia del tutto chiuso?- annuii e la direttrice sembrò non essere d’accordo, così mi passò una cartella bianca:
-Che cos’è?- mi informai, aprendola
-I disegni che facevi al centro ricreativo, all’ospedale, Matilde... dai un’occhiata- appena disse quelle parole, mi fermai e la fissai negli occhi, dopodiché richiusi la cartelle, senza neppure interessarmi di cosa ci fosse dentro e la posai sulla scrivania
-Non vuoi vedere i tuoi disegni?- mi incitò, lanciando un occhiata alla cartella che avevo lasciato sulla scrivania
-Li ho fatti io, perché dovrei guardarli?-
-Perché si rilegge un tema dopo averlo scritto? Per controllare gli errori e correggerli... dai un’occhiata- mi porse nuovamente la cartellina, così la aprii e non rimasi più di tanto sconvolta da ciò che vidi. Saranno stati una centinaia di fogli scarabocchiati in nero. La direttrice con sguardo preoccupato iniziò a sfogliarli:
-Che cosa significa questo?-
-Sono solo disegni...-
-Sono tutti uguali se non mi sbaglio... perché tutto questo nero? Pensi che si trattasse della tua vita?-
-Sono... solo... disegni!- urlai di colpo, scaraventandoli in terra -E lei non ha il diritto di cercare fra la mia roba, quelle sono cose mie, sono private!- La direttrice mi fissò sconvolta, probabilmente senza trovare il coraggio per fermarmi, così cambiò argomento:
-Due bambine sono venute a parlarmi piangendo ieri sera, mi hanno detto di essere molto spaventate-
-Chi?- dissi tentando di nascondere la mia ormai palese consapevolezza
-Questo non ti riguarda, in realtà. Comunque, quello che devi sapere è che girano voci di certe pasticche che usi senza alcun senso, cercando di arrivare alla morte...-
-Cosa? Questo non è vero! Come lei vede, io sto benissimo, non sono sottopeso e non ho mai preso stupide pasticche come...-
-Come queste?- disse tirando fuori da uno dei cassetti cinque contenitori di pillole... non potevo credere che quelle due bambine avessero parlato. Per una volta che tutto era andato bene, avevano rovinato subito ogni cosa... ma in realtà non volevo accettare il fatto che fosse stata proprio la mia sciocchezza a rovinare tutto... i miei assidui errori; è vero, con quelle pasticche non avevo più a che fare, ma rimaneva il fatto ce ne avevo avuto, quindi non avevo scuse:
-Come le ha avute?-
-Erano nel tuo cassetto. Allora? Hai da dire qualcosa a proposito? Hai intenzione di negare?- mi interrogò con i suoi occhi severi, dallo sguardo di ghiaccio
-No, no, non potrei mentire a questo punto. Ammetto che usavo quelle pillole. Ero talmente triste all’ospedale che ebbi l’idea di prendere delle pillole a caso... notai che mi facevano stare male in grandi quantità, ma mi portavano quasi in un mondo tutto mio, nel quale potevo essere felice. Di notte trovavo sempre il modo di prenderne alcune; so quanto tutto questo risulti inquietante, ma vi assicuro che non ho ingerito nemmeno una pillola da quando sono entrata qui... neppure una, sono sincera. Le portai con me perché non vedevo un barlume di luce nella mia vita, ma le cose sono cambiate, glielo assicuro! La prego, potrà verificare, le butti e si renderà conto che posso vivere senza e che ora sto davvero bene-
Ecco come riuscii a salvarmi dalla minaccia di essere riportata all’ospedale, quel giorno. Mi credettero... d’altronde, non avevo l’aspetto di una persona malata e tantomeno il modo di fare di una depressa. Mi fecero fare delle visite mediche, come se nulla fosse accaduto, e qualche settimana dopo mi dettero la meravigliosa notizia che avevo aspettato da tanto: avevo una richiesta di adozione. Non si fidavano, ancora non si fidavano completamente di me e mi dissero di aver parlato a lungo con la nuova famiglia, che avrei avuto sedute quasi ogni giorno e che sarei stata severamente controllata dai miei nuovi genitori.
Ma a me non interessava, perché sapevo di essere finalmente pulita. E, lo ricordo ancora, iniziai a piangere dalla gioia e abbracciai la direttrice, il dottor Bester e tutti quanti... avevo rischiato di tornare in basso, ma alla fine era andato tutto per il meglio. Tutto stava andando in fretta, troppo in fretta. Il giorno seguente avrei incontrato la mia famiglia e ricordo che quella notte non riuscii a dormire, sia per l’eccitazione che per la paura e, forse, per la consapevolezza di quanto fosse importante ciò a cui sarei andata incontro: una vita. Quella parola mi faceva venire i brividi. Le persone che avrei visto sarebbero state quelle che mi avrebbero guidato a ricostruire me stessa e l’importanza di quello che mi stava accadendo era davvero troppa per me.
Infatti quando, la mattina dopo, vidi i loro visi saltai dalla gioia: erano persone carine e simpatiche con le quali mi sarei trovata benissimo, ma ancora non sapevo che le due figlie maggiori della mia nuova famiglia non erano per me complete sconosciute: Luisa e Viola, le ragazze che mi avevano salvato la vita e alle quali dovevo tutto, avevano chiesto ai genitori di adottarmi. Quando lo seppi le lacrime iniziarono a straripare da quegli occhi che avevano sofferto tanto e le abbracciai come se ci fossimo sempre conosciute, ringraziandole per quanto fossero state coraggiose...  e per la prima volta, mi sentivo come se in un certo modo davvero appartenessi a qualcosa, finalmente ero qualcuno, una persona normale con sulle spalle la responsabilità di una vita. Ed io... ah, io mi sentivo pronta a reggere tutto quel peso, ero davvero certa di essere miracolosamente cambiata in pochi mesi. Ecco perché la mia gioia era immensa: nonostante nessuno si fidasse del tutto di me, a causa della storia delle pasticche, avevo finalmente una famiglia, delle persone che avevano deciso di aiutarmi e di prendersi cura di me. E almeno a qualcuno al mondo interessavo
Mi portarono a casa loro a Milano e quello fu un momento meraviglioso ed indescrivibile, perché l’idea di uscire dai muri dell’ospedale e dell’orfanotrofio era per me un sogno, un desiderio che avevo bramato fin da quando mi ero risvegliata. Inoltre, d’accordo con l’orfanotrofio, mi pagarono anche un intervento per eliminare i tatuaggi... purtroppo rimanevano le cicatrici, ma si schiarirono col tempo... non ero più così orribile. La schiena e le gambe erano ancora visibilmente rovinate dalle cicatrici, ma non era più così tragico; sapevo che avrei dovuto convivere con quei segni e rimuoverli del tutto sarebbe stato impossibile. Il viso stava molto bene, col tempo i graffi erano spariti e non erano rimaste cicatrici, quindi a prima vista non ero diversa da tutte le ragazze felici che vedevo in giro... ero proprio come loro, viva e felice di esserlo: ed era come se il mio triste passato fosse stato sopraffatto da una nuova positività. Credevo che fosse tutto a posto... beh, credevo.
Avevo ciò che volevo, no? Una famiglia, due gambe, la vista da entrambi gli occhi, un’età e non più tatuaggi che mi ricordassero brutti eventi... semplice. Tutto era risolto.
No. No, no... non era affatto così ed io non ero affatto cambiata: ero la solita triste, vuota, consumata ragazza dell’anno precedente... l’avrei a breve riscoperto. E, mentre pensavo che un nome e dei finiti genitori fossero abbastanza, dimenticavo un piccolo particolare irrisolto... da dove ero saltata fuori? Che mi era successo quel famoso ventun marzo del 2000?
Ma soprattutto, dimenticavo la martellante, orribile domanda: chi era la sconosciuta riflessa nel mio specchio?

 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 6 ***


Uno dei punti cruciali della mia “nuova vita” era il mio forse inspiegabile odio verso la città dove viveva la mia nuova famiglia, ovvero Milano. Con il mio nuovo psicologo parlavo soprattutto di quanto mi trovassi male là, dove ero costretta ad orientarmi in luoghi troppo grandi per una ragazza che aveva  bisogno di fare amicizia e di integrarsi dopo un grave trauma subito. Avevo cominciato ad uscire, ogni tanto e a visitare la città, ma mi spaventava qualsiasi cosa e cercavo sempre di ritardare il momento della “passeggiata” o delle gite anche all’orfanotrofio, poiché non ero ancora pronta a ritornare a vivere alla normalità in una grande città come Milano.
Non ero minimamente curiosa o spaventata dal mio passato e questo era il fatto che metteva più dubbi nella testa dei dottori; dicevano continuamente che si trattava di rifiuto dei ricordi, ma io non volevo neppure affrontare il problema. Nella mia testa ero tornata a vivere, e tutto era meraviglioso e incredibile… non mi rendevo conto di quanto questo tipo di comportamento mi avrebbe  fatto del male.
Tuttavia nel frattempo, grazie agli aiuti dell’orfanotrofio, avevo imparato a leggere, scrivere e fare calcoli matematici ed iniziavo ad assomigliare di più, da un punto di vista celebrale, ai ragazzi della mia età, sebbene mi mancassero tante conoscenze in diversi campi. Infatti era come se il mio sviluppo mentale si fosse bloccato ad un’età intorno agli otto anni; ero molto infantile, ma tuttavia propensa al miglioramento e mi impegnavo per cimentarmi in nuove discipline e nuovi argomenti. Daniele ed Alessia, i miei genitori adottivi, erano persone fantastiche e non avrei potuto chiedere di meglio; senza il loro appoggio, avrei avuto assolutamente molte più difficoltà, perché la mia situazione era incredibilmente delicata e necessitavo di molta pazienza e comprensione da parte di chi si prendeva cura di me. Purtroppo non ebbi abbastanza tempo per godere della loro personalità e del rapporto fra noi, a causa del breve periodo che passai con loro. Erano entrambi persone molto calme e buone, giovani e pronte ad aiutarmi in qualsiasi occasione, qualora avessi difficoltà. Strinsi un bel rapporto soprattutto con Alessia, poiché, essendo una donna, mi comprendeva maggiormente e sapeva darmi tutto ciò di cui avevo bisogno; era molto orgogliosa e voleva che tutti avessero di lei la migliore delle opinioni, ma non aveva difficoltà a farsi rispettare e in pochissimo tempo riuscì a darmi un’idea generale sul tipo di rapporto che avrei dovuto avere con le persone, per cui avevo imparato ad essere sempre molto educata e gentile con tutti.
Sarebbe stato impossibile riconoscermi nella persona che ero stata solamente due anni prima... e ciò era davvero troppo strano e avrebbe dovuto mettermi in guardia. Il fatto che stessi ergendo un palazzo senza fondamenta non era sicuramente qualcosa di positivo. Tutto le persone hanno una storia e l’idea di non averne bisogno era solo una corazza, un muro difensivo contro le incertezze che sapevo di avere, nascoste dietro a tanti falsi e ingigantiti sorrisi.
Daniele ed Alessia, in ogni modo, sapevano la delicatezza e la fragilità del caso che avevano fra le mani. La mia situazione non era sicuramente semplice e all’orfanotrofio avevano passato ore e ore a parlare con i dottori, sperando di capire il modo in cui si sarebbero dovuti comportare con un caso complesso come il mio. Eppure, fin dal primo giorno, tutto sembrò andare benissimo con me... talmente bene da superare qualsiasi aspettativa dei dottori, che rimanevano sconvolti davanti alla maturità che ogni giorno dimostravo. Vedendo le cose dal mio punto di vista, non ho una vera e propria spiegazione di quel mio comportamento: vivevo a cento all’ora, ecco qualcosa di psicologicamente tanto complesso semplicemente riassunto in un espressione. Non mi soffermavo più a pensare e appena affioravano una debolezza o un’incertezza cercavo di eliminarle... per paura di affrontarle. In fondo, la guerra quotidiana di un uomo è trovare il coraggio di avere paura... ed io non ne avevo abbastanza, a quanto pare. Anzi, ne avevo così poco da mentire a me stessa, fingendomi felice, mentre ero molto più vuota di quanto lo fossi all’ospedale, dove non facevo altro che attaccarmi.
In ogni modo nel periodo di tempo che passai con quella famiglia, per quanto non duraturo, strinsi un rapporto speciale soprattutto con Luisa, forse proprio per il fatto che la sentivo vicina, dato quello che avevano fatto per me. Le cose all’inizio andavano piuttosto bene, in realtà, ma le complicazioni non tardarono a farsi sentire e vedere e spesso ciò di cui avevo bisogno era qualcuno di vicino, di familiare... chi sarebbe potuto esserlo più delle due persone che mi avevano salvato la vita? Il rapporto che avevo con Viola era però del tutto diverso da quello che avevo fin dall’inizio instaurato con Luisa e credo che ciò fosse legato al fatto che mi sentissi così simile a quest’ultima. Viola era quel tipo di ragazza praticamente perfetta che si potrebbe definire con la parola “speciale”; buona, dolce, solare, intelligente, interessante e divertente erano solo alcune delle sue più grandi caratteristiche e personalmente non avrei potuto trovarle un difetto, cosa che già la rendeva ai miei occhi fin troppo lontana e diversa da me e dalla mia situazione instabile.
Per Luisa invece provavo un affetto molto più profondo, perché lei aveva avuto tanti problemi e tante difficoltà, non proprio una vita da invidiare. Suo padre biologico era un drogato di strada e aveva sempre picchiato e maltrattato madre e figlia con grandissima crudeltà, tanto che a Luisa era rimasto l’incubo di questa terribile e buia figura paterna; era fuggita con la madre a soli quattro anni, ma la donna, consapevole di non essere al sicuro e di non poter garantire una vita alla figlia, nell’orlo della disperazione l’aveva abbandonata in un ristorante. E Luisa non avrebbe mai, mai dimenticato il terrore che provò ritrovatasi da sola, in mezzo a visi sconosciuti e spaventosi. Fortunatamente era stata adottata da Alessia e Daniele, che le avevano dato una vita splendida e tutto quell’amore che le era sempre stato negato: e per questo gesto quelle due persone rimarranno sempre i miei eroi.
Luisa non era tuttavia mai riuscita a superare il trauma subito da piccola e dopo vent’anni ancora piangeva la notte e pregava perché potesse un giorno rincontrare la madre: “la perdonerei, lo giuro” mi diceva sempre con le lacrime agli occhi. E io la capivo, perché sapevo cosa significasse voler tornare indietro nel tempo, desiderare di poter cambiare le cose. Ma, nonostante tutto, era ancora in piedi, forte come un uragano.
E volevo diventare come lei, in futuro. L’avevo promesso a me stessa. A volte, quando andavo a Lucca, dove viveva, come Viola, con i suoi tre bambini, a farle visita, dormivo con lei e piangevamo insieme, tutta la notte, perché non volevo farla sentire sola. E perché anche io avevo bisogno di piangere, tanto bisogno di sfogare tutta quella rabbia che avevo dentro, e che alla luce del sole reprimevo con violenza.
In Luisa vedevo qualcosa di me, come se in fondo le nostre storie non fossero poi così diverse: lei si sentiva spaccata a metà, proprio come me, e io la ammiravo e la amavo per il fatto che non si fosse lasciata buttare giù da niente.
Tuttavia, viaggiando fra Lucca, in Toscana, e Milano, fra pianti e risate, il tempo passava e i progressi non mancavano sia nella mia personalità che nel modo in cui avevo imparato a vedere le cose, sebbene i problemi fossero ancora molti e sebbene questo momento così positivo non sarebbe stato assolutamente duraturo: avevo imparato, ad esempio, il gusto per il cibo, che non ero mai riuscita ad apprezzare. Fin dai primi giorni all’ospedale di Trento avevo lottato con una forma piuttosto grave di anoressia ed ogni giorno mi ero vista più magra, più scarna... più brutta e spaventosa. Ero cambiata, ero cambiata davvero molto. Ricordavo ancora il primo giorno in cui mi ero guardata allo specchio, la prima volta in cui avevo visto il mio viso e il mio corpo... non avevo un aspetto terribile, ma soltanto sconvolto da tutto quello che mi era successo fino a quel momento. Però, purtroppo, da quando ero caduta in depressione avevo iniziato ad odiare l’idea di avere io stessa un corpo e un’immagine e mi ero sentita come se non esistessi; ecco perché avevo cercato assiduamente e continuamente di conformare il mio aspetto fisico a ciò che pensavo di me. Da quando avevo varcato la porta dell’orfanotrofio, invece, ero sbocciata come un piccola rosa fresca e ciò che di buio e nero era in me, sembrava totalmente scomparso ed ero assolutamente migliorata nel corso del tempo, arrivando al momento di massima tranquillità proprio a Lucca.
Una notte in particolare, prima di andare a letto, decisi di chiudere la porta della mia nuova camera a chiave per pensare, per rimanere sola con quella nuova personalità che stavo cercando di creare e con quel nuovo ottimismo che era nato in me. Ero uscita da poco dall’orfanotrofio e non da molto avevo iniziato a costruirmi una vita, o almeno a tentare di fare ciò, quindi per me era tutto ancora una sorpresa e una novità. Mi fermai, immobile, davanti a un lungo specchio e mi sforzai di ricordare quell’immagine triste che avevo visto tante volte davanti allo specchio: le cose erano cambiate. Guardavo l’immagine riflessa nello specchio e vedevo finalmente qualcosa.
Oh, sì, vedevo una persona davanti a me! Con un piccolo sorriso intenerito passai i polpastrelli sulla pelle liscia e dolcemente arrossata del viso e con una piccola risata premetti sulle guance... erano morbide. Non ero abituata a quella sensazione, non ero molto abituata ad essere soddisfatta, in qualche modo, del mio corpo, o ad apprezzare una qualsiasi mia caratteristica.
Passai lo sguardo sulla mia figura finalmente non più sotto peso e sorrisi fiera e soddisfatta di quello che ero riuscita ad ottenere. Misi le mani sui fianchi e paragonai quella sensazione tattile a quella che provavo all’ospedale, quelle poche volte che per sbaglio avevo urtato una qualsiasi parte del mio corpo... non avevo sentito altro che dura ossa. Sorrisi con piacere appena premetti sui fianchi, finalmente non più così spiacevoli... iniziavo ad apprezzare il mio aspetto e il progresso che stavo velocemente facendo.
I miei occhi erano estremamente luminosi e, con un dolce color castano chiaro, sfumato leggermente sul verde, brillavano ogni volta che avevo il piacere di osservare la luce del sole. Avevo sistemato i capelli che, lunghi più che a metà della schiena, ricadevano morbidamente come una grande cascata... a volte li sfioravo e non potevo smettere di sorridere: mi sentivo bene, ecco la verità. Mi piacevo ed ero soddisfatta di ciò che ero diventata. E inoltre, finalmente iniziavo a disegnarmi un carattere, iniziavo a costruirmi un piccolo castello tutto mio, che ogni giorno riempivo di idee, opinioni, paure, scopi e sogni... ed era una sensazione bellissima rendersi conto di avere quella tanto agognata capacità di giudizio.
Dopo soli due anni dal mio traumatico risveglio in ospedale mi ero ripresa e cominciavo a sentirmi ogni giorno più desiderosa di tornare alla vita. E finalmente credevo di essere pronta per spiegare le ali, per tornare a vivere davvero, per entrare nella mischia e confondermi con il resto della gente.
Milano tuttavia era grande e confusionaria e avevo difficoltà anche solo a camminare per strada; quando mi allontanai dall’orfanotrofio per la prima volta con il mio psicologo ebbi un’orribile reazione al traffico e alla confusione della città. Le macchine erano rumorose, le persone urlavano e comminavano frettolosamente, senza salutare. Le bici passavano velocemente sul marciapiede e bisognava stare attenti per non essere schiacciati! La prima volta che feci il tragitto a piedi dall’orfanotrofio, dove vedevo di pomeriggio il dottor Bester, alla mia nuova casa, mi misi a piangere, lasciandomi ricadere terrorizzata su una panchina… forse non avrebbero dovuto lasciarmi da sola in una città del genere, non ero pronta.
Ma non era finita qui: i dottori infatti si erano accorti della mia fobia dell’acqua, che si era dimostrata piuttosto forte e che era migliorata lentamente, ma rimaneva uno dei problemi più gravi della mia situazione... uno dei tanti, in realtà.
Ed ecco che il primo giorno che lasciai l’orfanotrofio iniziò a piovere: fu un incubo. Ricordo ancora di aver visto il cielo lentamente coprirsi di grigio e di nuvoloni freddi e scuri; ero ancora nella macchina della mia nuova famiglia, imbarazzata e spaventata e il signor Bester mi fissava piuttosto preoccupato:
-Matilde, è solo pioggia- mi tranquillizzò, appoggiandomi una mano sulla spalla e riconoscendo bene la mia espressione di disagio
-Lo so- risposi con una falsa sicurezza, socchiudendo gli occhi e sperando che avesse creduto alle mie parole. Ma quando scendemmo dalla macchina, parcheggiata nel centro di Milano, tutto per me cambiò. Ero vissuta in una campana di vetro fino a quel momento, avevo conosciuto solamente i muri grigi dell’ospedale e quelli azzurri dell’orfanotrofio... non avevo mai visto tanti visi, mai sentito troppe parole.
Ed ecco che, aperto lo sportello, un’ondata disgustosa di vita mi soffocò; rimasi per qualche secondo immobile mentre il cuore rimbombava nel petto, mentre quel cuore da poco risvegliato già stava lavorando troppo per le sue possibilità. Mi sentii piccola, ecco ciò che ricordo. Mi sentii affogare nel traffico minaccioso, nel rumore mostruoso della città, nell’altezza degli edifici... non ero niente in confronto al mondo. E il mondo mi spaventava.
La mia era una sfida contro qualcosa di troppo grande da affrontare:
-Va tutto bene- mi disse con calma il dottor Bester -Prendiamo le valigie ed entriamo in casa, d’accordo?- E così, con una leggera e affettuosa pacca sulla spalla, si allontanò per qualche secondo. Ed io fissai il cielo: era grigio, chiuso, immenso ma non infinito. “Cosa ci sarà dopo?” mi chiesi con un velo di curiosità ma allo stesso tempo di paura. Ma ecco che una macchina suonò il clacson: accidenti, quel rumore assordante e crudele mi terrorizzò! Urlai e mi tappai le orecchie, stringendo i denti e accucciandomi, appoggiata alla macchina:
-Alzati, non è niente- mi disse il dottore con la sua calma abituale, stringendomi la mano -Sono solo macchine, d’accordo?-
-Lo so- risposi ancora senza fiato, fingendo di non avere paura. Però ne avevo... e ne ebbi soprattutto quando sentii qualcosa di minaccioso, ghiaccio e fastidioso attaccarmi. Mossi la testa in fretta, sentii il respiro aumentare davanti agli sguardi confusi dei passanti... e poi capii: acqua. Un rumore tremendo, crudele, mostruoso, mai sentito prima fece tremare il cielo. Fece tremare me. Strinsi le braccia intorno al mio corpo e scoppiai a piangere:
-Dottore!- urlai -Aiuto!- Mi coprì in fretta con un ombrello e cercò di rassicurarmi con parole che neppure riuscii a sentire... tutto tremava, piangeva, urlava dentro e intorno a me mentre mi avvicinavo alla casa che, forse, un giorno avrei chiamato mia. Piangevo. Piangevo e tremavo come una foglia... tutto era cattivo. Perché il mondo voleva farmi male? Ogni cosa era una minaccia: ed ecco che, praticamente per la prima volta dal mio risveglio, successe qualcosa di strano.
Vidi di colpo un’immagine, delle mani che armeggiavano piene di paura con un cellulare; fu questione di un secondo, ma io capii. Capii tutto. C’era un rumore di passi, c’era qualcuno che si stava avvicinando, ma non potevo vederlo… sentii il terrore riempirmi le vene. E tutto finì con l’immagine di quel cellulare finire in un dirupo... e poi un urlo. Un urlo di una bambina, così sembrava. Scossi la testa confusa,  dopo aver urlato involontariamente e aver attirato l’attenzione dello sguardo preoccupato del dottore; fu un urlo disperato, affannoso, come se davvero sapessi cosa sarebbe successo dopo quella breve scena. Alcune persone si girarono verso di me, pensarono che fossi pazza… ma loro non sapevano cosa avevo patito.
Non capii, o forse non volli capire, la gravità dell’esperienza appena avuta, quindi decisi di non raccontare ciò che avevo ricordato; ne avevo paura, me ne vergognavo. E volevo ricominciare dall’inizio e non pensare più a tutti i dolori che avevo sofferto.
E non credo, purtroppo, che potrò mai dimenticare quel giorno, in cui per la prima volta provai quella strana sensazione di rivivere un ricordo, una scena della mia vita.
Non è bello, no... non se i ricordi sono un incubo. Si tratta di qualcosa di davvero strano, che ancora non sapevo sarebbe poi diventato di routine; infatti la testa inizia a girare, fanno male le tempie e le orecchie percepiscono i rumori in modo ovattato, le voci diventano confusionarie e ogni cosa è avvolta da un velo di terrore.
Fortunatamente, non fui costretta a vivere in una città confusionaria come Milano, dal momento che Alessia e Daniele decisero, viste le mie condizioni, di trasferirsi proprio a Lucca, in modo che anche i rapporti con Luisa e Viola fossero meno problematici; oh, ringraziai infinite volte per il grande sacrificio che avevano fatto per me quelle splendide persone, che mi avevano assicurato comunque di farlo volentieri e di avere quell’idea in testa già da molti anni. Per me il viaggio da Milano a Lucca, praticamente quello che potrei chiamare il primo viaggio della mia vita, fu un misto incredibile di sensazioni diverse; qualcosa mi spaventava, qualcosa mi incuriosiva, qualcos’altro ancora mi faceva un effetto strano e mi infastidivo ogni volta che non capivo come certe cose fossero possibili; ad esempio, ricordo con un sorriso una cosa molto buffa, ovvero il fatto che non capissi come il sole potesse essere visto dalla macchina così piccolo e sempre in posizione diversa e in realtà fosse più grande della terra e non si muovesse... ma, nonostante tutto, non avevo più tanta paura. Il terrore si era trasformato in curiosità, in coraggio, in forza.
Inoltre mi dissero che per un paio d’anni avrei avuto lezioni da un’insegnante e un’ora al giorno avrei visto un nuovo psicologo... tutto questo significava “nuovo inizio”, cosa che suonava incredibilmente dolce alle mie orecchie.
In ogni modo, dopo un paio d’ore di viaggio, finalmente arrivammo a Lucca, in una casa che adorai fin dall’inizio, un palazzo rosso davvero alto; avevamo gli ultimi due piani, con un grande terrazzo. Tutto era perfetto, ma c’era solo una cosa che non andava, un piccolo particolare che mi faceva venire i brividi: l’attico. Appena lo vidi sentii un involontario senso di nausea, ne ebbi molta paura; rabbrividivo all’idea di uscire dalla porta e di salirci sopra, ma non ne capivo il perché e urlavo come un’ isterica se qualcuno provava a portarmici, anche solo per farmi vedere il panorama. Era una sensazione strana, non ne capivo il perché ma ne avevo il terrore e più tardi scoprii che le altezze in generale mi spaventavano terribilmente, cosa sulla quale la nuova psichiatra cercò di lavorare tanto, senza però riuscire ad arrivare ad alcuna conclusione.
Ricordo come se fosse ora che, quella sera, prima di andare a letto, nella mia camera pulita, comoda e bellissima, pensai a quanto fossi stata fortunata per essermi ripresa così bene ed ero certa che la mia vita sarebbe stata splendida… che importava se non sapevo con precisione chi fossi! Io avevo un’identità ora: ero la “figlia” di Alessia e di Daniele, vivevo a Lucca, mi chiamavo Matilde e avevo diciannove anni, ero nata il dodici aprile del 1983; cosa avrei avuto bisogno di sapere in più a questo?
Il giorno seguente conobbi la mia nuova psicanalista, si chiamava Annalisa, ma mi chiese di chiamarla Lisa, come tutti facevano. Non mi dispiaceva il tipo di terapia che facevamo insieme, sebbene il mio comportamento continuasse ad essere piuttosto disinteressato; fingevo di impegnarmi, mentre, in realtà, non facevo un gran lavoro. Che dire, ero testarda... forse sciocca, ma più di ogni altra cosa immatura e incapace di vivere come una persona qualsiasi e di badare a me stessa.
Tuttavia, bastarono un paio di mesi perché cominciassi a parlare e a comportarmi come le persone della mia età, guardando film e ascoltando musica… se non per alcune cose delle quali ancora non avevo capito il funzionamento,  un estraneo avrebbe  potuto vedermi come una normalissima ventenne, esattamente come tutte le altre; ogni tanto però avevo dei momenti in cui mi bloccavo e cominciavo a immaginare qualcosa, per cui a volte urlavo, a volte ridevo, ma per quanto mi sforzassi non ricordavo niente, assolutamente niente. Fortunatamente non mi succedeva quasi mai davanti ad altre persone, poiché avveniva soprattutto mentre leggevo un libro, guardavo la televisione o specialmente quando dormivo, in poche parole quindi nei momenti in cui avevo l’occasione di riportare qualcosa alla memoria.
Infatti, spesso accadeva anche con Lisa; a volte non parlava e mi lasciava in silenzio sul lettino, con della musica; io dovevo chiudere gli occhi e rilassarmi... ogni volta, ogni singola volta vedevo qualcosa, da una semplice luce ad una vera e propria immagine sfocata. A volte mi spaventavo molto, altre stavo in silenzio e pensavo, ma sempre dopo una decina di minuti iniziavo ad avere strane reazioni, come se stessi vedendo qualcosa… erano tutte cose confuse, che duravano un paio di secondi, e dopo le quali tutto tornava normale e non ricordavo più cosa avessi ricordato.
Il più delle volte dicevo parole incomprensibili, borbottavo frasi, mi lamentavo o sorridevo, perciò non sempre ciò che accadeva poteva essere di aiuto a Lisa, ma una volta in particolare ricordo di aver avuto una fortissima reazione, che invece alla mia psicologa servì davvero molto, ed anche a me, sebbene come ho già detto non dimostrassi mai troppo entusiasmo di fronte ai miei ricordi.
Una sera, come sempre, Lisa mi sorrise gentilmente, dopo che avevamo parlato della mia giornata e dei miei amici, e mi disse che avremmo fatto il solito esercizio con un po’ di musica classica, che per adesso non avevamo ancora mai sperimentato. Sorrise e sistemò lo stereo, facendomi sdraiare nel lettino:
-Mi sono accorta che con alcuni tipi di musica hai reazioni indifferenti… secondo te cosa sta a significare?-
-Evidentemente che non ho mai ascoltato quel tipo di musica in passato. Per adesso a quale stile ho reagito peggio?-
-Probabilmente a quelle basi che ricordano i suoni della natura. Oggi però impegnati un po’ di più, abbiamo bisogno di parole, o rimarrai piena di dubbi per tutta la vita...-
-Non cambierebbe niente. Sai cosa penso-
-Non vuoi proprio scoprire che ti è successo?-
-Perché dovrei? Ormai sono qua e non mi succederà più nulla. Vengo qui solo perché sono costretta, te l’ho detto; non mi interessa davvero il mio passato-
-Sai che è sbagliato il tuo comportamento, vero?-
-Perché dovrebbe?- chiesi convinta, fissando fuori dalla finestra -Avevo sempre avuto ragione: avevo bisogno di dimenticare, di uscire da quel maledetto ospedale e di farmi una vita-
-Non credo proprio…- rispose la mia psicologa con un sorriso -Non credo proprio, cara mia, che sia così facile-
-Che vuoi dire?- chiesi infastidita -Io sto benissimo! Da quando me ne sono andata dall’ospedale sono cambiata!-
-Ah sì?- chiese lei quasi con sarcasmo
-Sì, va tutto alla grande!- esclamai, sperando di suonare sicura tanto quanto in realtà ero incerta di quel particolare
-Sai bene che ci sono problemi e che vanno risolti: che tu lo accetti o no, la sedicenne quasi morta ritrovata nei boschi di Trento eri proprio tu-
-Metti la musica- sbuffai, terrorizzata dall’idea di entrare in quell’argomento
-Non ne vuoi parlare?-
-No- risposi bruscamente, legando i capelli in uno chignonne e chiudendo gli occhi mentre mi sdraiavo sul lettino
-Perché?- e la sua voce così indiscreta mi fece veramente saltare i nervi, così mi alzai dal lettino e le urlai contro:
-Smettila ora, questa è la mia vita, d’accordo? Fai i tuoi stupidi esperimenti su di me e poi lasciami in pace!- Lisa mi tirò uno schiaffo e incrociò le braccia:
-Avanti, reagisci!- La fissai imbarazzata, tendendo la mano sulla guancia rossa, e subito mi resi conto di aver esagerato; ogni tanto mi succedeva, perché non volevo pensare al passato. Era una cosa orribile, ma in quei momenti mi era impossibile controllare la rabbia, non lo facevo a  posta. Lisa tuttavia mi accarezzò le spalle premurosa come sempre:
-Non ti ho fatto male, non è vero?-
-Mi dispiace- sussurrai con gli occhi bassi
-Va tutto bene,  d’accordo? Non è colpa tua- mi tranquillizzò, chiudendo le tapparelle e facendomi cenno di sdraiarmi:
-Ok, quello che voglio fare oggi è un po’ particolare. Metterò Vivaldi, le Quattro stagioni e lascerò buio totale, ma tu non dovrai chiudere gli occhi, d’accordo? Stai rilassata e pensa a cosa ti suggeriscono le note della melodia… quando ne sentirai il bisogno, i tuoi occhi si chiuderanno-
-E... e poi?-
-Appena il tuo cervello è sollecitato, ricorda… almeno, spesso succede. Potresti dire qualcosa, avere una reazione particolare o cose simili, ma niente di importante, tranquilla. Ci sono un paio di parole che mi sembra di aver capito che in qualche modo potrebbero aver a che fare con il tuo passato-
-Quali sono?- chiesi curiosa e quasi spaventata
-Ah, ah... questo non devi saperlo, per il momento. Quello che volevo dire è che, passo dopo passo, potremmo davvero ricostruire tutto quanto, d’accordo? Sei pronta?- esitai a rispondere. Sapevo di non essere una persona cattiva, non avrei mai potuto fare del male a una mosca, ma non si sa mai l’effetto che possono fare i ricordi... mi faceva paura l’idea dell’ipnosi, non era la prima volta che lavoravo in questo modo con Lisa. Aveva un piccolo strumento che usava, insieme al buio e alla musica, per mandarmi in questo stato di dormiveglia. Mi aveva detto più volte che chi ha subito un trauma e rifiuta di affrontare il passato, appena si rilassa e va in una specie di stato di ipnosi è istigato a ricordare, ed è veramente facilissimo che affiorino ricordi in poco tempo. Io la guardai incerta:
-Non credo di volerlo fare-
-Perché?-
-Ho paura… ecco, sì, il fatto è che non mi piace ricordare quelle cose-
-E che mi dici della altre volte? Non è niente di nuovo, solo che stavolta ti dirò delle parole che...-
-No. Non lo so, il fatto è che non ha mai funzionato davvero, se ricordi. Per un motivo o per l’altro, non sono mai riuscita ad addormentarmi... ho paura, non voglio vedere troppe cose-
-Siamo all’inizio, Matilde... sarà già tanto vederti fare un’espressione con il viso, mia cara. Non devi avere paura, ok? Fidati, è il mio lavoro-
Annuii con la testa e mi sdraiai, cercando di pensare che in un quarto d’ora sarebbe tutto finito. Dopo una decina di minuti cominciai a sentire sonno e poi non ricordai più niente… solo il mio risveglio, seduta sul lettino, con le luci accese e le finestre aperte e Lisa che mi fissava sorridendo:
-Sveglia? Sei cosciente? Avanti, dimmi…-
-Che... che cosa è successo?- mormorai confusa
-Grandissimi risultati, buon lavoro! Sembravi un po’ infastidita e nervosa, ma dalle tue espressioni sembrava che stessi vedendo qualcosa; hai borbottato una specie di preghiera alla fine e sembravi spaventata, ma quel momento non è durato molto. Sono molto soddisfatta, davvero! E tu non ricordi niente?-
-Oh mio Dio… no, no. Mi sento strana e confusa- fu l’unica cosa che riuscii a dire, con un filo di voce: ero davvero spaventata e per la prima volta provai un po’ di pena per me stessa, pensando a quanto probabilmente fossi stata male in passato. Rimasi in silenzio, fin dall’inizio del mio percorso coi dottori avevo cercato in ogni situazione di scacciare il dolore e di rimandare il momento in cui mi sarei impegnata per scoprire il mio passato e per rivendicare le mie sofferenze
-Sei contenta? Triste? Preoccupata?- chiese Lisa, interrogando il mio sguardo un po’ infastidito
-Non lo so… normale-
-Normale?-
-Voglio andare a casa- mormorai tremando, ancora sconvolta dalle immagini confusionarie e incomprensibili che, a differenza di quanto avessi detto a Lisa, in realtà ricordavo ancora:
-Allora vedi che la faccenda non ti ha lasciato proprio completamente indifferente!-
-Ho detto che voglio andare a casa- ribadii con tono severo. Lisa voleva stuzzicarmi, voleva vedere fino a che punto potevo arrivare e voleva fare in modo che parlassi. In realtà ci volevamo bene, ma quando cominciavo a parlare di questioni delicate come questa, diventavo molto scorbutica:
-Se vuoi uscire, quella è la porta...- mi disse lei, senza neppure girarsi
-Bene- risposi con una sciocca freddezza. Con quella stupida freddezza che il terrore che il fantasma sepolto dentro di me aveva causato.
E quella fu praticamente la mia ultima seduta vera e propria con Lisa... avevo rovinato tutto. Per una bizza senza valore avevo fato uno degli errori più grandi di sempre!
Ma non vedevo quanto tremassi sulle mie stesse gambe, quanto inciampassi cercando di camminare? Ero instabile ed era incredibile quanto mi sentissi pronta a correre quando mi era difficile anche solo stare in piedi.
E dal momento che la mia famiglia adottiva non mi avrebbe mai, giustamente, lasciato fare un errore così grande come lasciare la mia psicologa, ecco che feci l’ennesima mossa sbagliata.
Quello che succedeva con Lisa mi spaventava e mi dava fastidio; più volte avevo pregato appunto Alessia di lasciarmi smettere, ma ovviamente loro mi avevano costretto a continuare le sedute... era giusto, e lo sapevo. Ero in torto, eppure pretendevo di fare le cose a modo mio. Il giorno seguente andai da Lisa e gli dissi di non voler più fare le sedute... ero maggiorenne, lei non aveva neppure mai conosciuto Alessia personalmente perché io l’avevo pregata di lasciare che fosse solo una cosa fra me e la psicologa; cercò solo di convincermi con parole sincere e buone, ma la mia paura era ancora troppa perché riuscissi a pensare.
Ero terrorizzata, terrorizzata dall’idea di ricordare perché fossi stata ritrovata quasi morta in un bosco, perché avessi cicatrici ovunque. Non potevo lasciare che degli stupidi ricordi entrassero a disturbare la mia vita.
E in quanto maggiorenne, potevo decidere, purtroppo... e avevo deciso. 
Iniziai a fingere di andare da Lisa, mentre facevo un giro o andavo a leggere in biblioteca o qualsiasi altra cosa; dovevo mentire, però, perché se qualcuno lo avesse saputo sarebbe stata la fine di quel giochetto infantile e pericoloso. E sarebbe stata la mia salvezza, ma non volevo ammetterlo.
Tuttavia il tempo passava e tutto sembrava perfetto, le mie giornate non erano cambiate da quando non vedevo più Lisa. “Hai visto?!” pensavo con un sorrisetto soddisfatto “Puoi farcela da sola, non ti servono i dottori”. Ed ero felice, credevo di aver risolto in meno di un mese qualcosa che da più di due anni almeno una decina di specialisti aveva cercato di risolvere.
Ma, infatti, quel mio periodo di felicità durò solo qualche mese.
Ed ecco che le complicazioni non tardarono a farsi sentire; in poco tempo la mia situazione iniziò a peggiorare... e a spaventarmi più che mai.

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 7 ***


“Camilla...”
Ecco ciò che sentivo sussurrare durante la notte. Una voce leggera, debole, agghiacciante nella sua dolcezza... una voce che mi terrorizzava più di qualsiasi altra cosa. Non volevo andare a letto, cercavo assiduamente di ritardare il momento in cui avrei chiuso gli occhi, perché ero certa che quel nome sarebbe tornato a ronzarmi nelle orecchie. Appena affondavo la testa nel cuscino, mi rannicchiavo stringendo con forza gli occhi, come se ciò potesse difendermi... ma, in fondo, sapevo anche io che quella voce non era altro che l’eco della mia mente malata. Per quanto fingessi di essere una ragazza qualsiasi, non potevo esserlo davvero; quello che ero stata per due anni era rimasto dentro di me... quella pazzia, quelle voci, quegli incubi che vedevo come nemici erano semplicemente le testimonianze del mio passato, che cercava disperatamente di riemergere. Eppure io desideravo con tutta la mia volontà che non ci riuscisse.
Certe volte mi capitava di fermarmi a pensare chi potessi essere, ma l’idea di avere tanti segreti mi faceva una tale paura che cercavo subito di non pensarci... avevo paura di me stessa, sì... e mi ostinavo a ribadire che non ne sapessi il motivo, ma questa mia convinzione era essa stessa la conferma di quanto i ricordi non fossero del tutto scomparsi. Cercavo di nascondere involontariamente ciò che sapevo essere stato terribile e doloroso. In fondo, sapevo bene che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avrei dovuto accettare i ricordi e farli diventare parte di me, ma speravo tanto di riuscire a tardare quel fatidico momento in cui sarei riuscita a dare un nome all’ombra oscura nascosta dentro di me. Ma la domanda più grande era chi fosse Camilla, chi fosse quella maledetta ombra che cercava di catturarmi, di terrorizzarmi, di soffocarmi con la sua voce malefica. Chi era quella sagoma confusa? Cosa rappresentava per me?
E quando sentivo quella voce, ogni notte, più mi tappavo le orecchie e canticchiavo per distrarmi, più la sentivo con forza, come se qualcuno si stesse avvicinando, come se pretendesse di entrarmi nelle orecchie con violenza... avrei voluto urlare. Una notte, mentre canticchiavo a bassa voce per non sentire più quella voce, sempre più forte, nitida, crudele e spaventosa, sentii la porta spalancarsi:
-Matilde!- urlò Alessia, precipitandosi verso di me, più preoccupata che mai. E quella vocina innocente si troncò del tutto
-Che c’è?- mormorai sconvolta
-Hai la febbre...- rispose poggiando una mano sulla mia fronte sudata e accaldata
-Come hai fatto a sentirmi?- chiesi piena di imbarazzo, certa di aver parlato a bassa voce
-Hai urlato come una pazza, mi si è gelato il sangue quando ti ho sentita... è stato un incubo?-
-Oh...- mormorai, calmando il respiro -Probabilmente sì...-
-Dovremmo parlarne con un dottore-
-No!- esclamai, inorridita dall’idea di avere a che fare con altri psichiatri o psicologi -C’è sempre Lisa...-
-Ti prego, la prossima volta che la vedi parlale dei tuoi problemi-
-Che vuoi dire?- mormorai assonnata, cercando di togliere dalla testa quell’agghiacciante vocina
-I tuoi incubi... ti alzi troppe volte in mezzo alla notte, non è normale. Urli e cerchi di difenderti, non mi piace questo tipo di comportamento-
-Alessia, è sempre stato così per me... sempre. Non ho mai avuto un po’ di tregua, lo sai. Fin dal primo giorno all’ospedale ho avuto incubi e cose simili, non dormo in serenità da moltissimo tempo, ormai... anzi, che io sappia, non ho ricordi di una notte del tutto tranquilla- abbassai il tono con malinconia, mettendo i morbidi capelli castani su un lato -Voglio dire, non mi sembra nulla di nuovo...-
-Sei peggiorata, però...- scosse la testa Alessia, indecisa sul da farsi -Bisogna che parli personalmente con Lisa...-
-No! Voglio dire, non ti disturbare, ci penserò io domani, quando abbiamo la seduta... le dirò che sto avendo problemi di notte-
-Non ricordi proprio nulla di quello che hai visto nel sogno?- aprii la bocca per rispondere, ma proprio in quel momento sentii un pianto di bambino risuonare per tutta la casa... era suo figlio, l’avevo svegliato io, con la mia brusca reazione. Alessia sbuffò mentre si alzava in piedi:
-Aspettami, continuiamo dopo... vieni pure a cercarmi se ci sono problemi-
-D’accordo- sussurrai con un debole sorriso, sospirando di sollievo appena si allontanò dalla mia camera... stavo rischiando così tanto con quella bugia! E non mi rendevo conto di quanto la mia situazione stesse peggiorando, ecco la cosa peggiore. Mi lasciai ricadere sul letto, mi rannicchiai diffidente sotto le coperte, avvicinandomi, in realtà, al vero nemico, ovvero io stessa.
Chissà perché quel nome, quella voce innocente, sempre la stessa, che diventava sempre più infastidita e il cui volume non faceva altro che aumentare... chissà perché mi tormentava. Fingevo di parlare con Lisa, fingevo di sentirmi meglio, ma non smettevo di svegliarmi in mezzo alla notte, sudata, con i lunghi capelli arruffati e il pigiama sgualcito. Nel momento in cui, con il fiatone, aprivo gli occhi, tutti i confusionari rumori, le urla, le immagini, sparivano. Mi guardavo intorno con il viso rosso; la mia camera era calma come sempre, la casa immersa nel silenzio, le lancette dell’orologio che si muovevano ritmicamente; le mie mani erano quasi sempre aggrappate con forza al materasso, come se avessi paura di essere trascinata via. Più di una volta mi svegliavo con le lacrime agli occhi, a volte addirittura piangendo, senza ricordare, però, niente. Quanto mi faceva paura l’idea di cosa potesse esserci in quei sogni! Ecco perché non volevo scoprire niente, ecco perché non volevo avere a che fare con alcun dottore: non volevo sapere cosa ci fosse dietro a quegli incubi, a quelle lacrime versate durante la notte e a quegli sguardi terrorizzati. Eppure stavo in silenzio e anche quando mi sembrava di ricordare piccole immagini, poco chiare e sfocate, non raccontavo a nessuno il mio dolore.
Che avrei dovuto fare, dopotutto? Secondo il mio punto di vista, la mia malattia, sempre che ne avessi una, era un pericolo per la mia vita e avevo potuto sperimentarlo all’ospedale: la gente non doveva scoprire quanto stessi male, la gente doveva vedere solo i sorrisi, non le lacrime e i pianti soffocati... quelli facevano parte di un mondo intimo solo mio, di un universo parallelo che avevo creato nella mia stanza.
Se avessi raccontato ai dottori del mio peggioramento e di quanto ogni notte, più di tre volte, mi svegliassi urlando, sarei finita direttamente in ospedale... un’altra volta. Non volevo tornare a quella deprimente vita che mi aveva distrutto, non volevo accettare di avere così tanti problemi.
Comunque, per quanto lo volessi nascondere, ogni singolo giorno le cose peggioravano per me; con il tempo, iniziai addirittura a vedere chiaramente alcune scene del mio passato, ma non mi portavano mai a nessuna conclusione, forse perché erano esse stesse di poca importanza o forse perché ero semplicemente io a rifiutarmi di analizzarle.
In ogni modo, mentre all’ospedale spessissimo sognavo di trovarmi nel nulla, attaccata da grovigli e buchi neri, a Lucca i miei incubi iniziavano a costruirsi con colori, immagini e personaggi. Ed erano sempre gli stessi sogni... sempre.
C’era solo un grande lago in mezzo a dei prati verdi; il cielo era un po’ oscurato dalle nuvole e il silenzio immergeva quel luogo in uno stato di inquietudine e incertezza che calzava a pennello con il mio emblematico conflitto interiore. Erano tutte immagini brevi, sfocate, di un secondo, che mi scombussolavano, però, talmente tanto che a volte ero costretta a sedermi e a prendere un bel respiro; a peggiorare le mie sensazioni c’era poi il senso di colpa, poiché, per quanto ingenua, ero consapevole e conoscevo bene le conseguenze che questo mio nascondere i problemi avrebbe avuto.
Non volevo parlare a nessuno dei miei momenti di crisi, delle mie difficoltà durante il sonno, delle strane immagini che si facevano spazio dentro la mia testa, perché speravo solo che, fingendo che tutto fosse normale, se ne sarebbero andate. Però peggioravano. Peggioravano così tanto che arrivai ad un livello in cui ogni notte mi sembrava di sentire più voci, di avere più immagini in testa e sarei solo voluta scappare, ma non potevo.
In poche parole, mi stavo accorgendo che il mio passato cercava di farsi avanti, sebbene molto lentamente... io non avrei mai lasciato che venisse fuori. No, io non avrei mai potuto accettare di ricordare, dal momento che sapevo quanto la mia infanzia e adolescenza fossero spaventose. Erano per me come una grandissima ombra oscura; io non le conoscevo, io non le avevo mai viste e conosciute chiaramente, ma facevano paura e sapevo che non erano state come quelle di una qualsiasi persona. Ero diversa. Non sapevo perché, ma mi sentivo così, come se in fondo già stessi imparando a conoscere la vera me: più mi guardavo intorno, più capivo quanto fossi diversa dagli altri... non ne capivo il perché, ma il mio modo di vedere le cose, di provare sentimenti e sensazioni era completamente differente da chiunque altro.
E sì, avevo ragione: non conoscevo il motivo di quella mia sensazione, ma era davvero così... il mio passato, nonché io stessa, era un mistero, un mistero da scoprire e la cosa buffa era che, anche una volta scoperto... sarebbe rimasto un grandissimo mistero. La mia ragnatela di dubbi non si sarebbe mai sciolta.
Tuttavia, le immagini e le voci attraverso le quali il mio “io” cercava di parlarmi non erano l’unica manifestazione del mio disagio, dal momento che avevo scoperto una nuova, orribile forma di terrore, in più all’acqua e alle altezze: il contatto con gli uomini.
Ovviamente, non avevo mai avuto l’occasione di accorgermene all’ospedale, ma, fra una bugie e l’altra, a Lucca avevo fatto amicizia con molti ragazzi e uscivo con gli amici come se niente fosse... e fu così che, lentamente, mi accorsi di temere il corpo dell’uomo. La prima volta, se non sbaglio, che provai questa sensazione di disagio, fu abbracciando, in assoluta e innocente amicizia, un ragazzo che avevo da poco conosciuto... so che può sembrare strano ma, fino a quel momento, non avevo mai avuto un vero e proprio contatto diretto con un maschio, fin dal mio risveglio.
Appena quel ragazzo strinse le sue braccia intorno a me, tremai... è difficilissimo, forse impossibile, descrivere ciò che provai: il battito accelerò considerevolmente, mi sentii soffocata e tutto intorno a me iniziò a girare, fra le voci ovattate e confuse. Sentii il bisogno di chiedere aiuto, pensai di essere attaccata, quindi cercai di staccarmi da lui, che, credendo che scherzassi, mi strinse con ancora più forza: mi sentii morire, odiavo quel contatto, lo vedevo qualcosa di violento, orribile e spaventoso, come se mi stesse picchiando:
-Lasciami!- urlai cercando di allontanarmi e colpendolo, quindi gli altri ragazzi presenti si fecero più seri:
-Lasciala, sta male...- E a quella parole, finalmente, sentii la presa allentarsi, così prendendo un grande respiro mi allontanai. Avevo gli occhi gonfi per il pianto, le lacrime non smettevano di rigarmi le guance arrossate e respiravo a malapena. Ero così confusa, vedevo le persone accerchiate intorno a me chiedermi cosa fosse successo, ma non riuscivo a parlare e mi guardavo intorno più persa che mai. Appena quel ragazzo si avvicinò ancora, lo riconobbi come nemico e scossi la testa, indietreggiando:

-No...- mormorai, asciugandomi gli occhi, per poi iniziare a correre verso casa. Non feci neppure caso agli sguardi sconvolti dei miei amici, avevo solo paura, mi sentivo strana e indifesa... ma, appena entrai in casa, cambiai espressione davanti alla mia nuova famiglia e mi asciugai le lacrime.
Mi finsi tranquilla e sorrisi aprendo con naturalezza la porta della mia stanza, ma, appena chiusi a chiave, scoppiai in un pianto disperato, buttata sul letto. E rimasi così per tutta la notte.
Quel contatto, per quanto minimo e del tutto innocente, aveva risvegliato in me una paura senza eguali. Per qualche giorno rimasi praticamente chiusa in casa e appena ricominciai ad uscire rimasi molto fredda con tutti, cercando di evitare tali sensazioni. Ed anche quella socievolezza che avevo ottenuto con fatica era sparita.
Fortunatamente, un giorno, rendendomi conto di quanto la cosa stesse andando fuori controllo, mi decisi a comportarmi in modo maturo; presi la mia bici e corsi allo studio di Lisa, almeno per una volta completamente convinta di ciò che stavo per fare.
Percorsi la strada in fretta e furia, pensando a quanto bisogno avessi di essere finalmente sincera, almeno su qualcosa... almeno per una volta. Appena vidi la porta dello studio davanti ai miei occhi presi un bel respiro, sistemai i capelli e mi ricomposi dalla scomposta corsa che avevo appena fatto, quindi alzai il pugno in aria e con decisione bussai. Non appena la segretaria aprì, sfoggiò uno sguardo tanto sorpreso quanto spaventato dalla probabilmente visibile ansia che avevo negli occhi
-Matilde...- mormorò, facendomi entrare con la solita gentilezza, che non ero mai riuscita a ricambiare -Che succede? Che ci fai qui?-
-La dottoressa è libera al momento?- chiesi a bassa voce, con un tono piuttosto giù di morale
-Sì... hai bisogno di qualcosa?-
-Ho avuto molti problemi e non riesco a risolvere proprio niente da sola... la prego, mi lasci entrare anche se non ho un appuntamento- La segretaria osservò indecisa il piccolo blocchetto sulla scrivania, quello sul quale tante volte avevo visto il mio nome
-Prometto che sarò velocissima!- esclamai con ansia, muovendo i piedi come se avessi un’assurda fretta di parlare con Lisa
-Oh...- sospirò la buona segretaria -Avanti, ormai ci conosciamo da tanto... vai pure- La ringraziai con un dolce e sincero sorriso e al più presto mi precipitai nel lungo corridoio bianco che portava al suo studio.
C’era una certa angoscia dentro di me mentre ripercorrevo quel luogo... un’ angoscia dovuta al fatto che avevo un tale segreto da mantenere e una tale bugia da non lasciar intravedere
-Avanti...- rispose la solita voce calma e paziente di Lisa, togliendomi ogni possibilità di continuare a ragionare e a viaggiare con la mente
-Lisa! Scusa il disturbo, ma...-
-Matilde!-
-Sono qui perché ho davvero bisogno del tuo aiuto... come ti avevo detto, nel frattempo sto andando da una dottoressa più vicina a casa mia, ma... ma con te ho più confidenza e mi sento libera di parlare, quindi ho semplicemente bisogno di un consiglio- mormorai imbarazzata, abbassando lo sguardo
-Dimmi di che si tratta...- mi fece cenno di sedersi, mettendosi i soliti occhiali rossi
-Beh, il fatto è che negli ultimi tempi ho avuto qualche problema...-
-Certamente, voglio aiutarti. Di che si tratta?-
-Io... non lo so- dissi con un sospiro carico di ansia -Mi sono accorta di avere gravi difficoltà con... con l’altro sesso...-
-Intendi ad avere rapporti con i ragazzi?-
-No, no...- scossi la testa un po’ indecisa -Ovvero, in realtà sì, ma non si tratta proprio di questo...- balbettai un po’ confusa
-Ti prego, devi essere chiara, o non potrò aiutarti-
-D’accordo, il fatto è che mi sono accorta di quanto il contatto con i maschi, di qualsiasi età, mi dia estremamente fastidio- marcai queste ultime parole con una sorta di disprezzo verso quel mio stesso comportamento, che mi spaventava più che mai
-Oh...- mormorò Lisa, avvicinandosi interessata -E... anche con i bambini ti succede questa cosa?-
-No, ovviamente no...-
-Quindi solamente con uomini adulti e con ragazzi, non è vero?- annuii debolmente -E... parlami di questo tipo di disagio, puoi sentirti libera di dire ciò che vuoi con me- siccome stavo esitando a dare una risposta, allontanò lo sguardo da me per non mettermi a disagio e mi esortò a parlare:
-Vedi, quando tu mi dici che hai un problema con il corpo dell’uomo io non ho la situazione molto chiara; quello che voglio sapere è solo se si stratta del corpo in sé o del comportamento...-
-Oh, io credo di entrambe-
-Bene, bene. Da quanto te ne sei accorta?-
-In pratica da due, tre mesi circa... ad essere sinceri, non avevo mai abbracciato o dato qualsiasi altra attenzione, se così si può chiamare, ad un maschio, a partire dal mio risveglio in ospedale. Un mio amico mi ha abbracciato, io mi sono sentita così male...-
-Che intendi?- chiese, mettendomi ancora più in difficoltà
-Beh... non lo so, in realtà, mi sono sentita soffocare, come se qualcuno mi picchiasse, come se qualcuno mi volesse fare del male... almeno, credo...-
-Matilde, non devi essere incerta quando parli di sensazioni, perché non c’è nulla di giusto o di sbagliato... si tratta delle tue emozioni e solo tu le puoi conoscere, quindi devi solo dire ciò che hai provato in quel momento-
-Sì, ecco, però il fatto è che... che io stessa non ne sono convinta! Credo che sia stato qualcosa come una violenza per me... almeno, per quanto fosse un mio amico, ho avuto addirittura lo stimolo di colpirlo per difendermi-
-E poi che è successo?-
-Sono scoppiata a piangere, avevo una strana sensazione alla vista e all’udito, non sentivo bene ed era tutto offuscato-
-Ok, va bene... ho solo bisogno di sapere un’ultima cosa: hai più rivisto questo ragazzo? E che rapporti avevi con lui?-
-Eravamo buoni amici, è stato un abbraccio scherzoso... comunque sì, l’ho rivisto e mi sono scusata, ma mi imbarazza avere a che fare con lui, dopo quello che è successo! Oh, mi sento così stupida!- sbuffai, buttando la testa all’indietro e continuando a trattenere le lacrime
-Stupida? Non c’è nulla di stupido...-
-Non rimarrò a vita in queste condizioni, vero?-
-No, ovviamente no...- accennò ad un sorriso sincero, scuotendo la testa -Puoi stare tranquilla su questo-
-Oh, grazie al cielo!-
-Aspetta, però... non rilassarti troppo, perché non è nemmeno un problemino da nulla... si tratta di qualcosa di molto importante sul quale dovrai lavorare con la tua psichiatra... se ti imbarazza parlarne con lei, posso contattarla: come si chiama?-
-No, ci penso io!- esclamai, togliendole di mano il blocchetto sul quale stava per scrivere il nome -Tranquilla, ci penso io... però puoi darmi un consiglio nel frattempo?-
-Allora, devi stare davvero attenta; non devi temere proprio nulla, ma se il contatto con i ragazzi ti da’ fastidio  devi cercare di evitarlo per un po’, d’accordo? Da quando sei qui non hai mai baciato un ragazzo o cose simili, vero?-
-No, io... non potrei mai...- mormorai dispiaciuta, ma soprattutto delusa e imbarazzata dal mio comportamento
-Bene, allora puoi stare tranquilla, i tuoi problemi derivano dal tuo passato, ovviamente... credo che questo tu l’abbia già capito, anche perché ti sei sentita ripetere queste frasi da quando ti sei svegliata, immagino-
-Sì, purtroppo sì... so di aver subito violenze...-
-Non solo. Le tue sono state violenze continue e molto molto forti, questo spiega la tua fobia davanti al corpo maschile-
-Sì... sì, lo so. Quindi che devo fare?- chiesi infine, indossando la giacca e avvicinandole i soldi, che rifiutò con gentilezza
-Oh, no, è stato solo un consiglio, non voglio niente! Le uniche cose da fare sono lavorarci con la psicologa, e poi non sforzarsi, che è la cosa più importante! Mi raccomando, non stare mai da sola, non andare in luoghi bui... ma soprattutto, fai attenzione: puoi stare con i ragazzi che vuoi, ma non spingerti entro i tuoi limiti... se abbracciare ti da fastidio, per adesso non abbracciare, perché, nella tua situazione, un piccolo errore potrebbe portare a orribili conseguenze- Ed ecco la frase con coi concluse le sue parole. Io, testarda, non le detti ascolto.

