Gli occhi dei pesci

di goldenfish
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** qwerty ***
Capitolo 2: *** Bambina ***
Capitolo 3: *** Carta da lettere blu notte ***
Capitolo 4: *** Illusion ***
Capitolo 5: *** Il rumore delle onde. Sul gelato. ***
Capitolo 6: *** Origami ***
Capitolo 7: *** Goldenfish dava da mangiare ai piccioni ***
Capitolo 8: *** La cetonia spillata ***
Capitolo 9: *** Ricordi dal futuro ***
Capitolo 10: *** Limone ***
Capitolo 11: *** Blackout ***
Capitolo 12: *** Birra, gradazione 5,3% ***
Capitolo 13: *** Malattia ***
Capitolo 14: *** Maschera a gas ***
Capitolo 15: *** Patetici ***
Capitolo 16: *** Spicchi d'arancia e capuccino al lampone ***



Capitolo 1
*** qwerty ***


-Qwerty-

Ero a casa da solo.
Il campanello non lo sentivo. Mentivo.

Quell'odioso "drin" stonato si sentiva da in fondo alla via.

Peggio di un coro di gatti in amore.

Il mio gatto era castrato. Che cattiveria.

"Dopo scappa" diceva mia madre.
Così decidemmo di castrarlo.
Che bel futuro per un gatto. No, non è un gatto di appartamento. Lui esce e viene umiliato dagli altri gatti.
Lo mordono. Se avesse ancora le palle magari sarebbe lui ad umiliarli.
Ma non le ha.
Perchè se no scappa.

E' buio fuori. Il campanello continua a suonare, ma io non lo sento.

Arriva il mio gatto senza palle. Letteralmente.
Mi fa le fusa.
Carino.

Il campanello continua a suonare.
Saranno stati i ragazzi a bloccare il campanello con un rametto.

Quel rumore gracchiante mi è entrato nella testa.

Che stano presente e passato si sono accavallati.
Errori di ortografia? Forse. Non sono bravo in italiano.
Cosa c'entra l'ortografia con i tempi verbali?
Niente.
L'ho detto che non sono bravo in italiano.

Il campanello suona ancora.
Maledetti.
Apro la porta.

"Finalmente".
"Entra".
"Ti offro da bere?"
"Si, grazie."

Prendo due bicchieri. Perchè?
Tanto sono da solo.



N.D.A. : Ok ho dato il meglio/peggio di me in questo racconto. Non ha un filo logico.
              Mi piace! La logica non fa per me :B
              Bene. I miei pareri non contano.
              Lascio a voi i commenti per distruggermi.

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Capitolo 2
*** Bambina ***


-Bambina-


L'altro giorno ero in centro.
Da sola.
NOn avevo molto da fare, e avevo un sacco di tempo da sprecare.
Io odio il centro.
Adesso non dirò come tutti i falsi alternativi  che odio il centro "perchè c'è troppa gente". Quelli sono solo ipocriti.

Io odio il centro perchè c'è troppa gen...

Siamo tutti un po' ipocriti, in fondo.

Camminavo lungo le vie più trafficate per crogiolarmi nel mio anonimato.
Avevo la sciarpa davanti al naso e mi si appannavano gli occhiali.

Ad un certo punto vedo una bambina.
Era molto bella.
Capelli biondi tutti boccolosi e due vispi occhi castani, molto grandi e allegri. Aveva il naso spruzzato di lentiggini e un vestito grigio.

"Che carina" pensai. Sembrava una bambola.
Io da piccola ero un maschio.
No, è vero.
Mi ero creata una doppia identità.
Così potevo giocare a calcio con gli altri.
Un po' la invidiavo. Non avevo mai messo un vestito.
Se tornassi indietro mi piacerebbe essere come lei.

Dopo un po' un uomo, penso il padre, l'aveva presentata ad una donna.

-Che carina, come ti chiami?-
-Non sono cazzi tuoi, stronza-

La donna era rimasta attonita, il padre ed io pure.

Ripensandoci.

No, non sono mai stata una bambina.

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Capitolo 3
*** Carta da lettere blu notte ***


-Carta da lettere colore blu notte-


La notte è blu.

Come la mia carta da lettere.
Non che scrivessi lettere. Non so scrivere bene.E non ho mai avuto nessuno a cui spedirle.
 
Ultimamente pensavo di indirizzarne una a lei.
Mi manca anche se non mi ha mai parlato.
Mi mancano i suoi sorrisi, anche se non erano rivolti a me.
E, soprattutto, mi mancano le giornate che passavo davanti alla sua via, per vederla uscire.
Mi mancano le sue mani. Così perfette.
Mi manca tutto di lei, anche quell'orribile carnagione bianca.

E' di carta di riso.
No, non lei, ma la mia carta da lettere.
E' così bella, con quegli stani scarabocchi che si vedono contro luce.

E' ruvida.
No, non la carta, lei.

Però è sempre così affascinante ed elegante. La carta.

Ed è blu, come il suo vestito.

