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Ti scrivo
seduta allo scrittoio della mia camera nuziale.
Marco non è
ancora rientrato dalla caccia ed è quasi sera, una sera
pallida e delicata che scende soffusa a cullare la Cornovaglia, e la fa
rassomigliare alle terre d'Irlanda, così lontane.
Alla luce della
sera, come in un limbo, tutti i luoghi si confondono e si assomigliano di più.
La Cornovaglia che conobbi
già ragazza, dove tu mi portasti per sposare un uomo mai visto, e l'Irlanda a
cui mi strappasti, terra della mia infanzia, di giorni felici e spensierati nei
quali l'amore non era che un desiderio e il dolore solo una nuvola nel cielo
estivo, hanno lo stesso volto in questa sera d'autunno, si sovrappongono nella
mia mente e io non so più riconoscere, tra i ricordi, cosa appartiene all'una e
cosa all'altra.
Così forse
brilla della stessa luce la
Bretagna dove consumi il tuo esilio, sposato a una donna che non ami e a cui non ti vuoi concedere, una
donna dalle mani bianche che porta il mio stesso nome e ti ama d'un amore forse
più vero del mio.
Tre terre che
racchiudono la nostra storia e il nostro destino, come
conchiglie.
Ma oggi, Tristano, oggi sono
stanca di parlare di destino.
Oggi voglio
stringere tra le mani la mia vita come posso stringere questa penna e decidere
cosa scrivere.
Ero una bambina quando ti incontrai per la prima volta, tu, l'eroe
che aveva sconfitto e ucciso il Moroldo, fratello di
mio padre, tu, il cavaliere perfetto, dalla bellezza divina...no Tristano, non
mi ispirasti alcuna simpatia, allora. Perché avresti
dovuto?
Arrivasti
ferito, ma eri superbo ed altero, tronfio della tua perfezione.
E mi guardasti come tutti mi
guardavano, colmo di desiderio, traboccante di voglia. Non avevi mai visto una
donna più bella e ti folgorò il pensiero che io sola
sarei stata degna di te.
Non me ne
preoccupai molto. Eri soltanto uno tra i tanti. Più bello forse. Più galante.
Più forte. Ma in fondo solo l'ennesimo spasimante alla corte di
Elena. Aspettavo ancora il mio Menelao.
Aspettavo qualcuno che giungesse inaspettato,
umilmente e senza clamore, che mi amasse d'un amore dolce, che scrivesse per me
una favola e mi accompagnasse per mano a conoscerla.
Non volevo
cavalieri.
Non volevo
eroi.
Isotta,
principessa d'Irlanda, maga e guaritrice, voleva allora soltanto un uomo.
Sposerai
il re di Cornovaglia, mi disse mia madre.
Così finirono dei sogni, finirono le speranze bruscamente
ricondotte alla gravità dei miei principeschi doveri.
Mi
imbarcai
con te su quella nave, il filtro che conoscendomi troppo bene mia madre aveva
preparato per farmi innamorare di Marco lo bevemmo
noi, mentre giocando a scacchi ci stavamo sfidando e studiando l'un l'altra, e
il resto, nostro malgrado, è storia nota.
E' la storia
del terribile errore che commisi sacrificando Brangania,
la sola amica che avessi, alla mia felicità...ed ebbe bene il diritto di
odiarmi! Oh se potessi averla accanto, adesso, che mai un'ancella più fedele e
più nobile è vissuta!
E' la storia
della nostra follia, dei nostri inganni, degli
infiniti stratagemmi che inventammo.
Da allora non
ho più rivisto l'Irlanda.
Da allora sono
cresciuta.
Quella passione
ci ha consumato e mi ha cambiato.
Ho lasciato
tutto per seguire te, per vivere nel peccato e nella povertà. Io, spergiura
come sempre, alla fede data ho presto fatto ingiuria,
prigioniera della mia malafede, un vizio antico, mi disseBrangania offesa e tradita.
Aveva ragione.
Tu, Tristano,
mi hai strappato ai miei cari, alla mia terra, ma nulla mi importava
al di fuori di te.
Bel dolce
amico, ti chiamavo allora, mio signore.
Ma quando
l'effetto del filtro dopo tre anni è finito, quando sono tornata padrona di me
stessa e mi sono trovata sporca e mal vestita in una
foresta popolata di belve, allora, improvvisamente, ho capito.
Tu eri ancora
quello che mi aveva portato via dall'Irlanda, eri ancora il cavaliere perfetto
che tutti ammiravano, a cui i ragazzi volevano assomigliare.
Tristano
che aveva osato sfidare il re. Tristano che aveva sconfitto tutti, per
amore. Tristano, braccato come un animale, perseguitato...Eri un
ramingo, un fuggiasco, ma ancora un eroe.
Mentre io, io non ero più nessuno.
La mia bellezza si era consumata nelle privazioni quotidiane, le mie mani si
erano rovinate, il mio cervello così acuto e pronto,
che aveva saputo ingannare persino Dio, si era irrigidito nella mancanza di
stimoli.
Tu cacciavi
tendendo l'arco che-non-fallisce[4], io ti attendevo nell'ozio e la mia vita
si consumava nello spettro di un'abulia quotidiana e terribile.
Il silenzio mi
divorava come una malattia e tu mi privasti persino della voce d'Husdent. Ci farà scoprire,
dicesti, non abbiamo alcun bisogno di un cane. Ma era il tuo cane, quello, il tuo cane fedele che ti amava,
e tu non capivi, non capivi il mio bisogno di compagnia. Non ucciderlo, ti
supplicai. A patto che taccia, dicesti. E tacque. Si,
tacque. Perché Tristano, il perfetto, sa piegare al
suo volere persino la natura.
E la gente
parlava di me. Isotta...Isotta, la traditrice. Isotta
falsa e bugiarda, una meretrice.
Le loro voci
giungevano alle mie orecchie come presagi, come profezie d’un
futuro di disperazione.
Ebbi paura, paura di vedere la mia vita sfiorirmi lentamente tra le
mani, di incontrare la vecchiaia e di sorprendermi ancora in quella desolata
apatia. Tu non mi bastasti più.
Ero regina,
pensai, ma ho perduto quel nome per una pozione bevuta in mare.
Voglio tornare,
ti dissi.
Forse tu non
capisti. Mi assecondasti, ma forse non capisti davvero.
Come avresti
potuto, Tristano? Sentimenti così umani e meschini non ti sono
mai appartenuti, in ben altri cieli volano da sempre il tuo cuore e il
tuo spirito.
Marco mi
riaccolse come una regina e mi restituì tutto, compreso il suo amore. Amica cara,
mi chiamò ancora.