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 8 ***


Qualche settimana dopo, infatti, uscii con degli amici e, verso mezzanotte, iniziai a camminare verso il motorino. Non avevo detto a Daniele e ad Alessia che sarei tornata con il motorino e non pensavo ci fosse niente di male in quel particolare.
Come sempre, ogni volta che uscivo tardi la sera mi aspettavano con ansia; avevo detto che sarei tornata con il papà di un’amica, ma il mio programma era cambiato all’ultimo momento ed ero partita con il motorino, con quel motorino che mi avevano comprato prudentemente solo e solamente per le emergenze: non avrei avuto usarlo. Non di notte.
-Mati!- mi chiamò una ragazza da lontano -Non è troppo tardi per stare sola?-
-No, ho il motorino, non è molto lontano-
-Non dovevi tornare con Sara?-
-Sì, ma non è potuta venire-
-Se vuoi ti accompagna mio papà con la macchina... i tuoi non ci sono?-
-Sì, ma non voglio disturbarli... stai tranquilla comunque, non c’è problema, il motorino non è lontano e in meno di dieci minuti sono a casa-
-Sicura?- chiese ancora, indecisa
-Sicura- risposi, testarda, con un sorriso. La ragazza mi salutò con gentilezza, sparendo dietro ad una grande statua, per tornare a casa.
Ero sola, era davvero molto buio e faceva anche freddo. Presi il cellulare dalla borsa, ma era scarico
-Accidenti...- mormorai rabbrividendo per il vento gelido; c’era molta nebbia, nessuno in quella zona, tuttavia non mi feci intimidire e girai dietro l’angolo, quando sentii delle risate. Mi voltai, ma non vidi nessuno. Ancora quelle risate fastidiose, miste ad urla e fischi... vidi un gruppo di quattro o cinque ragazzi con delle moto proprio davanti a me. Iniziai a tremare e a sudare, mi voltai e mi chiesi se fosse meglio continuare con indifferenza o tornare indietro. La strada era quasi finita, il motorino era dietro l’angolo, a circa otto metri da me, perciò presi un bel respiro e, guardando avanti, iniziai a camminare
-Vieni qui!- iniziarono ad urlarmi contro con violenza, ubriachi fradici. Affrettai il passo, avevo una paura assurda mentre fingevo di guardare avanti, come se non sentissi le loro frasi volgari nel silenzio della notte. Uno di loro si alzò, lasciando una sigaretta e della birra in terra e avvicinandosi a me
-Che ci fai qui tutta sola?- non lo guardai neppure, fissai davanti a me e continuai a camminare, puntando il mio motorino ormai vicinissimo
-Avanti, vieni con noi...- cercò di prendermi per una mano
-Lasciami!- urlai, cercando di correre e di allontanarmi, con le urla e le risate divertite di quel gruppo di ragazzi che mi spaccavano le orecchie. Non riuscii neppure ad afferrare il casco,  che quel ragazzo mi afferrò per i fianchi e, a tradimento e con violenza, mi baciò. Sentii uno spiacevole formicolio per tutto il corpo, mi lamentai scostando la testa, cercando di uscire dalla sua forte presa
-Ti prego, lasciami andare...-
-Ehi, non voglio mica farti niente di male- sussurrò, poggiando le mani su tutto il mio corpo
-Basta, sei ubriaco!- urlai, iniziando a piangere -Mi fai male, ti prego!- ma le mie urla erano vane, non mi ascoltava. La sua stazza padroneggiava sulla mia, ero spaventata e indifesa, cercavo di farlo scansare, ma non ci riuscivo. Mi sentivo soffocare, iniziò a girarmi la testa e scoppiai a piangere, tentando di fermare le sue mani:
-Per piacere, devi smetterla, non capisci!- finalmente, vedendo le mie lacrime disperate, uno di quei ragazzi si rese conto e venne in mio aiuto:
-Non fare il cretino, avanti, lasciala andare!-
-Ti prego!- urlai ancora, cercando di liberarmi dalla sua presa violenta
-Ho detto di smetterla, non voglio problemi...- lo rimproverò l’altro, colpendolo per farlo allontanare -Va tutto bene?- chiese, con uno sguardo un po’ preoccupato
-No...- piansi, con una mano sulle tempie, ma subito il ragazzo che mi aveva attaccato mi riprese con forza, scaraventandomi contro il muro
-L’ho trovata io, faccio quello che mi pare!- urlò con violenza all’altro, colpendolo
-Per piacere, sono malata...- cercai di difendermi con le mani
-Basta, avanti, hai esagerato...- si avvicinarono gli altri, per farlo allontanare  -Che vuol dire che sei malata?- chiese quindi uno di loro. Non riuscii a parlare, piangevo disperatamente, quindi tutti iniziarono a preoccuparsi, buttando la testa fra le mani
-Lasciala andare, non fare il cretino, sta male... se le succede qualcosa è colpa nostra!- quel violento ragazzo sembrava non volerli ascoltare, quando, finalmente, sentii una voce adulta provenire da una casa lì vicino:

-Ehi, che succede qui?- chiese urlando, mentre si avvicinava a me, che piangevo contro il muro. In un secondo tutti i ragazzi corsero via, lasciandomi finalmente in pace.
Mi sentivo orribile, non riuscivo a respirare e anche l’udito sembrava non funzionare  bene
-Va tutto bene? Ha bisogno d’aiuto?- chiese gentilmente quell’anziano signore, porgendomi la mano, ma non riuscii nemmeno a percepire le sue parole. Vedevo tutto offuscato e la sua voce era ovattata, mentre le lacrime mi rigavano le guance
-Sta male, signorina? Devo chiamare un’ambulanza?- la sua voce mi ronzava nelle orecchie, il mio cuore batteva a mille e non riuscivo neppure più a capire dove mi trovassi
-Mi... mi lasci, sto... bene- indietreggiai ancora, appoggiando la mano al muro, sperando che il giramento di testa se ne andasse. In realtà quel ragazzo non mi aveva fatto niente, ma la mia sensibilità era davvero sottile e mi ero spaventata così tanto che mi tremavano le gambe; se quell’uomo non mi avesse aiutato, chissà cosa sarebbe successo... chissà come avrei reagito
-Chiamo l’ambulanza- disse con fermezza l’anziano signore, vedendomi barcollare in mezzo alla strada
-No, vado a casa... abito vicino-
-Dove abiti? Ti accompagno con la macchina-
-No...- mi allontanai confusa, quasi inciampando nei miei stessi passi stanchi. Dopo altre richieste, con le mani sulle tempie mi allontanai... mi chiedevo come avessi intenzione di tornare a casa in quelle condizioni. Ero distrutta, quasi incosciente dei miei stessi movimenti, le mani tremavano sia per il freddo che per la fortissima paura, il cuore batteva all’impazzata e avevo difficoltà a vedere e a sentire. Appoggiai i gomiti sulla sella del motorino e socchiusi gli occhi, cercando di riprendere un po’ di colore, quando ancora vidi quel signore avvicinarsi con gentilezza:

-La prego, insisto... dove abita? La accompagno subito a casa o le faccio chiamare i suoi genitori. Quanti anni ha?- senza rispondere, ancora quasi in trans per ciò che era successo, che era stato ovviamente percepito con esagerazione dalla mia testa, abbassai lo sguardo:
-Grazie, ma sto bene, ora vado a casa... mi fa solo un po’ male la testa-
-Non voglio insistere... è sicura?-
-Sì...- mormorai indecisa, cercando tuttavia di rendere il mio sguardo fermo e sicuro
-Va bene, allora me ne vado...- disse dispiaciuto, tornando verso casa sua, non senza voltarsi sconvolto una decina di volte. Dopo circa dieci minuti, presi un bel respiro e, calmatosi leggermente in mal di testa, salii sul motorino, infilando il casco sul pallido viso spaventato. Appena appoggiai le mani sul manubrio, mi accorsi che non avevano smesso di tremare. Quell’orribile sensazione e quell’incertezza che avevo dentro, accentuata dall’inquietudine di quella grande piazza buia e vuota, mi spinse ad accendere e a partire, prendendo un bel respiro. Con un immensa paura nelle vene, riuscii a tornare verso casa, ma non senza lacrime.
Sorrisi debolmente, sollevata, appena vidi l’imbocco del viale alberato che portava a casa mia; aguzzai la vista, cercando di scorgere qualcosa nella fitta nebbia... ma non riuscivo a rimanere calma e non potevo smettere di piangere, come se fosse qualcosa di involontario: ero fuori di me, la paura si era presa gioco del pizzico di ragione che mi era rimasta. Mi sarei dovuta fermare, continuare a piedi sarebbe stata la scelta giusta... eppure continuai: il destino, forse, voleva così.
Per tutta quella lunga strada non c’era uno straccio di persona, i deboli lampioni non erano sufficienti a mostrarmi dove stessi andando e io stessa ero troppo sconvolta e confusa per avere la lucidità di fermarmi... non sapevo neppure dove stessi andando. Improvvisamente, ormai a metà della strada per arrivare al mio palazzo, provai una strana sensazione, qualcosa di nuovo, che ancora non avevo mai sentito. La mia pelle livida si arrossì di colpo, mi sentii avvampare come se stessi prendendo fuoco; sentendo un caldo orribile bruciarmi la pelle, mi lamentai cercando di muovere il viso dal casco, senza però avere il coraggio di fermarmi, perdendo altro tempo... dovevo arrivare a casa. Quel bruciore continuava, però, la testa iniziò a girare fortissimo e mi si offuscò la vista. E in quel momento, proprio in quel momento, il silenzio del luogo lasciò spazio ad un brusio fastidioso che ronzava assiduamente nelle mie orecchie... eppure intorno non c’era nessuno. Ma ecco che vidi qualcosa, ma non saprei dire cosa; delle immagini veloci, confusionarie presero spazio nella mia testa, delle voci sconosciute iniziarono a parlare con frasi inquietanti e strane, senza nessun senso... dei ricordi mi riempirono gli occhi. Fu questione di un paio di secondi, una luce, un insieme di immagini frammentate e veloci prese il controllo della mia mente. Era tutto estremamente rumoroso e talmente veloce che non riuscivo a capire più niente; sentii dei dolori per tutto il corpo, come se qualcuno mi stesse picchiando, quindi urlai, presa dal panico.
Fu così che, completamente uscita dalla realtà, andai a sbattere.
Sentii lo struscìo dei miei vestiti sulla strada, il rumore metallico del motorino sull’asfalto, presi un grande colpo alla testa nello spigolo di un muretto e vidi un paio di persone intorno a me. Iniziai a lamentarmi per il dolore, cercarono di farmi alzare, ma ricaddi a terra; vomitai, mentre cinque o sei persone tentavano di aiutarmi e di reggermi la testa. Ero in terribili condizioni, caddi nuovamente e ripresi un forte colpo; vidi del sangue in terra e sentii le palpebre chiudersi lentamente.
Per un attimo pensai di essere morta.

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 9 ***


Nuvoloni grigi, nebbia e un gelido silenzio, interrotto dal minaccioso sussurrare del vento. Ecco ciò che percepii appena riaprii lentamente gli occhi.
Il cielo era più scuro che mai, ogni cosa immobile e ghiacciata, come se per un attimo il tempo si fosse fermato. Non c’era più nessuno per strada. Lamentandomi, appoggiai una mano sulla fronte e, appena la tolsi, mi accorsi che era rossa di sangue... ero ferita. Cercai di percepire il taglio con le mani, sembrava abbastanza profondo e faceva male. Nonostante il dolore, tuttavia riuscii a mettermi a sedere sul tagliente ghiaino, guardandomi intorno perplessa e spaventata; il motorino era completamente rotto dall’altra parte della strada, non avrei mai immaginato di prendere una sbandata tanto forte... i resti del mio motorino luccicavano nel buio, sparsi sulla strada.
Nessun rumore. Tutto era così silenzioso da far venire i brividi, l’aria era tanto ferma e sospesa che avrei senza dubbio creduto di sognare, se non fosse sembrato tutto così tragicamente vero. Cercando un qualsiasi aiuto intorno a me, mi accorsi che davvero nessuno si era fermato per portarmi in ambulanza; sul punto di andare nel panico, cacciai la mano nell’ampia tasca del giubbotto e cercai il telefono... era rotto, completamente spezzato. Cercai invano di mettere a fuoco la vista e di alzarmi, ma non ci riuscii; un grande dolore me lo impedì, quindi abbassai lo sguardo e mi accorsi di avere un pezzo di vetro nella gamba. Presa dalla disperazione del momento e non sapendo che altro fare, con un urlo trovai il coraggio di toglierlo “Ok, non farà male...” mormorai fra me e me, cercando di rassicurarmi, quindi lo afferrai e tirai con forza, il più in fretta possibile. Urlai per quel lancinante dolore, quindi gettai il pezzo di vetro lontano da me con le mani ancora tremanti e strinsi i pugni, cercando di sopportare quelle tremende pulsazioni alle vene ferite della mia gamba.
Dopo aver tenuto la mano premuta sul ginocchio per un po’, decisi di alzarmi, ancora instabile sui miei stessi piedi. Non riuscivo a smettere di piangere, ero davvero spaventata e non capivo perché fossi sola e nessuno mi avesse aiutato! Ricordavo bene il mio incidente, ricordavo bene di non essere svenuta subito, di aver colpito la testa contro uno spigolo di un muretto, quindi avevo la situazione abbastanza chiara, fortunatamente; camminai in fretta verso la casa più vicina per chiedere aiuto, attraversando la strada vuota zoppicando. Mi sentivo svenire, avevo bisogno di essere assistita... sebbene casa mia fosse vicina, cercavo il più veloce aiuto possibile. Proprio mentre mi avvicinavo all’altro lato della strada, però, ebbi una strana sensazione, quasi come se qualcuno mi stesse seguendo; mi bloccai, tendendo l’orecchio. Mi voltai più volte, certa di sentire uno sguardo su di me, o comunque di vedere un’ombra seguirmi... ma probabilmente mi stavo sbagliando... non c’era anima viva in quel luogo.
Proprio nel momento in cui ricominciai a zoppicare verso la casa più vicina, un rumore di una moto mi fece sussultare, mi voltai con il fiatone. Un uomo vestito completamente di nero tentò di investirmi, salendo con violenza sul marciapiede. Lo evitai buttandomi in terra: mi avrebbe ucciso, se non mi fossi quasi lanciata dietro ad un cespuglio.
Se ne andò, quindi mi rialzai senza fiato e spaventata suonai alla prima casa... ma nessuno mi aprì. Suonai alla seconda, alla terza, alla quarta... niente. Ancora vidi la stessa inquietante figura nera che cercava di investirmi con la moto... sfiorai la morte. Il manubrio mi colpì il braccio con forza, se fossi stata più vicina a lui di qualche centimetro non so e non voglio neppure immaginare cosa sarebbe successo.
Il mio cuore batteva a mille, iniziai a bussare a tutte le porte vicine, premendo il palmo della mano sulla gamba ferita... ma nessuno mi rispondeva.
Finalmente, dopo qualche minuto vidi un uomo che camminava tranquillamente sul marciapiede; urlai cercando di attirare la sua attenzione, ma... ma sembrò non sentire neppure la mia voce. Con gli occhi offuscati dalle lacrime, corsi goffamente verso di lui, ma sembrò non vedermi.
Lo fissai sconvolta allontanarsi come se nulla fosse... ero un fantasma? Vidi ancora una signora su un balcone, quindi iniziai ad urlare:
-Aiuto! La prego, mi apra, ho bisogno di aiuto!- nessuna risposta. I suoi occhi impegnati a sistemare i panni non si distoglievano dalle bianche lenzuola, le sue orecchie non si tendevano ad ascoltare la mia disperata richiesta d’aiuto... forse perché, in realtà, non c’era nessuna richiesta d’aiuto: ero morta. Quel pensiero mi riempì di brividi e mi inorridì, quindi cercai di allontanarlo subito dalla mia mente; effettivamente, l’ansia del momento non mi lasciava abbastanza tempo per le riflessioni... dovevo fuggire, dovevo arrivare a casa mia. Potevo vederla, era così vicina... eppure così lontana. Correvo, correvo, inciampavo e mi rialzavo... piangevo, chiedevo aiuto e correvo ancora... ma la casa non faceva altro che allontanarsi. Quell’uomo era dietro di me, mi inseguiva ed era più veloce, stava per raggiungermi, saettando con forza fra gli aliti di vento leggero, mentre io stavo per arrendermi. Era troppo veloce, io troppo stanca e debole. Improvvisamente vidi la mia famiglia adottiva sul terrazzo... erano tranquilli, ignoravano il potente boato che le mie urla stavano creando: non avevo più voce? Come potevano non sentirmi? Non avevo più energie, non ce la facevo davvero più; sentii l’uomo ormai vicinissimo, la sua orribile ombra quasi mi sfiorava.
Con un ultimo, piangente urlo mi voltai e tentai di difendermi; aveva una specie di bastone in mano e sapevo quale fosse il suo. Alzò le mani al cielo, cercai di difendere il viso con le mani e quella fu l’ultima cosa che vidi. Da quel momento non ci fu altro che buio.
Quello fu in assoluto l’inizio della mia terribile avventura.
Un qualsiasi ragazzo ubriaco e un incidente: ecco la causa, in realtà apparente, del mio incubo.
La mattina dopo, o almeno quella che credevo essere la mattina dopo, mi risvegliai a casa, nel mio letto, come se niente fosse successo; aprii gli occhi un po’ frastornata e rimasi nel letto a mugolare, senza ricordare con precisione il motivo di quell’orribile mal di testa. Ma il rumore assordante della sveglia mi ricordò che cosa era successo, purtroppo.
Ero viva. Era stato solo un sogno.
Avevo un pigiama verde a righe e i calzini ai piedi, i capelli lunghissimi completamente arruffati e gli occhi stanchi. Inizialmente non capii che si trattava della sveglia, ma dopo un paio di minuti sentii la squillante voce di Luisa riportarmi alla realtà, quindi spalancai gli occhi:
-Oh, la sveglia!- praticamente mi buttai giù dal letto per spegnerla in fretta –Scusate, è colpa mia!- esclamai poi, affacciandomi al corridoio
Non ebbi il tempo di capire, né di farmi domande, perché subito un forte dolore alla coscia destra mi ricordò il mio brutto sogno... come potevo percepire ancora quella sensazione? Era stato solo un incubo.
Aggrottai le sopracciglia e afferrai l’elastico dei pantaloni del pigiama, quindi li lasciai ricadere giù fino alle caviglie; e mi accorsi di un profondo taglio. Di quel taglio causato nel sonno. Subito un terribile dubbio mi assalì: come ero arrivata a casa dalla notte precedente? Non ricordavo, avevo la mente vuota. Mi avvicinai allo specchio confusa e sfiorai la superficie della pelle, quando mi accorsi di numerosi tagli sul viso… quelli che da tanto tempo credevo si fossero dileguati dalla mia pelle, quelli che solo all’ospedale di Trento ero stata costretta a vedere. C’erano nuovamente.
Fui sul punto di urlare: sembravano freschi, come se una lama o qualcosa di simile me li avesse procurati… su tutto il viso. Avevo la terribile impressione che il mio incubo fosse tornato, come se quegli oscuri giorni passati all’ospedale non se ne fossero andati. Il mio corpo si riempì di brividi, fissai lo specchio, presa dal panico, ma incapace di parlare. La paura fu così intensa da togliermi la capacità di aprire bocca o di piangere... il mio povero viso! Tutti quei tagli profondi, dolorosi, testimonianza delle mie passate e misteriose, nonché sconosciute, sofferenze. Può sembrare stupido, ma mi convinsi davvero di essere morta... in fondo, chi mi assicurava che non esistesse una vita in una specie di universo parallelo? Quell’idea era più inquietante che mai, ma mi sembrava essere l’unica soluzione. Mi precipitai fuori dalla stanza della mia camera e ispezionai la casa... tutto sembrava normale. Non c’era nessuno, però; chiamai più volte, ma neppure un minimo rumore sciolse la mia tensione... il silenzio regnava fra i muri di quella casa. Eppure ero certa di aver sentito la voce di Luisa poco prima. Tornai subito in camera, in una corsa scomposta e spaventata; aprii in fretta lo specchio nell’armadio, ma proprio in quel momento mi accorsi di non avere niente. Il mio viso era tornato normale... i soliti pochi segni, tuttavia leggeri e praticamente invisibili, ai quali già con tanta fatica avevo imparato ad abituarmi. Mi avvicinai con più attenzione allo specchio, non potevo davvero crederci, era impossibile che fossero spariti da un momento all’altro… eppure era così. Pensai che l’unico modo per capirci qualcosa ed uscire da quella stagnante situazione fosse chiedere aiuto; presi in mano il telefono di casa, ma, non appena composi il numero di Alessia, il numero si annullò.
Ed ecco che sentii delle urla provenire dal salotto… delle urla violente, forti, cattive... delle urla a cui io non ero stata abituata. Sembravano un uomo e una donna, ma non ebbi né il tempo né la lucidità per pensare che potessero essere Daniele e Alessia, anche perché mi accorsi subito di un piccolo, stranissimo e inspiegabile particolare: parlavano in inglese.
Io non sapevo niente di quella lingua, non ne avevo mai avuto neppure un assaggio, eppure improvvisamente capivo tutto, ogni singola parola, proprio come se la parlassi fin da bambina. In ogni modo, per quanto strano possa sembrare, quel piccolo particolare non riuscì quasi neppure ad arrivare al mio cervello, nel quale aveva preso sopravvento il terrore per ciò che stavo sentendo. Avevo l’impressione di conoscere il motivo di quelle urla, di far parte di quel litigio, di avere a che fare con quelle astratte voci che provenivano dal lungo corridoio. Mi guardai intorno presa dal panico, pensai a quale fosse la cosa migliore da fare: uscire o rimanere in camera? Bella domanda: se avessi avuto una risposta, sarebbe stato tutto più semplice. Il battito del mio cuore iniziò a rimbombare nel mio petto tremante, non ero pronta ad affrontare una tale situazione e la mia testa si affollò di migliaia di dubbi e paure... cercando quel tipo di prontezza che la situazione richiedeva, feci ciò che l’istinto mi suggeriva; chiusi la porta a chiave e buttai le spalle al muro, prendendo in mano il primo oggetto che trovai sul comodino e allungandomi per riuscire a prendere in mano il cellulare. In quella posizione, pensai che nessuno avrebbe potuto farmi del male... se la porta avesse fatto il minimo movimento, sarei stata pronta, almeno così speravo, a difendermi.
Da un momento però all’altro gli urli tacquero e nuovamente un grande silenzio calò su tutto l’appartamento; diffidente, mi avvicinai alla porta per sentire meglio, cercando di recuperare un po’ di calma, quando un debole lamento mi richiamò all’attenzione: proveniva dalla fine del corridoio.
Sentii un bisogno quasi involontario di andare a vedere, per quanto quel gesto potesse rivelarsi pericoloso; fu qualcosa di inconscio, come se avessi bisogno di capire cose stesse succedendo, come se il mio cuore sapesse dare una spiegazione alle ombre confuse e deformi del mio passato. Con tutta la cautela possibile, ascoltando con attenzione i mugolii, che provenivano dalla camera da letto di Alessia, aprii la porta e mi addentrai coraggiosamente nella stanza: non era la camera da letto dei miei genitori adottivi.
Non saprei dire cosa provai, sentii una paura immensa prendersi la poca calma che mi era rimasta, soprattutto quando mi accorsi che sul letto c’era una donna sdraiata a piangere... ma io non la conoscevo.
Nonostante il terrore iniziale, non riuscii a resistere alla tentazione di andarle incontro... forse per aiutarla, forse semplicemente per capire chi fosse. Mi avvicinai tremolando e le sfiorai la schiena nuda, ricoperta da brividi, ma appena si voltò… vidi tutto nero. Quell’immagine sparì e mi ritrovai di nuovo in camera mia. Proprio nel momento in cui stavo per capire chi fosse quella donna!
Rimasi immobile, guardandomi intorno incapace di reagire, di capire... stavo sognando? Non poteva essere realtà, no.
Convinta che fosse stato tutto un incubo, mi sdraiai sul letto, legando i lunghi capelli castani e lasciando che la testa affondasse nel cuscino; stavo sudando e sentivo il bisogno di riposare e di rilassarmi, quindi di dormire, sebbene sapessi che la paura me lo avrebbe impedito.
Infatti, dopo qualche minuto di tentativi per riuscire a chiudere definitivamente le palpebre, senza che si riaprissero con veloci e involontari spasmi, mi resi conto che mancavano svariati oggetti nella mia camera. Me ne accorsi per caso, mentre gli occhi vagavano disperatamente nel terrore di socchiudersi... il mio comodino era sparito, così come i miei libri e le mensole. Mi sedetti sul letto incredula, e, guardandomi intorno, mi accorsi di un paio di scatoloni ancora aperti accanto al mio armadio; mi avvicinai con passi felpati alla porta e la chiusi, quindi mi accucciai per capire che ci facessero i miei oggetti lì dentro. Erano semplici scatole di cartone, di quelle che si usano per i traslochi e su una di esse c’era un bigliettino; incuriosita, mi avvicinai, ma ciò che vidi fu qualcosa di davvero, davvero sconvolgente, tanto che fui costretta a distogliere immediatamente lo sguardo.
L’etichetta bianca diceva “Il mio nome è Camilla Ori”.     
Quella fu la prima, vera, fondamentale scoperta riguardo al mio passato. Sarei dovuta essere felice, ma le circostanze, purtroppo e ovviamente, non me lo permisero. Presa dal panico, ebbi un altro piccolo infarto, mi spinsi all’indietro e per poco non caddi a terra. Il mio nome era Matilde, io lo sapevo, lo avevo detto... ero confusa, così confusa da essere incapace di pensare.
E dopo una decina di minuti, passati sostanzialmente a guardarmi intorno e ad irrigidirmi per qualsiasi rumore, improvvisamente sentii il campanello suonare; mi avvicinai a corsa, sicura che fosse qualcuno della mia famiglia, ma appena guardai dall’occhiolino mi accorsi che era stato tappato con del nastro adesivo nero. Qualcuno mi minacciava e, sogno o realtà, avevo paura.
Deglutii, cercando di fare il minor rumore possibile mentre indietreggiavo spaventata. L’insistente rumore del campanello continuava a rimbombare nelle mie orecchie, non sapevo come comportarmi, mi girava la testa e quella situazione stava diventando fin troppo spaventosa per me. Continuai a camminare accortamente verso la mia camera, finché non mi accorsi di sbattere contro qualcosa: mi voltai e vidi un’elegante signora con un lunghissimo abito da sera.
Come se fosse tutto normale, mi sorrise:
-Oh, scusami tanto, Camilla, non volevo farti male!- A quelle parole urlai, corsi verso il banco della cucina e, tremante, presi in mano un coltello. Credetti subito che fosse la donna che avevo visto piangere nel letto di Alessia. Allungai l’affilato coltello verso di lei, con le mani tremanti e le guance rosse rigate dalle lacrime... non era reale. Non poteva esserlo e io lo sapevo, ma dovevo difendermi, quindi la minacciai, cercando di mantenere il tono della voce fermo:
-Chi è lei? Che ci fa in casa mia?-
-Sono Celine Ori, tua madre... non ti ricordi di me?-
-No! Lei non è mia madre ed io non mi chiamo Camilla!- urlai con il viso pallido e ghiaccio, continuando a tenere il coltello teso in avanti
-Cosa? Di che parli, Camilla?- chiese perplessa, guardandomi con un piccolo lieve e naturale sorpreso
-Allontanati!- la minacciai -Fai un passo e sei morta...-
-Sono tua mamma... come puoi parlarmi così?- chiese con tono autoritario, avvicinandosi –Dovresti tornarne in camera tua-
-Fai un passo e ti uccido, ho detto!- urlai ancora, avvicinando il coltello alla donna, sconvolta e terrorizzata
-Camilla, ma che ti prende? Sei sempre così strana... come mai sei diventata così? Eh? Perché devi deludere me e papà in questo modo?- esclamò con furia, come se il coltello non la spaventasse minimamente:

-Ho detto che se ne deve andare!- non mi feci impietosire, avvicinando ulteriormente il coltello, così da sfiorarle la pancia -Esca da casa mia! Ora!- stavo usando tutta la mia voce, non avevo idea di quale sarebbe stata la cosa giusta da fare, quindi continuai con quel modo di fare violento. La donna davanti a me scosse la testa, quasi indignata:
-Io non me ne andrò da casa mia... ricorda chi è tua madre, Camilla... ricordalo sempre- a quelle parole mi cadde il coltello di mano, finì in terra, proprio fra i miei piedi. Non riuscivo a rimanere forte, non quando tutto era contro di me. Dopo averla fissata negli occhi, tentai di scappare, ma mi accorsi di avere le gambe bloccate, come incollate al pavimento:
-No, lei non è mia madre! Se ne vada subito da qui!- urlai di nuovo, senza la possibilità di scappare. La donna scoppiò in una composta, ignorante risata ed iniziò a camminare intorno a me:
-Vorrei tanto, ma non andrò via finché non deciderai tu! Sta solo a te decidere, è così semplice...-
-Voglio che tu te ne vada, allora! Vattene da qui!- urlai con tutta la mia forza, con gli occhi chiusi, buttandomi in terra.
E tutt’a un tratto mi avvolse un grandissimo silenzio, interrotto dal rumore delle lancette di un grande orologio; aprii gli occhi lentamente e mi accorsi di trovarmi in un’altra stanza, molto elegante e grandissima, che dava su un giardino enorme.
Non avevo idea di ciò che stesse succedendo ma, sinceramente, non ebbi neppure il tempo di chiedermelo, perché mi accorsi subito della presenza di un uomo che leggeva il giornale e di una donna molto anziana accanto, che sembrava persa nei propri pensieri. Mi fermai ad osservarli dallo stipite della porta, come se volessi davvero capire, come se sapessi cosa fare e non mi sembrasse poi tutto così strano. La donna anziana si spazientì e tolse il giornale all’uomo, più giovane, con tono severo. Parlò ancora in inglese, ma capii ogni singola parola:
-Enrico, sai quanto ciò che sta accadendo creerà problemi, vero? Credi che l’adulterio sia un reato permesso alla nobiltà? Non penso proprio… e non credevo che mio figlio potesse deludermi tanto... -
-Andiamo, mamma, che ti prende? Se è successo, è perché io e Celine abbiamo avuto dei problemi... sai bene che è meglio così-
-Ah sì? Beh, per come la penso io, se fosse andata così avreste divorziato... ma tu non ti saresti tenuto un’amante per cinque anni, ecco la verità!-
-Mamma, la stampa non lo saprà... nessuno lo saprà. Possiamo fingere, ma non resteremo insieme. Quello che sta succedendo con la bambina rende le cose più difficili, inoltre, ma devo prendermi le mie responsabilità: risolveremo questa cosa, e abbiamo davvero bisogno del tuo aiuto, mamma. Finché Celine sarà all’ospedale...-
-E tu, disgraziato? Non puoi occupartene, eh?-
-Sai bene che non posso, sai bene che non sono un buon padre né sono stato un buon marito. E, in ogni modo, sono molto occupato con il lavoro e con il bambino... -
-Il lavoro, sempre il lavoro! E poi il bambino! Ah, un figlio avuto da un’amante! Non pensi che sia vergognoso, Enrico? Credi che tua figlia sia meno importante? Sei convinto che Camilla debba essere curata, ma poi sei il primo a trascurarla in modo vergognoso; quella bambina ha solo bisogno di una famiglia! Rendete tutto più complicato, quando basterebbe farle capire quanto è importante per voi… sempre che lo sia-
-Oh, ma di che parli? No, mamma, ti sbagli! Sai di cosa ha bisogno Camilla? Di un dottore. Penso che i soldi siano più importanti in questo caso... sai che non ne abbiamo più! E poi il figlio che ho con Juliette non è meno importante di lei e devo ritagliarmi del tempo anche per loro, per quanto tu non sia d’accordo. E poi sai quanto è grave la nostra situazione economica? Un giorno Carlo e Guido cresceranno, saranno uomini rispettabili e avranno bisogno di soldi, o almeno di una situazione che non li faccia sentire disonorati del loro nome. Tu devi aiutarmi, starai con papà qui da noi per un po’, sai che è meglio così. Non sono l’uomo adatto a sopportare tutta la pressione di Camilla... arrivederci- Detto questo, uscì dalla stanza, portandosi dietro un paio di bottiglie di rhum... e appena la porta sbatté, mi ritrovai di nuovo immersa nel buio totale. Ormai non avevo neppure la forza di parlare e ricordo quanto la mia reazione fosse strana, ma era come se non riuscissi a rendermi conto della gravità di quello che mi stava accadendo... non mi chiedevo neppure più che cosa significasse ciò che vedevo.

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 1O ***


Era buio, non vedevo niente; una voce di un uomo si fece spazio nell’oscurità, pronunciando queste parole con tono dolce e premuroso:
-Camilla, tu sai quanto ti voglio bene. Fidati di me: hai sentito ciò che dice Enrico di te... non ti vuole. I soldi sono più importanti di te, la nuova famiglia è più importante di te; lui non ti ama, come non ama i tuoi fratelli. E sai tutto il male che ha fatto a te e tua sorella, piccola mia... io aiuterò come ho sempre fatto, di porterò via da questo incubo. Ti ricordi tutte le risate che abbiamo fatto durante quest’anno? Tutti gli scherzi, tutte le passeggiate... so che anche tu mi ami, principessa-
-Chi sei?- chiesi con tono fievole, senza riuscire a vedere nulla. Non ci furono risposte. Tentavo di farmi avanti e di trovare una via d’uscita, ma i miei sforzi erano vani... non c’era niente. Di nuovo sentii quella voce:
-Ehi, principessa... ti va di fare un gioco? Tu devi iniziare a chiamarmi con un altro nome... e io ti chiamerò con il tuo numero preferito-
-Un altro nome?- una voce di bambina echeggiò nel buio, pura e dolce
-Sì... d’ora in poi io mi chiamerò Bones-
-Bones?-
-Sì, proprio così. Come vuoi che ti chiami io-
-Beh... trecento!- scoppiò a ridere la bambina -Sai, è il numero preferito della mamma-
-I tuoi genitori non devono sapere che vengo qui tutte le notti...-
-Sì. Non devono sapere che Bones è mio amico- continuò la bambina con tono triste
-Se loro lo sapessero, non lascerebbero che stessi con te... ma tu mi aiuterai, come io voglio fare con te: nessuno deve sapere niente. Se sbaglierai, me ne andrò per sempre; so che non vuoi che succeda, principessa-
-Ti prego, portami via da qui- piagnucolò ancora la bambina
-Te lo prometto, principessa-
E di nuovo ci fu il silenzio. In tutta sincerità, neppure ricordo cosa successe dopo: ebbi vari ricordi del tutto confusi, iniziai a vedere luci e immagini, a sentire parole echeggiare perse nel buio. C’era un tunnel, un tunnel nero e buio e luci ovunque... ma non so cosa successe, i ricordi di quei momenti sfuggirono subito.
Che mi stava succedendo? Mi sentivo in un altro mondo, non capivo cosa stesse accadendo, ma i comportamenti che avevo erano dettati dalla mia psiche, proprio come se fossi ben consapevole del significato che aveva ogni cosa.
Sentii ancora una voce, un dialogo fra due bambini:
-Devi farlo, va bene? Non succederà niente, te lo assicuro- mormorò la bambina, la stessa voce angelica che già più volte avevo sentito
-No-
-Devi farlo, Guido-
-Non posso- borbottò la voce spaventata e tremante del bambino –Sei solo una bugiarda-
-Lui esiste!- esclamò la bambina, su tutte le furie –Vi giuro che Bones è davvero mio amico!-
-Sei solo una pazza!- e quell’urlo, crudele e tagliente, mi fece davvero male al cuore. Sentii un dolore proprio al petto, come se avessi purtroppo davvero a che fare con quell’accusa.
E fu così che ancora una volta riaprii gli occhi nel mio letto, nella mia camera, nella mia casa: “solo un incubo” sospirai sollevata. Avevo paura e non c’erano più scuse: dovevo  parlare con Lisa, era l’unico modo… almeno una volta nella vita avrei preso la strada giusta. Senza curarmi di nient’altro, mi precipitai di colpo fuori dalla porta, ma ciò che vidi fu una strada a me sconosciuta, di una piccola cittadina rovinata dal tempo, di un piccolo villaggio pieno di persone indaffarate; d’istinto, chiusi di colpo la porta e mi voltai, dando le spalle ad essa e cercando di calmare il respiro.
Oh, che sensazione terrificante essere confusi, non capire, non riuscire a vedere ciò che ovvio, non riuscire a cogliere i particolari... quante volte mi sono sentita così incredibilmente sola e indecisa!
Che avrei dovuto fare? Ormai i miei piedi si trascinavano da soli, non capivo più niente: iniziai a camminare. Guardavo in avanti, gli occhi erano fissi e ghiacci, il corpo barcollava e tremava. E improvvisamente sentii qualcuno sfiorarmi da dietro, mi girai e non vidi altro che il gran numero di persone che camminano. “Non era niente” pensai, cercando di tranquillizzarmi. Ma sentii di nuovo la stessa sensazione ed ebbi l’impressione che qualcuno mi avesse messo qualcosa nella tasca degli shorts di jeans, così mi voltai di scatto e mi accorsi di qualcosa di bianco che spuntava da essa: un pezzo di carta... un biglietto.
Il mio passato stava tornando a minacciarmi e, sogno o realtà, sapevo di essere in pericolo.

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 11 ***


Mi voltai per capire chi avesse potuto mettermi un bigliettino in tasca: nessuna faccia sospetta, nessun volto inquieto. Vidi solo persone normali, indaffarate, che parlavano fra di loro e camminavano tranquillamente. Non c’era traccia di quell’uomo in nero con il casco, al quale andò il mio primo pensiero quando vidi quel pezzo di carta. Non poteva essere un caso, non poteva essere successo per sbaglio a un normale passante, erano jeans stretti e mi ero accorta che era stato un gesto volontario, l’avevo percepito, anche se era stata solo la frazione di un secondo.
Quello sguardo... in quella folla io devo aver visto la persona che solo dopo poco tempo ho scoperto essere la causa di tutto il mio dolore. Probabilmente fra quei visi non seppi riconoscere quegli occhi crudeli che per tanti anni mi avevano fatto piangere... tutte le mie lacrime erano state causate da una persona sola, che probabilmente non riconobbi fra i tanti visi... eppure, se tornassi indietro nel tempo, se potessi in qualche modo ritrovarmi in quel luogo proprio ora, sono certa che riuscirei a scorgere l’ombra più oscura, la cicatrice più profonda che ho nel cuore.
Ma non vidi nessun volto conosciuto e di nuovo sentii quel fruscio fastidioso e silenzioso dietro di me. Mi voltai con occhi malvagi, ma terrorizzati
-Signora, mi scusi... ha visto chi è stato a mettermi questo bigliettino in tasca?- chiesi alla prima persona che vidi di fronte a me. Mi guardò un po’ stranita, come se le mie parole non avessero senso. Ripetei più volte alle persone intorno a me la domanda, ma non fecero altro che guardarmi male.
“Buongiorno, principessa” lessi nel biglietto. E il corpo si riempì di brividi. Di colpo urlai per la paura e l’ansia, tutte le persone si girarono a fissarmi e si zittirono improvvisamente; ero al centro dell’attenzione, al centro di sguardi sconvolti e quasi disgustati. Passavano i loro occhi su di me con disprezzo, eppure non ne capivo il motivo e rimanevo immobile, impassibile e umiliata, davanti a quegli sguardi tanto crudeli. Perché mi giudicavano? Loro non sapevano la mia storia, vedevano i miei occhi vagare nel vuoto, ma non conoscevano il mio dolore. Cercando di uscire da quella situazione, entrai quasi piangendo in un negozio, con la testa che scoppiava di orribili ricordi:
-Va tutto bene?- mi chiese la commessa. Annuii cercando di mantenere la calma, misi una mano sulla fronte e lessi sul retro del biglietto:
“Io ti troverò” E in risposta a quelle parole la mia voce tremò e sussurrò una frase, una frase che ancora non sapevo contestualizzare, ma che sapevo venisse prima di “E ti ucciderò”. Lo sussurrai senza fiato, gli occhi fissi nel vuoto: “Ti troverò e ti ucciderò”. Ricordavo quelle parole.
In fondo al biglietto c’era un indirizzo, una casa che si trovava a quanto pare proprio in un vicolo che avevo davanti. Non poteva essere un caso. E mentre mi incamminavo nella minuscola stretta stradina, la mia paura si tramutava quasi in rabbia, in odio, in coraggio... in voglia di vendetta. Verso ciò che ancora non conoscevo, però.
Strappai in mille pezzi i bigliettini che avevo “ricevuto” e con disprezzo li gettai nella spazzatura: dovevo fare tutto da sola. Credevo, sciocca e ingenua, che ci fosse stato davvero qualcosa da fare in questa situazione. Tuttavia non si può agire contro la propria volontà, non si può andare contro i propri passi, no? Ecco quello che stavo provando a fare: camminare contro corrente, sì, ma contro una corrente che io avevo fatto nascere... e non potevo cambiare le cose finché la persona che si nascondeva dietro i miei occhi vuoti non avrebbe deciso di farlo.
A giudicare dal vergognoso stato di manutenzione dei muri e dall’orribile condizione igienica di quel vicolo, sembrava che ci vivessero solo persone molto povere: mi feci coraggio, trovai il numero e presi un bel respiro... non avevo altra scelta, dovevo entrare in quella casa.
Suonai il campanello, più volte perché nessuno sembrava essere in casa… ma quando ormai ero sul punto di arrendermi, una donna mi aprì la porta svogliatamente: sembrava vecchia, vecchia e poco curata, eppure il viso scarno, rugoso e severo nascondevano una vecchia bellezza, e due occhi verdi, oscurati da una grande falda, illuminavano quel viso di una luce ormai spenta dagli anni e da una visibile sofferenza. Aveva i capelli neri come l’ebano e lunghi fino ai piedi, ricci e nodosi, arruffati e goffamente raccolti in una specie di ridicola coda. Il suo corpo era distrutto, troppo magro, i lineamenti segaligni e il viso assolutamente non curato, come gli stracci che portava addosso, sporchi e vecchi.
Eppure, dietro tanta bruttezza, seppi scorgere un viso dolce e particolarmente bello, un viso che mi sembrava di aver conosciuto un tempo. Le sorrisi, fingendo che andasse tutto bene, per prendere tempo; decisi di essere sincera:
-Salve, signora. Io mi chiamo Matilde...- pensai a quello che avevo praticamente appena scoperto e mi corressi - ...ehm, volevo dire Camilla Ori... posso entrare?-
-Certo che no! Per quale motivo dovrei fare entrare una sconosciuta “Camilla Ori” in casa?- chiese, scorbutica
-Signora, mi scusi, ma... mi è stato mandato un biglietto anonimo in cui mi veniva detto di venire a questo indirizzo- mi guardava confusa, con uno sguardo accigliato e, allo stesso tempo, leggermente incuriosito, quindi continuai –Vede, io mi sono risvegliata quasi tre anni fa da un coma e... non so niente del mio passato. Forse lei potrebbe... - mi chiuse la porta in faccia, sbadigliando come se tutto ciò che voleva fosse non vedermi più davanti alla sua porta; comunque suonai di nuovo e riaprì dopo un paio di tentativi da parte mia, quasi scocciata:
-Signora, è davvero una cosa seria. Il nome Camilla Ori non le dice nulla?- la donna stava per chiudere di nuovo, quando ripeté nella mente il mio cognome, o almeno quello che avevo scoperto esserlo, e guardandomi fece un’espressione molto seria, preoccupata:
-Ernesto!- dopo poco un uomo scese giù dalle scale e mi guardò interrogativamente -Ernesto, questa ragazza si chiama Camilla. Può essere lei?-
-Sciocchezze! No, assolutamente no!- rispose lui andandosene di nuovo
-Non sei la Camilla che ci serve... - sbatté di nuovo la porta, ma ovviamente non mi arresi e suonai ancora insistentemente, tanto che fu costretta ad aprirmi e a farmi entrare. La guardai negli occhi polemicamente:
-Che cosa significa che “non sono la Camilla che cercate”?-
-Senti, bellezza, ora ti spiego: si sono sbagliati quelli del biglietto anonimo. Hanno sbagliato persona, non sei tu. So cosa intendevano, ti hanno mandato qui per qualcosa che ho, e con il quale questa ragazza di nome Camilla ha a che fare... ma tu, invece, non c’entri!-
-Come può dirlo? Ma... se fossi io quella Camilla, invece?-
-Ti faccio un caffè, ragazzina- sospirò indecisa, invitandomi svogliatamente ad entrare e facendomi cenno di sedermi sul lurido divano del salotto
-Grazie- mormorai. E mi sedetti, guardandomi intorno con una certa inspiegabile malinconia, come se quel luogo mi ricordasse un brutto momento, ma allo stesso tempo importante per me. C’era solo una stanza, era vecchia e sporca, buia, polverosa... un odore di sudore e muffa impregnava i muri crepati e mi faceva sentire indifesa, piccola... ah, in quel luogo c’era qualcosa che ricordavo, che ricordavo fin troppo bene. E quel ricordo era doloroso, eppure ne sapevo estrapolare una sfumatura più chiara, una dolcezza quasi sofferente, ma pur sempre dolce. Ero già stata in quel posto, in una delle mille vite che avevo vissuto.
Proprio in quel momento vidi un bambino che giocava sul tappeto, mi guardò con i suoi grandissimi occhi azzurri, facendomi sorridere in mezzo a tante disgrazie e a tanto dolore. Sembrava avere intorno ai due anni, era ancora piccolo, eppure i suoi occhi seppero sorridermi come nessun altro adulto era mai riuscito a fare. E rise di gusto battendo le minuscole manine, non appena lo salutai con una faccia buffa. Copiai il suo gesto, provando un’incredibile ondata di tenerezza quando rise per la mia buffa espressione. Era il primo bambino che vedevo... il primo. Ed era uno spettacolo della natura, qualcosa di magico e inspiegabile vedere un essere così piccolo in vita. Mi accucciai lentamente e gli sfiorai la mano: oh, quanto era bello! I capelli biondi scuri, quasi rossicci, rendevano dolcissimo il suo viso sorridente e i suoi lineamenti teneri e dolci: aveva due grandi occhi blu come il mare, trasparenti come il vetro e luminosi come il sole, che mi regalavano un sorriso mentre rideva. Accarezzai le sue guancette rosse, intenerita da quel bambino:
-Ehi, piccolino...- sussurrai
-Ciao- rispose con una risata timida e una voce squillante
-Come ti chiami?-
-Sam. Mi chiamo Sam- mormorò, impastando le parole come tutti i bambini della sua età
-Sei bellissimo- sorrisi, guardandolo dolcemente negli occhi con un piccolo buffetto sulla guancia -Io mi chiamo Camilla-
-Mamma!- ridacchiò con dolcezza
-Cosa?- chiesi perplessa, aggottando le sopracciglia
-Oh, fa così con tutti, non preoccuparti- mi interruppe una voce -E’ ancora piccolo...- disse la donna, tornando dalla cucina con una tazza di caffè, che mi porse con un’inaspettata gentilezza:
-Siediti, avanti-
-Quello è suo figlio?- chiesi interessata, guardando il bambino. La donna fece una piccola smorfia:
-No, non proprio... di un’amica-
-Ah, capisco… mi ha chiamato mamma- sorrisi intenerita –è davvero un bimbo adorabile- mi complimentai, passando gli occhi dal bambino alla vecchia signora, che rispose guardando verso le tende scure della finestre in modo disinteressato, sbuffando, come se fosse infastidita dalla mia presenza. Sospirò guardandomi con aria grave:
-Sua madre è morta prima ancora che potesse conoscerla... chiama “mamma” chiunque gli stia simpatico- concluse con un sospiro, portando la vecchia tazza di caffè alla bocca, mentre io la lasciai sul tavolo, disgustata dalla polvere che riempiva quel luogo orribile, e troppo addolcita dagli occhi azzurri di quel piccolo bambolotto davanti a me, che guardavo come se fosse la cosa più preziosa e rara al mondo:
-Oh- sospirai sorridendo e cercando di nuovo un contatto con quegli occhioni sinceri e dolci, quando il bimbo si avvicinò a me ridendo e mi mise in mano un giocattolo. Oh, era così carino, con i suoi piccoli piedini veloci e le minuscole manine che cercavano di essere veloci, per non parlare dei suoi grossi occhioni colore del mare... era davvero adorabile:
-Beh- dissi facendogli una faccia buffa –Mi dispiace molto, dev’essere stato orribile...-
-Non sai quanto- disse la donna a bassa voce, con un tono che sembrava un misto fra il cinico, il triste e il polemico.
Allungai le braccia per prendere il bambino in braccio, ma la donna mi bloccò con tono severo:
-Non qui, c’è la finestra!- mi fermò in fretta e guardò spaventata fuori dal piccolo vetro sporco, che dava su una delle stradine della città, così, con tono duro e severo, brontolò il bimbo, tirandogli un piccolo schiaffo sulla mano:
-Quante volte ti ho detto di non avvicinarti alle finestre, Sam?!- il piccolo guardò la donna per un paio di secondi, dopodiché si fissò il dorso della mano, leggermente rosso, e scoppiò a piangere per il rimprovero, facendo scendere due grosse lacrime dagli occhi
-Lei ha rapito questo bambino?- urlai alzandomi di colpo, con tono preoccupato e piuttosto violento -Lo tiene segregato?-
-Cosa? No! Non sono fatti suoi!-
-Perché non vuole che il bambino venga visto? Non può tenerlo chiuso qui!- lo presi in braccio quasi per difenderlo, ma lei me lo tolse subito con un gesto violento, riappoggiandolo in terra con fare del tutto inappropriato:
-Chi sei tu per dirmi questo!? Togli le mani di dosso dal mio bambino! Ho le mie ragioni per non farlo vedere dalla finestra, credimi, ragazzina! Il bambino non è tuo!-
-Mi dispiace, ha... ha ragione- balbettai dispiaciuta e spaventata, allontanandomi intenzionata ad andarmene e a lasciare quella casa. Ma mi fermai immediatamente, fui pietrificata da un’immagine: vidi una foto, una foto che mi ricordò qualcosa.
C’era un vecchio mulino in mezzo a una distesa di verde e sullo sfondo un grande castello bianco: e quel luogo, quel luogo mi ricordava molte cose, sembrava davvero familiare. I miei occhi di colpo si concentrarono solo su di esso, mi si gelò il sangue. Iniziai a sentire del vento fra i capelli e improvvisamente entrai nell’immagine, feci un viaggio dentro la mia mente, dentro quei grovigli di ricordi, cercando di fare luce in tutto quel buio.
Vidi una bambina intorno ai sei, sette anni.
Aveva dei lunghi capelli ricci e neri come l’ebano, due grandi occhi verdi sgargianti e un adorabile vestitino in pizzo bianco: mi chiese di seguirla, di andare con lei a giocare.
Non ricordo cosa successe dopo, immaginai cose molto strane, ho solo piccoli ricordi di parole sparse, ma non potrei ricostruire nulla... mi trovavo in un grande prato, davanti ad un lago... poco distante da me c’era una campo di grano. Mi accorsi quasi subito di non essere sola: oltre all’altra bambina che già avevo visto una volta, c’erano due maschi, che ridevano felici e correvano in quelle splendide distese d’erba sgargiante: e tutto sembrava perfetto, appunto troppo perfetto per essere reale. Vedevo dai miei stessi occhi, capii subito di essere io, come se in fondo ricordassi alla perfezione quel momento; potevo scorgere le punte dei miei capelli, sentire il respiro affannoso della mia corsa.
Senza ombra di dubbio, io ero quella bambina. Da quel che ricordo, riuscii ad identificare bene le immagini per non più di un minuto, perché subito diventarono sfocate e poco nitide e la storia andò avanti a scatti: trovavamo un mulino a vento... trovavamo? O forse ci avvicinavamo di proposito? Non lo potevo capire durante il sogno, ma potevo chiaramente percepire delle strane sensazioni, quasi un presentimento di qualcosa di non molto piacevole che sarebbe accaduto a breve. Anche solo l’aria, il modo in cui dei nuvoloni iniziavano a oscurare il cielo, il modo in cui il leggero venticello diventava aria afosa e soffocante... c’era qualcosa di misterioso e inspiegabile che, lentamente e impercettibilmente, cercava di darmi un indizio.
Ogni secondo che passava le voci si mescolavano sempre di più, diventavano più confusionarie, i visi e i luoghi più sfocati, il mio respiro più affannoso e la luce del sole più accecante… finché tutto improvvisamente finì e un agghiacciante silenzio riempì le sterminate distese d’erba. Il cielo si fece scuro, le nubi oscurarono il caldo sole estivo. Tutto sembrava immobile, niente si muoveva. Niente faceva rumore. Una voce maschile sussurrò: “Fallo”.
Un urlo di terrore riempì lo spazio aperto, con più potenza che mai, mentre tutto il resto sembrava tacere, anche solo a partire dal vento, ma non potevo vedere altro che buio.
Poi, dopo un paio di secondi, il vento tornò a soffiare, gli uccelli a gracchiare, io a vedere con chiarezza. La bambina con la quale stavo precedentemente giocando era a terra, il viso tagliato e sanguinante, gli occhi chiusi. Era morta.
E tutto questo avvenne nella mia mente in solo pochi secondi... urlai subito involontariamente un nome: “Matilde!”
E così, esausta e distrutta, caddi a terra senza sensi.

 

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 12 ***


Mi svegliai senza ricordare più niente di quello che era successo, neppure del bambino, che non si trovava più in quella stanza al momento… fui aiutata a sdraiarmi su uno sporco e cigolante divano antico e la donna che mi aveva aperto la porta mi si mise davanti. Ferma, impassibile... ero spaventata e non sapevo dove mi trovassi o che cosa mi fosse successo:
-Perché hai urlato il nome Matilde? Perché?!- chiese con ansia la vecchia signora
-Matilde? Io… non ricordo che è successo-
-Sei svenuta urlando “Matilde”. Perché?- chiese la donna con tono angosciato -Tu conoscevi Matilde Ori?- si fermò un attimo scrutandomi dubbiosa, mentre cercavo ancora di combattere con il mal di testa, confusa -Non è possibile...- disse parlando da sola a bassa voce
-No, mi dispiace signora, non conosco nessuna Matilde, ne sono certa! Non so neppure che ci faccio qui e... -
-Oh no... ma tu, tu… allora sei proprio tu… - quasi urlò senza finire la frase -Che ci fai qui? Come hai fatto a... - iniziò a chiudere le tapparelle in preda al panico
-Signora, non capisco, sono confusa- confessai con totale sincerità, sedendomi sul divano
-Tu sei venuta qui perché hai detto di aver ricevuto un biglietto anonimo... bene, io ti ho detto che saprei di una certa Camilla, ma non potresti essere tu perché... - mormorò dubbiosa -Lei è morta più di due anni fa-
-Io non sono morta- dissi convinta -E sono confusa, non so di cosa stia parlando
-Camilla Ori è morta quasi tre anni fa- sussurrò debolmente, cercando di ragionare, senza riuscire a creare una frase che avesse senso logico -Ma... non... forse ora capisco… oh, devi andartene da qui!!! Ah, per carità! Non posso aiutarti! Come sanno il mio indirizzo? Vattene, vattene subito!!! Esci da casa mia e non tornare!-
La donna, urlando spaventata, mi sbatté fuori di casa. L’ultima cosa che mi disse, appoggiata allo stipite, fu:
-Chi hai visto in questa casa?-
-Lei, solo lei... - Non ricordavo del bambino, non ricordavo di come fossi arrivata là inizialmente, così senza accennare ad alcuna espressione mi sbatté fuori dalla porta, chiudendola a chiave e lasciandomi ancora più confusa di prima.
Bussai, bussai e bussai ancora un milione di volte, ma nessuno mi aprì.
Ciò che stavo vivendo non era realtà, ma solo un uragano di ricordi che mi stava soffocando e uccidendo con tutta la forza... ed ero troppo piccola per non essere schiacciata da tutto quel peso.  E non ricordo neppure cosa successe, ma passai un tempo che non seppi contare a fare sogni strani, ad avere allucinazioni e a vivere strane esperienze, la maggior parte delle quali ricordo solo sotto forma di piccole immagini sfocate e confuse, ovvero le poche che il mio cervello riuscì ad immagazzinare.
Non vivevo più, ma semplicemente esistevo in quella realtà parallela nella quale mi muovevo senza alcuna consapevolezza, lasciandomi trasportare negli angoli più oscuri e nascosti del mio cervello. Avevo sbagliato, avevo sbagliato tutto: non ero forte, ma debole, e da sola non potevo risolvere proprio niente. Mi ero solo fatta del male.
E di nuovo tornava la solita agghiacciante domanda: chi era Camilla Ori?

