Diagnosi: Shannonite Acuta

di shanna_b
(/viewuser.php?uid=41450)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** IERI ***
Capitolo 2: *** OGGI - parte prima ***
Capitolo 3: *** OGGI - parte seconda ***
Capitolo 4: *** DOMANI - parte prima ***
Capitolo 5: *** DOMANI - parte seconda ***



Capitolo 1
*** IERI ***


IERI

 

Tutto comincia abbastanza per caso, come tante volte capita nella vita. Sei sola in casa, pigli il telecomando e inizi un frenetico zapping per i canali televisivi. Al solito non c’è niente d’interessante, specialmente se è domenica pomeriggio e il calcio imperversa dappertutto, accompagnato da film d’annata, cartomanti, televendite e domenichein. Ti chiedi come fa la gente a rimanere ore ed ore incollata a quella inutile scatola. Quando la accendi, a te l’unica cosa che viene in mente è massacrarla con una mazza da baseball.

Improvvisamente intravedi dei fotogrammi: degli uomini che passano in mezzo a delle bandiere rosse che si muovono al vento. Ti sei fermata senza volere su MTV e quello è un video musicale, uno dei tanti, a rotazione. La canzone non ti dice niente, ma il ragazzo bruno con la barba che passa ogni tanto è decisamente uno schianto, lo trovi anche molto meglio di quello con gli occhi azzurri che canta che non è malaccio nemmeno quello.

La storia che sta alla base del video chissà qual è, pare ambientato in Cina o giù di là. Perché mai? E perché alla fine c’è un duello tra degli pseudo samurai che poi sono sempre quelli che suonano? Ma… vallo a sapere, non c’è mai fine alle follie dei cantanti rock! 

Nella coda del video, trovi il responso atteso e la didascalia recita: “30 SECONDS TO MARS”, “From Yesterday”, “Regia: Bartholomew Cubbins.”

Boh.

Ti chiedi chi mai possano essere. Mai sentiti, mai visti. Un gruppo meteora? Probabilmente sì. Chi lo sa.

All’improvviso ti rammenti che la biancheria da stirare aspetta impaziente. Irritata e di malavoglia spegni la TV e ti avvii per le scale, come un condannato a morte si avvia alla forca. Che domenica di merda!

E mentre attacchi la spina del ferro da stiro alla presa e  speri in un intervento divino che incenerisca tutta la biancheria da stirare da qui all’eternità, ti rimane solo un pensiero che ti consola: però… carino quel ragazzo…

            Il mattino dopo è lunedì e arrivi in ufficio già trafelata, alle otto e mezza, reduce da mezzora di coda in tangenziale, e, mentre il capoufficio ti sta trascinando all’ennesima noiosa riunione, la tua collega ti dice, come se fosse la cosa più normale del mondo: “’Scolta, ma tu sai qualcosa dei 30 Seconds to Mars?” E come, no?

            Non fai in tempo a risponderle: ti sei già scordata di aver visto il video e per tutta la riunione non fai a meno di pensare che l’unica cosa che t’interessa di Mars sarebbe una bella invasione aliena con tutti i crismi, per interrompere il tuo inservibile  capoufficio o un’intera confezione da dodici di dolcetti Mars da divorare in barba ai brufoli e alla ciccia incombente. Nel frattempo mediti anche su come legare tra loro, attraverso la telecinesi, i lacci delle scarpe del consulente che parla passeggiando su e giù, per farlo inciampare e mandarlo a gambe all’aria, ed ecco che ti arriva improvvisa l’illuminazione, come non è venuta nemmeno a Buddha.

Ma certo: 30 Seconds to Mars = quel brunetto fantastico che passeggia in mezzo alle bandiere.

Come hai fatto a scordarlo?

            La prima cosa che fai mentre arrivi in ufficio è andare dalla tua collega quasi correndo, alzando una folata d’aria che fa volare una pila di fogli sulla sua scrivania: “I 30 Seconds to Mars sono per caso quelli del video cinese dei samurai, guerrieri, quel che sono…?” le chiedi, quasi in apnea.

            “Cerrrrrrto.” Ti dice lei con un sorriso a trentasei denti perfetti, fregandosene dei fogli che volano per la stanza. “Questo video.”

Perché lei ce l’ha già sul suo PC, scaricato fresco fresco da YouTube ed è dal mattino che lo sta esaminando fotogramma per fotogramma, catturata dagli occhi azzurri del cantante.

“E non solo quello!” aggiunge furbescamente, mentre clicca su un qualche file, “Ma anche questo…” e ti fa vedere ‘The Kill’…”E questo…” e ti fa vedere ‘From Yesterday’ versione film.

            … e in quel momento tu non capisci più niente…

…vedi solo il brunetto in smoking, vestito di nero, che passeggia tra le bandiere, che suona la batteria, che bacia quella stronza uscita dalla doccia, che passeggia per il corridoio dell’albergo con quello strano berretto in testa, che è inginocchiato davanti al piccolo imperatore, che vede il cinese con la sua donna, che scende dalla limousine con la fascia sui capelli, che... che… che… che è lì… bello come il sole, unico.

            Per tutto il giorno non fai che pensarlo: è che hai da fare una montagna di lavoro e il tuo capoufficio ti sta stranamente sempre tra i piedi, altrimenti perquisiresti tutta internet da cima a fondo per trovare notizie su di lui.

Ma un venerdì pomeriggio in ufficio non c’è nessuno, solo tu e la tua collega: fuori c’è il temporale, il vento fischia attraverso gli infissi delle finestre, ogni tanto si sente un tuono, il tuo ufficio sembra l’antro delle streghe, ma al posto del calderone fumante c’è il PC. Iniziate la ricerca.

            Santo Google e santo subito chi lo ha inventato: basta mettere nel campo apposito ciò che si cerca ed esce tutto, in un baleno!

            “30 Seconds to Mars” – click.

Dal vaso di Pandora dei siti internet, magicamente compare una lista: l’incantesimo è riuscito ed una valanga di notizie riempie lo schermo.

Una tra tutte: Shannon.

Il bruno si chiama Shannon. E il cantante Jared e sono fratelli. I Leto. Shannon ha trentotto anni. Due più di te. Non li dimostra per niente, mentre tu sì e già lì ti senti una merda.

Non è sposato, ma è un tombeur de femme. Qualcuno insinua che sia gay, visto che le fanfiction slash su di lui e suo fratello si sprecano. Flirt? Mah… una certa Audrina e forse la sorella del chitarrista dei 30STM, modella famosa, tale Ivana.

Ma cosa importa? La tua fantasia è già partita al galoppo. In men che non si dica, il tuo hard disk pullula di centinaia di sue foto in cui lo vedi in tutte le salse: bruno, biondo, capelli lunghi, corti, rasati da un lato, senza barba, con il pizzetto, con i baffi, con il cappellino, con il berretto da baseball, al ristorante col fratello, in barca mentre si butta in mare, in posa con i 30stm, nelle interviste, mentre ride, più spesso serio, qualche volta arrabbiato.

Sempre unico.

Con quegli occhi di un colore e di una forma stranissimi, non catalogabili, indefinibili. Straordinari.

E i suoi tatuaggi, come non notarli? Madonnina mia, quello che ha sul centro della schiena, sotto la nuca, ti mette i brividi addosso… e i suoi muscoli, che dire? Accidenti, dovrebbe suonare vestito con una corazza, non seminudo così. Rischi la paralisi cerebrale, a vederlo.

E da internet, con i torrent e per la gioia della SIAE e delle case discografiche, vengono giù uno dopo l’altro tutte le canzoni dei 30 Seconds to Mars, e già che ci sei anche le inedite e quelle dal vivo, e così scopri che non è nemmeno tanto male come musicista e tu, che da sempre hai un debole non troppo nascosto per i batteristi in generale, cadi definitivamente nella trappola.

E la porta della trappola si chiude sopra di te.

E sei perduta.

Ti innamori.

Non puoi fare altro.

La tua vita in fondo non è malaccio, non hai grossi problemi economici e la tua famiglia è come quella dei telefilm, un marito, un figlio, un pesce rosso e un cane, ma ci manca sempre il brivido. E il brivido ti viene dato pensando a lui. Innamorandoti di lui. E` una piccola sfida a tutto e tutti.

Con la tua collega fai dei poster con il plotter e li appendi in bagno, ti fai il calendario personalizzato, lei di Jared, tu di Shannon, e cominci ad interessarti ai loro concerti. Poi non ci vai perché hai impegni famigliari e lavorativi troppo stretti e ti sembrerebbe di essere la madre di tutte le Echelon (così si chiamano le loro fans, carino, no?) a metterti in coda davanti all’entrata del locale per ore, fin dal mattino, come fanno tante, anche se lo desideri ardentemente.  Non solo il concerto, ma anche Shan (ormai già lo chiami così, come se lo conoscessi, e cominci a  prenderti delle libertà). E forse è peggio perché andando ai concerti almeno ti faresti un’idea adeguata di quanto è irraggiungibile quest’uomo, circondato da migliaia di Echelon che gli dicono ‘I love you’.

Ti limiti allora a pensarlo in continuazione, facendoti i tuoi bei castelli in aria. E poi ti dici che è facile innamorarsi di chi non si conosce, facilissimo; tanto non saprai mai com’è veramente, te lo puoi immaginare a tuo uso e consumo, potrebbe essere anche uno stronzo, ma fa parte del gioco, no? Il difficile è convivere con chi hai sposato e che conosci fin troppo bene, il Mister “dovesonoicalzinichenonlitrovo”, che è tanto caro ma altrettanto noioso e che ovviamente non sa nulla.

Ti dici anche che è facile guarire da questa cotta, tanto è solo pura fantasia, ma non ti accorgi che invece è come una ruota che gira: più ti ‘incotti’ e più ci pensi, più ci pensi e più ti ‘incotti’. E poi è dal liceo che non provavi niente di simile, ormai con tuo marito è tutto razionale, il sentimento chissà dov’è… ti viene il dubbio di averlo lasciato in chiesa il giorno del matrimonio.

E la tua, poco a poco, diventa un’ossessione.

Ma è amore?

Certo: è amore, ma un amore innaturale, senza speranza, che non ti dà niente, ma solo il piacere di pensare che c’è. Questo uomo lo pensi ogni singolo momento del giorno: ti batte forte il cuore quando vedi foto nuove e i suoi video e arrossisci come un pomodoro se qualcuno te lo nomina. Insomma, sei regredita alle elementari.

E, mannaggia a te, cominci a sentirti in colpa e ne avresti anche tutti i motivi visto che trascuri il lavoro d’ufficio, trascuri tuo figlio e pure tuo marito comincia a starti discretamente antipatico. Per non parlare del fatto che l’unico momento di vero svago che trovi è quando parli di Shannon con la tua collega, ma per il resto, noia totale.

            Ed ecco, una domenica pomeriggio succede qualcosa: sei sola in casa come al solito. Marito, figlio e cane sono al parcogiochi, come al solito. Le uniche forme di vita nei paraggi siete tu e il pesce rosso, anche se cominci ad avere dubbi che la prima in elenco sia ancora viva. Hai appena finito di stirare la tua perenne montagna di biancheria ed esausta ti butti sul divano. Avresti un’altra marea di lavori domestici da fare ma non ne hai né voglia né forza. E` estate: dalla finestra non entra un filo d’aria. Il sudore ti cola sul viso e ti sembra quasi di far fatica a respirare.

Improvvisamente ti senti vecchia e brutta. Inutile. Inadeguata. Senza speranza. Da buttare.