Potrei scriverle, con una penna color blu, così lei non riuscirebbe a leggere. Ma come ho già detto, non posso.

L'avevo vista per la prima volta su una panchina. In un parco.
E me ne sono innamorato. Glielo direi volentieri, glielo scriverei in una lettera, ma proprio non posso.

Alla carta da lettere.

Colore blu notte.


                                                     Firmato un uomo qualsiasi.

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Capitolo 4
*** Illusion ***


-Illusion-


Mi chiamavano Illusion.
Perchè?
Se lo sapessi non mi avrebbero chiamato così.

Sono solo un'illusione.
Un'illusione della vita.
Sono io la causa delle tue delusioni.
Sono io che soffio sul tuo castello in aria. Che crolla, oh come crolla.
Tutti quei mattoncini fatti di, appunto, illusioni cascano al minimo soffio.

Non crediate che mi piaccia.
Provo solo un sadico divertimento nel vedere la disperazione che vi coglie quando vi accorgete di me.

Illusione.

La realtà è per pochi.

E' più rassicurante proteggervi dietro di me.
Ma, io vi deludo sempre.
Sono così effimero, così delicato.

Così irreale.

Ogni volta mi fate crescere con le vostre speranze e i vostri sogni.
E io ve ne sono grato.
Peccato che però, più io cresco, più vi farò male.

Lasciatemi libero.

Sono solo un'illusione.

Non esisto.

Non posso vivere.

Non posso morire.

E allora perchè continuate a chiamarmi?

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Capitolo 5
*** Il rumore delle onde. Sul gelato. ***


Il rumore delle onde. Sul gelato.
 

E' così rilassante sentire il rumore delle onde.
S'infrangono inesorabili sugli scogli.
A volte penso di trovarmi li tra la loro forza e lo scoglio, e sento il dolore: le ossa che si spaccano e i polmoni che si riempono d'acqua.
Per un attimo muoio. Lì, sul molo. Mentre ascolto le onde.
Sento il sapore del mare nella bocca e le sopracciglia si coprono di salsedine.
Che pace.
Distruzione.
Poi mi accorgo che sono al sicuro.
Lì sul molo, mentre mangio il mio gelato.
Gelato al gusto di mare.
Mentre le onde continuano ad infrangersi io continuo a leccare quel gelato.
Piano.
Forte.
Assecondo il loro movimento.
Se loro smettessero io smetteri.
Se io smettessi loro smetterebbero.
E' così, una cosa continua e infinita. Come il mio gelato. Da quant'è che lo sto mangiando?
Minuti, ore giorni, mesi anni? E' infinito, come il mare.

Plic Plic

E' il mio gelato che sta sgocciolando e si perde. Tra le onde.
Forse.
No, a me non piace così, però.
io preferisco dire che sono le onde a infrangersi sul mio gelato.
E se è vero quel che ho detto prima temo tanto che dovrò raggiungerlo.
Temo? Perchè l'ho detto.
Per pura convenzione suppongo.

Onde, vi prego infrangetevi anche su di me.

 

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Capitolo 6
*** Origami ***


 
Origami

 

Origami:
Nome comune di cosa, maschile singolare.
7 lettere
4 sillabe
 
     fine 1° parte.

Piegare un foglio in due, e ripiegarlo
e ancora
e ancora
Aprire e ripiegare
e ancora
e ancora.
Cosa avete ottenuto?
Un cigno? Un fiore? Una barchetta?
Va bene tutto.

      Fine 2° parte.

L'origami è una forma d'arte che consiste nel piegare la carta ripetutamente volte per formare qualche figura.
In verità, però, non è questo.
L'origami è come la vita.
Un foglio bianco che può assumere ogni forma senza mai mutare.
Con un unico foglio puoi fare 1000 oggetti.
Finchè non si rompe.
A quel punto si muore. E basta.

Posso creare un fiore di loto?
Certo.
E la barchetta?
Si
E la gru?
Pure
Adesso faccio un gufo
Fai con comodo
E la morte? Quella posso farla?
No, quella si creerà da sè.

Però...puoi sempre prendere un altro foglio.

        Fine 3° e ultima parte.



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Capitolo 7
*** Goldenfish dava da mangiare ai piccioni ***


Goldenfish dava da mangiare ai piccioni


Goldenfish se ne sta tranquillo, seduto su di una panchina. Le mani intrecciate in grembo.
Accartoccia il sacchetto con le briciole di pane, ogni tanto se le infila qualcuna in bocca e mastica, lento.
Così lento che perfino il sole tramonta prima che lui termini quel boccone insipido.
Quel pastone striscia lungo l'esofago di Goldenfish, come i lombrichi strisciano fuori dal terreno. Quando piove. Altrimenti se ne stanno al fresco sotto metri di terra, come la lingua di Goldenfish che riposa, immobile nella sua bocca. Goldenfish non parla. Mai.
Si limita a lanciare briciole ai piccioni che come ringraziamento scappano da lui, se prova ad avvicinarsi.
Eppure continua, imperterrito. Lancia le briciole di pan secco in terra. Sui suoi piedi.
Dentro le scarpe.
Dentro i calzetti.

