Vita e Morte a Venezia

di JoiningJoice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Introduzione ***
Capitolo 2: *** II - Incontri ***
Capitolo 3: *** III - Maschera ***
Capitolo 4: *** IV - La Volpe ***
Capitolo 5: *** V - Egoismo ***
Capitolo 6: *** VI - Sacrificio ***
Capitolo 7: *** VII - Verità ***
Capitolo 8: *** VIII - Uccidi ***
Capitolo 9: *** IX - Limite ***
Capitolo 10: *** X - Umanità ***
Capitolo 11: *** XI - Lo so ***
Capitolo 12: *** XII - Morire soli ***
Capitolo 13: *** XIII - Epilogo - Ancora Qui ***



Capitolo 1
*** I - Introduzione ***


Vita e Morte a Venezia



Jean osservò il corpo martoriato del proprio migliore amico bruciare in mezzo a decine di altri corpi.

'Siamo fortunati.', mormorò Connie, sistemandosi la benda attorno alla bocca. 'Se Marco sapesse che siamo vivi, non ce ne vorrebbe.'

Jean annuì distrattamente. Non era nuovo alle violenze, ai cadaveri, ai bubboni, alla mano nera che si portava via i tuoi cari; nessuno di loro lo era, in quel periodo, ma non avrebbe mai pensato che la peste si sarebbe portata via anche Marco, Marco che era sempre sorridente e allegro, che cercava di porre fine alle loro monellate.

Marco che era morto a soli undici anni.

Jean strinse i denti, sentendo le lacrime salirgli agli occhi. Aveva impresso davanti agli occhi il momento in cui uno dei pochi dottori rimasti vivi in città, il tedesco Dottor Jaeger, aveva adagiato Marco su uno dei tavoli dell'improvvisato ospedale. Era febbricitante, e quando il Dr. Jaeger aveva spostato il sudario che Marco aveva iniziato a portare sul volto da qualche giorno a quella parte, rivelando le tumefazioni della peste, Jean era svenuto.

Al suo risveglio si trovava nella casa di Antonio, l'uomo che li aveva presi sotto la propria protezione da che Jean avesse memoria. Connie piangeva in un angolo vicino al fuoco.

'Gli ha tagliato la faccia...', aveva singhiozzato. 'Quel diavolo di dottore gli ha infilato qualcosa nel braccio e gli ha tagliato la faccia...'

'Sta zitto, Connie.', lo aveva rimbeccato Sasha, sconvolta. 'Tu e la tua maledetta lingua da inglese.'

Jean era rimasto sdraiato, lo sguardo rivolto al soffitto, cercando di non pensare al volto di Marco distrutto dalla peste, al volto di Marco che si divideva a metà.

Non ci era riuscito.


*


'Jean, tu hai idea di quanto sia cinquantamila?'


Jean appoggiò i mattoni bianchi accanto ai recipienti di calcestruzzo e guardò Connie, asciugandosi il sudore sulla fronte.

'No.', rispose sincero. 'Perchè me lo chiedi?'

'Ho sentito qualcuno dire che per la peste sono morte cinquantamila persone.', affermò Connie. 'Dev'essere un sacco.'

Davanti agli occhi di Jean si formò l'immagine delle pire che avevano illuminato a giorno il sestiere anche nelle ore più buie della notte, fino a qualche settimana prima. La cenere cadeva ancora, più lenta e rada in quel momento, ma cadeva. Fu assalito da un pensiero improvviso, malato.

(Stiamo respirando cadaveri.)

'Non mi piacciono questi discorsi, Connie.', esclamò. Lui e Connie, come gran parte dei ragazzini ancora vivi del sestiere di Dorsoduro, erano stati impiegati per la costruzione della Chiesa del Redentore, nella Giudecca, chiesa che secondo il Doge sarebbe stata un ringraziamento a Dio per aver liberato Venezia dalla peste.

(Dovremmo ringraziare Dio anche dei cinquantamila morti.)

Un nitrito e l'avvicinarsi di una carrozza tolse a Connie la possibilità di replicare; il carretto di un cerusico si era fermato a pochi metri da loro, e da esso scese il Dr. Jaeger, che andò a sistemarsi sul volto la maschera tipica dei cerusici, atto ad evitare che venissero contagiati dalle malattie su cui andavano ad operare. Il dottore era un uomo diplomato e istruito, ma questo non gli impediva di sporcarsi le mani con strumenti chirurgici per il bene dei propri concittadini. I lavori vennero interrotti mentre il Dr. Jaeger apriva i bancali del carretto e vi sistemava sopra le erbe, le fiale e gli aghi che erano la sua arma.

'Andiamo, Jean.'.


Connie si avviò prima di lui verso il carretto del cerusico. Jean lo seguì poco dopo, moscio e poco incline ad avvicinarsi all'uomo che, per quanto fosse meritevole di aver salvato molti di loro era anche colpevole della morte di Marco.

(Era un ragazzo così buono.)

'Altro che Chiesa del Redentore, dottore, dovrebbero intitolare a voi questa chiesa!'


Il dottor Jaeger conservava poco del suo originale accento germanico; si era trasferito a Venezia da molti anni, ormai, e aveva preso moglie proprio a Venezia. Sorrise all'uomo che aveva parlato, controllandogli gli occhi con un vetro speciale.


'Esagerate, Mastro Hannes.', sorrise. 'Faccio solo il mio dovere.'

Jean sentì il sangue ribollirgli nelle vene. 'È vostro dovere tagliare a metà giovani innocenti, dottor Jaeger?'

Seguirono lunghi attimi di imbarazzante, attonito silenzio; attimi in cui Jean, per quanto in imbarazzo, non riuscì a pentirsi dell'aver urlato quella frase davanti a tutti coloro che lo stavano fissando.

Il dottor Jaeger si alzò in piedi e si levò la maschera per osservarlo meglio. Jean arrossì.

'Tu sei uno dei protetti di De Magianis, non è così?'

'E lei è un assassino.'

Qualcuno mormorò parole di sdegno; il dottore fece un passo avanti e alzò una mano. Jean si ritrasse istintivamente, convinto che l'uomo gli avrebbe mollato un ceffone per intimargli di tacere.

La mano del dottor Jaeger si posò tranquilla e amorevole sulla sua testa.

Jean rimase immobile mentre il dottore si abbassava per poterlo guardare negli occhi.


'Dimmi, qual è il tuo nome?'

'...Jean.'

'Jean, tu sai chi siano i tuoi genitori?'

Jean ci pensò su un attimo. Di suo padre non sapeva quasi niente, mentre sua madre era morta quando lui era molto, molto piccolo. 'No, dottor Jaeger.'

'E sei consapevole di quanta gente quest'epidemia si sia portata via?'

Jean ricordò le parole di Connie. 'Cinquantamila persone.', ripeté, nonostante non avesse la minima idea della reale portata di quel numero.

Il dottor Jaeger annuì. 'Circa cinquantamila, sì. Un terzo degli abitanti della laguna. Compresa mia moglie Carla.'

Jean rabbrividì all'improvviso, guardando verso il carretto del dottore. Non conosceva Carla Jaeger, ma suo figlio, Eren, era uno scapestrato ragazzino coi capelli scuri che in genere accompagnava il padre nelle sue visite, approfittandone per scappare e andare a fare a botte con i ragazzini delle calle. Più di una volta Jean e Eren si erano picchiati per il semplice gusto di farlo, o si erano sfidati tra le grida e gli applausi degli altri ragazzi.

A Jean venne in mente solo in quel momento che quel giorno Eren non era sceso dal carretto, non aveva aiutato il padre a sistemare i medicinali per poi correre via ridendo. Si voltò verso il dottore.

'Dottor Jaeger, Eren...'

'Eren sta bene. È a casa, a prendersi cura di Mikasa. Sai chi è Mikasa?'

A Jean quel nome suonò esotico, il più strano che avesse mai sentito. 'No.'

'Mikasa è figlia di un mio caro amico e di una donna proveniente dalla lontana Asia. Entrambi i suoi genitori sono morti, vittime della peste. Mikasa è sotto la mia custodia, ora. È un orfana, come lo sei tu, come lo era la persona che immagino tu mi stia incolpando di avere ucciso.', a questo punto, il dottor Jeager si alzò in piedi e alzò la voce. 'In queste ore buie dobbiamo rimanere uniti. Io ho potuto offrire alloggio a una bambina, ma molti di noi si trovano spaesati, soli, abbandonati. Dobbiamo avvicinarci e saperci perdonare.'


Dette queste parole, il dottor Jaeger rivolse a Jean un ultimo sorriso, per poi tornare al suo lavoro. Quando fu il suo turno di far controllare al medico che il suo corpo non portasse addosso i sintomi della morte nera, Jean rimase in silenzio; fu Grisha Jaeger a prendere parola.


'Jean è un nome francese. Hai origini francesi, Jean?'

Lui annuì, poi scosse la testa. 'Mia madre mi raccontava di mio padre, un commerciante di vini di Marsiglia. Lei era di una città chiamata Monaco di Baviera. Fu lui a portare me e la mamma qui a Venezia, per poi abbandonarci. Aveva già un'altra famiglia.'

Il dottor Jaeger annuì. 'Capisco. Non dev'essere stato facile per la tua mamma. Hai un nome molto religioso, sai? Jean significa 'Dio è grazioso' in francese. Sei cristiano, Jean?'


(Non più.)


'Mia madre lo era molto.', rispose sinceramente. Aveva ricordi molto vaghi di lei; il profumo dei suoi capelli, le sue mani che ripetevano il gesto della croce, le lacrime quando parlava dell'uomo che aveva amato.

'Allora,', concluse Grisha. 'Che ne dici se ti trovassi un cognome? È importante averne uno, sai? Ti da un senso di appartenenza. Che ne dici di Krishtein? Significa “cristiano” in tedesco.'


E per quanto Marco stesse ancora bruciando tra la cenere e nella sua anima, Jean si sentì per qualche attimo felice.






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Lo so, lo so.
Chi ha letto le mie precedenti one-shot starà pensando 'Ehi, ci avevi promesso una KristaYmir, dov'è la nostra KristaYmir?!'
Chi ha letto l'anteprima della storia (ssssh, fate finta di non aver capito chi è il misterioso ragazzo con la maschera) starà pensando 'DOVE' IL NOSTRO SHONEN AI?!'
Chi mi conosce personalmente starà pensando 'Azz, ti sei rimessa a scrivere fan fiction AU, eh? Traditrice fedifraga!'
Io sto pensando 'Ma che cazz, questa non doveva essere una one-shot con solo due personaggi?!'

E' che 'sto fandom prende troppo.
E' che la KristaYmir arriva, arriva.
Ma quesa storia chiamava, e per quanto non scrivessi AU da anni per il principio del 'basta estrapolare i personaggi dal loro contesto!', SNK si è più volte confermato come il vaffanculismo di tutti i miei principi narrativi.
E' che la JeanMarco chiama, io rispondo.

COMUNQUE!
Le ricerche per far sì che questa storia abbia un senso logico sono estenuanti; spero di non aver fatto nessun errore storico troppo evidente D:
Nel prossimo capitolo (in stesura già nel momento in cui scrivo queste parole) avremo l'ingresso in scena di un sacco di personaggi, compreso Levi (che so che quando si nomina Levi il fandom esplode, ghgh) e si entrerà molto di più nel vivo della storia.
Che mi sta veramente sfuggendo di mano.
HO TREMILA IDEE.
E VI TOCCHERA' SORBIRVELE TUTTE.
A parte gli scherzi, godetevi la storia e recensite, che ogni volta che non lo fate Isayama uccide un personaggio :3
ALLA PROSSIMA!


P.S.: Un grazie per tutte le visualizzazioni, i preferiti e le recensioni a 'Lei Esiste' e 'Bright Future'. Siete meravigliosi e vi adoro tutti :3

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Capitolo 2
*** II - Incontri ***


Vita e Morte a Venezia



'SI FOTTA QUELLA LURIDA CAGNA DI TUA MADRE, JAEGER!'


Jean sfondò la porta della casa di Antonio con un calcio e vi fece irruzione dentro, maledicendo a gesti il mondo. Connie lo seguì a ruota.

Sasha, un attimo prima seduta al tavolo nella stanza, notando il sangue che colava sul volto del compagno saltò in piedi agitata e si fiondò ad afferrare delle pezze.

'Che diavolo è successo?'

Jean sbattè il pugno sul tavolo in legno, i denti stretti. 'Quel figlio di una pezzente di Eren Jaeger mi ha di nuovo fatto fare la figura dello scemo. E davanti alla Principessa, poi!'


La Principessa era il soprannome che i ragazzi del sestiere di Dorsoduro avevano appioppato a Mikasa, la figliastra del dottor Jaeger; un soprannome contorto, dato che di principesco Mikasa aveva solo l'aspetto esotico. La ragazzina si era dimostrata subito un osso duro, una gran lottatrice e il timore di tutti i bulletti delle calle.

'Sai benissimo di non avere nessuna possibilità contro Eren, Jean.', mormorò Sasha, appoggiando una pezza bagnata contro al taglio sul sopracciglio di Jean e tamponando.

'Sì, beh, grazie per il supporto.', Jean tolse la pezza dalle mani di Sasha, nervoso.

Sasha gli gettò un'occhiata infastidita, poi si rivolse a Connie. 'Cosa si sono detti, questa volta?'

'Eravamo in Campo della Carità.', spiegò Connie. 'Jean, io e i ragazzi. Jean stava raccontando di quella volta che ha fatto che ha fatto cadere Eren nel Canal Grande...'

'Intendi quella volta in cui Eren se l'è tirato dietro?'

'Quella volta in cui c'è caduto solo lui.', sottolineò Jean stizzito.

'...e Eren e la Principessa sono usciti dalla stamperia di Mastro Arlert, insieme al nipote dello stesso.', continuò Connie. 'I più piccoli del gruppo hanno cominciato a ridacchiare nella loro direzione. Eren si è infastidito e ha attaccato verbalmente Jean. Lui ha risposto, sono andati avanti così per un po' fino a quando Eren non ha chiesto a Jean se fosse così fissato con Mikasa da essersi tagliato il cazzo per somigliarle di più.'

Sasha strabuzzò gli occhi, rivolgendosi a Jean. 'E tu che hai risposto?'

'Che poteva andare a farsi fottere.'

'Al che lui ha replicato...'

'Che forse mi sarebbe piaciuto avere l'onore.', concluse Jean. 'A quel punto qualcuno ha tirato fuori una fionda e hanno cominciato a volare i sassi.'


Nella stanza calò il silenzio. Sasha e Connie si scambiarono uno sguardo allarmato.

Erano cresciuti insieme a Jean; insieme a lui e agli altri orfani, ai ladri e agli stranieri del sestiere di Dorsoduro. Insieme erano sopravvissuti agli arresti, agli inseguimenti delle guardie della città, ad un'epidemia che era stata fatale per molte delle persone con le quali erano cresciuti. Entrambi rispettavano Jean, e non erano gli unici; ma le voci circolavano, e se erano arrivate addirittura alle orecchie del figlio di un rispettabile dottore, circolavano molto rapidamente...

'Lascia perdere quell'idiota, Jean.', mormorò Sasha, riprendendo delicatamente la pezza dalle mani di Jean. Il sangue non voleva smettere di scorrere dal taglio. 'Penso sarà il caso di cauterizzarla.'

Connie si alzò. 'Vado a prendere la polvere da sparo.'

Mentre Connie usciva dalla stanza, Sasha si rilassò sulla sedia. Il silenzio era sceso su di loro, imbarazzante e traditore; Jean si ritrovò a parlare senza nemmeno pensarci.


'Subito dopo sono arrivate le guardie. Mi sono distratto, e un sasso lanciato da uno di quei maledetti succhiacazzi che stanno dalla parte di Jaeger mi ha colpito.'

'Non Eren stesso.'

'Non lui.'

'Va bene. C'era il Francese?'

Jean annuì, rabbrividendo. 'Il Francese' era il soprannome del Caporale Rivaille. Rivaille era un uomo che si era fatto strada tra grado per grado a forza di vittorie contro i malviventi della città; nonostante la statura modesta e l'aspetto tranquillo, non esitava a far ricorso alla violenza.


'Siamo scappati subito, sparpagliandoci.', ammise Jean. 'Non credo che Eren e i suoi abbiano fatto lo stesso, e se c'è una soddisfazione che posso trarre da tutto questo è l'idea di Eren Jaeger che viene preso a calci in faccia dal caporale. Quello non si farebbe scrupoli a picchiare la figlia del Doge, se la beccasse a rubare un pezzo di pane da un bancale.'

'Ce la vedi, la figlia del Doge che ruba un pezzo di pane?'

Sasha e Jean scoppiarono a ridere, mentre Connie rientrava nella stanza.

Erano passati cinque anni dalla fine dell'epidemia.

Il Carnevale era alle porte.


*


'Cosa stai facendo, ragazzo?!'


Tre giorni dopo l'incidente, Jean stava sfiorandosi la cicatrice sulla tempia con un dito, bighellonando per il mercato in cerca di prede facili quando l'urlo lo portò a voltarsi, così come gran parte della gente che si aggirava tra i bancali. Inizialmente preoccupato che la guardia si fosse rivolto a lui, si rilassò quando vide che l'uomo aveva inveito contro un ragazzino il cui volto era nascosto da un cappuccio, che sembrava aver prelevato senza permesso un tocco di pane da una bancarella.


'Io...ah...ho fame.', mormorò il ragazzino con voce sottile.


Jean trattenne una risatina. Se il ragazzo stava facendo da diversivo per un amico tagliaborse, quella era davvero un'idea rischiosa. Poi però notò che nei paraggi non c'era nessuno che somigliasse a un complice, e aggrottò la fronte. Possibile che si fosse fatto beccare così facilmente, e per una pagnotta soltanto?


'Mi prendi in giro?'


La gente, abituata a quel genere di scena, aveva smesso di osservare. Il borsello della guardia dondolava invitante. Jean si avvicinò, sfilando un taglierino dalla cinta dei pantaloni; con un gesto leggero, esperto, fece cadere il portamonete nella propria mano. Si allontanò con calma, senza farsi notare, ma un urlo lo fece girare d'istinto.


'BRUTTO PICCOLO SORCIO, ORA TI FACCIO VEDERE IO!'


La guardia aveva estratto lo spadino. Jean sentì qualcosa di molto simile al senso di colpa formarsi dentro di lui; il ragazzo sembrava un novellino, e lui stesso da piccolo aveva rischiato spesso di prenderle dalle guardie. In quel caso, quasi sempre qualcuno interveniva a salvarlo.

(Marco, solitamente)

Corse, scivolando tra la guardia e il ragazzo e afferrando la mano di quest'ultimo.


'Seguimi, mammoletta!', urlò al ragazzino, che non se lo fece ripetere.


Corsero lontano dalle guardie, slittando tra calle e calletti, fino a che la guardia non fu abbastanza lontana. Quando si fermarono ansimavano entrambi. Jean iniziò a ridere; la cicatrice sul sopracciglio gli pulsava, l'intero corpo era ricoperto di sudore, avvolto nell'adrenalina. Il ragazzo, invece, era piegato in due dalla fatica. Jean prese il borsello appena rubato e lo aprì.


'Sai una cosa, ragazzino?', sorrise, estraendo dalla saccoccia un paio di monete. 'Sei un maldestro, ma queste te le sei proprio meritate. Se ti interessa imparare qualche trucco, chiedi di Jean Kirschtein. Ci vediam...'


Jean si interruppe bruscamente. Al tintinnare delle monete, il ragazzo aveva alzato di scatto la testa; il cappuccio era scivolato giù, rivelando una zazzera di capelli biondi. Ma le sorprese non finivano lì: la persona che Jean aveva continuato a credere un ragazzino per tutto quel tempo aveva il volto più dolce, femminile e indiscutibilmente bello su cui Jean avesse mai posato gli occhi, anche più bello di quello della Principessa.

'Vi ringrazio!', esplose la ragazza, afferrando le monete. Sorrise, e il suo sorriso raccontava di brezza marina e campi di fiori illuminati dal sole. La sua voce non suonava più come quella di un ragazzino, ora: era la voce di un angelo.

'Pre...go...', mormorò Jean, confuso nel profondo.

In quel momento, la ragazza si accorse di non avere più il volto nascosto; sobbalzò nervosa e si affrettò a coprirsi nuovamente il volto, lasciando in bella vista solo due grandi occhi azzurri. Si avvicinò a Jean.


'Devo scappare, ora: mi cercano! Vi prego, se qualche guardia dovesse fermarvi e chiedervi di una ragazza bionda, non dite di avermi vista!', supplicò. Alzò le monete verso Jean. 'Ve ne sarò eternamente grata...Jean. Siete il mio salvatore. Ecco, non posso vendere questo per ricavarvi dei soldi, ma posso darlo a voi in segno di riconoscenza. Verrò a cercarvi.', gli occhi si socchiusero: stava sorridendo. 'Forse potreste davvero insegnarmi qualche trucco del mestiere.'

Pose nelle mani di Jean qualcosa che si era tolta dal dito e scappò via, prima ancora che lui avesse la possibilità di fermarla. Nel vicolo c'era un silenzio innaturale; i rumori della città arrivavano attenuati, soffusi. Ad un tratto, Jean si sentì osservato. Guardò dietro di sé, ma non c'era nessuno. Gli sembrò di scorgere un'ombra sui tetti. Alzò lo sguardo, ma non c'era nulla.

(A pensarci bene, l'idea era abbastanza ridicola)

(E quella ragazzina dev'essere qualche pazza scappata da un manicomio)

Jean abbassò lo sguardo sulla propria mano. La ragazza vi aveva lasciato un anello, su cui sembrava essere inciso qualcosa. Jean alzò l'anello verso gli occhi per osservarlo meglio.

Effettivamente sull'anello c'era un'incisione, anzi, più di una; la scritta “Aeterna florida virtus” e uno stemma ritraente un ponte dorato in campo azzurro.

Lo stemma dell'attuale Doge.

Quando Jean abbassò l'anello e si voltò nella direzione verso la quale era scappata la ragazza, scoprì che a dieci centimetri dal suo naso era fermo un uomo. Indossava un lungo mantello scuro e in volto aveva una maschera di un nero più nero della notte stessa.


'Ciao, Jean.', sussurrò.


'AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!'





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E mentre voi leggete questo, io inizio il capitolo 5 *faccina malefica*
Ragazzi, che dire. Siete...siete meravigliosi. Non mi aspettavo tanto feedback positivo, tante views...un grazie a cuore aperto a tutti coloro che hanno recensito, seguito, preferito, ricordato. VI VOGLIO BENE!
Riguardo al capitolo, invece...ehi, ora sì che potete parlarne. C'è un po' di gente il cui ruolo qui è a malapena abbozzato, e nonostante mi fossi detta che non avrei inserito tutti i personaggi, la storia si prospetta lunghina e cercherò di inserire tutti; per ora vi dico con sicurezza che tutti i membri della 104th Squad hanno un ruolo fisso chiave nella storia, e questo dovrebbe far pensare che... (evito gli spoiler ghghgh)
Facciamo un gioco: se recensite, ditemi chi credete fosse il personaggio che Jean ha avuto l'impressione di vedere sul tetto.
Io vi aspetto al prossimo, atteso, rompicuore capitolo, che posterò non prima di mercoledì 20 novembre! (。◕‿◕。)
E poi ci rivediamo dopo il cinquantesimo di Doctor Who! WHHOOOO-OOOO-OOOOOH! (momento di sclero random) ALLA PROSSIMA!



Perchè riesco ad aggiornare solo a notte fonda, urgh...

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Capitolo 3
*** III - Maschera ***


Vita e Morte a Venezia



'AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!'


Jean cadde all'indietro, atterrando con la schiena sulle mattonelle. L'uomo che gli stava di fronte inclinò lievemente la testa d'un lato; impossibile dire quali fossero i suoi pensieri, dato che la maschera gli ricopriva l'intero volto.


'M...mi avete spaventato, amico.', sorrise Jean, cercando di calmarsi.

'Non era mia intenzione.', l'uomo estrasse la mano guantata di nero da sotto il mantello e gliela porse. Jean la afferrò saldamente e si tirò su da terra. Si spolverò i calzoni e controllò furtivo di avere ancora l'anello in mano.

'Non è un po' presto per andare in giro con...ah...una maschera?'

L'uomo rise. Aveva una risata gentile, eppure Jean sentì brividi scendergli lungo la schiena.

'La Maschera è ciò che sono, Jean. Dammi del tu, ti prego.'


Jean lo guardò fisso, nel punto in cui la maschera era forata; gli occhi dell'uomo – la cui voce, in contrapposizione con la corporatura adulta, suonava più come quella di un ragazzo non troppo più vecchio di Jean – erano in ombra, nascosti dal cappuccio posto sulla sua testa.


'Come conosci il mio nome?'

'Ti ho cercato a lungo, Jean.', continuò lui. Non disse altro.

Jean sentì di aver sopportato abbastanza strambi per un solo giorno. 'Senti, amico, se sei uno degli amici di Eren ti conviene vivamente allontanarti. Non sono in vena di scherzi del cazzo.'

L'uomo con la maschera abbassò la testa; emanava un enorme senso di tristezza e delusione. 'Davvero non mi riconosci, Jean?'

Jean stava per rispondere, ma un rumore improvviso lo fece voltare. Del fumo saliva lento in cielo, a circa cinquecento metri di distanza rispetto a dove si trovavano loro.

'Oh, no.', sentì esclamare l'uomo con la maschera. Jean si protese in avanti e lo afferrò per il bavero del mantello.

'Prima quella ragazzina e ora voi! Chi siete? Cosa diavolo volete?'

'Jean, lasciami!'

C'era una punta di disperazione nella voce dell'uomo. Jean afferrò la maschera e fece per strapparla via, ma l'uomo lo colpì al fianco destro con un calcio; fu costretto a mollare la presa.


'Non...non farlo, ti prego. Devi fidarti di me!', implorò l'uomo.


E per un lungo, inspiegabile attimo, Jean lo fece. Qualcosa nella voce gentile di quell'uomo gli impedì di muoversi; un ricordo seppellito sotto anni di solitudine, qualcosa che aveva l'impressione di aver dimenticato, qualcosa di importante.

(una famiglia)

L'uomo con la maschera si rialzò da terra.


'So che hai incontrato qualcuno di importante, poco fa. Ti stavo seguendo da un po', ma non avrei mai pensato che le cose si sarebbero complicate così tanto.', ansimò. 'Ho bisogno di continuare a parlarti. Va sull'isola della Giudecca, questa sera, poco dopo il crepuscolo. Recati alla locanda dello Zudeo e chiedi della Volpe. Lei ti dirà di più.'

'Di più su cosa?!', sbottò Jean.


L'uomo, che già si era allontanato di qualche metro, si voltò indietro. Alla luce del sole, Jean si rese conto che la maschera che gli copriva il volto non era completamente nera; la metà destra era rossa, un rosso tanto cupo che era quasi impossibile distinguere i due colori.


'Di più su di me.', rispose. 'Chiedi della Maschera.'


Dopodichè scomparve tra i vicoli.


*


Dal suo rifugio in una piccola casa nell'isola della Giudecca, anche la Volpe potè sentire l'esplosione, e se ne compiacque. Agli occhi di chiunque, quell'esplosione sarebbe passata come uno degli incidenti che accadevano di frequente durante la settimana del carnevale; opera di vandali, o incidente pirotecnico. Ma per lei e per gli uomini che la pagavano, quell'esplosione rappresentava l'inizio di qualcosa di grosso.

Si alzò agile sul bordo della finestra e vi rimase in piedi per qualche secondo; saltò, afferrando saldamente la sporgenza del tetto e issandosi. I muscoli delle braccia, allenate da anni di esercizio, le dolevano piacevolmente. Si sdraiò sulle tegole del tetto, in qualche modo felice. Si sentiva più a suo agio, quando sopra la sua testa c'era il cielo al posto di un tetto.

Senza volerlo, si ritrovò a pensare al fortuito incontro appena avuto. Stava controllando la principessina nei pressi del mercato, ed era sul punto di seccare la guardia che l'aveva attaccata con un lancio di pugnale, quando la ragazza era stata portata via da un ladruncolo. Allarmata, li aveva seguiti correndo e saltando agilmente tra i tetti della città, pronta a intervenire nel caso il ragazzo si fosse rivelato uno scagnozzo del Doge. Quando poi si erano fermati e il ragazzino aveva estratto due monete da una sacca che doveva aver sottratto alla guardia, la Volpe si era rilassata ed era rimasta in silenzio ad assistere alla scena. Christa era scappata, e lei l'aveva lasciata andare. Se la sarebbe cavata.

'Serena quanto la nostra città.'

La Volpe alzò la testa; la Maschera era seduta accanto a lei.

'Non smetterai mai di darmi i brividi. Sei imprevedibile, ragazzo.', ammise.

'Dissero i passi più felpati dell'intera Venezia.', replicò lui. 'Come sta la nostra bastarda?'

'Dovrebbe riuscire a sopravvivere qualche giorno senza combinare disastri. Il tuo amichetto le ha dato una mano.', sorrise, e il suo volto si contrasse in una smorfia canina, uno dei tanti motivi dietro al suo soprannome.

'Jean verrà a cercarti stasera. L'ho indirizzato a te.'

A quella notizia, la Volpe parve innervosirsi. 'Per quale motivo dovrebbe cercarmi?'

La Maschera si alzò, spolverando il mantello. 'Per trovare me, Ymir, che domande.'