Ti guardi attorno e ti rendi conto, con una discreta paura,  che non è questo quello che volevi per la tua vita e che dei tuoi tanti desideri adolescenziali non se n’è avverato nemmeno uno.

E soprattutto non è questo quello che vuoi adesso.

Vorresti essere giovane (ma non lo sei più), bella (ma non lo sei mai stata),  ricca (ma non lo diventerai mai) ed indipendente (ma quando mai?), vorresti prendere un aereo su due piedi e fiondarti tra le sue braccia.

Perché tu vuoi lui.

Soltanto lui.

Così tanto che ti verrebbe da gridare.

Vorresti sentire il sapore delle sue labbra e il calore della sua pelle. Le sue braccia attorno alle tue spalle e il suo corpo contro il tuo. Vorresti che sorridesse solo per te, che ti guardasse e ti desiderasse come tu desideri lui. Esattamente come nel sogno che hai fatto la notte prima, dove eravate seduti su un divano, lui ti teneva un braccio attorno spalle e ti sorrideva e tu abbassavi il viso, intimidita.

Ma non puoi averlo. Per molti motivi.

Lo ami. Da morire. Ma non starete mai insieme. Per un’infinità di motivi. Al solo elencarli ti viene la vertigine e smetti subito dopo i primi trentacinque.

Non lo incontrerai mai: quali sono le probabilità che avvenga? Una su cinque miliardi? Più o meno, un numero infimo, talmente piccolo da essere significativamente uguale a zero.

E se anche avvenisse, chissà come visto che ai concerti non ci vai e non scorazzi per la città in cerca del suo albergo come fanno molte, ti accontenteresti di avere come ricordo una foto come quelle che, a migliaia, girano sul web, con Shan abbracciato a te? No. Non la vorresti. Non vorresti una foto in cui lui di solito non sorride perché è scocciato di essere stato trovato, ma fa buon viso a cattiva sorte.

Non sarebbe abbastanza. Non ti potrebbe accontentare.

Vorresti che ti amasse. Ma lui non saprà mai nulla di te.

E allora?

Allora non si può continuare a vivere così. Non più.

Non si può continuare a vivere una vita in cui niente ha più significato e sapore, tranne il pensare a lui: che vita è? Il lavoro va di merda, quando tuo figlio parla non lo ascolti, a tuo marito ti rivolgi in malo modo. Tutto sta andando a catafascio. Il tunnel c’è ed è buio e terrificante ma la fine non la vedi. Forse non esiste.

E allora ti alzi all’improvviso e ti dirigi quasi di corsa in bagno. Ti metti a frugare dentro l’armadietto di tuo marito e le trovi.

Le lamette da barba.

Sono nuove e affilate.

Ne scarti una e ti tagli subito l’indice della mano.

Ma non t’importa.

Ormai hai deciso.

Ti guardi il polso sinistro: le vene sono bene in evidenza, sono blu e pulsanti. Prendi la lametta e la affondi nella carne, senza guardare, incurante del dolore.

Butti la lametta a terra, metti il braccio nel lavandino e aspetti. Senti il sangue caldo che ti scorre sulla mano.

Quanto durerà?

Poi commetti l’errore di guardare se il fiotto è sufficientemente copioso. Vedi il sangue denso e rosso e svieni subito, scivolando lentamente sotto il lavandino.









Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** OGGI - parte prima ***


OGGI

 

Il mio medico ha detto che fa bene scrivere: che devo mettere nero su bianco quello che provo adesso e che ho provato in passato. Lo scrivere ha una funzione catartica, dice. Solo così posso e possono aiutarmi. Ma a fare cosa poi?

Mio marito mi ha trovata dieci minuti dopo che mi ero tagliata le vene e ha chiamato immediatamente l’ambulanza, risvegliando tutto il vicinato dal torpore estivo. Mi hanno ricoverata e ricucita. Non avevo fatto poi un gran danno alle vene del mio polso. Con quel ritmo di fuoriuscita del sangue sarei morta forse in dieci ore. Un tempo immenso.

Pazienza: un’ulteriore prova della mia incapacità. Non sono più in grado di vivere e nemmeno di morire.

Ora sono ricoverata in una clinica sui colli: dalla finestra della mia spoglia cameretta al terzo piano, vedo tutta la città stesa ai miei piedi e le balze dei colli vicini. Tutte le colline sono verdeggianti e fiorite, mentre la città è avvolta nella sua perenne cappa di smog.

Passo ore a guardare fuori da questa finestra. Una finestra sigillata che non si può assolutamente aprire, da cui non passa alcun suono. Di notte, da quella finestra, quando certe volte si vedono le stelle, passo il mio tempo a contarle.

Non so mai che ore sono, il tempo scorre languido.

Non ho libri, né radio, né TV e nemmeno il mio adorato IPod.

Non ho anelli, né braccialetti, né orecchini e i miei capelli sono sciolti sulle mie spalle, non pettinati, selvaggi.

Non ho una penna, ma una matita, per scrivere, e ogni volta che la devo temperare devo chiamare l’infermiera di guardia alla mia porta. Stessa cosa per i fogli: me ne danno uno alla volta e quando me ne serve uno bianco devo restituire quello scritto.

Ma tutto sommato mi sento bene, anche se ogni tanto mi danno qualche pillola colorata che io prendo senza discutere. Chissà a cosa e, soprattutto, se servono.

E poi ho un bravo dottore. O almeno a me pare così: è piccolino, magrolino, ha i capelli neri e più o meno la mia età. Quando mi chiede qualcosa ascolta la mia risposta con attenzione. Mi piace parlare con lui perché mi capisce e non so come faccia. Certe volte le cose che dico sembrano strane anche a me.

Gli ho detto di Shannon: non ha fatto un piega.

Gli ho detto che mi stavo uccidendo per quell’uomo, solo per lui: non ha detto niente.

Gli ho detto che non sono matta: ha detto che lo sa.

Gli ho detto che sono soltanto follemente innamorata, di un amore che nessuno può capire: ha detto che sa anche questo.

            Allora se non si sconvolge con niente e sa tutto perché sono qui? Mi ha detto che sono qui perché sono gli altri che stanno cercando una ragione per il mio gesto, non io. Io so benissimo perché l’ho fatto, ma la società civile no. E io potrei essere un pericolo per la società.

Mi sono messa a  ridere: come no? Infatti vado in giro a tagliare i polsi degli altri! Ma per favore, che sciocchezze.

Si è messo a ridere anche lui: la verità è che lei potrebbe volersi uccidere ancora, mi dice. Rido nuovamente. No. Non ci riuscirei più: mi bloccherebbe la paura di fallire.

            “Piuttosto mi aiuti a capire, dottore.” Gli dico.

            “Che cosa?”

            “Perché si vuole morire per amore.”

            “Secondo lei, perché?”

            Uffa perché devo sempre rispondere io?

            “C’è una ragione chimica? E` il cervello?” Dico. Ho studiato, sono laureata. “L’amore è una questione di reazione chimica cerebrale, forse? E quando il cervello non riesce a trovare una reazione chimica contraria decide che è il caso di autodistruggersi?”

            “Forse. Chi lo sa? Qualche altra idea?”

            “Io vorrei sapere in generale perché succede. Se c’è una regola, una metodologia. E come evitarlo. Cioè se io non  avessi mai guardato quel video, non mi sarei innamorata, no? Bisogna distruggere le TV? E anche internet poi, bisogna abolirla. E` un calderone ribollente di desideri e tentazioni.”

            Ride nuovamente. Devo essere la sua paziente più divertente, per quello mi chiama spesso. “Quelli sono solo mezzi. Quando non c’erano, la gente si uccideva lo stesso per amore. Romeo e Giulietta, per esempio. Non usavano gtalk per parlarsi.”

            Rido anch’io e, non so perché, m’immagino “I promessi sposi” alle prese con la tecnologia e lo dico al dottore: “Perdio Griso, dice Don Rodrigo, fai funzionare la rete che devo chattare con l’Innominato. E prova a prenotare via internet due biglietti per quello spettacolo, com’è che si  chiama, ‘la Peste’? La prego Don Abbondio, non apra la posta elettronica oggi, dice Agnese, potrebbe esserci una mail dei bravi!”

Ridiamo fino alle lacrime, ma ad un tratto mi viene un dubbio. Mi asciugo la faccia con la manica della vestaglia e mi metto a fissare il dottore. “Non c’è nulla di chimico, vero? E` solo emozione, sentimento, coinvolgimento, impulso, l’amore… non c’è niente di niente di tecnico e razionale. Non si spiega, non si ferma, non si chiude dentro scatole.”

Il dottore mi fissa e non dice niente. Resto a guardarlo per un po’ e mi viene il dubbio che capisca tutto quello che provo, ma non perché è il dottore, ma perché è un essere umano. Ho un’altra domanda, che è da un po’ che mi rode. Vediamo se mi risponde.

“Dottore, dove va l’amore?” Il mio medico abbassa gli occhi, per un istante sembra colpito. “Me lo dica, per favore. Adesso. Me lo dica. Dove va l’amore che si prova? I sentimenti che ci sono dove vanno? Sono perduti? Si dissolvono come ombre al sole? O l’amore va da qualche parte? E dove?”

Non mi risponde, anzi, mi pare stizzito. Non riesce nemmeno a formulare la contro-domanda come fa di solito. Prende la sua agenda e la apre un po’ bruscamente, probabilmente mi sta fissando il prossimo appuntamento, mi sta mandando via.

Ma, girando troppo velocemente una pagina, una foto esce dall’agenda e, malignamente, vola sopra la scrivania fino a fermarsi vicino ai miei piedi, nonostante i tentativi di catturarla del mio medico. La raccolgo velocemente. Chissà cos’è.

La osservo: è una foto ormai vecchia, consumata sugli angoli, un po’ sbiadita e c’è una ragazza con sottili capelli biondi che sorride all’obiettivo. Giovane, carina, un po’ imbarazzata.

Mentre la guardo, mi sfiora un pensiero.

Sollevo la testa e punto gli occhi sulla foto che è appesa nella parete dietro il mio medico: anche lì c’è la foto di una donna, ma questa è castana, con i tratti tipicamente mediterranei, ed è in posa in uno studio fotografico, con due figli.

Quella è la moglie del medico.

Mi metto a fissarlo a bocca aperta e, mettendomi mezza seduta sulla sedia, gli porgo la foto. La trattengo per un attimo mentre cerca di prendermela dalla mano.

“Dove va l’amore?” gli ripeto fissandolo negli occhi. Voglio sapere e credo che lui lo sappia. Lui prende la foto e la rimette velocemente nell’agenda, senza spostare gli occhi dai miei.

“Non lo sappiamo.” Mi dice. Rimaniamo un attimo a guardarci e poi vedo che i suoi occhi si riempiono di lacrime. “E non lo sapremo mai. Per questo vogliamo morire.” Dice a bassa voce, come in un sussurro.

“Come si chiamava?” gli chiedo, ma la voce mi manca.

“Maria.” E anche la sua voce è incrinata. “L’ho vista una sola volta e non l’ho mai più dimenticata.”

Mi siedo abbattuta sulla sedia, le mani in grembo, e mi scappa un lamento quasi animale: mi metto a piangere disperata, in modo convulso. Mi prendo il viso tra le mani e le mie lacrime cadono come non facevano da tempo. Il mio petto è scosso da singulti tremendi, mi manca quasi l’aria.

E` una liberazione.

Sento il mio medico che si alza, prende una sedia e si mette vicino a me. Poi mi abbraccia.

Io stringo tra le mani il suo camice bianco e profumato e singhiozzo come non avevo mai fatto in vita mia. Anche a lui scendono le lacrime.

