La piccola libreria degli orrori

di _Blanca_
(/viewuser.php?uid=593279)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Parte prima ***
Capitolo 3: *** Parte seconda ***
Capitolo 4: *** Parte terza ***
Capitolo 5: *** Parte quarta ***
Capitolo 6: *** Parte quinta ***
Capitolo 7: *** Parte sesta ***
Capitolo 8: *** Parte settima ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


part 1
Storia scritta senza scopo di lucro. I personaggi di Supernatural non mi appartengono, ma sono proprietà della CW e dei loro rispettivi autori. Città, strade, etc. nominati nella storia sono tutti luoghi realmente esistenti.

Titolo: La piccola libreria degli orrori.
Personaggi principali: Dean, Sam, Jane (OC).
Collocazione temporale: la fan fiction è un episodio fittizio da inserire tra il II e il III episodio dell'ottava stagione e che non altera in nessun modo l'arco narrativo originale.
Beta: myself (sob).
Capitolo: 01/09.
N/A: Seguo e amo Supernatural da anni, ma sono nuova delle fan fiction in questo fandom. Un OC è sempre una scelta rischiosa, lo so. Tanto più (mi sembra doveroso precisarlo fin da subito) che Jane è una donna, umana fino al midollo, sprovvista di brevetto da cacciatrice e giacche di pelle. Il banner è opera mia, ma le immagini sono pescate sul web e appartengono ai rispettivi proprietari. Ultimo e ancora meno importante: la storia, a cominciare proprio dal titolo, brulicherà di citazioni a film e opere, perché sono una che si diverte con poco. Detto ciò, ringrazio in anticipo e di cuore chiunque avrà la pazienza di leggere (◡‿◡✿)


______________________________________________________________

x










Prologo










Mansfield, Pennsylvania.



Nel retro della libreria, l’orologio segna le sette e trentacinque minuti esatti. Gli scaffali sono in balia del caos: scatole, scatoline e scatoloni, involucri di plastica trasparente, plichi di documenti, raccoglitori di cartone. Sul ripiano vicino alla finestra, un piccolo televisore bianco, con due grosse manopole, ricorda che gli anni Ottanta sono esistiti davvero. Il televisore è acceso. Il mezzobusto del telegiornale locale sta ripetendo la notizia del giorno.
«La polizia è ancora sulle tracce dell’uomo che, tre ore fa, ha rapinato una gioielleria di Williamsport ferendo in modo grave il proprietario del negozio e un cliente. L’intervento tempestivo di due poliziotti ha impedito all’uomo, già noto alle forze dell’ordine per precedenti di traffico di droga, di fuggire con la refurt—».
Jane spegne il televisore e sfila una grossa scatola dal ripiano sottostante. Lo schermo nero riflette l'immagine di una ragazza molto alta, con capelli color carota lunghi fin oltre le spalle, divisi in una perfetta scriminatura centrale. Indossa una camicetta bianca, un gufetto di bronzo come ciondolo e si muove con la scioltezza e la rapidità di chi è ben abituato a lavorare in quel posticino angusto, odoroso di lucido per legno e di inchiostro. Jane appoggia la scatola sul tavolo, strappa la striscia di nastro adesivo e solleva le due ali di cartone, ritrovandosi sotto al naso copie su copie di un romanzo dal titolo: Il dolce bacio delle tenebre. Fresco di stampa. Storia di una giornalista alle prime armi che si innamora perdutamente e immancabilmente del centenario vampiro di turno. L’immagine in copertina è così simile alla locandina di Via col vento, in versione dark, che a Jane viene da chiedersi chi e come sia riuscito a pubblicarla senza beccarsi un'accusa di plagio.
«Jane, pensavo fossi già andata a casa».
È la voce gentile della signora Sternwood. Con il suo cardigan color pesca e la sua collana di perle, la padrona del negozio è comparsa silenziosamente sulla porta: è una donna di quasi settanta anni, molto minuta e con dei capelli biondi, tinti, tagliati corti. Gli occhi azzurri non hanno ancora preso la sfumatura opaca della vecchiaia e Jane sa — perché l'ha vista in una fotografia — che la signora Sternwood da giovane è stata una gran bellezza, con un fascino alla Lauren Bacall, qualcosa che le rughe e il tempo si sono inevitabilmente portati via.
Jane appoggia le lunghe mani affusolate sui bordi dello scatolone. «Sistemo questi e vado». Non fa mai nulla per dissimulare il suo marcato e pulito accento inglese.
«Tesoro, ogni mattina arrivi qui in anticipo e tutte le sere rimani oltre l'orario del tuo turno». La signora Sternwood va verso il tavolo e si ferma di fianco a Jane — che la supera in altezza di tutta la testa e anche qualcosa di più. «Non hai un fidanzato che si lamenta perché passi troppo tempo chiusa qui dentro e troppo poco tempo con lui?»
Jane arriccia il naso e sbuffa un sorriso a labbra serrate. Non è timidezza e nemmeno disagio. È l’espressione di chi vuole scacciare con garbo un argomento noioso.
«Lo sa che non ho nessun fidanzato».
La signora Sternwood le sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Be', dovresti trovartene uno».
«Non è che ne senta particolarmente il bisogno. Se proprio devo scegliere, preferisco di gran lunga i libri» butta lì Jane e, di riflesso alla sua ammissione, abbassa lo sguardo sulla scatola. Inarca un sopracciglio. «Ma magari non questi libri. Dobbiamo proprio venderla certa roba?»
«È quello che la gente compra di questi tempi, cara. E possono restare nella scatola fino a domani mattina. Su, va a casa, ci penso io a chiudere il negozio».
E Jane obbedisce. Recupera giacca, borsa e sciarpa dall'appendiabiti a muro. Quando ha finito di chiudere la doppia fila di bottoni, la stoffa marrone della giacca lascia scoperti appena dieci centimetri della sua gonnella nera a pieghe, cosparsa di una fitta fantasia floreale. Jane sfila i capelli da sotto il colletto, drappeggia per bene la sciarpa attorno alla gola e si sistema la borsa in spalla.
«A domani, signora Sternwood».
«A domani, cara».


* * *


La libreria — che in tutto conta due piccole sale — ha un aspetto molto ordinato, al contrario del retro. Non c’è un solo volume che non sia al posto giusto nella sezione giusta. Sopra al bancone della cassa, non c’è un solo volantino pubblicitario che sporga di un solo millimetro fuori dal proprio mazzo. Eppure, nonostante tutta la pulizia e l'ordine, Jane, fin dal suo primo giorno di lavoro, ha avuto la sgradevole impressione che nel negozio aleggi qualcosa di tetro e soffocante. Forse è per via del legno scuro e lucido degli scaffali, spaventosamente simile a quello di un feretro. O forse è colpa di tutti quei soprammobili kitsch che la signora Sternwood ci tiene ad avere lì. Vecchie lampade in stile liberty e spettrali animaletti di vetro soffiato. Un carosello che non gira mai e un carillon perennemente muto. Due bambole di porcellana che si tengono per mano e un ritratto di donna: una pallida sconosciuta dai capelli neri, chiusa in una blusa bianca dal colletto alto, che scruta il negozio con uno sguardo serio e malinconico.
Con il tempo, però, Jane ha semplicemente imparato a non dare peso a quella sensazione e ormai tutto nella piccola libreria — dallo scricchiolio leggero delle assi di legno del pavimento, passando per le decorazioni floreali della vecchia tappezzeria, fino al trillo limpido del campanello sopra alla porta, che suona anche questa sera non appena la ragazza esce dal negozio — le è diventato piacevolmente familiare.


* * *


Alla luce degli eleganti lampioni in ferro battuto, la strada appare deserta. Jane getta un'ultima occhiata all'esterno della libreria: il negozio occupa il pian terreno di un edificio a tre piani, con la facciata coperta di mattoni rossi disposti a spina di pesce. Ce ne sono tanti di edifici così nel centro di Mansfield: pittoresche costruzioni vittoriane, tirate su durante il diciannovesimo secolo, tutte portici, colonnine e torrette. Sopra all'architrave della porta, in una calligrafia fin troppo piena di riccioli e onde si leggono le parole 'Sternwood Book Shop'. Ancora più in alto, le finestre degli altri due piani sono buie. Lo sono sempre. Le stanze, là sopra, sono disabitate.
Jane nasconde le mani nelle tasche e s'incammina svelta verso la fermata dell’autobus, a due traverse di distanza. Il leggero impattare dei suoi stivali neri sul liscio marciapiede è l'unico suono udibile... fin quando un'automobile non sbuca dal fondo della via. La vettura scivola veloce sull’asfalto, anticipata dal fascio di luce dei fanali. Svolta all'incrocio e sparisce in un batter d'occhio dalla visuale di Jane — che è di nuovo sola, mentre passa davanti a un vicolo tra due edifici: uno spazio senza illuminazione largo quel poco che basta per farci stare due bidoni della spazzatura.
Ed è ora che qualcosa l'agguanta per un braccio e la trascina nel buio.
Jane non riesce nemmeno ad urlare. Prima lo strattone, poi l’urto doloroso della sua schiena contro il muro, infine una mano premuta sulla bocca e sul naso quasi le impedisce di respirare.
«Se ti agiti, ti sparo subito».
Una voce maschile ed affannata è tutto quello che Jane riesce a cogliere del suo aggressore: un uomo grosso, ben più alto di lei, con il cappuccio di una felpa tirato sul capo — e che le sta puntando una pistola alla tempia, mentre la tiene bloccata contro il muro, usando tutto il peso del proprio corpo. Jane ha istintivamente stretto entrambe le mani attorno al polso dell'uomo, ma non osa muoversi.
«Ecco cosa facciamo adesso» ansima l’uomo. «Torniamo in quel negozietto dal quale ti ho vista uscire, va bene? Tu cammini vicino a me. Piano e in silenzio. Se provi a scappare, se provi ad urlare…» Spinge con forza la bocca della pistola contro la tempia della ragazza. «Intesi?»
Jane muove la testa in un cenno di assenso appena percepibile.
Con un altro strattone, sono di nuovo sul marciapiede.
Jane fa come che le è stato detto. Cammina, senza aprir bocca e senza opporre resistenza. Ha i lineamenti immobilizzati in un'espressione vuota, da automa, ma le brucia le fronte e le sudano le mani. Sta accadendo tutto così in fretta che, per un misero attimo, ha l'impressione di essere nel pieno di brutto sogno ad occhi aperti — mentre è sull’autobus, diretta a casa, come ogni sera.  A ricordarle che è tutto reale c'è la stretta ferrea dell'uomo sul proprio braccio, appena sopra la gomito, e la pistola premuta contro i reni.
 

* * *


La signora Sternwood non ha ancora sistemato l’incasso della giornata. È davanti al bancone e sta raddrizzando un cartellino che ricorda ai clienti i vantaggi di munirsi di una carta-soci. Quando sente lo scampanellio della porta e vede la sua commessa rientrare, accompagnata da uno sconosciuto incappucciato, ha una attimo di sorpresa — che muta all’istante in terrore, quando l’uomo mostra la pistola.
«Stai ferma lì!»
La signora Sternwood si è appena coperta la bocca con le mani. Jane la vede guardare verso la telecamera di video sorveglianza, sopra alla porta d'ingresso. Ed è ora che un improvviso fiotto di rabbia scuote la ragazza dal torpore dello spavento: gran coraggio ci vuole a sbraitare contro una povera vecchia quando si è un uomo grande, grosso ed armato.
«Non puntarle la pistola contro».
Jane si stupisce del tono della sua voce, quasi fosse stata un'altra donna a parlare. Non ha biascicato un'umida supplica da vittima e non ha ringhiato come un animale in trappola. Ha dato un ordine, fermo e deciso. Le sue parole ovviamente non sortiscono nessunissimo effetto sul rapinatore, che intima a lei di stare zitta e alla signora Sternwood di svuotare la cassa e mettere i soldi sul bancone. Ma, anziché obbedire, la signora Sternwood scosta le mani dalla bocca per sussurrare: «Oh, mio dio, ma io so chi sei. Sei quello di cui parlano in televisione. Sei quello che ha rapinato la gioielleria…»
Jane si volta di scatto.
L’uomo ha ancora il cappuccio sulla testa, ma qui, all’interno del negozio perfettamente illuminato, niente gli nasconde il profilo: labbra grosse, naso largo, fronte sporgente. La signora Sternwood potrebbe avere ragione. Somiglia all'uomo nelle foto segnaletiche mostrate nei notiziari.
«I soldi!» abbaia il rapinatore, agitando la pistola verso la signora Sternwood, e ora stringe con tanta forza il braccio di Jane che la ragazza non riesce a dissimulare una smorfia di dolore.
«V-va bene! Va bene! Ma lascia andare la ragazza, per favore. Falla uscire» supplica l'anziana donna. È sull'orlo delle lacrime.
Il rapinatore ha uno strano scatto: trema e ride piano. E Jane si chiede se, oltre ad essere un criminale, non sia anche uno squilibrato.
«Oh, no, no. Lo so che mi stanno alle calcagna. Lei viene con me. Lei mi serve».
Come ostaggio.
Jane lo capisce. E deve averlo capito anche la signora Sternwood — che a quelle parole diventa più pallida delle bambole di porcellana, sul ripiano alle sue spalle.
E poi accade qualcosa che costringe perfino il rapinatore a distrarsi dai suoi intenti: la luce del lampadario sfrigola e trema. Subito dopo, di colpo, il negozio piomba nel buio. Resta solo il chiarore dei lampioni della strada a disegnare le sagome dei mobili. Il rapinatore non lascia la presa dal braccio di Jane. Impreca, la strattona verso di sé, ma poi tutti restano immobili, confusi. La porta è chiusa, le finestre sono chiuse, eppure sembra che qualcuno abbia appeno aperto un passaggio sull’Antartide.
Fa freddissimo.
Così freddo che ogni respiro dei presenti si condensa in una nuvoletta di vapore.
Nel giro di un istante, Jane il respiro se lo sente morire in gola. Si è resa conto con orrore di star vivendo un deja-vù e questo la terrorizza più di qualsiasi criminale armato. Non ha il tempo di dire nulla. Sente la presa del rapinatore allentarsi fino a lasciarla andare completamente. Poi un tonfo e la luce torna, all'improvviso come se n'è andata.
La signora Sternwood urla e Jane trasale.
Il rapinatore è crollato sul pavimento. Immobile, riverso su un fianco, ha la pistola tra le dita, ora bluastre. Le palpebre sono rimaste spalancate, le labbra violacee sono socchiuse, il petto è immobile. Qualcosa ricopre i suoi vestiti e la sua pelle: minuscole scaglie di ghiaccio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte prima ***


part 1
Capitolo: 02/09
Avvertimento: l'inizio del capitolo contiene i leggeri spoiler sull'ottava stagione citati nell'introduzione. Nulla di troppo rovinoso comunque.
N/A. Grazie a chi ha letto il prologo e a chi ha messo la storia tra le seguite. Significa davvero molto per me!


______________________________________________________________

x










Parte prima










Contea di Tioga, Pennsylvania.
   
Dopo una notte limpida, il primo mattino è stato accolto dalla foschia. L'Impala, con la sua lucida e nera carrozzeria, riposa nel parcheggio di una sperduta stazione di servizio e Dean Winchester, seduto sul cofano, sta spazzolando via una colazione a base di una solitaria fetta di torta preconfezionata. Sam, accanto a lui, legge un quotidiano che riporta la data odierna. Lo ha comprato dentro la stazione di servizio — dopo aver adocchiato uno dei titoli in prima pagina e mentre Dean meditava a modo suo la scelta della colazione.
Una scelta di cui il maggiore dei Winchester si sta pentendo: ha la netta impressione che la scatola di plastica trasparente abbia trasferito al dolce un che di insipido e granelloso, un retrogusto così sgradevole che neppure il suo poco fine palato, anestetizzato da fiumi di birra e alcolici, riesce ad ignorare. A dirla tutta, sospetta che la torta sia scaduta. Da anni. 
Oppure che a rovinargli il pasto sia la frustrazione per essere stati depistati di nuovo da Kevin. Sono arrancati fino nel nord della Pennsylvania correndo dietro a una falsa traccia ed eccoli ancora una volta al punto di partenza.
Sam respira pesantemente, a bocca chiusa. E quando Dean lo vede aggrottare la fronte in quel suo modo particolare, rivolgendo l'interno delle sopracciglia verso l'alto, sa già cosa chiedere.
«Trovato roba per noi?»
«Ieri a Williamsport è stata rapinata una gioilleria. Il ladro, Donny Allen, è scappato via a mani vuote. Si è nascosto in un'altra città, ha tentato di rapinare un altro negozio... ed è morto».
Dean riesce nell'impresa di masticare l'ultimissimo boccone di torta, buttarlo giù e commentare la notizia. Tutto contemporaneamente.
«Si chiama karma».
«"Dalle prime analisi del medico legale sul corpo dell'uomo, la causa del decesso sembra essere ipotermia. Un'ipotesi che pur sopportata dai fatti, date le circostanze della morte, la polizia ha dichiarato letteralmente impossibile"».
Dean rifila a Sam un'occhiata di assonnata attesa. E ci vuole una buona manciata di attimi prima che Sam, alzando gli occhi dal giornale, se ne accorga.
«Ipotermia significa assideramento».
«Lo so cosa significa. Sto aspettando i particolari. E di capire perché dovrebbe essere roba per noi».
«Perché stando a quanto dicono i due testimoni, l'uomo è morto mentre stava tentando di rapinare il negozio. È morto all'interno del negozio. Non in una cella frigorifera o in fondo a un crepaccio. Era in una...» Sam torna a scorrere le parole dell'articolo «...piccola libreria. Nel centro della città».
Dean riassume il proprio parere in un verso a metà strada tra un sbuffo e uno suono gutturale che annuncia ufficialmente l'inizio della digestione.
«Dov'è successo?» chiede.
«Mansfield. A un'ora di macchina da qui».
Come traccia per un nuovo caso è molto vaga, ma ora che sono a corto di indizi che conducano a Kevin, Dean sarebbe felice di non dover passare un'altra notte a dormire in macchina. In più: «...magari lì hanno torte che non facciano così schifo».
Dieci minuti tardi, le ruote dell'Impala girano veloci sull'asfalto nero come la pece, segnato da una linea gialla. L'auto macina le miglia ma la foschia non accenna a diradarsi, nè sulla strada nè tra la cupa distesa di boschi che la fiancheggia.


* * *

   
Mansfield, Pennsylvania.

Sam Winchester, nei panni dell'agente Smith, si lascia alle spalle le porte dell'obitorio e imbocca un grigio corridoio impregnato dell'odore di disinfettante. Ha appena parlato con un medico legale — un quarantenne quasi calvo affetto da un principio di balbuzia — e ha visto il cadavere di Donny Allen. Le parole del medico non sono state molto diverse da quelle nell'articolo di giornale: a conti fatti, non c'è spiegazione scientifica al caso dell'uomo morto per assideramento in tempi record e a temperatura ambiente. Sam si è perfino sentito domandare se l'FBI non si stia interessando al caso per il sospetto di una nuova arma batteriologica, perché Allen non soffriva di nessuna di quelle malattie che potrebbero portare un corpo umano a un improvviso abbassamento della temperatura e non esiste droga o veleno in grado di ridurre una persona a un stato di ipotermia di grado quattro.
Come si sia potuto formare del ghiaccio sul corpo del rapinatore, poi, è un mistero. 
Lungo il corridoio, Sam incrocia un infermiere che spinge una barella con sopra un sacco per cadaveri. Pieno.
In quello stesso momento, il suo cellulare inizia a squillare. È Dean.
«Allora?» chiede la voce di suo fratello, dall'altro capo del telefono.
A giudicare dal sordo ronzio di sottofondo, Dean deve essere in macchina.
«I medici brancolano nel buio» risponde Sam, allentandosi il nodo della cravatta blu. «Ma Allen è morto per assideramento: su questo non ci sono dubbi. E, a parte il ghiaccio, non c'è altro sul suo corpo. Niente ferite. Niente segni... sospetti. Tu cosa sei riuscito a sapere dalla polizia?».
«Che Donny Allen era un gran figlio di puttana. Vendeva droga, si è beccato due denunce per stupro ed è stato accusato di tentato omicidio».
«E riguardo alla rapina di ieri sera?»
«A quell'ora il negozio era già chiuso ai clienti, ma la padrona e la commessa erano ancora lì. Quando la polizia è arrivata, le due donne hanno detto che il negozio è rimasto senza luce per qualche secondo. Hanno sentito la temperatura nella stanza farsi di colpo fredda e poi l'uomo è stramazzato a terra. La ripresa della telecamera di sicurezza conferma la scena».
Il cigolio delle ruote della barella non si sente più. Sam si ferma e si sposta di un passo verso la parete, tenendo d'occhio le scale in fondo al corridoio.
«Okay. Freddo. Allora, siamo sulle tracce di un fantasma?»
«Probabile. Sul video non compare nessuna sagoma. Nessuna ombra. Ma si vede chiaramente un'interferenza nella registrazione, proprio un secondo prima che l'uomo tiri le cuoia. L'immagine traballa e c'è una specie di... linea grigia... che l'attraversa».
«E le due donne?»
«Terrorizzate, ma illese. A proposito, la padrona del negozio, una certa Virginia Sternwood, è stata portata in ospedale ieri sera. Ha avuto un malore dopo l'arrivo della polizia. È ancora ricoverata lì. Va a fare due chiacchiere con la nonnina, io ho l'indirizzo della commessa».