Dentro la pelle.

E i piccioni si allontanano da lui. Lui che porta loro da mangiare. Lui che é il loro mangiare.

Povero Goldenfish, abbandonato sulla panchina, mentre deglutisce il suo boccone di pane fermo. La gente che gli sfila davanti lo ignora completamente. Non lo guarda nemmeno.
Per loro non è lui che sfama quelle sudice creaturine volanti. E' sempre qualcun altro. Tutti o nessuno. Dall'assessore allo spazzino. Ma mai lui.
All'anagafe non esiste nemmeno.
Avete mai sentito parlare di Goldenfish? No, ovviamente. E allora continuate ad ignorarlo. Continuate a passare davanti a quella panchina vuota, non sforzatevi di notare il suo lento e continuo masticare. Non guardate gli occhi tristi e le mani che stringono il pacchetto di pane secco.
Chiedete di Roberto Verdi. Lui si che è interessante. Non vi ha ancora raccontato l'ultima sul suo capo? Cosa aspettate? Correte a chiedergliela! Vi assicuro che c'è da ridere.
Lasciate perdere Goldenfish, che è li da sempre. E' noioso. Non ha mai nessun aneddoto da raccontare.
Al massimo può farvi notare, con movimenti quasi impercettibili, un nido di piccione, con le uova che si stanno schiudendo. I picoli sono così brutti che non vale la pena neanche di perderci del tempo.
Fate come se non ci fosse, anche quando vi mostra il punto preciso in cui finisce l'arcobaleno e se riesce ad afferarre una stella. Lasciate perdere il suo chiarore, lì, che brilla intenso tra le sue mani. Potete vederne altre 100, nel cielo. Sempre che Roberto Verdi non abbia altre imprese di cui vantarsi...
Fregatevene se lui, con il suo pastone in bocca, rimane fermo sulla panchina ad ammirare tutte quelle cose che voi non riuscite a vedere.
E' questo il motivo per cui mastica piano. Vuole sentire ogni briciola scrocchiare sotto i suoi molari, così come vuole carpire ogni singola sfumatura del mondo.

Ma a voi cosa v'interessa di tutto questo? Voi che non lo vedete neanche?

Ma lui è lì. E' sempre lì. Con il sacchetto di briciole in mano e osserva quello che voi non vedete, comprende quello che voi ignorate e ama quello che voi disprezzate.

E quando la notte si fa così nera, da non poter più distinguere niente, Goldenfish continua a scrutare l'oscurità alla ricerca di un qualsiasi movimento, anche il più misero perchè non ne è mai sazio.
E così per tutti i giorni di tutta la sua inutile vita.

Dopotutto, chi è Goldenfish?
Esiste davvero?
Avete mai pensato a lui, quando sorpassate una panchina imemrsa nel silenzio?
Sicuramente no e allora, perchè dare tanto peso a qualcosa che, in fondo, non esiste?

E se mi chiedete come faccio a saperlo, se io conosco Goldenfish, probabilmente vi deluderei perchè anche io, come voi, preferisco ascoltare le novelle di Roberto Verdi.
Solo che mi sono sempre chiesto chi gettasse tutte quelle briciole ai piccioni.

nda: allora era tantissimo che non aggiornavo questa raccolta! Spero che l'apprezziate come avete fatto con le altre di questa "serie"
un beso

Golden





 

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Capitolo 8
*** La cetonia spillata ***


La cetonia spillata






Quanto amavi quella cetonia? Quante volte l'avevi ammirata e quante volte ti eri perso tra i suoi colori brillanti. Sembrava un gioiello. Dello stesso colore dello zaffiro, scintillava sotto la luce fredda della lampada.
I peletti dorati spiccavano sulle minuscole gambette formate da numerosi segmenti.
E gli occhi? Quei meravigliosi occhi composti che parevano dimanti incastonati in un alveare, ti fissavano immobili.
Accarezzavi le elitre rigide e immaginavi quanto sarebbero state belle mentre riflettevano la luce del sole. Ai giochi cromatici che avrebbero potuto creare quando l'insetto, da vivo, si appoggiava sui fiori colorati.
Quelle tonalità magnetiche ti catturavano come una calamita, ti affasinavano.
Ti trascinavano verso un tunnel psichedelico e splendente. Le scanalature del suo esoscheletro creavano perfette combinazioni. Una poesia di sfumature e intensità. Ti domandavi spesso se gli egiziani provassero una cosa simile, mentre le passi, delicato, un dito sulla testolina.
Ti stupisci di come creature insensibili come gli uomini, possano sterminarne centinaia per farne delle spille. 
La tua collezione non ha mai potuto vantare esemplare più magnifico. Spillata sull'addome occupa una teca tutta sua.
Si erge, fiera nel centro.
Tu sapevi bene come si fa per ucciderle. Semplicemente si lasciano morire soffocate con l'acetone. Non cambiano mai colore, perchè le loro invidiabili sfumature sono di natura fisica e non scompaiono.