Siamo nella stessa barca, medico e paziente. Prigionieri di un amore che non sarà mai ricambiato, che non sappiamo frenare e che, visto che non è mai iniziato, mai finirà.

E non possiamo farci assolutamente nulla. Niente di niente.

Il giorno dopo mi dimette. E` solo esaurimento nervoso, sentenzia, dovuto al troppo lavoro in casa e fuori. Non fa parole della mia mania, perché sa benissimo che è simile alla sua.

Io e lui, in codice, la chiamiamo Shannonite acuta.

Ritorno a casa, accolta festosamente da tutti, ma una parte di me è morta e non credo rivivrà più. Guardo mio marito e mi accorgo che ha un sorriso dolcissimo, mentre mio figlio mi salta in braccio e mi appoggia mille baci affettuosi sul viso. Il cane mi lecca una mano, soddisfatto. Non è questo il mio posto, ma è certamente il migliore in cui io possa stare.

Che cazzo mi ero messa in testa? Ma come posso essermi infilata in questa assurda situazione? Cretina. Sono stata una cretina. SONO una cretina.

Mi guardo il polso e giuro a me stessa che ogni volta che tenterò di pensare a Shannon, dovrò guardarmi la cicatrice e pensare a come stavo buttando via la mia vita.

Quando torno in ufficio tolgo i poster dal bagno, li arrotolo e li metto nell’armadio, tanto la mia collega non c’è più: ha avuto il trasferimento in un’altra sede, chissà se la rivedrò ancora. Tolgo anche le foto appese al muro, ormai ingiallite, e il calendario, ormai superato: per il momento metto tutto in un cassetto che non apro mai, poi si vedrà.

Oggi fa meno male farlo, tre mesi fa non ci sarei riuscita.

Poi, senza alcuna esitazione, cancello tutte le foto di Shannon e i video dei 30 Seconds to Mars dal mio hard disk: mentre guardo sul video i files che volano e poi scompaiono in uno sciocco scintillio, penso che stavo facendo la stessa cosa con me stessa, a causa di un uomo che, in fondo, non so nemmeno chi sia.

Ma perché? Che senso aveva?

Decido di tenere soltanto una foto: un primo piano di Shannon dal video “From Yesterday”, il primo che ho visto, l’ultimo che vedrò. Tanto per ricordarmi della mia follia.

Ho finito. Addio, piccolo Shan.

Nessun uomo merita tanto, nemmeno tu.

Mi stavi rovinando la vita: non riesco ad odiarti perché ormai non sento emozioni così forti, obnubilata dagli psicofarmaci come sono, ma non voglio più pensarti, non voglio più sapere niente di te.

Addio, piccolo Shan. Riponiti in un angolino del mio cuore, quello spento, e là rimani per sempre. Ti ho amato troppo e per niente.

Mi squilla il telefono e comincia il lavoro. E ricomincia forse anche la mia vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** OGGI - parte seconda ***


OGGI – parte seconda

 

“Ma sei sicuro? Non è che ci rapinano o cose del genere?” Jared era piuttosto perplesso e si rivolse al fratello con il suo solito piglio anche se un po’ meno sicuro.

Shannon si bloccò in mezzo alla strada sterrata e si girò a fissarlo, con la pazienza già quasi sul punto di esaurirsi: “Cazzo, Jay, cosa vuoi che succeda? Siamo in Bolivia, nel bel mezzo del nulla, non ci conosce nessuno e in questi mercatini di paese, stranamente i turisti pullulano e c’è polizia ad ogni angolo. Ci facciamo un giro e poi torniamo in albergo per la cena.”

“Boh, se lo dici tu…” Jared non era proprio convinto.

“Ma sì. Magari ci trovi ispirazione per il prossimo video. Non hai voluto vedere com’erano le Ande? Dopo la Cina e l’Artide, non volevi le cime nevose inviolate? Beh, questo è quello che ci sta intorno.” Shannon allargò le braccia.

            “Sì, è vero, ma… non so… c’è qualcosa di strano…” Jared si grattò la testa, pensieroso, con un’espressione sconcertata.

            “Sì, il blackberry che non prende bene. E` quello che ti fa star male. Lo lasciassi in albergo quel coso…” Shannon soffocò una risatina, scuotendo la testa, e si diresse a passo deciso verso l’interno di un mercatino etnico, incassato tra due colline verdeggianti.

Nessuno faceva caso a loro: i due uomini sembravano due semplici turisti, in maglietta e pantaloni jeans strappati, con il berretto da baseball calcato sulla testa e gli occhiali da sole. Shannon teneva l’immancabile macchina fotografica al collo e ogni tanto scattava qualche foto al paesaggio e alla gente, mentre Jared si guardava intorno in cerca d’ispirazione, l’inutile blackberry in mano.

Il mercatino pullulava di gente. I turisti si limitavano a guardarsi intorno incuriositi, mentre gli abitanti del luogo si ammassavano intorno alla bancarelle per comperare o scambiare merci di tutti i tipi: da prodotti alimentari, in qualche caso di dubbia natura e provenienza, a stoffe, da strane medicine a radioline che funzionavano a manovella, senza bisogno di elettricità, e Shannon si mise a pensare, ridendosela tra sé e sé, a come si sarebbe comportato suo fratello con un blackberry a manovella!

Donne, bellissime nei loro tratti andini, con il bimbo addormentato appoggiato sulla schiena avvolto in coperte multicolori, uomini con l’asino stracarico di merce, bambini che portavano pacchi più grandi di loro, con i visi sporchi e gli occhi brillanti: questa era la realtà, lì in Bolivia. I colori erano stupefacenti e l’aria era purissima, come fosse luminosa.

Una gioia per gli occhi e per lo spirito. Un guardare la vita da un’altra angolazione, anni luce lontana dalla loro.

Ad un tratto le bancarelle finirono e uno spiazzo sterrato si trovava davanti a loro. Vuoto. Come se nessuno avesse il coraggio di calpestarlo. Un cerchio di gente stava attorno a … cosa? Jared si sporse oltre la testa delle persone e la vide.

Nel mezzo del cerchio di persone stava una donna anziana seduta per terra. Portava il tipico copricapo nero boliviano ed un poncho largo di lana di mille colori. Il suo viso era segnato di rughe ed i suoi occhi neri squadravano la persona seduta davanti a sé, come se volessero leggerle l’anima. Poco distante da lei, sulla sua sinistra, un piccolo falò emanava uno strano fumo azzurrognolo, profumato. Poteva essere una specie di indovina, una maga, una strega, forse una guaritrice.

Jared diede di gomito a Shannon, che si era messo a fotografare le colline.

Dopo qualche istante, l’uomo seduto davanti alla maga si alzò e se ne andò e la donna anziana si mise a guardare il cerchio di persone intorno a sé. Infine indicò una donna alla sua destra che si precipitò a sedersi dov’era stato l’uomo. La strega le disse qualcosa che i fratelli non riuscirono a capire. La donna chiamata annuì, convinta, e dopo qualche istante si alzò e si allontanò, piangendo disperatamente.

La strega cominciò nuovamente ad ispezionare il cerchio, guardandosi attorno con attenzione, in cerca di qualcun altro a cui parlare.

Ad un tratto le persone davanti a Jared e Shannon si spostarono e se ne andarono e loro si ritrovarono proprio di fronte alla donna anziana.

Gli occhi della strega si puntarono su Shannon e non si schiodarono più per un lungo momento.

Shannon si sentì come se gli stessero facendo una radiografia, scoperto, indifeso, completamente messo a nudo. Però non era una sensazione spiacevole, era come se la donna lo stesse valutando, non giudicando.

Poi la strega sollevò la mano.

“Tu.” Disse, semplicemente, in inglese.

Shannon, stupito,  si puntò un indice al petto: “Io?” chiese.

“Sì. Tu.” Gli ripeté la strega.

Shannon fece per avvicinarsi ma Jared lo prese per il braccio, allarmato. “Che fai?”

“Mi ha chiamato.”

“Ma sei  matto? Lascia perdere.”

“No. Voglio sentire cosa vuole.”

“Ma cosa vuoi che possa dirti?”

“Non lo so, ma voglio sentire. Dai, che ti importa? Stiamo al gioco, no? Cosa mai potrà essere…”

“Ma…”

Shannon si avvicinò e si sedette davanti alla strega come aveva visto fare, e Jared si mise accovacciato un po’ indietro alla sua destra, piuttosto allibito, ancor di più quando la strega gli puntò un dito contro e gli disse: “Tu. Zitto.”

Che qualcuno chiedesse a Jared di stare zitto era la cosa meno pensabile di tutto l’universo e lui infatti tentò subito di ribattere: “Ma io…”

“Zitto.” E la sua espressione  non ammetteva repliche; poi la strega si rivolse a Shannon: “Togliti gli occhiali.”.

“Perché?” Nemmeno dare ordini a Shannon era cosa semplice.

“Perché te l’ho detto io.”

Shannon rimase a fissarla per un po’, valutando se fosse il caso di alzarsi e andarsene, ma poi decise che voleva sapere, tanto per curiosità.

“OK.” Se li sfilò e li appese alla maglietta mentre la strega si mise a fissarlo in volto, stringendo gli occhi, un leggero sorriso sulle labbra rugose, annuendo.

“I tuoi occhi non ingannano. Sei tu. Proprio tu. Ora ne sono certa. Ti aspettavo da un po’.” La voce della donna si era fatta roca.

Shannon sorrise perché si sentiva un po’ preso in giro:  e come no? In mezzo alla giungla quella donna aspettava lui. Ma certo, senza dubbio. “Davvero? E perché?” Le disse.

“Perché devo dirti una cosa importante. Vuoi sentirla?”

“Certo.” Shan scosse una spalla. “Perché no?”

“Sicuro? Guarda che non è una fantasia. E` una cosa vera, reale. Poi la tua vita non sarà più la stessa.” Gli occhi della strega erano puntati su quelli di Shannon e l’uomo per un attimo si sentì un po’ a disagio.

“Shannon, andiamo…” gli diceva Jared da dietro, tirandogli la maglia.

“Se vai via non la saprai mai e potrebbe essere la cosa più importante della tua vita.” Continuò la strega.

“Voglio saperla.”

“No, Shan, no…”

La strega si rivolse a Jared in malo modo: “Zitto, tu. E` tuo fratello che deve decidere.” Jared rimase di sasso. Come faceva quella donna a sapere che erano fratelli?

Poi, rivolgendosi di nuovo a Shannon, la strega disse: “Allora?”

“Ma sì. Dimmelo. Voglio sapere.”

“Va bene.” La donna annuì e poi prese fiato, come se dovesse dire una frase lunghissima e le costasse troppa fatica.

“C’è una donna che ti ama.” Disse, semplicemente.

Shannon si girò verso Jared, si guardarono un attimo e poi scoppiarono a ridere di gusto.

“Una donna ama Shan? ‘Una’? Qualche milione di donne amano Shannon, non ‘Una’!” disse Jared, quasi tenendosi la pancia dal ridere. “Tutte le nostre Echelon ci amano fino alla follia! Nessuna esclusa!”

Anche Shannon stava ridendo, ma la strega lo fissava senza ridere, con quegli strani occhi scuri, profondi ed inquietanti, cosa che gli fece scorrere un leggero brivido lungo la schiena.

“Bene, ora direi che possiamo andare, dopo essere entrati in possesso di questa fondamentale verità.” Disse Jared, facendo per alzarsi, seguito dal fratello.

“No, aspetta.” Gli disse la strega. “Non ho finito.”