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 13 ***


Quella situazione durò per un tempo ai miei occhi indeterminato, vano e infinito.
Non riuscivo a far uscire le immagini di quel sogno dalla mia testa, ritornavano in continuazione, sempre con più particolari, sempre più nitide e chiare ai miei occhi. Ed era proprio questa la cosa più spaventosa. Ogni volta che le mie palpebre si chiudevano quelle immagini orribili, che purtroppo avevo identificato come ricordi, mi riempivano la mente.
Ormai avevo ben focalizzato l’immagine di quella Matilde Ori, quella ragazza alla quale avevo preso per un motivo ancora sconosciuto l’identità, quando ero stata trovata a Trento.
Ed ogni volta quel sogno mi lasciava confusa e terrorizzata, riempiva ogni secondo e ogni ora con la sua durezza... e non potevo uscirne, ero di nuovo intrappolata in qualcosa di troppo grande per me.
C’era un grandissimo lago perso nelle solite distesi verdi, ma sembravo quasi spaventata da esso... mi avvicinavo e mi allontanavo subito, il più in fretta possibile. Lo fissavo come se fosse un nemico, rabbrividivo e mi allontanavo ancora.
Appena raggiungevo gli altri bambini, iniziavamo a correre fra i campi di grano come se fosse la cosa più divertente al mondo. Ci rincorrevamo in fretta, sembravamo felici. Risate e gridolini provenivano dai bambini davanti ai miei occhi... correvano e giocavano come bambini normali: io no. Mi fermavo. Sì, proprio così; piantavo i piedi in terra e li fissavo, come se qualcosa mi impedisse di muovermi. Potevo percepire una certa ansia, una certa paura mentre non mi muovevo, come un blocco di ghiaccio rimanevo ferma sui miei piedi. Osservavo con attenzione le piccole innocenti figure davanti a me respirando pesantemente... sembravo non partecipare al loro divertimento, sembravo pensare ad altro. Infatti quello che potevo percepire da quel ricordo era la mia freddezza; non ridevo insieme agli altri, ma facevo il contrario, come se li odiassi e volessi urlare, ma la mia gola me lo impedisse. Ed ecco che mi ritrovavo ad osservarli e basta, quasi come se fossi stata costretta a giocare e non ne avessi in realtà avuto alcuna voglia. Ad un certo punto, mi fermavo di colpo, per richiamare l’attenzione degli altri bambini, davanti a tutti. Iniziavamo a parlare ma non capivo le parole, comunque erano in inglese. Il volume spariva in quella parte del sogno, ovvero dell’incubo. I bambini mi guardavano, rispondevano alle mie parole... ma non riuscivo a capire. Il mio cervello faceva fin troppi sforzi per tentare di far affiorare quelle immagini, quindi non potevo pretendere che i particolari fossero chiari: era tutto sfocato man mano che il sogno si protraeva nel tempo, in una dimensione del tutto staccata dal mondo... in una dimensione che apparteneva solo a me, solo ai misteri segreti che il mio piccolo cuore spezzato celava. Ogni volta che facevo quello strano sogno, ricordavo bene il mio respiro pesante mentre mi avvicinavo, seguendo i bambini, ad un grande mulino a vento; il mio petto si alzava e riabbassava a ritmo irregolare mentre sentivo i miei passi rimbombare, come se camminare fosse diventato un peso. Sembrava che odiassi Matilde, sembrava che cercassi di evitarla con gli occhi: la ricordo, la ricordo bene. L’unica immagine forse non sfocata era proprio il suo visino innocente e buono; due grandi occhi verdi, guance colorite e una corona di morbidi boccoli neri coronavano i suoi splendidi lineamenti, mentre un grazioso vestitino bianco le calzava a pennello. Non avrei potuto dire se fosse simile a me o no, ma ebbi fin dal primo momento lo strano presentimento che fosse una mia parente... forse mia sorella. Nel sogno sbuffavo ogni volta che Matilde parlava e, in generale, non saprei bene spiegarne il perché, ma ho sempre avuto come l’impressione che quella bambina dai capelli neri mi desse quasi fastidio.
In ogni modo, la seguivo correndo fino al famoso mulino e cominciavamo a parlare con una donna che ci faceva delle raccomandazioni, ma anche questa parte è arrivata al mio cervello senza poter distinguere neppure una parola. Il tutto era veloce, i rumori poco chiari, le immagini spezzate e interrotte. Entravamo tuttavia nel piccolo mulino e da qui cominciavo sempre a vedere nero, ma a sentire dei piccoli rumori sommessi, come un sottofondo di brusio, delle parole e dei versi confusi. Allora iniziavo a sentire più confusione, non capivo più niente, finché non ricominciavo a sentire il rumore dei miei piedi su una scala, sempre al buio. Ricominciavo a vedere la luce solo quando nel sogno aprivo una porticina che dava sul tetto del mulino, nel quale riuscivo a camminare senza cadere, come fosse un gioco di prodigio. Matilde, ovviamente più divertita di me, faceva lo stesso, insieme a un altro dei due bambini, che chiamavo Guido. Solo che a quel punto non c’era più Carlo, come avevo chiamato l’altro bambino, sembrava sparito dal nulla… così dicevo qualcosa nell’orecchio a Guido, e lui strabuzzando gli occhi rientrava subito nel mulino. Immersa nel silenzio, guardavo col battito a mille la porticina, che si era richiusa dietro al bambino, finché non lo sentivo mettersi improvvisamente ad urlare; cominciavo ad essere nervosa, guardavo la donna entrare nel mulino per vedere cosa fosse successo. Angosciata, vedevo Carlo raggiungere la mamma appena sull’entrata, piangendo, trascinandosi dietro il cadavere di Carlo! Io osservavo la scena, poi mi giravo verso lo sguardo impaurito di Matilde e mettevo le mani alle orecchie, chiudendo gli occhi. E da quel momento non riuscivo mai  a capire niente… le immagini erano sfocate e confuse, vedevo un uomo in lontananza e più volte dicevo il suo nome, ma nel sogno non sono mai riuscita a capire quale fosse. Perché non riuscivo a riconoscere quell’ombra lontana? Urlavo con tutta la mia forza il suo nome, ma non riuscivo a far uscire la voce: sembrava che volessi dirgli qualcosa di importante e ci provassi insistentemente, ma la voce era bloccata.
Pensavo che quell’uomo dovesse essere fondamentale, poiché appena si avvicinava un po’ di più a noi tutto diventava nero e non potevo più vedere niente, ma potevo sentire. Ogni volta che facevo quell’incubo, ovvero che rivivevo quel momento della mia vita, per quanto mi fosse difficile accettare che lo fosse, un urlo improvviso, forte, affannoso e disperato mi spaccava le orecchie nel buio... così, dal nulla, riuscivo a vedere gli occhi minacciosi di Matilde che si aprivano mentre mi inseguiva sussurrandomi di seguirla. E tutto quanto era in inglese. Capivo ogni singola parola. Lo parlavo alla perfezione... ma il mio nome era italiano ed ero stata ritrovata in Italia. Troppe cose non tornavano, troppe cose.
Una delle cose peggiori di quel sogno era vedere come cercassi di scappare ma le mie gambe non si muovessero; mi sentivo bloccata e incapace di fuggire. Da bambina ero stata violentemente inserita in un mondo a me nuovo e sconosciuto e mi ero arrangiata per rimanere in vita... e ora che avevo ritrovato una persona in me... avevo perso ciò che ero.
Ed ecco che ero per metà buona, per metà crudele, ed ecco che sotto il sole avevo troppo caldo, ma all’ombra troppo freddo. Non ero niente di preciso, solo una personalità spezzata e divisa in troppe parti.
Il paradiso e l’inferno erano per me due figure troppo imprecise, due luoghi troppo imperfetti: avevo bisogno di qualcosa di diverso, ma di cosa? Non lo sapevo e il fatto di non capire le mie esigenze mi distruggeva... ecco perché nel sogno non potevo far altro che sentire un grande peso sullo stomaco.
Se non si può percepire sé stessi, non si può pretendere di imparare a vivere.E per imparare a vivere, bisogna anche imparare a morire.
Ogni volta che la mia mente era costretta ad elaborare i ricordi e a mescolarli con allucinazioni e sciocche esagerazioni che la mia paura da bambina aveva creato, da un momento all’altro a tratti ripercorrevo alcuni momenti della mia vita, ovvero dei miei tre anni passati dal mio risveglio, senza ordine cronologico, a partire proprio dal secondo in cui per la prima volta avevo aperto gli occhi. Le immagini erano sono sempre più veloci e come sottofondo si facevano spazio nella mia mente voci diverse, cattive, che mi insultavano... la mia testa sarebbe potuta scoppiare! Sentivo un assurdo pazzo bisogno di urlare, ma non mi era possibile, non mi era concesso: dovevo ascoltare, dovevo essere succube sottomessa... digerire l’odio del mondo contro qualcosa che non ero stata io a creare... ero stata indotta a fare ciò che avevo fatto da bambina. Avevo imparato a stare in silenzio, avevo imparato a sopportare il dolore, a trattenere il pianto e a fingere i sorrisi: la violenza è una grande maestra. Severa, crudele, brutale... ma dai metodi infallibili. Avevo imparato a camminare in punta di piedi e a stare in silenzio... la mia voce non riusciva ad uscire. Sentivo quelle voci malefiche insultarmi, urlarmi, offendermi... e la voce non usciva, e i miei occhi non riuscivano a muovermi e la mia espressione rimaneva fredda e atona. Il silenzio. Il silenzio spiega tante cose, forse troppe, molte di più di quanto facciano le parole... il problema è riuscire però a leggere voci che non parlano, labbra che non si muovono ed occhi che non si spiegano. E così quelle parole crudeli mi assillavano con cruda violenza, finché il tutto non finiva con la torcia del dottor bianchi puntata su di me e il ricordo della sua voce pronunciare “E’ sveglia”. Il mio incubo finiva ogni volta nello stesso modo. Con il fiatone mi svegliavo sempre sudata, balzavo a sedere sul letto, sul divano o dove mi trovassi, spesso con dei lividi o dei tagli sul corpo. Non so quante volte successe, ero così fuori dal mondo che non avrei potuto contare o capire quante volte feci quel sogno o quanto tempo durò quella situazione, e non avevo neppure idea di cosa stesse succedendo, perché ero del tutto incosciente, come se, a partire da quella notte, con il motorino, fossi morta. E quel pensiero ritornava spesso nella mia mente, era l’unica cosa che minimamente iniziavo a considerare; in ogni modo, per me era tutto reale e la paura c’era. Ero ancora viva? Ero morta? Stavo sognando? Non lo sapevo, non riuscivo a contare il tempo trascorso da quando ero caduta col motorino, da quando tutto era diventato strano e terribile, e quella era la cosa più spaventosa.
Ho pochi ricordi di quegli strani sogni o allucinazioni che fossero, ma i brividi sono ancora sulla mia pelle ogni volta che ne riporto qualcuno in superficie. Non c’è niente di peggio di essere consapevoli durante un incubo... niente. Ed io ero consapevole perché in fondo, che avessi il coraggio di ammetterlo o no, sapevo che non stavo vivendo qualcosa di reale. Non ero stupida, solo spaventata.
E ogni volta che mi risvegliavo dal solito crudo e terribilmente realistico sogno mi ritrovavo nella mia camera. E tutto ricominciava dall’inizio, e l’incubo non finiva mai.
Ma ecco che una notte successe qualcosa di diverso, ecco che riuscii a scostarmi da quella ritmica e precisa successione di fatti che mi spaccava il cervello. Come sempre, mi risvegliai dal mio incubo... la pelle sudata, i pugni saldi al materasso, le lacrime che scavavano le guance morbide. I lunghi capelli erano completamente arruffati intorno a me, annodati... piangevo. Piangevo e tremavo così tanto da far pena a me stessa. Sentii una tale paura, un tale bisogno di fuggire o di smuovere in qualche modo la ragnatela mortale nella quale il mio cervello mi aveva catturato: d’istinto corsi alla finestra.
Cominciai a dimenarmi e ad urlare, cercando di attirare l’attenzione di qualcuno. I miei sforzi non servivano a niente. La voce non usciva, come nel sogno. La gente non mi vedeva. Ero troppo piccola. Troppo lontana da loro. Troppo diversa. Non potevano sentirmi, non potevano vedermi. Ero invisibile.
Sentii uno strano cigolio dietro di me, i miei occhi tornarono vigili e mi girai cautamente, deglutendo. La porta era aperta.
-C’è nessuno?- sussurrai, sentendo il cuore quasi scoppiare sul petto. Dei passi veloci, come se qualcuno stesse correndo. Osservai i brividi sul mio braccio, una lacrima lo bagnò... una lacrima rossa. Mi guardai allo specchio... avevo gli occhi feriti. Sussultai e urlai terrorizzata, dovetti appoggiarmi allo stipite. Sembrava che mi avessero picchiata e quella sensazione mi risultò terribilmente familiare. “No” sussurrai fra me e me “Non sta succedendo davvero, Camilla...” Cercavo, sola e spaventata, di svegliarmi. Continuai a fissarmi, sentii ancora quei passi felpati per la casa... una luce si accese. Di nuovo quella maledetta bambina:
-Camilla...- Non la vedevo, ma potevo sentire la sua voce angelica. “Non è vero” urlai, fissando lo specchio “Non è vero, basta!” cercavo di parlare a me stessa... non mi sentivo. Non capivo. Forse non volevo, forse non ci riuscivo.
-Camilla...- sentii ancora
“Svegliati, accidenti!- urlai con tutta la mia forza “Sveglia!” Mi colpii con uno schiaffo... niente. Era buio, c’era solo poca luce che si avvicinava dalla porta:
-Perché hai paura di me?- disse ancora quella voce -Io non sono cattiva...- Di nuovo passi felpati.
“Basta!” continuavo ad urlare “Camilla, svegliati!” Oh, perché non capivo? “Questo posto non esiste” iniziai a ripetere con le mani sulle orecchie. Ed ecco che la casa intorno a me iniziò lentamente a disintegrarsi. Era tutto così spaventoso eppure irreale! Le foto si disintegrarono lentamente, il muro iniziò a scioglierci, i mobili a rompersi... e il soffitto a cadere, a partire da una grossa crepa, che andò a spaccare il pavimento sotto di me. Piena di orrore, varcai la soglia per uscire di casa e improvvisamente vidi tutto il mio appartamento cadere del tutto a pezzi, finché la porta non si chiuse dietro di me. Mi buttai in terra e iniziai ad urlare… ero disperata. Disperata, ecco tutto. Non avevo più forze, ero arrivata al limite; appena rialzai gli occhi vidi un nuovo nome sul campanello, un colore diverso per la porta, uno zerbino differente... quella non era più casa mia. Cercando di non piangere, poiché tanto non ci sarebbe stato altro da fare, entrai nella casa dei vicini, aperta.
In quel momento non pensavo a niente, non avevo la lucidità di chiedermi cosa stesse succedendo e perché… il mio corpo veniva trascinato, ma ricordo che almeno una cosa era ormai chiara nella mia mente: erano tutti ricordi, tutte manifestazioni di quello che avevo tenuto dentro di me per troppo tempo, cercando di nasconderlo, perché mi faceva troppa paura. Ed ecco che tutti i miei errori mi si rivoltavano contro, rendendomi incapace di uscire da quel turbine di orribili scene! Chissà dov’ero in quel momento, chissà cosa vedevano le persone e intorno a me; mi stavo immaginando una finta realtà e non riuscivo più a uscirne, mi sentivo intrappolata, ed era terribile sapere di aver perso la ragione… era tutto dettato dal mio cervello, ogni singola cosa e questa tremenda affermazione non poteva far altro che convincermi sul fatto che solo io avrei potuto bloccare quel meccanismo. Ma se non ci fossi riuscita? Sarei rimasta per sempre in quel falso mondo immaginario?
Forse sarebbe davvero difficile trovare, dopo tutto ciò che mi era capitato, una risposta a quelle domande e forse è impossibile spiegare con delle semplici parole quanto fosse intensa la mia paura in quel momento. La sofferenza che avevo provato tuttavia nel periodo seguente al coma, sebbene segreta e nel profondo del cuore, poteva essere la causa, il movente di tutto ciò che le stava accadendo; mi sembrava di vedere certe cose perché in fondo ero rimasta traumatizzata da alcuni fatti che mi avevano lasciato nel cuore una cicatrice profonda e, purtroppo, incurabile. Non avevo mai affrontato le voci dentro di me, ed ecco che si stavano rivoltando contro il mio egoismo e la mia superficialità.
Tuttavia, l’unica possibilità che avevo per cercare di uscire da quel buio labirinto era farmi coraggio e andare avanti, accettando la consapevolezza di fare ed agire in una realtà inesistente; proprio per questo motivo quel giorno trovai in me la forza necessaria per entrare in quella casa.

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 14 ***


Quell’ambiente mi ricordò qualcosa, mi dette una strana idea di familiare, perciò iniziai a girovagare persa in un ghiaccio stupore per la casa, cercando di ricordare qualcosa. La cosa che mi colpì di più fu il tavolino, un semplice tavolino in legno; mi sembrava di averlo già visto, ma in una circostanza diversa... lo osservai minuziosamente, cercando di ricordare qualcosa di preciso. Su di esso c’era un quotidiano, completamente inzuppato dall’acqua uscita da un vaso di fiori rotto, i cui pezzi di vetro portavano ad un telecomando... mi ricordò un momento, sentii un urlo nella mia testa, mi sembrò di vedere qualcuno tirare un colpo a quel vaso, ma il tutto fu come sempre confuso. Ma ecco che mi accorsi di alcune gocce di sangue sparse sul tavolo... aumentarono sempre di più ai miei occhi... iniziarono a scivolare sul tavolino, a gocciolare da esso; sussultai per la paura e con un gesto buttai involontariamente in terra il telecomando e, di conseguenza, vidi la televisione accendersi; il sangue sparì. Il vaso non era più rotto. Vidi una data sullo schermo della televisione: 1991. Tremai. Senza sapere perché in realtà, ma tremai.
Cominciai ad indietreggiare preoccupata, anzi forse più che altro terrorizzata, aprii la porta per tornare a casa mia ma mi trovai improvvisamente in mezzo alla strada, completamente diversa da quella davanti a casa mia; e proprio mentre, sconvolta, cercavo di riconoscere qualche luogo, sentii di nuovo la televisione parlare in inglese: “Ci troviamo ora nelle Highlands, in Scozia, dove ieri è sparita...” sentendo quelle parole, mi avvicinai per vedere meglio, e fu lì che sentii qualcosa di davvero spaventoso, quando la giornalista continuò a parlare: “...la giovane Camilla, figlia di Celine ed Enrico Ori, della nobile famiglia inglese...” Non trovai la forza di dire nulla, soprattutto quando vidi in televisione l’immagine di una bambina con sotto il mio nome. Una foto di una piccola bambina che sorrideva, con un pupazzino in mano… una bambina innocente e buona. Quella ero io. La persona che avevo tanto cercato era davanti a me... ora la conoscevo. Avevo i capelli lunghi e castani, un sorriso smagliante e le guance rosse. Sparita? Nobile? Non avevo idea del significato di quelle parole, ma la televisione cambiò subito canale da sola, quando vidi tutto nero e una grande data sullo schermo.
Undici settembre 1991.
Mi avvicinai spaventata, cercando di vedere meglio, quando iniziò un conto alla rovescia, proprio sullo schermo, e dunque sentii una voce ripetersi con forza nella mia mente: “Ricordalo: è una promessa”. Queste orribili parole continuavano a rimbombarmi nella testa, mi tappai le orecchie ed iniziai ad urlare, cercando di farle smettere, quando vidi di nuovo qualcosa nella televisione. Era lo stesso servizio, c’era un uomo a parlare e sotto c’era scritto “Greg Houston, ventisei anni, baby-sitter di Camilla” . Ascoltai con attenzione le sue parole disperate e malinconiche: “Camilla è sempre stata una bravissima bambina, dolce, solare, buona con tutti, fino a quando ha cominciato a parlare di un certo amico immaginario di nome Bones...” concluse con la testa bassa, abbracciando la madre disperata della bambina. E la televisione cambiò ancora canale. Una voce rimbombò con fredda e martellante intensità: “Eccomi”. Era la mia voce, la riconobbi.
Con una paura tremenda spensi la televisione e buttai il telecomando in terra; mi lasciai cadere sul divano, con il cuore in gola e i muscoli tremanti e deboli. Sbiancai tutta in un attimo, due o tre lacrime mi scesero dagli occhi, per andare a bagnare il viso, bianco come quello dei cadaveri… non avrei voluto piangere, ma ero esausta, non ce la facevo davvero più, ero troppo stanca e spaventata; avrei avuto bisogno di un qualsiasi tipo di sostegno, di solidarietà da parte di una persona qualsiasi, ma per me non c’era nessuno. Odiavo il fatto di essermi arresa, di aver buttato la spugna, non entrando di nuovo nella casa della donna con quel bambino. Cos’era quello che aveva di mio? Cosa mi stava nascondendo? Mi odiai, o mi odio ancora, per non aver continuato a bussare a quella porta.
Sconvolta, feci un salto indietro e mi  trascinai a forza da seduta, per arrivare al muro, rannicchiata al quale mi sentivo più sicura; puntavo gli occhi accecati dalle lacrime alla porta che conduceva alla cucina e alternativamente al cielo tempestoso fuori dalla finestra, quasi volessi supplicare qualcuno… non sapevo chi avessi intenzione di supplicare per essere riportata alla normalità, poiché non avevo idea di chi fosse ad avermi messo in un tale turbine di fatti paranormali, spaventosi e terribili... eppure mi chiedevo disperatamente che cosa avessi fatto di male per meritarmi tutto quello che le stava accadendo… e che mi era accaduto, soprattutto. Avevo fatto qualcosa per meritarmi tanto dolore? No, eppure… eppure eccomi terrorizzata a cercare affannosamente di trovare con gli occhi una via d’uscita, per paura di alzarmi e cercarla con le mie gambe; ormai sapevo che mi sarebbe potuta capitare qualsiasi cosa... qualsiasi. Non c’erano regole in quel gioco, ero su un treno che aveva perso la guida... non ne sarei uscita senza conseguenze.
Sentii ancora quella voce, quella voce di bambina, quella voce dolcemente malvagia, canticchiare un’innocente canzoncina:
“Incy Wincy Spider went  up the water spout.
Down came the rain and washed the spider out.
Out came the sunshine and dried up all the rain
And Incy Wincy Spider went up the spout again”
Non era la prima volta che avevo a che fare con quei maledetti versi:
-Mamma- di colpo sentii quella parola rimbombare fra i muri della stanza. Sembrava la voce di un bambino piccolo, indifesa e terrorizzata -Mamma!- chiamò ancora in un mugolio
-C’è qualcuno?- chiesi nel panico, mantenendo le spalle salde al muro
-Mamma!- pianse ancora il bambino... aveva bisogno di aiuto? Non capivo dove fosse, non sapevo cosa fare. Mi girai piena di angoscia, ma non vidi nessuno.
-Chi è?- crollai ancora in un pianto esausto e stufo. Silenzio.
-Mamma!!!- stavolta l’urlo fu forte, disperato, mi pietrificò, ghiaccio e duro di terrore -Aiuto!!!- Eppure non vedevo nessuno. Non potevo aiutarlo.
Ero stanca, stanca e stufa. Ecco perché, senza nemmeno pensarci, feci qualcosa che da tre anni desideravo fare, ma non avevo mai fatto: mi avvicinai alla finestra, vidi la strada sotto di me, le macchine minuscole che correvano frettolose su di essa; sospirai, socchiusi gli occhi. E saltai. Così da un momento all’altro... fu un gesto pazzo, stupido, senza senso... eppure sentivo il bisogno di farlo.
Ma non sarei morta, lo sapevo.
Che peccato, sarebbe stato un accordo più dolce se avessi ricevuto la mia tanto desiderata morte. “Finirai all’inferno” mi diceva sempre la mia psicopatica compagna di stanza a Trento “I suicidi e gli autolesionisti finiscono all’inferno, sai?”
“Menomale. Sarà sicuramente meglio di questo” mormoravo ogni volta in risposta, lasciando che i miei occhi si chiudessero, delusi dalla triste e perenne oscurità intorno e dentro di me. 

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 15 ***


Quando riaprii gli occhi mi trovai di nuovo in quel campo di grano che più volte avevo visto... ero viva. Peccato. Avevo perso un’occasione.
Sarò sincera: sarei davvero voluta morire, ogni cosa sarebbe stata più semplice. Il fatto che fossi ancora in vita mi aveva dimostrato che non avevo fatto altro che fare un piccolo saltino in un nuovo antro del mio cervello marcio.
Vidi avvicinarsi da lontano una figura bianca, una bambina. Inizialmente la guardai con curiosità, poi capii e iniziai a correre, sperando di allontanarmi dal mio incubo... quella ero io. Perché scappavo da me stessa? Semplice: mi veniva naturale. Non era altro che un orribile istinto... avevo paura di quella bambina castana... molta paura. Appena mi voltai, pronta a correre via, la vidi dietro di me. Avevo il cuore a pezzi, sentivo l’aria mancarmi, non riuscivo né a muovermi né a parlare. La bambina dai capelli castani era vestita di bianco, era bellissima e dolce in tutta la sua affascinante semplicità. Si avvicinò a me e si sedette, fissandomi negli occhi:
-Ciao- Non risposi. Non avevo la forza per farlo -Stai aspettando Bones? Anche tu?- si voltò verso di me, ma non reagii in alcun modo -Tu mi credi? Lui è reale, ma nessuno lo sa. Lui esiste. Nessuno lo vede, nessuno lo sente. Nessuno capisce- iniziai a scuotere la testa, con gli occhi rossi per il pianto:
-Io non ti credo...- mugolai terrorizzata
-Oh, dovresti credermi... lui c’è, anche in questo momento. C’è sempre-
-Non è reale!- piansi, cercando inutilmente di asciugare le lacrime che straripavano dagli occhi gonfi
-Sì che lo è... ma le persone normali non capiscono...-
-Tu sei normale-
-No, io non sono come le altre bambine. Io sono diversa...- tremai a quella risposta, che tanto avevo temuto di sentire -Matilde, mia sorella, è buona, ma io non lo sono. Io sono cattiva...-
-No, non è vero!- La bambina rimase in silenzio, si guardò intorno e scosse la testa con un lieve sorriso:
-Sai, lo dicono tutti... è così. I miei genitori non facevano altro che dirmi “cattiva”, allora lo sono diventata. Ma non l’ho deciso da sola, Bones mi ha aiutato. Lui mi vuole davvero bene-
-No, lui non esiste... non esiste davvero-
-Vedi...- continuò, senza considerare le mie parole -mio padre ci ha abbandonato, ha un’altra famiglia che ama di più e l’ho sentito dire che sono un peso. Lui ci picchiava, lui ci faceva male, molto male... e mi ha sempre odiato. Mia madre è in ospedale e anche quando stava in casa non aveva tempo per me. Lei non c’era mai, così l’ho dimenticata. Ecco perché voglio bene a Bones. Lui preferisce me... lui è l’unico che preferisce me. Ed è l’unico che c’è sempre stato- continuai a negare con la testa, quando con tono sereno, come quello con il quale aveva continuato a comportarsi tutto il tempo, mi sorrise francamente -Andrò con lui, lo seguirò... ma ogni cosa sarà un segreto... se lo dirò a qualcuno, mi ucciderà. E ucciderà anche gli altri. Vorrei dirti dove si trova, vorrei spiegarti chi è... ma non lo posso fare, mi dispiace. Se parlassi, morirei. Se parlassi, non mi amerebbe più e io non posso e non voglio tradirlo. Io sono la sua principessa-
-No, smettila... tu non sei reale, non sei davvero qui!- urlai, alzandomi di colpo. Lei fece lo stesso e sorrise:
-Non puoi andare via... - iniziai a correre verso il bosco, l’unica direzione possibile. Non c’era altro là intorno. Dovevo fuggire dalla mia mente marcia! Mi fermò la voce della bambina:
-Vuoi davvero entrare là?- mi fermai subito senza voltarmi, capii le sue parole -Vuoi entrare nel bosco di Bones? Una volta entrata, non ne uscirai più... ricordi cosa ci diceva mamma?- rimasi pietrificata, strinsi i pugni cercando di uscire da quell’incubo -Ricordi la filastrocca? “Nel nostro bel paese, una leggenda c’è. Lupi, mostri e fantasmi... uno scherzo? No, non è. Dentro la foresta, il ciel non è più blu... una volta fatto un passo- marcò queste ultime parole, così dicemmo all’unisono -non se ne esce più- Ricordavo quei versi. E mi spaventavano. Tutt’a un tratto mi ricordai ciò che mi era successo, la scena del tetto… stavolta mi venne in mente un particolare non indifferente e mi sembrò di rivedere quelle immagini, uscii da quel luogo orribile. Non vidi più quella bambina, e fui come trasportata in un altro luogo, in un nuovo angolo della mia mente, in un nuovo groviglio di ricordi che aveva solo bisogno di essere riordinato. Da piccola adoravo mia sorella Matilde, la adoravo davvero, e mi sentivo in dovere di proteggerla, ma lei era sempre così bella e dolce che certe volte non riuscivo a sopportarlo, mi venivano attacchi di rabbia, così dal nulla... in realtà, la causa di quello che successe tanti anni fa non fu proprio colpa della gelosia, ma questo lo scoprii più tardi, poiché ancora al momento potevo solo tentare ipotesi.
Con gli occhi ripercorsi il momento, mi ricordai chiaramente… come tutti i giorni stavo giocando sul tetto del grande mulino con Matilde e un altro bambino, stavamo ridendo e tutto era tranquillo, canticchiavamo e fingevamo di essere equilibristi sulle travi della struttura… ma io non ero molto tranquilla. Ero triste, spaventata, troppo attenta e concentrata quel giorno.
-Sai, la scorsa notte papà è tornato a casa- mi bloccai, senza neppure voltarmi negai con sicurezza
-Stai mentendo-
-No. Lui è tornato davvero-
-Stavi solo sognando...- mormorai guardandola con espressione grave -Papà non tornerà più...-
-Oh, lui ha detto di sì...-
-Smettila!- le urlai -Sei una bugiarda- e continuammo con il nostro gioco per un po’, finché mia sorella non parlò di nuovo
-Sai, discuteva con la mamma... stavano parlando di te-
-Papà non è mai tornato, smettila di mentire! Lui non tornerà, ti ho detto!-
-Lui diceva...- continuò la bambina dai ricci neri -che è stanco del tuo amico immaginario, che è stufo del tuo comportamento e che, se continuerai, ti punirà lui- Io, convinta che mia sorella volesse solo farmi un dispetto, mi fermai ancora e risposi con convinzione, fissandola negli occhi -Beh, allora digli pure che non ho paura dei suoi colpi... non più, ormai- E continuai a camminare sul tetto
-In fondo anche tu sai che non esiste- ridacchiò Matilde
-Davvero? Ah, ne sei sicura? Tu non vorresti essere al mio posto, ti conviene stare in silenzio?-
-Perché? Non hai detto che è buono?-
-Lui lo è, ma lo è in modo diverso. Stanotte stava camminando nel corridoio, non l’hai sentito? Veniva da me...-
-Sei una bugiarda! Bugiarda!- urlò mia sorella, terrorizzata -E’ solo un amico immaginario, lo sanno tutti-
-Lui esiste, esiste davvero! Lo giuro!- 
-Non urlare così, sembri una pazza! Lo sappiamo tutti che mamma e i nonni hanno paura di te perché hai gli amici immaginari!- Nei miei occhi si accese un odio incredibile verso di lei:
-Non mi credi, eh? Sei solo una bambina? Ma non lo vedi, eh? E’ così semplice capire, eppure nessuno capisce...-
-Perché non lo dici allora?-
-Perché non posso- mormorai
-Perché sai che non esiste!!!- rise Matilde, prendendomi in giro
-Perché non posso- ribadii, stringendo i pugni, convinta dalle mie parole
-Sei pazza, sei proprio pazza e stai immaginando tutto... abbiamo tutti paura di te-
Quelle parole suscitarono in me un’amarezza fortissima, così, invece di risponderle a tono e di cominciare una genuina discussione, come avrebbe fatto una bambina normale, mi misi in un angolo, di schiena e cominciai a cantare la filastrocca “Incy Wincy Spider” piangendo e guardando in basso. Facevo così quando dovevo trattenere la rabbia, quando dovevo chiudere la bocca ed evitare di parlare troppo.
-Camilla scherzavo, io… io stavo scherzando, davvero. Basta ora… torniamo giù, se vuoi- mormorò Matilde spaventata, avvicinandosi a me; il suo sguardo cambiò improvvisamente, divenne impaurito; dissi qualcosa nell’orecchio a Guido, che ci osservava sconvolto, e che, appena sentì le mie parole, scappò dal tetto per rientrare nel mulino.
-Mamma!- si lamentò Matilde con voce seria e paziente, tirando un sospiro
-Non ti muovere- dissi io -Non sono arrabbiata- scossi la testa -Devo fare una cosa, però... è per una promessa... ho giurato, sai. Non vorrei farlo, ma devo- dissi senza guardarla negli occhi
-Che cosa?-
-Una cosa...- sussurrai, guardando il cielo -Ho giurato che l’avrei fatta...-
-Quando?- chiese mia sorella, avvicinandosi a me e accucciandosi, incuriosita
-Oggi- mormorai -Ora- dissi più convinta. Mi alzai in piedi improvvisamente, i miei occhi divennero scuri, crudeli per il dolore e iniziai a camminare, costringendo mia sorella ad andare indietro. Matilde si allontanava mentre io mi avvicinavo sempre di più a lei:
-Camilla, che ti prende? Sto per cadere, fermati...-
-L’ho promesso- mormorai con voce tremante
Mia madre ci vide e subito sbuffò infastidita, rimproverandomi:
-Camilla, scendi subito da quel tetto!- Mi fermai. La guardai con i miei occhi neri e cattivi
-Mamma, io ti voglio bene- sussurrai con la voce un po’ tremante -E mi dispiace se tu non me ne vuoi-
-Ho detto di scendere- rispose lei freddamente -Ora!-
-Devo fare una cosa, mammina- mugolai, fissandola negli occhi –E tu mi odierai-
-Camilla, se non scendi subito ti chiudo in camera per una settimana, lo giuro! Basta di fare la stupida!- mi urlò ancora lei, non curandosi dei miei occhi lucidi e stanchi
-Dimmi che mi vuoi bene, mamma, dimmi che non sono costretta ad andarmene da qui- una lacrima uscì dai miei occhi guardando la donna infastidita e annoiata rimproverarmi
-Ma che dici?! Smettila di dire sciocchezze, non mi piace il tuo tono... voglio che tu scenda! Subito-
Sospirai e fissai gli occhi innocenti di mia sorella, sentii la gola secca e lo stomaco contorcersi per il dolore:
-Mamma, mamma... noi non ci vedremo più- continuavo a ripetere, scuotendo la testa. Ma lei urlava, non mi stava a sentire:
-Di cosa parli, non fare la stupida! Smettila di fare queste tragedie!!!-
-Mamma, Bones ha detto che...-
-Bones non esiste!!!- urlò istericamente la donna con tutta la sua voce. E rimasi immobile, in silenzio -Bones è solo una stupida invenzione del tuo cervello, Camilla!!! Basta di farti notare, siamo stanchi delle tue bugie!- urlò quelle parole disperatamente, come se le avesse trattenute da troppo, troppo tempo. Io rimasi immobile, dolorante come mai:
-Non sono bugiarda- mormorai. E quelle furono le ultime parole che dissi, fissando Matilde, che rispose con un duro, crudele, cattivo:
-Oh, sì che lo sei- E io non ci vidi più. Mi sentii offesa, soffocata, uccisa dall’amore non ricambiato che avevo nel cuore: e spinsi mia sorella di sotto. Fu un secondo, un secondo di fuoco. Le mie braccia la buttarono già, le mie mani si macchiarono di un senso di colpa indelebile, il suo corpo debole tagliò l’aria soffocante e immobile, finché non si accasciò per terra, distrutto e ferito. Morta. Era morta. L’avevo uccisa io.
Non mi resi conto di ciò che avevo fatto e quando vidi tutti intorno a Matilde che cercavano di risvegliarla  sentii una terribile sensazione di nausea; vomitai sul mulino, accasciata sul tetto. E poi, confusa e sconvolta, sentendo le urla disperate contro di me, scesi subito, tentando di nascondermi. Vidi uscire dalla casa il cadavere di Carlo, trascinato appunto da Guido. Mia mamma si buttò su di lui, pianse disperatamente: e io mi ritrovai davanti a lei. Avevo i piccoli piedi accanto al cadavere di mio fratello, le braccia che ricadevano deboli. Tirai fuori dal vestito una siringa, una piccola siringa sporca di sangue; allungai la mano verso mia mamma, che piangeva ancora sul figlio. E lei alzò gli occhi. Quegli occhi che amavo così tanto. Ricordo ancora il suo sguardo pieno di dolore, di odio, di disgusto -Sei stata tu!- sussurrò, fissando la siringa sporca di sangue -tu...- disse ancora senza fiato. Ed io la guardai negli occhi, e lasciai ricadere la mia piccola arma sul corpo accasciato di mio fratello. Quel momento durò un’eternità. -Sei stata tu!!! Assassina! Ti odio!- urlò stavolta con violenza, alzandosi con gli occhi rossi, sconvolti e gonfi di lacrime. Mi picchiò in tutta la sua disperazione, ma quei colpi non fecero niente in confronto al dolore procurato dalle sue parole. Fissai la tragedia davanti ai miei occhi sconvolta, terrorizzata e confusa, in silenzio... senza parlare, senza farmi vedere. Mi odiavano così tanto che, piuttosto che urlarmi contro, non mi considerarono... e forse avrei preferito che facessero domande, forse avrei preferito che mi chiedessero perché, così avrei potuto spiegare. Ma no, loro continuarono a disperarsi e concentrarsi su Matilde e mio fratello... e io ero ghiaccia per il terrore, pallida e incapace di capire cosa io stessa avevo appena fatto.
Per tutta la vita. Per tutta la vita mi sarei portata dietro quel senso di colpa.
Ero ferma, i piedi piantati a terra e gli occhi spalancati verso il debole corpo morto di mia sorella: la guardavo e non potevo crederci.
La mia piccola, dolce sorellina... avevo appena ucciso la mia sorellina.
Sentivo urlare parole orribili, ma per pensare a me erano troppo presi dai miei fratelli, quindi mia madre, mio fratello e i miei nonni si limitarono a mandarmi maledizioni e parole di odio, mentre mi allontanavo guardandomi le mani assassine, un tempo pure, terrorizzata.
-Scusate- sussurrai. Ma nessuno mi sentì. Non mi sentivano mai.
-Scusate- mormorai ancora, pallida in viso, fissando la tragedia davanti a me. Nessuno mi guardò, nessuno si voltò e io capii che non mi avrebbero perdonato, capii che le cose non sarebbero più tornate come prima. Dovevo fuggire, andarmene per sempre... non potevo più essere la bambina che ero stata.
Iniziai a correre senza fiato, corsi il più lontano possibile, corsi con le lacrime agli occhi... era tutto finito, avevo fatto la mia scelta. Mi ritrovai davanti un grande bosco nero: sapevo a cosa andavo incontro, sapevo il motivo per cui ero stata costretta ad uccidere mia sorella. Terrorizzata, con un passo varcai la soglia di quel luogo spettrale, pronta ad una nuova vita. Avevo scelto, non potevo più tornare indietro.
Andai avanti lentamente, fra quei rumori orrendi di urla di disperazione di sottofondo, stringendo i denti e strizzando gli occhi nel tentativo di trattenere un inutile pianto.
Mi voltai verso la disgrazia che avevo appena causato, fra le urla disperate e ovattate e diedi un’ultima occhiata alla mia vita, alzai la piccola mano e la salutai, uscendone per sempre. Quello fu il mio addio.
E da lì tutto finì... la mia vita finì, morii per sempre e fui destinata a vagare nel mondo senza un ruolo, senza un cuore e senza un’anima.
E il mio viaggio mostruosamente doloroso si interruppe qui; ripercorsi alcuni momenti sparsi e piuttosto confusionari della mia infanzia, il malefico rumore dell’elettrocardiogramma rimbombò nei miei ricordi, insieme alle parole angosciate del dottore nell’ambulanza, finché tutto non finì con il sofferente risveglio a Trento:
“E’ sveglia”. E poi non vidi più niente.
Riaprii gli occhi in un ospedale, circondata da dottori e facce sconosciute.
Avevo lottato un’altra volta... ed ero viva.

 

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Capitolo 18
*** CAPITOLO 16 ***


“Signorina Ori” mi chiamò un dottore, appoggiando le mani sulle mie tempie “Signorina Ori... è sveglia?”
Mugolai e mi rigirai nelle coperte bianche e pulite, senza tuttavia dare una vera risposta. Una piccola torcia fu puntata sulle mie pupille, quindi richiusi gli occhi con un lamento. Il mio cuore batteva fortissimo ed ogni cosa mi dava un grandissimo fastidio, a partire dal rumore dell’ospedale affollato alla luce che entrava dalla finestra e al rintocco dell’orologio che segnava mezzogiorno. Avevo paura: tutti quei colori, quei rumori, quella luce... mi sentivo proprio come se quel risveglio fosse stato troppo violento per quanto il mio corpo potesse sopportare, così iniziai a guardarmi intorno confusa e spaventata, strabuzzando gli occhi.
-Va tutto bene, adesso sei al sicuro- mi tranquillizzò il dottore -Capisci le mie parole?- Annuii debolmente, cercando di muovere i piedi e le mani indolenziti:
-Dove mi trovo?- mormorai muovendo lentamente la testa
-All’ospedale di Lucca, Camilla. Ricordi cosa ti è successo?-
-Mia sorella!- esclamai subito -Dovete salvarla, siete in tempo! Io non volevo farle male e...-
-Stai calma- scosse la testa il dottore, facendomi una piccola puntura e facendomi sdraiare nuovamente sul letto -Tua sorella sta bene, non devi preoccuparti-
-Ma, io... eravamo sul mulino, ho ricordato e... e poi mia madre non...-
-Quelle cose non sono successe davvero- disse con calma il dottore, sedendosi proprio accanto a me e lasciandomi sconvolta:
-Non capisco- balbettai confusa -Io dovevo ucciderla, l’avevo promesso...-
-Calmati, calmati- sussurrò il dottore -Tranquilla, sei al sicuro e potrai tornare a casa tua: la tua famiglia potrà venire a trovarti già dalla prossima settimana-
-La mia famiglia non c’è più, mia sorella è morta- mormorai sconvolta, ancora confusa da tutto quello che avevo visto
-No, sto parlando della tua famiglia adottiva, Camilla; cerca di mantenere la calma-
-E... e tutto quello che è successo?- Il dottore mi strinse la mano e mi guardò con dolcezza per qualche secondo, quindi parlò lentamente, tenendo salda la mia mano e fissando con preoccupazione l’elettrocardiogramma:
-Hai dormito molto, mia cara, e ora hai bisogno di un po’ di tempo per digerire le informazioni e riprenderti: hai fatto un incidente con il motorino...-
-Sì, lo so- mormorai con la gola secca e la vista offuscata -mi sono risvegliata da sola e...-
-No- mi fermò il dottore con gentilezza, parlando con tono calmo e buono -E’ successo due mesi fa. Ti sei svegliata solamente ora, tutto quello che hai visto è stato solo frutto della tua immaginazione... a volte succede se... beh, se si hanno traumi fisici gravi come il tuo-
-Co... cosa?-
-Hai sbattuto contro un camion, Camilla, e hai preso un colpo molto, molto forte alla testa-
-Potrò muovere le gambe?-
-Tranquilla, certo che potrai! Con un po’ di terapia, però, perché al momento è normale che tu ti senta un po’... come dire, ingessata-
-Va bene- risposi, fissando il muro davanti a me. Ero ancora confusa e in realtà non avevo capito molto delle parole del dottore, che infatti volle accertarsi della mia situazione:
-Allora, Camilla, per prima cosa devo accertarmi che tu stia bene. Dove ci troviamo ora?-
-Nel suo studio, dottore- risposi con un piccolo lamento per il dolore che avevo alle ossa e ai muscoli
-Che tipo di mobili vedi?-
-La sua scrivania, la libreria e una sedia-
-Bene- assentì, scrivendo su un blocchetto -Ed ora potresti descrivermi la stanza dell’ospedale? Vedi, ci troviamo proprio in una stanza dell’ospedale-
-Sì, lo so- risposi convinta
-Ecco, perfetto... descrivilo, Camilla. Descrivi il luogo che vedi-
-Vedo la mia compagna di stanza-
-Vedi qualcuno insieme a te?- chiese dubbioso il dottore, osservando la minuscola stanza, occupata solo dal mio letto
-Come sempre, la mia compagna di stanza- Lo sguardo del dottore divenne più serio non appena si accorse della gravità della mia situazione... le cose che avevo visto e scoperto durante il coma mi avevano letteralmente distrutto e avevo solo bisogno di tempo per digerirle
-Come sempre? Sei da molto in questo ospedale?- chiese allora il dottore
-Da molto, sì. Uscirò fra due anni-
-Ah, capisco- rispose il dottore, rendendosi conto della situazione -Dove si trova questo ospedale?-
-A Trento- risposi con freddezza, gli occhi fissi nel vuoto
 -Potresti dirmi il nome che leggi sul mio camice?- chiese incuriosito, avvicinandosi al lettino. Esitai qualche secondo, quindi mi decisi a rispondere:
-Dottor Bianchi-
-Bianchi?- chiese dubbioso, scrivendo sul suo blocchetto
-Esattamente. Qualcosa... qualcosa non va con il suo nome?-
-No, no, hai ragione. Volevo solo verificare, Camilla-
-Camilla?- chiesi confusa, osservando l’uomo davanti a me con perplessità. Il dottore non rispose, scosse la testa con un espressione quasi di compianto e dispiacere, quindi mi interrogò ancora:
-Oggi è il diciassette Dicembre del 2002, lo sai, vero?-
-Lo so-
-D’accordo. Puoi dirmi che giorno è oggi allora?- La sua domanda mi lasciò impreparata, esitai fissando ancora il muro davanti a me, quindi scandii bene le parole, più convinta che mai:
-11 settembre del 1991-  in quell’esatto momento mi fermai e il mio sguardo si tramutò da sicuro a terrorizzato, quindi guardai il dottore che, con sguardo interrogativo, mi chiese:
-1991? 11 settembre del 1991?-
-No, non l’ho detto!- esclamai, in preda al panico
-Sì, tu hai detto 11 settembre 1990... che è successo quel giorno?- Non risposi e iniziai a scuotere la testa, quindi il dottore mi rifece più volte la domanda.
Iniziai a ripetere fra me e me un debole “non lo so”, quando, improvvisamente, mi ritrovai sopra il mulino... il mulino che, purtroppo, avevo già visto tante volte. E abbandonai ancora la vita reale, per tuffarmi negli angoli nascosti della mia psiche.
Sentii l’aria fra i capelli, un rumore di qualcuno salire le scale e poi una voce, chiara e dolce, la stessa che più volte avevo sentito:
-Cosa è successo l’11 settembre del 1990?-
-Chi è?- urlai, voltandomi indietro. Ma non c’era nessuno. Di nuovo sentii quella voce rimbombare:
-Cosa hai fatto quel giorno?-
-Niente, non ho fatto niente!-
-Sicura?-
-Sì!- urlai, piena di disperazione, dopodiché mi voltai e vidi ancora la bambina dai capelli castani sorridermi divertita
-Ciao- disse ancora, con voce angelica
-Chi sei?- chiesi tremante, come se non sapessi già la risposta
-Tu sai chi sono io- si smosse i capelli  e iniziò a camminare sul tetto, con estremo prodigio
-Tu non sei reale... -
-Forse sì, forse no... chi lo sa-
-Che cosa significa?- fece spallucce e iniziò a canticchiare una melodia:
“Incy wincy spider walked up the water spout...”
-No! Smettila!- urlai, perché la facesse finita. Odiavo quella canzoncina, ma non sapevo perché. La bambina scoppiò a ridere e di nuovo mi fece una domanda:
-Sai che giorno è oggi?-
-Diciassette Dicembre del 2002-
-No, ti sbagli. Oggi è l’undici settembre del 1991-
-No, non è vero!-
-Sì, lo è. Sei pronta?-
-A fare cosa?- urlai, finché la bambina non sparì e vidi un coltello sul tetto; di nuovo la voce:
-Avanti, prendilo in mano... - senza riuscire a controllarmi, lo presi con fermezza, piangendo. Sapevo che non avrei dovuto farlo, ma lo feci comunque. Vidi un bambino davanti a me... era Guido, quello del sogno. Sentii i piedi muoversi da soli verso il suo sguardo spaventato
-Non lo fare, ti prego... svegliati!-
-Io sono sveglia- ripetei con tono sofferente
-Camilla, mantieni la calma- feci una paio di passi all’indietro, quando vidi ancora la bambina sorridere soddisfatta:
-Sai che lo devi fare, sai quali saranno le conseguenze se non lo farai... -
-Non posso!-
-Tu puoi!-
-No, non sono un’assassina!!!- urlai, quando si avvicinò a me e sistemò la presa del coltello fra le mani
-Uccidi tuo fratello- senza poter controllare il mio corpo, iniziai a camminare verso il bambino
-No, Camilla... svegliati, ragiona. Io non sono tuo fratello, non è l’undici settembre del 1991-
-Devo farlo, perdonami- dissi fra le lacrime
-Svegliati!- appena pronunciò queste parole, cambiò subito sembianze: era il dottore.
Fu un lampo, un secondo… vidi il viso del dottore davanti a me. Mi girai intorno, ero nel suo studio, avevo un trofeo in mano. Sentii il rintocco dell’orologio, un silenzio minaccioso mi avvolgeva. Ero in piedi. Con la massima precauzione, mi si avvicinò, ed io, sconvolta, lasciai cadere il trofeo in terra:
-Camilla, devi mantenere la calma. Ragiona. Leggi nel giornale che giorno è-
-11 settembre del 1991- ecco ciò che lessi. Ero convinta, sicura, la data era quella. L’avevo letta, non potevo essermi sbagliata
-No. Leggi bene, mantieni la concentrazione-
-11 settembre del 1991!- urlai ancora terrorizzata, leggendo dal giornale.
Ed ecco che, nuovamente, mi trovai in quel tetto. Quella voce spettrale si fece avanti:
-Cosa hai fatto l’11 settembre del 1991?-
-Niente! Lasciatemi in pace!-
-Cosa hai fatto quel giorno?- disse la bambina dietro di me
-Tu chi sei?- tentai di colpirla, ma la mia mano passò attraversi il suo esile corpo -Vedi, tu non esisti-
-Io esisto... -
-No, non è vero-
-Eppure sono qui-
-Qui dove?-
-Qui, a casa tua, l’11 settembre del 1991-
-Non è casa mia, vattene!- mormorai, terrorizzata
-Questa è casa tua... questa è casa mia. Questa è casa nostra- ripeté con voce angelica
-Smettila!- le urlai contro -Tu non esisti! Non sei reale!- mi tappai le orecchie e tentai di isolarmi da quei rumori, ma non riuscivo ad uscire da quella situazione. La bambina sorrideva ancora, proprio come un angelo, con i suoi morbidi e dolci lineamenti
-Io esisto... proprio qui- mormorò toccandomi le tempie. Mi immobilizzai a quelle parole. Io non ero pazza, non potevo esserlo. Non potevo!
In quel momento, vidi la bambina buttare giù dal mulino Matilde. Fu un secondo. Un’immagine.
Mi buttai sulla superficie del tetto per aiutarla e le presi la mano, cercai di tenerla mentre lottava contro il legno scivoloso del tetto. I suoi occhi verdi mi puntavano. La bambina dietro di me continuava a sorridere, non riuscii più a tenere la presa e Matilde cadde. La vidi cadere.
-Guarda che hai fatto- disse la bambina castana, indicando il corpo terra –L’hai uccisa-
-No... - mormorai  debolmente
-Se ne è andata, è morta per sempre. Sei stata tu!-
-No, sei stata tu. Non io... tu!-
-Appunto. Sei stata tu- disse con naturalezza. Misi la mano alla bocca, piena di paura, e vidi la bambina fare lo stesso. Muovendomi, mi accorsi che ogni mia mossa veniva ripetuta da lei. Ogni singola mossa... io ero quella bambina. Chiusi gli occhi per il dolore e appena li riaprii mi ritrovai ancora nello studio del dottore.

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Capitolo 19
*** CAPITOLO 17 ***


Mi stavo guardando allo specchio, ad un grande specchio in legno. Ricordai tutte quelle volte in cui a Trento avevo visto un’immagine di una sconosciuta e il dottor Bianchi mi aveva sempre detto che un giorno avrei visto la vera me: aveva ragione. E mi ci vollero due anni per capirlo. Potevo capire chi era la figura riflessa nello specchio: Camilla Ori. Ero proprio io. La vedevo lì, immobile davanti a me, con il suo sorriso dolce, il suo vestito bianco, il suo viso bellissimo e fresco. E anche lei mi fissava, i suoi occhi da adulta mi sfidavano e mi parlavano
-Dottore, chi è la persona nello specchio?- mormorai angosciata, continuando a guardare lo specchio
-Sei tu-
-No, non è vero. E’ di nuovo quella bambina... lei non mi lascerà mai in pace!- sussurrai con le lacrime agli occhi, scuotendo la testa, delusa e sofferente
-Camilla, guardami: ci sei solo tu nello specchio-
-Lei chi è?- mi voltai dubbiosa verso quel dottore mai visto prima, che rispose con naturalezza, facendomi sedere su una poltrona:
-Il dottore, non ricordi?-
-Dov’è il dottor Bianchi?-
-Non so chi sia, non c’è mai stato qualcuno con questo nome in questo ospedale. Ne abbiamo parlato la scorsa settimana, Camilla, ricordi?-
-Scorsa settimana?- chiesi con un piccolo tragico sorriso -Di che parla? Mi sono risvegliata dieci minuti fa-
-No- mi disse il dottore, preoccupato -Sei sotto effetto di morfina, sei confusa... ti sei svegliata sei giorni fa. Mi chiamo Giorgio Serpi e siamo all’ospedale psichiatrico di Lucca. La prossima settimana potrai vedere di nuovo la tua famiglia...-
-Cosa? No... non è vero- borbottai sconvolta, indietreggiando -Non è vero, io... io mi sono svegliata poco fa e...-
-Non preoccuparti, fra poco starai meglio, è solo amnesia temporanea. Ti sei svegliata dal tuo incidente la settimana scorsa-
-Non sono pazza!- esclamai, allontanandomi da lui
-Lo sappiamo, ma devi riprenderti-
-Ho avuto un incidente, non sono pazza!- ribadii fermamente
-Sì, certamente. Non preoccuparti, sono solo accertamenti. Ora devi riposare-
-No, voglio solo andarmene... non capisco più niente!-
-Non puoi, non ora- disse con calma, accompagnandomi verso la camera, ma indietreggiai scuotendo la testa
-No, no, no... la prego, no. Non voglio tornare in un centro psichiatrico... no!-
-No, tu rimarrai qui. Ti sdraierai sul letto e dormirai; domani dovremo parlare-
-No, mi lasci!- mi dimenai urlando, cercando di spingerlo
-Camilla, smettila, questo comportamento non servirà a niente! Stai perdendo la ragione e stare in questo posto è l’unica cosa che può aiutarti!-
-Come sa il mio nome?-
-L’hai detto durante i due mesi che hai passato qui, più volte. L’avevo già detto qualche giorno fa... tranquilla, sei stata operata alla testa solo due giorni fa, è normale che non ti senta molto bene: da domani non useremo più morfina e starai molto, davvero molto meglio-
-Mi porti a casa mia- esclamai, confusa e distrutta dall’idea di ricominciare ogni cosa dall’inizio
-No. Devi dormire- concluse severamente, accompagnandomi nella mia stanza
-Sì- mormorai debolmente, incapace di replicare. Avevo capito che dovevo accettare, avevo capito che dovevo stare zitta, anche perché il mio dolore era troppo forte per lamentarmi.
E, vedendo il dottore uscire dalla stanza, pensai a quanto fossi sola, a quanto fosse grande l’ingiustizia che mi era capitata. Un trauma non era stato abbastanza? Non ressi più la tensione, mi sentivo terribilmente sciocca, stupida, pazza... da talmente tanto tempo stavo male che non riuscii a trattenermi, e mi inginocchiai per terra, urlando e piangendo; fu il mio sfogo, ne avevo bisogno. Per l’ennesima volta.
Un’infermiera si affacciò alla porta e mi si avvicinò con gentilezza e calma:
-Signorina Ori, venga, torniamo a letto... si sdrai-
E così mi lasciai trasportare, continuando ad urlare e a piangere… per me, ancora una volta, non esisteva più niente. Ero di nuovo intrappolata nei miei stessi errori.