Allora lo
guardai per la prima volta.
Allora mi
chiesi chi fossequest'uomo
a cui per due anni avevo dormito accanto, senza conoscerlo davvero. Non avevo
mai desiderato farlo. Lo avevo ignorato, come si ignora
un dettaglio, una parentesi, qualcosa di superfluo.
Marco era mio marito ma per me non era mai stato niente di più che
l'inevitabile ostacolo al nostro amore predestinato. Perché
in fondo, aveva ragione chi lo disse[5], noi non ci amavamo, noi agivamo come se
avessimo capito che tutto ciò che si opponeva all'amore lo garantiva e lo
consacrava, esaltandolo all'infinito.
Non esistevo se
non in te.
Non odiavo
Marco. Non lo amavo. Mi era indifferente, come una necessità.
Ma quel giorno lo guardai per
la prima volta.
Marco era un re ma non sarebbe mai asceso al cielo degli eroi, la Storia non lo avrebbe
ricordato con lodi e canzoni. Lo osservai nella sua quotidianità. Marco
sbagliava, faceva talvolta sciocchezze enormi, si infuriava
e sapeva perdonare. Ma soprattutto Marco amava come un uomo, non come un eroe,
con quella delicatezza, quella sgraziata passione, quell'infantile
slancio che avevo sognato quando era bambina.
E amava me, al di sopra di ogni cosa.
Avrei dovuto
capirlo prima.
Avrei dovuto capirlo quando ci trovò nella foresta ed ebbe pietà di noi e
lasciò il suo guanto a riparare il sole che mi feriva il volto.
Ero cieca,
allora.
Ma adesso, Tristano, adesso vedo.
Dal nostro
amore bellissimo e perfetto, dal nostro amore fatale,
ineluttabile, dal nostro amore disperato, adesso, chiedo pace.
Ho
migrato
per mille cieli come una rondine, ma il mio orizzonte non è stato altro che
infelicità, una nave triste, vele nere e morte.
No. Voglio
stringere la mia vita e decidere per me, finalmente. Basta con i filtri, basta con il destino!
Tu abbraccia la
tua donna e amala, se lo merita come lo merita il mio
sposo.
Non lasciare
che quell'amore ti sfugga, come per troppo tempo ho
fatto io.
Vivi Tristano,
e sii felice. Riscopri le gioie d'una vita semplice e
sconosciuta, di un'unione che non entrerà mai nella leggenda ma che ti darà
forse, finalmente, un po' di serenità.
E non preoccuparti. La Storia non si dimenticherà
di te. Tu rimarrai Tristano, l'eroe, Tristano che aveva
rinunciato a tutto, per amore, tradito dalla sua Isotta per una vita di
agi e di comodità.
Sarà
il mio nome a cadere nell'oblio, lo so bene.
Morire per
amore mi avrebbe concesso quella fama che una vita serena non mi darà mai.
E un
giorno...un giorno qualcuno nominerà Tristano chiedendosi chi fosse il suo grande amore.
Quel giorno,
credimi, sarò felice.
Isotta
[1]Il titolo viene dal Roman de Renart. È la volpe stessa che, travestita, dice al lupo Isengrino di conoscere “le lai dam
Iset”. Come è tipico deilaisi versi successivi sono in ottosillabi a rima baciata, con rime maschili e femminili.
Nel testo ci sono alcune citazioni dal Tristan
di Thomas e dal Tristan di Béroul, parafrasate o tradotte letteralmente.
[2]Illai duChievrefoil, di Maria di Francia, racconta di un incontro tra i due amanti
poi messo in musica dallo stesso Tristano.
[3]Utilizzo la parolaavventuranel senso dell’antico franceseaventure.
[4]Traduco letteralmenteArc-qui-ne-faut, nome proprio dell’arco magico
posseduto da Tristano.
A
Lilithkyubi. Non so se altrimenti avrei scritto questo capitolo.
DIDONE
Non
ti aspettavi questa lettera, lo so.
Forse
hai creduto che io fossi morta, vedendo il fumo che si levava da
Cartagine.
Forse
hai creduto di incontrarmi nell'ade, sdegnosa e silente.
Non
ero io, Enea, era quel poco d'umanità che ti resta, a te,
figlio degli dei, destinato a fondare Roma, alla grandezza, alla
gloria imperitura, quel poco d'umanità che ti resta e la tua
coscienza che rimordeva a figurarti la mia immagine.
Virgilio
dovrà cercare un'altra eroina votata al dolore, Dante dovrà
pianificare per me un girone diverso da quello dei lussuriosi.
Didone
non intende morire.
Morire
per te, per farti più bello il mondo, morire per farti più
eroe...non se ne parla.
La
pira era pronta, mi aspettava, mi chiamava. La tua vita è
finita, Didone, mi diceva. Non hai più nulla. Hai perduto la
dignità e hai perduto l'amore.
Ero
lì.
Stavo
quasi per farlo.
Poi
ho capito.
L'amore
è vero, lo ho perduto. Ma è stato molto tempo fa,
quando Sicheo si è spento, che ho perduto l'amore. E se io ti
ho amato è stato uno sbaglio, uno scherzo della vita, una
trappola degli dei.
Ma
la dignità, quella no.
Sono
stata sciocca, ho creduto alle tue promesse, ho creduto alle tue
parole e ai tuoi gesti. Sono stata ingenua ma non ho perduto la
dignità.
E
se qualcuno ho tradito, se qualcuno ha il diritto di lamentarsi con
me e di rimproverarmi, non è altri che Sicheo.
A
lui solo devo chiedere perdono.
E
non per non avergli prestato fede, promessa avventata, fatta in
un'età troppo giovane e quando il dolore atroce della sua
scomparsa non si era ancora lenito. No.
È
per aver confuso la grandezza di ciò che noi abbiamo avuto,
del nostro amore nobile, gentile, profondo come il cielo della notte,
luminoso come il sole che riscalda il giorno, con questa passione
disperata, che mi ha lacerato l'anima e che mi ha corroso il cuore.
Per
essermi data a te pensando “ma prima, allora, prima non non sono
vissuta, non ho mai saputo cosa fosse l'amor vero”. Di questo, sì,
devo chiedergli perdono.
Ma
tu, Enea, tu non puoi capire.
Tu
hai abbandonato tua moglie a Troia. L'hai dimenticata nello spazio di
pochi istanti, seppellendola sotto il peso dell'inevitabile. E hai
abbandonato me quando ti avevo dato tutto. Avevo messo nelle tua mani
Cartagine e la mia vita.
