The Blue Eyed Soul - Storia di un ragazzo dagli occhi blu di EllieMarsRose (/viewuser.php?uid=120979)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Distacco ***
Capitolo 2: *** Preoccupazione ***
Capitolo 3: *** Smacco ***
Capitolo 4: *** Apatia ***
Capitolo 5: *** Pianto ***
Capitolo 6: *** Rassegnazione ***
Capitolo 7: *** Rabbia ***
Capitolo 8: *** Ricordi ***
Capitolo 9: *** Amarezza ***
Capitolo 1 *** Distacco ***
Spike
Fuori
pioveva. Come sempre, del resto. Vivere nel Regno Unito significava
avere a che fare con la pioggia quasi giornalmente, tutto l'anno.
Ciò
che era
veramente strano, però, era che stesse piovendo dentro di lui;
nonostante seguisse con gli occhi i tergicristalli che ondeggiavano
sul parabrezza, sperando che spazzassero via dalla sua anima tutto
quello schifo di malumore e facessero ritornare un po' di sole, non
riusciva a provare un minimo di sollievo. Lanciò
un'occhiata
fugace al sedile del passeggero: Leah era lì, con i pugni stretti
sulle cosce e gli occhi castani che guardavano l'asfalto scorrere
veloce fuori dal finestrino.
«Ti
prego, dimmi di nuovo perchè devi
proprio andarci» Spike
ingranò nervosamente
la terza mentre la macchina saliva di giri. Cercava di andare piano,
il più piano
possibile, per godersi appieno quegli ultimi istanti con lei.
Leah
sbuffò guardando
il tettuccio di quella Mini scassata: «È la
mia grande opportunità»
«Questo
me l'hai già detto
un sacco di volte».
Spike parcheggiò la
macchina vicino al Terminal 4. «Ma
perchè proprio
Lione?».
La
ragazza sbuffò di
nuovo e tentò di
scendere dall'auto, ma Spike la bloccò
per un
polso; Leah arricciò le
labbra, indispettita: «Perchè
è
l'unica
università dove
posso veramente specializzarmi in ciò
che mi
piace di più».
Lo
guardava con gli occhi che gli urlavano spazientiti: “Te
l'ho già spiegato
un sacco di volte, perchè ti
ostini a non capire?”.
Ma lì non
era questione di non capire; Lione non era attaccata a Londra. Lione
era in Francia, lontano, oltre il mare, giù
a sud.
«E
poi puoi venire a trovarmi tutte le volte che vuoi! Basta prendere
l'aereo» gli
aveva urlato quelle parole mentre scendeva dall'abitacolo e andava a
prendersi la valigia nel bagagliaio.
Spike
guardò i
suoi capelli color mogano e lisci svolazzare nell'aria umida e si
sfregò le
palpebre: sei
tu quella che non capisce.
Scese nella pioggia a bagnarsi la chioma castana scura, dopo aver
picchiato i palmi sul volante: «Qui
non è questione
di prendere l'aereo per passare la Manica»
«Senti»
Leah sbuffò
caricandosi
in spalla lo zaino pesante «se
sei diventato improvvisamente aerofobico, sappi che puoi prendere il
treno».
Fece
per incamminarsi verso l'entrata del terminal, ma Spike le vomitò
addosso
tutta la rabbia che aveva accumulato in corpo nelle tre settimane
precedenti: «Porca
puttana, non fare orecchie da mercante e ascoltami! Lo sai che non
sono aerofobico, non inventarti scusanti del cazzo».
Si bloccò per
un attimo, prendendo fiato e preparandosi psicologicamente per le
parole importanti che stava per pronunciare: «Non
voglio che tu vada lontana da me».
Leah
lo guardò dritto
negli occhi blu sotto la pioggia battente: «Tu
cosa provi per me?».
Spike
si avvicinò a
lei, le prese la mano e se la portò
al
cuore: «Ti
amo. Non dimenticarlo».
Con il naso le accarezzò il
profilo e le baciò le
labbra bagnate di pioggia.
Leah
si ritrasse riluttante: «E
allora, proprio perchè mi
ami, dovresti lasciarmi fare ciò
che mi
piace di più. E poi sono solo sei mesi; passeranno in fretta».
Spike
annuì in
silenzio, mentre il suo sguardo cadeva verso il basso, sulle loro
scarpe; i suoi stivali da cowboy e quelle scarpine verde scuro che
tanto gli piacevano. Era l'ultima volta che li avrebbe visti insieme;
erano la cosa più carina
da osservare quando si alzava per andare in bagno dopo aver fatto
l'amore con lei. Guardava i piedi del letto e le scarpe verdi di Leah
erano sempre, puntualmente, appoggiate sopra il gambale dei suoi
stivali. Per un secondo, la vista gli si appannò
e fece
fatica a prendere fiato: «Mi
manchi già adesso,
che sei ancora accanto a me».
Leah
sorrise; il suo ragazzo voleva apparire sempre sicuro di sè
e
spigliato, ma sotto nascondeva un animo sorprendentemente tenero. Lo
strinse forte ed immerse il naso nella sua guancia profumata di
dopobarba: «Anche
tu mi mancherai tanto. Sei davvero la cosa più
importante
che ho».
Si distaccò un
attimo per guardarlo negli occhi, quei splendidi occhi blu che
l'avevano ipnotizzata dal primo istante che l'aveva visto; sentì
le
proprie corde vocali annodarsi: «Ti
amo, Jonathan».
Jonathan...
solo sua madre e sua sorella lo chiamavano ancora così; e,
naturalmente, anche Leah nei momenti di intimità.
E solo dio sapeva perchè,
quando lei pronunciava il suo nome di battesimo, gli partiva il cuore
a mille. La strinse di nuovo al petto, baciandola con passione e
cercando di nascondere una lacrima che, furtiva, gli era scivolata
fuori dalla palpebra chiusa, sotto una ciocca ribelle che scappava
dalla bandana blu scuro. Con la punta della lingua giocò
con lei
e le accarezzò le
labbra, per imprimere al meglio nella propria memoria quel sapore che
gli sarebbe mancato troppo a lungo.
Poi...
Poi
lei si staccò dal
suo viso e lo prese per mano in silenzio, trascinandolo dentro
l'aeroporto. Spike assistiva al distacco come se fosse stato
rinchiuso in una bolla di sapone; sembrava che lei si muovesse a
rallentatore, in silenzio, ma nulla poteva fermare quell'inesorabile
allontanamento. Solo quando lei lo salutò
da
lontano sventolando il passaporto, si rese conto di essere veramente
solo. Avrebbe voluto bloccarla, impedirle in tutti i modi di prendere
l'aereo; oppure gli sarebbe piaciuto comprare su due piedi un
biglietto di sola andata per il volo per Lione, magari sul sedile di
fianco a lei. Sì,
ma con che soldi?
Sospirò
abbassando
il capo, sentendo la consapevolezza gravargli sulle spalle. Sei
solo; hai gli amici, ma ti manca lei.
Aveva chiesto a Leah di mollarlo prima di partire; sarebbe stato meno
doloroso che vivere a distanza. Ma lei si era rifiutata, gli aveva
detto che lo amava con tutto il cuore e che avrebbe preferito che lui
ci fosse sempre stato, anche se per sei mesi l'avrebbe solo sentito
per telefono. Guardò il
tabellone dei voli in partenza: l'aeromobile Air France per Lione
saliva verso l'alto troppo in fretta. She's
gone...
Diede
un calcio ad un'etichetta persa da qualche passeggero frettoloso e si
incamminò verso
la Mini con lo sguardo perso nel vuoto. Era così
fuori
dal mondo che urtò un
uomo d'affari senza volerlo, facendogli rovesciare a terra una
cartelletta piena di documenti che stringeva gelosamente sotto il
braccio. L'uomo, calvo e grassoccio, gli diede del drogato e del
tossico, dato
che con quei capelli e quella faccia non puoi essere altro che uno di
loro; Spike
nemmeno si girò per
mandarlo al diavolo, al contrario, mantenendo gli occhi blu fissi
sulle piastrelle, si scusò in
modo molto timido e lo aiutò a
raggruppare i fogli in fretta e furia. Guardò
l'uomo
sparire nella folla borbottando, seguendo con le sue pupille vuote
l'oscillare ritmico dell'impermeabile che indossava, passando rasente
la libreria del Terminal 4. E lì lo
vide, che beffardo lo osservava da dietro il vetro, con la sua
copertina candida decorata con disegni bimbeschi. Quel libro che con
le sue frasi ad effetto aveva ammaliato la sua Leah e la stava
allontanando da lui; guarda caso, l'autore dava anche il nome
all'aeroporto dove lei, un paio d'ore dopo, sarebbe atterrata.
Antoine
De Saint-Exupéry:
Il Piccolo Principe.
Lo
stronzo francese che le aveva occupato il cervello.
Senza
dare nell'occhio, entrò nella
libreria, fece un giro fra gli scaffali con le mani in tasca, poi,
molto discretamente, rubò una
copia di quel libro terribile. Salì
in
macchina ed uscì dal
parcheggio dell'aeroporto, diretto verso
un posto dove nessuno l'avrebbe mai visto.
Passati circa dieci minuti svoltò
in una
piccola stradina poco dopo Hounslow West; posteggiò
la Mini
attaccata al marciapiede e si mise in mezzo alla strada. Con la
pioggia che gli appiccicava i capelli alla faccia, estrasse
dall'interno della giacca il libro, sentendo la rabbia montare in
lui. Aprì una
pagina a caso e lesse la prima frase che vide: "Se vuoi un
amico, addomesticami".
Le
lacrime gli salirono inesorabilmente agli occhi e le viscere gli si
annodarono: con
tutto quello che potevo trovare, proprio la prima frase che lei mi ha
detto per conquistarmi dovevo leggere?
Gettò
il
libro a terra e corse nell'abitacolo della Mini a prendere le sue
Lucky Strike e l'accendino; era confuso, solo, amareggiato, triste ed
incazzato. Doveva assolutamente fumare. Diede un paio di colpi a
vuoto, poi la pietra focaia scintillò
ed
accese una debole fiammella arancio; Spike diede due aspirate nervose
dal filtro, mordendosi le labbra ogni volta, prima di espirare il
fumo grigio in una lunga nuvola, e sentendo il sapore salato delle
proprie lacrime mescolarsi a quello della pioggia. Fissò
il
libro per un'ultima volta con gli occhi appannati, poi, stringendo la
sigaretta fra gli incisivi, si inginocchiò
ed
accese l'accendino. Fortunatamente
questa merda non è ancora
inzuppata. Lentamente,
le pagine presero fuoco, una dopo l'altra. Stette per un attimo a
guardare l'inchiostro sciogliersi nell'umidità,
poi accese il motore e tornò al
suo appartamento, dove si scaraventò
sul
divano e si addormentò.
Sinceramente
non so perchè mi sia messa a scrivere una nuova storia; come potete
vedere, può essere sia un capitolo autoconclusivo, così, solo
perchè avevo voglia di animare un po' Spike Gray, oppure può essere
benissimo una storia che può andare avanti con altri capitoli. Non
saranno lunghi come al mio solito (credo).
Se
state leggendo queste poche righe, vi ringrazio; se volete lasciare
una recensione, vi ringrazio ancor di più. Bella o brutta che sia
non ha importanza; ciò che è veramente importante è che voi mi
diate qualche consiglio per migliorarmi.
Se
la storia andrà avanti, conoscerete meglio il mondo dei Quireboys (e
credo che ci sarà anche un cameo di Tyla... d'altra parte, nella
vita reale, lui e Spike sono molto amici), sennò... va bene così.
Questa
storia è stata ispirata essenzialmente da due persone: la prima ha
ispirato il personaggio di Leah (un uomo... che qui è diventato una
donna; uau) e solo Twin potrebbe capire a chi mi riferisco; la
seconda è, ovviamente, Spike Gray con il quale (per colpa del mio
ragazzo) ho un autografo e una foto in sospeso.
Vediamo
un po' come va a finire... see you soon (spero)
Ellie
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Capitolo 2 *** Preoccupazione ***
02 Preoccupazione
La prima
settimana di distacco era stata quasi surreale; Spike e Leah si
chiamavano a giorni alterni e tutto quello che riuscivano a dirsi
era: «Come stai? Sai, mi manchi un sacco». Guy Bailey, il
coinquilino di Spike, ascoltava quelle conversazioni con le pupille
rivolte al soffitto, sentendo progressivamente i suoi molari cariarsi
uno dopo l'altro. Poi le cose si erano “routinizzate”; le
telefonate si erano ridotte drasticamente di numero già dalla
seconda settimana, arrivando a due, e gli argomenti si erano in un
certo senso ampliati: oltre al “mi manchi” si era aggiunto “come
va lo studio?”.
Sti
cazzi, che due coglioni
continuava a ripetersi ogni volta Guy mentre preparava qualcosa di
commestibile per cena mentre Spike stava al telefono a tubare per
cinque minuti abbondanti.
Poi,
una sera, dopo un mese e mezzo che Leah era partita per Lione, il
telefono non suonò e nemmeno il giorno dopo ci furono chiamate in
entrata dall'estero. Spike sedeva inquieto sul divano fissando in
cagnesco il telefono grigio e tamburellando con il piede destro
contro la gamba del tavolino basso. Guy lo fissava con la schiena
attaccata al muro vicino alla finestra, espirando cerchi di tabacco;
vedere l'amico in quello stato lo mandava non poco in bestia: «Ehi,
senti» cercò di fargli spostare gli occhi blu dal telefono «io te
l'ho sempre detto che quella non mi piaceva».
Spike
andò su di giri: «Spiegati meglio».
«In
realtà c'è poco da spiegare» Guy fece rotolare il mozzicone lungo
il davanzale umido «quella ti prendeva e ti sta tutt'ora prendendo
per il culo»
«Puttanate»
il ragazzo si fece paonazzo in viso e si alzò puntandogli contro
l'indice «secondo te due parole importanti come “ti amo” si
dicono così, tanto per dare aria alla bocca?».
Guy
si fece scappare una risatina: «Mi spiace, ma alcuni lo fanno».
Spike
fece per rispondergli per le rime, ma si bloccò: e se avesse
ragione? Nah, impossibile... eppure, Guy un po' di dubbi glieli
aveva fatti venire. Improvvisamente il suo stomaco si fece grande
quanto un granello di sabbia e per un attimo smise di respirare,
provando una schifosa sensazione di nausea. Senza aggiungere altro,
si infilò la giacca ed uscì in strada, direzione nessuna parte;
voleva stare solo e girovagare con i suoi pensieri.
Guardando
i suoi stivali avanzare sul marciapiede, Spike provò a richiamare
alla memoria le ultime telefonate avute con Leah: con il passare
dei giorni lei suonava sempre più fredda. Beh, ma penso sia in un
certo senso “normale”; insomma... non ci si vede da ormai un mese
e mezzo. Si fermò per un attimo ad osservare un foglio del Times
attraversargli il cammino per poi farsi schiacciare da un taxi in
corsa: già... e se in questo
arco di tempo lei avesse... no, impossibile. Lei è innamorata. È
innamorata di me. Non avrebbe mai sprecato parole così importanti
per nulla. Credo.
Sentì la propria
gola chiudersi ed il cuore mancargli un battito. No, non andava bene.
La verità era che era maledettamente preoccupato che lei si fosse
trovata qualcun altro con cui sostituirlo; qualcun altro con cui
avrebbe potuto parlare di quel dannato bambino innocente che aveva
candidamente chiesto al pilota di disegnargli una pecora. Già...
quel cosino biondo era veramente sopra ogni cosa per lei. Da che l'ho
conosciuta tre mesi fa, non ha fatto altro che parlarmi di quel libro
in ogni modo possibile. Si può amare di più un libro di una
persona?
Spike alzò gli
occhi blu al cielo e una goccia gli arrivò dritta in faccia; stava
per mettersi a piovere di nuovo. Sbuffò allacciandosi la giacca e
pensando ad un luogo dove andare a ripararsi: il
Dark Crimson Velvet non è poi così distante... Julie dovrebbe
essere di turno questa sera. Quello
era sempre il posto migliore dove andare: per bere una birra, per
tirare quattro freccette, per fare una partita a biliardo fumando
sigarette fino a tarda notte. Entravi in quel velluto rosso scuro e
ti lasciavi avvolgere dolcemente da un universo a sé stante,
profumato di alcol e tabacco, con le pareti morbide e le luci calde.
Il Crimson era come una sensualissima donna nuda con le labbra di un
rosso intenso.
Il ragazzo aprì la
porta pesante ed andò ad accomodarsi su uno degli sgabelli davanti
alla spillatrice. Si prese la testa fra le mani e cominciò
nuovamente a pensare a Leah: io
la amo... è vero, sono solo pochi mesi. Eppure senza di lei non
riesco a stare. Com'è che diceva? Se tu mi addomestichi, avremo
bisogno l'uno dell'altro. Però lei... se è andata via... va bene, è
andata via per studio, però se n'è andata comunque. Si
morse l'interno delle guance per cercare di bilanciare il dolore che
si diramava dal proprio torace: mi
manca...
«Jon!» la voce famigliare di Julie gli fece aprire gli
occhi «Che ci fai qui solo?».
Gli occhi blu di Spike incrociarono quelli color
nocciola della sorella; lo stava guardando con un sorriso dolce: «Ho
voglia di una birra, Julie»
«Che c'è?» la ragazza cominciò a spillare una
Newcastle Brown «Anche se penso già di conoscere la risposta. Sei
l'unico uomo che, per me, non ha segreti».
Spike sorrise appena e diede una lunga sorsata dal
bicchiere che gli aveva appena passato la sorella: «E allora credo
che non ti stupirai della richiesta che sto per farti». Julie si
protese con l'orecchio in avanti, accanto alla bocca del fratello.
Spike stette per un istante in silenzio, capendo che ciò che stava
per dire era un azzardo in piena regola, ma la sua voglia di vedere
Leah e tutti quei dubbi che avevano preso possesso della sua mente
non gli lasciavano altra scelta; se voleva dormire sonni tranquilli
la notte, doveva assolutamente compiere quella pazzia: «Quanti soldi
mi puoi prestare?».
Julie scosse bonariamente il capo: «Lo sapevo...
dipende»
«Da che cosa?» Spike bevve un altro sorso di Newkie
Brown
«Tu quanto puoi metterci? Penso che un solo andata
costi intorno alle quaranta sterline».
Spike ebbe un capogiro: «Sono un mucchio di soldi per
le mie tasche bucate»
«Lo so» Julie si scostò una ciocca mora che le era
crollata sul naso «se magari ti sbattessi un po' di più e trovassi
un lavoro un po' più redditizio del proiezionista, non avresti questi
problemi»
«Posso metterci solo trenta sterline» il ragazzo le
rispose scocciato «e comunque ci ho provato a cercare un altro
lavoro, non mi vogliono da nessuna parte. A scuola andavo male in
tutto, esclusa ginnastica; se non mi fossi rotto il braccio durante
gli allenamenti, a quest'ora sarei il primo portiere di qualche
grande squadra. Oppure, se riuscissi a trovare qualcuno che ci faccia
un contratto discografico, a me e alla band, farei il musicista. E lo
sai».
Julie sospirò e rovistò nella tasca del grembiule
nero: «Posso darti le mie mance di oggi più quelle di settimana
scorsa; lavorando praticamente tutte le sere, ho preso dei bei
soldini». Fece il giro del bancone in silenzio e mise in mano al
fratello sessanta sterline: «Restituiscimeli quando puoi, senza
fretta. Sai che mi fido».
Spike sorrise sinceramente mentre si metteva il denaro
nella tasca interna della giacca: «Sei la migliore, sorellona»
«Però mi devi promettere una cosa, occhioni blu»
Julie lo fissò con le sopracciglia aggrottate, mettendogli una mano
sulla spalla «ti devi trovare un compagno di viaggio. Non mi va che
tu vada da quella da solo».
Spike si mordicchiò il
labbro abbassando lo sguardo: possibile che Leah non
piaccia proprio a nessuno? Nemmeno uno dei miei amici la sopporta e
mia sorella non la può vedere. È veramente così...
Di nuovo fece fatica a respirare e il cuore gli si
pietrificò per un istante. Basta. La questione andava
risolta: doveva andare a Lione con qualcuno, sennò sarebbe morto di
sincope prima ancora di imbarcarsi. Ma chi? Guy non la poteva
vedere. Nigel, anche se suonava con loro da poco, aveva detto da
subito che la trovava antipatica; per non parlare di Chris e Cozy che
affermavano che Leah era “a dir poco irritante”. Forse
potrebbe venire qualcuno dei miei colleghi... nah, sono tutti
squattrinati almeno quanto me.
Improvvisamente il telefono del locale prese a suonare
insistentemente. Julie accarezzò fugacemente la guancia del fratello
e si precipitò a rispondere: «Dark Crimson Velvet, sono Julie...
ah, ciao Guy!».
Guy? Spike
aggrottò le sopracciglia mentre ingurgitava il fondo della sua
birra; non riusciva a capire perchè il suo coinquilino stesse
chiamando il pub.
«Ma dai? Davvero?» Julie sorrideva mentre teneva con
entrambe le mani la cornetta.
Che sta succedendo?
«Allora bisogna organizzare una bella festa di
bentornato! Tu non ti preoccupare, ci penso io; vi riservo l'intera
stanza con il biliardo e vi faccio trovare dentro l'universo».
Spike aspettò che la sorella terminasse la
conversazione con l'amico e poi la studiò con i suoi occhi azzurri:
«Ma era Bailey?».
Julie annuì: «Fra cinque giorni organizziamo la festa
di bentornato per i Dogs».
Di punto in bianco Spike si sentì leggermente
risollevato: «Rientrano dalla Finlandia?». Aveva una gran voglia di
rivedere quei quattro scapestrati; soprattutto Tyla. Già... Tyla;
potrei chiedere a lui. Quando ci sono di mezzo questo genere di
questioni, non si tira mai indietro. Sembra che abbia una strana
predisposizione per le situazioni spinose e dolorose...
A quanto pare, la decisione di continuare la
storia è stata piuttosto celere. Come potete notare, sto anche
cercando di mantenere la promessa di fare capitoli brevi e “piuttosto
d'impatto”; spero che chi abbia letto il primo capitolo, l'abbia
trovato di proprio gradimento. C'è anche da dire che la storia è in
una sezione piuttosto infognata del sito; ad ogni modo, grazie
infinite :)
Spike è divorato dai dubbi e grazie
all'aiuto della sorella maggiore Julie riesce ad avere i soldi per
andare a Lione. Tyla accetterà? Se la storia vi piace, mi
raccomando, state sintonizzati perchè nel prossimo capitolo ne
vedremo delle belle.