 

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Capitolo 20
*** CAPITOLO 18 ***


Quella notte fu tremenda, ormai molti dei miei ricordi erano vivi nella mia mente e sapevo di aver ucciso Matilde, mia sorella. Inoltre, sapevo anche che sarei dovuta stare attenta a non dichiarare direttamente nessuna delle mie colpe... non potevo permetterlo. Mi avrebbero messo in galera se l’avessi fatto, quindi dovevo cercare di contenere le mie emozioni. Fortunatamente, l’unica cosa che il dottore era riuscito a capire era il mio nome: Camilla. Questo mi tranquillizzava, in parte, perché mi sentivo una criminale, una fuori legge, un’assassina e temevo che la mia identità potesse essere scoperta... forse perché io stessa ero la prima a temerla.
Tuttavia tante cose erano confusionarie e inspiegabili ed ero, per l’ennesima volta, stanca e triste... come se già le difficoltà che avevo avuto non mi avessero abbattuto abbastanza. Di tante cose, in realtà, avrei voluto sapere di più, ma non sarebbe servito... avevo capito ormai, era davvero semplice: tutto era frutto della mia immaginazione. Che altre spiegazioni avrei potuto chiedere? Tutto si annullava dietro al concetto di “allucinazione”... qualsiasi mia domanda si sarebbe riferita a qualcosa di astratto, quindi rimasi in silenzio, chiusa in me stessa, soffocando i dubbi e le incertezze.
Mi ero ripresa con così tanta fatica... era giusto che dovessi ripetere tutti quei passi e tutte quelle difficoltà ancora una volta? L’idea di ricominciare tutto da l’inizio era a dir poco agghiacciante per me, come se tutta la strada percorsa finora non fosse altro che un cerchio... ero ritornata al punto di partenza: e se non fossi mai arrivata alla fine di quella strada? Forse gli uomini sono destinati a non arrivare mai in fondo, forse nessuno riesce ad essere del tutto soddisfatto... ero nata per essere infelice. Ero nata per piangere ed urlare, ero nata per rantolare nel buio... ma ero destinata a sopravvivere, a lottare e a stringere i denti, sopportando la durezza della vita... ero destinata a non arrivare mai in alto: ogni volta, tutto sarebbe degenerato. Questo fu esattamente ciò che pensai pochi giorni dopo il risveglio dal mio secondo coma... la vita mi faceva schifo, sì. Provavo disgusto, odio, disprezzo e se avessi potuto avrei davvero scelto la morte: avrei sofferto meno ed ero certa che l’annullamento di me stessa sarebbe stato un vantaggio per le persone intorno a me, oltre che per il mio cuore, che non avrebbe più dovuto soffrire... perché non sarebbe più esistito. A questo punto, però, la domanda è: “Perché, se ero certa di conoscere la via per la liberazione della mia anima, avevo permesso che il mio cuore continuasse a battere?”. Non avevo una risposta a quella domanda, come non ce l’ho ora, e forse non l’avrò mai. Credo che in me ci fosse una parte che ancora, nonostante tutto, cercasse la luce nell’oscurità... perché ho imparato che non si è mai, ma proprio mai, del tutto persi: c’è sempre un motivo per andare avanti. Forse lo sapevo, o forse il mio era solo un istinto di sopravvivenza, dal momento che il coraggio di uccidermi mi sarebbe mancato. Con questi orribili e tristi pensieri pieni di contraddizione, la mia notte fu un incubo... il duro materasso bianco accoglieva il mio corpo immobile, quasi morto, mentre gli occhi pieni di dolore fissavano il soffitto. I lunghi capelli erano sparsi sul piccolo cuscino, le mani incrociate cercavano sicurezza e conforto, appoggiate delicatamente sullo stomaco... ero sola, ancora una volta. Non riuscivo a piangere, perché il dolore e la delusione erano tanto forti da lacerarmi lo stomaco, da rompermi la testa, ma troppo potenti per essere espressi con un paio di lacrime. Gli occhi asciutti, ma pieni di amarezza, fissavano il soffitto bianco... chissà a cosa pensavo: il buio era l’unica cosa che avevo nella testa e nel cuore... il buio e il vuoto. Non ero una persona, ma una sagoma, ecco come mi sentivo... come si può vivere senza provare emozioni? Più le lancette si muovevano quella notte, più pensavo a quanto fossi un’immagine riflessa, una vecchia fotografia... qualcosa di inesistente, insomma. Si sentivano per l’ospedale delle fievoli e lamentose voci e pensavo a quanto ogni persona al mondo avesse un ruolo, a parte me: ciò che mi era successo mi aveva dimostrato che non sarei mai riuscita ad avere una vita, forse anche perché io stessa non mi sarei mai impegnata per averla. Non potevo neppure muovermi sotto le soffocanti coperte, perché mi sentivo così falsa da poter solo rimanere immobile... verso mezzanotte, ruotai gli occhi verso la donna che avevano appena messo in camera con me... dormiva tranquilla, ma non era sola: un uomo addormentato su una sedia le teneva dolcemente la mano. Quell’immagine mi fece pensare: l’amore umano può davvero essere così forte da sopraffare qualsiasi cosa? Entrambi dormivano, ma le loro mani erano unite, in segno di amore e conforto. Io fissai quelle mani congiunte, le fissai piena di invidia, piena di delusione e incertezza. Quella donna era incinta e nel comodino di fianco a lei dei fiori rosa rendevano tutto più piacevole... la osservai per qualche minuto, assaporando un po’ di quell’amore che nessuno mi aveva dato e che non avevo io stessa mai concesso a nessuno. Appena riportai lo sguardo intorno a me, mi accorsi di quanto fossi davvero senza speranza. Il mio comodino era vuoto, polveroso e la sedia di fianco a letto vuota, senza vita. Allungai l’indice verso di essa e la sfiorai, quasi come se cercassi qualcuno... perché nessuno era lì per me? Mi voltai ancora verso quella coppia vicino a me, per poi tornare alla sedia vuota... faceva troppo male. E passai ore a pensare a quella lancinante solitudine.
Allo scoccare della mezzanotte, mi decisi a fare leva sulle deboli braccia per sedermi sul letto. Sospirai e mi allungai, cercando di prendere lo specchio sulla mensola, quindi lo voltai con cautela. Non riuscivo a vedere niente nei miei occhi... niente. Osservai quel castano chiaro... i miei occhi erano spenti, distrutti dal dolore, dalla delusione, dalla paura. Mi osservai per qualche secondo, cercando di capire, cercando di riconoscere la persona che vedevo... ma per me non era nessuno. Non mi sentivo a mio agio in quell’aspetto... non riuscivo a capire chi fossi, come se l’immagine riflessa nello specchio fosse una totale sconosciuta: e lo era, effettivamente. Socchiusi gli occhi e morsi il labbro inferiore, quindi non potei fare a meno di lanciare lo specchio contro il muro, per vederlo spezzarsi in terra... così sarebbe stato come me, così avrei potuto riconoscere la mia immagine... spezzata, rovinata, confusa. Ma un immagine spezzata, rovinata e confusa è come se non esistesse... proprio come me. Rimanevo immobile e in silenzio e i miei occhi fissavano il vuoto, ma dentro urlavo, urlavo disperatamente.
In mezzo a quella notte infernale, chiesi aiuto ad un infermiera perché mi sentivo male e non riuscivo a respirare, quindi mi disse di seguirla in un’altra stanza. Ricordo benissimo l’aspetto di quell’orribile ospedale psichiatrico di notte... cento volte peggio di Trento. E Trento mi portò alla depressione. Chissà dove sarei finita se fossi rimasta in quel luogo.
Ricordo ancora con la pelle d’oca quel lungo corridoio durante la notte, con le luci fioche, che illuminavano debolmente visi cattivi e sofferenti, che abitavano stanze riempite da urla e strepitii, nonché di rumori spaventosi e inquietanti; almeno, ai miei occhi tutto era estremamente cupo, ma non sono sicura delle reali capacità del mio cervello in quel periodo della mia vita. Tuttavia, per fortuna, ci fu solo una notte in cui dovetti attraversarlo completamente, per entrare nella stanza dove dovevo fare un’iniezione. Quando l’infermiera mi disse di seguirla, lo feci trascinandomi dietro di lei, distrutta dalla stanchezza; il corridoio mi sembrò lunghissimo, l’unica cosa che volevo fare era sdraiarmi sul letto e dormire ancora, tuttavia feci ciò che mi fu detto e riuscii a trovare la forza per parlare, in mezzo a tutto quello spavento e quelle stranezze, così con la voce rotta dal pianto mi rivolsi alla buona infermiera:
-Sandra, perché non ricordo niente dei sei giorni passati qui? Ho un buco nei ricordi, è così strano! Ricordo il mio risveglio... e poi solo la giornata di oggi-
-Può succedere- mi tranquillizzò l’infermiera -Vedi, hai passato dei giorni molto confusi. Sei stata operata, come ben sai e ti abbiamo appena tolto la morfina... fa brutti scherzi quell’anestetico, sai?-
-Il mio cervello non funziona, ecco la cruda verità- mi lamentai, guardando in basso
-Oh, Camilla, questo non è vero! Non stai male, al momento, e ti sei ripresa benissimo: hai sforato la morte con quel camion, davvero- disse dispiaciuta, scuotendo la testa -E in pochissimo tempo tornerai a pensare e ragionare in modo del tutto normale-
-No, non devi mentire. La mia testa non funziona più, ormai l’ho capito-
Rimasi in silenzio, non sapevo che dire, avevo paura. Anche l’infermiera rimase immobile, sconvolta dalle mie parole così forti, ma purtroppo così consapevoli.
Non sapevo cosa fare, potevo solo piangere, ma dentro, nel profondo, poiché le lacrime erano finite e il dolore era troppo forte per far uscire le lacrime. Più il tempo passava, più mi rendevo conto che da sola ragionavo meglio, di testa mia potevo davvero riuscire, non avevo bisogno di dottori, mi confondevano e basta... ma da sola, in fondo, non ero mai riuscita a fare un passo. E fu forse in quel momento che, più che mai, credetti di essere davvero pazza, rinchiusa in un manicomio. Alla fine, era quello che ero.

 

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Capitolo 21
*** CAPITOLO 19 ***


Intanto che mi perdevo nelle mie riflessioni, il corridoio sembrava non voler finire e avevo l’impressione di camminare da un’infinità di tempo, i piedi facevano male, ad ogni passo di più e il loro rumore rimbombava nel silenzio spettrale e notturno dell’ospedale… dopo quello che fu oggettivamente un tempo piuttosto breve, finalmente arrivammo nella stanza dove avrei dovuto fare un paio di iniezioni e Sandra mi chiese quanto tempo fa credevo di essere partita, per poi farsi molto seria alla mia risposta, che appuntò su un foglio con sguardo preoccupato. Avevo risposto “Non ricordo”.
Ero già stata in quella stanza, dove stavano le medicine, prima di andare a dormire e avevo notato un album... mi aveva attratto, come se mi ricordasse qualcosa. Era rosa, pieno di fiocchi ed eleganti disegni... perché mi sembrava familiare? Fin dalla prima volta che lo avevo visto avevo provato la curiosità di aprirlo, ma non lo avevo fatto. Dunque, mentre Sandra sistemava i medicinali, lo aprii: era mio. C’era il mio nome sulla prima pagina ed era pieno di foto con me da piccola... all’iniziò erano felici e colorate, poi diventavano scure e cupe, orribili, strappate e  confuse. Mi spaventai e lo chiusi di colpo; smarrita, mi avvicinai a Sandra, tremando:
-Quell’album sul tavolo... lo vedi?-
-Certamente, non so di chi sia...-
-E’ mio. Ci sono le foto di quando ero bambina, ma non l’ho portato io qui. Sono foto strane, mi fanno paura... devi aiutarmi, qualcuno deve averlo portato qui per spaventarmi...- sussurrai, guardandomi intorno con occhi vigili
-No, Camilla... ma cosa dici? Nessuno vuole farti del male! Quell’album non è tuo, è un oggetto smarrito probabilmente!-
-Ora basta! Smettetela di dubitare di me, non ne posso più!- sbuffai avvicinandomi al grosso album sul cassettone, dopodiché lo aprii con violenza, per mostrare a Sandra che avevo ragione. Ma non potei credere ai miei occhi: non c’era niente. Neppure una foto. Il mio nome era sparito. Cominciai a cercare affannosamente guardando in ogni pagina, ma sembrava nuovo di zecca. Avevo perso di nuovo contro la razionalità. Mi lasciai cadere senza forze sul pavimento, delusa e piena di imbarazzo e, guardando lontano fuori dalla finestra della piccola stanza, rimasi in silenzio.
I miei morbidi lineamenti erano leggermente illuminati dal candore dalla luna, le mie labbra rosse avevano ripreso colore e le mie guance erano tornate a bruciare per la vergogna e l’umiliazione, misi il mento sulle ginocchia e i miei occhi diventarono leggermente lucidi e iniziarono a bruciare. Forse Sandra cercò solo di fare il suo lavoro, o forse ebbe davvero pietà di me, poiché mi si avvicinò e mi si sedette vicino, mi scostò una ciocca di capelli dalla guancia e parlò con dolcezza:
-So come ti senti, credimi. Persa, sola, incredibilmente stupida. Cominci a renderti conto che niente era vero, e questo fa davvero male, anche perché hai solo diciannove anni; certamente non sei più una bambina, ma sei piccola per affrontare da sola qualcosa di così grande ed è per questo motivo che devi fidarti dei dottori… passerà, ogni cosa passerà- rimase in silenzio per un istante, aspettando la mia risposta... mi asciugai gli occhi con le mani  e tirai un lungo sospiro:
-Io… non capisco più niente, davvero. Non sono mai stata così confusa-
-So che durante il coma hai ricordato tante immagini probabilmente spiacevoli e tristi... ma non devi temerle, perché sono astratte, d’accordo? Non torneranno più, sono solo ricordi... e adesso sei al sicuro. Ora stai già molto meglio e potrebbe succederti qualcosa di simile solo a causa di forti farmaci o di gravi lesioni al corpo o traumi fisici. E questo non succederà, a meno che tu non cada dal pericolosissimo lettino dell’ospedale!- rise Sandra, cercando di farmi sentire meglio -L’importante è che tu ti impegni, quando ti senti pronta, a dire a me o al dottore se ricordi qualcosa di ciò che hai visto durante il coma, d’accordo?-
-Beh, allora io… dovrei raccontarti una cosa che ho scoperto su di me… con un sogno- dissi, sicura di voler finalmente confessare il famoso sogno del mulino e cosa avevo capito sul mio passato. Immaginavo che quell’evento fosse un punto cruciale di ciò che mi era successo da piccola e avevo bisogno di farlo sapere a qualcuno, non potevo rimanere l’unica a conoscere quel segreto. Forse sarebbe stato un errore, ma avevo bisogno di togliermi quel peso dallo stomaco e di far sapere a tutti la verità. Con il mio cognome, avrebbero capito tutto, avrebbero trovato la mia famiglia! Avevo il dovere di essere sincera, ma Sandra mi fermò:
-Non ora... racconterai domani al dottore ciò che devi dire. Per adesso non pensarci, è meglio se provi a riposarti un po’- si alzò e mi porse la mano, ma io non avevo sonno. Per la prima volta, iniziai a parlare di me: volevo sfogarmi, a raccontare tutto ciò che avevo vissuto, le cose che non avevo detto, a parlare delle mie paure, delle mie speranze. Parlammo per mezz’ora, mi sentii benissimo e per un po’ tornai a sorridere, dimenticandomi di tutto... ma la realtà tornò in fretta. Fu il momento di tornare a letto, dopo che Sandra mi dette la buonanotte e mi lasciò nella stanza. Appena mi sedetti sul letto, però, notai un piccolo bigliettino: c’era scritto “Johnson Castle” Mi chiesi cosa significasse, non mi diceva davvero niente. C’era anche un indirizzo, quello dell’ospedale dove mi trovavo; perplessa, fermai Sandra prima che lasciasse la mia stanza:
-Scusa, ma qualcuno deve aver lasciato... - mi interruppi. Avevo notato un particolare di considerevole importanza. C’era un’altra scritta sul retro di quel biglietto: Camilla Ori.
-Cosa?- mi riportò alla realtà la voce di Sandra
-No, niente, lascia stare. Buonanotte- dissi con tono confuso, accartocciando il foglio e buttandolo nella spazzatura. Per la prima volta, ero riuscita a riconoscere un sogno dalla realtà e avevo scacciato la mia immaginazione; la razionalità l’aveva superata e ne ero davvero felice. Feci finta di nulla e sorrisi a Sandra che, sulla soglia, mi ammonì su un ultimo particolare:
-Ah, quasi dimenticavo... se non riesci a dormire prendi le pasticche… le vedi, sono sul mobile, dentro quella scatolina; sono blu- annuii e la salutai, quindi aprii il tappo, per assicurarmi che ce ne fossero ancora, ma mi accorsi che erano rosse. Prima di richiamare Sandra, mi fermai ad osservarle e dissi sottovoce:
-Non aveva detto blu?-
-Non lo sono?- chiese la giovane ragazza in stanza con me, allungandosi per vedere
-Ah, no, sono rosse. Andrò ad avvertirla…-
-No, non ce n’è bisogno. Si sarà sbagliata, avanti… che vuoi che sia!-
-No, mi aveva detto di fare attenzione al colore- la ragazza accanto a me alzò le spalle con un semplice “fai come vuoi” e tornò a dormire tranquillamente. Rimasi sveglia per un paio di minuti, quando vidi Sandra tornare sulla porta -Camilla, mi raccomando: mi ero dimenticata di dirti di fare attenzione con i farmaci, perché so che al primo ospedale in cui sei stata ne hai assunti in quantità sbagliate… può essere un pericolo mortale, e in casi come il tuo ci sono alcuni fermaci che rischiano di essere davvero sbagliati, potrebbero creare molti effetti collaterali, quindi comportati in modo maturo, so che non faresti ancora lo stesso errore- concluse con un piccolo sorriso, prima di allontanarsi ancora
-Cosa? Io?- ribattei con aria innocente -Non ne avevo la minima intenzione, voglio solo dormire… buonanotte- dissi per salutarla, per poi tornare a focalizzare l’attenzione sul piccolo barattolo di pasticche rosse. Ripensai a quello che era successo all’ospedale di Trento… era sbagliato? Sì. Allora perché c’era qualcosa in quell’errore fatale che mi attraeva? D’istinto, pensai di prenderle, senza un vero motivo… avevo davvero qualcosa da perdere, in fondo? Il mio ragionamento non aveva senso, forse, ma effettivamente non ero mai stata una ragazza del tutto normale e neppure io stessa riuscivo a comprendermi.
Come tutti sanno, da che mondo è mondo, siamo tutti tentati di fare ciò che ci viene proibito; io non avevo davvero più voglia di vivere quella vita orribile, così guardai indecisa le pasticche; ma poi ripensai ai progressi che avevo fatto, alle sensazioni positive che avevo imparato a provare, sorrisi e misi la testa sul cuscino... tutto sarebbe passato, dovevo solo aspettare. Passò un po’ di tempo, non saprei dire quanto, che la mia compagna di stanza mi svegliò ancora con una piccola pacca sulla spalla:
-Ehi, sei sveglia?-
-Non riesco a dormire-
-Lo immaginavo. Neppure io. Sandra mi ha parlato di te e ho sentito quando diceva delle pasticche; non preoccuparti, il colore non è importante, dovresti prenderle!-
-Cosa? Stai… stai scherzando, spero. Tu non puoi capire e non dovresti sapere neanche queste cose su di me. Mi è stato detto di non prenderle e non lo farò...-
-Allora perché non le dici di darti quelle blu?- mi mise completamente a disagio con quella domanda… perché non glielo avevo detto? Non risposi, non sapevo che dire, ma iniziavo a sentire qualcosa nascere in me, come se la mia personalità fosse davvero troppo poco definita perché potessi prevedere le mie azioni; ma quella notte qualcosa non andava in me… quei fogli sul comodino, quelle pasticche… non capivo perché, ma mi avevano messo lo stomaco in subbuglio e mi sentivo come se sapessi bene che qualcosa sarebbe stato sul punto di accadere.
In ogni modo, inizialmente cercai di resistere alla tentazione e con furia mi girai dall’altra parte:
-No. Buonanotte-
-Scusa, era solo un consiglio. Io, se fossi in te, le prenderei... buonanotte, a domani- “A domani” Perché quelle parole mi facevano così male? Socchiusi gli occhi cercando di non soffrire e tentai di non pensare al fatto che, effettivamente, il giorno dopo mi sarei svegliata ancora in quel maledetto lettino. Cercai di dormire, sicura di aver fatto almeno per una volta la scelta giusta.
Dopo un’ora mi svegliai, non riuscivo a dormire, mi faceva male la testa, avevo caldo e respiravo male... sembrava di essere ritornata a quel luglio del duemila... dopo due anni ero riuscita a riprendermi, ma tutto era andato nuovamente a rotoli! Non ce la facevo più a sopportare quella situazione, l’odore dell’ospedale ormai era nauseante, stavo per sentirmi male, non avrei potuto resistere ancora a lungo a quello stato di clausura, così guardai le pasticche. Stavo male, stavo male e quel posto mi distruggeva. Non avrei dovuto prenderle. Ne presi due. Mi fermai. D’istinto ne avrei prese altre, ma mi sembrava di stare meglio e non volevo farmi del male, non volevo peggiorare ancora la situazione, per quanto a stento mi capitasse di pensare che sarei potuta andare più in basso di così.
Ci pensai un po’, guardai malinconica il corridoio buio e vuoto, il paesaggio spento e triste fuori dalla finestra e non ci pensai due volte; presi altre due di quelle pasticche e tornai a letto, sentendomi rilassata e tranquilla... finalmente mi addormentai, riprendendo un po’ di colore.
Ormai trasgredire le regole era diventato per me uno stile di vita.

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Capitolo 22
*** CAPITOLO 20 ***


Dopo qualche altra ora mi svegliai e mi accorsi con una sorta di delusione che non era successo niente. In realtà, non avrei saputo spiegare cosa mi aspettassi, ma ovviamente il mio scopo non era lasciare che tutto rimanesse uguale, orribilmente e banalmente uguale; mi invase un leggero senso di tristezza, di delusione.
Vidi i bigliettini con i due indirizzi e il mio nome sul comodino, ben spiegati, come se qualcuno li avesse ripresi dalla spazzatura; il mio sguardo si fece accigliato e mi allungai per prenderli in mano, così da osservarli attentamente. Non potevano essere reali, dovevo riuscire ad affrontare i problemi che stavo avendo e non potevo permettermi di sbagliare una seconda volta, perciò di nuovo li accartocciai e li gettai nella spazzatura.
Mi alzai dal lettino, non curante del dolore fisico allo stomaco e alla testa e trascinando i piedi stanchi sul marmo ghiaccio, con uno sbadiglio mi affacciai al corridoio... che strano, non c’era nessuno. Neppure un’infermiera.
Guardai l’orologio, ma le lancette erano ferme. Ferme all’ora in cui avevo preso quelle pasticche.
Cercando di andare a fondo nella faccenda, andai a guardare il grande orologio nel corridoio... anche quello era fermo alla stessa ora. Iniziai a spaventarmi, il cuore cominciò a battere in fretta e continuai a fissarmi intorno cercando di capire, ma mi resi conto che, con tutte le cose orribili e terrificanti che avevo immaginato precedentemente, ciò che stava accadendo non avrebbe potuto impressionarmi o sconvolgermi più di tanto; dovevo abituarmi ai brutti scherzi che poteva fare il mio cervello malato. Mi affacciai alle altre stanze: i letti erano vuoti. “Un altro ricordo?” mi chiesi con un brivido. E non volli rispondere.
Trattenni il respiro, sperando di accorgermi, nel silenzio più totale, di qualche voce, ma non c’era davvero nessuno. Tutte le porte erano spalancate, una folata di vento ghiaccia e dura mi scosse i capelli... d’istinto mi voltai: la finestra era aperta.  Corsi a chiuderla. Mi voltai. Si aprì ancora, con un lento, stridulo cigolio.
Ma quest’ultima volta il vento, poco prima impetuoso e violento, si era calmato del tutto... l’aria appariva ferma e immobile fuori dalla finestra. Non appena si era aperta e aveva lasciato passare un po’ d’aria, tutto si era fermato.
Pensai subito che dovesse essere solo una mia impressione; forse era solo stanca e, dopo il mio risveglio, ancora un po’ scombussolata. Mi fermai ancora sullo stipite della porta in completo silenzio, per ascoltare i rumori... ero l’unica in quell’edificio? Sembrava di sì.
“C’è nessuno?” urlai. E la mia voce chiara fece eco fra gli alti muri bianchi, facendomi rabbrividire. Tutto era immobile, terribilmente terrificante ed immobile; il mondo sembrava essersi fermato ed io essere l’unica rimasta in vita. Da sola.
Sospirando, decisi di uscire dalla stanza per andare in bagno, trascinando i piedi nudi sulla superficie di marmo del pavimento ghiaccio e grigio dell’ospedale. Mi guardai allo specchio, compiendo uno sforzo incredibile, perché la mia stessa immagine mi terrorizzava: avevo un viso distrutto, ero assolutamente provata dal dolore, di nuovo vuota e triste come tre anni prima. Mi sciacquai il viso pallido e misi le mani sulla fronte, sospirando e appoggiando la testa al muro. Chiusi la porta: dovevo stare sola, avevo paura di tutte le cose orribili che mi circondavano, inseguivano, torturavano.
Rimasi immobile, quasi senza respirare, per almeno un minuto: gli occhi chiusi, le mani sul viso, senza riuscire a piangere, senza riuscire a disperarmi... stavo solamente pensando. Pensando a cosa? Beh, forse a tutto quello che non avevo, forse a tutto il dolore che mi riempiva il cuore e le vene, che faceva più male ogni singolo secondo.
Mi calai fino a terra, spingendo la schiena stanca e dolorante contro il muro e rimasi seduta nel piccolo bagno, persa nella mia silenziosa e segreta disperazione, per un tempo che non ebbi neppure il coraggio di contare. Quella posizione era l’unica che mi faceva sentire a mio agio: le spalle incurvate e attaccate al muro, la testa pesante sulle ginocchia segnate dalle cicatrici... tutta la mia stanchezza scaricata a terra, tutto il mio dolore rinchiuso nel cuore. Ero solo io, chiusa in quel bagno... io e le mie misteriose ombre.
Stavo lì ad aspettare il niente in quella posizione, gli occhi socchiusi e il cuore tremante, quando, improvvisamente, sentii un lieve rumore. Tesi l’orecchio: erano le lancette dell’orologio.
Alzai gli occhi gonfi verso la porta e mi accorsi che quel rumore era ora chiaro e forte... l’orologio era nuovamente partito. Rinfrancata, sospirai e sorrisi, ma non mi mossi da quella posizione; buttai la testa all’indietro, ascoltando quell’orologio e sperando che si muovesse sempre più in fretta.
Ma da un momento all’altro iniziai a sentire delle voci, delle voci, però, che non provenivano affatto dal sudicio e polveroso ospedale... si trattava di qualcosa di diverso. Di cosa, però? Mi concentrai, ascoltai in silenzio. Quel brusio non era quello che ero abituata a sentire in quel luogo marcio. Era un rumore bello, piacevole, ricco di armonia.
Oh, e c’era della musica di sottofondo; era un pezzo classico, dolce e melodico, che accarezzava il caldo e leggero brusio di voci animate e ricche di sentimento. E c’erano risate.. ah, c’erano tante risate composte, ma splendide di sottofondo a quel meraviglioso concentrato di vita.
Non avevo mai sentito qualcosa di tanto bello... mai.
Più curiosa che spaventata, appoggiai la mano sulla maniglia d’acciaio e spinsi per aprila, ma vidi qualcosa di talmente spaventoso e allo stesso tempo meraviglioso da togliermi il fiato, da lasciarmi completamente immobile e sconvolta.
Il mio cuore balzò alla vista di un’elegantissima sala piena di persone agghindate come mai avevo visto nessuno in vita mia. Tremai. Ma tremai d’emozione, non di paura.
Di corsa, un po’ per la sorpresa e un po’ per istinto, rientrai nel bagno, chiudendo la porta dietro di me: ma non mi trovavo nel bagno dell’ospedale.
I muri erano bianchi, pulitissimi, affrescati con colori accesi e sgargianti e illuminati da un gigantesco lampadario di cristallo. Non saprei dire a cosa stessi pensando in quel momento, ma credo di poter arrivare alla conclusione che fossi troppo stanca e sconvolta per pensare o per avere ancora paura; volevo solo godermi quella sensazione di calore.
Ma ecco che, come se ciò che avevo appena visto non fosse abbastanza, non appena mi guardai allo specchio, rimasi tanto sconvolta da indietreggiare fino a sbattere contro il muro. Rischiai anche di far cadere una boccetta di profumo, che salvai per un pelo; ciò che avevo appena visto riflesso nello specchio era qualcosa di troppo incredibile per essere creduto vero. E giuro, giuro che non mi sarei neppure riconosciuta se non fossi stata l’unica persona davanti a quello specchio.
Davanti a me vedevo una ragazza senza occhiaie, col viso fresco e truccato, le ciglia lunghe e gli occhi luminosi, le guance leggermente colorite e le labbra morbide e rosse: ero io. Per la prima volta nella mia vita sembravo serena, serena e dolce come un angelo e tutta quella tenerezza che provai nel vedere un viso sempre odiato finalmente valorizzato mi fece tremare dalla gioia.
Indossavo un vestito rosso scuro senza maniche, lavorato nei minimi particolari, con lo scollo a cuore in pizzo e la gonna di velluto larghissima e soffice. I capelli erano raccolti in un particolarissimo e complicato chignon, abbellito da un elegante fermaglio rosso colmo di brillanti. Alle mani avevo dei guanti di seta rossa chiari e fini, in modo da rendere il tutto non esagerato e sgargiante, ma semplice e fine. Sfiorai allibita il collo liscio e ornato da un diamante bianco e sorrisi, sorrisi davvero... i miei occhi brillarono di una luce che non avevo mai visto.
Ero felice! Mi trovavo in una visione? Beh, non mi interessava neppure; tutto ciò che volevo era solo essere tranquilla, sentirmi una persona normale... eliminai dalla mente il pensiero che fosse tutto frutto della mia immaginazione e, vogliosa di stare finalmente bene, mi feci coraggio e premetti la mano sulla maniglia dorata, tornando a quel forte brusio e a quella leggera musica classica di sottofondo.
E mi trovai immersa nella vita, in una vita speciale, bella: ma ai miei occhi puri e ingenui non era bella per gli oggetti di cristallo, i vestiti ricchi e costosi e le distese immense di cibo. Per me era splendida per i sorrisi, per le risate e per gli sguardi soddisfatti e sereni delle persone che mi circondavano. Capii che il mondo non era tanto brutto come lo avevo immaginato! C’erano anche persone felici, persone che vivono ad uno scopo, che amano sé stesse e sono a loro volta amate: e sorrisi a quel pensiero, perché capii di voler essere una di quelle persone.
Girai lo sguardo tutt’intorno alla piccola porta dalla quale ero uscita, lasciando che si richiudesse dietro di me, insieme all’insicurezza e alla paura che mi avevano sempre accompagnato.
Ciò che vidi fu una sala immensa, forse infinita, e bella come mai, impregnata di felicità. Il mio cuore sentì il bisogno di sorridere ancora, perciò decisi di curiosare un po’ in giro e mi allontanai con sicurezza dalla piccola porta, presa dal fascino di quel luogo paradisiaco.
Davanti a me c’era una grande sala circolare, con un opulento e gustoso buffet al centro, su un tavolo ricoperto da un tessuto rosso sgargiante; sul lato vidi subito un grandissimo albero di Natale, alto fino al soffitto, almeno una decina di metri, e adornato con piccole luci blu, che illuminavano i numerosissimi regali sotto di esso.
Nessuno fece caso a me, tutti erano troppo presi dalla proprie conversazioni; e per la prima volta mi sentivo nel loro stesso mondo, persa nella dolcezza di quella serenità. Ogni tanto qualcuno mi guardava e mi sorrideva gentilmente, accennando a un piccolo inchino. Era pieno di donne e ragazze più giovani con vestiti spettacolari e acconciature più eleganti che mai, uomini in smoking che baciavano la mano alle proprie donne per invitarle a ballare o che partecipavano animatamente alle discussioni fra adulti, e infine gruppi di bambini più piccoli che giocavano fra di loro o che si annoiavano ascoltando tutti i complimenti degli invitati, per mano ai genitori.
In mezzo a tutto quello stupore, notai un grande finestrone, così, con il cuore che batteva a mille, aprii la tenda color crema e quello che vidi mi spaventò tanto quanto mi fece sussultare dalla gioia. Mi trovavo in un castello, in un vero e proprio castello! Era immenso, ogni singola finestra mostrava luci e miriadi di persone che si godevano la propria serata nelle diverse stanze. Non credevo che il mio cuore potesse battere così forte... stavo per scoppiare, stavo per esplodere per la gioia e sentivo gli occhi colmi di lacrime, che avevano solo bisogno di sfogarsi, di straripare di felicità. Non mi ero mai sentita così viva!
Sconvolta, tornai con gli occhi alla sala: ero vestita come loro. E la sensazione che mi rese più felice fu semplicemente il fatto di sentirmi parte di quel posto, di poter godere di quel lusso e di quella felicità come tutti gli altri, di non essere diversa. Io non ero cattiva e avevo tanto, tanto bisogno di ricevere un po’ di amore e felicità.
C’erano camerieri che si indaffaravano fra le persone, cercando di mantenere in equilibrio i piatti ricchi e gustosi, gli addobbi di natale riempivano la stanza, un grandissimo camino in marmo la riscaldava con una fiamma rossa come il fuoco, rossa come le mie guance in quel momento.
Dal finestrone erano visibili tutte le finestrelle più piccole, almeno quelle dalla mia parte, poiché sapevo che in un castello ci sono molte più camere di quanto probabilmente ne potessi anche solo immaginare. Notai due ragazzi a giocare a biliardo, una ragazza provarsi un vestito con un’amica, una sala da ballo e tante altre scene; oh, avevo voglia di viverle! Le persone da lontano sembravano solamente piccoli puntini, mi sentivo grande in confronto a loro, mentre esploravo con occhi inesperti quel mondo nuovo.
Nel giardino c’erano un grande lago, molte fontane, boschetti e tempietti di estrema eleganza, oltre a un grande campo da golf che scorsi in lontananza e a un piccolo ruscello con un ponticello illuminato... era una piacevolissima visione pittoresca che mi faceva sentire protetta e al sicuro.
Ricordo ancora la sensazione che provai in quel momento, mi sembra di essere di nuovo lì, di risentire quel piacevole vocicchiare di sottofondo, di percepire ancora la sensazione della leggera tenda di lino sul mio braccio nudo, il freddo del vetro a contatto con la mia mano tremante e la morbidezza del pizzo del mio abito, sfiorato dall’altra mano, avvolta nel guanto di seta. Ancora posso vedere quelle persone salutarmi con rispetto, ancora posso sentire l’impercettibile rumore dei miei tacchi sul duro parquet, che in pochi punti di rialzo si alternava alla morbida moquette, che attutiva il rumore provocato dalle mie scarpe. Ancora, scrivendo, posso percepire il rumore dell’orologio segnare l’una, posso sentire il calore del fuoco provenire da destra, il freddo della notte passare debolmente attraverso le finestre e farmi venire qualche brivido attraverso il vestito leggero. Sono capace, in questo momento, di rivedere, come se fossi ancora davanti a quella finestra, ogni singola scena, ogni singola stanza e addirittura alcuni volti mi sono rimasti impressi nella testa.
Oh, ricordo ogni cosa troppo, davvero troppo bene! Se ci penso, quanto cose ancora dovevo scoprire, quanto cose ancora dovevo imparare e conoscere di me... quanto cose ancora sarebbero dovute succedere. Tuttavia, lontana dalla consapevolezza che il pericolo si stesse avvicinando, il cuore mi saltava nel petto e sentivo il battito aumentare ogni singolo secondo: quella notte, anche se forse sarebbe stata solo una, mi sarei potuta divertire, avrei potuto fingere di stare bene, di essere una persona qualsiasi, gli invitati non mi avrebbero visto come una pazza rinchiusa in un centro... sarei stata semplicemente io... nient’altro.
Per quanto sarei potuta rimanere attaccata a quel finestrone per giorni, dovevo orientarmi al più presto... non so cosa avessi intenzione di fare in realtà, ma ero curiosa, volevo esplorare quell’ambiente magnifico, volevo viverlo come se fosse mio. Quindi mi voltai di nuovo, sorridendo ai volti gentili presenti nella sala e mi allontanai a bocca aperta da quella stanza elegantissima, per poi imboccare un lunghissimo corridoio pieno di ritratti. Mentre guardavo stupita le immagini religiose ritratte sull’alto e maestoso soffitto, finsi di aver dimenticato di essere apparentemente in una delle visioni causate dal mio incidente e, probabilmente, dalle pasticche, e iniziai a curiosare, addentrandomi in quel mondo paradisiaco e perfetto

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Capitolo 23
*** CAPITOLO 21 ***


Cercando di sembrare il più naturale possibile, non potei davvero fare a meno di addentrarmi in quel luogo magnifico; mi sembrava un sogno, mi sentivo bene e volevo solo divertirmi e conoscere meglio quel luogo da favola. In terra una moquette rossa bordata d’oro risaltava agli occhi, in contrasto con le tende chiare; ricorreva spessissimo uno stemma, dai quadri potei capire che si trattava di una certa famiglia Johnson, ma quel nome non mi disse davvero nulla. Nel corridoio dove ero appena entrata c’erano davvero poche persone, soprattutto anziane, ma sentii delle voci di ragazzi provenire da una stanza accanto, così, facendo attenzione a non essere vista, mi avvicinai per vedere, solo per pura curiosità.
C’era un grandissimo tavolo da biliardo, stavano giocando due ragazzi, una femmina e un maschio. Toccava tirare alla ragazza, aveva i capelli mori lisci, con una piccola falda accennata sulla destra, legati morbidamente in una mezza coda e il viso era molto dolce, stava ridendo. Gli occhi marroni le conferivano uno sguardo penetrante e determinato, il collo lungo e la forma esile e slanciata una grande eleganza. Aveva un vestito rosa di pizzo, lungo fino ai piedi, molto semplice, stretto fino ai fianchi, dove era appoggiata una cintura di diamanti, e morbido sulle gambe. Le spalline erano lavorate probabilmente a mano, sembrava un abito estremamente pregiato e sopra aveva un copri spalle dello stesso colore, sebbene di una tonalità più scura.
Alzò l’asta al cielo, guardando il ragazzo accanto con convinzione:
-Ti batterò anche stavolta, mi caro Edwyn!- ridacchiò divertita
-Non ci riuscirai ma...- il ragazzo si interruppe, guardandola a bocca aperta sferrare il colpo vincente:
-Wow, bel colpo, Alyssa!- esclamò sorridendo, fingendosi infastidito per la bravura della ragazza. Sembrava davvero un ragazzo per bene e gentile, aveva anche lui gli occhi marroni scuri e la carnagione non troppo chiara, che accentuava gli occhi enigmatici e leggermente affusolati. Una leggera barbetta scura sul mento gli conferiva un’aria più adulta, ma non sarebbe sembrato comunque più grande di venticinque anni. Con un bellissimo sorriso, guardò con aria di sfida la ragazza, e tirò un bel colpo, ma non riuscì a salire in vantaggio.
Alyssa riprese l’asta e si fermò, fissando pensierosa il ragazzo davanti a lei:
-Edwyn, so che non c’entra niente, ma... pensi che Kurt riesca a convincere i Bertle ad entrare nella nostra alleanza?-
-Perché me lo chiedi? Alyssa, sei in ansia per questo?- lei sospirò:
-Non hai pensato alle conseguenze che potrebbe avere, eh?-
-Che intendi?-
-Voglio dire che se i Bertle entrassero nella nostra alleanza, allora la famiglia di Charlotte non dovrebbe più tentare di farla fidanzare con uno di loro, quindi lei potrebbe stare finalmente con Carlo-
-Questo è vero... se i Bertle entrassero, Carlo non sarebbe costretto a fidanzarsi con quell’ochetta di Abby Counter! E Charlotte non dovrebbe cercare un fidanzamento altrove... potrebbe stare con Carlo, non ci sarebbe più motivo di cercare un legame con i Bertle- sorrise e tirò di nuovo, per poi puntare l’asta scherzosamente ad Alyssa:
-Tu... tu! C’è qualcosa che non va o mi sbaglio?-
-Sinceramente? Non credo che i Bertle accetteranno. Ci penso da stamani, Kurt non è mai stato...- posizionò l’asta e fece centro -... un professionista in queste cose... in affari di politica intendo-
-Ah... credi davvero che ci penserà Kurt?-
-Che vuoi dire? Chi dovrebbe pensarci se non il padre di famiglia? Peter è il figlio maggiore e non c’è, quindi...-
-C’è Dan, però. Anche se non è il primogenito sa farsi rispettare, e anche tanto. Sicuramente con un discorso contorto, senza nemmeno dargli occasione di rendersene conto, gli metterà in mano la penna e gli farà firmare quel foglio. Sai quanto riesce bene in queste cose...- disse il ragazzo schioccando le dita con una risata
-Ti sbagli di grosso, Edwyn! Sai quanto è tradizionale la famiglia Bertle?! Kurt non lascerà neppure che Dan si presenti-
-Senti, sono certo che in qualche modo riuscirà a parlarci. Dan lavora per cercare quell’alleanza da un sacco di tempo insieme a Louis, troverà il modo per conoscere il signor Bertle, Kurt non può tenerlo al guinzaglio. Dan è semplicemente un ragazzo che non può essere tenuto a bada, tu lo conosci...-
Avrei voluto davvero continuare ad origliare, sebbene non capissi niente di ciò che stavano dicendo, ma vidi una donna farsi avanti in fretta verso la stanza; finsi di contemplare un quadro e mi sorrise gentilmente con un “Salve”. Non appena i suoi occhi mi guardarono mi sentii inerme, bugiarda, come ero stata tante volte: ma il suo sorriso gentile mi fece impazzire dalla gioia... non c’era niente che potessi temere, ero solo una ragazza come tutte le altre.
Di colpo sentii, più in là, una voce pronunciare un nome che mi ricordò qualcosa, qualcosa che non seppi identificare né come piacevole né come fastidioso: mi ricordava semplicemente qualcosa, perciò decisi di farmi strada verso la stanza da dove sembrava provenire quella voce femminile.
“Carlo” era il nome che avevo appena sentito, sotto forma di un caloroso saluto.
I miei occhi si fecero spazio in un’altra grande stanza addobbata in modo natalizio, nella quale uomini e donne giocavano a carte e parlavano animatamente; la ragazza che aveva parlato poco prima stava abbracciando un ragazzo dai capelli biondi scuri e gli occhi azzurri, la carnagione chiara e una figura alta e piuttosto magra.
Fino a quel momento non mi ero neppure chiesta in cosa ciò che stavo vedendo avesse a che fare con me, ma appena si separò da quell’abbraccio e guardò nella mia direzione, tremai. Il mio sorriso si trasformò in una smorfia di paura. Il cuore sobbalzò. Io conoscevo quel ragazzo, sapevo chi fosse.
Sentii dei brividi freddi per tutto il corpo, divenni debole e le gambe ressero a fatica il peso del mio corpo: quello era mio fratello.
Era il ragazzo del sogno, e non ebbi alcuna esitazione a capirlo. Erano passati undici anni, ma era lui, senza ombra di dubbio. Per caso incontrai il suo sguardo, rimasi paralizzata senza poter trovare il coraggio di parlargli, di dirgli chi ero. Anche lui rimase un attimo a guardarmi, tremai dalla paura che mi riconoscesse, ma non fu così. Tenemmo un contatto visivo per qualche secondo, i miei occhi marroni fissarono i suoi... ero certa che fosse sul punto di capire, ma al contrario mi sorrise semplicemente, per poi tornare all’attenzione della ragazza che aveva davanti. Ma per qualche secondo si era distratto. A guardare me. Non so come mi sentissi all’agghiacciante pensiero di trovarmi davanti a qualcuno che aveva in mano il mio passato, ma sicuramente non ero indifferente. Andando da lui e dicendogli chi fossi, avrei finalmente capito ogni cosa, avrei ricordato tutto senza alcuna fatica.
Ma non ebbi il coraggio di fare un passo tanto importante, sebbene sapessi di trovarmi in un luogo puramente inventato dall’effetto di quelle pasticche su di me. Avrei voluto piangere, mi sentivo strana, diversa, come se dentro di me stesse nascendo quella consapevolezza che avevo a lungo nascosto. Continuai a fissarlo sconvolta mentre parlava con un parente della ragazza e sussultai ancora di più quando questo ringraziò Carlo con tali parole:
-Grazie mille, signor Ori- portai una mano alla bocca e indietreggiai, tanto da colpire un povero cameriere, ma fortunatamente non si girò nessuno. Presa dalla curiosità di sapere chi fosse mio fratello, quel ragazzo del mio stesso sangue, che aveva un tempo fatto parte della mia vita, non tolsi i miei occhi da lui e mi avvicinai prudentemente, facendo attenzione a non attirare l’attenzione di nessuno.
Ma tutta quella tensione che stavo accumulando non poté far altro che crescere non appena la sua voce chiamò qualcuno dietro di me, facendomi sussultare per lo spavento:
-Guido, vieni qua!-
Guido. Di nuovo sentii quella sensazione di vuoto allo stomaco, improvvisamente  un brivido mi scosse. Mi voltai di colpo e lo vidi, vidi quella persona che non mi ricordava concretamente quasi niente, ma che mi faceva piegare dal dolore allo stomaco. Quegli occhi… io li conoscevo, mi ricordavo di quello sguardo. Quel viso, quel modo di fare... mi dicevano qualcosa. E tutt’a un tratto ne fui certa: era il bambino del sogno, anche lui. Possibile? Strabuzzai gli occhi e lo fissai, cercando di collegare il ricordo che avevo di lui undici anni prima al suo aspetto in quel momento; doveva essere lui, io me lo sentivo. Inizialmente mi riempii di brividi ad un pensiero agghiacciante che mi passò per la testa: avevo ucciso Carlo… l’avevo visto nel sogno. Era morto.
Ed ora era davanti a me: e se fossi morta anche io? Ci furono almeno trenta secondi durante i quali lo credetti fermamente, come se mi sembrasse l’unica spiegazione possibile, ma poi la razionalità mi portò a pensare il contrario. Sperai che neppure Carlo mi notasse ma, soprattutto, che non mi riconoscesse; per mia fortuna, non si voltò neppure. Sorrise al fratello e all’elegantissima ragazza che aveva accanto:
-Buonasera, Charlotte! Sei davvero splendida stasera-
-Grazie mille, Guido- sorrise timidamente lei -Io e Carlo aspettiamo con ansia notizie sui Bertle: abbiamo bisogno di quell’uomo nella nostra alleanza- disse l’elegantissima bionda incrociando le dita
-Conosci Dan- rispose semplicemente Carlo, sorseggiando del vino rosso
-Sì- mormorò la ragazza con uno sguardo indeciso -Sì, lo so-
-Il signor Bertle si ritroverà il contratto firmato in mano fra una decina di minuti e neppure si ricorderà di aver accettato. Stai tranquilla, Charlotte- sorrise dolcemente, accarezzando il viso della splendida ragazza con cui stava parlando. I ragazzi continuarono a parlare per un po’, ma io non ero in condizioni da continuare ad ascoltare... più li guardavo più mi ricordavano quei visi innocenti di bambini. Rimasi a fissarli senza fiato, tesa e ghiaccia per la paura.
E quando ormai non credevo potesse succedere di peggio, Charlotte se ne andò e i due ragazzi si avvicinarono a me; ero sul punto di soffocare, rigida e bloccata a terra. Colta di sorpresa, afferrai un libro qualsiasi dalla libreria e finsi di cimentarmi in uno studio impegnato di una qualche opera a me sconosciuta. Sentii il cuore tremare quando mi si avvicinarono, li vidi prendere posto nel piccolo divanetto di fianco a me e provai una grandissima emozione… ma ero molto, molto spaventata. Guido mi guardò e mi sfiorò una mano con gentilezza:
-Mi scusi, signorina, è libero qui?- sentii il cuore per un secondo bloccarsi. Un gran mal di pancia mi assalì, deglutii ma non riuscii a far uscire la voce, così mi limitai ad annuire; si sedettero proprio accanto a me. Chiusi gli occhi per la paura, tuttavia fortunatamente non sembrarono curarsi affatto di me.
Guido si voltò verso il fratello, più serio che mai, con lo sguardo basso:
-Non devi mentire a Charlotte, fratello...-
-Di che parli?-
-Sei preoccupato per la faccenda del signor Bertle, ammettilo-
-Dan è molto bravo in queste cose- rispose Carlo con tono fermo, continuando a fissare la moquette rossa
-Eppure il tuo sguardo sembra nel panico- disse Guido, appoggiandogli una mano sulla spalla e convincendo finalmente il fratello a parlare e ad essere sincero:
-Guido, tu non capisci- mormorò abbassando il tono di voce, dopo aver controllato che lì intorno non ci fosse nessuno ad ascoltarli -ti rendi conto che se Kurt non riesce a far entrare i Bertle io sono morto?! Hai capito che quella lì me la fanno sposare? Io voglio sposare Charlotte, non Abby... è giusto che rinunci alla persona che amo solo perché, per colpa della mia famiglia schifosa, fingiamo di essere ancora ricchi quando nemmeno abbiamo soldi per mangiare?-
-Non sarai costretto a sposarla, sono certo che...-
-Guido, non so se hai capito che non abbiamo più niente. Me la faranno sposare, sai che è così-
-Cosa?- chiese il fratello che espressione grave -Papà ti ha detto questo? Che dovrai sposare Abby?-
-Ah, papà!- esclamò Carlo, quasi disgustato -Ma cosa vuoi che mi abbia detto papà, eh?! Ormai è già troppo se si alza dal letto la mattina, quel disgraziato!-
-Abbassa la voce- lo rimproverò il fratello
-Credi che la gente non lo sappia, eh?- ridacchiò Carlo scuotendo la testa con disprezzo -A me non me ne frega niente, sai che ti dico? Per me può anche continuare ad affogare nell’alcool e nei suoi pentimenti finché non muore- digrignò i denti dicendo queste ultime parole con una violenza che mi fece tremare; il suo sguardo tornò poi tranquillo e cercò di liberarsi da quella rabbia scuotendo la testa -Insomma, sai queste cose bene quanto me, non c’è bisogno che ti dica niente. Papà continuerà a vivere nello schifo... e se non c’è un uomo in questa casa, sarà bene che cominci a farlo io-
-Non puoi prenderti le responsabilità degli errori di papà, Carlo- mormorò tristemente il fratello
-Ah, no? E chi se ne dovrebbe occupare, allora? La mamma?- quella domanda provocatoria del ragazzo lasciò senza parole il fratello, che dopo una decina di secondi di silenzio parlò lentamente e con calma:
-Le hai parlato?- Il fratello annuì con un sospiro, quindi Guido continuò -Che ti ha detto?-
-Le stesse cose, Guido, le stesse bugie che ha sempre detto: che va tutto bene, che non dobbiamo preoccuparci, che tutto passerà...-
-Sono quattordici anni che ci assicurano che passerà-
-E intanto papà ha un debito di non voglio sapere quanti soldi... che noi, noi che non abbiamo fatto niente, fra poco dovremo pagare-
-Se Matilde sposasse quel giovane Clark? Ne parlavamo qualche settimana fa, sono davvero ricchissimi...-
-Non deciderò io chi sposerà mia sorella- rispose duramente Carlo -Lei farà quello che vuole, ha già sofferto abbastanza per colpa di papà, non credi? Hai dimenticato quello che ha subito?-
-Non voglio parlarne, Carlo...-
-Lo so. Neppure io... teniamo nostra sorella fuori da questa storia,x ma io mi sento responsabile e sposare Abby sarebbe l’unico modo per...-
-Non sei Bertle entrassero in alleanza- lo fermò Guido, cercando di tirarlo su di morale -In qualche modo ne usciremo-
-Non è forse la stessa frase che ci viene ripetuta da anni?-
E di nuovo il silenzio calò fra di loro, semplicemente perché Guido sapeva che il fratello aveva ragione. Un gran sospiro di Carlo ruppe quel ghiaccio e di nuovo iniziò a parlare, addolcendo il tono:
-Almeno, se ci fossero i Bertle in alleanza con i Richardson, tutto sarebbe più semplice: Niall si sposerebbe con Darcy Bertle e Charlotte avrebbe carta bianca... e soldi, per quanto sai che non sarebbero il motivo per cui la sposerei. La amo davvero-
-Lei lo sa- sorrise dolcemente Guido -E ti conosce bene, sa alla perfezione tutti i tuoi problemi: sarà felice di aiutarci-
-Ah, ho bisogno di bere!- si sfogò Carlo, alzandosi e prendendo un bicchiere di vino bianco dal vassoio di un cameriere. Rimase in silenzio per un po’, io cercai di guardarlo facendo capolino dal libro che stavo leggendo, sperando che non si accorgesse delle mie occhiate curiose; poi si risedette accanto al fratello e parlò con tono calmo ma piuttosto triste:
-Sei soddisfatto della tua vita?-
-Ah, avanti! Sei serio?- ridacchiò il fratello -Che vuoi dire?-
-Io non lo sono, non lo sono per niente. Questo è un mondo crudele, un mondo fatto di macchine, di finzioni, di interessi materiali! Tutto è basato sul denaro... non è forse vero che siamo cresciuti così? Nello schifo più totale, immersi nelle bugie, nelle disgrazie... eppure papà non ha mai smesso di sperperare soldi rubati chissà dove e di ostentare ricchezze che non abbiamo. Beati i poveri, beati coloro che possono apprezzare le piccole cose...-
-Per carità, Carlo!- lo rimproverò il fratello -Di che parli? Forse la nostra vita non è stata bella come ci illudiamo di far credere alla gente, ma abbiamo anche troppa fortuna ad essere ancora qui sani e salvi. Dovresti smetterla di dire certe cose... sai bene cosa significa la povertà... - pronunciate queste parole, scosse con dispiacere la testa, fissando gli occhi azzurri del fratello, che rispose a tono
-Eppure, quando non avevamo nient’altro che noi stessi eravamo felici... e potevamo davvero vivere in pace- concluse sorseggiando un po’ di champagne e inchinandosi dolcemente ad una ragazza appena entrata
-Contessa, è un piacere averla qui...-
-Grazie mille, singor Ori- rispose lei gentilmente, allontanandosi
-Vedi quanto ogni cosa sia falsa qui?- tornò a parlare Carlo -Non la conosco neppure ma so il suo titolo, quindi per abitudine mi inchino a lei... sono stanco di tutto questo, accidenti! Sono stanco anche di bere champagne e vino bianco da milioni di sterline: ho venticinque anni, voglio godermi la mia vita... ah, chiedo troppo?!-
-Carlo, calmati e appoggia quel bicchiere, non fare lo stupido... di cosa parli?-
-Del fatto che voglio sposare Charlotte, del fatto che ho paura di perdere ciò che ho di più bello... da quando l’ho conosciuta, ogni peso per me si è alleggerito e tutto è cambiato per me. E se dovessi sposare Abby, la mia vita sarebbe un incubo... e non sto esagerando! Lei è la classica ricca pettegola così piena di soldi da far schifo, e non è ciò che voglio. Per questo dico che sono stanco di questa vita... mi mancano i giorni in cui non avevamo nient’altro che gli alberi dietro ai quali nasconderci...-
-Oh, avanti!- sbuffò infastidito Guido
-Almeno non dovevamo fingere di essere ricchi, in quel castello-
-Ah, ma di che parli?!-
-Che c’è? Non era forse bello?-
-Non lo era...- rispose Guido con tono pungente
-Solo per quello che è successo, non è vero?- chiese Carlo, dopo una piccola pausa di silenzio. Non ci fu una risposta, quindi i due sbuffarono quasi contemporaneamente, quando Guido non si fece coraggio e parlò:
-Lei non è morta- quelle parole mi sembrarono tagliare l’aria, come potenti e veloci frecce. Fui immobilizzata da quelle parole, come se subito ne avessi preso l’intensità e la pesantezza... Carlo ebbe la stessa reazione:
-Di che accidenti stai parlando?- chiese quasi con tono minaccioso
-Lo sai bene. Perché vuoi eliminare quei ricordi?-
-Guido, che ti prende? Perché ne parli proprio ora?-
-Prima o poi dovremo riprendere l’argomento, no?-
-No- concluse Carlo, più infastidito che mai
-Sei proprio un bambino!- scosse la testa Guido, con fare quasi indignato
-Cosa vuoi che ti dica? Che è viva? Che è ancora viva? Che capisco ciò che è successo? Sei mio fratello e ti voglio bene, ma certe volte dici proprio le cose sbagliate nel momento sbagliato: ciò che è stato è stato... chiudiamola qui...-
-Ma...- tentò di riprendere la conversazione Guido
-Ho anche troppi problemi per pensare a queste stupidaggini, scusa... avevo tredici anni, ero un bambino. Ora le cose sono cambiate, la mia vita è diversa... la tua vita è diversa, come quella di Matilde. Non c’è altro da dire, smettiamola di ritornare su un argomento ormai passato; la vita va avanti, è passato molto tempo e non siamo più quei bambini di dodici anni- Dopo quelle taglienti e fredde parole, cariche di odio e, allo stesso tempo, di paura, ci fu un attimo di silenzio, dopodiché Guido cercò di cambiare drasticamente argomento, come se non fosse successo niente:
-Dobbiamo scoprire notizie sui Bertle, non credi? Questione di vita o di morte: dipende tutto da Louis e Dan. Mi fido di Dan... per niente di Louis. Andiamo a cercarli- si alzarono dal divano, Carlo lo seguì, abbandonando l’espressione carica di malinconia che poco prima aveva calato una triste ombra sui suoi occhi. Non so dove andarono, li seguii con gli occhi mentre uscivano dalla porta di quella stanza, con il cuore che ancora tremava per un sentimento che non riuscivo bene a capire. Rimasi immobile, ferma su quella poltrona per almeno una decina di minuti: pensavo, pensavo e pensavo ancora. E poi ricordavo i loro occhi, ripetevo fra me e me le loro parole tristi e dure e cercavo invano di digerire un peso tanto grande. Ma dopo non molto qualcosa mi riportò all’attenzione... qualcosa di aspro e dolce allo stesso tempo.
-Mi scusi, ha visto mio fratello?- Quella voce chiara e dolce mi fece tremare per qualche secondo; capii, o forse solo immaginai, e non ebbi il coraggio di voltarmi -Mi avevano detto che si trovava qui, ma probabilmente se n’è già andato- Sentii quella voce avvicinarsi sempre di più, i passi si fecero così vicini che fui costretta a riprendere in mano il libro che già avevo usato per mimetizzarmi con quella gente colta e ricca. Era proprio dietro di me, potevo sentirla. La voce di un ragazzo le parlò con gentilezza, e il mio cuore saltò subito nel petto:
-Aspettiamoli qui, Matilde-
Ecco. Un secondo. Una parola. Bastò un attimo a frantumare il mio cuore in mille pezzi. Matilde… quel nome sembrò perforarmi le orecchie fino ad arrivare al cervello; nessuna freccia, coltello o qualsiasi altra cosa avrebbe mai potuto farmi tanto male quanto rivedere lei, mia sorella. Non riuscii a piangere, ma misi una mano sul cuore, sentii una fortissima nausea costringermi a stringere le mani intorno allo stomaco. Oh, che brutta sensazione il terrore. Reagii come se sapessi alla perfezione tutto ciò che le avevo fatto. Ripensai al sogno, rividi la scena del mulino, il suo sguardo terrorizzato mentre la fissavo cadere nel nulla mi distrusse. Era quello sguardo; lei, il mio incubo, ed io, il suo, eravamo a pochi metri di distanza, dopo undici anni. Sarei dovuta andare da lei, ma non ne ebbi il coraggio… guardarla mi faceva pensare a quello che era successo, e affrontare il mio passato era ancora una cosa troppo spaventosa per me. Avevo cercato la mia famiglia per tre anni: ce l’avevo finalmente davanti, ma non facevo nulla. Mia sorella era viva, non l’avevo uccisa... ma non andavo da lei e non avevo il coraggio di scusarmi e di chiedere spiegazioni.
Continuava a parlare e la mia voglia di vederla, di specchiarmi in quegli occhi che rappresentavano un incubo, divenne troppo forte: con coraggio mi voltai di colpo, con il cuore che scoppiava per l’emozione e la paura.
E la vidi. Era proprio lì, bella come mai davanti a me, dopo undici anni. Non era poi cambiata tanto... aveva ancora quel dolce viso da bambina innocente che non aveva mai perso. Era solo più alta, il suo corpo era quello di un’adulta, sì, ma i suoi occhi erano proprio gli stessi. Quel verde così forte, così profondo che mi pietrificava, mi terrorizzava e mi spaventava.
Sorrideva, ma c’era un dolore che solo io avrei potuto scorgere dietro a quelle labbra carnose; anche lei soffriva ancora. I suoi riccioli neri ricadevano morbidi sulle spalle proprio come un tempo, le sue guance rosse e vellutate e la sua carnagione leggermente pallida erano ancora lì a caratterizzarla in tutta la sua elegantissima e fine bellezza. Per un attimo desiderai che mi guardasse, desiderai che i suoi occhi avessero un contatto con i miei, ma questo non successe... e in fondo sarebbe stato qualcosa di troppo forte per me.