Shannon si bloccò e si rimise seduto: “Cos’altro c’è?”

La strega continuò: “Tu non la conosci, ma lei ti conosce anche più di quanto tu conosca te stesso. Il suo amore è così grande ed intenso che ti avvolge anche se tu non ne sei consapevole. Il suo spirito si è legato con il tuo perché l’amore tra anime simili non va mai perso, arriva sempre a destinazione. Tu sei distratto ed insensibile e non senti nulla, ma lei sta morendo d’amore per te.”

“Eh sì, come no?”

“Non ci credi?”

“No.”

La strega alzò una mano e la passò davanti al viso dell’uomo, mentre il piccolo falò emetteva una densa fumata azzurra più consistente. Shannon la guardava con occhi di compatimento, un sogghigno canzonatorio sul viso, ma  improvvisamente gli sembrò di sentirsi avvolgere da qualcosa, come una nebbia, un bozzolo caldo d’affetto, di comprensione, di tenerezza, di… d’amore. Il sorriso gli svanì, un brivido di piacere gli passò lungo la schiena e chiuse gli occhi, involontariamente, completamente vinto da quella schiacciante sensazione.

“Lo senti, vero? Adesso?”

L’uomo aprì gli occhi di scatto, quasi balzando indietro e la sensazione svanì: “Cosa mi hai fatto?”

“Ti è piaciuto?”

“Ma…”

“Questo è il suo amore per te.”

Amore? No, era stato solo il fumetto azzurro: “Macchè amore. Cosa c’è in quel falò?”

La strega non rispose, ma continuò: “Puoi cercarla e trovarla, se vuoi.”

“Ah, sì? E dove sarà mai?”

“Shan, non ne hai avuto abbastanza, no?” Jared cominciava a spazientirsi.

“Non lo so, ma il tuo spirito sa riconoscere il suo.”

“Non credo di avere uno spirito, qui dentro.” Shannon si toccò il petto. “L’anima non esiste. Dimmi piuttosto com’è fatta,  questa donna, visto che la conosci così bene.”

“No. Se ti dicessi che è bionda, castana, alta, magra, bassa e così via, ti direi solo l’apparenza e tu solo quella cercheresti, mentre devi guardare soltanto alla sua anima.”

“Ma andiamo…” Shannon allargò le braccia, incredulo.

“E` così e basta. Non ci sono ‘ma’… La riconoscerai quando la incontrerai. Può essere domani, può essere l’ultima ora della tua vita, può essere mai. E ora vai.”

La strega fece un gesto di commiato con la mano, ma Shannon decise che questa conversazione in fondo gli stava piacendo.

“No. Senti: ammesso e non concesso che esista, io conosco centinaia di donne, ne incontro continuamente a decine, dovrei sapere cosa ha di particolare questa donna tra le altre per trovarla, no?”

“Sha-an, la finisci o no?” Intervenne nuovamente Jared.

La strega non lo badò minimamente: “Non hai fiducia nel tuo spirito, vedo.” Disse, scuotendo la testa: “Tu in fondo vuoi credere, è una cosa in cui ti piacerebbe credere, ma nello stesso tempo non vuoi farlo. Tipico di voi occidentali, che non riuscite più ad essere spontanei, naturali. L’universo intero vi parla, ma voi non lo percepite.”

Shannon ne aveva abbastanza di quelle sciocchezze esoteriche: fece per alzarsi ma, in un attimo che parve brevissimo, la strega mise la mano sinistra dentro il falò e prese una piccola brace, mentre con l’altra mano prendeva il braccio dell’uomo.

Poi gli passò la brace ardente all’interno del polso sinistro, strofinandola sulla pelle.

Shannon gridò, più di sorpresa che di dolore, e si alzò in piedi immediatamente, liberandosi dalla stretta e affrettandosi a guardarsi il polso.

Una piccola cicatrice era ora visibile proprio sopra le sue vene: era bianca, come se fosse stata fatta da mesi, e in realtà non gli faceva alcun male. Se la toccò: era leggermente in rilievo.

Jared si affrettò a spostare suo fratello indietro con una spinta e a mettersi tra lui e la strega.

“Razza di…” tentò di dire ma per la donna era come se lui fosse trasparente: “La donna che cerchi ha una cicatrice uguale alla tua e sei stato tu senza volerlo a procurargliela.”

Shannon fece capolino da dietro Jared: “Ma cosa stai dicendo? Io non ho mai fatto male a nessuno in vita mia! Tantomeno a qualche donna.”

“E’ colpa tua invece…” La donna gli puntò il dito addosso.

“Non può essere, hai detto che non la conosco…”

La strega sogghignò: “Vai, ora. Capirai quando sarà giunto il momento. Addio.”

I fratelli si guardarono attorno: nessuna delle persone del cerchio si era mossa e tutti li stavano guardando freddamente come se quello che era avvenuto non avesse alcunché di eccezionale.

Adesso non si vedeva alcun turista e anche la polizia sembrava sparita. I Leto erano da soli: si guardarono attorno e, senza alcuna ragione reale, si sentirono ridicoli e a disagio: quello non era nel modo più assoluto il loro posto.  Cosa avevano pensato di fare?

La strega era ancora là seduta, con il suo falò, con aria innocua ed indifferente, e aveva ricominciato a guardarsi intorno.

Dopo qualche minuto, Jared e Shannon si scambiarono un’occhiata e, senza dire una parola, si avviarono verso l’albergo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** DOMANI - parte prima ***


 

 

 

DOMANI – parte prima

 

“No.”

“Invece sì.” La voce di Jared attraverso il telefono era insopportabile.

Shannon sospirò, prima di rispondere, pensando che doveva stare calmo: “E invece no. Jay, quella copertina è assolutamente penosa; non ho mai visto in vita mia un obbrobrio simile. E se pensi per un solo momento che io possa mettere il mio nome lì dietro, beh… ti sbagli di grosso.”

“Shan, ci è costata dodicimila dollari questa copertina.”

“E allora? E’ costosa, ma rimane uno schifo. E poi chi ti aveva detto di commissionarla a quel demente?”

“Ho deciso io.”

“Appunto. Senza chiedere a nessuno! E allora la paghi tu. E poi la metti dentro un cassetto e ce la lasci, perché non voglio mai più vederla.”

“A Tomo piace.”

“A Tomo piace sempre tutto, pur di darti ragione. A Tim  no, invece, pensa.”

“Siamo due pari.” 

“Guarda, mi verrebbe voglia di assumere nuovamente Solon soltanto per vedere che faccia fai quando anche lui ti dice che è una merda.”

“Eh sì, magari ritornasse Solon.”

“Ci hai litigato tu, ricordi? Non io. E adesso lo vorresti indietro?”

“Era così per dire…”

“Sì sì, ‘così per dire’ un corno. In realtà se ritornasse sarebbe meglio. Con lui suonavamo un bel rock, altro che questo… questo… non voglio nemmeno definirlo va’… con i critici in rivolta perenne contro di noi, per non parlare di tutti gli altri musicisti.” Shannon si passò una mano tra i capelli, nel ripensare alle terrificanti recensioni musicali che ricevevano.

“Ma suoniamo quello che vogliamo noi, no?”

“No. Suoniamo quello che vuoi TU; non è la stessa cosa.”

“Non è vero…”

“Senti: se tu potessi, licenzieresti tutti e suoneresti da solo.” Ecco, l’aveva detto.

“Ma che cazzo stai dicendo? Non fosse per me che so scrivere le canzoni, tu faresti il fotografo a Bossier City, nel negozio di mamma, non saresti un divo rock pieno di donne.”

“Senti, non ricominciare con la tiritera del divo rock, che ne ho le palle piene visto che me lo rinfacci ogni volta, ma poi non mi lasci andare via. Ne discutiamo in un altro momento, ok? Stasera no.”

“Dove sei?”

“Sono in taxi e sto arrivando in albergo, mancheranno cinque minuti ancora… credo, non so.” Shannon guardò fuori: non si sapeva orientare.

“Ma sei sicuro di quello che vuoi fare?”

“Sì, mollami.”

“Davvero?”

“Ne abbiamo parlato, no? Sono sei anni che non pubblichiamo un album, nell’ultima settimana hai arrangiato le stesse canzoni in modo diverso almeno tre volte. Tutte e dodici. Un delirio. E io non ne posso più. Voglio suonare, hai capito? S-U-O-N-A-R-E e non passare il mio tempo a tenerti la mano mentre piangi sulla copertina dell’album. Il CD doveva andare in produzione due settimane fa e invece siamo da capo.”

“Ma pensi davvero che ti prenderanno?”

“Non so, non credo, ma almeno lasciami provare.”

“Shan, sei un bastardo ostinato.”

“Oddio, senti da che pulpito viene la predica, addirittura da Mr ‘facciotuttoiochevoinonsapetefareuncazzo’! Ti tirerei un pugno in testa se fossi qui, stronzo.”

Jared, all’insulto, si fermò un attimo e poi disse: “Vabbé fa un po’ quello che vuoi, ma se ti prendono, quando torni non so se riuscirò a perdonarti.”

“Il melodramma tienilo per i tuoi film, capito? Metto giù che sono arrivato.”

Shannon riattaccò il telefono e già che c’era lo spense e lo buttò dentro il suo zainetto con rabbia. Non era arrivato in albergo: aveva spudoratamente mentito, ma non ne poteva più di parlare con Jared, quella sera. Non aveva fatto in tempo a scendere dall’aereo a Linate e ad accendere il blackberry, che suo fratello lo aveva chiamato e, come al solito, avevano cominciato a litigare. E ormai accadeva sempre più di frequente che le loro discussioni finissero in accese litigate. Un continuo rinfacciarsi colpe e misfatti, veri o presunti, l’uno con l’altro. Una tortura.

E per cosa, poi? Alla fine per non concludere niente. Come ogni volta, come quella sera: Jared ad arrangiare per l’ennesima volta le canzoni del presunto nuovo album e a bestemmiare su una copertina da buttare, l’ennesima, e Shannon dall’altra parte del mondo in cerca di un’occasione musicale praticamente impossibile.

Shannon sbuffò e si sistemò sul sedile posteriore del taxi, ripensando alla litigata con il fratello. Gli tornavano in mente parole sparse: una copertina indecente (“Ma che diavolo è saltato in testa a Jared? Vallo a sapere…”), Solon (sì, buono anche quello, arrosto, però…), Bossier City (quanto tempo era che non ci tornava? Secoli!), la mamma (“Quando l’ho vista l’ultima volta? Due mesi fa? Boh… Chissà come sta…”) e poi…

E poi cosa gli aveva detto Jay? “Pieno di donne”? Ma che cazzo voleva dire “pieno di donne”? Avere tante donne era come non averne nessuna. Poterne avere una diversa ogni notte non voleva dire niente. Niente di niente. Scopate e basta. E forse era stanco anche di quello: non voleva una famiglia, però. Una moglie? Per carità! Figli? No davvero: la sua famiglia naturale non era stata una bella esperienza e per quanto lo riguardava non si sentiva di ripetere la cosa. Ma forse ormai non gli andava bene nemmeno di vivere così…

Insomma che diavolo voleva? Si chiese, mentre guardava le luci dei lampioni accendersi una dopo l’altra.

Non si rispose: non lo sapeva nemmeno lui.

Il taxi si fermò davanti all’albergo e Shannon, con un cattivo umore da antologia, guardò l’orologio: le sette di sera. Pagò e scese, entrando in albergo, tirandosi dietro il trolley, e dirigendosi verso la lussuosa hall. Gli rimaneva ancora un’ora per farsi una doccia e prepararsi, visto che soltanto alle venti aveva appuntamento con il suo amico Jason Bonham, al concerto milanese dei Led Zeppelin.