Ellie
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Capitolo 3 *** Smacco ***
03 Smacco
A Lione la
luce era a dir poco abbagliante. Spike si pentì amaramente di non
essersi portato gli occhiali da sole e fu costretto a coprirsi gli
occhi blu con la mano destra, mentre con la sinistra si caricava in
spalla lo zaino con quella poca roba che gli sarebbe servita per
sopravvivere in quella città trentasei misere ore. Si guardò
intorno, cercando di interpretare i vari cartelli scritti in
francese: «Dobbiamo trovare un mezzo che ci porti in centro città».
Tyla si
passò una mano in mezzo ai capelli rossicci e si accese una
Marlboro: «Più che trovare un mezzo, bisogna scovare qualcuno, dato
che siamo d'accordo che dobbiamo spendere il meno possibile».
Inforcò gli occhiali da sole ed indicò due ragazze che stavano
caricando delle valigie in macchina: «Loro, per esempio».
Spike
arricciò il naso: «Credo che non sia una grande idea». Tyla lo
fissò stranito da dietro le lenti scure dei Ray Ban, aspirando
deciso dal filtro, in cerca di spiegazioni. «Insomma, metti che Leah
mi vede arrivare sotto il suo appartamento e scendo dalla macchina su
cui ci sono due ragazze, che figura ci faccio?».
Tyla sputò
il fumo ridacchiando e fece cadere a terra il mozzicone della
sigaretta: «La figura di quello che se la sa sbrigare e che sa fare
economia». Fece due passi, poi si voltò a guardare l'amico: «Vuoi
seguirmi oppure preferisci fartela a piedi fino in centro?».
Spike
abbassò lo sguardo e seguì lo sventolare ritmico della giacca
indaco dell'amico. Ripensò alla fatica che aveva fatto per
chiedergli di seguirlo in Francia; provava una vergogna infinita, si
sentiva debole e vulnerabile. Eppure, Tyla non aveva esitato ad
accettare.
♫♫♫
Quella
sera lui, Guy e gli altri Quireboys erano entrati al Dark Crimson
Velvet curiosi di vedere se sette mesi in Finlandia fatti di
registrazioni, pubblicazione di un album, un singolo in classifica e
concerti avevano cambiato l'atteggiamento dei loro amici Dogs.
“Secondo te si saranno montati la testa? Saranno cambiati tanto?”.
Spike osservava gli amici discutere fra loro senza spiccicare parola:
penso che se Tyla e gli
altri fossero cambiati, potrei veramente andarmene via sbattendo la
porta. È l'ultima cosa di cui ho bisogno ora.
Nel giro di pochissimo tempo erano già mutate troppe cose, ci
mancava solo che, oltre a Leah, anche Tyla si fosse allontanato da
lui. Possibile
che, quando tutto sembra andare perfettamente, sempre ed
immancabilmente, qualcosa debba incrinarsi o rompersi in modo
irrimediabile? Non sarebbe tutto più facile se ciò che ci fa star
bene fosse “immobile”? Sospirò
senza farsi sentire, percependo i propri occhi farsi più umidi; alzò
lo sguardo e si trovò di fronte all'ingresso del pub. Vide uno dopo
l'altro Guy, Chris, Nigel e Cozy entrare nel velluto cremisi e bearsi
dell'atmosfera che quel posto trasmetteva; lui, invece, rimase per un
attimo titubante attaccato al maniglione della porta in noce indeciso
sul da farsi. Si sentiva come il primo giorno di scuola di prima
elementare, quando il cuore gli batteva così forte che stava per
sputarlo in faccia alla maestra ed aveva pregato sua madre di
riportarlo a casa. Poi vide Julie andargli incontro con uno dei suoi
migliori sorrisi: «Ehi Jon, c'è Tyla che ha già chiesto di te.
Dice che vorrebbe fare una bella partita di biliardo come ai vecchi
tempi».
Spike,
un po' più sollevato, decise di dirigersi verso la “Pool room”
del Dark Crimson Velvet, dove poco prima erano entrati gli altri;
come aprì la porta, fu investito dal suono di risate e voci amiche.
Il primo che gli andò incontro fu Bam, che gli mollò una sonora
pacca sulla spalla: «Sempre smilzo come al solito, eh Spike?».
Tipica
frase di Bam;
il ragazzo sorrise e gli restituì il colpo: «Allora Cavernicolo?
Tutto bene?».
In
men che non si dica, Spike fu raggiunto anche da Jo Dog e Steve; ci
furono altri scambi di battute ed il ragazzo, lentamente, iniziò a
sentire la propria tensione sciogliersi. Ma i muscoli gli si
distesero totalmente quando vide una nuvoletta di fumo innalzarsi
verso la lampada centrale; Tyla era seduto sul bordo del tavolo da
biliardo con le gambe a penzoloni ed una bottiglia di whisky stretta
nella mano sinistra. Smise di respirare per un momento quando lo vide
alzarsi ed andare verso di lui. Quando gli arrivò a pochi
centimetri, Tyla alzò la mano destra in cui stringeva la sigaretta;
di riflesso Spike alzò la sua ed i due si scambiarono un cinque che
fece tremare i muri del locale seguito da un potente abbraccio. «Sei
sempre il solito bastardo!» si urlarono a vicenda, scrutandosi come
se fossero millenni che non si vedevano. Passarono tutta la serata
insieme a raccontarsi cosa avevano fatto in quei sette mesi che non
si erano visti, in modo particolare Tyla raccontò delle varie
avventure vissute in mezzo a renne, gelo e ragazze che parlavano una
lingua incomprensibile. Quando suonò la campanella dell'ultimo giro,
i ragazzi si salutarono ed iniziarono ad uscire dal pub; solo Spike
fu trattenuto da Tyla: «Oh, dobbiamo ancora farci la nostra partita.
Tua sorella mi ha detto che se ci tratteniamo qui anche dopo la
chiusura, finchè c'è lei, non ci sono problemi».
Così
i due scelsero le stecche, passarono il gesso sulle punte e
cominciarono la loro partita a Palla 8.
«Allora»
Tyla si accese l'ennesima sigaretta della serata mentre posizionava
le biglie al centro del tavolo «mi sembri un po' teso, Spike».
Il
ragazzo si chinò sulla sponda e spaccò il triangolo: «Si nota
tanto?»
«Abbastanza,
guarda che colpo da femminuccia che hai fatto» Tyla si scostò una
ciocca rossiccia studiando il tappetino verde «vediamo se riesco a
buttare la 2 in buca».
Spike
sospirò ed anche lui si accese una sigaretta: «Sai, non volevo
accennarti il discorso mentre c'erano qui anche tutti gli altri,
avrei rovinato la festa. Però... ho dei problemi con la mia ragazza.
Se n'è andata a Lione».
Tyla
grugnì per il tiro non andato a segno, poi guardò l'amico negli
occhi: «Se non me ne hai mai parlato, significa che con questa ci
esci da poco» fece una pausa per aspirare dal filtro «e se mi dici
che ci sono problemi, anche se non è molto che la vedi, vuol dire
che tu a lei tieni molto e lei non tiene per un cazzo a te».
Spike
sentì il proprio sangue ghiacciarsi; incredibile... anche a Tyla
non piace, pur non avendola mai vista. Possibile che io sia il solo
che vede del bello in lei? Iniziò a tremare per il freddo che
sentiva in sé, ma cercò in tutti i modi di non darlo a vedere. Si
chinò sul tavolo stringendo fra i canini la Lucky Strike e cercò di
deviare i suoi pensieri da Leah verso la biglia numero 10.
«Scommetto
che non vi sentite al telefono da giorni ormai. E tu non puoi
chiamarla perchè sei quasi a bolletta».
Spike
cominciò a sentire sempre più i nervi a fior di pelle mentre gocce
di sudore freddo prendevano ad inumidirgli la bandana legata in
fronte. Tranquillo Spike, tranquillo. Caricò il colpo.
Tyla
continuò il suo discorso con la violenza di un uragano: «Hai paura
che lei abbia un altro?».
Quelle
parole lo colpirono come lame affilate; Spike perse completamente la
concentrazione e strisciò per dieci centimetri la punta della stecca
sul tappetino verde, colpendo di sbieco la biglia.
«Oh,
cazzo! Hai rovinato il tavolo!» aveva starnazzato Tyla come una
gallina, ma Spike sembrò non preoccuparsene minimamente.
Lasciò
la stecca appoggiata alla sponda e con il capo chino si sedette sulla
panca appoggiata alla parete in legno. Fissava l'amico attraverso il
fumo della sigaretta che teneva fra le labbra; aveva un che di
mistico. Tyla riusciva sempre a capirlo facendogli una domanda sola,
secca e diretta. Lo studiò mentre spegneva il mozzicone nel
posacenere con quei capelli un po' castani ed un po' rossicci che si
muovevano rischiarati dalla luce giallastra della lampada centrale.
Spike sospirò, sentendo l'agitazione impadronirsi dei suoi muscoli:
«Tyla...»
«Non
possiamo non dirlo a tua sorella» l'amico scuoteva il capo guardando
il biliardo.
Il
ragazzo alzò gli occhi blu al soffitto: «Lascia perdere il
tappetino, cazzo! Non è fondamentale»; cercò di prendere fiato per
fargli la domanda. Aveva terrore di ottenere un rifiuto.
Ma
proprio mentre avvicinava il filtro alle labbra per infliggere il
colpo di grazia alla paglia al fine di darsi ancora un po' di
coraggio, Tyla gli disse lapidario: «Comunque ci sto, non importa se
dovrò rifare di nuovo le valigie. Fammi sapere quando puoi prenderti
dei giorni di ferie».
♫♫♫
E
così, circa una settimana dopo, erano finiti su quella Citroen, dove
le due ragazze avevano tentato di raccontar loro in un inglese
sgangherato che erano state in vacanza a Dresda per “studiare i
comportamenti dei tedeschi dell'est”. Spike seguiva la
conversazione con il massimo disinteresse, seduto sul sedile
posteriore e guardando fuori dal finestrino il paesaggio scorrere
veloce davanti agli occhi; ogni tanto annuiva o mugolava in segno di
assenso, ma più si avvicinavano al centro, più gli tremavano le
gambe e gli sudavano le mani. Aveva una voglia matta di vedere Leah,
di sentire la sua voce ed assaporare il suo profumo. Alla fine, le
ragazze li lasciarono in una piccola piazza adiacente all'indirizzo
che avevano loro dato e se ne andarono salutandoli con un fazzoletto
arancione.
«Molto,
molto carine» Tyla ammiccò da dietro le lenti scure, agitando
lievemente la mano in aria in direzione dell'auto.
Spike
non gli diede per nulla ascolto; fece scorrere il proprio sguardo
sulle pareti degli edifici che circondavano la piazza, finchè non
intravide il cartello che indicava la via dove si trovava
l'appartamento di Leah. Il numero 54 era situato piuttosto
all'inizio, fra un piccolo bar frequentato da universitari ed un
fiorista. Il ragazzo ripiegò il foglietto e se lo mise nella tasca
dei jeans, studiando le rose che facevano capolino dai vasi enormi
del negozietto.
«Se
vuoi fare una cosa dolce, comprale una rosa rossa» Tyla gli parlava
mentre si accendeva una sigaretta, studiando la facciata del palazzo
«una sola, non tre e nemmeno cinque. È un gesto molto
significativo, fidati».
Spike
abbozzò un sorriso: «Grazie» e setacciò le proprie tasche alla
ricerca di qualche franco da snocciolare al commesso per avere uno di
quei fiori.
Il
ragazzo lo vide rigirarsi fra le mani la rosa e poi aprire il portone
con fare titubante; gli alzò il pollice per rassicurarlo e tirò
l'ultima boccata alla sigaretta, guardandolo sparire su per le scale.
Spike
imboccò la rampa, annusando l'aria stantia e maleodorante di quel
posto rischiarato a malapena da una finestra grande quanto una
feritoia; era così teso che faceva fatica ad alzare le ginocchia per
salire gli scalini. A metà si fermò, cercando di rilassarsi e di
ricordarsi come si faceva a respirare, senza però ottenere risultati
apprezzabili. A che piano sarà l'appartamento? È l'unica
informazione che non c'è scritta sul foglietto. Riprese a salire
in punta di piedi, raggiungendo il primo pianerottolo: Potrei
suonare tutti i campanelli, ma che figura ci pianto? Non so una
parola di francese e...
Proprio
mentre la rosa stava per scivolargli via dai polpastrelli, talmente
erano sudati, una ragazza dai capelli neri, che stava per uscire
dall'appartamento di fronte a lui, lo bloccò: «Mais... tu es
Jean Charles!».
Spike
strabuzzò gli occhi e fissò la rosa rossa: non vorrà mica
rubarmi il fiore questa qui!
«Que
belle fleur!» La ragazza gli sorrideva sinceramente «Tu l'as
acheté pour Leah, c'est ça?».
Il
ragazzo rimase a fissarla con gli occhi fuori dalle orbite; aveva
detto Leah? Sì, con accento smaccatamente francese, ecco perchè
non ci sono arrivato subito. Doveva comunicare con la ragazza,
forse era la sua coinquilina; cercò di cavarsela con il linguaggio
dei gesti e l'unica parola che sapeva di quella lingua straniera:
«Leah... oui, oui»
«Oh,
merveilleux!» la bruna
prese Spike per il polso e lo scaraventò letteralmente dentro
l'appartamento, rischiando di farlo cadere con la faccia a terra
«Elle va arriver en
vingt minutes! Tu peux l'attendre ici!».
Non capiva una sola
parola di ciò che la ragazza gli stava dicendo, però era certo che
lei fosse la coinquilina della sua ragazza, quindi si limitò ad
annuire e a sorridere.
«Alors,
je m'en vais» la bruna
infilò le chiavi nella toppa «bonne
chance, Jean Charles! À bientôt».
Chiuse la porta con decisione e diede due giri di chiave.
Spike,
piuttosto frastornato, si ritrovò solo in una casa che non aveva mai
visto. Fissò per un secondo la rosa rossa che stringeva fra le dita
e poi, in punta di piedi, cominciò a girovagare per l'appartamento;
senza nemmeno farlo apposta, la prima porta che aprì fu proprio la
camera da letto. Nella luce morbida che penetrava dalle tende rosa
appena scostate, due letti sfatti erano posizionati l'uno di fianco
all'altro, separati da un piccolo comodino di legno chiaro. Sulla
moquette regnava il caos più completo: scarpe spaiate erano
accantonate l'una sull'altra, circondate da magliette spiegazzate,
braccialetti ed altra chincaglieria femminile. Spike aggrottò le
sopracciglia: sapeva che Leah non era esattamente ordinata, ma non si
aspettava che fosse così
incasinata. Studiò i
letti e cercò di capire quale fosse quello della sua ragazza; si
guardò le spalle per controllare che non ci fosse nessuno a spiarlo,
poi si chinò sul guanciale del letto di sinistra. Immerse il naso
nella federa e respirò a pieni polmoni; poteva sentire nitidamente
il profumo fruttato dei suoi capelli incastrato nelle fibre di
cotone. Di riflesso il suo cuore cominciò a palpitare; desiderava
incontrarla più di ogni altra cosa ed il fatto di doverla aspettare,
per non si sa quanto tempo, chiuso in quell'appartamento, lo faceva
uscire pazzo. Alzando gli occhi dalla federa, la sua attenzione fu
attirata da una chitarra classica appoggiata malamente al muro:
dev'essere dell'altra
ragazza... disordinata pure lei. Afferrò
lo strumento per il manico e lo studiò: tutto
sommato, ha solo bisogno di un'accordata.
Gli venne voglia di suonare per ammazzare il tempo. Si sedette a
gambe incrociate sul letto di Leah e, posata la rosa accanto a sé,
cominciò a girare le chiavi per tirare le corde. Era così preso a
intonare il sol, che non si accorse nemmeno che qualcuno era
rientrato ed era andato in cucina. Fu un lontano tintinnio di
stoviglie che copriva l'ondeggiare del nylon ad attirare la sua
attenzione; con il fiato sospeso e gli occhi blu spalancati bloccò
con la mano aperta la vibrazione dello strumento e si mise ad
ascoltare. Due voci provenivano dall'altro lato della casa; due voci
allegre. Una è quella di
Leah, ne sono certo.
L'avrebbe riconosciuta fra mille, era impressa a fuoco nella sua
mente. Spike rimise a posto la chitarra e prese la rosa; chiuse gli
occhi ed assaporò quella dolce melodia che ormai da giorni non gli
giungeva più all'orecchio. Era tenera e sensuale, perfino quando
parlava in francese; un
accento quasi perfetto, se non fosse che, ogni tanto, conserva ancora
quella sua tipica inflessione londinese.
Appena giunto in corridoio, però, si bloccò. La seconda voce che
arrivava dalla cucina era più scura e più rotonda; il sangue gli si
ghiacciò in un nanosecondo: un
maschio.
Strinse la rosa più forte, sentendo le spine recise dargli
fastidio alla mano,
ed in punta di piedi fece capolino
dallo stipite. Ciò che vide lo pietrificò: le pupille gli si
dilatarono a dismisura ed i muscoli gli diventarono di legno. Leah,
più bella che mai, era poggiata al lavello mentre stringeva fra le
mani una tazza fumante; i capelli mogano erano legati in uno chignon
disordinato ed i suoi occhi erano calamitati a quelli della persona
che le stava davanti e che le stava stringendo i fianchi. Un
ragazzo.
Un ragazzo completamente diverso da lui: biondo, con le guance rosee
e piene come quelle di un bambino e gli occhi castani. Le stava
parlando pericolosamente vicino al viso. Il primo impulso di Spike fu
quello di prenderlo per le spalle, sbatterlo a terra e gonfiarlo di
botte; ma il suo cervello lo bloccò e gli impose di stare a
guardare. Dopotutto, se quello si stava permettendo di comportarsi in
quel modo con Leah era perchè lei glielo stava concedendo; questo
era il particolare più agghiacciante. Lei non sembrava affatto che
lo stesse respingendo o che fosse infastidita dal fatto che lui la
stesse toccando. Continua
a sorridere e scherza... se solo capissi cosa si stanno dicendo!
Spike
si maledisse infinite volte per non essere mai stato in grado di
prendere una sufficienza in quella merdosa lingua straniera. Più
passavano i secondi e più il suo stomaco si faceva piccolo per il
nervosismo: adesso
mi sente.
Non era nel suo stile fare scenate di gelosia, Julie diceva che lui
era “un esserino gentile e pacato”; però Leah stava concedendo
troppa libertà a quello sconosciuto.
Ma proprio mentre stava per irrompere in cucina ed
iniziare ad urlare, ebbe un capogiro folle nel vedere il biondo
appoggiare le proprie labbra su quelle della ragazza.
Spike
si irrigidì di colpo: ti
prego Leah, spingilo via.
Invece lei sorrise, gli accarezzò il viso e lo baciò a
sua volta, cingendogli il torace con le sue braccia.
Il
ragazzo osservò la scena con gli occhi vacui, poi fece un passo in
avanti, uscendo dalla penombra del corridoio, continuando a stringere
la rosa. Dentro di sé sentiva sempre più prepotente il vuoto
avanzare; il cuore gli pompava lento nel petto, producendo un
frastuono che gli rimbombava violento nella testa. Avanzò ancora di
una falcata, con i muscoli che iniziavano a tremargli vistosamente, e
la chiamò a voce bassa con il suo nomignolo. Mi
dicevi sempre che io ero il tuo “piccolo Principe” e tu la mia...
«Volpe».
I
primi occhi che incrociò furono quelli del ragazzo; marroni,
inquisitori e paragonabili a due buchi neri. Lo stavano squadrando da
capo a piedi, stavano guardando con ribrezzo la sua bandana viola che
gli scendeva sulla spalla, la camicia nera con le maniche rivoltate
all'insù, gli stivali texani e la rosa rossa ormai rovinata per
essere stata strapazzata per troppi minuti.
«Qui
es-tu?»
gli vomitò addosso, visibilmente irritato per l'interruzione del
bacio.
Il
ragazzo corrugò le sopracciglia, rendendo i propri occhi blu di
ghiaccio; nonostante non sapesse il francese, aveva capito benissimo
cosa gli aveva chiesto. Gli rispose mantenendo la voce bassa e
graffiante; voleva ferirlo con le parole: «No,
dude: who the fuck are YOU?»
«Spike».
Leah pronunciò il suo nome sottovoce, lasciando che la
tazza le scivolasse di mano, sul tappeto, andando in piccoli
frantumi.
Il
biondo si voltò verso di lei, con un'espressione di disappunto
tatuata in viso: «Mais,
tu le connais?».
La ragazza non rispose alla domanda, si limitò a
portare una mano alla bocca e a fissare gli occhi blu di Spike.
«Alors?
Leah?»
il biondo si stava scaldando, la pelle gli era diventata di un bel
color peperone.
Leah
cercò di tranquillizzarlo: «Jean
Charles, s'il te plaît...»
«Diglielo pure che
io sono il tuo ragazzo» Spike gettò con forza la rosa rossa a
terra, ormai spappolata «o forse ero, dato il tuo atteggiamento».
Jean
Charles perse completamente le staffe: «Toi,
con, qu'est-ce que tu veux? Qui es-tu?»
«Silence!»
Leah gridò con tutto il fiato che aveva in corpo mentre allontanava
delicatamente il francese da sé.
Spike
fissò i suoi occhi blu in quelli castani di lei, percependo un
freddo glaciale fra di loro; la guardava come se la stesse vedendo
attraverso un iceberg. Non gli sembrava possibile che tutto il calore
che quella ragazza aveva saputo donargli in pochi mesi si era
tramutato improvvisamente in una pioggia di cristalli di ghiaccio
affilati come coltelli che gli si stavano conficcando nell'animo. Per
un attimo si guardò la mano che aveva gettato la rosa a terra e si
accorse che stava tremando sempre più forte; chiuse gli occhi e fece
un respiro profondo, stringendo le dita segnate dalle spine tagliate:
«Perchè?»
«Chi
ti ha fatto entrare?» la ragazza cercò di tastare il terreno.
«Una
tizia coi capelli neri» rispose Spike evasivo.
«Oh...
la mia coinquilina, Colette».
Spike
strinse i denti: «Non tergiversare. Perchè?»
Leah
non disse una parola, si prese solo la testa fra le mani.
