Save your love for Christmas Day

di Codivilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** (Track One) - Let it snow, let it snow, let it snow ***
Capitolo 2: *** (Track Two) - All alone on Christmas ***
Capitolo 3: *** (Track Three) - Baby, please, come home! ***
Capitolo 4: *** (Bonus Track) - Have yourself a merry little Christmas ***



Capitolo 1
*** (Track One) - Let it snow, let it snow, let it snow ***


(Track One)
Let it Snow, let it snow, let it snow



 

December 23rd, 1988
The day before Christmas Eve
5.30 p.m.

 
Era strano sentirsi addosso un inverno così tiepido.
La vecchia Chicago, abituata ad assopirsi col gelo e a risvegliarsi spolverata di una coltre di finissima neve bianca, se ne stava come sempre acquattata sulle rive del Michigan, inaspettatamente spoglia di quel suo ornamento bianco tanto atteso, in quel periodo, specialmente dai bambini. Non si percepiva, nell’aria, il sentore freddo e secco che preannunciava le bufere, come succedeva ogni anno fin dai primi giorni di Dicembre. Perfino le onde del lago che si increspavano ribelli sembravano strane, per chi riuscisse a vederle al primo albeggiare, libere dal ghiaccio sottile e scintillante che nel periodo natalizio le intrappolava fino a quando i timidi raggi del sole non riuscivano a scalfirlo, sciogliendolo sul fare di mezzogiorno. Non c’erano neanche i soliti ghiaccioli attaccati alle grondaie arrugginite e ai cornicioni delle finestre, come piccole stalattiti, dispettose quando cadevano in testa agli ignari passanti. Tuttavia, di tanto in tanto, folate di vento gelido spazzavano la città, trasportate dalle correnti che provenivano dal nord del lago stesso. Erano quelle sferzate che facevano ricordare quanto vicino fosse il Natale, più di quanto facessero le lucine in bella vista sui tetti delle ville dei quartieri benestanti, le ghirlande di agrifoglio e bacche che ne ornavano i portoni e le miriadi di statuine di Santa Claus – di gusto indubbiamente kitsch – che facevano la guardia ai cancelletti, tintinnanti di carillon che ripetevano incessantemente le stesse stereotipate canzoncine natalizie.
Fu proprio una di queste folate che costrinse Scott a stringersi addosso il giaccone scamosciato, foderato di lana. Aveva un’aria malandata, quell’indumento, con il color marrone chiaro della pelle che adesso somigliava più che altro ad uno stinto giallastro. La zip non si chiudeva bene da anni, ormai, ci aveva fatto l’abitudine. Si limitava ad accucciarvisi dentro affondando fino al naso nella lana del colletto per riparare il viso dal vento tagliente.
Accelerò il passo lungo la strada semi-deserta di un sobborgo decadente, a sud di Hyde Park. Aveva parcheggiato poco lontano la sua Mustang mezza scassata – di un colore che forse una volta era stato rosso vivo – senza neanche preoccuparsi di chiuderla a chiave. Chi si sarebbe mai scomodato a fregare un rottame del genere?
Sorpassò il solito mendicante che fingeva di esser cieco, accanto al portone della chiesa, e un’auto della polizia ferma, con gli agenti che rovistavano nelle tasche di due ragazzi dall’aria poco raccomandabile. Si infilò dritto in un bar poco distante, senza guardarsi indietro, rilassando le spalle ed allentando la stretta sul giaccone una volta acclimatatosi alla temperatura mite dell’interno. Era un locale di quelli modesti, poco pretenziosi, in cui di solito si ritrovavano sempre gli stessi, affezionati clienti, per farsi una birra in compagnia. La voce flautata di Frank Sinatra cantava “Let it snow”, accarezzando l’aria pregna di fumo di sigaretta. Il bancone era ornato con luci colorate di fortuna, recuperate da chissà dove, mentre un alberello di Natale striminzito era in un angolo accanto al vecchio juke-box. Scott poté notare – con un certo sollievo – che si erano risparmiati di appendere in giro festoni e figurine con folletti e Santa Claus di sorta.
«Ce l’hai fatta! È un’ora che ti aspettiamo! Si può sapere dove cazzo eri finito?!»
«Problemi con la macchina».
Un ragazzo biondino dai tratti affilati gli fece posto accanto a sé sul divanetto consumato, attorno a un tavolino tondo su cui troneggiavano un paio di bottiglie di birra aperte. Scott non fece complimenti nel portarne una alla bocca, sorseggiandola.
«Pensavamo di doverci cercare un altro bassista», disse il biondo, dandogli uno scossone.
«Tanto con la miseria che ci danno farei prima a fare l’elemosina, Dom».
«Ma almeno bevi birra gratis».
«Sì, come no».
Dom, il diminutivo di Domenico, era un giovane chitarrista italiano, emigrato in America per cercare fortuna e fama. Non aveva trovato né l’una, né l’altra, ma era quello che Scott considerava un buon amico. Suonavano dove capitava, per pochi soldi e vitto gratuito, insieme ad altri due scapestrati che rispondevano ai nomi di Riley e Bret, e che erano impegnatissimi, in quel momento, a macinare quanti più punti possibili al flipper per battere il record del locale.
Scott rigirò meccanicamente la bottiglia sul tavolino, fissando l’impronta umida che il fondo aveva lasciato sul piano di legno opaco, martoriato da mille intagli, scritte di ogni genere ed adesivi. Socchiuse le palpebre, cercando di inquadrare meglio un graffito parecchio artistico di un bocciolo di rosa. A quel gesto, il taglio vagamente orientale dei suoi occhi scuri si accentuò ulteriormente. Era nato da un incrocio strano di razze, con sua madre che aveva nelle vene qualche goccia di sangue inglese e suo padre che per metà era Hawaiano. Era un bastardo, per dirla senza mezze misure, ché poi alla fine era così che quelli come lui venivano apostrofati da gente che si permetteva il lusso di giudicare. Come si dice? Uno guarda sempre la pagliuzza nell’occhio del prossimo e non si accorge della trave che è piantata nel proprio.
Sì accasciò, appoggiando la schiena al muro e distendendo una gamba sul divanetto. Fissò distrattamente il proprio ginocchio, dove troneggiava uno dei molteplici strappi dei suoi Levi Strauss, scoloriti e fin troppo vecchi, e poi alzò gli occhi alla finestra che dava sull’esterno: un’ora appena, forse un’ora e mezza, e sarebbe calata la sera. Il cielo sarebbe stato sereno, sgombro di nuvole, e per lui sarebbe stato ancor più difficile tentare di non guardare quelle stelle. Si sarebbe fatto tentare dal loro luccichio, per poi cadere nella triste dolcezza di quelli che ormai non erano che ricordi.
«Che Natale di merda. Quantomeno spero che si decida a nevicare», borbottò, passandosi una mano fra i capelli neri, lunghi e scompigliati, ribelli come lo erano sempre.
«Tecnicamente Natale è solo dopodomani», ribatté Dom, tirando da una sigaretta. «Comunque, se proprio ci tieni tanto, puoi sempre fare irruzione in casa, rapirla e scappare via. Un augurio di buone feste, se vogliamo».
«Credi che ne varrebbe la pena?»
«Cazzo, se lo varrebbe. Io lo farei eccome!»
«Già. E rovinarle completamente la vita. Meglio lasciar perdere».
Dom gli diede un calcio in uno stinco e gli passò la sigaretta. Scott l’accostò alle labbra. Quanto avrebbe voluto soffiar via con leggerezza i pensieri malinconici che gli offuscavano la mente, alla stregua di quel fumo denso e grigiastro. Un puff, e magari sarebbe ritornato a vivere. Magari sarebbe riuscito ad accettare il fatto che non poteva andare altrimenti.
Restituì la sigaretta al biondo dopo tre o quattro tiri, prendendo a giocherellare distrattamente con i braccialetti di corda, pelle nera e acciaio perennemente fissati al polso sinistro. Fece tintinnare un ciondolo che stonava decisamente con quell’accozzaglia di materiali. Un lupo d’argento invecchiato dagli anni. Sospirò, rigirandoselo fra le dita affusolate.
 