Adesso,
nei lidi che vedranno sorgere Roma stringi tra le tue braccia la
bella principessa rubata a Turno e sei convinto che ti amerà.
Perché
gli dei lo hanno scritto.
Perché
tu sei Enea e diversamente non potrà andare.
Poco
importa se le hai rubato il sogno di una vita. Poco importa se hai
ucciso il suo uomo e adesso le imponi le nozze.
Poco
importa se qui, a Cartagine, una donna che hai detto di amare ha
perduto il sonno e la gioia per te. Poco importa se Pigmalione
brucerà le mie mura, se Jarba mi porterà in Getulia
schiava.
Non
ti riguarda tutto questo.
Il
tuo destino, Enea, è scritto nelle stelle e non importa chi
dovrai sacrificare perché si compia.
Ma
nelle stelle di Cartagine è scritto altro.
Nelle
stelle di Cartagine è scritto il nome di Elissa.
Non
abbandonerò il mio popolo che ha fiducia in me per sfuggire
alla vergogna di esserti stata accanto. Si dica me ciò che si
vuole. Mi si denigri. Mi si derida. Si dica pure che sono una
puttana.
Ma
sono io, Elissa, regina di Cartagine, quella che mille uomini hanno
desiderato, io da sola ho fondato la mia città, io da sola ho
innalzato il mio nome. Non avevo dei accanto. Non avevo più un
uomo.
No,
Enea, nelle stelle sopra è Cartagine è scritto altro
che gli immortali versi di una maledizione.
L'inimicizia
tra Cartagine e Roma...sì, sarà.
E
davvero sorgerà dalle mie ceneri un vendicatore che
terrorizzerà Roma, ma non adesso. Adesso no.
È
ancora il tempo di vivere.
Di
crescere.
Di
amare.
Non
lascerò Anna immersa in questo dolore che non merita.
Non
lascerò il mio popolo.
Non
lascerò me stessa.
No.
Di
morientis Elissae1,
un altro giorno invocherò il vostro nome.
Sarà
difficile.
Sarà
doloroso.
Ma
non mi spaventano il dolore e le difficoltà. No Enea. Non mi
sono tolta la vita quando morì mio marito, speso perfetto e
meraviglioso, non lo farò adesso per te.
Poi,
all'improvviso, in mezzo a tutta questa sofferenza, mentre sto
cercando dentro di me la forza, penso a Jarba e rido. È
incredibile ma rido.
Immagino
lui, un uomo del deserto, fatto di carne di rabbia, cresciuto al
sole atroce che ti prosciuga le forze e la vita, cosa possa aver
pensato di te, principino di Troia, scappato dalla sua città
mentre andava a fuoco, mentre gli altri restavano a morire, di te,
pelle bianca, mani nobili che non hanno mai lavorato, mitra
meonia legata al mento, chioma profumata...figlio
di Afrodite...immagine dell'amore.
Oh
Enea, riesci ad immaginarlo?
Come
potrei non ridere?
Così
la preoccupazione lentamente svanisce. Jarba sarà furioso, sì,
ma non faticherà a credere che sia stata la tua stessa madre
ad ingannarmi e si beerà nel sentirmi parlare male di te. Mi
perdonerà, perché mi desidera e vorrà credermi,
vorrà credere che solo per un tale motivo ho potuto preferirlo
a te.
Cosa
accadrà dopo? Non lo so.
Lo
sposerò? Chissà. Perché no, dopotutto, ma ciò
che il futuro mi riserva lo scoprirò domani. Sì, lo
scoprirò vivendo.
Questa
esperienza mi ha insegnato qualcosa di fondamentale.
Quando
si cade così in basso si può solo provare a risalire.
E
io risalirò, Enea, puoi giurarci. Non importa come. Troverò
un sistema.
La
storia forse continuerà a dire che sono morta per te, per il
tuo amore, per il tuo abbandono. Che lo dica. Non mi importa.
Tu
saprai che non è vero.
E
mi vedrai, mi vedrai grande, senza di te e soffrirai ripensando a
quello che avresti potuto avere e che hai buttato via, soffrirai
quando sarai con lei e la troverai tra le tue braccia rassegnata ed
indifferente ad un amore che le hai imposto, incapace persino di
odiarti per ciò che le hai fatto. Allora mi penserai.
Ripenserai a me, alla mia passione, al mio amore.
Ma
io sarò lontana e sarà tardi.
Sarà
con Lavinia che ti alzerai ogni mattina, sarà il suo volto
pallido e inespressivo, così bello quando lo vedesti la prima
volta, che guarderai ogni giorno, invecchiando, spegnendoti...perché
nemmeno tu potrai evitarlo. Ripenserai alla tua giovinezza, a quando
eri forte e bello, a quando la vita ti stava davanti e si chiudeva
tra le tue mani come una rosa.
Quando
a te solo pensavi e gli altri non erano che comparse sulla tua strada
illustre. Ti generò
da duri macigni l'orrendo Caucaso e tigri ircane t'offrirono le
mammelle, dissi allora. Così eri da giovane. Ma da vecchio,
Enea, sarai un uomo come gli altri, anzi, privo dell'unico conforto
che la vecchiaia può donare, sarai più meschino, più
piccolo, più solo.
Ripenserai
a tutto ciò, Enea, e piangerai sul nome d'Elissa.
No.
Non chiedo più la vendetta della tua morte insepolta.
Io
vendicherò me stessa e lo farò nel modo più
semplice. Vivrò e sarò felice.
Mentre
tu, glorioso fondatore di Roma, sconterai i tuoi giorni nell'abulia
di una sorte che ti sei scelto, imputandola agli dei. Allora saprai
che avresti potuto rifiutare. Allora saprai che avresti potuto
fermare le tue navi e che non fu l'obbedienza pia a farti partire, ma
il desiderio di scrivere il tuo nome tra i grandi, di scrivere anche
il tuo nome, codardo di Troia, accanto a quelli di Achille, Ettore,
Patroclo e Ulisse.
Ma
allora la fama e la gloria non saranno abbastanza...ti girerai nel
letto bramoso d'amore e ti parrà di avermi ancora accanto.
Poi,
di giorno, la fama di porterà alle orecchie nome di Elissa e
la sua felicità, tuae secum ferans omina mortis3.
Nella
lettera ci sono diverse citazioni dall'Eneide (canto IV, per esempio
dal discorso di Jarba, uno dei miei passi preferiti-divertentissimo,
dove il re definisce Enea “Paride con un codazzo effeminato”.
