Diagnosi: Shannonite Acuta di shanna_b (/viewuser.php?uid=41450)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** IERI ***
Capitolo 2: *** OGGI - parte prima ***
Capitolo 3: *** OGGI - parte seconda ***
Capitolo 4: *** DOMANI - parte prima ***
Capitolo 5: *** DOMANI - parte seconda ***
Capitolo 1 *** IERI ***
IERI
Tutto
comincia
abbastanza per caso, come tante volte capita nella vita. Sei sola in
casa,
pigli il telecomando e inizi un frenetico zapping per i canali
televisivi. Al
solito non c’è niente d’interessante,
specialmente se è domenica pomeriggio e
il calcio imperversa dappertutto, accompagnato da film
d’annata, cartomanti,
televendite e domenichein. Ti chiedi come fa la gente a rimanere ore ed
ore
incollata a quella inutile scatola. Quando la accendi, a te
l’unica cosa che viene
in mente è massacrarla con una mazza da baseball.
Improvvisamente
intravedi dei fotogrammi: degli uomini che passano in mezzo a delle
bandiere
rosse che si muovono al vento. Ti sei fermata senza volere su MTV e
quello è un
video musicale, uno dei tanti, a rotazione. La canzone non ti dice
niente, ma
il ragazzo bruno con la barba che passa ogni tanto è
decisamente uno schianto,
lo trovi anche molto meglio di quello con gli occhi azzurri che canta
che non è
malaccio nemmeno quello.
La storia
che
sta alla base del video chissà qual è, pare
ambientato in Cina o giù di là.
Perché mai? E perché alla fine
c’è un duello tra degli pseudo samurai che poi
sono sempre quelli che suonano? Ma… vallo a sapere, non
c’è mai fine alle
follie dei cantanti rock!
Nella coda
del
video, trovi il responso atteso e la didascalia recita: “30
SECONDS TO MARS”,
“From Yesterday”, “Regia: Bartholomew
Cubbins.”
Boh.
Ti chiedi
chi
mai possano essere. Mai sentiti, mai visti. Un gruppo meteora?
Probabilmente
sì. Chi lo sa.
All’improvviso
ti rammenti che la biancheria da stirare aspetta impaziente. Irritata e
di
malavoglia spegni la
TV
e ti avvii per le scale, come un condannato a morte si avvia alla
forca. Che
domenica di merda!
E mentre
attacchi la spina del ferro da stiro alla presa e
speri in un intervento divino che incenerisca
tutta la biancheria da stirare da qui
all’eternità, ti rimane solo un pensiero
che ti consola: però… carino quel
ragazzo…
Il
mattino dopo è lunedì e arrivi in ufficio
già trafelata, alle otto e mezza,
reduce da mezzora di coda in tangenziale, e, mentre il capoufficio ti
sta
trascinando all’ennesima noiosa riunione, la tua collega ti
dice, come se fosse
la cosa più normale del mondo: “’Scolta,
ma tu sai qualcosa dei 30 Seconds to
Mars?” E come, no?
Non
fai in tempo a risponderle: ti sei già scordata di aver
visto il video e per
tutta la riunione non fai a meno di pensare che l’unica cosa
che t’interessa di
Mars sarebbe una bella invasione aliena con tutti i crismi, per
interrompere il
tuo inservibile capoufficio
o un’intera
confezione da dodici di dolcetti Mars da divorare in barba ai brufoli e
alla
ciccia incombente. Nel frattempo mediti anche su come legare tra loro,
attraverso la telecinesi, i lacci delle scarpe del consulente che parla
passeggiando su e giù, per farlo inciampare e mandarlo a
gambe all’aria, ed
ecco che ti arriva improvvisa l’illuminazione, come non
è venuta nemmeno a
Buddha.
Ma certo:
30
Seconds to Mars = quel brunetto fantastico che passeggia in mezzo alle
bandiere.
Come hai
fatto
a scordarlo?
La
prima cosa che fai mentre arrivi in ufficio è andare dalla
tua collega quasi
correndo, alzando una folata d’aria che fa volare una pila di
fogli sulla sua
scrivania: “I 30 Seconds to Mars sono per caso quelli del
video cinese dei
samurai, guerrieri, quel che sono…?” le chiedi,
quasi in apnea.
“Cerrrrrrto.”
Ti dice lei con un sorriso a trentasei denti perfetti, fregandosene dei
fogli
che volano per la stanza. “Questo video.”
Perché
lei ce
l’ha già sul suo PC, scaricato fresco fresco da
YouTube ed è dal mattino che lo
sta esaminando fotogramma per fotogramma, catturata dagli occhi azzurri
del
cantante.
“E
non solo
quello!” aggiunge furbescamente, mentre clicca su un qualche
file, “Ma anche
questo…” e ti fa vedere ‘The
Kill’…”E questo…” e
ti fa vedere ‘From Yesterday’
versione film.
…
e in quel momento tu non capisci più niente…
…vedi
solo il
brunetto in smoking, vestito di nero, che passeggia tra le bandiere,
che suona
la batteria, che bacia quella stronza uscita dalla doccia, che
passeggia per il
corridoio dell’albergo con quello strano berretto in testa,
che è inginocchiato
davanti al piccolo imperatore, che vede il cinese con la sua donna, che
scende
dalla limousine con la fascia sui capelli, che... che…
che… che è lì… bello
come il sole, unico.
Per
tutto il giorno non fai che pensarlo: è che hai da fare una
montagna di lavoro
e il tuo capoufficio ti sta stranamente sempre tra i piedi, altrimenti
perquisiresti tutta internet da cima a fondo per trovare notizie su di
lui.
Ma un
venerdì
pomeriggio in ufficio non c’è nessuno, solo tu e
la tua collega: fuori c’è il
temporale, il vento fischia attraverso gli infissi delle finestre, ogni
tanto
si sente un tuono, il tuo ufficio sembra l’antro delle
streghe, ma al posto del
calderone fumante c’è il PC. Iniziate la ricerca.
Santo
Google e santo subito chi lo ha inventato: basta mettere nel campo
apposito ciò
che si cerca ed esce tutto, in un baleno!
“30
Seconds to Mars” – click.
Dal vaso
di
Pandora dei siti internet, magicamente compare una lista:
l’incantesimo è
riuscito ed una valanga di notizie riempie lo schermo.
Una tra
tutte:
Shannon.
Il bruno
si
chiama Shannon. E il cantante Jared e sono fratelli. I Leto. Shannon ha
trentotto anni. Due più di te. Non li dimostra per niente,
mentre tu sì e già
lì ti senti una merda.
Non
è sposato,
ma è un tombeur de femme. Qualcuno insinua che sia gay,
visto che le fanfiction
slash su di lui e suo fratello si sprecano. Flirt? Mah… una
certa Audrina e
forse la sorella del chitarrista dei 30STM, modella famosa, tale Ivana.
Ma cosa
importa? La tua fantasia è già partita al
galoppo. In men che non si dica, il
tuo hard disk pullula di centinaia di sue foto in cui lo vedi in tutte le
salse:
bruno, biondo, capelli lunghi, corti, rasati da un lato, senza barba,
con il pizzetto,
con i baffi, con il cappellino, con il berretto da baseball, al
ristorante col
fratello, in barca mentre si butta in mare, in posa con i 30stm, nelle
interviste, mentre ride, più spesso serio, qualche volta
arrabbiato.
Sempre
unico.
Con quegli
occhi
di un colore e di una forma stranissimi, non catalogabili,
indefinibili.
Straordinari.
E i suoi
tatuaggi, come non notarli? Madonnina mia, quello che ha sul centro
della
schiena, sotto la nuca, ti mette i brividi addosso… e i suoi
muscoli, che dire?
Accidenti, dovrebbe suonare vestito con una corazza, non seminudo
così. Rischi
la paralisi cerebrale, a vederlo.
E da
internet,
con i torrent e per la gioia della SIAE e delle case discografiche,
vengono giù
uno dopo l’altro tutte le canzoni dei 30 Seconds to Mars, e
già che ci sei
anche le inedite e quelle dal vivo, e così scopri che non
è nemmeno tanto male
come musicista e tu, che da sempre hai un debole non troppo nascosto
per i
batteristi in generale, cadi definitivamente nella trappola.
E la porta
della
trappola si chiude sopra di te.
E sei
perduta.
Ti
innamori.
Non puoi
fare
altro.
La tua
vita in
fondo non è malaccio, non hai grossi problemi economici e la
tua famiglia è
come quella dei telefilm, un marito, un figlio, un pesce rosso e un
cane, ma ci
manca sempre il brivido. E il brivido ti viene dato pensando a lui.
Innamorandoti di lui. E` una piccola sfida a tutto e tutti.
Con la tua
collega
fai dei poster con il plotter e li appendi in bagno, ti fai il
calendario
personalizzato, lei di Jared, tu di Shannon, e cominci ad interessarti
ai loro
concerti. Poi non ci vai perché hai impegni famigliari e
lavorativi troppo
stretti e ti sembrerebbe di essere la madre di tutte le Echelon
(così si
chiamano le loro fans, carino, no?) a metterti in coda davanti
all’entrata del
locale per ore, fin dal mattino, come fanno tante, anche se lo desideri
ardentemente. Non
solo il concerto, ma
anche Shan (ormai già lo chiami così, come se lo
conoscessi, e cominci a prenderti
delle libertà). E forse è peggio
perché andando ai concerti almeno ti faresti
un’idea adeguata di quanto è
irraggiungibile quest’uomo, circondato da migliaia di Echelon
che gli dicono ‘I
love you’.
Ti limiti
allora a pensarlo in continuazione, facendoti i tuoi bei castelli in
aria. E
poi ti dici che è facile innamorarsi di chi non si conosce,
facilissimo; tanto
non saprai mai com’è veramente, te lo puoi
immaginare a tuo uso e consumo,
potrebbe essere anche uno stronzo, ma fa parte del gioco, no? Il
difficile è
convivere con chi hai sposato e che conosci fin troppo bene, il Mister
“dovesonoicalzinichenonlitrovo”, che è
tanto caro ma altrettanto noioso e che
ovviamente non sa nulla.
Ti dici
anche
che è facile guarire da questa cotta, tanto è
solo pura fantasia, ma non ti
accorgi che invece è come una ruota che gira: più
ti ‘incotti’ e più ci pensi,
più ci pensi e più ti
‘incotti’. E poi è dal liceo che non
provavi niente di
simile, ormai con tuo marito è tutto razionale, il
sentimento chissà dov’è… ti
viene il dubbio di averlo lasciato in chiesa il giorno del matrimonio.
E la tua,
poco
a poco, diventa un’ossessione.
Ma
è amore?
Certo:
è
amore, ma un amore innaturale, senza speranza, che non ti dà
niente, ma solo il
piacere di pensare che c’è. Questo uomo lo pensi
ogni singolo momento del
giorno: ti batte forte il cuore quando vedi foto nuove e i suoi video e
arrossisci come un pomodoro se qualcuno te lo nomina. Insomma, sei
regredita
alle elementari.
E,
mannaggia a
te, cominci a sentirti in colpa e ne avresti anche tutti i motivi visto
che
trascuri il lavoro d’ufficio, trascuri tuo figlio e pure tuo
marito comincia a
starti discretamente antipatico. Per non parlare del fatto che
l’unico momento
di vero svago che trovi è quando parli di Shannon con la tua
collega, ma per il
resto, noia totale.
Ed
ecco, una domenica pomeriggio succede qualcosa: sei sola in casa come
al
solito. Marito, figlio e cane sono al parcogiochi, come al solito. Le
uniche
forme di vita nei paraggi siete tu e il pesce rosso, anche se cominci
ad avere
dubbi che la prima in elenco sia ancora viva. Hai appena finito di
stirare la
tua perenne montagna di biancheria ed esausta ti butti sul divano.
Avresti
un’altra marea di lavori domestici da fare ma non ne hai
né voglia né forza. E`
estate: dalla finestra non entra un filo d’aria. Il sudore ti
cola sul viso e
ti sembra quasi di far fatica a respirare.
Improvvisamente
ti senti vecchia e brutta. Inutile. Inadeguata. Senza speranza. Da
buttare.
Ti guardi
attorno e ti rendi conto, con una discreta paura, che
non è questo quello che volevi per la tua
vita e che dei tuoi tanti desideri adolescenziali non se
n’è avverato nemmeno
uno.