«Un lupo?»
«Sì, un lupo».
«Devo aspettarmi un cacciatore alle calcagna?»
«E smettila, scemo!»
 
Una sonora pacca su una coscia da parte di Dom lo fece tornare improvvisamente coi piedi per terra, in quel bar. Con “Jingle-bells” a palla che aveva sostituito il buon vecchio Frank e che in qualsiasi altro momento gli avrebbe messo pure allegria.
«Scottie, faccio levare questa musica del cazzo e facciamo un bel sound check».
Scott annuì, prendendo un grosso respiro. Tracannò quel che restava di una birra fiondandosi dietro Dom, che era già scattato verso il bancone.
Doveva smettere di pensarci. Non poteva – e non doveva – tornare indietro sulla decisione che aveva preso. Era l’unica soluzione che potesse esser giusta e che avrebbe smesso di creare guai. Ogni suo desiderio doveva giacere silenzioso sotto una coltre di neve. Avrebbe congelato il suo cuore al momento del battito più intenso, quel battito così impetuoso da far male nel petto, e così l’avrebbe reso insensibile a nuovi ardori, immobile e votato per sempre a quell’unico tesoro che si era volontariamente strappato via dalle mani.
Ma non era facile costringersi al silenzio dei sentimenti. Non era affatto semplice spegnere quella fiamma che gli ardeva nell’anima. E quell’inverno pareva il meno adatto, ad uno scopo del genere. Scott avrebbe pagato tutto l‘oro del mondo perché quella dannatissima neve cominciasse a scendere, copiosa, per non fermarsi più. Magari seppellendolo da qualche parte e mettendo fine alla sua tristezza. Ma niente, il cielo continuava a restarsene sereno e ridente, e tutto pareva essere contro di lui.
La rabbia l’avrebbe soffocata nella musica, l’unica cosa che gli restava.
Eppure, se solo si fosse trattenuto qualche secondo in più sotto quella finestra, forse sarebbe riuscito a vederlo cadere. Il primo, pallido fiocco di neve della stagione, che moriva languidamente, sciogliendosi sul vetro come il suo cuore faceva coi suoi ricordi.

 

 
ANGOLO AUTRICE:
L'avevo promesso ed eccolo qui: il mio regalo di Natale.
E' una minilong in tre capitoli ed un breve epilogo.
Come intuibile, la posterò giorno per giorno, fino a Santo Stefano
quando ogni vostra curiosità sarà esaudita.
Sì, so di essere in ritardo e che il 23 è quasi agli sgoccioli: ho avuto una giornata d'inferno! ç_ç
Dedico questa storiella alla mia famigliola virtuale di scrittrici e soprattutto amiche:
è anche grazie a loro se le mie sciocchezze sono qui su EFP, 
non mi fanno mai mancare il loro aiuto e il loro supporto.
Il meraviglioso banner è opera della mia mammina Amartema
che come sempre non so come ringraziare.
Così come dico grazie a Scarlett Johansson e Keanu Reeves,
che ho scelto come prestavolto dei protagonisti.
E così come dico grazie a voi, a ciascuno di voi che si sofferma a leggere questa storia.
Sì, proprio a te. Te la offro con il cuore, sperando che ti doni tutte le emozioni
che ho vissuto io mentre la scrivevo.