 

RRR

 

Stella, scalza, passeggiava su e giù nervosamente per il CED, masticando un chewingum che ormai era diventato un pezzo di legno. Erano ben dieci ore consecutive che era chiusa lì dentro, in quel luogo buio e rumoroso, pieno di server in attività, spie luminose lampeggianti, dati che si rincorrevano per i cavi, e non aveva ancora sciolto l’enigma che la tormentava.

Un problema improvvisamente esploso una settimana prima, quando un  pedante direttore amministrativo si era accorto che la fatturazione ed il calcolo del bilancio, conteggiati  in automatico da un programma di contabilità, non tornavano per niente. Il fornitore del software, ditta presso cui lavorava Stella, si era subito attivato mettendo a disposizione due programmatori, che però non ne erano venuti a capo.

E alla fine era toccato a lei.

“Deve andare lei, vista la sua esperienza con i programmi.” Le aveva detto il suo capo. “Nel programma c’è un errore che non si riesce a trovare e lei è la nostra ultima speranza. Lo so che di solito non vuole allontanarsi dalla sede, ma questa è una questione di vita o di morte per  noi, visto che rischiamo di perdere la commessa. E poi  non saprei chi altro mandare.”

Era bello e, nello stesso tempo, piuttosto raggelante sentirsi considerare l’ultima spiaggia, aveva pensato Stella, accettando l’incarico.

“E mi raccomando, si vesta elegante perché è un cliente di una certa qualità.” Aveva aggiunto il suo capo, squadrandole i semplici jeans e felpa che portava.

E così, munita di manuali, portatile e tailleur nero nuovo di zecca completo di borsa e scarpe in tinta, era partita.

Ma in quel momento non si sentiva affatto la salvatrice della patria: aveva passato il programma riga per riga, lo aveva messo in debug una mezza dozzina di volte e l’errore non era saltato fuori. Si guardò attorno preoccupata, sospirando: sembrava che il programma fosse stregato. Se lo metteva in debug, l’errore non si presentava, se lo faceva andare normalmente invece sì e in tal modo non riusciva ad individuare la linea in cui l’errore si creava. E poi sembrava casuale: qualche volta compariva nella colonna del dare, qualche volta nell’avere, qualche volta era dell’ordine di grandezza dei centesimi di euro, talvolta di qualche centinaio. Insomma, nemmeno a fare una statistica degli errori si riusciva a capire che cosa lo generasse.

Alcune ore prima, nel tentativo di esserle d’aiuto, il direttore dell’amministrazione, assieme ad un vassoio di pastine e caffè caldo, le aveva portato tutta la documentazione di due anni di fatturazione e di bilanci aziendali, tre faldoni di centinaia di pagine ciascuno, mostrandole dove l’errore appariva, e ora Stella doveva guardarsi pure quelli.

Si risedette di peso sulla sedia davanti al PC sbuffando, sputò il chewingum nel cestino (“Alla faccia del galateo!”, si disse), mangiò una pastina e guardò l’orologio: erano le sette di sera, era a metà del secondo faldone, al quinto (o sesto? Boh…) caffé e non aveva scovato niente.

Le sue idee si stavano velocemente esaurendo e la sua pazienza era finita già da un po’.

Ripassò a mente tutta una serie di imprecazioni: chissà che ora avrebbe fatto prima di finire: le due, tre di notte? Il giorno dopo c’era la fatturazione mensile e l’errore non avrebbe dovuto esserci, in nessuna forma. In tutti modi doveva risolvere il problema, anche a costo di riscrivere il programma da zero.

Decise di darsi una tempistica: se entro le dieci non avesse trovato il problema, avrebbe riscritto il programma, in modo tale da finire non oltre mezzanotte, anche perché era stanca, era dalle sei del mattino in piedi, e voleva ritornare al suo albergo per farsi una doccia e riposarsi.

Con questa nuova determinazione, si concesse, per un momento, di pensare a suo marito e a suo figlio: a quell’ora se ne stavano a casa, seduti a tavola per la cena, tranquilli e beati, mentre lei era chiusa, a centinaia di  chilometri di distanza da loro, in un CED di un albergo di lusso di Milano, alla ricerca di un errore fantasma.

 

RRR

 

Luci, colori, suoni.

Gente che si muoveva al ritmo della musica. E che musica.

“Stairway to heaven”.

A Shannon passò un brivido sulla schiena: era stato per suonare questa canzone che aveva preso per la prima volta in mano le bacchette di una batteria presa in prestito da un suo amico, in Louisiana. Era la sua canzone preferita.

Appoggiato nel backstage ad una cassa di strumenti, Shannon non perdeva una mossa di quello che accadeva sul palco. Erano tre anni che non facevano concerti, i 30 Seconds To Mars, e gli mancava moltissimo. Gli mancava l’atmosfera dell’evento, il colpo al cuore quando il telo bianco cadeva e si vedeva la folla urlante, l’assurda paura di sbagliare qualche passaggio, l’intesa con i compagni e perfino il sudore che gli colava addosso. Tutto. Proprio tutto.

La musica era la sua vita e senza musica la vita non aveva granché sapore. 

Ora Jimmy Page stava suonando l’assolo di “Since I’ve been lovin’ you.”: Shannon si perse nelle note e si mise a pensare a come potesse essere suonare con i Led Zeppelin e a quanto fosse fortunato Jason a poterlo fare.

Si mise a guardarlo mentre suonava e senza volerlo incrociò le dita… fosse mai che…

 

RRR

 

Ce l’aveva fatta: non poteva credere ai suoi occhi. L’aveva trovato: l’errore era lì, nel posto meno pensabile, sotto gli occhi di tutti, ma accanitamente invisibile. Quante volte aveva visto quella formula? Quanti programmatori l’avevano letta senza notare quell’errore?

Per fortuna a Stella era venuto in mente che l’imprecisione doveva essere così banale da non vedersi, così semplice che nessuno ci aveva pensato, così plateale da essere invisibile. Così era stato: una banalità aveva generato un disastro, proprio come avveniva nelle teorie del caos.

Stella sorrise, contenta. Corresse l’inesattezza e ricompilò immediatamente il programma. Prese gli estremi della prima fattura che non tornava e lanciò il programma solo per quella.

Per un momento trattenne il fiato mentre il server elaborava il risultato.

“Eureka!” esultò, quando l’elaborazione finì, sentendosi un novello Archimede che esce dalla vasca gridando. La correzione era perfetta, i conti tornavano e lei… aveva finito.

Doveva soltanto stampare le fatture non corrette, rilanciare l’elaborazione dei bilanci e mettere il tutto a posto nei faldoni; l’indomani mattina, se tutto andava per il meglio e lo sbaglio era scomparso, poteva chiudere definitivamente la pratica dell’errore fantasma e tornare finalmente a casa, sperando in un aumento.

 

RRR

 

Shannon, schiacciando il pulsante per chiamare l’ascensore dell’albergo, decretò ufficialmente e senza ombra di dubbio, che quella era stata una delle serate più merdose di tutta la sua vita. Una serata nella quale non gliene era andata dritta una, anzi, manco mezza, e tutte le sue, troppe, aspettative erano svanite come neve al sole.

Era deluso, amareggiato e frustrato e, come se  non fosse sufficiente, era profondamente arrabbiato con sé stesso per essersi illuso di una cosa sulla quale non aveva alcun controllo.

L’ascensore arrivò e lui vi salì, scegliendo il suo piano e continuando a rimuginare: ma come aveva fatto a pensare che Jason Bohnam l’avesse chiamato per farsi sostituire nei Led Zeppelin? Ma da dove gli era venuta questa insana idea? Jason non gli aveva mai detto niente apertamente, lo aveva soltanto invitato al concerto a Milano come amico e perché mai lui si era invece messo in testa di poter suonare con quel mitico gruppo?

Shannon si guardò alla parete specchiata dell’ascensore e si grattò una guancia perplesso.

S-U-O-N-A-R-E-C-O-N-I-L-E-D-Z-E-P-P-E-L-I-N? LUI?

Non poteva essere possibile, no, decisamente. Non era un cattivo batterista, ma suonare al posto del suo idolo John Bonham non era scritto nel suo destino. No. Proprio no. Era il suo sogno segreto, certo, lo aveva coltivato fin da bambino, ma non si poteva realizzare in alcun modo. Jason, il figlio di John, era saldamente al suo posto e Shannon non poteva far altro che farsela passare a breve, molto a breve, cioè subito.

Quando l’ascensore arrivò a destinazione, Shannon sbuffò e scese. L’orologio sulla parete indicava l’una e un quarto di notte, ma considerando il jet lag e il fatto che in aereo non aveva chiuso occhio, l’uomo era in piedi da quasi ventiquattro ore.

Forse era il caso di andare a dormire e scordare la serata.

Mentre si incamminava lungo il corridoio, il blackberry segnalò l’arrivo di un sms. Era di Jared e diceva: “Com’è andata?”

Shannon avrebbe voluto avere un martello a portata di mano e fare a pezzi il dannato apparecchio, invece con molta nonchalanche e sapendo che suo fratello aveva sicuramente gufato contro di lui tutto il tempo, gli scrisse: “Vaffanculo!”. Poi lo spense e, immaginandosi la faccia sorpresa di Jared, lentamente si avviò verso la sua camera.

 

RRR

 

Finito. Stella aveva finito. Stampato tutto, sistemato tutto, preparato tutto per il giorno successivo. Poteva lasciare il CED quando voleva. Una e un quarto della notte. Perfetto.

Si rimise le scarpe, infilò tutte le sue cose in borsa, spense e mise via il portatile ed impilò i tre faldoni. Spense il PC su cui aveva lavorato e si rimise la giacca.

La stanchezza si faceva sentire, ma accompagnata da una leggera euforia per essere riuscita nella sua piccola impresa. Si posizionò la borsetta a tracolla, si mise la borsa del portatile appesa per la cinghia ad una spalla e raccattò i tre giganteschi faldoni. Si avviò verso la porta e la aprì, poi spense le luci del CED, chiuse a chiave la porta e si avviò verso il corridoio. Se non fosse stato così tardi, le sarebbe venuto quasi da fischiettare. Ora le sarebbe bastato consegnare i documenti, che pesavano come macigni, e la chiave del CED alla reception, come concordato con il capo contabile, farsi chiamare un taxi e quella giornata sarebbe finita, archiviata nel database del tempo. Un bagno caldo la attendeva e forse un veloce saluto di  buonanotte in chat con le sue amiche della rete, se già non dormivano. 

Mentre avanzava per il corridoio illuminato, all’estremità dello stesso, Stella vide camminare verso di lei, silenziosamente sulla moquette, come se fosse apparso dal nulla, un uomo.

Non era a più di una decina di metri e, sebbene parzialmente coperta dai faldoni, Stella riusciva a vederlo abbastanza bene.

Completamente vestito di nero, jeans, maglietta e giacca in pelle.

Andatura sicura.

Capelli corti castani arruffati.

Barba sfatta di un paio di giorni.

Zainetto in spalla.

Occhiali da sole appesi alla maglia.

Blackberry  e berretto in mano.

Bocca a cuore.

Naso perfetto.

Espressione da gatto sornione.

Occhi verdi. No, forse no. Marroni. No. Come quelli di…

Il cuore di Stella si fermò e lei pure.

E forse anche il mondo, le orbite planetarie, l’universo intero.

Era lui, senza ombra di dubbio.

Non poteva sbagliarsi, non dopo tutto quello che aveva passato.

Era lui.