E
soprattutto
non è questo quello che vuoi adesso.
Vorresti
essere giovane (ma non lo sei più), bella (ma non lo sei mai
stata), ricca (ma
non lo diventerai mai) ed
indipendente (ma quando mai?), vorresti prendere un aereo su due piedi
e
fiondarti tra le sue braccia.
Perché
tu vuoi
lui.
Soltanto
lui.
Così
tanto che
ti verrebbe da gridare.
Vorresti
sentire il sapore delle sue labbra e il calore della sua pelle. Le sue
braccia
attorno alle tue spalle e il suo corpo contro il tuo. Vorresti che
sorridesse
solo per te, che ti guardasse e ti desiderasse come tu desideri lui.
Esattamente come nel sogno che hai fatto la notte prima, dove eravate
seduti su
un divano, lui ti teneva un braccio attorno spalle e ti sorrideva e tu
abbassavi il viso, intimidita.
Ma non
puoi
averlo. Per molti motivi.
Lo ami. Da
morire. Ma non starete mai insieme. Per
un’infinità di motivi. Al solo
elencarli ti viene la vertigine e smetti subito dopo i primi
trentacinque.
Non lo
incontrerai mai: quali sono le probabilità che avvenga? Una
su cinque miliardi?
Più o meno, un numero infimo, talmente piccolo da essere
significativamente
uguale a zero.
E se anche
avvenisse, chissà come visto che ai concerti non ci vai e
non scorazzi per la
città in cerca del suo albergo come fanno molte, ti
accontenteresti di avere
come ricordo una foto come quelle che, a migliaia, girano sul web, con
Shan
abbracciato a te? No. Non la vorresti. Non vorresti una foto in cui lui
di
solito non sorride perché è scocciato di essere
stato trovato, ma fa buon viso
a cattiva sorte.
Non
sarebbe
abbastanza. Non ti potrebbe accontentare.
Vorresti
che
ti amasse. Ma lui non saprà mai nulla di te.
E allora?
Allora non
si
può continuare a vivere così. Non più.
Non si
può
continuare a vivere una vita in cui niente ha più
significato e sapore, tranne
il pensare a lui: che vita è? Il lavoro va di merda, quando
tuo figlio parla
non lo ascolti, a tuo marito ti rivolgi in malo modo. Tutto sta andando
a
catafascio. Il tunnel c’è ed è buio e
terrificante ma la fine non la vedi.
Forse non esiste.
E allora
ti
alzi all’improvviso e ti dirigi quasi di corsa in bagno. Ti
metti a frugare
dentro l’armadietto di tuo marito e le trovi.
Le lamette
da
barba.
Sono nuove
e affilate.
Ne scarti
una
e ti tagli subito l’indice della mano.
Ma non
t’importa.
Ormai hai
deciso.
Ti guardi
il
polso sinistro: le vene sono bene in evidenza, sono blu e pulsanti.
Prendi la
lametta e la affondi nella carne, senza guardare, incurante del dolore.
Butti la
lametta a terra, metti il braccio nel lavandino e aspetti. Senti il
sangue
caldo che ti scorre sulla mano.
Quanto
durerà?
Poi
commetti
l’errore di guardare se il fiotto è
sufficientemente copioso. Vedi il sangue
denso e rosso e svieni subito, scivolando lentamente sotto il lavandino.
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Capitolo 2 *** OGGI - parte prima ***
OGGI
Il mio
medico
ha detto che fa bene scrivere: che devo mettere nero su bianco quello
che provo
adesso e che ho provato in passato. Lo scrivere ha una funzione
catartica,
dice. Solo così posso e possono aiutarmi. Ma a fare cosa poi?
Mio marito
mi
ha trovata dieci minuti dopo che mi ero tagliata le vene e ha chiamato
immediatamente l’ambulanza, risvegliando tutto il vicinato
dal torpore estivo.
Mi hanno ricoverata e ricucita. Non avevo fatto poi un gran danno alle
vene del
mio polso. Con quel ritmo di fuoriuscita del sangue sarei morta forse
in dieci
ore. Un tempo immenso.
Pazienza:
un’ulteriore prova della mia incapacità. Non sono
più in grado di vivere e
nemmeno di morire.
Ora sono
ricoverata in una clinica sui colli: dalla finestra della mia spoglia
cameretta
al terzo piano, vedo tutta la città stesa ai miei piedi e le
balze dei colli
vicini. Tutte le colline sono verdeggianti e fiorite, mentre la
città è avvolta
nella sua perenne cappa di smog.
Passo ore
a
guardare fuori da questa finestra. Una finestra sigillata che non si
può
assolutamente aprire, da cui non passa alcun suono. Di notte, da quella
finestra, quando certe volte si vedono le stelle, passo il mio tempo a
contarle.
Non so mai
che
ore sono, il tempo scorre languido.
Non ho
libri,
né radio, né TV e nemmeno il mio adorato IPod.
Non ho
anelli,
né braccialetti, né orecchini e i miei capelli
sono sciolti sulle mie spalle,
non pettinati, selvaggi.
Non ho una
penna, ma una matita, per scrivere, e ogni volta che la devo temperare
devo
chiamare l’infermiera di guardia alla mia porta. Stessa cosa
per i fogli: me ne
danno uno alla volta e quando me ne serve uno bianco devo restituire
quello
scritto.
Ma tutto
sommato mi sento bene, anche se ogni tanto mi danno qualche pillola
colorata
che io prendo senza discutere. Chissà a cosa e, soprattutto,
se servono.
E poi ho
un
bravo dottore. O almeno a me pare così: è
piccolino, magrolino, ha i capelli
neri e più o meno la mia età. Quando mi chiede
qualcosa ascolta la mia risposta
con attenzione. Mi piace parlare con lui perché mi capisce e
non so come
faccia. Certe volte le cose che dico sembrano strane anche a me.
Gli ho
detto
di Shannon: non ha fatto un piega.
Gli ho
detto
che mi stavo uccidendo per quell’uomo, solo per lui: non ha
detto niente.
Gli ho
detto
che non sono matta: ha detto che lo sa.
Gli ho
detto
che sono soltanto follemente innamorata, di un amore che nessuno
può capire: ha
detto che sa anche questo.
Allora
se non si sconvolge con niente e sa tutto perché sono qui?
Mi ha detto che sono
qui perché sono gli altri che stanno cercando una ragione
per il mio gesto, non
io. Io so benissimo perché l’ho fatto, ma la
società civile no. E io potrei
essere un pericolo per la società.
Mi sono
messa
a ridere: come no?
Infatti vado in giro
a tagliare i polsi degli altri! Ma per favore, che sciocchezze.
Si
è messo a
ridere anche lui: la verità è che lei potrebbe
volersi uccidere ancora, mi
dice. Rido nuovamente. No. Non ci riuscirei più: mi
bloccherebbe la paura di
fallire.
“Piuttosto
mi aiuti a capire, dottore.” Gli dico.
“Che
cosa?”
“Perché
si vuole morire per amore.”
“Secondo
lei, perché?”
Uffa
perché devo sempre rispondere io?
“C’è
una ragione chimica? E` il cervello?” Dico. Ho studiato, sono
laureata.
“L’amore è una questione di reazione
chimica cerebrale, forse? E quando il
cervello non riesce a trovare una reazione chimica contraria decide che
è il
caso di autodistruggersi?”
“Forse.
Chi lo sa? Qualche altra idea?”
“Io
vorrei sapere in generale perché succede. Se
c’è una regola, una metodologia. E
come evitarlo. Cioè se io non
avessi mai
guardato quel video, non mi sarei innamorata, no? Bisogna distruggere
le TV? E
anche internet poi, bisogna abolirla. E` un calderone ribollente di
desideri e
tentazioni.”
Ride
nuovamente. Devo essere la sua paziente più divertente, per
quello mi chiama
spesso. “Quelli sono solo mezzi. Quando non
c’erano, la gente si uccideva lo
stesso per amore. Romeo e Giulietta, per esempio. Non usavano gtalk per
parlarsi.”
Rido
anch’io e, non so perché, m’immagino
“I promessi sposi” alle prese con la
tecnologia e lo dico al dottore: “Perdio Griso, dice Don
Rodrigo, fai
funzionare la rete che devo chattare con l’Innominato. E
prova a prenotare via
internet due biglietti per quello spettacolo,
com’è che si
chiama, ‘la Peste’? La
prego Don Abbondio, non apra la posta
elettronica oggi, dice Agnese, potrebbe esserci una mail dei
bravi!”
Ridiamo
fino
alle lacrime, ma ad un tratto mi viene un dubbio. Mi asciugo la faccia
con la
manica della vestaglia e mi metto a fissare il dottore. “Non
c’è nulla di
chimico, vero? E` solo emozione, sentimento, coinvolgimento, impulso,
l’amore…
non c’è niente di niente di tecnico e razionale.
Non si spiega, non si ferma,
non si chiude dentro scatole.”
Il dottore
mi
fissa e non dice niente. Resto a guardarlo per un po’ e mi
viene il dubbio che
capisca tutto quello che provo, ma non perché è
il dottore, ma perché è un
essere umano. Ho un’altra domanda, che è da un
po’ che mi rode. Vediamo se mi
risponde.
“Dottore,
dove
va l’amore?” Il mio medico abbassa gli occhi, per
un istante sembra colpito.
“Me lo dica, per favore. Adesso. Me lo dica. Dove va
l’amore che si prova? I
sentimenti che ci sono dove vanno? Sono perduti? Si dissolvono come
ombre al
sole? O l’amore va da qualche parte? E dove?”
Non mi
risponde, anzi, mi pare stizzito. Non riesce nemmeno a formulare la
contro-domanda come fa di solito. Prende la sua agenda e la apre un
po’
bruscamente, probabilmente mi sta fissando il prossimo appuntamento, mi
sta
mandando via.
Ma,
girando
troppo velocemente una pagina, una foto esce dall’agenda e,
malignamente, vola
sopra la scrivania fino a fermarsi vicino ai miei piedi, nonostante i
tentativi
di catturarla del mio medico. La raccolgo velocemente.
Chissà cos’è.
La
osservo: è
una foto ormai vecchia, consumata sugli angoli, un po’
sbiadita e c’è una
ragazza con sottili capelli biondi che sorride all’obiettivo.
Giovane, carina,
un po’ imbarazzata.
Mentre la
guardo, mi sfiora un pensiero.
Sollevo la
testa e punto gli occhi sulla foto che è appesa nella parete
dietro il mio
medico: anche lì c’è la foto di una
donna, ma questa è castana, con i tratti
tipicamente mediterranei, ed è in posa in uno studio
fotografico, con due
figli.
Quella
è la
moglie del medico.
Mi metto a
fissarlo a bocca aperta e, mettendomi mezza seduta sulla sedia, gli
porgo la
foto. La trattengo per un attimo mentre cerca di prendermela dalla
mano.
“Dove
va
l’amore?” gli ripeto fissandolo negli occhi. Voglio
sapere e credo che lui lo
sappia. Lui prende la foto e la rimette velocemente
nell’agenda, senza spostare
gli occhi dai miei.
“Non
lo
sappiamo.” Mi dice. Rimaniamo un attimo a guardarci e poi
vedo che i suoi occhi
si riempiono di lacrime. “E non lo sapremo mai. Per questo
vogliamo morire.”
Dice a bassa voce, come in un sussurro.
“Come
si
chiamava?” gli chiedo, ma la voce mi manca.
“Maria.”
E
anche la sua voce è incrinata. “L’ho
vista una sola volta e non l’ho mai più
dimenticata.”
Mi siedo
abbattuta sulla sedia, le mani in grembo, e mi scappa un lamento quasi
animale:
mi metto a piangere disperata, in modo convulso. Mi prendo il viso tra
le mani
e le mie lacrime cadono come non facevano da tempo. Il mio petto
è scosso da singulti
tremendi, mi manca quasi l’aria.
E` una
liberazione.
Sento il
mio
medico che si alza, prende una sedia e si mette vicino a me. Poi mi
abbraccia.
Io stringo
tra
le mani il suo camice bianco e profumato e singhiozzo come non avevo
mai fatto
in vita mia. Anche a lui scendono le lacrime.