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Capitolo 24
*** CAPITOLO 22 ***


Dopo una decina di minuti, i miei fratelli rientrarono quasi di corsa nella stanza e subito sorrisero vedendo il ragazzo accanto a mia sorella:
-Allora, Louis! Ti vedo sorridente!- esclamò Carlo -Il signor Bertle ha accettato, non è forse così?-
-Già, dimenticavo!- disse Matilde con un sorriso -Avanti, Louis, com’è andata?-
-Non ne ho idea!- ripose sorridendo con semplicità il ragazzo dagli occhi azzurri
-Cosa? Che significa? Non ha firmato?- chiese Matilde preoccupata, aggrottando le sopracciglia
-Non lo so, nessuno mi ha detto nulla e...- il ragazzo si immobilizzò, rimase in silenzio per un attimo e il suo sguardo nel panico si posò su Carlo, che si mise una mano sulla fronte in segno di disperazione e si avvicinò all’amico:
-Stai scherzando? Ma non dovevi esserci tu a parlare col signor Bertle insieme a Dan, Louis?-
-Il signor Bertle!- esclamò, buttando la testa fra le mani –Oh, l’avevo del tutto dimenticato!- Carlo imprecò nel modo più composto che la sua rabbia potesse permettergli:
-Accidenti, Louis! A che ora era?-
-Alle... beh, un’ora fa...- rispose disperato, guardando l’orologio -Tranquilli ragazzi, io sistemerò tutto, non dovete preoccuparvi, so già come fare. Dobbiamo trovare Dan- borbottò il ragazzo, nel panico. Si avvicinarono ad un gruppo di persone e Louis velocemente chiamò in disparte un’elegante donna dagli occhi azzurri:
-Scusate davvero l’interruzione, ma avrei un’emergenza... mamma, possiamo parlare? Ti prego, dimmi che sai dov’è Dan?- La donna lo fulminò con lo sguardo:
-Oh, l’ho visto poco fa in biblioteca- mormorò con un falso sorriso, quindi si allontanò e rimproverò il figlio, cercando di parlare il più sottovoce possibile -Louis! Perché mai non hai parlato con il signor Bertle, ne parlano tutti e mi hai fatto davvero verg...- si zittì, si rese conto che stava parlando da sola. I ragazzi si precipitarono fuori da quella stanza e rimasi ancora lì, sola, sconvolta, immobile e incapace di parlare, travolta da bruschi ricordi e sensazioni.
Mi incamminai per un lungo corridoio, reggendomi a stento su quelle gambe ancora un po’ tremanti e deboli; il mio viso era pallido, i ricordi vividi, per quanto pochi e brevi; ero confusa, ma potevo vedere tante, troppe immagini dei miei fratelli e di mia sorella... il fatto che fossero ricordi, testimonianze di una vita che mai avevo accettato, mi pietrificava. Camminai per una vita, per un tempo infinito, che non seppi nemmeno contare; fissavo la moquette rossa, chiudevo gli occhi ogni qual volta gli occhi di Matilde mi ritornassero in mente e cercavo solo di non pensare. Mi fermai in un bagno, a quanto ricordo, per rinfrescarmi e cercare di riprendermi dallo shock che mi aveva assolutamente lasciato debole e priva di forze. Ero bianca, pallida come un morto, tanto che mi fermai per qualche minuto sperando di riprendermi: dovevo farmi forza, e lo sapevo.
Uscii da quel bagno che già mi sentivo meglio, ripresi il mio cammino senza meta finché non fui davvero, davvero stanca di muovermi; mi ritrovai in una bella stanza affrescata piena di poltrone, divani ed eleganti tavoli per il buffet. Un grandissimo camino in marmo illuminava tutta la stanza.
Sospirai e sentii il bisogno di calmarmi un po’, quindi mi fermai proprio accanto a quel caldo camino che mi dava tanta sicurezza, sperando di non sentirmi più costretta a pensare al mio passato. Mi accorsi subito, con la coda dell’occhio, dello sguardo di un ragazzo, mi voltai con un piccolo sorriso, ma subito i miei occhi cambiarono direzione e tornarono a fissare il vetro gelido e appannato che dava sul parco. Quel ragazzo stava tenendo conversazione con degli adulti, eppure sembrava assolutamente assorto. Non potei fare a meno che girarmi di nuovo... e incontrai il suo sguardo.
Due profondi occhi verdi puntarono i miei: non avevo mai visto uno sguardo così pieno di vita. Mi rivolse un sorriso... un sorriso che, pensai, avrebbe potuto illuminare tutto quel buio che avevo dentro. Passò le dita fra i capelli, le mani in tasca e la statura non troppo composta gli davano un aria che sapeva trasmettere sia sicurezza, che simpatia; un leggero cenno della testa, come per salutarmi, mi fece tornare alla realtà. Perché lo stavo guardando? Scossi la testa e mi voltai ancora, imbarazzata e con gli occhi bassi. Sentii uno strano formicolio allo stomaco, qualcosa che non avevo mai provato prima... che cos’era? Quella sensazione mi spaventò, cercai di distrarmi e di pensare ad altro, resistendo alla tentazione di voltarmi ancora verso di lui. Quando fui certa che fosse troppo preso dalla conversazione per pensare a me, però, decisi di fermarmi ad osservarlo un’ultima volta... era diverso dal gruppo di persone con cui stava parlando, si vedeva che era giovane, sembrava un tipo leggermente ribelle. Il gel nei capelli non era messo alla perfezione e un uomo, probabilmente suo padre, con uno sguardo severo lo fulminò per l’errore della pettinatura e lo risistemò con la mano, mentre il ragazzo sorrideva con innocenza. Stavano discutendo e bevendo champagne, ma, mentre la compostezza degli altri era invidiabile, lui continuava ad intervenire con coraggio e ad annuire con le mani in tasca, mentre il padre sembrava infastidito e un po’ irritato dal suo comportamento audace. Mi avvicinai, presa da un curiosità che non mi sarei potuta spiegare, e mi nascosi dietro a un muro, così che potessi vedere meglio quel ragazzo che tanto mi aveva incuriosito.
Iniziò un’animata discussione con un uomo adulto, dicendo cosa aveva in contrario al suo modo di vedere le cose. Gli adulti erano letteralmente sconvolti da quella sfacciataggine, il padre si scusò per l’insolenza del figlio, ma il ragazzo sorrise, dicendo che non era assolutamente un modo per criticare, ma solamente per proporre idee. Fermò il padre con un cenno della testa e si avvicinò ancora all’uomo con cui aveva acceso conversazione:
-Non crede, signor Bertle, che sia giusto per noi giovani allargare gli orizzonti, non limitarci ad assentire ma esprimere le proprie opinioni e argomentare le proprie discussioni?-
-Oh, per carità, Dan... mi scusi tanto, signor Bertle, non so cos’abbia mio figlio stasera... ah, vuole scherzare- ridacchiò imbarazzato il padre
-No, sono serio, papà- sorrise nuovamente il ragazzo -Noi siamo responsabili, in questo periodo, dell’andamento economico di gran parte del Regno Unito, signor Bertle e credo proprio che siamo proprio noi giovani, successori all’immenso e devo ammettere ammirevole lavoro dei capi di famiglia, a doverci impegnare al meglio, valorizzando le nostre svariate qualità. Devo personalmente fare i complimenti a mio padre per il grandissimo impegno, ma non per questo credo di avere il dovere di soffocare la mia capacità di giudizio. Avanti, signor Bertle, stiamo parlando di diritti civili... libertà di parola, non è forse vero?-
-Dan, credo che dovresti raggiungere i tuoi compagni in altro luogo ora...- disse stringendo i denti il padre, strabuzzando gli occhi con fare critico, cercando di fermarlo
-Signor Birmingham, lasci finire questo giovane ragazzo! La prego!- disse l’uomo fino a poco fa contrario al giovane, ora interessato dalle sue parole, lasciando il padre a bocca aperta -Dunque, figliolo, vada avanti: l’ascolto-
-La ringrazio, signore, questo è un onore, poiché mi rendo conto di quanto la vostra famiglia abbia ultimamente inciso sulle decisioni per il progetto; è per questo che mio padre e il signor Richardson sarebbero semplicemente onorati dalla sua partecipazione. E come ho già detto, se posso essere sincero, non credo che la sua idea di stipulazione del trattato possa portare a molto, per i motivi che le spiegavo poco fa. I Johnson, signore, sono nel nostro progetto e...- disse avvicinandosi all’orecchio dell’uomo -se mi permette, credo che questo potrebbe creare un gran vantaggio per i suoi rapporti con la famiglia, ma soprattutto le permetterebbe di creare la tanto agognata alleanza che so avesse intenzione di stringere a partire dalla famiglia Richardson. E lei sa bene che Niall Richardson prenderebbe con tanto, tantissimo piacere la mano di sua figlia Darcy. Se posso essere sincero- continuò, non curandosi dell’espressione preoccupata e incredula del padre -credo che io e Louis Richardson, come sa bene primogenito dei Richardson, potremo occuparci  dell’alleanza con la vostra onorevole famiglia, mentre i nostri genitori saranno occupati dunque nel progetto-
-Lei, signor Birmingham, mi sta in conclusione chiedendo di partecipare all’alleanza con i Richardson, ma il membro dell’altra famiglia si è comportato vergognosamente, senza presentarsi all’incontro! E lei dunque sta cercando di convincere me ad entrare nell’alleanza, fidandomi di un tale errore da parte del signor Richardson e della sua insolenza!-
-Proprio così- ammise il ragazzo, sorseggiando dello champagne e sorridendo con semplicità, facendo l’occhiolino al padre, immobile per la paura di ciò che il figlio avrebbe potuto dire
-E allo stesso tempo, lei mi sta accusando di aver sostenuto, come capo di famiglia, tesi sbagliate sul campo economico, o mi sbaglio?-
-Oh, no, no, signor Bertle...- disse preoccupato il padre di Dan
-Papà, se posso permettermi- lo interruppe il ragazzo, alzando il tono di voce -Era proprio quello che in modo educato e civile volevo consigliarle, signor Bertle. Cambiare strategie... ricordi, allargare gli orizzonti- Improvvisamente l’uomo si interruppe, rimase fermo con il suo sigaro a fissare nel vuoto, quindi dopo una decina di secondi addolcì l’espressione, fino a quel momento molto severa, con un piccolo sorriso:
-Allargare gli orizzonti...- ripeté sorridendo -Sì, sì, non è poi sbagliato. Mi piace, è vero! Credo tu possa avere ragione. Complimenti, signor Birmingham, suo figlio è una promessa per l’oratoria, la sua sfacciataggine è assolutamente affascinante e convincente-
-La ringrazio, signore, è assolutamente un piacere ricevere questi complimenti- rispose il ragazzo mettendo la mano fra i capelli e sorridendo al padre, che gli diede subito una pacca sulla spalla, sospirando di sollievo:
-Eh, sì, proprio un ragazzo in gamba... se mi posso permettere, vorrei però ricordare che non si tratta in realtà del mio primogenito-
-Peter, mio fratello, è in viaggio da molto per cercare un’alleanza con le famiglie asiatiche per il progetto di economia di cui avete parlato durante l’ultima conferenza...-
-Lei era presente, signor Birmingham?-
-Ovviamente, signore. Ero lì con Harry Johnson e mio fratello Peter. Dunque, entrambi hanno deciso di cercare quelle alleanze di cui parlava nella conferenza. Harry Johnson, come bene si immagina, è partito con mio fratello... scelta saggia da parte di mio padre! Sono due ragazzi assolutamente competenti, ma mi permetto di commentare la sua conferenza, se posso, signor Bertle: molto, davvero molto interessante, ma ho trovato gli argomenti poco attuali; dovrebbe, per trovare alleanze asiatiche... non saprei, forse modernizzare le sue idee, come già le ho spiegato, proprio per questo progetto di globalizzazione. Ecco perché mi sono permesso di consigliare a mio fratello di mettere in gioco un collegamento fra Regno Unito e Cina per quanto riguarda associazioni di alta tecnologia. Da tanto avevamo pensato a questo, signore, e se le interessa l’argomento possiamo organizzare un incontro con Louis Richardson, le assicuro che non mancherà. Mi sono personalmente consultato con i primogeniti rispettivamente dei Johnson, dei Brady, degli Ori, dei Parker e, ovviamente, dei Richardson, ovvero delle famiglie della più forte alleanza inglese, in altre parole la nostra... sono tutti assolutamente d’accordo-
-Oh, mi sembra quindi di capire che in mancanza del padre, impegnato col progetto per l’Africa, e del fratello, con le alleanze in Cina, lei potrebbe direttamente collaborare con me per l’alleanza sul campo militare? Insieme a Louis Richardson?-
-Esattamente. E poi potremmo unire le altre famiglie, con il tempo. Louis è una gran persona, signor Bertle, esperta in economia e politica... è già laureato in legge e in questo è alquanto più competente di me, mi creda; sarei onorato se mio padre firmasse perché io me ne prendessi la totale responsabilità. Mi scuso da parte di Louis per il comportamento di stasera, ma le assicuro che non succederà più. Possiamo cominciare noi tre l’alleanza, poiché il suo unico figlio maschio, se non sbaglio, è occupato in altre faccende- concluse Dan facendo brillare gli occhi, soddisfatto del proprio lavoro
-Ebbene, come resistere a una tale sfacciataggine, signor Birmingham?!- ridacchiò il composto signore -E lasci che le faccia i complimenti per l’idea della tecnologia, in ogni modo! Ora suo padre verrà con me e con il signor Richardson a firmare... lei e Louis avrete le redini del lavoro. Ci vedremo fra poco durante la conferenza- Il padre rise e colpì giocosamente il figlio:
-Ah, sei davvero incorreggibile, figlio mio! Ma finché gestisci così bene, sebbene a tuo modo, affari di politica, sarò sempre fiero di mio figlio. Bravo, buon lavoro!-
-Grazie, papà...- rispose soddisfatto, incrociando le braccia -Mi basta essere me stesso, funziona sempre...-
-Ah, Dan, Dan! Figlio mio!- continuò a ridere allontanandosi -La postura!- il ragazzo, ridendo, cercò di stare più dritto, poi, ritrovandosi solo, tornò a guardarmi e sorrise, sorseggiando l’ultima goccia di champagne. Feci lo stesso, ma i miei occhi si abbassarono subito timidamente; era sul punto di avvicinarsi a me, ma improvvisamente il signor Bertle lo fermò:
-Ah, e... mi permetta, ma sono davvero preoccupato per il fatto che ancora non si sente parlare di alcun tipo di matrimoni, signor Birmingham...- il padre sospirò e il figlio scoppiò a ridere, scuotendo la testa:
-Ah, tasto dolente, tasto dolente, mio caro Bertle. Vede, so che dovrò prender moglie, conosco bene le famiglie alle quali potrei unirmi per “convenienza”, ma... non ancora, finché non ci sono gravi problemi-
-Ma non ha neppure una fidanzata?- Dan sorrise e si animò, avvicinandosi all’orecchio del signor Bertle:
-Vede, non so se mi capisce, ma... credo che dovremmo goderci di più la nostra gioventù. L’amore è qualcosa di complesso, signor Bertle, non lo capiscono gli adulti più maturi... perché mai dovrei riuscirci io? Ho ventidue anni, sono ancora giovane. Non ho intenzione di avere impegni, per adesso...- il padre sbuffò e il signor Bertle chiese, sconvolto e quasi scandalizzato:
-Lei intende... ?-
-Sì, proprio così. Intendo stare con le ragazze che mi piacciono senza alcun tipo di legame o, comunque, senza impegni... insomma, lei ha capito, la maggior parte delle volte mi comporto così- sorrise compiaciuto -Avanti, signor Bertle, non mi vorrà dire che da giovane anche lei non ha fatto qualcosa del genere! Voglio dire... siamo uomini, non è vero?- Il padre fermò subito il figlio, che già rideva divertito, e portò via il signor Bertle, che tuttavia gli dette una pacca sulla spalla, trasformando la sua espressione un po’ incredula in una gran risata:
-Ah, bella filosofia di vita, però! Divertirsi, lei ha ragione!!! Oh, è un bel ragazzo ancora giovane... siamo sinceri: perché annoiarsi con relazioni serie? Ah, che ragazzo intelligente! Ci sono tante belle ragazze qui stasera... mi raccomando, eh, signor Birmingham, si dia da fare!- rise ancora il signor Bertle, del tutto sciolta la sua compostezza. Dan, cercando di trattenere le proprie risate, lo richiamò da lontano:
-Ah, signor Bertle, quindi è sicuro, non è vero? Accetterà di entrare nell’alleanza?-
-Ma certo, carissimo signor Birmingham!- sorrise da lontano -Allargare gli orizzonti... mi piace, mi piace davvero molto. Buona serata- concluse poi con un inchino, trascinato via dal padre del ragazzo, praticamente sconvolto e ancora preoccupato. Se ne andò ripetendo le parole di Dan con soddisfazione, essendo la prima volta che sentiva un giovane nobile parlare con tanta sfacciataggine.
Proprio in quel momento, prima che quel gioco di sguardi fra me e lui ricominciasse, vidi arrivare a corsa i miei fratelli, mia sorella e Louis. Mi chiesi se fosse un caso... e poi non trovai nessuna risposta.
Appena Dan li vide andò incontro all’amico, cercando di non alzare troppo il tono della voce:
-Sei completamente impazzito, Louis? Dove accidenti sei stato?-
-Scusa, scusa davvero, io... non so come abbia fatto a dimenticarmene. Andrò subito a scusarmi con...-
-Fermo, faresti peggio. Va tutto bene, il signor Bertle ha già accettato, mi sono scusato da parte tua; fra una mezz’oretta c’è la conferenza di William e tu sarai lì, proprio in prima fila, ad annuire ad ogni singola parola dell’illustrissimo signor Bertle, non è vero?-
-Altro che prima fila, Dan! Mi metterò a sedere sotto la sedia del signor Bertle se servirà a dimostrargli quanto ci tenevo!- scoppiò a ridere il ragazzo dagli occhi azzurri -Mi dispiace da morire, è che...-
-Da quanti anni ci conosciamo, Louis Richardson?- sorrise il biondo con una pacca sulla spalla
-Ti ho visto nascere, mio caro Dan!-
-Ecco perché non hai bisogno di giustificarti: io lo sapevo che te lo saresti scordato, ti conosco così bene che ero già pronto con un “piano B” nel caso non fossi venuto-
-Ah, Dan... grazie! Grazie, grazie infinite, non smetterò mai di ripeterlo! Sono un vero stupido!-
-Ah, almeno ne sei consapevole! Hai lavorato moltissimo per questo progetto e avrai tante altre occasioni per farlo capire al signor Bertle, non devi preoccuparti di niente. Te l’avevo detto che ci saremmo riusciti, no?- sorrise soddisfatto Dan, ricambiando l’abbraccio dell’amico e tirando un sospiro di sollievo. Carlo, per la prima volta da quanto l’avevo rivisto, non si curò della compostezza che avrebbe dovuto tenere in quel momento e corse ad abbracciare Dan con una risata. Charlotte, la sua fidanzata, fece lo stesso e nel giro di un paio di minuti un mare di ragazzi e ragazze felici e spensierati corse a congratularsi, ad abbracciarlo, a ringraziarlo... aprirono dello spumante e lo bevvero fra le urla di gioia e soddisfazione. Ah, ricordo così bene quel momento! Guardavo quella scena senza fiato, immobile, paragonando la tristezza del mio viso ancora sofferente ai loro sorrisi luminosi e bellissimi, ai loro abbracci pieni di calore, ai loro sgargianti prospetti... oh, quello non era il mio mondo. E non lo sarebbe mai stato. Il mio sguardo mi fermò involontariamente sul vetro della fredda finestra: era buio pesto e vidi un’immagine di una bellissima ragazza in rosso su quel vetro. I suoi occhi erano luminosi, aveva la pelle fresca, un bel portamento, dei lineamenti morbidi e dolci, delle vesti degne del suo viso fiero: io non la conoscevo.
Guardai me stessa senza fiato, fra tutte quelle persone dolcemente assorte nelle loro discussioni prive di preoccupazioni... erano felici e soddisfatti di sé stessi, della propria vita. “Chissà come ci si sente” pensai “ad andare a letto con il sorriso sulle labbra, senza pensieri per la testa...” Forse un giorno avrei avuto la risposta... forse.
Il tempo passò e non mi mossi da quel luogo, rimasi solo a fissarmi in quello specchio, per la prima volta nella mia vita senza farmi nessuna domanda: solo quando la situazione si fu calmata un po’, i miei occhi incontrarono per caso ancora quelli del biondo che avevo già notato.
Mi fissò con un piccolo sorriso, la mano sinistra in tasca e quella destra salda sull’elegante bicchiere di champagne. Abbassai gli occhi, ma mi sentii quasi osservata... mi voltai ancora. Rimasi a guardare per qualche secondo le sue iridi verdi come lo smeraldo, di un verde così profondo che niente avrebbe potuto eguagliarlo. Avevo accettato un gioco pericoloso, che sapevo avrebbe vinto lui: “Se lo guardo ancora” pensai “rimarrò intrappolata per sempre”. Io non ero niente, solo un debole ramoscello ancora in vita per miracolo... e non avrei dovuto guardarlo ancora. Eppure lo feci.
E ci fissammo: lui soddisfatto della sua vita, io distrutta dalla mia. Lui sicuro guerriero, io debole fiore ancora non sbocciato. I nostri occhi non smisero di fissarsi. E chissà cosa successe poi... nessuno capisce queste cose, nessuno le potrà mai comprendere: io sentii una dolcissima fitta nel petto, una carezza sul cuore. Non sapevo cosa significasse, ma ebbi l’impressione che lui sentisse lo stesso. Quegli occhi verdi non uscivano dalla mia testa... e mi sentivo strana, piacevolmente strana... e quella nuova, misteriosa sensazione non era altro che un dolce minaccia. Spaventata da quel contatto visivo così profondo e così trascinante, mi sentii costretta ad andarmene; di colpo i miei occhi tornarono sulla moquette, iniziai a camminare in fretta lungo i corridoi. Con la coda dell’occhio lo vidi appoggiare lo champagne e farsi avanti nella mia direzione: corsi. Stavo scappando da quegli occhi verdi, mi facevano paura tanto quanto mi mettevano voglia di rimanere ad osservarli per ore. Ma ero stata al suo gioco e avevo tanta, troppa paura di essere io a perdere. Iniziai a correre come mai nei corridoi di quel labirinto, spaventata dall’idea di trovarmi faccia a faccia con qualcuno così diverso da me, così ricco e pieno di vita, di personalità. Le mie dita tremanti afferrarono il vestito sperando di non inciampare nei miei stessi piedi durante quell’insensata corsa, finché una voce e dei passi dietro di me non mi fermarono:
-Aspetta!- esclamò la voce profonda di quel ragazzo, che mi fermò delicatamente per il braccio. Mi girai sconvolta verso di lui e spalancai gli occhi: avevo perso. Appoggiò una mano sul petto e ridacchiando cercò di riprendere fiato:
-Oh, sei veloce per essere una ragazza!- sorrise con il fiatone -Com’è che non ti ho mai vista qui?- socchiusi invano le labbra piene e rosse, cercando di parlare, ma non potei far altro che mormorare un debole:
-Scusa, devo andare...-
-Aspetta! Dimmi almeno il tuo nome!- esclamò, cercando di attirare la mia attenzione mentre mi allontanavo da lui, inciampando nei miei stessi passi
-Scusa, ma non posso...- Fortunatamente fui salvata dal caso, perché un uomo chiese a Dan di parlare in privato, perciò sorrisi sollevata e feci per allontanarmi, ma lui mi fece girare ancora e mi strinse la mano, guardandomi dritta negli occhi con una sicurezza che mi fece tremare:
-Comunque io sono Dan, Dan Birmingham... tanto piacere- sfoggiò un sorriso meraviglioso e si allontanò così. Quel momento sembrò non finire più. Lo guardavo andarsene, allontanarsi da me; si girò più volte per guardarmi.
Era bellissimo. I suoi occhi verdi color smeraldo mi avevano subito pietrificato, come i suoi lineamenti, morbidi e dolci, ma ben definiti; la sua struttura alta e fiera mi faceva sentire ancora più debole, eppure c’era qualcosa in quel sentimento di paura che mi attraeva... ah, sarei rimasta a guardarlo per ore se solo fossi stata invisibile... ma non lo ero, purtroppo.
Non potevo essere scoperta, quindi, nel panico e nella confusione, cominciai a correre, sentendo un brusio di voci avvicinarsi al corridoio dove mi trovavo. Vidi una porta isolata e socchiusa e velocemente mi precipitai dentro, richiudendola dietro di me. Avevo appena fatto un grande errore.

 

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Capitolo 25
*** CAPITOLO 23 ***


Le voci e i rumori divennero più tenui e si annullarono del tutto non appena la grande porta si richiuse dietro di me; non c’era nessuno, ero finalmente sola. Riuscii lentamente a calmare il respiro, guardandomi intorno stupefatta per la bellezza della camera da letto nella quale mi trovavo, elegantissima con il suo letto a baldacchino color pesca e gli svariati affreschi e dipinti.
Mi chiesi cosa si provasse ad addormentarsi in una camera tanto bella... c’erano foto ovunque di una bellissima ragazza dai capelli rossi e riconobbi sulla scrivania anche, purtroppo, i miei fratelli.
Dopo che fui certa che nessuno potesse vedermi e che ebbi quindi chiuso la porta, mi avvicinai ad una foto, piccola e un po’ rovinata dal tempo, incastrata dentro ad un altra cornice, proprio come quando non si vuole dar troppa importanza a qualcosa ma si cerca comunque di non dimenticarla.
C’era una graziosissima bambina dai capelli rossi con un sorriso smagliante, probabilmente la stessa che già avevo visto in tante foto, abbracciata a qualcuno che subito, senza esitazione, seppi riconoscere: mia sorella. Era proprio lei, dalle guance rosse e morbide e dai capelli neri come l’ebano. Ridevano abbracciate proprio come se non avessero preoccupazioni; c’erano anche Carlo e Guido, praticamente irriconoscibili dalle maschere da adulto in cui li avevo visti poco prima. Dopo essermi guardata intorno, presi in mano la foto e la rigirai fra le dita... dietro lessi, in una scrittura da bambina, “gita a casa di Mati”. Socchiusi gli occhi, consapevole dell’immagine che stavo guardando. Perché non c’ero anche io? Proprio mentre mi facevo quella domanda, mi accorsi, osservando meglio la foto, di un braccio intorno alla vita della bambina dai capelli rossi; facendo più attenzione, vidi anche una spalla e una cascata di capelli castani. Quella foto era stata tagliata e ne ero certa, più che certa.
Con il cuore a pezzi, paragonai quel lato della foto con l’altro e mi accorsi che era ruvido, non levigato... ero stata tagliata via da un immagine! Mi fece tanta tenerezza e tanto dolore vedere il mio piccolo braccio intorno ai fianchi della bambina accanto a me, che neppure sembrava vedermi! E io non lo capivo, io non sapevo perché mi odiassero.
Quell’immagine mi diede tanto, tanto dolore; la rimisi in fretta dentro la cornice sperando di non essere più costretta a sentire quella fitta al cuore.
D’istinto mi girai verso un grande specchio a muro d’oro con le iniziali B.J., delle quali non sapevo il significato; era strano vedermi tanto diversa! Mi accorsi da un momento all’altro che non avrei avuto niente da temere, in fondo: certamente, i miei fratelli erano vivi, ma non mi avevano riconosciuto e sarebbe bastato fingere di non essere chi ero davvero! Promisi a me stessa che non avrei mai svelato la mia verità per tutto il tempo che sarei rimasta in quel luogo. La mia famiglia non avrebbe saputo nulla; credevo che fosse meglio… credevo, ma non sapevo quanto in realtà fosse sbagliato.
Improvvisamente sentii delle voci femminili avvicinarsi alla porta, ma non feci in tempo a nascondermi; fu questione di qualche secondo, mi guardai intorno cercando un luogo dove nascondermi, ma non ne trovai: entrarono subito dopo tre ragazze sui diciotto-vent’ anni, che ridevano e parlavano fra loro e che, finché non si accorsero della mia presenza, sembravano sorridenti e tranquille. Mi fissarono stranite e attonite, squadrandomi dalla testa ai piedi. In fondo al gruppo si fece spazio una ragazza, quella che già avevo visto in tante foto, che mi interrogò severamente:
-E tu? Che ci fai in camera mia? Hai... hai bisogno di qualcosa?-
Cercai invano di parlare, ma non uscì niente dalla mia gola secca; la ragazza davanti a me aggrottò le sopracciglia, quindi si avvicinò con una specie di sorriso un po’ infastidito:
-Oh, senti, non importa. Ascolta, dì a Niall di smetterla, ok? Se ti ha mandato per dirmi ancora che le cose sono cambiate digli pure che lo so già e che non ci sono problemi, d’accordo?-
-No, io non… credo che tu ti stia sbagliando, non sono stata mandata proprio da nessuno- borbottai con coraggio -Io... in realtà voi mi conoscete bene, ma… è difficile spiegare, sono passati tanti anni e forse non mi riconoscete neppure, ma io…- Cosa stavo facendo? Beh, non lo sapevo neppure io; ero talmente spaventata che il cuore mi sembrava sul punto di scoppiare, mi sentivo una ladra, una criminale... ero terrorizzata. Mi sentii minacciata con appena gli occhi di quella ragazza fissarono i miei con decisione; calò il silenzio per qualche secondo, le tre si guardarono piuttosto incredule e stranite, finché la voce della rossa non divenne strozzata e i suoi occhi non si riempirono di lacrime:
-Tu...- si avvicinò a me e mi prese le spalle, fissandomi negli occhi -Kaitlin?!- mormorò con un filo di voce, facendo uscire sue grandi lacrime dagli occhi azzurri. Le altre ragazze si avvicinarono e mi guardarono perplesse, sconvolte. Io non sapevo che dire e, inconsapevole delle conseguenze che avrebbe avuto, feci un enorme grandissimo errore. Sorrisi ingenuamente, pensando che non sarebbe successo nulla, e dissi le prime tre parole che mi vennero in mente:
-Sì, sono io- Ecco. Quelle tre parole mi avrebbero cambiato la vita. Però... cos’altro avrei potuto dire? Per me quel nome era del tutto sconosciuto, non c’era niente di particolare in esso, non mi raccontava nessuna storia. Il silenzio cadde fra di noi per un paio di secondi, finché la ragazza dai capelli rossi non mi abbracciò piangendo; le altre tre si buttarono sul letto sconvolte ed io... beh, io rimasi senza parole:
-Tu sei viva? Sei qui?- mormorò la rossa, asciugandosi le lacrime con il polso. E poi, da quel momento, non ricordo nemmeno più cosa successe: le tre ragazze iniziarono a riempirmi di attenzioni e a farmi domande, abbracciandomi e piangendo. Quel momento fu così strano! Non capivo di cosa parlassero, non capivo quanto quella mia bugia fosse stata un errore fatale e non sapevo come salvare la situazione.
Ero solo confusa, non avevo idea di come rispondere alle loro insistenti domande, ma quegli abbracci mi stavano facendo solo del bene, quella sensazione mi era sempre mancata... quel tremolio al cuore che si sente quando qualcuno ci vuole bene. Per la prima volta mi sentii importante e dimenticai tutto, anche il fatto che mi trovassi apparentemente in un’allucinazione. Tuttavia decisi di rispondere, quando le ragazze si calmarono, all’unica domanda alla quale trovai una scusa per replicare, ovvero “come sei arrivata qui”?:
-Purtroppo non lo so- fu quello che dissi con voce tremante, abbassando lo sguardo e cercando di inventarmi una bugia il più in fretta possibile -Ho aperto gli occhi in una panchina fuori dal castello, avevo una benda e non potevo vedere niente! Mi sono svegliata confusa, senza ricordare niente, come se fossi svenuta. Sono entrata d’istinto nel castello, ma non ho idea di dove mi trovo...- mormorai con quelle parole bugiarde. Avevo immaginato che a “Kaitlin” fosse successo qualcosa di grave, quindi qualsiasi scusa sarebbe stata idonea… ma non sapevo che quella situazione sarebbe finita per diventare troppo complessa per essere costruita sulle mie banali bugie, create da un velocissimo istinto riparatore.
-Ecco perché oggi le telecamere sembravano rotte, qualcuno deve averle disattivate! Mio papà era molto preoccupato, aveva sospettato che fosse successo qualcosa...- mi aiutò la ragazza dai capelli rossi -Ma... chi ti ha rapito? Cosa è successo? Dove sei stata?- chiese con tono quasi disperato, prendendomi le mani, come quando si hanno troppe cose che passano per la testa per trovare una giusta singola domanda.
Rapito? Quella parola mi spaventò incredibilmente; avevo fra le mani qualcosa di pesante, importante, di troppo grave. Solo in quel momento mi resi conto del danno che avevo fatto, pensai a tutte le conseguenze che quella mia bugia avrebbe avuto e decisi di salvarmi da qualsiasi pericolo, di mettermi al sicuro dietro a una frase che mi aveva protetto per molto tempo e che conoscevo bene:
-Io... io non ricordo niente- mormorai confusa -Ho perso la memoria- cercai di sembrare più preoccupata e strana possibile, ma in fondo non dovetti recitare, perché mi sentivo davvero disperata. Ovviamente, le ragazze pensarono che le mie lacrime in quel momento fossero per quello che mi era successo, non sapevano che in realtà il motivo delle mie lacrime era semplicemente un misto di paura e di senso di colpa, verso la mia grandissima messa in scena.
-Oh, capisco. Non... non devi piangere, andrà tutto bene- mi rassicurò una delle tre ragazze -Fra una decina di minuti finirà la conferenza, aspetteremo che alcuni invitati se ne andranno e parleremo con il papà di Bethany; William saprà cosa fare- erano sconvolte, quasi euforiche, ma davvero, davvero sincere… potevo vederlo dai loro occhi limpidi ed emozionati, ma allo stesso tempo anche preoccupati; chissà se loro potevano accorgersi della mia falsità, fissandomi negli occhi freddi, tristi e insicuri.
Avrei finto di non avere alcun ricordo, se non il mio nome, perché quello sarebbe stato l’unico modo per togliermi dalle spalle qualsiasi responsabilità; eppure mi sentivo colpevole e gli occhi azzurri di quella ragazza, profondi, severi e color ghiaccio mi facevano sentire ancora più in pericolo, come se potessero leggere le mie colpe attraverso le mie bugie
-Scusami, non riesco nemmeno a parlare, non so che dire...- mormorò confusa con voce tremante -Dovremmo andare dalla polizia al più presto, non so se...-
-Che giorno è?- chiesi io
-La vigilia- rispose una bella ragazza bionda, che già avevo visto insieme a Carlo. Non potei trattenere la mia curiosità e la guardai asciugandomi le lacrime:
-Tu sei la fidanzata di Carlo Ori?-
-Sì...- rispose incredula e un po’ stranita dalla domanda fuori luogo -Perché?-
-Quando sono entrata nel castello ero molto disorientata e stanca, mi sono seduta in un divano e per caso ti ho vista con lui-
-Oh, beh, sì, noi siamo fidanzati- rispose la bionda con tono fievole -Mi chiamo Charlotte Richardson- Non risposi, continuai a guardarmi intorno disorientata; la testa faceva male, iniziavo a sentire un peso enorme opprimermi e non sapevo come uscire dal groviglio in cui ero rimasta intrappolata. Vedendomi strana, Charlotte mi mise una mano sulla spalla:
-Kaitlin, va tutto bene? Hai bisogno di riposare, forse...-
-No, no- la fermai con un sospiro -Posso sapere quando sono stata rapita?-
-Undici anni fa- rispose lentamente la rossa -Sicura di stare bene?-
Undici? Non potei fare a meno di chiedermi se fossi un caso. Anche Camilla Ori era scomparsa undici anni prima
Stavo prendendo l’identità a qualcuno che era morto o chissà dove a soffrire... ero una persona orribile, in quello stesso instante mi chiesi some sarei riuscita a convivere con un senso di colpa così grande.
-Non preoccuparti, forse a breve ricorderai tutto, credo che tu sia ancora sotto effetto di un anestetico o qualcosa di simile, sembri molto confusa. Voglio che tu stia bene quando incontrerai i nostri genitori e il resto degli invitati, o quella folla famelica e assetata di pettegolezzi non farà altro che schiacciarti e renderti ancora più confusa- accennò ad un piccolo sorriso, cercando invano di calmarsi e di sdrammatizzare -Io sono Bethany, Bethany Johnson, è davvero un peccato che tu non ti ricordi di me, ma sono certa che ti riprenderai al più presto nel migliore dei modi… le nostre famiglie sono sempre state molto unite, ma, purtroppo, poi c’è stata la disgrazia. Forse c’è una cosa che a proposito dovresti sapere…- s’interruppe e interrogò le altre ragazze con gli occhi, dopodiché decise di parlare -Mi dispiace moltissimo, ma poco tempo dopo la tua scomparsa anche tua madre e tua sorella Courtney sono sparite nel nulla; non sappiamo nulla di loro, la polizia non ha mai smesso di lavorare al vostro caso, ma non è stato trovato niente. Per quanto riguarda l’altra tua sorella, Jasmine, nel frattempo si è innamorata di Jason Brady, ma tuo padre non ha accettato l’unione con la famiglia rivale, quindi hanno deciso di andarsene in Olanda, rinunciando alla ricchezza… sono lì da quasi tre anni ma non vogliono avere alcun tipo di contatto con i genitori… c’è una specie un muro di “orgoglio e dignità” per cui Jasmine e Jason non sono mai tornati. Ma... ma la avvertiremo del tuo ritorno, questo è certo- si interruppe e scosse la testa, guardando l’orologio con una certa ansia, ma la fermai in fretta, tentando di ritardare il momento in cui avrei dovuto svelare una falsa identità e mentire a centinaia di persone:
-E che mi dici di mio padre?- chiesi, continuando a calarmi in un personaggio non mio. Se qualcuno dei veri familiari di Katy mi avesse visto, avrebbe capito che non ero davvero lei e sarei stata assolutamente spacciata. Bethany ritardò la risposta, come se stesse pensando al modo in cui avrebbe dovuto dirmi ciò di cui voleva informarmi:
-E’ morto due anni fa-
-Morto?-
-Si è trattato di un infarto. Mi dispiace, non so se avrei dovuto dirtelo, Kaitlin, credimi, ma sono davvero sconvolta e non so bene come comportarmi...- mormorò, abbassando lo sguardo. C’era uno strano silenzio in quella stanza, io ero a dir poco disperata, quelle ragazze sconvolte e indecise sul da farsi, ma fortunatamente una di loro decise di rompere quel ghiaccio e mi sorrise, ancora un po’ pallida, presentandosi:
-Io sono Amber- Le sorrisi, cercando di eguagliare la gentilezza dei suoi modi -Amber Birmingham- Quel cognome mi ricordò qualcosa, la mia attenzione ricadde sui suoi lunghi capelli d’oro e sui suoi occhi verdi, profondi e vivi:
-Poco fa, mentre ero seduta, ho sentito parlare un ragazzo di nome Dan... è tuo parente, per caso?-
-Lui... sì, lui è mio fratello- rispose Amber, un po’ stupita dalla mia domanda, per la seconda volta fuori luogo -Stasera aveva... un importante incontro di lavoro. Ti ricordi di lui?-
-No, no...- negai subito -Scusate, solo che mi fa molto male la testa, sono un po’ confusa-
-Oh, lo immagino. Qualsiasi cosa di cui abbia bisogno, puoi chiedere-
-Grazie, siete così gentili! Se posso sapere, quella di stasera è una festa di Natale?-
-La festa di Natale- iniziò Bethany con tono critico -non è altro che una scusa, in tutta sincerità: stanotte il castello è pieno di zeppo di poveracci colmi fino al collo di debiti che non fanno altro che ostentare i loro soldi; questa tristissima festa è, come ogni anno, una semplice scusa per fare accordi sottobanco e sporchi giochetti fra una famiglia e l’altra. Non ci sono belle persone qui stasera, ecco perché sono un po’ preoccupata del fatto che tu sia qui proprio ora-
-Essere nobili non significa navigare nel denaro- disse Charlotte, con un po’ di amarezza nel tono -Dovrebbe essere qualcosa che va al di là della ricchezza materiale, ma a quanto pare non tutti hanno afferrato il concetto. La gente che è qui è assetata di pettegolezzi, vive di quello e non ha altro. Aspetteremo la fine della conferenza, così che qualche riccone avaro se ne sarà già andato-
-E poi io che farò?-
-Parleremo domani con la polizia, almeno credo, e poi... e poi credo che rimarrai a casa mia, in questo castello, perché mio padre, William, dovrebbe essere tuo padrino, se non sbaglio...- Annuii ancora confusa, uccisa da un fortissimo mal di testa e da un opprimente peso allo stomaco, ma c’era un’ultima cosa che avevo bisogno di sapere e, per quanto la domanda sarebbe stata sospetta, avevo bisogno di farla:
-Quanti figli ha la famiglia Ori?- Quella domanda zittì tutte le domande e le parole angosciate delle tre ragazze, rimasero in silenzio e si guardarono senza riuscire a rispondere:
-Quattro- disse poi Bethany, abbassando lo sguardo. A quella parola sentii il cuore accendersi di una speranza che quasi mi spaventò, ma subito le ragazze scossero la testa, fulminando la rossa con uno sguardo minaccioso e preoccupato:
-Tre- continuò Charlotte -Guido, Matilde e Carlo. Perché lo chiedi?- ignorando la sua domanda, continuai con il cuore  mille:
-Bethany ha detto quattro, questi sono solo tre e...-
-Dobbiamo andare- esclamò freddamente Charlotte, alzandosi di colpo in piedi -è ora di scendere, la conferenza deve essere finita-
E, ancora una volta, mi ero giocata tutto; avevo capito che da loro non avrei ottenuto nessuna spiegazione. Le seguii terrorizzata, sperando solo che andasse tutto bene. Fui trascinata dalle tre ragazze in una stanza grandissima, dove sette uomini stavano parlando davanti a tutti gli altri invitati… erano centinaia di persone che mi sembravano pronte a giudicarmi. Ero pietrificata, Bethany mi prese per mano e mi portò, passando in mezzo alla folla, da suo padre... mi sentivo piccola, piccola e debole, giudicata da tutte quelle persone alle quali passavo in mezzo, dirigendomi al mio supplizio, a mentire come mai neppure io, la più grande bugiarda, avevo fatto. Mi sentivo in pericolo. Ero solo io, io contro il mondo.

 

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Capitolo 26
*** CAPITOLO 24 ***


-Vedi quell’uomo al centro?- allungò l’indice Bethany, con la voce tremante -Lui è mio padre, si chiama William Johnson, è un po’ un capo per tutti e credo che la cosa migliore sia dirlo a lui. Aspettami qui- così dicendo mi lasciò sola, in un angolo, angosciata e distrutta, mentre andava a parlare con suo padre. E io la guardai con il cuore in gola, rimasi con gli occhi bassi, in silenzio, chiusa in me stessa
-Ma prima- sentii William annunciare -propongo di brindare...- il suo discorso fu interrotto dalla figlia. L’intera sala si zittì, si sentivano solo i bisbigli di Bethany. E il mio battito, ritmico e tagliente, freddo per la paura, ma potente per la speranza.
Di quel momento non ricordo quasi niente; guardai i sette uomini e pensai che tra di loro c’era mio padre, quell’uomo che sapevo non mi avesse voluto bene, quell’uomo che in nessun ricordo riuscivo ad individuare, quell’uomo di cui avevo sentito dire solo cose tristi e brutte. Sentii il cuore tremare, la paura di riconoscerlo mi assalì, ma proprio in quel momento, cercando disperatamente di distoglierne l’attenzione, lo scherzo del destino mi portò a vederlo. Era lui, ero certa che lo fosse. E non mi interessò niente di tutto il resto; io lo vidi e ricordai bene i suoi minacciosi occhi neri: ancora non sapevo perché, ma mi pietrificava. Il suo sguardo era duro, cattivo, minaccioso e vecchio... era un viso orribile. Guardava fisso in avanti, le grandi mani grinzose e poco curate appoggiate sul tavolo, gli occhi neri e freddi fissi davanti a lui... di colpo ricordai qualcosa, qualcosa di molto confuso, di difficile da capire... stavo urlando, lo pregavo di smetterla, di lasciarmi in pace. Era buio quel ricordo, buio e doloroso. “Papà, basta!” urlavo. E lo vedevo impazzito davanti a me, mentre lanciava delle bottiglie di vetro contro il muro della cucina e urlava, rompendo tutto ciò che aveva davanti. Mia mamma, la mia povera mamma, piangeva sul tavolo... e poi lui la colpiva. Un colpo, due. Lei si accasciava a terra. “Papà, ti prego!” piangevo ancora. E lui mi guardava pieno di odio, digrignava i denti gialli e mi si buttava contro.
Poi non ricordo più niente.
Fu questione di un secondo, ma quella scena dolorosa e oscura mi fece rabbrividire, mi lasciò lì, inerme, incapace di confortare il mio stesso cuore, più ferito che mai. E tutta quell’ansia e quella paura che avevo accumulato, mi portarono in un vero e proprio stato di shock: stavo lì, in piedi davanti a tutti, mentre il padre di Bethany mi fissava sconvolto ascoltando le ultime parole della figlia; ma il mio sguardo era altrove. Ricordo solo che mi abbracciò e quando disse il nome “Kaitlin Connor” al microfono, con voce tremante, nell’enorme sala cadde un silenzio agghiacciante. Di colpo, tutti mi fissarono. Io rimasi ferma, di ghiaccio, senza neppure respirare, fissando il vuoto davanti a me. Una donna fece cadere il bicchiere in terra e portò la mano alla bocca, i miei fratelli mi guardarono senza parole; immaginai che agli occhi degli altri fossi solamente sconvolta, non spaventata da tante attenzioni. Ma io ero terrorizzata, perché sapevo di essermi appena messa in un guaio assolutamente irreparabile. Dan si girò verso gli altri scuotendo la testa, mi guardò senza dire niente, con l’espressione sconvolta di chi riceve una notizia tanto incredibile. Il mio sguardo cadde su mia sorella, e fu in quel momento che ebbi il mio primo contatto visivo con lei. Da quando io avevo tentato di ucciderla, solo dopo undici anni potei rivedere i suoi occhi lucidi. Oh, se solo avesse saputo chi ero! Vedevo i suoi occhi e li ricordavo mentre mi pregavano di non lasciarla cadere, mentre urlavano aiuto... e io la lasciavo morire. Improvvisamente poi, dopo un tempo per me infinito, il silenzio fu interrotto dall’entusiasmo degli invitati, che, dopo il primo impatto della sconvolgente notizia, iniziarono ad abbracciarmi, riempirmi di attenzioni, parlare fra di loro.
Io ero troppo occupata a pensare ad altro, la mia mente era troppo piena di immagini del mio passato per concentrarmi sulle mie parole e su quelle degli altri; dissi a tutti la stessa cosa, ovvero che non ricordavo assolutamente niente, ero confusa e stanca. Un grandissimo panico si sparse in tutto il castello, le guardie furono ordinate di controllare qualsiasi angolo del parco e di riattivare le telecamere, la polizia fu avvertita di cercare il mio rapitore e centinaia di persone mi soffocarono con inutili attenzioni e banali domande alle quali non avrei potuto rispondere. Quella tortura durò ore… mi presentarono a tutti, mi vollero vedere, abbracciare... io non ce la facevo più. Passai quelle ore con uno sguardo più assorto che mai, sorridendo falsamente e fingendo di non stare poi tanto male. Non me ne fregava niente delle altre persone: io avevo rivisto la mia famiglia. Ricorderò quella notte come un incubo per sempre... mi sentivo affogare, non ce la facevo più. Cercai di essere gentile, ma fortunatamente William decise di lasciarmi in pace dopo ben quattro ore di presentazioni e chiarimenti che avevo passato con un’emicrania terribile. Quindi mi disse di stare tranquilla, di andare a riposare insieme a qualcuno dei ragazzi che già avevo conosciuto: “domani sistemeremo tutto” furono le sue ultime parole, mentre indaffarato e concentrato finiva insieme ad altri adulti le sue ultime telefonate.
Mi ritrovai sola in questa stanza e sentii un pazzo bisogno di sfogarmi; intorno a me c’erano solo i ragazzi più giovani, gli unici che conoscevano Kaitlin, gli unici che le avevano voluto bene, eppure gli unici che non avevano avuto il tempo di venire a parlare con me e di vedermi. Avevano aspettato... e non sarò loro mai abbastanza grata per questo.
Seppi che quei ragazzi erano i figli delle maggiori famiglie nobili della gran Bretagna, i cui capi si erano ritrovati per mettere appunto un importante progetto: per un po’ di tempo sarebbero stati ospitati al castello Johnson, dove vivevano Bethany, sua sorella Isabelle e suo fratello, al momento assente, Harry, insieme ai genitori Laura e William, per me madrina e padrino. Ero stanca, stanca morta, ma felice di ritrovarmi finalmente con persone gentili che si preoccupavano davvero di me, e non di quanto fosse interessante ricevere per primi la notizia del ritorno di Kaitlin Connor. Kaitlin Connor: questo era il mio nome, quel nome con il quale avrei dovuto convivere ancora per un po’.
Quella stanza sembrava gigante ora che la folla era sparita, scoppiai a piangere e mi lasciai ricadere in terra; Bethany mi abbracciò senza dire niente, davvero dispiaciuta: “Andrà tutto bene” fu l’unica cosa che disse. Io non dissi niente, rimasi immersa fra i miei singhiozzi per qualche minuto, cercando di distogliere l’attenzione dai ricordi cupi e crudi di mio padre. Quando riuscii a calmarmi un po’, quando mi fui sfogata abbastanza, alzai gli occhi. E improvvisamente non mi sentii più tanto sola. C’erano tante persone pronte a volermi bene intorno a me e sapevo che sarebbe stato un nuovo inizio... almeno, volevo tanto che così fosse:
-Se vuoi andare subito a letto, vai pure- mi disse gentilmente Charlotte -Se vuoi rimanere un pochino sveglia con noi, ti presentiamo gli altri e cerchiamo di farci due risate... che ne pensi?- mormorò dolcemente, accarezzandomi la guancia. Fui felice di quel gesto e in un certo senso mi sentivo grata nei confronti di quella ragazza, perché si prendeva cura di mio fratello... qualcosa che io non ero mai riuscita a fare, e qualcosa di cui sapevo lui avesse bisogno.
-Io... io voglio conoscervi- cercai di sorridere, asciugandomi le lacrime -Mi farebbero bene un po’ di risate-
-Andrà tutto bene, d’ora in poi- una voce maschile mi confortò con quelle parole che mi davano tanta sicurezza, mi voltai e un ragazzo dagli occhi blu azzurri si sedette accanto a me, porgendomi la mano:
-Sono Louis Richardson. Averti qui è un vero miracolo, Katy, un miracolo che non riusciremo mai pienamente a digerire. Grazie a Dio che stai bene!- Dicendo queste parole mi abbracciò. E non fu il primo abbraccio di quella sera, purtroppo; sentii il cuore tremare leggermente e il mio corpo non poté far altro che irrigidirsi non appena strinse le braccia intorno a me. Non potevo farlo notare, però. Non ero Camilla e non potevo lasciar sfuggire niente che avrebbe potuto mettere dubbi nella testa delle persone intorno a me, quindi finsi che andasse tutto bene e socchiusi leggermente gli occhi, continuando a ripetermi che quella stretta sarebbe durata solo pochi secondi e non mi avrebbe fatto del male. Fortunatamente la mia situazione era nettamente migliorata da quando ero svenuta, a Lucca, e riuscivo in qualche modo a controllare le mie emozioni e a capire cosa quel contatto, così intimo ai miei occhi, significasse per le persone normali: non era altro che affetto, una parola per me ancora vana e tristemente priva di significato. Tuttavia, negli occhi di Louis seppi scorgere una grande sincerità, un vero dispiacere, che mi rese ancora più triste per ciò che stavo facendo. Non era giusto mentire così ed io lo sapevo. Il ghiaccio di quel momento fu sciolto dalla risata di Amber:
-Sai, Katy, lui è il ragazzino che stasera si è dimenticato di un appuntamento per il quale lavorava da... quanto, Louis? Un anno, se non sbaglio!-
-Dovreste smetterla di ridere di me, lo sapete!- rimproverò giocosamente gli amici -Sono un uomo maturo, ormai-
-Oh, e da quando? Probabilmente mi sono persa qualcosa...- ridacchiò affettuosamente Bethany, con un colpetto sulla spalla
-D’accordo, Betty, continua pure a prendermi in giro... nel frattempo io conquisterò quel lavoro in Giappone che desidero da così tanto tempo... e che tu... tu non avrai mai-
-Certo- sospirò Bethany, mettendo il suo braccio intorno alle mie spalle -Sono un avvocato migliore di te anche se sono solo al secondo anno, credimi! In ogni modo, ci vediamo fra una ventina di minuti in camera di Isabelle, così potete presentarvi a Kaitlin! Nel frattempo la porteremo a cambiarsi e le mostreremo la camera che ha preparato Laura...-
Insieme a Bethany mi incamminai in quei lunghissimi corridoi; non c’era molto di cui parlare e la situazione era tragica, ma la ragazza dai capelli rossi voleva comunque cercare un modo per non farmi pensare a quelle cose orribili:
-Allora, mia cara Katlin Connor, ci sono un po’ di persone che devi conoscere: mio fratello Harry e il fratello di Amber, Peter, sono gli unici che al momento lavorano e si trovano in Cina, ma non è qualcosa di strano per noi, spesso i ragazzi partono per lavoro-
-Nessuno di voi studia ancora? Quanti anni avete?-
-Io ventuno, come molte altre ragazze; solo Charlotte è già laureata, mentre dei maschi quasi tutti hanno la laurea, a parte alcuni di loro, che lavorano comunque. In generale, però, la figura della donna qui da noi non... non lavora molto, ecco- sorrise gentilmente la rossa -ti troverai bene, sono tutti gentili qui-
-Grazie, io... ho solo bisogno di tempo-
-Lo capisco. Lo capisco, certo...- mormorò lei con gli occhi lucidi e la voce strozzata. E poi ci fu un momento di silenzio, un momento che durò per me un’eternità, e che fu fortunatamente interrotto da due voci provenienti dal corridoio. Bethany tese l’orecchio e sorrise divertita:
-Oh mio Dio! Sono Louis ed Elisabeth-
-Elisabeth?- chiesi perplessa
-Sì, Elisabeth Brady. Lei e Alyssa sono le sorelle di Jason, il ragazzo che è fuggito in Olanda con tua sorella Jasmine. Elisabeth è in poche parole una ragazza perfetta, sarà felicissima di conoscerti; Louis sta cercando di uscire con lei da molto, ma, per adesso, ufficialmente non è successo niente-  E sebbene due brave ragazze ben educate non dovrebbero fare qualcosa del genere, una voglia di essere quella ragazza che non ero mai stata mi prese e ci nascondemmo dietro l’angolo del muro per sentire cosa si stessero dicendo. Probabilmente anche lei aveva saputo di me, ma si era arresa all’idea di presentarsi, visto quanto ero stata attaccata e soffocata da lacrime e abbracci di sconosciuti adulti inaciditi, contenti solo per il fatto che la famiglia Connor non era scomparsa e non avrebbe creato alcun problema da un punto di vista economico. Le persone che avevano voluto più bene alla povera Kaitlin Connor si erano allontanate, lasciando il posto a false macchine stereotipate che, in realtà, non avevano idea di chi fosse la persona davanti ai loro occhi... letteralmente, purtroppo.
Elisabeth era estremamente elegante e splendida, i suoi lineamenti dolci e allo stesso tempo austeri sembravano finti da quanto erano perfetti, i suoi due occhi azzurri sfoggiavano, leggermente affusolati, uno sguardo molto enigmatico, sia simpatico che severo, di ghiaccio. I capelli dorati erano lisci e lunghi fino a metà della schiena, adornati da un piccolo diadema in argento, appoggiato morbidamente sulla testa, che le illuminava gli occhi, rendendole i lineamenti ancora più particolari. La sua figura lunga e slanciata era definita da uno spettacolare vestito lungo e stretto, di una particolarissima tonalità sul grigio. La schiena bianca e perfetta era lasciata scoperta, il suo volto elegante era addolcito da un leggero rossore sulle guance. Sembrava che stessero litigando, Bethany trattenne a stento le risate facendomi cenno di stare in silenzio:
-Tu e Dan dovreste smetterla di giocare con le persone... siete grandicelli ormai- lo rimproverò lei
-Che c’entra ora Dan?- rispose infastidito Louis, spalancando gli occhi -Sei completamente impazzita?-
-Era solo un esempio, visto che siete così amici...-
-Siamo collaboratori, Elisabeth, collaboratori: sappiamo lavorare bene insieme, d’accordo? E poi Dan è una brava persona e né io che lui ci divertiamo a “giocare con le persone”...-
-Collaboratori?- scosse la testa sarcasticamente -Oh, lavorate così bene che ti sei addirittura dimenticato l’incontro con il signor Bertle. Louis, devi imparare a trovare delle priorità nella tua vita, ecco ciò che ti dico come amica. Non siamo più bambini, purtroppo, e dobbiamo imparare a vedere le cose diversamente... per me è orribile dirtelo perché so che è la tua personalità e non vorrei mai che tu cambiassi, ma lo faccio per te. Prenditi del tempo per pensare al modo in cui ti comporti e cerca di crescere-
-Oh, questo non c’entra nulla con quello che provo per te, stiamo andando fuori tema...-
-C’entra eccome, perché il fatto che tu non riesca a concentrarti sulle cose più piccole mi rende impossibile pensare di poter avere una relazione con te. Hai sempre fatto star male ogni singola ragazza con cui sei stato, sfruttandola per... beh...- scosse la testa, abbassando lo sguardo -per l’unica cosa che vuoi ottenere dalle donne, Louis-
-Oh, avanti, avete tutti queste idee terribili su di me! Sono un uomo, Elisabeth... solo questo. Smettila di avere questi stupidi stereotipi-
-Stereotipi?- disse scoppiando a ridere amaramente -Io mi baso su fatti oggettivi, non su banali storielle! Avanti, è da quando siamo piccoli che ci conosciamo, non credere di dovermi insegnare come sei fatto, perché ti conosco meglio di quanto tu stesso possa fare! Comunque sia- concluse, senza guardarlo negli occhi e lasciando che una ciocca di capelli le ricadesse sulle guance arrossate, lasciando sbollire quel piccolo sfogo che la sua compostezza non avrebbe dovuto permetterle -comunque sia non sono interessata a te... non in quel senso-
-In quale senso lo sei, allora?- si avvicinò Louis, prendendole la mano
-In nessuno- rispose severamente, come se in realtà cercasse palesemente di nascondere un sentimento di disagio. Allontanò la mano, deglutendo mentre si allontanava dal ragazzo che aveva davanti agli occhi. Bethany mi sorrise maliziosamente:
-Ancora non mi conosci, ma già ti avverto: in questa famiglia io ci sono finita per errore: sono una guastafeste, non amo stare agli ordini e non sono perfetta tanto quanto quella splendida ragazza che vedi lì. E ora ti faccio vedere come ci si può divertire in questo posto noioso-  E dicendo così con una risata si alzò e mi invitò a fare lo stesso. Osservò i due ragazzi e ascoltò attentamente le loro parole, cercando una scusa qualsiasi per entrare nella loro conversazione:
-Smettila Louis- disse lei, facendolo allontanare -Non è il momento, voglio subito andare a salutare Kaitlin...-
-Tra venti minuti Katy sarà in camera di Isabelle... al momento si sta preparando- e così dicendo Louis si avvicinò di più ad Elisabeth -sarebbe un dispiacere disturbarla, non credi?- e quando furono sul punto di baciarsi, Bethany saltò nel corridoio:
-Oh, no, non preoccuparti, Katy è proprio qui!-
-Oh, Bethany Johnson!- grugnì Louis, colpendo divertito il muro e gettando la testa fra le mani -Ti odio, Betty! Hai rovinato tutto!- Elisabeth scoppiò a ridere ed io sorrisi timidamente:
-Non è stata una mia idea, comunque- mi scusai, sbucando dal corridoio. E solo in quel momento Elisabeth si accorse della mia presenza. Ricordo ancora il suo sguardo imbarazzato, i suoi occhi lucidi appena incontrarono i miei. Non sapevo che sarebbe diventata una delle persone più importanti della mia vita, non sapevo che un giorno il nome Elisabeth non sarebbe stato il nome di una persona qualsiasi... oh, non avevo idea di quanto sarebbe diventata speciale per me. Un giorno mi avrebbe salvato, ed io avrei salvato lei. In ogni modo, questa è tutta un’altra storia. Ancora di lei non sapevo nulla, come lei non sapeva niente di me. Era imbarazzata ovviamente, come d’altronde lo era stata ogni singola persona che avevo incontrato… e non avrei potuto biasimarli: ai loro occhi una ragazza scomparsa da anni era appena tornata! In realtà, mi resi subito conto che, sia che si trattasse di Kaitlin che di Camilla, sarebbe stato lo stesso… il problema era che nessuno era spaventato da Kaitlin, mentre tutti avevano il terrore di Camilla.
In ogni modo, sorvolando su questi aspri particolari, conoscere Elisabeth fu un momento importante, perché con il tempo avrei imparato a conoscere davvero bene quei chiari occhi azzurri: mi abbracciò, mi fece domande alle quali non seppi rispondere se non con grandi bugie, mi guardò con stupore… pianse. E quelle lacrime versate per niente mi fecero sentire un mostro, perché io non le meritavo.
Ero stufa delle mie ridicole bugie. Avevo finto con tutti, ma trovare un modo per uscire da quella terribile situazione sarebbe stato impossibile. Ad ogni singola persona a cui avevo raccontato quello che mi era successo avevo deciso di dire che durante quegli anni avevo subito violenze e che era l’unica cosa che avevo ricordato; lo avevo detto perché, in primo luogo, credevo che definisse una situazione più realistica e, in secondo luogo, perché conoscevo tutti i problemi che avevo io stessa, tutte le strane reazioni che avevo con gli uomini... non erano finite, anche se mi trovavo in quella che sembrava essere un’illusione; quella paura orribile c’era ancora.
Purtroppo, sapevo bene che per essere una brava attrice mi sarei dovuta immedesimare meglio nel personaggio, avrei dovuto trovarmi una storia realistica… ma il tutto mi aveva colto di sorpresa. Avrei solo avuto bisogno di tempo, e in ogni modo avrei spudoratamente usato la scusa della perdita della memoria per difendermi da quelle specifiche domande alle quali rispondere sarebbe stato un gesto troppo azzardato. Fortunatamente, mentre Elisabeth che stava per chiedermi qualcos’altro, Bethany la fermò, facendole di no con la testa, per ricordarle che era meglio non continuare ad insistere sull’argomento; e lei capì… o, almeno, credette di aver capito.
Dovevo imparare a pensare con una nuova testa, a vedere con nuovi occhi... ciò che ero stata faceva parte di qualcosa di totalmente differente, qualcosa che, al momento, non c’era più. La mia stessa persona era svanita: Camilla doveva essere solo un vecchio ricordo, una triste esperienza.
Da quel momento in poi, la mia bugia sarebbe diventata reale: ci sarebbe stata solo Kaitlin.