«Non
ti ha fatto piacere questa sorpresa. Anzi... sembra proprio che io
abbia interrotto qualcosa che ti piaceva».
Di
nuovo, Leah non battè ciglio.
Risposta
fin troppo eloquente.
Spike sentì uno di quei cristalli attraversargli il torace con
violenza: «Allora tu... non mi ami, Leah?».
Sperava
di sbagliarsi; desiderava ardentemente che la sua ragazza gli si
buttasse fra le braccia e gli urlasse che lo amava, più di qualunque
altra cosa, perfino di più di quel francese che fisicamente
assomigliava tanto a quel bambino maledetto che conservava rose sotto
vetro, belle ed eterne. Non come quella che lui aveva appena gettato
sul pavimento.
Ti
prego, chiamami ancora Jonathan e dimmi che mi sto sbagliando.
Ma
la risposta che udì lo uccise: «Credo di non averlo mai fatto,
Spike».
Il ragazzo trasalì; in quell'istante potè percepire un
tonfo secco all'altezza dello sterno. It's over.
Leah continuò imperterrita, con tono di voce basso e
deciso: «Tu non mi hai mai capita fino in fondo, semplicemente
perchè non sei in grado di apprezzare quel libro. Tu hai sempre
detestato il Piccolo Principe. Io ci ho provato ad addomesticarti, ad
insegnarti che l'essenziale è invisibile agli occhi... ma non ha
funzionato».
Spike si sentì soffocare: «Quindi non mi hai mai
amato...»
«Pensavo di poterlo fare, ma mi sbagliavo»
«... solo perchè non mi piace quel libro di merda?».
Gli occhi di Spike presero fuoco; non poteva credere al mare di
stronzate che lei gli stava raccontando. Si prese il viso fra le
mani cercando di mostrare calma ostentata; credo di aver sentito
abbastanza: «Bene. Allora me ne vado»
«Sì, è meglio» Leah gli inflisse un'altra pugnalata
al cuore «in fondo è tutta colpa tua se non ha funzionato fra di
noi. Sei tu quello che si deve rimproverare, sei tu la causa del tuo
dolore».
Spike rimase immobile per un paio di secondi a guardare
il suo amore, poi una strana forza lo attirò verso la porta
d'ingresso. La vide allontanarsi da sé, dalla sua spalla su cui si
era addormentata tutte le volte che avevano fatto l'amore, dalle sue
mani che l'avevano accarezzata dolcemente, dal suo corpo, che lei
aveva detto più volte di trovare fantastico. Più lui retrocedeva,
più il francese alzava il suo braccio per cingerle le spalle. Ma non
voleva guardare, non avrebbe sopportato la vista di quella mano
sconosciuta che accarezzava centimetri di pelle che, fino a qualche
secondo prima, lui riteneva suoi. Come chiuse la porta alle sue
spalle, il mondo intorno a lui diventò sfocato e confuso: i colori
si mischiavano senza criterio ed i suoni arrivavano ovattati alle sue
orecchie; inoltre, la testa gli girava e sentiva di non poter
governare le sue membra. Tremavano così forte che nemmeno dei lacci
in acciaio avrebbero potuto tenerlo fermo. Senza che se ne rendesse
conto, si trovò di nuovo al piano terra, ad aprire la portineria e
ad uscire in strada. Si sentiva distaccato dalla realtà, come se
tutto quello che era appena successo fosse stato solo un incubo
orrendo. Eppure, qualcosa nella sua mente devastata sapeva che
avrebbe dovuto abituarsi a quella sensazione di merda che si stava
facendo largo dentro di lui. Ogni secondo che passava si sentiva
sempre più vuoto, come se si stesse vaporizzando progressivamente.
Chiuse gli occhi e rivide Leah, con quello chignon, che gli diceva
che era tutta colpa sua. Non poteva crederci. Non voleva crederci. Se
una situazione del genere va a puttane, la colpa non è mai di uno
solo. È di entrambi. Dalla palpebra chiusa, una lacrima scese ad
accarezzargli la guancia, come se volesse dargli conforto e dirgli
che, in fondo, lui non era l'unico responsabile.
«Ehi» una voce gli aprì gli occhi, facendolo
riemergere dal pozzo nero in cui stava precipitando; era Tyla. Lo
stava aspettando con la schiena appoggiata al palo della luce e
teneva in mano due bottiglie di birra. Sputò il mozzicone di
sigaretta che stringeva fra le labbra, poi gli si avvicinò, seguito
dallo sventolare della sua giacca indaco, e gliene porse una
rivolgendogli un sorriso amaro: «Torniamo a casa».
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Capitolo 4 *** Apatia ***
04 Apatia
Guy aprì la porta
dell'appartamento aiutandosi con il gomito destro e rischiando di
rovesciare il pranzo sul pavimento. Diede
un'occhiata al corridoio; era vuoto.
«Spike!».
La
risposta fu un silenzio immobile. Guy scosse la testa e sospirò,
sconsolato; lasciò il fish and chips sul tavolo della cucina ed andò
a bussare alla porta della stanza dell'amico strisciando gli stivali:
«Bello, ho comprato da mangiare. Ci sono delle patatine fritte
galattiche...»
doveva
cercare di suonare molto più convincente
«...
e se le mangi fredde fanno schifo».
Di
nuovo non udì la voce di Spike.
Guy si
alterò; tentò di abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a
chiave dall'interno: «Senti, sono giorni che sei tappato nella tua
stanza e ti rifiuti di collaborare con il mondo esterno. Non so
nemmeno se sei vivo o morto, cazzo!».
Il
ragazzo rimase con il fiato sospeso, in attesa di una qualsiasi
risposta; anche solo un vaffanculo. Ti
prego Spike, mandami a fare in culo.
Era da quando era tornato da Lione che si nascondeva fra quelle
quattro mura; metteva il naso fuori dalla stanza solo per andare in
bagno e, saltuariamente, per rubare i McVitie's dalla dispensa.
Ma non
era il fatto di non trovare più biscotti in cucina che lo mandava in
bestia; ciò che lo faceva partire per la tangente era essere certi
che il proprio amico stava così male per colpa di una per cui lui
aveva perso la testa e che l'aveva piantato in asso senza remissione.
Io ti avevo avvertito diverse
volte Guy
si tastò le tasche alla ricerca di una graffetta anzi,
tutti ti avevamo detto di lasciar perdere, che quella era una
stronza, che non ci piaceva per svariati motivi e
sbuffò per aver trovato solo qualche moneta da un penny ma
tu, proprio, zero.
Improvvisamente, il chitarrista sentì scattare la
serratura e la porta si aprì leggermente; rimase con la bocca aperta
quando di fronte a sé vide Spike spettinato, con la barba incolta di
almeno quattro giorni, gli occhi stanchi ed arrossati, circondati da
occhiaie profonde, e la sigaretta stretta fra le dita tremanti. «Non
importa se fredde faranno schifo» parlava con voce roca e bassa e il
suo alito sapeva pesantemente di alcol «lasciale pure sul tavolo
della cucina. Ora non ho fame».
Guy
lo fissò preoccupato: l'amico stava in piedi per miracolo, attaccato
alla porta come se fosse la sua ancora di salvezza. Si vedeva lontano
miglia che erano giorni che non riusciva a dormire, che non faceva
altro che bere, fumare, mangiare qualche briciola ogni tanto e
pensare ininterrottamente a quella
stronza. L'incazzatura gli salì alle
stelle, ma tentò comunque di tenerla per le briglie, mostrando una
calma ostentata: «Oggi abbiamo le prove» si allungò verso di lui
per mettergli una mano sulla spalla; poteva sentire sotto il palmo i
muscoli tesi del cantante «c'è bisogno di te».
Spike gettò il proprio sguardo sul pavimento seguito,
poco dopo, dalla sigaretta. La guardò rotolare sulle piastrelle e
spegnersi nel giro di pochi secondi. Si rivide in quel mozzicone; si
sentiva spento, freddo, inutile. Da quando Leah l'aveva lasciato per
quei motivi futili, si sentiva privato di ogni motivazione possibile
per andare avanti. «Guy» fece un respiro profondo, passandosi una
mano sulle palpebre «credo che, d'ora in avanti, dovrete cercarvi un
altro cantante e chitarrista»
«Stai scherzando?» il chitarrista rimase intontito
dalla frase dell'amico, come se avesse appena ricevuto una bastonata
in testa. Sperava con tutto se stesso di aver capito male; ma Spike
scosse il capo, continuando a tenere lo sguardo basso.
A quel punto Guy sentì di aver raggiunto il limite di
sopportazione: «No, no, NO! Tutto tranne questo» spalancò la porta
con un pugno facendo perdere l'equilibrio a Spike. Lo fissava con gli
occhi iniettati di sangue: «Non vuoi più suonare la chitarra? Beh,
ci posso anche stare; non perchè tu non sia bravo, ma perchè già
canti. Ma un cantante no, un altro cantante NON-LO-VOGLIO». Il
chitarrista gli diede uno spintone e lo fece cadere come un sacco di
patate sul letto, pieno di pacchetti di Lucky Strike vuoti e tappi di
bottiglie di whisky: «Vedi di non fare il cazzone, che nessuno canta
come te. E tutta questa voglia di mollare per cosa? EH?»
Spike lo fissò per qualche secondo con gli occhi blu
vuoti, incapace di reagire, poi si girò verso la parete, dandogli le
spalle: «Per favore, lasciami solo».
Guy lo guardò con il sangue che gli ribolliva per la
rabbia; guardò lui e l'ambiente che lo circondava. Erano giorni che
in quella stanza, praticamente, non entrava luce: le persiane erano
chiuse ed il timido sole londinese disegnava chiare strisce sfumate
sulla moquette scura della stanza, costellata delle varie bottiglie
di alcolici recuperate dal soggiorno, tutte svuotate del liquido e
riempite del dispiacere di Spike. L'unica bottiglia ancora piena era
poggiata sul comodino. Guy guardò un raggio di sole illuminare il
liquido ambrato che l'etichetta bianca nascondeva in parte e si
soffermò su di essa; poteva vedere il gallo cedrone fissarlo con i
suoi occhietti tondi. Famous Grouse, la mia bottiglia. Inspirò
fra i denti, sempre più nervoso, ed arricciò il naso; nell'aria
aleggiava un forte odore di chiuso mischiato ad una fitta nebbia
fatta di nicotina. E Spike si nascondeva in quella nuvola torbida, un
misto di sporcizia, distacco e testa pulsante per i troppi pensieri,
cercando di non avere nessun contatto con la realtà. Non parlava per
esorcizzare il suo demone. Non urlava per sfogare la sua rabbia. Non
piangeva nemmeno. Non faceva assolutamente nulla; solo metteva a
tacere quel male affogandolo nell'alcol. «Non puoi scappare in
eterno, bello» il chitarrista raccolse dal pavimento due bottiglie
vuote «prima o poi ti prenderò. E quando lo farò, tu verrai con me
a suonare».
La porta fu chiusa con un tonfo sordo e Spike sospirò,
facendosi scivolare addosso le parole del coinquilino. Dava le spalle
all'unico ponte con il mondo esterno, adagiato su quel letto
completamente sfatto e freddo. Già... sfatto come il letto di
Leah in quell'appartamento. Rabbrividì; cercò un lembo della
coperta e se la tirò fin sopra la testa. Nascosto nel suo mondo, con
la lana che gli pungeva le guance, Spike si rifugiò nel passato, nel
frangente in cui Leah gli aveva detto che non lo amava. Celò gli
occhi blu dietro le palpebre e fece un respiro profondo, rivedendo a
rallentatore tutti i dettagli di quel fatidico giorno: la facciata
dell'edificio, i muri scrostati del pianerottolo, Colette che lo
tirava in casa scambiandolo per il nuovo trombamico (perchè è
questo che lui è, vero Leah?), la camera da letto con le scarpe
sparse sul pavimento e la chitarra classica che lui aveva perso tempo
ad accordare, le voci... il bacio... la rosa che veniva
buttata a terra e quelle parole che lei gli aveva sbattuto in faccia
con violenza: all the pain is with yourself, all the blame is with
yourself.
Io? Era l'ennesima volta che se lo chiedeva in
quei quattro giorni insonni: io, cos'ho sbagliato? Ripensò
alla loro breve relazione, a come aveva subito perso la testa per lei
e a come quell'incendio passionale, nel giro di quattro mesi scarsi,
si era estinto completamente, laciando il posto al nulla più
completo. Spento per lei, ma non per me. Fin dalla prima volta
che l'aveva addocchiata, le rotelle del suo cervello si erano per
magia inceppate e le cose erano andate sempre più accentuandosi,
finchè, dopo due settimane, le aveva detto le due paroline magiche.
Non sapeva spiegare perchè provava quel sentimento così forte; Leah
aveva quel non so cosa che mi tirava scemo... è successo e basta. In
fondo, non si decide arbitrariamente di chi innamorarsi. Si mise
a pancia in giù, con la fronte appoggiata al cuscino, in cerca di
una risposta; la storia del “tu non mi hai mai capita fino in fondo
perchè non sei in grado di apprezzare quel libro” gli suonava fin
troppo assurda. Proprio non riusciva a capire perchè Leah si era
attaccata a lui, ci aveva fatto l'amore e poi l'aveva piantato in
asso per andare in Francia e farsi il primo che capitava. Era così
frastornato che non riusciva a reagire in alcun modo; gli sembrava di
essere sigillato in una bolla di sapone. Tutto sembrava uno scherzo
ai suoi occhi. Sempre rimanendo nascosto sotto le coperte, si mise
seduto ed allungò il braccio per afferrare il whisky che aveva
lasciato sul comodino; diede una lunga sorsata e poi si poggiò la
bottiglia in grembo. Con la bocca e lo stomaco che bruciavano per il
troppo alcol, appoggiò la schiena e la testa al muro. Rivide di
nuovo Leah che lo fissava con sguardo glaciale: all the blame is
with yourself... ma perchè? Ormai era così confuso che non
riusciva più a connettere; l'unica cosa chiara nella sua testa era
il tonfo lento e regolare del suo cuore. Un suono triste e continuo;
non c'era modo di fermarlo.
Improvvisamente la serratura della porta d'ingresso
scattò e delle scarpe pesanti si posarono sulla moquette. Guy...
Un rumore crescente di passi si stava avvicinando al suo
nascondiglio; a quanto pare non è solo. Fece spallucce. Vorrà
presentarmi il mio sostituto; tutto sommato, è stato veloce. Sapevo
che non sarebbe stato per nulla difficile. La porta della camera
si aprì e Guy disse a qualcuno: «È lì sotto». Spike si
appallottolò ancor di più su se stesso, vergognoso di farsi vedere
da un estraneo ridotto in quelle condizioni. Ma quando una mano gli
tolse bruscamente di dosso le coperte ed una voce conosciuta lo
chiamò per nome, fu costretto ad alzare il capo.
SPIKE!
Tyla lo stava fissando con le sopracciglia corrugate ed
un'espressione dura; non lo salutò, andò immediatamente al punto:
«Cosa stai facendo?».
Proprio non lo sapeva: «Sto cercando di... pensare?».
«Sì, questo lo vedo» gli occhi verdi di Tyla
passarono al setaccio la stanza velocemente, poi tornarono
sull'amico: «Perchè non sei andato a provare?».
Il ragazzo parlava con tono quasi minaccioso; Spike si
irritò e cominciò lui stesso ad alzare la voce: «Perchè non ho
voglia, non puoi costringermi».
Guy si intromise nel discorso: «Ripeti un po' quello
che mi hai detto, dai!»
«Che non voglio più suonare» Spike si alzò in piedi
barcollando ed urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: «NON
VOGLIO PIÙ
SUONARE!»
«Piantala di dire
stronzate» Guy gli si buttò addosso con violenza e lo prese per il
bavero della maglietta bianca, inzaccherata di spirito: «Se lo
ripeti, anche solo una volta, ti sfondo la faccia a pugni».
Spike ridacchiò fra
i denti, mentre una scintilla gli attraversava lo sguardo: «Fallo...
coraggio. Tanto ormai non ho più nulla da perdere».
Guy vide rosso per
un secondo ed alzò la mano destra, ma fu bloccato tempestivamente
dalla voce di Tyla: «Buono Guy, lascia perdere». Fece scivolare
fuori dalla tasca della giacca rosa una sigaretta e se l'accese:
«Senti un po'» parlava a Spike con tono stranamente tranquillo «lo
sai che sei conciato uno schifo?».
Il ragazzo non si
rispose; si limitò a mettersi seduto e a guardare in faccia l'amico
dopo aver spinto via Guy.
Tyla proseguì: «E
credo anche che tu sappia molto bene che non puoi andare avanti
così». Spike indurì i propri lineamenti, ma, di nuovo, non proferì
parola. Per parte sua, Tyla lo osservò attraverso il fumo grigio
della Marlboro che stava facendo fluire dalle proprie labbra verso il
soffitto della stanza e, come era solito fare in quelle situazioni,
lo mise fuori gioco con una sola domanda: «Hai pianto?».
Nella stanza scese
il silenzio più assoluto; sia Guy che Spike guardavano sbalorditi il
cantante dei Dogs D'Amour per quello che aveva appena chiesto. Dopo
qualche secondo, la voce ruvida del ragazzo fece vibrare l'aria: «No»
che puttanata, che roba
da bimbe «dimmi
tu, è necessario?».
Tyla
finì la sigaretta con una lunga aspirata, carbonizzando in parte il
filtro, poi fece due passi verso la finestra e la spalancò con
veemenza, scaraventando il mozzicone in strada: «Allora:
innanzitutto, aprire le finestre per lasciar uscire questa puzza
insopportabile».
Spike
grugnì e si coprì il viso con un braccio, sentendo i propri occhi
colpiti brutalmente dalla luce del giorno.
«Poi,
fili immediatamente a lavarti via il lerciume che hai addosso» Tyla
alzò l'amico di peso e gli mollò uno spintone in direzione del
corridoio «e non tornare finchè non avrai un odore decente».
«Non...».
Spike
fece per ribattere, ma Tyla gli urlò contro: «VACCI, PORCA DI
QUELLA TROIA».
Guy
fissò il coinquilino sbalordito, mentre con il capo chino e
l'espressione vuota ciondolava verso il bagno; si voltò verso Tyla
con la bocca semi aperta in cerca di spiegazioni.
«Ormai
lo conosco come le mie tasche» il cantante bevve un sorso di Famous
Grouse e poi continuò: «tranquillo che lo recuperiamo alla grande».
«Me
lo auguro» Guy si passò una mano in mezzo ai capelli sbuffando
«posso aiutarti in qualche modo?».
Tyla
annuì in silenzio e gli mise un braccio intorno al collo: «Vai a
farti un bel giro... diciamo per un paio d'ore. Non cercare altri
musicisti per il momento. Vai a fare una bella partita a freccette e
poi chiama tutta la band. Ci vediamo allo scantinato di Bam intorno
alle sette questa sera».
Guy
aggrottò la fronte: «Perchè proprio alla vostra sala prove?»
«Perchè
noi abbiamo un registratore che a voi manca» Tyla lo accompagnò
verso la porta «fidati che entro mezzanotte avrete il vostro primo
brano inedito».
Il
chitarrista sgranò gli occhi incredulo.
Tyla,
di rimando, gli fece l'occhiolino e lo lasciò sul pianerottolo:
«Soprattutto, Spike si rimetterà in bolla».
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Capitolo 5 *** Pianto ***
05 Pianto
Spike era appoggiato con la spalla sinistra allo stipite
della porta della camera, le braccia conserte e le caviglie
incrociate; guardava Tyla, in piedi dritto davanti a lui, con gli
occhi blu vuoti, demotivati. Stettero in quella posizione, immobili,
per un minuto abbondante; Spike che guardava inespressivo Tyla e Tyla
che studiava l'amico con occhio quasi clinico. Alla fine il cantante
dei Dogs ruppe il silenzio: «Allora?».
«Allora
cosa?» rispose monocorde Spike, facendo scivolare la pelle contro il
legno e sedendosi a terra con le gambe incrociate.
Tyla
fece due passi verso il centro della stanza, si levò la giacca rosa,
la lanciò sul letto e si sedette anche lui a terra: «Mi fa paura
questo silenzio. Non è da te».
Spike
fece spallucce e rivolse lo sguardo alla moquette.
«Perchè
non parli? Perchè non ne parli?».
Spike
non rispose; mantenne lo sguardo basso, a guardare la polvere che si
alzava dal pavimento.
Tyla
picchiettò ritmicamente i palmi sui gambali degli stivali, poi si
alzò e sparì in corridoio. Spike si trascinò all’interno della
stanza e si appoggiò con la schiena al letto, prendendosi la testa
fra le mani; in realtà sapeva benissimo perché non voleva parlarne.
Era certo che se avesse aperto la bocca per toccare quel discorso,
avrebbe reagito come una femminuccia; avrebbe fatto quello che,
assolutamente, non aveva voglia di fare: sentirmi
gli occhi irritati e il naso chiuso. No. Assolutamente no.
In quei casi il silenzio era meglio. Poi,
ciò che non uccide fortifica, no? Ecco, così facendo posso sembrare
una roccia.
Una
sequenza conosciuta di do, la minore, fa e sol gli fece
improvvisamente alzare la testa; Tyla, con la chioma che gli copriva
in parte il viso, imbracciava la sua chitarra acustica blu oltremare
e stava suonando la strofa di “How Do You Fall In Love (Again)”.
Sitting
with my head in my hands,
Letting
the tears trickle through like sand
The times
you’ve taken
And the
things you’d given
And the
films we watched, and the things we’d do
And the
things I’d say to you…
«Tyla
smettila…». Ma a quanto pareva, il nylon vibrava più
vigorosamente della voce senza enfasi di Spike.
How
do you fall in love again
How do
you start it all over
How do
you fall in love again
How do
you start it all over?
Il
ragazzo dagli occhi blu arricciò le labbra e respirò profondamente;
mise le braccia incrociate al petto e cominciò a picchiare
velocemente la punta del piede sul pavimento.
Tyla
alzò un angolo della bocca in un ghigno e bloccò con la mano aperta
le corde: «Ho colpito nel segno?».
Di
nuovo, Spike deviò lo sguardo lontano da lui: «Credo di sì. È un
singolo quella canzone, avrà pur venduto qualche centinaio di copie
in Finlandia, no?».
Tyla
si scostò una ciocca castana mentre si toglieva la chitarra dalla
spalla: «Sai bene che non intendo questo».