Dopo la morte rimangono esattamente uguali a come sono in vita.

Non mutano mai.

Sono eterni.

Gli baci le elitre blu.

Non si è decomposto. E' perfetto. Esattamente come quando era in vita, parecchi anni or sono.

Non come quell'altra. Quel corpo putrescente e molliccio che sta chiuso nella tua soffitta.
Quel corpo, che ora non è più neanche umano. Ha ancora addosso il vestito della festa, di cinque anni prima, quando l'hai conosciuta.
E sul vestito è appuntata una spilla. Un fiore giallo intenso e dei brillanti di cristallo.

Una spilla anonima ora che il suo centro è stato privato dell'oggetto più prezioso.






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Capitolo 9
*** Ricordi dal futuro ***


Ricordi dal futuro
***


-Ma sta zitto!- mi urli in faccia. Ammutolisco. Gli occhi fissi sulla strada e lo sguardo perso tra i motivi che segnano il cemento. Quelle venature così diverse l'una dall'altra, ma che combaciano perfettamente.
-Ci stai prendendo in giro, stronzetto?- mi pungola il tuo amico. Un bestione alto due metri. La testa piccola e il ghigno sghembo.
Sento i suoi occhietti acquosi spostarsi rapidi dal mio corpo al tuo volto, in cerca di approvazione per quello che sta dicendo.
Tu annuisci e lo percepisco sorridere.
Che effetto fai alla gente, me lo spieghi?
Il naso alla francese e quella spruzzata di lentiggini che ti rendono tanto interessante. Me li presti, per favore? Almeno per un giorno?
Una calamita vivente. Attiri chiunque nel raggio di chilometri. Tutti agonizzano a rientrare nella tua stretta, fortunata e ricercata cerchia di amici.
Un élite di persone che pendono dalle tue labbra sottili, macchiate di quei puntolini marroni.

Anche io sono una calamita, in un certo senso.

Per te.

Tu che mi giri sempre attorno. Che non mi lasci mai in pace. Tu che provi piacere nell'offendermi e nel mortificarmi.

Mi hai rubato tutta la mia dignità e continui a farlo. Hai smembrato ogni parte del mio corpo, alla ricerca di ogni briciola di essa, che potresti aver dimenticato durante i toui crudeli giochi.

 Scuoti la tua testa riccioluta e bionda, prima di attaccarmi di nuovo. Mi hai spinto già due volte.
E due volte sono caduto e mi sono rialzato. Non so se ce la farò anche la terza.
Mi mordo il labbro in segno di frustrazione.
Rapido il tuo amico mi colpisce il mento. Il dolore lancinante mi percuote il corpo. Il sangue caldo mi goccia lungo il mento e il labbro pulsa inesorabile.
Lo sento bollente e gonfio. Il taglio è parecchio profondo. Tu mi guardi. La tua espressione è indecifrabile, non capisco cosa voglia trasmettermi il tuo sguardo, fermo sulla mia ferita.
Disprezzo? Derisione? Odio? O forse compassione? No, tu non sai cosa sia la compassione. Tu capisci solo il codice della paura e dell'intimidazione.
Violenza. La parola tatuata nel tuo cuore.

Mi osservi dai tuoi 185 centimetri di altezza. Sposti il peso dalla gamba sinistra a quella destra, mentre decidi cosa fare con me.
Il tuo amico ti osserva, impaziente con quella sua ridicola faccia da idiota.
Di lui non ho paura, è solo una pedina nelle tue mani che trasudano, come ogni parte di te, carisma e charme.
E' te che temo.
Te è i tuoi occhi verdi. Torbidi e impenetrabili.
E' l'oscurità che ti avvolge a spaventarmi. Le tue espressioni ambigue e le tue frasi enigmatiche.
Il tuo sadismo perverso celato dietro un viso da bambolina.
Ti batti una mano sul petto, meccanicamente. Immagino quel rumore sordo sul mio corpo, amplificato di cento volte.
Il ricordo di quel giorno si fa bruscamente spazio nella mia mente offuscata dal terrore. Non riesco a trattenere il brivido che mi percorre la pelle.
Come un segugio, avverti la mia paura.

Ora sai esattamente cosa fare.

Lanci un'occhiata complice al tuo manichino che non ci pensa due volte a farmi crollare a terra. I miei riflessi sono rallentati. Sento la faccia sbattere contro il cemento freddo. I sassolini penetrano nel labbro rotto. La ferita brucia incredibilmente.
Inizia a calciarmi il costato.
Quei colpi sordi e secchi sono proprio come me li ero immaginati. O meglio, come me li ricordavo. Il dolore lancinante mi offusca la vista. Una cortina di fumo si para davanti ai miei occhi e quelle maledette lucine abbaglianti diventano le protagoniste delle mie pupille. Il panorama si confonde e si mischia con il dolore. Mi viene la nausea. Vomito.
Mi lasciate li, agonizzante.
Ti passi una mano sul mento coperto da una leggera barbetta bionda. Ancora una volta non riesco a codificare la tua espressione. E questo è ancora più umiliante e frustrante dell'essere stati colpiti.
Mi lascerete morire qui. Ne sono sicuro.
Forse me lo merito.
Vorrei solo dirti una cosa, prima che te ne vai. Sento ancora il sapore acidulo del vomito in bocca, insieme a quello intenso del sangue.
Ho la sensazione che mi abbiate strappato anche le corde vocali. Non riesco più a muoverle e la lingua non risponde più al mio volere. Inutile cercare di muovere le labbra.