 

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Capitolo 27
*** CAPITOLO 25 ***


Arrivammo fino alla camera di Bethany ed Elisabeth continuò verso la sua... dovevo essere forte, dovevo essere pronta a godermi quel nuovo mondo, pronta ad affrontare i miei fratelli; mi sentivo protetta dalla mia falsa identità... ero in una botte di ferro, non mi avrebbero riconosciuto. Ma non sapevo quanto invece stessi sbagliando del tutto. D’altronde, quella non era la prima volta che sbagliavo in vita mia.
In ogni modo, un paio di gentili, ma sconvolte e curiose cameriere mi sfilarono il vestito e mi dissero che, “per il sacro ordine di William Johnson”, il giorno seguente avrebbero portato il vestito ad analizzare per cercare delle impronte. Tremai a quelle parole... io non sapevo come facessi ad avere quel vestito; se, per qualche strano motivo, mi fossi trovata in un mondo reale e non immaginario, qualcuno avrebbe dovuto mettermi quell’abito. Finsi che andasse tutto bene, pensare di vivere in un’allucinazione era per me in quella circostanza qualcosa di troppo, troppo pesante da accettare.
Bethany mi passò una splendida camicia da notte rosa scura, ma i miei occhi persero subito quella luminosità che avevano appena ripreso. Purtroppo, per quanto cercassi di nasconderlo agli occhi altrui, non avevo la libertà di vestirmi come più mi piaceva, a causa delle mie orribili gambe, testimonianza dolorosa, ma astratta, di un qualcosa che mi era ancora sconosciuto. Quindi sorrisi timidamente e, trattenendo a stento le lacrime, le chiesi di avere un pigiama, così che sarei potuta essere più comoda; fortunatamente non fece domande, quindi mi vestii in un angolo, nascosta dal muro in modo che non potesse accorgersi del mio corpo distrutto dalle cicatrici e mi sciolsi i capelli, fingendo che il fatto di dovermi spogliare non mi avesse messo a disagio. Mi struccai e pettinai la morbida cascata castana, lasciandola ricadere su un lato… proprio in quel momento, guardando Bethany sorridermi con dolcezza, sospirai e mi passò momentaneamente per la testa l’immagine dell’ospedale, delle pasticche e rabbrividii. Rabbrividii perché pensarci mi faceva davvero paura: era tutto un sogno? Se lo era, come potevo riuscire a farmi quella stessa domanda? A quel pensiero mi sentii crollare, fissai i miei occhi castani nello specchio, cercando dentro di me la risposta che cercavo, interrogando la persona nascosta dietro quel fresco viso innocente, che aveva dei segreti nascosti che, in un modo o nell’altro, ero destinata a scoprire. Ricordai l’immagine dell’infermiera ammonirmi sulle pasticche da prendere, il foglietto sul comodino e tutto il resto, quindi mi affrettai, cercando di fingermi tranquilla, a chiedere a Bethany l’indirizzo del castello... era proprio quello che avevo visto nel bigliettino, all’ospedale. Sentii il cuore fare un piccolo salto, ma mi resi conto che se avessi accettato l’ipotesi di essere nel bel mezzo di un’allucinazione o qualcosa di simile, mi sarei ritrovata bloccata in un labirinto senza via di uscita, quindi scossi la testa e sorrisi debolmente, togliendo lo sguardo dallo specchio. Stavo bene, ecco tutto ciò che avevo intenzione di continuare a ripetere a me stessa. Sorrisi sinceramente al pensiero di vivere una vita normale e cercai di smetterla di trovare giustificazioni ad ogni cosa… volevo godermi i meravigliosi momenti che avrei incontrato, perché sapevo che non sarebbero stati molti. Aspettando che Bethany fosse pronta, tuttavia mi guardai ancora allo specchio, stavolta cercando di vedere le cose da un altro punto di vista, come se mi fossi davvero calata nel ruolo di Kaitlin Connor e non dovessi far altro che essere felice. Le mie labbra erano rosse fuoco, come le guance, e illuminai gli occhi appena immaginai cosa sarebbe successo se avessi continuato a fingere e a vivere in quel luogo meraviglioso, conducendo una vita invidiabile… non mi importava di nient’altro, non volevo farmi troppe domande.
Il mio flusso di pensieri piuttosto contrastanti fu interrotto, però, da Bethany, che mi riportò alla “realtà”, se questo era il giusto nome, chiamandomi dalla porta, così che potessimo andare dagli altri. Guardai l’ora su un grande orologio e sospirai al pensiero che fosse proprio la notte della vigilia: in pratica, non avrei potuto scegliere giorno peggiore per iniziare una serie ininterrotta di terribili e crudeli bugie.
Dopo un paio di minuti di camminata nei lunghi corridoio vuoti, dal momento che gli adulti erano riuniti per decidere cosa fare con me, raggiungemmo una grandissima porta bordata d’argento con la scritta “Isabelle” e lo stemma dei Johnson, così bussammo. Presi un gran respiro, consapevole della mandata di pianti, complimenti e domande che mi stava aspettando dietro quella porta, come durante le quattro terribili ore passate fra sconosciuti che compiangevano una ragazza che non ero io.
Appena la porta fu aperta, mi accolse Isabelle, la sorella di Bethany, con un dolce, sincero sorriso. Aveva i capelli mori e corti alle spalle, lisci, non completamente sciolti, ma legati da una mezza coda. Mi sorrise con un leggero velo d’imbarazzo e mi fissò senza dire nulla per una decina di secondi, quando mi abbracciò, cercando forse di rompere il ghiaccio. Capii subito che le ragazze avevano detto di non parlare di quello che mi era successo perché nessuno disse niente, come se nulla fosse accaduto; non ci furono troppe domande, nessuno mi soffocò di attenzioni e mi trattarono semplicemente come una ragazza qualsiasi, che non vede la propria famiglia da un po’ di tempo.
Isabelle mi disse all’istante, con voce leggermente strozzata, che si ricordava benissimo di me; imbarazzata, mi voltai intorno, ricambiando ai sorrisi di chi, non a proprio agio davanti a quella situazione, non sapeva come comportarsi e come cominciare un qualsiasi tipo di conversazione con me; cercando di cambiare argomento, fortunatamente Isabelle ruppe l’imbarazzo del momento presentandomi a una ragazza... all’unica ragazza, purtroppo, che non avrebbe dovuto presentarmi: mia sorella.
Si avvicinò incuriosita, cercando di non mettermi ansia e di non opprimermi con scene drammatiche, fortunatamente, come invece avevano purtroppo fatto quasi tutti gli adulti. Con coraggio la fissai negli occhi color smeraldo, sentii il cuore battere come mai, non saprei descrivere in alcun modo le mie sensazioni in quel momento. Mi feci coraggio e le sorrisi come se fosse una ragazza qualsiasi... ma io sapevo che non lo era. Aveva un pigiama bianco di seta con dei ricami in pizzo e teneva i lunghi ricci neri sciolti… era davvero bella, bella come era sempre stata anche da bambina e c’era un amore, una tenerezza e una dolcezza nei suoi confronti, che ancora non sapevo spiegarmi. Mi chiesi se mi somigliasse, mi chiesi cosa stesse pensando di me mentre parlava con calma:
-Io sono Matilde Ori e... e sono davvero sconvolta e senza parole in questo momento: ci sei mancata da morire, Katy- mi abbracciò sorridendo. Ed io trattenni il respiro e le lacrime.
“Perdonami, ti prego” sussurrai quasi involontariamente, cercando di trattenere invano quella personalità sconosciuta e quella consapevolezza che cercavano di prendere il sopravvento
-Cosa?- chiese con un sorriso
-Oh,  niente, scusa...- mormorai, guardando verso il basso, con la voce strozzata
-Sai, sono certa che nonostante tutto ciò che hai sofferto tornerai a sorridere molto presto...- mi prese le mani affettuosamente, ma fui costretta a rimanere fredda e ad abbassare lo sguardo, poiché quel contatto con i suoi occhi mi spaventava, come se temessi che avesse potuto riconoscermi guardandomi attentamente
-Io sono Alyssa- mi sorrise una splendida ragazza castana -La sorella di Elisabeth. Siamo gemelle, ma diverse, di nome e di fatto; mio fratello è il marito di Jasmine, come forse già sai-
-Jasmine. Non ricordo niente di lei...-
-Jason aveva completamente perso la testa e provò in tutti i modi a convincere tuo padre, e c’era quasi riuscito, ma poi... ma poi sai come funzionano queste cose! Ci sono un sacco di problemi, e hanno deciso di fuggire: sono felicemente sposati da tre anni-
-La mia era una bella famiglia?-
-Bellissima- sorrise Alyssa con sincerità -E la più “importante” dell’alleanza, dopo i Johnson, ma poiché William è tuo patrigno… al momento tu sei sotto la loro tutela-
-Come avete saputo della mia scomparsa?-
-Oh, non scorderò quel giorno- disse Matilde, costringendomi a guardarla ancora -Diciamo che... che io e la mia famiglia stavamo attraversando un periodo difficile, molto difficile-
-Perché?- chiesi nel panico, cercando di velare quell’ansia che avevo nel cuore
-Io avevo solo sei o sette anni e... e in quel momento ero all’ospedale-
-Ospedale? Eri malata?- chiesi con una pericolosa voglia di sentir parlare di me
-In coma- quelle parole mi fecero sobbalzare e le disse con una naturalezza tale da farmi rabbrividire. Accorgendosi del mio sguardo un po’ preoccupato, alleggerì le sue parole con un piccolo sorriso -Tranquilla, sono stati solo pochi mesi-
-Oh, mi dispiace molto... cos’era successo?-
-Ero caduta- disse, mentendo, chiaramente mentendo. “Oh” risposi io, con gli occhi bassi, senza riuscire a dire assolutamente altro.
Avrei voluto continuare a parlare con lei, ne sentivo il bisogno, come se dovessi dimostrarle di non essere un mostro assassino, di non essere più quella bambina che undici anni prima aveva tentato di ucciderla, ma fui interrotta da un ragazzo, e non proprio da un ragazzo qualsiasi: Guido.
-Piacere, Guido Ori!- io sorrisi, ma le mie labbra si richiusero subito. Finsi di non conoscere bene quel nome e mi mostrai sorpresa:
-Ah, il fratello di Matilde!-
-Purtroppo- ridacchiò Matilde, colpendolo giocosamente sulla schiena
-Sì, e purtroppo quella strega è mia sorella- rise anche lui. Guardavo quella scena con un misto di divertimento e di tristezza; erano simpatici e si volevano bene, ma non riuscivo a smettere di pensare a quella scena del mulino, unico ricordo chiaro e vivido del mio passato. Ero stanca, stanca morta... avevo provato tante, troppe sensazioni nuove e tutto quello che volevo era riposarmi, non pensare a nulla, sdraiarmi in uno di quei letti splendidi e dimenticare tutti i problemi, almeno per una volta.  Ero sul punto di piangere e non sapevo quanto avrei resistito, ma fui fortunatamente distratta e i miei occhi si posarono su una figura dietro i miei fratelli; si appoggiò allo stipite della porta un ragazzo che avevo già conosciuto e che già una volta avevo ammirato per tutta quella sicurezza e quella convinzione che aveva nello sguardo. 

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Capitolo 28
*** CAPITOLO 26 ***


Aveva la camicia bianca leggermente aperta e dei jeans, così semplice eppure così magnifico. I capelli biondi erano leggermente rialzati verso l’altro, e alcuni ciuffi ribelli ricadevano scomposti sulla sua ampia fronte. Non avevo mai visto degli occhi così. Erano verdi, ma non era un verde qualsiasi... era un verde speciale, un verde così profondo e luminoso che fissarlo era qualcosa di fin troppo intenso per me. I suoi lineamenti erano perfetti, le labbra carnose e ben definite si aprivano in un caldo sorriso smagliante: era Dan, lo sfacciato ragazzo che era riuscito a convincere il signor Bertle ad entrare nella loro alleanza e il fratello dell’adorabile Amber. Stava appoggiato allo stipite della porta, probabilmente aspettando il momento giusto per avvicinarsi e appena si accorse del mio sguardo si avvicinò con un gran sorriso:
-Ci vediamo di nuovo, allora! Chi avrebbe mai detto che saresti potuta essere Kaitlin Connor...- sospirò quasi sconvolto, scuotendo la testa con un’espressione dispiaciuta -Sarò anche bravo a parlare, ma in questa situazione sono davvero senza parole... so discutere di politica, ma non so trovare le parole per dirti quanto tutto questo sia pazzamente incredibile, sconvolgente e meraviglioso allo stesso tempo- ammise francamente, celando un sincero dispiacere negli occhi dietro a un piccolo sorriso
-Oh, beh... quando una situazione è così importante le parole non sono mai abbastanza, lo so bene...- mormorai, alzando coraggiosamente lo sguardo -Non riesco neppure io a capacitarmi di quello che sta succedendo. Non capisco neppure come dovrei sentirmi. Sono felice, ma allo stesso tempo mi sento sola, spaventata, confusa... sono passati tanti anni-
-Lo posso capire- mormorò indeciso -Ovvero, credo di immaginare, ma... sei una ragazza coraggiosa e ti ammiro davvero tanto, Katy. Sei forte... e sono certo che le cose si sistemeranno con il tempo- Ero quasi intenerita e piacevolmente incuriosita dalla sua inaspettata preoccupazione, perché non avevo mai provato qualcosa di simile, non mi ero mai sentita libera di parlare con qualcuno... credevo che nessuno sarebbe mai stato disposto ad ascoltare le mie parole. Rimasi in silenzio e sollevai debolmente le spalle, guardando timidamente verso il basso. Un piccola lacrima uscì spietatamente dagli occhi castani e cercai di nasconderla con una smorfia che speravo sarebbe vagamente assomigliata ad un sorriso
-Posso abbracciarti, vero?- chiese Dan con un sorriso quasi imbarazzato
Annuii, sorridendo leggermente e alzando gli occhi, quindi aprì le braccia e mi buttai fra di esse; mi accarezzò la schiena in modo affettuoso e fu proprio in quel momento che non ressi più la tensione. Troppe cose... i suoi occhi, le sue mani, il suo calore, i suoi capelli, le sue braccia, il suo profumo, il suo corpo tanto vicino al mio, la mia confusione, la paura, la gioia: scoppiai a piangere. Non fu né un pianto di gioia, né di tristezza. Fu un pianto di quelli senza i quali non si potrebbe vivere, di quelli che non hanno un vero motivo ma sui quali le donne basano la propria esistenza. Fu uno sfogo, un semplice sfogo di cui il mio corpo e la mia mentre avevano bisogno. Le mie lacrime bagnarono involontariamente il suo collo e la sua camicia bianca.
-Ehi, ehi...- mormorò con tono dolce, poggiando delicatamente le mai sui miei fianchi per farmi allontanare e portandomi in un angolo della stanza più appartato, in modo che nessuno ci avrebbe visto o sentito -Va tutto bene?-
-No, no, è tutto sbagliato. Scusami, ma… ma è stata una giornata davvero intensa e… e al momento non mi sento molto bene- buttai il viso fra le mani, così Dan i fece cenno di sedermi in un piccolo divanetto:
-Lo so, dev’essere orribile, ma... prova a vedere il lato positivo: ora sei qui! Stai bene, sei viva, non ti succederà più niente-
-No, non è detto, io... non credo di essere al sicuro...- parlai con tutta la sincerità, scoprendo un po’ della vera me, quando sentii la sua mano sulla mia guancia:
-Ehi, guardami...-
-No, scusami…- mormorai fra le lacrime, continuando a tenere gli occhi chiusi, scuotendo la testa verso il basso
-Guardami, Kaitlin- sussurrò, alzandomi il mento così che potesse guardarmi negli occhi -Non ti succederà niente, sei al sicuro. D’ora in poi potrai stare tranquilla, non soffrirai più... te lo prometto- Quelle parole mi fecero venire i brividi... “te lo prometto”: nessuno mi aveva mai detto qualcosa del genere. Nessuno mi aveva mai guardato negli occhi, nessuno mi aveva mai sfiorato in quel modo... rimasi in silenzio, lo fissai proprio come se stesse parlando a me, a Camilla... ero felice di sentire quelle parole. “Sarai al sicuro” “Te lo prometto”. Ripensai a tutte quelle volte che avevo desiderato di ricevere quel tipo di aiuto, quel tipo di amore che mi avrebbe fatto rialzare... in pochissimi secondi quelle parole mi avevano cambiato. Avevo bisogno di ritrovare me stessa, ma da sola non ci sarei riuscita... volevo che qualcuno mi tirasse su quando stavo per cadere, volevo che qualcuno mi stesse vicino. Ecco perché quelle semplici, forse banali parole mi fecero emozionare; mi asciugai le lacrime e sorrisi sinceramente:
-Grazie. Nessuno mi aveva mai detto qualcosa del genere...-
-Beh, invece ora te lo dico io. Puoi stare tranquilla, andrà tutto bene- sorrise, asciugandomi le lacrime -Avanti, smettila di piangere-
-Ok, ok, sto bene- esclamai con una piccola risata -Va tutto bene, era un momento di sfogo. Oh!- sospirai sorridendo -Scusami...-
-Niente- ricordo ancora quel momento. Eravamo seduti su un divano di pelle bianca, in quel luogo meraviglioso, in un angolo un po’ appartato della stanza... perché il suo abbraccio non mi aveva infastidito? Voglio dire, era stato il primo abbraccio al quale non avevo reagito male. Ma proprio in quel momento direi perfetto, Dan decise di mostrarmi il suo vero carattere e ruppe il silenzio che si era appena creato:
-Certo...- disse cambiando tono, squadrandomi dalla testa ai piedi -che ti sei fatta davvero bella! Davvero, davvero molto bella... chi l’avrebbe detto? Oh, ti ricordo ancora con le treccine e il vestitino di pizzo... eri ancora piccola e ora sei così... così…- cercò di trovare le parole giuste, quindi rise in tutta sincerità scuotendo la testa -Cresciuta. Molto cresciuta-
-Mi piacerebbe avere dei ricordi...-
-Dev’essere orribile- mormorò scuotendo la testa -Sentirsi soli, vuoti e senza ricordi...-
-Oh, tu non ne hai idea...-
-Ma tu non sei sola, Kaitlin-
-Ora non più- sorrisi sinceramente, guardandolo per la prima volta coraggiosamente negli occhi. Mi sentivo capita da quel ragazzo... appartenevamo a mondi opposti, ma i suoi occhi mi davano quella forza di cui avevo bisogno. Quel momento fu interrotto non appena Guido si avvicinò a noi:
-Ehi, dov’è tuo fratello?- chiese Dan
-Sta parlando con Charlotte... perché?- Dan scoppiò a ridere a quel punto, dando una giocosa pacca sulla spalla all’amico:
-Perché ho conosciuto Abby... una vera ragazza del nostro rango, non è vero?-
-Oh, beh... questo non si mette in dubbio- rispose ridendo anche Guido
-Hai visto come si è vestita? Non metto in dubbio il fatto che sia attraente, ma... ma è talmente stupida... immagina avere una conversazione con lei-
-Ah, lasci perdere, Dan! A Carlo, quando le ha chiesto che lavoro volesse fare, ha risposto “ballerina in un locale”-
-Stai scherzando? L’ha detto davvero? Allora vedi che ci avevo visto bene?! Sarebbe molto brava in quel lavoro, ma sarà meglio che si tenga lontana dalle feste dei Johnson- continuò a ridere Dan, quando Matilde prese parola:
-E anche dei Brady, dei Richardson, degli Western, dei Birmingham... di qualsiasi festa alla quale sarò presente, vi prego. La odio, la odio da morire-
-A parte gli scherzi, ragazzi- si fece più serio Guido -Smettiamola di ridere, è una cosa seria; se il signor Bertle non si decide siamo in difficoltà-
-Non preoccupatevi, ci penso io, ho tutto fra le mani...-
-Dan, sei davvero bravissimo. Mi fido di te- ammise Guido, con una pacca sulla spalla- 
-Oh, come sei romantico, Guido... grazie- sorrise divertito -Anche io mi fido di te- ripeté giocosamente, con un falso tono serio
-Sii serio, avanti! Sai cosa voglio dire... se non ci pensi tu chi può farlo? Il signor Bertle ti adora già...-
-Questo perché il signor Bertle non è altro che un simpaticissimo giovincello costretto a vivere in un falso mondo così composto- scoppiò a ridere -Vedi, questo è il mio trucco per convincere le persone: trovare i punti deboli. Il punto debole della maggior parte dei nobili è una rabbia repressa e un senso di libertà che non può essere espresso, ecco tutto-
-Se fossi una donna ti sposerei... sei un genio-
-Ma dal momento che non sei una donna, credo che non se ne possa fare niente...-
-Ah, lo so! Purtroppo, Dan...- rise Guido -Ma, seriamente, credo davvero che tu sia un grande in politica...-
-Anche se non sono ancora laureato?-
-Ecco! Immagina quando lo sarai, se già sei così bravo!-
-Oh, grazie mille, ma... no, non sono bravo- disse timidamente, stavolta tornando davvero serio -Il fatto è che non sono elegante, non sono banale... sono semplicemente naturale. E in ogni modo, Niall già ha cominciato a parlare con Darcy Bertle: se si sposano, mio caro Guido, tuo fratello con Charlotte può fare tutto quello che vuole!- e dicendo così chiamò un simpatico ragazzo biondo, figlio adottivo della stessa famiglia di Louis, Charlotte ed Edwyn. Mi presentai anche a lui, dopodiché conobbi Edwyn e poi Liam Parker, il fidanzato di Matilde. Erano felici insieme ed era bello sapere che qualcuno le volesse bene, perché il mio senso di colpa era immenso e tutto ciò che volevo era saperla soddisfatta della propria vita.
Io mi sentivo incompleta, debole, come se mancasse una grande parte di me e non potessi farci assolutamente nulla; il passato se ne va troppo in fretta e poi è impossibile riaverlo, né tantomeno cambiarlo. Era bello sapere che almeno mia sorella mi era ripresa bene.
Ricordo di quella serata ogni singolo particolare; come potrei dimenticare qualcosa di così bello e spaventoso allo stesso tempo? In fondo era così che mi sentivo: spaventata e felice. Non sapevo quale dei due sentimenti prevalesse, credo che stessero insieme e andassero a pari passo quella sera, ma ogni volta che lo sguardo di Guido o di Matilde incontrava il mio, ero costretta a girare la testa… non riuscivo a sopportare a lungo la pressione soffocante dei loro occhi sui miei. Mi sentivo colpevole, mi sentivo una bugiarda senza cuore; e forse in fondo era quello che ero.
Mi sentii subito accolta in quel gruppo di amici e parenti, Bethany mi abbracciò e mi portò con lei a parlare con le ragazze, trattandomi proprio come una di loro e facendomi sentire bene e a mio agio:
-Allora, Elisabeth- ridacchiò all’amica -Quanto mi hai odiato per aver rovinato quel momento romantico fra te e il signor Richardson?-
-Non era un momento romantico- rispose lei con tono fermo -Diciamo pure che si illudeva di potermi convincere con un paio di parole da don Giovanni...-
-Diciamo pure che se non fossi arrivata io a rovinare il vostro bacio in questo momento non saresti esattamente qui- continuò Bethany con una sincera risata. Elisabeth sorrise assorta scuotendo la testa:
-Ci siamo già baciati, in ogni modo-
-Oh, davvero? Nessuno lo sapeva!- scoppiò a ridere Alyssa, colpendo giocosamente la sorella -Ne parla tutta Londra, El...-
-D’accordo, in ogni modo le nostre due famiglie- disse rivolgendosi chiaramente a me -Non vanno troppo d’accordo e mio padre non è molto favorevole a un probabile fidanzamento, quindi cerco di essere fredda e tutto il resto, ma... ma mi piace da impazzire, quindi credo che prima o poi i miei genitori dovranno abituarsi-
-Mi piaci così!- si congratulò Bethany -Ribelle e coraggiosa!- Risi anche io, risi con loro sebbene in realtà di motivi per ridere non ce ne fosse neppure uno. Passai la serata immersa fra risate, battute e divertimento... fu bellissimo! Oh, non poteva essere una visione, non stavolta! Mi stava rendendo troppo felice e non avrei sopportato l’idea di perdere ancora qualcosa di bello… troppe volte la mia felicità era stata distrutta, quando io meritavo di essere felice.
Passai una settimana meravigliosa, conobbi benissimo i ragazzi e anche tutti gli adulti, che avvertirono la stampa del mio ritorno e centinaia di persone vennero ogni giorno a salutarmi, a conoscermi, a complimentarsi… finalmente qualcuno a prendersi cura di me, finalmente qualcuno a volermi bene! Non fu troppo impegnativo per me; feci qualche incontro con la polizia, mi portarono alla scientifica, cercarono di estrapolare invano informazioni dalla mia frase fissa “Non ricordo niente”. Ero al centro dell’attenzione per la prima volta in vita mia, ma ero una ragazza come le altre e le persone mi volevano per ciò che ero. Decisi che avrei continuato a mentire, preferivo essere Kaitlin che Camilla. Kaitlin era una ragazza normale e splendida, nessuno l’avrebbe giudicata… Camilla invece era una pazza assassina, che nessuno avrebbe accettato: e non avrei mai trovato il coraggio di svelare la mia identità.
E il tempo passò più dolce che mai nei suoi panni, e mi ritrovai in un batter d’occhio a Capodanno.
Da quando c’eravamo conosciuti, ovvero da quando ero arrivata al castello, Dan era stata una figura piuttosto importante. Era un ragazzo eccezionale, davvero simpatico e brillante, ma troppo, troppo diverso da me, da ciò che ero davvero. E guardarlo mi sembrava un lusso troppo grande per una ragazza tanto povera dentro... era così vivo, così allegro e pieno di vitalità da farmi sentire bene anche nei momenti peggiori. I suoi occhi... i suoi occhi erano capaci di raccontare così tante cose di lui... i suoi occhi erano capaci di sciogliere tutto il dolore che mi aveva reso fredda e triste. I suoi occhi erano capaci di aprire il mio cuore, di illuminare il mio mondo. “Allora è questo che si prova?” mi capitava di chiedermi quando tremavo ad ogni sua parola “è questo che si prova a volere bene ad una persona?”. Con lui mi sentivo come se non ci fosse altro al mondo a parte il suo sorriso... e ammetto quanto mi terrorizzasse quella sensazione così intensa. Quando però qualcuno mi chiedeva se Dan mi piacesse, io negavo, dicendo che era assolutamente un normalissimo amico per me. Ma quella notte cambiai idea.
Eravamo in camera di Isabelle, avevamo appena brindato e stavamo chiacchierando e ascoltando musica quando sentimmo bussare alla porta. Bethany scoppiò a ridere e ci disse che William stava venendo a controllare le camere per assicurarsi che non bevessimo o facessimo confusione… disse che l’aveva ritardato il più possibile per venire ad avvertirci. Si nascosero tutti da qualche parte, ma Dan mi prese per mano e mi fece cenno di seguirlo:
-Ti spiego io dove nasconderti!- Mi sorrise e stringendomi la mano mi fece avvicinare alla finestra. Mi fidai e lo seguii, non avendo idea di dove avesse intenzione di portarmi, con una sincera risata.
Non sapevo che quella notte mi avrebbe cambiato la vita... ancora non sapevo che lo stesso Dan mi avrebbe cambiato la vita.

 

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Capitolo 29
*** CAPITOLO 27 ***


Di colpo aprì il grande finestrone che dava sul giardino e mi rivolse uno sguardo d’intesa, facendo un passo in avanti. Il vento freddo di dicembre smosse i miei lunghi capelli castani e un’aria gelida mi fece rabbrividire; non capendo cosa avesse in mente, aggrottai le sopracciglia, ma proprio mentre stavo per chiedere perché avesse aperto quel finestrone, lo vidi improvvisamente uscire e mettersi in piedi sul tetto, mantenendo prodigiosamente l’equilibrio fra le tegole vecchie e ammuffite.
-Cosa hai intenzione di...- Non riuscii a finire la frase. Mi prese per mano e mi spinse lentamente verso di lui. Prima ancora che potessi realizzare ciò che mi aveva indotto a fare, chiuse il grande finestrone dietro di noi. Sussultai guardando verso il basso: troppo alto, troppo alto per una ragazza terrorizzata dalle altezze.
D’istinto appoggiai una mano al muro e cercai di indietreggiare, accusando il biondo davanti a me con occhi spaventati e offesi:
-Dan! Sei completamente impazzito?-
-Vieni...- disse lentamente,porgendomi una mano e spingendomi verso di lui
-No!- urlai spaventata -Non lo farò, è pericoloso! Dan, ho paura delle altezze… fammi entrare, ti prego!- lo supplicai. E lui strinse subito più forte la mia mano:
-So che hai paura delle altezze, ti porto qui per questo. Voglio essere  il primo a farti fare qualcosa di nuovo. Avanti, devi fidarti... sei al sicuro con me-
-Cosa?- esclamai infastidita, socchiudendo gli occhi e rimanendo, in segno di protesta, con le spalle contro il vetro della grande finestra -Vuoi essere il primo a farmi fare qualcosa di nuovo?! Non voglio fare proprio niente di nuovo, riportami dentro! Giocare con il fuoco è stupido- urlai quasi isterica, incapace di muovermi. Socchiusi gli occhi mentre il vento smuoveva delicatamente i miei capelli e passava attraverso la stoffa leggera del pigiama, facendomi sentire ancora più debole e inerme. La mano di Dan, che nel frattempo non avevo lasciato, mi incoraggiò a seguirlo, ma io indietreggiai ulteriormente, con le mani salde ai mattoni di pietra del vecchio castello:
-No, no! Dan, ti prego!- quasi piansi, mettendo una lunga ciocca di capelli dietro l’orecchio -Non farlo, ho troppa paura...- aprii debolmente le palpebre e mi sporsi di poco: oh, eravamo così alti... saranno stati almeno trenta metri! Aprii le labbra piene e rosse come il fuoco in un lamento e rivolsi a Dan uno sguardo sia di protesta che di supplica. Guardai ancora giù e ricordai la scena del mulino; quel momento in cui avevo visto Matilde cadere mi aveva davvero traumatizzato... potevo ancora vedere i suoi grandi occhi verdi, spalancati mentre tentava di aggrapparsi a qualcosa per salvarsi. Quella visione mi fece rabbrividire così tanto che fui costretta a serrare subito gli occhi; sussultai e spinsi la testa all’indietro, contro il vecchio muro di pietra, rabbrividendo. Dan, accorgendosi del mio disagio, mi strinse la mano ancora più forte:
-Voglio dimostrarti che tu puoi fare quello che vuoi, che sei forte, che puoi combattere ogni singolo ostacolo...-
-No, Dan... no, io...-
-Avanti, fidati...-
-Non posso- sussurrai con gli occhi chiusi
-Apri gli occhi, ti sto tenendo la mano- Sentii la sua voce calda avvicinarsi al mio orecchio, le sue mani sfiorarono i miei fianchi e subito mi irrigidii:
-Lasciami- dissi con durezza, serrando gli occhi ancora più forte. Buttai tutto il peso sul muro dietro di me, cercando di ritrovare la maniglia, allungando inutilmente le mani. Dan scosse la testa e strinse ancora la mia mano, che afferrai disperatamente, data la paura del momento:
-Ti prego, fidati di me... non ti lascerò cadere-
-No- risposi convinta, quasi con durezza. Calmai lentamente il respiro e lentamente riuscii a sedermi con le spalle contro il muro, in segno di protesta. Sarei stata lì anche tutta la notte se non mi avesse fatto rientrare nel castello... odiavo i giochi, odiavo il divertimento... odiavo perdere il controllo della situazione.
-Cosa stai facendo?- scoppiò a ridere Dan, saltellando sul tetto come se fosse un luogo qualsiasi. Lanciai uno sguardo di fuoco ai suoi grandi occhi verdi e rimasi ferma immobile, seduta, con le braccia incrociate:
-Dan, tu fai quello che vuoi. Io ho paura e rimango qui; non riuscirai mai a farmi cambiare idea, non mi sposterò neppure se…-
-Vorrà dire che allora ti sposterò a forza, allora... - mi disse ridendo e abbassandosi per prendermi in braccio, mentre urlavo e mi dimenavo. Mi sentivo al sicuro con lui, sinceramente, ma il suo comportamento non poteva far altro che infastidirmi. Quel luogo non mi ricordava bei momenti e non mi piaceva affrontare le mie paure, non mi piaceva espormi, neppure a me stessa. Nonostante le mie urla e i miei tentativi di farlo spostare, con un gesto veloce e senza il minimo sforzo mi prese in braccio.
-Smettila!- urlai -Lasciami!- Rideva. Oh, io l’avrei ucciso! Si divertiva così tanto a vedermi con il cuore in gola. Iniziò a camminare con destrezza, senza neppure tenersi, dal momento che le sue mani erano troppo occupate a fermare i miei tentativi di ribellione, assolutamente inutili. Avevo così tanta paura di cadere che decisi di sottomettermi alla sua presa, le sue braccia forti e sicure mi avevano già immobilizzato i fianchi e l’interno delle ginocchia, per cui continuare a dimenarmi non avrebbe portato a niente. Vedendomi estremamente in ansia, con gli occhi socchiusi per la paura, si fermò e si assicurò che lo guardassi negli occhi, mentre mi parlava:
-Ehi, guardami- Aprii le palpebre e feci svolazzare le lunghe ciglia, alzando lo sguardo -Ti tengo stretta- disse con dolcezza. Inizialmente sorrisi perché dovetti ammettere a me stessa quanto apprezzai quelle parole mai ricevute da nessuno, ma, non appena i miei piedi furono nuovamente sicuri e saldi sulla superficie del tetto, lo guardai severamente, colpendolo sulla spalla:
-Volevi uccidermi, per caso? Perché non potevamo nasconderci dove si sono nascosti gli altri, eh?-
-Non mi piacciono le cose banali- fu la sua risposta, mentre si sdraiava sul tetto con le mani sotto la testa, guardandomi negli occhi con un piccolo sorriso -Hai avuto paura?-
-Cosa? E… e me lo chiedi pure?- chiesi, cercando di sedermi accanto a lui senza cadere
-Ti aiuto io...- mi incoraggiò, porgendomi la mano
-No, lasciami, Dan!- urlai infastidita, allontanando le sue mani -Posso farlo da sola- ribadii severamente
-Rilassati, è un posto meraviglioso… vengo spesso qui-
-Sul tetto?- chiesi tanto sconvolta quanto infastidita
-Mi aiuta a non pensare-
-Tu sei pazzo. Ah… ho il cuore che batte a mille!-
-Oh, anche io... ma non per l’altezza...- capii cosa intendeva, e quelle parole furono fin troppo piacevoli da accettare, così che finii per sembrare infastidita
-Io per l’altezza, credimi... solo per l’altezza-
-D’accordo, d’accordo...- sorrise, togliendosi il maglione e appoggiandolo sulle mie spalle, vedendomi tremare per il freddo
-Tranquilla, non ho freddo-
-No, Dan, non preoccuparti...-
-Stai tremando... avanti, prendilo-
-No, Dan, davvero...-
-Ah, smettila!- sorrise sinceramente, e con una faccia annoiata e divertita mi alzò subito le braccia e me lo mise con una risata semplice e spontanea:
-Ah, odio quando una ragazza rifiuta qualcosa... ecco qua-
-Oh, grazie. Sicuro di non avere freddo?-
-Sicuro. Oh, ti sta bene...- sorrise leggermente  -Va meglio?- Negai con freddezza e rimasi ferma immobile, guardando le stelle e cercando di non pensare al luogo in cui mi trovavo al momento.
-Non devi essere tanto spaventata, Kaitlin. Calmati, sono solo un ragazzo qualsiasi... e stiamo semplicemente parlando... puoi stare tranquilla- quindi scoppiò a ridere, guardandomi ancora mentre muovevo nervosamente le gambe -E soprattutto puoi stare anche ferma per un paio di secondi!- Era la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
-No, io non sto ferma!- urlai alzandomi e avvicinandomi di più a lui, dimenticando del tutto la mia paura delle altezze -Scusa se un maniaco che si sdraia sui tetti in canottiera a dicembre mi sta fissando di continuo e mi sta mettendo tutta questa ansia!-
-Kaitlin, stai attenta- si fece più serio, alzandosi e cercando di afferrarmi perché non rischiassi di cadere
-Non toccarmi!-
-Stai per cadere-
-Oh, non è vero... lasciami in pace!- ribadii allontanandomi ancora. Mi stavo avvicinando troppo al bordo del tetto, eppure non riuscivo neppure a rendermene conto. Continuavo a rimproverare a Dan quanto fosse insopportabile il suo modo di fare e lui continuava a guardarmi con quei suoi occhi dallo sguardo ambiguo, che non riuscivo davvero a comprendere; sembrava molto dolce e allo stesso tempo furbo e superficiale... quello che non avevo capito è che si può essere sia dolci che sfacciati allo stesso tempo. Nella vita ho sempre pensato che si dovesse stare o completamente a destra o a sinistra, ma quella notte Dan mi insegnò che si può essere diversi, si può anche stare al centro, a volte. Sorrideva come se avesse il completo controllo della situazione e continuava a ripetermi che sarei caduta, certo delle proprie parole. Amavo la sua voce. Amavo anche il modo in cui mi guardava, il modo in cui con dolcezza rideva di me come se fossi qualcosa di sua proprietà... ma non volevo ammettere quanto mi piacesse. A forza di fare passi all’indietro, tuttavia, mi ero davvero avvicinata alla fine del tetto
-Kaitlin, stai per cadere...- sorrise ancora Dan, allungando le mani e cercando di fermarmi
-Smettila di dire che sto per cadere...-
-Attenta- ripeté ridacchiando
-No!- proprio in quel momento indicò dietro di me, per farmi capire che avevo il piede messo male. Non appena mi voltai vidi il vuoto sotto di me, mi sbilanciai e fui per un secondo sul punto di cadere. Sentii delle mani salde sui miei fianchi, sospirai di sollievo e lasciai ricadere la testa all’indietro, ancora terrorizzata. Eravamo in piedi sul tetto, i lunghi capelli leggermente arruffati a causa del vento, i piedi immobili, il mio viso più pallido che mai. Per un attimo mi aggrappai alle braccia di Dan, continuando a guardare in avanti. Le sue braccia mi spinsero leggermente all’indietro, facendo unire i nostri corpi. Io rimasi immobile, con il cuore che ancora batteva a mille e abbassai leggermente lo sguardo sulle nostre mani. Eravamo molto vicini... troppo vicini, assolutamente troppo. Potevo chiaramente sentire il suo cuore battere contro le mie spalle:
-E se fossi caduta?- sussurrai debolmente. I suoi capelli solleticarono il mio collo, lo sentii sorridere:
-Non avrei mai permesso che succedesse...- non risposi, rimasi ancora ferma, cercando di capire cosa il mio corpo cercasse di spiegarmi con quella strana sensazione... e non sto parlando della paura -Stai più attenta, d’accordo?- concluse, spingendomi ulteriormente più vicina a lui. Non appena mi fui ripresa ed ebbi realizzato di essere fin troppo vicina a Dan per i canoni che io stessa mi ero imposta, dal momento che lui non sembrava voler abbandonare i miei fianchi, con una certa durezza misi le mani sulle sue e gliele scansai:
-Tieni le mani a posto, Birmingham- lo fulminai. Sbuffò divertito e si risedette, facendo attenzione che non cadessi di nuovo mentre facevo lo stesso, per mettermi proprio accanto a lui -Se io fossi morta sarebbe stata colpa tua-
-No, Kaitlin. Se tu fossi morta la colpa sarebbe stata tua-
-Non è vero, non sono salita da sola su questo maledetto tetto-
-Sì, ma non sono a stato io a farti allontanare...-
-Indirettamente sì- grugnii infastidita. In quel momento lo odiavo, lo odiavo davvero molto. Perché era così insopportabile eppure non la smettevo di ascoltare le sue parole? Volevo stare con lui. Lo volevo così tanto che mi vergognavo ad ammetterlo.
-Mi piaci davvero, Kaitlin. Sei diversa. Diversa da qualsiasi altra ragazza che abbia mai conosciuto-
-Dai, non prendermi in giro, Dan!-
-Ho la faccia di qualcuno che ti sta prendendo in giro?- rimasi in silenzio, lo fissai seriamente cercando di capire le sue intenzioni. Oh, ma perché mi fissava?! I suoi occhi erano qualcosa di troppo profondo, meraviglioso e unico perché riuscissi a guardarli senza innamorarmi di lui. E io non volevo innamorarmi di lui. Non potevo innamorarmi di lui.
-Sei serio?-
-Sì...- la sua risposta mi accarezzò con dolcezza, mi diede quella sicurezza di cui avevo bisogno, ma ancora non ero sicura di quello che volevo -Beh, ma... ma per quali motivi dovrei piacerti davvero? Purtroppo sono qui solo da pochi giorni... noi non ci conosciamo e per me sono cambiate troppe cose da un momento all’altro-
-Oh, ma questo lo so!- sorrise con entusiasmo, sfiorandomi la mano -Kaitlin, è proprio per questo che vorrei starti vicino... sei una ragazza forte, splendida e non sai quanto ti stimi per quanto tu stia affrontando bene le difficoltà. So che ci conosciamo da una sola settimana... quindi? Tu mi piaci... ah, mi piaci così tanto che non so nemmeno spiegarti cosa mi passa per la testa ogni volta che ti vedo- Sembrava sincero, i suoi occhi erano più luminosi che mai e anche io cominciavo a sentire il battito cardiaco a mille… ma, stavolta, non per la paura di cadere, né per il freddo. La colpa era del suo profondo sguardo dolce e furbo, color smeraldo. Era così bello. Per quanto potessi ricordare, non avevo mai visto qualcuno così in tutta la mia vita; era un sogno, ai miei occhi addirittura perfetto e mi piaceva stare con lui, lo adoravo. Mi rendevo conto che fosse davvero insopportabile a volte, ma questo mi piaceva, in fondo, era un difetto che lo rendeva speciale; quella frase fece nascere un innocente sorriso sulle mie labbra, abbassai gli occhi e iniziai a parlare:
-A volte mi sento come se una parte di me se ne fosse andata per sempre- quelle parole fecero calare il silenzio, Dan si avvicinò lentamente, come se fosse interessato, quindi continuai -Ho perso undici anni della mia vita, Dan... li ho persi. La mia famiglia non c’è più e non ricordo più nulla della mia infanzia: mi sento come se fossi divisa a metà- sospirai, scuotendo la testa. Osservai la mano di Dan, avvicinarsi lentamente alla mia. Non mi ribellai alla sua presa e continuai a parlare:
-Non sai quanto sia felice di essere tornata qui, sana e salva... forse un giorno riuscirò a ritrovare ciò che ho perso-
-Ehi, io ti capisco... e sono certo che le cose miglioreranno in fretta... devi solo farti forza. Vedrai, andrà tutto bene-
-No- scossi la testa, con un amaro e doloroso sorriso sulle labbra -Tu sei un ragazzo eccezionale, ma... io sono una ragazza che non ha più niente- sospirai e buttai la testa fra le mani. Ero sincera... oh, ero terribilmente sincera! La sua mano si spostò sulla mia schiena, cercando di confortarmi, e subito mi sentii costretta a scusarmi:
-Mi dispiace... i miei problemi non ti interessano, ovviamente...-
-Voglio ascoltarti, invece- disse con una dolce e affettuosa fermezza -Il passato ormai non c’è più, pensa solo al presente...-
-Sono consumata, mi sento usata, vecchia... oh, non so neppure perché te lo sto dicendo!- una piccola lacrima uscì dai miei occhi. Dan scosse la testa, i suoi capelli scomposti si mossero insieme al vento:
-No, no, no... non sei consumata, Katy, non sei usata. Non lo sei...-
-Come lo sai?-
-Lo vedo. Nei tuoi occhi, quando ti guardo- fu la sua risposta. Decisa, convinta, dolce ma severa. Le sue parole erano sincere, profonde... buone. Rimasi per qualche secondo a guardare i suoi occhi, immobile, ferma, incapace di capire il linguaggio misterioso del mio stesso corpo.
Dan si avvicinò a me... oh, eravamo davvero troppo vicini, stavolta. Provai qualcosa di strano allo stomaco, sentii i muscoli contrarsi non appena il verde smeraldo dei suoi occhi puntò le mie labbra. Lo percepii. Voleva baciarmi? “Oh, no...” pensai, sperando di non dare a vedere la mia grande ansia. I suoi polpastrelli sfiorarono la mia guancia colorita, si avvicinò ulteriormente. Silenzio. Perché non parlava? Perché non parlavo io. Ero nervosa, estremamente nervosa e avevo paura, ecco la verità; paura di qualcosa di strano, paura di qualcosa di diverso, paura di qualcosa che mi avrebbe reso troppo debole... non potevo lasciare che succedesse. “Oh, Dan, non farmi questo...” sussurrai fra me e me, sgranando gli occhi non appena le sue labbra sfiorarono le mie “Ti prego, no...” Perché non parlavo? Perché rimanevo imbambolata? C’erano troppe cose a confondermi, troppi particolari si stavano intromettendo nei pensieri. I suoi capelli, i suoi occhi, il calore del suo corpo che si avvicinava... odiavo che qualcuno cercasse di prendere ciò che era mio. Non volevo che Dan prendesse i miei spazi, non volevo che nessuno lo facesse. Le sue labbra quasi sfiorarono le mie, dei brividi freddi percorsero il mio corpo. Eravamo davvero troppo vicini, mi sentii quasi soffocata, tanto da trovarmi costretta a prendere una decisone:
-Fammi entrare- brontolai, allontanandomi di colpo. La mia voce era spezzata, debole, insicura, incerta e inesperta. 

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Capitolo 30
*** CAPITOLO 28 ***