L'amico
volse ancor di più gli occhi verso il soffitto; si rifiutava
categoricamente di interagire. Il cantante dei Dogs lo scrutò in
viso, cercando di capire cosa gli stesse riempendo la mente in quel
momento; non gli era chiaro se fosse arrabbiato, devastato, triste o
tutte e tre le cose insieme. Doveva prendere di petto la situazione,
altrimenti non avrebbe cavato fuori un ragno dal buco; Spike si
sarebbe appallottolato gradualmente come un riccio e per lui sarebbe
stato sempre più impossibile aprirlo. Così si sedette di fronte
all'amico, appoggiandosi lo strumento in grembo, e cominciò a
parlare, a raccontargli che, anche lui, una cosa simile l'aveva
sperimentata. «Sai... qualche anno fa anche io mi sono ritrovato
nella tua stessa situazione».
Spike
mugolò con fare incurante; non aveva voglia di sentirsi fare la
paternale dal suo amico.
«E...»
Tyla si mordicchiò il labbro con le iridi verdi fisse sul manico
della chitarra, alla ricerca delle parole giuste «ti dico, non è
facile uscirne».
Il
ragazzo guardò il suo interlocutore di sottecchi: ma
dai? Non c'era bisogno che venivi fino a casa mia per dirmelo, ci ero
già arrivato da solo. Lo
sforzo di Tyla era apprezzabile, ma Spike non voleva essere
confortato da frasi di circostanza: «Qualche anno fa, eh?». Si mise
in ginocchio, guardando per la prima volta dritto negli occhi chi gli
stava di fronte: «Senti Tim, ti ringrazio per lo sforzo» sospirò
pesantemente aria carica d'alcol «ma non credo che una cotta
adolescenziale sia paragonabile alla situazione in cui mi ritrovo».
«Beh,
non era esattamente una cotta adolescenziale; la chiamerei più»
Tyla alzò gli indici in aria per mimare delle virgolette «una
“situazione a se stante”. E poi ogni situazione è a sé, Spike;
questa è molto vicina alla mia».
«Senti»
Spike sentiva che stava per perdere di nuovo le staffe e non capiva
se era per il troppo alcol bevuto o per l'insistenza di Tyla nel
volerlo aiutare «tu hai la minima idea di che cosa mi ha fatto
provare Leah? NO! No che non lo sai, quindi serra la mascella».
Senza
proferire parola, il cantante dei Dogs si rimise in piedi, poggiò la
chitarra al letto e recuperò la giacca. Fece qualche passo verso la
porta d'ingresso tenendo l'indumento sulla spalla, poi si voltò a
guardare l'amico che lo fissava arrabbiato: «Se vuoi che me ne vada,
problemi non ce ne sono. Io volevo solo aiutarti» girò leggermente
la maniglia facendo scattare la serratura «ti dico solo una cosa
però»
«Sentiamo».
Tyla
fissò Spike, seduto fra le bottiglie e con i capelli che gli
cadevano indisciplinati sulle spalle: «Se vai avanti così, non
risolverai un cazzo; diventerai un essere» e qui spalancò le
palpebre come se dovesse fulminarlo «APATICO e NOIOSO. Comunque,
vedi un po' tu. Sei grande abbastanza».
Spike
seguì con lo sguardo l'amico mentre metteva un piede sullo zerbino e
l'altro sul pianerottolo ed accompagnava la porta verso lo stipite;
se ne stava andando sul serio. E solo in quell'istante si rese conto
che, davvero, la compagnia di Tyla era la cosa più preziosa che
ancora possedeva. Senza contare che l'amico aveva una storia da
raccontare; una storia vera. «Aspetta».
Dopo
due secondi, la chioma tendente al rosso del ragazzo fece capolino;
sotto la frangia ribelle, gli occhi lo fissavano interrogativi.
«Se
dici che questo tuo caso è così simile al mio» Spike fece un
respiro profondo passandosi una mano nei capelli castano scuro
«perchè non me lo racconti?».
Tyla
sorrise beffardo: «Cos'è, sei improvvisamente diventato curioso?».
«No,
è che...» tanto
vale essere sinceri. Di Tyla mi posso fidare
«mi fa proprio schifo la situazione in cui mi ritrovo. Sembra tutto
un sogno orrido, un incubo da cui voglio scappare e non ci riesco.
Dover rinunciare a Leah perchè l'ha deciso lei, senza chiedere il
mio parere... non mi piace».
La
voce dei Dogs richiuse la porta alle sue spalle e si avventurò in
quel cimitero di bottiglie vuote in direzione dell'amico; scaraventò
nuovamente la giacca sul letto, non prima però di aver estratto
dalla tasca il pacchetto di Marlboro. Ne sfilò due, una per lui ed
una per Spike; poi prese l'accendino dalla tasca dei jeans ed aiutò
l'amico ad accendersi la sua. Stettero per qualche istante in
silenzio, entrambi con la schiena poggiata alla sponda laterale del
letto e gli occhi levati al soffitto, a guardare il fumo grigio
innalzarsi lineare; poi Tyla parlò: «Te la ricordi Katherine?».
Spike
non rispose subito; socchiuse gli occhi blu mentre aspirava dal
filtro e sfogliava mentalmente tutte le amiche femmine di Tyla. Non
molte, in realtà. «Katherine... la tua amica quella gnocca?». Tyla
lo guardò con la miglior espressione di disappunto dipinta in viso.
Il geordie corresse il tiro: «Intendo quella bionda, molto bella,
con gli occhi verdi come i tuoi che era venuta con noi a Camden la
prima volta che ero stato a Londra. Quella che ti aveva fatto
comprare la giacca indaco».
«Lei»
Tyla riprese a fumare buttando lo sguardo al soffitto «noi siamo
sempre stati molto amici. È stata una delle prime persone che ho
conosciuto quando mi sono trasferito da Wolverhampton a Kensington.
Andavo ancora alle elementari. Si è instaurato da subito un rapporto
molto saldo e forte tra di noi; nonostante lei avesse tre anni in
meno di me, la sentivo molto vicina. Da piccoli giocavamo insieme e
poi, con il tempo, abbiamo iniziato a parlare e confidarci; il tutto
senza malizia». Fece una pausa per dare un'altra boccata di tabacco:
«Poi, quel giorno di Camden, sulla via del ritorno... qualcosa è
cambiato. Dopo un bisticcio stupido, l'ho abbracciata per chiederle
scusa e» schioccò le dita ingiallite dalla nicotina «mi è partito
il cuore a mille. Così, dal nulla. Ho iniziato a sentire sempre più
forte il desiderio di abbracciarla di nuovo, di tenerla attaccata a
me. Alla fine l'ho baciata sotto casa, mentre la pioggia scrosciava,
e ho preso la bronchite come un coglione».
«Non
capisco» Spike gettò svogliato il mozzicone fuori dalla finestra
aperta «dove vuoi arrivare?».
Tyla
scosse la testa espirando l'ultima boccata di fumo e buttò anche lui
la sigaretta finita fuori dalla stanza: «Le avevo promesso che ci
saremmo rivisti il giorno dopo, soli io e lei a bere una birra; ma
conciato com'ero non potevo nemmeno mettere il naso fuori casa. Avevo
chiamato, mi aveva risposto sua madre ed avevo lasciato un messaggio.
Pensavo fosse tutto ok» il ragazzo sentì ancora, come ogni volta,
il proprio animo ridursi in polvere quando il cervello ripescava quei
pensieri «invece la settimana dopo, mentre andavo da lei per farle
una sorpresa, l'ho beccata su quegli stessi scalini dove l'avevo
baciata io, che ficcava la lingua in bocca a un pugile di merda».
Spike
annuì e mise le braccia conserte: «Sì, situazione simile; ma con
una differenza sostanziale: io, con Leah, ci ho fatto l'amore. Io ho
dato in mano a quella ragazza il mio cuore. Io ho avuto una relazione
con lei»
«Hai
ragione» Tyla lo guardò negli occhi vuoti «però anche io sono
innamorato di Katherine, come tu lo sei ancora di Leah. Tutti abbiamo
delle tempistiche diverse di innamoramento e soprattutto non
scegliamo per chi e quando perdere la testa». Il cantante dei Dogs
sentì lentamente le corde vocali annodarsi: «Adesso so che fa
l'università qui a Londra... e che sta frequentando uno. Ma la cosa
più assurda è che ormai, quelle poche volte che ci vediamo, ci
comportiamo come se nulla fosse, come se quel pomeriggio sotto la
pioggia non fosse mai trascorso. Lei non sa che l'ho vista con il
pugile e lei si comporta come se quel bacio fra di noi fosse stato
uno sbaglio tremendo. Stiamo zitti e andiamo avanti così».
Spike
guardò l'amico protendersi verso il Famous Grouse e dare una lunga
sorsata; per la prima volta, dopo giorni sorrise. Un sorriso amaro e
consapevole. Tyla voleva mostrarsi al mondo come essere maschilista e
brutale, una specie di Bukowski British, ma sotto sotto era forse il
maschio più sensibile sulla faccia della terra: «Quindi, ci sei
ancora dentro questa storia?».
Il
ragazzo dai capelli rossicci annuì con la bocca piena di
superalcolico che svuotò prontamente: «Diciamo che ho imparato a
gestirla. Cosa che dovrai fare anche tu, come ti ho detto; non puoi
andare avanti così».
Spike
chiuse gli occhi ed abbassò il capo; parlò con la voce roca e
bassa: «Tyla, io» sospirò, esalando apatia «in questo momento non
ho proprio voglia di reagire. Magari fra un paio di mesi mi tornerà
un po' di voglia di vivere. Ma ora tutto quello di cui ho bisogno è
la mia Leah»
«Che
però non è più tua».
Le
parole di Tyla tagliavano come coltelli nuovi di zecca. Spike
rabbrividì sentendole sfrecciare di lato alle orecchie; si tirò le
ginocchia al petto e ci poggiò la fronte contro, come se dovesse
ripararsi.
Il
cantante dei Dogs scosse la testa: «Io, da amico, non riesco proprio
a vederti in questo stato. Non sei mai stato così... morto».
Morto.
Già, magari sarebbe meglio.
«E
come se non bastasse» Tyla gli mise una mano sulla spalla «ti rendi
conto della cazzata che hai detto a Guy? Il gruppo ha bisogno di te,
almeno come cantante. Hai una voce invidiabile, puoi farci grandi
canzoni».
«Può
darsi. Però voglio un altro chitarrista, non me la sento più di
suonare» il ragazzo infossò ancor di più la testa fra le gambe «e
non ce la faccio nemmeno più a cantare, sinceramente».
Tyla
mollò la presa dalla spalla e si alzò da terra con fare deciso:
«Non ne sono così convinto». Il ragazzo preso lo strumento e
glielo picchiettò sulla testa, facendogliela alzare: «Adesso TU
suoni». Gli occhi blu di Spike lo guardarono; Tyla scorse una
voragine così profonda che lo fece rabbrividire. Cercò di
incoraggiarlo: «Io sono riuscito a gestire il mio dolore per Kat
componendo».
«Stai
scherzando?».
Tyla
alzò un angolo della bocca, mettendogli la chitarra fra le mani: «Tu
non hai idea della quantità di lacrime che ha bagnato il manico
della mia prima Fender acustica».
Spike
si scostò una ciocca scura dal viso: «Tu sei l'unico uomo che
conosco che piange come una femminuccia».
«Piangere
come una femminuccia è diverso» puntualizzò Tyla, piuttosto
indispettito «io piango quando capisco che posso farlo; nel luogo e
nel momento più adatto. Sembro una femminuccia solo perchè ammetto
di farlo, ecco tutto. Anche per noi maschi versare qualche lacrima
ogni tanto non fa male».
Il
ragazzo sbuffò, appesantendosi sulla cassa blu con gli avambracci:
«Non ho voglia di farlo. Lasciamo stare, ok?».
Il
cantante dei Dogs si fece scuro in viso; non
lo facevo così cocciuto.
Gettò l'occhio al whisky e vide che anche quella bottiglia si era
inesorabilmente svuotata. Serve
altro alcol, altro spirito.
Temporeggiò un secondo, a guardare Spike che fissava senza
motivazione il legno laccato della chitarra, e poi andò in cucina,
sperando di trovare qualcosa di potenzialmente utile. Dopo due minuti
abbondanti, rientrò in camera con in mano una bottiglia di vino ed
il cavatappi: «Ecco qui». Stappò e la porse all'amico.
Il
ragazzo, tenendo le mani sulla chitarra, lesse l'etichetta:
«Chardonnay... ehi, questo l'ha comprato Guy per la cena di stasera»
«Non
importa, non mangeremo perchè avremo di meglio da fare. Bevi». Tyla
gli avvicinò ancor di più la bottiglia.
Spike
guardò la moquette: «Non credo di averne voglia...»
«Ma
non raccontarmi cazzate!» l'amico cercava di spronarlo «Dopo tutto
il whisky che hai bevuto, c'è sicuramente posto per un sorso di buon
vino. Senza contare che, in questo momento, per comporre è
essenziale».
Spike
sentì tutti i suoi muscoli irrigidirsi. Essenziale...
quella
parola Leah gliel'aveva detta un sacco di volte; gli aveva detto che
lui, per lei, era essenziale; essenziale come l'ossigeno che la
teneva in vita. Essenziale per farle battere il cuore. Ma a giudicare
dall'andamento delle cose, poi così essenziale non era. Era
più essenziale quel dannato libro di qualsiasi altra cosa; ci aveva
anche tirato fuori una citazione al riguardo. Alzò
gli occhi; Tyla lo guardava con sguardo fermo e deciso, sempre con la
bottiglia tesa verso di lui. Sembrava una statua, se non fosse stato
per il fatto che un ciuffo ribelle gli cadde sul viso. Spike guardò
l'amico ravvivarsi i capelli rossi: «Leah mi diceva sempre che
l'essenziale è invisibile agli occhi».
«Aveva
torto» Tyla si rigirò fra le mani la bottiglia di Chardonnay e
bevve il primo sorso «io l'essenziale l'ho sempre trovato qui
dentro». Mugolò in segno di soddisfazione, poi mise il fondo della
bottiglia nelle mani di Spike.
Finalmente
il ragazzo si decise a bere; sentiva quel succo d'uva color
paglierino corrergli giù per la gola, finire nello stomaco e dargli
fuoco.
«In
vino veritas» Tyla si accese un'altra Marlboro «ora tutto quello
che devi fare è concentrarti su te stesso e... parlare con la
chitarra. Raccontale il tuo malessere. Ricordati che, per tutta la
vita, la donna che tieni fra le mani in questo momento sarà l'unica
che ti capirà sempre fino in fondo». Per la prima volta, dopo
quella frase, Tyla vide il viso di Spike contorcersi in una specie di
smorfia; era come se si stesse preparando a piangere. «Vuoi che vada
via?».
Il
cantante dei Quireboys scosse la testa. Seguì con lo sguardo l'amico
che andava a spaparanzarsi sul letto sfatto dietro di lui e poi posò
gli occhi blu sul manico di palissandro. Fece un respiro profondo e,
senza rendersi conto, suonò un accordo di do maggiore; no...
troppo aperto, troppo chiaro. Non ho bisogno di questo.
Improvvisamente gli era venuta voglia di urlare, di prendere a pugni
la parete e di strappare le sue amate bandane; Tyla
aveva ragione.
Scosse di nuovo le corde; accordo di mi. Gli piacque. Sentì uno
strano sapore in bocca; era voglia di continuare, voglia di
esternare. Le dita si mossero da sole. Un semplice accordo di la.
Trovata.
Sorpreso,
con i polpastrelli pigiati contro il nylon, ascoltò il proprio cuore
aumentare progressivamente il ritmo; barely
alive... more or less conscious... agitated and then pounds like
hell. Aveva
anche lui qualcosa da raccontare. Cominciò a suonare a ripetizione
quei due accordi e poi espanse la sequenza: si,
la, mi, fa diesis minore, di nuovo la e mi a chiudere il giro.
Esattamente come l'ho cominciato. Le
dita camminavano sulla tastiera da sole, come se già sapessero cosa
dovevano fare, per filo e per segno; suonavano quegli accordi che
aggrovigliavano le viscere di Spike in un fraseggio senza fine. Dopo
giorni di apatia pura, il cantante cominciava a sentire dentro di sé
la tempesta che, fino a quel momento, aveva tentato di sedare. Lo
agitava, lo stordiva, gli sballottava lo stomaco da una parte
all'altra, facendogli venir voglia di rimettere tutto l'alcol che
aveva ingurgitato fino a pochi istanti prima; la stanza girava
vorticosamente, pur essendo saldamente cementata al resto
dell'edificio, e questo gli provocava dolore. Chiuse gli occhi per
non vedere le pareti oscillare, mentre continuava a suonare quegli
accordi; Leah gli apparve di nuovo dietro le palpebre, per ribadirgli
ancora una volta le ultime parole con cui l'aveva scaricato.
All
the pain is with yourself... aching stomach, bleeding heart
All
the blame is with yourself... it ain't true, ya liar.
La
marea aumentava e lui stava affogando; stava andando a fondo con dei
massi legati alle caviglie. Più andava giù e più sentiva
quell'acqua salata salirgli agli occhi e l'aria che non gli colmava
più i polmoni. Rivide nitidamente tutta la scena, la rosa che finiva
scaraventata a terra vicino ai cocci della tazza che le era scivolata
di mano per lo stupore e gli sguardi di disapprovazione che aveva
ricevuto. Ma
perchè Leah, perchè? Già pensavo al nostro futuro, perfino ad un
ipotetico bambino... invece no, perchè? Perchè!
Aprì
gli occhi blu di scatto, sentendo due gocce scivolargli lungo gli
zigomi e incagliarsi nella barba incolta; aveva la bocca aperta e la
gola serrata. Cercava di respirare invano, ad un ritmo frenetico,
come un pesce fuori dall'acqua che si dimenava impazzito. Si sentiva
sibilare, con il cuore che gli martellava nel petto incontrollato e
le mani che avevano abbandonato la chitarra per infilarsi disperate
fra i capelli.
Tyla
si sporse dal letto, preoccupato; vide Spike rantolare, con gli occhi
che lacrimavano fuori dalle orbite. «Merda». Si precipitò
dall'amico e gli tolse la chitarra di mano: «È tutto ok, Spike,
guardami». Gli alzò il mento e gli mise una mano sullo sterno:
«Calmati adesso, sennò mi muori. Mi muori qui sul pavimento e poi
io cosa faccio?». Faceva spavento: non aveva mai visto Spike bianco
come un cencio e con le occhiaie nere, il viso contratto in una
smorfia ed il fisico che si sforzava di sopravvivere a quel panico da
mancanza. Tyla sentì i capelli rizzarsi sulla nuca: «Porca troia,
Spike, respira». Gli parlava quasi sussurrando, per non
trasmettergli anche la sua agitazione: «Respira, bello. Calma. Hai
il cuore che sta per rimanermi in mano. Respira, per dio, respira».
Il
cantante dei Quireboys emise un fischio più acuto degli altri, poi
riuscì finalmente a inspirare ossigeno; chiuse gli occhi e lasciò
uscire lo tsunami in cui stava annegando. La testa gli cadde sulla
spalla di Tyla e cominciò a singhiozzare. Le lacrime gocciolavano
dai suoi occhi copiose, bagnandogli le guance ispide. Ogni respiro
era come un ruggito strozzato, annebbiato dal male che stava
riuscendo ad esternare. Ringhiava a denti stretti Spike, con le
palpebre strizzate e i capelli che gli nascondevano in parte il viso;
fremeva, cercava sostegno. Si sentiva agitato in quella burrasca che
si stava scatenando dentro di sé. Con le braccia intorpidite strinse
la cintola di Tyla ed affondò ancor di più il viso nell'incavo
della sua spalla.
Il
ragazzo si irrigidì per un secondo, poi ricambiò l'abbraccio,
avvolgendo le spalle dell'amico come un mantello. Non disse nulla, si
limitò ad accarezzarlo finchè i singhiozzi non diminuirono e non lo
sentì più disteso.
Lentamente
Spike alzò la testa e, tenendo lo sguardo basso un po' per la
vergogna e un po' per lo stordimento, si passò i palmi aperti sul
viso; sospirò e tirò su con il naso, mentre fissava il muro con la
mandibola contratta per evitare che tremasse. Tyla lo teneva per le
spalle; lo guardava preoccupato, cercando di incrociare i suoi occhi
blu. Lo chiamò per nome sottovoce. Finalmente il cantante dei
Quireboys si volse verso di lui, con gli occhi lucidi, pronti a
versare altre lacrime; parlò con voce roca, devastata dal panico che
si era appena dissolto: «Lei non è più mia». La consapevolezza si
stava facendo largo nella sua mente.
«È
passato?» Tyla era ancora in ansia; aveva timore potesse arrivare un
altro attacco.
Spike
non rispose alla domanda: «Non potrò più riaverla, vero Tim?».
Due grosse lacrime caddero dai quegli splendidi zaffiri e si
schiantarono silenziose sulla moquette.
Tyla
abbozzò un sorriso: «No, Jon».
Il
ragazzo si passò le mani fra i capelli castani e singhiozzò ancora
una volta: «Mi manca da morire».
Il
cantante dei Dogs lo abbracciò fraternamente: «Passerà. Ora devi
solo sfogarti». Lo sentì singhiozzare ancora, mentre con le mani
Spike gli stringeva il bacino; sembrava volergli dire di non
scappare, che aveva ancora disperato bisogno di lui e del suo
sostegno. Tyla cercò di farlo rilassare: «Stavo ascoltando quello
che stavi suonando... mi piaceva».
Spike
si asciugò il viso: «Ho visto delle immagini pazzesche mentre
suonavo quegli accordi... ho rivissuto tutto quello che è successo.
Tutti i miei desideri infranti».
«E
saresti in grado di scriverci una canzone?» ce
l'hai sulla punta della lingua, si percepisce.
«Forse»
Spike fece spallucce «ma non credo di esserne in grado».
Tyla
gli porse un fazzoletto: «Datti una sistemata. Ti porto alla Tana.
Tu hai una storia da raccontare».
*
* *
Quando
arrivò alla Tana, Spike fu alquanto sorpreso di trovarci dentro
tutta la sua band. Guy lo guardava con occhi scuri e duri, mentre il
resto dei ragazzi giocherellava con i propri strumenti. «Perchè ci
sono qui anche loro?».
Tyla
accese il registratore e gli diede una pacca sulla spalla: «Perchè
hai bisogno di loro per sentirti meglio. Ora» gli parlò
all'orecchio «dimenticati di essere maschio, duro e bruto. Hai
bisogno di aprire il cuore e sfogarti. Non è affatto da froci,
credimi».