Siamo
nella
stessa barca, medico e paziente. Prigionieri di un amore che non
sarà mai
ricambiato, che non sappiamo frenare e che, visto che non è
mai iniziato, mai
finirà.
E non
possiamo
farci assolutamente nulla. Niente di niente.
Il giorno
dopo
mi dimette. E` solo esaurimento nervoso, sentenzia, dovuto al troppo
lavoro in
casa e fuori. Non fa parole della mia mania, perché sa
benissimo che è simile
alla sua.
Io e lui,
in
codice, la chiamiamo Shannonite acuta.
Ritorno a
casa, accolta festosamente da tutti, ma una parte di me è
morta e non credo
rivivrà più. Guardo mio marito e mi accorgo che
ha un sorriso dolcissimo,
mentre mio figlio mi salta in braccio e mi appoggia mille baci
affettuosi sul
viso. Il cane mi lecca una mano, soddisfatto. Non è questo
il mio posto, ma è
certamente il migliore in cui io possa stare.
Che cazzo
mi
ero messa in testa? Ma come posso essermi infilata in questa assurda
situazione? Cretina. Sono stata una cretina. SONO una cretina.
Mi guardo
il
polso e giuro a me stessa che ogni volta che tenterò di
pensare a Shannon,
dovrò guardarmi la cicatrice e pensare a come stavo buttando
via la mia vita.
Quando
torno
in ufficio tolgo i poster dal bagno, li arrotolo e li metto
nell’armadio, tanto
la mia collega non c’è più: ha avuto il
trasferimento in un’altra sede, chissà
se la rivedrò ancora. Tolgo anche le foto appese al muro,
ormai ingiallite, e
il calendario, ormai superato: per il momento metto tutto in un
cassetto che
non apro mai, poi si vedrà.
Oggi fa
meno
male farlo, tre mesi fa non ci sarei riuscita.
Poi, senza
alcuna esitazione, cancello tutte le foto di Shannon e i video dei 30
Seconds
to Mars dal mio hard disk: mentre guardo sul video i files che volano e
poi
scompaiono in uno sciocco scintillio, penso che stavo facendo la stessa
cosa
con me stessa, a causa di un uomo che, in fondo, non so nemmeno chi
sia.
Ma
perché? Che
senso aveva?
Decido di
tenere soltanto una foto: un primo piano di Shannon dal video
“From Yesterday”,
il primo che ho visto, l’ultimo che vedrò. Tanto
per ricordarmi della mia
follia.
Ho finito.
Addio, piccolo Shan.
Nessun
uomo
merita tanto, nemmeno tu.
Mi stavi
rovinando la vita: non riesco ad odiarti perché ormai non
sento emozioni così
forti, obnubilata dagli psicofarmaci come sono, ma non voglio
più pensarti, non
voglio più sapere niente di te.
Addio,
piccolo
Shan. Riponiti in un angolino del mio cuore, quello spento, e
là rimani per
sempre. Ti ho amato troppo e per niente.
Mi squilla
il
telefono e comincia il lavoro. E ricomincia forse anche la mia vita.
|
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Capitolo 3 *** OGGI - parte seconda ***
OGGI –
parte seconda
“Ma
sei
sicuro? Non è che ci rapinano o cose del genere?”
Jared era piuttosto perplesso
e si rivolse al fratello con il suo solito piglio anche se un
po’ meno sicuro.
Shannon si
bloccò in mezzo alla strada sterrata e si girò a
fissarlo, con la pazienza già
quasi sul punto di esaurirsi: “Cazzo, Jay, cosa vuoi che
succeda? Siamo in
Bolivia, nel bel mezzo del nulla, non ci conosce nessuno e in questi
mercatini
di paese, stranamente i turisti pullulano e c’è
polizia ad ogni angolo. Ci
facciamo un giro e poi torniamo in albergo per la cena.”
“Boh,
se lo
dici tu…” Jared non era proprio convinto.
“Ma
sì. Magari
ci trovi ispirazione per il prossimo video. Non hai voluto vedere
com’erano le
Ande? Dopo la
Cina
e l’Artide, non volevi le cime nevose inviolate? Beh, questo
è quello che ci
sta intorno.” Shannon allargò le braccia.
“Sì,
è vero, ma… non so…
c’è qualcosa di strano…”
Jared si grattò la testa,
pensieroso, con un’espressione sconcertata.
“Sì,
il blackberry che non prende bene. E` quello che ti fa star male. Lo
lasciassi
in albergo quel coso…” Shannon soffocò
una risatina, scuotendo la testa, e si
diresse a passo deciso verso l’interno di un mercatino
etnico, incassato tra
due colline verdeggianti.
Nessuno
faceva
caso a loro: i due uomini sembravano due semplici turisti, in maglietta
e
pantaloni jeans strappati, con il berretto da baseball calcato sulla
testa e
gli occhiali da sole. Shannon teneva l’immancabile macchina
fotografica al
collo e ogni tanto scattava qualche foto al paesaggio e alla gente,
mentre
Jared si guardava intorno in cerca d’ispirazione,
l’inutile blackberry in mano.
Il
mercatino
pullulava di gente. I turisti si limitavano a guardarsi intorno
incuriositi,
mentre gli abitanti del luogo si ammassavano intorno alla bancarelle per
comperare o scambiare merci di tutti i tipi: da prodotti alimentari, in
qualche
caso di dubbia natura e provenienza, a stoffe, da strane medicine a
radioline
che funzionavano a manovella, senza bisogno di elettricità,
e Shannon si mise a
pensare, ridendosela tra sé e sé, a come si
sarebbe comportato suo fratello con
un blackberry a manovella!
Donne,
bellissime nei loro tratti andini, con il bimbo addormentato appoggiato
sulla
schiena avvolto in coperte multicolori, uomini con l’asino
stracarico di merce,
bambini che portavano pacchi più grandi di loro, con i visi
sporchi e gli occhi
brillanti: questa era la realtà, lì in Bolivia. I
colori erano stupefacenti e
l’aria era purissima, come fosse luminosa.
Una gioia
per
gli occhi e per lo spirito. Un guardare la vita da un’altra
angolazione, anni
luce lontana dalla loro.
Ad un
tratto
le bancarelle finirono e uno spiazzo sterrato si trovava davanti a
loro. Vuoto.
Come se nessuno avesse il coraggio di calpestarlo. Un cerchio di gente
stava
attorno a … cosa? Jared si sporse oltre la testa delle
persone e la vide.
Nel mezzo
del
cerchio di persone stava una donna anziana seduta per terra. Portava il
tipico
copricapo nero boliviano ed un poncho largo di lana di mille colori. Il
suo
viso era segnato di rughe ed i suoi occhi neri squadravano la persona
seduta
davanti a sé, come se volessero leggerle l’anima.
Poco distante da lei, sulla
sua sinistra, un piccolo falò emanava uno strano fumo
azzurrognolo, profumato.
Poteva essere una specie di indovina, una maga, una strega, forse una
guaritrice.
Jared
diede di
gomito a Shannon, che si era messo a fotografare le colline.
Dopo
qualche
istante, l’uomo seduto davanti alla maga si alzò e
se ne andò e la donna
anziana si mise a guardare il cerchio di persone intorno a
sé. Infine indicò
una donna alla sua destra che si precipitò a sedersi
dov’era stato l’uomo. La
strega le disse qualcosa che i fratelli non riuscirono a capire. La
donna
chiamata annuì, convinta, e dopo qualche istante si
alzò e si allontanò, piangendo
disperatamente.
La strega
cominciò nuovamente ad ispezionare il cerchio, guardandosi
attorno con
attenzione, in cerca di qualcun altro a cui parlare.
Ad un
tratto
le persone davanti a Jared e Shannon si spostarono e se ne andarono e
loro si
ritrovarono proprio di fronte alla donna anziana.
Gli occhi
della strega si puntarono su Shannon e non si schiodarono
più per un lungo
momento.
Shannon si
sentì come se gli stessero facendo una radiografia,
scoperto, indifeso,
completamente messo a nudo. Però non era una sensazione
spiacevole, era come se
la donna lo stesse valutando, non giudicando.
Poi la
strega
sollevò la mano.
“Tu.”
Disse,
semplicemente, in inglese.
Shannon,
stupito, si
puntò un indice al petto:
“Io?” chiese.
“Sì.
Tu.” Gli
ripeté la strega.
Shannon
fece
per avvicinarsi ma Jared lo prese per il braccio, allarmato.
“Che fai?”
“Mi
ha
chiamato.”
“Ma
sei matto? Lascia
perdere.”
“No.
Voglio
sentire cosa vuole.”
“Ma
cosa vuoi
che possa dirti?”
“Non
lo so, ma
voglio sentire. Dai, che ti importa? Stiamo al gioco, no? Cosa mai
potrà
essere…”
“Ma…”
Shannon si
avvicinò e si sedette davanti alla strega come aveva visto
fare, e Jared si
mise accovacciato un po’ indietro alla sua destra, piuttosto
allibito, ancor di
più quando la strega gli puntò un dito contro e
gli disse: “Tu. Zitto.”
Che
qualcuno
chiedesse a Jared di stare zitto era la cosa meno pensabile di tutto
l’universo
e lui infatti tentò subito di ribattere: “Ma
io…”
“Zitto.”
E la
sua espressione non
ammetteva repliche;
poi la strega si rivolse a Shannon: “Togliti gli
occhiali.”.
“Perché?”
Nemmeno dare ordini a Shannon era cosa semplice.
“Perché
te
l’ho detto io.”
Shannon
rimase
a fissarla per un po’, valutando se fosse il caso di alzarsi
e andarsene, ma
poi decise che voleva sapere, tanto per curiosità.
“OK.”
Se li
sfilò e li appese alla maglietta mentre la strega si mise a
fissarlo in volto,
stringendo gli occhi, un leggero sorriso sulle labbra rugose, annuendo.
“I
tuoi occhi
non ingannano. Sei tu. Proprio tu. Ora ne sono certa. Ti aspettavo da
un po’.”
La voce della donna si era fatta roca.
Shannon
sorrise perché si sentiva un po’ preso in giro:
e come no? In mezzo alla giungla quella donna aspettava
lui. Ma certo,
senza dubbio. “Davvero? E perché?” Le
disse.
“Perché
devo
dirti una cosa importante. Vuoi sentirla?”
“Certo.”
Shan
scosse una spalla. “Perché no?”
“Sicuro?
Guarda che non è una fantasia. E` una cosa vera, reale. Poi
la tua vita non
sarà più la stessa.” Gli occhi della
strega erano puntati su quelli di Shannon
e l’uomo per un attimo si sentì un po’ a
disagio.
“Shannon,
andiamo…” gli diceva Jared da dietro, tirandogli
la maglia.
“Se
vai via
non la saprai mai e potrebbe essere la cosa più importante
della tua vita.”
Continuò la strega.
“Voglio
saperla.”
“No,
Shan,
no…”
La strega
si
rivolse a Jared in malo modo: “Zitto, tu. E` tuo fratello che
deve decidere.”
Jared rimase di sasso. Come faceva quella donna a sapere che erano
fratelli?
Poi,
rivolgendosi di nuovo a Shannon, la strega disse:
“Allora?”
“Ma
sì.
Dimmelo. Voglio sapere.”
“Va
bene.” La
donna annuì e poi prese fiato, come se dovesse dire una
frase lunghissima e le
costasse troppa fatica.
“C’è
una donna
che ti ama.” Disse, semplicemente.
Shannon si
girò verso Jared, si guardarono un attimo e poi scoppiarono
a ridere di gusto.
“Una
donna ama
Shan? ‘Una’? Qualche milione di donne amano
Shannon, non ‘Una’!” disse Jared,
quasi tenendosi la pancia dal ridere. “Tutte le nostre
Echelon ci amano fino
alla follia! Nessuna esclusa!”
Anche
Shannon
stava ridendo, ma la strega lo fissava senza ridere, con quegli strani
occhi
scuri, profondi ed inquietanti, cosa che gli fece scorrere un leggero
brivido
lungo la schiena.
“Bene,
ora
direi che possiamo andare, dopo essere entrati in possesso di questa
fondamentale verità.” Disse Jared, facendo per
alzarsi, seguito dal fratello.
“No,
aspetta.”
Gli disse la strega. “Non ho finito.”