Vi lascio recapiti vari per contatti/insulti/complimenti (?)/rotture di scatole:
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Ask: Chiedi e (forse) ti sarà detto

Alla prossima e grazie a chiunque passi di qui.


 

            


 

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Capitolo 2
*** (Track Two) - All alone on Christmas ***


(Track Two)
All alone on Christmas



 

December 24th, 1988
Christmas Eve
9,00 p.m - 1.00 a.m.

 
«
Scendi immediatamente, ti dico!»
Elizabeth sbuffò contrariata, sbattendo i palmi sulla scrivania e lasciando cadere la matita che stringeva nella mano destra. Dal foglio a quadretti, malamente strappato da un quaderno, due occhi scuri dalla forma leggermente allungata la guardavano malinconici. Li aveva disegnati distrattamente, quasi senza accorgersene, prestando molta più attenzione allo spettacolo che la neve offriva alla vista dalla finestra di camera sua. Aveva imbiancato morbidamente l’intero giardino della sua rispettabile villetta – una delle tante tutte simili fra loro, in un quartiere residenziale di Hyde Park – e i fiocchi continuavano a cadere dal cielo come petali di rose bianche, vorticando disordinatamente alla mercé delle folate di vento.
Si alzò piantando i piedi nudi sul pavimento di parquet, per poi infilarsi alla bell’e meglio un paio di Reebok che una volta erano state bianche. Si tirò su gli scaldamuscoli che contornavano le gambe snelle, fasciate da un paio di fuseaux rosa fluorescente. Scavalcò con grazia un ricettacolo di barattoli di colore a tempera sparsi per terra, schivò un cavalletto, su cui era posata una tela iniziata a metà – una Marilyn serigrafata nel tentativo un po’ maldestro di imitare il buon vecchio Andy – ed uscì infine dalla sua stanza.
Si avviò a scendere le scale che conducevano al piano inferiore, ma quando provò ad appoggiarsi al corrimano, si ritrovò a toccare uno di quei viscidi festoni di carta luccicante che piacevano tanto a sua madre, corredato di agrifogli e candy canes bianchi a strisce rosse, palesemente finti. Altro che zucchero. Plastica di scarsa qualità, e pure brutti. Storse il naso inorridita e scese le scale a due a due, ritrovandosi di fronte la faccia contrita di sua madre. Alta, minacciosa e perfetta come sempre, inguainata in un tubino rosso corredato di scarpe eleganti. Chissà quante renne erano state uccise per quella graziosa giacchetta che completava la sua mise.
«Non avrai intenzione di prendere parte alla cena della Vigilia così conciata, spero».
«A dirla tutta, non avevo intenzione di prendervi parte affatto, ma mi avreste costretta a scendere e legata alla sedia con la forza, quindi tanto vale».
La donna parve sull’orlo di una crisi di nervi. Osservò ancora una volta, completamente disgustata, l’ampia maglia nera con macchie di colore verde fluorescente che sua figlia indossava sotto una felpa. I capelli biondi, scarmigliati, erano un completo disastro. Che contrasto con la perfetta acconciatura che lei sfoggiava con orgoglio!
«Và a cambiarti immediatamente. È un ordine».
«Non mi frega un accidenti di quello che mi ordini o non mi ordini».
Il ceffone arrivò talmente in fretta che Elizabeth neanche se ne accorse. Se ne rese conto solo quando posò il palmo della propria mano sulla guancia, accaldata e arrossata. Bruciava terribilmente, come se le avessero appiccato fuoco, e faceva un male cane.
«Non ti permetto di rispondermi in questo tono, Elizabeth».
La ragazza alzò gli occhi color del ghiaccio sul viso della madre, tenendosi ancora stretta la mano sulla guancia. Prese un profondo respiro, dilatando le narici, mentre la guardava con aria di sfida e senza esprimere cenno alcuno di dolore, neanche minimo.
«Tanto sai fare solo questo».
«Ma guardati. Mia figlia, una Campbell, ridotta come una stracciona dei bassifondi. Ed è tutta colpa di quel nullafacente!»
«Non puoi tenermi rinchiusa per sempre».
«È quello che pensi tu. E comunque, mi pare che sia stato piuttosto diretto, nel darti il benservito, no? Il che, per te, è solo una fortuna. Ora fila a cambiarti. Non abbiamo intenzione di aspettarti oltre».
Quando fu di nuovo in camera sua, Elizabeth sbatté la porta dietro le proprie spalle, soffocando un grido di rabbia e nascondendosi il viso fra i palmi delle piccole mani bianche. Tornò presso la scrivania e, alla vista di quel disegno, sentì la vista offuscarsi a causa delle lacrime che ormai non riusciva più a trattenere. Lo accartocciò furiosamente, con le mani che tremavano, e lo scaraventò contro il viso della povera Marylin impresso sulla tela.
Cercò conforto per il suo animo inquieto nella placidità della neve che cadeva, avvicinandosi alla finestra e appoggiando la guancia infiammata al vetro freddo e umido, un balsamo per la sua pelle così delicata, maltrattata da quello schiaffo. Le luci ornamentali sui tetti delle case tutto intorno brillavano ovattate da quel puro biancore. Smorzato dallo spessore del vetro, un carillon in lontananza suonava “Joy to the world”, e il piccolo Santa Claus sistemato accanto alla siepe ondeggiava stupidamente la testa a ritmo di quella insulsa musichetta. Ricacciò indietro le lacrime, preparandosi a cambiarsi. Tanto valeva non far arrabbiare ulteriormente quell’arpia.