Si tolse la maschera e rivolse il volto alla luce del sole. Ymir era una donna di mondo e ne aveva viste tante, durante la sua vita, ma poche cose la spaventavano quanto quel volto. La Maschera aveva molti soprannomi: l'Urlatore, il Macellato, l'Ombra, ma solo uno gli si addiceva veramente, ed era Ymir stessa ad averglielo appioppato.


'Fantasma.', mormorò, e il ragazzo si voltò. Nonostante tutto, Ymir sapeva di trovarsi di fronte a occhi sinceri; vuoti, privi di vita, ma sinceri e gentili. 'Non ho mai capito perchè li aiuti. Io lo faccio per i soldi, ma tu?'

Lui non rispose. 'Siamo a febbraio, ma il sole è bellissimo, non trovi?', si beava di quella luce. 'Sono contento di essere riuscito a parlare con Jean, anche se per così poco.'

Si risistemò la maschera nera sul volto, allacciandola con mani tremanti. Ymir ebbe l'impressione di sentirlo emettere dei singhiozzi, ma evitò di parlarne. Lui alzò il cappuccio sulla testa e si voltò verso di lei.

'Lo faccio per mia volontà quanto è vero che tu lo fai per i soldi, mia cara.'

Lei sorrise, arricciando il naso. La Maschera saltò giù dal tetto, svanendo, solo un'ombra tra le ombre della città.







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Ed ecco un altro capitolo che va u.u
Avrete notato che raziono le novità, capitolo per capitolo; questo capitolo è il primo vero e proprio punto di svolta nella storia. Se il capitolo precedente vedeva l'introduzione della fuggiasca Christa, questo capitolo vede l'introduzione ufficiale ed ufficiosa di due dei miei quattro personaggi preferiti di SNK: Ymir e...e. E la Maschera. >:3
(per la cronaca, gli altri personaggi preferiti sono Jean, che per quanto io scriva di lui non renderò mai giustizia al fantastico personaggio che è e...e. Lo vedrete :D)
In ogni caso, questo è un capitolo che, sì, lascia un sacco di domande e qualche risposta; il quarto capitolo ha dalla sua una scena iniziale con un sacco di personaggi finora abbozzati (leggi: Shiganshima Trioooo...) e l'incontro decisivo tra Jean e la Volpe (approposito; no, nonostante questa serie presenti un bel po' di riferimenti alla saga di Assassin's Creed la Volpe è semplicemente un soprannome che ho sempre attribuito ad Ymir e che mi pareva abbastanza suggestivo)...
Dio quanto vi lovvo quando recensite <3
PERCHE' RECENSITE, VEEEEEEEEERO? Muahahahaha.
E dai, bimbi belli u.u
AL PROSSIMO CAPITOLO!
- Joice

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Capitolo 4
*** IV - La Volpe ***


Vita e Morte a Venezia



La tensione nella stanza sul retro della stamperia Arlet era così palpabile che un artigiano se ne sarebbe potuto servire per realizzare una statua dall'espressione pregna di intenso odio. Connie osservava curioso il modellino in legno di una gondola, sfiorandola con un dito; Sasha osservava i dorsi dei libri, curiosa. Mikasa Ackermann se ne stava seduta in un angolo. Armin era chino sull'anello, un vetrino speciale praticamente incollato all'occhio.

Da una parte all'altra della stanza, Jean e Eren si fissavano in cagnesco.

'Non sono un esperto.', ammise Armin, alzando la testa verso Jean. 'Ma non credo sia un falso. Dove hai detto di averlo trovato?'

'Giù per terra.'

Armin alzò gli occhi al cielo. Eren strinse i pugni.

'Lo ha rubato, ecco dove lo ha trovato! Maledetto tagliaborse!'

'Nella prossima vita cercherò di uscire anch'io dalla figa della moglie di un dottore, va bene, Jaeger? Per questa vita è andata così, non rompere.'

'Cos...non toccare mia madre, stronzetto!'

'Mio nonno è nell'altra stanza, e se ha sentito solo metà delle vostre battute da bambini non rivolgerò più la parola a nessuno dei due.', esclamò secco Armin. 'Anzi, andrò direttamente a denunciare il furto al Francese, Jean.'

Eren ridacchiò; Armin gli lanciò un'occhiata di sbieco. 'E dirò che tu lo hai aiutato, Eren.'

'Ma noi siamo amici, Armin!'

'Sarebbe tutto inutile, Armin.', intervenne Mikasa, tranquilla. 'Quell'anello Jean non l'ha rubato. Non è così, Jean?'

Jean sorrise nella direzione di Mikasa, rilassato. 'Giusto. Sono un uomo onesto, io.'

Armin sospirò, sedendosi. 'Se vuoi che ti aiuti, ho bisogno che tu mi dica tutto.'

Jean guardò fuori dalla finestra. Era appena pomeriggio; aveva tutto il tempo di raccontare, e Armin era il ragazzo più intelligente che conoscesse, nonostante la cattiva abitudine di frequentare idioti del calibro di Eren Jaeger. Ma il suo più grande timore era proprio la presenza di Eren e ciò che sarebbe uscito da quella stanza. Lanciò un'occhiata a Sasha e Connie, che sembravano perfettamente a loro agio, e si grattò la cicatrice sul sopracciglio.

'Ho bisogno di sapere se posso parlare liberamente.', disse.

A quelle parole, Armin guardò Eren; quest'ultimo si alzò dalla libreria a cui era appoggiato e si avvicinò a Jean.

'Spero per te che questa non sia tutta una perdita di tempo.'

'Sul mio onore di tagliaborse.'

'Ci sputo, sul tuo onore.'

Jean sorrise, perfido. 'Allora non hai niente da perdere, giusto, Jaeger?'

La curiosità negli occhi di Eren era evidente. Gli porse la mano, e Jean la strinse. Nella stanza, qualcosa sembrò rilassarsi.

'Va bene, allora.'

Jean afferrò uno sgabello e cominciò a raccontare. Sasha e Connie, che avevano ascoltato una versione più ridotta della storia, si misero ad ascoltare interessati. Nessuno osò interrompere Jean per almeno mezz'ora.

Terminato il racconto sul ragazzo che si era fatto conoscere come la Maschera, Armin prese parola.

'Non ho mai sentito di un personaggio del genere, ma molta gente gira con maschere nere. Sicuro che non fosse semplicemente uno scherzo?

Jean scosse la testa. 'Ho cercato di spiegarvelo. Non era nera, era...buia. Qualcosa che non avevo mai visto prima. E alla luce del sole, la parte destra sembrava rossa. E inoltre, se fosse stato uno scherzo, perchè invitarmi a contattare una terza persona?'

'Io non centro.', puntualizzò Eren, alzando entrambe le mani.

'Non ho mai sentito parlare di volpi o maschere...', mormorò Connie, grattandosi la testa.

Armin fissava Jean, rapito. 'E questa ragazza bionda, la ragazza dell'anello...'

Gli sguardi di tutti i presenti si posarono sul piccolo anello poggiato sul tavolo. Rimasero in religioso silenzio, finchè un brontolio sommesso li fece sobbalzare tutti.

Sasha era arrossita. 'Colpa mia, scusate...'

'In ogni caso, inutile rimuginarci sopra.', Armin prese l'anello e lo porse a Jean. 'Potrebbe essere pericoloso, ma credo tu debba andare a questo incontro, stasera.'

'Ci sarei andato comunque.', rispose Jean. 'Grazie dell'aiuto, Armin.'

Fece un gesto a Connie e Sasha e si avviarono verso l'uscita.

'Jean.'

Jean si voltò; Mikasa lo fissava, i sottili occhi neri spalancati.

'Hai detto che il ragazzo con la Maschera ti ha chiamato per nome. Non hai proprio idea di chi possa essere?'

Jean fu sul punto di rispondere, ma si bloccò. C'era un nome da qualche parte nella sua mente che avrebbe potuto associare a quella voce, ma non riusciva a pronunciarlo. Scosse la testa lievemente.

'Devo andare.'

Mikasa annuì, rivolgendogli un piccolo sorriso d'incoraggiamento. Jean arrossì lievemente, poi uscì dalla stanza.


*


'Devo parlare con La Volpe.'


Nella testa di Jean, il tono era molto più spavaldo e sicuro; aveva parlato come un agnellino. Si morse la lingua, maledicendosi. Il barista, in ogni caso, si limitò a guardarlo sottecchi, prima di fare un cenno con la testa verso le scale superiore.


'Seconda stanza a destra.', grugnì. Jean si chiese se fosse il caso di lasciare una moneta sul bancone come ringraziamento; ma dimostrarsi tanto generosi avrebbe potuto attirare attenzioni indesiderate, ed evitò di farlo.

Sotto la cappa che si era poggiato sulle spalle, in parte per ripararsi dal freddo di febbraio e in parte per nascondere la saccoccia contenente l'anello e una lama affilata pronta per qualsiasi evenienza, Jean strinse le mani nervoso. Il fatto che il locale fosse pieno di gente in maschera non contribuiva a migliorare il suo umore.

Si avviò verso le scale; mentre le stava salendo sbattè per sbaglio contro una figura molto più alta di lui.


'Chiedo venia.', disse la figura; Jean si rese conto che doveva essere un ragazzo non molto più anziano di lui. Ma fu il pensiero di un attimo, e subito dopo i due sconosciuti erano scivolati l'uno a fianco all'altro.

Rumori di baldorie e cori festosi arrivavano ora soffusi alle sue orecchie, mentre voci sommesse, borbottii e gemiti lussuriosi riempivano i corridoi del piano superiore della locanda. Jean deglutì nervoso, bussando con una mano alla porta indicatogli dal barista.

'Entra.'


Jean abbassò la maniglia ed aprì la porta; la stanza era composta da un letto a due piazze, un comò e un lavabo in un angolo. Era scarsamente illuminata, e Jean non riuscì a scorgervi nessuno all'interno. Nervoso, entrò nella stanza e richiuse la porta dietro di sé.


'So...sono venuto per la Maschera.', esclamò al vuoto.


Ci fu una risata, poi un rumore secco: le finestre della stanza si spalancarono di botto, e l'aria gelida della notte spense le già fiacche candele, lasciandolo al buio. Seduta sul davanzale della finestra c'era una donna illuminata dalla luce della luna. Portava i calzoni, aveva i capelli scuri molto corti. Sogghignava, e se quella era la Volpe, Jean non aveva pià bisogno di chiedersi a cosa fosse dovuto il suo soprannome.


'Non conosco nessuna maschera. Mai avuto il piacere di parlare con un oggetto.', sorrise in direzione di Jean. Il ragazzo arrossì, offeso.

'Non una maschera. La Maschera. Non so chi sia,', ammise. 'Ma mi ha detto che avreste potuto aiutarmi a saperne di più sul suo conto.'

La donna si alzò in piedi; Jean strinse d'istinto la mano sull'elsa del pugnale. Lei gli girò attorno, lui la seguì con lo sguardo. Infine, braccia incrociate, si appoggiò al muro vicino a lui.

'E perchè vorresti saperne di più?'


Jean fu colto alla sprovvista. La donna aveva ragione; avrebbe potuto gettare l'anello nel Rio Grande, dimenticare tutto ciò che era successo. Sarebbe potuto rimanere a casa tranquillo con Sasha e Connie e tutti gli altri ragazzi che avevano bisogno della sua guida per sopravvivere; invece si trovava in una piccola stanza con una donna che aveva tutta l'aria di non aver bisogno di armi per ucciderlo.


'La volpe ti ha mangiato la lingua, ragazzino?', lei si morse il labbro inferiore, divertita. 'Dato che non vuoi rispondere, risponderò io per te. Potrai anche non volerne sapere di più, ma ormai sei qui. Consegnami l'anello di Christa e potrei scucirmi la lingua.'


Jean impallidì. Strinse l'anellino, sotto il mantello.


'Non so di cosa parlate.'


Scattò fulminea; il suo avambraccio si posò sulla gola di Jean, e facendo leva su quello lei lo fece cadere a terra. Jean si sentì soffocare; lei gli bloccò entrambe le mani dietro la schiena con la presa che avrebbe potuto avere un energumeno grosso quattro volte lei.


'Non sai niente, Jean.', sibilò. 'Non sai in che guaio il tuo amico mascherato ti abbia cacciato. Sarebbe più facile se mi consegnassi l'anello ora e la facessimo finita, che ne pensi?'


Jean aprì la bocca e le morse il braccio. Lei urlò e lo lasciò andare, dolorante. Jean si tirò a sedere, affannato ma libero.


'Riguarda qualcosa che ho dimenticato!', urlò all'improvviso, sentendosi un'idiota. Lei, sul punto di rischiacciarlo a terra, si bloccò. 'Io...ah, dannazione...non ho idea di cosa mi sia successo oggi, ma c'è qualcosa che continua a sfuggirmi, qualcosa di importante che dovrei ricordare.'


Ymir rimanette in silenzio, rimuginando sulle parole appena pronunciate dal ragazzino. Sembrava sincero. Si lasciò cadere seduta sul letto.

'Tira fuori l'anello.', ripetè tranquilla. Lui la fissò furioso per qualche secondo, poi mise la mano sotto la cappa, recuperò l'anello e glielo porse. Ymir lo prese con mani tremanti, si alzò e lo andò ad osservare alla luce della luna.

Era autentico. Stemma, motto...era proprio l'anello che cercava. Ymir sentì il magone salirle in gola, ma si guardò bene dal manifestare qualsiasi emozione.

Nessuno degli uomini per cui lavorava sospettava nulla riguardo alle sue reali intenzioni; per loro, lei era semplicemente una spia e un'informatrice in cerca di denaro. Certo, più brava, devota e avara delle altre, ma sempre soltanto una spia.


'La Maschera è un ragazzo come te.', mormorò senza guardare nella direzione di Jean. 'Ci sono delle persone potenti, in questa città; persone che non si espongono. La Maschera è il lato oscuro di queste persone. È un messaggero, un avvertimento, una spia. Non lo fa per sua volontà, però. Ha perso la propria volontà anni fa, per quanto ho sentito dire. Non si sa molto di lui; né chi fosse, né chi sia. Alcuni pronunciano il suo nome con riverenza, altri credono si tratti solo di una leggenda. È abile a muoversi, conosce la città come se vi fosse cresciuto, e se vuole trovarti, sta certo che lo farà.'


Ymir si voltò. Jean era fermo in piedi di fronte a lei; non c'era più paura nei suoi occhi, solo cieca determinazione.


'Ti è stato in qualche modo d'aiuto, ciò che ti ho detto?'

Jean annuì, poi scosse la testa. 'No, ma ora so che devo fare.', ammise.

'Sarebbe?'

'Aspettare.'

'Bravo ragazzo.', Ymir lanciò l'anello verso Jean, che lo afferrò per un soffio.

'Credo proprio che la tua casa diventerà un luogo parecchio affollato, nei prossimi giorni. Un ultimo consiglio, prima che tu vada: guardati le spalle. In una città come questa, chissà mai cosa potrebbe saltare fuori dalle torbide acque dei canali per accoltellarti...'


La sua risata seguì Jean per tutto il ritorno verso casa.



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Oh, Vita e Morte a Venezia, cosa devo fare con te, che sembri espanderti in ogni direzione del mio cervello?
Questa storia mi sta regalando un sacco di soddisfazioni. Gente che mi aggiunge per parlarne e si complimenta, addirittura una ragazza (che ormai considero un'amica, davvero, la lovvo) si è offerta di disegnare la cover della storia! (e la posterò una volta finita, credo non prima del capitolo 10 in ogni caso)
Davvero, GRAZIE. Grazie delle recensioni, delle visualizzazioni, dei preferiti. Grazie per le condivisioni e i complimenti. Grazie perchè mi avete ridato un motivo per tornare a scrivere.
GRAZIE.
/fine momento dolcioso ehehehehe
SUUUU DAI SBIZZARRITEVI NELLE RECENSIONI AMO QUANDO LO FATE <3
E, ehi, nel caso abbiate tempo, sul mio profilo trovate il link al canale italiano di Lownly da me gestito. Sto traducendo una delle più belle fiction JeanMarco che esistano, davvero.
La vita è bellissima.
Vi amo tutti.
- Joice

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Capitolo 5
*** V - Egoismo ***


Vita e Morte a Venezia



Le parole di Ymir riguardo l'affollarsi in casa di Jean si rivelarono veritiere con l'arrivo dell'alba.

Era tornato a casa in piena notte, stanco, spossato e lievemente spaventato dalla svolta degli eventi; aveva spiegato a Connie e Sasha l'accaduto, omettendo le ultime parole riguardo la possibilità di venire ucciso da un momento all'altro. Questo non aveva impedito a Sasha di impallidire, turbata; né a Connie di afferrarle saldamente la mano e carezzarla con noncuranza, senza che lei avanzasse la minima protesta.

Jean non era rimasto sorpreso di fronte a quel gesto: conosceva Connie da che erano ancora due neonati ed era facile intuire i suoi sentimenti verso la compagna. Al pensiero di quella casa senza loro due, di quelle stanze piene solo della sua rabbia nei confronti del mondo, Jean si era sentito all'improvviso incredibilmente solo.

La notte era passata senza che il sonno potesse avere la meglio sulla sua angoscia. La mattina dopo, all'alba, seduto sul molo vicino alla propria casa, Jean era stato raggiunto da una figura incappucciata.

Si era seduta vicino a lui, slacciandosi la cappa e abbandonandola al proprio fianco, rivelando il volto della misteriosa ragazza del giorno prima – ma era davvero passato un giorno, poi? Sembrava fosse passata un'eternità.


Rimase lì, senza presentarsi o salutarlo. Si voltò in direzione del sole che illuminava timidamente la laguna. 'Sembra un bel posto in cui vivere. O crescere.'

Jean afferrò un sassolino dal selciato e lo lasciò cadere in acqua. 'Suona strano, detto da una principessa.'

Lei aggrottò le sopracciglia. '...come?'

'Ho i miei informatori.'

Annuì, preoccupata. 'Non sono una principessa. Solo una figlia bastarda.'

Jean annuì, troppo stanco persino per sorprendersi. 'Christa, giusto?'

Christa sorrise. 'Hai dei bravi informatori. Spero solo che queste persone non stiano dalla parte sbagliata.'

Jean non aveva idea di quale fosse la 'parte sbagliata', ma aveva l'impressione che la donna chiamata la Volpe non stesse da nessuna parte in particolare. 'Credo di sì.', rispose comunque, dato che sarebbe stato complicato spiegare. 'Cosa ci fai qui? Perchè sei scappata?'

Lo sguardo di Christa si posò su Jean. 'Egoismo.'

Lui la guardò, curioso. Lei continuò. 'Ho vissuto la mia intera vita circondata da mura e persone che hanno tentato di convincermi che servivano per proteggere me e chi mi stava attorno. Ma essere una figlia bastarda in una famiglia come la mia significa dover innalzare le proprie personali mura contro le discriminazioni, fino a non poter vedere più la luce, per paura di essere attaccati da un momento all'altro.', fece una pausa. 'Volevo vedere la luce del sole.'

Rimase in silenzio. Jean si accorse di starla fissando. 'Sembra molto fiabesco, ma il mondo non è...il sole. Non è fatto di sola luce.'

'Lo so.', sorrise. 'Ma voglio vedere anche le ombre. Una volta ho conosciuto un'ombra, e lei era una persona...buona, nonostante fingesse il contrario.'

Jean non sentì il bisogno di ulteriori spiegazioni. La voce della Volpe e i suoi avvertimenti sul non immischiarsi negli affari delle persone che avevano a che fare con quella strana, svagata ragazza gli rimbombavano nella testa.

Ma non era mai stato il genere di persona che dava veramente retta agli avvertimenti.

'Quindi...Christa, ce l'hai un posto in cui vivere?


*

Si mormorava che le urla dei prigionieri nei pozzi dei Piombi, il carcere sotto il Palazzo Ducale, avrebbero fatto impazzire chiunque di terrore; l'uomo dietro la Maschera non dubitava della veridicità di quella frase.

Di fatto, probabilmente era pazzo anche lui.


(perchè diavolo ho avvicinato Jean ed Ymir? Questo potrebbe farli insospettire)


Camminando in mezzo alle braccia tese e ai volti smunti dei carcerati, ripensava all'incontro con Jean, la mattina prima. Era stata sfortuna o destino che proprio lui avesse trovato e salvato la ragazza che i suoi capi cercavano tanto disperatamente?


(quanto ci metteranno a capire che la ragazzina tornerà da Jean in cerca di riparo?)

(quanto ci vorrà prima che li uccidano tutti?)


Non ne aveva idea; l'organizzazione per cui era costretto a lavorare era grande e potente, ma estremamente riservata riguardo le proprie intenzioni. Per quanto fossero stati selettivi nell'assumere spie alla ricerca della bastarda del Doge, finora la Maschera era sicuro che lui e Ymir fossero gli unici ad averla rintracciata. Lui non avrebbe sicuramente parlato, e se mai avesse dovuto riporre quel genere di certezza a qualcuno l'avrebbe riposta nelle mani di Ymir. La donna era una traditrice di prim'ordine, ma la Maschera era consapevole del debito che Ymir aveva nei confronti della piccola. Non avrebbe rivelato la sua posizione.


'Ah, eccoti qui.'

Al suono di quella voce, persino i prigionieri sembrarono abbassare i propri toni. La Maschera si voltò in direzione della donna che aveva parlato. Ne conosceva bene sia il volto che la voce.


'Dama Leonhardt.', sorrise, inchinandosi lievemente. Lei lo raggiunse e lo sorpassò senza rispondere.

'Tracce della ragazza?' chiese, impassibile.

'Poco o niente. Credo che al momento si trovi da qualche parte sull'isola della Giudecca.'

Sperò di suonare abbastanza convincente; d'altronde, Annie Leonardt conosceva ogni singola, disperata sfumatura della sua voce, avendo assistito e partecipato in prima persona alle sue torture. Doveva aver fatto un buon lavoro, comunque, perchè lei annuì. Il suo volto non minacciava la minima preoccupazione per l'assenza di risultati effettivi.

Un uomo venne incontro ad Annie dal fondo del corridoio, passi pesanti sul pavimento costantemente bagnato dei Piombi. Si abbassò il cappuccio, rivelando un volto squadrato, incorniciato da cortissimi capelli biondi.

'Ohi, Annie.', esclamò, e Annie lo salutò con un cenno della testa. Poi, l'uomo si voltò verso La Maschera. 'Ciao anche a te, Fantasma.'

La Maschera rispose con un mezzo inchino. Del trio che per tutti quegli anni si era 'preso cura' di lui, Reiner Braun era ciò di più vicino a un amico che potesse vantare di avere; non per sua volontà, però. Il ragazzo, che dall'aspetto imponente si sarebbe detto un uomo dai principi rigidi, tendeva a prendere i propri doveri poco seriamente sia a causa della sua indole pacifica che a causa di alcuni traumi subiti durante l'infanzia, che in particolari momenti lo rendevano poco più di un demente vulnerabile. Il terzo membro del gruppo, un ragazzo di nome Bertholdt, non era una persona particolarmente violenta, ma la determinazione che poneva nei propri obiettivi lo rendeva spesso pericoloso.

Ma no, chi spaventava davvero la Maschera era Annie. Piccola, all'apparenza fragile e facile da mettere al tappeto, la dama nascondeva non pochi talenti per ciò che concerneva le arti dell'indurre dolore. La Maschera era sicuro che, nonostante ciò che legava tutti loro, Dama Annie non avrebbe esitato un attimo ad ucciderlo, se fosse stato necessario.


'Bertholdt torna ora da un colloquio con la nostra amica Volpe.', annunciò Reiner. 'Si direbbe che non vi stiate sforzando abbastanza, eh, Fantasma? La principessina ancora non si trova.'

'Mi dispiace.', la Maschera sorrise, nascosto dal resto del mondo. 'Ne ho perso le tracce sulla Giudecca. La ragazza è brava a nascondersi, evidentemente.'

'Non quanto tu dovresti essere bravo a trovarla. Reiner, manda un messaggio alla Volpe: la ragazza potrebbe essersi inserita in qualche comunità di mendicanti, più probabilmente ladruncoli da strada. Meno possibilità di subire violenze di sorta, e meno domande da parte delle guardie. Dille di tenere d'occhio la Giudecca e la costa.'


Il sorriso svanì dietro alla Maschera, sostituito da un'espressione preoccupata. Come aveva fatto Annie a capire, e in così poco tempo? La tentazione era quella di correre sui propri passi, trovare Jean, dirgli di nascondersi; ma ormai era sera, e uscire la sera gli sarebbe stato concesso solo durante la settimana del Carnevale. Queste erano le regole, e lui le conosceva anche troppo bene. Erano marchiate a fuoco nella sua anima.

Si avviò a testa bassa verso la propria stanza, un semplice locale lì nelle segrete, quando notò con la coda dell'occhio una mano raggrinzita e sporca sporgersi fuori dalle barre e afferrare il collo di Annie, tirandola verso le sbarre. Lei non urlò di spavento, né allora né quando il carcerato cominciò a urlarle sconcerie e minacce di morte. Reiner rimase a guardare, un sorriso malcelato sul volto.

Fu questione di qualche secondo prima che Annie, occhi di ghiaccio puntati verso i suoi, si decidesse a dare l'ordine.

Lei pronunciò il suo nome lentamente, scandendo ogni lettera con attenzione. Seguita da un solo ordine.


'Uccidi.'


La Maschera sentì la propria mente obliarsi, la sua coscienza ritirarsi in un angolo dentro di sé. Potè recepire il movimento del suo braccio, che era scattato verso il fianco sinistro – quello dove teneva il pugnale -, ma non era lui a comandarlo. Mosse i propri passi verso Annie, alzò il pugnale e tagliò di netto il braccio del prigioniero.

Una persona normale lo avrebbe rotto, spezzato, ferito; tornando in sé, la Maschera si sorprese lievemente della propria forza – si sorprendeva ogni volta -, osservando il braccio mozzato di netto irrigidirsi per terra e una macchia di sangue farsi largo tra i sassi della pavimentazione irregolare.

Dama Annie si risistemò. 'Grazie per la collaborazione, Fantasma.'

(NON SONO STATO IO, SEI STATA TU)


'Prego, dama.'

Si voltò verso la propria stanza. Il prigioniero urlava agonizzante dalla sua cella. Una volta dentro, gettò via la propria finta faccia e scoppiò a piangere, cadendo a terra.

Le urla dell'uomo gli ricordavano fin troppo le proprie.


*


Da che avesse memoria, Jean non aveva goduto di un solo attimo di silenzio da quando era stato preso in custodia da Antonio De Magianis. La sua casa era un viavai di farabutti, piccoli delinquenti, marinai in cerca di qualcosa di bere, vecchi amici.

Ma nell'istante in cui Christa fece il suo ingresso nella casa non una sola parola volò via dalle bocche degli avventori. Sasha, Connie, alcuni marmocchi, un paio di loschi figuri con addosso più coltelli di quanto Jean avrebbe mai immaginato sarebbe stato possibile portarne e quattro marinai in procinto di appoggiare sul tavolo della casa uno scrigno dall'aria abbastanza pesante; tutti loro rimasero in silenzio, ad osservare la ragazza che, leggiadra, abbassava il cappuccio e si sistemava i capelli, sorridendo.

Fu Sasha ad interrompere l'imbarazzo, squittendo.


'Oh mio dio, un angelo.'


Jean si morse il labbro inferiore. Forse nascondere la ragazza era davvero una pessima idea.

'Oh...oh, salve.', sorrise Christa. 'Io sono...'

'Decisamente qualcuno che deve imparare a stare zitta.', la interruppe Jean. Poi, in un lampo di genio – qual'è il modo più semplice per far sì che la smettano di studiarle il volto? - la prese per un braccio e la strattonò in malo modo, trascinandola verso le stanze in cui dormivano. 'Giusto, donna?', continuò, imbarazzato.

'Ma cos...oh, giusto! ...giusto.', l'ultima parola fu un sospiro ben poco angelico, e Jean divenne completamente rosso dall'imbarazzo. Si affrettò ad entrare in una stanza, per poi richiudere la porta dietro di sé e appostarsi dietro di essa, le orecchie tese a captare ogni suono. Per un po' nessuno parlò, poi...


'… Beh, sembra che le voci sul ragazzo fossero sbagliate, dopotutto, eh?'

'Già.'

'Ha solo gusti difficili da soddisfare...'

'L'esuberanza...l'età...'

'Ah! Ah! Ah!'

'Dov'eravamo?'

'A...allo scrigno.', mormorò Connie.


Jean si rialzò ed emise un sospiro di sollievo. Christa tirava gli angoli della cappa, nervosa.


'Mi dispiace, io...'

'Tranquilla, è tutto a posto.'


(Sarebbe potuta andare molto peggio)


'Per favore, non provare mai più a dire il tuo nome. È...è pericoloso.'


Christa annuì. Jean si sistemò la camicia, ancora un po' troppo nervoso per dire di più. Riuscì comunque ad invitarla a fare un giro della zona notturna della casa, spiegandole come funzionava il tutto; c'erano stanze per loro tre – quattro ora -, alcune stanze per i ragazzini dei vicoli – si perse per un attimo, pensando a quando aveva diviso una di quelle camere con Connie e Marco -, delle altre piccole camere ai piani superiori per i clienti. L'intera struttura occupava un palazzo, dismesso e scalcinato ma comunque in grado di mantenere tutta quella gente. L'ingresso era nascosto, un vicoletto quasi invisibile – Christa stessa spiegò di esserselo fatto indicare da un ragazzo a cui aveva fatto il nome di Jean – e un piccolo porticello consentiva l'ingresso di imbarcazioni di dimensioni ridotte provenienti dalla costa. C'erano poi i magazzini in cui tenevano le armi, l'orgoglio di Antonio, che se ne era andato da qualche anno per seguire un uomo che aveva riconosciuto come suo comandante.