Mi allontanai leggermente e abbassai lo sguardo imbarazzata, Dan sbuffò leggermente, probabilmente senza sapere che lo stessi osservando, e il suo sguardo brillante divenne di colpo estremamente dispiaciuto:
-Perché? Rimaniamo qui...-
-Voglio entrare, Dan-
-Avanti, lascia che...-
-Non credo di essere costretta a fare quello che vuoi. Posso scegliere, no?- la mia domanda retorica era stata detta con così tanta freddezza e crudeltà... oh, perché ero cattiva con lui? Non lo meritava
-Non so a cosa tu ti riferisca... è ovvio che sei libera di scegliere...- I suoi grandi occhi erano bassi... quasi mi mancava il suo sguardo convinto. Avevo rovinato tutto? Sì, avevo rovinato tutto. Avevo paura dei miei sentimenti, avevo paura di sciogliere il mio cuore, di rompere la mia corazza e avevo bisogno di essere arrogante e fredda per rimanere in piedi. E, come se non fosse abbastanza, sentii il bisogno di dare un ulteriore peso alle mie parole ingiuste:
-Voglio che tu te ne vada. Voglio stare sola. Vattene- “Che frase sciocca” pensai e quasi mi rimproverai, senza darlo a vedere
-Ehi, ma... che ti prende?- scosse la testa il ragazzo davanti a me -Non ti ho mai chiesto niente... perché ti arrabbi?- “Oh, mi dispiace...” avrei voluto dire: perché quel pazzo cervello che mi ritrovavo non riusciva ad analizzare le mie parole? Perché? “Ho paura di te, non lo capisci? Ho paura di sentirmi viva” avrei voluto dire. Eppure rimanevo in silenzio, ferma sui piedi. Immobile come una sciocca bambina immatura. -Avanti, è Capodanno... nessuno dormirà!-
-Io dormirò-  Dan improvvisamente sorrise... era così meravigliosamente positivo. Capii, lessi le parole scritte sulla sua espressione: amo le sfide. Quel sorrisino convinto e sfacciato mi fece venire i brividi:
-Ho detto che me ne andrò a dormire. Buon anno, Dan... ci vediamo domani- Dicendo così, mi affrettai verso la porta, ovvero cercai di scappare dal suo sguardo furbo e malizioso
-Oh, fai come vuoi. Non c’è bisogno che tu lo ripeta. Puoi camminare, non è vero? Non hai bisogno di farmelo sapere...-
“Oh, Dan Birmingham... vuoi davvero irritarmi? Non mi piacciono i giochi”
-Voglio dire- continuò -fai pure come vuoi- tirai dritto verso la porta e la spalancai, lanciandogli un ultimo sguardo di fuoco -Non credere di risolvere qualcosa così...- gli chiusi la porta in faccia. Ah, finalmente silenzio. Iniziai a camminare per il corridoio, ma subito sentii la porta riaprirsi e la sua voce minacciosamente attraente continuò a ronzarmi nelle orecchio:
-Ehi, ehi, mi hai chiuso la porta in faccia!-
-Sì, mi stavi dando fastidio e ti volevo chiudere dentro...-
-Beh, sono ancora qui- Stavo al suo gioco, purtroppo. Mi aveva già in mano. I nostri sguardi erano quasi divertiti, le nostre parole giocose, anche se sarei voluta rimanere seria. Continuando a fissarmi tanto affascinato quanto io lo ero da lui, mi accompagnò fino alla camera che avevano preparato per me. Imbarazzata e indecisa, aprii in fretta e vidi Dan fermo immobile, forse aspettando che gli chiedessi di entrare. Mi guardava davanti alla porta, io incrociai le braccia e lo fissai accigliata:
-Hai bisogno di qualcosa, per caso?-
-Ehm... no, no…-
-Bene, perfetto. Ci vediamo, buonanotte!- esclamai chiudendogli la porta in faccia. Entrai e mi sdraiai esausta nel letto, quando sentii di nuovo suonare. Andai ad aprire e vidi Dan appoggiato alla porta, che mi sorrise raggiante:
-Ehi, posso… ?-
-No. Buonanotte!- risposi senza lasciarlo finire, chiudendo la porta e tornando a sdraiarmi sul morbido letto della camera. Stetti nella calma assoluta per una quindicina di minuti... se n’era andato, finalmente. Pensavo a lui, però, e a tutte le sensazioni che mi aveva provocato: i suoi occhi, la sua bocca, la sua voce... la sua voce? Mi sembrò di sentirla in lontananza. Mi sedetti in silenzio cercando di capire e proprio in quel momento sentii dei rumori fuori dalla porta. Entro felicemente, con una grande chiave, che fece svolazzare soddisfatto, in mano:
-Mi sono fatto dare la copia delle tue chiavi-
-Entra pure quando vuoi, mi raccomando- mi arresi, sorridendo
-Grazie mille, allora verrò più spesso. Oh, è carino qui- disse facendomi ridere, stavolta. Almeno una cosa che aveva detto era vera e giusta: la stanza era bellissima. C’era un calduccio fantastico e tutto era elegante, pulito, splendente e profumato. Nel tetto era freddo, c’era molto vento e tanto rumore, invece quella stanza era così ordinata, piacevole... perfetta e mi sentii bene lì dentro. Credevo di dover dormire con Isabelle, ma mi avevano preparato un stanza e mi avevano comprato dei vestiti. Era tutto sul color crema, la moquette era morbidissima e il letto gigante. Dopo aver tirato un piccolo colpetto sul braccio di Dan, che nel frattempo si era seduto, mi lasciai sprofondare su di esso; era morbidissimo e pieno di cuscini soffici come la neve. Wow, non mi ero mai sentita così comoda.
Stranamente, per quanto ancora fra noi non fosse successo niente, mi resi conto che con Dan avrei potuto dimenticare tutti i problemi che avevo avuto riguardo ai rapporti con gli uomini; lui sembrava così buono, così esperto e protettivo... non potevo avere paura con lui. Eppure ne avevo. Non so perché ma non mi sentii più così infastidita dalla sua presenza, anzi sentii di stare bene insieme a lui, forse stava davvero iniziando a piacermi sul serio. Lo fissai quasi estasiata: più lo guardavo e parlavo con lui, più sentivo il desiderio di far passare la nostra amicizia di odio-amore a qualcosa di un po’ più serio e importante; tuttavia, non sciolsi la mia freddezza e non diedi a vedere quel piccolo sorrisetto che si nascondeva dietro ad una smorfia di fastidio e a degli occhi che lo fulminarono per la sua sfacciataggine:
-Dan, è tardi...- sussurrai -Basta con i giochetti- con una dolcezza inaspettata appoggiai il palmo della mano sulla sua spalla; i suoi occhi erano interrogativi, cercavano quasi di scrutare il mio sguardo:
-Vorrei tanto conoscerti meglio...-
-Cosa?-
-Sì, capire cosa si nasconde dietro quegli occhi- disse assorto. Abbassai lo sguardo arrossendo infastidita dai suoi occhi -Ehi, guardami...- sussurrò, cercando di alzarmi il viso -Ti prego- Esitai, tuttavia trovai il coraggio di alzare i grandi occhi castani verso i suoi:
-Che cosa c’è?-
-Ci sono tante cose che vorrei imparare dai tuoi occhi...-
-Anche io- mormorai, sospirando -Anche io, Dan-
-Passerà tutto così in fretta che neppure te ne accorgerai, Katy...-
-Forse- Rimanemmo in silenzio, uno davanti all’altro, finché la sua voce leggermente roca e profonda non tagliò il silenzio:
-Perché non mi hai baciato?- Non risposi, ma sembrò leggermi negli occhi -Io lo so che hai paura- Oh, avrei voluto piangere così tanto! Mi trattenni, non potevo permettere di far uscire neppure una lacrima -So che sei sola, o almeno che ti senti così. Non devi aver paura di ritrovare te stessa, però... non devi aver paura di riprenderti la tua vita-
-Dan...- sussurrai, scuotendo la testa quasi come se mi sentissi umiliata -Vattene, tu non sai niente di me e...-
-Non so niente, hai ragione... ma forse sono l’unica persona a cui interessa davvero imparare qualcosa-
-Sono io quella che deve imparare- risposi bruscamente, trattenendo il pianto -Sono io quella che deve fare i passi più grandi-
-Io ti capisco. Mi piace scherzare, è vero... mi piace prenderti in giro, mi piace vederti infastidita. Amo come i tuoi occhi si illuminano quando qualcosa ti irrita... ma, nonostante il mio carattere, so cosa provi-
-Come puoi dirlo?- mormorai, facendo un passo indietro
-Te l’ho detto, io lo vedo... è facile capire quanto una persona è speciale. E so quanto stai male, non sono uno stupido. Non devi nascondere il tuo cuore, Kaitlin, non devi...-
-Ha sofferto troppo, Dan... il mio cuore è stato ferito tante, troppe volte- La mia voce era rotta dal pianto mentre cercavo di trattenere le mie emozioni. Non ci sarei riuscita. Perché era così vicino? Perché desideravo così tanto che mi confortasse?
-Lo so...- sussurrò abbassando lo sguardo -Per questo dovresti cercare di lasciare il tuo cuore aprirsi di nuovo- Rimasi in silenzio. Non riuscivo a parlare, mi mancava il fiato. Ero ormai quasi contro il muro, le spalle che cercavano di difendersi... da chi? Da quell’angelo davanti a me?
-Perché hai paura?- chiese sussurrando, sfiorandomi le labbra con il pollice. Mi aveva già in mano
-Non ho paura- deglutii, girando il viso. Dan mi guardò incuriosito, dopodiché appoggiò con delicatezza una mano sul mio fianco. Mi irrigidii, socchiusi gli occhi. Mosse lentamente la mano. “Ti prego, basta!” avrei urlato, ma non ci riuscivo
-Perché hai paura delle mie mani?- le iridi verdi, così piene di vita, fissarono le mie marroni, che avevano ormai perso tutto
-Non lo so- ebbi il coraggio di mormorare, abbassando il viso
-Sai che non ti farei mai del male, vero?- Annuii, imbarazzata. Dan sorrise e la sua mano rimase ferma sui miei fianchi:
-Sei così imprevedibile... puoi cambiare umore in così poco tempo...-
-Non mi piace... ehm, avere confidenza, troppa confidenza...- specificai a bassa voce -Con le persone-
-Cosa provi?- chiese Dan -Ho bisogno di saperlo... sto cercando di capirlo ma è così difficile leggere i tuoi occhi, il tuo corpo... sei un grandissimo mistero, per me- Sorrise con dolcezza, penetrando i miei occhi con quello sguardo profondo. C’erano troppi segreti in me... se li avesse scoperti sarebbe stata la fine. Tuttavia cercai di trovare una risposta: cosa provavo? Non avrei saputo descriverlo. La mia voce dolce e debole uscì con un sospiro:
-Sono... confusa, io...-
-Tu- sorrise, senza temere il contatto con i miei occhi -Tu sei la persona più forte che abbia mai conosciuto- con un gesto improvviso e da me totalmente inaspettato, si avvicinò al mio corpo piccolo e debole, lasciò un bacio sulla mia guancia e mi abbracciò. Strinse le sue braccia intorno a me, inarcai leggermente la schiena, allontanandomi dal muro. Avrei tanto, tanto voluto piangere, ma non lo feci. Strinsi le mie braccia intorno al suo collo con forza, mi lasciai andare... era sbagliato, forse, ma lo volevo
-So cosa provi- sussurrò -Mi dispiace così tanto, Kaitlin...-
-Non ho paura di te- mormorai debolmente, con un piccolo sorriso, dopo una pausa di silenzio
-Tu nemmeno t’immagini che effetto pazzesco e incredibile che hai su di me. Credimi, non hai idea di quanto io voglia baciarti, Kaitlin Connor- disse, dopo essersi allontanato da me
-Smettila- mi irrigidii. E di nuovo era tornato lo sfacciato di sempre. Scoppiò a ridere, come se già sapesse che tanto, in un modo o nell’altro, mi avrebbe comunque ottenuta:
-Quanto sei buffa! Avanti, sorridi... e vedi di far rimanere quel sorriso ì sulle tue labbra, d’accordo? E comunque... mi piace il fatto che tu sia così... beh... difficile, se questa è la parola giusta-
-Dan, smettila!- stavolta stavo finalmente ridendo. Gli lanciai un cuscino, quindi si difese con una mano e buttò il viso fra le mani, proprio come se i tentativi con me l’avessero piacevolmente stancato:
-Oh, sei davvero terribile! Aspettami, vado un secondo in bagno- sorrise allontanandosi e lasciandomi sola con me stessa, finalmente dandomi la possibilità di capire ciò che volevo davvero. Ed io non sapevo cosa sarebbe successo, ma finché c’era Dan mi sentivo tranquilla, che fosse un amico o qualcosa in più. Mi sentivo davvero confusa e non riuscivo più a mantenere il personaggio che, a partire dal mio risveglio, avevo deciso di essere. Mi sentivo indifesa, strana, fastidiosamente sincera con me stessa. Cosa stava succedendo? Perché quel ragazzo riusciva a farmi diventare così debole? L’idea di perdere il controllo mi terrorizzava, perché inconsciamente avevo paura di trovare quella “vera me” che per tanto tempo avevo finto di cercare. Il mio flusso di pensieri fu interrotto da Dan, che uscì praticamente subito dal bagno; mi sorrise con gli occhi e con un affettuoso cenno del capo, così da farmi sentire costretta ad abbassare lo sguardo. Mi sedetti sul letto e continuai a fissare la moquette, in silenzio. C’erano troppe cose nella mia testa. “Cosa stiamo aspettando?” avrei voluto chiedere, ma non ne ebbi il coraggio
-Basta con gli scherzi, voglio essere serio- mi interruppe le voce di Dan. Il ragazzo di fianco a me mise una mano fra i capelli e sorrise per la prima volta quasi imbarazzato -Mi chiedo perché mi sia fissato così tanto con me...-
-Anche io me lo chiedo, Dan-
-Credo sia il fatto di vederti così...- si interruppe, scosse la testa come se cercasse la parola giusta
-Triste?- suggerii
-Indifesa- specificò -Spaventata...-
-Perché questo dovrebbe attrarti?- chiesi sprezzante -Non mi sembra niente di positivo...-
-L’idea di aiutare una persona tanto fragile è un’occasione che non posso perdere-
-Sei pazzo- risposi scettica
-Forse, forse. Però i tuoi occhi hanno davvero qualcosa di speciale, Kaitlin. Oh, è buffo... io non ho mai detto una cosa del genere ad una ragazza. Anzi, forse non ho mai neppure pensato a qualcosa di simile-
-Ci conosciamo da una settimana-
-Appunto. E non ho altro per la testa da una settimana...-
-Oh- sospirai, immobile, timida, impacciata come non ero mai stata prima. Ricordai quanti sguardi e quante parole arroganti avevo detto all’ospedale... quante bugie, quanti momenti difficili! Non mi riconoscevo. Dan non smetteva di guardarmi:
-Non voglio metterti in difficoltà, né costringerti in alcun modo a ricambiare quello che provo. Credo di aver detto abbastanza, forse vuoi davvero che me ne vada...- con un sospiro fece leva sulle gambe e si alzò dal letto, dandomi una piccola pacca sulla spalla:
-Buonanotte- Lo guardai allontanarsi da me, sentii quasi un vuoto crearsi dentro di me. Mise la mano sulla maniglia:
-Aspetta- Non potevo lasciare che se ne andasse. Si avvicinò a me quasi come se avesse previsto quella reazione, io trovai il coraggio di guardare i suoi occhi:
-Io... ah, io devo dirti una cosa- mormorai sospirando; c’era riuscito, stavo cadendo nella sua trappola e probabilmente me ne sarei pentita, ma non potevo farci niente -Non so neppure che significa provare qualcosa per una persona, Dan. Forse, sì, mi piaci. Lo deduco dal fatto che con te non riesco a nascondere niente e non posso rimanere in silenzio... ma… ma un ragazzo giovane, felice, pieno di vita come te non potrebbe stare con qualcuno che… che ha avuto tanti problemi in passato... mi dispiace, ma credo che tu non abbia capito: non posso darti niente di ciò che vuoi... ho perso tutto- mormorai tristemente, abbassando lo sguardo
-Cosa? Oh, ma… che dici? Mi dispiace tantissimo che tu pensi questo di me, Katy... credo che tu abbia davvero frainteso le mie intenzioni...- cercò di giustificarsi, allontanandosi subito e lasciandomi spazio. Mi sentii subito in colpa e abbassai lo sguardo, pronta a giustificarmi
-No, non hai...-
-Aspetta- mi interruppe, appoggiando una mano sulla mia spalla -Voglio che sia tutto chiaro... spero che nessuno ti abbia detto cose sbagliate su di me! Non devi prendere tutto alla lettera... il fatto è che siamo ragazzi e tendiamo ad ingigantire le cose, ma spero che tu non abbia capito male. So di non aver avuto molte storie serie, ma non sono il tipo che ferisce o prende in giro le ragazze, non lo sono affatto, soprattutto se mi piacciono molto e… e si da il caso che per adesso tu mi piaccia molto-
-No, no!- lo fermai -Non mi sono spiegata bene... io... ah, grazie- sospirai, scuotendo la testa -Non devi chiedere scusa, sono stata bene stasera e ci siamo fatti un paio di risate, il che è positivo per me, perché… sai, perché era da tanto che non trovavo un motivo per sorridere davvero. Volevo solo che tu sapessi che forse non sai a cosa stai andando incontro... sono qualcosa di fin troppo impegnativo... neppure io stessa riesco a capirmi, in realtà- Dan mi fissò sinceramente dispiaciuto, ci guardammo negli occhi e fu sul punto di dire qualcosa, ma lo fermai -E poi... dopo tutto quello che ho successo avrò sicuramente anche tanti problemi come conseguenza delle violenze che... che ho subito e forse non sono proprio ciò che cerchi, ecco tutto… non sono una ragazza qualsiasi, voglio solo che tu dia il peso giusto alle mie parole e alla mia situazione-
Stavo solo cercando di capire quello che tu non vuoi dire con le parole, Kaitlin, quello che neppure tu sai... non volevo che ti offendessi o cose simili, non avevo brutte intenzioni, quindi ti chiedo scusa… anche sul tetto stavo solo scherzando, ovviamente... è il mio carattere... mi dispiace se...-
-Baciami- dissi tutto d’un tratto. Oh, no. Perché quelle parole erano uscite dalle mie labbra come se il mio cervello non fosse riuscito a controllarle? “Oh, Camilla, sei una stupida!” pensai. L’avevo detto davvero? Sussultai alle mie stesse parole, morsi il labbro e lo guardai sconvolta, quasi scusandomi con gli occhi. Non ero sicura di essere pronta. Un dolce sorrise nacque sul suo viso, si avvicinò a me e, senza farselo ripetere, appoggiò, lentamente, le sue labbra sulle mie. Era qualcosa di così strano per me. Dei brividi percorsero la mia pelle, il mio corpo si irrigidì e le mie mani cercarono disperatamente le sue. Deglutii e poggiai le mani sulle sue spalle, con calma... mi lasciò il mio tempo e rimase immobile, aspettando con pazienza che fossi a mio agio. Mi lasciai andare, facendo sì che ogni incertezza si sciogliesse in quel bacio. Non avevo paura, no. Non di lui. Quel bacio, per quanto d’istinto lo feci terminare prima del previsto, fu meraviglioso, risvegliò in me moltissime sensazioni che non avevo ancora mai provato... non lo dimenticherò mai. Ero tornata a vivere solo tre anni prima e non ricordavo di aver provato mai qualcosa di simile, una sensazione tanto forte da spazzare via qualsiasi tipo di indecisione... quel contatto con Dan mi mandò fuori di testa, non ero abituata a provare sensazioni così forti. In quella stanza, con quel silenzio... tutto era perfetto. Ancora ora posso risentire il mio cuore battere a mille, le mie mani tremare mentre per la prima volta affrontavo una delle mie paure. Non so quanto durò quel bacio, ma fu infinito, meravigliosamente dolce e infinito. Appena le nostre labbra si allontanarono rimasi immobili, con lo sguardo basso. Dan sorrise e alzò il mio viso, poi fece sfiorare un’ultima volta le nostre labbra, circondò il mio bacino con le mani e sorrise nell’incavatura del mio collo:
-Un altro passo in avanti, non è vero, Kaitlin?- Non risposi. Sorrisi anche io, però con gli occhi ancora socchiusi, incapace di spiegare a me stessa ciò che avevo appena provato -Devi solo fidarti di me... al resto ci penserò io- 

 

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Capitolo 31
*** CAPITOLO 29 ***


Ero così felice, avrei voluto spiegare a Dan della magia che aveva fatto con me, che prima ero sempre stata in difficoltà... ma mi vergognavo molto dei problemi che avevo avuto e volevo che rimanessero privati. In quel momento, così perfetto e incredibilmente nuovo, sentimmo il conto alla rovescia provenire dal giardino. Mancava un minuto al nuovo anno. Iniziammo a correre ridendo per tutto il palazzo, finché non ci trovammo fuori dalla grande porta. “Tre, due, uno...” Urla di gioia. Risate e divertimento. Dan mi baciò ancora, mi strinse fra le sue braccia. Non ero abituata a provare simili sensazioni, il mio cuore era ancora dolorante eppure batteva, batteva pieno di speranza
-Buon anno- urlarono tutti, estremamente divertiti. Trattenni a stento le lacrime... è così che ci si sente ad essere felici? Ero abituata a stare sola, ero abituata a parlare solo con me stessa, a non condividere mai niente con nessuno. Ed ecco che già il mio corpo si era ammorbidito... avevo paura, ma non potevo farne a meno.
Brindammo al nuovo anno e lo feci con gli occhi lucidi. “Anno nuovo, vita nuova”... lo speravo, lo speravo tanto. Tutti lo dicevano, ed io non facevo altro che ripeterlo. Avrei ricominciato dall’inizio, ero pronta; sarebbe stata la mia nuova vita, a costo di mentire per sempre. Avevo i miei fratelli davanti, li vedevo ridere ed ero felice, era come se il mio passato fosse stato del tutto cancellato.
Tuttavia, quando raggiungemmo gli altri, fortunatamente non fecero commenti sul fatto che Dan mi stesse tenendo per mano… meglio così, anche se forse  che si erano già accorti di un certo tipo di complicità che c’era fra di noi. In ogni modo, lo pregai di non parlare troppo e di stare in silenzio.
Ricordo ancora quanto mi sentissi bene, mi sembrava di avere finalmente una famiglia, sentivo il calore dell’amicizia ed ero contentissima. Con lo sguardo cercavo sempre Dan... quel bacio mi aveva davvero risvegliato. Probabilmente stavo sbagliando tutto, ma non vedevo l’ora di essere di nuovo sola con quel biondo dagli occhi color smeraldo. Ne avevo bisogno... tanta paura e allo stesso tempo così tanto desiderio. Quasi come se avesse capito che i miei pensieri erano rivolti a lui, mi mise il braccio intorno ai fianchi... oh, come poteva Dan essere così tranquillo!? Io non la smettevo di angosciarmi per quello che era successo e lui mi metteva le mani sui fianchi, come se fosse una cosa di cui vantarsi, come se fosse una cosa da niente. In fondo, forse per lui lo era, ma per me no:
-Ti da fastidio?- mi chiese lentamente, indicando con lo sguardo la sua presa sui miei fianchi. Soffiai un debole “no”, sussurrando con gli occhi bassi. In quel preciso momento mi accorsi degli sguardi curiosi dei ragazzi che, come temevo che succedesse, ci chiesero se fosse successo qualcosa fra di noi.
Io e Dan ci guardammo, dal momento che non lo sapevamo neanche noi in effetti, comunque io risposi:
-Ehm… vedi, non proprio, diciamo che…-
Dan mi aiutò e cercò di deviare la conversazione verso un altro argomento:
-Diciamo che è un inizio!- e dicendo così iniziò a parlare di altri argomenti, togliendo il braccio dalla mia vita in modo che nessuno potesse capire e in modo che non mi sentissi né soffocata né in imbarazzo. Rimanemmo poi in silenzio, davanti a quello splendido caldo fuoco e sotto quell’irresistibile cielo stellato:
-Sai così poche cose di me...- Quelle mie deboli parole uscirono dalla mia bocca come se non fossi riuscita a controllarle; mi pentii di essere entrata in un argomento tanto minaccioso
-Voglio imparare tutto di te, ma credo di averti già individuata, per certi aspetti- Con un po’ di tristezza nel tono, lo guardai nelle grandi iridi verdi, sfiorandogli la mano:
-Tu non sai niente di me... non lo so neppure io chi sono davvero-
-Cosa? Che intendi?-
-Niente, niente…- mi resi subito conto che stavo iniziando a prendere la cosa con il cuore, ma non potevo permetterlo... il mio amore per Dan non poteva diventare qualcosa che Camilla provava, perciò cercai subito di cambiare argomento
-Posso sapere... qualcosa di te?-
-Tutto quello che vuoi- rispose, girandosi verso di me in modo che potessimo stare uno di fianco all’altro. Eravamo seduti su una panchina di legno, che consisteva in pratica in un pezzo di un tronco di quercia, intorno al grande falò in giardino; non c’erano molte persone, rimanemmo dopo pochi minuti praticamente soli. Mi sentivo stranamente a mio agio in quell’identità rubata, davanti al fuoco, in una casa straniera, accanto a un ragazzo che avevo conosciuto da poco, mi sentivo bene, al sicuro... forse perché non avevo mai avuto una vera identità, perciò non ero stata costretta a cancellare proprio niente.
-Quanti anni hai?- chiesi con un sorriso infantile, fissando il cielo splendido e stellato sopra di noi
-Ventidue. Tu sai quanti anni hai?- Scossi la testa mentre il vento carezzava delicatamente il mio viso, e subito Dan cercò di pensare -Dovresti avere vent’anni, se non sbaglio- “Oh” mormorai imbarazzata; fissavo i piedi sprofondare nell’erba leggermente umida e i miei pensieri vagavano, vagavano intorno a sensazioni che non avrei mai immaginato di poter provare. Pensavo a quel bacio, pensavo a quella strana sensazione e involontariamente arrossivo. Speravo che mi baciasse ancora, volevo che mi baciasse ancora.
-Kaitlin? Va tutto bene?- la sua voce mi riportò alla realtà e ridendo scossi la testa
-Stavo pensando che... che c’è una cosa che vorrei dirti; è piuttosto importante che tu lo sappia. Non sono del tutto a mio agio, ma ho bisogno di essere sincera- Avrei voluto parlargli dell’esperienza che io stessa avevo avuto, del fatto dell’incidente, ma non potevo, quindi modificai la mia storia, impregnandola però dei miei veri sentimenti, così che da una finzione potesse nascere qualcosa di reale, vero e intimo... qualcosa che veramente riguardava Camilla, e non Katy. Pensai alle parole giuste da usare, quindi iniziai timidamente, assicurandomi che gli occhi castani non lasciassero il colore scuro dell’erba umida e fredda sotto i miei piedi: -Come  sai bene, non ho ricordi, ma c’è una cosa, solo una, di cui sono certa... e che ricordo bene. Non ho immagini nella mente, ma le sensazioni non se ne possono andare tanto facilmente: non aveva un vero scopo a tenermi chiusa, se non quello di... di... beh, di usufruire di me, ed ogni volta che entrava io...
-Kaitlin, non ne devi parla...-
-Shhh... ti prego, lascia che finisca- lo bloccai con tono deciso, parlando proprio come se fosse successo a me e avessi bisogno di confessarlo a me stessa -Credo che tu abbia capito il motivo per cui quell’uomo entrava in quella cantina, non c’è bisogno che lo dica. Io da quel momento, voglio dire... da sempre, in realtà... mi sono trovata in difficoltà con qualsiasi tipo di contatto e... e anche solo un abbraccio può farmi stare male, quindi...-
-Ho capito- mi rassicurò Dan, con un tono di dispiacere e compassione. Ringraziai il cielo per quelle parole... non volevo continuare a parlare, quell’argomento mi rendeva insicura e mi spaventava tanto quanto mi faceva sentire sciocca e umiliata, fin troppo esposta e debole:
-Grazie. A causa dell’esperienza che ho avuto sono stata costretta a imparare a difendermi dal corpo dell’uomo; ogni volta che avevo a che fare con un uomo io... io sapevo cosa sarebbe successo... e avevo paura. E nel momento che avveniva il più leggero e lieve contatto il mio corpo iniziava a tremare... ho sempre cercato di scansare qualunque uomo che mi sfiorasse. Ti prego, dimmi che capisci e che quello che dico ha senso...-
-Certo che capisco, Kaitlin, ma io... ma io l’avevo già immaginato. Mi dispiace-
-Anche a me...- abbassai lo sguardo, scalciando un paio di sassi sotto i miei piedi- avevo cercato di non lasciar uscire le lacrime, ma non ci riuscii e subito le mie guance furono rigate; fu in quel momento che capii che tutte le cose che stavo raccontando non erano poi così lontane da me... io le avevo vissute. Le stavo modificando per attribuirle a qualcun altro, ma io avevo subito tutte quelle sofferenze che mi stavano facendo piangere
-Non piangere, ti prego, non piangere...-
-Quel bacio è stato diverso, Dan. Tutto è stato diverso con te- ammisi asciugandomi le lacrime e perdendomi nel suo sguardo penetrante
-Grazie, io... io lo apprezzo, Kaitlin. L’idea che tu abbia sofferto mi fa soffrire, ma io ti prometto che non ti farò mai del male- mi disse, avvicinandomi a lui e cingendomi i fianchi. Gli volevo bene, gli volevo bene anche se lo conoscevo a malapena... sorrisi e mi asciugai le lacrime, pensando che forse, forse passo dopo passo un giorno sarei cresciuta, e avrei avuto una vita.
Accorgendomi dei suoi occhi fissi sui miei, allontanai lo sguardo, ma mi fermò subito, facendomi cenno di guardarlo. Parlando con gli occhi, avvicinò il mio corpo al suo e mi baciò lentamente, con calma, come se volesse lasciarmi del tempo per adattarmi. Non so quanto durò in realtà quel bacio, ma mi sembrò durare all’infinito, e non avrei più voluto che finisse. Ma qualcosa ci interruppe: il rumore cigolante di una delle tapparelle più alte del castello.
Ed io riconobbi subito la donna che aprì la finestra. Era mia madre. Sentii il cuore saltarmi nel petto... batteva talmente forte, sia per l’emozione che per la paura, che mi sembrò di soffocare. Strinsi gli occhi per vedere meglio, socchiudendoli… ero certa che fosse lei. Dan sembrò leggermi nella mente, indicandola:
-Lei è Celine, la moglie di Enrico Ori e la madre di Carlo, Matilde, Guido e…- io lo interruppi e forse fu un caso il fatto che fermai Dan prima che pronunciasse il mio nome, oppure sentii semplicemente il bisogno di bloccarlo prima che le sua parole potessero ferirmi più di quanto avevano fatto finora i miei occhi; avevo giurato che non avrei più pensato al fatto del sogno, avevo fatto una piccola promessa con me stessa, ma non riuscii a resistere:
-Sei sicuro che suo marito si chiami proprio Enrico Ori?- chiesi piena di ansia. Sapevo cosa significasse quel nome. Conoscevo quella persona e quel pensiero mi faceva venire la pelle d’oca. Era il momento di farsi coraggio e affrontare i ricordi.

 

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Capitolo 32
*** CAPITOLO 30 ***


Dan mi guardò incuriosito, accorgendosi probabilmente del mio sguardo pensieroso:
-Sì. Ti ricordi di lui?-
-Beh… il nome mi dice qualcosa-
Guardai Dan negli occhi e sentii lo stomaco contorcersi: potevo accettare l’idea che il paesaggio fosse una finzione, che le persone intorno a me lo fossero, anche che io stessa lo fossi. Ma non potevo accettare l’idea che lui lo fosse.
Quei pensieri facevano talmente male che non potevo più sopportarli, così scossi la testa con rassegnazione, ascoltando con una certa paura le parole di Dan:
-Sai, gli Ori sono un po’ particolari, come dire…-
-Come dire?-
-Non dovremmo parlarne, ma non sono mai stato ligio alle regole. Ti prego di non farne parola con nessuno degli Ori, soprattutto con Matilde, che è stata traumatizzata più dei fratelli e non può sentir parlare delle cose che sto per dirti. Prometti cha starai in silenzio...- le sue parole mi fecero rabbrividire, nella mia testa scorsero velocemente le poche immagini che avevo ottenuto con tanta fatica, scavando dentro di me, e rimasi assorta, con lo sguardo perso apparentemente nel nulla, in realtà nei miei contrastanti e scuri pensieri:
-Prometto che non dirò niente- dissi con decisione, cercando di nascondere tutta la mia insicurezza
-Undici anni fa, nel 1991, purtroppo ci arrivò una terribile notizia, che a breve venne diffusa in televisione e attraverso giornali e internet... non fu qualcosa da poco, insomma. Ma ormai quei fatti sono considerati acqua passata e ciò che è successo agli Ori è un argomento bandito da tutta la nobiltà. Chiunque fosse a quella festa per la vigilia sapeva alla perfezione quello che è successo, ma nessuno ha osato proferire una sola parola riguardo a quel fatto...- disse con tono grave, rimanendo in silenzio per qualche secondo, ma non perdonai la sua esitazione:
-Ti prego, racconta!- lo supplicai impaziente e piena di ansia
-Katy, è una questione delicata, non mettermi fretta. Non so se già ti sei accorta di quanto la gente qui cerchi di non parlare di quella famiglia... sono tutti terrorizzati dal passato e bloccati da una paura che è, secondo me, insensata. Abbiamo giurato di non aprire bocca... e mi sento un vero ipocrita...- mormorò con tono un po’ angosciato -Ma d’altronde è qualcosa di cui è al corrente mezzo mondo... perché non dovresti esserlo tu?-
-Ti prego, devo saperlo...-
-Lo so, e mi fido di te. Dunque, gli Ori vivevano in uno grandissimo castello in Scozia, completamente perso nel nulla, circondato da boschi e campagne: si trovava nelle Highlands, ma al momento credo sia abbandonato. Si erano trasferiti là a causa di un momento di crisi economica, poiché il valore di quel castello era altissimo e sentivano il bisogno di averne personalmente il controllo. Se fosse stato derubato, avrebbero perso tutto ciò che era rimasto loro. Non vivono più lì da undici anni ormai…-
-Perché si sono trasferiti?-
-Ecco, appunto, qui arriva il nodo della questione: Camilla, Camilla Ori... tutto parte da lei. Non ti sei mai chiesta perché qui nessuno te ne ha parlato? Scommetto che non ne hai mai sentito neppure il nome in questi giorni che hai passato al castello! Era la terza figlia degli Ori, un anno più grande di Matilde. Non ti ricordi di lei, immagino...-
-No, ma parlamene, ti prego-
-Era una bambina fantastica fino a circa sei anni, la ricordiamo tutti nel migliore dei modi; molto solare, buona e gentile, giocava e si divertiva con tutti, era simpatica e matura per la sua età, ma al punto giusto; le piaceva parlare con gli adulti e badare ai bambini più piccoli... ho tantissimi ricordi di lei e sono tutti positivi! Ah, c’avrei messo una mano sul fuoco sul fatto che sarebbe diventata una grande donna, un personaggio di successo, perché Camilla Ori aveva un carattere da vincenti... conosci il tipo di bambina di cui parlo, vero? Convinta, sicura, originale, sveglia... chiunque la conoscesse le voleva bene e prospettava grandi cose per il suo futuro. Nel 1991, il dodici settembre, venimmo a sapere della disgrazia: eravamo solo bambini e l’unica cosa strana che notammo era che nessuno degli Ori era presente. La storia fu talmente orribile che ai più piccoli decisero di non raccontarla, fingendo che Camilla fosse semplicemente “andata in cielo”: e sono proprio queste parole che usarono-
-Lei... è morta?- chiesi debolmente
-Questo nessuno lo ha mai provato. Il suo corpo non è stato trovato, ed è solo un’ipotesi... pensare che possa essere ancora viva è alquanto improbabile, non credi? Sono passati undici anni-
-E perché- iniziai lentamente, deglutendo con la gola secca -perché si crede che sia morta?-
-Ti spiego tutta la storia: ogni cosa è cominciata nel 1990, nel castello degli Ori in Scozia. Era da un po’ di tempo che Camilla, che aveva intorno ai sette anni, si comportava in modo strano, da quello che dicevano i genitori, ma non ne capivano il perché. Stava molto da sola, cercava di evitare i fratelli e amava rimanere chiusa in camera; non parlava molto e aveva degli occhi stanchi, forse tristi... era cambiata, cambiata da un momento all’altro, drasticamente. I genitori erano preoccupati e non sapevano più come comportarsi con lei, che continuava ad affermare di stare bene. Ovviamente, la situazione in casa non aiutava...-
-Che vuoi dire?-
-Beh, in realtà nessuno ha le idee chiare, gli Ori non sono persone... come dire, aperte, ma... diciamo che Enrico non è l’uomo più pulito che conosca, ecco. Tradiva la moglie, a quanto ne so, beveva molto e non si comportava con i figli come avrebbe dovuto. Credo che fosse violento, che li picchiasse, ma queste sono solo dicerie, e non ci è stato mai confermato da nessuno. Comunque, la reazione di Camilla a quei problemi non era del tutto normale; dopo un paio di mesi, infatti, Carlo decise di confessare ai genitori una cosa davvero importantissima, che si era tenuto dentro per molto tempo perché aveva paura di raccontare; disse di aver seguito Camilla durante una delle sue sospette passeggiate e di averla vista entrare nella grande foresta vicino al loro castello, il cui ingresso era assolutamente vietato ai bambini. A quanto Carlo raccontò ai genitori, Camilla si era seduta in mezzo al bosco, immobile, sola, e appena si era accorta del fratello gli aveva detto che stava aspettando un certo “Bones”, il suo migliore amico. Carlo aveva ovviamente cercato di convincerla sul fatto che nessun altro viveva in quel luogo, ma lei era convinta e continuava a ripetere di essere certa dell’esistenza di questa persona. “Non posso dire il suo nome” diceva, rimanendo seduta “ma lui è qui vicino in questo momento. Se non te ne andrai, sarò costretta a svelarti il segreto e Bones sarà molto, molto arrabbiato. Tu non vuoi che si arrabbi, vero?” Ecco le parole che disse a Carlo, ma era risaputo che quel bosco fosse inabitato da centinaia d’anni. Matilde nello stesso giorno confessò che la sorella le aveva detto di non uscire mai dalla sua camera durante la notte, perché Bones l’avrebbe incontrata. Secondo Camilla, questo misterioso personaggio girovagava per la casa durante la notte, ma minacciava ogni volta i fratelli, dicendo loro che Bones li avrebbe uccisi se avessero detto tutto ai genitori. Probabilmente Celine avrebbe dovuto odiare i figli in quel momento, per avergli tenuto nascosto qualcosa di così importante, ma non fu così; rimase immobile, distrutta davanti ad una notizia tanto spaventosa. Enrico non era presente, come la maggior parte delle volte, ma c’era Greg, il ragazzo che badava a Camilla e ai bambini, e anche lui rimase assolutamente sconvolto e spaventato da quella notizia-
-Perché i genitori non le stavano più vicino? Perché non avevano cercato di aiutarla prima?- chiesi preoccupata e in assoluta ansia, ma Dan alzò le spalle con un sospiro:
-Diciamo che non potrei dire che Celine ed Enrico fossero le persone giuste per affrontare qualcosa del genere, come ti ho già detto. In fondo, però, bisogna anche pensare che credevano semplicemente che si trattasse di un amico immaginario: ad esempio, Guido riferì a Celine anche delle parole piuttosto strane che la sorella gli aveva detto riguardo a Bones: “Tutti pensano che io sia pazza, ma si sbagliano. Ognuno di noi ha piccoli segreti, no? Nessuno mi ha mai voluto bene come Bones” La situazione stava decisamente degenerando.
Celine si era appena ripresa da una grave malattia, quindi la sua vita consisteva in un continuo spostarsi fra l’ospedale e il castello, nel quale però non faceva altro che stare a letto: aveva lasciato i bambini con i nonni, non potendosi fidare più del padre e neppure del badante, che dopo qualche mese, all’inizio del 1991, si trasferì e lasciò la casa.
E quella sera in cui Guido, Matilde e Carlo raccontavano la verità a Celine e a Greg, che da poco si era dimesso ed era tornato solo per discutere della questione, improvvisamente qualcuno si accorse della presenza di Camilla sull’uscio della porta, che li fissava immobile.
Tutti si zittirono, ci fu un momento di completo silenzio, poi la bambina indicò il fratello incolpandolo di essere un traditore; le chiesero da quanto tempo fosse lì ad ascoltare, ma lei non rispose. Celine ebbe un attimo di incredibile confusione, non sapendo come comportarsi. Le tirò uno schiaffo inizialmente, ma Camilla non reagì; solo dopo qualche minuto corse ad abbracciare Greg, a cui era molto legata, e scoppiò a piangere dicendo che non poteva parlare, che aveva un segreto troppo grande. Dopo quel pianto, il primo dopo tanti mesi di silenzio e probabilmente di paura soffocata, Celine riuscì a portarla a letto, la fece addormentare e chiuse la porta a chiave, non appena si fu assicurata che stesse davvero dormendo.
Celine, sempre stanca a causa della sua malattia, chiese aiuto all’unica persona di cui si fidava al momento, ovvero, appunto, al badante dei figli, che si impegnò pensando ad una soluzione e a un modo per assicurarsi che la bambina non stesse davvero correndo alcun pericolo, dal momento che non erano certi che si trattasse di un amico immaginario. Qualche giorno dopo, Greg posizionò delle telecamere in giro per casa e su un albero, nel luogo del bosco dove Guido aveva detto di aver visto la sorella. La osservarono, la osservarono per giorni: si sedeva in terra, parlava da sola, poi iniziava a canticchiare. E ogni volta apriva la borsa e lasciava cadere in terra gioielli preziosi e soldi, per poi ripartire e tornare a casa. Convinti che Camilla avesse perso la testa, Celine e Greg andarono a recuperare i gioielli, dopo che erano rimasti in terra per tre giorni circa e, fingendo di crederle, la fecero addormentare e chiusero la porta a chiave. Rimasero svegli per tutta la notte, controllarono ogni entrata, ogni finestra, ogni telecamera: non c’era nessuno in quella casa. 

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Capitolo 33
*** CAPITOLO 31 ***


Matilde, però, nella sua ingenuità, fu l’unica che riuscì ad accorgersi di un particolare importante: un cassetto nascosto della scrivania era stato inciso con degli scarabocchi. Matilde trovò la chiave sotto il cuscino, quindi fece finta di dormire, poi si alzò e andò a frugare fra le cose della sorella: e proprio in uno di quei cassetti trovò un diario molto antico, lo aprì e vide scarabocchi, scarabocchi neri e confusi. Aprì un altro cassetto: anche quello era pieno di vortici, vortici neri senza alcun significato. E mentre cercava altri indizi sospetti, Matilde sentì dei rumori dietro la porta, la aprì e vide Camilla, che le chiese con tono minaccioso perché stesse guardando fra le sue cose. Matilde, come ultima cosa, le chiese almeno di dirle se Bones le facesse del male, ma Camilla le urlò che lui era un amico fantastico, che le voleva bene e che avrebbero continuato a vedersi, nessuno gliel’avrebbe impedito. E quando le fu chiesto come fosse uscita dalla camera dei genitori, Camilla rispose che le era stato insegnato come aprire le porte con del fil di ferro o con delle semplici forcine.
Celine, malata e disperata, e i suoi genitori, troppo anziani per prendersi cura della nipote, decise di mandare la figlia da uno psichiatra, sperando di risolvere la situazione una volta per tutte.
Il dottore disse già dopo la prima seduta che si trattava sicuramente di un amico immaginario, dovuto alla mancanza di affetto dei genitori e alla difficile e instabile situazione familiare. Greg accompagnò lo psichiatra mentre seguivano Camilla nel bosco: le cose non erano migliorare per niente. Si sedeva da sola, si guardava intorno, controllava l’ora, poi canticchiava una canzoncina. Hai presente, quella che… aspetta, come fa? Ah, sì… Incy Wincy Spider walked up the water spout… la conosci, no?- Ecco. Forse nessuno può capire la paura che provai in quel momento, l’ansia che avevo nel cuore… forse non ero nemmeno capace di pensare, ero confusa, stanca e spaventata, ma mi feci forza e risposi a Dan che avevo presente la canzoncina, sebbene mi ricordasse così tante sofferenze, e lui continuò, ignaro di tutto il dolore che stava attraversando il mio cuore:
-Passato un altro po’ di tempo, Camilla si mise a piangere e a chiedere a Bones perché non le volesse più bene, perché si nascondesse da un momento all’altro. Per mesi Camilla si era seduta in quel luogo… da sola. Aveva buttato le collane in terra, ma nessuno le aveva prese, se non i genitori quando la bambina dormiva. Camilla era impazzita, ormai. L’estate stava per iniziare, era circa maggio e la bambina stava sempre peggio, sempre più sola, più strana, più inquietante. Nelle telecamere i genitori vedevano scene inspiegabili, la bambina parlava da sola, si muoveva stranamente, buttava oggetti in terra e li seppelliva. Addirittura, una notte andò a nuotare nel lago davanti a casa mentre tutti dormivano. Pensa, Celine si svegliò per andare a bere un bicchiere d’acqua e la trovò da sola, in piedi davanti al divano tutta bagnata e sporca di fango, con quegli occhi spenti che ormai aveva da troppo tempo. Quando gli era stato chiesto perché fosse in tali condizioni, aveva risposto: “Ho fatto una nuotata nel lago”. Celine, povera donna, rimase pietrificata. Ormai tutti avevano paura di lei e...-
-No…- lo fermai, premendo la mano sul suo braccio. Io non ce la facevo più, avevo troppa tensione addosso, avevo accumulato troppi ricordi, troppa paura… mi sentivo soffocare e mi mancava il respiro
-Aspetta, la cosa più importante è quello che...-
-Basta- sussurrai debolmente, buttandogli le braccia al collo. Sentii il suo calore sciogliere la mia rigidità, le sue labbra che premettero leggermente sul mio collo mi fecero uscire un paio di lacrime.
-Mi dispiace, ho esagerato...- sussurrò -Io sono qui per te, qualsiasi cosa tu abbia bisogno-
-Ho bisogno di te- sussurrai sul suo collo, cercando di gettare via dalle spalle tutto quel peso, tutta quell’angoscia e quel dolore, cercando di liberare la mente da migliaia di dubbi.
Dopo che mi fui calmata, lo guardai negli occhi, ancora piena di dolore e lo ringraziai per la fiducia… era l’unica cosa di cui ero felice al momento. Mi asciugai le lacrime, poi guardai l’ora nell’orologio di Dan: erano le due e mezzo, non potevo credere che fosse così tardi, il tempo era passato più in fretta che mai:
-Io... io ti ringrazio, Dan...- scossi la testa, felice e soddisfatta
-Per cosa?- quella domanda mi spiazzò. In realtà, non sapevo perché l’avessi detto... era un grazie piuttosto generale, perché stare con lui mi faceva sentire viva, mi riempiva il cuore e mi faceva sorridere... rimasi un attimo in silenzio, quindi  gli sfiorai la mano:

-Non lo so... grazie di tutto...-
-Grazie a te- rispose lui con altrettanta gentilezza, inchinandosi giocosamente e facendo nascere un piccolo sorriso sulle mie labbra.
Pochi minuti dopo ci alzammo per andare a raggiungere gli altri: tutti si divertivano, tutti mi parlavano, scherzavano con me, mi abbracciavano… non credevano che fossi quella bambina assassina che disprezzavano tanto. Quella bambina di cui temevano il ritorno, quella bambina di cui avevano tanta paura. C’era un’incredibile atmosfera di gioia e divertimento, tutti erano felici… e poi c’ero io, costretta a fingere. Ma sapevo che la mia bugia non sarebbe rimasta in piedi per molto. Sì, lo sapevo... eppure continuavo a mentire. Perché? Semplice: non avevo altra scelta.

 

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Capitolo 34
*** CAPITOLO 32 ***


In tutta la confusione di quei giorni, ancora non avevo conosciuto personalmente una persona davvero fin troppo importante: mio fratello Carlo. Era dovuto partire per lavoro per una settimana, e io avevo solo ringraziato il cielo di non avermi costretto ad aggiungere alle mie difficoltà il peso di presentarmi a lui, mentre ancora dovevo digerire lo sguardo di mia sorella.
Non fu una bella esperienza vederlo, come già avevo immaginato, perché mi capitò di ricordare che non ero Kaitlin Connor, e quel pensiero era piuttosto doloroso, se mi mettevo a pensare a quanto essere Camilla Ori fosse orribile. Non appena Carlo, ai miei occhi ancora un bambino di tredici anni, mi si presentò davanti, con l’aspetto di un adulto maturo e cresciuto, cercai di non pensare a quanta vita mi ero persa e a quante cose avrei potuto avere... una famiglia, ad esempio. E, dopo che fummo rimasti soli, come tutto il resto delle persone che mi incontrava, iniziò a fare domande e a cercare con imbarazzo di instaurare una conversazione, come se fosse costretto a farlo dalle circostanze. La gente si sentiva forzata dalla propria educazione a rivolgermi la parola, ma in realtà non mi sarei offesa se non mi avessero considerato. Io in quel castello non ero altro che un errore in un mondo perfetto. Ma ecco che mentre lo guardavo negli occhi pensai, con un brivido di terrore: “dovrò fingere per tutta la vita di essere Kaitlin?” Oh, quella maledetta domanda mi gelò il sangue. Pensai alle pasticche e al bagno dell’ospedale e sentii un’ulteriore fitta allo stomaco e l’istinto mi portò ad allontanare quei pensieri e a fingere con me stessa.
Dopo averlo visto migliaia di volte nei miei sogni, eccolo lì davanti a me, in carne ed ossa, a venticinque anni, il mio fratellino… mi chiesi come fossi riuscita a riconoscerlo dopo così tanti anni; l’ultima volta che l’avevo visto ne aveva solamente tredici… eppure non credo che avrei mai potuto dimenticare i suoi occhi. E faceva  male sapere con quanta facilità, invece, si fossero dimenticati i miei, con quanta facilità si fossero dimenticati il mio sguardo e il mio sorriso… dimenticati di me, di loro sorella, ed era la cosa che mi aveva ferito di più.
Fortunatamente, in quel castello c’erano tante, anche troppe persone perché la mia attenzione rimanesse su mio fratello: avevo voglia di svagarmi, di uscire da quei ragionamenti faticosi ai quali ero costretta ogni giorno.
Ma probabilmente non ero molto fortunata e quando ero io ad aver bisogno di risate, le persone più sorridenti diventavano di colpo infelici: infatti, non appena entrai nel castello vidi Elisabeth, appoggiata allo stipite della porta con sguardo malinconico. Le chiesi cosa fosse successo, e lei mi pregò di seguirla insieme a Matilde: “ho bisogno di parlare con qualcuno” fu ciò che disse. Ma il pensiero di ritrovarmi tanto vicina a mia sorella mi terrorizzò; cercai di allontanarmi con qualche scusa, ma non riuscii a fingere, il mio comportamento sembrò sospetto e fui costretta a seguirla. Non appena entrammo nella camera di mia sorella, Elisabeth scoppiò a piangere e si buttò sul letto:
-Perché mi sono innamorata della persona sbagliata? Perché tutto è così sbagliato?-
-Che ti prende?- chiesi, in realtà del tutto annoiata dalle sue lacrime e piuttosto desiderosa di pensare ad altro
-Oh, Katy! Mio padre è venuto a parlarmi, mi ha rimproverato per quasi un’ora... dice che è deluso, deluso da questa faccenda di Louis!  Ah, perché la mia vita è così difficile? Sono sfortunata, ecco la verità! Non vuole che stiamo insieme, ha detto che rovinerei l’onore della famiglia, che sarei la sua vergogna...- aveva un tono angosciato, la voce strozzata e gli occhi rossi per il pianto
-E piangi per questo?- ricordo ancora tutta l’asprezza con qui pronunciai quelle parole. Non potei controllarmi... provai rabbia verso di lei; amore, amicizia, tradimenti: ecco le cose per cui le ragazze come lei soffrono. Piangeva perché il padre non le permetteva di stare con il suo fidanzato… e tutti la compiangevano, l’abbracciavano e capivano la sua sofferenza. Io invece, che non ricordavo quasi nulla del mio passato, che avevo avuto un’infanzia più che disturbata, una vita piena di dolore, che ero stata paralizzata, quasi uccisa, che avevo affrontato due anni in un centro psichiatrico e un coma, non potevo essere capita; se avessi detto la verità, mi avrebbero odiato. No, nessuno poteva comprendere il mio dolore, nessuno poteva perdonare i miei errori. Io, con tutto il dolore che avevo provato e che stavo provando, dovevo trattenere le lacrime. Ma Elisabeth no, lei piangeva “Piangi, piangi per questo” pensai con acidità mentre la guardavo scuotendo la testa; ma quasi subito capii che il mio tono era stato troppo duro, mi sentii in colpa e volli subito scusarmi:
-Mi dispiace, El, non volevo dire che...-
-No, tu hai ragione, io non avrei dovuto dirlo davanti a te...- si scusò imbarazzata, rendendosi conto dell’errore che aveva fatto
-Mi dispiace da morire- cercai di salvarmi con un piccolo sorriso, stringendole le mani -Spero tanto che le cose migliorino, so che lo ami davvero...- Ci fu un motivo per cui trattenni le parole cattive che il dolore aveva fatto nascere in me; fui gentile con lei, perché avevo da poco imparato che la sofferenza che si prova è inversamente proporzionale alle volte in cui si soffre; probabilmente le ragazze che avevo incontrato in quel castello, a parte Matilde, che aveva avuto a causa mia un passato difficile, non sapevano cosa fosse il dolore, per questo piangevano per cose sciocche e vane. Tuttavia scacciai quei pensieri ingrati e consigliai ad El di andare a parlare con Louis, ma in quel momento mi accorsi dello sguardo assorto di Matilde, in silenzio e con la testa bassa:
-El, puoi lasciarci sole un attimo?- chiese all’amica, che subito si allontanò gentilmente dalla stanza; mi allontanai, un po’ spaventata all’idea di trovarmi da sola con Matilde, ma lei mi fermò
-Elisabeth non avrebbe dovuto dire quelle cose, io ti capisco- mi fermai, rimasi immobile
-Come dici?-
-La vita è proprio ingiusta... e le persone non capiscono. Ho imparato ad abituarmici con il tempo: quella gente, Kaitlin, è abituata a una vita perfetta, capisci? Loro non capiranno mai il tuo dolore, mai... saranno dispiaciuti, sì, ma non capiranno-
-Devo andare- risposi, ghiaccia per la paura
-No, aspetta- mi fermò ancora, facendomi sedere accanto a lei -Se un ragazzo che non la ama rappresenta un problema della sua vita… allora mi sa che non ha capito come funziona il mondo. Prima, ti abbiamo visto a parlare con Dan ed Elisabeth ti ha chiamato “fortunata”-
-Avrò anche Dan- dissi cinica -ma mi manca tutto il resto-
-Le ragazze che hai conosciuto e che conoscerai sono splendide, ma non potrai pretendere che vedano le cose dal tuo punto di vista: sono viziate, e non è colpa loro-
-Va tutto bene- risposi con freddezza, fingendo di aver perdonato le sciocche parole di Elisabeth, mentre ancora mi rimanevano sullo stomaco
-Sai, neppure per me è andato tutto liscio. Tu non mi conosci…-
-Ti conosco, meglio di quanto tu pensi-
-No, ci sono così tante cose che la gente non sa di me. Non puoi immaginarti quanto sia difficile portarsi dietro un segreto grande quanto il mio- stava facendo peggio, ogni singola parola era sbagliata… mi innervosii parecchio, quindi la ammonii con severità:
-Matilde, faresti meglio a stare in silenzio ora-
-No, aspetta. Io so che tu hai sofferto… ma non puoi sapere cosa ho patito io, non ne hai idea. Ci sono tante cose che le persone non vedono… e fingere fa così male! Ma tu per fortuna non lo sai... tu hai ritrovato tutto quanto, Katy-
-Silenzio- esclamai con tono deciso, facendola zittire; socchiusi gli occhi per ritardare la fuoriuscita delle lacrime e continuai, avviandomi il più in fretta possibile verso la porta -Ti stupirebbe sapere quanto conosca bene cosa significa mentire… e soffrire… e avere paura. Non parlare con me come se fossi tu l’unica a star male- conclusi con tono acido, uscendo dalla stanza senza neppure salutarla, ma mentre ero sul punto di chiudere la porta, mi fermai e mi resi conto di aver sbagliato. Mi ero aperta tanto, troppo con lei... quando nessuna delle due avrebbe dovuto dire una singola parola di quelle che ci erano scappate. Mi voltai di nuovo verso di lei:
-Fai finta che questa conversazione non sia mai esistita, d’accordo?- rispose con un debole e confuso “sì”, quindi uscii e richiusi la porta. Scossi la testa cercando di allontanare i brutti pensieri mentre camminavo in quel lunghissimo corridoio... ciò che era appena successo mi avevo messo in pericolo, mi aveva fatto capire che non sarei riuscita a sfiorare il mio passato: sarei sprofondata al minimo contatto. Non avevo retto le parole di mia sorella, non ero riuscita a passare sopra alla sua inconsapevolezza... e avevo sbagliato.
Fortunatamente quella notte il mio umore riuscì a migliorare, grazie a quella persona che al momento occupava il mio cuore e la mia mente così tanto da spaventarmi: Dan. In realtà, appena mi accorsi che il suo intento sarebbe stato dormire con me, fui terrorizzata, cercai disperatamente una scusa, ma non ce ne fu bisogno: lui aveva capito, lui mi conosceva più di quanto pensassi. Si buttò scherzosamente sotto le coperte e la sua unica dimostrazione di affetto fu un bacio sulla fronte, un bacio che mi lasciò senza fiato per la sua delicatezza... per quella delicatezza che non credevo di meritare.
Ci addormentammo, ci addormentammo soddisfatti di esserci conosciuti, di aver parlato, di aver imparato molte cose di una persona completamente diversa da noi stessi. E quella notte nessuno dei due seguì il cuore né tantomeno l’istinto... io per tutti i miei buoni motivi, lui perché ci teneva davvero e farmi del male non era nelle sue intenzioni. In realtà, non capivo se quello che stava accadendo fra di noi fosse giusto o sbagliato, ma mi sembrava già di conoscere quel ragazzo da anni, mi sentivo stranamente felice, completa; in quel momento la mia mente eliminò gli orribili pensieri riguardo al fatto che ciò che stavo vivendo non poteva essere reale, perché mi sentivo davvero a casa… e per me casa significava semplicemente affetto. Quella notte dormii tranquilla, con la testa libera e priva dai pensieri, cosa che non mi succedeva da tanto, tanto tempo. L’idea di avere qualcuno accanto mi faceva stare bene, era una sensazione eccezionale.

 

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Capitolo 35
*** CAPITOLO 33 ***


E la mattina ebbi uno dei risvegli in assoluto più belli della mia vita, anche se avevo dormito poche ore; dopo tanto, tanto tempo aprii gli occhi e vidi un luogo accogliente, caldo, tranquillo. Come se non ci potessi credere, mi guardai più volte intorno e mi accorsi che tutto era in ordine, tutto era perfetto. C’era un grandissimo silenzio intorno a me, la fine lancetta di un elegante orologio bordato d’oro segnò le dieci… pensai che la parte più complessa, ovvero quella di dover spiegare al mondo una storia falsa, fosse ormai passata e che non avrei dovuto far altro che divertirmi. Sollevata, mi lasciai ricadere sulle bianche e morbide lenzuola setose, lasciando che la cascata di capelli riempisse il cuscino rigonfio, anch’esso di seta. Socchiusi gli occhi e mi godetti quella sensazione di tranquillità che non avevo forse mai provato davvero… al momento avevo la testa sgombra dalle preoccupazioni ed era una sensazione bellissima! Le leggere tende lasciavano passare la calda luce del sole attraverso i vetri, così da risaldare l’intero ambiente… quando socchiusi gli occhi, per ricominciare a dormire, mi resi conto, però, che Dan non c’era. Balzai a sedere sul letto e chiamai il suo nome più volte, ma non rispose, quindi sbuffando sgusciai fuori dal comodo materasso e dalle calde coperte, per vestirmi il più in fretta possibile, cercando di rintracciarlo, sebbene non mi rispondesse. Misi un paio di jeans e una maglia qualsiasi e uscii dalla camera in più in fretta possibile, temendo  che già non gli interessasse più di me. Percorsi quei lunghi corridoi con un misto di rabbia, per cui, se avessi potuto lo avrei ucciso, e di amore, per cui non vedevo l’ora di incontrare ancora i suoi profondi occhi verdi. Scesi le scala in fretta, senza neppure rendermi conto di un piccolo particolare che avrebbe dovuto rendermi più che felice; per la prima volta da quando mi ero risvegliata dal coma non avevo avuto incubi.
Cercai di orientarmi in quel castello nel migliore dei modi, per quanto i lunghissimi corridoi mi facessero girare la testa, e riuscii ad arrivare al piano inferiore. Affrettai il passo, sperando di trovare qualcuno che potesse dirmi dov’era Dan, ma fui interrotta da una voce:
-Signorina Connor!- mi chiamò una cameriera, sorridendomi gentilmente -Il suo vestito sarà di nuovo in camera sua fra poco, come il signor Johnson aveva chiesto-
-Mi perdoni... il mio vestito?-
-Sì, il suo vestito per la festa di Natale, signorina Connor. La polizia glielo ha riconsegnato ieri, l’abbiamo lavato in fretta...-
-Ah, grazie- risposi sconvolta, non abituata al lusso di avere un vestito lavato per me -E... potrei chiederle un favore-
-Tutto quello che vuole, signorina Connor-
-Mi chiami Kaitlin...-
-Come vuole, signorina Kaitlin-
-No, mi chiami pure Kaitlin... Kaitlin e basta- la donna di servizio mi guardò senza parole, sembrava felice del mio comportamento -Ah, e... non si preoccupi, il vestito lo porterò io in camera... avete tanto da fare! Lo prenderò dalla lavanderia-
-Oh, che Dio la benedica!- rise l’anziana signora, stringendomi le mani -Che Dio la benedica, Kaitlin, è una ragazza tanto gentile...-
-Non si preoccupi, è il minimo che posso fare. Ho solo una domanda: avete visto Dan?-
-Il signor Birmingham? No, mi dispiace, non l’ho visto stamani...-
-D’accordo, grazie- con una certa ansia continuai a camminare per i lunghi corridoi, sperando di trovare un’anima viva in un castello tanto grande. Forse mi ero sbagliata su Dan, forse avevo concesso il mio cuore ad una persona sbagliata. Se n’era andato, io ne ero quasi certa... diedi un’ultima occhiata alla sala principale, dopodiché mi voltai per tornare in stanza, quando due braccia mi strinsero giocosamente da dietro:
-Dove credi di andare, eh?-
-Dan, ti odio!- esclamai -Sai che paura mi hai fatto prendere? Ero certa che te ne fossi andato...- sussurrai con un bacio, sperando solo di sentire ancora quel magico, spaventoso formicolio allo stomaco
-Ero venuto a prenderti la colazione, sinceramente...- sorrise, mostrandomi un vassoio con un paio di croissant -Andiamo fuori?- Annuii con una dolcezza negli occhi che, prima di conoscerlo, non avevo mai mostrato a nessuno... e mi sentii amata, mi sentii apprezzata. Era bellissimo avere qualcuno vicino.
-Dan- lo fermai, prima di raggiungerlo
-Cosa?-
-Non te ne andrai anche tu, non è vero?-
-No. Te lo prometto- E con quelle parole, che mi riempirono di gioia, capii che il mio posto era lì, nel Castello Johnson. E che il mio nome doveva essere quello, Kaitlin Connor. E che la mia vita... ah, la mia vita sarebbe cambiata.
E credevo che sarebbe stato facile, credevo che, da quel momento, ciò che di buio e oscuro era stato in me, non sarebbe rimasto che un triste ricordo sepolto, credevo che sarei stata felice per sempre.
Credevo.

 

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Capitolo 36
*** CAPITOLO 34 ***


Purtroppo ogni mio singolo problema veniva oscurato... oscurato da cosa? Semplice: dalla confusione e dai misteri che si insidiavano nella mia testa. In fondo, sapevo bene che tutto ciò che vedevo, facevo o toccavo non poteva essere altro che un’invenzione del mio cervello, ma… in fondo, cosa avrei potuto fare? Solo vivere il presente, ecco l’unica cosa che mi avrebbe permesso di andare avanti.
L’idea dell’ignoto avrebbe dovuto farmi paura, eppure mi rendeva curiosa e mi metteva voglia di vivere; e poi il mio cuore aveva ricominciato a battere dopo tanto, troppo tempo. E faceva quasi male, un male piacevole, un dolce bruciore al petto... mi rendeva debole, debole e piccola come mai mi ero sentita; in realtà, però, ero molto più forte di prima.
Ridevo. Ridevo così tanto con quel ragazzo dagli occhi verdi... e almeno per un po’ potevo dimenticare le lacrime e dar spazio a quei sorrisi che mi facevano sentire così bene. Ogni volta che uscivamo, non accennava neppure minimamente all’argomento “passato”, cosa che apprezzavo sempre moltissimo: sembrava che mi capisse, sembrava che mi leggesse negli occhi come io stessa mai avevo saputo fare, e sembrava che riuscisse ad avere il controllo del mio cuore, cosa che nessuno da me aveva mai ottenuto. Aveva vinto il mio cuore... e detto da una ragazza che non aveva altro, non era una frase poco importante.
Passammo un altro paio di settimane al massimo della felicità; in fondo ero spaventata, in fondo soffrivo ancora, ma appena iniziavo a parlare con lui le cose cambiavano; al castello Johnson tutti erano meravigliosi con me e finsi addirittura di stare talmente bene da non volere uno psicologo, così che venivo trattata, nella maggior parte dei casi, come una ragazza qualsiasi, per quanto gli adulti avessero qualche preoccupazione, per cui a volte ero costretta a mostrare sintomi di tristezza, quelli che amavo tenere nascosti fra i muri della mia stanza, in modo che tutto sembrasse realistico. Tuttavia, rimanevano i problemi: la notte continuavo a soffrire di insonnia. Forse Dan non mi era così d’aiuto come pensavo... stare con lui mi rendeva felice, sì, ma i brutti sogni continuavano ad esserci. Ogni notte.
Mi svegliavo sudata, senza voce, stanca come mai, ma incapace di dormire; e mi sedevo sulla sedia della scrivania a non fare nulla, semplicemente a pensare, poiché era l’unico modo che avevo per cercare di riprendere sonno. Non so quante volte qualche cameriera, sentendo le mie urla, si precipitò da me e cercò di riportarmi a letto, ma io dicevo di non voler dormire... la notte mi spaventava. E preferivo dormire da sola, nonostante le pressioni delle altre ragazze sane e tranquille, perché conoscevo bene il mio problema, sapevo che non ci sarebbe stata cura, e volevo subirne le conseguenze tutta sola... e ogni volta che mi rinchiudevo nelle bianche coperte di seta mi sembrava di sapere già quello che mi sarebbe successo.
Appena mi sdraiavo rimanevo con gli occhi spalancati e le orecchie vigili, come se aspettassi qualcosa... e quello stesso pensarci così tanto su mi portava a morire di paura.
Dan non aveva idea della gravità della mia situazione e non volevo assolutamente che lo capisse; c’era ancora qualcosa, nei suoi baci e nei suoi abbracci più forti, che rappresentava una minaccia a me familiare.
E così, immersa nell’amore di giorno, nell’oscurità di notte, guardandomi allo specchio e riconoscendomi ogni giorno di più in quella persona alla quale avevo rubato l’identità, passò un mese.
E, ancora una volta per miracolo, ero viva, in piedi, sempre più fragile eppure più forte: ma qualcosa di importante sarebbe successo a breve.
Era il dieci febbraio del 2003: non dimenticherò mai quella data e la ricorderò da una parte con un sorriso, dall’altra con un brivido di paura.
Ero a cena con Dan nel centro di Londra, ma il suo sguardo era assente, diverso dal solito. Parlavo e vedevo i suoi occhi quasi impazienti di dire qualcosa; sembrava nervoso... e non ero abituata a vederlo così:
-Va tutto bene?- chiesi di colpo, sulla fine della nostra cena, passando distrattamente al cameriere il mio piatto. Non rispose, inizialmente. Sospirò, si guardò intorno, quindi rispose con un’altra domanda:
-Da quanto tempo non vedi Jasmine?-
-Perché me lo chiedi?- risposi freddamente, colta di sorpresa
-Posso saperlo?-
-Credevo avessimo deciso di non parlare del mio passato- continuai convinta, abbassando lo sguardo
-Penso che sia il momento di parlarne, invece- rispose lui con la sua solita maturità, lanciandomi uno sguardo severo e allo stesso tempo premuroso
-No, Dan. Non ne ho voglia, non credo che sia il momento e...-
-Kaitlin- mi fermò alzando la voce in un affettuoso rimprovero -Guardami- continuò, abbassando poi il tono e costringendomi a guardarlo negli occhi -L’abbiamo chiamata. Tua sorella dovrebbe arrivare a momenti-
-Cosa?-
-Jasmine. L’abbiamo chiamata-
“Non è vero” pensai “Non può essere vero, sta mentendo...” E invece avevo capito  bene... avrei incontrato Jasmine. Di colpo mi si gelò il sangue nella vene: avrebbe capito che non ero sua sorella. Sentii gli occhi bruciare mentre cercavo di trovare una scusa al mio comportamento inspiegabilmente strano nei confronti di mia sorella:
-Dici sul serio?-
-Sì, è così. Sei stata così strana, non hai dato segno di volerla rivedere… perché?-
-Perché… perché io non voglio rivederla-
-È tua sorella, Kaitlin!-
-Sì, ma io non…-
-Credi che ti farà soffrire vederla di nuovo?-
-Il fatto è che io non voglio parlare di quello che è successo e...-
-Ma lei ti capirà e poi… davvero non hai voglia di riabbracciarla?-
-La smetti di parlare così tanto, Dan?- esclamai infastidita e disperata -Oh, smettila di occuparti della mia vita... è già abbastanza distrutta, d’accordo? Non ho bisogno di altri banali rimproveri!- Non so perché dissi quelle parole... non le pensavo, non mi appartenevano. Rimasi in silenzio, come una vera stupida
-Vado a pagare- rispose lui con una freddezza che non credevo potessero avere i suoi occhi
Delusa da me stessa e intrappolata in dubbi e paura, mi alzai dalla sedia per mettermi il giubbotto, ma mi accorsi dello sguardo continuo di una ragazza dallo sguardo misterioso, seduta da sola in un tavolo non troppo lontano.
Aveva gli occhi spenti, tristi, circondati da occhiaie; mi fissava con durezza, asprezza, mi fissava con un coraggio tagliente. Rabbrividii davanti a quello sguardo così consumato, quindi presi il giubbotto e di fretta mi avvicinai all’uscita. Ma qualcuno mi fermò per il polso:
-Incy Wincy Spider- Ricordai quelle parole, le riconobbi. Mi voltai e vidi davanti a me quegli occhi smunti e grigi, quella ragazza gobba e stecchita che mi fissava, pronunciando quelle parole che, purtroppo, ricordavo.
E da quel momento io capii che le cose sarebbero a breve degenerate. E che niente sarebbe stato più lo stesso.