Si guardò allo specchio, una volta che ebbe finito. Odiava quello scialbo abito nero e bianco, odiava quei tacchi che le facevano male ai piedi, odiava quei gioielli monotoni e sempre uguali. Odiava quella casa e odiava quella stupida, ipocrita pagliacciata che chiamavano Natale. E pace in terra agli uomini di buona volontà. La più grande idiozia della storia.
Non c’era nessuna gioia nel Natale, per la povera Elizabeth. Sua madre imbastiva quella farsa indecorosa ogni anno, invitando una schiera di parenti che non facevano altro che regalarsi vicendevolmente sorrisi ipocriti, mentre si servivano del solito pasticcio di carne e del monotono pollo arrosto. Erano uno spettacolo da film dell’orrore, i Campbell, tutti riuniti a far finta di essere felici che fosse Natale e di essere gomito a gomito l’uno con l’altro. Una delle famiglie più ricche e al contempo una delle più dissimulatrici dell’intera Chicago. Aveva avuto tutto quello che voleva, fin da piccola, ogni balocco e ogni agiatezza che una bambina potesse desiderare. Ma sua madre Vivian non faceva che passare da una festa all’altra, da un pettegolezzo all’altro, frivolamente, come una sciocca gallina starnazzante. Bastava starci vicino qualche minuto per scoprire in realtà quanto maligna ed arrivista fosse. Aveva sposato Jonathan Campbell solo per i suoi soldi, ed era stata maledettamente brava a fingere perfino che gli volesse bene, pur di tenersi stretto il patrimonio. Ma quando era nata Elizabeth, incatenando definitivamente il signor Campbell, lei aveva improvvisamente rivelato tutto il peggio di sé. Probabilmente l’aveva anche tradito, più volte. L’unica cosa che aveva trattenuto suo padre dal cacciarla di casa era stata proprio Elizabeth, che lui amava teneramente. Per amor suo, sopportava quell’arpia di sua moglie. Perché era certo che se avesse osato rivoltarsi contro di lei, gli avrebbe intentato una di quelle cause milionarie che gli avrebbero portato via metà del patrimonio e, soprattutto, la sua amata bambina.
Così era cresciuta la piccola Elizabeth, senza l’amore vero di una madre e cercando di cogliere ogni più piccola stilla di quello che invece le riversava suo padre, per quanto potesse. Con tutta la buona volontà e per quanto si impegnasse, infatti, lui non riusciva mai a trattenersi a casa per troppo tempo, e se ne rammaricava amaramente. Col suo lavoro di diplomatico, era sempre in giro per il mondo, e bazzicava molto più spesso Washington che la stessa Chicago.
Nonostante avesse tutto quel che si potesse desiderare, Elizabeth si era sempre sentita in gabbia. Costretta a vivere una vita che non era la sua. Sua madre aveva avuto da ridire perfino sul fatto che avesse scelto una scuola d’arte. Gliel’avrebbe impedito, se non fosse stato per uno dei rari momenti di fermezza di suo padre, che si era imposto affinché la ragazza, ormai maggiorenne, facesse quello che riteneva più giusto. Era uno spirito libero incatenato in merletti e abiti costosi. Si era sentita incompleta, inadatta, in ogni singolo giorno della sua vita. Non considerava più come casa sua da anni, ormai, quel tetto sotto il quale sopravviveva reprimendo la sua voglia di fuggire via.
Non attese nemmeno che venissero serviti il pudding e i biscottini di pan di zenzero, le uniche piccolezze che davvero le piacevano del Natale, con i loro profumi speziati e tremendamente invitanti. Di solito faceva a cazzotti con i suoi cugini per accaparrarsene la maggior parte. Ma non quella sera. Non appena scoccata la mezzanotte, infatti, dopo gli auguri di Natale, chiese il permesso di ritirarsi in camera a riposare con la scusa di sentirsi poco bene.
Si rigirò nervosamente fra le lenzuola, cercando un sopore che non accennava a farsi vivo, costringendosi a chiudere gli occhi con la forza. Quella sensazione di vuoto, al centro del petto, era più forte e vera che mai, e non solo perché era Natale. Era il Natale peggiore della sua vita.
Accese la piccola abat-jour sul comodino e si chinò a guardare sotto il letto. Una scatola, accuratamente nascosta, la osservava di rimando, occhieggiando fra la polvere e alcuni sacchetti di M&M’s che aveva dimenticato perfino di aver buttato lì, nascosti agli occhi severi di sua madre. Scese dal letto, tirando fuori la scatola, e ne sollevò poi guardinga il coperchio. Al suo interno, accuratamente piegato, stava un chiodo di pelle nera dall’aria piuttosto vissuta, a giudicare dalle spellature sui gomiti, sulle maniche e sui risvolti dell’ampio colletto. Lo tirò fuori e lo accostò al proprio viso, annusandolo profondamente. Chiuse gli occhi lasciandosi accarezzare il viso dalla pelle ruvida dell’indumento. Un odore che le era fin troppo noto e caro impregnava ogni fibra di quella stoffa pesante. Era inconfondibile. Un lievissimo sentore di sapone, misto a quello del tabacco e del dopobarba al Vetiver. Odore di lui, e dei mille ricordi che le facevano piangere il cuore.
 
«Quando un lupo si sceglie una compagna, è per la vita».
«Ma nelle fiabe il lupo finisce sempre male. E poi, si sa che le belle fanciulle imprigionate su una torre d’avorio preferiscono il principe azzurro».  
 