* * *

   
Dean chiude la chiamata, getta il cellulare sul sedile del passeggero e afferra il volante con entrambe le mani. Lascia che l'Impala percorra la strada a velocità ridotta, mentre tiene d'occhio la fila di piccole villette su entrambi i lati della strada. La foschia se ne è andata, ma il tempo è rimasto sereno per poco e Mansfield adesso è sotto una compatta cupola di nubi grigie. Nonostatante sia quasi mezzogiorno di una giornata di fine ottobre, tutto appare livido e spento, come in pieno inverno. A prima vista, sembra che a Wakefield Terrace — un quartiere residenziale dove le case sono tutte più o meno identiche — il massimo della vivacità siano i ghigni storti delle zucche, sopra ai muretti e ai gradini dei porticini, e lo svolazzo di foglie morte che il vento solleva e ammucchia contro le grate dei tombini.
L'Impala inizia a rallentare. Accosta al marciapiede e si ferma. Dean spegne il motore: è davanti a una casa con un unico piano. Come le altre abitazioni, ha il tetto spiovente coperto di tegole scure ed è rivestita di legno pitturato di bianco. Ma non c'è nessun portico. Solo quattro gradini di pietra che collegano il vialetto alla porta d'ingresso. Il numero civico è dipinto sull'architrave: 2601.
Dean scende dall'auto, accompagnato dal lieve tonfo della portiera. Da qualche parte, un cane uggiola. Il cacciatore percorre il vialetto, dando una scrollata alla giacca del suo completo nero, sale i lisci gradini e rifila alla porta tre rapidi ma vigorosi colpi.
Pochi attimi di silenzio.
Poi qualcuno fa scattare la serratura e la porta viene aperta in modo brusco.
Dean si ritrova faccia a faccia con una donna giovane e potenzialmente carina, sebbene sfoggi un per niente sexy maglioncino color crema con un colletto di trina nera. È la stessa ragazza che Dean ha visto nella registrazione della rapina, ma è molto più alta di quanto si aspettasse. E molto più... arancione.
Jane Leigh, a giudicare dalla mera espressione, non sembra sorpresa o colpita dalla presenza dello sconosciuto in giacca e cravatta sul suo pianerottolo e, prima che il cacciatore possa aprir bocca, pronuncia un soave quanto perentorio: «No, grazie».
«No, grazie?» ripete Dean, senza capire.
«Aspirapolveri, opuscoli religiosi, enciclopedie. No, grazie, non mi servono». La ragazza ha l'accento inglese più inglese che Dean abbia mai sentito. Parla in fretta, con la meccanica e precisa gentilezza di una hostess. «E se è un giornalista anche lei, lo ripeto: vada a piantonare l'ufficio dello sceriffo. Buona giornata». Una lieve spintarella e la porta viene richiusa.
Per un paio di lunghi secondi, Dean fissa la laccata superficie marrone a quindici centimentri dal proprio naso. Poi si riprende. Infila una mano nella tasca interna della giacca, ne tira fuori il falso distintivo da agente federale e bussa di nuovo.
Quando Jane compare sulla soglia, Dean non le dà il tempo di parlare.
«Sono l'agente Wesson. FBI. Sono qui per farle alcune domande, signorina Leigh».
Dovrebbe essere il turno della ragazza di restare basita, ma se lo è allora raramente Dean ha visto concentrare, con tanta mirabile sintesi, sorpresa e imbarazzo in un'unica vocale.
«Oh».
Jane Leigh sfiora con le dita il gingillo a forma di gufo che le pende sul petto. Quindi apre per benino la porta e si schiarisce la voce. «Chiedo scusa. Entri pure». Con un movimento del braccio, invita l'uomo ad entrare: si accede direttamente al soggiorno. Non appena Dean ha oltrepassato l'uscio, la ragazza richiude con calma la porta.
Di colpo, si sente un trillo forte e prolungato.
«Ah, torno subito!» esclama Jane, piano. «Lei... si accomodi, intanto». Accenna al divanetto, al centro della stanza, e l'istante successivo sta già attraversando il soggiorno.
Dean, in nome delle vecchie e salutari abitudini, segue con lo sguardo l'andatura della ragazza, per una rapida ricognizione del suo lato b e delle gambe lunghe, gentilmente fasciate in un paio di aderenti blue-jeans. Quando Jane sparisce oltre una delle due porte del soggiorno, rimasto a corto di grazie femminili da ammirare, il cacciatore deve ridursi ad osservare la stanza: rustici mobili di legno chiaro e pareti tinteggiate di un azzurro opaco. Davanti al divano, sopra al tavolinetto da caffè, ci sono una ciotola di ceramica, piena di mele rosse e verdi, e un libro aperto — tanto grosso da far sperare a Dean che ci sia da qualche parte un tavolo molto zoppo. Non è l'unico libro nella stanza: gli scaffali vicino alla finestra ne sono pieni. Consapevole della propria immagine riflessa nello specchio rettangolare, sopra al camino dalla mensola bianca, Dean fa un paio di passi verso il divano. Si è appena reso conto che nella stanza è entrato un odore dolciastro, un profumo che ricorda vagamente quello delle mele caramellate, quando esplode un inconfondibile fracasso di piatti rotti.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte seconda ***


part 1
Capitolo: 03/09
N/A. Da brava Befana quale sono, oggi vi lascio un capitolo a base di mele, dolci e... poco chiari comportamenti da parte di Jane. Perché è più divertente scoprire un personaggio poco a poco (¬‿¬)


______________________________________________________________

x










Parte seconda










«Tutto a posto?»
Dean, raggiunta la porta socchiusa, si è ritrovato sulla soglia di una cucina: i mobili sono pitturati di un opaco verde acqua e uno degli sportelli della dispensa è aperto.
«...è solo caduto un piatto».
Jane, alzandosi in piedi, spunta da dietro l'isola al centro della cucina. Ha raccolto tre grossi pezzi di coccio dal linoleum screziato e borbotta qualcosa riguardo a mani fatte di ricotta e ore di sonno perdute.
Ma di tutto ciò, ora come ora, Dean Winchester ne è consapevole in un modo molto vago.
Ha trovato la fonte del profumo. È lì. Sul piano dell'isola, accanto a un guantone da forno, adagiata su un piatto bianco: una torta. E Dean la guarda come guarderebbe una spogliarellista sul bancone di un bar: un accenno di sorriso, un sopracciglio inarcato, la mente che galoppa nell'immaginare le meraviglia nascoste sotto la calda crosta dorata.
«Una torta».
Jane appoggia i cocci accanto al lavabo e chiude lo sportello. Sta dando le spalle a Dean e sembra rispondere per pura forza d'inerzia.
«Concordo».
«Fatta in casa?»
«Be', questa è una casa».
«Cosa c'è dentro?»
«Che originale metodo investigativo».
Dean smette di fissare la torta, quando Jane si volta verso di lui.
La ragazza socchiude appena le palpebre struccate, arricciando il naso per accompagnare un sorrisetto forzato e a stento percepibile.
«Non mi ritengo un'esperta, ma credo che possiamo eliminare la mia torta dalla lista dei sospettati. Perché immagino che lei sia qui per chiedermi della morte di Donny Allen, giusto?»
Senza aspettare una risposta, Jane circumnaviga metà del ripiano e torna in soggiorno.
Il cacciatore non può far altro che dimenticarsi — a malincuore — della torta, seguire la padrona di casa e iniziare con le domande.
«Sì, esatto... so che ha parlato con la polizia. Ho letto i verbali della sua testimonianza e ho visionato la ripresa della telecamera del negozio. Ma devo chiederle se c'è qualcosa che pensa di aver tralasciato, ieri sera, durante la deposizione». Dean si ferma nel mezzo del salotto e infila le mani nelle tasche dei pantaloni. «Qualsiasi dettaglio. Qualsiasi piccola stranezza che ha notato... prima o dopo la morte dell'uomo».
Jane sta raccogliendo il libro dal tavolinetto da caffè. Quando lo chiude, l'uomo ne scorge la copertina: Storia dell'America del Nord.
«Tutto quello che ho visto e sentito l'ho detto alla polizia» risponde la ragazza, mentre se ne va fino agli scaffali e infila Storia dell'America del Nord nell'unico spazio libero, tra gli altri volumi. «Non che sia molto, comunque. Le mie capacità di osservazione non erano al loro meglio: tendo a essere distratta quando mi minacciano con una pistola».
Dean ascolta, osserva e aggrotta la fronte.
Mentre guidava verso il 2601 di Wakefield Terrace, complice quanto saputo dalla polizia, si sarebbe detto certo di cosa avrebbe trovato una volta raggiunto l'indirizzo: una donna confusa e turbata. Come da prassi. Ma Jane Leigh sembra tutto fuorché turbata. Dopo essere stata testimone di una morte brutale ed inspiegabile e aver passato le ore successive in una centrale di polizia, il mattino seguente prepara torte e legge di libri di storia. Non si preoccupa di aver chiuso la porta in faccia a un agente federale. Parla con calma e chiarezza, infilando una parola dietro l'altra, senza esitazione. E tutto ciò che dice, nonostante il tono serio e tranquillo, ha un retrogusto ironico. Ma è un'ironia distratta, gentile. Nulla a che fare con il sarcasmo offensivo, nervoso e scostante che si ci potrebbe aspettare da un testimone impaurito e traumatizzato.
«Signorina Leigh, non per rigirare il dito nella piaga, ma... meno di ventiquattro ore fa lei si è trovata in mezzo a una rapina, ha  rischiato di essere presa in ostaggio e ha visto un uomo morire...».
«Già, l'ultima parte è stata piuttosto inaspettata» commenta Jane, accomodandosi mollemente sul bracciolo imbottito del divano. Incrocia le caviglie, poggia le mani sulle ginocchia unite e guarda dal basso il cacciatore — che ricambia lo sguardo. Se Dean ha letto bene i dati sul fascicolo, la ragazza dovrebbe avere ventisei o ventisette anni al massimo, ma gli sembra che ne dimostri di meno.
«Inaspettata?» ripete l'uomo, quasi sillabando la parola. «Sbaglio... o... lei non è rimasta molto turbata da... quello che è successo?»
«Sono inglese. Questo è il massimo del turbamento emotivo che riesco a mostrare».
Ironia, di nuovo. Dean ci impiega un paio di secondi per decidere di sorvolare il discorso.
«Da quanto tempo lavora nel negozio?»
«Sette mesi».
«In questi sette mesi avete mai avuto problemi come sbalzi di corrente? O rumori nel muri? O punti del locale più freddi altri?»
Jane ha abbassato lo sguardo. Sta giocherellando con un sottile anellino dorato, a forma di freccia, attorno all'indice sinistro.
«No, nessun problema del genere».
«E sa se nel negozio, o negli edifici vicini, c'è mai stato un qualche caso di... morte violenta?»
«Non che io sappia. Abito qui solo da un anno ma da quel che ho visto, fino a ieri sera, Mansfield ha avuto lo stesso tasso di criminalità di Paperopoli. Quando la Banda Bassotti è in vacanza». Jane chiude la bocca. Solleva lo sguardo e corruga le sopracciglia. «Ma... perché lo chiede a me? L'FBI non dovrebbe averle certe informazioni?»
Dean deglutisce e non batte ciglio.
«Ma certo». Sorride del suo sorrisetto più impertinente. «E le sta vagliando in questo preciso momento il mio collega».


* * *


Ma, in questo preciso momento, l'unica cosa che sta vagliando il minore dei Winchester è la possibilità di non aver ottenuto una sola informazione realmente utile.
È nella camera d'ospedale della signora Sternwood. L'anziana donna è seduta accanto alla finestra e Sam è in piedi, davanti a lei: il blocchetto per gli appunti tra le mani e il viso atteggiato a un sorriso paziente e uno sguardo attento e cortese.
Pur ancora molto provata, la donna ha accettato senza problemi di rispondere alle domande. Ha raccontato a Sam di aver aperto la libreria trentadue anni fa esatti, subito dopo essere arrivata in città.  La costruzione è della fine dell'Ottocento, ma lei ha sempre curato la manutenzione. Non ci sono mai stati problemi con l'impianto elettrico o con il riscaldamento. Della storia dell'edificio, sa soltanto che prima del proprio negozio c'era una caffetteria e che i piani superiore facevano da abitazione per la famiglia che la gestiva. In tutti questi anni in cui ha lavorato lì, il quartiere non è mai stato turbato da nessun evento degno di nota.
Anzi, da come ne parla la signora Sternwood, tutta Mansfield sembra essere un'oasi della tranquillità.
Il che, per il cacciatore, è una pessima notizia. Ma non ne fa una colpa alla signora Sternwood.
D'altra parte, la donna la colpa se la sta prendendo da sola. Deve aver intuito, dall'espressione di Sam, che le risposte lasciano a desiderare.
«Mi dispiace di essere così poco utile» sospira.
Sam chiude il blocchetto per gli appunti e lo ripone nella tasca interna della giacca.
«Signora Sternwood, non si preoccupi. La ringrazio del suo tempo, è stata molto collaborativa».
«No, non lo sono. Sono solo una vecchia con un cuore che non regge più gli spaventi».
C'è qualcosa nel sorriso pacato e malinconico della signora Sternwood, nel modo in cui tiene le mani in grembo — le dita gracili sono intrecciate in una posa di composta stanchezza — e nell'asettico e livido vuoto della stanza d'ospedale, che spinge Sam a riflettere su un fatto: quella donna anziana, tanto fragile e gentile, è anche tanto sola. Vale la pena restare qualche secondo in più e farle almeno una domanda che non riguardi l'indagine.
«La dimetteranno presto?»
«Oggi, nel primo pomeriggio. I medici dicono che devo solo tornare a casa, prendere le mie pillole e stare tranquilla».
«Verrà qualcuno a prenderla?»
«Sì, Jane».
«Jane... è... sua figlia?»
«Oh, no. Io non ho figli. Jane è solo la commessa che mi da una mano con la libreria. Mio dio... » La donna si porta una mano alla base del collo e sembra inghiottire a fatica. «Se solo ripenso a cosa avrebbe potuto farle quell'orribile uomo... Jane è una ragazza così buona. Pensi che ieri notte, appena la polizia l'ha lasciata uscire... invece di andare a casa a riposare, è venuta qui per vedere come stavo. È tornata a trovarmi anche questa mattina. E quando se ne è andata, mi ha detto: "Vado a prepararle una torta di mele. Per oggi pomeriggio". Gliel'ho insegnata io, sa? La ricetta delle torta di mele...».
Di questo zuccheroso ritratto di sconosciuta, Sam non sa bene cosa farsene, ma non osa interrompere la signora Sternwood.

   
* * *


Jane è seduta al centro del divano. Sta fissando la ciotola di frutta come se le mele fossero le responsabili di un terribile torto nei suoi confronti. E non la smette di torturare l'anellino, facendolo ruotare attorno al dito.
L'agente Wesson è andato via da cinque minuti. La ragazza lo ha accompagnato alla porta, lo ha visto salire a bordo di un'automobile nera e ripartire. Poi è rientrata in casa e non si è più mossa dal soggiorno.
È convinta che se l'agente avesse avuto una minima idea di come lei si senta davvero — del soffocante senso di vertigine che tiene a bada da ore — non si sarebbe mai azzardato a fare un commento del tipo “non è rimasta molto turbata”. Per tutta la notte, Jane si è ripetuta ossessivamente sempre la stessa preghiera. Non di nuovo. Ti prego. Non di nuovo. E ha fatto un breve ma significativo elenco di tutti gli ottimi motivi per cui farebbe bene a lasciare Mansfield. La ragazza distende la fronte, ispira e poggia le mani sulle ginocchia.
«Otto» mormora. 


* * *


Il Tioga Motel — un edificio rosso a un piano, a forma di L — assicura camere a poco prezzo, ma non ha speranze di finire tra le bellezze architettoniche di Mansfield. Oltretutto, rientra per un soffio dentro i confini della città: il cartello che segna l'uscita da Mansfield è a un miglio esatto dall'insegna del motel, piantata all'inizio dello spiazzo sterrato del parcheggio. La fredda luce al neon dell'insegna si perde in quella ancora più fredda del pomeriggio. Sono le quattro passate, il cielo è sempre plumbeo e l'aria è diventata umida, quasi dovesse iniziare a piovere da un momento all'altro.
Jane, sul muretto di cemento che delimita un lato del parcheggio, sta sperimentando la discutibile gioia dell'appostamento. Nascosta alla bell'e meglio dal tronco di un albero rachitico, la ragazza può tenere d'occhio sia il parcheggio — l'automobile nera dell'agente Wesson è accanto a un pickup rosso e a due posti di distanza da un furgoncino — sia la facciata del motel, con la sua ripetitiva successione di porte bianche, ciascuna affiancata da una doppia finestra.
Jane solleva il bavero della sua giacca marrone e si pente di non aver indossato la sciarpa. Ormai è qui da venti minuti. Ha visto uscire una coppietta, entrare un uomo con un cane, poi tornare la coppietta. Ora inizia a sentire freddo e a prendere in seria considerazione l'idea di andare a bussare a tutte le camere. Ma proprio quando sta per scendere dal muretto, per sgranchirsi le gambe, una delle porte si apre.
Ne escono due uomini. Indossano jeans e scure giacche sportive. A prima vista, prestante è l'aggettivo più adatto per descriverli entrambi. Uno ha i capelli lunghi e un viso sconosciuto. Ma l'altro, il più basso dei due, è senza ombra di dubbio l'agente Wesson.
Jane scivola giù, cercando di far il minimo rumore possibile nel toccare il terreno con i suoi stivali neri, e se ne resta dietro all'albero. Vede i due uomini raggiungere l'automobile nera. Salgono. Sbattono le portiere. Poi il motore viene acceso e, di lì a poco, con la ghiaia bianca che scricchiola sotto il peso delle ruote, la macchina esce dal parcheggio.


* * *


Quindici: è il numero avvitato sulla porta della camera. Da vicino, Jane può constatare quanto sia rovinata la vernice e graffiato il legno sottostante.
La ragazza si guarda attorno. Non c'è nessuno nei paraggi. E questo è un bene: sarebbe complicato spiegare perché stia rovistando con tanta fretta nella propria borsa. E perché ne abbia appena tirato fuori un grimaldello.
Scadente il motel. Scadenti le serrature.
Quando Jane sente gli ingranaggi scattare, sotto la spinta dell'uncino di ferro, si permette un intimo moto di orgoglio e soddisfazione.
Apre la porta quel poco che basta per sbirciare all'interno e controllare che la camera sia davvero vuota. Solo dopo essersi assicurata di aver campo libero, la ragazza scivola dentro, curandosi di lasciare la porta accostata. Non sa e non ha tempo di controllare se la serratura sia diventata difettosa e non vuole correre il rischio di restare chiusa nella camera.
La stanza non è né meglio né peggio di quanto si aspettasse. Moquette sul pavimento, tappezzeria a strisce, due stampe di brutte nature morte appese sopra ai due letti singoli. C'è un tavolinetto sotto alla finestra, un minuscolo angolo cucina e una porta a soffietto, aperta per metà, che lascia intravedere parte di un bagno. Sui letti, ancora intatti, sono stati lasciati dei borsoni da viaggio mentre, sopra al tavolo, c'è un computer portatile. Nel cesto della spazzatura, Jane intravede due bottiglie di birra e delle buste per panini, unte e accartocciate.
La ragazza mette via il grimaldello, accostandosi al tavolino. È sul punto di sollevare lo schermo del portatile, ma poi ricorda a sé stessa quanto la tecnologia — a cominciare dal suo stesso telefono cellulare — ami remarle contro e opta per qualcosa di meno virtuale: va al letto più vicino e apre la zip del borsone. Sta bene attenta a non mettere in disordine il contenuto, mentre alza gli angoli di due camicie di plaid piegate male. Ma ritira di scatto le mani, come se avesse preso una scossa elettrica, quando, sollevando un'altra camicia, vede spuntare una pistola.
«...okay, troviamo i documenti in fretta» mormora, prendendo un piccolo respiro. «E togliamo subito le tende».
Fruga in una tasca laterale, ma non salta fuori nessun documento, solo una grossa, vecchia agenda con la copertina di pelle.
Jane stacca la chiusura, scorre le pagine e comprende di avere tra le mani una sorta di diario: il proprietario l'ha riempito con disegni di figure strane e spaventose, con simboli dall'aria esoterica, con articoli di cronaca nera, ritagliati da giornali quotidiani. Alcuni articoli portano la data di più di venti anni prima.
«Cerchi qualcosa in particolare?»
Jane sussulta così bruscamente che per poco il diario non le sfugge di mano.
Si gira piano, rallentata da un vago senso di panico.
I legittimi occupanti della camera sono sulla soglia. La stanno guardando male, ma non ci sono in giro fucili spianati.
Jane si schiarisce la voce. Rilassa le spalle e chiude il diario, avvicinandoselo al petto. Chiama a raccolta tutta la sua capacità di affabile chiacchiericcio.
«Oh, be', questo sarebbe il momento adatto a una frase brillante per... convincervi che non sto facendo quello che sembra che io stia facendo. Ma non riesco a pensare a niente del genere. Anche perché sto facendo esattamente quello che sembra che io stia facendo, quindi...  oh, smettetela con quelle occhiatacce. Qui siete voi quelli che vanno in giro a farsi passare per agenti federali. Io ho solo forzato una serratura. Che, per la cronaca, era comunque una serratura da quattro soldi».

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Parte terza ***


part 1
Capitolo:  04/08.
N/A. Ringrazio ancora una volta e immensamente chiunque stia leggendo questa fan fiction. Chi l'ha inserita tra le seguite, le ricordate e le preferite. Essendo la prima volta che mi cimento in una storia del genere, usando uno stile di scrittura "nuovo" per me (ispirato alle sceneggiature) che mi costa parecchio impegno e infinite revisioni, veder salire il numero delle visite mi fa battere il cuoricino. (◡‿◡) Per quanto riguardo il capitolo, non c'è molto da dire se non che... it's ghost time!