'Prima di andarsene, disse che Venezia era la sua città. Lui era nato qui, ma i bambini che era solito prendere sotto la sua ala spesso sono bastardi figli di stranieri, che non appartengono a Venezia. Così ci prese da parte e disse questo: Venezia è la mia città. E anche la vostra.'

Jean si voltò verso Christa, che lo ascoltava rapita. Frugò nella saccoccia appesa al fianco destro fino a trovare l'anello e glielo porse.

'E credo sia anche la tua.', concluse. Christa sorrise, accettando l'anello e infilandoselo al dito.

'Credo di non averti detto del tutto la verità.', mormorò. 'Jean, devo sapere se posso fidarmi di te. Posso davvero?'

Jean la osservò a lungo. Qualcosa dentro di sé gli diceva che ascoltarla avrebbe significato dare inizio a qualcosa di molto, molto complicato.

Ma anche lui era stato solo a lungo. Un tempo, qualcuno aveva voluto ascoltarlo, dargli retta. Era ora di ripagarlo moralmente.


'Certo che puoi.'

'Va bene. Il mio non è stato solo un atto di egoismo. Jean, ho paura.', gli occhi le si riempirono di lacrime. 'Ho sentito cose che non avrei dovuto sentire, a palazzo. Sta per succedere qualcosa. Siamo nei guai!'


La porta del magazzino cadde con uno schianto che li fece saltare entrambi dallo spavento; dall'ingresso entrò un uomo che Jean riconobbe immediatamente, e il terrore più assoluto si impossessò di lui. Proiettata sul pavimento davanti ai suoi piedi, l'ombra di Rivaille, 'Il Francese', risultava molto meno spaventosa del suo proprietario, il cui volto era una maschera di freddo senso del dovere.

Jean tremò visibilmente, ponendosi d'istinto di fronte a Christa e ricordando le sue ultime parole.


(Siamo nei guai)


Rivaille indicò entrambi. 'Voi due, seguitemi immediatamente. Siete in arresto.'


(Non sai neanche quanto, Christa. Non sai neanche quanto.)


*


Rigida e immobile sul tetto più adiacente all'uscita dell'edificio, Ymir aspettava paziente. Il Francese sarebbe uscito presto.

Strofinò con il dito indice la lama del pugnale che stringeva nella mano destra.

Non vedeva l'ora di poter abbracciare Christa.






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La stesura della storia procede spedita. Siamo a poco meno che metà storia, e credetemi: nel prossimo capitolo arrivano le botte.
Oh, le soddisfazioni.
OH.

Io ci tengo a ringraziare TANTISSIMO tutte/i voi che recensite; con alcuni ho avuto occasione di parlare, come ad esempio Monica (Timcampi, andate a leggere le sue storie!), e siete delle persone meravigliose. Non sono parole di circostanza, siete MERAVIGLIOSI, e state facendo tanto per me. Grazie per il supporto, sempre e comunque <3
Vi voglio bene <3
Al prossimo capitolo!
- Joice

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Capitolo 6
*** VI - Sacrificio ***


Vita e Morte a Venezia



C'era un'immagine nascosta da qualche parte nella mente di Jean.

(se solo riuscissi a ricordare)


A lui sarebbe importato, lui non si sarebbe sospreso. Lui avrebbe fatto esattamente quello che Jean stava facendo in quel momento.

(lui mi avrebbe protetto, indipendentemente da chi si parasse davanti a noi)

(e forse lo ha già fatto una volta)


*


Sentiva il polso di Christa sotto la propria stretta. Strinse i denti verso il Francese, i cui compagni bloccavano l'unica via d'uscita; uno di loro teneva Connie per un braccio, trattenendolo dal gettarsi verso Jean. La sola vista di Connie nelle mani di un soldato bastò per convincere Jean di star facendo la cosa giusta.


'Perchè dovremmo essere in arresto?', sbraitò contro il Caporale.

Quest'ultimo non si mosse, né sembrò turbato dall'esordio di Jean. Si limitò ad accarezzare la spada al suo fianco. Christa lasciò andare un gemito di sconforto.

'Per tutti i traffici illeciti che faccio finta di non vedere per impedire a voi stronzetti ignoranti di vivere di qualcosa, fottuto ingrato. E perchè il comandante Erwin mi ha ordinato di venire a cercarvi, e tendo a fare il mio dovere, nel caso tu non te ne sia accorto. Temo siate incappati in qualcosa di più grande di voi.'

Il suo sguardo indugiò su Christa. Jean ne approfittò per esaminare la stanza: una sola uscita, due finestre. L'armeria era al primo piano.


(non ce la faremo mai)


Ma cosa sarebbe successo se li avessero catturati e portati davanti al comandante della guardia cittadina?


(pensa, Jean, pensa)


Christa, la piccola sognatrice che voleva vedere il mondo, si sarebbe ritrovata di nuovo incatenata alla sua vita di bastarda in una casa in cui il sole della laguna non sarebbe mai arrivato ai suoi occhi; lui, Connie e Sasha sarebbero finiti prigionieri, magari anche impiccati. Forse sarebbero risaliti fino ad Eren, Mikasa ed Armin; forse li avrebbero accusati di coinvolgimento. Forse sarebbero stati uccisi anche loro.

Jean non avrebbe esitato un secondo a consegnarsi; codardo, vile e persino divertito all'idea di mettere nei guai Eren.

Ma, che gli piacesse o meno, Jean Kirschtein era diverso. E nonostante i litigi con Eren, nonostante si rifiutasse di riconoscere che, per Connie, una vita con Sasha lontani dalla sua cattiva influenza sarebbe stata migliore, nonostante in certe giornate riuscisse soltanto ad odiare il mondo, a Jean Kirschtein importava.


(Marco sarebbe fiero di me)


Corse verso la finestra; tutto rallentò attorno a lui. Esisteva solo la finestra, la fuga, la libertà. Corse e urlò 'SALTA!' alla ragazza dietro di lui, spingendola verso l'esterno, senza donarle il beneficio del dubbio. Sarebbe sopravvissuta, lo sapeva.

Lui non saltò. Non poteva abbandonare Connie.

Christa si dette lo slancio verso la finestra appoggiando un piede su una scatola di pistole; avvicinò le braccia al volto, incrociandole, e si gettò impavida verso il vetro.


*


Ymir vide una figurina bionda cadere attraverso la finestra del primo piano. Presa alla sprovvista, lasciò cadere il pugnale e si affrettò a prendere la rincorsa per saltare fino a terra.

Per sua fortuna, Christa era atterrata senza quasi farsi del male; potè sentire i soldati del Francese avvicinarsi, però. Questo avrebbe significato esporsi, rivelarsi al mondo.

Ma per salvare Christa sarebbe stata pronta anche a gettarsi nella mischia completamente nuda.

'Dannato, piccolo idiota.', ebbe il tempo di sibilare prima di gettarsi nel vuoto.

*

Jean non fece in tempo a voltarsi, né a parare il calcio che il Caporale Rivaille gli indirizzò in quell'attimo di distrazione. Potè soltanto piegarsi in due, dolorante, mentre la gamba del Caporale si alzava per atterrarlo a terra e di nuovo tornava alla carica, inesorabile, violenta. Aveva l'impressione che Connie stesse urlando da qualche parte, ma il dolore gli impediva di pensare logicamente.

Ma no, c'era sicuramente qualcuno che urlava, e non si trattava di Connie; si rese conto di aver ragione nel momento in cui il Francese smise di prenderlo a calci.


'Signore! I soldati là fuori...'

'Schultz, mi stai interrompendo.'

'Ma, signore! I soldati sono...sono a terra!'


Questo catturò l'attenzione del Francese, e di Jean stesso.


(com'è possibile...?)


'Com'è possibile?', sibilò il Caporale.

'Una donna, signore, una donna con capelli corti e scuri. Ha ferito gran parte della squadra e portato via la ragazza che si è gettata dalla finestra.'


Jean rise istericamente; il Francese gli indirizzò un altro calcio verso la collottola, colpendo in pieno.

Un urlo stridulo riempì la stanza; il soldato che tratteneva Connie stringeva la spalla destra, su cui era comparsa una freccia nera. L'attimo dopo, Sasha entrò nel campo visivo di Jean.


'Jean! Io...'

Da qualche parte, nell'intervallo di tempo che il Francese impiegò ad estrarre la propria spada, Jean capì che c'era una sola cosa da fare. Un pensiero gli attraversò la mente.


(che giornata del cazzo)


'SCAPPA, SASHA! PRENDI CONNIE E ANDATEVENE!'


Sasha singhiozzò, portandosi la mano alla bocca. Un solo dolorso scambio di sguardi fu necessario perchè entrambi capissero; lei non era una codarda, e lui non stava cercando di fare l'eroe. Si stavano comportando semplicemente da compagni.

Jean ebbe un capogiro, che lo costrinse ad accasciarsi a terra. Quando riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, l'intero squadrone del Caporale era impegnato a trasportare da un medico l'uomo ferito da Sasha e quest'ultima e Connie erano scomparsi. Il Caporale si abbassò ad osservarlo, la spada conficcata a terra.


'Questa è l'ultima volta che mi causi problemi.'

Jean sorrise. 'Col cazzo.'

Il piede del Caporale si mosse rapido come la luce verso il suo volto.


*


'Cena.'


Jean mosse lievemente la testa verso le sbarre della cella. Il soldato di turno abbandonò a terra un piatto, e Jean vide almeno tre o quattro topi avventarvisi sopra famelici.


'Grazie, non ho appetito.', sibilò, ma il soldato era già passato alla cella successiva. Jean scivolò un altro po' contro il muro.

Una piccola finestra sbarrata, posta due metri sopra la sua testa, lo avvisava del fatto che la sera era già arrivata, e che i veneziani si erano riversati nelle strade per festeggiare l'inizio del Carnevale, chiassosi e allegri. Si chiese dove fossero Sasha e Connie, la Volpe e Christa, e se tutti loro stessero bene.

Lui non stava bene, affatto. Aveva dolore ovunque sul corpo, ma ciò che più doleva era il naso, completamente rotto. Il Caporale si era assicurato che sputasse e tossisse più sangue possibile prima di consegnarlo ai suoi soldati ancora in piedi e farlo portare ai Piombi. Era stato un viaggio lungo e doloroso, ma Jean aveva mantenuto in volto un sorriso isterico, i denti sporchi di sangue, per far sì che nessuno gli si avvicinasse. In parte però aveva davvero motivo di sorridere: aveva causato guai al Francese, Sasha aveva ferito uno dei loro, la Volpe – poteva quindi considerla un'alleata? - aveva salvato Christa... su questo punto tendeva a non essere molto sicuro, ma cercava di evitare di immaginarsi Christa in mano a degli schiavisti, rinchiusa in un qualche bordello, o qualsiasi cosa lei e la Volpe intendessero con 'pericolo' e 'uomini potenti'.

Una figura si contrappose tra lui e la luce della luna; qualcuno si era fermato davanti alla sua cella, da fuori.


'Amico, levati. Non ho voglia di discutere.'

'...Jean, cosa diavolo hai combinato?'


Con un sussulto, Jean riconobbe la voce della Maschera. Strinse i denti e i pugni, nonostante continuassero a fargli male.


(TU.)


'TU.' sibilò, furioso. 'Che cosa ho combinato io?! Che cosa hai combinato TU, semmai!'

'Aspettami, sto arrivando.', mormorò la Maschera, ignorando il suo tono di voce.

'Non ti azzardare a scendere qua sotto!', sbraitò Jean, alzandosi a fatica. Il ragazzo si era già allontanato, ma Jean continuò ad urlare. 'Io non centravo niente, pezzo di sterco infame! Mi hai messo tu nei casini! Tu e le tue stupide parole e concetti del cavolo e chi cazzo sei?!'


Saltò, incurante delle ferite, infilando i piedi nelle fessure del muro, cadendo e graffiandosi, arrancando fino a riuscire ad aggrapparsi alle sbarre con entrambe le mani.


'IO NON HO FATTO NIENTE!', urlò alla strada praticamente deserta. 'E COME DIAVOLO PENSI DI ENTRARCI QUI, EH?'

'Ho le chiavi.', mormorò una voce dietro di lui. Jean si voltò; la Maschera era nella cella, immobile. Si lasciò cadere a terra, senza neanche tentare un atterraggio indolore.

La Maschera gli si avvicinò, si inginocchiò e gli afferrò una gamba con mani guantate e gentili. Jean lo lasciò fare, a malapena in grado di respirare.

'Sei conciato male, eh? Cos'è successo?'

Jean fece un gesto vago con la mano. 'Il Francese ha fatto irruzione in casa mia. Qualcosa a che fare coi traffici di armi.'

'Ah-ah.', mormorò il suo interlocutore, alzando i pantaloni di Jean fino al ginocchio ed osservando i lividi. 'Fai proprio schifo a dire bugie. Aveva a che fare con la principessina, giusto?'

Jean grugnì indignato. 'Forse.'

La Maschera rimase in silenzio, il volto in ceramica fisso su quello di Jean. 'Come stanno Sasha e Connie?'

'Che sai tu di Sasha e Connie?', sibilò lui.

'Jean...davvero non ricordi?'


Jean scrutò nelle cavità dove avrebbero dovuto trovarsi gli occhi del ragazzo di fronte a lui, perdendosi nei propri ricordi. Si rese conto di star lentamente muovendo la testa in un cenno di diniego, e che faticava a parlare. Abbassò lo sguardo.


'Connie e Sasha sono riusciti a scappare. Anche la ragazza. L'ha portata via quella pazza della tua amichetta Volpe.'

La Maschera annuì senza parlare.

'Non credi di dovermi una spiegazione?', sbottò Jean, nervoso. 'L'ultima persona che voleva darmi spiegazioni sono stato costretto a buttarla giù da una finestra per salvarla da un pazzo violento. Sono finito nelle mani di una donna che non ci avrebbe pensato due secondi ad uccidermi, e i miei migliori amici sono in fuga chissà dove. Quei due imbranati potrebbero essere...ovunque.'

(A dire il vero probabilmente sono da Armin, ma non sono dettagli che io sia tenuto a divulgare)


'Sono orgoglioso di te, Jean.'

C'era una nota di sincera felicità in quella frase. Jean si sentì schiacciato da quell'unica, piccola intonazione.

'Chi diavolo sei?', sussurrò.

'Te l'ho detto, sono solo una maschera.', il ragazzo si alzò. 'Devo portarti fuori di qui.'

'Come hai fatto ad entrare, innanzitutto?'

'Te l'ho detto, ho le chiavi.', estrasse un mazzo di chiavi da sotto il mantello.

Jean aggrottò le sopracciglia. 'Cosa sei, un carceriere?'

'Più una specie di incarcerato con permessi molto speciali.'


Jean e la Maschera si voltarono; qualcuno stava arrivando e, a giudicare dalla voce concitata, non era solo. La Maschera guardò Jean.

'Devi fidarti di me.'

'Considerata l'alternativa, non devi neanche chiederlo.'

Si alzò in piedi, aiutato dalla Maschera. Quest'ultimo si irrigidì.

'Qualcosa non va?'

Aveva riconosciuto le voci. Una era quella concitata e nervosa di Bertholdt Fubar; l'altra apparteneva a Reiner.

'Dobbiamo andare.', esclamò. 'Non possiamo farcela.'

'Non con me conciato così, no...'

'No, non capisci.', afferrò Jean per un polso e lo trascinò fuori dalla cella. 'Non ce la faremmo nemmeno se tu fossi del tutto integro. Se non ci sbrighiamo, morirai.'

Jean tremò. 'Dimmi cosa devo fare.'

'Corri.'

Lo fece; corse come non avi fatto in vita sua, nonostante le gambe doloranti e le ferite aperte. Corse nell'ombra della Maschera, la persona di cui aveva deciso di fidarsi incondizionatamente.

Da che parte stava la Maschera? Jean tentò di riflettere, scivolando sul pavimento bagnato.

Gira a destra.

Christa, Sasha e Connie, Eren e il suo gruppo.

Ancora a destra.

La Maschera e la Volpe.

Ora a sinistra.

Il Caporale Rivaille e Erwin, comandante della guardia cittadina.

Diritto, verso le scale.

Qualcuno di potente.

'CHE DEVO FARE?', sbraitò Jean all'improvviso. La Maschera si voltò, forse sorpreso. Inaspettatamente, si avvicinò a Jean e gli posò una mano sulla tempia.

'Calmarti, Jean.', sussurrò. 'Cercare di capire chi è buono e chi è cattivo. Cercare di ricordare.'

'Perchè non puoi spiegarmi?'

'Perchè è troppo tardi.', le voci si stavano avvicinando, e la Maschera era sempre più irrequieta. 'Va. Nasconditi. Il Carnevale è iniziato, puoi mescolarti tra la folla. Sarai al sicuro.'

Lo spinse verso l'uscita ed estrasse una spada dal fianco. Jean fu assalito dall'opprimente sensazione che non lo avrebbe mai più rivisto.


'Maschera...tu sei...?'

'Non dire quel nome!', sbraitò lui. 'Va via!'

Jean rimase ad osservare la figura della Maschera; di spalle incuteva un timore reverenziale, etereo. La mano della spada era tesa, il pugno chiuso attorno all'elsa.

Sarebbe bastato abbassare il cappuccio. Jean era spaventato da cosa vi avrebbe trovato, da ciò che anche solo il retro del suo capo avrebbe potuto rivelargli; ma non c'era davvero più tempo.


'Mi dispiace.', disse soltanto, correndo verso la porta che lo avrebbe condotto fuori dai Piombi.

'Sì, anche a me.', sussurrò la Maschera.






_______________________________________________________________________________


Guarda come ti butto lì un capitolo 6 a sorpresa.
Il capitolo 8 è in stesura e non voglio assolutamente rimandare, piuttosto metto da parte il progetto di traduzione. D'altronde questa è la mia storia.
E non sono mai stata così orgogliosa di dirlo.
Per Dobe, la magnifica donna che sopporta e recensisce, capitolo dopo capitolo: le età sono quelle canoniche, quelle dell'anime; conseguentemente, Jean ha quindici anni, Eren quindici, Reiner ne avrà 17 e così via dicendo, mentre nel primo capitolo Jean ne aveva 10 e così via u.u
E per tutti gli altri, come sempre, GRAZIE. GRAZIE. GRAZIE.
Questa storia volge a quello che in una struttura narrativa classica verrebbe definito 'punto di non ritorno', e che arriverà nel prossimo capitolo. Conto sulla vostra presenza e, vi prego, se provate qualcosa leggendo questa storia recensite. Anche solo con due parole buttate lì a caso; io apprezzo, davvero.
Vi amo tutti.
Scusate in anticipo per il prossimo capitolo.
- Joice

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Capitolo 7
*** VII - Verità ***


Di solito non faccio nulla del genere ma, vi prego, durante la lettura di questo capitolo mettetevi comodi, stringete un cuscino e ascoltate della musica rilassante. Buona lettura.


Vita e Morte a Venezia



La porta della stanza si aprì, e una figura incappucciata ne scivolò dentro, silenziosa. Abbassò il cappuccio, tolse la maschera che gli nascondeva il volto e scrollò la testa.


'Là fuori è il delirio più puro.'

I quattro occupanti della stanza si voltarono a guardarlo in apprensione. Jean avanzò verso il tavolo, afferrò un carboncino e tracciò delle X su vari punti di una mappa della città. L'unica ragazza presente, una coetanea di Jean con lunghi capelli neri, gettò un'occhiata alla mappa.

'Sembra incredibile che ci siano in città così tante guardie, durante le settimane in cui la città è in festa.'

'Sì, beh, credo sia normale, considerate le circostanze.', mugugnò Jean, slacciandosi la cappa di dosso e abbandonandola su uno sgabello.

Avvicinandosi alla finestra, Jean sentì gli sguardi insistenti di Mina, Thomas, Nack e Mylius posarsi sulla sua schiena. Si fidava abbastanza da chiedere loro aiuto ed asilo, ma non abbastanza da parlare di Christa, o della Maschera.


(non è mancanza di fiducia, è paura di coinvolgerli)


D'altronde, quei quattro erano stati suoi compagni per un breve periodo di tempo, quando erano molto piccoli. Avevano preso le loro decisioni e si erano allontanati dalla vita dei traffici, ma erano comunque suoi amici.

E Jean Kirschtein non metteva gli amici in pericolo.


'Credo che andrò oggi.', disse voltandosi. 'Non ha senso aspettare ulteriormente, uh? Le cose potrebbero soltanto peggiorare.'


Fu sollevato nel vedere che nessuno di loro pareva avere un'opinione diversa.


'Ti aiuteremo noi.', esclamò Thomas, entusiasta.


Jean sorrise debolmente.


*


Erano passati tre giorni da quando era scappato dai Piombi, tre giorni che aveva trascorso a casa dei suoi quattro amici, tra escursioni notturne nel sestiere di Dorsoduro, alla ricerca di Sasha e Connie. Aveva avvicinato Armin di soppiatto durante il secondo giorno, chiedendo informazioni. Il ragazzo, felice e sollevato nel vederlo, gli aveva però rivelato che non aveva idea di dove Sasha e Connie potessero trovarsi.

Jean era piombato nella più nera delle disperazioni. Quei due idioti... dov'erano finiti? Aveva contattato chiunque gli fosse possibile contattare in un periodo di confusione e baldoria come quello del Carnevale, sempre attento a portare con sé una maschera bianca procuratogli da Mylius, ma non c'era traccia di nessuno dei due.

L'unico posto in cui non era riuscito a controllare era l'isola della Giudecca, dato che gli spostamenti tra la baia e l'isola erano controllati rigidamente dalla guardia cittadina...e Jean non aveva fretta di rivedere il Francese.

Non aveva avuto più notizie neanche da parte della Maschera, e quel pensiero lo tormentava la notte. E se fosse morto? Se i due uomini che li avevano seguiti nei Piombi l'avessero ucciso senza pietà, e se in quel momento stessero pianificando di uccidere anche lui?

Non avrebbe dovuto importargli tanto, ne era consapevole; la Maschera lo aveva davvero cacciato in tutto quel casino, ma lo aveva anche salvato da morte certa, sia dai loro inseguitori che dalla condanna che gli sarebbe spettata.

La scomparsa di Christa non era più del tutto un segreto, ma trattandosi di una figlia bastarda la sua fuga non aveva fatto granchè scalpore; era più probabile sentirne parlare dalle donne al mercato che dai personaggi influenti.

Jean sistemò la propria maschera sul volto, ansioso, le spalle appoggiate al muro. Una donna gli si avvicinò, gli occhi celati da una maschera piena di piume rosse, e gli si appoggiò addosso.


'Vuoi farmi compagnia?', sorrise, avvenente.

Jean la spostò dal proprio petto, gentile. 'Sto aspettando un amico.'

La donna alzò gli occhi al cielo. 'Il tuo amichetto non verrà, ragazzino. Ma mi ha detto di riferirti che casa tua rimane incustodita tre ore dopo il mezzodì. E che sarebbe stato divertente vederti imbarazzato di fronte a queste.'


Abbassò la veste per mettere in mostra il proprio seno. Jean boccheggiò, spingendola via e maledicendo Eren Jaeger e le sue idee idiote. Almeno era servito a qualcosa contattarlo.

Mina lo aspettava all'angola, un sorrisetto idiota sul volto.


'Non sei cambiato di una virgola, eh?'

'Sta zitta.', esclamò sibillino. Questo fece ridere Mina anche di più. 'Libera tre ore dopo il mezzodì. Se controllano la casa, significa che non hanno spostato la merce. Possiamo creare una distrazione.'

'Perfetto.'

'Mina.', mormorò Jean. 'Potrebbe essere pericoloso.'

'Sarà una passeggiata, invece.', esclamò lei. 'Erano anni che non ci divertivamo un po' così. Tranquillo.'


Jean si chiese quanto a lungo avrebbe dovuto contare sugli altri. Una volta, qualcuno gli aveva detto che aveva la stoffa del leader e del comandante, ma lui continuava a sentirsi inadatto a dare ordini.


*


Il primo piano di quella che era stata la casa di Jean, Sasha e Connie esplose tre ore e dieci minuti dopo il mezzodì. Dal suo posto nel campiello vicino alla banchina, Jean potè sentirlo chiaramente. Sentì di aver reciso qualcosa di estremamente importante e si ritrovò a sperare che Mina, Thomas e gli altri stessero bene.

Non era il momento di distrarsi, in ogni caso; le guardie stavano già correndo verso l'esplosione. Sentì qualcuno di loro lamentarsi dell'entusiasmo degli avventori del Carnevale, qualche passante menzionare l'esplosione avvenuta qualche giorno prima, che Jean ricordava chiaramente: era successo durante il suo primo incontro con la Maschera.


La banchina era quasi vuota, ora; solo una guardia era rimasta al suo posto, e Jean sentì di poterla mettere tranquillamente al tappeto. I lividi erano quasi scomparsi, e il naso – l'unico punto che gli facesse ancora un male cane – era riparato dalla maschera. Prese la rincorsa verso l'uomo, ma dovette interruppersi a metà strada, superato a destra da qualcuno di molto più veloce di lui.

Mikasa era scivolata in mezzo alla folla, leggera, rapida e silenziosa, e si era gettata sull'uomo, colpendolo sul collo e facendolo collassare prima ancora che Jean potesse realizzare cosa stava succedendo; la raggiunse, preoccupato.

'Cre...credevo che non sareste venuti.'

Mikasa si sistemò la sciarpa, tranquilla. 'Non so chi sia più idiota, se tu che pensi di potercela fare da solo o Eren che mi ha trattenuta fino all'ultimo dall'intervenire perchè riteneva che sarebbe stato divertente vedere Armin svenire dall'ansia.'

Jean la guardò, grato che esistesse. 'Principessa, ho come l'impressione che tutto ciò ti importi molto più di quanto dovrebbe.'

Se quella constatazione le avesse dato fastidio, Mikasa non lo dimostrò; si limitò a guardarlo con occhi neri e profondi. 'Jean, cerca di ricordare. Potrebbe valerne della tua sanità mentale.'

Jean la guardò allontanarsi. 'Io non...perchè dovresti dire una cosa del genere?'

Mikasa si voltò. 'Perchè, dopo aver sentito il tuo racconto sull'anello, io e Armin ci siamo resi conto di non riuscire a ricordare quasi nulla degli eventi di cinque anni fa, o dell'epidemia. E tu, Jean? Tu ricordi?'

Jean fu tentato di risponderle con un “Sì, maledizione, perchè non dovrei?”, ma la verità era che Mikasa aveva ragione. C'era qualcosa di confuso e contorto, riguardante l'epidemia di peste.

'Io...ricorderò. Te lo prometto, Principessa.'

'Non chiamarmi così.', sospirò Mikasa, prima di sparire in mezzo alla folla.


*


'Chi non muore si rivede, eh!'


Jean fu tentato di avanzare nella stanza e soffocare la Volpe sul posto. Una volta arrivato sulla Giudecca aveva deciso che chiederle informazioni sarebbe stato un buon modo per iniziare la ricerca di Sasha e Connie, ma non si era certo aspettato di trovarli tutti lì.

'Jean!', esclamò Sasha, alzandosi con un salto dal letto per corrergli incontro ad abbracciarlo. 'Credevamo fossi morto!'

'Vi stavate struggendo, vedo.', sibilò lui, fulminando Connie con lo sguardo. Quest'ultimo alzò le mani in un gesto protettivo, e nel farlo si dimenticò di avere una bottiglia di vino tra le mani, il cui contenuto gli cadde sui pantaloni.

'Non lamentarti, Kirschtein. Tre giorni sono lunghi da passare rinchiusi in una stanza. Salute!', esclamò la Volpe, alzando un bicchiere verso di lui.

'Ymir, non dovresti bere a quest'ora!', la rimbeccò Christa. Ymir, eh? E così era quello il nome di quella diavolessa con le lentiggini.

Trattenendolo dal picchiare violentemente Ymir, Sasha, Connie e Christa raccontarono a Jean gli eventi successivi alla loro fuga. Christa e Ymir erano incappati in Sasha e Connie mentre questi pensavano ad un riparo, e Christa aveva insistito perchè Ymir li portasse con loro. Avevano raggiunto la Giudecca gettando un pescatore giù dalla sua barca – Christa si era lamentata con Ymir per tutto il tempo, e qui avevano raggiunto la stanza di Ymir all'osteria. Quest'ultima raccontò che le persone che l'avevano assoldata conoscevano quel posto, ma che non si erano fatte vedere perchè rivelarsi ai militari sarebbe stato complicato e quello per loro era un momento delicato.


'Chi sono queste persone?'


Persone potenti, aveva spiegato Ymir, che rispondevano ad un capo la cui identità era sconosciuta anche a lei, e si servivano di tre individui – due ragazzi e una ragazza – per comunicare con le varie spie e muoversi inosservati per la città. La Maschera rispondeva a loro, ma Ymir aveva solo una vaga idea del legame che il ragazzo aveva con i suoi aguzzini.


'Si dice che l'abbiano catturato, torturato o cose del genere.'

Jean sentì un brivido scendergli lungo la schiena. 'E tu e Christa come vi conoscete?'