Shannon si
bloccò e si rimise seduto: “Cos’altro
c’è?”
La strega
continuò: “Tu non la conosci, ma lei ti conosce
anche più di quanto tu conosca
te stesso. Il suo amore è così grande ed intenso
che ti avvolge anche se tu non
ne sei consapevole. Il suo spirito si è legato con il tuo
perché l’amore tra
anime simili non va mai perso, arriva sempre a destinazione. Tu sei distratto
ed
insensibile e non senti nulla, ma lei sta morendo d’amore per
te.”
“Eh
sì, come
no?”
“Non
ci
credi?”
“No.”
La strega
alzò
una mano e la passò davanti al viso dell’uomo,
mentre il piccolo falò emetteva
una densa fumata azzurra più consistente. Shannon la
guardava con occhi di
compatimento, un sogghigno canzonatorio sul viso, ma
improvvisamente gli sembrò di sentirsi
avvolgere da qualcosa, come una nebbia, un bozzolo caldo
d’affetto, di
comprensione, di tenerezza, di… d’amore. Il
sorriso gli svanì, un brivido di
piacere gli passò lungo la schiena e chiuse gli occhi,
involontariamente,
completamente vinto da quella schiacciante sensazione.
“Lo
senti,
vero? Adesso?”
L’uomo
aprì
gli occhi di scatto, quasi balzando indietro e la sensazione
svanì: “Cosa mi
hai fatto?”
“Ti
è
piaciuto?”
“Ma…”
“Questo
è il
suo amore per te.”
Amore? No,
era
stato solo il fumetto azzurro: “Macchè amore. Cosa
c’è in quel falò?”
La strega
non
rispose, ma continuò: “Puoi cercarla e trovarla,
se vuoi.”
“Ah,
sì? E
dove sarà mai?”
“Shan,
non ne
hai avuto abbastanza, no?” Jared cominciava a spazientirsi.
“Non
lo so, ma
il tuo spirito sa riconoscere il suo.”
“Non
credo di
avere uno spirito, qui dentro.” Shannon si toccò
il petto. “L’anima non esiste.
Dimmi piuttosto com’è fatta,
questa
donna, visto che la conosci così bene.”
“No.
Se ti
dicessi che è bionda, castana, alta, magra, bassa e
così via, ti direi solo
l’apparenza e tu solo quella cercheresti, mentre devi
guardare soltanto alla
sua anima.”
“Ma
andiamo…”
Shannon allargò le braccia, incredulo.
“E`
così e
basta. Non ci sono ‘ma’… La riconoscerai
quando la incontrerai. Può essere
domani, può essere l’ultima ora della tua vita,
può essere mai. E ora vai.”
La strega
fece
un gesto di commiato con la mano, ma Shannon decise che questa
conversazione in
fondo gli stava piacendo.
“No.
Senti:
ammesso e non concesso che esista, io conosco centinaia di donne, ne
incontro
continuamente a decine, dovrei sapere cosa ha di particolare questa
donna tra
le altre per trovarla, no?”
“Sha-an,
la
finisci o no?” Intervenne nuovamente Jared.
La strega
non
lo badò minimamente: “Non hai fiducia nel tuo
spirito, vedo.” Disse, scuotendo
la testa: “Tu in fondo vuoi credere, è una cosa in
cui ti piacerebbe credere,
ma nello stesso tempo non vuoi farlo. Tipico di voi occidentali, che
non
riuscite più ad essere spontanei, naturali.
L’universo intero vi parla, ma voi
non lo percepite.”
Shannon ne
aveva abbastanza di quelle sciocchezze esoteriche: fece per alzarsi ma,
in un
attimo che parve brevissimo, la strega mise la mano sinistra dentro il
falò e
prese una piccola brace, mentre con l’altra mano prendeva il
braccio dell’uomo.
Poi gli
passò
la brace ardente all’interno del polso sinistro,
strofinandola sulla pelle.
Shannon
gridò,
più di sorpresa che di dolore, e si alzò in piedi
immediatamente, liberandosi
dalla stretta e affrettandosi a guardarsi il polso.
Una
piccola
cicatrice era ora visibile proprio sopra le sue vene: era bianca, come
se fosse
stata fatta da mesi, e in realtà non gli faceva alcun male.
Se la toccò: era
leggermente in rilievo.
Jared si
affrettò a spostare suo fratello indietro con una spinta e a
mettersi tra lui e
la strega.
“Razza
di…”
tentò di dire ma per la donna era come se lui fosse
trasparente: “La donna che
cerchi ha una cicatrice uguale alla tua e sei stato tu senza volerlo a
procurargliela.”
Shannon
fece
capolino da dietro Jared: “Ma cosa stai dicendo? Io non ho
mai fatto male a
nessuno in vita mia! Tantomeno a qualche donna.”
“E’
colpa tua
invece…” La donna gli puntò il dito
addosso.
“Non
può
essere, hai detto che non la conosco…”
La strega
sogghignò: “Vai, ora. Capirai quando
sarà giunto il momento. Addio.”
I fratelli
si
guardarono attorno: nessuna delle persone del cerchio si era mossa e
tutti li
stavano guardando freddamente come se quello che era avvenuto non
avesse
alcunché di eccezionale.
Adesso non
si
vedeva alcun turista e anche la polizia sembrava sparita. I Leto erano
da soli:
si guardarono attorno e, senza alcuna ragione reale, si sentirono
ridicoli e a
disagio: quello non era nel modo più assoluto il loro posto. Cosa avevano pensato di
fare?
La strega
era
ancora là seduta, con il suo falò, con aria
innocua ed indifferente, e aveva
ricominciato a guardarsi intorno.
Dopo
qualche
minuto, Jared e Shannon si scambiarono un’occhiata e, senza
dire una parola, si
avviarono verso l’albergo.
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Capitolo 4 *** DOMANI - parte prima ***
DOMANI – parte prima
“No.”
“Invece
sì.”
La voce di Jared attraverso il telefono era insopportabile.
Shannon
sospirò, prima di rispondere, pensando che doveva stare
calmo: “E invece no.
Jay, quella copertina è assolutamente penosa; non ho mai
visto in vita mia un
obbrobrio simile. E se pensi per un solo momento che io possa mettere
il mio
nome lì dietro, beh… ti sbagli di
grosso.”
“Shan,
ci è
costata dodicimila dollari questa copertina.”
“E
allora? E’
costosa, ma rimane uno schifo. E poi chi ti aveva detto di
commissionarla a
quel demente?”
“Ho
deciso
io.”
“Appunto.
Senza chiedere a nessuno! E allora la paghi tu. E poi la metti dentro
un
cassetto e ce la lasci, perché non voglio mai più
vederla.”
“A
Tomo
piace.”
“A
Tomo piace
sempre tutto, pur di darti ragione. A Tim
no, invece, pensa.”
“Siamo
due
pari.”
“Guarda,
mi
verrebbe voglia di assumere nuovamente Solon soltanto per vedere che
faccia fai
quando anche lui ti dice che è una merda.”
“Eh
sì, magari
ritornasse Solon.”
“Ci
hai
litigato tu, ricordi? Non io. E adesso lo vorresti indietro?”
“Era
così per
dire…”
“Sì
sì, ‘così
per dire’ un corno. In realtà se ritornasse
sarebbe meglio. Con lui suonavamo
un bel rock, altro che questo… questo… non voglio
nemmeno definirlo va’… con i
critici in rivolta perenne contro di noi, per non parlare di tutti gli
altri
musicisti.” Shannon si passò una mano tra i
capelli, nel ripensare alle
terrificanti recensioni musicali che ricevevano.
“Ma
suoniamo
quello che vogliamo noi, no?”
“No.
Suoniamo
quello che vuoi TU; non è la stessa cosa.”
“Non
è vero…”
“Senti:
se tu
potessi, licenzieresti tutti e suoneresti da solo.” Ecco,
l’aveva detto.
“Ma
che cazzo
stai dicendo? Non fosse per me che so scrivere le canzoni, tu faresti
il
fotografo a Bossier City, nel negozio di mamma, non saresti un divo
rock pieno
di donne.”
“Senti,
non
ricominciare con la tiritera del divo rock, che ne ho le palle piene
visto che
me lo rinfacci ogni volta, ma poi non mi lasci andare via. Ne
discutiamo in un
altro momento, ok? Stasera no.”
“Dove
sei?”
“Sono
in taxi
e sto arrivando in albergo, mancheranno cinque minuti
ancora… credo, non so.”
Shannon guardò fuori: non si sapeva orientare.
“Ma
sei sicuro
di quello che vuoi fare?”
“Sì,
mollami.”
“Davvero?”
“Ne
abbiamo
parlato, no? Sono sei anni che non pubblichiamo un album,
nell’ultima settimana
hai arrangiato le stesse canzoni in modo diverso almeno tre volte.
Tutte e
dodici. Un delirio. E io non ne posso più. Voglio suonare,
hai capito?
S-U-O-N-A-R-E e non passare il mio tempo a tenerti la mano mentre
piangi sulla
copertina dell’album. Il CD doveva andare in produzione due
settimane fa e
invece siamo da capo.”
“Ma
pensi
davvero che ti prenderanno?”
“Non
so, non
credo, ma almeno lasciami provare.”
“Shan,
sei un
bastardo ostinato.”
“Oddio,
senti
da che pulpito viene la predica, addirittura da Mr
‘facciotuttoiochevoinonsapetefareuncazzo’! Ti
tirerei un pugno in testa se
fossi qui, stronzo.”
Jared,
all’insulto, si fermò un attimo e poi disse:
“Vabbé fa un po’ quello che vuoi,
ma se ti prendono, quando torni non so se riuscirò a
perdonarti.”
“Il
melodramma
tienilo per i tuoi film, capito? Metto giù che sono
arrivato.”
Shannon
riattaccò il telefono e già che c’era
lo spense e lo buttò dentro il suo
zainetto con rabbia. Non era arrivato in albergo: aveva spudoratamente
mentito,
ma non ne poteva più di parlare con Jared, quella sera. Non
aveva fatto in
tempo a scendere dall’aereo a Linate e ad accendere il
blackberry, che suo
fratello lo aveva chiamato e, come al solito, avevano cominciato a
litigare. E
ormai accadeva sempre più di frequente che le loro
discussioni finissero in
accese litigate. Un continuo rinfacciarsi colpe e misfatti, veri o
presunti,
l’uno con l’altro. Una tortura.
E per
cosa,
poi? Alla fine per non concludere niente. Come ogni volta, come quella
sera:
Jared ad arrangiare per l’ennesima volta le canzoni del
presunto nuovo album e
a bestemmiare su una copertina da buttare, l’ennesima, e
Shannon dall’altra
parte del mondo in cerca di un’occasione musicale
praticamente impossibile.
Shannon
sbuffò
e si sistemò sul sedile posteriore del taxi, ripensando alla
litigata con il
fratello. Gli tornavano in mente parole sparse: una copertina indecente
(“Ma
che diavolo è saltato in testa a Jared? Vallo a
sapere…”), Solon (sì, buono
anche quello, arrosto, però…), Bossier City
(quanto tempo era che non ci
tornava? Secoli!), la mamma (“Quando l’ho vista
l’ultima volta? Due mesi fa?
Boh… Chissà come sta…”) e
poi…
E poi cosa
gli
aveva detto Jay? “Pieno di donne”? Ma che cazzo
voleva dire “pieno di donne”?
Avere tante donne era come non averne nessuna. Poterne avere una
diversa ogni
notte non voleva dire niente. Niente di niente. Scopate e basta. E
forse era
stanco anche di quello: non voleva una famiglia, però. Una
moglie? Per carità!
Figli? No davvero: la sua famiglia naturale non era stata una bella
esperienza
e per quanto lo riguardava non si sentiva di ripetere la cosa. Ma forse
ormai
non gli andava bene nemmeno di vivere così…
Insomma
che
diavolo voleva? Si chiese, mentre guardava le luci dei lampioni
accendersi una
dopo l’altra.
Non si
rispose: non lo sapeva nemmeno lui.
Il taxi si
fermò davanti all’albergo e Shannon, con un
cattivo umore da antologia, guardò
l’orologio: le sette di sera. Pagò e scese,
entrando in albergo, tirandosi
dietro il trolley, e dirigendosi verso la
lussuosa hall. Gli rimaneva ancora un’ora per farsi una
doccia e prepararsi,
visto che soltanto alle venti aveva appuntamento con il suo amico Jason
Bonham,
al concerto milanese dei Led Zeppelin.