Era Shannon.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** DOMANI - parte seconda ***


 

 

DOMANI – parte seconda

 

Stella arrossì fino alla radice dei capelli, incredula, paralizzata in mezzo al corridoio, senza fiato.

Arrivatole a pochi metri, anche l’uomo si fermò, più per lasciarle il passo che per altro, visto che il corridoio in quel punto era stretto ed in due non ci si passava. Ma Stella non si mosse: le sue gambe non rispondevano, il suo cervello era andato in catalessi  e tutto le sembrava andare al rallentatore. Shannon, già arrabbiato di suo, per un momento la guardò in malo modo, in attesa che si decidesse a passare, desideroso di raggiungere la sua camera, tanto da avere già le chiavi in mano, ma lei era immobile con gli occhi sbarrati, l’espressione inebetita.

L’unica cosa che invece non era rimasta immobile erano i faldoni che, animati da vita propria o forse perché Stella non li teneva affatto, avevano cominciato a cadere di lato, verso Shannon, aprendosi.

Improvvisamente una cascata di fogli cadde addosso a Shannon, che, sorpreso, fece un passo indietro, e anche a Stella, che, ad occhi spalancati, lo stava ancora fissando. In breve tutto il pavimento attorno a loro era pieno di fatture, bilanci e documenti, come se fosse nevicato in corridoio, e tutto l’ordine che Stella aveva messo in quelle maledette carte era andato istantaneamente in fumo.

Stella si riscosse e si guardò attorno come se si risvegliasse da un brutto sogno, cercò con gli occhi Shannon che sogghignava, quasi divertito da quella scena comica, arrossì nuovamente, balbettò una mezza scusa nemmeno sicura di quello che avesse detto, si inginocchiò per terra e cominciò, tremando, a raccattare i fogli sparsi in giro, il più velocemente possibile, per rimetterli nei faldoni ormai quasi completamente vuoti.

Il suo cervello le diceva di fare in fretta e di andarsene di volata, mentre il suo cuore non smetteva di martellarle in petto. L’importante era recuperare tutto il prima possibile ed allontanarsi da quell’uomo: non importava l’ordine, i fogli li avrebbe messi a posto più tardi in reception o anche l’indomani, al limite.

“Serve una mano?” Shannon la guardava da sopra, incuriosito da quella strana situazione, visto che non gli era mai capitato di avere un mucchio di carta davanti alla porta della sua camera d’albergo!

“Ehm… No, no. Grazie.” La voce non le uscì convinta come avrebbe voluto, ma sperò che fosse sufficiente. Ed invece, purtroppo, no.

“Rischi di passare la notte qui, però…” Nonostante il cattivo umore, Shannon, educatamente, si accucciò anche lui a dare una mano, sorridendo appena, mentre Stella lo guardava di sottecchi, praticamente in apnea. Cominciò a raccattare i fogli mentre si chiedeva cosa ci facesse una ragazza del genere, vestita di tutto punto, tailleur nero e tacchi alti, con un discreto sentore di Calvin Klein, a quell’ora di notte a spasso per i corridoi di un albergo con dei libroni recalcitranti. Dopo un po’, l’uomo le passò un pacco di fogli che aveva raccolto.

“Tieni.” Le disse.

“Grazie.”

Stella allungò il braccio sinistro per prenderlo.

Shannon le appoggiò i fogli sulla mano e la vide: bianca, leggermente in rilievo, tratteggiata chiaramente sopra una trama di vene azzurre.

Una cicatrice.

Non una qualsiasi: una identica alla sua.

L’uomo sobbalzò, si alzò di scatto in piedi e in pochi secondi gli passarono per la mente le immagini di quell’episodio in Bolivia che credeva di avere dimenticato: lui e Jared, la strega, il fumetto azzurro del falò, la brace ardente, la cicatrice sul suo polso, la donna che moriva d'amore per lui.

Rivolse il suo sguardo a Stella che, non capendo la ragione del suo strano gesto, aveva continuato a raccogliere i fogli, senza dire niente, sempre più velocemente. Ormai ne rimanevano pochi, per terra. Stella stava sistemando l’ultimo mucchietto di fogli, poi si alzò con i faldoni impilati ma completamente in disordine e, dicendo un timido ‘grazie’, si girò per andarsene.

“Aspetta.” Le disse, le sopracciglia aggrottate, il viso pensoso; ma Stella non aveva nessuna intenzione di rimanere lì. Gli lanciò un’occhiata quasi impaurita e poi tentò di allontanarsi da lui, lungo il corridoio, ma le gambe non le reggevano a sufficienza e i suoi passi erano lenti.

Shannon fu più svelto: infilò la chiave nella toppa, aprì la porta e poi, con un gesto che sorprese persino lui, prese la donna, allontanatasi di pochi passi, per un avambraccio e cercò di trascinarla dentro la sua stanza. Doveva parlarle, c’erano delle cose da chiarire: quella donna non poteva andarsene così. Razionalmente non sapeva nemmeno lui perché, ma doveva parlarle.

“No!” Stella tentò di divincolarsi, ma non ci riuscì: Shannon era decisamente più forte di lei e i faldoni di fogli, il portatile e la borsa le ostacolavano i movimenti, già di per sé precari. Così l’uomo, senza lasciarle il braccio, le diede una piccola spinta e la fece entrare in camera a forza.

Stella si ritrovò in mezzo alla stanza, con quei fetenti faldoni di nuovo pericolosamente in bilico ma miracolosamente salvi, al buio, non fosse per la tenue luce che entrava dalla finestre con le tende scostate, con il cuore che sembrava scoppiarle in petto, spaventata a morte. Si girò verso la porta decisa ad andarsene ma Shannon entrò a sua volta ed accese la luce. Poi, lentamente e senza smettere di guardarla, si chiuse la porta alle spalle.

Per un attimo Stella, leggermente abbagliata, si fermò a guardare il lusso incredibile di quella stanza d’albergo, i mobili chiari, la luce soffusa, la TV al plasma alla parete, il tavolino e le sedie di mogano, un divanetto ad angolo, ma poi ritornò a guardare fissamente Shannon, immobile e sbigottita, le guance in fiamme. L’uomo era più affascinante di quanto si ricordasse ed averlo davanti in carne e ossa era la cosa peggiore che potesse capitarle. Si chiese come facesse ancora a respirare e come mai non fosse ancora caduta per terra, svenuta. Pensava di averlo relegato in un angolo della sua mente ed invece adesso se lo trovava inaspettatamente proprio lì davanti e anche particolarmente agguerrito.

“Chi sei?” le chiese Shannon, cominciando a depositare le sue cose sul mobile vicino alla porta.

Stella deglutì una inesistente saliva. Shannon non sapeva nulla di lei e così doveva continuare a essere: “Cosa vuoi da me?”

“Ti ho fatto una domanda mi pare. Chi sei?” E mentre lo chiedeva si avvicinò mettendosi a pochi passi, con un viso che a Stella parve decisamente cupo.

“Non capisco cosa vuoi dire. Io…”

“Tu sai chi sono, o no?” Shannon si puntò un dito al petto.

Stella sospirò ed annuì: “Sì.”

“Dillo.”

“Tu sei… sei Shannon Leto.” Da quanto tempo non diceva quel nome, pensò Stella, anni interi che sembravano secoli.

“Esatto. E tu chi sei?”

“Io… Io mi chiamo Stella, ma… ma perché ti interessa, non capisco…”

Shannon le si avvicinò velocemente, scazzatissimo.

“Guarda!” Le prese il polso sinistro, mentre i faldoni stregati ricominciavano a dondolare in braccio a Stella, e vi accostò il suo: le cicatrici sui loro polsi erano identiche. “Ecco perché, accidenti!”

Stella, rabbrividendo al contatto della mano dell’uomo sul suo polso, guardò attentamente le cicatrici, a bocca aperta: da non credere. Come faceva Shannon ad averla identica alla sua, nello stesso posto? Non si ricordava di aver mai sentito o letto da nessuna parte che l’uomo avesse una cicatrice del genere. Sembrava pure che questa cosa gli mettesse una gran rabbia. “Non capisco cosa…”

“Come te la sei fatta?” Shannon le lasciò il polso, ma il suo atteggiamento inquisitore non cessò.

Non poteva dirglielo, in nessun caso. No davvero. Anzi, doveva attaccare: “Senti: io non so cosa tu voglia da me, ma io non ho nessuna intenzione di stare qui a raccontarti gli affari miei. Fammi passare.”

Stella tentò di guadagnare la porta ma l’uomo le si mise davanti sbarrandole il passo.

“Devi rispondere.”

“Perché? Sono affari miei.”

Shannon non gradì molto la risposta e quasi le gridò in faccia: “Perché qualcuno mi ha accusato di essere la causa della tua cicatrice, di essere stato IO a procurarti quella ferita. E’ vero?”

A Stella il cuore balzò in petto: accidenti, non era l’unica ferita che le aveva procurato. Ne aveva una anche nel cuore, ben più profonda. Ma poi cosa sapeva Shannon di lei e in che modo era venuto a saperlo? Chi aveva parlato? Il suo dottore? Macché, che idiozia…

“Chi te l’ha detto?” azzardò, in un filo di voce.

Shannon si passò una mano tra i capelli, restio a ricordare: “Una strega in Bolivia, tre anni fa. E perchè ti trovassi, o forse per punirmi, me ne ha fatto una identica. Mi ha detto che una donna mi amava ma che io non sentivo il suo amore perché ero… insensibile. Ed invece  l’amore arriva sempre a destinazione. Che cavolo di teoria sarebbe, questa?”

Stella non credeva ai propri orecchi: era la domanda che aveva fatto al suo dottore, tanti anni prima, e ora la risposta le veniva proprio dall’oggetto del suo passato amore. Non sapeva che dire. L’uomo continuò: “Fino ad ora io ho creduto che fossero soltanto baggianate esoteriche e che la strega fosse pazza da legare, ed invece stasera, una delle sere peggiori della mia vita, mi compari davanti con quella cicatrice. A questo punto voglio sapere se è tutto vero o sono coincidenze. Sei tu quella donna? Quella che mi ‘amava’?”

Doveva mentire, per forza. Aveva alzato un magnifico muro dentro il quale si era rifugiata, ci aveva messo un po’, le era costato un bel ricovero in clinica, ma c’era. Sapeva però che non era così saldo come avrebbe voluto e se solo avesse aperto uno spiraglio, il muro sarebbe crollato, con lei sotto le macerie. Non poteva permetterlo, non adesso che aveva raggiunto un suo pur minimo equilibrio.

“No.” Gli rispose, cercando di essere più convincente possibile.

“Sicura?”

“Non sono io, non so nemmeno di cosa stai parlando.” Stella si sistemò meglio quei dannati faldoni in mano con fare indifferente, ma le era difficile anche solo respirare a vedersi Shannon con la fronte corrugata che la fissava in quel modo torvo.

“E la cicatrice?”

“Emh…” Doveva inventarsi una bugia, lì su due piedi. E non era mai stata brava a dirle. Azzardò l’incidente domestico. “Me la sono fatta con il ferro da stiro. Mi stava cadendo, ho tentato di afferrarlo ma non sono riuscita a prenderlo e mi sono ustionata un polso.” La prima che le era venuta in mente, la più stupida e anche la bugia peggio proferita della storia dell’umanità.

Shannon sogghignò, incrociando le braccia, perplesso: “Certo, come no? Se tu facessi l’attrice come lavoro, moriresti di fame.”

“Ma, è vero!”