-Aspetta!- vorrei gridarti, mentre ti vedo allontanare, con la tua andatura incerta. Da zoppo.

 L'odore dell'asfalto mi penetra nelle narici e raggiunge il cervello. Non riesco a pensare ad altro che a te. Il mio carnefice. La tua immagine riempe ogni camera della mia mente e dei miei ricordi. Potrei parlare di te  per giorni interi, senza arrivare mai ad una vera conclusione su i tuoi pensieri.

Dimmi a cosa stai pensando, adesso, mentre di giri un'ultima volta per guardare me, steso per terra con la faccia pesta e le costole rotte.
Quella smorfia, che cos'è?
Spiegami perchè non sorridi. Perchè non sei come tutti i tuoi "amici"?
Perchè sei così irraggiungibile?

Vorrei concentrarmi a fondo per trovare le risposte, ma la mente è diventata così pigra che gli occhi non vedono altro che nero. Così annoiata che le orecchie non sentono altro che silenzio. Così amareggiata che la bocca non sente altro che l'acido. Così addormentata che non sento più alcun odore, nè mi rendo conto della durezza della strada.

In verità, non mi rendo conto più di niente. Neanche del dolore.

***

Un ragazzino attaccato alla rete. La schiena perfettamente aderente ai rombi che le maglie di ferro verde formano.
Ci guarda con aria spaventata. Le sottili dita intrecciate alle maglie della rete.
Gl'immensi occhi limpidi che implorano pietà.
La sua colpa? Essere solo e troppo buono o debole per difendersi
E' una vita che lo tormentiamo. Lo priviamo della sua vita e della sua umanità. Il nostro sfogo personale.
-Vi prego, non ho fatto nulla, ho solo...- cerca di spiegarci. Non ci guarda neanche negli occhi.
-Ma sta zitto!- lo attacco, urlandogli in faccia. Il mio amico, un bestione di due metri, mi guarda soddisfatto. Avverto al sua adorazione e questo mi manda su di giri.
-Ci stai prendendo in giro?- lo provoca lui, con la sua voce profonda e rauca, più da uomo che da adolescente. Il suo odore penetrante di fumo mi solletica la pelle. Mi esalto, perchè so che sia lui che tutti i miei amici pendono dalle mie labbra. Sono come l'imperatore romano che, con un semplice gesto, decide per la vita di un altro essere umano.
Pollice su, o pollice giù. Cosa dirà l'imperatore?
Osservo quel ragazzino tremante, mentre decido sul da farsi. Lo vedo in difficoltà, mentre cerca, disperatamente, di carpire un indizio sulla mia decisione.
Sento il respiro affannato della mia pedina, accanto a me. Non ci penserebbe due volte a pestare quel ragazzetto. Sta aspettando solo il mio giudizio.
Le braccia pallide del ragazzino si stringono convulsamente contro il suo corpo, come se stesse attendendo il primo, forte pugno.
Le gambe gli tremano visibilmente. Si muovono rapide e incontrollabili.
Mi avvicino all'orecchio del mio amico e gli sussurro qualcosa.

Osserviamo il ragazzino steso a terra, il sangue gronda dal suo naso e dalla sua bocca. Ha lo sguardo vitreo e perso chissà dove. Le palpebre sbattono così raramente che pare morto.
Guardo quell'esserino steso sull'asfalto. Respira lentamente. Cerco d'immedesimarmi in lui, di provare per un attimo lo stesso dolore che gli ho provocato. Non ci riesco.
Raggiungo il bestione, che ha già iniziato ad allontanarsi. Mi giro un'ultima volta, per osservarlo.
Di tutto quel corpo martoriato, mi soffermo sul ginocchio destro.
Girato di 360°.
Non so niente di ossa o legamenti, ma sono abbastanza sicuro che rimarrà zoppo a vita. Sogghigno mentre mi confondo con l'oscurità che ci circonda.