«Ho
paura di piangere di nuovo» Spike cercò di protestare «o che mi
assalga di nuovo il panico».
«Ci
sono qui io, tranquillo» il cantante dei Dogs gli sorrise e poi gli
fece cenno di andare verso Guy.
Il
coinquilino lo guardò avvicinarsi con il capo chino: «Vedo che ci
hai ripensato».
Spike
gli rivolse un sorriso amaro: «Sul cantante sì... sul chitarrista
ancora non so»; poi gli spiegò il giro che doveva suonargli.
Guy
annuiva mentre lo ascoltava, poi eseguì il riff esattamente come
gliel'aveva spiegato l'amico; guardò Spike chiudere gli occhi e
cominciare a cantare.
I
went to see her just this morning
Lo
vedeva immaginare una situazione in cui lui e Leah fossero più che
felici.
To
see how the child might be
E
poi andare incontro alla distruzione.
She
sat there smokin all my cigarettes
At a table set for three
Vide
il viso del cantante contrarsi in una strana smorfia
I
could've cried
I
could've cried...
E
lo stava facendo; una lacrima gli scivolò furtiva dalla palpebra
chiusa sulla guancia. Guy non disse nulla e continuò a suonare.
When she
said
Spike
strinse i pugni intanto che gli si accapponava la pelle; non riusciva
a ricacciare indietro le lacrime, a mostrarsi di marmo. Ma si stupì
del fatto che nessuno si affrettò a schernirlo. La cosa lo fece
sentire infinitamente più libero e leggero.
I
don't love you anymore
I was slain and shown the door
Ain't no
room here anymore
Una
lacrima gli corse giù, fino al collo; rabbrividì, ripetendo le
parole d'addio di Leah.
Please
don't look to me for help
All the pain is with yourself
All the
blame is with yourself
Nigel
annuì in direzione di Guy ed iniziò a seguire il ritmo, seguito
poco dopo da Chris e la sua tastiera.
So
I went and seen my friends
I tried to turn to them for help
But
all that any of them said
Gliel'avevano
detto tutti di stare attento; ma
io non ho voluto ascoltare nessuno.
You
gotta look out for yourself
I could've cried
I could've
cried...
Tyla
guardò Spike da dietro il registratore; è
il momento Spike... urla.
When
she said
E
Spike vomitò tutto il suo dolore, con la sua voce ruvida che
scartavetrava i muri.
I
don't love you anymore
I was slain and shown the door
Ain't no
room here anymore
Please don't look to me for help
All the pain
is with yourself
All the blame is with yourself
Il
cantante aprì per un istante gli occhi, vedendo il mondo appannato e
sdoppiato, sentendo sempre più forte la consapevolezza che Leah non
era più sua. E faceva male. Un
male porco.
You're
all I ever wanted
All I ever needed
Every time I see your
face
Reminds me baby of what we had
I get so lonely, Ooooh yeah
yeah yeah yeah
All our lives I've been down
Always seemed
in emptiness
I say my prayers every night
But even God don't
care less, Ohhh yeah
I could've cried
I could've cried...When
she said
Si
interruppe; non ce la faceva più a ripetere quelle parole, si
sentiva la gola stretta e le corde vocali annodate. Spike si mise con
l'avambraccio al muro e ci appoggiò contro la fronte. Guy e Nigel
posarono i loro strumenti sui piedistalli ed andarono verso di lui,
mentre Tyla spegneva il registratore, soddisfatto del lavoro
dell'amico; lo confortarono, gli diedero pacche sulle spalle,
cercarono di infondergli coraggio e nessuno gli rimproverò il pianto
che aveva fatto. Guy gli toccò il braccio: «Sono contento che tu ci
abbia ripensato. Ricordati che noi, per te, ci saremo sempre. Sei un
grande cantante e soprattutto un grande amico».
«Senza
contare» Nigel gli tirò per gioco un lembo della bandana «che
questa canzone che hai scritto mi piace molto».
Chris
si alzò dal suo sgabello e si avvicinò: «Dobbiamo rivederla bene,
secondo me può diventare un gran pezzo».
Tutti
annuirono e Spike sorrise, asciugandosi l'ultima lacrima: «Grazie
ragazzi».
«Non
ringraziare me» la voce di Cozy arrivò dal fondo della sala, da
dietro la batteria. Tutti aggrottarono le sopracciglia, increduli. Lo
osservarono alzarsi dallo sgabello, scavalcare i jack che si
snodavano sul pavimento ed andare verso la porta d'ingresso.
Fu
Nigel a tentare di attirare la sua attenzione: «Ehi, socio...»
«Scusa
bello» Cozy uscì dalla sala «ma queste ballate melense non fanno
per me».
La
porta si chiuse fragorosamente e, nel silenzio attonito della Tana, i
ragazzi poterono ascoltare le scarpe dell'ex batterista salire le
scale fino all'uscita.
Alla
fine, Spike parlò con voce graffiante: «Che razza di bastardo» in
un attimo diventò rabbioso «è la mia prima canzone! Non è che
continuerò a scrivere canzoni d'amore per il resto della mia
esistenza. Che bastardo!».
«Adesso
ci sente, quello là» Guy si rimboccò le maniche e fece cenno al
coinquilino di seguirlo, ma Tyla li prese per le spalle:
«Lasciate
perdere. Se se n'è andato per così poco, non era un musicista
adatto a voi».
«Vero»
Nigel si passò una mano fra i capelli castani «il mio ex socio
ritmico, obiettivamente parlando, faceva abbastanza schifo».
«E
perchè non l'hai detto prima?» Guy indispettito arricciò dapprima
le labbra, poi sospirò «Beh, poco male. Ora, oltre a cercare un
secondo chitarrista, dobbiamo pure trovarci un batterista».
Sono
presenti due canzoni nel capitolo; la prima è "How Do You Fall
In Love (Again)?" dei Dogs D'Amour e la seconda è "I Don't Love
You Anymore" dei Quireboys. Non possiedo i diritti di nessuna delle due
canzoni.
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Capitolo 6 *** Rassegnazione ***
Guy e Nigel si scambiarono uno
sguardo complice, guardando il candidato numero uno uscire dalla
cantina della casa del bassista. Sospirarono rassegnati e scossero il
capo; d'altra parte, quando si trattava di scegliere un nuovo membro
per il gruppo, il primo che si presentava non era mai quello giusto,
qualsiasi ruolo dovesse ricoprire. «No, eh» disse Nigel passandosi una
mano fra i capelli.
«Mi sa che è meglio
aspettare domani e vedere il prossimo» Guy guardò Spike di sottecchi e
mimò l'azione di cacciarsi due dita in gola.
Il cantante ridacchiò e si
sfilò la bandana viola, sciolse il nodo e la aprì, guardando i
disegnini bianchi che si dispiegavano in modo regolare sul tessuto; non
appena distoglieva la mente da qualcosa che lo teneva più che
impegnato, come le audizioni che avevano appena terminato, il suo
pensiero finiva naturalmente sul ricordo di Leah. Guy guardò la sua
espressione mutare in pochi secondi, rabbuiarsi ed indurirsi; la bocca
si contrasse e gli occhi blu si velarono di una pellicola scintillante.
Spike alzò lo sguardo e si rimise frettolosamente la bandana: «Vado a
casa ragazzi».
I due non dissero nulla;
sapevano benissimo cosa stava andando a fare il cantante. Lo salutarono
con un fugace cenno della mano ed iniziarono a riordinare la sala.
Spike salì le scale e si
diresse a passo lento verso la stazione della metropolitana di White
City, con l'umidità che lo prendeva sotto braccio e gli gonfiava i
capelli, arruffandoglieli e rendendoli appiccicosi. Teneva gli occhi
blu fissi sull'asfalto che scorreva sotto i suoi stivali; ogni tanto
vedeva che il mondo iniziava a sdoppiarsi, così era costretto a
fermarsi un attimo, alzare la testa e fare un respiro profondo. Serviva
a riparare gli argini; li avrebbe rotti più tardi nel suo appartamento.
La metropolitana affollata non era il luogo ideale dove far fluire i
propri sentimenti. Cambiò treno a Tottenham Court Road per uscire
definitivamente dal tunnel a Leicester Square. Salì nell'appartamento,
si accese una sigaretta appena arrivato in salotto e scaraventò la
giacca sul divano. Con il naso a pochi metri dalla finestra, guardava
il vetro che si bagnava progressivamente e le goccioline che, su quello
sfondo grigio, un misto di cemento e nuvole pesanti, si rincorrevano su
quella superficie trasparente per diventare sempre più grandi e
scivolare verso il davanzale. Le iridi blu seguivano quelle linee
bagnate, mentre la mano meccanicamente portava la sigaretta alla bocca,
le labbra aspiravano senza un perchè e quel denso fumo grigio gli
scendeva per la gola, fino a finirgli nelle vene, nei reni, nel cuore e
nel cervello. Quel sapore di bruciato che gli solleticava il palato,
nei momenti di solitudine gli ricordava quello schifo di libro che bruciava
sotto la pioggia, mentre la sua mano rimetteva in tasca l'accendino.
Quasi a voler imitare lo spettacolo fuori dalla finestra, una goccia
salata gli percorse la guancia, silenziosa; poi un'altra. E un'altra
ancora. Sentiva ancora il vuoto in sé; manchi... possibile che mi manchi dopo
tutto quello che mi hai fatto? Tentava con tutto se stesso di
essere razionale, di lasciarla da parte per ovvi motivi; eppure una
piccola parte di lui, ancora, l'avrebbe rivista. Anche solo per dirti ciao. Tirò sul
con il naso e voltò di poco il capo; la chitarra lo stava guardando,
pregandolo di essere presa in mano. Spike la immaginò con sembianze
umane: una bellissima donna con indosso un vestito di satin blu scuro,
che lo prendeva per le spalle e si chinava su di lui, baciandogli il
collo. Rabbrividì; troppo tempo
senza sensazioni del genere. Afferrò lo strumento per il manico
e si chiuse nella sua camera, sdraiandosi sul letto, con la chitarra
adagiata lungo il fianco. Accarezzò con i polpastrelli le corde, poi le
suonò dolcemente, sfiorandole, immaginando fossero capelli morbidi e
profumati. Chiuse gli occhi e, girandosi sul fianco, l'avvicinò
lentamente al proprio corpo, poggiando la fronte al manico. Si ricordò
delle parole di Tyla: per tutta la
vita, la donna che tieni fra le mani in questo momento sarà l'unica che
ti capirà sempre fino in fondo. Con il cuore stretto in un
laccio invisibile, trattenne il fiato e baciò il manico, immaginando di
assaporare labbra morbide e calde; si figurò di nuovo quella bellissima
donna con il vestito di satin, che lo guardava negli occhi, lo
accarezzava e si appoggiava a lui, delicata e decisa allo stesso tempo.
Sembrava dirgli di parlarle, di lasciarsi andare. Il ragazzo si rimise
supino, sempre con la testa immersa nel suo universo celato dietro le
palpebre, e dopo un respiro profondo cominciò a raccontarle il suo male
e le sue mancanze, con la mente densa di ricordi e le mani che
scorrevano su e giù per la pelle, quasi a volersi infondere calore e
conforto. Ormai era consapevole che Leah non gli apparteneva più, che
era stato un dolce ricordo ma che ora, per il suo bene, doveva
lentamente accantonare. Aprì gli occhi, sentendo il cuore pulsargli
sfrenato nelle tempie; quel dialogo immaginario l’aveva aiutato a
riordinare le idee, facendogli percepire ancor più prepotentemente
l’esigenza di buttar fuori di sé tutto il dolore che lo devastava. Con
le ciglia umide e le dita frementi, si sedette sul letto ed impugnò la
chitarra:
No need
to shout girl I can hear you
No need
to scream you're not in pain
Desiderava averla ancora
lì, di fronte a lui, per cantarle quell’addio con tutto l’amore che
aveva provato per lei. Se una lacrima gli fosse scappata via dagli
occhi non sarebbe stato orribile; anzi, sarebbe risultato solo più vero
e sincero.
My my
little girl, you're sure a tough one
You
don't have to prove it once again
Anche se fosse stata la
cosa più inutile. Anche se a te non
frega più niente di me. Faccio finta di nulla, non mi importa. Vorrei
solo ricordarti che io ti ho amato con tutto me stesso. Vorrei solo che
tu possa parlare di me con il sorriso sulle labbra.
And all
the lies have been forgotten
All the
bad things that we said
Let's
leave it now with no hard feelings
The
best five years we ever had
Quattro mesi vissuti come
cinque anni. Intensi ed importanti come non mai. Eppure, everything comes to an end. Anche
l’esperienza più meravigliosa aveva un epilogo, uno straziante canto
del cigno che stracciava l’animo di chi la viveva.
It's
the last time
It's
the last time
It's
the last time
It's
the last thing that I'm denying
So baby
stop your crying
Over me
Spike guardò la chitarra
con un piccolo sorriso, sentendosi leggermente risollevato; suonò
ancora un accordo per proseguire con la canzone, ma un battito di mani
gli fece alzare la testa. Guy era entrato senza fare rumore e lo
guardava annuendo: «Devo dire che Leah, tutto sommato, ti ha fatto
bene».
«In che senso?» il cantante
si alzò e fece per dirigersi verso la cucina.
«Nonostante il male che ti
ha fatto, ti ha reso un cantante produttivo. Mi piace questa cosa,
bello. Che ne dici se ti do una mano a finire la canzone? Ho un paio di
idee interessanti».
Spike stava per dargli una
pacca sulla spalla per ringraziarlo quando il telefono cominciò a
squillare; con la mano bloccò il coinquilino e, strisciando tranquillo
i piedi, arrivò all’apparecchio. La sua crescente serenità venne
stroncata in un secondo: «Ciao Spike». Le pupille gli si dilatarono a
dismisura, nascondendo lo splendido blu degli occhi; si augurò con
tutto se stesso di aver sentito male. Rimase muto per qualche secondo,
destando la preoccupazione dell’interlocutore che stava all’altro capo
del filo: «Mi senti? Sono Leah».
Guy vide l’amico sbiancare
e crollare sul divano: «Chi è, tua madre?».
Il cantante iniziò a
tremare, mentre fissava il vuoto davanti a sé; non riusciva a capire il
perché di quella telefonata.
«So che ti starai chiedendo
perché ti ho chiamato» la ragazza dall’altro capo del filo fece una
breve pausa «ma… volevo dirti che fra un paio di settimane torno a
Londra a trovare i miei».
Quindi? Avrebbe voluto urlarlo nel
suo orecchio, sfondandole il timpano e facendole percepire almeno una
minima percentuale del dolore che lei gli aveva provocato spezzandogli
il cuore, ma non riuscì ad emettere nessun suono.
«Pensavo che… avremmo
potuto incontrarci».
Spike ebbe un capogiro. Guy
lo vide appoggiarsi sconvolto una mano sulla tempia, come se fosse
stato colpito da un mal di testa improvviso; continuava a non capire
cosa stava succedendo.
«Volevo parlarti» Leah
sospirò «spiegarti perché le cose fra noi sono cambiate così
all’improvviso».
Una valanga di pensieri e
domande che avrebbe voluto porle investì con violenza il cervello del
cantante; se avesse avuto un quaderno, non sarebbe bastato ad annotarle
tutte.
«Mi stai ascoltando Spike?»
non udendo alcuna risposta, Leah pensò di parlare con l’aria.
Il cantante rispose
glaciale: «Quindi sei qui la prima settimana di maggio?»
«Esatto».
Il ragazzo fece un respiro
profondo per riorganizzare le idee, poi sentenziò: «Allora ci vediamo
il 3 al Dark Crimson Velvet. C’è un concerto dei Dogs D’Amour, ci
troviamo direttamente lì». Buttò giù il ricevitore con foga ed affondò
le mani nei capelli, con il diaframma immobilizzato.
Guy, sospettoso, fece due
passi verso di lui: «Non era tua madre, vero?».
Spike stette immobile per
qualche istante, poi, sempre con la faccia nascosta dagli avambracci,
parlò lapidario: «Era Leah».
Il coinquilino stette per
un po' in silenzio, poi esplose: «E TU CON CHE CORAGGIO LE DAI UN
APPUNTAMENTO?».
«Vuole solo parlare, Guy.
Non ti scaldare per niente».
«Veramente» il chitarrista
scosse la testa schifato «ha proprio una bella faccia di culo a venirti
a chiedere un colloquio dopo tutto questo tempo per cercare di
spiegarti perché ti ha scaricato. Cos’è, vuole lavarsi la coscienza?».
Guy poteva anche avere
ragione, anzi, da com’era incazzato ce l’aveva di sicuro, eppure Spike
era convinto che, davvero, Leah volesse fare chiarezza fra loro due:
«Senti, ormai l’ho persa. Lei ha preferito uno stronzo francese biondo
come quel cazzo di principino e io, più di tanto, non posso fare.
Però…» gli fece una domanda apparentemente insensata «hai trovato il
batterista?».
Il coinquilino strabuzzò
gli occhi.
Spike continuò: «Ho bisogno
di incidere un paio di pezzi e voglio qualcuno che mi batta i quattro
quarti».
Incredulo, Guy rimase a
bocca aperta: «Fammi capire… sei passato dal “voglio piantarvi in asso”
al “ti prego, ho un mare di idee”?». Si fece scuro in viso e lo guardò
di sottecchi: «Non è che hai qualche intenzione strana? Tutta questa
fretta improvvisa…».
Spike lo interruppe:
«Voglio salutare Leah senza rimorsi. “I Don’t Love You Anymore” ed il
nuovo pezzo che stavo iniziando devono finire su bobina entro massimo
due settimane. Sono canzoni per lei e voglio che le ascolti. Senza
secondi fini. Sono sue e basta». Guy stava per riempirsi la bocca con
un sonoro “vaffanculo”, ma Spike lo bloccò di nuovo: «Senza contare che
sono comunque nostri pezzi e potrebbero anche finire nelle mani di
qualcuno che li porta a qualche discografico e ci fa un contratto».
Il chitarrista rimase
immobile per un paio di secondi, poi sospirò: «Okay, non fa una piega.
Troviamo sto cazzo di pestapelli e registriamo; ti do anche una mano a
finire il pezzo nuovo. Però giuro che, se dopo il concerto dei Dogs,
Leah non si eclissa, la faccio sparire io».
Spike scosse il capo e mise
una mano sulla spalla dell'amico: «Proprio non ti piace».
«No» rispose lapidario Guy
«Non mi è mai piaciuta».
* * *
Spike sedeva con il gomito
sinistro poggiato al bancone ed un bicchiere di Newcastle Brown che
ondeggiava inquieto nella mano destra. Gli occhi gli vagavano nervosi
per il pub; ad intervalli alterni guardavano le pareti offuscate dal
tabacco che aleggiava nell’aria e poi fissavano altri sguardi. Quello
di sua sorella Julie, che correva dietro il bancone e spillava in
continuazione birre ed ogni tanto gli donava un sorriso fugace mentre
si asciugava le mani nel grembiule nero. Quello di Guy, in piedi poco
distante da lui, un po’ secco ed un po’ pungente come al suo solito,
ben celato dietro un cilindro nero un po’ scassato. Quello di Tyla, in
piedi sul palco, intento a tenere il pubblico per il bavero, che ogni
tanto gli lanciava un'occhiata complice. Ma, ancora, non aveva
incrociato lo sguardo che più di tutti aveva voglia di vedere; quegli
occhietti marroni che qualche mese prima gli avevano fatto perdere
completamente il senno. Diede l'ultimo lungo sorso dal bicchiere e lo
appoggiò rumorosamente dietro di sé, mentre con la mano si tastava per
l'ennesima volta la tasca interna della giacca; aveva una paura folle
che il nastro che avevano inciso pochi giorni prima insieme a Rudy, il
nuovo batterista, potesse inspiegabilmente rotolargli sul pavimento ed
andare in frantumi. Preferiva custodirlo lì, nascosto, vicino al
proprio cuore. Sì, come se la
cassetta potesse assorbire i tuoi sentimenti al pari di una spugna.