RRR
Stella,
scalza, passeggiava su e giù nervosamente per il CED,
masticando un chewingum
che ormai era diventato un pezzo di legno. Erano ben dieci ore
consecutive che
era chiusa lì dentro, in quel luogo buio e rumoroso, pieno
di server in
attività, spie luminose lampeggianti, dati che si
rincorrevano per i cavi, e
non aveva ancora sciolto l’enigma che la tormentava.
Un
problema
improvvisamente esploso una settimana prima, quando un
pedante direttore amministrativo si era
accorto che la fatturazione ed il calcolo del bilancio, conteggiati in automatico da un
programma di contabilità,
non tornavano per niente. Il fornitore del software, ditta presso cui
lavorava
Stella, si era subito attivato mettendo a disposizione due
programmatori, che
però non ne erano venuti a capo.
E alla
fine
era toccato a lei.
“Deve
andare
lei, vista la sua esperienza con i programmi.” Le aveva detto
il suo capo. “Nel
programma c’è un errore che non si riesce a
trovare e lei è la nostra ultima
speranza. Lo so che di solito non vuole allontanarsi dalla sede, ma
questa è
una questione di vita o di morte per
noi, visto che rischiamo di perdere la commessa. E poi non saprei chi altro
mandare.”
Era bello
e,
nello stesso tempo, piuttosto raggelante sentirsi considerare
l’ultima
spiaggia, aveva pensato Stella, accettando l’incarico.
“E
mi
raccomando, si vesta elegante perché è un cliente
di una certa qualità.” Aveva
aggiunto il suo capo, squadrandole i semplici jeans e felpa che portava.
E
così, munita
di manuali, portatile e tailleur nero nuovo di zecca completo di borsa
e scarpe
in tinta, era partita.
Ma in quel
momento non si sentiva affatto la salvatrice della patria: aveva
passato il
programma riga per riga, lo aveva messo in debug una mezza dozzina di
volte e
l’errore non era saltato fuori. Si guardò attorno
preoccupata, sospirando:
sembrava che il programma fosse stregato. Se lo metteva in debug,
l’errore non
si presentava, se lo faceva andare normalmente invece sì e
in tal modo non
riusciva ad individuare la linea in cui l’errore si creava. E
poi sembrava
casuale: qualche volta compariva nella colonna del dare, qualche volta
nell’avere, qualche volta era dell’ordine di
grandezza dei centesimi di euro,
talvolta di qualche centinaio. Insomma, nemmeno a fare una statistica
degli
errori si riusciva a capire che cosa lo generasse.
Alcune ore
prima, nel tentativo di esserle d’aiuto, il direttore
dell’amministrazione,
assieme ad un vassoio di pastine e caffè caldo, le aveva
portato tutta la
documentazione di due anni di fatturazione e di bilanci aziendali, tre
faldoni
di centinaia di pagine ciascuno, mostrandole dove l’errore
appariva, e ora
Stella doveva guardarsi pure quelli.
Si
risedette
di peso sulla sedia davanti al PC sbuffando, sputò il
chewingum nel cestino
(“Alla faccia del galateo!”, si disse),
mangiò una pastina e guardò l’orologio:
erano le sette di sera, era a metà del secondo faldone, al
quinto (o sesto?
Boh…) caffé e non aveva scovato niente.
Le sue
idee si
stavano velocemente esaurendo e la sua pazienza era finita
già da un po’.
Ripassò
a
mente tutta una serie di imprecazioni: chissà che ora
avrebbe fatto prima di
finire: le due, tre di notte? Il giorno dopo c’era la
fatturazione mensile e
l’errore non avrebbe dovuto esserci, in nessuna forma. In
tutti modi doveva
risolvere il problema, anche a costo di riscrivere il programma da
zero.
Decise di
darsi una tempistica: se entro le dieci non avesse trovato il problema,
avrebbe
riscritto il programma, in modo tale da finire non oltre mezzanotte,
anche
perché era stanca, era dalle sei del mattino in piedi, e
voleva ritornare al
suo albergo per farsi una doccia e riposarsi.
Con questa
nuova determinazione, si concesse, per un momento, di pensare a suo
marito e a
suo figlio: a quell’ora se ne stavano a casa, seduti a tavola
per la cena,
tranquilli e beati, mentre lei era chiusa, a centinaia di chilometri di distanza da
loro, in un CED di
un albergo di lusso di Milano, alla ricerca di un errore fantasma.
RRR
Luci,
colori,
suoni.
Gente che
si
muoveva al ritmo della musica. E
che musica.
“Stairway to
heaven”.
A Shannon
passò un brivido sulla schiena: era stato per suonare questa
canzone che aveva
preso per la prima volta in mano le bacchette di una batteria presa in
prestito
da un suo amico, in Louisiana. Era la sua canzone preferita.
Appoggiato
nel
backstage ad una cassa di strumenti, Shannon non perdeva una mossa di
quello
che accadeva sul palco. Erano tre anni che non facevano concerti, i 30
Seconds
To Mars, e gli mancava moltissimo. Gli mancava l’atmosfera
dell’evento, il
colpo al cuore quando il telo bianco cadeva e si vedeva la folla
urlante,
l’assurda paura di sbagliare qualche passaggio,
l’intesa con i compagni e
perfino il sudore che gli colava addosso. Tutto. Proprio tutto.
La musica
era
la sua vita e senza musica la vita non aveva granché sapore.
Ora Jimmy
Page
stava suonando l’assolo di “Since I’ve
been lovin’ you.”: Shannon si perse
nelle note e si mise a pensare a come potesse essere suonare con i Led
Zeppelin
e a quanto fosse fortunato Jason a poterlo fare.
Si mise a
guardarlo mentre suonava e senza volerlo incrociò le
dita… fosse mai che…
RRR
Ce
l’aveva
fatta: non poteva credere ai suoi occhi. L’aveva trovato:
l’errore era lì, nel
posto meno pensabile, sotto gli occhi di tutti, ma accanitamente
invisibile.
Quante volte aveva visto quella formula? Quanti programmatori
l’avevano letta
senza notare quell’errore?
Per
fortuna a
Stella era venuto in mente che l’imprecisione doveva essere
così banale da non
vedersi, così semplice che nessuno ci aveva pensato,
così plateale da essere
invisibile. Così era stato: una banalità aveva
generato un disastro, proprio
come avveniva nelle teorie del caos.
Stella
sorrise, contenta. Corresse l’inesattezza e
ricompilò immediatamente il
programma. Prese gli estremi della prima fattura che non tornava e
lanciò il
programma solo per quella.
Per un
momento
trattenne il fiato mentre il server elaborava il risultato.
“Eureka!”
esultò, quando l’elaborazione finì,
sentendosi un novello Archimede che esce
dalla vasca gridando. La correzione era perfetta, i conti tornavano e
lei…
aveva finito.
Doveva
soltanto stampare le fatture non corrette, rilanciare
l’elaborazione dei
bilanci e mettere il tutto a posto nei faldoni; l’indomani
mattina, se tutto
andava per il meglio e lo sbaglio era scomparso, poteva chiudere
definitivamente la pratica dell’errore fantasma e tornare
finalmente a casa,
sperando in un aumento.
RRR
Shannon,
schiacciando il pulsante per chiamare l’ascensore
dell’albergo, decretò
ufficialmente e senza ombra di dubbio, che quella era stata una delle
serate
più merdose di tutta la sua vita. Una serata nella quale non
gliene era andata
dritta una, anzi, manco mezza, e tutte le sue, troppe, aspettative
erano
svanite come neve al sole.
Era
deluso,
amareggiato e frustrato e, come se
non
fosse sufficiente, era profondamente arrabbiato con sé
stesso per essersi illuso
di una cosa sulla quale non aveva alcun controllo.
L’ascensore
arrivò e lui vi salì, scegliendo il suo piano e
continuando a rimuginare: ma
come aveva fatto a pensare che Jason Bohnam l’avesse chiamato
per farsi
sostituire nei Led Zeppelin? Ma da dove gli era venuta questa insana
idea?
Jason non gli aveva mai detto niente apertamente, lo aveva soltanto
invitato al
concerto a Milano come amico e perché mai lui si era invece
messo in testa di
poter suonare con quel mitico gruppo?
Shannon si
guardò alla parete specchiata dell’ascensore e si
grattò una guancia perplesso.
S-U-O-N-A-R-E-C-O-N-I-L-E-D-Z-E-P-P-E-L-I-N?
LUI?
Non poteva
essere possibile, no, decisamente. Non era un cattivo batterista, ma
suonare al
posto del suo idolo John Bonham non era scritto nel suo destino. No.
Proprio
no. Era il suo sogno segreto, certo, lo aveva coltivato fin da bambino,
ma non
si poteva realizzare in alcun modo. Jason, il figlio di John, era
saldamente al
suo posto e Shannon non poteva far altro che farsela passare a breve,
molto a
breve, cioè subito.
Quando
l’ascensore arrivò a destinazione, Shannon
sbuffò e scese. L’orologio sulla
parete indicava l’una e un quarto di notte, ma considerando
il jet lag e il
fatto che in aereo non aveva chiuso occhio, l’uomo era in
piedi da quasi
ventiquattro ore.
Forse era
il
caso di andare a dormire e scordare la serata.
Mentre si
incamminava lungo il corridoio, il blackberry segnalò
l’arrivo di un sms. Era
di Jared e diceva: “Com’è
andata?”
Shannon
avrebbe voluto avere un martello a portata di mano e fare a pezzi il
dannato
apparecchio, invece con molta nonchalanche e sapendo che suo fratello
aveva
sicuramente gufato contro di lui tutto il tempo, gli scrisse:
“Vaffanculo!”.
Poi lo spense e, immaginandosi la faccia sorpresa di Jared, lentamente
si avviò
verso la sua camera.
RRR
Finito.
Stella
aveva finito. Stampato tutto, sistemato tutto, preparato tutto per il
giorno
successivo. Poteva lasciare il CED quando voleva. Una e un quarto della
notte.
Perfetto.
Si rimise
le
scarpe, infilò tutte le sue cose in borsa, spense e mise via
il portatile ed
impilò i tre faldoni. Spense il PC su cui aveva lavorato e
si rimise la giacca.
La
stanchezza
si faceva sentire, ma accompagnata da una leggera euforia per essere
riuscita
nella sua piccola impresa. Si posizionò la borsetta a
tracolla, si mise la
borsa del portatile appesa per la cinghia ad una spalla e
raccattò i tre
giganteschi faldoni. Si avviò verso la porta e la
aprì, poi spense le luci del
CED, chiuse a chiave la porta e si avviò verso il corridoio.
Se non fosse stato
così tardi, le sarebbe venuto quasi da fischiettare. Ora le
sarebbe bastato
consegnare i documenti, che pesavano come macigni, e la chiave del CED
alla
reception, come concordato con il capo contabile, farsi chiamare un
taxi e
quella giornata sarebbe finita, archiviata nel database del tempo. Un
bagno
caldo la attendeva e forse un veloce saluto di
buonanotte in chat con le sue amiche della rete, se
già non dormivano.
Mentre
avanzava per il corridoio illuminato,
all’estremità dello stesso, Stella vide
camminare verso di lei, silenziosamente sulla moquette, come se fosse
apparso
dal nulla, un uomo.
Non era a
più
di una decina di metri e, sebbene parzialmente coperta dai faldoni,
Stella
riusciva a vederlo abbastanza bene.
Completamente
vestito
di nero, jeans, maglietta e giacca in pelle.
Andatura
sicura.
Capelli
corti
castani arruffati.
Barba
sfatta
di un paio di giorni.
Zainetto
in
spalla.
Occhiali
da
sole appesi alla maglia.
Blackberry e berretto in mano.
Bocca a
cuore.
Naso
perfetto.
Espressione
da
gatto sornione.
Occhi
verdi.
No, forse no. Marroni. No. Come quelli di…
Il cuore
di
Stella si fermò e lei pure.
E forse
anche
il mondo, le orbite planetarie, l’universo intero.
Era lui,
senza
ombra di dubbio.
Non poteva
sbagliarsi, non dopo tutto quello che aveva passato.