Segnalo e traduco solo quelle in latino. Per quanto riguarda la
storia immagino che tutti la conoscono, perciò faccio solo
alcune precisazioni (mi perdoni chi già sa): Elissa è
l'altro nome di Didone, Sicheo è suo marito e Jarba il re che
la donato la terra su cui costruire Cartagine e che lei ha rifiutato
di sposare Secondo dante Didone è all'inferno, nel girone dei
lussuriosi “colei
che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo”.
In vendicatore che sorgerà dalle sue ceneri è Annibale.
Infine secondo Virgilio Enea incontra nuovamente Didone nel suo
viaggio nell'Ade, la chiama, la invoca ma lei lo ignora sdegnosa e si
rifugia vicino a Sicheo che “ne eguaglia l'amore” (uno
dei più bei passi dell'Eneide, canto VI, vv. 450 ss.).
Grazie
a chi ha letto e soprattutto a chi ha recensito.
Shark
Attack: Tristano e Isotta è, a mio avviso, uno dei più
dei miti in assoluto, è ricco, coinvolgente, dettagliato...è
vero, a volte il modo in cui certe cose vengono studiate le rovina,
privandole della loro intrinseca vitalità Sono contenta che tu
abbia apprezzato.
Sophonisba:
sono d'accordo su quasi tutto (purtroppo Ettore non l'ho mai
sopportato). Ma basta con le eroine morte per amore. Giulietta...ci
avevo pensato in effetti. Figurati, leggere la tua storia è
stato piacere (e recensirla un dovere, ehhe).
Lilithkyubi:
al di là di ciò che ti ho detto all'inizio ti
confesserò che anch'io sono femminista, o meglio, mi ci fa
diventare il mondo femminista, sia quello reale che quello della
letteratura, con il suo “canone” imposto ed infrangibile. Isotta,
comunque, sia in questa versione rivisitata che in quella originale è
uno dei più bei simboli di emancipazione che io conosca. E'
una dona straordinaria, di intelligenza fuori dal comune. E poi
riesce ad ingannare persino dio, nell'ordalia (hai presente?). E di
Didone che ne pensi? Lei, a dire il vero, mi ha sempre fatto un po'
arrabbiare. Ho sempre odiato Enea. Un bacio e grazie di nuovo e
sempre.
1“Dei
d'Elissa che muore”, li invoca Didone prima di morire.
2“Né
morte né invendicate”, parafrasi di “moriemur inultae,
sed moriamur” (moriamo invendicate, ma moriamo).
3“Portanti
con sé i presagi della tua morte”. Ho parafrasato le
ultimissime parole di Didone: “nostrae secum ferat omina mortis”.
Lo
so amore mio, lo so. So che adesso che conosci la verità io ti
sembro la sola cosa mai stata importante.
Ritornano
prepotenti i ricordi e li vedi più dolci e ci vedi più felici.
Cancelli la distanza che ci separava le rare volte in cui pranzavamo
insieme, dimentichi i dinieghi e le risposte fredde, rallegri la
tristezza che mi leggevi negli occhi al mattino, prima di alzarti e
scomparire nelle tue stanze, e che ignoravi assorbito dai tuoi
doveri, dicendoti forse “domani”.
Immagini
che quel domani sia arrivato davvero, e con esso il chiarimento e il
ritorno di una felicità soltanto intravista.
La
nostra unione non ti appare più come una lenta corsa verso la fine.
Gli
imperdonabili errori ti sembrano piccole mancanze, le discussioni
aspre tra due persone che non si conoscono più, solo tafferugli tra
innamorati.
Ripeti
che sì, ci siamo amati fino alla fine. Intensamente, con passione,
talvolta con rabbia.
Della
nostra felicità intravista e troppo presto fuggita via fai un
sentiero infinito e non capisci come sia potuto accadere.
Non
ricordi la tua indifferenza e la tua arroganza.
Non
ricordi le infinite volte in cui hai ripetuto “io sono re Artù”,
ricordandomi che dal nulla che ero mi avevi reso regina.
Non
ricordi le tue mani esigenti e i tuoi pensieri sempre distanti e la
mia voce che vibrava di rancore e di sdegno.
Rivivo
la mia scelta, quasi con indifferenza.
Lui
che mi sorrideva, bello come un sogno e mi amava senza esitazioni o
freni.
Mi
amava più di se stesso, più del suo onore, più del suo re.
Si
inginocchiava davanti a me e chinava il volto. Era il più grande
cavaliere del mondo eppure si umiliava per il mio amore.
Così
cominciava tutto.
Amore
mio, non c'è assoluzione per quello che ho fatto.
Non
me la conceranno gli uomini, né i poeti, né certamente me la
concederò io.
Tu
solo mi perdonerai reclinando il capo, in nome dell'amore che mi hai
sempre portato e che così raramente hai saputo dimostrarmi.
Io
conosco bene la grandezza del tuo amore, la conosco, la so. L'ho
sempre saputa, ma saperla non mi bastava più.
Consumata
nella tua assenza ho covato il mio rancore inconsapevole, ho odiato i
sudditi con cui dovevo dividerti, i cavalieri a cui appartenevi, il
regno che rivendicava il tuo nome.
Amore
mio, non c'è assoluzione per quello che hai fatto.
Te
la concederanno gli uomini e ti perdoneranno i poeti, ma certamente
non te la conederò io.
Perché
tu, Artù, mi hai amato al di sopra di ogni altra cosa ad eccezione
della tua leggenda e la tua leggenda si è fatta ogni giorno più
grande fino a consumarti. Fino a consumarci entrambi.
Artù,
re di Camelot, signore della Tavola Rotonda. Chi mai è stato più
grande al mondo? Su chi mai si è cantato di più? Con parole più
belle e più fulgenti?
Brilla,
amore mio, la tua leggenda.
Ma
più ancora splende la sua. La sua leggenda.
Tuttavia
lui non l'ama e volentieri la rinnegherebbe per me. Lui è l'uomo che
è salito nel carretto coi lebbrosi, è l'uomo che ha attraversato il
ponte sottile come un capello e tagliente come una spada, è il
cavaliere che ha ha tradito il suo re.
Ti
ha amato come un fratello, ti è stato devoto come un servo, ma non
ha saputo rinunciare a me.
Vive
lacerato dal suo dolore, distrutto da una colpa che lo danna ancora
vivo, ti ama e tuttavia mi ama di più e si crocifigge al suo
tormento.
Lo
so, Artù. Adesso che mi stai perdendo ti sembro bella e dolce come
forse non sono mai stata. Mi perdoneresti ogni errore, compreso il
tradimento, mi tenderesti la mano e rinunceresti per me ad ogni cosa.
Forse
persino alla tua corona.
Lo
so, Artù, perché provo le stesse cose.