***

-Quel coglioncello lì mi ha inculato il portafogli- dico al mio amico, puntando il dito verso un ragazzino magro e biondo. Sta giocando con un gatto. Che imbecille! Mi fa solo venire il voltastomaco, detesto la gente come lui.
Colgo nello sguardo del ragazzone di fianco a me, un lampo di sadismo. Non per nulla è considerato il criminale del quartiere. Grosso, cattivo e incredibilmente preistorico, si è lasciato facilmente manipolare da me. Mi ammira e lo so, mi seguirebbe qualunque cosa facessi. Si piega al mio volere come un filo d'erba sotto il vento.
-Lo pestiamo?- mi domanda smanioso.
Ci penso un attimo.
Dopotutto non manca un soldo dal mio portafogli. Niente.
La tentazione è forte. Si è accorto di noi, ci sta fissando con i suoi occhioni verdi, il visetto sommerso di lentiggini. Quello sguardo infantile mi manda in bestia. La collera fa ribollire il mio sangue e le mani iniziano a prudere pesantemente. Il mio amico freme quanto me, lo sento battere nervosamente le dita sulle gambe muscolose. Le sue azioni dipendono solo ed unicamente dalle mie decisioni.
Sento il peso della responsabilità sulle mie spalle. Assaporo il piacere della violenza.
-Allora?!- insiste l'armadio.
Ci penso un attimo. Respiro profondamente. Una, due, tre volte.

Ho preso la mia decisione.

Ora so cosa fare.


-No- rispondo infine.

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Capitolo 10
*** Limone ***


Limone


Una sottilissima linea di confine tra me e te,
è così sottile che sembra non esistere e invece è li.
Pronta a dividerci.
A strapparmi via perfino le impronte digitali, annullando, così, la mia esistenza.
 Mi strappa le gambe.
Mi strappa le braccia.

A strapparmi via da te.

E' il rumore sordo che produce, proprio uguale a quello delle scarpe con lo strap.
E scusami se parlo solo io.
Scusami se ti annego nelle mie lacrime.
Scusa se sto cercando di demolire quel confine tanto doloroso.
Ma non posso proprio separarmi da te.

Ci ho provato, te lo giuro
.

I tasti del pianoforte suonano una melodia malinconica, non sei tu a pigiarli.

Sono io.
 Nella mia solitudine.
Tu mi ascolti, isolato dietro quel maledetto confine che ci divide.
Come un limone tagliato a metà, anch'io sto perdendo il mio succo, gocciando tutta la mia essenza in giro.
Ovunque passi, la gente si lamenta di sentire un pungente odore di limone.

Sono io. Con le mie lacrime aspre. Io, protetto dietro la scorza rugosa.
Così fragile, dentro, da poter essere trafitto da un'unghia o  spremuto facilmente, fino a consumare tutto il mio liquido paglierino.


Io e basta.


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Capitolo 11
*** Blackout ***


Blackout


-Non vedo più nulla, deve essere saltata la luce- mi dice, fermo immobile, in mezzo alla stanza.
-Neanche io, su va a vedere cosa è successo- mi ordina quell'altra con la sua vocetta irritante che mi martella nel cervello, neanche fosse una pendola stonata.
Poso il bicchiere di vino che tenevo tra le mani. La cena è stata interrotta sul più bello.
Occhiate fugaci e celate dall'oscurità che ci ha inghiottiti all'improvviso.
-Stavo per raccontarvi della mia ultima trovata- s'intromette lui, inopportuno come al solito.
Mi dirigo verso l'interruttore, ma sbatto il ginocchio contro lo spigolo del tavolino. Impreco.
Posso avvertire le tre teste che si muovono in senso di disapprovazione. Sospiro.
-Lo trovi quel maledetto interruttore o no?!- torna alla carica, lei più tagliente di un pezzo di vetro.
-Allora vi racconto la mia storiella...- prosegue l'altro, incurante del fatto che nessuno lo stia ad ascoltare.
-Mi andrebbe ancora quel vino, ma non trovo la bottiglia, sarà forse colpa del buio?- mormora sarcastico lui. Ne ho le palle piene dei loro discorsi e delle loro acidate, inizio ad ignorarli.
E mentre mi muovo tra quelle voci insistenti e l'oscurità che si è ormai impadronita del mio cervello, trovo finalmente l'interruttore generale.
Sollevo la levetta con decisione.
Tac.
La luce torna a risplendere. Rimango abbagliato un attimo. Sbatto le palpebre. Mi aspetto di vedere i loro volti puntati verso di me.
E invece no.
Non c'è nessuno.
Il mio bicchiere regna sovrano accanto alla bottiglia di vino.
-Meglio, ce ne sarà di più per me-

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Capitolo 12
*** Birra, gradazione 5,3% ***


Birra, gradazione 5,3%


Attaccato al boccale di birra, chino la testa da un lato. La bottiglia vuota davanti a me. L'ultimo sorso. Tra me e il liquido dorato si erge solo un solitario e invisibile muro d'aria. Lo sfondo senza difficoltà, sento di denti scontrarsi contro il freddo vetro.
L'alcool mi esplode in bocca, mentre vuto in un sorso l'intero boccale. Bevo come se fossi un sopravvissuto al deserto del Sahara. Mi pulisco il labbro superiore ancora sporco di schiuma. La testa inizia a girarmi. Non reggo l'alcool e anche una gradazione del 5,3% può farmi sbarellare. Mi alzo indeciso, dondolando sulle mie gambe malferme. Il pavimento si muove sotto i miei passi, mi reggo la fronte con il palmo.