Era lui.
Era
Shannon.
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Capitolo 5 *** DOMANI - parte seconda ***
DOMANI – parte seconda
Stella
arrossì
fino alla radice dei capelli, incredula, paralizzata in mezzo al
corridoio,
senza fiato.
Arrivatole
a
pochi metri, anche l’uomo si fermò, più
per lasciarle il passo che per altro,
visto che il corridoio in quel punto era stretto ed in due non ci si
passava.
Ma Stella non si mosse: le sue gambe non rispondevano, il suo cervello
era
andato in catalessi e
tutto le sembrava
andare al rallentatore. Shannon, già arrabbiato di suo, per
un momento la
guardò in malo modo, in attesa che si decidesse a passare,
desideroso di
raggiungere la sua camera, tanto da avere già le chiavi in
mano, ma lei era
immobile con gli occhi sbarrati, l’espressione inebetita.
L’unica
cosa
che invece non era rimasta immobile erano i faldoni che, animati da
vita
propria o forse perché Stella non li teneva affatto, avevano
cominciato a
cadere di lato, verso Shannon, aprendosi.
Improvvisamente
una cascata di fogli cadde addosso a Shannon, che, sorpreso, fece un
passo
indietro, e anche a Stella, che, ad occhi spalancati, lo stava ancora
fissando.
In breve tutto il pavimento attorno a loro era pieno di fatture,
bilanci e
documenti, come se fosse nevicato in corridoio, e tutto
l’ordine che Stella aveva
messo in quelle maledette carte era andato istantaneamente in fumo.
Stella si
riscosse e si guardò attorno come se si risvegliasse da un
brutto sogno, cercò
con gli occhi Shannon che sogghignava, quasi divertito da quella scena
comica,
arrossì nuovamente, balbettò una mezza scusa
nemmeno sicura di quello che
avesse detto, si inginocchiò per terra e
cominciò, tremando, a raccattare i
fogli sparsi in giro, il più velocemente possibile, per
rimetterli nei faldoni
ormai quasi completamente vuoti.
Il suo
cervello
le diceva di fare in fretta e di andarsene di volata, mentre il suo
cuore non
smetteva di martellarle in petto. L’importante era recuperare
tutto il prima
possibile ed allontanarsi da quell’uomo: non importava
l’ordine, i fogli li
avrebbe messi a posto più tardi in reception o anche
l’indomani, al limite.
“Serve
una
mano?” Shannon la guardava da sopra, incuriosito da quella
strana situazione,
visto che non gli era mai capitato di avere un mucchio di carta davanti
alla
porta della sua camera d’albergo!
“Ehm…
No, no.
Grazie.” La voce non le uscì convinta come avrebbe
voluto, ma sperò che fosse
sufficiente. Ed invece, purtroppo, no.
“Rischi
di
passare la notte qui, però…” Nonostante
il cattivo umore, Shannon,
educatamente, si accucciò anche lui a dare una mano,
sorridendo appena, mentre
Stella lo guardava di sottecchi, praticamente in apnea.
Cominciò a raccattare i
fogli mentre si chiedeva cosa ci facesse una ragazza del genere,
vestita di
tutto punto, tailleur nero e tacchi alti, con un discreto sentore di
Calvin
Klein, a quell’ora di notte a spasso per i corridoi di un
albergo con dei
libroni recalcitranti. Dopo un po’, l’uomo le
passò un pacco di fogli che aveva
raccolto.
“Tieni.”
Le
disse.
“Grazie.”
Stella
allungò
il braccio sinistro per prenderlo.
Shannon le
appoggiò i fogli sulla mano e la vide: bianca, leggermente
in rilievo, tratteggiata
chiaramente sopra una trama di vene azzurre.
Una
cicatrice.
Non una
qualsiasi: una identica alla sua.
L’uomo
sobbalzò, si alzò di scatto in piedi e in pochi
secondi gli passarono per la
mente le immagini di quell’episodio in Bolivia che credeva di
avere
dimenticato: lui e Jared, la strega, il fumetto azzurro del
falò, la brace
ardente, la cicatrice sul suo polso, la donna che moriva d'amore per lui.
Rivolse il
suo
sguardo a Stella che, non capendo la ragione del suo strano gesto,
aveva
continuato a raccogliere i fogli, senza dire niente, sempre
più velocemente.
Ormai ne rimanevano pochi, per terra. Stella stava sistemando
l’ultimo
mucchietto di fogli, poi si alzò con i faldoni impilati ma
completamente in
disordine e, dicendo un timido ‘grazie’, si
girò per andarsene.
“Aspetta.”
Le
disse, le sopracciglia aggrottate, il viso pensoso; ma Stella non aveva
nessuna
intenzione di rimanere lì. Gli lanciò
un’occhiata quasi impaurita e poi tentò
di allontanarsi da lui, lungo il corridoio, ma le gambe non le
reggevano a
sufficienza e i suoi passi erano lenti.
Shannon fu
più
svelto: infilò la chiave nella toppa, aprì la
porta e poi, con un gesto che
sorprese persino lui, prese la donna, allontanatasi di pochi passi, per
un
avambraccio e cercò di trascinarla dentro la sua stanza.
Doveva parlarle,
c’erano delle cose da chiarire: quella donna non poteva
andarsene così. Razionalmente non
sapeva nemmeno lui perché, ma doveva parlarle.
“No!”
Stella
tentò di divincolarsi, ma non ci riuscì: Shannon
era decisamente più forte di
lei e i faldoni di fogli, il portatile e la borsa le ostacolavano i
movimenti,
già di per sé precari. Così
l’uomo, senza lasciarle il braccio, le diede una
piccola spinta e la fece entrare in camera a forza.
Stella si
ritrovò in mezzo alla stanza, con quei fetenti faldoni di
nuovo pericolosamente
in bilico ma miracolosamente salvi, al buio, non fosse per la tenue
luce che
entrava dalla finestre con le tende scostate, con il cuore che sembrava
scoppiarle in petto, spaventata a morte. Si girò verso la
porta decisa ad
andarsene ma Shannon entrò a sua volta ed accese la luce.
Poi, lentamente e
senza smettere di guardarla, si chiuse la porta alle spalle.
Per un
attimo
Stella, leggermente abbagliata, si fermò a guardare il lusso
incredibile di quella
stanza d’albergo, i mobili chiari, la luce soffusa, la TV
al plasma alla parete, il
tavolino e le sedie di mogano, un divanetto ad angolo, ma poi ritornò a guardare
fissamente Shannon,
immobile e sbigottita, le guance in fiamme. L’uomo era
più affascinante di
quanto si ricordasse ed averlo davanti in carne e ossa era la cosa
peggiore che
potesse capitarle. Si chiese come facesse ancora a respirare e come mai
non
fosse ancora caduta per terra, svenuta. Pensava di averlo relegato in
un angolo
della sua mente ed invece adesso se lo trovava inaspettatamente proprio
lì
davanti e anche particolarmente agguerrito.
“Chi
sei?” le
chiese Shannon, cominciando a depositare le sue cose sul mobile vicino
alla
porta.
Stella
deglutì
una inesistente saliva. Shannon non sapeva nulla di lei e
così doveva
continuare a essere: “Cosa vuoi da me?”
“Ti
ho fatto
una domanda mi pare. Chi sei?” E mentre lo chiedeva si
avvicinò mettendosi a
pochi passi, con un viso che a Stella parve decisamente cupo.
“Non
capisco
cosa vuoi dire. Io…”
“Tu
sai chi
sono, o no?” Shannon si puntò un dito al petto.
Stella
sospirò
ed annuì: “Sì.”
“Dillo.”
“Tu
sei… sei
Shannon Leto.” Da quanto tempo non diceva quel nome,
pensò Stella, anni interi
che sembravano secoli.
“Esatto.
E tu
chi sei?”
“Io…
Io mi
chiamo Stella, ma… ma perché ti interessa, non
capisco…”
Shannon le
si
avvicinò velocemente, scazzatissimo.
“Guarda!”
Le
prese il polso sinistro, mentre i faldoni stregati ricominciavano a
dondolare
in braccio a Stella, e vi accostò il suo: le cicatrici sui
loro polsi erano
identiche. “Ecco perché, accidenti!”
Stella,
rabbrividendo al contatto della mano dell’uomo sul suo polso,
guardò
attentamente le cicatrici, a bocca aperta: da non credere. Come faceva
Shannon
ad averla identica alla sua, nello stesso posto? Non si ricordava di
aver mai
sentito o letto da nessuna parte che l’uomo avesse una
cicatrice del genere.
Sembrava pure che questa cosa gli mettesse una gran rabbia.
“Non capisco cosa…”
“Come
te la
sei fatta?” Shannon le lasciò il polso, ma il suo
atteggiamento inquisitore non
cessò.
Non poteva
dirglielo, in nessun caso. No davvero. Anzi, doveva attaccare:
“Senti: io non
so cosa tu voglia da me, ma io non ho nessuna intenzione di stare qui a
raccontarti gli affari miei. Fammi passare.”
Stella
tentò
di guadagnare la porta ma l’uomo le si mise davanti
sbarrandole il passo.
“Devi
rispondere.”
“Perché?
Sono
affari miei.”
Shannon
non
gradì molto la risposta e quasi le gridò in
faccia: “Perché qualcuno mi ha
accusato di essere la causa della tua cicatrice, di essere stato IO a
procurarti
quella ferita. E’ vero?”
A Stella
il
cuore balzò in petto: accidenti, non era l’unica
ferita che le aveva procurato.
Ne aveva una anche nel cuore, ben più profonda. Ma poi cosa
sapeva Shannon di
lei e in che modo era venuto a saperlo? Chi aveva parlato? Il suo
dottore?
Macché, che idiozia…
“Chi
te l’ha
detto?” azzardò, in un filo di voce.
Shannon si
passò una mano tra i capelli, restio a ricordare:
“Una strega in Bolivia, tre
anni fa. E perchè ti trovassi, o forse per punirmi, me ne ha fatto una identica. Mi ha detto
che una
donna mi amava ma che io non sentivo il suo amore perché
ero… insensibile. Ed
invece l’amore
arriva sempre a
destinazione. Che cavolo di teoria sarebbe, questa?”
Stella non
credeva ai propri orecchi: era la domanda che aveva fatto al suo
dottore, tanti
anni prima, e ora la risposta le veniva proprio dall’oggetto
del suo passato
amore. Non sapeva che dire. L’uomo continuò:
“Fino ad ora io ho creduto che
fossero soltanto baggianate esoteriche e che la strega fosse pazza da
legare,
ed invece stasera, una delle sere peggiori della mia vita, mi compari
davanti
con quella cicatrice. A questo punto voglio sapere se è
tutto vero o sono
coincidenze. Sei tu quella donna? Quella che mi
‘amava’?”
Doveva
mentire, per forza. Aveva alzato un magnifico muro dentro il quale si
era
rifugiata, ci aveva messo un po’, le era costato un bel
ricovero in clinica, ma
c’era. Sapeva però che non era così
saldo come avrebbe voluto e se solo avesse
aperto uno spiraglio, il muro sarebbe crollato, con lei sotto le
macerie. Non
poteva permetterlo, non adesso che aveva raggiunto un suo pur minimo
equilibrio.
“No.”
Gli
rispose, cercando di essere più convincente possibile.
“Sicura?”
“Non
sono io,
non so nemmeno di cosa stai parlando.” Stella si
sistemò meglio quei dannati
faldoni in mano con fare indifferente, ma le era difficile anche solo
respirare
a vedersi Shannon con la fronte corrugata che la fissava in quel modo
torvo.
“E
la
cicatrice?”
“Emh…”
Doveva
inventarsi una bugia, lì su due piedi. E non era mai stata
brava a dirle.
Azzardò l’incidente domestico. “Me la
sono fatta con il ferro da stiro. Mi
stava cadendo, ho tentato di afferrarlo ma non sono riuscita a
prenderlo e mi
sono ustionata un polso.” La prima che le era venuta in
mente, la più stupida e
anche la bugia peggio proferita della storia
dell’umanità.
Shannon
sogghignò, incrociando le braccia, perplesso:
“Certo, come no? Se tu facessi
l’attrice come lavoro, moriresti di fame.”
“Ma,
è vero!”