Il
dolore di ieri mi sembra piccolo e distante, le tue odiose assenze
solo attese dolci del ritorno, l'amore che ho giurato a Lancillotto
solo una ripicca sciocca.
Rivedo
tuoi occhi, i tuoi sorrisi, le tue carezze e le amo come non le ho
mai amate.
Tu
solo sei importante.
Ricordo
parole tenere e affettuose, baci appassionati e violenti, mani
desiderose e mai sazie.
Ricordo
quando svestivi i panni del re e tra le mie braccia ritornavi
bambino, ti lasciavi stringere cullare e dicevi che nessuna era più
bella di me.
I
poeti mi chiameranno putain, scriveranno su di me sordide
storie di tradimento.
Ma
tu, amore mio, saprai.
Almeno
questo, almeno poco, ma saprai.
Oggi
muore con te la tua Ginevra, e i giorni futuri non vedranno altro che
il simulacro della sua esistenza.
Muore
oggi con te, con la sua colpa e il perdono che non può concederti,
egoista fino all'ultimo istante, ma da te perdonata, e con il sorriso
sul volto.
Il
resto saranno i nostri nomi consegnati alla storia, luminosi come
stelle.
Nell'ultimo
istante non ti dono perdono, ma amore. Amore ti dono e tu prendilo, e
con esso spegniti, attendendo a Mongibello tua sorella. Quando la
strega verrà per te, io non ci sarò più.
Ma
il mio amore, che ti consegno infine, vivrà per sempre e
t'accompagnerà lungo il morire dei giorni, maledizione o benedizione
su di te e ultimo bacio della tua Ginevra.
Non so dire se
questo capitolo sia il seguito del precedente, o se metta in scena
una Ginevra diversa.
Credo
che siua la stessa, in ogni modo, sempre lei, questa volta in un
colloquio post mortem un po' sui generis...ancora impegnata a
riflettere su di sé.
La
difesa di Ginevra
Mi chiedete di difendermi, ma da
cosa, signori miei?
Dal
tradimento o piuttosto dalla morte che rifiutai?
Non
vi è bastato il monastero dove mi sono rinchiusa, per obbligarmi a
una castità che non ho mai praticato – né cercato, come ammetto?
Temo
di no, perché so che voi volevate di più.
Chiedevate
il mio sangue, lo acclamavate a gran voce.
Non
prendetevi gioco di me, tuttavia: ciò che cercavate non era la
purificazione della mia colpa, ma solo la possibilità di avermi
sotto controllo.
Invece
mi trovate viva, sfuggita a quel controllo, e ve ne rammaricate
chiedendomene giustificazione.
Voi
avete stabilito le regole, io le ho infrante.
Da
ciò dunque devo difendermi e da ciò mi difenderò, in questo
tribunale della coscienza che avete costituito, davanti a questa
giuria di cui voi stessi fate parte, giudici e giuria nel contempo.
Vi
conosco uno per uno.
Siete
gli uomini che ci imposero le regole e le donne che non ebbero il
coraggio di ribellarvisi.
Io,
al contrario, vissi sempre sul filo della lama, stabilii le mie
regole e le infransi a mia volta, completamente insoddisfatta di me,
attirandomi il biasimo della mia corte e dei miei cavalieri.
Mi
biasimarono per le menzogne e per il tradimento, perché per mia
colpa morirono in tanti e forse, per mia colpa, si spense il sogno di
Camelot.
Io
sono la Ginevra di Camelot, la moglie di re Artù. Sono la Ginevra
che fu amante di Lancillotto.
Sono
io e non ne provo vergogna.
Ma
tacete adesso, smettete di mormorare tra voi come comari e ascoltate
la difesa che mi avete chiesto.
Sapete
immaginare come trascorrono le giornate di una regina?
Mentre
i cavalieri e il re, mio marito, duellavano con le spade e con le
parole, io combattevo ogni ora una guerra silenziosa e inosservata,
di cui nessuno ha mai parlato: quella contro il tempo che scorreva
implacabile segnando il mio volto stanco.
La
guerra che combattevo per apparire ogni giorno più bella, cosicché
i bardi potessero dedicarmi canzoni e lodi.
Potete
biasimarmi per la noia che mi divorava dentro?
La
bellezza, a onor del vero, è stata sempre una grande fatica, perché
essere all'altezza delle aspettative non era affatto facile.
Carina
lo sono sempre stata, ma non è certo sufficiente per essere regina.
Avete
forse mai sentito dire “la regina era graziosa” o “in molte
erano più belle di lei”, o ancora “aveva dei begli occhi, ma
tutto sommato non era niente di speciale”?.
Mai,
direi.
Sempre
“non v'era in tutta la corte una fanciulla più bella e nobile”,
o “era così bella che pareva una fata”; dunque bisognava
ingegnarsi, vestirsi, sistemarsi, agghindarsi, ma sempre in modo da
sembrare naturale: è così che mi tenevo occupata. Lasciavo crescere
i capelli, cosicché le mie ancelle impiegassero più tempo a
pettinarli, e conoscevo a memoria ogni centimetro della mia pelle
bianchissima – mai prenderci un po' di sole, per carità.
Alla
lunga la cosa mi ha stancato.
Al
di là di questo c'era Artù.
Che
marito credete sia mai stato?
Immaginate
un uomo comprensivo e pieno d'amore che con gli ultimi sospiri mi ha
perdonato per la mia infamia.
Sì,
questo è esatto.
Immaginate
un uomo saggio e giusto, che ha guidato Camelot a diventare il centro
del mondo e che è stato tradito dalle persone che amava di più.
Vero
anche questo.
Ma
da qui a essere un buon marito, correva in mezzo il mare che separa
la Bretagna dall'Inghilterra.
Non
è che bastino due paroline dolci buttate qua e là per poter essere
considerato tale.
Ci
vuole tempo e fatica e quelli Artù li ha sempre impiegati per altro.
Per
Camelot e per la Tavola Rotonda, per esempio.
Ma
si può dividere un marito con una Tavola, per quando rotonda sia?
Eppure
credetemi, l'amava molto più di quanto non amasse me. Non c'era
proprio paragone, in effetti; qualche volta sussurrava il suo nome e
la chiamava di notte, mentre dormiva.
Così
avevo sempre la sensazione che a lei fossero dedicati i suoi sospiri
migliori: era una femmina, non a caso, una Tavola, non un Tavolo.
Non
gliel'avessi mai portata in dote!