Erano le sue ultime parole d'amore per Leah e, qualsiasi cosa si
sarebbero detti nei minuti a seguire, voleva che le giungessero intatte
sia alle mani che alle orecchie. Guardò di nuovo Tyla sul palco,
aggrappato con la mano destra al microfono, con la Gretsch che gli
pesava sulla spalla sinistra, intento in un'interpretazione molto
ubriaca di "Unconscious Boy"; aveva gli occhi spalancati, le pupille
dilatate e la classica espressione da indemoniato che gli deformava il
viso già non stupendo. Sembrava a metà fra un malato di mente ed uno
che aveva disperato bisogno dell'esorcista; nella sua pazzia sembrava
quasi sano. Poi, d'un tratto, lo vide cambiare completamente
espressione; notò che sembrava quasi si stesse pietrificando, come se
stesse sprofondando in un baratro oscuro. I suoi occhi verdi allucinati
avevano visto qualcosa di reale che lo disarmava. Spike seguì la loro
traiettoria, mentre l'amico suonava l'accordo finale della canzone e
cominciava lo scroscio di applausi, in cerca della causa di questo
cambio così repentino. Nonostante fosse passato un sacco di tempo
dall'ultima volta che l'aveva vista, la riconobbe quasi
istantaneamente: Katherine, con i capelli biondi che le cadevano
ordinati sulle spalle, avvolta in un cappottino nero stretto e bella
come non mai, era appena entrata nel pub, catapultando nuovamente
l'amico indietro nel tempo, squarciandogli nuovamente quel cuore
apparentemente di piombo, ma in fondo così delicato, e medicato in
qualche modo con bourbon e Marlboro per anni e anni. Vide Kat fare due
passi verso il palco ed alzare timidamente la mano destra, facendo
ondeggiare le dita nell'aria in direzione dell'amico. Spike osservò
Tyla respirare pesantemente mentre le faceva un occhiolino fugace e si
impegnava il più possibile a sorriderle. Poi chinò il capo,
nascondendosi dietro la frangia spettinata, e cominciò a suonare "The
State I'm In". Avrebbe voluto alzarsi, per vedere la faccia di lei, per
capire se Kat realizzava che Tyla stava male; che aveva l'anima a
brandelli per colpa sua. Ma non voleva fare la figura dell'invadente,
non voleva intromettersi in quel dolore a cui Tyla, nonostante tutto,
era fortemente legato. Spike tornò a guardare il cantante dei Dogs
D'Amour che aveva ripreso una posizione più composta; ora stava eretto,
aggrappato all'enorme chitarra, con i capelli sudati appiccicati al
viso ed i suoi occhi verdi fissi sulla donna che non riusciva a
detestare. Suonava nella penobra del palco, con una luce rosso sangue
puntata addosso e gli accendini del pubblico che parevano quasi un
contorno funereo. Cantava quelle parole: "If you could see the state I get in, I'm
thinking 'bout you again. Every time I see you, it always seems to be
the wrong place" con la voce intrisa di dispiacere. Spike
rabbrividì e si rese conto che la ferita di Tyla era ancora aperta;
l'amico non si sentiva come lui, rassegnato, cosciente del fatto che la
ragazza che gli aveva ridotto il cuore ad un pezzo di carne macellata
non l'avrebbe mai più desiderato in alcun modo. Forse perchè con Kat
non aveva mai litigato, o forse perchè, tacitamente, qualcosa si
trasmettevano ancora: un'irrinunciabile chimica magica. Dentro di sé
aveva ancora il coraggio di custodire una piccola fiammella di
speranza. "I'm here 'cause the
whisky's free, that don't really bother me, yeah! I just don't wanna
say a long goodbye". Per un istante lo invidiò, ma subito si
ricredette; Leah, per come l'aveva trattato, non si sarebbe nemmeno
meritata le canzoni che lui le aveva scritto. Però non gli interessava;
voleva comunque dirle addio come se fosse un'amica. Proprio in quel
momento una folata di aria fredda ed umida gli schiaffeggiò la guancia,
facendolo voltare verso la porta d'ingresso. Spike sentì il proprio
stomaco contrarsi ed annodarsi mentre vedeva Leah entrare al Dark
Crimson Velvet con i capelli mogano acconciati come l'ultima volta che
l'aveva vista a Lione; si passava energicamente le mani sulle spalle
del cappotto bagnato dalla pioggia londinese come se dovesse levarsela
a tutti i costi di dosso. Per un secondo la ragazza guardò la parete,
poi diresse i suoi occhi castani verso il bancone. Quando Leah lo vide,
Spike percepì un netto tuffo al cuore. Guy guardò il coinquilino, con
gli occhi sapientemente nascosti sotto il proprio cilindro: era più
teso di un obelisco, non era quasi più capace di respirare; fece
qualche passo indietro per prendere le distanze dalla situazione e da quella zoccola che sgomitava
fra la folla del pub per dirgigersi verso l'amico con indosso uno dei
sorrisi più falsi della storia dell'umanità. Spike sentiva la propria
gola farsi sempre più stretta ed il cuore premergli contro la custodia
della cassetta, mentre Leah gli si metteva davanti e si apriva il
cappotto. Improvvisamente tutte le parole che voleva dirle sparirono
dalla sua testa. Con le pupille dilatate all'inverosimile la vide
disfarsi lo chignon, accompagnata dallo scroscio di applausi che
salutava calorosamente i Dogs D'Amour, pregandoli di tornare presto sul
palco a suonare.
«Salut, Spike» voleva suonare
spiritosa, simpatica e piacevole; gli aveva perfino fatto l'occhiolino.
Ma il ragazzo reagì quasi
disgustato: «Leah, sei a casa. Non mi parlare in francese».
Lei ridacchiò facendo
spallucce: «Dai, stavo solo scherzando. Come stai?».
«Devo essere sincero?». Fu
una risposta lapidaria, pronunciata con un tono parecchio infastidito,
che stupì lo stesso Spike; sembra
quasi che si stia prendendo gioco di me.
Leah rimase per un attimo
basita, poi cercò di cambiare argomento: «Mi stai aspettando da molto?».
«Calcola che è appena
finito il concerto, ed io ero qui dall'inizio». Altra granata lanciata
contro di lei; Spike si stupì di nuovo. Non riusciva a capire come
stesse manifestando con così tanta facilità tutto quell'astio.
Leah reclinò la testa di
lato, facendo un altro sorrisino: «Perdonami» gli parlava con voce
stridula, quasi infantile «ma ho dovuto aspettare una persona». Spike
la vide allungare dietro di sé una mano per trascinarsi di fianco un
altro ragazzo; anche questo era biondo, con la faccia rosea e gli
occhietti innocenti come quelli del Piccolo Principe. Ma non era quello
con cui Leah l'aveva tradito. «Spike, ci tenevo a presentarti Thierry,
il mio nuovo fidanzato».
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Capitolo 7 *** Rabbia ***
Era rimasto pietrificato, con il viso inespressivo ed il gomito
poggiato al bancone. Leah lo fissava sorridendo, come se quella che
stava facendo fosse la cosa più innocente e naturale del mondo. Gli
occhi blu di Spike saltellarono per un attimo dallo sguardo della sua
ex a quello di quel francese spaesato, che a sua volta lo fissava
cercando spiegazioni. Da come lo stava guardando, non aveva nemmeno
realizzato chi lui fosse; probabilmente pensava che fosse un fratello,
un cugino o, alla peggio, un caro amico d'infanzia di Leah. Qualcuno che per lui non possa costituire
una minaccia. Spike gli guardò le pupille frementi e preoccupate
e, in una frazione di secondo, riconobbe quella speranza che lui stesso
aveva nutrito per pochi secondi in quell'appartamento disordinato a
Lione, quando aveva osservato nella penombra del corridoio il ragazzo
che baciava Leah sulle labbra. Tutto d'un tratto la bocca gli si riempì
di un sapore orrendo, come se avesse bevuto del veleno, e subito
realizzò che tutti gli avvertimenti dei suoi amici e di sua sorella
riguardo a Leah e tutti i cazziatoni di Guy contro la sua cecità ed
ottusità del non voler vedere come realmente stavano le cose avevano un
senso. Tutte quelle frasi che nei mesi precedenti non aveva voluto
ascoltare tornarono indietro con la potenza di un tornado e gli
riempirono la scatola cranica, creando un gran frastuono. Quanto avevano ragione. Tutti, dal primo
all’ultimo. Con i denti stretti e le mani che iniziavano a
prudergli, si alzò dallo sgabello, animato dall’impulso di assestare un
bel destro sul naso di quel francese, ma subito si bloccò: in fondo, non è colpa sua. Le sue
iridi blu ritornarono su quel sorriso stridente e finto: Quella che dovrebbe prendersi il pugno è
lei… ma le ragazze non si picchiano mai, per nessuna ragione al mondo.
Neanche fossero bastarde come questa qui. Così arricciò
velocemente il viso in una smorfia e, senza proferire parola, si avviò
con passo lento e deciso verso la porta del camerino, aprendosi un
corridoio fra la folla, lasciando Leah ed il suo nuovo ragazzo alle
proprie spalle. Il deejay aveva già iniziato a far suonare “Doctor
Doctor” degli UFO, ma la mente del ragazzo era così prepotentemente
occupata da quei pensieri assordanti che non riusciva nemmeno a
percepire le note che arrivavano dalle casse. Una volta arrivato nel
backstage, appoggiò silenziosamente la pesante porta tagliafuoco allo
stipite, lasciandosi dietro tutte le voci ed il tintinnio dei
bicchieri, chiuse gli occhi e picchiò con veemenza il pugno sulla
parete: «Quella stronza!». Sibilava al pari di un serpente, con la
faccia al muro ed il sudore che cominciava ad intingergli la bandana;
sulle palpebre aveva ancora fissa l’immagine di Leah che lo beffeggiava
allegramente. Iniziò a sentire un tremito continuo e nervoso
attraversargli tutti i muscoli. Diede un altro pugno alla parete, poi
un altro ed un altro ancora. Al quinto pugno riuscì a ruggire; riaprì
gli occhi e spalancò le fauci alla pari di una tigre infuriata: «Che
stronza maledetta!». Si voltò verso il centro della stanza tenendo gli
occhi blu iniettati di sangue fissi sul pavimento e lanciò la propria
bandana rossa sul persiano consumato. Spike accartocciò le falangi e se
le passò iracondo nei capelli scuri: «Prima fa tutta quella tenera ed
innamorata, poi…». Si rese conto di non essere in grado di finire la
frase, nonostante avesse un milione di insulti da snocciolare, tutti
dettati dalla rabbia. Strinse i denti così forte da rischiare di
ricacciarli dentro nelle gengive; poteva sentire un leggero sapore
ferroso scorrergli sulla lingua mentre si toglieva le mani dal capo e
contraeva le dita in pugni così stretti da fargli diventare le unghie
bianche. Bastarda. Insensibile
bastarda. Ed io cieco, cieco come non mai! Spike sentì la
propria temperatura raggiungere il picco, provocandogli un gran mal di
testa; doveva assolutamente sfogare tutta quella rabbia o sarebbe
imploso. Così aprì la bocca ed ululò al soffitto con tutto il fiato che
poteva riempirgli i polmoni. Urlò con tutta la potenza graffiante della
sua voce, quasi volesse scheggiare i vetri di quel piccolo stanzino.
Tutti i membri dei Dogs e Katherine, entrata poco prima di lui per
salutare Tyla, si voltarono a fissarlo, preoccupati.
Ma la cosa sembrò non scalfire minimamente Spike: «Puttana che non sei
altro!».
Bam staccò lentamente le labbra dal bicchiere di Cuba Libre, attonito;
gli sembrava impossibile che Spike avesse detto quelle parole. Lui, la persona più posata che conosco.
«Sei una grandissima stronza» gridò nuovamente, rischiando di
strapparsi le corde vocali; poi, accecato dalla rabbia più nera, prese
la cassetta che fino a quel momento aveva custodito all’interno della
sua giacca bianca e la scaraventò con violenza sul pavimento. La
custodia trasparente si divise in due ed il nastro scivolò fuori dal
suo involucro; rimase a guardarlo, con le piccole bobine che lo
fissavano come due occhietti impauriti, quasi volessero chiedergli di
calmarsi, ma Spike non si fece impietosire.
«Jon?» la voce esterrefatta di Tyla gli giunse alle orecchie,
facendogli alzare lo sguardo; il cantante dei Dogs dischiuse la bocca
nel vedere Spike posseduto dalla rabbia più cieca e non ebbe più il
coraggio di aggiungere altro nel momento in cui i suoi occhi verdi
velati di malinconia incrociarono quelli blu striati di rosso
dell’amico. Aveva paura che, se l’avesse interrotto nel bel mezzo della
sua sfuriata, non sarebbe uscito vivo da quello stanzino.
«Non dire nulla, Timothy, sta' zitto» Spike ruggì alla pari di una
tigre inferocita, poi sollevò da terra lo stivale destro «quella può
anche andare a fanculo, FANCULO!» e con il tacco sbriciolò la cassetta
con tre colpi ben assestati.
Tutti si immobilizzarono e trattennero il fiato per qualche secondo;
gli occhi di Tyla, Bam, Steve, Jo e Kat erano puntati su quel ragazzo,
non troppo alto e non esattamente muscoloso, che con una forza quasi
animalesca aveva disintegrato quel nastro.
Tyla lo studiava, con le pupille dilatate e gli occhi stupiti; l’amico
respirava affannosamente ed aveva un filino di bava che si aggrappava
disperatamente al suo labbro inferiore per evitare di sfracellarsi a
terra. Sembrava quasi che Spike stesse per tramutarsi in un lupo
mannaro. La voce gli uscì spezzata dalla gola: «Jon… era» deglutì
rumorosamente «era la cassetta con su quei due brani che avete
registrato l’altro giorno alla Tana?».
Spike voltò lentamente il capo per guardarlo in viso; stava ancora
digrignando i denti.
Il cantante dei Dogs continuò: «Quelli che avete registrato con Rudy?».
«Sì, sì… E ALLORA?» Spike diede un calcio ai rimasugli di quello che
voleva che fosse l’ultimo regalo per Leah.
Tyla vide rosso per due secondi, poi esplose a sua volta: «Dico, sei
rincoglionito?». Con il dito indicò la cassetta distrutta: «Io ti ho
donato parte del mio tempo e lo spazio per poter realizzare questa
fatica E TU ME LA BUTTI VIA COSI'?».
«Merita di essere buttata via» Spike fece un passo verso l'amico,
scansando malamente con la punta dello stivale la cassetta spappolata
«DEVE essere buttata via!».
Anche Tyla avanzò verso di lui, con la temperatura corporea che stava
raggiungendo livelli altissimi: «Certo, buttiamo via anche il bene che
ti vogliono gli amici per quella lì!».
«Non sto buttando via il tuo bene, Timothy!» il cantante dei Quireboys
gli arrivò, in punta di piedi, a due centimetri dal naso, mentre gli
sputava addosso quelle parole. Il suo alito sapeva di birra e amarezza.
«Invece sì» con un sibilo quasi impercettibile, l'amico gli restituì
come un boomerang tutto l'astio che gli stava rovesciando addosso; poi
alzò la mano aperta per scagliarla contro la sua guancia: «e non mi
chiamare Timothy che mi dà FASTIDIO!».
Spike ridusse gli occhi ad una fessura, pronto a ricevere il colpo,
mentre alzava l'avambraccio per proteggersi quanto bastava, ma in una
frazione di secondo si sentì tirare indietro dalle mani di Jo intanto
che Bam bloccava il braccio destro a Tyla dietro la schiena.
«Basta, smettetela tutti e due!» una voce femminile si intromise in
quel contesto così carico di testosterone per cercare di raffreddare
gli animi. Kat si piazzò esattamente a metà fra loro e li fissò con gli
occhi saturi di disapprovazione: «Questo non è un comportamento maturo».
«Perché tu pensi che siano maturi?» si intromise Steve.
La risposta fu un corale: «Zitto» da parte di Tyla, Spike e Kat.
La ragazza si ravvivò i capelli biondi facendo un respiro profondo e
poi riprese: «Qualunque cosa sia successa, Tyla, perché non gli fai
spiegare il motivo del suo gesto?».
Spike si liberò dalla presa di Jo e fece spallucce: «Lasciamo perdere»
«E invece ne parliamo» Tyla gli puntò l'indice dritto contro e lo fissò
in cagnesco.
Alla fine, il cantante dei Quireboys cedette: «Va bene, però vai tu
fuori a prendere qualcosa di forte da bere e ci mettiamo in un posto
tranquillo».
Dieci minuti dopo erano rintanati nello sgabuzzino del Dark Crimson
Velvet, circondati da ramazze e secchi per lavare i pavimenti. L'aria
aveva un odore a metà fra l'ammoniaca e la muffa ed era piuttosto
umida; la lampadina che avrebbe dovuto rischiarare l'ambiente si era
bruciata quando i ragazzi avevano acceso l'interruttore, quindi avevano
dovuto ripiegare su una candela incastrata nel collo di una bottiglia
vuota di Jack Daniel's. Sedevano l'uno affianco all'altro, con la
schiena poggiata alla parete e lo sguardo puntato sulla fiammella
arancione che si librava nell'aria, rischiarando a malapena i loro
visi. Per il primo minuto stettero entrambi in silenzio, sorseggiando
vodka liscia come se fosse acqua minerale dai loro bicchieri della Coca
Cola, accompagnandola con sporadiche boccate di tabacco; fu Spike ad
interrompere l'immobilità: «Ho visto Leah».
Tyla lo guardò con la coda dell'occhio, parlando dentro il bicchiere:
«So che avevi appuntamento con lei stasera».
«Volevo darle quella dannata cassetta» Spike diede il colpo di grazia
alla sigaretta e poi si mise a bruciare il filtro con la fiamma della
candela «ma lei mi si è presentata con un francese».
Il cantante dei Dogs appoggiò il bicchiere a terra e corrugò le
sopracciglia: «Ma... "quel" francese?».
Spike lasciò cadere quel poco che rimaneva del filtro direttamente
nella fiamma: «Magari». Emise una corta e roca risata e si riempì la
bocca di vodka.
Tyla annuì socchiudendo gli occhi: «Ho capito». Si voltò verso l'amico,
guardandolo da dentro il fumo della Marlboro che stringeva fra le
labbra: «Hai avuto la schiacciante conferma che tutti noi avevamo
ragione».
Il ragazzo dagli occhi blu guardò per la prima volta in viso Tyla dopo
il loro litigio. Lo fissò con consapevolezza ed amarezza, sentendosi
crepato ma più forte; non sentiva più il bisogno di piangere, ma solo
quello di urlare al mondo la propria rabbia.
Tyla inspirò a fondo dalla sigaretta e gli mise una mano sulla spalla:
«Meglio tardi che mai. Vedrai che nei prossimi giorni ti sentirai
meglio».
«Certo che avevo proprio le fette di salame sugli occhi» Spike si sentì
le guance più calde mentre diceva quelle parole e ringraziò il fatto
che la lampadina aveva deciso di tirare le cuoia quando loro erano
entrati in quello stretto stanzino.
Il cantante dei Dogs annuì abbozzando un sorriso, poi spense la
sigaretta contro il muro: «Però mi è girato il cazzo quando hai
distrutto la cassetta. Sia per la fatica e l’impegno che ci avevate
messo voi a registrare, sia per il fatto che io vi ho dedicato del
tempo aiutandovi in questo piccolo progetto e mi sono visto ringraziare
con un bel calcio nel culo».
Spike abbassò lo sguardo, parecchio imbarazzato, sentendo tutte le
scuse che stavano per uscirgli dalle labbra completamente inutili.
«Per fortuna che ho imparato a fare sempre una copia in più di tutto»
Tyla bevve l’ultimo sorso di vodka e si schiarì la voce «Una volta in
Finlandia mi è caduta una cassetta fuori dal finestrino del treno
mentre attraversavamo la steppa. Ti lascio immaginare le parolacce che
ho detto. Ho dovuto rimettermi giù ad incidere il pezzo da capo con i
ragazzi, anche se, alla fine, abbiamo ottenuto un risultato migliore».
Il ragazzo si voltò verso l’amico e lo vide ridere sinceramente;
sorrise a sua volta, sentendo un brivido di freddo percorrergli la
schiena: finalmente un po’ di luce
in fondo al tunnel. La luce che forse io non vedrò mai. Rilassò
i muscoli del viso, sentendo la tristezza e la malinconia velargli la
mente che nel frattempo volava qualche metro più in là, al di fuori di
quel buco di cemento, in una stanza più spaziosa ed illuminata, dove
Kat gli aveva detto che l’avrebbe aspettato ancora per un po’: «Ma non
troppo Tyla. Sai, Jack non sa che sono qui; si incazzerebbe a morte se
lo sapesse. Ti ha preso in antipatia e non so perché. Però io ti voglio
bene e non voglio rinunciare a vederti».
Spike gli lesse negli occhi flebilmente illuminati dalla candela quella
voglia così proibita, sbagliata e dolorosa di voler parlare con lei
ancora per qualche minuto, così si alzò e raccolse il suo bicchiere:
«Mi dispiace bello. Scusa per la cassetta e scusa per il tempo rubato.
Ma sai una cosa?». Tyla non proferì parola, così il cantante dei
Quireboys continuò: «Sono fortunato ad essere tuo amico». Detto questo
gli diede le spalle ed uscì dallo sgabuzzino, lasciando Tyla ed il suo
sorriso malinconico a volteggiare nel buio, rischiarato a malapena da
quel timido moccolo aranciato incastrato in una bottiglia di whisky. Si
diresse a passo deciso verso il bancone in legno scuro e grezzo del
locale, ormai quasi vuoto, per andare a consegnare i due bicchieri
svuotati dell’alcol. Salutò Julie con un fugace cenno della mano ed
uscì in strada, dove l’aria umida londinese iniziò immediatamente ad
accarezzargli amorevolmente un lembo della bandana rossa che gli
scendeva sulla spalla. Spike sollevò gli occhi blu verso la lampadina
di un lampione, pochi metri più avanti di lui; nell’alone giallastro
rarefatte gocce d’acqua ronzavano alla pari di sciami di zanzare,
indisciplinate ed innumerevoli, spostandosi seguendo il vento che
arrivava dal Tamigi e sbattendo contro le sue guance, rendendole velate
di pioggia. Rabbrividì, infilando le mani nelle tasche della giacca
bianca ed incassando il collo, cercando di ripararsi dagli spifferi: meglio che mi sbrighi ad arrivare a casa…
Guy avrebbe anche il coraggio di chiudermi fuori solo perché ho rivisto
Leah per due secondi. Fece due passi, sentendo le suole lisce
dei suoi stivali strisciare sull’asfalto bagnato, quando la sua
attenzione fu attirata da due voci che risuonavano dal vicolo attiguo
al locale.
«Senta, perché rompe mi le palle? Io non ho fatto proprio un bel
niente. La colpa è di quello con i capelli rossi che era con me».
Delinquente.
«Se non ti spicci a svuotare le tasche, te le rivolto io. Quanto
scommettiamo che ci trovo dentro quelle cinquanta sterline che sono
sparite?».
Poliziotto.
Sapeva che era rischioso e sapeva ancora meglio che se si fosse fatto i
cazzi suoi sarebbe stato meglio per tutti quanti, ma la curiosità vinse
e Spike fece capolino dal muro del Dark Crimson Velvet e guardò le due
figure muoversi in quel buio quasi totale, mentre tratteneva il fiato.
Ascoltò il ragazzo sbuffare e trafficare con le dita dentro i jeans:
«Questo è tutto quello che ho. Cinque misere sterline. Se le faccia
bastare». A giudicare dalla voce,
probabilmente ha la mia età.
Ci fu un attimo di silenzio, poi un tonfo sordo rimbalzò sulle pareti
in mattoni del vicolo, seguito da un urlo strozzato e dal ragazzo che
cadeva sulle proprie ginocchia: «Per stavolta accetto solo un quinto
del totale che ti sei sgraffignato. La prossima volta non la passi
liscia».
Spike strabuzzò gli occhi e fece qualche passo indietro in punta di
piedi; doveva proseguire il suo cammino verso casa passando davanti al
vicolo, ma non voleva assolutamente farsi intercettare dal poliziotto: se mi scambia per un complice mi massacra.
Così si appoggiò al muro, ad una distanza ragionevole dal vicolo, e si
accese una Lucky Strike.
Vide il poliziotto uscire dall'ombra a passo spedito e passargli di
fianco; gli si fermò davanti, sistemandosi l'elmetto nero con fare
arcigno: «Hai qualcosa da nascondere?».
Il cuore prese a martellargli nel petto per la paura; per essere uno
delle forze dell'ordine, era aggressivo oltre misura. Cercò di
mascherare il proprio nervosismo, stringendo più forte che poté la
sigaretta, evitando che gli ballasse fra indice e medio: «Mi scusi?».