Christa aveva preso parola, raccontando di come avesse conosciuto Ymir durante la sua prima escursione fuori dal palazzo, anni prima, e di come l'avesse aiutata a tornare a casa, senza però riuscire a ritrovarla negli anni successivi. Durante il racconto, l'espressione di Ymir si fece incerta, e Jean si chiese se in realtà Ymir conoscesse Christa da più tempo.


'Stavi per dirmi qualcosa, prima che arrivasse il caporale. Che genere di pericolo?', si interrogò Jean.

Christa scosse la testa. 'Tutto ciò che so riguarda ciò che Ymir ti ha già detto. Ci sono uomini potenti all'opera, uomini che vogliono riportare qualcosa a Venezia. Credo siano molto vicini alla riuscita dei loro piani.'

Ymir ammise di non sapere nulla di più, ma spiegò che l'esplosione di qualche giorno prima era stato un diversivo, esattamente ciò che aveva fatto Jean.

'Solo che questo è servito dall'allontanare le guardie da una struttura sacra, questo è tutto ciò che so.'

'Jean...'


Jean si voltò Connie stava seduto in un angolo in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto.


'Cosa c'è?'

'So che non mi prenderai sul serio perchè sono...hic...ubriaco.', sorrise Connie. 'Ma volevo dirti che il sogno della mia vita è diventare un gondoliere.'

'...oh.', mormorò Jean.

'Sì, dico sul serio! Immagina che roba! Al servizio di qualche ricco, in giro per la laguna, a vedere volti sempre nuovi! E poi, una volta messi da parte abbastanza soldi, potrò sposare Sasha!'

'Eeeeeeh?!', esplose Sasha, rossa in volto. Connie le si avvicinò e le prese le mani tra le sue.

'Non mi interessa quanto mangi, Sasha, voglio stare con te!', si voltò verso Jean, gli occhi lucidi. 'Ci darai la tua benedizione, Jean?'

Lui sospirò, spazientito. 'Quello che volete.'


Connie lanciò un urlo di felicità e abbracciò Sasha, che continuò a balbettare per un po'. Jean evitò di guardarli. Si sentiva il cuore vuoto e la testa troppo piena di complotti e preoccupazioni. Una mano gentile si posò sul suo braccio, e Jean si ritrovò a guardare gli splendidi, grandi occhi azzurri di Christa.

'Li terremo d'occhio finchè questa storia non sarà finita.', promise.

'E dire che dovresti essere tu quella preoccupata.', sospirò Jean. 'Ti stanno cercando.'

'Diciamo che sono abituata ad essere seguita.', sorrise lei. Ymir la guardò, e nei suoi occhi Jean lesse qualcosa che non aveva mai letto prima, e che lo colpì come nessuno dei calci del caporale era riuscito a fare: amore, puro e incondizionato.

'Ci nasconderemo da un'altra parte.', lo informò Ymir. 'Ti farò sapere dove tramite un qualche informatore.'

Jean annuì. 'Un'ultima cosa, Volpe.'

'Sarebbe?'

Jean sentì le proprie viscere annodarsi.

'Ho bisogno di sapere se la Maschera è vivo. Ho bisogno di incontrarlo.'


*


Piazza San Marco era illuminata a giorno dalle lanterne e dalle candele. In passato, Jean aveva già festeggiato il Carnevale lì, e si era fatto prendere dall'euforia e dalle danze sfrenate. I Veneziani erano un popolo esuberante e festoso, e il Carnevale era per loro motivo di giubilio più di ogni altra cosa al mondo. Era durante il Carnevale di tre anni prima che Jean aveva dato il suo primo bacio, proprio in quella piazza.

Quella sera però la festa, l'allegria e il vociare erano cose a lui estranee. Quando la Maschera gli si sedette accanto, silenziosa come sempre, Jean sentì il proprio cuore saltare più di un battito.

'Sei vivo.', constatò.

'A cosa ti riferisci?'

Jean non rispose. Fu la Maschera a riprendere parola, qualche attimo dopo.

'Jean, ti prego, balliamo. Sono anni che non vedo questo spettacolo. Voglio viverlo in prima persona. Con te.'

Si alzò e gli si parò davanti, allungando una mano. Da sotto la maschera bianca, Jean si morse il labbro inferiore, posando la propria mano in quella del ragazzo.

Si persero in mezzo alla folla in silenzio, tremanti e insicuri. Jean si rese conto che stava portando lui, e strinse forte la propria mano sul fianco del suo compagno.

'Credo di essermi ricordato.', sussurrò.

La Maschera non rispose.

Continuarono a ballare, incuranti del resto del mondo, incuranti dei sorrisi e dei brindisi, delle luci e dei baci rubati. Jean si fermò a metà sonata, togliendo la maschera dal volto. Dai suoi occhi scivolavano calde lacrime di disperazione. Si afferrò i capelli con una mano, folle.


'Leva quella maschera. Ho bisogno di sapere che non sto parlando con un fantasma.', sibilò. 'LEVA QUELLA MASCHERA.'

E ad un tratto si ritrovò tra le sue braccia, e il mondo intero scomparve. C'era solo lui, le sue braccia, il suo odore – sepolto nella sua memoria -, il nero della sua maschera contro il volto di Jean, fredde labbra di ceramica contro le sue. E Jean si beò di quella stretta finchè le dita del ragazzo non si strinsero contro la sua schiena con troppa forza.


'Cosa c'è?'

Jean avrebbe potuto giurare di averlo sentito ridere.

'È buffo.', esclamò. 'L'uomo che mi ha ucciso è dietro di te in questo preciso istante.'


Jean sentì una mano posarsi sulla sua spalla, ma non ebbe il coraggio di voltarsi. Attorno a lui, centinaia di persone ballavano perse nei propri sogni; con quella mano sulla spalla, lui si sentì scivolare in un incubo.

Si voltò lievemente.

Grisha Jaeger lo osservava, un'espressione di blanda follia a deformargli il volto.

Jean si voltò nuovamente verso la Maschera, in tempo per vedere la maschera cadere a terra, in tempo per intravedere una bassa, bionda ragazza sorridere da dietro la spalla del ragazzo.

Il volto di lei si increspò in un sadico sorriso. Jean udì chiaramente le uniche due parole che pronunciò.


'Marco, uccidi.'


E Marco scattò in avanti, un pugnale nella mano destra, la mano che non avrebbe dovuto essere lì. Jean sentì la lama affondare nella propria carne, la mano di Marco poggiata contro il suo ventre stringere l'elsa del pugnale.


Dal suo occhio sinistro cadevano, incessanti, le lacrime. Il resto del volto e del corpo era fermo, rigido, immobile.


'M-marco...eri davvero tu...'


Dopodichè, un'oscurità ancora più buia di quella dipinta sulla Maschera si impadronì della sua mente.






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Ciao.
Se sei arrivato fin qui e riesci ancora a leggere, e non stai prendendo a pugni il cuscino dalla rabbia, nè ti sei tolto le cuffie indignato scappando nella stanza a fianco, allora permettimi di dirti che mi dispiace.
Sì, mi dispiace di avervi presi in giro, e mi dispiace delle settimane passate da voi a speculare sull'identità della Maschera.
Ma mi dispiace di aver ucciso Jean? No. E poi capirete perchè.
Così come capirete il perchè Marco è vivo e perchè se ne va in giro con una Maschera.
Capirete tutto.
Nel prossimo capitolo.
- Joice

Qui trovate qualcosa da fare per calmare la rabbia. Chiedo ancora scusa.

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Capitolo 8
*** VIII - Uccidi ***


Vita e Morte a Venezia



Pioveva fitto, il giorno in cui morì.

Nei giorni di pioggia, tutti gli abitanti della città sembravano innervosirsi, incupirsi; forse perchè a Venezia, in genere, di acqua ce n'era già abbastanza.

Ma a Marco la pioggia piaceva. Gli piaceva sentire l'acqua scivolare sul suo volto, gli piaceva perdersi nel cercare di seguire il tragitto di una singola goccia. Era fermo in mezzo a una calle deserta, perso nei pensieri più profondi che un undicenne possa generare, quando sentì l'urlo.

Un unico pensiero gli attraversò la mente, rapido. Jean.

Si mise a correre in direzione della richiesta d'aiuto, cercando di non scivolare sulle mattonelle bagnate, la rabbia che gli montava dentro come una tempesta. Nessuno, soldato o coetaneo che fosse, poteva permettersi di toccare Jean senza pagarne le conseguenze. Marco era un ragazzino dall'indole pacifica, quasi passiva, ma per Jean era diverso. Lui era suo fratello, il suo compagno, la sua spalla. E ora stava chiamando e chiedendo aiuto.

Estrasse il pugnale dal fianco sinistro, il pugnale che Antonio gli aveva regalato quando aveva compiuto dieci anni. Quella volta, il suo tutore e patrigno lo aveva guardato quasi spazientato, sospirando che una mente e una gentilezza come la sua erano doti sprecati per un ladruncolo di strada, ma a Marco non importava.

(Finchè potrò stare con Sasha e Connie e Jean non mi importerà)


Ricordava con dolorosa chiarezza il giorno in cui i suoi occhi avevano incrociato per la prima volta quelli ambrati del ragazzo più piccolo. All'epoca, Jean aveva solo sette anni, Marco otto. Jean era un bambino spaesato, sconvolto dalla morte dell'unica persona che gli avesse mai voluto bene. Marco non aveva mai avuto una madre, ma aveva un patrigno che lo aveva cresciuto con amore, e potè capirlo. Era stato suo compito far ambientare il ragazzino, insegnargli i trucchi del mestiere, fargli conoscere la città in cui erano nati.

Con gli anni, Jean era passato dall'essere un piccolo frignone all'essere una piccola peste. Marco era mente, studio e gentilezza; Jean era braccio, esperienza e violenza.

Si completavano; era l'unica spiegazione possibile.

Gira a destra.

'MARCO!'

Ancora a destra.

Erano usciti a giocare, lo aveva perso di vista. Non sarebbe dovuta andare così.

Ora a sinistra.

Lo avrebbe protetto.

Diritto, verso le sua voce.

Era il suo dovere.


C'era Jean, il braccio alzato in un debole tentativo di proteggersi dall'uomo che lo sovrastava; e quest'ultimo, una spada in pugno verso il ragazzino accasciato a terra.

Marco avanzò correndo, senza donare a se stesso il beneficio del dubbio; per una volta avrebbe fatto quello che in circostanze diverse avrebbe fatto Jean: non avrebbe pensato alle conseguenze.

Si gettò tra l'uomo e il suo amico, il pugnale teso, pronto ad attaccare.

In quel preciso momento, l'uomo fece calare la spada.

La lama spezzò in due il pugnale di Marco, poi attraversò il suo corpo come se fosse fatto d'acqua.


*


Faceva freddo.

Gocce di pioggia gli scivolavano addosso, instancabili; solo che non era più piacevole: faceva male. Ovunque le gocce di pioggia cadessero, faceva male.

'Marco...'

Il suo campo visivo era sfocato, distorto. Ebbe l'impressione che qualcosa si fosse appoggiato sulla sua mano destra, ma era come se la sua mano destra non fosse lì.

Qualcuno lo stava guardando. Due persone, una nettamente più vicina al suo volto rispetto all'altra. Marco sapeva che doveva essere successo qualcosa di brutto, ma non riusciva a ricordare che cosa fosse successo.

Poi la sua vista si fece più nitida; Jean era chino su di lui, il volto una maschera di orrore, le mani imbrattate di sangue


(il sangue di chi?)


e Grisha Jaeger sopra di lui.


'Marco...Marco...'

Marco voleva alzarsi. Alzarsi, abbracciare Jean, dimenticarsi del dolore e del dottor Jaeger, dimenticarsi della pioggia e di Venezia. Abbracciare Jean, tirarlo verso di sé e spiegargli che per lui ci sarebbe sempre stato, che non lo avrebbe mai abbandonato. Ma non poteva, e ora sapeva il perchè.


(Perchè sono morto)


Il dottor Jaeger afferrò Jean per il bavero della giacca e lo tirò verso di sé; Jean non protestò nemmeno.


'Avrebbe funzionato bene se non fosse andato così in profondità. Avrebbe funzionato meglio con te.', gettò la spada a terra. 'Dannati ragazzini.'

'Marco...'

'Il tuo amico è morto, ragazzino! Morto! ANDATO! FINITO!', aveva gettato Jean a terra, estratto qualcosa da sotto la giacca.

'No...no! Che volete farmi?!'

'Povero Marco. Ha sofferto così tanto, durante questi ultimi giorni, col morbo della peste che martoriava il suo corpo...'

'LO AVETE UCCISO VOI! LO AVETE UCCISO!'

'NO!', sbraitò il dottore. 'TU LO HAI UCCISO, JEAN!'


Si era buttato su Jean, in mano una siringa contenente un liquido verde. La siringa era penetrata nel braccio di Jean, e il ragazzo aveva urlato. Spasmi avevano attraversato il suo corpo per qualche secondo, poi si era accasciato a terra, svenuto.

'Ti riporterò a casa e racconterai a tutti di come hai visto il tuo amico Marco morire tra i dolori della peste.', aveva mormorato il dottor Jaeger, sereno.


Marco aveva fatto ricorso a tutte le sue forze per alzare una singola mano verso Grisha Jaeger. Questi si era girato verso di lui, un guizzo di sorpresa sul volto.


'Come diavolo...'

Si era chinato su di lui, tastandogli il polso, le pulsazioni del cuore. Le deboli dita di Marco si erano posate sul suo braccio e avevano stretto la presa.

Si era alzato; c'era stato un orribile rumore, come un risucchio, e il lato destro del suo volto si era strappato, brandelli di carne e sangue ovunque.


'Come puoi essere ancora vivo?!'

'Jean...', la sua bocca era a metà, la sua mascella non c'era quasi più, ma qualcosa nella sua espressione orripilata gli diceva che il dottore era riuscito a capirlo. 'Non...toccare...Jean.'

Dopodichè lasciò la presa, ricadendo in una pozza del suo stesso sangue. Continuò a guardare il cielo, troppo debole per alzare la testa e vedere cosa il suo assassino stesse facendo, ma non abbastanza debole da chiudere gli occhi e morire.

Si sentì sollevato di peso.

La pioggia non ne voleva sapere di smettere di cadere.

Bruciava.


*


Jean tornò a casa come in trance. Era sporco da capo a piedi di sangue, e venne accolto dalle urla di Antonio e dai pianti isterici dei più piccoli.

Quando il dottor Jaeger arrivò per il suo giro di controllo, quella sera, gli si avventò contro senza nemmeno sapere il perchè. Antonio lo sentì urlare qualcosa riguardo all'aver tagliato a metà Marco, ma non gli diede retta. Il ragazzo era evidentemente sconvolto, e la sua testa scottava, come se avesse preso la febbre. Lo mise a letto e si mise a parlare col dottore, preoccupato.

Il dottor Jaeger aprì la propria valigetta e ne tirò fuori gli strumenti medici; spiegò ad Antonio che Marco aveva contratto il morbo e che lui vi aveva operato sopra sotto lo sguardo di Jean. Sì, aveva dovuto incidere il volto, ma per il ragazzo non c'era stato niente da fare.

'Ma Marco non aveva la peste...non l'ha mai avuta!', aveva protestato Antonio.

Il dottor Jaeger aveva infilato la siringa nel braccio di Antonio. Il liquido verde gli era scivolato dentro le vene come acqua.


'Ne è proprio sicuro, Antonio?'


Quando Jean si era svegliato, in preda ai deliri della febbre, era stato a malapena in grado di cogliere frammenti di conversazioni. Connie sedeva in un angolo, il volto tra le mani.

'Cos'ha detto Jean? Che gli ha tagliato la faccia?'

'Connie, ho mal di testa. Sta zitto!', aveva urlato Sasha.

'Ma...ha detto così...ha infilato qualcosa nel braccio di Antonio...e a Marco...quel diavolo di un dottore gli ha tagliato la faccia...'

'Sta zitto, Connie! Tu e quella tua maledetta lingua da inglese!'


Era svenuto di nuovo.


*


Marco aveva aperto l'occhio sinistro, poi aveva tentato di aprire il destro.

(Qualcosa non va.)


Il soffitto che stava osservando non era quello di casa sua, ma un soffitto in pietra, come quello di una caverna; nell'aria mancavano il russare sommesso di Jean e Connie e i mugugni disturbati di Sasha, ed era sdraiato sulla superficie più comoda su cui avesse mai dormito.

Tentò di alzarsi, ma il lato destro del suo corpo non si muoveva; anzi, si rese conto con orrore, gli impediva di alzarsi.

Si voltò verso destra, spaventato; spalla e braccio non c'erano più. No, realizzò subito dopo, c'erano, ma non erano le sue.


'È titanio modificato.'


Marco si voltò; il dottor Jaeger era seduto a due metri di distanza da lui. Marco rimase a fissarlo, apatico. Non sentiva di avere la forza necessaria ad arrabbiarsi.


'Cos'è il titanio modificato?', si ritrovò a chiedere, piano.

'Un elemento che probabilmente verrà scoperto tra un paio di secoli, ma che io ho già isolato e modificato a mio piacimento.'

L'espressione orgogliosa di Grisha fece salire a Marco la nausea.


'Cosa mi è successo?'

'Sei morto.'

'E poi?'

'E poi sei resuscitato. E hai dormito per dieci giorni, durante il quale ho creato il tuo braccio.'

Marco rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole.


'Non capisco.', mormorò.

'L'intento era di ferire il tuo amico Jean con questa.', prelevò una boccetta piena di liquido rossastro, estremamente simile a sangue, da dentro la giacca. 'Di modo che gli entrasse in circolo. I soggetti su cui sperimentare scarseggiano, ultimamente, e il ragazzino stava in giro da solo...non c'era nessuno in giro.', sorrise. 'Ma poi sei arrivato tu. La mia spada è un piccolo gioiello; giapponese, il regalo di una cara amica. Estremamente sottile e letale. Ti sei messo in mezzo, e la spada si è portata via metà del tuo corpo.', ridacchiò. 'Non avevo idea che il liquido ti sarebbe comunque entrato in circolo, né che saresti sopravvissuto. Hai la potenza di un dio in corpo.'

'Può riprendersela. Mi lasci andare.'

Grisha Jaeger aveva sorriso. 'Non credo proprio, mio caro ragazzo.'


Se ne era andato, ignorando bestemmie, richieste d'aiuto e preghiere.


*


Il dottor Jaeger aveva omesso un paio di cose, che Marco ebbe il tempo di scoprire nei giorni di prigionia successivi.

Primo: il titanio modificato era un materiale vivo, in grado di adattarsi e di rispondere agli impulsi del suo sistema nervoso; come un parassita, ma estremamente intelligente. Marco non era in grado di comandarne i movimenti, non del tutto; ma riusciva comunque a piegare le dita della sua nuova mano, o a flettere lievemente il polso.

Secondo: il braccio non era stata l'unica parte che il dottor Jaeger aveva ricreato per lui. C'era uno specchio nella cella, e Marco non dormiva la notte pensando a ciò che vi aveva visto: il proprio volto, per metà carne umana e per metà composto da quell'odioso materiale.

Era diventato un mostro.

Terzo: qualunque fosse il suo intento, Grisha Jaeger non lo aveva tenuto in vita per niente. Vennero a prenderlo dopo giorni, forse settimane. Lo trascinarono per i corridoi di quella che Marco riconobbe come una prigione.

Lo sistemarono in un'altra cella; tre ragazzi gli stavano di fronte, i volti impassibili e freddi.

'N-non voglio farlo...', aveva mormorato il più alto dei tre, guardando il suo vicino, un ragazzo dalle spalle larghe, con corti capelli biondi. Questi non aveva avuto alcuna reazione, e si era limitato a fissare il pavimento con gli occhi di un pazzo.

Si era fatto avanti il terzo componente del gruppo, una ragazza. Marco l'aveva guardata negli occhi e vi aveva letto l'orrore di un'infanzia distorta, sbagliata.

'Ci hanno detto che è nostro compito fare in modo che tu non possa più parlare di ciò che hai visto.', aveva spiegato lei.

'Non lo farò in ogni caso.'

'Permettimi di dubitarne.'


Dopodichè aveva estratto un pugnaletto e aveva cominciato a ferirlo; colpiva in punti strategici, aveva capito Marco in seguito, dove poteva provocargli più dolore possibile senza ucciderlo.

Aveva continuato per minuti che a Marco erano parsi giorni, ignorando le lacrime del ragazzo più alto e l'assenza mentale dell'altro. Si era fermata, ansimante.


'Come ti chiami?'

'Ma...rco...'

'Bene, Marco. Cosa vuoi di più in questo momento?'


Marco era sul punto di svenire; la sua voce era resa rauca dalle troppe urla, ma il solo pensiero di poter pronunciare quel nome lo aveva reso potente.


'Jean.', aveva sussurrato. 'Voglio Jean.'

'Sbagliato.', la ragazza lo aveva tirato su per il bavero della maglia. 'Tu vuoi uccidere, Marco.'

Marco ci aveva pensato, e non gli era sembrata affatto una cattiva idea.


*


Quella era stata la sua vita per i tre anni successivi. Il dottor Jaeger lo veniva a controllare per dieci minuti ogni mattina, dopodichè se ne andava, lasciandolo nelle mani di Annie e del suo gruppo. Lentamente, Marco era diventato sempre più insensibile alle botte e alle ferite, e sempre più consapevole di quale fosse il suo scopo nella vita.

Jean.

Jean.

Uccidere.

Jean.

Uccidere.

Uccidere.

Ma, Jean...

Uccidere.

Uccidere.

Uccidere.

UCCIDERE.


Raramente aveva tentato una fuga; il suo unico tentativo di uccidere Grisha Jaeger gli era costato due interi giorni di crocefissione.

Aveva capito che ciò che il dottor Jaeger gli aveva somministrato aveva in qualche modo potenziato la sua soglia del dolore, e lo aveva anche reso più forte. Non conosceva lo scopo o la reale potenzialità di quel siero, ma sapeva una cosa: anche Annie, Bertholdt e Reiner ne erano 'infetti', e altrettanto probabilmente loro erano gli unici bambini sopravvissuti a quel trattamento.


E poi, verso i quattordici anni, era arrivata la Maschera.

Il dottor Jaeger l'aveva fatta fare apposta per lui; una maschera di carnevale in ceramica, di un nero che sembrava composto dalle notti passate nel carcere dei piombi e di un rosso che avrebbe potuto benissimo essere scambiato per sangue, il suo sangue. Gli aveva spiegato che presto il siero avrebbe raggiunto il suo effetto definitivo, ma che ci sarebbe voluto ancora un po' di tempo; nel frattempo, data la disponibilità da lui mostrata negli anni passati, era libero di uscire.

Con la Maschera.

L'aveva odiata. Oh, se l'aveva odiata.

Ma presto si era fusa col suo volto. Presto aveva preso a indossarla anche nella sua cella, anche mentre dormiva.

Presto, la Maschera era diventata lui e lui era diventato la Maschera.


E il dottor Jaeger lo aveva guardato con occhi pieni di folle orgoglio.


*

*

*


Da qualche parte nel carcere dei Piombi, circondato da cadaveri in via di putrefazione, Jean aprì gli occhi, si alzò di scatto e inalò più aria di quanta gli fosse possibile, avido.

Era vivo.






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Sono sopravvissuta al linciaggio post-settimo capitolo, quasi non ci credo.
E anche Jeanhihihihihihihihih
Ragazzi, il contatore di visite domenica sera E' IMPAZZITO. DUECENTO VISITE IN UN'ORA?
Ma perchè non lasciate una parola per recensire, una sola? Voglio sapere come vi sentite riguardo la mia storia e il suo sviluppo, davvero, ci tengo veramente!
E ora sono a scuola...
E ho già caricato il primo capitolo tradotto di His Beating Heart, andatela a leggere se shippate JeanMarco, è...BELLISSIMA! (e non lo dico solo perchè la sto traducendo io, giuro)
E la gente mi guarda male ahahahahah
Al prossimo capitolo!


Ah, riguardo il titanio modificato...mia personalissima licenza. Il titanio, numero atomico 22, è stato scoperto nel 1789. Ma riguardo al 'titanio modificato' saprete di più nei prossimi capitoli! - Joice

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Capitolo 9
*** IX - Limite ***


Vita e Morte a Venezia



Si sentiva come se lo avessero fatto a pezzi e avessero festeggiato ballando sulla sua tomba. Pensieri confusi e dolorosi gli attraversavano la mente a velocità massima, cercando di scappare, di farlo concentrare sul dolore.

Ma non era il dolore fisico ciò che in quel momento Jean temeva di più, per quanto avesse portato d'istinto una mano verso il torace – per trovarvi una cicatrice fresca; no, a ferirlo era il nome che più di tutti in quel momento suonava come una minaccia di morte, due cose che mai avrebbe pensato di associare.


(Marco)


L'essere vivo gli parve strano, ma in quel momento non aveva importanza; ciò che contava era la vita di Marco e, sì, il fatto che avesse tentato di ucciderlo.

O forse lo aveva ucciso, e ciò in cui si trovava ora era l'inferno.

Ma, rifletté, l'inferno non ha torce alle pareti. Si issò in piedi a fatica, dolorante, ripensando agli ultimi istanti che avesse vissuto prima di collassare.

Grisha Jaeger. Al solo pensare al tocco viscido della sua mano che si posava sulla sua spalla Jean ebbe un tremito di violenta rabbia. Eccolo, il vostro beniamino.

La Maschera aveva levato il travestimento, rivelando il volto dell'ultima persona a cui Jean avrebbe mai pensato. No, si corresse mentalmente, ci aveva sperato, specie la notte in cui la Maschera lo aveva aiutato a scappare dai Piombi, ma la razionalità aveva ucciso quel pensiero. E invece eccolo lì, vivo e vegeto. Mutilato, il volto ridotto nella macabra ombra di ciò che era stato, ma vivo.

Cosa gli avevano fatto? Perchè era bastata una parola di quella strana ragazzina bionda per far sì che Marco arrivasse a ucciderlo? Quale orrori era stato costretto ad affrontare?

Il pensiero di tutte le convinzioni sbagliate che le droghe del dottor Jaeger avevano creato nella sua mente lo invase, lasciandogli una forte sensazione di nausea addosso. Non aveva mai visto il corpo di Marco bruciare, non c'era mai stato nessun fazzoletto sotto il cui Marco avesse nascosto il proprio volto, spaventato dalla peste; neanche il suo nome era vero, perchè era il diavolo in persona ad averglielo dato.

Più ci pensava, più si convinceva che la priorità, in quel momento, era uscire da quella fossa e capire la situazione. La ferita si era già cicatrizzata, quanto tempo poteva essere passato da quando lo avevano gettato lì dentro?

Si diresse verso le pareti della fossa, scavalcando cadaveri e sforzandosi più di una volta di mantenersi lucido. Il puzzo e la spossatezza fisica misero a rischio la sua vista più di una volta. Dovette arrivare alla parete di fango e appoggiarvisi, chiudendo gli occhi per qualche minuto, per assicurarsi di non svenire.

Nonostante l'umidità, il terreno in cui la fossa era stata scavata sembrava essere in grado di reggere una scalata. Erano solo tre metri e, nonostante tutto, Jean si sentiva abbastanza vivo e motivato da poter affrontare anche quello.

Infilò le mani nel terreno e si issò, muovendo rapido il braccio libero verso un punto più in alto e sperando di non sentirsi scivolare la terra da sotto le dita; più di una volta fu sicuro che sarebbe caduto, e più di una volta lo rischiò veramente, ma riuscì ad uscire dalla fossa quasi illeso.

Si distese a terra, per niente sorpreso di scoprire di trovarsi da qualche parte nel carcere dei Piombi. Una parte in disuso o abbandonata, a giudicare dalla scarsità di torcie alle pareti e di prigionieri nelle celle. Attraverso le sbarre di una finestra, Jean potè vedere la luna illuminare il paesaggio circostante. Era la seconda volta che si ritrovava a dover fuggire da quel posto in piena notte, e la prima volta non era andata a finire bene.

Jean afferrò una torcia dal proprio supporto e si guardò attorno il più silenziosamente possibile; il corridoio proseguiva in entrambe le situazioni, e c'erano due stanze, all'apparenza vuota. Decise di perlustrarle, alla ricerca di un'arma con cui farsi strada fuori dal carcere.

La prima stanza doveva essere stata l'ufficio di un qualche boia disgraziato; era piena di coltelli e lame, tutte usurate e arrugginite dal tempo, troppo deboli per reggere in duello. Jean prese con sé solamente una daga scalcinata; il solo osservarla gli riportò alla mente i suoi primi allenamenti con quell'arma.

Era stato Marco ad insegnargli a usarla, sotto lo sguardo vigile e le urla di rimprovero di Antonio. In quanto agli allenamenti con la spada, Marco peccava di voglia di fare, e Jean ne eccedeva: non esattamente la combinazione perfetta per un duello, ma avrebbero potuto essere un'accoppiata fantastica contro qualcun altro, Jean lo aveva sempre pensato.

Si chiese con una fitta al cuore come avesse fatto a dimenticarlo per così tanto tempo, come il suo nome avesse potuto sbiadirsi nella sua memoria. Il senso di colpa gli strinse la gola ed era sul punto di mettersi a piangere, quando un rumore di passi in lontananza lo fece irrigidire.

Rapido, estrasse la daga dalla propria custodia e si posizionò in prossimità dell'entrata della stanza, pronto ad attaccare. I passi si facevano sempre più vicini; strinse le dita sull'elsa con tanta forza da perdere la sensibilità.