E
a ulteriore conferma di ciò, se mai ve ne fosse bisogno, vi dico
che, quando Lancillotto mi ha portata via per sottrarmi alla morte a
cui, colpevole di tradimento, mi aveva condannata, Artù ha pianto i
suoi cavalieri assai più di quanto non abbia pianto me, perché la
loro morte o il loro abbandono aveva decretato, senza possibilità di
ritorno, la fine della Tavola rotonda.
Adesso
voi mi biasimate per essermi donata a Lancillotto, il giorno in cui
Galeotto lo condusse nella mia stanza e mi pregò di concedergli un
bacio, mi biasimate per aver mentito a mio marito, per aver
spergiurato su Dio e sul mio onore, e tuttavia, se foste più onesti,
direste che non è questo ciò che più vi disturba.
Purché
avessi deciso di morire per Lancillotto voi me lo avreste perdonato,
proprio come perdonaste Isotta.
Ma
Ginevra non scelse la morte, si rinchiuse piuttosto ad Almesbury e lì
decise di attendere la fine, vivendo come una monaca.
Ginevra
rifiutò di seguire il suo amante, giunto a portarla via, e fu lei,
con la sua scelta, a costringerlo a ritirarsi dal mondo.
Ecco
dunque la storia di un'amante imperfetta, voi dite.
Ma
cosa credete mi abbia spinto a quella decisione? Ve lo siete mai
chiesti, signori e signore giudici, signori e signore della giuria?
Non
fu il senso di colpa che mi consumava, né il dolore per quella
perdita.
Quello
fu ciò che dissi, perché sapevo che nessuno avrebbe mai potuto
comprendere le mie ragioni, né ritenevo di doverle dare – la
sincerità non è mai stata tra i miei pregi o tra i miei difetti.
Adesso,
tuttavia, calato finalmente l'oblio, non c'è più nulla che mi
trattenga dal parlare: a farmi intraprendere quella strada
semplicemente la consapevolezza che, perduto Artù, niente avrebbe
più avuto un senso.
Che
senso può avere farsi un amante quando non si ha più un marito?
Ecco
dunque che improvvisamente Lancillotto perse tutto il suo fascino e
in me sbiadì ogni interesse per lui: non volli nemmeno baciarlo
quando venne a salutarmi per l'ultima volta – e dire che, come voi
ben sapete, non avevo mai brillato per castità.
Il
gioco era improvvisamente concluso.
Storcete
la bocca nel sentirmelo dire, ma è la sola verità che posso
offrirvi: vendicarmi per le poco attenzioni di mio marito, legare a
me il cavaliere che tutte amavano e desideravano, ma che io sola
potevo avere – oh quanto ne godevo, dentro di me -, e tuttavia
essere sicura che, alla fine, avrei avuto il perdono: tutto questo
era stato un gioco.
Non
ho mai smesso di amare Artù. Avevamo condiviso troppe cose, troppi
desideri, troppi sogni, troppe paure, e in fondo avevamo costruito
insieme un regno – per quanto il mio nome non figurasse che in
qualche appendice senza importanza.
Se
ho ricambiato l'amore di Lancillotto, d'altra parte, non è stato
nemmeno per pura vanità. Ero abbastanza saggia da sapere che la
bellezza non è che un dono effimero e che il suo amore
incondizionato mi avrebbe procurato più guai che piaceri.
Alla
noia, tuttavia, non sapevo porre rimedio.
So
bene che vi scandalizza sentirlo dire, ma dovete rassegnarvi
all'evidenza dei fatti.
Fu
un in fondo la stessa noia che condusse Merlino a farsi imbrogliare
da Nimue – sebbene voi non l'abbiate mai capito o cerchiate ancora
spiegazioni diverse e più rassicuranti.
Certo,
una tale noia voi non l'avete mai sperimentata (né voi, né mio
marito, né Lancillotto) e dunque forse non potete comprenderla
davvero. Le vostre vite avventurose erano votate alla gloria e ne
traevate infinito piacere, eccitandovi per la paura della morte in un
duello.
Ma
la mia vita era ben diversa, se i momenti più intensi li ricordo
quando, per dimostrare la mia innocenza davanti a Dio, dovevo
affidarmi alla spada di un cavaliere che combattesse per me.
Potete
dunque biasimarmi davvero per questo piccolo diversivo, per quanto
funesto nelle sue conseguenze?
Per
aver cercato, voglio dire, la passione, la gelosia, la rabbia, il
tradimento?
Per
aver scritto nelle pagine della storia il mio nome che altrimenti
sarebbe stato dimenticato, confuso nell'espressione vaga “la moglie
di Artù”.
Adesso
invece mi chiamate con molti nomi, non sempre lusinghieri.
Adesso
invece vi ricordate di me e vi faccio paura perché scelsi sempre e
non mi volli uccidere, e più paura ancora perché nella solitudine
di Almesbury, senza ormai nulla da perdere, rifiutai Lancillotto e la
sua compagnia.
Lo
feci perché non avrebbe avuto senso andare, e perché la noia non mi
spaventava più. Ormai avevo abbastanza storie e abbastanza ricordi
da colmare gli anni che rimanevano, sola finalmente con me stessa.
Niente
più cavalieri, spade, tornei e soprattutto basta Tavole rotonde.
Nella
mia piccola cella feci portare un piccolo tavolino quadrato e gli
parlai qualche volta ridendo tra me e me, chiedendogli come avesse
potuto, mio marito, preferirmi una Tavola, per quanto rotonda fosse.
Non
mi rispose mai, ma quel monologo silenzioso consolò i miei ultimi
anni assai più di quanto non fecero le voci squittenti di giovani
ancelle impegnate a compiacermi o la consacrazione a madre badessa,
che mi vide in qualche modo tornare a essere regina – posizione che
non è mai dispiaciuta, devo ammetterlo, poiché sono sempre stata
una donna ambiziosa.
Poi,
quando la vecchiaia giunse a velarmi occhi, quando ormai nessun
orpello e nessuna ancella poteva più richiamare indietro i residui
dell'antica bellezza, scelsi di essere sepolta accanto a mio marito.
Non mi importava più nulla di Lancillotto e dell'amore che
probabilmente mi portava ancora, né di ciò che avrebbero detto di
me.
Era
quella la sola conclusione possibile: con Artù avevo vissuto, avevo
amato, avevo odiato, avevo peccato, riso e pianto, avevo tradito ed
ero stata persino condannata a morte.
Non
vi era un altro posto che avrebbe potuto accogliermi e lì sdraiai
senza più parole, accanto a lui, nel silenzio che non mi avrebbe mai
più arrecato noia, finalmente senza dover lottare, finalmente
conclusa quella guerra silenziosa e inosservata che era stata la mia
esistenza.