 

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Capitolo 37
*** CAPITOLO 35 ***


Mi vennero brividi per tutto il corpo e sorrisi perplessa, trovando in quella reazione la mia unica barriera per nascondere la paura:
-Scusa?-
Il suo sguardo era di ghiaccio, ripeté in un sussurro quelle parole:
-Incy Wincy Spider-
-Scusa, ma temo che tu mi stia sbagliando con qualcun altro. Perdonami, ma devo proprio andare, ora...-
-Camilla Ori, fermati- disse ancora, afferrandomi per la giacca e impedendomi di allontanarmi.
-Come sai il mio nome?-
-Non mi riconosci?-
-Io non ti conosco- ripetei ancora convinta e diffidente. La ragazza, con le mani tremanti, mi fece cenno di seguirla in un angolo più isolato della stanza; sembrava vecchia, vecchia e consumata mentre i suoi occhi incavati mi fissavano:
-Guarda- mi disse, portando le mani magre e secche sulla fine dei pantaloni sgualciti; le dita lunghe alzarono la stoffa vecchia fino al ginocchio. Aveva un tatuaggio: lessi il numero 64. Erano uguali, uguali a quelli che avevo io. Scossi la testa confusa e sconvolta, dopodiché lei si abbassò per fare lo stesso alle mie gambe... ma si accorse che non c’era proprio niente
-Li hai cancellati- disse terrorizzata -Come ci sei riuscita?-
-Non ho cancellato proprio niente- risposi freddamente, cercando di allontanarmi da quel personaggio così spaventoso
-No, tu li hai cancellati!- alzò ancora la voce, terrorizzata e infastidita da ciò che aveva visto -Come hai avuto il coraggio di fare una cosa simile?!-
-Io non ho mai avuto quella... cosa- risposi con un mormorio, desiderando con tutto il mio cuore che Dan finisse il più in fretta possibile di pagare -E non ti conosco- mi allontanai, iniziai a camminare decisa, con il cuore che rimbombava spaventato dentro di me, finché quella voce non mi fece ancora fermare:
-Trecento- mi bloccai, immobile sui piedi che a stento reggevano il mio corpo tutto tremante e spaventato. E lei continuò -Sei nata in Scozia il dodici aprile del 1983, Bones ti ha preso con lui l’undici settembre del 1991-
-Abbassa la voce- la ammonii, portandola in un luogo più isolato -Chi sei?-
-Come hai fatto a fuggire?-
-Senti, chiunque tu sia... sono andata in coma, io ho perso la memoria, non so niente...-
-Stai mentendo- rispose lei severamente -Stai mentendo, bugiarda      ! Bugiarda!- mi colpì con le braccia deboli, mi spinse davanti alla porta del bagno e cercò, con la poca forza che aveva, di picchiarmi:
-Lasciami!- la fermai terrorizzata -Io lo giuro, non ricordo niente!-
-Mi avevi promesso che mi avresti salvata...- rispose lei, abbassando la voce e parlando con tristezza e delusione, fissandomi con disprezzo -Mi avevi detto “Tornerò a prenderti domani, ti salverò”-
-Io non...-
-E non sei più tornata... ti ho aspettato, povera illusa, con lo zaino sulle spalle... e non sei più tornata, mi hai lasciato là! E hai lasciato che mi torturassero ancora! Io ti ho aiutato e tu, bugiarda, vigliacca, mi hai lasciato morire!-
-Ti prego, smettila...- la pregai sconvolta, con la voce rotta dal pianto -Ho paura-
-Devi avere paura. Come una stupida ti ho aspettato per ore, ma tu eri già in fuga, mi avevi ingannato... loro sapevano che ti avevo aiutato: sono stata punita, mi hanno fatto male, mi hanno distrutto!-
-Mi dispiace, si sta sbagliando, io...-
-Non fingere più- mi fermò lei -io ti riconosco. Io li posso ancora vedere i tuoi occhi, non sono cambiati... c’è il dolore riflesso: il dolore che hai provato, e quello che hai procurato-
-Devo andare- dissi subito, cercando di allontanarmi da quella donna striminzita e minacciosa
-Dov’è Sam?-
-Chi?- chiesi perplessa
-Sam. Tu non capisci che Bones ti cerca, vero?-
-Ho detto... ho detto che non ti conosco. Vattene, ti... ti scongiuro- balbettai, pallida. Un semplice riferimento al passato e il mio muro difensivo, costruito con tanta fatica, si spezzava del tutto... e ogni volta lo ricostruivo più debole. Non so dove sarei potuta arrivare facendo così
-Guardami negli occhi- disse, circondandomi il viso con le mani secche, sporche e grinzose -Tu ti sei salvata e mi hai lasciato sola, mi hai colpito alle spalle, ma io ti amo ancora, piccola Camilla, io...-
-Basta!- mugolai, cercando di allontanare le sue mani dalle mie guance pallide
-Scappa- disse un’ultima volta -Scappa, perché lui ti troverà, e tu devi pensare a Sam... devi, devi pensare a lui. Bones ti vuole, lui non ha dimenticato-
-Dimenticato cosa?-
-La vostra promessa, Camilla… Sam. Lui lo rivuole indietro-
Sam? Scossi la testa confusa: ricordo bene le sue parole, mi ronzano ancora oggi nella testa. Le ascoltavo passivamente, ad occhi chiusi, e intanto continuavo a negare. La tensione cresceva, ero spaventata, sconvolta, terrorizzata:
-Basta!!!- urlai con tutta la mia voce. Improvvisamente si zittì, tutti si girarono. Un uomo distinto si avvicinò preoccupato a me:
-Va tutto bene, signorina?-
-No...- borbottai, senza fiato
-Sono un dottore; la signora è malata, molto malata. Mi dispiace, mi ero allontanato per un po’ e...-
-Stia più attento...- dissi, guardandomi intorno mentre decine di occhi preoccupati mi fissavano
-Mi hai tradito- disse un’ultima volta, dimenandosi fra le braccia del dottore. Scossi la testa, la fissai immobile... e scoppiai a piangere. Incontrai lo sguardo interrogativo e preoccupato di Dan, mi scusai con gli occhi e di corsa scappai dal locale, allontanandomi dalla porta, da tutti i rumori, da quegli sguardi curiosi e da quelle minacce pericolose.
Mi sentii rinfrancata dall’aria aperta. Continuai a piangere con la testa fra le mani, quando mi resi conto di non essere sola: delle braccia sicure mi strinsero in un abbraccio, circondarono il mio corpo debole e fragile... mi sentii cadere... in un buco nero, senza fine. Mi sentivo così inerme, così sciocca... in pericolo e sola. Chiunque avrebbe criticato il mi comportamento, ma Dan non lo fece. Perché lui non era “chiunque”... perché lui mi aveva capito, perché fin dal primo momento che i nostri occhi si erano incontrati tutto l’amore che non avevo mai donato a nessuno aveva preso una direzione... volevo lui e solamente lui; ero disponibile a dargli tutta me stessa, perché sapevo che sarei stata più al sicuro fra le sue braccia che da sola. Ed era la prima persona di cui pensavo qualcosa di simile. Piangevo fissando la strada davanti a me... era freddissimo, c’era ancora un po’ di neve sui lati delle strade mentre il ghiaccio buio della notte ci avvolgeva. Le sue mani strinsero le mie, mentre piangevo con la testa bassa e le sue braccia cercavano di confortarmi, sebbene non sarebbe stato abbastanza per risolvere i miei problemi. Usando la voce più calma e dolce possibile mi sussurrò lentamente:
-Vuoi dirmi che ti prende?-
-Scusa...- sussurrai con tono fioco, intrecciando le mie dita alle sue; mi girai con le lacrime agli occhi… quanto avevo bisogno di quello sguardo. In quel momento, proprio in quel momento di debolezza io volevo i suoi occhi: più avevo la fortuna di capire cosa significasse essere amati, più soffrivo pensando a quanto, in realtà, non avessi niente.
Appena mi voltai il suo sguardo profondo incontrò il mio, insicuro e spaventato; passai le nocche infreddolite sulla sua guancia e singhiozzando cominciai a parlare:
-Ci sono troppe cose che non puoi capire e troppe cose che non ti posso spiegare. Dan, io ti adoro, ma... ma ho bisogno di stare sola...- mentii, mentii perché in realtà avevo solo bisogno di lui
-Ti prego, spiegami…-
-No, ho bisogno di stare sola...-
-Puoi fidarti, Katy...- non lo ascoltavo, continuavo a camminare con le lacrime agli occhi, quando mi voltai di scatto:
-Credimi, non posso!-
-Fermati, ora! Dove vuoi andare da sola a quest’ora? Stai calma, ti prego... va tutto bene-
-Va tutto male, invece...- lasciai che mi raggiungesse, abbassando lo sguardo il più in fretta possibile
-Come credi di risolvere tutto da sola? Voglio davvero aiutarti...- rimasi in silenzio e incrociai le braccia, fissando il freddo marciapiede grigio e ancora imbiancato sotto i miei piedi. Dan fece l’ultimo tentativo, sperando che finalmente gli rispondessi:
-Conoscevi quella donna?-
-Io non so cosa mi stia prendendo, ma...-  misi una mano sulla fronte ghiaccia e mi avvicinai alla panchina più vicina, sentendo la testa girare fin troppo forte
-Katy, cerca di rimanere calma: devi dirmi chi è quella ragazza... cerca di capire, è importante-
-Beh, non ne ho la minima idea, ma credo che fosse con me quando…- Dan capì cosa intendevo, anche se in realtà ciò di cui stavo parlando non era proprio quello che pensava, comunque mi abbracciò ancora e io rimasi in silenzio, singhiozzando e asciugandomi le lacrime con le dita ancora ghiacce per il freddo
-Katy...- sussurrò fra il vento gelido; mi strinsi con ancora più forza al cappuccio del giubbotto che avvolgeva il suo collo... non avevo paura di lui. Il suo corpo non mi spaventava, ma mi faceva sentire al sicuro... e sentivo che ciò che provavo verso di lui non faceva altro che crescere. Rimanemmo in silenzio, perché non c’era niente da dire... in un solo mese aveva cambiato la mia vita. Aveva preso il mio debole corpo insicuro e gli aveva dato una forma... ero tornata a vivere, ero tornata a sorridere, a provare sentimenti... forse non gli avevo mai fatto capire quanto tenessi a lui. L’avevo amato ogni singolo giorno per più di un mese... ma non glielo avevo mai detto. E mi chiedevo come potesse fare tanti sacrifici per me! Per me, che in realtà non gli avevo dato niente, se non la mia debolezza, perché la trasformasse in forza.
Mentre eravamo abbracciati, passai debolmente la mano sul suo collo e lasciai un piccolo bacio su di esso:
-Ho freddo...- sussurrai. Ma proprio in quel momento, a Dan squillò il cellulare: era William. Mentre parlava, ascoltavo con ansia le sue parole, perché mi aveva detto che la sorella di Kaitlin sarebbe tornata... quindi sapevo che quella serata sarebbe stata l’ultima passata fingendo di essere Kaitlin Connor. Per questo, quando sentii pronunciare il nome “Jasmine” al telefono, mi irrigidii e cercai di fare la massima attenzione alle sue parole. William lo avvertì del fatto che Jason e Jasmine erano bloccati all’aeroporto e non riuscivano neppure più a rintracciarli a causa di una tempesta... quindi io non avrei dovuto incontrarla, per il momento. Questo mi rincuorò leggermente, nascosi il lieve sorriso del quale mi sarei dovuta vergognare, anche se non durò per molto, visto che quasi subito ripensai al fatto che il giorno dopo comunque ci saremmo riviste. Non sapevo come reagire, avevo solo paura e una voglia incredibile di raccontare tutto a qualcuno, così che potesse aiutarmi, lasciarmi sfogare, ma soprattutto capirmi.
Fin da piccola avevo sofferto di gravi crisi d’ansia, mi venivano soprattutto quando mi sentivo sola e persa, quando mi sembrava che non ci fosse più niente di buono intorno a me e quando credevo che non sarei mai più uscita da una situazione. Cominciavo a non respirare e mi sentivo incredibilmente male, anche se non sapevo bene spiegarne il perché. E proprio così successe in quell’occasione; Dan con la solita calma mi fece sedere e cercò di calmarmi… aveva imparato a conoscermi e sapeva di me quei piccoli particolari dei quali nessuno si sarebbe mai curato. Non so cosa stesse pensando in quel momento, ma sembrava che mi capisse alla perfezione; non parlava e non mi chiedeva niente.
Ero seduta su quella panchina, davanti a me le macchine veloci e frettolose... era pungente e inaspettato il freddo di quella notte. Avevo gli occhi pieni di lacrime, gonfi per il pianto e le mani rosse per il freddo, appoggiate inermi sulle gambe. La mano di Dan sfiorò la mia ed io, senza guardarlo negli occhi, la strinsi, socchiudendo gli occhi. Perché era tutto sbagliato? Io non potevo rinunciare a Dan... lui mi aveva salvato nei momenti di debolezza, mi aveva dato ciò che nessun altro mai mi aveva offerto, ovvero il cuore. Io gli avevo dato il mio... ed ero disponibile a fare qualsiasi cosa per lui, da quanto sentivo il bisogno di ricambiare quello che ogni giorno faceva per me. Lo guardai teneramente negli occhi appena iniziai a sentirmi leggermente meglio:
-Scusami, Dan...-
-Va tutto bene. E puoi parlarne con me, davvero...-
-No, non  voglio e non posso. Ci sono tante cose che io stessa non so, che io stessa non ricordo! Non capiresti mai se…-
-Ti ha fatto così male?- chiese improvvisamente, con un tono di disprezzo
-Ho detto di smetterla-
-Devo saperlo… se avessi quell’uomo davanti giuro che lo ucciderei con le mie mani!- disse aggressivamente, colpendo il muro dietro di noi con un pugno -Oh, è possibile che le cose peggiori accadano sempre alle persone che non le meritano?!- cercò di calmarsi scuotendo la testa, per poi scostarmi una ciocca di capelli dal viso, addolcendosi -Dovresti parlarne, lo sai...-
Io di nuovo mi innervosii molto, mi faceva male la testa e riuscivo solo a piangere, non avevo energie per altro, così gli risposi urlando:

-Perché continui con queste domande? Ho detto che non ne voglio parlare!!!- buttai la testa fra le mani piangendo, cercando di rimanere calma... ma non ci riuscivo
-Katy, così non va. C’è un albergo qui davanti… vieni!-
-No, torniamo a casa... voglio stare sola, ti prego-
-No, stai troppo male... non voglio portarti a casa in queste condizioni- mi lasciai praticamente trasportare sulle strisce, stavo malissimo. Mentre stava per entrare, lo fermai quasi con violenza, con le lacrime che ancora mi rigavano il viso:
-Smettila, ti ho detto che non voglio entrare! Ho bisogno di stare sola... vattene! Non ho bisogno di te!- esclamai fuori di me. Non intendevo dirlo davvero, ma il mio equilibrio era completamente offuscato dal panico e dalla paura. Vidi gli occhi di Dan spengersi come non avevano mai fatto prima di allora... abbassò lo sguardo e allentò la presa sul mio braccio, lasciando che ricadesse debolmente sui miei fianchi. Ci fu un minuto di silenzio, quella frase tagliente mi aveva tolto il respiro, non sapevo perché lo avevo detto. Dan abbassò lo sguardo:
-Perché dici sempre così?- chiese fievolmente, fissando il cielo scuro sopra di noi. Non riuscii a rispondere... perché non avevo una risposta, in fondo. Incrociai le braccia intorno ai fianchi per il freddo, finché non trovai il coraggio di parlare:
-Non voglio che tu mi veda così... non voglio rimanere sola con te in questi momenti...-
-Perché? Dammi una buona ragione e giuro che ti riporto a casa senza neppure una parola... e poi potrai stare da sola- rimasi in silenzio, poi scossi la testa, fissando quegli occhi che amavo così tanto
-Perché fai tanti sacrifici per me? Perché non mi odi? Ti ho appena detto di andartene... e sei ancora qui... voglio sapere perché, Dan-
-Se qualcuno ti dicesse di smettere di respirare, tu lo faresti?- la sua risposta mi colpì più di quanto avesse fatto ogni sua singola parola finora. Continuai a piangere, un grosso lacrimone mi rigò la guancia destra. Dan sospirò, avvicinandosi:
-Vuoi davvero che me ne vada?-
-No...- ammisi fra le lacrime, buttando il viso fra le mani –No, non lo voglio...- sentii la sua mani sfiorarmi la schiena
-Avanti, entriamo...- cercai di ricompormi mentre prendeva la camera, quindi lo seguii senza dire una parola, quasi come se tutta la confidenza che avevamo non esistesse più... odiavo mostrargli la vera me. Lo odiavo... perché mi vergognavo di ciò che ero... e non volevo che Dan lo sapesse. Appena aprì la porta della camera, quasi mi lanciai dentro, visto il terribile freddo che avevo. Sentii la porta chiudersi dietro di me, ma non mi girai verso Dan. Tolsi il capello e lasciai ricadere i capelli sulle spalle, quindi sbottonai il giubbotto e mi sedetti sul letto, immobile e in silenzio, in mezzo alle lacrime
-Ti lascio un attimo sola... devo andare a parlare al telefono con una persona...- nel momento in cui lo vidi allontanarsi, capii quanto avrei voluto che rimanesse.
Mi lasciai ricadere sul letto senza forze: quella donna mi aveva fatto paura... era così spenta, così triste... così delusa. E le parole che aveva detto non mi avevano lasciato tranquilla: in fondo, avevo solo diciannove anni. Potevo fingere di essere grande abbastanza per sopportare tanti dolori, ma non lo ero.
Faceva così male. Strinsi le braccia intorno al mio corpo percosso da brividi, mentre le parole di quella donna non se ne andavano e continuavano ad affollare il mio cervello, martellanti. Stavo impazzendo? Ero solo stanca di stare male.
Subito andai in bagno e mi guardai allo specchio: ero pallida, avevo davvero freddo e le mia labbra viola tremavano... gli occhi rossi e il corpo ghiaccio erano una crudele dimostrazione di quanto fosse forte il mio dolore. Rimasi immobile per qualche minuto... cercavo di ricordare, e allo stesso tempo di dimenticare: volevo troppe cose, il mio cuore spingeva in due direzioni opposte... ma prima o poi si sarebbe spezzato.
E proprio in quel momento di debolezza, in quel momento di fragilità che mi aveva buttato ancora più giù, sentii bussare alla porta. 

 

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Capitolo 38
*** CAPITOLO 36 ***


-Avanti...- mormorai, asciugando le ultime lacrime amare
E non appena vidi i suoi occhi, ecco che ricominciai a vivere.
Fui felice, felice come mai di vederlo: non ero sola, non più così persa. Sorrisi con gli occhi offuscati dalle lacrime quando entrò nella stanza, richiudendo la pesante porta dietro di noi. Corsi ad abbracciarlo, piansi sul suo giubbotto dimenticando tutto il resto, dimenticando la paura e tutti i miei problemi
-Katy, ma... oh, sei gelata...- mormorò con la sua solita preoccupazione, poggiando le mani sulla mia schiena -E stai tremando…- sfiorò le mie guance pallid,e corrugando la fronte -Che ti prende?-
-Non... non lo so- balbettai, cercando io stessa di capire perché stessi così male -Non mi sento molto bene- mormorai con lo sguardo basso, cercando in realtà di trovare una scusa
-Oh signore, hai le mani gelate...- mormorò pieno di una dolce compassione -Non posso vederti così...-
-Passerà. Ora voglio solo scusarmi con te-
-Va tutto bene, Katy, tranquilla...- mi rassicurò, sedendosi sul letto proprio accanto a me -L’ultima cosa che devi fare è scusarti, d’accordo?- Mi accarezzò il viso e asciugò le mie lacrime, con il solito sguardo che sapeva umiliarmi per i miei errori, e allo stesso modo confortarmi per le mie sofferenze. I suoi occhi preoccupati mi fissarono per qualche secondo e quasi mi rimproverarono… sapevo cosa stava pensando di me. E aveva ragione. Non stavo bene, non ero ancora psicologicamente stabile e i suoi occhi splendidi cercarono di tranquillizzarmi, ma anche di ammonirmi:
-Cerca di riprenderti, Katy...-
-Non preoccuparti, non è grave... sto già meglio...-
-Avresti dovuto dirmi che stavi ancora così male, Kaitlin- il suo tono divenne severo, ma subito i suoi occhi si addolcirono, vedendo la mia espressione tanto stanca -Non farlo mai più, ti prego. Non posso vederti così…- sentii la sua voce rompere il silenzio che si era appena creato
-Di che parli?-
-Quello che è successo al ristorante... è terribile vederti stare tanto male. Non spaventarmi mai più così...- mormorò ancora nel buio della stanza, rischiarata solo dal leggero candore della luna, la cui luce passava dalle fini tende color porpora -Vuoi parlarne? Di quello che è successo, intendo. Katy, abbiamo tutta la notte... io sono qui e non vado da nessuna parte- amai quella frase con tutta me stessa, come se già non avessi lo stomaco in subbuglio a causa di quel ragazzo; se non fossi stata una bugiarda ipocrita, quelle parole mi avrebbero reso ancora più felice. Se non avessi mentito su tutto, mi sarei seduta e avrei raccontato a Dan ogni cosa, a partire dalle mie paure più segrete... ma non potevo spogliarmi della mia falsa identità. Tuttavia riformulò la domanda, come se cercasse di mettermi alla prova... per un secondo fui sul punto di scoppiare a piangere e di confessargli ogni singola cosa:
-Scusa ancora, solo che…- balbettai con insicurezza -Sai, è difficile ripensare a certe cose...-
-Nessuno ti costringe a parlarne, ma devi capire che ritrovare quella ragazza sarebbe importante. Che cosa ti ha detto?-
-Non lo so… dal momento che era malata, e si capiva piuttosto bene, avrei anche potuto pensare che stesse parlando a caso, ma... ma ha detto il mio nome. Ha detto cose che solo io sapevo e che...- mi fermai. Fui su punto di dire “che il mio rapitore mi sta cercando” ma quella notizia mi spaventava tanto quanto l’idea di accettarne la consapevolezza… non lo avrei ammesso, no. “Lui”, per quanto non conoscessi ciò che si nascondeva dietro a quelle lettere, non mi cercava davvero. Più mi terrorizzava il pensiero che qualcosa che non conoscevo si stesse avvicinando, più lo negavo a me stessa; ecco perché non dissi a Dan ciò che avevo saputo... volevo cancellarlo dalla mente, ecco tutto. Più volte avevo capito, nei sogni o nei ricordi che quell’uomo cercava qualcosa che avevo… ma non avevo idea di cosa potesse essere… mi avevano trovato in quella strada da sola, senza niente e nessuno. Ero esausta e stanca di farmi sempre le stesse domande. Mi sentivo come se dovessi frenarmi per cancellare i miei sentimenti, perché avrebbero fatto troppo male se li avessi lasciati andare.
E poi pensai: “Sam”. Chi era quella persona? Più volte ne avevo sentito il nome; non riuscii ad evitare di pensare alla casa di quella donna, il bigliettino, l’indirizzo. Ecco dove avevo sentito il nome Sam: il bambino dagli occhi blu come il mare. Eppure quelle erano state semplici visioni, in realtà non avevo fatto altro che stare sdraiata in ospedale, non mi ero mossa, se non nei più remoti angoli del mio cervello; che ruolo aveva quel bambino nella mia vita? Che sensazione orribile… tutto questo passò nella mia testa in pochi secondi, mentre i miei occhi rimanevano sul pavimento. In pochi secondi la mia testa sopportò tutti quei ragionamenti, tutta quell’angoscia. Dan mi guardava aspettando una risposta… non poteva capire cosa stesse succedendo dentro di me. Come sempre, finsi un piccolo sorriso, nascondendo la tempesta di sentimenti che mi stava attraversando il cuore:
-Non ha detto niente di importante, solo quello che ti ho già detto. Dan, so di aver avuto una reazione sbagliata, ma soltanto toccare quell’argomento mi…- dissi ricoprendomi di brividi -spaventa terribilmente. Sto sbagliando, lo so, ma non sono pronta-
-Se continui così non lo sarai mai- polemizzò Dan, sbuffando, come se tutti i miei problemi lo infastidissero. Il suo tono di voce cambiò, accese la piccola luce accanto al letto, allontanò il suo corpo dal mio e si risedette... socchiusi gli occhi per la sensazione di freddo e vuoto sia psicologico che fisico che il distacco da Dan mi aveva provocato. Balzai subito in piedi, cercando di capire perché mi avesse parlato tanto bruscamente:
-Cosa dovrei fare, Dan? Dimmelo, visto che tu sei quello che sa tutto e che non sbaglia mai! Oh, ma in fondo... in fondo chi vogliamo prendere in giro? Avanti, è normale che tu non capisca... non hai mai avuto una complicazione nella tua vita, vivi in una casa perfetta con dei genitori perfetti, una sorella perfetta eccetera eccetera... hai mai pensato al fatto che io non ce l’ho neppure una famiglia?!? I miei genitori sono morti... e io non ho niente. Solo incubi... e brutti ricordi. Ho perso tutto... tutto- mormorai con gli occhi lucidi, appoggiando la testa al muro. Ci fu un attimo di silenzio... il fatto che Dan non parlasse mi terrorizzava.
-Ehi, non ti stavo attaccando, Katy...-
-Odio quando ti comporti in questo modo!-
-Oh, qualcuno sta litigando!- sorrise dolcemente: per lui era tutto un gioco. O forse... beh, forse ero io la sciocca che prendeva le cose troppo seriamente quando una bella risata avrebbe solo aiutato. Sorrisi debolmente e gli tirai giocosamente un cuscino, addolcendo lo sguardo e asciugandomi gli occhi. Non riuscivo ad essere arrabbiata. No, non con lui. Non con i suoi occhi perfetti.
-Io ti capisco, ti capisco davvero. E sai quanto sei importante per me...-
Annuii debolmente, poi allungai le braccia verso le lunghe tende per aprirle leggermente, in modo da far entrare un po’ di luce:
-Dan...- sussurrai nel buio -Non sono vere quelle cose orribili che ti ho detto...-
-Lo so, Katy- rispose lui -Lo so-
-Oh, è tutto il contrario... non sai quanto tenga a te- sussurrai, piena di tutto quell’amore che avevo tenuto dentro per anni. Mi girai verso di lui e per qualche istante ci guardammo... di nuovo quegli occhi, quegli occhi in cui era riflessa una vita di cui essere fieri, una vita bellissima. Volevo essere parte di quella vita. Lo baciai, lo baciai, per la prima volta dopo un mese, di mia volontà; ero sempre stata scioccamente fredda per la paura scoprire nuove sensazioni, ma era arrivato il momento di rompere quella stupida barriera che mi impediva di rendere il nostro amore ancora più forte.
Con le mani tremanti cercai di aprire la cerniera del suo giubbotto, leggermente riscaldata dal tepore di quella stanza e dall’amore che provavo per la persona davanti ai miei occhi. Le dita lunghe accarezzarono la cerniera e la spinsero verso il basso, sfilando poi il giubbotto dalle sue braccia; e a quel gesto ricevetti subito un’irresistibile, adorabile risposta. Ci voleva coraggio, non era così facile per me, ma avevo intenzione di provarci comunque... volevo rompere quella paura legata al mio passato
-Katy...- mormorò Dan -Non sei costretta...-
-Lo so- sorrisi debolmente, con un filo di nervosismo nella voce. Le mie dita ancora striminzite per il freddo sfiorarono quelle di Dan, quindi spostai la sua mano sui miei fianchi e gli sorrisi con dolcezza, sperando di fargli capire che l’unica cosa di cui avevo bisogno in quel momento era il suo amore
-Non devi farlo per me- mi fermò di colpo, scuotendo la testa. Lasciai subito scivolare le mani lungo al mio corpo e abbassai lo sguardo, parlando con una sincerità che, come ben sapevo, non sarebbe dovuta venir fuori in una situazione instabile come la mia:
-Dan, io lo voglio, lo voglio davvero. Prima o poi dovrò smettere di temere qualcosa che tutti desiderano, no? E voglio che sia tu a farmi capire che non devo avere più paura... io mi fido, sono tutta tua, Dan. Quel blocco di ghiaccio che avevo proprio qui in mezzo al cuore- sussurrai stringendo la mano sul petto, con fare quasi sprezzante verso i miei ricordi -si è sciolto appena ti ho guardato negli occhi. Tu mi hai salvato, Dan Birmingham- confessai ciò che provavo con lo sguardo basso, la voce ancora tramante per il freddo che il tepore della stanza e il calore di Dan stavano lentamente alleviando. Ma ero stata sincera, una volta per tutte. Almeno sui miei sentimenti per Dan non avevo mentito.
Gli smeraldi davanti a me brillarono di una luce splendida e dolcissima, sulle sua guance spuntarono due fossette e un lieve sorriso mi illuminò il cuore. Mi baciò sussurrando il mio nome, mi strinse a lui e aggiunse con la sua splendida inconfondibile voce, un vero, profondo: “Ti amo”
Quelle parole. Nessuno me le aveva mai dette. Oh, suonavano così bene dette da lui! Sentii il cuore scoppiare per qualche secondo, i miei occhi si illuminarono di speranza… avevo sempre segretamente desiderato di sentire quelle due parole. E finalmente qualcuno mi amava… per la prima volta in tutta la mia vita. Mi emozionai, mi emozionai così tanto che sentii gli occhi lucidi riempirsi di lacrime, ma non piansi… sorrisi con il cuore in fiamme, invece, come ancora non avevo mai avuto l’opportunità di sentirmi prima di quel momento:
-L’hai detto davvero?!- sussurrai senza fiato, immobile davanti a lui
-Sì, e lo ripeterei all’infinito...-
-Oh, ti amo anche io, Dan!- mormorai entusiasta e felice di poter ricambiare una così dolce confessione -E mi dispiace tantissimo se ho rovinato la serata…-
-Non importa- mi rassicurò Dan, prendendo la mia piccola mano fra le sue -Credimi, stai rendendo la mia giornata migliore in questo momento- ridacchiò sulle mie labbra
-Voglio solo stare con te...- sussurrai, spengendo la grande luce della stanza e percependo il sorriso di Dan con i polpastrelli, grazie alle sue inconfondibili fossette
In quel momento c’erano solo i suoi occhi, solo il suo corpo e il suo splendido cuore. Nient’altro aveva importanza per me: volevo solo sentirlo vicino.
-Katy- mi fermò leggermente preoccupato -Aspetta, non conosco troppo bene la situazione e non vorrei...-
-Non c’è niente di scientifico- sorrisi, sdraiandomi sul grandissimo letto matrimoniale -Ho solo bisogno di qualcuno che tenga a me. Te l’ho detto, voglio che sia tu... e nessun altro-
Sorrise quasi soddisfatto, ringraziandomi con gli occhi per quelle parole che sapevo gli avrebbero sicuramente fatto piacere, lasciando una bacio sul mio collo. Il mio respiro si fece subito più pesante, strinsi con forza la sua mano a quel piccolo contatto, ma finsi di non aver provato niente. Amavo il suo modo di fare; sapevo che tutto ciò che cercava di fare era farmi sentire a mio agio; anche quando fingeva di non essere romantico, dimostrava quanto tenesse a me... nei suoi scherzi c’era sempre un velo di dolcezza, nei suoi rimproveri un velo di amore e nel modo in cui mi guardava il desiderio di rendermi felice.
-Ehi- mormorò Dan, accarezzandomi il viso e spingendomi a guardarlo -Guardami... sono solo io- sussurrò sulle mie labbra. Le sue mani sul mio corpo erano qualcosa di strano, qualcosa di nuovo... ma qualcosa di incredibilmente spaventoso. Avevo ancora lo stimolo di allontanarlo e non mi sentivo del tutto a mio agio, ma ero certa che a breve le cose sarebbero migliorate: il suo corpo era una minaccia, lo ammetto, ma non ne avevo paura. C’era una specie di retrogusto amaro dietro tutta quella dolcezza... un rancore nascosto, un segreto non confessato. Un piccolo lamento uscì dalle mie labbra appena la mano di Dan risalì il mio stomaco. Fu un secondo. Un lampo di luce, un attimo. Vidi un gigantesca figura nera sopra di me, delle catene, sentii un urlo... un tuono, un lampo, una frazione di secondo e tutto fu finito. Il mio corpo fu completamente percorso da brividi, quindi accorgendosene Dan mi baciò con calma, lasciandomi il tempo per abituarmi a quelle nuove sensazioni:
-Shh, che ti prende?- chiese dolcemente Dan, passando i polpastrelli sulle mie labbra carnose e rosse di fuoco. Non risposi, aprii gli occhi e osservai con dolcezza le sue iridi verdi, facendo svolazzare le lunghe ciglia e decidendo di sfidare me stessa:
-Continua- Il silenzio cadde fra di noi. Nel buio sentii le fossette di Dan sulla sua guancia leggermente accaldata, sorrisi al pensiero di renderlo felice. E volevo davvero che succedesse, ma… ma avevo scordato un piccolo particolare: non ero Elisabeth Brady, no. Oh, non ero Bethany Johnson… non ero una fortunata ragazza qualsiasi, ecco tutto. Infatti, non appena tentò di aprire i miei jeans, tornai alla realtà… non sarei mai riuscita a nascondere i miei segreti. Non ci avevo pensato. Mi ero sentita bella e amata per qualche minuto… mi sarei dovuta aspettare un po’ di tristezza, non ero abituata a sentire il cuore battere forte. Sussultai non appena le sue dita aprirono la zip e, con una piccola smorfia, sfiorai la sua mano e l’allontanai:
-No- borbottai. Io non volevo spogliarmi. La mano di Dan si ritrasse immediatamente, i suoi occhi mi guardarono pieni di compassione
-Non posso- ribadii con sicurezza. Accesi la debolissima luce della lampada sul comodino, che ci illuminava appena, e devo dire che fui piuttosto confortata dal vedere nuovamente e chiaramente gli occhi di Dan. -Non posso, davvero...- accarezzai la sua mano sperando di essere scusata, ma lo allontanai
-Qual è il problema?- mi fissò con fare interrogativo -Ti prego, sii sincera... sto cercando di conoscerti, di capire... ma se non mi lasci prendere confidenza non posso aiutarti-
-Non sei tu, Dan. No... io non posso, mi dispiace... stava andando tutto bene, ma...-
-Ma...?!-
-Oh...- sospirai, buttando il viso fra le mani e prendendomi il mio tempo per parlare -Vedi, c’è qualcosa che non sai di me…- mi guardò interrogativamente, così precedetti la sua possibile domanda:
-Non lo sa nessuno… nemmeno tu dovresti scoprirlo, ma sapevo che sarebbe successo, quindi…- appoggiai le mani sui miei pantaloni e lo guardai con gli occhi lucidi e imbarazzati; ero pronta a mostrarmi in tutta quella vergogna che il mio corpo mi faceva provare
-Katy, aspetta…-
-No, non dire niente. Non posso nascondertelo…- sospirai e mi tolsi come prima cosa la maglia. Inizialmente Dan non fece alcuna espressione, non c’era niente di strano, infatti mi rivolse uno sguardo un po’ perplesso, ma mi voltai subito, mostrandogli la schiena. Le mie cicatrici. Sarebbero rimaste… per sempre. Erano leggermente più chiare di tre anni prima, ma ancora si vedevano benissimo, ed erano proprio su tutta la pelle. Non mi ero mai spogliata davanti a nessuno prima di quel momento. Era sempre stato il mio segreto e avrei voluto che lo fosse rimasto per sempre, ma sapevo che un giorno avrei dovuto condividerlo con qualcuno; per la prima volta, sentii Dan in silenzio. Non disse niente, mi chiedo ancora quale fu la sua espressione; so solo che mi sfiorò la schiena e, appena sentii il sui contatto, senza neppure voltarmi sfilai i jeans… sussultai io stessa alla vista delle mie gambe, come ogni singola volta che mi guardavo allo specchio. Sentii lo stomaco contorcersi, non potei fare a meno di far uscire qualche lacrima, ma non volevo voltarmi, non volevo guardare Dan. Nessuno parlò, ci fu un infinito minuto di silenzio… le gambe erano completamente segnate. Avevo eliminato i tatuaggi con un intervento, ma la pelle era ancora segnata, le cicatrici ben visibili e sparse su tutta la gamba e la coscia… anche quelle non se ne sarebbero andate:
-Poco fa mi hai chiesto se mi avessero fatto tanto male: e questa è la mia risposta. Questa è la prima volta che parlo di queste cicatrici, ma sento di non poterne fare a meno- ammisi con tono debole
-Katy, ma queste...-
-Sono frustate- dissi quelle parole tutto d’un fiato, e subito realizzai che erano vere, che era successo davvero. Riuscii a ricordare quell’assurdo dolore, rabbrividii e Dan, accorgendosene, mi strinse la mano. Fui abbastanza coraggiosa da girarmi verso di lui; cercai un contatto con i suoi occhi lucidi e sbattei le lunghe ciglia, cercando di non far uscire le grosse lacrime che erano sul punto di strabordare dai miei occhi rossi:
-Ora capisci perché il corpo dell’uomo mi spaventa, vero?- mormorai con gli occhi bassi -Ho sofferto tanto, troppo...- gli occhi facevano davvero male, trattenere un pianto era davvero un impresa. Dagli occhi gonfi due grandi lacrime rigarono le guance; non potei più guardare Dan negli occhi, così mi voltai. Di nuovo ci fu un momento di silenzio, io rimasi immersa nel mio dolore e nei miei piccoli ed intimi ricordi che quel momento mi aveva suscitato, quando la mano di Dan sfiorò la mia schiena, provocandomi brividi per tutto il corpo; quel contatto mi fece piangere ancora di più:
-Scusa. So che non avrei dovuto dirtelo, è davvero orribile... e se tu non mi vuoi più e…-
-Shhh- mi immobilizzò con dei dolci baci sul collo, appoggiando una mano sulla mia pancia e cercando di togliere l’attenzione da ciò che avevo detto che, lo avevo capito, gli aveva tolto il fiato -Questo non cambia le cose, piccola... sei bellissima, sei perfetta... e ti amo da impazzire. Va tutto bene, smettila di piangere- Singhiozzando gli saltai al collo e sentii il suo calore invadere il mio corpo, il suo profumo confortare il mio pianto
-Davvero?- mi interruppe con tono debole -Non vorrei parlarne, ma... è successo davvero? Lo ricordi?- “Davvero?” mi interrogai. Sì, davvero. Avevo confessato a me stessa un grande segreto
-Sì- mormorai -Purtroppo è sempre stato così, il mio corpo non è mai stato rispettato e... e venivo picchiata, succedeva sempre quando...-
-Basta- mi interruppe Dan, stringendomi con forza -Shh, non pensarci più... mi dispiace tanto. Oh, ti assicuro che non lascerò che tu soffra così...- quasi imprecò, guardando il soffitto della stanza, mentre mi teneva stretta al suo petto
-Ora è tutto finito, Dan- mormorai, baciandolo delicatamente. Piansi ancora sulla sua spalla nuda, piansi come se fossi stata sola; aspettò che mi fossi calmata per parlare, stringendomi la mano:
-Non hai bisogno di difenderti con me- sussurrò scostandomi una ciocca dal viso e baciandomi teneramente -Odio l’idea che qualcuno ti abbia fatto del male-
-Lo so, io ti amo e mi fido ciecamente: credo che sia abbastanza- Mormorai baciandolo e lasciando che il suo cuore così buono curasse le mie ferite e che il suo grande e vero amore raccogliesse i pezzi del mio piccolo cuore spezzato. Quello che successe quella notte fu importantissimo perché per la prima volta ricordai con chiarezza le violenze che avevo subito, vidi alcune immagini confuse, mi resi conto di quante cattiverie avessi subito, anche se ancora non ero riuscita a visualizzare la faccia di colui che si presentava come l’artefice del mio dolore… sia corporeo che morale. Ma superai la mia paura quella notte, grazie a Dan, grazie a quel ragazzo meraviglioso accanto a me. Come temevo che sarebbe successo, non riuscii a trattenermi dal raccontargli ciò che Camilla provava, ciò che Camilla aveva ricordato e non ciò che Kaitlin faceva o sentiva… e cambiare punti di vista ed essere me stessa sarebbe stato un errore, ma con lui non potevo fingere… perché non era Kaitlin, ma era Camilla Ori, che lui ne fosse consapevole o no, ad essere innamorata. Ci fu un momento il cui fui sul punto di confessargli tutto e rischiai di compromettere tutto quanto; eravamo abbracciati, avevo gli occhi socchiusi mentre assaporavo tutto l’amore che provavo per quella persona meravigliosa... i miei polpastrelli sfioravano la sua schiena e il calore del suo corpo invadeva il mio, quando la sua voce sicura non interruppe il silenzio:
-Voglio solo che tu sia completamente sincera con me, Kaitlin-
-Lo sono, Dan...- sussurrai, appoggiando la guancia accaldata sulla sua spalla
-Lo so... ma ricorda: qualsiasi cosa, qualsiasi problema... devi dirmelo, d’accordo? La nostra relazione non sarà facile, ma non voglio che finisca, quindi dobbiamo fare una specie di lavoro di squadra: io mi impegnerò a capirti e ad aiutarti, ma tu dovrai essere sincera. Dici che vuoi dimostrarmi che mi ami... beh, allora non c’è modo migliore di farlo: non mentire con me, ti prego- quelle parole mi sconvolsero, mi colpirono il cuore: ero un mostro. Rimanevo in silenzio mentre tutto degenerava intorno a me, mentre la mia fine si avvicinava... conoscevo tutti i pericoli a cui andavo incontro, ma avevo così tanta paura di affrontarli che tendevo a fingere di non sapere... a fingere di non vedere e di non sentire. Amavo Dan così tanto che faceva addirittura male: perché si era impossessato così violentemente del mio cuore? Non ero una ragazza che poteva permettersi di perdere la testa per amore... perché una persona una persona sull’orlo di un precipizio non può permettersi di saltare su una gamba sola... se fossi caduta? Il mio carattere già debole e spaventato doveva cercare di rimanere fermo e deciso, come il mio cuore... come potevo fingere se avevo deciso di dare tutta me stessa in mano ad un altra persona? Come potevo rimanere in equilibrio se non riuscivo a guardare dritta? Dan era il mio tutto... e quella meravigliosa storia d’amore era la mia disgrazia: non riuscivo ad aprire gli occhi, non riuscivo a capire, non riuscivo a rinunciare a lui. Insomma, tutti questi pensieri affollarono la mia mente in un paio di secondi; non riuscii a trattenere i miei sentimenti e lo guardai profondamente negli occhi:
-Dan... devi sapere una cosa. C’è davvero qualcosa che devo dirti... io...- squillò il suo cellulare. Destino? Forse. Erano le quattro di notte
-Scusa, bellezza...- si allungò sul materasso per prendere il cellulare e rispose. Queste furono le parole che sentii pronunciare da Dan:
“Pronto?... sì, sono io... Kaitlin. Sì, sono con lei... mi scusi, ma chi parla? Mi scusi, la sento davvero male... vuole parlare con Kaitlin?-
-Chi è?- sussurrai un po’ preoccupata, vedendo l’espressione seria di Dan, che scosse la testa, come per farmi capire che non aveva idea di chi fosse al telefono
-Si, certo, ma... posso sapere il suo nome? ... ah, ah... dove? Scozia?... Sì, io sono Dan Birmingham... diciamo di... sì, sono il suo ragazzo... può dirmi chi è lei?... Scusi, non la sento... pronto?!?!- mi guardò interrogativamente -Scusi, ma è pieno di interferenze, non sento nulla... le ho chiesto il nome. No, scusi, ma voglio sapere il suo nome... come ha avuto il mio numero? Pronto? Pronto?- Dan scosse la testa e riattaccò
-Chi era a quest’ora?-
-Ehm, non lo so... sembrava un ragazzo, ma si capiva malissimo, davvero: ha detto di conoscerti, chiedeva se stavi bene perché sapeva che eri tornata... non so come abbia il mio numero, ma mi ha chiesto se ero con te; parlava ma non capivo niente, però ha detto qualcosa riguardo alla Scozia. Dice di essere un tuo vecchio amico...-
-Non ho vecchi amici- risposi bruscamente, piuttosto spaventata da quella chiamata -Non mi piace questa storia...- mormorai, rannicchiandomi sotto le coperte, sul petto di Dan, che mi tranquillizzò con un bacio sulla fronte:
-Che vuoi che sia, Katy! Sarà stato un ragazzo che conoscevi da bambina e che voleva sapere di te... proveremo a richiamarlo domani, ok? Ah, a proposito... di cosa stavi parlando?-
-Ehm... non ricordo...- finsi uno sguardo confuso, senza trovare il coraggio per parlare
-Ah, dovevi dirmi qualcosa!-
-Oh, non me lo ricordo nemmeno più... forse non era importante. Te lo dico domattina, se mi viene in mente-
-Ok, tranquilla... ora dormiamo. Va tutto bene?-
-Sono in paradiso...- risposi con occhi sognanti, rimanendo abbracciata a lui, che sorrise soddisfatto. Socchiusi gli occhi con un sorriso stampato sulla faccia... ero felice, stranamente... e quella sensazione, provata così poche volte, mi stupiva sempre.
Mi svegliai abbastanza presto, ma non aprii subito gli occhi… ebbi come una terribile paura di ritrovarmi in ospedale, in quel banale e triste luogo, nel quale non ero niente più che una delle tante menti da curare.
Sentii il sole che mi scaldava una guancia, e ricordo che ragionai sul fatto che il calore proveniva da destra, e la mia finestra in ospedale era a sinistra.
Lentamente, allungai una mano di lato, e riconobbi il comodino di legno della camera di albergo. Passai la mano sulla mia pancia e mi accorsi di non avere nessun camice… non era stato un sogno. Aprii lentamente le palpebre e vidi la stanza dell’albergo, tutto era meravigliosamente tranquillo e in ordine.
Dopo aver dato un’ occhiata alla stanza, allungai la mano e sorrisi, posando lo sguardo sull’artefice della mia felicità: Dan. Che bel nome, il solo sentirlo pronunciare mi faceva venire le farfalle nello stomaco, solo sfiorarlo causava un’esplosione di emozioni e sentimenti dentro di me che non saprei neppure descrivere! Era un angelo, il mio angelo... per me c’era solo lui, di tutto il resto non mi importava.
Raccolsi i  miei vestiti e li piegai su una poltrona, poi mi rimisi l’accappatoio e andai in bagno; mi sentivo bene, ero soddisfatta e rilassata, per quanto ancora leggermente scossa da quello che era successo il giorno precedente.
Feci una doccia veloce, ma, quando stavo per uscire, vidi la porta aprirsi leggermente. Il vetro era appannato, non potevo vedere bene, ma sentivo un rumore di passi; pensai che fosse Dan e sorrisi, credendo che volesse entrare nella doccia. Poi sentii delle voci, come un leggero brusio. Tesi l’orecchio, sicura di aver sentito male:
-Dan? Sei tu?- Non sentii nessuna risposta, mantenendo la calma mi ripulii dalla schiuma e spensi l’acqua. Nessun rumore. Immaginai di aver sentito male… mi affacciai dalla parte più bassa della doccia, ma non vidi niente; mi ero solo fatta suggestionare, mentre in realtà sapevo che non c’era nessuno. Ricominciai a canticchiare e riaccesi l’acqua, certa di essermi spaventata per niente.
Ma, dopo nemmeno un minuto, sentii un rumore piuttosto forte, come se la porta fosse sbattuta, di nuovo mi irrigidii e fui di nuovo costretta a spegnere la doccia:
-Dan? Sei sveglio?- Nessuno rispose. Chiamai più volte, poi cercai di calmarmi, anche se mi era molto difficile. Ricordai ciò mi avevano insegnato i dottori al centro ricreativo, così mi sedetti nella doccia, lasciando l’acqua aperta, per non far sì che la mia mente si inventasse rumore inesistenti. Infatti mi succedeva spesso nei primi mesi, quando ancora con difficoltà riuscivo ad emettere suoni, di sentire voci e rumori spaventosi, che in realtà erano frutto della mia immaginazione o, nel mio caso, dei miei ricordi… ecco perché molto spesso, quando mi trovavo in una situazione difficile, tentavo di canticchiare ad alta voce, restando però vigile con gli occhi. Mi sedetti nella doccia e misi una mano sul cuore, chiudendo gli occhi... ma non potevo stare calma. No, io ero certa, certa che ci fosse qualcuno in quella stanza. Sentivo dei passi, aumentavano, diventavano più forte, più decisi, più minacciosi. Cercai di concentrarmi sul mio battito, sperando di estraniarmi dal resto… respirai profondamente e iniziai a contare i battiti: uno, due, tre, quattro... “No, troppo veloce, troppo veloce!” mi rimproveravo, cercando di calmare il respiro. Dovevo stare attenta, dovevo fare attenzione al mio respiro, era ancora presto per rischiare di farmi del male per l’ennesima volta. Con coraggio aprii gli occhi: non c’era niente. Mi resi conto che il mio comportamento era infantile, pensai a quello che mi aveva provocato il fatto di allontanarmi dalla conoscenza del mio passato e decisi che dovevo imparare a crescere e a prendermi le mie responsabilità; mi feci coraggio e con un sospiro aprii la doccia. Serrai forte gli occhi. Fortunatamente tutto era calmo, la porta chiusa a chiave. Sorrisi fra me e me, soddisfatta dei progressi che avevo appena fatto.
Ma ecco che sentii la porta scricchiolare. Dallo specchio la vidi aprirsi leggermente; con calma, senza farmi prendere dal panico, la richiusi a chiave... forse mi ero solo dimenticata di girare la serratura. Accesi il phon, finché non mi accorsi, un paio di minuti dopo, che la porta si era aperta di nuovo:
-Dan, sei tu?- Silenzio
-Dan?- Silenzio
La porta si aprì ancora un po’, cigolò e fui certa di ciò che vidi nello specchio. Rimasi in silenzio, chiusi gli occhi. Respirai lentamente.
Ed ecco che sentii una voce. Non una voce qualsiasi, no. Era una voce agghiacciante, una voce mostruosa, minacciosa... mi faceva così paura che cercavo di non ricordare a chi il mio cervello mi rimandasse. Mi gelò il sangue a sentirla, un brivido veloce mi scorse per tutto il corpo, sentii il cuore sobbalzarmi in fretta, il battito aumentò. Ed ecco che lo sentii. “Camilla”. Conoscevo quella voce... la conoscevo bene. Ricordai tutte le notti passate a piangere sotto le coperte, a tapparmi le orecchie, ad urlare sperando di non sentire quella voce... la mia malefica voce. Non era altro che la mia, ed era questo a farmi paura. Perché? Beh, perché era di fatto la voce di una persona che non conoscevo, che mi spaventava e ogni singolo giorno mi minacciava cercando di mangiarmi dall’interno. D’istinto mi misi l’accappatoio... sapevo che era tutta immaginazione. Eppure avevo una paura tremenda e non sapevo che fare.
Cercando di mantenere la calma, tentai di ricordare tutti i consigli e gli insegnamenti dei miei dottori, dei purtroppo numerosi dottori che avevano cercato di risolvere la mia malattia, ovvero la mia testardaggine. Tentai di far finta di nulla, ma poi vidi la porta aprirsi di un millimetro. Si mosse la maniglia. “Camilla...” ancora quella minaccia. Quella voce mi chiamava, mi voleva. Ed io non volevo andare da lei, non volevo seguirla. Trattenni il respiro, gli occhi socchiusi, immobile.
“Camilla!” urlò. Era un urlo, la mia voce interiore era arrabbiata. Quella bambina mi chiamò con quell’urlo infastidito e sentii tutto l’orrore di quel suono farmi tremare. Mi accorsi di un ulteriore movimento della porta e di colpo si aprì ed io la vidi, io giuro che la vidi.
Era lì, quella bambina. Con il suo vestito bianco e i suoi lunghi capelli castani. Era arrabbiata. Mi odiava.
D’istinto, con un urlo chiusi gli occhi e mi buttai in terra. Scoppiai a piangere, completamente persa.
E di colpo tutto finì. Le mie orecchie si stapparono, sentii l’orologio del bagno muoversi meccanicamente, dei rumori fuori dalla porta:
-Kaitlin! Che ti prende? Va tutto bene?- Dan! Scoppiai a ridere fra le lacrime non appena sentii la sua voce. E la porta era chiusa. A chiave.
Aprii in fretta ed ecco che lo vidi davanti a me: i suoi occhi verdi mi fissarono come se già avessero capito tutto ed io lo abbracciai con tutte le mie forze, continuando a far scendere lacrime sulle guance. Aveva capito... conosceva Camilla Ori più di quanto io stessa facessi. Sapeva già tutto di me.
-Katy, calma, calma, va tutto bene. Shhh, non c’è niente. Apri gli occhi, non è successo nulla- sussurrò stringendomi e accarezzandomi dolcemente la schiena.
-C’è una bambina in bagno- Non avrei dovuto dirlo, quelle parole mi terrorizzarono uscendo dalle mie labbra, ma non mi spaventarono mai tanto quelle che dissi subito dopo -C’è una bambina in bagno e c’è anche un uomo... lui vuole catturarla, vuole farle del male- Di che accidenti stavo parlando? Io stessa mi immobilizzai, tappandomi la bocca:
-Oh, scusa, non so che mi prende...- mormorai fra le lacrime
-No, no, piccola, non c’è nessuno; siamo solo tu ed io in questa camera- mi rassicurò, appoggiando le mani sul mio viso
-Lei ha detto il mio come! Ha detto Cam… cioè Katy… e poi è entrata, l’ho sentito, io…- stavo singhiozzando fra le sue braccia, non volevo aprire gli occhi, così Dan capì che prima di tutto doveva tranquillizzarmi, quindi mi dette un bacio sulla fronte e con la sua voce sicura mi sussurrò:
-Ti fidi di me?- annuii debolmente, calmando il respiro -Piccola, siamo soli...-
-Va bene, va bene...- aprii gli occhi lentamente, quindi sorrisi sollevata -Lo so, sono una stupida...- Dan aveva un’espressione preoccupata mentre gli raccontavo ciò che mi era successo, avevo come l’impressione che non mi avesse detto tutto quello che pensava di me e di quei problemi che da poco aveva scoperto che avessi. Dopo una decina di minuti mi calmai, ci sedemmo sul letto e cercò di farmi rilassare, cambiando argomento, per quanto mi ero resa conto di quanto fosse rimasto frustrato dal mio comportamento anormale. Parlammo di noi, di quel pazzo amore che tanto spaventava entrambi e di quella meravigliosa notte che mi aveva regalato, di quelle ore che non avrei più dimenticato e che avrebbero reso Dan ai miei occhi la persona più  buona al mondo. Mi aveva capito. Mi aveva compianto e amato, mi aveva dato tempo... e nessuno si era mai comportato così con me prima, ecco perché gli ero e gli sarei stata in seguito immensamente grata. “Grazie” avrei voluto dirgli “Grazie per essere diverso”.
-Vorrei trovare le parole giuste- mormorai in completa sincerità -ma non dirò niente, perché credo di averti detto abbastanza stanotte. Quello che hai fatto per me è stato semplicemente magnifico... e... e tutto quello che ci siamo detti stanotte... beh, spero che non lo dimenticherai-
-No... ovviamente. Ed ora che mi hai fatto questo meraviglioso regalo... sai che non mi staccherò più da te, vero?- rise con la sua solita dolcezza che ero riuscita ad estrapolare dal suo carattere sfacciato e sicuro -E sai bene cosa voglio dire... mi sei sempre piaciuta da morire, ma ora quello che provo è anche più forte, quindi preparati perché pretendo di stare con te ogni giorno...-
Oh, non c’era nessuno problema per me... stare con lui era tutto ciò che volevo, ovvero l’unica cosa che mi rendeva felice. Tuttavia, quando fui completamente calma e dopo che ebbe verificato che in bagno non ci fosse davvero nessuno, decise di comportarsi come d’altronde avevo sempre temuto che si comportasse, ovvero come una persona matura che voleva davvero aiutarmi. Disse che avrebbe parlato con i suoi genitori, ma solamente con loro, perché avrei dovuto cominciare delle sedute con uno psichiatra. E aveva solo ragione, ma io ne avevo paura. Il mio cervello non era sano e non stavo assolutamente bene, però non potevo permettere che un esperto capisse i miei segreti, perché erano troppi... ed io ero troppo debole per nasconderli bene. La verità era che ero stanca di mentire, ma non potevo essere sincera... e nel frattempo il pericolo si avvicinava... ogni secondo facevo un passo verso il burrone. Un grandissimo nuvolone grigio si stava creando proprio sopra di me... sarebbe scoppiata una tempesta a breve: ed io fingevo di non saperlo. Appena il pensiero mi sfiorava, lo allontanavo... ma non potevo eliminare i problemi... potevo solo ritardarli. Prima o poi sarebbero arrivati comunque.

 

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