Un'ombra entrò nella stanza; Jean scattò veloce, fendendo la mano armata verso il nuovo arrivato, ma invece di affondare nella carne dell'uomo, la lama cozzò contro qualcosa di duro e metallico e Jean quasi perse l'equilibrio a causa del contraccolpo.

L'uomo alzò una lampada ad olio, rivelando il volto della Maschera.


'Jean!', sussurrò preoccupato.


Jean gli si precipitò contro, gettandolo a terra; lottarono per qualche secondo, in silenzio, mentre Jean cercava di togliere la maschera dal volto dell'altro.


'Leva quella maschera, bastardo! Levatela!'

'Lo avrei fatto se...unf...me lo avessi chiesto!'

'Come faccio a sapere che non sei un...argh...nemico?!'

'Ti ho riportato in vita...ah...non ti basta?'

Jean bloccò il proprio pugno a metà strada.


'Come?', esclamò sorpreso.

La Maschera ansimò. 'Fammi alzare e fai silenzio. È un'ala abbandonata, ma non si è mai abbastanza prudenti.'

Jean lo fissò per qualche secondo, poi si alzò, porgendogli una mano ed aiutandolo ad alzarsi. Una volta in piedi, la Maschera fece scivolare una mano guantata verso il proprio volto, scostandolo. Tremava visibilmente, quando rialzò lo sguardo su Jean.

Dal canto suo, Jean rimase a fissare il volto di Marco in silenzio, attonito.

Una cicatrice correva rapida quasi nella metà esatta della faccia, proseguendo sul collo e probabilmente ancora più in basso; nel lato sinistro, la faccia era quella che Jean ricordava: il volto sereno e cordiale del suo migliore amico, con dolci occhi scuri e una spruzzata di lentiggini sulle guance, solo invecchiato dall'età e da ciò che aveva dovuto patire. Ma il lato destro era una massa metallica di cui Jean non avrebbe potuto indicare il nome, modellata in modo da ricordare un volto con una maestria inquietante. Dove ci sarebbe dovuto essere un'occhio definito, però, era come se l'autore di quella...protesi avesse deciso di non donare a Marco la possibilità di rivedere del tutto il proprio volto umano.

L'occhio destro di Marco era quello di una maschera.


'La Maschera è ciò che sono...', sussurrò Jean, ricordando le parole pronunciate da Marco durante il loro primo incontro. 'Ora capisco cosa intendevi.'

'Sono un mostro.' mormorò Marco.

'No. Non lo sei. Non tu.'


Jean lo abbracciò e lo strinse fino a farsi mancare il fiato, felice di poter sentire accanto a sé il corpo di una delle poche persone che mai avesse amato al mondo. Dopo qualche momento di incertezza, Marco ricambiò l'abbraccio.


'Mi sei mancato, Marco.'

'A...anche tu.'


Jean sciolse l'abbraccio, un sorriso commosso sul volto.


'E ora spiegami perchè cazzo mi hai ammazzato e come faccio ad essere ancora vivo.', sibilò.

'Vieni, dobbiamo fare in fretta. Sono passate poche ore da quando ti ho...ucciso, ma potrebbero comunque insospettirsi e venire a controllare.'


Marco gli fece cenno di seguirlo; Jean rinfoderò la daga e lo seguì fuori dalla stanza e lungo il corridoio, fino a raggiungere un'altra stanza buia. Marco aprì la lanterna e inclinò lo stoppino infiammato verso una, due, quattro candele. Man mano che l'ambiente si illuminava, Jean sentì la salivazione azzerarsi e i nervi tendersi fino allo spasmo.

C'era un letto, nell'angolo a destra, ma era l'unica cosa umana in tutta la stanza. Appese alle pareti c'erano armi, coltelli, strumenti di tortura di cui Jean non conosceva esistenza o utilizzo, né desiderava conoscerli. Su un tavolo erano poggiate siringhe e piccoli coltellini chirurgici dall'aria letale, nonché varie mappe e strumenti di misurazione.

Il pavimento in mattoni era impregnato di chiazze di sangue.

Marco appese la lampada ad olio ad una catena in mezzo alla stanza e, tramite un sistema di carrucole, alzò la lampada fino a che essa non illuminò la stanza; legò la catena ad un gancio a terra e si voltò verso Jean, soddisfatto.


'Casa mia.', pronunciò solamente, alzando le spalle.


Lo sguardo di Jean passò in rassegna le decine di armi alle spalle di Marco.


'Cosa diavolo ti hanno fatto, Marco?', sussurrò, paralizzato dall'orrore.

L'espressione di Marco si addolcì. 'Nulla che valga la pena raccontare, credimi. E poi è da due anni a questa parte che mi ci alleno, con quelli.'

'Tu ti alleni con...' Jean lo oltrepassò veloce e proseguì verso la parete, afferrando la prima arma che gli capitò in mano, un corto coltello ricurvo dall'aria letale. '...questa roba?!'

Marco alzò l'occhio al cielo. 'Quello è un Karambit e, sì, lo so usare. Non ho avuto molto da fare tra una sessione di tortura e l'altra, in questi cinque anni.'

Jean lasciò cadere il Karambit. '...cos'hai detto?'

Marco lo fissò a lungo, cupo. Poi, in silenzio, si slacciò la cappa, levò i guanti e slacciò i bottoni della camicia. Quando ebbe finito, rialzò lo sguardo su Jean.

Non era solo il suo volto ad essere composto da quell'odioso materiale; parte della cassa toracica e tutto il braccio destro erano fatti allo stesso modo, modellati allo stesso modo del lato sinistro del suo corpo, con la sola differenza che se su quel braccio le cicatrici che solcavano tutto il corpo di Marco erano solo curve e tagli nel metallo, nella parte sinistra erano vere, rosse e pulsanti. Jean si lasciò cadere a terra, sul punto di svenire. Marco si riappoggiò addosso la cappa e si diresse verso di lui, sedendosi a pochi centimetri di distanza.

'Il titanio modificato è una scoperta di Grisha Jaeger. È un materiale metallico estremamente resistente e leggero. Non so cosa lui abbia aggiunto alla formula che lo compone, ma so che ha creato un'arma letale, un simbionte in grado di modellarsi in base ai pensieri dell'individuo a cui si attacca. È così che sono sopravvissuto, cinque anni fa. Jaeger stava per ferirti con una spada contente una boccetta di titanio modificato. Ti sarebbe entrata in circolo, poi lui ti avrebbe fatto dimenticare il vostro incontro e sarebbe rimasto ad osservarti in attesa di risultati. Ma io mi sono messo in mezzo e sono morto. Il titanio modificato si è mischiato al mio sangue e mi ha mantenuto in vita, ma sarei morto dissanguato se Jaeger non avesse creato questo per me.' sfiorò il lato destro del volto con dita tremanti. 'Il titanio modificato accresce la resistenza fisica, inibisce la soglia del dolore, dona forza o agilità in base alla tua personalità. È incredibile, e incredibilmente orribile. Esistono altri come me, altri che sono stati costretti a farmi del male in tutti questi anni. Per testare le mie capacità fisiche. E le loro.

Quando sei fuggito dai Piombi, l'altra notte, sono riuscito a raggiungere il laboratorio di Jaeger e ho rubato una fiala di titanio modificato, prima che riuscissero a prendermi. Sapevo che mi avrebbero costretto a ucciderti, per cui, appena ho ripreso conoscenza, ho sistemato la boccetta di titanio modificato nella spada.'

Jean guardò dritto nell'occhio di Marco. 'Sono vivo grazie a te. Per la seconda volta.'

'Jean, io...'

'Ho creduto che fossi morto. Per così tanto, tanto tempo...'

La mano di Marco, quella vera, si strinse a quella tremante di Jean.


'Ma sono qui. Sono vivo.'

Jean sciolse la stretta e sfiorò il lato destro del volto di Marco. Il metallo era freddo sotto le sue dita.


'Non c'è sensibilità da quella parte. Non posso sentirti.', sussurrò Marco.


Le dita di Jean si strinsero sui suoi capelli; lo tirò verso di sé con violenza, poggiando le proprie labbra sulle sue. Marco non reagì, limitandosi a fissarlo dapprima sorpreso, poi coinvolto. Chiuse gli occhi mentre la presa di Jean si addolciva, trasformandosi in una carezza.


'Non dovresti.', sospirò Marco, a pochi millimetri dalle labbra di Jean. 'Potrebbero costringermi a ucciderti da un secondo all'altro. Non ho controllo del mio corpo, lo hai visto.'

'Non mi importa.'

'Ma potresti morire...'

'Marco.', esclamò, e fu come se il suo nome avesse infranto definitivamente la barriera invisibile tra loro. 'Sai quanto io sia un egoista. Finchè sei con me qui, vivo, non mi importa. Non. Mi. Importa.'


*

*

*

[Qualche ora prima]


'LASCIAMI ANDARE! LASCIAMI ANDARE, HO DETTO!'

Ymir strinse la presa contro il petto di Sasha, che era aggrappata allo stipite della porta. Un altro po' e le avrebbe involontariamente rotto un paio di costole. Forse non proprio involontariamente.

'Sasha, ti prego, basta!' intervenne Connie, cercando di allontanare Sasha dall'uscio. 'Ti prego, per favore, piantala. Ci farai uccidere tutti!'

Sasha si voltò verso Connie, il volto una maschera di rabbia. 'Jean è morto, Connie! MORTO!'

'Appunto per questo dovresti smetterla di comportarti così! Non puoi andare là fuori a cercare chi lo ha ucciso, non sai nemmeno chi sia stato!'


Questo sembrò convincere Sasha; smise di lottare lentamente, e Ymir la sistemò nell'unico letto presente nella stanza, dove si raggomitolò tremante. Connie si affrettò a sedersi accanto a lei e a stringerle la mano, nonostante lui per primo fosse quello in preda alle lacrime e al tremore.

Ymir si voltò verso l'altra occupante della storia e un moto di fiero orgoglio montò dentro di lei. Non una lacrima era scesa dagli occhi di Christa, seduta rigidamente di fronte al tavolo in mezzo alla stanza. Ymir afferrò una sedia e le si posizionò accanto, in silenzio. Christa si prese un lungo momento, prima di parlare.


'Non c'è stato nulla da fare?'

Ymir scosse il capo. 'Se anche l'enormità della folla mi avesse permesso di avvicinarmi a loro senza essere rallentata, non sarei riuscita a combatterli. Loro sono in quattro, e sono forti. La Maschera lo ha accoltellato, gli hanno rimesso la maschera bianca per nascondergli il volto agonizzante e sono spariti rapidamente in mezzo alla folla, verso i Piombi.'

Christa fissava dritto davanti a sé, dando l'impressione di ignorarla; ma le sue piccole dita flessuose si strinsero a quelle callose e rovinate di Ymir sotto il tavolo, in cerca di affetto e sostegno. Ymir strofinò il naso contro i suoi capelli.

'Non è giusto.', sussurò Christa, la voce resa quasi stridula dall'ondata di emozioni che la travolgeva in quel momento. 'È colpa mia. L'ho coinvolto io.'

'Tu non centri.' Ymir alzò lo sguardo verso Connie. 'Ehi, pelatino. Dici di non sapere chi sia stato, ma io un'idea vaga ce l'avrei, e non ha senso tacere a riguardo. Saresti pronto a vendicare il tuo amico?'

Connie si voltò verso di lei. Non c'erano più lacrime nei suoi occhi, solo un furore cieco. 'Dimmi tutto.'


Ymir spiegò ciò che sapeva: che erano in quattro, e rispondevano ad un capo di cui non conosceva l'identità, e che erano tutti ragazzini. Bertholdt, forte e agile ma molto facilmente malleabile; Reiner, estremamente forte fisicamente e reso ancora più pericoloso dall'instabilità mentale; Annie, letale e sicura dei propri intenti.'


'E poi la Maschera. L'uomo che ha ucciso Jean.' dichiarò Connie secco.

Ymir scosse la testa. 'Lui è diverso. Non ha una propria volontà, ma risponde agli altri tre. È una specie di sicario. E sono sicura che non abbia ucciso Jean di propria volontà, perchè lo conosceva.'

Anche Sasha si voltò, improvvisamente più interessata; Ymir pronunciò lentamente il nome di Marco, spiegando loro che era vivo, mutilato ma vivo.

'Vorrei che voi due la smetteste di piangere.', mormorò inacidita quando Connie Sasha, in preda a una crisi di pianto di gioia, avevano deciso di improvvisare un balletto attorno al tavolo, con tanto di coretti 'Marco è vivo!'. 'Mi date la nausea.'

Christa aveva sorriso divertita, e Ymir rimase a guardarla incantata. Lei si voltò curiosa.

'Cos'è quell'espressione?'

'Paura.', ammise Ymir, mordendosi la lingua subito dopo averlo detto. Le dita di Christa si strinsero tra le sue.

'Non finchè siamo insieme.'

Ymir ripensò alla prima volta che aveva visto Christa; all'epoca, lei aveva tredici anni, e Christa era una neonata in fasce. L'aveva osservata a lungo, nascosta dentro un baule pieno di gioielli e sete, in attesa che l'uomo entrato nella stanza della bambina si allontanasse per poter rubare ciò che poteva e scappare dal palazzo.

Aveva ucciso per la prima volta, per salvare quella neonata dall'uomo, le cui intenzioni le erano state chiare nell'attimo in cui lo aveva visto estrarre un pugnale e puntarlo verso la culla. Dopodichè l'aveva presa e l'aveva portata nelle cucine, supplicando la cuoca di tenere la bambina e vegliando su di lei per i primi cinque anni della sua vita.


(Un giorno avrò la forza necessaria a parlare di noi, della nostra differenza d'età, degli anni che ho passato a far sì che non ti ammazzassero solo per ciò che sei, di quanto sei diventata bella)


Portò le dita di Christa vicino alle labbra e le baciò.


(Un giorno)


*


Armin pensava e ripensava continuamente al gioco in cui si erano immischiati, seppure in parte. Stava pensandoci anche durante la notte in cui Jean era morto, nonostante fosse immerso in una folla di centinaia di persone impegnate a festeggiare, far casino e lasciarsi andare agli atti più impuri e lussuriosi.

Sentì Eren rifiutare l'invito di Mikasa a ballare, sottolineando come avrebbe fatto una figuraccia nel momento in cui lei, decisamente più portata di lui per il ballo, avrebbe involontariamente iniziato a portare. Non vide Jean venire accoltellato, a soli cento metri di distanza, ma fu felice nel vedere il volto sereno di Grisha Jaeger apparire tra la folla pochi minuti dopo.


'Ragazzi, che fate qua seduti? I giovani come voi dovrebbero divertirsi.', esclamò raggiante.

Eren borbottò qualcosa, Mikasa rimase in silenzio – la sua espressione quasi omicida parlava per lei, Armin osservò Grisha Jaeger con rinnovato interesse.

'Ho come l'impressione che ce ne andremo presto.', sospirò Armin. 'Non siamo esattamente in vena di festeggiamenti.'

L'espressione di Grisha si fece preoccupata. 'È successo qualcosa?'

Armin soppesò le parole. 'Nulla di che. Solo la possibilità che un nostro amico si sia cacciato nei guai.'

'Capisco. Beh, io ho un appuntamento con un caro amico, tra poco.', il dottor Jaeger sfilò una maschera da sotto il mantello e se la portò al volto.

Armin lo osservò. 'Dottor Jaeger, la vostra maschera...è storta. Permettete?'

'Cos...oh, certo.'

Armin si alzò e con mani abili sistemò il laccio dietro al capo di Grisha Jaeger. Quegli gli sorrise e salutò, perdendosi tra la folla.

Armin si voltò; sia Eren e Mikasa lo osservavano preoccupati.

Armin alzò verso i suoi compagni le dita che avevano sfiorato capo e guancia di Grisha Jager nel sistemare la sua maschera sul volto; come aveva previsto, erano sporche di sangue. Sangue fresco.

Mikasa rimase impassibile, fredda; gli occhi di Eren si aprirono in un'espressione di puro orrore.

'Cosa diavolo...?'

'Eren Jaeger?', mormorò una voce tranquilla da dietro le spalle di Eren. Il ragazzo si voltò: c'era un uomo, notevolmente più alto di chiunque Eren conoscesse, il volto coperto da una maschera dorata. Scostò il mantello con disinvoltura, mostrando contemporaneamente l'elsa di uno spadino e lo stemma della guardia cittadina.

'...Sì?', rispose Eren.

'Sono il Comandante Erwin Smith. È il caso che voi e i vostri amici mi seguiate. Senza fare resistenza.'

Armin deglutì, nervoso; Mikasa strinse i pugni. Eren si limitò ad annuire.

'Posso sapere dove avete intenzione di accompagnarci, signore?'

Un sorriso inquietante si fece largo sul suo volto. 'Soltanto a farvi alcune domande. Ma quello non è compito mio. Il Francese muore dalla voglia di vedervi.'

Allontanandosi dalla piazza dietro la figura imponente e autoritaria del comandante Smith, Armin non potè fare a meno di sentirsi osservato.

Una cinquantina di metri dietro di lui, Annie Leonhardt cominciò a correre in direzione del palazzo più vicino su cui fosse possibile arrampicarsi. Aveva una preda da seguire.


*

*

*

[Qualche ora dopo]


Tornare a guardarsi senza arrossire o voltare lo sguardo fu un'impresa in cui non riuscirono completamente, neanche quando si appoggiarono al tavolo in cui Marco aveva raccolto le sue mappe, schemi e appunti.

'Questi a che servono?', chiese Jean.

L'indice di Marco si posò su una mappa ritraente la Serenissima; alcuni punti erano indicati con una 'x'. 'Non sono mai stato reso partecipe dei piani di Grisha Jaeger; so che il suo obiettivo riguarda quella che lui definisce 'La Morte di Venezia', e so che ha amici potenti che lo aiutano in tutte le parti d'Italia, e anche nel resto d'Europa.'

'Significa che intende scappare, no?'

Marco annuì. 'Esatto. Il titanio modificato ha un periodo d'incubazione di cinque anni, così ci è stato detto, ma non credo che neanche Grisha Jaeger sappia effettivamente cosa succederà terminato il periodo d'incubazione. E siamo in troppi pochi...'

Jean si grattò il mento, pensieroso. 'Aaaaah, questo piano sembra far acqua da tutte le parti.'

'In effetti sì. Ma credo che ci sia un'arma nascosta da qualche parte in uno di questi posti, che Grisha Jaeger intende avviare in caso di fallimento.'

'Che genere di arma?'

'Non lo so.'

'Marco.', mormorò Jean, pensoso. '...Perchè siete così pochi?'

La guancia di Marco assunse una colorazione rossastra. 'Ah, io...ecco...il titanio modificato non reagisce bene a chiunque.'

Ci volle un momento perchè Jean realizzasse; impallidì improvvisamente, poi divenne rosso di rabbia. Fece il giro del tavolo fino a raggiungere Marco, che indietreggiò, e gli puntò un dito contro il petto.


'Tu...tu...non posso credere che tu l'abbia fatto!', esclamò furioso.

'Era l'unico modo!'

'Potevi non ammazzarmi!'

'Non controllo il mio corpo in quelle occasioni, te l'ho già detto!', ribattè Marco. 'Cosa volevi che facessi, che ti lasciassi morire?'

'Sempre meglio che assicurarmi una morte lunga e dolorosa, perchè è di questo che si tratta, no?'

Marco scosse la testa. 'Non ne ho idea. Sono stato l'ultimo esperimento di Grisha Jaeger. Non ho mai saputo cosa fosse stato degli altri.'

Jean aprì la bocca per dire qualcosa, ma si bloccò subito dopo; si voltò, diede un calcio alla sedia di Marco e si buttò giù per terra, le mani incrociate appoggiate al collo. Scosse la testa.


'Mi dispiace.', mormorò.

'No, hai...tutti i motivi del mondo per comportarti così.'

Jean sospirò. 'Mi manca Armin. Lui saprebbe cosa fare.' alzò la testa. 'Il periodo di incubazione di cinque anni. Suppongo sia quasi terminato, se siete in giro a fare danni.'

Marco annuì. 'Ecco...a dire il vero, la scadenza è prevista per domani.'

Jean strabuzzò gli occhi. 'Dimmi che scherzi.'

'Vorrei tanto.'

Jean alzò le mani al cielo, agitandole e stringendo i denti, come per sfogare tutta la frustrazione, poi si strofinò la faccia, stanco. 'Dio santo. Che situazione. Che facciamo?'

'Semplice. Ci posizioniamo il più vicino possibile a dove credo sia nascosta l'arma segreta di Jaeger e aspettiamo.'

Jean annuì distrattamente. 'E se...e se mi attaccassi?'

Marco sorrise amaramente. 'Temo dovrai cavartela da solo.'

Jean si alzò da terra e si spolverò i pantaloni. Si sentiva stanco e spossato da tutte quelle emozioni. 'E dove sarebbe quest'arma?'

Marco indicò il punto sulla mappa. Jean lo osservò bene, alzò la mappa e se la portò vicina al volto, come a volersi accertare di ciò che Marco stava indicando.


'Ha senso.', sorrise. 'Maledetto bastardo vanaglorioso...'

'Lo conosci?'

Jean alzò lo sguardo dalla mappa. Marco era accanto a lui, e il solo sentire il suo fianco contro il proprio, il solo vederlo lì accanto a sé gli ricordò quanto fosse fortunato. Sorrise.


'Altrochè se lo conosco. Ma prima di andare lì dobbiamo passare a prendere un paio di persone.'


*

*

*


Christa sobbalzò, quando una mano possente bussò alla porta, la mattina dopo.


'Ymir...', sussurrò, stringendo il coltello che aveva in mano.

'Ci sono.', rispose Ymir, estraendo un pugnale dalla cintura. Connie afferrò un bastone dall'aria pesante e Sasha il cuscino. Connie la guardò perplesso.

'Glielo buttiamo addosso appena entra.', spiegò lei soddisfatta. Connie alzò le spalle e si concentrò sulla porta.

Christa avanzò verso la porta brandendo il coltello; la aprì di scatto e si fece indietro. Sasha gettò il cuscino, urlando, mentre Connie si gettava addosso al nuovo arrivato. Ymir ritirò il coltello sospirando.


'Ahi...azz...Connie, piantala! Sono io, Jean!'

'Jean?!' Sasha si precipitò verso di lui e gli tolse la maschera dal volto. 'Oddio...oddio, Jean, sei vivo!'

'Come corrono in fretta le voc...ouff!' Sasha lo stava stritolando di gioia. Jean le carezzò i capelli, intenerito.

'Entrate, svelti. Idioti...' mormorò Ymir. Non fu sorpresa di vedere un uomo seguire Jean dentro la stanza. Sorrise sardonicamente.

'Avvisa, la prossima volta che passa. Stavo quasi cominciando a preoccuparmi di aver perso il fiuto per i nascondigli.'

Marco scostò la maschera dal volto. 'Sai benissimo che non c'è nulla che Venezia possa nascondere a una Maschera.'


Il silenzio cadde nella stanza mentre gli sguardi dei presenti si posavano sul volto di Marco; Connie si portò le mani alla bocca e iniziò a singhiozzare, mentre Sasha rimase a fissarlo agghiacciata. Christa si avvicinò a Ymir in cerca di conforto.


'Mi dispiace.' mormorò Marco, mortificato. 'Me...me ne vado.'


Si voltò, e fu allora che Connie corse ad abbracciarlo, seguito a ruota da Sasha.


'Troppe emozioni in un giorno solo, scusate.', sbuffò Connie, asciugandosi le lacrime. 'Marco, non riesco a credere che tu sia vivo. Oddio... ora dovrò chiedere a te il permesso per sposare Sasha?'

'Ancora con questa storia?!'


Marco scoppiò a ridere di gusto, ricambiando l'abbraccio di Connie col braccio buono. Ymir gettò un'occhiata a Jean, in piedi poco distante da dove si trovavano lei e Christa, sul volto un'espressione pensierosa.


'Che ti passa per la testa, ragazzino?' esclamò, ridendo. A dispetto di ciò che Ymir credeva avrebbe risposto, Jean abbassò la testa, pensieroso.

'Dobbiamo muoverci.' disse soltanto. Ymir annuì.

'Capisco.'

'E comunque...', e per un attimo Jean sembrò di nuovo il ragazzino che avrebbe dovuto essere. '...non lo vedevo ridere a quel modo da almeno cinque anni.'

Ymir sorrise.


*


Jean si avvicinò ad Armin appena questi uscì dalla libreria.


'Continua a camminare.' sussurrò, posizionandosi accanto a lui. 'Come stai?'

'Io... non proprio bene.' Armin deglutì a fatica. 'Com'è andata alla fine?'

'Oh, bene. Benissimo. Mi hanno ammazzato, gettato in mezzo ai cadaveri, sono resuscitato e così il mio migliore amico di quando avevo dieci anni...roba di tutti i giorni, no? Continua a camminare, Armin!'

Armin accellerò il passo; era rimasto indietro a 'resuscitato'. 'Cos...Jean! Che diavolo stai dicendo?'

'La verità. E sai l'altra cosa? Ad ammazzarmi è stato...'

'Grisha Jaeger.'

Questa volta fu Jean a rimanere indietro; si fermò del tutto, anzi. Armin si voltò verso di lui.


'Ieri sera lo abbiamo incontrato in piazza San Marco. Era sporco di sangue.' Armin abbassò la testa. 'Non riesco a credere a ciò che sono venuto a sapere nelle ultime ore. Non me ne capacito.'

'Cos...cosa sei venuto a sapere nelle ultime ore?' balbettò Jean.

Armin alzò lo sguardo verso di lui; Jean si sentì trafiggere dalla sincerità di quegli occhi. 'Mi dispiace, Jean.'


Ci fu un rumore secco; Jean si voltò, in tempo per schivare una freccia diretta verso di lui, partita da una balestra. Chi l'aveva lanciata era una donna, corti capelli castani, in piedi dietro di lui.

'Scusa, ragazzino, ma tu vieni con noi.', esclamò, ridendo.

'Armin!' ruggì Jean. 'Maledetto traditore!'

'Hanno preso Eren!' si giustificò lui, urlando. 'Lo avrebbero ucciso! Non avevo scelta!'

E Jean seppe che era vero, e che al suo posto avrebbe fatto la stessa cosa. Si concentrò sulla donna, che in quel momento stava ricaricando e prendendo la mira verso la sua spalla.

Un uomo saltò giù da un tetto e si pose tra lei e Jean, alzando le mani.

'Suvvia, Zoe, che modi. Noi vogliamo solo parlare col nostro amico, non è così?'

'Non mi pare proprio.' sbottò Jean, 'E non sono vostro amico.'

L'uomo si voltò verso di lui e abbassò le mani, rivolgendone una nella sua direzione. 'Permettimi di presentarmi. Erwin Smith, comandante della Guardia Cittadina. E prima che tu possa fare altri passi falsi, sappi che abbiamo in custodia non solo il ragazzo Jaeger, ma anche la banda di ragazzini che si è divertita a farci saltare in aria un palazzo qui a Dorsoduro, l'altro giorno. Sai di chi parlo, non è così?'

Jean abbassò la spada che aveva estratto, digrignando i denti. '...Cosa volete?'


A un cenno del comandante, una decina di uomini scesero dai tetti. Tra loro c'era Rivaille, che non smise per un attimo di guardare Jean con un'espressione di puro disgusto. La donna chiamata Zoe si fece avanti, senza abbassare la balestra.

'Conoscere l'ubicazione dell'uomo chiamato la Maschera.' rispose Erwin Smith. 'Abbiamo ragione di credere che questi sia implicato in un piano per far cadere la Serenissima Repubblica di Venezia. Dev'essere giustiziato.'






Dopo ben 9 capitoli, credo sia arrivato per me il momento di ammettere il mio fallimento come autrice. VeMaV è una storia che io mi limito a scrivere: l'avete creata voi, col vostro affetto, le vostre recensioni, le vostre aspettative e l'entusiasmo che mettete in ogni visualizzazione. Non sono mai stata così orgogliosa di me stessa, o lo sono stata raramente; voi accrescete il mio spirito e di questo sono grata ogni secondo.

Il finale della storia si avvicina, certi personaggi entrano in scena, rientrano o scompaiono, ma non temete: nessuno verrà lasciato a se stesso. Non riesco a credere di star gestendo così tanta gente contemporaneamente, e mi chiedo se sto rendendo giustizia a chiunque; ci provo, se non altro.

Ragazzi, se non ve la sentite di recensire, sappiate che non me la prenderò; ma se avete voglia di buttare un pensiero a riguardo, hashtaggate #VeMaV su Tumblr o scrivetemi su Facebook. Il mio pensiero di estrema gratitudine e affetto va a chi lo ha fatto, perchè nulla è più soddisfacente di 'BASTARDA COME HAI POTUTO UCCIDERE MARCO MI E' VENUTO UN INFARTO!', credetemi. <3

Come sempre, vi amo. Smetterò mai di farlo? No. <3

Sono la vostra maledizione.

Al prossimo capitolo,

- Joice

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Capitolo 10
*** X - Umanità ***


Vita e Morte a Venezia



A poche centinaia di metri di distanza, Marco iniziò a tossire.

'Tutto a posto?' si fece avanti Christa, preoccupata. Marco alzò una mano.

'Tutto bene.' la assicurò, asciugandosi furtivamente il muso. 'Torno subito.'