______________________________________________________________

x










Parte terza










Chiusa la porta e tolto di mezzo il diario, a Jane è stato ordinato di mettersi seduta. La ragazza si sente come una taccheggiatrice colta in flagrante, ma non lo dà a vedere: schiena contro la spalliera e gambe accavallate, se ne sta con le mani sul tavolo e sfiora distrattamente il suo anellino con il pollice. Ha ancora la borsa a tracolla e non si è tolta la giacca. I due uomini, invece, le giacche le hanno sfilate via: indossano entrambi camicie che lasciano scoperti gli avambracci. Blu e aperta su una maglietta nera quella dell'agente Wesson. Di plaid e abbottonata quella dell'uomo più alto — che ha appena occupato la sedia dall'altro capo del corto tavolino e le chiede, diretto: «Cosa stavi facendo nel parcheggio?»
Jane sente dissolversi l'ultima briciola di illusione: non è furba come sperava.
«Ah. Mi avete vista».
«Se vuoi passare inosservata, cambia colore della tinta, Ariel» commenta l'agente Wesson, in un tono a metà tra l'annoiato e l'impaziente. Esattamente come lo è la sua espressione. È in piedi, a braccia conserte, alle spalle dall'altro.
«Questo è il mio colore naturale» specifica Jane, con calma. È finita in una stanza con due grossi americani, avvezzi a tenere le pistole persino tra i vestiti ancora chiusi in valigia: il buon senso le suggerisce di evitare atteggiamenti aggressivi. Alterna lo sguardo tra i due e stiracchia un sorriso preoccupato. «A questo punto non è ovvio? Aspettavo che lasciaste la camera per infilarmi qui dentro, frugare tra i vostri affetti personali e trovare conferme alle mie supposizioni. E... ora sto prendendo mentalmente nota di non usare mai più questa frase all'inizio di una conversazione con degli sconosciuti. Comunque, mi sembra di capire che voi due abbiate finto di allontanarvi dal motel solo per vedere cosa avrei fatto io. Uno a zero per i coloni ribelli».
«Che cosa vuoi?» domanda l'agente Wesson.
«E come ci hai trovato?» aggiunge l'altro.
Jane resta zitta per un paio di secondi, mordicchiandosi l'interno della guancia, indecisa. Alla fine, drizza la schiena e stende le mani sul tavolo. L'anello batte piano contro la plastica scura e rigata.
«Okay, ecco la versione corta della storia: qualche anno fa ho avuto una... brutta avventura per colpa di... una creatura... poco benevola... e molto poco viva». Ancora una volta, Jane quasi si sorprende del tono spicciolo e tranquillo della propria voce, di come riesca a non essere minimamente intaccata dall'angoscia che le suscita anche il più flebile accenno al passato. «Un uomo mi ha tirata fuori dai guai. Era un cacciatore di... mostri. Morale della favola: ho imparato un paio di cosette sul modus operandi dei cacciatori. E su quello dei fantasmi». Fa una piccola pausa. «Lo so che Donny Allen è stato ucciso da un fantasma. E so che anche voi lo sapete. Perché voi due siete cacciatori. Ho iniziato a sospettarlo con le domande che mi ha fatto questa mattina aperte virgolette l'agente Wesson chiuse virgolette. Poi, quando sono andata a prendere la signora Sternwood all'ospedale, lei mi ha detto di aver ricevuto la visita di un tale agente Smith: bel giovanotto, molto alto, ha fatto un mucchio di domande sulla storia della libreria. Unire i puntini è stato abbastanza facile: un'indagine su una morte misteriosa più domande inusuali più nomi che puzzano di falso [1] uguale cacciatori. E trovare un cacciatore non è poi così difficile, se si ha un'idea del tipo di vita che conducono. Mansfield è una città piccola. Una volta esclusi tutti gli alloggi più costosi, i più centrali e i più eleganti, rimangono solo due bed and breakfast e due motel. Per il resto, sono stata fortunata: il Tioga era il primo della mia lista. Quando ho visto quel vostro carro funebre nel parcheggio, ho riconosciuto la targa e... eccoci tutti qui».
Un silenzio saturo di perplessità segue la sua arringa. Jane ha il forte sospetto di aver parlato troppo. O troppo in fretta. O di aver detto qualcosa che proprio non va. Altrimenti non riesce a spiegarsi perché l'agente Wesson la stia guardando come se lei lo avesse appena insultato: ha un'aria terribilmente seria.
L'altro cacciatore si limita a passarsi una mano dietro al collo, aggrottando la fronte.
«Quindi tu sei qui per...?».
«Be', aiuto. Io... conosco bene la libreria, voi conoscete bene i fantasmi... suppongo. Spero. E se tutti sappiamo come stanno le cose, possiamo...collaborare?» Jane fa salire lentamente le sopracciglia sulla fronte, quasi la proposta colga di sorpresa anche lei. «Capisco che la mia trovata di entrare qui di nascosto non è un punto a mio favore, ma sono sincera: voglio solo liberare la libreria dal fantasma che la infesta e tornare il prima possibile al mio lavoro, e alla mia vita felicemente priva di presenze spettrali».
C'è un lungo istante di silenzio.
Poi l'uomo con i capelli lunghi respira pesantemente.
«Okay, allora... io sono Sam. Questo è mio fratello Dean».
«E io sono Jane, ma questo lo sapete già» cinguetta la ragazza. Unisce le mani, intrecciando le dita. «Passiamo alle cose importanti: cosa avete scoperto?»
Si sta rivolgendo a Sam. Lui la guarda con la fronte aggrottata e le sopracciglia alte, lasciando intuire che un approccio tanto diretto non se lo aspettava.
Ma, dopo un attimo, Sam si abbandona con la schiena sulla spalliera.
«Siamo stati nella libreria» comincia. «Ma con una squadra della scientifica tra i piedi, non abbiamo potuto controllare ovunque e per ora non è saltato fuori di nulla. Ho fatto qualche ricerca sui precedenti proprietari dell'edificio e... be', sembra che in più di centottanta anni ci abbiamo vissuto solo persone... ordinarie. Tutte tranquillamente morte di vecchiaia nei loro letti. E ignoriamo alla grande da dove salti fuori la faccenda dell'assideramento. Così... ora pensiamo che, se nella libreria c'è un fantasma, potrebbe essere per via di qualche oggetto. Magari u—».
«Uno dei pezzi di antiquariato» lo anticipa Jane.
«Sì, be', sembra l'ipotesi più probabile. Sono vecchi, devono essere appartenuti a molte persone».
«Di quale pezzo sospettate?»
«Non possiamo dirlo, questo è il problema. Non sappiamo nulla di quegli oggetti».
«Bah, io ho proposto di  bruciarli tutti» commenta Dean.
«Io propongo di bruciare tutto il negozio» gli fa eco Jane, con un candore che spera comunichi tutto il suo sarcasmo.
Sam li ignora entrambi.
«Jane, che tu sappia, sono tutti veri pezzi di antiquariato?»
«Temo di sì».
«Ma hai anche detto che, da quando lavori nella libreria, non c'è mai stato nessun fenomeno di... be', sai a cosa mi riferisco. Quale è stato l'ultimo oggetto che è stato portato nel negozio? Più o meno... nelle ultime settimane?»
«Nessuno. C'erano già tutti quando sono arrivata io. E una volta la signora Sternwood ha accennato al fatto di non comprarne più da almeno tre anni».
Cala di nuovo un attimo di silenzio — questa volta pieno di un leggero senso di delusione.
Dean sbuffa. «Dobbiamo tornare nella libreria e cercare meglio» conclude.
«Allora è una fortuna che io abbia il pomeriggio libero e una copia delle chiavi del negozio» se ne esce Jane, prontamente. «Possiamo andare lì ora».
«Rallenta, Nancy Drew [2]» interviene Dean. «Se sai qualcosa che pensi possa essere utile, parla. Ma noi non siamo qui per farti fare il giro turistico della Piccola Libreria degli Orrori [3]».
Ha usato un tono così aspro e secco che la ragazza può pensare una cosa sola: Dean non la considera un possibile aiuto. La vede come un contrattempo da togliere in fretta di mezzo. E questo la svilisce. Non che le importi l'impressione che ha di lei un perfetto sconosciuto, ma è dura sopportare in silenzio certi ricordi e intanto sentirsi dire di prendere la faccenda come un gioco.
Jane rivolge a Dean un sorrisetto sottile e molto poco benevolo.
«Che piacere constatare che la spocchia è una caratteristica comune, tra i cacciatori» afferma, serafica. «Siete voi quelli in gamba, giusto? Andate in giro a far strage di mostri e di buon gusto nel vestire, mentre il resto dell'umanità è un patetico branco di pecore impaurite. Be', indovinate un po'? Io non sono una cacciatrice... e nemmeno una spia provetta... ma questo non significa che sia lenta e rincretinita come la protagonista di un dannato film dell'orrore [4]».
«Ehi, sta a sentire, duchessa di Cambridge» sbotta Dean. «Sto solo dicendo che noi—».
«Non sappiamo con certezza cosa ci sia nella libreria» interviene Sam, placido e ragionevole, quasi stesse sedando i capricci di un bambino. «Dobbiamo essere prudenti».
«E io non vi sarò d'impiccio, lo prometto» ribatte Jane, gentile ma risoluta. «Sto solo cercando di essere pratica: abbiamo bisogno di trovare indizi e tre paio di occhi guardano meglio e più in fretta di due. In più, io conosco la libreria come le mie tasche. Se c'è qualcosa di... diverso, anche un dettaglio, lo noterò subito. E per quanto riguarda la prudenza...»
Abbassa il capo, infila una mano nella tasca anteriore della sua borsa. Quello che poggia sul tavolo, una volta estratto dal fodero, è un coltello da caccia: lungo quasi trenta centimetri — quindici di lama in ferro puro — e con un manico di legno nero.
«Il mio primo incontro con un cacciatore non mi ha lasciato solo incubi come regalo» conclude.
A questo punto, Dean e Sam si scambiano una lunga occhiata che Jane non riesce a decifrare fino in fondo, ma intuisce che dev'essere in corso una sorta di muta consultazione.
Alla fine, Dean si strofina stancamente un occhio.
«Grandioso».
Dalla scontrosa rassegnazione della sua voce è chiaro che, qualunque sia la decisione, non ci trova nulla né di grande né di ioso. Punta un dito verso Jane. «Ma ti avverto: mentre guido, non voglio sentirti fiatare. La tua voce, e il tuo ridicolo accento, ce li ho già piantati in testa».
Jane scrolla le spalle, insieme soddisfatta e indifferente.


* * *


Tra poco farà buio e il cielo non accenna a schiarisi. Il maggiore dei Winchester distoglie lo sguardo dalla strada per controllare lo specchietto retrovisore: il profilo di Jane è pallido e levigato nella smorta luce dell'abitacolo. La ragazza, seduta dietro a Sam, sta guardando tranquilla fuori dal finestrino. Non ha detto una parola da quando sono saliti in macchina — vale a dire da meno di dieci minuti — e Dean non riesce a decidersi. Ha davvero azzitto la saccente inglese? Oppure l'ostentata obbedienza di Jane è una sottile forma presa in giro?
È certo di una sola cosa: Jane Leigh potrà anche essere carina e saper preparare torte dall'aria deliziosa, ma nessuno — nessuno! — ha il permesso di insultare Baby. 
«Di' un po', Nancy Drew». Dean torna con gli occhi sulla strada. «Dove l'hai imparato a scassinare serrature?»
«Internet» si sente rispondere, come se fosse la cosa più ovvia e scontata del mondo.
Sam, a testa bassa, sta controllando che il lettore EMF funzioni correttamente. Ma, dopo un attimo di silenzio, Dean lo scorge con la coda dell'occhio alzare a sua volta lo sguardo verso lo specchietto. E lo sente dire: «C'è una cosa che non capisco, Jane. Se eri così sicura di avere a che fare con dei cacciatori, perché non sei semplicemente venuta a parlare con noi?»
«Perché ho giurato di non rivolgere a nessuno la domanda "vi guadagnate da vivere andando a caccia di mostri?". Non dopo quella volta in cui ho scambiato per cacciatori un gruppo di impiegati in un'agenzia per modelle».
Sam e Dean si guardano veloci l'un l'altro, profondamente perplessi, e nessuno osa chiedere i dettagli.


* * *


Quando Jane ha fatto presente la possibilità di parcheggiare in una stradina laterale, sulla quale si apre la porticciola del retro della libreria, nessuno l'ha trovata una cattiva soluzione: più si abbassano le probabilità di avere spettatori occasionali e meglio è.
Spento il motore e scesi tutti dall'auto, Dean e Sam hanno aperto il portabagagli dell'Impala. Jane li osserva, mentre tiene le mani aggrappate all'incavo dei gomiti e cerca di ignorare un'inevitabile principio di crampi allo stomaco.
«Viaggiate pesanti» constata la ragazza, senza intenzione di lode o di accusa. Non si è sorpresa troppo nel vedere che il portabagagli nasconde un secondo vano e che nel vano è stipato un arsenale. Così come non ha bisogno di chiedere perché, per una caccia al fantasma, i due stiano trafficando con armi da fuoco e barattoli di sale.
«È un problema?» ribatte Dean. Sta controllando il caricatore di una pistola, mentre Sam si sistema in spalla una sacca grigia.
«No... immagino che nel vostro mestiere la diplomazia serva a poco». Jane si scosta una ciocca di capelli rossi da davanti alla bocca. Tira un po' vento e sta iniziando a piovere, ma le gocce sono così rade che se ne fosse per i puntini neri sull'asfalto sarebbe difficile accorgersene. «Personalmente, però, non sono un'ammiratrice delle armi da fuoco. Troppo... violente, per i miei gusti. E non mi pacciono le cose violente».
Fatta sparire la pistola dietro la schiena, Dean chiude il portabagagli — un sordo tonfo riecheggia lungo la stretta stradina — e si volta verso Jane.
«Ma se te vai in giro con un coltello da serial killer nella borsa» le fa presente.
«Ho detto armi da fuoco» sillaba la ragazza. «E non vedo come usare un coltello per difendersi da qualcuno che è morto e incorporeo possa essere considerato un atto violento».


* * *


Le forze dell'ordine hanno messo la libreria sotto sequestro, ma l'avviso affisso sulla porta non viene degnato di uno sguardo: Jane infila la chiave nella serratura, con una spinta fa ruotare la porta sui cardini e cede il passo ai cacciatori. Non appena sono tutti dentro —  nella penombra, complici le ombre tra gli scaffali, il retrobottega ha un aspetto ancora più disordinato del solito — la ragazza fa scivolare le chiavi nella borsa, prende il primo scatolone che le capita a tiro e lo sistema tra la porta e lo stipite. Intanto, i due uomini si stanno spostando per la stanza. Dean, occupato ad osservare l'asta del lettore EMF, urta lo spigolo del tavolo. La scatola con le copie de Il dolce bacio delle tenebre è ancora là sopra, nel punto esatto in cui l'ha lasciata Jane, la sera precedente.
«Aspettate» sussurra la ragazza.
Aggira il tavolo e raggiunge il quadro elettrico.
Solleva un'intera fila di levette nere e in tutte le stanze della libreria si accende la luce.


* * *


Nei quindici minuti che seguono, non accade assolutamente nulla: il lettore EMF non rileva anomalie, neppure vicino agli oggetti d'antiquariato. Non si trovano punti freddi, nè tracce di zolfo. Non si sentono rumori — a parte il lugubre cigolio delle assi del pavimento e lo scrosciare della pioggia, che nel frattempo si è fatta più intensa. L'acqua scorre nelle grondaie e le gocce colpiscono i vetri delle finestre come manciate di sassolini.
Cacciatori e commessa cercano ovunque e guardano da vicino ogni singolo soprammobile. Tirano fuori le torce dalla sacca grigia per guardare sotto il bancone, frugano nelle scatole, aprono i cassetti, spostano i libri dagli scaffali, li sfogliano — perché ormai Sam e Dean sono arrivati al punto di considerare anche l'ipotesi che in giro passa esserci qualcosa come un sacchetto per le maledizioni o un simbolo demoniaco.
Ma mentre i due Winchester fanno il loro lavoro in silenzio e con attenzione, Jane allenta il nodo allo stomaco con un attacco di incontinenza verbale, e in un tono che andrebbe bene per una conversazione all'ora del tè.
«...detto tra noi, io voglio bene alla signora Sternwood. È la migliore datrice di lavoro che si potrebbe desiderare. E adoro lavorare con i libri... ma ho sempre pensato che questo posto avesse... un non so che di... spettrale».
Sono tutti nella sala con il bancone. Il lampadario getta una luce giallognola e qualche granello di polvere galleggia nell'aria. Gli occhi vitrei delle bambole di porcellana e quelli tristi della donna del ritratto sembrano sorvegliare i tre intrusi.
«Anche adesso, non è più inquietante del solito... se si evita di pensare troppo al fatto che un uomo è morto qui dentro. Senza possibilità di difendersi, ucciso da un'entità che si aggira per queste mura. A proposito, che devo dire se vedo il fantasma? Tally-oh? [5] O forse è meglio qualcosa di più americano». Jane picchietta la punta dell'unghia sulla cupola una lampada: è di vetro verde e rosso e la sorregge la stutuina di una flessuosa donnina di bronzo. La ragazza solleva la lampada e ne guarda il fondo. «Oh, be', suppongo che anche un grido inarticolato risulterebbe efficace. Classico e d'impat—quella è chiusa a chiave».
Si è rivolta a Dean: lo vede, dall'altro capo della sala, mentre abbassa la maniglia di una porta scura, incassata tra due scaffali.
E la porta, come predetto, non si apre.
«Ce l'hai, la chiave?» ribatte l'uomo.
«No» risponde Jane. Parla con Dean, ma sta pensando ad altro. Riflette sulla stessa idea che l'ha tenuta impegnata, e silenziosa, a bordo dell'Impala. «Non l'ho mai vista aperta quella porta. Da sulle scale, per salire di sopra. Ma di sopra non c'è nulla. Non è parte del negozio».
«Un ottimo motivo per andare a controllare» commenta Sam. Ha tirato giù il ritratto di donna. Ne ha guardato il retro, ha guardato la porzione di muro che teneva nascosta. E non ha trovato nulla. Ora lascia il quadro a terra, appoggiato contro la parete, e raggiunge il fratello.
Jane si decide.
«Ehi!»
«Cosa?» chiede Sam.
Dean, passato il lettore EMF a Sam e pronto a tirare una spallata alla porta, si blocca.
La ragazza cammina verso di loro, attraversando svelta la sala.
«Primo: non buttate giù la porta, per favore. Possiamo usare il mio grimaldello. E secondo: stavo pensando a una cosa». Si ferma davanti ai due. «Se, per un attimo, ammettiamo che il fantasma non è legato all'edificio o a un oggetto che si trova qui dentro... questo è un punto a favore della mia teoria».
«Quale teoria?» domanda Dean, con più scetticismo che sorpresa.
«Quella che ho elaborato mentre eravamo in macchina. Continuavo a chiedermi: perché il fantasma ha ucciso solo Donny Allen? Perché, se è sempre stato qui, non ha mai fatto del male alla signora Sternwood? E perché proprio il ghiaccio?». La ragazza si picchietta l'indice sulla tempia. «E poi mi sono ricordata del marito della signora Sternwood. Be', avrei dovuto fare subito il collegamento, ma il mio cervello gira a rilento quando non dorm—».
Sam la interrompe.
«La signora Sternwood è sposata?»
«Con un uomo scomparso più di trenta anni fa».
«Morto?»
«Be', no... ufficialmente... non è morto. Quando dico "scomparso" intendo in senso letterale. Prima di trasferirsi a Mansfield, la signora Sternwood viveva con suo marito nel New Hampshire. Una sera l'uomo uscì di casa con la sua auto e da allora nessuno l'ha più visto. Non hanno mai ritrovato né lui né la macchina. Ed era inverno. La città era sotto una bufera di neve. Capite dove voglio arrivare? So che non possiamo escludere al cento per cento l'ipotesi che il signor Sternwood abbia passato gli ultimi decenni su un'isola dei Mari del Sud, insieme alle sue tre giovani spose indigene, ma io credo sia semplicemente morto. Forse è lui il fantasma. Forse ha seguito sua moglie e nel momento in cui lei si è trovata in pericolo, è intervenuto per proteggerla, uccidendo Allen nello stesso modo in cui lui è stato ucciso: dal freddo».
Jane alterna lo sguardo tra i due fratelli, impaziente.
«Avanti, dite qualcosa: siete voi gli esperti. Io sto solo... ipotizzando. È una cosa possibile o ho visto troppi episodi di Ghost Whisperer?» 
Jane vede Sam alzare lo sguardo al soffitto.
Dean è molto più diretto.
«Ma che cazzo, Jane! Non credi che tutto questo avresti dovuto dirlo subito?» sbotta.
Per tutta risposta, Jane mette su un broncetto.
«Mi hai detto che in macchina dovevo stare zitta».
E Dean, per tutta risposta, la guarda con l'aria di chi si sta palesemente trattenendo dal dare voce a un sentito insulto.
«Come si chiamava l'uomo?» riprende Sam, andando al sodo.
«Mmh, John... No... Jonathan. Jonathan Sternwood».
Con uno scoppiettio secco, tutti i lampadari si spengono.
Tra le mani di Sam, il lettore EMF emette un acuto crepitio ininterrotto e le spie rosse brillano.
Avvertimento superfluo: la temperatura nella sala si è abbassata ed è chiaro a tutti cosa sta succedendo.
Dean e Sam hanno estratto le pistole e Jane... non osa neppure respirare. 
All'inizio, nessuno si muove di un passo e tutti si guardano attorno. Il negozio è quasi completamente al buio. Gli scaffali e le pile di libri hanno l'aspetto di tozze sagome nere e i fiori della tappezzeria sono macchie scure, simili a grossi insetti deformi, immobili sulle pareti.
Uno scricchiolio flebile, a mala pena udibile tra lo scrosciare dalle pioggia, attira la attenzione verso il bancone.
È il carosello di legno.
Sta girando. Da solo.
I pallidi cavallini ruotano, lenti.
Sempre più lenti.
Sempre lenti, fino a tornare di nuovo immobili.
Esplode un colpo improvviso. Gli scaffali appoggiati alla parete vibrano. Jane, Sam e Dean si sono girati di scatto verso la porta chiusa: è arrivato da lì il colpo.
E ne arriva un secondo.
E un terzo.
Sembra che qualcuno, dall'altra parte, stia cercando di buttar giù la porta.
I cacciatori indietreggiano e tengono le pistole puntate verso il legno scuro.
Jane, due passi dietro a loro, avverte una fitta di dolore al centro del petto e si ricorda di star ancora trattenendo il fiato.
Il terzo colpo sembra essere l'ultimo, ma il lettore EMF non tace e nessuno smette di fissare la porta chiusa.
«Un fantasma della vecchia scuola» commenta Dean. Una nuvoletta di vapore si dissolve davanti alle sue labbra. «Gli piacciono i trucchetti classici».
Jane si sta sforzando di far entrare un po' di aria nei polmoni e le parole di Dean le arrivano attraverso il battito ovattato del proprio cuore. Se lo sente pulsare nelle orecchie.
Poi, e non saprà mai dire il motivo preciso, avverte l'impellente bisogno di guardare alle proprie spalle.
Senza dire nulla e con un solo passo ‪— uno dei più faticosi della sua esistenza ‪— fa un cauto mezzo giro su sé stessa.
Espira quella poca aria inghiottita un istante prima.
Tira fuori un filo di voce.
«Tally-oh».










______________________________________________________________

[1] La Smith & Wesson è una fabbrica statunitense di armi leggere fondata nel 1852 da Horace Smith e Daniel B. Wesson. (© Wikipedia)
[2] Nancy Drew è la protagonista femminile di una serie di romanzi gialli per ragazzi pubblicata negli Stati Uniti d'America a partire dagli anni trenta. Protagonista della serie è la giovane e affascinante Nancy, investigatrice dilettante dai capelli rossi e dal pronto intuito, coinvolta in una serie di vicende a sfondo giallo. (© Wikipedia)
[3] Storpiatura del titolo del film, ispirato a un musical omonimo, degli anni Ottanta: La piccola bottega degli orrori. È anche il gioco di parole che dà il titolo alla fan fiction.
[4] La traduzione migliore che sono riuscita a trovare per un'espressione molto british che poteva essere qualcosa come “a bloody horror movie”. Ho tradotto il tipico “Awesome!” di Dean con “Grandioso”. Lo so che non è la traduzione letterale, ma era l'unica che mi suonava bene. Non vedo Supernatural in lingua italiana da così tanto tempo che non ho idea di come l'abbiamo adattata nel doppiaggio.
[5] La frase Tally-ho è un'espressione britannica usata nella caccia alla volpe, urlata quando un cavaliere avvista la volpe. (© Wikipedia)


Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Parte quarta ***


part 1
Capitolo:  05/08.
N/A. tutte le volte, prima di pubblicare, vengo sempre presa da un attacco di insicurezza acuta del tipo "non è venuto come sperato" o "potevo farlo meglio". Non sono soddisfatta nemmeno a questo giro però, nel complesso, scrivere questa parte è stato divertente. Non mi resta che incrociare le dita e sperare che non sia malaccio neppure da leggere. Ormai siamo a uno dei punti cruciali trama e io, come sempre, ringranzio tantissimo chiunque passi di qui.