Sul fondo della scatola se ne stava, immobile, una lettera spiegazzata e malridotta, come se qualcuno l’avesse letta troppe volte e con troppa rabbia, riversando lacrime e dolore nella trama della carta.
Elizabeth prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi. L’attimo successivo stava infilandosi nuovamente le Reebok senza neanche allacciarle. Il suo respiro si fece più frequente, i battiti del suo cuore accelerarono a tal punto che pensò potesse scoppiare da un momento all’altro. Avvolse l’esile corpo in quel giubbotto troppo largo per lei, senza premurarsi neanche di cambiarsi la camicia da notte, restando a gambe scoperte. Aprì la finestra con le mani che tremavano dall’emozione e dal timore e, silenziosamente, sgattaiolò fuori, lasciando le impronte dei propri passi nella neve, senza alcuna intenzione di guardarsi indietro. Forse, sarebbe riuscita a trovare qualcosa di gioioso, nel Natale. Lo avrebbe ricordato per sempre come la notte in cui aveva deciso finalmente di vivere la sua vita come voleva.

 

 
ANGOLO AUTRICE:
Buona Vigilia di Natale a tutti!
Ecco come promesso il secondo capitoletto di questa minilong
dove facciamo conoscenza con la giovane Elizabeth.
Una ragazza malinconica e triste, come avete potuto vedere
del tutto disillusa dal Natale e dall'intera sua vita.
Ma quando la neve scende soffice, coprendo le brutture del mondo
non ci si deve mai disperare...
A domani con il terzo appuntamento di questa piccola favola natalizia.
Non mangiate troppo e... siate buoni, se potete.

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Capitolo 3
*** (Track Three) - Baby, please, come home! ***


(Track Three)
Baby, please, come home!



 

December 25th, 1988
Christmas Day
1.30 a.m.

 
Le dita di Scott sfiorarono malinconicamente le corde di una chitarra acustica. Doveva aver vissuto una miriade di concerti e suonato milioni di note, quello strumento, a giudicare dal bianco dello stucco che emergeva sotto la vernice nera scrostata in più punti, e da quel rosso ruggine appena accennato che iniziava a intaccare la cromatura dei giunti metallici. Buttato scompostamente sul malandato divano del monolocale in cui viveva, continuava a scribacchiare note disordinate su fogli pentagrammati, salvo poi cancellarle rabbiosamente nell’attimo immediatamente successivo, quando riprovava a suonare quello che aveva appena composto, coi capelli davanti agli occhi e la matita incastrata fra le labbra. Non riusciva a concentrarsi come avrebbe voluto, ma neanche lontanamente lo sfiorava l’idea di lasciare il tutto com’era e di prendere sonno. Temeva che concedendosi il lusso di chiudere gli occhi si sarebbe ritrovato alla mercé di sogni che sarebbero stati fin troppo vividi, troppo dolorosi da sostenere. Avrebbe sognato occhi di ghiaccio e piccole mani delicate, infreddolite dalla neve, che tanto avrebbe voluto poter riscaldare di nuovo, stringendole fra le sue, troppo grandi e in parte irruvidite dal troppo accanirsi contro le corde della sua chitarra. Ricordi di appena un anno prima, e che adesso apparivano fin troppo lontani, forieri di dolore e di amari rimpianti.
Per Scott, il Natale era il periodo più felice dell’anno. Nonostante non avesse mai avuto molto di cui rallegrarsi, era sempre stato grato di quel poco che aveva: in fondo, c’era molta più gente che stava messa assai peggio di lui. Quantomeno lui passava gli inverni sotto un tetto e non sotto un ponte. L’anno precedente gli era riuscito perfino di approntare un piccolo alberello di Natale. Lo aveva piazzato vicino al frigorifero e l’aveva adornato con dozzine dei suoi vecchi plettri, talmente consumati da essere ormai inutilizzabili. Le luci colorate, quelle no, non aveva potuto permettersele. Ma faceva lo stesso. A lui bastava poco, per sentire l’aria di festa.
Lei l’aveva adorato, quel piccolo alberello semplice e poco pretenzioso.
 
«Ti rispecchia. Mia madre ha insistito per comprare delle assurde palline dorate decorate con Santa Claus. Le odio. E prima o poi staccherò la testa a quell’assurda statuina che si ostina a piazzare in giardino ogni anno!»
 
Quanto avevano riso, a quelle parole, mentre sgranocchiavano mandorle, frutta candita e omini di pan di zenzero – che lei aveva rubacchiato dalla cucina di casa sua, prima di sgattaiolare via di nascosto – abbracciati su quello stesso divano, con una coperta a riscaldarli mentre fuori imperversava una bufera. Appena un anno addietro. E adesso non riusciva ad abituarsi a quella fredda sensazione di tristezza. Non era Natale, non nel suo cuore, per la prima volta nella vita.
Scaraventò rabbiosamente via i fogli, affondando le dita di una mano fra i capelli, sopra la fronte, tirandoseli indietro e chiudendo gli occhi. Cercò di deglutire, ma il magone che gli serrava la gola non andava via in nessun modo. Meglio sarebbe stato non averlo affatto, un cuore, se questo significava dover soffrire così tanto. Più lui si sforzava di rendersi insensibile, più quel dannato si contorceva nel suo petto dolorosamente, gridando quel nome che lui tentava disperatamente di dimenticare.
Un fermo e deciso ‘toc-toc’ alla sua porta interruppe per un attimo i suoi pensieri, ma non si preoccupò nemmeno di alzare lo sguardo: non era in vena di vedere nessuno, e sicuramente all’una e mezza di notte non poteva essere altri che Dom, intenzionato a rompergli le scatole e far baldoria. Eppure, chi era fuori dalla porta non sembrava avere alcuna intenzione di arrendersi facilmente, anzi. Il bussare si fece sempre più insistente fino a sfiorare l’insopportabile.
«Arrivo, dannazione!»
Posò la chitarra sul divano e saltò in piedi. Ci voleva poco ad arrivare alla porta, date le modeste dimensioni di quell’appartamento. L’aprì con un gesto secco e nervoso.
«Senti, non ho nessuna voglia di…»
Elizabeth non seppe mai di cosa lui non avesse voglia, perché quella frase di Scott rimase sospesa, a mezz’aria, come un fiocco di neve solitario in balia del vento freddo d’inverno. Si sentì trafitta dalla profondità di quegli occhi scuri, stranamente malinconici, anche più belli di come li ricordasse. Il ragazzo che trovava sempre un motivo per sorridere – con l’intero volto, di cuore, e non solo con le labbra – adesso la fissava come un esiliato avrebbe guardato alla sua perduta terra natia. Se solo avesse potuto intravedere nella mente del giovane, vi avrebbe letto quanto lui la vedesse meravigliosa, anche con i capelli scompigliati ed umidi di neve, le Reebok ormai zuppe slacciate ai piedi, tremante di freddo come un pulcino, sul suo pianerottolo. Il ragazzo si soffermò a lungo ad osservare quel giubbotto nero troppo grande, dentro il quale lei si stava stringendo. Un distinto pizzicore gli si presentò agli occhi, tanto da spingerlo a ricacciare indietro lacrime amare di nostalgia.
 