Si sistemò la Maschera sul volto, alzò il cappuccio e si incamminò verso il palazzo lì vicino; da quando si era mostrato a Jean, la notte prima, era come se portare la maschera che tanto gli era stata cara e familiare fosse più un peso che un sollievo, un modo per nascondersi al mondo.

Guardandosi intorno per accertarsi che nessuno lo stesse osservando, si infilò in un vicolo e saltò agile tra una finestra e l'altra, fino ad arrivare al tetto.

Ymir era in piedi sul ciglio del tetto, pronta a scattare, la personificazione del proprio soprannome; Sasha era poco dietro di lei, l'arco incoccato. Un moto di orgoglio aveva invaso Marco, vedendo come Sasha e Connie erano cresciuti, maturati e migliorati in ciò che da bambini erano a malapena in grado di fare.

'Notizie?' chiese, abbassando il cappuccio.

'Ancora nulla.' Ymir scosse la testa. 'Non mi piace questa situazione. L'idea di dividerci mi pareva pessima fin dall'inizio.'

Neanche a volerle dare ragione, in quel momento videro arrivare Connie di corsa; raggiunse Christa e le riferì qualcosa, agitato. Discretamente, Christa fece cenno a Ymir di scendere.


'Jean!', esclamò Connie, quando furono abbastanza vicini da sentirlo. 'Lo ha preso il Francese, insieme a una donna coi capelli castani e a un uomo alto e biondo! Lo stanno portando via! Era una trappola!'

'...una donna coi capelli castani e un uomo alto e biondo?' Ymir si voltò verso Marco. 'Hanji Zoe e il Comandante?'

'Probabile.' concordò Marco, pensieroso. 'Non capisco... perchè il Comandante dovrebbe prendere in custodia Jean? È a me che puntano.'

'Ed è te che avranno, Fantasma. Non pensarci nemmeno, di andare a buttarti lì in mezzo.' esclamò Ymir irritata. Marco rimase in silenzio, incupendosi dietro la maschera.

'Armin è andato con loro.' continuò Connie. 'Parlava di Eren. Possibile che lo abbiano preso? Per cosa, poi?'

'Per attirare Jaeger in trappola. E per mettere Armin in una posizione scomoda. Non può abbandonare Eren, no? Sono amici.' riflettè Christa. 'Il comandante gioca sporco. Tiene tra le mani carte che possono servire ad altri giocatori. Che facciamo?'

Marco tossì nuovamente. Seguirono infiniti attimi di silenzio, poi Sasha parlò.

'Scusate...' mormorò. 'Ma se Eren è in mano alla guardia cittadina e Armin è con Jean, Mikasa dov'è?'


*


Mikasa Ackermann sentiva di essere nata per la caccia. Al diavolo i costumi e le buone maniere; se era per la giusta causa, non si sarebbe tirata indietro nel menare le mani. Nemmeno contro un individuo inquietante come il Francese.

Abbiamo un conto in sospeso io e te, pigmeo, pensò, lanciandosi tra un tetto e l'altro e ricordando il modo in cui il Francese aveva malmenato Eren, quel giorno in piazza, dopo la rissa con Jean. Non era presente la sera prima, quando il comandante Erwin Smith aveva dichiarato lei ed Eren in arresto per cospirazione contro la Repubblica, ma sapeva che se anche il Francese fosse stato lì in quel momento sarebbe comunque riuscita a sfuggirgli.

(fottuto nano)


E ora seguiva Armin e Jean dritto dritto da Eren, ripensando alle parole del comandante, alle sue spiegazioni in merito ai crimini di cui Grisha Jaeger era colpevole.

Mikasa non si era mai affezionata troppo al patrigno; le era grata per essersi preso cura di lei, ma nulla di più. C'era sempre stato un alone di misteriosa superiorità attorno a Grisha Jaeger, e i suoi sorrisi le davano il voltastomaco. Senza contare che, se non fosse stato per portare a Grisha ciò di cui aveva avuto bisogno cinque anni prima, i suoi genitori non si sarebbero mai ammalati di peste, né sarebbero mai morti.

Ma Eren...Eren era sconvolto, paralizzato dall'idea che l'uomo che era stato il suo universo dopo la morte della madre potesse essere un cospiratore e un assassino. Si era messo a urlare, erano quasi arrivati alle mani quando aveva chiesto – no, ordinato a lei e Armin di scappare. Lo avevano fatto a malincuore, voltandosi e rivoltandosi, pregando che nulla di male potesse succedergli, come il comandante aveva promesso loro. Mikasa aveva pianto per la prima volta dalla morte di sua madre.

Stava andando a riprenderselo, consapevole che il proprio patrigno li aveva in qualche modo ingannati tutti, curiosa di conoscere la reale posizione della guardia cittadina e del Senato in merito agli esperimenti di Grisha Jaeger.

Con la coda dell'occhio vide il drappello composto dal comandante Erwin e i suoi svoltare verso il sestiere di San Marco.

Portò lo sguardo davanti al drappello, in tempo per vedere, fermo su un ponte che il comandante e i suoi sarebbero stati costretti a oltrepassare, un ragazzo alto, coi capelli scuri.

Aveva l'impressione di averlo già visto; ma dove? E perchè se ne stava fermo in mezzo al ponte?

Il comandante Erwin urlò qualcosa nella sua direzione, chiedendogli di spostarsi.

Il ragazzo alzò un piede.

Mikasa si fermò all'improvviso; ricordava quel volto. Lo aveva già visto prima, da qualche parte, in piedi dietro a Grisha Jaeger. Molto tempo prima.


'ARMIN! JEAN! ANDATEVENE!'


Il ragazzo abbassò il piede a terra; crepe si dipanarono nel punto in cui si era appoggiato, e la terra iniziò a tremare. Mikasa perse l'equilibrio e rotolò giù dal tetto, riuscendo ad aggrapparsi alla grondaia per un soffio. Si lasciò scappare una bestemmia quando vide lo spadino che impugnava poco prima cadere fuori dalla sua portata.

Ebbe la fugace visione del ponte su cui il ragazzo stazionava a pezzi, di pezzi di marmo immersi nel canale, di soldati che annaspavano, cercando di tornare in superficie. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere, pregando sottovoce.

Atterrò di schiena. Aprì gli occhi, ringraziando il cielo che la caduta non fosse stata fatale, né l'avesse ferita. Si rimise in piedi e si guardò attorno alla ricerca di Armin e Jean, e di un'arma. La gente iniziava a riversarsi nelle strade, spaventata.

Individuò una spada abbandonata a qualche metro di distanza; si precipitò a raggiungerla.

La sua mano e quella di qualcun altro si posarono contemporaneamente sull'elsa della spada; alzò lo sguardo, ritrovandosi faccia a faccia con l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.

...beh, quasi l'ultima.


'Vous! Diable d'une petite fille!' esclamò il Francese. 'Ne prenez pas cette épée, fuir, c'est dangereux!'


Mikasa ebbe l'impressione che il Francese le stesse suggerendo di scappare. Gli rivolse una smorfia di diniego e strappò la spada da terra, correndo via. Il Francese la raggiunse in fretta, afferrandola per un braccio e strattonandola indietro.

'Dico sul serio, ragazza, fermati ! Là dentro è l'inferno, dammi quella spada !'

Mikasa lo guardò qualche secondo, gli occhi sbarrati dall'orrore. Lentamente, gli porse la spada. 'Armin e Jean sono lì dentro.'

'Lo so.' rispose il Francese, afferrando la spada e sistemandosi il cravattino al collo. 'Fermare questo abominio e trovare la Maschera è comunque la mia priorità. Se proprio vuoi renderti utile, allontana i civili dalla zona.'

Mikasa annuì fermamente. Si guardarono un'ultima volta, poi ognuno di loro andò ad eseguire il compito che si era prefissato.


*

*

*


'Mi dispiace.' gli aveva sussurrato Armin, avvicinandosi. Jean aveva scosso la testa.

'Tutto a posto. Ma se sperano che gli dica dove'è Marco si sbagliano di grosso.'

'Marco ? Che stai dicendo ?'

Jean aveva guardato Armin con gli occhi spalancati, portandosi un indice alla bocca a fatica – le mani erano legate da un nodo stretto - e facendogli cenno di avvicinarsi.

'La Maschera. L'uomo che cercano. Ricordi Marco ?

'Marco è mor...'

'Armin, concentrati. Ricordi Marco ?

E Armin si era concentrato, pensando per la prima volta al ragazzino chiamato Marco Bodt dopo anni ; era stato come essere colpiti in pieno da una trave : frammenti di ricordi, preoccupazioni e idee erano affiorati nella sua mente. Si era voltato verso Jean.


'Marco...' aveva mormorato. 'Che fine ha fatto ? Perchè è scomparso ?'

'Grisha Jaeger lo ha ucciso. Il padre di Eren.' Jean aveva evitato di proseguire il discorso, in parte perchè la sola idea di parlare di Grisha lo disgustava, in parte perchè la donna con la balestra aveva iniziato a fissarli in maniera inquietante.

'Chi è la tizia stramba con la mira scarsa?'

Armin aveva dato un'occhiata alla direzione indicata da Jean. 'Caporale Hanji Zoe. Ieri sera, quando il comandante ci ha preso in disparte per parlarci, lei era lì.'

'Una donna nella guardia cittadina ?'

'Pare che il Francese le debba un favore in particolare, e che si sia fatta valere per le sue doti mediche.'aveva spiegato Armin. 'Credono che il dottor Jaeger abbia inventato una formula per mantenere le persone in vita e cose così. Lei intende studiarlo.' Armin aveva guardato Jean, che era impallidito visibilmente. 'Jean, è così ? È davvero di questo che si tratta ?'

Jean si era guardato attorno, poi aveva rivolto ad Armin un breve cenno d'assenso. Armin si era portato e mani alla bocca.

'Biondino, guarda avanti. Rischi di inciampare.' aveva esclamato Hanji Zoe. Jean si era voltato completamente, rivolgendole un sorriso spavaldo.

'E se anche fosse, cosa potresti farmi ? Spararmi con quella bella balestrina ?'

'Non tentarmi. Ci servi vivo, anche se...'

Jean aveva aggrottato le sopracciglia. 'Anche se ?'

L'espressione di Hanji Zoe era mutata rapidamente, passando dal cordiale all'inquietante. 'Ho passato la vita a studiare ciò che hai in corpo in questo momento, ragazzo. Raccogliere il tuo sangue e analizzarlo, quella sì che sarebbe una bella idea.'

Brividi avevano scosso la sua spina dorsale. 'Non so di cosa parli ?

Il volto di Hanji Zoe era tornato ad essere quello di una donna cordiale e pacifica. 'Ma il tuo amico Maschera sì, vero ? Oh, Jean, non ingannarmi. So riconoscere il portatore di una sostanza chimica tanto letale, quando lo vedo.'

Col senno di poi, Jean si sarebbe maledetto per aver intrattenuto il Caporale Hanji Zoe in quella discussione ; se non si fosse fermata a parlare con lui, Hanji Zoe avrebbe visto il ragazzo sul ponte. Avrebbe compreso, preso in considerazione l'idea di essere caduta in trappola. Forse la vista che vantava di avere avrebbe fatto centro, e avrebbe ordinato la ritirata.

Forse il mondo intero non sarebbe crollato.

Accadde in un attimo. Il secondo prima, il comandante Smith urlava a qualcuno sul ponte davanti a loro di spostasi ; l'attimo dopo tutti loro erano caduti a terra sotto la forza del terremoto. Jean aveva avuto il tempo di vedere Armin e il caporale Zoe cadere a terra prima che il frammento di qualcosa lo colpisse alla testa, stendendolo.

(cazzo, fa male)


Aprì gli occhi su un mondo in rovina ; calcinacci riempivano le strade, tegole e mattoni sparsi ovunque. E le persone che spingevano, lo calpestavano, urlavano...


'Aaaaarmueeein.' urlò, ingoiando il sangue che era sul punto di sputare. 'AAAAARMIIIIN !'

'Jean ! Sono qui !'

Armin era a pochi metri di distanza da lui, incolume. Jean ringraziò mentalmente qualsiasi dio ci fosse da ringraziare e corse verso di lui, barcollando e inciampando ogni tanto.


'È ferita !' spiegò Armin una volta che Jean gli fu vicino, indicando il corpo inerme di Hanji Zoe. 'Jean, dobbiamo aiutarla !'

'Sì. Dobbiamo aiutarla.' mormorò Jean, non del tutto convinto. Non aveva detto di volerlo praticamente dissanguare ?

Si abbassò comunque per aiutare Armin ; ci volle un po' per mettersi in una posizione abbastanza comoda da consentire a entrambi di trasportarla, specie considerata la differenza d'altezza che c'era tra i due, ma riuscirono a sfuggire al caos in un tempo relativamente breve. Jean non ebbe il tempo di accasciarsi a terra : una mano lo afferrò per la camicia, prepotente e in qualche modo perfino familiare.

'Dov'è il comandante ?' chiese inquisitorio il Francese, spada alla mano. Jean scosse la testa, incapace di formulare una frase di senso compiuto, figuriamoci una risposta sarcastica. Ansimando, indicò il corpo di Zoe, di cui Armin si stava minuziosamente prendendo cura, tastandone le pulsazioni. Il Francese sbuffò.

'Ve ne devo una. Un seul.' fece per correre verso il ponte, completamente distrutto, ma si fermò un momento. 'Una ragazza ha chiesto di voi. Capelli corti, neri. Orientale.'

Mikasa è qui, pensò Jean. 'Come sta ?'

Il Francese si voltò un'ultima volta. 'Cette fille ne pouvait pas être tué, même par le diable. Cela me rappelle de moi.'

Jean lo guardò interrogativo, ma il Francese se n'era già andato. Scosse la testa e si alzò per raggiungere Armin. Si voltò.

Davanti a lui era fermo un ragazzo alto, con corti capelli neri e un'espressione terribilmente addolorata in volto. Pensieri affollarono la mente di Jean.

(Il ragazzo della locanda dello Zudeo)

(Conosce Ymir)

(E' UNO DI LORO)


Cercò di allontanarsi, ma era troppo tardi ; il braccio forte, allenato e disumanamente potente si strinse attorno al suo collo come un cappio. Jean sentì l'aria mancargli ed iniziò ad annaspare, agitandosi nella stretta dello sconosciuto.


'Il comandante Smith è morto. Del Francese si occuperà Annie. Raggiungiamo gli altri tuoi amici, ti va ?'


Stava sorridendo, il bastardo ? Jean smise di agitarsi, senza forze. Sentiva l'odio montargli dentro.

Odio per Grisha Jaeger.

Odio per se stesso, la sua debolezza.

Odio per Marco.

No, quello mai.

Chiuse lentamente gli occhi.

(Marco...)


Ebbe l'impressione che la stretta attorno al suo collo si fosse allentata di colpo ; ma non ebbe la possibilità di controllare. Quando successe, i suoi occhi erano già chiusi, la sua mente già distante.


*

*

*


Marco iniziò a tossire sempre più forte, con maggiore frequenza. Christa lanciava ad Ymir occhiate di sincera preoccupazione, e si fermava ad assisterlo nonostante lui le ripetesse di non aver bisogno d'aiuto.

'Davvero...cough ! È tutto a posto.' le disse per l'ennesima volta. Christa alzò lo sguardo da Marco a Ymir.

'Yyyym...' mormorò. Ymir alzò gli occhi al cielo, fece cenno agli altri di fermarsi e tornò indietro, verso Christa e Marco. Alzò la gamba e tirò a Marco un calcio dritto sul petto, sotto lo sguardo orripilato di tutti gli altri. Marco non si mosse di un millimetro. Ymir lo afferrò per il bavero della cappa.

'Se ti faccio quello è tutto a posto, ma un po' di tosse ti rallenta addirittura ? Avanti, Fantasma, non siamo tutti idioti qui. Che diavolo sta succedendo ?'


Lo sguardo che Marco le rivolse le fece quasi venire voglia di ritirare il tutto e farsi indietro, e non era una sensazione che Ymir fosse abituata a provare ; ma l'unico occhio che Marco possedesse era tanto pregno di paura e orrore che Ymir lasciò andare istintivamente la presa.

Un attimo prima che Marco tossisse nuovamente, sputando una consistente quantità di sangue.


'Ma che cazzo... ?!' sentì esclamare a Connie. Marco tornò a tossire, sempre più debolmente. Si accasciò contro il muro.

'È inutile.' mormorò. 'Non posso...andate. Vi prego. Andate..'

'Noi non andiamo da nessuna cazzo di parte, Marco, almeno finchè non spieghi cosa sta succe...'

La terra tremò sotto i loro piedi ; Ymir cadde e sbattè le ginocchia contro la strada. Una fitta di dolore le percorse la spina dorsale, mozzandole il fiato.


'Historiaaa...' urlò, poggiando i gomiti a terra e cercando di rialzarsi. 'His...Historia...'


Mani delicate e forti si posarono sotto le sue braccia ; alzò il volto a fatica. Christa era di fronte a lei, il volto ricoperto di sangue.


(la mia Christa, la mia Historia, la mia principessa)


'Ymir... Marco...'

Non fece in tempo a terminare la frase. Accanto a loro, qualcuno urlò, un urlo che non aveva nulla di umano, che lacerava i sensi. Voltandosi, Ymir sapeva che ciò che avrebbe visto avrebbe messo in secondo piano la presenza di gente che correva verso l'epicentro, sapeva che l'avrebbe messa in posizione di dover proteggere Historia, Connie e Sasha e chiunque altro. Ma sapeva anche di doverlo all'uomo chiamato la Maschera, l'uomo che per primo l'aveva avvicinata chiedendole se desiderasse rivedere il suo angelo e che l'aveva ricondotta da lei.

Non c'era nulla che ricordasse Marco nell'espressione di folle terrore che sfigurava il suo volto ; nulla, nella bocca aperta e congelata nell'attimo in cui aveva urlato di dolore, nè nell'occhio sbarrato, che andava arrossandosi sempre più rapidamente. Ymir sentì Historia tirarla indietro, implorarla di andarsene, ma non riusciva a muoversi, nè a parlare.

E poi Sasha si avvicinò a Marco, la faccia sconvolta dalla paura, e provò a sfiorarlo. E lui si voltò.

I nervi del collo erano tesi, i movimenti simili a quelli di un animale pronto a cacciare. L'unico occhio sano era rosso, e venuzze grigie attraversavano l'intero volto.

Per un secondo, un lungo, infinito secondo, Ymir fu certa che Sasha sarebbe morta lì, uccisa dall'essere che Marco era diventato – l'esperimento finale di Grisha Jaeger, la sua più grande ambizione.

Fu sul punto di alzarsi e correre verso Sasha,


(stupida ragazzina)


poi però accadde qualcosa di inaspettato. Marco si alzò in piedi e allontanò Sasha con la mano buona, spingendola cautamente via dalla propria strada. Si voltò verso Ymir e la fissò. Gocce di sangue cadevano dai suoi occhi, simili a lacrime. Ymir vide che tremava visibilmente, come se si stesse trattenendo dal fare qualcosa.

(Dall'ammazzarci tutti, probabilmente)


'Ymir...sei lì ?'

'...sì.' sussurrò.

'Io... sto morendo, Ymir. L'ho già provato una volta, so come ci si sente.', una pausa. I muscoli sembrarono sul punto di esplodere. 'C'è una cosa che devo fare finchè ho ancora controllo del mio corpo. Promettimi che cercherai di scappare da Venezia. Porta tutti via con te. Ora so quali siano le intenzioni di Grisha Jaeger.'

Ymir annuì. Non era spaventata ; più sconvolta dalla capacità con cui Marco stava governando il proprio istinto da assassino, ciò per cui Jaeger lo aveva fatto rinascere.

'Lo farò.' promise, alzandosi in piedi ; Historia fu subito accanto a lei, pronta a sostenerla. 'Ma devi dirmi cosa Jaeger intende fare.'

Il colorito di Marco era pallido, emaciato ; sembra quasi fondersi con la parte del suo volto che era stata la Maschera. 'Farla affondare. Vuole far affondare Venezia. Distruggerne le fondamenta. Cancellarla dalla superficie. Ucciderne gli abitanti...'

Le dita di Historia si erano strette attorno alla sua. Marco aveva portato la mano tremante alla spada al suo fianco e l'aveva estratta.


'Devo...proteggerlo.'

Lo sguardo di Ymir si era posata sul capo di Historia. 'Sì. Lo capisco.'

'Scappa.'

'Lo farò, l'ho già detto una volta. Non farmelo ripetere.'

Per un attimo, Ymir ebbe l'impressione che Marco avesse sorriso. Righe di sangue gli macchiavano il volto, rendendolo una visione più che inquietante, ma sì, c'era stato un sorriso. 'Ci vediamo all'inferno, Volpe.'

'All'inferno, Fantasma.'

Marco era corso via, a una velocità che rasentava l'impossibile ; Ymir si era voltata verso Connie e Sasha. Entrambi erano sconvolti, sporchi, sanguinanti. Il cielo sopra di loro aveva assunto una colorazione rossastra, come a voler sottolineare ulteriormente il dramma in cui si trovavano.

'Andiamocene.' mormorò. Le tremavano le ginocchia, ma mosse i primi passi sicura, motivata.

Fu allora che qualcosa la colpì allo stomaco con la forza di una decina di mattoni, togliendole il fiato e sbalzandola indietro. Ymir cadde di nuovo sulla schiena e rotolò per qualche metro, nelle orecchie l'urlo di Historia. Alzò lo sguardo in tempo per vedere qualcuno, qualcuno di grosso, correrle incontro. Fece ricorso a tutta la propria buona volontà per girare sul proprio fianco, allontanandosi dalla direzione presa dall'energumeno, che la attraversò e la superò di qualche metro prima di fermarsi.

Ymir si alzò e tirò fuori la daga che aveva al fianco, arricciando il naso.


'Adesso mi avete veramente rotto il cazzo.', borbottò, sputando sangue.


Di fronte a lei, il suo assalitore alzò la testa. Due grandi occhi ciechi, fin troppo simili a quelli di Marco, la fissavano. I corti capelli biondi che Ymir ricordava di aver visto erano quasi bianchi, ora, e il corpo era straordinariamente tozzo e grosso per un essere umano. Anche un essere umano dalla prestanza fisica di Reiner Braun.


'Fatti sotto, scimmione.' mormorò Ymir, sorridendo.

*

*

*


Stava implodendo. Pensieri, volti, formule, urla, verità : tutto nella sua testa. E davanti ai suoi occhi, un mondo colorato di rosso, rosso sangue.

(Jean)


Era l'unico pensiero che valesse la pena avere, si disse, l'unico pensiero che valesse la pena tenere saldo. Vi si aggrappò come aveva fatto in passato.

Marco non c'era più. Non c'era più da anni. Non potevano ordinargli di uccidere. Non più.


(Jean)


La gente scappava, spaventata. Come poteva dargli torto ? Si sarebbe fermato ad aiutare ognuno di loro nonostante ogni centimetro del suo corpo gli ordinasse il contrario, nonostante ogni suo senso gli imponesse di uccidere.

C'era un fattore che Grisha Jaeger non aveva considerato ; il titanio modificato era un elemento malleabile, un simbionte, un parassita in grado di donare forza e agilità...e di adattarsi ai mutamenti emotivi della persona ospite.

C'era un fattore che Grisha Jaeger non aveva considerato, e Marco stava correndo dritto dritto nella sua direzione.

Non si sentiva così libero e forte da anni.

Lo vide in lontananza calciare per sfuggire alla presa di Bertholdt ; si avvicinò rapido, più rapido di quanto avrebbe creduto possibile, e calò la spada sul braccio di Bertholdt prima di concedere a se stesso il beneficio del dubbio.

Lo aveva già fatto una volta, ma questa volta sarebbe andata diversamente.

Bertholdt urlava di dolore, ma il suo braccio stava già ricrescendo. La peculiarità donatogli dal titanio modificato, pensò Marco.

Raccolse Jean da terra e lo guardò. Aveva gli occhi chiusi, il volto sereno dei sognatori.

(Sarai la mia morte, ma morirò felice)


Rivolse a Bertholdt il sorriso più candido e aperto che gli riuscisse ; del sangue gli scivolò tra i denti.

Era un mostro, ed era libero.







Ho come l'impressione che dovrei alzare il rating a rosso ma, ehi...giudicate voi. X°

E, sì, Armin è ESATTAMENTE dove state pensando che sia. Povero cucciolo, mi occuperò di te nell'undici. Anche se forse questa frase è più preoccupante di 'lasciamolo lì dov'è' x°D

Ragazzi, che dire ? Non avrò l'occasione di aggiornare domani, probabilmente, quindi ecco a voi un buon vecchio capitolo notturno. Che se lo leggete ora addio sonno.

Tremavo, scrivendo questo capitolo ; tremo tutt'ora. Ma tutto avrà una fine. Nulla verrà lasciato al caso, credetemi. NULLA.

Nel bene e nel male.

C'è bisogno che lo ripeta ? Sì, perchè ve lo meritate, tutti voi e cinque recensori fidati che ogni tanto cambiate o vi scambiate ; tutti voi fantastici ragazzi che mi aggiungete per chiacchierare, di VeMaV, di SNK, di tutto in generale. Grazie, grazie, mille volte grazie. Per le parole. Per i disegni. Per le sensazioni.

Vi amo.

Questo capitolo è per Giulia, dolce artefice su carta delle mie fantasie, e Monica, folle e geniale come sei, e adorabile. Vi voglio bene, ve ne voglio davvero. A tutti voi.

Anzi, sapete che vi dico ? Questo capitolo è per tutti VEMAV E' PER TUTTI.

Siete meravigliosi e non finirò mai di pensarlo.

Al prossimo capitolo, ragazzi.

Manca poco ormai.

Già mi piange il cuore.

  • Joice


P.S. : Scusate i feels pesanti. <3

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Capitolo 11
*** XI - Lo so ***


Vita e Morte a Venezia



C'era qualcosa nell'aria, qualcosa a cui non erano abituati.

Armin Arlert aveva sempre ritenuto la propria esperienza noiosa, semplice, semplicemente ignorabile. Adorava vivere con suo nonno, amava le giornate trascorse con Eren e Mikasa, impazziva per la lettura, nonostante l'unica altra persona in grado di leggere che conoscesse fosse suo nonno.

Semplicemente ignorabile.

Non avrebbe mai creduto che un giorno Jean Kirschtein sarebbe entrato bruscamente nella loro vita, portando con sé un anello e la fine del mondo. E stentava a crederci anche nel momento in cui, davanti ai suoi occhi, il corpo esanime di Jean venne raccolto dal ragazzo che aveva creduto morto per cinque anni. Anche quando suddetto ragazzo tagliò via di netto il braccio del loro assalitore, e sorrise di fronte a quello spettacolo, piangendo sangue.

'M-Marco...' si ritrovò a sussurrare, sotto shock.


Marco non lo sentì, ovviamente; come avrebbe potuto, tra le urla della gente e dei soldati ancora impegnati a salvarsi? Corse via, invece, Jean stretto tra le braccia. Armin alzò una mano tremante nella sua direzione, ma la ritirò subito; qualcosa si era mosso accanto a lui.

Hanji Zoe aprì gli occhi e lo guardò, sussurrando qualcosa che Armin non potè sentire. Aveva lo sguardo di chi ha visto un fantasma.

Armin si abbassò, tendendo l'orecchio verso le sue labbra.

'Dietro di te.'

Armin si voltò di scatto. Il ragazzo alto, il fautore del disastro che li circondava, l'uomo a cui Marco aveva mozzato via il braccio, lo sovrastava.

Entrambe le braccia erano al loro posto.

Armin si abbassò a terra svelto, proteggendo Zoe d'istinto. Si rese conto che il ragazzo stava piangendo.

'Vorrei avere una scelta.' esclamò, alzando la spada. 'Mi dispiace.'

Fu allora che una lama gli spuntò dal petto, all'altezza del cuore. L'uomo la guardò, gli occhi e la bocca aperti, congelati in un'espressione di un intenso stupore. Per un attimo, un sorriso di

sollievo gli comparve sul volto; poi cadde a terra.

Mikasa era in piedi dietro di lui, l'elsa dell'arma insanguinata ancora stretta tra le mani.


'Mikasa!' urlò Armin; come risvegliandosi da una fase di trance, Mikasa alzò gli occhi verso di lui e lasciò cadere la spada. Si abbracciarono; Armin stava ancora piangendo sulla sua spalla quando lei iniziò a parlare.

'Ero solo una bambina quando i miei genitori arrivarono a Venezia per donarmi a un loro amico e collega ricercatore per degli esperimenti. C'erano altri tre ragazzini con me, nella stanza...lui era uno di loro. Ora ricordo. Mio dio, ora ricordo.'

Armin vide Hanji Zoe alzarsi in piedi. 'Non sei infetta dal titanio modificato. Sbaglio?'

Mikasa scosse la testa. 'I miei genitori morirono di peste. Grisha Jaeger si sentì tanto in colpa da decidere di prendermi in custodia.'

Zoe scosse la testa. 'Dubito che quell'uomo abbia a cuore il destino di una bambina. Probabilmente aveva piani diversi per te.'

Armin sciolse l'abbraccio con Mikasa. 'Vi sentite bene?'

Zoe sorrise. 'Magnificamente. Devo tornare al quartier generale delle guardie e fare rapporto, ora. Possiamo ancora fermarlo.'

Armin fu tentato di dirle di Marco, ma si morse la lingua. Non riusciva a fidarsi completamente di quella donna. La guardò correre via, silenzioso, ripensando alle parole di Mikasa.

'Eren è ancora in quella torre.', mormorò.