______________________________________________________________

x










Parte quarta










È una visione agghiacciante. Nella semioscurità, si è materializzata una figura femminile, vestita di bianco. Dalla stoffa dell'abito, di foggia antica, sembra levarsi una sorta di livido chiarore e, per un attimo, Jane crede che la donna sia spaventosamente alta. Poi capisce che è sospesa nell'aria, a più di metro dal pavimento: i piedi nudi spuntano oltre l'orlo sdrucito della lunga gonna. La scura e liscia matassa di capelli, che le nasconde parte del viso, lambisce una vita troppo stretta e sottile per essere naturale. Ed è l'intero corpo della donna ad essere in una posizione innaturale: con le braccia lungo i fianchi, il capo reclinato e le spalle curve, somiglia al cadavere di un impiccato appeso alla forca. Fin quando, come strattonata da una mano invisibile, il fantasma non raddrizza la testa. Ha gli occhi chiusi e la bocca spalancata, tanto che la mandibola, sostenuta da un rigido colletto, sembra sul punto di staccarsi.
Tutto accade in un batter d'occhio.
Jane sente qualcosa chiudersi attorno al suo polso. E non urla soltanto perché è così spaventata da non avere più fiato. Ma quel qualcosa è la mano di Sam: il cacciatore la sta trascinando al riparo, dietro di sé.
Nello stesso momento, il fantasma solleva un braccio. I suoi movimenti sono rigidi e rapidi, quasi fossero manovrati da fili invisibili. La mano pallidissima stende un dito, lungo e ossuto come un ramoscello secco.
E Sam, all'improvviso, cade a peso morto sul pavimento. E poiché il ragazzo è grosso, alto e pesante, e ha ancora la mano sul braccio di Jane, lei viene trascinata giù con lui e sbatte dolorosamente le ginocchia contro le assi di legno.
Dean fa fuoco all'istante sul fantasma. Esplodono tre colpi di pistola e la donna svanisce in un turbinio grigio, simile a nebbia, che si disperde subito nell'aria.
La libreria è ancora senza luce, ma Jane — pur rallentata dal dolore alle gambe e da un sano terrore — si rende subito conto che non fa più freddo.
«Sam!»
Dean si precipita accanto a suo fratello, riveso su un fianco, e lo adagia sulla schiena.
Jane lo vede tastare il collo di Sam. «È..?» sussurra, senza riuscire ad arrivare alla fine della domanda.
«Vivo!» abbaia Dean. «Sam! Sammy!».


* * *


Silenzioso. Freddo. E bianco.
Sam non sarebbe in grado di dire se sia in piedi o sdraiato. Non è neppure sicuro di avere gli occhi aperti.
Eppure sa di trovarsi in un luogo silenzioso, freddo e bianco. 
Neve, pensa.
Ma la neve c'è davvero? La sta vedendo? O la sta solo pensando?
A un tratto, si accorge di essersi sbagliato.
Non c'è silenzio. C'è una voce.
È la voce di Dean.


* * *


Sam apre gli occhi. Dopo un attimo di stordimento, riconosce il negozio di libri, riconosce il suono della pioggia in strada, comprende di essere steso sul duro pavimento di legno. Vede Dean, piegato su di lui, e scorge Jane, inginocchiata lì accanto.
«Sam! Ehi, Sam, sei con noi?»
La voce di suo fratello è così intrisa di ansia da suonare infuriata. Sam lo conosce bene quel tono. «S-sì... sto bene...». Scosta bruscamente la mano di Dean dal proprio viso. Strizza le palpebre e si mette seduto, tirando un ginocchio verso il petto. «Che... diavolo è successo? Dov'è il fantasma?»
Dean lo aiuta a rimettersi in piedi, facendolo aggrappare al suo braccio. «Ho sparato. È scomparso. Per ora. Ma che è successo a te?»
«Io... non lo so... ».
Sam passa entrambe le mani sul viso, per scacciare via l'ultimo rimasuglio di intorpidimento, e raccoglie la pistola dal pavimento.
«A-addormentarsi... è una delle... fasi dell'assideramento» mormora Jane, con un filo di voce. Sam vede l'esile sagoma della ragazza rimettersi in piedi, muovendosi con fin troppa lentezza e cautela. «Probabilmente, stava cercando di farti fare la fine di Allen. E... okay, a questo punto è chiaro che il fantasma non è Jonathan Sternwood».
«Oh. Grazie per averlo notato e condiviso con noi, Nancy» commenta Dean, sardonico.
Jane lo ignora. «Cosa... chi pensate che sia... quella... donna?» chiede.
A Sam la risposta appare così chiara da essere scontata. Deludente, quasi.
«Che ne dite di lei?».
Il suo sguardo scivola diritto verso il ritratto di donna.
Man a mano che scorrono i secondi, quella poca e livida luce che filtra ancora dall'esterno si fa sempre più flebile e Sam deve recuperare una torcia elettrica dalla sacca — rimasta sul pavimento, insieme al lettore EMF. 
Accesa la torcia, l'alone di luce lattiginosa guizza sul pavimento, mentre tutti e tre attraversano velocemente la sala. Sam si accovaccia davanti al quadro, piegandosi sulle ginocchia e appoggiando un avambraccio sopra la gamba. Osserva il ritratto con molta più attenzione di poco prima.
Alto, ad occhio e croce, un metro e mezzo e largo uno, è un dipinto estremamente realistico. Le pennellate sono fitte, uniformi, precise, indistinguibili l'una dall'altra. La donna nel ritratto è molto giovane. E probabilmente anche molto bella, per i suoi contemporanei. Ma per Sam la delicatezza dei lineamenti non compensa la tristezza dei grandi occhi cerulei e la piega severa della piccola bocca scarlatta. Il collo è chiuso in un alto colletto irrigidito da stecche e l'ovale del viso, sottile e candido come neve, è coronato da una vaporosa crocchia di capelli neri —  neri come il nastro che serra la vita e spezza il bianco assoluto del morbido abito dalle maniche a sbuffo. Con la mano destra adagiata sopra il manico di un ombrellino di stoffa scura, la donna è raffigurata all'interno di una stanza dall'arredamento elegante. Ed è seduta su di una sedia intagliata: si vede la linea dolcemente ricurva di un sottile bracciolo, che termina in una forma di foglia. Il pittore non ha lesinato su nessun dettaglio. Si è preso anche la briga di riprodurre un quadro nel quadro: appesa alla parete, sullo sfondo, c'è quella che — per quanto ne sa Sam — dovrebbe essere una stampa giapponese. Il resto dello sfondo, è occupato da una finestra aperta su di un cielo limpidissimo e su uno scorcio di paesaggio cittadino: si vedono palazzi rossi e tetti di case, comignoli fumanti, il profilo di una torre molto alta.
Sam è costretto a studiareil quadro con lo scambio di battute, offerto dai due alle sua spalle, come sottofondo.
Jane sta mormorando: «Non posso crederci. L'ho avuta sotto gli occhi tutti i giorni negli ultimi sette mesi... e non l'ho riconosciuta».
Dean gongola e si cimenta nelle imitazioni.
«"Se c'è qualcosa di diverso, anche un dettaglio, lo noterò subito"».
«Il tuo finto accento inglese fa venire i brividi» .
«Ora sai cosa provo ogni volta che apri bocca, Nancy».
«Hai davvero intenzione di continuare a chiamarmi "Nancy"?»
«Mh, sì».
«Ma Nancy Drew non è nemmeno inglese».
Sam li interrompe.
«Jane, cosa sai di questo quadro?».
Il cacciatore avverte il tocco leggero della mano della ragazza, sopra la propria spalla, mentre Jane si accovaccia accanto a lui. «So solo che è uno dei primi pezzi che la signora Sternwood ha acquistato». Jane fa scivolare i polpastrelli sulla tela. Ha la mano ferma. E lo è anche la voce, adesso. «È un olio. Non l'ho mai osservato da così vicino... Dov'è la firma del pittore?»
«Non c'è» afferma Sam. «È un autoritratto».
«Come lo sai?»
Per tutta risposta, Sam passa la torcia a Jane, afferra i bordi del quadro e lo gira. Quando Jane punta la luce sull'angolo destro del retro della tela, pur sbiadita dal tempo, si legge chiaramente la parola autoritratto tracciata in una calligrafia elegante.
«Okay. C'è scritto. Voltalo di nuovo, per favore».
Sam fa come le ha chiesto la ragazza e Jane lascia vagare la luce della torcia in lungo e in largo sulla tela, scivolando anche sulla liscia cornice di legno. «Qui!» Sta indicando l'ombrellino: tra una piega della stoffa, aguzzando bene la vista, Sam scorge tre lettere. Grigie, sottili, non più grandi dell'unghia di un pollice.
C. B. W.
«Ehi, Shaggy e Daphne» interviene Dean. «Dobbiamo dargli fuoco, non venderlo all'asta. Vado a prendere la tanica di benzina».
«Non vorrete brucialo qui dentro?» esclama Jane.
Sam alza lo sguardo verso il soffitto.
«No. Di sopra».
«Oh. Giusto».
E dal tono spicciolo e dalla velocità della risposta, Sam comprende che Jane ha capito.
Dean, però, non sembra avere le idee altrettanto chiare.
«Di sopra... cosa?»
Con un'inaspettata sincronia, Sam e Jane prima si guardano l'un l'altra, poi si voltano verso Dean.
«Le stanza dei piani superiori erano abitazioni» inizia Sam.
«Chi ci viveva avrà pur avuto bisogno di scaldarsi» continua Jane.
«Accendendo fuochi».
«Dentro ai cam—».
Ma, con un gesto della mano e un'espressione seccata, Dean interrompe la trasmissione in stereofonia.
«Ehi, ho afferrato!»


* * *


In un attimo, Sam recupera la sacca e il lettore EMF. E tutti si armano di torce elettriche. Poi, quando Dean rompe la serratura della porta con un calcio, Jane li delizia con un impreco, borbottato a bassa voce, contro la categoria dei cacciatori, il genere maschile e l'America tutta.
La porta dà accesso a un androne piuttosto stretto. A un'estremità una porta chiusa, una prima rampa di scale dall'altra. Jane spiega che l'androne doveva essere l'ingresso per gli inquilini, ma è chiaro che sono passati anni dall'ultima volta in cui qualcuno ci ha messo piede. L'odore di chiuso è quasi soffocante. Una sottile e uniforme patina di polvere ricopre pavimento, gradini e corrimano. Centimetro per centimetro. Tra le assi della balaustra, al passaggio del chiarore della torcia, Sam vede un tozzo ragno nero rintanarsi in un angolo della ragnatela.
Le scale vengono salite in fretta, quasi di corsa, e sul pianerottolo del primo piano, al quarto tentativo, Dean riesce a far cedere una vecchia porta sotto la spinta della sua spalla. La nuvola di polvere che si solleva fa pizzicare le narici di Sam. Hanno appena messo piede in una stanza completamente vuota. A giudicare dalle dimensioni e dalla finestra a bovindo, Sam intuisce che deve essere stata un modesto salottino. Le pareti sono in parte coperte di pannelli di legno e in parte dai remasugli di una vecchia tappezzeria. Ovunque la torcia illumini, compare l'ossessivo ripetersi dello stesso motivo sbiadito: un uccellino dalle penne marroni e il petto rosso, sopra a un ramoscello in fiore. Ma i tre comprendono, con sollievo, di essere arrivati alla fine della loro ricerca.
C'è un caminetto annerito, a ridosso del muro.


* * *


«Ci sta mettendo troppo».
Con la presa ben salda sulla pistola, non troppo tranquillo, Sam tiene d'occhio la porta sfondata. Il cacciatore è in piedi, al centro della sala vuota, e del cerchio di sale che è stato tracciato sul polveroso pavimento.
«Non è sceso neppure da un minuto».
Sam si volta verso Jane.
La ragazza se ne sta in ginocchio, davanti al caminetto. E al quadro. Con una mano regge la torcia, per illuminare la tela, con l'altra scatta fotografie con il telefono cellulare.
«Esattamente, tu che cosa stai facendo?» sospira Sam.
«Restituisco uno scopo a questa inutile scatolina» risponde Jane.
Sam aggrotta la fronte.
«Il tuo telefono ha qualcosa che non va?» butta lì.
«Fa tutto quello per cui è stato progettato, tranne farmi fare una telefonata. Ironico, eh? Sono tre giorni che, ogni volta che ci provo, non sento la voce di chi chiamo, anche se loro sentono me. Magari il fatto di farlo cadere di continuo centra qualcosa ma, detto fra noi, sono convinta che la tecnologia stia portando avanti una crociata contro me. E... ventidue foto dovrebbero bastare».
Jane si alza in piedi. Ha ancora lo sguardo incollato allo schermo del telefono, mentre con una mano scrolla via la polvere dalla stoffa dei jeans.
Sam è perplesso. La osserva e chiede: «Vuoi tenerti delle foto ricordo?»
Jane gli restitusce lo sguardo e sbuffa un sorriso pacato, mentre fa sparire il cellulare nella borsa.
«Tu e tuo fratello siete cacciatori. Per voi magari è sufficiente togliere di mezzo il fantasma, ma io voglio sapere chi è stata questa donna. Chi era da viva. Come è vissuta. Come è morta. E se scopro che cosa le è successo, magari capirò perché ha ucciso Allen e attaccato noi. Cercare e scoprire: anche questo è il lavoro dello storico».
Ora è Sam ad abbozzare un sorriso.
«Pensavo fossi una commessa».
«Che sarebbe diventata ufficialmente una storica, se si fosse degnata di completare i suoi esami. Ero anche brava, nei miei corsi. Ma, alla fine, sai com'è?». Jane traccia con le dita il contorno di una decorazione in rilievo, al centro esatto della mensola di marmo. IV. Iniziali, forse. Un numero romano, più probabilmente. «Ho realizzato di essere troppo sveglia per elemosinare l'approvazione di un branco di professori incartapecoriti».
Sam sorride ancora, ma non può far a meno di aggrottare le fronte. Gli sembra che Jane abbia un modo di fare così calmo e dolcemente risoluto che è difficile capire dove finisce l'ironia e dove inizia il discorso serio. E, a proposito di calma: «I fantasmi non ti spaventano granché, eh?» commenta Sam, dopo un attimo di silenzio.
Jane batte due volte le palpebre, in un accenno di onesta sorpresa.
«Felice di dare questa impressione. Quando è apparso il fantasma, ho perso sei o sette anni di vita, ma... okay, è consolante sapere di sembrare a mio agio».
Prima che Sam possa dire altro, Dean compare sulla soglia. Ha una piccola tanica arancione con sé e Jane lo accoglie con un leggiadro: «Com'era il Texas?»
«Perché ci hai messo tanto?» s'informa Sam.
«Avrei fatto prima se qualcuno non avesse chiuso la porta del retrobottega a chiave».
Dean rivolge un'occhiata a Jane, mentre svita in fretta il coperchio nero della tanica. Inizia a gettare la benzina sul quadro.
La ragazza cade dalle nuvole.
«Io non ho chiuso la porta a chiave!» esclama. «Seguo sempre la regola ventidue».
Sam e Dean la guardano, confusi.
Jane agita una mano, come a dire di sorvolare sull'ultima frase. «Ma non ho chiuso la porta» ribadisce.
«Be', qualcuno l'ha fatto» ripete Dean.
Tutti rivolgono lo sguardo al quadro e nessuno dice altro.
Dean infila una mano nella tasca della giacca e ne tira fuori una scatola di fiammiferi. C'è il secco sfregamento e il bagliore aranciato della fiammella.
Il cacciatore getta il fiammifero nel camino e il vecchio dipinto viene subito avvolto dalle fiamme. Il fuoco consuma la tela, divora i colori, deforma implacabile il viso della donna.


* * *


Nella sua difficile e penosa esistenza, sono poche le cose dalle quali Dean Winchester riesce a trarre un po' di sollievo, sia pure superficiale e momentaneo. Nello scarno elenco sono compresi i casi risolti in meno di un giorno e gli hamburger di manzo e bacon grondanti cheedar fuso. Oggi, Dean ha goduto di entrambi.
Appoggia il bicchiere, appena svuotato dell'ultimo sorso di birra scura, accanto al piatto vuoto. Si umetta le labbra e osserva attorno a sè, in cerca di una certa cameriera — una bionda straordinariamente somigliante a Scarlett Johansson — che per due volte ha incrociato il suo sguardo. La vede davanti al bancone, sta sistemando tre bottiglie su di un vassoio. Il Red Creek è un tranquillo locale al pian terreno di un edificio storico: ha un pavimento in cotto, piccoli e tondi tavoli di legno e locandine di vecchi film appesi alle pareti.
«...allora, sempre decisa a scoprire l'identità del nostro fantasma?» sta chiedendo Sam. Avambracci incrociati sul tavolo, si è rivolto a Jane, che è intenta a scorrere le foto sul proprio telefono.
«Voglio almeno sapere il suo nome. Sarà anche diventata uno spaventoso fantasma omicida ma... sapete, in un certo senso, mi ha salvata da Allen». 
«Senza una data o un posto da cui partire, sarà un lavoro difficile».
«Difficile non è impossibile» puntualizza la ragazza. Poi, con un'ostentata indifferenza e dopo una pausa ad effetto, continua: «Io credo che C. B. W. sia nata attorno al 1890. Che abbia vissuto nel Maryland. A Baltimora, per la precisione. E che abbia dipinto l'autoritratto nel 1911, quand'era ancora nubile».
A quelle parole, Dean aggrotta la fronte e smette di contemplare il fondoschiena della cameriera. Si gira verso i suoi commensali e fissa Jane. Nella luce calda del locale, i capelli arancioni della ragazza hanno chiari riflessi dorati. Gli occhi, leggermente a mandorla e di quel colore incerto tra l'ambra e il verde scuro, mostrano un velo d'entusiasmo di cui Dean non riesce a capacitarsi. Ma, poiché lo stomaco pieno ha migliorato il suo umore, l'uomo è giunto alla conclusione che Jane Leigh sia una a posto — anche se parla troppo e con un accento strano ed è incapace di riconoscere una bella auto. E, comunque, si ritrova un viso grazioso e delle gran belle gambe. Ragion per cui, Dean non nega a sé stesso che, se mai dovesse capitare l'occasione di apprezzare quel che Jane nasconde sotto al ridicolo maglioncino con la trina, lui sarebbe lieto di coglierla.
Per ora, si accontenta dell'appagamento che gli suscita punzecchiarla a parole.
«Ti stai inventando tutto di sana pianta?»
Jane lo guarda senza fare una piega — a parte quella sorridente della bocca — e appoggia la schiena alla spalliera della sedia.
«Il vestito. L'acconciatura. Il semplice bracciolo della sedia. Perfino la stampa giapponese sulla parete. Tutto dichiara "primi venti anni del ventesimo secolo" e "sono una donna ricca". E questo lo capirebbe chiunque. Sarà chiaro perfino a voi due, immagino».
Per qualche motivo, Dean intuisce di essere in diritto di sentirsi offeso.
Jane continua: «Una donna di quella classe sociale, se fosse stata una madre, una moglie o anche solo promessa in matrimonio a qualcuno, avrebbe inserito nel proprio autoritratto un dettaglio che lo rendesse chiaro. Ma non c'è nulla. Nemmeno un banale anello al dito. Considerando che nel primo decennio del Novecento, l'età media per un matrimonio per le donne era di ventuno anni, e considerando che la donna nel ritratto è giovane, molto giovane, questo porta la sua data di nascita dritta al 1890. Anno più, anno meno».
«Okay» la interrompe Dean. «Ma da dove hai tirato fuori il 1911? E perché proprio Baltimora?»
Jane fa scivolare l'indice sullo schermo del cellulare e allunga il telefono verso Dean.
«Quella è una foto del dettaglio del paesaggio, fuori dalla finestra della stanza. Che cosa vedi?»
Preso il telefono, Dean si ritrova a fissare un paesaggio in cui, da principio, non nota nulla di particolare. È solo uno scorcio di città. Una città come tante, dell'inizio del secolo scorso. Poi focalizza l'attenzione sulla presenza della torre. E la cosa strana è che si tratta di una torre medioevale, con tanto di merlature e feritoie. È l'edificio più alto di tutti,  mostra il quadrante di un orologio e sorregge un qualcosa, dalla forma vagamente cilindrica, sormontato da una corona.
«C'è... una torre medioevale?».
«Quattordicesimo secolo» specifica Jane.
«Jane, l'arte non è il mio campo» interviene Sam, ironico. «Ma sono sicuro che a Baltimora non ci sia proprio niente di medioevale».
«Esatto. Ecco perché quella torre è così riconoscibile: è la Emerson Tower. Isaac Emerson era a capo di una compagnia farmaceutica del Maryland diventata famosa, alla fine dell'Ottocento, per aver messo in commercio un antiacido». Jane fa una smorfia, arricciando il naso. «Immagino che ci fosse un mucchio di gente in balia dei bruciori di stomaco all'epoca... comunque, nel 1911, Emerson decide di regalare un monumento alla città. Fa copiare il modello della torre dell'orologio di un palazzo rinascimentale in Italia: il Palazzo Vecchio, a Firenze. E ci mette in cima una gigantesca riproduzione di una bottiglia del suo famoso antiacido. Credo che l'abbiano rimossa negli anni Trenta, per... non ricordo quale motivo». Jane fa di nuovo quella sua smorfietta di sufficienza. «Piegare l'arte al servizio del commercio: molto americano e straordinariamente di cattivo gusto. Ma, in questo caso, anche molto utile, perché rende la sagoma della torre inconfondibile».
«Questo significa solo che il ritratto potrebbe essere stato fatto in qualsiasi anno, a partire dal 1911» obbietta Sam.
Jane sembra trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo.
«Il vestito» sospira, alternando lo sguardo tra i due fratelli. «C'è un'enorme differenza tra gli abiti dei primi anni dieci anni del Novecento e dei cinque seguenti. Il 1911 è il solo anno in cui una donna, sopratutto una ricca, avrebbe ancora potuto indossare quel tipo di vestito. Fidatevi di me: conosco la moda».
Dean compie l'immane sforzo di non far commenti sulla trina del maglione. Guarda Sam e lo vede sorridere a Jane: è un misto di piacevole sorpresa e di apprezzamento.  Il sorriso di un nerd che incontra un suo pari, conclude Dean, tra sé e sé.
«Dove le prendi tutte queste nozioni?» domanda Sam.
«Leggo tanto. Tendo a memorizzare molto» risponde Jane che, come se niente fosse, recupera la bottiglia di Coca-cola dal tavolo e si porta la cannuccia alla bocca.
Dean, appoggiato il cellulare sul piano, lo spinge verso la ragazza.
«Sei inquietante» ci tiene a far presente, sebbene non sia affatto lo stesso aggettivo che gli ronza in testa.