“Raccontala a tua nonna questa fandonia, capito? Non mi fare incazzare, per favore. E soprattutto dammi un po’ di credito, non sono rincoglionito del tutto.” Shannon alzò la voce e le si parò davanti con le mani sui fianchi. “Allora?”

Stella abbassò gli occhi, imbarazzata. Sotto lo sguardo furioso di Shannon, le pareva di essere una scolaretta sorpresa a copiare il compito in classe. Non aveva immaginato che quell’uomo potesse essere un osso così duro da trattare, dalle foto non sembrava.

Era stanca, esausta, sfinita e adesso aveva anche Shannon Leto che la stava interrogando su una cosa che, in fondo, lo riguardava ma che Stella si vergognava a morte a dirgli. E poi anche a dirglielo, che cosa ne poteva capire un uomo del genere? Avrebbe riso di lei, sicuramente. Appoggiò i maledetti faldoni su un tavolino lì vicino ed il portatile per terra. Che cosa doveva fare? Raccontare la verità? Sospirò e si girò a guardare verso la finestra le luci di Milano che brillavano nella notte, per un momento.

Alla fine si decise: ma sì, poteva raccontargli tutto, tanto per farla finita a breve, no? Cosa sarebbe cambiato? Ormai era passato. Non importava più. Ridesse pure, tanto...

“E’ tutto vero.” Disse, dopo un attimo, a voce bassa, dandogli le spalle. “Io… Io ti amavo. Ti desideravo da morire. Non so se puoi capire. Così intensamente, che l’idea di non poterti avere mi ha portato a tentare il suicidio. Tre anni fa, più o meno. Mi sono tagliata il polso con una lametta da barba… o almeno ci ho provato… e, ovviamente, non ci sono riuscita.”

Si girò verso l’uomo, che era rimasto silenzioso: “Sono stata un’imbecille, vero? Stavo buttando nel cesso la mia vita, per te. Soltanto per te. Non ti conoscevo e non ti avevo nemmeno mai visto da vicino. Non sono mai venuta ad un tuo concerto. Non potevo sapere com’eri in realtà. Eppure…” Ormai quella parte della sua vita era passata. Se la doveva gettare alle spalle, lo aveva già fatto. Non aveva senso riconsiderarla ora, nemmeno per uno Shannon reale, lì, in piedi in silenzio davanti a lei. “Ma come mai potevo essermi innamorata di te, da una fotografia? Da un video? Scema, vero?”

Stella si scherniva, ridendo di sé stessa. Poi abbassò gli occhi a guardarsi le mani, imbarazzata.

Ma Shannon non rise. Le si avvicinò di un passo: dunque era vero quello che aveva detto la strega. Era stato lui a ferirla, senza volerlo, soltanto per il semplice fatto di esistere. E lei? Che genere di donna poteva essere, per amarlo senza conoscerlo? Non sapeva bene cosa dirle. “Mi dispiace.” Le disse, semplicemente, toccandole un braccio.

La donna scosse una spalla e la testa, guardandolo in viso: “Non fa niente, ora sto bene. E’ tutto passato. Era solo ieri. Ormai non importa più.” Gli sorrise timidamente, quasi convinta di quello che aveva detto, decidendo che doveva andarsene di lì, e subito. “E… adesso devo proprio andare.”

“Perché?”

Che domanda le stava facendo? “Perché? Perché non c’è nessun motivo per cui io debba rimanere qui, no?”

Shannon si mise a fissarla, studiandola: lunghi capelli castani ondulati le cadevano sulle spalle e due occhi azzurri, truccati di scuro, dalle ciglia arcuate, tristissimi, lo guardavano. Una giacca nera sfiancata e una gonna a tubino, anch’essa nera, appena sopra il ginocchio, mettevano in rilievo la sua magra figura, ulteriormente slanciata da un paio di scarpe con il tacco alto; due gambe perfette avvolte in calze nere trasparenti. Di bianco soltanto la camicetta di seta e gli orecchini di perla.  E, come una bambina, portava la borsetta a tracolla.

La fede al dito. Che sembrava un peso su quella mano affusolata dalle unghie dipinte elegantemente di rosso. C’era un marito, dunque, e forse anche dei figli.

A quell’esame, Stella si sentì in imbarazzo.

Arrossendo per l’ennesima volta, gli disse: “Non mi scrutare così, per favore: noi… non abbiamo proprio niente da dirci. Mi dispiace che la strega ti abbia fatto del male, ovviamente io non volevo finisse così, ma non potevo pensare che è vero che l’amore non va perso. Non potevo prevederlo, né immaginarlo.” Si girò nuovamente verso le finestre. “Ora… ora ci siamo detti quello che dovevamo, hai voluto sapere e non c’è altro da dire. Quindi me ne vado.” Per un momento le parve di aver detto più volte la stessa cosa, di essere un disco rotto.

Shannon le si avvicinò e cominciò a guardare dalla finestra anche lui. Che cosa doveva dirle, ancora? Stava improvvisando, non ne aveva idea. La situazione era talmente strana da non essere razionalmente prevedibile. “C’è un’altra cosa, in realtà.”

“Cosa?” Stella lo guardò un attimo, desiderosa di terminare al più presto quella conversazione.

“Io… l’ho sentito. E’ strano a dirsi ed è senza dubbio una specie di stregoneria, ma… Ho sentito quello che provavi per me. E’ stata sempre la strega.”

Shannon si guardò attorno un attimo, perplesso: ma che cazzo stava dicendo? Lui? Non era da lui dire scemenze del genere. Aveva quarant’anni, l’era dei sogni era tramontata da un pezzo, quella sera gli si era infranto anche l’ultimo, di che cosa andava parlando? Ma cosa gli stava succedendo? Il mondo girava alla rovescia, quella notte, ormai non c’era più dubbio. Eppure…

“Come?” Stella si girò a fissarlo, sorpresa.

Shannon fece un sorriso di traverso: ormai aveva iniziato il discorso, tanto valeva finirlo. “Io non sono un sentimentale e la strega non so come abbia fatto, ma… beh, era una sensazione bellissima di tenerezza e affetto che non avevo mai sentito prima di quel momento…” Shannon si posizionò tra la finestra e Stella, vicinissimo.  D’istinto, alzò una mano a toccarle una ciocca di capelli che le scendeva sulla spalla. “Né l’ho più provata da allora.” Si diede nuovamente dello scemo, si sentiva come se avesse quindici anni, ma quella era la verità e non riusciva a stare zitto: era come se le parole gli uscissero da sole. Non riusciva a non dirla a Stella, la verità. Improvvisamente di rese conto che quella donna gli piaceva e non sapeva neppure lui perché. Era così e basta.

Lo sguardo dell’uomo era fermo sul suo e Stella si sentiva nuovamente paralizzata. Non le uscì niente se non un: “E…?”

“Vorrei sentirla ancora.” La voce di Shannon era un sussurro.

Stella non era sicura di dove Shannon volesse andare a parare, con quello sguardo furbetto e quel sorriso appena accennato, e decise che doveva glissare: “Non… non saprei come. Dovresti tornare in Bolivia.” Si allontanò di un passo.

Shannon sorrise. “No, non occorre andare così lontano.” L’uomo le si avvicinò di più e, sorprendentemente, le mise le mani attorno alla vita stretta, attirandola verso di sé. “Non la voglio sentire dalla strega: se è vero quanto hai detto, voglio sentirla direttamente da te.”

Stella si ritrovò occhi negli occhi con Shannon, con le gote in fiamme e le mani appoggiate sul suo petto, sulla difensiva, mentre lui la stringeva di più. L’uomo abbassò il viso per appoggiare la sua bocca su quella di Stella, ma lei girò il volto dall’altra parte e lo respinse.

“No. Per favore.” Era una cosa che aveva desiderato per tanto tempo ma che ora non si sentiva di affrontare. Non poteva. Non doveva. E poi non stava succedendo veramente. Era impossibile. “No. Io… devo andare.”

Si irrigidì e tentò di spingerlo via, ma Shannon non si scostò di un millimetro. Anzi, riportò il viso vicino a quello della donna, ne aspirò il delicato profumo, ad occhi semi chiusi, deliziato. Voleva sentire quella splendida emozione nuovamente, a tutti i costi. E solo lei poteva fargliela sentire, ne era certo.

Stella era senza fiato, ne trovò appena per dire qualcosa: “Non fare niente. Ti prego. Io… ho sofferto a sufficienza. E comunque non ti amo, non potresti risentire la stessa sensazione qui ed ora, e tu… non mi ami nemmeno tu e non mi amerai mai, perciò… lasciami andare via.” Stella sperò di essere stata convincente: non poteva credere nemmeno per un momento che adesso Shannon volesse stare con lei. Ma l’uomo non demordeva.

“La strega parlava di amore tra anime simili, capisci?”

Stella sbuffò, irritata: possibile che quelle parole le dicesse quell’uomo? Non era da lui, erano certamente delle balle, per farla restare in quella stanza, chissà perché. Replicò subito: “Le anime simili non esistono e se esistono non siamo noi: io e te apparteniamo a mondi diversi, siamo agli antipodi e, soprattutto, non ci conosciamo. Non potremmo mai e poi mai stare insieme. Io sono sposata e devo tornare a casa mia e tu… beh io non so come sei messo ma…”

“Io voglio… Voglio crederci.” Shannon non credeva ai suoi orecchi, ma cosa stava dicendo? Ormai stava andando a ruota libera. Il suo ultimo sogno era crollato e lui aveva bisogno di credere in qualcosa.

“Volere non basta, nella vita. Ci sono tutte le conseguenze e le circostanze ad impedirlo. Lasciami.”

“Aspetta. Dammi una possibilità. Resta qui.”

“No. Non ci conosciamo, non è possibile.”

“Ci siamo incontrati da dieci minuti, come fai a dire?”

“Io… ” Stella riuscì a liberarsi e si diresse verso la porta, decisa ad andarsene. “Devo andare. E… basta.”

“No, da quella porta non esci. Parola mia.” Shannon le prese di nuovo il braccio e la tirò nuovamente verso di sé. “Finché…”

Stella si divincolò, rabbiosa e frustrata allo stesso tempo: “Finchè, cosa?” Cominciò a fissarlo con occhi di fuoco e poi gli sibilò tra i denti: “Che ti succede? Non hai trovato nessuna modella minorenne da rimorchiare, stasera? L’albergo non ti ha trovato nessuna prostituta? Tutte esaurite? E allora vuoi scopare con me, Shanimal?”

“Che cazzo stai dicendo?” Gli occhi di Shannon mandarono un lampo pericoloso, quel soprannome non gli era tanto gradito e nemmeno il maligno commento di Stella. Era anche vero che lo conosceva bene, a quanto sembrava. Fin troppo. E questa cosa gli fece un male cane.

“Hai capito benissimo. Lasciami il braccio. E subito.”

“Chi credi di essere, per dirmi cose simili?” Invece di lasciarlo, Shannon glielo strinse di più.

“Non sono proprio nessuno per te, per quello te le posso dire.”

“Non hai nessun diritto di giudicarmi, capito?”

“Lasciami andare.” Stella tentò ancora di liberarsi, senza riuscirci.

“Ti ho chiesto di restare per parlare, non per scopare.”

“Da te non voglio né l’uno né l’altro.”

Shannon rimase di sasso.