Mikasa sorrise. 'Questo è quello che credono loro.'


*


Reiner saettò in avanti, incredibilmente veloce per qualcuno della sua stazza; Ymir lo scansò nuovamente, un torero e il proprio toro, restia a combatterlo nonostante la provocazione. Doveva studiare un piano, inventarsi qualcosa. Gettarsi in avanti e attaccare sarebbe stato stupido.

'Sasha!' urlò all'improvviso. 'Ci sei?'

Con la coda dell'occhio, vide Sasha annuire, poi urlarle in risposta.

Reiner la mancò di un soffio con un cazzotto sul fianco; non combatteva armato, perchè lo avrebbe semplicemente rallentato. Ymir appoggiò la mano sul suo capo, rapida, e utilizzò la sua stessa forza per issarsi oltre lui ed atterrargli dietro.

'L'arco e le frecce, Sasha! Ci sono?'

'Sì...sì!'

Reiner rimase un attimo interdetto dalla scomparsa del proprio obiettivo, ma la reindividuò immediatamente. I suoi sensi sembravano essere quelli di un animale. Non parlava, limitandosi a fissare Ymir con occhi bianchi e ciechi.

'Devi colpirlo!'

'D-dove?'

'ABBASSATI, YM!', si intromise la voce di Historia.


Ymir seguì il consiglio, rapida, stringendo i denti; non lo avrebbe ammesso nemmeno con se stessa, ma le gambe le erano praticamente cedute. Reiner strinse i pugni e li abbassò sulla sua schiena, costringendola a terra a sputare sangue. Si tirò su a fatica, scivolando; Connie era dietro Reiner, un pugnale in mano.


'Connie, no!'


Quell'attimo di distrazione le fu fatale. Reiner le arrivò addosso con la forza di una decina di tori, aggrappandole il busto e spingendola contro il muro.

La vista le si stava annebbiando. Non andava bene, non andava bene affatto. Sentiva dolore ovunque, e aveva un'immensa voglia di accasciarsi su quel muro e svenire, ponendo fine a tutte quelle sofferenze. Non andava bene affatto, no. Lei aveva qualcuno da proteggere.

Non poteva permettersi di dormire.


'AGLI OCCHI!' urlò, raccogliendo quel poco di fiato che i polmoni fracassati le consentirono.


Vide il volto di Sasha passare dall'essere quello di una ragazzina spaventata a quello di una cacciatrice, mentre incoccava la freccia. Spinse via il braccio di Reiner, che la bloccava al muro, e si gettò di lato, ormai quasi insensibile all'urto contro la strada. Reiner si voltò e le si lanciò contro...

...e fu allora che Sasha scoccò. La freccia si infilò nell'occhio destro di Reiner, e la bestia che era stato il ragazzo urlò di dolore, afferrandone il fusto.

Ymir si ritrasse orripilata, approfittandone per respirare grandi boccate d'aria. Reiner urlò nuovamente, mentre la seconda freccia che Ymir non aveva chiesto colpiva l'occhio sinitro. Persino i suoi versi di dolore erano più simili a quelli che può emettere un orso o un lupo che a quelli di un essere umano.

'Sasha, fermati!' urlò Connie, da qualche parte.


Sasha abbassò l'arco, una terza freccia già incoccata. Sul volto aveva un'espressione di intenso dolore, come se tutto l'orrore del mondo si fosse mostrato ai suoi occhi all'improvviso. Ymir la guardò mormorare qualcosa.


'Questo è per Marco.'

L'arco si alzò e la freccia corse rapida verso il collo di Reiner. Le urla del mostro si interruppero di botto, mentre collassava in silenzio, a terra.

Per un po' l'unica cosa che fu possibile udire, oltre alle urla dei passanti, fu il respiro affannato di Ymir. Si alzò in piedi, presto sostenuta da Connie, che le corse incontro gettando a terra l'arma.


'Sei conciata male.' constatò.

'Andiamocene.' borbottò lei.


Dita fredde come il soffio della morte si strinsero attorno alla sua caviglia.

Prima che potesse rendersene conto, la sua testa aveva picchiato contro il terreno, stordendola. Sentì Connie urlare, Sasha gridare aiuto, poi un urlo isterico, una dolce voce familiare resa folle dalla rabbia. La presa di Reiner si allentò e Ymir, semi incosciente, si voltò.

C'era Christa, in piedi sul cadavere di ciò che Reiner era stato; aveva un pugnale in mano, insanguinato fino all'elsa. Reiner mosse un braccio, e lei alzò entrambe le mani e conficcò nuovamente il pugnale nella sua schiena, ripetutamente.

Gettò il pugnale a terra e si voltò a guardarla. Il suo candido volto da angelo era sporco di sangue, gli occhi sbarrati dal terrore.

Ymir svenne.


*


'Il Caporale Rivaille rientra! Il Caporale Rivaille rientra!'

'Dio, fate tacere quell'idiota.' esclamò Rivaille, fermandosi nel cortile. Una donna gli corse incontro. Riconobbe con una smorfia i capelli cenere e lo sguardo duro di Rico Brzenska.

'Rapporto.' richiese, secca. Rivaille si voltò verso il proprio cavallo e ne tirò giù qualcosa, che porse a Rico.

'Il Comandante è morto. Questo è ciò che sono riuscito a recuperare.'

Il volto di Rico si trasformò in un'espressione d'orrore; lasciò cadere ciò che Rivaille le aveva consegnato, portando le mani alla bocca. 'Starai scherzando! Un braccio, Francese? Un braccio?!'

'Va a chiamare Pixis, Brzenska. Non ho tempo per i tuoi attacchi isterici da primadonna.'

Rico ingoiò una risposta saccente, voltando le spalle al Francese e rientrando nella caserma per cercare Pixis, il secondo in comando della guardia cittadina. Rivaille si concesse un attimo di pausa, respirando a fatica. Uscire dall'inferno scatenatosi poco prima era stata un'impresa, e doveva ancora riprendersi del tutto dall'idea che Erwin fosse morto.

Guardò la caserma; Pixis camminava verso di lui, tranquillo. Lo salutò con un cenno della testa.


'Dovremmo pensare ai civili, Caporale. Possibile che ci stiate procurando una preoccupazione in più?'

'Erwin è morto, nel caso quell'angioletto con la gonorrea del tuo secondo si sia dimenticato di riferire.' sbruffò Rivaille. 'Che ne è della famiglia del doge?'

'Se ne sta occupando Nile. Dov'è la Maschera, Rivaille? Dov'è Grisha Jaeger?'

Rivaille fece una smorfia stizzito. 'In giro a divertirsi, a giudicare dal terremoto. Non abbiamo il minimo indizio su dove sia, Pixis. Niente di niente. Devo vedere il ragazzo Jaeger.'

Fece per oltrepassarlo, ma Pixis lo fermò; era sul punto di tirare fuori la spada e chiedergli di spostarsi con tutta la gentilezza di cui non era capace, quando un urlo li fece voltare entrambi.

'Il Caporale Zoe rientra! Il Caporale Zoe rientra!'

'Hanji.' sussurrò Rivaille, affrettandosi verso l'entrata.


Hanji era conciata male, ma il suo volto era eccitato, illuminato. Rivaille la sostenne prima che lei potesse gettarsi a terra a prendere fiato.


'L'attentatore...morto.' annunciò. 'Ucciso. Dobbiamo trovare gli altri.'

'Tu non vai da nessuna parte, idiota. Me ne occupo io.'

Hanji scosse la testa. 'Abbiamo bisogno dell'aiuto di tutti. Dov'è il ragazzo Jaeger?'

'E' quello che stavo cercando di capire anch'io.' mormorò Rivaille, infastidito.

Pixis li guardò entrambi con la solita flemma. 'Il ragazzo Jaeger è scappato, Rivaille. Ed ecco perchè il mio secondo ti è apparso particolarmente innervosito. Quei diavoli di ragazzini hanno fatto una breccia nelle mura e si sono lanciati di sotto. E sono sopravvissuti!'

Rivaille sgranò gli occhi. 'Je vais tou vou teur.' sillabò, alzandosi e fronteggiando Pixis. 'Come diavolo fate ad essere dei tali incompententi? Zoe!' Hanji si alzò, spolverandosi di dosso la polvere. 'Prendi gli uomini che ti servono e va a cercare Jaeger. E Jaeger padre, se ti riesce. E portameli. Vivi.'

Hanji annuì. Pixis alzò un sopracciglio in direzione di Rivaille.

'Cosa pensi di fare, caporale? Devo ricordarti chi è il tuo comandante, al momento?'

'Nessuno.'


Un sorriso percorse il viso di Rivaille. Tutti i presenti, Pixis compreso, tremarono impercettibilmente.

In dieci anni di servizio, non era mai accaduto che il Francese sorridesse. Slacciò la cappa e la consegnò a Pixis.


'Erwin è morto, e voi siete solo degli idioti. Me ne vado.'


*


La prima cosa che vide, aprendo gli occhi, fu un immenso bianco. Solo bianco.

Jean sbattè più volte le palpebre,


(sono morto? Di nuovo?)

prima di rendersi conto che quella che stava osservando era la cupola di una chiesa e non la porta del paradiso.

Gli ultimi ricordi prima di perdere coscienza gli tornarono in mente, colpendolo come un pugno allo stomaco; si alzò di scatto, guardandosi intorno. Non c'era traccia dell'energumeno che lo aveva soffocato, né di nessun altro. Si alzò in piedi a fatica, passeggiando in mezzo alla navata.

Ma, sì, qualcuno c'era; in ginocchio di fronte all'altare, impegnato a mormorare preghiere in latino. Jean si mosse nella sua direzione, felice di constatare che era lì, era vivo.

Poi Marco si voltò verso di lui.

La mente di Jean si congelò di fronte all'immagine del suo migliore amico, gli occhi ridotti a due pozze di sangue e lacrime dello stesso impegnate a corrergli giù dal volto e sulle vesti. Scosse la testa, in parte spaventato, e in gran parte arrabbiato.

'Cosa ti hanno fatto stavolta?'

'Ha funzionato.' spiegò Marco, e Jean si rese conto che stava tremando. 'Il piano di Jaeger.'

Parlava a fatica, ma questo non gli impedì di urlargli di fermarsi quando Jean fece per avvicinarsi; non gli diede retta, ovviamente, e si afficinò fino ad averlo di fronte.

Jean afferrò l'angolo della propria cappa e lo strofinò dolcemente sulle sue guance, levando via il sangue. Marco rimase con lo sguardo fisso su di lui, preoccupato e privo di parole.

'Perchè siamo qui, se il suo piano ha funzionato?'

'Perchè il suo non era un secondo piano. Era parte integrante del primo piano.'

Jean annuì distrattamente. Le labbra di Marco, no, tutto il suo corpo tremava visibilmente.

'Insomma, hai intenzione di parlarmi o no?' sbottò Jean. 'I miei amici sono ancora là fuori. Potrebbero essere morti. Mi devi delle spiegazioni.'

Marco chiuse gli occhi, alzando la mano buona e sfiorando le dita di Jean vicino al suo volto. Annuì.

'Posso vedere tutto, Jean. Tutto ciò che è successo, parte di ciò che succederà se Jaeger vince. Le strade che abbiamo perso, quelle che perderemo. E le voci di tutti quelli come me che si spengono, lentamente. Bertholdt è morto. Reiner anche. Ed è un bene, perchè altrimenti avrei dovuto ucciderli io.' sospirò. 'Siamo qui perchè qui è nascosta la miccia di una catena di bombe piazzate strategicamente in tutta la laguna, e io ne sono la miccia. Io, o Annie.'

'Quindi stai aspettando questa Annie per ucciderla?'

'Sì.'

'E uccisa Annie?'

'Tu dovrai uccidere me.'


Jean ritrasse la mano lentamente; sul volto apparve un sorriso isterico, tirato. Scosse la testa e si portò le mani al volto, sfuggendo al tocco di Marco.

La sua espressione mutò rapidamente in un'esplosione di rabbia; scattò in piedi, i denti stretti e lo sguardo fisso su ciò che era rimasto del volto di Marco.


'Jean.' sussurrò lui. 'Sto già morendo. Evitami un'agonia. Ascolta...'

'No. TU ASCOLTAMI!'


La voce di Jean rimbombò, amplificata dall'acustica della chiesa. Marco lo guardò in silenzio.


'Io dovrei impedirti un'agonia? E chi impedirà la mia agonia? Chi cazzo lo farà? Come credi che fare a vivere consapevole di aver ucciso il mio migliore amico un'altra volta?!'

'Jean...'

'Jean un cazzo! Non lo farò, Marco! Non pensarci neanche!'

La sua voce si ruppe sull'ultima parola, costringendolo ad inghiottire le lacrime. Marco si alzò; la sua massa fisica sembrava essere tornata normale, come se stesse indebolendosi. Si gettò addosso a Jean, abbracciandolo.

'Mi dispiace. Non può farlo nessun altro...'

Le mani di Jean si strinsero a pugno e batterono sulla schiena di Marco, sempre più deboli, i suoi lamenti sempre più simili a un pianto nervoso, finchè non si rese conto di essersi aggrappato alla sua veste con una forza che non credeva di avere, e di aver affondato il volto nell'incavo tra il collo e la spalla di Marco. Singhiozzò in quella posizione, restio ad abbandonare il calore delle braccia di Marco, per quanto infuriato si sentisse nei suoi confronti.

'Non puoi...farlo da solo?' borbottò, mordendosi la lingua subito dopo, conscio di quanto suonasse egoista.

Marco non sembrò farci caso; fece scivolare la mano sinistra verso i capelli di Jean, prendendo a carezzarli. 'Non credi che lo farei, se fosse possibile? Non credi che ti leverei questa maledizione di dosso? Ma non posso. Rischierei di ferirmi senza morire. Dobbiamo farlo prima che Grisha Jaeger arrivi.'


Jean alzò riluttante la testa dalla spalla di Marco per guardarlo. Gli occhi avevano smesso di piangere sangue, e le sue labbra erano inclinate in un sorriso rassegnato. Sembrava di nuovo una persona normale, volto ricostruito a parte. Alzò un dito a sfiorare le sua guancia, scivolando da una lentiggine all'altra, ancora stretto tra le sue braccia.

'Marco?'

'Mmm?'

'Hai detto di poter vedere le strade che abbiamo perso, no?' alzò gli occhi ad incontrare i suoi. 'Cosa sarebbe successo se quel giorno non avessi incontrato Jaeger?'

Marco chiuse gli occhi, concentrato. 'Saremmo cresciuti assieme. Un giorno, Antonio avrebbe lasciato a me, te, Sasha e Connie la gestione dei traffici. Tu ci avresti guidato, sai benissimo che sarebbe stato così.' riaprì gli occhi un poco, lo sguardo basso. 'Ne sarei stato felice. Nulla mi rende più felice del guardarti diventare forte.'

Jean appoggiò la fronte alla sua, gli occhi chiusi, in cerca di contatto fisico. Marco lo strinse a sé.

'Avrei voluto vederti crescere.'

'Lo so.'

'Jean, non dovrei, ed è stupido dirlo ora, ma credo di essermi nuovamente innamorato di te.'

'…Lo so.'


Poggiò le labbra su quelle di Jean, tirate in un piccolo sorriso malizioso, assaporando la sua pelle, il suo profumo, il modo in cui muoveva la testa per far sì che si accomodasse al meglio nella sua bocca, la mano di lui che saliva a carezzargli nuovamente la guancia. Lo strinse ancora, più forte, godendo della sensazione di calore emanata dal suo corpo, della sua presenza.

Un attimo per respirare, per guardarsi negli occhi; un altro, per esser certi di star facendo la cosa giusta.

Un terzo attimo, per smentire le loro convinzioni e fregarsene.

Le labbra si ritrovarono, affamate, ansiose di recuperare gli anni e le possibilità perdute. Come per il ballo, Jean si rese conto di avere in mano la situazione, e impose a Marco la propria presenza mordendone il labbro inferiore con rabbia. L'altro ridacchiò sorpreso e tornò a baciarlo con dolcezza.


'Dovremmo davvero smettere.' mormorò Marco, lo sguardo preoccupato.

'Mm-mm.' rispose Jean, sporgendosi in avanti alla ricerca delle labbra dell'altro.

'No, Jean. Dovremmo davvero smettere.' Marco sciolse l'abbraccio da Jean e lo costrinse a voltarsi.

Sulla soglia della chiesa era ferma una bassa ragazza bionda, che Jean riconobbe come la principale fautrice della sua morte di neanche un giorno prima. Strinse i denti.


'Tu!


Fece per correre nella sua direzione, ma Marco gli posò una mano sulla spalla e lo oltrepassò.


'Quella è Annie, Jean.' slacciò la cappa e la gettò di lato; Jean la raccolse al volo. Sotto la cappa, Marco indossava solamente una maglia nera. La sua schiena, che Jean non aveva mai osservato con attenzione fino a quel momento, era quella di un combattente allenato alla guerra. Deglutì.

'È meglio che ti trovi un posto in cui nasconderti. Non voglio rischiare di farti del male.' si voltò a guardarlo, sorridendo. 'Hai una promessa da mantenere, ricordatelo.'

Jean sentì una smorfia farsi strada sul suo volto. 'Col cazzo.'

Marco corse verso Annie; Jean nella direzione opposta.

Sul volto di entrambi faceva capolino uno stupido sorriso speranzoso.





Ehilà, belle donne/uomini/qualunque cosa desideriate essere, buongiorno!

E' l'una e mezza mentre scrivo, e probabilmente dirò meno di quanto voglio dire. Nulla di nuovo, quindi!

L'ho già detto che sono davvero molto, molto, MOLTO felice del feedback ricevuto da questa storia? Sì, l'ho già detto, ma fanculo, lo ripeto. Non basta mai sentirlo dire, ed è tutto merito vostro che visualizzate, recensite, seguite (un sacco di persone in più, tra il precedente capitolo e questo!)...Beh, grazie. Grazie di cuore. Lo ripeto sempre, ma grazie.

Passiamo alla storia. Mancano due capitoli – entrambi saranno molto più lunghi di questo, credo –, poi l'epilogo. Non so dirvi quando aggiornerò, ma state pur certi che non l'abbandono. E non abbandono voi.

L'epilogo sarà farcito dalle fan-art (Sì, HO DELLE FAN ART!) di VeMaV, quindi se mai vi salti su il pallino di disegnare qualcuno/qualche scena, fatemelo sapere! Potete mandarmi un messaggio privato, contattarmi su Facebook o Tumblr...Dove desiderate!

E per coloro che lo hanno già fatto, SIETE LE PERSONE PIU' BELLE DEL MONDO. <3

La scena del bacio. Ragazzi scusate se sembro una verginella ma scrivere quella scena è stato un tentativo di salvarsi dall'epistassi dopo l'altro. Continuavo a immaginarmi le cose più idiote e porche del mondo.
Ne approfitto per dirvi che posterò una one-shot il giorno di Natale, per il bene dei vostri cuoricini. Una fluff. Indovinate su chi <3

'Gesù Cristo shippa questi due.' [cit.]

Spero vi sia piaciuto. Ancora una volta, verso la fine della nostra avventura.

Con affetto, amore e prosciutto crudo (?),

  • Joice.

<3

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Capitolo 12
*** XII - Morire soli ***


Vita e Morte a Venezia






'Ymir! Ymir!'

Ymir aprì gli occhi su un mondo azzurro e lacrimoso; ci volle qualche secondo prima che si rendesse conto di star guardando gli occhi di Historia da vicino, più vicino di quanto non le fosse mai capitato.


'Ehilà, principessa...' sospirò, sfoggiando il sorriso più forte che le riuscì. La mano di Historia era poggiata sulla sua guancia, morbida e delicata.

'Stai bene.' esclamò Historia, la voce rotta dal pianto. 'Stai bene...'

'Ovvio che sto bene...ouf!'


Ymir lasciò che Historia la abbracciasse, cercando di ignorare il fastidioso dolore al petto che la sua presenza le provocava. Le passò una mano sui capelli biondi, carezzandola.

La stretta divenne più forte man mano che Ymir fu in grado di mettere gli ultimi pezzi della propria memoria insieme. L'immagine di Historia in piedi sul cadavere di Reiner la colpì bruscamente, e la presa si fece intensa, dolorosa.


'Ymir, che succede?'

Ymir la guardò, lo sguardo disorientato, scuotendo lievemente la testa. 'Non fare mai più...tu...hai ucciso, Historia.'

'Ti stava...'

'Historia' rimarcò, 'Hai ucciso. Non...non farlo mai più.'

Historia fece per aprire la bocca, ma la richiuse subito, stringendo i denti. 'Non...'

Ymir scosse la testa. 'Ascoltami. Questa relaz...noi, non abbiamo bisogno di essere entrambe maledette dall'immagine di un cadavere tra le mani. Basto io per entrambe.'

Questa volta, quando Historia le si gettò addosso, l'abbraccio fu molto più intenso e vero. Ad occhi chiusi, prima di potersene pentire, Ymir si ritrovò a sussurrare all'orecchio di Historia la verità sulla notte di quindici anni prima.

La testa di Historia si mosse sul suo petto. 'Non mi importa chi tu sia, né quanto vecchia tu sia.'

Ymir la costrinse a guardarla negli occhi. 'Principessa, rimani così come sei per tutta la vita.'

Historia sorrise, triste.

Le loro labbra si incontrarono e intrecciarono; Ymir sentì il nodo che le legava il cuore sciogliersi e cadere da qualche parte fuori dalla sua anima. Sorrise ogni volta che Historia si separava da lei per una breve pausa, non il suo solito sorriso furbo, ma qualcosa di dolce e naturale.

Quando Connie e Sasha arrivarono, stavano ancora baciandosi, appoggiate a quel muro.


*


'Non può finire bene.' mormorò Mike, raggiungendo Hanji in prima fila. 'I ragazzi hanno sentito le dimissioni di Rivaille. Possiamo contare sull'aiuto di Gunther, Eld, Auruo è ancora ferito alla mano da quella maledetta freccia...chi altro?'

'Moblit.' mormorò Hanji, pensierosa. 'Nanaba. Darius. Dita. Manda i preoccupati ad aiutare i civili che stanno evacuando, e dì loro di mandarci chiunque abbia abbastanza palle da volerci aiutare. Il ragazzino e il padre li conosci; descrivili, qualcuno potrebbe portarci informazioni.'

Mike annuì e passò alle retrovie per diffondere le informazioni necessarie. Hanji sudava freddo; sarebbe stato molto più semplice se Mike fosse stato al comando e lei a bacchettare i soldati, ma dovevano seguire gli ordini di Rivaille. Gli ordini del comandante Smith. Persino all'interno della Guardia Cittadina c'erano delle evidenti discrepanze tra i soldati, e loro erano la branca che sarebbe morta sotto il comando di Erwin Smith.

La raggiunse nuovamente, annuendo senza parlare; Hanji si voltò appena. Erano la metà di quanti avrebbe sperato sarebbero rimasti. Sorrise, alzando la spada.

'ANDIAMO A TROVARE QUEL BASTARDO!'

Un non troppo forte ma entusiasta ruggito replicò al suo urlo. Afferrò le redini del cavallo e saettò in avanti.

*


La colpì sull'anca con tutta la forza che aveva in corpo. Lei non tentò nemmeno di scansarlo; incassò il colpo, cadendo sulle proprie mani e rimettendosi in piedi con una ruota, agile. Tolse il mantello che le copriva le spalle, sul volto un'espressione infastidita.

'Non hai intenzione di inseguire Jean, vero, Annie? Vuoi farla finita con me.' la provocò Marco, sorridendo.

Lei non rispose. Alzò i pugni verso il volto, in attesa.

Marco conosceva il suo modo di combattere. In teoria, sarebbe rimasta ad aspettare che lui l'attaccasse fino a poter trarre vantaggio dalla sua stessa azione. Non aveva idea di cosa sarebbe successo se fosse rimasto fermo. Non aveva mai visto nessuno che fosse stato tanto furbo da capire di non dover approfittare dell'aspetto fragile di Annie.

E lui, tristemente, non poteva concedersi il lusso di scoprire cosa sarebbe successo.

Si avvicinò a lei, mirando al suo volto. Parò, tirandogli contemporaneamente un calcio sul fianco e facendolo cadere in avanti. Marco riuscì a parare l'impatto contro il pavimento con entrambe le mani. I palmi iniziarono a bruciargli.

Girò su se stesso, evitando un altro calcio, questa volta mirato a schiacciarlo a terra. Si tirò su, abbassandosi in tempo da evitare un pugno alla testa.

Annie si rimise in posizione di difesa. Marco digrignò i denti. Sentiva di nuovo in bocca il sapore del sangue; il titanio cercava di riprendersi il suo corpo, assecondando il suo istinto di difendersi, il suo bisogno di vincere, il suo desiderio di uccidere...

(no!)


Si prese la testa tra le mani; l'attimo di distrazione fu fatale. Il calcio di Annie questa volta lo raggiunse, facendolo ruzzolare a tre metri di distanza. Alzò lo sguardo, ansimando.

Era un sorriso, quello sul volto di Annie? Era questo che il titanio le faceva? La faceva sorridere?

Grisha Jaeger era davvero in grado di fare miracoli.

'Veramente era quello che avevo intenzione di fare fin dall'inizio.'

Marco realizzò un secondo troppo tardi; Annie era già partita verso l'interno della chiesa, veloce, più veloce di quanto lui sarebbe mai stato. Si lasciava dietro una cortina di vapore che gli annebbiò la vista.

'JEAN!' urlò, sputando sangue. Si rialzò in piedi tremante; per qualche secondo incespicò in direzione di Annie, barcollante a causa della botta.

Non vedeva più dall'occhio destro. Il suo corpo non stava collaborando. Si afferrò il lato destro del volto e lo strinse fino a sentirlo quasi mallearsi sotto le sue dita.

'Non adesso, ti prego, non adesso.' mormorò, cercando inutilmente di rilassarsi. Riaprì l'occhio; la vista era tornata, sfocata, ma era tornata. Annie stava salendo la scala in legno che portava al tetto.


(non può essere... di tutti i posti...)


'No!' urlò, correndo dietro a Annie con rinnovata determinazione.

Arrivò alla base delle scale quando Annie era praticamente già alla fine delle stesse. Con un gesto rapido del polso afferrò un pugnale dal fianco e glielò lancio contro, mancandole la caviglia di pochi centimetri. Imprecò a bassa voce, iniziando a salire le scale.

Arrivata all'ultimo scalino, lei si voltò e gli restituì la mossa; non lo colpì, ma il dover schivare il coltello gli fece perdere l'equilibrio. Rimase aggrappato al piolo con la sola mano destra, e tentò in ogni modo di ignorare il colpo secco che il suo osso emise, rompendosi.

Era solo titanio, no? Quanto ci avrebbe messo a guarire?


(abbastanza perchè lei lo uccida)


'No, no, no, NO!'

Si tirò su a denti stretti, affrontando il resto della scalata cercando di non pensare al polso rotto.

La sua mano sinistra si aggrappò al tetto; si diede un'ultima spinta verso l'alto e uscì all'aria fresca.

E nel momento in cui alzò gli occhi davanti a sé, seppe che tutto era perduto.


*


'Signora! Da questa parte!'

Hanji fermò il cavallo, piantandogli i piedi sui fianchi per non farlo impennare e voltandolo verso la voce che l'aveva chiamata. C'era una ragazza, in piedi su delle macerie, che si sbracciava per attirare la sua attenzione; scendendo dal cavallo e camminando nella sua direzione, Hanji si chiese come avesse potuto non notare quella zazzera di capelli rossi.

'Che c'è?' chiese bruscamente.

La ragazza indicò dietro di sé. 'Ho ricevuto le istruzioni dai vostri soldati di avvisarvi nel caso vedessi il ragazzo che state cercando. È al porto, insieme a un'altra combriccola di ragazzini. Stanno cercando di lasciare la città insieme a un'altra marea di disperati.'

Hanji strinse gli occhi, sospettosa. 'Come faccio a sapere che non stai mentendo?'

Senza aspettare una risposta, Hanji chiamò Moblit e gli consegnò le redini del suo cavallo. Estrasse la spada.

'Vengo con te, ragazza. Se Eren Jaeger è dove tu dici che sia, sei salva. Altrimenti questa potrebbe accidentalmente scivolare sul tuo collo.' l'espressione folle fu presto sostituita da un sorriso. 'Come ti chiami, capelli rossi?'

'P-Petra...' mormorò lei, esitante.

Ci misero tre minuti ad arrivare al porto, dove centinaia di persone spingevano verso le barche; dopo altri due minuti, il sottile collo di Eren Jaeger era sotto il braccio forte di Hanji, che lo stava stritolando nella sua presa.

'Soffoco!' si lamentò.

'Ti conviene non provarci.' sospirò Hanji. 'Ragazzo Jaeger, non ho il potere di riportarti nel posto da dove sei scappato. E a tal proposito, i miei complimenti ai tuoi amichetti dinamitardi, a cui chiederò spiegazioni quando tutto questo sarà finito. Ti chiedo una pausa e una collaborazione.'

Eren smise di agitarsi; Hani allentò la presa e lo guardò negli occhi, scoprendovi una determinazione che prima d'ora non aveva avuto modo di notare.

'Eren, tuo padre minaccia di uccidere tutti quelli che ami. Davvero non puoi aiutarmi?'

'Io...' Eren mormorò qualcosa riguardo il non ricordare. Hanji annuì; caratteristica che accomunava gran parte di chiunque fosse venuto a contatto con Grisha, a quanto pare.