* * *


Jane è in cucina. Con una tazza verde tra le mani e un piacevole senso di sollievo che si espande dal petto, guarda fuori dalla finestra, oltre la curva metallica del rubinetto.
È sera, i lampioni in strada sono accesi e la pioggia, adesso leggera e silenziosa, lascia sul vetro segni sottili come aghi di pino.
Dean e Sam hanno avuto la premura di accompagnare Jane fino al vialetto del 2601 di Wakefield Terrace. Una volta rientrata in casa, la ragazza si è preparata un tè, ha caricato le foto del ritratto sul portatile e fatto una telefonata alla signora Sternwood. Si è informata sulla salute della signora e poi, con tutta la nonchalance che è riuscita a tirar fuori, ha chiesto: «Signora Sternwood, il quadro che tiene il negozio... sa, il ritratto femminile... mi stavo chiedendo se ricorda dove l'ha comprato?»
«Oh, buon Dio, che domanda. È passato così tanto tempo». La voce della signora Sternwood le è sembrata più sottile del solito, ma non meno gentile. «Vediamo... se non sbaglio, lo comprai a un mercatino... davanti a una casa. Sai, di quelli che si organizzano in giardino. Appena lo vidi, pensai subito che quel ritratto fosse un'opera deliziosa».
Jane ha tenuto accostato il cordless all'orecchio con la spalla, riempiendo il bollitore dell'acqua per il tè. Sforzandosi di non pensare ai danni in negozio —  il quadro sparito, due serrature rotte, tre fori di proiettile nel muro — ha continuato: «Ricorda l'indirizzo?»
«Jane, cara, ora pretendi l'impossibile» ha ridacchiato l'anziana. «Ma perché me lo chiedi?»
E Jane, stanca e colta alla sprovvista, si è tolta d'impiccio con un banale: «Curiosità».
Abbandonando la tazza vuota nel lavello, la ragazza guarda l'orologio alla parete. Sono le dieci e quindici minuti. A questo punto, Jane desidera solo due cose: una doccia calda e otto ore di sonno, possibilmente scevro da incubi e donne spettrali. Transita in soggiorno e recupera il telefono cellullare dalla mensola del caminetto. Nel farlo, si sofferma ad osservare il proprio riflesso, nello specchio che copre la cappa: le sembra di essere più pallida del solito, gli occhi sono un po' gonfi, le labbra un po' screpolate. Si chiede se abbia avuto quell'aspetto per tutto il giorno.
Al tavolo del Red Creek, c'è stato il tempo di raccontare di essere nata in una cittadina di mare, Mablethorpe, sulla costa orientale dell'Inghilterra. Di avere una sorella minore che vive ancora lì con i suoi genitori. Di essere stata altre volte negli States, prima del trasferimento in Pennsylvania, perché ha dei parenti nel Maine. Per qualche motivo, Sam e Dean non hanno fatto domande sul suo precedente incontro con un cacciatore — il che, per Jane, è stato un sollievo. I due, dal canto loro, si sono mostrati vaghi e riservati. Adesso Jane sa che il loro cognome è Winchester. Che cacciano da anni. E che sono capitati da quelle parti perché in cerca di una persona. Sull'identità della persona o sul motivo della ricerca non hanno detto nulla. Jane ha restituito il favore e si è trattenuta dal fare domande. Ora si sta rigirando il telefono tra le mani: i Winchester le hanno lasciato dei numeri di telefono e l'hanno avvertita che resteranno al Tioga per uno o due giorni.
Senza alcun preavviso, un rumore violento — è il rumore di  qualcosa che va in frantumi — costringe Jane a voltarsi di scatto.
«Oh, ma che...»
La fruttiera, sul tavolino da caffé, è andata in pezzi. Le mele stanno rotolando lungo il tavolo e una, rossa, cade oltre il bordo e rimbalza sopra... a un libro aperto, gettato sul pavimento.
Con un crescendo di confusione, Jane gira lentamente il capo verso la libreria.
C'è uno spazio vuoto sugli scaffali.
Prima che lo sguardo della ragazza possa saettare di nuovo verso il libro sul pavimento, il mobile inizia a tremare, come nel mezzo di un terremoto. 
I libri crollano sul pavimento, uno dopo l'altro.
Il lampadario si spegne.
Jane resta al buio. In una stanza improvvisamente fredda.
Ed è così inorridita da non riuscire a muovere un solo muscolo.
Quel che sta accadendo è privo di senso. Non può succedere. Non in casa sua.
Nella mente della ragazza, la linea tra panico e lucidità è sottile come un capello.
Ma Jane si ci aggrappa, disperatamente.
È da sola adesso. Non può permettersi di essere codarda.
Pensa al coltello nella borsa, in camera da letto.
Troppo lontano.
Sale, allora.
Jane corre verso la porta della cucina. Urta gli attrezzi per il caminetto. Li sente rovesciarsi sul pavimento ed è ormai a un passo dalla soglia della cucina. Ma è costretta a fare un scatto all'indietro: la porta si chiude, da sola, con uno schianto che fa tremare stipiti e architrave.
Jane si getta sul pomello: è freddo come un pezzo di ghiaccio. Tenta di girarlo. Lo scuote. Niente da fare. La serratura è bloccata, la porta è chiusa.
E ora la ragazza riesce a pensare solo a una cosa: a costo di sfondare una finestra, deve uscire di casa. Si gira e attraversa di nuovo la stanza, di corsa. Ma l'attizzatoio di ferro finisce sotto il suo piede e lei perde l'equilibrio. Incespica, si piega sul ginocchio destro e, per non strillare, è costretta a piantarsi i denti nel labbro inferiore. Al dolore al ginocchio, già ammaccato, si unisce quello al palmo sinistro: per frenare la caduta, la ragazza ha steso le braccia in avanti e la mano è finita sopra a uno dei cocci della fruttiera. Jane avverte subito la vischiosa umidità del sangue tra le dita, ma non perde tempo.
Scatta in piedi.
E adesso un urlo, rauco e strozzato, non riesce a trattenerlo.
Il fantasma è lì.
Davanti a lei. Con le palpebre pallide calate sugli occhi, con lo stesso spaventoso aspetto, la stessa bocca orribilmente spalancata, la spettrale figura scivola in avanti e solleva il braccio. E Jane, spinta da un misto di terrore e di adrenalina, reagisce. L'attizzatoio è a pochi centimetri dal suo piede. La ragazza si abbassa per afferrare il ferro con entrambe le mani, torna in piedi e contemporaneamente colpisce il fantasma.
È come colpire l'aria.
Il fantasma si ferma.
Ma non scompare.
Jane arretra di qualche passo, spalancando gli occhi.
«Oh, n-no...» rantola. «Che cosa...?»
Ed è solo adesso che la donna si dissolve nel turbine nebbioso.
Poi si sente uno scricchilio.
Jane ci mette un attimo di troppo per capire.
Non fa in tempo a spostarsi.
Come sotto il colpo di un martello, lo specchio sopra al camino esplode e le schegge schizzano in avanti, con la velocità dei proiettili.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Parte quinta ***


part 1
Capitolo:  05/08.
Avvertimenti: spoiler ottava stagione. Accennati, ma ci sono.
N/A: capitolo di svolta, che considero anche il mio preferito. Non vi tedio oltre con le chiacchiere e vi lascio alla lettura, ringrazio chiunque aprirà la pagina.

______________________________________________________________

x










Parte quinta










I resti dello specchio, sul pavimento del soggiorno, riflettono il chiarore delle torce elettriche in minuscoli luccichii bianchi. Sam punta la propria torcia vicino al tavolino da caffé, nel punto esatto in cui si trovava Jane, quando lo specchio è andato in frantumi: uno spazio circolare, preciso come se fosse stato tracciato con un compasso, largo poco meno di un metro e perfettamente pulito. Nel buio, il cacciatore rivolge lo sguardo alla sagoma della ragazza: è seduta sul divano. Dopo aver raccontato l'accaduto, è scivolata in un pensoso silenzio post-spavento. A parte il taglio alla mano destra, avvolta in un fazzoletto bianco, non ha nemmeno un graffio. Per qualche ragione che non ha nulla di naturale, la pioggia di vetri l'ha risparmiata.
«Immune al ferro» sta dicendo Dean, con un misto di confusione e frustrazione che riassume lo stato d'animo comune. Getta l'attizzatoio tra gli altri ferri del caminetto. I frammenti scricchiolano sotto i suoi passi. «Può uscire dalla libreria, bruciare il dipinto non è servito e... cosa dovrebbe significare questo?».
Ha rivolto la luce della torcia verso la cappa del camino. Sam lo imita. Jane solleva il viso.
Lettere deformi, simili a chiazze di umidità, hanno macchiato la parete, là dove era coperta dallo specchio. Formano una frase. Breve, di senso compiuto e con il sapore di minaccia.
"La curiosità uccise il gatto".

* * *


Quasi un'ora più tardi, nella camera del Tioga, Sam strizza gli occhi davanti alla cruda luce del portatile. Dean, all'altro capo del tavolino, ha appena smesso di sfogliare il diario di John per spiare fuori dalla finestra. Mentre scosta un lembo della tendina, di un polveroso color cachi. «Jane deve essere ancora sveglia. La luce nella sua stanza è accesa» afferma.
Sam non ribatte, assorto dall'elenco di nomi sul display. Si limita a un secco mugugno a bocca chiusa: che Jane non riesca a prendere sonno, dopo quel che è successo, gli appare comprensibile. Quando lui e Dean le hanno detto che sarebbe stato più prudente passare la notte al motel, lei non si è fatta pregare: infilato l'indispensabile in uno zaino, ha preso una camera per sé, nell'altra ala dell'edificio. Ha lasciato che tracciassero un cerchio di sale attorno al letto e ha accettato di tenere una pistola carica — dopo essersi fatta mostrare come mettere e togliere la sicura.
«Che ne pensi?» chiede Dean. La tendina ricade mollemente al proprio posto.
«Che il particolare del freddo ci ha portato sulla strada sbagliata, fin dall'inizio. Sembra un fantasma, ma deve essere qualcos—»
«Intendo di Jane. Cosa pensi di lei».
«Sembra intelligente».
Solo al rumore del diario che viene chiuso, solleva lo sguardo sul fratello.
Dean fa scattare le sopracciglia verso l'alto, insieme a un angolo delle labbra. «Ehi, Sammy. Tu continua a cercare, io vado a controllare Jane».
Sam è perfettamente conscio del significato di quell'espressione, quando si parla di donne. Aggrotta la fronte, indeciso se sorridere e restare perplesso. Opta per una via di mezzo.
«Ma fai sul serio, Dean?»
«Non scherzo mai su certe cose, lo sai».
«L'hai chiamata 'inquietante'» gli ricorda Sam.
«E stavo pensando 'sexy'».
«Che cos'hai, otto anni?»
«Sta zitto».    
Dopo aver visto Dean trafugare due birre dal frigo e uscire gongolante, Sam si passa una mano sugli occhi e torna a concentrarsi sul lavoro.
Ma non è facile.
Il vuoto silenzioso della camera e quella porta chiusa che lo divide, e allontana, da suo fratello aprono la strada ai ricordi.
Il sorriso di una donna dagli occhi nocciola. Un altro motel. Un'altra città. Un'altra vita.


* * *


Jane ha fatto una doccia calda e si è rivestita in fretta. Ora, da come le batte ancora il cuore, è arrivata a sospettare d'essere nel pieno di un leggero attacco di tachicardia. Aspetta che passi, mentre se ne sta supina sul letto e fissa accigliata l'intonaco ingrigito del soffitto, tenendo le mani sul ventre. La mancina è fasciata con una garza pulita. La ragazza ha medicato il taglio da sola, pescando dalla cassetta per il pronto soccorso che aveva in casa — e che adesso è sul tavolino della camera.
La stanza è identica a quella dei Winchester. Stessi colori, stessa tappezzeria, stessa disposizione dei mobili.
Bussano alla porta.
«Chi è?»
«Sono io: Dean».
Jane si sforza di mettersi seduta, facendo perno sui gomiti. Incrocia le lunghe gambe, poggiando entrambe le mani all'altezza delle caviglie, sopra alla pelle nera degli stivali. Una semplice maglia color prugna, tagliata da uno pudico scollo a barchetta, ha preso il posto del maglione con la trina. 
«Entra. È aperto».
E Dean entra: ha due birre tra le mani e indossa la sua giacca verde militare, slacciata sopra alla camicia blu.
«Niente chiave?» esordisce il cacciatore, richiudendo la porta.
Jane fa spallucce. «Le serrature non tengono fuori gli spiriti dei morti. E in questo motel nemmeno i corpi dei vivi. Come ho ampiamente dimostrato. Novità?»
«Nessuna. Sono solo venuto a vedere come... te la passi».
Dean si fa avanti, scavalca la striscia di sale sulla moquette e le allunga una bottiglia. Jane dapprima esita. Poi tende la mano sana e afferra la birra, sebbene non abbia intenzione di toccarne nemmeno una goccia. Qualsiasi cosa provasse a mandar giù, liquida o solida, le darebbe la nausea. Ne è sicura. A testa bassa, leggicchia l'etichetta. «Grazie» mormora, ma parla troppo lentamente per suonare sincera.
«Ehi, non dirmi che non bevi birra» esclama Dean, piano. «Sei inglese! L'avete inventata voi, la birra».
«No. Gli Antichi Egizi hanno inventato la birra. O le popolazioni della Mes—».
Dean stronca la lezione di storia sul nascere: «Come stai?» chiede. Siede sul bordo del letto e Jane avverte il peso del suo corpo, attraverso il lieve abbassarsi del materasso.
«Come una che è sul punto di passare la seconda notte di fila senza chiudere occhio» illustra la ragazza, con la calma della rassegnazione.
Dean schiude le labbra e abbozza un sorrisetto furtivo, come davanti a una piacevole scoperta.
«Be', visto che nessuno qui ha intenzione di dormire, potremmo trovare un modo per occupare il tempo».
Nella sua voce roca, ironica malizia e finta distrazione sono mescolate con maestria. Jane sorprende gli occhi verdi dell'uomo ad abbassarsi, per un attimo, sulla sua bocca. È chiaro cosa Dean stia ponderando e lei non si sente né lusingata, né offesa, né tentata di accettare l'offerta. Pur essendo perfettamente in grado di vedere che Dean Winchester sia un uomo attraente e appetibile — con quelle labbra tumide, quei lineamenti maschili e regolari, quelle spalle larghe e tutto il corollario di modi da duro — gli risponde in un tono tanto affabile quanto smaliziato: «Una partita a Cluedo [1]?».
Dean continua a sorridere, leggero, ma una piccola ruga compare tra le sopracciglia.
«Clu—che?»
«Un gioco da tavola. Niente doppisensi, per favore. Questa non me l'aspettavo. Mi era sembrato di capire di non piacerti, hai detto che perfino il mio accento ti fa venire i brividi».
«Non ho detto che genere di brividi».
«E mi hai chiamata inquientate».
«Ma sentito dire "chi disprezza compra"?»
«Sì, be', non prenderla sul personale. Io non disprezzo... la tua... merce. Che, anzi, trovo... rimarchevole. Ma non sono interessata».
Dean le dà l'impressione di smarrire la sicurezza, tutta in un colpo. Per un attimo, Jane lo vede boccheggiare a vuoto.
«Ah... tu... Oh. Okay». L'uomo si schiarisce la gola, tira indietro il capo, nel palese e goffo tentativo di racimolare un po' di confidenza. «Non avevo capito che tu... »
«Dean, non sono lesbica» gli viene in soccorso Jane, con un sospiro placido. «Ma se credi che quello sia l'unico motivo per il quale una donna potrebbe rifiutare le tu—»
«Che? No! Io non ho mai... è il modo in cui tu lo hai detto!»
Jane dirotta gentilmente il discorso.
«Dove hai lasciato Sam?»
«A fare ricerche» risponde lui, spicciolo.
Dal punto di vista di Jane, la sveltezza con la quale Dean ha incassato il rifiuto testimonia tutta la squisita superficialità dell'interesse di lui.
«Non lo aiuti?»
«È lui quello intelligente».
«Già, lo avevo notato» cinguetta Jane. «E mi chiedevo: se Sam è quello intelligente, e palesemente anche quello bello, tu che ruolo hai?»
L'occhiata ironicamente basita che le rivolge Dean strappa a Jane una risata, soffocata come meglio può in un rauco sbuffo a labbra chiuse. Poi entrambi si azzittiscono. Jane fissa la bottiglia di birra tra le proprie mani e, mentre osserva i colori accesi dell'etichetta e l'ovale di luce riflesso sul vetro scuro, sarebbe pronta a giurare che il suo battito cardiaco sia tornato normale. Dean stappa la propria birra e Jane, senza alzare il viso, lo spia mentre beve. Ora lo vede di profilo e, per qualche assurdo motivo, crede di scorgere qualcosa di sofferente nel modo in cui l'uomo si porta la bottiglia alla bocca. Sente la sua stessa voce mormorare: «Sei molto stanco».
«Sono abituato a dormire poco» butta lì Dean, insieme al secondo sorso di birra.
Jane aggrotta la fronte. «No, io intendevo—». Ma si accorge di non saper continuare. Chiude la bocca, pizzica la ruvida stoffa del copriletto, si decide a cambiare posizione. Appoggiata la birra sul comodino, stende le gambe e mette i piedi a terra. Adesso che è seduta di fianco a Dean, e pochissimi centrimetri li separano, il cacciatore neanche si prende la briga di voltarsi una sola volta. Ma neppure lei guarda lui. Entrambi fissano la moquette. Dean con la schiena curva in avanti e le braccia sulle gambe larghe; Jane con le spalle rilassate e le mani tra le ginocchia unite.
«Sono felice che tu e Sam siate venuti a Mansfield» ammette la ragazza. 
«Sì, be', fin ora non abbiamo fatto granché per tenerti al sicuro».
«Non sono venuta a cercarvi per avere protezione».
«Lo so. Lo hai detto. Volevi aiuto».
«Reciproco».
«Mmh».
C'è una piccola pausa ed è di nuovo Jane a riprendere il discorso. Quando lo fa, però, si rende conto d'aver perso la sua parlantina sciolta. «Non potevo... affrontare questa situazione... da sola. Be', teoricamente, avrei potuto. Ma non volevo. [2] Sarebbe stato un incubo. E lo è comunque: ho scoperto che il negozio dove lavoro è infestato da qualcosa... che non è nemmeno un dannato fantasma... e che mi ha seguita a casa... ma... sai: "nessun incubo è così terribile, quando lo si affronta in compagnia"».
Dean non dice nulla. Per quelli che devono essere almeno tre o quattro secondi, rimane assorto nei propri pensieri. Alla fine, chiede: «E che roba era? Shakespeare?»
«No. Solo mia madre» spiega Jane. «È quello che mi diceva quando rimboccava le coperte. A me. E al mio esercito di pupazzi di stoffa. Sono stata una bambina straordinariamente paurosa».
Dean espira rumorosamente dal naso e Jane non sa come interpretare il verso. È comprensione o compatimento? Non le importa. Non le interessa nemmeno sapere se Dean conserverà un ricordo di questa corversazione o se, una volta lasciata la città, sarà come se non fosse mai avvenuta. Ancora meno si preoccupa dell'idea che quell'uomo possa considerarla patetica. O non considerarla affatto. Improvvisamente, desidera solo poter continuare a parlare, perchè:  «Da quando ho scoperto che cosa c'è là fuori... voglio dire: da quando so che il mondo non è il posto razionale e sicuro che credevo... questa è la prima volta che ne parlo a voce alta. Con una persona. Liberamente. Negli ultimi sei anni, ho finto con tutti che non fosse cambiato nulla. Non ne ho mai parlato con la mia famiglia. O con i miei amici. Non che siano molti, quelli. Non volevo passare per pazza. O, peggio ancora, fargli provare il mio stesso terrore. E sono diventata brava a fare finta che vada tutto bene. Però, stavo iniziando a sentirmi...»
«Stanca» la anticipa Dean.
«Già».
Dean beve la birra. E poi domanda: «Sei anni fa. Il cacciatore. Il fantasma. Che cosa è successo?»
Jane non riesce a evitarlo: un senso di angoscia le preme sul petto, la spinge a serrare forte le labbra e la lascia per un attimo a corto di parole. «Storia complicata» afferma, prima di cambiare argomento: «Tu e tuo fratello come avete iniziato con la caccia?»
Dean fa oscillare la birra, agitando la bottiglia con una distratta lentezza.
«È un affare di famiglia. Non c'è mai stato altro. Non per molto, almeno».
Nei frangenti di placido silenzio che seguono, lo sguardo di Jane va al comodino. Pistola e coltello sono vicini all'abat-jour da quattro soldi, coperta da un paralume pieghettato che ha lo stesso colore del pane raffermo. «Comunque sia, invidio il vostro coraggio» confessa la ragazza. «Quando ho capito di essere di nuovo in un altro dannato casino sovrannaturale, la prima cosa che ho pensato è stata di lasciare la città. Darsela a gambe: tipico dei cordardi».
«E dei furbi che restano vivi» ribatte Dean. «Perché hai cambiato idea?»
«Sensi di colpa». Jane appoggia le mani sul bordo del letto, sfiorando inavvertitamente la stoffa dei jeans di Dean. «Non potevo lasciare la signora Sternwood in quel posto. È anziana, non ha nessuno ed è sempre stata così gentile con me. Poi, quando tu sei spuntato sul mio pianerottolo, ho visto la possibilità di fare qualcosa che non fosse da codardi, ma nemmeno da stupidi. Mi sono detta che potevo affrontare la situazione con l'aiuto di...». Socchiude le palpebre. «Mmh, non mi è piaciuta la parola cacciatore. Preferisco 'esperti del settore'».
Jane si volta verso Dean: gli guarda il profilo, solleva un po' il mento e riesce a sorridergli. Con sincerità e con un briciolo di titubanza. Dean ricambia lo guardo, restandosene chino in avanti. Lei lo vede battere piano le palpebre e sollevare un angolo della labbra in una piega morbida. Sembra insieme una smorfia pensierosa e un accenno di sorriso comprensivo. In questo momento, non è né l'uomo stanco né il ragazzo marpione. E Jane si ricorderà di questo momento come di quella volta in cui ha pensato — inaspettamente, confusamente e solo per il tempo di un misero battito di ciglia — che se Dean Winchester avesse tentato di baciarla, lei non lo avrebbe respinto.
Il doppio trillo di un cellulare risuona nella camera. Dean estrae il telefono dalla tasca della giacca, legge il messaggio.
«È Sam. Ha trovato qualcosa».