«Davvero ti piace?»
«Da morire. Ne ho sempre desiderato uno, ma figurati se mia madre me lo fa comprare!»
«Ma dai! È talmente vecchio che non so neanche da quanto tempo ce l’ho. Un altro po’ e ne verrà giù la pelle a pezzi».
«Non mi importa. Mi piace lo stesso».
«Te lo regalo, allora. Così avrò l’impressione di aver ricambiato il tuo dono».
 
Scott serrò le labbra e la fissò direttamente in viso, sentendosi annegare nel mare dei suoi occhi. Cercò di non guardare le sue labbra. Non era del tutto certo di riuscire a controllare l’istinto di accarezzarle per verificare se effettivamente fossero vellutate e morbide come se le ricordava. Una maschera di calcolata freddezza gli calò sul volto, nel tentativo strenuo di nascondere il suo stato d’animo.
«Che ci fai qui?»
«Dimmelo in faccia».
Elizabeth riusciva a malapena a respirare. Lui sembrava indifferente alla sua presenza, imperturbabile e scostante come non lo era mai stato prima. Quell’atteggiamento la faceva rabbrividire anche più dei piedi bagnati e oramai gelidi per l’aver camminato nella neve. Sentiva la pelle d’oca, sotto il giaccone, sulla pelle delle gambe lasciate scoperte da quella camicia da notte che non aveva perso tempo a cambiare con qualcosa di più consistente.
Scott distolse lo sguardo, non riuscendo a sostenere oltre la tristezza che traspariva da quel viso di porcellana, trafitto dal tremore appena accennato delle sue labbra nel tentativo di trattenere il pianto.
«Ti riporto a casa».
«Voglio sentirlo dalla tua voce».
Il giovane deglutì un boccone amaro. Elizabeth fissò lo sguardo al polso sinistro di lui, dove quel piccolo ciondolo a forma di lupo, ben in vista fra i bracciali, rifletteva timidamente la luce che proveniva dal corridoio.
Fra i due cadde un pesante silenzio. Scott avrebbe desiderato soltanto baciarla, in quel preciso istante, stringerla al petto con la forza della disperazione e dirle che mai, mai al mondo sarebbe riuscito ad amare qualcuno come aveva amato e continuava ad amare lei.
Ma non poteva farlo. Non doveva.
«Elizabeth… ti prego. È meglio così. Per entrambi».
Marcia bugia. Lui si sentiva morire dentro in ogni attimo, da quando aveva scritto quella maledetta lettera. Aveva volutamente scelto di fare la figura del vigliacco, piuttosto che mentirle a voce viva, dicendole che non voleva più vederla quando il suo unico desiderio era quello di vivere una vita intera insieme a lei.
«No, non è vero», mormorò lei, con le lacrime agli occhi. «Sei l’unico da cui mi sia sentita davvero amata, e devo sapere qual è la verità. Poi sparirò per sempre, se è quello che tu vuoi».
Disse le ultime parole con la voce rotta dal pianto, guardando in terra, alle scarpe pesanti del ragazzo, screpolate alla punta. Non poteva credere che lui non l’amasse, che l’avesse presa in giro così abilmente per poi lasciarla in quella maniera codarda. Non voleva crederci.
Sentì le sue dita circondarle delicatamente il viso, coi pollici che le accarezzavano le guance bagnate di lacrime. Bastava quel tocco leggero perché non sentisse più freddo. Soltanto lui riusciva a darle sempre quella sensazione di calore, dritta dritta fino in fondo al cuore; le bastava guardarlo perché tutto il resto intorno sparisse. Quando rialzò lo sguardo, lui si era chinato un poco su di lei e la fissava malinconicamente.
«La verità è che non c’è nessun’altra al mondo che vorrei. Sei la mia musica, sei il senso di ogni canzone che scrivo, mi vieni in testa in ogni attimo, ogni secondo di ogni mia dannata giornata. Non faccio che pensare a te. Ogni giorno mi sveglio col pensiero che vorrei soltanto portarti via di qui, lontano, dove nessuno ci possa raggiungere, a costo di farmi prendere per pazzo. La verità è che vorrei davvero poterti amare, Elizabeth, è il mio unico desiderio. Con tutte le mie forze, con tutto me stesso, senza risparmiarmi mai».
«Perché mi hai scritto quella lettera, allora?», mormorò la ragazza, a filo delle sue labbra.
«Perché sono uno spiantato che non ha nulla da offrirti. Non ho un futuro, non ho una vera casa, e a frugarmi nelle tasche non ci troveresti più di cento dollari. Ti rovinerei la vita e finiremmo con il maledire il giorno stesso che ci siamo incontrati!»
«Non potrei mai odiarti, e non mi importa dei soldi. Troverò un lavoro, da qualche parte», incalzò lei con veemenza. «Portami lontano da qui. Ti prego».
«Sì, così tua madre mi ucciderà. Anzi, ucciderà entrambi».
«Vale la pena correre il rischio. Se devo vivere chiusa in gabbia, senza di te, tanto vale non vivere affatto».
Scott sospirò, scuotendo il capo. Poi, nel silenzio, sorrise. E a quel sorriso, Elizabeth gli gettò le braccia al collo, trepidante come solo le giovani ragazze innamorate sanno essere. Scott se la strinse stretta al petto, sollevandola un poco dal pavimento per la troppa veemenza, mentre lei nascondeva il viso nel suo collo, respirando l’odore della sua pelle.
«Vieni con me», le sussurrò lui, allentando dolcemente quella presa salda.
Lei si limitò ad annuire semplicemente, intrecciando la propria mano con la sua e facendosi condurre lungo il corridoio, per le scale e infine fuori dal palazzo, fino al portone principale, sotto il quale si fermarono. Scott alzò lo sguardo verso l’architrave, appeso alla quale se ne stava, infreddolito ma ben saldo, un ramoscello di vischio maturo. La risata della ragazza alla vista di quel rametto fu per lui come una balsamo caldo. Era talmente bella che ogni sarebbe rimasto ore a guardarla ridere in quella maniera.
«Immagino non sia opera tua».
«La vecchia zitella piena di gatti», commentò lui, con un’alzata di spalle.
«Ma dovrebbe valere lo stesso, no?»
Scott annuì, scostandole dolcemente una ciocca dei capelli biondi dal viso diafano ed incorniciandone i lineamenti coi palmi delle mani. Un fiocco di neve fra i tanti che ancora cadevano si posò su quelle labbra morbide e perfettamente disegnate, sciogliendosi al loro calore vitale, quasi fosse un ulteriore, silenzioso invito per il giovane a farle sue. Tremante, per il freddo e l’emozione, col respiro ansante che si condensava in nuvolette di vapore, le sfiorò con le proprie, e in un attimo tutta la brina che circondava il suo cuore si sciolse. Il turbinio d’amore scaturito da quel bacio innocente gli restituì vita e forza nel suo frenetico riprendere a palpitare, solo e soltanto per Elizabeth.
«Buon Natale, amore mio», sussurrò, asciugandole una lacrima che, questa volta, era di pura gioia.
Un paio di passanti li indicarono con un sorriso, quei due giovani incuranti del freddo, lei con le gambe scoperte e lui in maniche di camicia, così presi a guardarsi negli occhi da non curarsi di nient’altro al mondo. In effetti a loro del freddo che facesse su quel marciapiede importava poco e niente. Non riuscivano ad immaginare felicità più completa di quella, e tanto bastava a scaldare le loro anime più di quanto potesse fare la più vivace delle fiamme.  