“Raccontala
a
tua nonna questa fandonia, capito? Non mi fare incazzare, per favore. E
soprattutto
dammi un po’ di credito, non sono rincoglionito del
tutto.” Shannon alzò la
voce e le si parò davanti con le mani sui fianchi.
“Allora?”
Stella
abbassò
gli occhi, imbarazzata. Sotto lo sguardo furioso di Shannon, le pareva
di
essere una scolaretta sorpresa a copiare il compito in classe. Non
aveva
immaginato che quell’uomo potesse essere un osso
così duro da trattare, dalle
foto non sembrava.
Era
stanca,
esausta, sfinita e adesso aveva anche Shannon Leto che la stava
interrogando su una cosa che, in fondo, lo riguardava ma che Stella si vergognava a morte a dirgli. E poi anche a dirglielo, che cosa ne poteva capire un uomo del genere? Avrebbe riso di lei, sicuramente.
Appoggiò i maledetti faldoni su un tavolino lì
vicino ed il portatile per
terra. Che cosa doveva fare? Raccontare la verità?
Sospirò e si girò a guardare
verso la finestra le luci di Milano che brillavano nella notte, per un momento.
Alla fine si decise: ma
sì, poteva
raccontargli tutto, tanto per farla finita a breve, no? Cosa sarebbe
cambiato?
Ormai era passato. Non importava più. Ridesse pure, tanto...
“E’
tutto
vero.” Disse, dopo un attimo, a voce bassa, dandogli le
spalle. “Io… Io ti
amavo. Ti desideravo da morire. Non so se puoi capire.
Così intensamente,
che l’idea di non poterti avere mi ha portato a tentare il
suicidio. Tre anni
fa, più o meno. Mi sono tagliata il polso con una lametta da
barba… o almeno ci
ho provato… e, ovviamente, non ci sono riuscita.”
Si
girò verso
l’uomo, che era rimasto silenzioso: “Sono stata
un’imbecille, vero? Stavo
buttando nel cesso la mia vita, per te. Soltanto per te. Non ti
conoscevo e non
ti avevo nemmeno mai visto da vicino. Non sono mai venuta ad un tuo
concerto.
Non potevo sapere com’eri in realtà.
Eppure…” Ormai quella parte della sua vita
era passata. Se la doveva gettare alle spalle, lo aveva già
fatto. Non aveva
senso riconsiderarla ora, nemmeno per uno Shannon reale, lì,
in piedi in
silenzio davanti a lei. “Ma come mai potevo essermi
innamorata di te, da una
fotografia? Da un video? Scema, vero?”
Stella si
scherniva, ridendo di sé stessa. Poi abbassò gli
occhi a guardarsi le mani,
imbarazzata.
Ma Shannon non rise. Le
si
avvicinò di un passo: dunque era vero quello che aveva detto
la strega. Era
stato lui a ferirla, senza volerlo, soltanto per il semplice fatto di
esistere. E lei? Che genere di donna poteva essere, per amarlo senza conoscerlo? Non sapeva bene cosa dirle.
“Mi dispiace.” Le disse, semplicemente, toccandole
un braccio.
La donna
scosse una spalla e la testa, guardandolo in viso: “Non fa
niente, ora sto
bene. E’ tutto passato. Era solo ieri. Ormai non importa
più.” Gli sorrise
timidamente, quasi convinta di quello che aveva detto, decidendo che
doveva
andarsene di lì, e subito. “E… adesso
devo proprio andare.”
“Perché?”
Che
domanda le
stava facendo? “Perché? Perché non
c’è nessun motivo per cui io debba rimanere
qui, no?”
Shannon si
mise a fissarla, studiandola: lunghi capelli castani ondulati le
cadevano sulle
spalle e due occhi azzurri, truccati di scuro, dalle ciglia arcuate,
tristissimi, lo guardavano. Una giacca nera sfiancata e una gonna a
tubino,
anch’essa nera, appena sopra il ginocchio, mettevano in
rilievo la sua magra
figura, ulteriormente slanciata da un paio di scarpe con il tacco alto;
due
gambe perfette avvolte in calze nere trasparenti. Di bianco soltanto la
camicetta di seta e gli orecchini di perla.
E, come una bambina, portava la borsetta a tracolla.
La fede al
dito. Che sembrava un peso su quella mano affusolata dalle unghie
dipinte
elegantemente di rosso. C’era un marito, dunque, e forse
anche dei figli.
A
quell’esame,
Stella si sentì in imbarazzo.
Arrossendo
per
l’ennesima volta, gli disse: “Non mi scrutare
così, per favore: noi… non
abbiamo proprio niente da dirci. Mi dispiace che la strega ti abbia
fatto del
male, ovviamente io non volevo finisse così, ma non potevo
pensare che è vero
che l’amore non va perso. Non potevo prevederlo,
né immaginarlo.” Si girò
nuovamente verso le finestre. “Ora… ora ci siamo
detti quello che dovevamo, hai
voluto sapere e non c’è altro da dire. Quindi me
ne vado.” Per un momento le
parve di aver detto più volte la stessa cosa, di essere un
disco rotto.
Shannon le
si
avvicinò e cominciò a guardare dalla finestra
anche lui. Che cosa doveva dirle,
ancora? Stava improvvisando, non ne aveva idea. La situazione era talmente strana da non essere razionalmente prevedibile. “C’è un’altra cosa, in
realtà.”
“Cosa?”
Stella
lo guardò un attimo, desiderosa di terminare al
più presto quella
conversazione.
“Io…
l’ho
sentito. E’ strano a dirsi ed è senza dubbio una
specie di stregoneria, ma… Ho
sentito quello che provavi per me. E’ stata sempre la
strega.”
Shannon si
guardò attorno un attimo, perplesso: ma che cazzo stava
dicendo? Lui? Non era
da lui dire scemenze del genere. Aveva quarant’anni,
l’era dei sogni era
tramontata da un pezzo, quella sera gli si era infranto anche
l’ultimo, di che
cosa andava parlando? Ma cosa gli stava succedendo? Il mondo girava
alla
rovescia, quella notte, ormai non c’era più
dubbio. Eppure…
“Come?”
Stella
si girò a fissarlo, sorpresa.
Shannon
fece
un sorriso di traverso: ormai aveva iniziato il discorso, tanto valeva
finirlo.
“Io non sono un sentimentale e la strega non so come abbia
fatto, ma… beh, era
una sensazione bellissima di tenerezza e affetto che non avevo mai
sentito
prima di quel momento…” Shannon si
posizionò tra la finestra e Stella,
vicinissimo. D’istinto,
alzò una mano a
toccarle una ciocca di capelli che le scendeva sulla spalla.
“Né l’ho più
provata da allora.” Si diede nuovamente dello scemo, si
sentiva come se avesse
quindici anni, ma quella era la verità e non riusciva a
stare zitto: era come
se le parole gli uscissero da sole. Non riusciva a non dirla a Stella,
la
verità. Improvvisamente di rese conto che quella donna gli
piaceva e non sapeva
neppure lui perché. Era così e basta.
Lo sguardo
dell’uomo era fermo sul suo e Stella si sentiva nuovamente
paralizzata. Non le
uscì niente se non un: “E…?”
“Vorrei
sentirla ancora.” La voce di Shannon era un sussurro.
Stella non
era
sicura di dove Shannon volesse andare a parare, con quello sguardo
furbetto e
quel sorriso appena accennato, e decise che doveva glissare:
“Non… non saprei
come. Dovresti tornare in Bolivia.” Si allontanò
di un passo.
Shannon
sorrise. “No, non occorre andare così
lontano.” L’uomo le si avvicinò di
più e,
sorprendentemente, le mise le mani attorno alla vita stretta,
attirandola verso
di sé. “Non la voglio sentire dalla strega: se
è vero quanto hai detto, voglio
sentirla direttamente da te.”
Stella si
ritrovò occhi negli occhi con Shannon, con le gote in fiamme
e le mani
appoggiate sul suo petto, sulla difensiva, mentre lui la stringeva di
più.
L’uomo abbassò il viso per appoggiare la sua bocca
su quella di Stella, ma lei
girò il volto dall’altra parte e lo respinse.
“No.
Per
favore.” Era una cosa che aveva desiderato per tanto tempo ma
che ora non si
sentiva di affrontare. Non poteva. Non doveva. E poi non stava succedendo veramente. Era impossibile. “No.
Io… devo andare.”
Si
irrigidì e
tentò di spingerlo via, ma Shannon non si scostò
di un millimetro. Anzi,
riportò il viso vicino a quello della donna, ne
aspirò il delicato profumo, ad
occhi semi chiusi, deliziato. Voleva sentire quella splendida emozione
nuovamente, a tutti i costi. E solo lei poteva fargliela sentire, ne era certo.
Stella era
senza fiato, ne trovò appena per dire qualcosa:
“Non fare niente. Ti prego. Io…
ho sofferto a sufficienza. E comunque non ti amo, non potresti
risentire la
stessa sensazione qui ed ora, e tu… non mi ami nemmeno tu e
non mi amerai mai,
perciò… lasciami andare via.” Stella
sperò di essere stata convincente: non
poteva credere nemmeno per un momento che adesso Shannon volesse
stare con
lei. Ma l’uomo non demordeva.
“La
strega
parlava di amore tra anime simili, capisci?”
Stella
sbuffò,
irritata: possibile che quelle parole le dicesse quell’uomo?
Non era da lui,
erano certamente delle balle, per farla restare in quella stanza,
chissà
perché. Replicò subito: “Le anime
simili non esistono e se esistono non siamo
noi: io e te apparteniamo a mondi diversi, siamo agli antipodi e,
soprattutto,
non ci conosciamo. Non potremmo mai e poi mai stare insieme. Io sono
sposata e
devo tornare a casa mia e tu… beh io non so come sei messo
ma…”
“Io
voglio…
Voglio crederci.” Shannon non credeva ai suoi orecchi, ma
cosa stava dicendo?
Ormai stava andando a ruota libera. Il suo ultimo sogno era crollato e
lui
aveva bisogno di credere in qualcosa.
“Volere
non
basta, nella vita. Ci sono tutte le conseguenze e le circostanze ad
impedirlo.
Lasciami.”
“Aspetta.
Dammi una possibilità. Resta qui.”
“No.
Non ci
conosciamo, non è possibile.”
“Ci
siamo
incontrati da dieci minuti, come fai a dire?”
“Io…
” Stella
riuscì a liberarsi e si diresse verso la porta, decisa ad
andarsene. “Devo
andare. E… basta.”
“No,
da quella
porta non esci. Parola mia.” Shannon le prese di nuovo il
braccio e la tirò
nuovamente verso di sé.
“Finché…”
Stella si
divincolò, rabbiosa e frustrata allo stesso tempo:
“Finchè, cosa?” Cominciò a
fissarlo con occhi di fuoco e poi gli sibilò tra i denti:
“Che ti succede? Non
hai trovato nessuna modella minorenne da rimorchiare, stasera?
L’albergo non ti
ha trovato nessuna prostituta? Tutte esaurite? E allora vuoi scopare
con me,
Shanimal?”
“Che
cazzo
stai dicendo?” Gli occhi di Shannon mandarono un lampo
pericoloso, quel
soprannome non gli era tanto gradito e nemmeno il maligno commento di
Stella. Era anche vero che lo conosceva bene, a quanto sembrava. Fin troppo. E questa cosa gli fece un male cane.
“Hai
capito
benissimo. Lasciami il braccio. E subito.”
“Chi
credi di
essere, per dirmi cose simili?” Invece di lasciarlo, Shannon
glielo strinse di
più.
“Non
sono
proprio nessuno per te, per quello te le posso dire.”
“Non
hai
nessun diritto di giudicarmi, capito?”
“Lasciami
andare.” Stella tentò ancora di liberarsi, senza
riuscirci.
“Ti
ho chiesto
di restare per parlare, non per scopare.”
“Da
te non
voglio né l’uno né
l’altro.”
Shannon
rimase
di sasso.