* * *


Sullo schermo del portatile, una delle foto del ritratto è affiancata dall'immagine di un dipinto giapponese. Inchiostro nero e pochi tratti, precisi e calibrati, hanno impresso sulla carta bianca la figura di una donna, inginocchiata sotto un albero, in un paesaggio innevato. La donna è avvolta in un kimono bianco, che le nasconde le mani e le braccia, rannicchiate vicino al petto. I capelli sono lunghissimi e sciolti.
«Che cos'è?» domanda Dean, appoggiando le mani sul tavolo.
«Una donna delle nevi» risponde Sam. È seduto davanti al pc e Jane è in piedi, dietro di lui, con le dita aggrappate alla spalliera. «O, come viene chiamata in Giappone, una Yuki-onna. Quando siamo stati attaccati, nella libreria, non ho solo perso i sensi. Ho sognato. E ricordo, nel sogno, l'impressione di trovarmi in mezzo alla neve. Così, ho provato a rivedere l'intera faccenda mettendo al centro quel particolare: le neve. E la stampa giapponese riprodotta nel ritratto mi ha fatto... accendere la lampadina. Una Yuki-onna è essenzialmente uno spirito, ma può simulare una natura umana. E indovinate un po' come è che uccide le sue vittime? Congelamento. Ma c'è di più: quando una Yuki-onna si manifesta, si porta dietro l'aria fredda delle tempeste di neve. Quando scompare, lo fa trasformandosi in nebbia. E il fatto che sia una creatura legata alla neve e al ghiaccio, potrebbe spiegare, almeno in linea teorica, perché il sale dei proiettili l'abbia allontanata. Vedete? Tutti dettagli che ci hanno fatto credere si trattasse di un fantasma».
Dean sposta lo sguardo dal viso di suo fratello allo schermo del pc. E viceversa. Mugugna un verso di asciutta approvazione. «Okay. Come ce ne sbarazziamo?»
«Ci sto ancora lavorando» ammette Sam. «Secondo la tradizione giapponese, l'unico modo per uccidere una Yuki-onna è rivelarne la vera natura quando è in forma umana. Ma ho scoperto che esistono leggende di così dette 'Regine delle nevi' o 'Streghe della neve' anche in Nord Europa. Nomi diversi. Diversi punti del globo. Caretteristiche quasi identiche. Stessa creatura, presumibilmente. Ed è uscito fuori questo».
Sam tocca il touchpad del portatile e sullo schermo si aprono due nuove finestre: la scannerizzazione della pagina di un manoscritto simil-medioevale e un documento di testo.
Dean aggrotta la fronte, nel tentativo di leggere le prime righe del documento: è sicuro che sia scritto in inglese, ma ogni due e tre parole di facile comprensione, ne seguono una decina alle quali non saprebbe dare né un suono né un significato.
«Cronache del Lancashire» spiega suo fratello. «Un'opera minore e semi-sconociuta del quindicesimo secolo. Il nome dell'autore si è perso nel tempo. Ma in questa parte» continua Sam, indicando la pagina del manoscritto, «riporta la cronaca di un villaggio colpito dalla maledizione di una Signora delle Neve. Qualcosa su un inverno particolarmente rirgido e lungo. La maledizione viene spezzata quando un cavaliere riesce ad uccidere la creatura. Il problema è che il museo che custodisce il manoscritto originale ha messo online la scannerizzazione delle pagine insieme a una trascrizione». Sam indica il documento. «E a un riassunto sommario della vicenda, dove non è specificato come il cavaliere l'abbia uccisa. Buona parte della trascrizione è incomprensibile. È inglese medioevale».
«Medio».
È stata Jane a parlare. Sam e Dean si voltano verso di lei — che si stringe nelle spalle, quasi a mo' di scusa, mentre chiarisce: «L'inglese del quindicesimo secolo si chiama Medio Inglese».
Dean si astiene dal sottilineare ad alta voce l'inutilità della precisazione. È certo che sia sufficiente la propria espressione. Poi stacca le mani dal tavolo, sollevando il busto. «Va bene, allora. Troviamo una traduzione. O qualcuno che sappia tradurla. Potremmo provare con Morrison [3]». Ma quando sente Jane schiarisi la gola e la vede sollevare la mano fasciata, non riesce a trattenersi: «Ci prendi in giro? Tu parli l'inglese del Medioevo?».
Jane abbassa lentamente il braccio. «No» ribatte, pacata, come se stesse spiegando un concetto molto semplice ad un bambino molto ottuso. «Nessuno lo parla. È una lingua estinta. Ma è facile da comprendere, una volta assimilate le basi. I Racconti di Canterbury sono scritti in Medio Inglese. Li ho studiati nella versione originale, durante il corso di Storia della Lingua Inglese. Che, se vi interessa saperlo, ho modestamente superato con il massimo del punt— ».
«Puoi tradurre il testo sì o no?» taglia corto Dean.
«Ci posso provare».

* * *


Venti minuti dopo, Dean, seduto ai piedi del proprio letto, si tiene occupato pulendo il fucile a canne mozze, con movimenti rapidi e precisi. Fa scattare la canna al proprio posto, con un secco rumore metallico, e controlla l'arma. Poi adocchia il tavolo: Jane e Sam si sono insediati lì attorno. Lui, appropriatosi del portatile di Dean, cerca nei meandri di Internet qualsiasi informazioni con una parvenza di utilità; lei, con una biro in mano, alterna lo sguardo tra lo trascrizione sul display dell'altro computer e il foglio che sta riempiendo di parole.
Dean osserva il volto di suo fratello, e la sua espressione attenta, e si ritrova a constatare come — all'apparenza — le loro vite siano rimaste immutate. Sente risalire in superficie la stessa rabbia provata settimane prima, nel rifugio di Whitefish. «Ci siamo sempre detti di non cercarci» aveva esclamato, davanti a suo fratello. «E abbiamo sempre ignorato quella regola. Ma non questa volta, vero, Sammy?» [4]
Dean abbassa gli occhi sulla nera lucidità del fucile. Serra la mandibola, sopprimendo il riflusso di collera in un guizzo sottopelle. Si rifiuta di soffermarsi di nuovo sui ricordi della propria odissea in quel limbo. Su chi è riuscito a tirare fuori. Su chi ha lasciato indietro.
Deve fare il suo lavoro. Ora.
Guarda nuovamente verso il tavolo. Guarda Jane: con i capelli spostati dietro le orecchie, se ne sta china sul foglio come una studentessa che si affanna a prendere appunti. Dean non riesce a immaginare essere umano più diverso da sé stesso di quella bizzarra donna con i capelli color carota. Eppure, nell'altra stanza, mentre parlavano — per essere precisi: mentre lui ascoltava lei ciarlare — per un attimo ha pensato l'esatto contrario. Adesso si scopre a desiderare, e nemmeno in modo troppo latente, che Jane Leigh resti così com'è. Umana e intatta, a dispetto di qualsiasi cosa abbia dovuto affrontare sei anni prima. Sotto il suo sguardo, la ragazza solleva il capo, mette giù la biro e trilla: «Eureka».











______________________________________________________________

[1] Gioco da tavolo con un'ambientazione che riproduce l'atmosfera dei gialli. (© Wikipedia). Dean o non ne ha mai sentito parlare oppure non riconosce il nome. Negli Stati Uniti il gioco è chiamato Clue ma Jane usa il nome europeo.
[2] Citazione "inconsapevole" da parte di Jane, ma voluta da me u.u del Pilot.
Dean: Yeah well dad’s in real trouble if he’s not dead already, I can feel it. I can’t do this alone.
Sam: Yes you can.
Dean: Yeah. Well, I don’t want to.
[3] Morrison è un professore di Antropologia che Sam e Dean consultano in cerca di informazioni sulle Amazzoni nella 7x13 (The Slice Girls) viene nominato anche nella 8x03 (Heartace).
[4] Dalla puntata 8x01 (We Need To Talk About Kevin).


Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Parte sesta ***


part 1
Capitolo:  07/08.
N/A.  Terzultimo capitolo! Qualcuno mi ha davvero seguita fin qui? In tal caso, wow, thank you, guys! Io continuo a sperare che la trama susciti un pochino di interesse e in qualche recensione ;__; e a ringraziare chiunque passi da queste parti. In particolare, un grazie enorme va a JunJun (fate un salto sul suo profilo!) per il tempo e l'attenzione che sta dedicando a questa fan fiction.

______________________________________________________________

x










Parte sesta










Dean resta seduto ai piedi del letto e si concentra su Jane.
«Premetto che non dormo da più di ventiquattro ore» esordisce la ragazza. Su ogni parola schiocca forte l'accento inglese. Gesticola piano, mentre i suoi occhi vanno dal foglio a Dean. E poi da Dean e Sam, all'altro capo del tavolino. «E che il mio inglese del quindicesimo secolo potrebbe essere leggermente arruginito, ma credo di aver capito: il cavaliere uccide la Signora delle Neve trafiggendole il cuore con una freccia. Ma non una qualsiasi. Donata al cavaliere da un monaco, era stata ricavata dal legno di una quercia cresciuta su un terreno consacrato».
«Tutto qui? Ne sei certa?» si assicura Sam, abbassando lo schermo del laptop.
Jane fa scivolare il foglio verso di lui.
«Io sono certa che āc vuol dire quercia e che ārwe sta per freccia. Se mi stai chiedendo se funziona davvero, lascio a voi lo spasso di scoprirlo... avete arco e frecce?» Dean la vede contrarre le labbra in una sorta di broncio insoddisfatto. «Se lo avessi saputo, un anno fa avrei sopportato tutte le rogne necessarie per far passare il mio alla dogana americana».
«Il tuo cosa?» mastica Dean.
«Il mio arco».
Prima l'inglese medioevale e poi il tiro con l'arco?
Il cacciatore non dissimula la propria perplessa, e in una certa misura divertita, incredulità: corruga la fronte e sbatte le palpebre. Blocca un sorriso a metà e a stento si trattiene dal roteare gli occhi.
«Non fare quella faccia» squittisce Jane. «Non vado mica in giro per i boschi con un'allegra compagnia di fuorilegge. Il tiro con l'arco è una disciplina sportiva a tutti gli effetti. Che io pratico da prima che diventasse una moda».
«Hipster» borbotta Dean.
Sam, impegnato a leggere la traduzione, riporta il discorso sui binari.
«Abbiamo solo bisogno di un oggetto abbastanza... appuntito. Fatto con il legno di una "quercia cresciuta su un terreno consacrato"».
«Oh, qui in città c'è l'Oakwood Cemetery» afferma Jane.
«Inizieremo da lì, allora» conclude Dean.
Jane incrocia gli avambracci sul tavolo.
«Chiedo scusa, posso sapere una cosa?»
Un mugugno da parte di Dean e lo sguardo attento di Sam sono mute risposte affermative.
«Solo io mi sto facendo un mucchio di domande? Voglio dire... per quale dannato motivo uno spirito della neve dovrebbe infestare un negozio di libri? Esiste davvero un collegamento con il ritratto? E poi... ha fatto fuori Allen e ha tentato di uccidere Sam, ma non si è scomodata a far del male a me, anche se mi ha letteralmente inseguita fino casa. Perché? E che significa "la curiosità uccise il gatto"? E se non fosse una minaccia? E se fosse... non lo so... una sorta di indizio. Magari sta cercando di farmi... sapere qualcosa». 
Dando la stura al fiume di quesiti, Jane alterna lo sguardo tra i due cacciatori con una frenesia nervosa e mal celata. E Dean intuisce che l'idea di avere a che fare con qualcosa di diverso da un semplice fantasma deve averla scombussolata parecchio, anche se fin ora non ha battuto ciglio.
Dean non sa se provare invidia o commiserazione per la possibilià, concessa al resto del mondo, di meravigliarsi.
«Jane, è quello che ci stiamo chiedendo anche noi» ribatte Sam. «Scopriremo cosa sta succedendo, ma dobbiamo essere sicuri di avere i mezzi per difenderci».
«Quindi adesso il programma prevede una gita notturna al cimitero?» chiede la ragazza.
Ma Dean e Sam sono d'accordo sul rimandare la ricerca all'indomani mattina.


* * *


Per Jane il sonno resta un'utopia.
Con la luce accesa o spenta, girata su di un fianco o sull'altro, stesa sulla schiena o a pancia in giù, non fa differenza. Passano i minuti, le mezz'ore, le ore. Ricomincia a piovere. Mentre ascolta l'acqua gorgogliare nei canali di scolo, la ragazza pensa di telefonare alla signora Sternwood. Poi si ricorda dell'orario — sono le tre di notte — e accantona l'idea, rimproverandosi di non essersi preoccupata prima della sua datrice di lavoro.
Tira fuori il computer portatile dallo zaino e per un sostanzioso quarto d'ora passa in rassegna le foto del ritratto. Quando il pizzicore agli occhi la costringe a mettere via il laptop, è giunta a una sola e inutile conclusione: il volatile dipinto nella stampa, alle spalle della Yuki-onna, ha tutta l'aria di essere un airone. L'uccello è sulla sponda di un ruscello, immerso in un'atmosfera rarefatta. È un'immagine insieme scarna ed eterea, formata da pochi brillanti colori — azzurri, blu e verdi — e da ampi e precisi colpi di pennello.
Infilandosi sotto le coperte, Jane si rassegna a fissare la luce del parcheggio, che filtra dallo spiraglio sotto la porta, tentando di non pensare a nulla.
Alle quattro e mezzo del mattino, la stanchezza ha finalmente la meglio e lei scivola in un sogno confuso del quale, meno di tre ore dopo, svegliata da una serie di insistenti colpi contro la porta, ricorda solo un vago senso di angoscia.
La ragazza si mette goffamente a sedere.
È spettinata, intorpidita e preda di un attimo di spaesamento esistenziale: perché mai ha dormito, vestita, in una stanza che non è la sua camera? Mentre i ricordi si fanno lucidi, nella fretta di alzarsi, Jane rotola giù dal bordo del letto.
La moquette accoglie il suo fondoschiena con un tonfo ovattato.
Alla porta continuano a bussare.
«Un attimo!»
Jane si aggrappa al copriletto e ringrazia che nessuno stia assistendo alla scena. Infilati gli stivali neri, che le coprono le gamba fino a metà del polpaccio, scavalca la striscia di sale, e va ad aprire.
L'aria umida e pungente del primo mattino le pizzica il viso mentre Sam, con la sua giacca marrone e una diversa camicia a quadri, le spinge tra le mani una busta bianca.
«Caffè e due ciambelle». Il buongiorno suona implicito nel rapido sorriso a labbra strette. «Stiamo per andare all'Oakwood Cemetery. Tu vieni con noi o vuoi restare qui al motel?»


* * *


Le nubi sono ancora tanto fitte e basse da ridurre le colline boscose, intorno a Mansfield, a enormi quanto spettrali sagome grigie.
All'interno dell'Impala, il mangianastri rovesca nell'abitacolo le ruvide note di Gimme back my bullets [1].
Dean è al volante, Sam guarda fuori dal finestrino — stanno attraversando il centro della cittadina, nel pieno del pigro risveglio — e Jane, sul sedile posteriore, fissa le gocce d'acqua rimaste sul vetro durante la notte, agognando un secondo caffè.
Prima di salire in macchina, è riuscita a contattare la signora Sternwood, con il telefono nel parcheggio del motel. E ha tirato un intimo sospiro di sollievo nel sentire la voce tranquilla della donna, leggermente sorpresa per una chiamata tanto mattiniera.
L'Impala svolta a un incrocio quando, nella borsa di Jane, il suo cellulare avverte dell'arrivo di un SMS con una coppia di brevi beep. La ragazza recupera il telefono. Legge il messaggio e scivola al centro del sedile.
«Ehi, la signora Sternwood mi ha appena inviato un SMS».
«La vecchietta sa come si mandano gli SMS?» commenta Dean.
«Yep! [2] Ha stupito anche me, quando l'ho scoperto. Mai sottovalutare le vecchiette. Dice di aver qualcosa da... dirmi riguardo al ritratto. E visto che lei abita da queste parti, che io non ho una gran passione per i cimiteri e che voi due, ragazzoni, potete potare una quercia anche senza di me...»
Jane molla un vivace colpetto sulla spalla di Dean.
«Accosta e fammi scendere. Ci rivediamo al Red Creek».


* * *


Le automobili sono poche, ma tutte si prendono la briga di affondare le ruote nelle pozzanghere nere e decorare i passanti con spruzzi d'acqua sporca. Così Jane cammina tenendosi accuratamente distante dal bordo del marciapiede. Superati i deserti tavoli all'aperto di una tavola calda, passa davanti alla vetrina di un negozietto d'antiquariato addobbata per il vicino Halloween. Lo stesso soffio di vento che spettina i capelli della ragazza fa oscillare con dolcezza l'insegna di metallo. Old Good Things recitano le grosse lettere dorate.
Jane continua per la sua strada. La borsa, sistemata a tracolla, batte piano sul suo fianco. E lei cerca di ignorare il pruriginoso senso di colpa che le suscita andarsene in giro con un grimaldello, un coltello da caccia e una pistola carica.
Jane si blocca all'improvviso.
Più in là, un uomo, che sta portando a spasso un bassotto, la osserva perplesso, ma lei neppure se ne accorge.
Gira i tacchi e percorre a ritroso i pochi metri che la separano dal negozio di antiquariato.
La vetrina è un pot-puorri d'oggetti ammucchiati assieme senza un criterio: dietro a una vecchia targa della Coca-Cola spunta la sommità di un busto in gesso. Un grammofono ottocentescono convive fianco a fianco con una macchina da scrivere color lime. Ma nel guazzabuglio generale, tra centrotavola di vetro soffiato, finte zucche d'Halloween e pacchiane scatole di latta per biscotti, ad avere l'attenzione di Jane è l'oggetto sul piccolo treppiedi di legno.
Ha tirato fuori il cellulare e qualsiasi dubbio è svanito.
La stampa giapponese esposta all'Old Good Things è la stessa riprodotta nel ritratto della Yuki-onna.
Identico il soggetto e identici i colori.


* * *


Uno campanello tintinna mentre la porta del negozio si richiude alle spalle di Jane.
Il locale è lungo e molto stretto. O, forse, sembra stretto perché gli scaffali strabordano di merce. Dietro alla teca di vetro che fa da banco della cassa, un uomo è intento a leggere un giornale: ha capelli neri e mossi, lunghi fin quasi alle spalle e pettinati all'indietro.
Jane gli si para davanti.
«Come posso aiutarti?» esordisce l'uomo. Le sorride con una gentilezza distratta ma non distaccata, e se ne resta con gli avambracci appoggiati alle pagine del giornale. Non può avere più di trentacinque anni. Indossa una camicia di jeans ― i primi tre bottoni aperti sulla pelle glabra ed olivastra del petto magro ― e un filo di barba gli ombreggia il mento e le guance.
«Lo spero» afferma Jane. «La stampa giapponese in vetrina: da dove arriva?»
«Dal Giappone» si sente rispondere e negli occhi nocciola dell'uomo legge un filo di confidenziale ironia.
Una remota parte del suo cervello le fa notare di trovarlo attraente. È per qualcosa nella particolare combinazione della fronte ampia, del naso diritto della forma degli zigomi: probabilmente l'uomo ha origini pellerossa.
«Quindi è un pezzo originale?»
«Sì. Lo abbiamo fatto controllare da un esperto. È dei primi del Novecento».
«E... come è arrivata qui?»
«Venduta da un privato».
«Chi? Quando?»
«Per il quando: circa tre settimane fa». L'uomo si piega un pochino in avanti, con un filo di innoffensiva malizia. «Per quanto riguarda il chi... non è il genere di informazioni che cediamo così, su due piedi, alla prima bella inglese di passaggio».
Jane preme forte le labbra l'una contro l'altra, in quello che dovrebbe risultare un sorriso, e abbassa gli occhi.
La teca mette in mostra vecchi anelli dall'aria molto pesante, spille tempestate di perle e cammei di diaspro scuro.
«Ma sei fortunata» riprende l'uomo, attirando di nuovo lo sguardo di Jane su di sè. «Il capo non c'è questa mattina. Potrei fare uno strappo alla regola. Se posso... ottenere qualcosa in cambio».
Jane non è sicurissima di dove l'uomo voglia andare a parare.
Ma non ha dubbi sul fatto di voler evitare di aprire il portafogli.
«Del tipo?» chiede.
«Un numero».
«Da giocare alla lotteria?»
«Di cellulare».

* * *


Nei pressi di una fermata dell'autobus, Jane è alle prese con un vecchio telefono pubblico. Schiaccia uno ad uno i rigidi tasti neri, componendo il numero segnato su di un post-it. Il recapito ― a detta del comesso del negozio d'antiquariato ― corrisponde a un nome di donna: Ivy Robins.
«Personalmente, non l'ho mai vista» ha spiegato l'uomo. «Ci ha fatto avere la stampa tramite una ditta di consegne e i documenti sono stati sistemati per posta. Le ho parlato solo una volta, al telefono. A giudicare dalla voce, penso sia giovane».


* * *


«No, non ho idea di quale sia il nesso». Attraverso il cellulare di Sam, impostato in modalità vivavoce, le parole di Jane irrompono nel silenzio verde e umido del cimitero. La voce della ragazza suona leggermente distorta dal ricevitore e animata da una squillante impazienza. «Ma non può essere solo una coincidenza. E il numero di telefono che risulta inesistente? Questo è sospetto».
Sam affonda la mano libera nella tasca della giacca.
«Be', le persone cambiano numero di telefono».
Dean, di fianco a lui, regge la solita sacca in spalla. 
«Magari ti hanno rifilato di proposito il numero sbagliato».
«Ne dubito» ribatte Jane. «E per essere cacciatori del sovrannaturale, voi due siete spettacolarmente razionali». La sentono sospirare. «Il nome Ivy Robins vi dice qualcosa?»
A quella domanda, Sam scambia un'occhiata incerta con Dean ― che scuote il capo.
«Mai sentito» ammette.
Jane insiste: «Eppure a me suona familiare, ma non capisco perchè... è come quando guardi un film e ti accorgi di conoscere la faccia di un attore, ma non riesci a ricordare in quale altro dannato film lo hai già visto. Avete presente la sensazione? È così frustrante. Comunque, mi sembrava il caso di avvertirvi. Ora vi invio la foto che ho fatto alla stampa e vado dalla signora Sternwood. Forse quello che deve dirmi chiarirà qualcosa. E, ehi, come va la ricerca della quercia?».
Sam le assicura che sono a pochi metri dal querceto nel cuore del cimitero. Poi, chiusa la telefonata: «Questa storia continua ad avere un mucchio di punti interrogativi» commenta.
«A me ne interessa uno solo» afferma Dean. «Come far uscire di nuovo allo scoperto Miss Alaska 1911. E come colpirla prima che sia lei a congelare noi».
«Tecnicamente, questi sono due punti interrogativi».
Dean rallenta il passo fino a fermarsi e Sam si volta a guardarlo. Sono accanto a una fossa vuota: dal fondo infangato si leva l'odore di terra smossa e bagnata.
«Sarebbe stato meglio se uno di noi due avesse accompagnato Jane» afferma Dean.
«Non credo che Jane sia in pericolo».
«Già. Dimenticavo la tua nuova... filosofia».
Sam sa bene di cosa lo sta accusando Dean, ma non ha alcun desiderio di rivangare adesso la questione. Stringe i denti e lascia andare gli angoli delle labbra a uno spasmo che sembra lo spettro di un sorriso, ma è ben altro. «Dean, sto solo dicendo che se la Yuki-onna avesse voluto uccidere Jane, lo avrebbe fatto la scorsa notte. O la sera della rapina. Questo non è un cieco fantasma vendicativo. Se non ha mai preso Jane di mira è perché non le interessa farlo».
Sam vede suo fratello annuire, in uno scatto tanto secco quanto quasi impercettibile, come fa sempre quando vuole chiudere un discorso che gli ha lasciato l'amaro in bocca.
Poi Dean riprende a camminare e lui, in silenzio, lo segue.