Grazie a chi ha letto
e ai miei adorati recensori!
Altovoltaggio:
grazie come sempre per il sostegno che non mi fai mai mancare.
Ginevra, quella delle leggende arturiane, è un personaggio
meraviglioso ma purtroppo ppena accennato. In generale la materia
bretone tende a rilegarla sullo sfondo delle vicende, di cui pure fa
da motore.
Chiara_96: che
dire? Grazie mille per i complimenti, spero che tu abbia avuto modo
di leggere anche questo capitolo e magari, perché no, di
apprezzarlo!
Capitolo 5 *** La dipatita di Merlino da questo mondo ***
La
dipartita di Merlino da questo mondo.
Non
è che fosse stanco della vita,
come in molti avevano detto,
cercando scuse per colmare
l'improvviso baratro
creato dallo sgretolarsi della sua
grandezza,
ma
era vero che aveva capito.
Non
la fine di Camelot o la vanità della Queste,
no -
per
quello sarebbe bastata poca magia,
un
decimo della sua arte divinatoria -
né
aveva ovviamente trovato un senso all'effimera vanità del tutto.
Semplicemente,
dopo una vita trascorsa a inseguire parole,
a
scovarle nei luoghi più arcani,
a
impararle col sudore e col sangue,
a
pronunciarle con cadenza perfetta e sublime,
insomma,
ad amarle ad una una come se fossero figlie,
aveva
scoperto il gusto -
se
non ancora il senso -
il
gusto, sì, di un gesto e di uno sguardo.
E
allora aveva scelto:
pochi
minuti come un vecchio qualunque
-
barba bianca e rughe sul volto,
instupidito
dai suoi begli occhi -
di
lasciarsi fregare col sorriso sulle labbra
-
e aveva goduto, oh se aveva goduto!
Ma
neppure così lo lasciarono in pace.
Non
ci fu nessuno, per esempio, ch'ebbe il coraggio di dire
«è
un vecchio scemo!»
-
troppi, ancora, il timore e la venerazione -,
continuarono
a invocarlo o a inventare giustificazioni,
incapaci
di lasciargli quell'istante di normalità,
incapaci
di lasciarlo andare come aveva scelto,
come
non aveva mai vissuto
come
un uomo qualunque.
Spazio
autrice:
qualche
delucidazione, nel caso in cui a qualunque servisse.
Secondo
la vulgata del ciclo arturiano, Merlino si innamora di Nimué, una
delle damigelle della Dama del Lago (spesso la figura di Nimué è
sovrapposta a quella di Morgana o alla stessa Dama del Lago) e decide
di insegnarle l'arte magica.
A
causa delle sue continue profferte amorose, Nimué si stanca di lui e
lo rinchiude in una caverna meravigliosa sfruttando l'arte che lui
stesso le ha insegnato.
Ovviamente
Merlino aveva previsto tutto, e lo aveva rivelato ad Artù, ma non ha
fatto nulla per impedire che accadesse, perché il destino, a suo
avviso, è già scritto, o semplicemente perché così avrebbe dovuto
essere.
Nel
mondo, naturalmente, lo rimpiangono non poco e continuano a
invocarlo, specialmente Artù.
Questa
è la mia personale interpretazione dei fatti.
Un
bacio a tutti e grazie a:
Cabol:
eh, la documentazione, diciamo, si trova nel backround lavorativo
della sottoscritta...insomma, il ciclo bretone è materia all'ordine
del giorno. Che ne pensi? Il capitolo è un po' diverso dai
precedenti, ma lo esigeva il tipo di idea che mi piaceva dare...
Altovoltaggio:grazie
grazie...mi piacerebbe scrivere su Anna Bolena, ma non ho
approfondito abbastanza l'argomento, magari in futuro...mi
piacerebbe. Sono più ferrata sulla mitologia in generale, se hai
qualche richiesta sarò felicissima di accontentarti, compatibilmente
con la mia ispirazione. A presto!
Capitolo 6 *** Tutta la vita - la vita - di Morgana ***
Tutta
la vita – la vita – di Morgana
Era lei,
la strega -
si
sa che gli uomini hanno bisogno di averne una
per
poter inveire contro alla femminilità -
e non le
dispiaceva, tutto sommato.
Almeno
le permetteva di distinguersi da quel tipo di donna,
quella
che si strugge per amore
e alla
fine – inevitabilmente – muore -
si
uccide, insomma.
Non che
non amasse, questo no.
Amava -
eccome
se amava!
ma quel
tipo di donna non la poteva soffrire.
Per
questo ce l'aveva tanto con Ginevra,
tanto
davvero,
abbastanza
da distruggerle la vita, almeno,
e
aspettare che lo facesse lei quel gesto patetico e disperato.
Gli
altri -
tutti
-
credevano
che la odiasse per via di Guigamor -
ed
era vero in parte,
(era
stata lei a ostacolare la sua storia),
ma,
andiamo, era Morgana, lei!
Lo
avrebbe avuto comunque, alla fine, quando sarebbero stati soli,
loro
due, nell'Avalon.
Il
punto era diverso, dunque -
Il
punto - qual era il punto? - il punto era l'altro,
era che
Ginevra rappresentava tutto quello che lei odiava,
in
una donna.
Ma alla
fine si era sbagliata. Ginevra non si era tolta la vita -
non
era quel tipo di donna, allora -
nemmeno
quando Artù era morto,
né era
tornata con Lancillotto, quando lui l'aveva cercata, pazzo d'amore.
Aveva
scelto, Ginevra, la solitudine.
Perciò,
perciò...
Ma
Morgana era felice.
Aveva la
necromanzia, un uomo, un figlio -
ma
era sola, forse -
sola, ma
come tutti sono soli, in fondo.
Alla
fine però era andata anche a riprendersi Artù,
l'Avalon
era abbastanza grande, dopotutto,
o troppo
grande -
inutile
farsi troppe domande.
Le
rimaneva il rimpianto di non essere stata lei a imprigionare Merlino
-
a
sconfiggerlo, insomma -
ma non
era neppure sicura che ce l'avrebbe fatta, a voler essere onesta.
Forse
alla fine si sarebbe fermata, per un ultimo scrupolo,
perché
un tale mago -
il
suo maestro -
non
avrebbe potuto finire così,
o forse
perché conosceva la verità -
la
verità -
quella
di Merlino, della sua storia, della sua vita,
e la
sua,
quella
di Morgana, della sua storia, della sua vita,
e di
Artù, persino.
Tutti
grandissimi, e soli -
ma
la solitudine non era così male, in fondo,
quando
si poteva viverla insieme.