«Cosa ci fai qui a quest'ora?» fece un passo verso di lui e sguainò il
manganello.
Spike deglutì rumorosamente, per paura di essere preso a botte
ingiustamente: «Signore, io... sto aspettando mia sorella. Lavora qui
dentro» si appiattì ancora di più contro il muro «si chiama Julie.
Julie Gray».
Il poliziotto corrugò le sopracciglia, poi rimise a posto il manganello
nella fondina: «Effettivamente le assomigli. So chi è» e senza
salutare, si avviò per il marciapiede in silenzio.
Spike tirò un sospiro di sollievo e guardò il filtro della sigaretta
che teneva nella mano destra; lo aveva stretto così forte che aveva
assunto una forma ovale. Non si
riesce nemmeno a tirare un po' di tabacco. Fece un passo verso
il posacenere che stava fuori dal locale, quando una voce dietro le sue
spalle gli urlò: «Tu sei veramente il fratello di Julie Gray? Quella di
Newcastle?».
Il cantante dei Quireboys riconobbe la voce del ragazzo del vicolo; si
voltò, sospettoso: «Come fai a conoscerla?». Si portò la sigaretta
deformata alle labbra, cercando di assumere la sua miglior espressione
di sfida: «Cosa vuoi da lei?».
Il giovane fece un passo in avanti, uscendo dal cono d'ombra dove era
stato nascosto fino a quel momento. I capelli castani con i riflessi
mogano gli incorniciavano un viso perfettamente sbarbato e
dall'espressione furba, in cui spiccavano due grandi occhi color
nocciola; le labbra carnose erano distese in un sorriso inaspettato:
«Ma come Spike, non mi riconosci?».
«Dovrei?» non sapeva come reagire; se sentirsi più tranquillo perché
chi aveva davanti sembrava amichevole oppure agitarsi ancora di più,
perché magari poteva essere uno squilibrato.
Il ragazzo aprì le braccia, come se volesse mostrargli qualcosa di fin
troppo evidente: «Dai Spike, andavamo a scuola insieme! Non puoi
esserti dimenticato di Ginger!».
Spike si immobilizzò per qualche istante, poi corse a buttargli le
braccia al collo: «Cazzo Ginger, sei tu davvero! Che figata, non sapevo
che anche tu ti fossi trasferito qui».
«Già, sono un paio di mesi».
Spike non stava più nella pelle; fu assalito da una gran voglia di
andare in qualche locale che rimaneva aperto fino al mattino per poter
parlare con quel vecchio amico e di raccontarsi tutto quello che era
successo negli anni in cui non si erano visti, ma Ginger lo anticipò:
«Scusa bello, però ora devo proprio fuggire. Però se mi lasci il tuo
indirizzo ti passo a trovare fra un paio di giorni».
«Volentieri» così gli annotò l'informazione su un volantino che Ginger
teneva nella tasca interna della giacca e poi lo guardò correre via
nella notte umida. Solo in quell'istante, mentre riprendeva il suo
cammino verso casa, si ricordò della disputa che quel vecchio compagno
di scuola aveva avuto con il poliziotto; ma di sicuro sarà stata una cavolata.
Diede un calcio ad una lattina di birra mentre attraversava la strada: ogni tanto capita che le forze dell'ordine
se la prendano con quelli un po' diversi. Salì le scale in
tutta fretta e bussò alla porta del proprio appartamento.
Dopo qualche secondo, Guy fece capolino da dietro lo stipite: «Ah, ma
sei ancora vivo? Ti ho visto sparire nel backstage e poi, quando sono
venuto a chiamarti, non eri più lì».
«Sono andato a parlare con Tyla in un'altra stanza» Spike si tolse la
giacca e rabbrividì «Vado a prepararmi un tè».
Guy lo seguì sospettoso fino in cucina: «E... com'è andata con Leah?».
Il ragazzo non si voltò a guardarlo negli occhi, ma gli parlò fissando
davanti a lui e sputando veleno sull'antina dell'armadietto delle
tazze: «Deluso». Fece una smorfia e lo ribadì: «Deluso in pieno».
Il coinquilino ghignò alle sue spalle in silenzio: ben svegliato bello.
Spike si voltò di scatto stringendo tra le mani la bustina di infuso,
con il volto ancora segnato dal disprezzo: «Sai cos'ha fatto? Si è
presentata con un altro francese! Non quello con cui mi ha tradito, NO!
UN ALTRO! TI RENDI CONTO?».
Guy lo zittì, facendogli segno con le mani di abbassare il tono: «Non
urlare, che è una certa».
Spike se ne infischiò: «Portami la chitarra».
«Che?» il coinquilino sgranò gli occhi «Così rasentiamo lo sfratto, sei
matto?».
«Non ci sfrattano» il ragazzo dagli occhi blu gli consegnò malamente la
bustina di tè e si avviò verso il soggiorno, verso la chitarra: «Siamo
in pari con l'affitto».
Guy cercò di ribattere: «Ok, ma ricordi che ci hanno già richiamato più
volte per rumori molesti?».
Spike scoppiò a ridere: «No, un momento; diciamo le cose come stanno.
TU sei stato richiamato più volte per rumori molesti. Non sono io che
faccio urlare la mia trombamica a squarciagola alle tre di notte e alle
quattro e anche alle cinque».
Il chitarrista digrignò i denti, sibilando: «Ho già detto a Danielle di
limitarsi, ma non mi dà retta».
Spike annuì con fare di chi non credeva ad una sola parola di ciò che
aveva appena detto Guy e suonò un accordo di sol: «Ti piace?».
Guy arrossì di colpo: «Ma chi? Danielle?».
«Ma va!» il cantante scosse la testa, poi risuonò il sol seguito da un
re ed un la: «Il riff intendevo».
Il chitarrista arricciò le labbra e si fece passare la chitarra; ripeté
la sequenza, poi annuì soddisfatto: «Prendi carta e penna».
Spike afferrò il gesso e cominciò a scarabocchiare sulla lavagnetta
della cucina:
Jenny was a shy girl I gave her my
love
And everything she was dreaming of
Poi si voltò a guardare Guy: «Però lei sì».
Il chitarrista bloccò le corde con la mano aperta: «Lei chi?»
«Non fare il finto tonto».
Guy non aprì bocca e suonò nuovamente il giro.
Spike aggiunse altri versi sulla lavagna mentre canticchiava a bassa
voce ciò che scriveva:
She don't want me that's alright
Ain't no reason no time to fight
Poi riprese a guardare il coinquilino: «Chi tace acconsente».
Guy diventò bordeaux: «Vai-a-fare-in-culo».
Spike sorrise rigirandosi il gessetto fra le dita.
I caught you out no word of a lie
See you walking with another guy
All ya said and all ya done
Oh baby, you did me wrong yeah
«Guarda che non c'è nulla di strano» cercò di rassicurarlo il ragazzo
dagli occhi blu, ma Guy gli urlò contro:
«DANIELLE NON MI PIACE, CHIARO?».
Spike scosse il capo, mentre con il gesso incideva sulla lavagna il suo
sentimento mutato per Leah. Si allontanò di qualche passo, poi lo cantò
ad alta voce:
Hey you what can I do
Can't you stand by your man like the
other girls can
Lui e Guy si guardarono negli occhi soddisfatti e fecero per scambiarsi
un cinque, quando l'inquilino del piano superiore diede due colpi con
il manico della scopa al pavimento: «Silenzio! Che c'è gente che
dorme!».
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Capitolo 8 *** Ricordi ***
08 Ricordi
Quel giorno Spike aveva lavorato alla proiezione del pomeriggio e si
ritrovava con la sera completamente libera e Guy a casa di Danielle a
cena. Se proprio vogliamo chiamarla
"cena" ridacchiò sommessamente mentre si apriva una lattina di
Harp. Era certo che Guy non avrebbe nemmeno mangiato tonno in scatola a
casa di quella ragazza; in compenso, lui avrebbe potuto farsi
comodamente i fatti propri fino alla mattina successiva e guardare
tutto quello che voleva in TV, senza che nessuno gli dicesse che alle 10 c'era il suo sceneggiato preferito.
Afferrò l'ultimo pacchetto maxi di patatine alla salsa Worcester e si
lanciò sul divano, allungandosi appena verso la sponda per raggiungere
il telecomando, gioendo interiormente per non doversi subire Fawlty
Towers almeno quella sera. Stava mettendosi comodo, con il gomito
affondato in un cuscino ed il pacchetto aperto e coricato al suo
fianco, pronto ad immergersi nella visione di un bel poliziesco quando
bussarono alla porta. Mugolò, parecchio infastidito, e prendendo in
braccio le patatine si avviò verso l'ingresso; a pochi metri dalla
porta affondò la mano aperta nel pacchetto, si riempì la bocca e poi
abbassò la maniglia, già pronto ad insultare Guy perchè aveva
dimenticato le chiavi e ad imprecare perché Danielle era dovuta correre
in ospedale per qualche urgenza, compromettendo così la sua serata di
cazzeggio solitario. Invece rimase parecchio sorpreso nel trovarsi
davanti Ginger, con i capelli umidi ed il mozzicone di una sigaretta in
bocca: «Che ci fai qui?»
«Mi hai dato tu il tuo indirizzo, te n'eri dimenticato?» il ragazzo gli
sventolò sotto il naso il volantino arancione che teneva spiegazzato
nella tasca interna della giacca.
«No, solo non ti aspettavo proprio adesso» quindi niente film nemmeno
stasera. Spike si sentì leggermente dispiaciuto: È paradossale! Faccio il proiezionista ma
non guardo nemmeno una pellicola durante il turno; forse dovrei
iniziare a farlo... ma alla fine decise che la compagnia del
suo vecchio compagno di scuola era decisamente migliore di qualsiasi
film.
Ginger entrò nell'appartamento, scrutandone le pareti rivestite di una
vecchia carta da parati, a tratti un po' ingiallita, e decorata da
qualche poster di musicisti o di donne mezze nude messo in posizione
strategica per coprire dei buchi. Ridacchiò e si mise a guardare Spike,
con la bocca piena di patatine: «Beh, non è certo Buckingham Palace».
Il cantante inarcò le sopracciglia, stupito dal modo di fare superiore
di Ginger: «Non posso nemmeno permettermelo Buckingham Palace. Però
sono in zona strategica, vicino ad un sacco di locali» deglutì
rischiando di ingozzarsi «tu dove abiti ora?».
Il ragazzo scostò un po' d'aria con il dorso della mano: «Uhm... zona
British Library. Sì, King's Cross».
Camminò lungo il corridoio, verso il soggiorno; Spike lo studiò da
dietro, guardando la sua giacca grigia muoversi ad ogni passo.
L'aspetto fisico di Ginger non era cambiato granché negli ultimi anni:
sempre i soliti capelli color mogano, sempre gli occhietti color
nocciola e quello sguardo un po' da volpe e sempre quel fisico alto e
smilzo. Eppure c'era qualcosa di nuovo in lui; non l'ho mai visto fare quello
superiore... o quello spocchioso. Magari mi sbaglio, però...
«Non è che mi daresti una manciata delle tue patatine?» gli urlò dal
divano su cui si era lanciato.
Spike arricciò le labbra, poi si diresse perplesso e con passo lento in
cucina per prendere una ciotola in cui versare dentro il contenuto del
sacchetto. Mentre prendeva un'altra birra dal frigo si ritrovò a
pensare: bah... magari sono solo io
che sono un po' fuori fase stasera. Ma Ginger che scrocca così
bellamente è troppo strano. Per tutto il tempo che si erano
frequentati, quindi dalla prima
elementare fino a quando non ho fatto la valigia per venire nella
capitale, Ginger era stato un amico fedele, tranquillo,
divertente e soprattutto discreto. «Allora
Ginger? Tutto bene?» gli chiese dalla cucina mentre prendeva le
patatine e la birra per lui.
«Non c'è male, bello... sempre la solita vita».
Spike appoggiò gli snack sul tavolo del salotto; improvvisamente gli
ritornò alla mente la scena di Ginger che discuteva con il poliziotto
nel vicolo attiguo al Dark Crimson Velvet. Silenzioso, diede un sorso
alla sua birra mentre allungava una lattina ancora chiusa all'amico;
decise di iniziare il discorso facendo un giro molto largo: «L'altra
sera eri anche tu al concerto dei Dogs D'Amour?».
Ginger si riempì la bocca di patatine: «Sì, sono arrivato verso metà.
Non sono male»
«Sono bravi» lo corresse Spike un po' piccato «e sono anche miei amici».
Ginger sorrise con la bocca piena di birra: «Hai gli agganci giusti
tu!». Il cantante corrugò le sopracciglia, non capendo dove l'amico
volesse andare a parare. Ginger continuò: «Sai, ho appena perso il
lavoro qui a Londra»
«Oh cacchio, mi dispiace...»
L'amico lo interruppe: «Risparmiati le frasi di circostanza Spike. A me
non dispiace per nulla, invece, aver perso quell'impiego; mi faceva
abbastanza schifo lavorare come lavavetri per un'azienda di periferia,
rischiando di cadere dall'impalcatura ogni giorno e venendo pagato una
miseria» si accese una sigaretta «E sapere che hai degli amici
musicisti è una figata, perchè io voglio entrare in una band».
Spike rimase spiazzato da quell'affermazione: «Non sapevo ti sarebbe
piaciuto suonare»
«Infatti è circa un annetto che ho imparato a suonare la chitarra, ma
devo dire che me la cavo abbastanza bene».
In quel momento, il cantante ebbe un'idea; vediamo cosa sa fare. Fece il giro
del salotto e recuperò la sua chitarra: «Dai, fammi sentire qualcosa».
Ginger sorrise mentre Spike, sedendosi di fronte a lui, gli porgeva lo
strumento; controllò velocemente che fosse accordato, poi iniziò ad
improvvisare una linea blues.
Il cantante rimase ad ascoltarlo, quasi ammaliato, mentre l'amico
fischiettava un'ipotetica linea vocale che accompagnava il riff. Ad un
certo punto lo bloccò: «Niente male bello, non male davvero... di' un
po', ma come mai ti è venuta voglia di imparare a suonare?».
Ginger fece spallucce: «In realtà è una cosa che mi è sempre
interessata, anche se non mi ci sono mai applicato. Ho iniziato a
suonare più "seriamente" da quando te ne sei andato. Ho perfino avuto
una band per poco tempo».
Spike annuì e diede una sorsata abbondante di birra mentre lo ascoltava.
Ginger proseguì: «È stata un'esperienza fulminea, non abbiamo fatto
granché. Abbiamo suonato giusto in qualche pub; il nostro sogno più
grande era riuscire a suonare almeno al Mayfair di Newcastle; anche
come gruppo spalla».
A Spike si illuminarono gli occhi: «Il Mayfair?». Quasi gli si strinse
lo stomaco nel sentire quel nome e tutti i ricordi ad esso abbinati:
«Ti ricordi quanti concerti abbiamo visto lì dentro insieme?».
«Sì» il ragazzo fece un cenno affermativo mentre si accendeva una
sigaretta «ed anche tutti i venerdì sera passati lì dentro».
«Dio mio!» Spike buttò la testa all'indietro, passandosi una mano sulla
fronte: «Te la ricordi Lilianne? Che faceva sbarellare tutti e non la
mollava mai a nessuno?».
«Con tutti i sogni erotici che ci siamo fatti su quella morettona
davanti a una birra, potremmo veramente scriverci un libro» Ginger
scoppiò a ridere, appoggiandosi alla cassa della chitarra «Per non
parlare invece di quel cesso di Rebecca che si strusciava addosso a
tutti ma nessuno la voleva».
«Quella era un incubo! Ti ricordi la sera del concerto degli UFO? Noi
che continuavamo a scansare Becky per vedere le bocce di Lily che
andavano dolcemente su e giù mentre lei ballava?».
«È l'unica cosa che ricordo lucidamente di quel concerto» Ginger tirò
un'altra boccata dalla sigaretta «oltre a Rebecca attaccata alla
mia gamba con un alito che poteva far resuscitare un morto».
Scoppiarono entrambi a ridere, con la testa riversa all'indietro e la
pancia quasi dolorante. Le urla riempivano l'appartamento, rimbalzando
sulle pareti rivestite di carta cadente e rotolando fuori dalla
finestra semiaperta nella notte scura e umida.
Ad un tratto, Ginger si alzò in piedi e, impugnando la chitarra, si
arrampicò sul tavolino, assumendo una posizione da perfetto guitar
hero: «C'era Paul Chapman con la paletta puntata verso il pubblico, che
ti guardava con gli occhi di fuoco e poi faceva strillare la chitarra».
Cercò più che poté di far sentire il suono delle corde curve della
chitarra acustica sotto il suo medio.
Spike si unì al gioco, salendo in piedi sulla poltrona davanti
all'amico: «Sì, e Phil Mogg che indicava il pubblico e diceva: "Grazie,
grazie a tutti! Siete grandi!"».
Ginger alzò le mani al soffitto, mimando la massa della gente
sottostante il palco ed aprendo la bocca facendo uscire un sordo soffio
d'aria; poi, sempre continuando ad impersonare Paul Chapman: «E ora DJ
tocca a te! Facci saltare per tutta la NOTTEEEEEE!». Mise le mani sul
manico della chitarra e cominciò ad improvvisare un riff, allargando le
gambe e facendo scivolare sul pavimento la ciotola delle patatine.
Spike lo maledisse infinite volte mentre balzava giù dal divano per
raccogliere il suo snack preferito, malamente sparso a terra ed ormai
irrecuperabile; aveva una dannata voglia di mangiare quelle patatine,
ma prima Ginger gliele aveva rubate malamente dal sacchetto e poi
gliele aveva rovesciate tutte a terra. Però, più ascoltava quel giro e
più quella linea lo prendeva e lo caricava. Al diavolo le patatine. Alzò gli
occhi verso l'amico che era nascosto dietro una massa movimentata di
capelli mogano e gli chiese: «Che canzone è?»
«Boh» Ginger fece spallucce «improvvisata adesso. Immaginavo me e te
appesi a due bicchieri di birra che scuotevamo la testa e saltavamo».
Il cantante strabuzzò gli occhi sbalordito: «Cioè… ti è uscita così,
senza pensarci troppo?».
Ginger fece una smorfia: «Non ti piace?»
«Al contrario!» Spike balzò in piedi «Suonala ancora… però andiamo di
là». Gli fece strada fino alla camera, dove la chitarra elettrica di
Guy ed il suo amplificatore lo aspettavano appoggiati al muro. Spike
fece cenno con la mano all’amico di prendere lo strumento; Ginger non
se lo fece ripetere due volte. Si mise orgoglioso la Fender a tracolla
e, intanto che il Marshall scaldava le valvole, sistemò l’accordatura;
poi suonò di nuovo il riff di pochi minuti prima. Se sulla chitarra
acustica gli sembrava quasi dolce, su quella Stratocaster, invece,
prendeva una sfumatura graffiante ed accattivante.
Il cantante dei Quireboys chiuse gli occhi, con quel fraseggio che lo
trasportava violentemente indietro di qualche anno, quando ancora
abitava a Newcastle e tutti i weekend faceva almeno una serata al
Mayfair, il locale dietro casa sua.
Mayfair… dove ho bevuto la mia prima
birra. Dove ho fumato la mia prima sigaretta. Dove ho preso la mia
prima sbronza di whisky e i miei amici hanno dovuto riportarmi a casa
sorreggendomi, perché strisciavo i piedi; e la mattina dopo il culo che
mi sono preso da mia madre perché “Jonathan, ti credevo più
responsabile!”. Eppure ero ritornato subito la sera successiva. Avevo
bevuto ancora ed ero riuscito ad accompagnare a casa Candice, che mi
piaceva tanto. L’avevo baciata sotto casa sua, con tutta la mia lingua
infilata nella sua bocca. Lo sberlone che mi ero preso ed il “Non
voglio vederti mai più!”.
Mayfair… quanti concerti lì dentro. È
stato proprio lì, fra quelle quattro mura grondanti d’alcol e sudore
che ho capito che avrei voluto fare il musicista. Guardare meravigliato
ed ammaliato tutti quei gruppi favolosi, che ti investivano con la loro
grinta, sentire il proprio petto martellare al ritmo della grancassa ed
i capelli drizzarsi sulla nuca per un assolo di chitarra mozzafiato e
dirsi: "Anche io voglio farlo".
Mayfair... con tutte le tue belle
ragazze ed i loro splendidi vestitini pazzescamente trasparenti, i
capelli acconciati ed il trucco da serata, accompagnati da scarpe alte
ed unghie perfettamente sistemate. Il cuore che martellava nel petto ed
il pisello scalpitante nelle mutande quando una di queste ti passava
rasente inebriandoti con il suo profumo, così dolce, così intriso di
femminilità. E tu già ti immaginavi con la faccia in mezzo alle quelle
tette, più o meno grandi, e il tuo amico immerso in quel paradiso che
immaginavi di fisso sempre caldo e curato.
Spike corse a prendere carta e penna e iniziò a scarabocchiare idee in
modo quasi frenetico.
Ginger smise di suonare e lo guardò stranito: «Ma che fai?».
Spike, continuando a tenere le iridi blu sul foglio, gli rispose:
«Scrivo il testo».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, incredulo e felice, quando
improvvisamente la serratura di casa scattò e la porta si aprì con un
leggero scricchiolio. Dopo pochi secondi Guy, fradicio e nervoso, fece
il suo ingresso nella stanza e, nel vedere Ginger con la sua "adorata
Bimba" a tracolla, diede libero sfogo a tutta quell'elettricità che già
gli stava scorrendo nelle vene. «Chiunque tu sia, metti giù quella
roba» pronunciò perentorio, sbuffando come un toro durante una corrida.
Spike balzò in piedi e gli corse incontro, prima che gli mettesse le
mani addosso: «Tranquillo, è mio amico...»
«Senti, patti chiari e amicizia lunga» Guy lo guardò arcigno da sotto
il cilindro «lo sai che la Bimba non la può toccare nessuno e non me ne
frega nulla se quello è tuo amico».
«Calma bello, non ho la lebbra e non mi stavo nemmeno facendo una sega
sui tuoi pick up» Ginger si intromise nella discussione con tono
piuttosto scocciato «stavamo solo scrivendo una canzone».
Guy fissò Spike con gli occhi fuori dalle orbite.
Il cantante annuì: «Te la facciamo sentire».