* * *


Jane ha appena selezionato l'opzione Invia sul proprio cellulare, quando un autobus si ferma vicino al marciapiede. Il rumore dei freni la spinge ad adocchiare la strada: attraverso il vetro rigato, guarda aprirsi la porta automatica del bus e scendere un rumuroso gruppetto di ragazzini. Il trumabusto mette in fuga un piccione che, fino ad un attimo prima, passeggiava lungo il bordo del marcipiede. La bestiola spicca il volo, entrando per un attimo nel campo visivo di Jane. E in quello stesso attimo, tutto a un tratto, la ragazza ricorda. 


* * *


La tregua della pioggia è già finita.
Jane ascolta l'ininterrotto rimbalzare delle gocce d'acqua sopra la tela dell'ombrello, fissa in cagnesco la serratura rotta del retro della libreria e combatte contro gli ultimi ostinati spasmi di esitazione. Sarà questione di pochissimi minuti — si sta spronando. E se ha fatto la fatica d'allungare la strada solo per includere il negozio di libri nel percorso verso la casa della signora Sternwood, tanto vale andare fino in fondo. Tornare là dentro da sola è la tipica trovata da film dell'orrore, ma è pur vero che se la Yuki-Onna è stata in grado di comparire nel suo soggiorno, allora la libreria non dovrebbe essere né più né meno pericolosa di qualsiasi altro posto. 
Una volta nel retrobottega, Jane abbandona l'ombrello e ha l'accortezza di spostare la pistola dal fondo della borsa alla cintura dei jeans, dietro alla schiena.
Nel negozio non è cambiato nulla.
Il pavimento scricchiola, la pioggia picchia sui vetri e tutto ciò che è inanimato resta tale.
Jane si muove in fretta nella quieta penombra degli scaffali, imponendosi di respirare normalmente. Evita con calcolata cura di guardare lo spazio sul muro orfano del ritratto, raggiunge la porta delle scale — aperta per metà, come è stata lasciata il pomeriggio precedente — e scivola nell'androne, dove le strette finestre sono offuscate da anni di sporcizia. Per affrontare i cigolanti gradini deve arrangiarsi con la luce del cellulare. Pochi secondi ed è nella stanza con il caminetto: il cerchio di sale è intatto; le ceneri del quadro riposano nel camino; al polveroso odore di chiuso si è mischiato quello acre del fumo.
Sollevando il cellulare all'altezza del viso, Jane osserva da vicino il motivo che decora la tappezzeria.
Anche se il tempo si è portato via la vivacità dei colori, la forma è perfettamente visibile. E riconoscibile.
«Lo sapevo!» esclama Jane, in un soffio. Sfiora i contorni del disegno. «Sono pettirossi». [3]
Guarda verso il caminetto.
Guarda l'incisione sulla mensola.
IV.
«Ed ecco Ivy». [4]
Non è mai stato il nome a essere familiare. È stato il suono di due parole che solo se pensate insieme — come le hanno attraversato la mente il giorno prima, mentre era in questa stanza con i Winchester — possono venir scambiate per un nome di persona.
E qual è il significato di ciò?
Jane appoggia la schiena contro la parete. L'effimera soddisfazione sfuma in un istante.
Non lo sa quale sia il significato.
In effetti, potrebbe non esserci alcun significato.
Ma Jane si impunta: non può essere solo un caso se tutto quel che riguarda il ritratto riporta alla libreria. Così, per una fiammata d'orgoglio — fin ora le sue deduzioni si sono rivelate errate o tatolamente inutili, che almeno la sua memoria serva a qualcosa — cambia i programmi: invece di fare dietro front, si solleva con colpetto di reni dalla parete e attraversa la stanza, con l'intenzione di controllare il resto della casa.
Dalla stessa superficie delle due sale e del retrobottega sono state ricavate in tutto cinque stanze di modeste dimensioni. Sono tutte immerse nel livido chiarore della giornata di pioggia. Tutte ammorbate da uno spettrale senso di abbandono. E tutte completamente spoglie. Jane può sentire i propri passi echeggiare da una stanza all'altra, amplificati dal vuoto, e nel giro di una decina di minuti deve accettare l'idea che la casa in sè non nasconde alcun segreto — nè rivelatore nè spaventoso — e non offre nuovi indizi.
Non c'è assolutamente nulla da cercare e in cui cercare. Jane comprende perché, il giorno prima, i Winchester non abbiano dedicato più di un singolo giro di controllo a quelle stanze, prima di lasciare una volta per tutte l'edificio.
Gettata la spugna, torna sul pianerotto.
Lì, davanti alla seconda rampa di scale, soppesando l'idea di salire all'ultimo piano, tentenna di nuovo.
Strofina le unghie contro il palmo della mano destra, mollemente chiusa a pugno. Poi prende un respiro a pieni polmoni, come prima di un tuffo, e avvicina le dita alla vecchia balaustra tarlata.
Arranca verso l'alto, gradino dopo gradino, scricchiolio dopo scricchiolio, per ritrovarsi davanti all'ennesima porta chiusa a chiave.
Jane infila le mani nella borsa e scende a patti con il buon senso: farà un tentativo veloce con il grimaldello. Uno solo. Se la serratura non cede subito: «Qui finisce l'esplorazione» mormora, piegandosi sulle ginocchia. E fa scivolare il grimaldello nel buco della serratura. Che è arruginita e par intenzionata a resistere alle sue grezze capacità di scassinatrice. Ma Jane fa presente al proprio cervello quanto sarebbe proficuo concentrarsi di più sul rumore dei pistoncini metallici e meno sull'immaginare la Yuki-onna che si materializza alle sue spalle.
E spinge la lama seghetatta verso l'alto.
Il suono nitido di un scatto metallico echeggia fin giù per le scale, confondendosi con il mite scrocio della pioggia.
Jane sospinge la porta.
Ed ecco un'altra stanza vuota.
Sul pavimento c'è tanta di quella polvere che la porta, nell'aprirsi, ha letteralmente lasciato il segno, trascinando la sporcizia. Anche le suole bagnate degli stivali di Jane lasciano impronte sulle assi di legno. La ragazza si sposta per la stanza e imbocca un corto corridoio solo per constatare che l'ultimo piano è ancora più vuoto e desolato del precedente. Non ci sono mobili e non ci sono porte. Un caminetto c'era, ma è stato murato. Niente pannelli e nemmeno un brandello di tappezzeria. Le pareti e il soffitto — che è molto basso e segue l'inclinazione del tetto — sono coperti da un intonaco grigio, pieno di venature. In alcuni punti, è venuto via, lasciando nudi i mattoni rossi che sono l'anima della vecchia costruzione.
In compenso, gomitoli di ragnatele fanno capolino da ogni angolo dei muri e delle finestre.
Eppure c'è un particolare che attira l'attenzione di Jane.
La stanza in fondo al corridoio è l'unica ad avere una porta: chiusa, verniciata di bianco, ma sporca e rovinata come il resto della parete, cosparsa di schegge della pittura sottostante. Rossa in alcuni punti, di un verde molto annacquato in altri.
Dalla piastra della serratura si affaccia un pomello rotondo, nerissimo e lucido come l'occhio di un insetto.
Sembrerebbe essere l'unica cosa, in tutta la casa, libera dalla polvere.
Jane aggrotta la fronte; è ferma davanti alla porta, tossisce — l'aria viziata le sta serrando la gola — allunga la mano destra e stringe le dita attorno al pomello.
Si aspetta un'altra porta chiusa.
La serratura, invece, cede con estrema dolcezza.
Per far ruotare la porta sui cardini basta una leggera spinta.
«Accidenti...» [5]










______________________________________________________________

[1] Gimme back my bullets è pezzo dei Lynyrd Skynyrd pubblicato nel 1976. I Lynyrd Skynyrd sono una nota band rock americana formatasi a Jacksonville, in Florida nel 1964, esponente del Southern rock. (© Wikipedia).
[2] Ho lasciato il termine in inglese perché nessuna possibile traduzione in italiano mi suonava carina e adatta a Jane quanto uno 'Yep!'.
[3] Il termine inglese per 'pettirosso' è robin (robins al plurale). Robins è anche un cognome anglosassone molto comune.
[4] Il nome di persona Ivy si pronuncia 'aivi'. Nell'alfabeto inglese la vocale i suona 'ai' e la consonante v come 'vi
[5] Come 'dannato' sta per 'bloody', qui 'accidenti' è un molto inglese 'blimey!'

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Parte settima ***


part 1
N/A. Chiedo venia per il mostruoso ritardo, ma studio disperato e tirocinio serale mi succhiano via tempo, energie mentali e forza vitale. Insomma, soffrirei di meno se dovessi chiuderle io le porte dell'Inferno, ma alla fine mi sono concessa una giornata libera e ho (anche) sistemato il capitolo. Sperando di non aver combinato una schifezza, ecco a voi il gran (quasi) finale! (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧

______________________________________________________________

x










Parte settima










Jane racimola un po' di coraggio e oltrepassa la soglia. La stanza è piccola, bassa e arredata: un baule e uno scrittoio vicino alla finestra; un mobile da toeletta in un angolo; una lunga poltrona trapuntata di velluto bianco al centro. Vecchi libri occupano gli scaffali più alti di un mobile pieno di ante e di cassetti. Una disciplinata folla di quadretti e acquarelli punteggia le pareti. Vezzosi pavoni, blu e verdi, emergono dallo sfondo niveo della carta da parati. Ciò che stupisce Jane non è la presenza di arredi nell'ultima stanza di una polverosa casa abbandonata da decenni. Non è nemmeno il fatto che i mobili — eleganti, scolpiti in linee dolcemente ricurve, impreziositi da delicati intarsi floreali e guarnizioni in bronzo — siano antichi. La vera sorpresa è la lucidità del legno, è il pavimento spazzato, è il profumo di fiori.
E questo perché sopra lo scrittoio, in un vaso colmo d'acqua, riposa un mazzolino di freschi narcisi autunnali: fiori minuti, bianchi come fiocchi di neve.
La stanza è abitata.
Riguardo all'identità dell'abitante, Jane formula un'ipotesi inquietantemente plausibile, mentre la sensazione d'essere spiata diventa tanto nitida da farle pizzicare la nuca.
Eppure, il grosso specchio sopra la teoletta continua a restituirle il proprio solitario riflesso: una sagoma scura nel candore funereo e straniante delle quattro pareti.
Jane guarda alle proprie spalle. Non c'è nessuno. Ha lasciato la porta spalancata e il corridoio è deserto.
Ma dita fredde e invisibili le stanno accarezzando una guancia.
Tesa com'è, la ragazza annaspa in un attimo di terrore... prima di comprendere che la causa del suo principio d'infarto non è un alito sovrannaturale.
È la corrente tra la porta e lo spiraglio aperto della finestra a ghiogliottina: lo spostamento d'aria gonfia la tenda, leggera e quanto un velo nuziale.
Jane si riprende e va vicino alla toeletta. Il piano è occupato da fotografie incorniciate e da piccoli ritratti realizzati a mano. Sono così numerosi da essere stati disposti in tre file, in modo da disegnare una sorta di ventaglio. Il soggetto delle immagini è sempre lo stesso: una figura femminile con capelli neri e occhi chiari. Di ritratto in ritratto, di foto in foto, cambia l'abbigliamento, la capigliatura, il luogo, le persone che l'accompagnano: sono chiaramente immagini di epoche differenti.
Recuperato il cellulare, Jane indirizza il bagliore del display verso le cornici della prima fila.
Aguzza lo sguardo e aggrotta la fronte.
Non riesce a capire: si tratta della medesima donna o sono solo persone molto somiglianti? È forse una lunga generazione di madri e figlie?
I volti, per quanto simili, non le sembrano uguali. Coglie minuscole ma innegabili differenze: la forma del viso e degli occhi, la linea del naso e della bocca.
In una fotografia, di bianco e nero sbiadito, Jane riconosce la Yuki-onna. Ha lo sguardo vuoto, serio e distante delle donnine degli inizi del Novecento. Dritta come un pioppo, vitino da vespa e una gonfia acconciatura raccolta, posa sullo sfondo di un lussuoso salone dipinto, in un abito da sera con una profonda scollatura. Osservando le altre immagini, Jane intuisce che la meno recente dev'essere una piccola miniatura su avorio: ritrae una donna con un nastro blu tra i fitti riccioli scuri. Un altro nastro blu le cinge la vita del vestito, di mussola bianca, appena sotto al seno. Accanto alla miniatura, un dipinto a olio: un'altra sconosciuta, vestita d'azzurro, seduta all'ombra di un albero, immersa nell'atmosfera brumosa di una campagna. Il ritratto abbonda di particolari: i riflessi argentati delle pieghe della gonna, le increspature dello stretto corpino, le piume sul cappellino di feltro. Ma tra la moltitudine di immagini, due foto catturano con prepotenza l'attenzione di Jane. Nel mondo tinto di seppia del dagherrotipo, la solita figura di donna siede in un cupo salottino vittoriano: i capelli lisci severamenti spartiti sul capo e la mastodontica gonna che fagocita il sedile della poltrona. Ha una bambina sulle ginocchia: una creaturina di quattro o cinque anni al massimo, infagottata di un abitino tutto merletti e balze. Il visetto, tondo e imbronciato, è contornato da una cascata di boccoli chiari. Nella seconda foto, la bambina è sola e sempre sulla medesima poltroncina. Sembra più grande, stringe una bambola al petto e ha gli occhi chiusi.
Jane non s'illude che qualcuno abbia scattato una fotografia a una bambina addormentata.
Con un senso di disagio sempre più pressante, drizza la schiena e fa un passo indietro, sfiorando il bracciolo della sedia con il dorso della mano fasciata.
E nota adesso che uno dei cassetti della toeletta sporge in avanti di qualche millimetro, come se non fosse stato richiuso bene.
La ragazza è restia a toccare qualsiasi cosa, in quello strano posto, ma si sforza di superare l'avversione. Allunga il braccio, con lo scatto incerto di chi teme di venir morso da un animale inquieto, e fa scivolare le dita sotto l'incavo del pomello a forma di conchiglia. Apre il cassetto per metà — è più pesante di quanto si aspettasse — e ne tira fuori l'unico oggetto all'interno: una cartellina rilegata in pelle e gonfia di fogli.
Jane esita, in bilico tra ansia e morbosa curiosità. Alla fine, si sposta verso lo scrittoio e mette giù la cartellina.
I fogli sono sottili e per la gran parte macchiati e ingialliti dal tempo. Foglio dopo foglio, Jane passa in rassegna vedute campestri, scorci di città, disparati ritratti di sconosciuti. Alcuni sono di schizzi incompiuti, altri sono dettagliatissimi, ma tutti palesemente opera della stessa mano. Nessuno dei ritratti è accompagnato da un nome, anche se ben presto appare chiaro che molte sono effigi della bambina morta. Per ogni ogni paesaggio, al contrario, qualcuno non ha dimenticato di appuntare una data e un nome sull'angolo di ciascuna pagina.
Vienna, 1907. Bristol, 1878. Parigi, 1810. Amiens, 1823. Londra, 1850. Portsmouth, 1937.
Jane si sofferma sull'immagine di una colossale colonna che sorregge una riconoscibilissima statua di George Washington: Baltimora, 1911.
Inarca un sopracciglio, stupita dalla precisione delle proprie deduzioni.
Poi passa al disegno successivo: un grazioso edificio in stile coloniale. Ha solo il tempo di leggere la parola Concord, prima di vedere qualcosa che la lascia completamente raggelata e leggermente inorridita. Sollevando quel foglio, ha scoperto il sottostante. Un altro ritratto. Ed è il suo. È lei la giovane donna che la fissa dalla superficie della pagina. Suoi sono i lineamenti del volto rotondo — tracciato con il rugginoso rosso di una sanguigna. Suoi gli occhi a mandorla dall'espressione risoluta. Sua la bocca piccola e regolare. Suoi i folti capelli.
Per un lungo attimo, Jane guarda il ritratto senza osare muovere un muscolo.
Batte le palpebre.
Lo sguardo guizza di nuovo al foglio tra le sue mani.
Concord, 1964.
«Concord» mormora. «Concord... è... la capitale... del New Hamsphire».
Jane lascia cadere il foglio, corre verso il mobile della toeletta, fa vagare la luce tra le cornici.
Il suo stomaco si contrae in un nodo quando allunga la mano sana per sollevare una fotografia, rimasta letteralmente nascosta dal piccolo ritratto a olio.
La fotografia è in bianco e nero ma molto più nitida delle altre, perché di epoca più recente. Dev'essere stata scattata in un un parco o in un giardino: la donna è seduta su di un telo steso sull'erba, nel bel mezzo di un pic nic, e rivolge uno sguardo malizioso e un sorriso civettuolo all'obiettivo. Ha un look degno di una modella degli anni Sessanta: occhi grandi, dal taglio felino, pesantemente truccati; una nuvola di capelli neri e cotonati a contornarle il volto dolce, a forma di cuore, benedetto da splendidi zigomi.
Jane conosce quella donna.
Ha visto una fotografia pressoché identica in casa della signora Sternwood.
Quella donna è Virginia Sternwood.
Da giovane. 
La signora Sternwood alla quale Jane ha chiesto del ritratto poco prima di ricevere il messaggio 'la curiosità uccise il gatto'.
La signora Sternwood che era presente quando è morto Donny Allen.
La signora Sternwood che tanto ama gli oggetti dei secoli passati.
Pietrificata dalle sue stesse idee, Jane scorge con la coda dell'occhio la porta ruotare sui cardini e chiudersi piano.
Ora sa che non è colpa della corrente d'aria.
E lo sa perché, nel momento in cui solleva lo sguardo, nello specchio non è più sola.
 

* * *


La pioggia picchia forte sopra il tettuccio dell'Impala. L'automobile è parcheggiata lungo il marciapiede, non lontana dall'entrata del Red Creek. Nonostante il locale abbia aperto da poco, dietro ai vetri s'intravede già un discreto via vai di sagome: un ragazzo con un ombrello blu entra proprio ora, dopo aver attraversato la strada di corsa, passando a qualche metro dal muso dell'Impala.
«Be', ora ci serve un piano» butta lì Dean. Continua a rigirarsi tra le mani, e davanti al viso, il paletto appuntito ricavato dal ramo di una delle querce del cimitero.
Un'altra mezza dozzina di paletti sono nella sacca, gettata sul sedile posteriore.
Sam a mala pena gli presta ascolto. Tiene il portatile sulle ginocchia: non gli piace quel che sta vedendo sullo schermo. Per un po', ha cercato inutilmente informazioni sulla stampa dell'airone e sulla sua ex-proprietaria. Poi, ha avuto l'intuizione di cambiare soggetto, digitando un nome e un cognome nella barra di ricerca.
«Dean...»
«Cosa?»
«Jane ha detto che la signora Sternwood abitava nel New Hampshire, quando il marito è scomparso. Ed è stato più di trenta anni fa».
«Lo so. C'ero anche io quando l'ha detto».
«Guarda qui».
Sam gira il laptop verso Dean.
Gli sta mostrando la prima pagina di un vecchio giornale quotidiano.
Sotto i caratteri cubitali della testata — Concord Monitor — la data riportata è quella del 16 Gennaio 1978. L'articolo d'apertura grida qualcosa sul maltempo, mentre il titolo della spalla recita: Prima vittima del gelo. Uomo trovato morto nella propria auto.
«Jonathan Sternwood non è scomparso» spiega Sam. «È seppellito nell'Old North Cemetery di Concord: ho trovato il suo necrologio. Fu dichiarato morto per assideramento e l'auto ritrovata sul ciglio di una strada, appena fuori città. Ma, stando all'articolo, non hanno mai capito perché l'uomo si fosse fermato lì. Non c'erano guasti nell'automobile e la strada era sgombra dalla neve».
«E anni dopo la moglie racconta di non saperne nulla».
«Quando le ho parlato, la signora Sternwood non ha fatto domande sulla morte di Allen. Ho pensato che fosse ancora troppo stanca e sconvolta per affrontare il discorso, ma...».
«Ma "mai sottovalutare le vecchiette"».
Dean non perde tempo: getta il legno sul sedile posteriore, gira la chiave e fa partire il motore.