"Non ti ho mai amato" dico allla barista, che mi guarda esterefatta.
"Ma non ho mai amato nessun'altra come te" continuo, puntandogli la banconota da 10 euro stretta tra pollice e indice. "Prendi i miei soldi e tieni il resto" me li sfila in maniera un poco brusca, cruccia lo sguardo mentre mi allontano camminando all'indietro. "Non guardarmi così" sibilo a denti stretti.

"Non voglio più avere niente a che fare con te!" dico ad una banana mentre l'accoltello sul tagliere. Le ho disegnato una faccina con il pennarello nero. Piange lacrime giallo banana. La do da mangiare al gatto che miagola risentito. "Se non ti piace, sai dove sono i soldi: va a comprarti qualcosa, che mi sono rotto di badare a te!". Silenzio.
"Sono io che porto la grana a casa! Se non ti sta bene, quella è la porta!"
Silenzio.
"No, non dire così. Io ti amo ancora, non lasciarmi ti prego"
Le lacrime mi filtrano dalle ghiandole lacrimali. Gli occhi mi bruciano ancora di più.
"Ah è così?! Allora sappi che io ho un'amante che mi vuole per quello che sono!" sbraito.
Il gatto miagola e se ne va. Mi lascio cadere pesantemente sulla poltrona e mi sorreggo la testa che pulsa incredibilmente. Il felino fa scivolare una foto dalla mensola, si ferisce la zampa con i vetri e lascia impronte insanguinate in tutta la stanza, prima di accucciarsi in un angolo per leccare la ferita, sconsolato.
"Che schifo la vita" mormoro, raccogliendo la cornice spezzata, camminando sui vetri sparsi in giro. Anche io mi taglio. QUasi non ci faccio caso, però.
"Che schifo tu" dico rivolgendomi all'uomo sorridente nella foto. Quello con i capelli neri, abbracciato ad una giovane donna felice.

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Capitolo 13
*** Malattia ***


Malattia

***

 

-Una strana viscosità alla gola.
Il respiro incespica come un neonato che sta imparando a camminare.
Ho lo stomaco in fiamme, me lo massaggio per diluire quella sensazione, ma l'effetto benefico dura solo un paio di minuti e poi l'inferno torna a stazionarsi tra le mie viscere. Una fastidiosa sensazione di leggerezza, m'impedisce di camminare avvertendo il mio peso e la forza di gravità, mi sembra di fluttuare.
Non riesco più a concentrarmi, i pensieri divergono e spariscono, lasciandomi confuso e con la mente in sobbuglio.
La tachicardia mi affatica, e mi tiene sveglio alla notte. L'insonnia mi fa rivoltare sotto le lenzuole e fissare l'oscurità che regna sovrana nella mia stanzetta. L'afa che provo è ingestibile e mi ritrovo a spalancare le finestre in piena notte.
Sono così affaticato che arrossisco subito, qualunque cosa faccia. I sudori alle mani e le magliette che mi cambio in continuazione. Ho anche fatto scorta di deodoranti.
Questa situazione mi sta uccidendo.
E' un chiaro segnale da parte del mio corpo che qualcosa non va.
Ho perso due chili. Non mangio più e se provo ad assaggiare anche un solo boccone le fiamme nello stomaco, si trasformano in odiose farfalle che mi smuovono quel poco cibo che ho ingurgitato. Nausea.
E' per questo che sono venuto da lei.
Le ho spiegato i miei sintomi. E...no, non posso stare fermo, ho stroppa ansia...-
Mi ha sorriso con tenerezza e ha decretato la sua sentenza.
-Signore- mi ha detto pacato, il medico -Lei è solo innamorato-.

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Capitolo 14
*** Maschera a gas ***


Maschera a gas

E mentre cammino verso la nebbia,
vedo il mio riflesso allontanarsi dalle lenti lucide della maschera a gas.
La mia sagoma scomposta e scura, difficile definire dove finisce la testa e dove inizia il collo.
Tale e uguale all'ombra che mi segue e al rumore sommesso che emettevo mentre respiravo, dentro quell'oggetto infernale.
Per terra la maschera sembra richiamarmi a sè.
Le lenti sporche di polvere sottile, non m'impediscono di riflettermici e di pensare a quanto sudasse la mia faccia quando me la ricopriva.
E mente il tempo la consuma, io mi allontano sempre di più, ma se mi giro posso ancora vedere la mia immagine stagliata, sotto la terra che sporca le lenti.
Il colore va sbiadendosi e i graffi incidono il suo tessuto, ma il mio riflesso è ancora nitido e definito.
Il nero avvolge l'intero scenario, e la nebbia mi confonde gli occhi.
Non vedo più niente mentre cammino sul terreno desolato, di terra marroncina e crepata.
Ormai ho anche smesso di voltarmi. Vaffanculo.