Le
lasciò
subito il braccio: non aveva senso chiederle perché. Era
ormai ovvio: Stella
non lo voleva, l’aveva desiderato in passato e ora non
più. Aveva ragione lei,
non c’era niente da dire: qualsiasi cosa lui provasse non
aveva alcuna
importanza, ora. La guardò mentre riprendeva il portatile e
quei libroni, si
voltava a fissarlo per un attimo e poi girava la maniglia ed usciva
dalla
porta, lasciandola spalancata. Tornava alla sua vita, da suo marito,
dalla sua
famiglia, mentre lui non aveva nessuno e non poteva farci nulla. Non poteva pretendere nulla da lei: l'aveva trovata, senza cercarla, ma forse era troppo tardi per costruire qualcosa. La
seguì e per
un attimo rimase sulla soglia, a guardarla allontanarsi silenziosamente
lungo
il corridoio illuminato.
Chiuse la porta: sarebbe
stata
una notte lunga e piena di tenebre, per lui.
RRR
Ho preso
la
porta e sono uscita quasi di corsa. E dei faldoni che ho in mano farei
un falò
qui in mezzo al corridoio, non fosse che il mio inculcato senso del
dovere ha
sempre il sopravvento.
Non mi
giro a
vedere la porta che si chiude: la sento solo sbattere. Arrivo
all’ascensore,
trafelata. Premo il pulsante per chiamarlo, ma è come se
fossi investita da una
scossa elettrica.
Ma cosa
sto
facendo? Cosa? Cosa, perdio?
Sto
fuggendo,
di corsa. Come ho fatto sempre in vita mia, a casaccio, sbagliando quasi
sempre a
scegliere quando sono stata ad un bivio, non cogliendo le occasioni al
momento
giusto.
Se esco da
questo albergo avrò preso la strada giusta?
E se
rimango?
L’ho
insultato, beffeggiato e, involontariamente, anche cicatrizzato, il
povero
Shannon. Ma cosa voglio veramente da quell’uomo? Cosa potrei
avere da lui?
Sono
ritornata
lentamente sui miei passi, davanti alla sua porta bianca. 537. Bel
numero,
dispari, portafortuna, inciso in argento.
Lui
è là,
dietro quella soglia, ci separa soltanto un pezzo di legno lavorato, e
non mi
aveva mandato via. Me ne sono andata da sola. Mi aveva detto di restare per parlare di noi, di questa assurda situazione,
e io
invece ho preso la porta e sono uscita.
Brava.
Un genio.
Quante
volte
ho pensato che avrei voluto incontrarlo, parlargli, vederlo sorridere?
E ora
che ce l’ho qui, cosa faccio? Scappo via. Impaurita della mia
stessa paura di
rimanere da sola con lui. Spaventata dalla possibilità che
per lui io conti
qualcosa, terrorizzata dall'idea che la storia delle anime gemelle sia vera.
E ora sto
malissimo.
Perché?
Perché
mi faccio male da sola? Il destino mi aveva riservato questa sorpresa,
questa
notte magica ed impossibile, e io cosa sto facendo? La sto buttando dritta
nel
cesso. Perché?
Appoggio
per
terra, vicino alla porta, i faldoni e il PC, maledetti fardelli, e
busso
leggermente.
Non mi
risponde nessuno. Trattengo il fiato.
Busso
nuovamente. Ultima volta, penso, e poi me ne vado davvero.
La porta
si
apre lentamente.
Shannon
è lì
davanti a me, a torso nudo, con la maglia nera in mano, e mi fissa con
il suo
solito mezzo sorriso sornione, quello che ho sognato per notti intere.
Evidentemente
si stava spogliando per andare a letto, visto che adesso è
anche scalzo.
Per un
momento
rimaniamo così, io appoggiata allo stipite della porta, lui
con un braccio a
tenere la maniglia: non ci sono parole da dire, o perlomeno io non ne
ho
nessuna.
Non so
cosa
dirgli, non so cosa provo, non so cosa fare.
Non so
nemmeno
che espressione ho in volto, non riesco ad immaginare come possa
vedermi, che
cosa legga nei miei occhi. Gli guardo il tatuaggio artistico sul
braccio
sinistro, i glyphis sul
destro, i suoi muscoli
scolpiti, i suoi occhi, il suo petto quasi glabro. Conosco i suoi
tratti a
memoria, avevo il suo poster nel bagno dell’ufficio ed era
fotografato proprio
come lo vedo ora, come se il poster si fosse animato.
E lui non
si
muove, si lascia guardare, perché?
Poi non so
cosa mi prende. E’ come se mi si aprisse improvvisamente una
porta in testa,
come se crollasse un sipario.
Ma
perché mi
faccio tutti queste domande inutili? Perché continuo a
chiedermi ‘perché’?
Perché ho passato la vita a farmi problemi del tipo
‘cosa diranno gli altri’,
mentre non mi importava cosa avrei detto io? Perché ho
sprecato il mio tempo ad
analizzare tutte le situazioni, a dividere un capello in quattro, a
fare come
DOVEVO fare, imprigionata in obblighi morali ed etici quasi infantili,
infarciti di sensi di colpa e peccati, e non come MI SENTIVO di fare?
Io non so
cosa
voglia da me e non mi importa.
Ma io so
cosa
voglio da lui e ora mi importa.
Io voglio
lui.
Lo voglio
e
basta.
E lo
voglio
adesso.
Entro
dalla
porta e me la chiudo alle spalle.
Mi tolgo
la
borsetta a tracolla e la appoggio sul tavolo alla mia destra, poi mi
tolgo la
giacca e le scarpe. Comincio a sbottonarmi la camicetta di seta,
lentamente.
Non sono una spogliarellista di Las Vegas, quel genere di donne a cui
lui è
abituato, né una zoccola d’alto bordo, una puttana
di mestiere.
Non sono
una
stragnocca da copertina, una modella da taglia XXS, una attrice di
Hollywood
ripiena di silicone e botulino, finta come una bambola. Non so se sono
bella o
sexy in questo momento, non mi importa. Non so se ho il trucco a posto,
la
pettinatura impeccabile o se sembro uscita dalla centrifuga della
lavatrice.
NON MI
IMPORTA. Non mi importa più di niente.
Io lo
desidero
e se Shan mi vuole, fosse anche per un’ora, io sono qui. Solo
questo conta,
adesso. Non ho più paura di nulla.
Butto la
camicetta per terra, poi mi tolgo la gonna e rimango in slip, reggiseno
e
autoreggenti. Poi mi avvicino a Shannon e lo abbraccio, passandogli le
braccia
attorno al collo. E’ un delirio di piacere infinito:
finalmente posso sentire
il calore ed il profumo della sua pelle, il suo corpo contro il mio, le
sua
braccia che mi stringono. Rabbrividisco al contatto, sono quasi senza
fiato.
Gli
accarezzo
lentamente la nuca, il viso, le spalle, i capelli, il petto, il
tatuaggio al
centro della schiena e lui, buttata la maglietta per aria, fa
altrettanto: mi
accarezza la schiena e poi le natiche, i fianchi, il seno.
Poi
finalmente
sento le sue labbra, avide e bollenti, sulle
mie, la sua lingua che incontra la mia, mentre mi sgancia
il reggiseno e
percepisco il suo desiderio contro di me. Shannon mi solleva di peso e
mi porta
sul letto. In breve la mia biancheria vola per la stanza e
così pure i suoi
pantaloni.
E la notte
è
solo nostra.
RRR
Ti ho
lasciato
che dormivi ancora. Profondamente.
Il jet lag
e
la notte quasi insonne ti hanno stroncato. Non hai sentito quando mi
sono
sciolta dal tuo abbraccio, mi sono vestita, ho preso le mie cose e me
ne sono
andata dalla tua stanza, dopo averti fatto una lieve carezza sul bel
viso.
Ti ho
lasciato
il mio numero di telefono sul tavolino e dal tuo blackberry (che
contiene ben
sette prolissi SMS non letti di un Jared incazzatissimo con te) ho
preso il
tuo.
Non so
ancora
se mi chiamerai, se ti chiamerò o se ci vedremo ancora.
Intanto
sono
in treno e torno a casa dalla mia famiglia. Tu non ce l’hai
una famiglia, non
la vuoi, mi hai detto. Io invece ce l’ho e la voglio,
comunque, contro tutte le
convenzioni. Forse, in fondo in fondo, sono una bacchettona. Non ho
pensato
nemmeno per un momento di lasciare la mia famiglia e scappare con te.
Viviamo
in mondi diversi, in modi differenti, ma non per questo non possiamo
trovare un
punto di contatto, quando meglio ci aggrada. E a me basta e avanza.
Che cosa
c’è
stato, la notte scorsa, tra di noi?
E’
stato solo
sesso? Può essere. Se anche fosse, perché
dovremmo negarlo? E’ andato bene ad
entrambi, esattamente così com’è stato.
Non escludo che tu lo farai con tante
altre donne, forse ancora anche con me, ma non ci posso fare nulla, sei
un uomo
libero ed io, stranamente, non sono gelosa. Io lo farò anche
con mio marito,
ogni tanto, ma credo che immaginerò di farlo con te, come
spesso è successo
anche in passato.
E’
stato
amore? Può essere. Non lo so. Non ci siamo detti
tiamotiamotiamo, come due
teneri fidanzatini quindicenni, né giurato amore eterno
(niente dura per
l’eternità, nemmeno la vita stessa e forse
è questa la sua bellezza) perché non
sappiamo se è la verità o una balla colossale.
Solo il tempo, medico infallibile,
potrà dirlo. Mi hai anche detto, prima di crollare dalla stanchezza tra le mie braccia, che la tua sensazione perduta l'hai sentita nuovamente mentre facevamo l'amore, mentre univamo i nostri corpi e i nostri spiriti. Vale anche per me, la sento ogni momento, ogni volta che ti penso, con ogni fibra di me stessa, credevo di averla sepolta ed è invece è più viva che mai.
E poi
chissà
se è vera la storia delle anime simili: cinicamente mi
verrebbe da dire di no,
ma sono cinquemila anni che questa leggenda gira, fin dagli albori
dell’umanità, dalle mezze mele di Platone, alla
Matrix Divina di Gregg Braden,
passando per la tua strega boliviana.
E allora,
magari, sopravvissuta alle maree del tempo, sì,
può essere che sia vera. Mi
veniva un po’ da ridere quando lo dicevi tu, però:
non ti facevo così
romantico! O forse ieri notte eri solo e disperato e ti andava bene
chiunque,
me compresa? Non so, ora non voglio saperlo. Sto bene così.
Arriva un
SMS.
E’ la mia collega che mi chiede se sono ancora viva,
sopravvissuta alle
trappole dell’errore fantasma. Sì,
sono
viva, oggi più che mai, più di ogni altro momento
che ho vissuto finora.
Guardo il
paesaggio che corre oltre il finestrino, veloce, inafferrabile,
c’è il sole, la
giornata è splendida. O forse è a me che sembra
splendida, penso, anche se
venisse giù il diluvio universale, una tromba
d’aria e una nevicata di due
metri.
Mi suona
il
telefono.
Guardo il
numero.
Sei tu.
“Ehi.”
“Ehi.
Sei in
treno?”
“Sì.
E tu?”
“In
aeroporto.
Torno a casa. Problemi in famiglia.”
Credo di
avere
capito: “E’ tanto incazzato, Jared?”
“Che
basta…” e
ti scappa una delle tue inconfondibili risate.
“Dovrò raccoglierlo col
cucchiaino.”
Rido
anch’io:
“Ti vuole troppo bene, non sopporta di perderti.”
Psicologia spicciola, da
oroscopo mattutino.
“Anch’io
gliene voglio, ma ogni tanto vorrei ucciderlo.”
“Odio
e amore
sono legati, lo sai no?” Ora sono agli stereotipi da bacio
perugina, me ne
rendo conto.
“Oggi
vorrei
uccidere anche te, a dire la verità.”
“Perché?”
“Perché
quando
sono uscito dalla camera sono inciampato sui tuoi dannati e merdosi
libroni e
sono finito a gambe all’aria in mezzo al corridoio! Vipera!
Avevi fatto
apposta, confessa!”
“O
no!” Rido
come una matta, immaginandomi la scena di Shannon che li calpesta,
bestemmiando
come un turco.
“Preparati
per
la mia atroce vendetta, la prossima volta che ci vediamo.”
“Aiuto,
che
paura!” Lo prendo in giro.
“Scema.
Scappo
che perdo l’aereo.”
“Ciao.”
“Ciao.
A
presto.” Riagganci subito.
A presto.
A presto,
piccolo Shan, a presto.
FINE
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