 

 
ANGOLO AUTRICE:
Buon Natale, dunque, in questo 2013, di vero cuore.
Dedico questo capitolo a tutti quelli che stanno leggendo questa piccola storia
e in particolare a chi nel Natale non crede più.
A chi non trova la forza di andare avanti nella vita,
a chi ha perso la speranza,
a chi che "c'è la crisi, e non vediamo via d'uscita".
A chi vorrebbe soltanto un lavoro onesto e non lo trova,
a chi guarda al proprio futuro con angoscia.
Ai giovani che si chiedono perchè studiare, perchè dedicarsi a quello che amano
quando in futuro sanno che sarà così difficile trovare lavoro.
E' solo un raccontino di Natale,
ma voglio che a ciascuno di voi, possa portare un po' di gioia;
anche nella notte più nera prima o poi vien fuori la luce.
I nostri Scott ed Elizabeth hanno scelto di amarsi nonostante tutto e tutti.
Domani, ci sarà un piccolo epilogo
e il mio dono sarà completo.
Niente di speciale, ma è una storia che ho scritto con tutto il cuore.

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Capitolo 4
*** (Bonus Track) - Have yourself a merry little Christmas ***


(Bonus Track)
Have yourself a merry little Christmas



 

December 26th, 1988
The Day after Christmas Day
7.00 a.m.

 
Scott chiuse con un colpo secco il portabagagli della Mustang, facendolo scricchiolare pericolosamente. Pezzi di ghiaccio e di neve caddero staccandosi dalle vecchie lamiere della carrozzeria, unendosi a terra alla neve impiastricciata che si scioglieva sotto le scarpe, trasformandosi in fanghiglia scivolosa. Si fregò le mani intirizzite, soffiandovi sopra, raggiungendo a passo svelto la portiera dell’abitacolo e sedendosi al posto di guida. Elizabeth, che lo attendeva seduta al posto del passeggero, lo guardò trepidante, senza riuscire a trattenere il sorriso sulle labbra. Si strinse al petto quella che sembrava essere una busta da lettere, chinando il capo e chiudendo gli occhi. Era un sogno. Un bellissimo sogno da cui si sarebbe bruscamente svegliata per ripiombare nella sua grigia vita di sempre. Se non fosse stato per il lieve bacio che Scott le lasciò sulla guancia, pungendola leggermente con l’accenno di barba che gli ricopriva il viso, ne sarebbe stata totalmente convinta. Sollevò lo sguardo e trovò quello del giovane che la fissava col sorriso sulle labbra.
«Me la leggi un’altra volta?», le chiese, sporgendosi verso di lei e cingendole le spalle col proprio braccio destro.
Lei annuì silenziosamente. Aprì la busta, facendo frusciare la carta fra le dita, ed iniziò a leggere con le mani che tremavano dal’emozione.
 