 

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Capitolo 15
*** Patetici ***


Patetici
 

Ofelia finì di cenare e si tagliò un pezzo di formaggio. Smise di pensare.
Nicola era steso sul letto. Un volto vuoto, come se fosse stato privato delle sue emozioni. Il pungente odore di colonia di suo zio impregnato ancora nella pelle e il suo ansimare che rimbombava nelle orecchie.
Ofelia mangiò con lentezza la fetta, assaporandone il sapore delicato di latte. Pareva volersi fondere con essa. La masticava con accuratezza come se fosse la sua unica ragione di vita.
Il corpo nudo di Nicola e lo sguardo freddo e distante, che studiava il soffitto perdendosi in chissà quale crepa. In chissà quale ricordo.
Ofelia saliva le scali, diretta in camera da letto. Il formaggio ancora tra le dita. La mente ancora vuota.
Il sangue che gli macchiava i capelli scorreva, giù fino al naso e gocciava sulla coperta del letto. Aveva la pelle incredibilmente pallida. Le labbra socchiuse.
Ad Ofelia tremò la mano e l'ultimo boccone di formaggio cadde, nascondendosi nel sottoscala. La ragazza a carponi allungò il braccio per afferrarlo dietro ad un vecchio baule.
Nicola lasciò che gl'insulti di suo zio gli scivolassero addosso. Lo aveva già pagato, dopotutto.

Nicola, coi lividi che gli stavano spuntando sulle spalle strette e sul torace scarno, e Ofelia con le dita impiastricciate di ragnatele si resero conto, in quel momento, di quanto fossero patetici.

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Capitolo 16
*** Spicchi d'arancia e capuccino al lampone ***


Attenzione: questo capitolo ha rating rosso perchè può risultare offensivo, ma non è nato per questo. E' sarcastico. Se siete dei buonisti o nemmeno un po' cinici saltate avanti.
A piedi pari.
Golden.

 
Spicchi d'arancia e cappuccino al lampone


-'St'invertiti del cazzo- sibilò schifata Mara, vedendo passare due ragazzi per mano.
-Dio! Perchè nessuno gli spiega che sono contro natura?!- inveì furiosa contro l'amica, che tentava di proteggerli, facendo valere i loro diritti di persone. Mara osservò nervosamente la schiuma del cappuccino che si diradava per il suo nervoso mescolare. Serrava le dita contro il manico della tazza, scottandosi la pelle.
Solo quando quella candida schiuma si fu ridotta ad un sottile lenzuolo di appena un dito, Mara si permise di continuare lo sfogo.
-Io più di ammettere di essere...come quelli, mi chiuderei in casa!- cercò di rimanere calma e di dosare il volume della voce, ma nulla toglieva al suo tono le note di puro disprezzo che risuonavano tra le sue parole acide come il succo gastrico.
-Cioè...non possono riprodursi, mica! Non, non è naturale, vero?!- sorseggiò il cappuccino, socchiudendo gli occhi, convinta della sua affermazione e dando per scontato che anche l'amica la pensasse così. La bevanda calda le scese lungo l'esofago in una sensuale carezza. Mara si spostò una ciocca di capelli biondi dietro all'orecchio e arricciò il naso alla francese, per sottolineare quanto la schifassero quelle persone, successivamente schiacciò la lingua contro il palato per godere del sapore vellutato e amaro del cappuccino. Una piccola parentesi dolce in mezzo alla bile che galleggiava nel suo corpo, in quei momenti.
-Non ci pensi ai loro genitori?! Cosa penseranno di loro figlio?- scosse la testa sconsolata.
-Te li immagini poveretti? "Ciao mamma, mi piace prenderlo in culo", guarda...io lo manderei da uno psichiatra- riprese, più alterata di prima e gesticolando in direzione dell'amica, la quale, si limitava ad ascoltarla atterrita e impossibilitata ad intervenire. Aveva lo sguardo fisso sul posacenere e non osava neanche guardarsi intorno.
Udiva il respiro di Mara pesante e corto per il disdegno e tutta quell'agitazione che le accendeva lo spirito, pareva avesse una corda che le stritolava i polmoni. Il suo aroma al lampone si era fatto ancora più intenso e gli occhi verdi, striati di venature accusatorie, la facevano sentire additata, manco fosse lei la causa delle sue ire.
-Sta gente qui e peggio dei pedofili...- terminò Mara, tagliente come la lama di una ghigliottina, sotto lo sguardo attonito dell'altra, la cui pelle era schizzata via dalle ossa e provava la spiacevole sensazione di mille spilli che oltrepassano i muscoli.
La tazza di cappucino vuota, la punta del cucchiaio immersa nel fondo di caffe e un nauseante odore di lampone aleggiava in tutto il bar.

Quella stessa sera, Mara tornò a casa. Infilò la chiave nella toppa della serratura, ma non fece neanche tempo ad oltrepassare il pianerottolo, che venne travolta da un caloroso abbraccio. Le familiari labbra calde e morbide avvolsero il corpo e l'anima di Mara, che si sentì risucchiata in quella celestiale sensazione,che era la fusione tra due spiriti.
Le labbra della bionda,leggermente screpolate, fremettero di piacere al contatto con quelle, dal sapore di arancia, di Francesca.

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