E poi
gli uomini avevano bisogno di avere una strega,
non
avrebbero saputo farne a meno,
e lei,
lei,
era solo
l'altra faccia di Melusina,
la fata.
L'Avalon
era abbastanza grande per tutti.
Spazio
autrice.
In
questo caso non credo servano delucidazioni. L'unica, forse, riguarda
la storia tra Guigamor e Morgana che Ginevra ostacola convincendo
Guigamor (suo nipote, secondo alcune fonti) a lasciare la maga.
Guigamor diverrà in seguito signore dell'Avalon.
Celebre
e assai noto il fatto che Morgana andrà a prendere Artù (suo
fratellastro e in alcune fonti padre incestuoso di suo figlio) per
portarlo nell'Avalon, un attimo prima della sua morte.
Ah,
secondo molti studiosi, Morgana e Melusina sono le due facce della
femminilità: la strega e la fata.
Cabol:
grazie davvero...mi hai dato lo spunto per scrivere anche questa.
Stesso stile, altro personaggio. Ah, hai visto che ho cambiato il
titolo della storia fantasy? Ora si chiama I figli del re, mi
raccomando, ci tengo al tuo parere... Un abbraccio.
Capitolo 14 *** Il viaggio di Alessandro il Grande ***
Il viaggio d'Alessandro il Grande
Sollevò il vino, e lo guardarono.
Qualcuno indovinò che già sapesse, che avesse capito,
intuito, già visto,
come fanno gli dei.
Qualcuno si limitò ad osservarne l'eleganza,
attonito, ancora una volta,
quasi stordito da quella perfezione.
Qualcun altro attese trepidante e ansioso,
ma colmo di paura, in fondo,
inconsapevole di ciò che sarebbe accaduto,
quando il suo astro fulgente fosse tornato al cielo.
Ma a lui di tutto questo non importava più.
Sui loro volti non scorgeva che fantasmi,
ricordi d'una felicità lontana,
nomi antichi d'un passato già andato.
Non aveva più valore la gloria,
aveva perduto quel sapore d'eterno
adesso che si trovava a gustarla da solo.
Gli avrebbe lasciato molto di cui parlare,
domande da porsi,
dubbi irrisolti,
e così tanta frustrazione,
orfani del proprio dio.
In lui, solo il cuore che batteva
come un adolescente al primo amore,
solo la fretta, adesso che tutto era stato approntato:
la sua statua che lo guardava
e l'ultima imperitura conquista a glorificare la sua memoria.
Andava di fretta, Alessandro il Grande,
come sempre aveva fatto nella vita.
Solo, non vi erano immaginari confini questa volta,
né mondi nuovi per le sue Alessandrie.
Questa volta conosceva la meta del viaggio
e chi l'attendeva dall'altra parte,
e vi andava come un uomo, questa volta,
a passo svelto, emozionato, sicuro d'essersi già attardato troppo.
Là, dovunque fosse, lo avrebbe trovato
con le sue mani calde, il suo sorriso, le sue cosce persino,
la sola cosa che lo avesse mai vinto.
E non desiderava che perdere, adesso.
Spazio autrice.
Lascio il ciclo arturiano per un ritorno indietro, ad Alessandro ed Efestione. Il primo, l'uomo che ha saputo diventare mito, il secondo, l'uomo che gli ha permesso di farlo. Così vedo la morte di Alessandro, a così pochi mesi da quella di Efestione.
Un omaggio ai rapporti umani, all'amicizia, all'amore, di qualunque tipo, genere, modo essi siano. Nella convinzione imperitura che siano la sola cosa per cui vale la pena vivere la vita.
Cara Professoressa,
per prima cosa grazie davvero, sia per aver trovato il tempo di scrivere questa lettera, sia per le belle parole che ha usato per me.
Io credo che avrebbe potuto spedire la lettera anche in italiano, in ogni caso ecco la traduzione. Mi sono attenuta il più possibile (problemi di traduzione a parte) all'originale. Ho fatto solo una piccola correzione riguardo alla tesi di laurea che non era ancora un'edizione critica (per quella ho dovuto aspettare il dottorato) ma uno studio preparatorio, focalizzato in particolar modo su un manoscritto trascurato dall'edizione precedente.
Ho aggiunto anche l'intestazione.
Il solo dubbio mi rimane per quanto riguarda la sua qualifica, perché non conosco bene le corrispondenze con l'inglese.
“Former professor” significa "in pensione", ma mi pare più adatto “professor emeritus”, che in inglese viene usato “when a person of importance in a given profession retires and/or hands over the position, so that his former rank can still be used in his title. This is particularly useful when establishing the authority of a person who might comment, lecture or write on a particular subject.”.
Insomma, non ho particolare familiarità con la questione, ma mi sembra decisamente il suo caso.
Deve essere inviata inviare entro le ore 16 di lunedì all'indirizzo mail
lb358@cam.ac.uk
Nel caso in cui possa servirle, le invio l'intestazione della mail che ho inviato anche alla professoressa Capusso:
Dear Louise Balshaw and Committee Members:
As request by the call for a Research Associate on the AHRC-funded project on Medieval French Literary Culture outside of France, I send to you a reference letter about the applicant Francesca Righetti.
Nell'oggetto della mail:
Reference letter (Research Associate on the AHRC-funded project on Medieval French Literary Culture outside of France)
Un caro saluto, sperando di vederla presto, e ancora grazie,
Anche quello, certo, trovarsi improvvisamente accomunato a Marco,
orecchie equine ,
in un’unica sorte di derisione e sconfitta,
ma avrebbe potuto sopportarlo, in fondo.
Ciò che lo uccise fu la schiena di Lancillotto
diretta verso un altro destino,
la sua schiena che lasciava Camelot
i suoi occhi che non si voltarono indietro.
Lo guardò partire come se guardasse abbandonarlo i suoi stessi sogni,
desideri cresciuti come figli;
lo guardò partire come avrebbe guardato un figlio,
o le vele nere d’una nave attesa.
Avvertì la solitudine esplodergli nel petto
e neppure Excalibur che brillava al suo fianco
gli portò consolazione.
Fissò quel posto vuoto
come il volto d’un fallimento,
e seppe che nessuno avrebbe mai potuto riempirlo.
Capì allora la sua Tavola stava morendo
e si spense con lei.
Spazio autrice.
Torno a proporvi Lancillotto e Artù, ma da una prospettiva diversa. Vi racconto il tradimento di Lancillotto che diede il via alla fine di Camelot e il modo in cui Artù potrebbe averlo vissuto. Omaggio, ancora una volta, un capolavoro assoluto della letteratura, decisamente troppo trascurato.