Bambina mia,
spero che l’arrivo di James alla porta di Scott non ti abbia spaventata. Era l’unico a cui ero certo di poter affidare questa lettera, mentre ero impegnato a trattenere l’ira di tua madre. Già, sapevo perfettamente che era lui a farti da complice quando sgusciavi via da casa, confidavo che conoscesse l’indirizzo del tuo giovane innamorato e che tu fossi lì.
L’hai fatta davvero grossa, stavolta, ma non ti biasimo, figlia mia. Fin troppo presto hai dovuto capire quanto la vita possa essere difficile, ed in gran parte riverso su me stesso l’ignavia di averne la colpa. Troppo spesso ti sono stato distante con la mia persona, ma credimi, col cuore ero sempre lì vicino a te; e non sai la tristezza che mi portavo dietro nella consapevolezza che la persona che più doveva amarti al mondo in realtà non faceva altro che renderti giorno dopo giorno più infelice.
Forse ho preso il mio coraggio in mano troppo tardi, mia Elizabeth: per troppo tempo ho lasciato che tua madre facesse il bello e il cattivo tempo nella mia casa. Sei una donna adulta, adesso, bambina mia, e se l’amore di questo giovane è quello che davvero desideri, sappi che hai ogni mia benedizione. Scappa, scappa lontano quanto più puoi, vivi quella vita che per così tanti anni hai solo potuto desiderare. Ama con tutto il cuore, sogna con tutta l’anima, combatti con ogni forza.
Non temere più che lei possa impedirtelo. Se la vostra paura era che vi mancassero i mezzi per sopravvivere, adesso potete star tranquilli. In fondo, non mi hai dato il tempo di farti il regalo di Natale, dovevo rimediare.
Ho soltanto una cosa da chiederti: torna a casa ogni tanto, bambina, per salutare il tuo vecchio papà. Tua madre sceglierà se farti conoscere o meno il suo nuovo indirizzo: ho chiesto la separazione mentre lei ancora strepitava sbraitando che sarebbe venuta a riacchiapparti fino in capo al mondo. Gliel’ho annunciato davanti a tutta la schiera dei parenti. Avresti dovuto vedere la faccia di zio Alfred.
Ti auguro che ogni giorno possa essere felice come questo Natale, figlia mia. Fatevi forza l’un con l’altro e nessun problema sarà irrisolvibile.
Ti voglio tutto il bene di questo mondo, e anche di più.
Papà.
 
La ragazza si rigirò fra le mani un pezzo di carta lungo e stretto, che aveva trovato nella busta insieme alla lettera. Un assegno di centomila dollari intestato a lei, il suo regalo di Natale. Anche se per lei il dono più bello era quella libertà tanto sognata e che adesso li avvolgeva entrambi, svincolati dalla preoccupazione di non avere i mezzi per sopravvivere.
Scott affondò il viso nell’incavo del collo di Elizabeth, respirando forte e facendole un lieve solletico. Si accorse della lacrima che le solcava la guancia, ma quando lei si voltò a guardarlo, lesse nei suoi occhi chiari soltanto gioia, un felicità indescrivibile che andava oltre ogni confine. Asciugò quella piccola stilla col pollice e poi le accarezzò amorosamente la fronte, pensando che era bella come non mai. Si sporse per darle un bacio sulle labbra e poi sulla punta del piccolo naso. Lei gli sfiorò il viso dolcemente, accarezzandolo e lasciando che quell’accenno di barba sottile le solleticasse le dita.
«Dove andremo, Scott?»
Le labbra del ragazzo si incurvarono in un sorriso furbetto.
«Per ora, fino al prossimo distributore di benzina. Sono quasi a secco».
«Perché non ne sono affatto stupita?»
Risero, e lei gli si accoccolò addosso, mentre la Mustang partiva timidamente singhiozzando, nel riverbero della neve bianca e splendente sotto i raggi tiepidi del sole di primo mattino. A nessuno dei due importava sapere cosa ci fosse in serbo fuori da Chicago, in effetti. L’unica cosa che davvero contava era viaggiare insieme, portandosi sempre nel cuore una piccola scia del calore di quel Natale appena trascorso, e che avrebbero ricordato per sempre come il più felice dei loro giorni.
Scott accese l’autoradio, che sibilò in un ronzio rumoroso prima di sintonizzarsi stabilmente su una stazione. Le note lievi e dolci di una vecchia canzone di Natale riempirono l’abitacolo, suggellando l’abbraccio sincero di quei due giovani innamorati.
 
Have yourself a merry little Christmas,
let your heart be light,
from now on
our troubles will be out of sight.
Have yourself a merry little Christmas,
make the Yule-Tide gay,
from now on
all troubles will be miles away.

 

 
ANGOLO AUTRICE:
Ed eccoci alla fine di questa piccola storia natalizia.
Grazie a tutti quelli che l'hanno letta silenziosamente,
a quelli che l'hanno commentata,
a quelli che avrebbero voluto leggerla ma non ne hanno avuto il tempo
magari lo faranno un po' più in là.
Grazie a Scott e a Elizabeth che hanno riempito d'amore 
questi miei giorni di vacanza e di festa.
Spero che siano riusciti a far innamorare anche voi.

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