Le lasciò subito il braccio: non aveva senso chiederle perché. Era ormai ovvio: Stella non lo voleva, l’aveva desiderato in passato e ora non più. Aveva ragione lei, non c’era niente da dire: qualsiasi cosa lui provasse non aveva alcuna importanza, ora. La guardò mentre riprendeva il portatile e quei libroni, si voltava a fissarlo per un attimo e poi girava la maniglia ed usciva dalla porta, lasciandola spalancata. Tornava alla sua vita, da suo marito, dalla sua famiglia, mentre lui non aveva nessuno e non poteva farci nulla. Non poteva pretendere nulla da lei: l'aveva trovata, senza cercarla, ma forse era troppo tardi per costruire qualcosa. La seguì e per un attimo rimase sulla soglia, a guardarla allontanarsi silenziosamente lungo il corridoio illuminato.

Chiuse la porta: sarebbe stata una notte lunga e piena di tenebre, per lui.

 

RRR

 

Ho preso la porta e sono uscita quasi di corsa. E dei faldoni che ho in mano farei un falò qui in mezzo al corridoio, non fosse che il mio inculcato senso del dovere ha sempre il sopravvento.

Non mi giro a vedere la porta che si chiude: la sento solo sbattere. Arrivo all’ascensore, trafelata. Premo il pulsante per chiamarlo, ma è come se fossi investita da una scossa elettrica.

Ma cosa sto facendo? Cosa? Cosa, perdio?

Sto fuggendo, di corsa. Come ho fatto sempre in vita mia, a casaccio, sbagliando quasi sempre a scegliere quando sono stata ad un bivio, non cogliendo le occasioni al momento giusto.

Se esco da questo albergo avrò preso la strada giusta?

E se rimango?

L’ho insultato, beffeggiato e, involontariamente, anche cicatrizzato, il povero Shannon. Ma cosa voglio veramente da quell’uomo? Cosa potrei avere da lui?

Sono ritornata lentamente sui miei passi, davanti alla sua porta bianca. 537. Bel numero, dispari, portafortuna, inciso in argento.

Lui è là, dietro quella soglia, ci separa soltanto un pezzo di legno lavorato, e non mi aveva mandato via. Me ne sono andata da sola. Mi aveva detto di restare per parlare di noi, di questa assurda situazione, e io invece ho preso la porta e sono uscita.

Brava.

Un genio.

Quante volte ho pensato che avrei voluto incontrarlo, parlargli, vederlo sorridere? E ora che ce l’ho qui, cosa faccio? Scappo via. Impaurita della mia stessa paura di rimanere da sola con lui. Spaventata dalla possibilità che per lui io conti qualcosa, terrorizzata dall'idea che la storia delle anime gemelle sia vera.

E ora sto malissimo.

Perché? Perché mi faccio male da sola? Il destino mi aveva riservato questa sorpresa, questa notte magica ed impossibile, e io cosa sto facendo? La sto buttando dritta nel cesso. Perché?

Appoggio per terra, vicino alla porta, i faldoni e il PC, maledetti fardelli, e busso leggermente.

Non mi risponde nessuno. Trattengo il fiato.

Busso nuovamente. Ultima volta, penso, e poi me ne vado davvero.

La porta si apre lentamente.

Shannon è lì davanti a me, a torso nudo, con la maglia nera in mano, e mi fissa con il suo solito mezzo sorriso sornione, quello che ho sognato per notti intere. Evidentemente si stava spogliando per andare a letto, visto che adesso è anche scalzo.

Per un momento rimaniamo così, io appoggiata allo stipite della porta, lui con un braccio a tenere la maniglia: non ci sono parole da dire, o perlomeno io non ne ho nessuna.

Non so cosa dirgli, non so cosa provo, non so cosa fare.

Non so nemmeno che espressione ho in volto, non riesco ad immaginare come possa vedermi, che cosa legga nei miei occhi. Gli guardo il tatuaggio artistico sul braccio sinistro, i glyphis sul destro, i suoi muscoli scolpiti, i suoi occhi, il suo petto quasi glabro. Conosco i suoi tratti a memoria, avevo il suo poster nel bagno dell’ufficio ed era fotografato proprio come lo vedo ora, come se il poster si fosse animato. 

E lui non si muove, si lascia guardare, perché?

Poi non so cosa mi prende. E’ come se mi si aprisse improvvisamente una porta in testa, come se crollasse un sipario.

Ma perché mi faccio tutti queste domande inutili? Perché continuo a chiedermi ‘perché’? Perché ho passato la vita a farmi problemi del tipo ‘cosa diranno gli altri’, mentre non mi importava cosa avrei detto io? Perché ho sprecato il mio tempo ad analizzare tutte le situazioni, a dividere un capello in quattro, a fare come DOVEVO fare, imprigionata in obblighi morali ed etici quasi infantili, infarciti di sensi di colpa e peccati, e non come MI SENTIVO di fare?

Io non so cosa voglia da me e non mi importa.

Ma io so cosa voglio da lui e ora mi importa.

Io voglio lui.

Lo voglio e basta.

E lo voglio adesso.

Entro dalla porta e me la chiudo alle spalle.

Mi tolgo la borsetta a tracolla e la appoggio sul tavolo alla mia destra, poi mi tolgo la giacca e le scarpe. Comincio a sbottonarmi la camicetta di seta, lentamente. Non sono una spogliarellista di Las Vegas, quel genere di donne a cui lui è abituato, né una zoccola d’alto bordo, una puttana di mestiere.

Non sono una stragnocca da copertina, una modella da taglia XXS, una attrice di Hollywood ripiena di silicone e botulino, finta come una bambola. Non so se sono bella o sexy in questo momento, non mi importa. Non so se ho il trucco a posto, la pettinatura impeccabile o se sembro uscita dalla centrifuga della lavatrice.

NON MI IMPORTA. Non mi importa più di niente.

Io lo desidero e se Shan mi vuole, fosse anche per un’ora, io sono qui. Solo questo conta, adesso. Non ho più paura di nulla.

Butto la camicetta per terra, poi mi tolgo la gonna e rimango in slip, reggiseno e autoreggenti. Poi mi avvicino a Shannon e lo abbraccio, passandogli le braccia attorno al collo. E’ un delirio di piacere infinito: finalmente posso sentire il calore ed il profumo della sua pelle, il suo corpo contro il mio, le sua braccia che mi stringono. Rabbrividisco al contatto, sono quasi senza fiato.

Gli accarezzo lentamente la nuca, il viso, le spalle, i capelli, il petto, il tatuaggio al centro della schiena e lui, buttata la maglietta per aria, fa altrettanto: mi accarezza la schiena e poi le natiche, i fianchi, il seno.

Poi finalmente sento le sue labbra, avide e bollenti, sulle  mie, la sua lingua che incontra la mia, mentre mi sgancia il reggiseno e percepisco il suo desiderio contro di me. Shannon mi solleva di peso e mi porta sul letto. In breve la mia biancheria vola per la stanza e così pure i suoi pantaloni.

E la notte è solo nostra.

 

RRR

 

Ti ho lasciato che dormivi ancora. Profondamente.

Il jet lag e la notte quasi insonne ti hanno stroncato. Non hai sentito quando mi sono sciolta dal tuo abbraccio, mi sono vestita, ho preso le mie cose e me ne sono andata dalla tua stanza, dopo averti fatto una lieve carezza sul bel viso.

Ti ho lasciato il mio numero di telefono sul tavolino e dal tuo blackberry (che contiene ben sette prolissi SMS non letti di un Jared incazzatissimo con te) ho preso il tuo.

Non so ancora se mi chiamerai, se ti chiamerò o se ci vedremo ancora.

Intanto sono in treno e torno a casa dalla mia famiglia. Tu non ce l’hai una famiglia, non la vuoi, mi hai detto. Io invece ce l’ho e la voglio, comunque, contro tutte le convenzioni. Forse, in fondo in fondo, sono una bacchettona. Non ho pensato nemmeno per un momento di lasciare la mia famiglia e scappare con te. Viviamo in mondi diversi, in modi differenti, ma non per questo non possiamo trovare un punto di contatto, quando meglio ci aggrada. E a me basta e avanza.

Che cosa c’è stato, la notte scorsa, tra di noi?

E’ stato solo sesso? Può essere. Se anche fosse, perché dovremmo negarlo? E’ andato bene ad entrambi, esattamente così com’è stato. Non escludo che tu lo farai con tante altre donne, forse ancora anche con me, ma non ci posso fare nulla, sei un uomo libero ed io, stranamente, non sono gelosa. Io lo farò anche con mio marito, ogni tanto, ma credo che immaginerò di farlo con te, come spesso è successo anche in passato.

E’ stato amore? Può essere. Non lo so. Non ci siamo detti tiamotiamotiamo, come due teneri fidanzatini quindicenni, né giurato amore eterno (niente dura per l’eternità, nemmeno la vita stessa e forse è questa la sua bellezza) perché non sappiamo se è la verità o una balla colossale. Solo il tempo, medico infallibile, potrà dirlo. Mi hai anche detto, prima di crollare dalla stanchezza tra le mie braccia, che la tua sensazione perduta l'hai sentita nuovamente mentre facevamo l'amore, mentre univamo i nostri corpi e i nostri spiriti. Vale anche per me, la sento ogni momento, ogni volta che ti penso, con ogni fibra di me stessa, credevo di averla sepolta ed è invece è più viva che mai.

E poi chissà se è vera la storia delle anime simili: cinicamente mi verrebbe da dire di no, ma sono cinquemila anni che questa leggenda gira, fin dagli albori dell’umanità, dalle mezze mele di Platone, alla Matrix Divina di Gregg Braden, passando per la tua strega boliviana.

E allora, magari, sopravvissuta alle maree del tempo, sì, può essere che sia vera. Mi veniva un po’ da ridere quando lo dicevi tu, però: non ti facevo così romantico! O forse ieri notte eri solo e disperato e ti andava bene chiunque, me compresa? Non so, ora non voglio saperlo. Sto bene così.

Arriva un SMS. E’ la mia collega che mi chiede se sono ancora viva, sopravvissuta alle trappole dell’errore fantasma. Sì,  sono viva, oggi più che mai, più di ogni altro momento che ho vissuto finora.

Guardo il paesaggio che corre oltre il finestrino, veloce, inafferrabile, c’è il sole, la giornata è splendida. O forse è a me che sembra splendida, penso, anche se venisse giù il diluvio universale, una tromba d’aria e una nevicata di due metri.

Mi suona il telefono.

Guardo il numero.

Sei tu.

“Ehi.”

“Ehi. Sei in treno?”

“Sì. E tu?”

“In aeroporto. Torno a casa. Problemi in famiglia.”

Credo di avere capito: “E’ tanto incazzato, Jared?”

“Che basta…” e ti scappa una delle tue inconfondibili risate. “Dovrò raccoglierlo col cucchiaino.”

Rido anch’io: “Ti vuole troppo bene, non sopporta di perderti.” Psicologia spicciola, da oroscopo mattutino.

“Anch’io gliene voglio, ma ogni tanto vorrei ucciderlo.”

“Odio e amore sono legati, lo sai no?” Ora sono agli stereotipi da bacio perugina, me ne rendo conto.

“Oggi vorrei uccidere anche te, a dire la verità.”

“Perché?”

“Perché quando sono uscito dalla camera sono inciampato sui tuoi dannati e merdosi libroni e sono finito a gambe all’aria in mezzo al corridoio! Vipera! Avevi fatto apposta, confessa!”

“O no!” Rido come una matta, immaginandomi la scena di Shannon che li calpesta, bestemmiando come un turco.

“Preparati per la mia atroce vendetta, la prossima volta che ci vediamo.”

“Aiuto, che paura!” Lo prendo in giro.

“Scema. Scappo che perdo l’aereo.”

“Ciao.”

“Ciao. A presto.” Riagganci subito.

A presto.

A presto, piccolo Shan, a presto.

 

 

FINE

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=222301