'Non ti viene in mente nulla? Un qualsiasi indizio su dove tuo padre avrebbe potuto nascondere la propria arma? Un luogo in cui era solito recarsi?'

Eren scosse la testa per qualche secondo, prima di illuminarsi. 'A dire il vero, un posto del genere ci sarebbe...una chiesa.'

Hanji sentì il volto deformarsi in un sorriso eccitato. Annuì. 'Perfetto. È un inizio.' afferrò il polso di Eren, sentendo una scossa d'adrenalina attraversarle il corpo.

Si voltò verso la ragazza che l'aveva aiutata. 'Ehi, Petra?'

Lei alzò lo sguardo. 'Sì?'

'Hai mai considerato la possibilità di arruolarti?'


*


'Che c'è, Marco?'

Le mani di Jean strette attorno al collo di Annie. Gli occhi azzurri di lei, per nulla preoccupati, e un sorriso sbilenco.

Marco sentì la propria mente svuotarsi ancora prima che Annie potesse aprire bocca. Chiuse gli occhi istintivamente, alla ricerca di una protezione presente solo nella sua immaginazione.

Nella sua mente, dietro i suoi occhi, Jean non era sul bordo del tetto di una chiesa, non era sul punto di strangolare una ragazza. Nella sua mente, Jean era un bambino di dieci anni sbalordito di fronte al pugnale regalatogli dal suo patrigno, un ragazzino che correva via dalle guardie tendendogli la mano eternamente piena di graffi.

Un occhio nero curato da un bacio sulla guancia, una camicia strappata da non mostrare ad Antonio e da cucire di notte, cercando di fare silenzio.

'Ma...rco...'

Nella sua mente erano tutti vivi. Nella sua mente, la morte non era mai arrivata.

Ma non si può vivere di sogni.

Marco aprì gli occhi, pronto.

'...uccidi!'

La speranza che il comando non funzionasse lo colpì per un attimo; il secondo dopo, però, si sentì trascinato in un angolo della propria coscienza. Ma c'era qualcosa di diverso, questa volta. Ne era consapevole.

Ed era di fronte a Jean, la mano stretta attorno al suo collo, la mano tesa oltre il bordo del tetto.

Gli occhi di Jean si spalancarono, terrorizzati. Marco lasciò la presa.

Non rimase a guardare Jean cadere; si voltò verso Annie, ubbidiente. Lei sorrideva.

'Ben fatto, Mar...'

Marco estrasse la spada, tracciando un arco dal basso verso l'alto lungo il petto di Annie. Per un attimo, il suo volto si contrasse in un'espressione di pura sorpresa, rapidamente sostituita da folle rabbia.

Cadde in ginocchio. Il sangue sgorgava rapidamente dallo squarcio sul petto. Troppo rapidamente per il fattore di guarigione del titanio modificato. Allungò una mano verso Marco.

'Io non...cadrò...debole e fragile.'

Parte di Marco, la sua parte umana, razionale e caritatevole, avrebbe voluto stringerla, mostrare compassione, dire che comprendeva ciò che era stata costretta a fare. Purtroppo per Annie, al momento quella parte di Marco era ritirata da qualche parte dentro lui stesso, ed era colpa sua.

Strinse la mano attorno all'elsa e la conficcò nel cuore di Annie; questa volta, la sorpresa durò molto più a lungo, e lacrime sincere andarono a formarsi nei suoi occhi azzurri spalancati.

'Dimmi, Annie.' sussurrò la Maschera. 'Cosa vuoi di più in questo momento?'


Annie non rispose. Non che lui si aspettasse una risposta da parte sua. Era orgogliosa, altezzosa, più dura di chiunque avesse mai incontrato. Era diamante, impossibile da spezzare.

Girò il polso; la lama ruotò nel buco che era stato il cuore di Annie.


'Annie...muori.'

E lei lo fece. In silenzio, gli occhi rivolti al cielo. Un singolo rivoletto di sangue le colava dalla bocca verso il mento. Marco la adagiò a terra, asciugò il sangue caduto dalla bocca e le chiuse gli occhi.

Avrebbe dovuto portare il cadavere via dal tetto, o Annie sarebbe diventata presto cibo per corvi.

Ma Marco non era tanto caritatevole e umano. Non più.


*


Quando Marco era corso verso di lui e lo aveva afferrato per il collo e lo aveva gettato giù dal tetto, Jean aveva capito che era finita. Per sempre. Aveva chiuso gli occhi e si era abbandonato alla gravità.

Era già morto una volta per mano di Marco. Non aveva paura.

Ma poi era arrivata l'acqua. Fredda, glaciale, più dura del cemento.

Era andato a fondo per cinque metri buoni prima di rendersi conto di non essere morto – il dolore non era poi tanto diverso. Poi però la logica aveva avuto la meglio, e Jean, nuotatore provetto, si era affrettato a risalire in superficie in cerca di aria.

Era riemerso annaspando, nel panico; poche bracciate lo avevano ricondotto sulla banchina, su cui si era gettato, bagnato, stremato e quasi impossibilitato a respirare dal tuffo imprevisto e dalla paura provata. Perchè, sì, aveva avuto paura, a dispetto di ciò che aveva pensato cadendo.

E il pensiero che Marco non lo avesse fatto apposta e non fosse consapevole della presenza di un canale sotto la chiesa lo aveva colpito più duramente della massa d'acqua in cui era atterrato.

Aveva scacciato via il pensiero, spostando le proprie preoccupazioni su ciò che ne era stato del suo...come avrebbe dovuto chiamarlo, dopo quel bacio? Amico? Compagno? Fratello? Amante?


(quasi assassino?)

(non t'azzardare.)


Si era rialzato in piedi, le gambe non esattamente stabili e il cuore ancora in tachicardia a causa della caduta, quando un nitrito lo aveva costretto a voltarsi. A pochi metri da lui c'era la tizia pazza armata di balestra che l'aveva arrestato. Solo che non era armata di balestra, e c'era Eren con lei.

(Eren?!)


Improvvisamente ristabilitosi, Jean era corso nella direzione del caporale e di Jaeger, estraendo la daga dal fianco con un urlo indemoniato. Eren si era voltato, spaventato.

La direzione presa dalla sua lama era stata deviata da un'altra lama, appartenente al caporale Zoe. Jean era stato sbalzato lievemente indietro.

'Sei impazzito, ragazzino?!'

'Tu!' aveva urlato, indicando Eren con la punta della daga. 'Jaeger. Pagherai per tuo padre. Assassino. Assassino!'

Eren era scattato in avanti, arrabbiato. 'Ma che diavolo stai dicendo?'

'Non voglio sentire scuse!'


Era corso nuovamente verso di lei, ed era stato nuovamente sbalzato via dalla difesa di Hanji che, a questo punto, doveva aver compreso di dover intervenire. Gli era andata incontro, puntandogli la lama contro il volto.


'Eren Jaeger non centra nulla con ciò che ha fatto suo padre. È una vittima tanto quanto te, Kirschtein.'

'Una vittima tanto quanto me?! Ehi, Eren! Tuo padre ha ricucito il tuo migliore amico e ha fatto in modo che ammazzasse? Perchè l'ultima volta che ho visto Armin mi sembrava stesse benone!'

'...cosa?'


Jean si ammutolì; gli occhi di Eren erano spalancati, pieni di paura. Gli ci vollero due secondi buoni per ricordarsi che all'epoca della morte di Marco Eren aveva dieci anni, e altri due secondi per capire che no, non centrava davvero nulla con ciò che suo padre aveva fatto.


'Jean.' mormorò Eren, la voce resa acuta dal pianto. 'Di chi stai parlando? Che è successo?'

Zoe si voltò verso di lui. 'Capisci cosa intendo? Non dovrebbe nemmeno essere qui, ma è l'unico che conosce il padre abbastanza bene da condurci alla sua arma.'

'L'arma.' sussurrò Jean, voltandosi. La Chiesa del Redentore era a pochi metri da loro. 'Marco.'

Afferrò la balestra dal fianco del cavallo del Caporale e si mise a correre in direzione del portone della chiesa.


*


C'erano due sole cose al mondo che spaventavano davvero Marco.

Una era l'idea di Jean morto. L'altra gli si parò davanti quando ridiscese la scala a pioli della chiesa, atterrando con un piccolo salto sull'altare della chiesa.

Grisha Jaeger non stava pregando. Per lui esisteva un solo dio: se stesso.

Sotto il suo sguardo freddo, Marco sentì le poche forze rimaste scivolare via dal suo corpo; si gettò in ginocchio, arrendevole, orripilato. Era arrivato così lontano. Mancava così poco.

Sarebbe bastato che morisse, ancora una volta, solo un'altra volta.


'Mio figlio.' sorrise Grisha, orgoglioso. 'La mia opera migliore.'

'Non sono opera tua.' si ritrovò a sussurrare. 'E non lo erano neanche loro.'

'Ma certo che sì, Marco. Perchè negare l'evidenza? Ti ho riportato in vita, ho fatto lo stesso con loro.'

Il sorriso dolce di Grisha fu rapidamente sostituito da un'espressione crudele.


'Perchè negare l'evidenza?'


La sua voce rimbombò per tutta la chiesa, potente. Fu quando l'ultimo eco fu sparito che Marco si rese conto di avere le mani sulle orecchie, e di essersi ritirato in un angolo come l'ultimo dei codardi.

E ancora una volta, come anni prima, Grisha Jaeger lo sovrastava.

'Possiamo ancora farcela.' sorrideva, di nuovo tranquillo. 'Dammi il braccio, Marco. Il braccio in titanio.'

'No. No, no, no...ti prego...'

Un sorriso grottesco deformò il volto dell'uomo. 'Sì. Pregami.'

Marco non vide calare la spada, non sentì dolore quando quella trafisse la carne. Ebbe solo la fugace visione del suo braccio destro sul pavimento della chiesa, poi tra le mani di Grisha, poi gettato nell'armadietto in cui il prete conversava le ostie consacrate.

L'attimo dopo Grisha era di nuovo di fianco a lui, le mani strette attorno ai suoi capelli.

'Non è fantastico?' rise. 'Ho perso, eppure ho vinto. Questo posto esploderà. Esploderà insieme al resto di Venezia. Moriremo.'

Una prima esplosione scosse le fondamenta della chiesa. Marco guardò Grisha, implorante.


'Fallo smettere. Ti prego. Ti prego.'

Grisha si alzò in piedi, allargando le braccia.


'Pregami. Pregami.'

Una macchia di sangue comparve sul suo petto. Marco la guardò, sorpreso.

Altre due macchie, altri due piccoli sbalzi in avanti. Grisha Jaeger cadde in ginocchio, rivelando a Marco il proprio assassino.

Jean. Bagnato, tremante, il volto sconvolto dall'ira, stava fermo in mezzo alla navata, balestra alla mano. Camminò in avanti a stento, incurante dalle scosse causate dalle esplosioni. Non degnò il cadavere di Grisha di un'occhiata, limitandosi a calciarlo via dalla propria strada.

'Sei vivo.' mormorarono quasi all'unisono. Jean sorrise, piegandosi verso Marco e sollevandolo a fatica.

'Ti porto fuori di qui.' affermò Jean, tranquillo. Marco scosse la testa.

'Sono troppo pesante. Non farai in tempo.'

Come a sottolineare le sue parole, le fiamme iniziarono a propagarsi lungo tutta la navata, veraci. Jean grugnì un dissenso, sistemando meglio Marco tra le sue braccia.

'Ti porto fuori di qui.' ripetè.

Marco non potè che rimanere a guardarlo, semicosciente, ancora dolorante per il braccio perduto.

'Sei un idiota, Jean.'

Lui sorrise. Una fiamma gli colpì il braccio, ma sembrò non farci caso.

'Ti amo.'

'Anche io.'

Erano a metà navata. Con la coda dell'occhio, Marco vide la struttura dell'altare crollare su se stessa.

'Dovresti uccidermi.' mormorò.

'Ormai ha usato l'arma. Non servirebbe più a nulla. Sei libero di vivere.'

'Ho ucciso Annie.'

Jean non rispose; si fermò, in preda a un attacco di tosse.

Fu in quel momento che una lingua di fuoco si propagò attraverso il pavimento, stringendosi attorno alla sua gamba. Jean cadde in ginocchio. Mancavano meno di due metri all'uscita.

'...stanco.' tossì. Guardò Marco negli occhi.

'No.' sussurrò, improvvisamente preoccupato dalla luce folle negli occhi ambrati di Jean. 'No.'

Con uno sforzo che rasentava il disumano, Jean alzò Marco e lo lanciò lontano da sé, verso l'uscita della chiesa. Marco rotolò via, colpendo più volte la testa contro il cemento duro della strada.

Non riusciva ad alzarsi. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a fare niente.

Piegò la testa, rivolgendola verso l'interno della chiesa. Il fuoco riempiva il portone. Sembrava la bocca dell'inferno.

E in mezzo a quell'inferno c'era Jean, sdraiato a terra, impossibilitato ad alzarsi dalla gamba ustionata.

Il suo nome scivolò attraverso le labbra di Marco, debole. Come se avesse potuto sentirlo, Jean alzò la testa nella sua direzione.

C'erano parole non dette, tra loro. Pensieri felici. Il fantasma degli anni persi.

'Ti amo' sillabò Marco, nuovamente.

Jean sorrise.

L'attimo dopo la chiesa crollò su se stessa, seppellendolo sotto fiamme e macerie.


'JEAAAAAAAAAN!'




Ci vediamo all'epilogo.

- Joice

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Capitolo 13
*** XIII - Epilogo - Ancora Qui ***



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AUTORI E IMMAGINI COMPLETE
1, da Mokona. Tumblr e EFP. (Capolavoro. GRAZIE.)
2, da Muffin. Tumblr. Ne sta realizzando una versione completa CINQUANTA PER SETTANTA!
3 e 4, da TimCampi, Tumblr, DeviantArt e Efp. Andate a leggere quei diamanti delle sue storie e godetevi quelle perle dei suoi disegni. E leggete il suo libro, se potete. Non ve ne pentirete.
5, Marco disegnato da me. Senza vergogna, proprio.
Il capolavoro senza tempo disegnato da Giulia, aka LifYeah, che ha disegnato quest'opera d'arte e di cui pubblicizzerei anche l'ANIMA se ne conoscessi l'indirizzo. Per ora, accontentatevi del DeviantArt, Tumblr, secondo Tumblr dedicato alle proprie opere d'arte. <3


Non sono brava con le parole - ironia della sorte -, ma ci proverò.

Ciao, fidato lettore.

Oddei, non ho idea se tu sia o meno un fidato lettore; magari sei capitato qui per caso.

In qualunque caso, ti prego, rimani. Rimani almeno perchè io abbia il tempo di dirti grazie. Di dirti che mi dispiace. Di dirti che ti voglio bene per aver letto – che te ne vorrò sempre.

Mi avete resa migliore. Mi avete fatto tornare la voglia di scrivere.

Vi voglio bene.

Grazie a Giulia – soprattutto a Giulia, creatrice di questo mini mini mini mini micro fandom -, a Monica, a Silvia, a Muffin, Mattie, Mokona, Elena, Zazzy, ANCORA a Giulia (...ho sentito bene? COSPLAY?), a tutti gli altri. A tutti coloro che hanno creduto in me e che hanno fatto sì che provassi sulla mia pelle cosa vuoldire far provare dei sentimenti a qualcuno.

È tempo del gran finale. Delle ultime rivelazioni. Degli ultimi dolori.

Grazie. Per Marco. Per Jean. Per Ymir. Per la Maschera.

Per tutti gli altri.

Per Venezia.





Vita e Morte a Venezia


Nel caso vogliate sentire ciò che ho ascoltato scrivendo questo finale.



Il cappuccio alzato sul volto, svoltò l'angolo passeggiando tranquillo sotto i portici.

Mancavano pochi metri a Ponte Sant'Angelo.


*



In quei giorni, non era comune che a Venezia arrivassero visitatori. La città era ancora debole, ferita, e solo recentemente i cittadini avevano finito di spostare via dalle strade principali le macerie causate dalle esplosioni di cinque mesi prima.

Ma nessuno fece domande vedendo l'uomo camminare attraverso la Giudecca; il suo non era il volto di uno sconosciuto. Alcuni marinai e commercianti azzardono addirittura un saluto nella sua direzione, e un sorriso. Entrambi vennero restituiti cordialmente.

L'uomo si diresse verso la locanda dello Zudeo; era sceso dalla nave da poco, e sentiva il bisogno di bere. La sua meta non sarebbe scappata.

Una graziosa ragazzina, armata di ramazza, sostava di fronte alla locanda, impegnata a giocherellare con un gatto nero. Vedendolo arrivare, il gatto scappò via. La ragazza si voltò.


'Un soldo per i pensieri di questa belle giovane.' sorrise l'uomo.

Lei alzò un sopracciglio. 'Sarebbe un soldo sprecato. Siete approdato da poco?'

'Torno ora dalla bella Istanbul, dopo una breve sosta a Roma per accertarmi della salute di un caro amico. Come lo avete capito?'

Il volto della ragazza si illuminò quando sorrise. 'Ho occhio per queste cose. Profumate di sale e d'avventura.' si alzò, spolverando il grembiale. 'Conosco solo un'altra persona che profumi d'avventura, ma lei non sa di sale. Lei sa dei tetti di Venezia. Di sudore e sacrificio. Siete qui per vedere Ymir, non è così?'

'Un altro sì.' sorrise lui, compiaciuto. 'E voi sareste?'

La ragazza aprì la porta della locanda. 'Historia.' arricciò il naso in un modo che gli ricordò anche troppo la sua amica Volpe. 'La sua amata.' aggiunse, con una punta d'orgoglio. 'E voi siete Antonio.'

'Di nuovo corretto.'


Historia entrò nella locanda, seguita da Antonio. Ymir stava dietro al bancone insieme a un grosso uomo, impegnato a tagliare bruschette. Avvicinandosi, Antonio si rese conto che il coltello le scivolava fin troppo spesso dalle mani, risultando in tagli e imprecazioni sempre più frequenti. Sorrise. Non sembrava essere passato un giorno da quando l'aveva conosciuta, sfrontata e orgogliosa e terribilmente sola.

Alzò il volto verso di loro, succhiando il dito ferito e rivolgendo un sorriso a Historia.

No, decise Antonio; almeno la solitudine era scomparsa. Le rivolse un inchino divertito.


'Devo chiamarti dama?'

'Non azzardarti, vecchio.' Ymir conficcò il coltello nel legno del bancone e vi girò attorno, raggiungendolo per un abbraccio rispettoso e qualche pacca sulla spalla.

'Come va la vita?' chiese Antonio, sorridente.

Ymir strinse un braccio attorno al fianco di Historia, affondandole il muso nei capelli. La ragazza sorrise. 'Tranquilla. Noiosa. Stiamo mettendo da parte il denaro necessario a partire. Per andare dove, non lo sappiamo.' si incupinì. 'Sei tornato per...?'

Antonio annuì, serio. Il sorriso sparì rapido dal volto di Historia.

'Ci siamo scritti per tutto questo tempo. Ho fatto il prima possibile, ma affari mi hanno trattenuto un po' a Roma. Ve ne parlerò nel dettaglio più avanti. Nel frattempo, vi prego, servitemi del buon vino. Ho bisogno di recuperare le forze prima di affrontare un incubo durato cinque anni.'


*


Scoprire che c'era ancora qualcuno che trasportasse le persone in gondola fu una piacevole sorpresa. Il ragazzo che Antonio fermò aveva un'aria vagamente familiare, ma era troppo giovane per essere uno qualsiasi dei gondolieri di cinque anni prima. Gli chiese di trasportarlo a Dorsoduro.

Durante la traversata, il ragazzo gli lanciò occhiate sempre più frequenti e inquisitorie.

'Tutto bene?' chiese Antonio.

'Io...sì. Tutto a posto.' rispose, calando il cappello sul volto.

'Non sei un po' giovane per fare il gondoliere?'

Il ragazzo sorrise. 'Non siete un po' vecchio per andarvene in giro senza rischiare di spaccarvi l'osso del collo?'

Antonio si strinse nelle spalle, poi scoppiò a ridere. 'Ah! Quanto mi è mancata questa città! Voi giovani peggiorate di generazione in generazione. Ma davvero, cosa ti spinge a fare questo lavoro? Alla tua età io non facevo altro che ubriacarmi e fare a botte.'

'Sbagliato. Alla mia età sei scappato dalla casa di tuo padre per intraprendere una vita da trafficante di merci.'

Antonio rimase in silenzio, esaminando quel volto abbronzato dall'esposizione al sole. Il ragazzo non smise di remare.

'Faccio questo.' mormorò a un certo punto. 'Per sposare la donna che amo e vivere con lei. Una ragazza con gli occhi color tramonto e i capelli come corteccia d'albero. E non riesco a rivolgere queste parole a lei perchè sono l'ultimo degli imbranati.'

'Non lo sei.' rispose Antonio. 'Sei un uomo.' e poi, dopo qualche attimo: 'Tu e Sasha avete la mia benedizione.'

Connie sorrise, tirando una corda contro un piolo e avvicinandosi alla terraferma.


*


Antonio passò di fronte alla libreria dell'anziano Arlert, ancora vivo e vegeto nonostante il grande spavento provato, lanciando un'occhiata distratta al ragazzo biondo seduto lì fuori intento a divorare un libro e una mela.

Passò anche davanti allo studio del dottor Jaeger, trattenendo il fiato e osservando i resti della casa rasa al suolo dal terremoto e dalle fiamme.


'Mi scusi.' chiese alle guardie che passarono in quel momento. 'Che...ne è stato degli abitanti di questa casa?'

Una delle guardie si voltò; era una ragazza con corti capelli rossi. Guardò la casa, poi sorrise triste.

'I ragazzi che vi abitavano sono andati via dopo la morte del padre. Qualcosa riguardo a Bologna...o era Firenze? Auruo, era Firenze?'

Auruo si massaggiò la mano destra. 'Informazioni confidenziali. Andiamo, Petra, o il Comandante Rivaille ci farà pulire quel suo maledetto ufficio. Un'altra volta.' grugnì, per poi proseguire per la sua strada.


Antonio scosse la testa, riflettendo su come certe cose cambino troppo rapidamente.

Ed eccola lì, la cosa che non era cambiata; il piccolo vicolo quasi invisibile all'occhio che portava nella casa che aveva abitato per anni. Lo percorse con calma, misurando i passi, nella speranza che lui non fosse lì ad aspettarlo.

Ma lui c'era. Seduto di spalle di fronte al portone d'ingresso, proprio come aveva detto in quell'ultima lettera non scritta nella sua grafia. Si voltò verso Antonio, silenzioso, triste.


'Padre.' sussurrò Marco.

'Hai ancora la forza di chiamare padre l'uomo che ti ha dimenticato per cinque anni.' rispose Antonio, commosso. 'Quanto è grande il tuo cuore, figliolo?'

Marco si alzò per andargli incontro e stringerlo in un doloroso abbraccio silenzioso. Antonio lo strinse a sé, quasi in lacrime.

'Mio figlio.' lo scostò, guardando il volto diviso a metà. 'Che ti hanno fatto? Come ho potuto dimenticare?'

'Non fa nulla.' un piccolo sorriso comparve sul volto di Marco mentre scioglieva l'abbraccio. 'Non fa nulla.' ripetè a se stesso.

Antonio fece un cenno con la testa in direzione della piccola banchina. Si sedettero entrambi con le gambe penzoloni verso l'acqua.

'Ho ricevuto la tua ultima lettera.' spiegò Antonio. 'So che ti è impossibile scrivere. Chi ti aiuta?'

Marco guardò il moncherino grigio per qualche secondo, prima di rispondere. 'Armin. Armin Arlert. Siamo...siamo buoni amici.'

'Capisco.' annuì Antonio.

Dopodichè iniziarono a parlare, e a parlare degli argomenti più disparati. L'incontro con Ymir e Historia. Con Connie. Sasha. Il destino toccato a Eren e Mikasa. Marco spiegava e Antonio ascoltava, bevendo ogni sua parola e rispondendo come solo un padre può fare.


'Marco.' iniziò a un certo punto. 'Tu sai che faccio parte di una confraternita i cui membri sono sparsi su tutta la penisola, non è così?'

Marco annuì.

'Alcuni di loro si sono resi utili dopo il disastro di cinque mesi fa, aiutando i civili e salvando vite, e me lo hanno fatto sapere. Un caporale in buoni rapporti con la mia confraternita ha fatto sì di passarci sotto banco tutte le scoperte che siamo riusciti a sottrarre dal laboratorio di Grisha Jaeger prima che questo fosse raso al suolo dalle fiamme.'

Frugò nella tasca interna del mantello sotto lo sguardo vigile di Marco, e ne estrasse una fiala contenente un liquido verde. Marco si ritrasse istantaneamente.

'Vedo che ricordi la piccola bastarda infame.' sorrise Antonio. 'La principale responsabile di tutti i nostri guai, più del titanio modificato.'

'Perchè l'avete portata?' esclamò Marco, stridulo.

Antonio sospirò. 'Mi guardi con occhi che non sono tuoi, Marco. So riconoscere gli occhi di mio figlio, e questi sono quelli di un uomo che ha di mio figlio solo l'aspetto. So cosa ti è successo. Non lo hai detto una sola volta nelle tue lettere, ma non sei l'unico con cui ho mantenuto corrispondenza.'

Marco non rispose, lo sguardo rivolto all'acqua.

'Marco.' continuò Antonio. 'Vuoi parlarmi di Jean?'

Un singhiozzò salì dalla gola di Marco. Le spalle iniziarono a tremare, e la testa si abbassò contro il suo petto. Non disse nulla. Pianse soltanto.

'Marco...' insistè Antonio.

'È morto!' urlò Marco. 'Morto per salvare me...'

Antonio scosse la testa. 'No, Marco, no...non per salvare te.'

'Sì. È morto e sorrideva e non ho potuto fare niente. Non ho potuto fare niente...'

Le parole si trasformarono in balbettii e singulti confusi. Antonio strinse un braccio attorno alle sue spalle.

'Marco, io so quanto possa essere duro perdere qualcuno che si ama. Ti offro una scelta.'

Gli porse la fiala.

'La decisione sta a te.'

Marco guardò il liquido verde con occhi pieni di paura.


*


Ponte Sant'Angelo si apriva davanti ai suoi occhi. Marco alzò la testa, osservando le decine di persone che attraversavano il ponte.

Guardò con attenzione, nella testa gli echi della conversazione avuta con Antonio settimane prima.


*


'No!' urlò Marco, spingendo via la mano del padre. 'Siete impazzito? Che vi hanno fatto a Istanbul, padre?'

'Per il tuo bene, Marco, prendi la fiala.'

'No.' sussurrò. 'No.' scosse la testa, deciso. 'Non posso dimenticare Jean. Non posso. Non mi aspetto che capiate.'

'L'ultima possibilità, Marco. Poi spedirò questa fiala in fondo alla laguna.

Marco si protese in avanti, afferrò la fiala con la mano sinistra e la lanciò verso il canale.

Quando si voltò verso Antonio, sul volto del padre c'era un sorriso pieno, orgoglioso.

'Marco.' esclamò. 'Devo dirti una cosa...'


*


C'erano troppe persone. Marco alzò il cappuccio, spaventato all'idea che potessero vederlo.

Il cuore. Sentiva il cuore esplodergli.


('durante gli scavi per estrarre i corpi delle macerie, mi ha scritto un mio consanguineo della confraternita, hanno trovato qualcosa di molto particolare. Il corpo di un ragazzo, apparentemente morto, mantenuto in vita da qualcosa all'interno del suo sangue')

Voltati a destra.

('il ragazzo era in condizioni disastrose. Lo hanno trasportato, identificato grazie all'aiuto del caporale Zoe')


Ancora a destra.

('abbiamo convenuto che sarebbe stato meglio se fosse sparito dalla circolazione per un po'. Il tempo di rimettersi. Il tempo perchè la guardia cittadina veneziana potesse dimenticarsi della sua esistenza')


Ora a sinistra.

('lo abbiamo trasportato a Roma. Si è svegliato dal coma qualche giorno fa.')

Diritto davanti a te.

Eccolo lì.


('padre, non capisco... cosa state dicendo?')

(il sorriso sul volto di Antonio.)

('Hai superato la prova, Marco. Jean è sopravvissuto grazie al titanio modificato nel suo sangue. È vivo e ti sta aspettando a Roma')


Gli corse incontro, non badando al cappuccio scivolatogli indietro, non badando agli sguardi delle persone, dimenticandosi persino di esistere.

Cadde nelle sue braccia aperte, rifugiandosi in quel calore, toccandolo e tirandolo a se prepotentemente, come un bambino possessivo.

Jean. Jean. Jean.

La sua testa sulla spalla. Le sue mani attorno alla schiena. Jean. Jean e il suo profumo. Jean e il suo debole sorriso idiota.

E all'improvviso sentì di avere di nuovo undici anni e si protese verso di lui per baciarlo con forza.

Per sentire che era vivo.

Per sapere che era suo.


'Quella cosa della fiala per farmi dimenticare di te.' sussurrò. 'Tutta una bufala?'

'Ovviamente.'

'Sei un idiota.'

'Mmm-mmm.'

'Ti amo.' fu l'unica cosa che fu in grado di dire, tra le lacrime. 'Ti amo, ti prego non lasciarmi.'

'Mai più.' rispose Jean, e Marco potè sentire il sorriso che gli illuminava il volto sulle sue labbra. Mai, mai più.


FINE

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