Guy stava per rispondere che no,
grazie, non me ne frega un cazzo. Vorrei solo che quello stronzo
mettesse giù la mia Fender, ma Ginger non gli diede tempo di
ribattere che attaccò subito il riff travolgente della canzone, facendo
ingoiare a Guy le sue parole piene d'astio. Ascoltò quelle note
energiche fino all'ultima, mentre Spike con la sua voce graffiante
descriveva immagini fatte di birra, ragazze e musica. Alla fine fu
costretto ad ammettere che il pezzo aveva davvero del mordente: «Anche
se sistemerei due o tre cose sul ponte».
Ginger sorrise rimettendo, con grande sollievo di Guy, la chitarra sul
suo supporto: «Allora domani possiamo trovarci per sistemare il pezzo,
che ne dici Spike?».
«Non vedo l'ora!» il cantante gli andò incontro e i due si scambiarono
un cinque, dandosi appuntamento per il pomeriggio successivo sotto lo
sguardo tagliente di Guy. Pochi minuti dopo, Ginger usciva dalla porta
per immergersi nella pioggia londinese, lasciando i due coinquilini a
scrutarsi negli occhi.
Guy fissò quelle due pozze blu che lo guardavano sprizzando euforia,
per la serie abbiamo trovato un
secondo chitarrista e ha già buttato giù un pezzo che spacca;
vide gioia ed euforia. Scosse la testa amareggiato: a lui quel tipo non
piaceva neanche un po', c'era qualcosa di marcio nel suo modo di fare.
L'aveva notato dalla risposta che gli aveva dato quando ancora aveva a
tracolla la sua Stratocaster; se non
ci fosse stato Spike davanti, gli avrei spaccato la faccia molto
volentieri. Si rituffò per un istante negli occhi blu dell'amico
e constatò che c'era anche tanta ingenuità, forse dettata da quella
bontà così tanto radicata in lui.
«Allora, che ne dici di Ginger?».
Guy cercò di mantenersi neutrale: «Sì, non male... basta che tiene giù
quelle manacce dalla mia Bimba».
Spike sorrise e gli mise una mano sulla spalla: «Adesso siamo veramente
al completo. Ginger è molto più bravo di me a suonare; adesso hai una
spalla degna di te. A proposito, come mai già a casa?».
Guy alzò gli occhi al soffitto: «Incidente grave e lei è dovuta correre
in pronto soccorso. Certo che avere l'amica di letto che fa la
dottoressa in ospedale non è facile». Si tolse il cilindro: «Ma questo
Ginger da che parte spunta?».
Spike sentì la voce dell'amico pungere; abbassò gli occhi, triste:
«Eravamo compagni di scuola a Newcastle. Non ti piace?».
«A suonare non è niente male» poggiò anche il cappotto
sull'attaccapanni «ma a pelle... ha qualcosa che non va».
Ed in quel momento, Spike si ricordò che non aveva chiesto all'amico
come mai aveva avuto da discutere con il poliziotto; era la seconda
volta che perdeva quell'occasione. Probabilmente
è così roba di poco conto che è per questo motivo che continuo a
dimenticarmene. Fece spallucce e guardò Guy: «Non è che magari
sei partito un po' prevenuto nei suoi confronti perché hai la luna
storta per colpa di Danielle?».
Il chitarrista fece spallucce, poi si diresse verso il frigo della
cucina: può darsi che abbia la luna
storta per colpa di Danielle... ma si dà anche il caso che la mia prima
opinione sulle persone non è mai sbagliata. Si voltò e, di
sottecchi, vide Spike scaraventarsi sul divano afferrando la sua
lattina di birra mentre fischiettava il ritornello di "Mayfair": è ancora così ingenuo... è buono come il
pane quel ragazzo. Infilò la mano nel frigo e il nervoso gli
triplicò nel constatare che era finita la birra; di sicuro, Spike ha offerto. Fanculo,
quello prima mi tocca la chitarra e poi mi finisce la birra.
Serrò l'anta con veemenza e si prese un bicchiere di Coca Cola.
Irritato chiuse gli occhi e diede un lungo sorso, sentendo le bollicine
solleticargli il naso: dovrei dargli
una possibilità, non è giusto partire prevenuti nei confronti di
nessuno... ma a me quel Ginger non mi convince neanche un po'.
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Capitolo 9 *** Amarezza ***
09 AmarezzaGuy
diede una lunga sorsata alla sua birra mentre cercava di scaricare il
nervosismo. Si guardava intorno, con il piede che frenetico
tamburellava contro la gamba del tavolo; fissava i propri compagni di
band seduti al tavolo con lui, che festeggiavano e brindavano in
continuazione. In particolare guardava Spike, seduto dritto davanti a
lui, che cingeva le spalle di Ginger con il suo braccio e seguitava
ogni due secondi ad alzare il bicchiere verso il soffitto. Era felice,
si vedeva; lo erano tutti, in realtà. Da quando quel vecchio compagno
di scuola era entrato nella band, in pochissimo tempo erano arrivati un
contratto discografico, promosso proprio da "Mayfair" che i due avevano
composto, un videoclip da girare e, soprattutto, una marea di concerti
in più. Doveva essere felice anche lui, il suo sogno di campare di
musica stava diventando sempre più palpabile ed invece era lì, quasi
isolato, che beveva la sua Tennent's con i nervi tesi come fili
dell'alta tensione. Di nuovo un altro sorso di birra e le sue iridi
castane che fissavano Ginger, il suo compagno di sei corde: non gli
piaceva, non gli era mai piaciuto e, molto probabilmente, non gli
sarebbe mai andato a genio. Ma non era questione di "sentirsi messo da
parte"; gli altri, Spike compreso, avevano sempre mantenuto lo stesso
atteggiamento nei suoi confronti. Quello che lo infastidiva davvero era
il comportamento dell'ultimo arrivato: sempre pronto a sbeffeggiarlo, a
schernirlo in modo velato; magari per il modo in cui si vestiva, magari
per il suo modo di essere naturalmente un po' burbero oppure - e questo
non lo sopportava - per il suo modo di suonare. Gli altri non se ne
accorgevano quasi, ma lui sentiva tutte quelle frecciatine
conficcarglisi sotto pelle e provocargli un prurito crescente. Espirò
pesantemente e si alzò dalla sedia: «Vado a fumare».
Camminò fino al bordo del marciapiede e, dopo essersi lasciato il
locale alle spalle, con gli occhi fissi verso la strada, si accese la
sua sigaretta. Sentiva il fumo caldo scendergli giù nei polmoni che lo
accarezzava e cercava di calmarlo, quando una voce alle sue spalle lo
fece voltare: «Ehi Guy, cos'è tutto questo silenzio?». Spike era
arrivato senza farsi sentire e anche lui stava per unirsi a lui in quel
rito di rilassamento; fissò la fiamma dell’accendino poi rivolse i suoi
occhi blu al coinquilino, attendendo una risposta.
Il chitarrista scosse il capo deglutendo una boccata di tabacco, come
se volesse minimizzare il suo non essere partecipe, ma sapeva bene che
quegli occhi blu, innocenti come li descriveva lui, non gli lasciavano
scampo. Il cantante capì immediatamente qual era il problema:
«Da quando c'è Ginger sembra quasi che...»
«Ha qualcosa che non va» lo interruppe Guy con un tono di voce che non
ammetteva repliche. Picchiettò con l’indice la Marlboro e guardò Spike
dritto negli occhi; tutta quell’innocenza e benevolenza che li
riempivano quasi lo commuovevano, ma sapeva bene che, in questo caso,
doveva vomitare la verità e metterlo al corrente del reale corso delle
cose. Così come aveva già fatto per metterlo in guardia da Leah: «È
come se nascondesse qualcosa... come se fosse marcio».
«Marcio?» ripeté Spike incredulo «Impossibile, non Ginger».
Guy annuì, respirando dalla sigaretta: «Facci caso: cerca sempre di
sminuirmi, di criticare il mio modo di essere e suonare. Non si può
piacere a tutti, è vero, ma mi sembra che lui manchi di obiettività».
Spike fece per ribattere, per dire che forse stava esagerando, che
Ginger scherzava solamente, ma il chitarrista proseguì: «Ma poi, quello
che più mi fa rabbia, è che pretende sempre di andare lui a prendere il
cachet».
Spike, di nuovo, cercò di difenderlo: «Non è che lui pretende... è che si presta»
«Può darsi, ma mancano sempre soldi».
Il cantante rimase senza parole; adesso non aveva davvero nulla con cui
scagionare Ginger. Non che dai compensi mancassero grandi somme, erano
sempre una decina di sterline circa; però, obiettivamente, venivano
immancabilmente tolte.
Per il servizio bar, diceva lui, effettivamente beviamo tanto.
Ma, da accordi, le bevande dovevano essere gratis; fosse stata soda,
birra o anche il whisky più costoso della loro cantina. Spike si
mordicchiò il labbro: era strano. Ed era ancora più strano il fatto che
nessuno di loro se ne fosse accorto; o, magari, non avesse dato il
giusto peso alla questione. Guy fece un respiro profondo: «Vedrai,
succederà anche stasera».
«Secondo me no» il cantante lanciò la sigaretta in mezzo alla strada e
facendola spegnere da una macchina in corsa «Te la stai prendendo un
po' troppo, per cosa poi...».
Guy corrugò le sopracciglia: «No. Non capisci. Non è il fatto che ha
suonato la mia bimba senza permesso o che mi ha preso la birra dal
frigo o che, ancora, mi ha sfiocchettato il jack l'altra sera a fine
concerto. Non sono questi singoli episodi, anche se l'avrei pestato
molto volentieri. È tutta la situazione, nel complesso. Non va Spike,
non va. Ha qualcosa di sbagliato».
Spike scosse il capo, amareggiato; abbassò gli occhi e fece un passo
per ritornare nel pub: «Non pensavo potessi essere invidioso, Guy.
Sono...» deluso? Incredulo? Attonito? Non
lo sapeva. L'unica cosa di cui era certo era che questa situazione gli
creava ansia. Il cantante desiderava che anche Guy apprezzasse Ginger,
ma invano. Ma, come era già capitato per Leah, improvvisamente, una
voce "antagonista" urlò alla sua mente che forse Guy così torto non
aveva. In fondo, lui stesso aveva notato che Ginger non era più lo
stesso di quando andavano a scuola a Newcastle; sembrava essere più
sfacciato, con meno scrupoli. Rabbrividì mentre tornava verso il
tavolo: ecco che ritorna quella schifosa sensazione di cattivo presagio. La stessa che avevo provato per Leah.
Al momento della chiusura del pub, mentre tutti stavano smontando e
caricando la strumentazione, Ginger diede in mano la propria chitarra a
Spike e gli disse di caricarla al posto suo poiché sarebbe andato a
ritirare il compenso per il concerto. Non appena quelle parole giunsero
alle orecchie di Guy, il chitarrista si spicciò a caricare il suo
amplificatore e fece finta di correre in bagno per la troppa birra
bevuta. Spike lo guardò camminare con passo spedito verso la grande
sala del pub, corrugando le sopracciglia e con un crescente senso di
inquietudine.
«Ehi» Nigel vide il cantante assorto nei suoi pensieri e cercò di
attirare la sua attenzione «secondo me stasera prenderemo cachet pieno;
non abbiamo bevuto molto, a parte Guy che si è scolato sei birre».
Spike si limitò a mugolare, così il bassista proseguì: «Sai, se
dovessimo calcolare quante decine sterline abbiamo perso per la nostra
sete d’alcol, a quest’ora avremmo già degli amplificatori nuovi ed
anche un mixer decente».
«Già» Spike sospirò e, tenendo il capo chino, caricò la chitarra di
Ginger, con la crescente sensazione che di lì a poco qualcosa sarebbe
andato storto.
Intanto, all’interno del pub, appena girato l'angolo per il corridoio
del bagno, Guy si fermò e fece capolino con le orecchie tese; vide
Ginger ringraziare con un sorriso falso il gestore, un uomo
immensamente grosso, e quest'ultimo che si allontanava per andare nel
retrobottega. Il ragazzo alzò per un attimo lo sguardo e poi si mise a
far frusciare le banconote fra le dita; le contò due volte, prima in un
verso ed in seguito nell'altro, poi sfilò una banconota da dieci
sterline e la nascose fulmineo nell'elastico dei pantaloni. Guy
digrignò i denti e dovette chiamare a raccolta tutta la calma in suo
possesso per non tirargli immediatamente una manata fra capo e collo e
prenderlo poi a calci. Si accontentò di uscire semplicemente allo
scoperto e di bloccargli il passaggio: «Sistema subito».
Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole non ammetteva repliche.
Ginger si fermò, con lo sguardo fisso sui soldi; si soffermò per
qualche secondo a guardare la Regina Elisabetta, che lo fissava
ricamata con colori diversi, poi ebbe il coraggio di reggere lo sguardo
di Guy, nascondendosi dietro un ciuffo mogano che gli rotolava sulla
fronte.
L’altro chitarrista fece un passo verso di lui e lo afferrò per il
colletto della giacca, alitandogli in faccia la sua rabbia come un
serpente: «Hai sentito quello che ti ho detto, o devo chiamare qualcuno
per farti pulire le orecchie?».
«Levami le mani dosso Bailey, puzzi di birra» Ginger si attaccò ai
polsi dell'altro cercando di allontanarlo, ma con scarso successo.
Nel vedere che tentava di ribellarsi, Guy lo mise violentemente al
muro, generando un tonfo che fece vibrare le assi di legno che lo
rivestivano; gli si fece ancor più vicino al viso, sentendo la propria
temperatura corporea salire: «Rimetti a posto i soldi che hai preso».
«Sei ubriaco secco, non ho preso nulla» disse l’altro chitarrista a denti stretti.
«Potrò essere ubriaco» Guy aumentò ancor di più la pressione «ma ci vedo da dio».
Ginger, con le spalle al muro, cercò di discolparsi: «Mi spettano quelle sterline».
Guy, livido, alzò il tono di voce: «Ci spettano in ugual misura, stronzo».
«Attento a come parli, bastardo» finalmente Ginger riuscì a spingerlo
via da sé e a fargli picchiare il fondoschiena contro una sedia
«ugual misura un cazzo».
Il proprietario abbandonò il retrobottega, preoccupato dai rumori che
provenivano dalla sala, appena in tempo per vedere Guy rilanciarsi
contro Ginger e rovinare a terra insieme a lui: «'Sti ubriaconi!». Con
la pancia prorompente ancora fasciata nel grembiule da lavoro, corse
intorno al bancone e cercò di interporsi fra i due ma con scarso
successo; si mise in mezzo proprio nel momento in cui il pugno di
Ginger, diretto allo zigomo di Guy, lo colpì in pieno viso, facendolo
retrocedere con il sangue che iniziava a colargli dal naso. Emise un
grugnito degno di un orso bruno guardandosi le mani sporche, poi
afferrò entrambi i ragazzi per le braccia sbraitando: «Se volete far
rissa, ve ne andate fuori sul marciapiede. E se mi avete danneggiato
qualcosa, mi riprendo i soldi che vi ho dato».
«Meno dieci» Guy allungò la mano libera verso la vita dei pantaloni di
Ginger, ma l'altro gli bloccò il polso girandogli malamente la mano e
facendolo urlare: «Figlio di puttana, MOLLAMI!».
«Di' ancora una parola e ti giro il polso sottosopra, così per il prossimo mese non suoni più, pezzo di merda».
Il padrone del pub stava per picchiare insieme i ragazzi alla pari di
due cimbali, quando arrivarono di corsa Nigel, Spike e Rudy, attirati
dal fracasso.
Il cantante fece saltar fuori gli occhi blu dalle orbite: «Ma cosa state facendo?».
«Fuori dai coglioni, subito!» il padrone del locale aveva le labbra
ormai completamente ricoperte dal proprio sangue e fissava Ginger in
cagnesco «Prima che chiami la polizia e ti denunci per aggressione
immotivata».
Il respiro di Spike si bloccò per lo stupore; non è possibile che Ginger abbia intenzionalmente colpito lui! «Aspetti, aspetti, se ne parliamo possiamo...»
«Sta' zitto Jon, per dio, taci!». Guy aveva strillato con tutta la
forza possibile; ritrasse la mano dalla morsa di Ginger e poi guardò
Spike dritto negli occhi: «Qui non c'è bisogno di parlare» spostò lo
sguardo sul bassista: «Nessuno deve essere difeso».
Nigel e Rudy si sentirono raggelare; in un istante capirono che Ginger li aveva traditi.
Spike rimase di sasso. Non può essere vero. No, Ginger non ne sarebbe capace.
Tenne per qualche secondo la bocca chiusa, poi, a passo spedito e
pesante, con gli stivali texani che rimbombavano contro le assi del
pavimento, si diresse verso Guy e gli parlò dritto in faccia con un
filo di voce, mal celando il nervosismo: «Certo che sei davvero
subdolo, da te non mi sarei aspettato una cosa simile! Tutto questo
casino per cosa?» deglutì con difficoltà; colpa del cuore che gli stava
ostruendo la gola: «PER GELOSIA?». Quasi fischiò quelle ultime due
parole. «Sai bene che non devi, siete due chitarristi eccezionali...»
«Questo lo so» lo interruppe Guy, poi aggiunse: «ma il tuo compagno di scuola è proprio un uomo di merda» Capiscila Jon, per dio! Non so più come dirtelo.
Ginger fece per graffiargli il viso, ma il padrone del locale, che
ancora teneva i due, gli diede uno strattone con cui lo fece finire a
terra; poi mollò Guy e si affrettò a mettere un piede sull'altro
ragazzo, proprio sulle palle, impedendogli così di muoversi: «Se solo
provi a rabbrividire, faccio una bella marmellata con i tuoi gioielli».
Spike era sempre più senza parole; guardava Ginger a terra, tremante e
bianco in viso, con le palle quasi schiacciate da un energumeno che era
tre volte lui e Guy che si avvicinava a loro due, lentamente. Cercò di
fermarlo: «Adesso basta Guy!». Fece per allungarsi verso il
chitarrista, voleva assolutamente chiedergli spiegazioni, ma Nigel gli
mise una mano sulla spalla; Spike si voltò a guardarlo, con gli occhi
blu che cercavano spiegazioni. Il bassista si limitò a scuotere il capo
in silenzio. Il cantante smise di respirare mentre si voltava a
guardare i chitarristi, con il cuore che gli rimbombava
inspiegabilmente sempre più potente nelle orecchie. Vide il coinquilino
chinarsi all'altezza dell'elastico dei pantaloni di Ginger, allargare e
sfilare una banconota da dieci sterline. Lo stomaco si contrasse in una
morsa dolorosissima che gli fece salire le lacrime agli occhi. In un
secondo collegò le parole di Guy con il comportamento di Ginger e capì
per quale motivo il suo vecchio compagno di scuola, quella sera in cui
si erano rivisti fuori dal Dark Crimson Velvet, si era preso un cartone
dal poliziotto nel vicolo. Aveva
rubato. Ginger ruba. Ha rubato fino ad ora. Ha rubato ai locali che
frequenta. Ha rubato perfino a me, che siamo amici da una vita. Ha
rubato i soldi che ci siamo guadagnati insieme. Mentre quelle
parole gli rimbombavano nella mente, il cuore prese a battergli così
forte che la testa cominciò a girare come un uragano. La nausea
cominciò a farsi sentire sempre più prepotente, insieme con il sapore
della birra parzialmente digerita che saliva per l'esofago,
accarezzandogli il palato; il sapore della delusione. Lo stesso di una sbronza finita male. Gettò giù nervosamente il conato di vomito che cercava di farlo soffocare e guardò Ginger dritto negli occhi: «Perché?».
Il silenzio scese mentre il sangue che scorreva nelle vene di Spike
faceva sempre più rumore. Nessuno si mosse, solo il gestore del locale
sparì per andare a pulirsi il sangue dal viso; tutti fissavano quel
ragazzo con i capelli ribelli e mogano, che si stava rimettendo seduto.
Il cantante, pilotato dai suoi sentimenti di delusione, lo rimise in
piedi con forza, sollevandolo malamente per un gomito: «PERCHÈ GINGER?».
Il chitarrista rabbrividì leggermente; fu solo capace di dire: «Mi servono».
«Servono anche a noi, pezzo di stronzo» Guy stava per rimettergli le
mani addosso quando Nigel bloccò tutti, dicendo di lasciarlo parlare.
«Mi servono… faccio fatica a tirare avanti». A Ginger tremavano le mani.
Spike si sentì soffocare; oltre il danno, la beffa. Il mio amico non si fida di me.
«Te li avrei prestati volentieri, se li avessi chiesti». Il suo tono di
voce si faceva sempre più acuto e le sue pupille sempre più piccole,
mentre nella mente si accavallavano mille pensieri, uno più doloroso
dell’altro. Ginger ruba, Ginger mente, Ginger non si fida di me. Il tutto stava sfiorando l’assurdo.
Anzi, lo sfiorò: «Chiudi la bocca Spike». Ginger, sprezzante, lo guardò
con odio non giustificato: «Sei squattrinato almeno quanto me e poi, ti
prego, chi ha scritto “Mayfair”? Chi ha scritto il singolo che ti sta
facendo guadagnare?».
Il cantante si sentì raggelare il sangue, mentre il parquet sotto i
suoi piedi si sgretolava alla velocità della luce; aveva paura di
sapere cosa stava per dire il chitarrista.
«Quei soldi, oltre che a servirmi, mi spettano» Ginger fece un passo
verso di lui con l’indice puntato contro il suo petto «Hai capito che
MI SPETTANO?».
Quelle parole taglienti come lame, lanciate contro di lui con violenza ed astio, spensero per un attimo il cervello di Spike. Era la nostra canzone quella. NON LA TUA, LA NOSTRA.
Vide letteralmente nero per pochi secondi, giusto il tempo di sbattere
le palpebre per cercare di far luce. Quando le riaprì, Ginger era
inginocchiato a terra che si teneva il muso fra le mani e le nocche
della sua mano destra erano imbrattate di un liquido rosso scuro e
appiccicoso. Sangue. Le membra erano tutte un tremito e lacrime colme
di delusione iniziavano a scendere copiose dai suoi occhi. Prese fiato
come se dovesse andare in apnea per sempre: «Sei fuori. Fuori dalla
band, fuori dal pub, fuori dalla mia vita. FUORI!». E poi corse via,
diretto da nessuna parte, lasciando gli altri membri della band soli
con Ginger. Di sicuro, anche loro avranno da dire qualcosa.
E prese a correre per le strade buie di Londra, con le lacrime che si
mescolavano alla pioggia ed il sangue che, dalla mano, colava sul
marciapiede, maculandolo in modo irregolare.
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