* * *


Lentamente, Jane mette giù la fotografia e si volta.
L'altra persona nella stanza è la signora Sternwood.
È in piedi, accanto alla finestra.
Ma non è nella forma dell'anziana libraia.
Qui c'è la ragazza della foto: una bellezza algida e delicata, come un silenzioso paesaggio innevato. E con occhi dell'azzurro più vivido e della tristezza più inconsolabile che Jane abbia mai visto. Non è molto alta, ma ha una corporatura snella e armonica, e veste di bianco — ma il bianco appare quasi sporco in confronto all'incarnato diafano della pelle. L'abito le stringe la vita con una larga fascia e lascia le braccia scoperte. I capelli, lisci e nerissimi, cadono sulla spalla nuda come una pennellata di inchiostro nero. Dietro di lei, la tenda si agitano appena, come un sospiro trattenuto
«Jane». La voce è giovane, il timbro tanto carezzevole quanto intriso di vuoto sconforto. «Non avere paura».
E Jane non ne ha. È troppo stordita per provare paura. La sua cara, gentile e affettuosa signora Sternwood è la Yuki-onna. Tutta l'angoscia e la confusione delle ultime ore sono spazzate via da un flutto di avvilimento. Con la schiena pressata contro il bordo del ripiano, serra le mani attorno al cellulare fino a sentire la dura plastica spingere con la carne. Ricaccia indietro la voglia di piangere e atteggia il viso nell'espressione più ferma, ma non tracotante, che riesca a simulare.
«Quindi... signora Sternwood... o C.B.W... o qualunque sia il tuo nome... questo è il tuo aspetto reale? O è solo uno delle tante facce?».
La donna delle nevi viene avanti, senza dire nulla. È scalza, i suoi passi non fanno rumore. L'orlo della gonna, fatta di pieghe leggere, lambisce i polpacci sottili.
Continua ad avvicinarsi e Jane si sposta di lato, finendo con l'urtare il ginocchio contro un angolo della lunga poltrona.
Raggiunto il mobile della toeletta, la Yuki-onna appoggia entrambe le mani alla spalliera della sedia. Stringe le dita sottili sul legno e si curva in avanti, come sotto il peso di una stanchezza improvvisa. O di una fitta di dolore. «Jane...» mormora, a testa bassa. «Io sono stata costretta a uccidere quel criminale. Per proteggerti. Se si fosse limitato a prendere i soldi, io non avrei mai... ma avrebbe fatto del male a te». Poi, come se aver messo insieme quelle poche frasi le avesse richiesto uno sforzo che non riesce più a sostenere, fa una pausa. Il suo respiro somiglia a un flebile verso accorato. Socchiude le palpebre, abbassando le lucide ciglia nere. «E tutto ciò che ho fatto dalla sera della rapina, l'ho fatto per tenere te al sicuro. Ma ho commesso un errore... Non era così che doveva andare e io... io ero così spaventata».
Jane si sforza di capire. Fissa il profilo della Yuki-onna e la sua mente è un impasto che si rifiuta di prendere la forma di quesiti da esporre a voce alta. Eppure, nel subbuglio generale, non dimentica un dettaglio importante: è qui, da sola, con la donna delle neve e un cellulare mal funzionante come unico legame con Sam e Dean, i quali la credono da tutt'altra parte. Adocchia la porta chiusa: anche dal basso del propria esperienza, può immaginare il possibile brutto segno rappresentato da una via d'uscita sbarrata. Pensa alla pistola dietro alla schiena, ma sa di aver bisogno di un'uscita d'emergenza meno temporanea.
Torna con gli occhi sulla Yuki-onna.
Deglutisce a forza, rendendosi conto di avere la gola secca e la bocca arsa.
«Spiegati» sillaba. «Che... che cos'è che avresti fatto... esattamente?»
La Yuki-onna sta fissando la sé stessa nello specchio.
«Ieri pomeriggio, vi ho visti nella libreria. Tu. E i due cacciatori. È stato un caso. Non sapevo foste lì. Sono entrata passando dal retro e davanti alla porta aperta ho creduto che qualche altro ladro fosse sgattaiolato dentro».
Jane l'ascolta, senza mai distogliere lo sguardo. Le mani, ancora strette attorno al cellulare, sono premute al petto in un gesto che è la perfetta rappresentazione di uno stupito timore.
E che, sopratutto, le permette di avviare una chiamata senza dare nell'occhio.
Per una volta, Jane è lieta di essere una di quelle persone che dimenticano sistematicamente il telefono in modalità silenziosa.
Un impercettibile movimento del pollice destro e recupera l'ultimo numero utilizzato: il cellulare di Sam.
Seleziona la cornetta verde.
Inizia a pregare.
«...così ho chiuso la porta a chiave» sta dicendo la Yuki-onna. «E stavo per chiamare la polizia, quando vi ho sentito discutere. Eravate convinti che Allen fosse stato ucciso da un fantasma! Allora, invece di restarmene da parte e sperare che non trovaste questo posto, ho pensato che potevo eliminare qualsiasi possibilità di venir scoperta. Potevo darvi il fantasma e farvi credere di averlo mandato via. I cacciatori ci avrebbero lasciato in pace e noi due avremmo continuato a vivere tranquille. E il ragazzo...  non l'ho colpito con il desiderio di fargli davvero del male. È stata tutta una messa in scena».
Jane è allibita.
«E... e la scorsa notte, a casa mia? Anche quella è stata tutta una messa in scena?»
«Con le tue domande, ho capito che ti eri messa in testa di cercare ancora. E tu sei testarda. Prima o poi, avresti capito qualcosa. Dovevo farti desistere da subito».
«Terrorizzandomi a morte?»
Jane perde il controllo della propria voce: il tono è più stridulo e sfiatato di quanto avesse voluto.
La voce della Yuki-onna, invece, resta un mormorio spossato.
«Esiste metodo più efficace della paura per tenere i bambini lontani dai pericoli? Ma tu sei tornata dai cacciatori, non è vero? Quando mi hai telefonato, questa mattina, ho sentito le loro voci in sottofondo».
«E che altro credevi avrei fatto?»
«Prestato ascolto al mio consiglio».
«E l'SMS di poco fa? Che cosa mi avresti detto?»
«L'unica cosa rimasta da fare... ti avrei raccontato io la storia del ritratto. Una storia inventata, certo, ma avrebbe accontentato la tua curiosità».
C'è una lunga pausa, riempita solo dal malinconico scroscio della pioggia. La luce nella stanza si è fatta più debole e più grigia. La Yuki-onna è bianca e immobile come una statua di cera; lo sguardo assente rivolto alle immagini della sue vite passate. Jane, quasi senza accorgersene, si ritrova seduta sul bordo della poltrona. Lascia cadere il cellulare in grembo, coprendo il display con la mano fasciata. Si affanna a rimettere in ordine i pensieri, rivivendo quanto accaduto nelle ultime ore con la consapevolezza che è stata tutta una messa in scena.
Solleva piano il volto e osserva di nuovo la stanza.
«Questi oggetti ti appartengono?» chiede, in un sussurro retorico.
«Sì».
«E perché... perché non li nascondi in casa tua? Perché proprio quassù, in una stanza all'ultimo piano della libreria?».  
«Perché qui non viene mai nessuno».
Jane — che ancora si guarda attorno — finalmente lo vede. Il dettaglio insignificante. L'ultimo pezzo del puzzle. Sulla stessa parete alla quale è addossato il mobile della toeletta, c'è uno spazio vuoto tra due acquarelli. Ed è molto ampio rispetto alla distanza tra tutti gli altri quadretti.
«La stampa con l'airone» sospira la ragazza, legando mentalmente un dettaglio all'altro, fino ad ottenere la catena completa degli eventi. «La stampa... che compariva nel tuo ritratto, in negozio, era appesa lì, non è vero? Quando hai preso accordi per venderla, eri nella stanza del caminetto, al piano di sotto. Avevi questo aspetto... o, comunque, hai usato questa voce. E hai lasciato un nome falso. L'unico che ti è venuto in mente, guardandoti attorno».
La Yuki-onna accartoccia la lebbra pallide in un sorriso rassegnato.
Jane vorrebbe chiedere perché abbia deciso di vendere la stampa, e perché sotto falso nome, ma un'altra domanda si affaccia di prepotenza.
«Chi è la bambina nella foto?»
Silenzio.
Jane sente la Yuki-onna prendere un doloroso respiro.
«È la mia bambina. Mia figlia».
Un'altra penosa pausa.
«Tanto tempo fa, cedetti alle lusinghe di un uomo che non amavo. Era uno sciocco noioso, ma conosceva il senso del dovere. Quando seppe che aspettavo un bambino, volle sposarmi. Fu un matrimonio breve: tre mesi e il mio caro marito riposava in fondo al mare, insieme a una delle sue preziose navi mercantili. Ci fu poco da piangere: ereditai quasi tutta la sua fortuna, ed era davvero consistente, e avevo una creatura da amare. Lei... lei era... era il sole della di vita, la ragione di tutta la mia esistenza, la bambina più bella e dolce che si potesse immaginare. Ma era così fragile, così cagionevole di salute... Si chiamava come te, sai? Jane. La mia Jane. E aveva capelli come i tuoi. E occhi come i tuoi. Negli ultimi mesi, ogni volta che ti ho guardato, fingevo di credere che mi fosse stata restituita la mia bambina».
Cala di nuovo il silenzio.
Jane si morde l'interno del labbro fino a farsi male. Sapere di essere il simulacro di una bambina morta le fa orrore. Tuttavia, non riesce ad evitare un gran senso di pena per la madre che le sta davanti. È arduo venire a patti con l'idea che la signora Sternwood — la dolce vecchietta, proprietaria della libreria  — non sia umana. È raccapricciante pensare che possa assumere l'aspetto di quella spaventosa donna che l'ha attaccata per due volte. Ma è anche impossibile dimenticare tutta la gentilezza e la bontà che ha ricevuto negli ultimi sette mesi. Forse, non essere umani — si azzarda a sperare Jane — non vuol dire necessariamente essere dei mostri.
«Se davvero hai ucciso Donny Allen solo per proteggere me... allora... non devi più preoccuparti dei cacciatori. Nessuno ora ti farà del male. Hai avuto paura di loro e... questo lo capisco... ma di me avresti potuto provare a fidarti. Avresti potuto dirmi la verità fin dall'inzio. Non c'era nessuno bisogno di ricorrere a questa... assurda... inutile... sceneggiata».
La Yuki-onna fa cenno di no con il capo, rifiutando di voltarsi verso di lei.
«Non centrano nulla i cacciatori». A stento trattiene i singulti. «Loro non mi hanno mai fatto paura. Io avevo il terrore di dover di nuovo—»
Scossa da un pianto silenzioso ma disperato, la donna ammutolisce e nasconde il viso tra le mani.
Jane si agita sul bordo della poltrona, sempre più vicina a perdere quel poco di lucida risolutezza che è riuscita a tenere insieme fino ad ora.
«Perdonami... mi dispiace. Mi dispiace così tanto» riprende la Yuki-onna, con la voce soffocata, impastata dal pianto. «Io ti voglio bene, Jane. Te ne voglio sul serio... ma è la regola... non posso cambiarla. Non ho scelta. Se un essere umano scopre la nostra reale natura... noi moriamo. Sto morendo, Jane, e c'è solo un modo per impedirlo...»
E quando Jane capisce cosa sta per succedere, è già troppo tardi.
Una morsa di ghiaccio le serra i polmoni. Il gelo le morde le viscere e si propaga lungo ogni fibra del suo corpo. La ragazza trema, scossa dal freddo e dal terrore. Si guarda le mani, ma non riesce ad alzarsi in piedi, non riesce a ribellarsi. E ora la Yuki-onna è accanto a lei: la circonda con le braccia — ed è come essere avvolti da una nebbia gelata, che rode le ossa — le fa appoggiare la testa sulla spalla, le accarezza i capelli dietro l'orecchio. Mormora che finirà presto. Che deve solo lasciarsi andare.
Nella mente di Jane continua a esplodere un urlo disperato.
Non uccidermi.
Dischiude le labbra ma non riesce a parlare.
Ha troppo freddo.
E tanto, tanto sonno. 
La voce della Yuki-onna è un sussurro ipnotico rotto dal pianto.
«Dormi, Jane. Dormi, bambina mia»
E Jane chiude gli occhi.
 
* * *


La porta si apre con violenza.
«Allontanati da lei!» ringhia Dean.
La pistola in pugno, l'adrenalina in circolo, il cacciatore irrompe nella stanza insieme a Sam — che impugna il paletto di quercia.
La loro comparsa, annunciata dall'eco della corsa su per le scale, è come boato in un deserto di ghiaccio: non ha nessun effetto sulla scena che si ritrovano davanti.
Jane è distesa sulla lunga poltrona: immobile, le palpebre calate sugli occhi, le mani sul ventre. Una donna vestita di bianco è inginocchiata accanto alla ragazza, come al capezzale di un malato. Dà le spalle alla porta e all'arrivo dei due fratelli non si lascia scuotere nemmeno da un misero sussulto.
Il cellulare di Jane è stato gettato sul pavimento: ha fatto da canale di comunicazione, ha guidato Sam e Dean fin lassù, ha permesso loro di udire buona parte della conversazione tra Jane e laYuki-onna.
«Non sono io l'assassina» mormora la creatura. La sua voce suona svuotata. Muove il capo il poco che basta perché Dean riesca a scorgerne il profilo, in parte nascosto dalle lunghe ciocche di capelli nerissimi. «Siete voi che mi state uccidendo...»
L'indice di Dean freme sul grilletto. Non può sparare: se fa fuoco ora e la creatura si smaterializza, i proiettili colpiranno Jane.
Poi, è questione di un attimo.
Una forza invisibile solleva lo scrittoio. Con la velocità di un oggetto lanciato da una catapulta, il mobile schizza verso di loro. Il vaso va in frantumi, i fiori bianchi si spargono sul pavimento ed è Sam a rovinare sotto l'urto contro il tavolo. L'impatto è accompagnato da uno schianto secco — un rumore tanto terribile da far temere a Dean che la gamba dello scrittoio non sia l'unica cosa a essersi spezzata.
«Sam!»
Vede suo fratello sbattere la testa contro le assi del pavimento, il paletto rotolare verso la poltrona e la Yuki-onna svanire in uno sbuffo di nebbia.
Prima di ancora di poter muoversi di un passo, Dean si sente strappare la pistola via dalle mani dal nulla dell'aria.
In alto, qualcosa scricchiola.
L'attimo dopo, polvere e scaglie di intonaco piovono sopra le spalle dell'uomo.
Dalla fenditura appena apertarsi nel soffitto guizza fuori un cavo nero: con lo stesso movimento di un colpo di frusta, il cavo si attorciglia attorno al collo di Dean.
E inizia a stringere.
La Yuki-onna è di nuovo nella stanza.
Ha raccolto la pistola. Ed è piedi nudi tra i frammenti di vetro ma non un goccia di sangue sporca l'acqua o macchia i fiori bianchi.
Sam strizza gli occhi: è ancora a terra, lo scrittoio gli schiaccia il costato.
La Yuki-onna solleva il braccio alabastrino, puntandogli la pistola alla testa.
«Io non sono l'assassina» ripete, senza forze. «Ma... voi... non sareste mai dovuti venire in questa città. Mi dispiace...»
«E t-ti è dispiaciuto anche quando hai ucciso tuo marito!» ansima Dean.
Ha stretto le mani attorno al cavo, nel tentativo di allentare la stretta, ma è inutile. Gli manca il fiato, deve sbattere le palpebre per non lasciarsi annabbiare la vista e cambia subito strategia.
«Io amavo Jonathan» biascica la Yuki-onna, senza voltarsi — e non vede Dean inclinarsi in avanti, sfidando il nodo sempre più serrato e il cavo sempre più teso, fino a sentire sotto le dita la liscia consistenza del manico del coltello infilato nello scarpone.
«Ma anche lui aveva scoperto la verità... e se non l'avessi ucciso... sarei morta io».
Ed è proprio perché sta morendo anche ora — comprende Dean — che non li ha già uccisi tutti, congelandoli in un istante, come ha fatto con Donny Allen.
È troppo debole.
Così debole che quando la lama recide di netto il cavo, qualche che fosse la magia che lo teneva vivo e stretto al collo del cacciatore, cessa di funzionare.
Il cavo si affloscia come un serpente senza vita.
Dean scatta in avanti, portando una mano sotto la giacca.
La Yuki-onna preme il grilletto.
Il boato dello sparo rimbomba tra le pareti della piccola stanza, fa vibrare i vetri della finestra e sovrasta il gemito della Yuki-onna. Solo Dean riesce a udire il verso di dolore e di sorpresa: circondato il collo della donna con un braccio, le ha conficcato il paletto nella schiena, all'altezza del cuore. Senza battere ciglio, senza altra emozione che non sia il dover di uccidere, spinge il legno nella carne. E continua a spingere fin quando non avverte il corpo della creatura accasciarsi tra le sue braccia.
Estrae il paletto. Fa un passo indietro.
La donna delle nevi crolla tra i resti del vaso e dei fiori. Sotto lo sguardo impassibile del cacciatore, il suo corpo si dissolve in un turbinio di ghiaccio, proprio come la fiamma di una candela si spegne sotto a un soffio, lasciando un sottile filo di fumo.
Dean non è il solo ad assistere alla scena: visibilmente frastornato e dolorante, Sam si sta riprendendo dalla botta al capo.
A pochi centimetri dal suo orecchio, il proiettile si è conficcato in una delle assi di legno del pavimento.
Dean si precipita accanto al fratello. Lo aiuta a liberarsi del peso dello scrittoio — che viene rovesciato bruscamente sul pavimento — e a mettersi seduto.
«Ehi! Vacci piano... sei tutto intero?»
Sam scuote il capo, si passa le dita tra i capelli, apre e chiude gli occhi.
«S-sì...» mugugna.
Dean lo vede spostare lo sguardo, di colpo allarmato, su un punto oltre le sue spalle.
Di riflesso, il fratello maggiore si volta.
Jane non si muove.
Con un «No» sibilato a denti stretti, Dean torna in piedi e raggiunge la poltrona.
Mentre si piega su un ginocchio, nella visione di Jane distesa sulla lunga poltrona, inerme e con gli occhi chiusi, c'è qualcosa che gli suscita rabbia: è la posizione del corpo della ragazza.Dev'essere stata la Yuki-onna a sistemarle i capelli dietro le orecchie e le mani sul ventre, l'una sopra l'altra.
Pronta per la tomba — a quel pensiero la rabbia diventa un boccone velenoso che il cacciatore si impone di mandar giù.
Prende il viso di Jane tra le mani: la pelle di lei è arrossata e fredda come il marmo.
Le tasta prima il collo e poi i polsi, in cerca di un debole battito cardiaco.
Non lo trova.
Si china in avanti, accostando la propria guancia al volto di Jane, nella speranza di riuscire ad avvertire un flebile respiro.
Non lo sente.










______________________________________________________________

Due noticyne (molto superflue):
1) La Yuki-onna fa parte del folklore giapponese ma, anche se ho tenuto fede alla maggior parte delle caratteristiche delle leggende originali, qui e là ho aggiunto o cambiato qualcosa per adattarla meglio all'universo del telefilm. L'Epilogo chiuderà qualsiasi punto rimasto poco chiaro in questo capito, troppe spiegazioni avrebbero rallentato l'azione. 
2) Io c'ho l'animo del cast director: come per Jane, anche per la cattifah di turno non ho tenuto a bada la voglia di scartabbellare attrici su attrici e sceglierne una sulla quale cucire l'espressività del personaggio. La mia soddisfazione per quel photoset sfiora l'indecenza, ma vabbé.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Epilogo ***


part 1
N/A. And that's a wrap. Epilogo rivisto e pubblicato in tempi record.
______________________________________________________________

x










Epilogo










La riga luminosa incide il nero del monitor. Disegna picchi sempre uguali, a un ritmo sempre uguale.
Quelle linee bianche, insieme al cadenzato segnale acustico dei macchinari, testimoniano che la vita nel corpo della ragazza resiste.
Sam, ai piedi del letto, osserva il viso di Jane: addormentato, tranquillo nella totale assenza d'espressione, incorniciato dal rosso smorto delle lisce ciocche. Il petto di lei, sotto alla stoffa del camicione, si alza e si abbassa in respiri poco profondi ma regolari.
Più di undici ore prima, nella stanza bianca, un respiro molto più flebile di quelli è stato sufficiente per restituire speranza ai cacciatori.
Sono stati attimi di gesti convulsi e di decisioni prese in un batter d'occhio.
Hanno coperto Jane con le loro giacche. Dean l'ha sollevata in braccio per spostarla al pian terreno, dove l'aria poteva essere più calda. Sam ha composto il 911. Poi, il bagliore blu e il suono di una sirena, il sobbalzo di una barella, una corsa verso l'ospedale. Tutto è terminato nel quieto brusio di un corridoio del terzo piano, quando un medico di mezza età — radi capelli grigi e lindo camice bianco — con il misto di tatto e solerzia adatta al proprio ruolo, ha spiegato: «Vostra cugina è viva, signori Simmons». Un ma non detto è rimasto ad aleggiare nell'aria odorosa di medicinali. «Sfortunatamente, la bassa temperatura ha rallentato la circolazione del sangue per un periodo di tempo troppo lungo e il cervello non ha ricevuto sufficiente ossigeno. C'è speranza che la ragazza si risvegli dal coma, ma anche in tal caso, non possiamo sapere quali e quanto gravi danni il suo sistema nervoso abbia riportato».
Sam si è detto che un letto d'ospedale è pur sempre meglio del tavolo di un obitorio o di una pila in fiamme, ma da un'idea del genere ha ottenuto una magra consolazione, subito sostituita da un flusso di pensieri ben più amari.
Se fossero stati meno negligenti nel controllare il vecchio edificio.
Se non avessero lasciato Jane da sola.
Se fossero arrivati prima in quella maledetta stanza.
Se, semplicemente, avessero compreso subito la verità.
Solo adesso Sam inizia a realizzare quanto sia stata inutile la propria fuga. Per un anno intero, tra le braccia di Amelia, ha creduto con tutto il cuore di essersi finalmente liberato della vita da cacciatore. Ha sperato che fossero finiti i giorni in cui era costretto ad addossarsi la responsabilità delle esistenze altrui, spezzate o rovinate per sempre.
Tutta un'illusione.
Il cacciatore distoglie lo sguardo. Respira pesantamente e si appresta a lasciare la camera.
In una manciata di minuti, raggiunge Dean nel parcheggio St. Peter's Hospital: un'arida distesa di asfalto nero e di automobili, rischiarata dalle pozze di luce dei lampioni.
È tarda sera. Ha smesso di piovere e le nuvole iniziano a diradarsi, mostrando scaglie di cielo buio e vuoto.
Dean se ne sta appoggiato allo sportello dell'Impala: mani affondate nelle tasche e sguardo basso. L'illuminazione, che piove dall'alto, scava i suoi lineamenti regolari, dando loro un aspetto più severo e dolente di quanto siano normalmente.
Quando Sam lo raggiunge, il maggiore dei fratelli Winchester non si prende la briga di alzare lo sguardo.
«Dobbiamo decidere cosa fare» principia Sam.
La reazione di Dean è stoica: «Torniamo al negozio e facciamo sparire ogni traccia. Registrazioni comprese. Tempo pochi giorni e qualcuno denuncerà la scomparsa della libraia. Dobbiamo tenere i sospetti lontani da Jane».
Sam stringe le labbra in un cenno di assenso.
«E con lei, con Jane, cosa facciamo? Hai sentito i medici, Dean. Non hanno idea di quando si risveglierà. Noi dobbiamo trovare Kevin, non possiamo restare qui. E Jane ha una famiglia. Che ha il diritto di sapere cosa le è successo».
«E lo saprà. Adesso andiamo» ribatte Dean, lapidario.
Sam lo guarda aprire la portiera con uno strattone.
Non c'è altro da dire ad alta voce. Sam sa già cosa nasconde la cupa immobilità del viso del fratello. Sa che, per Dean, il fatto di conoscere Jane Leigh da meno di un paio di giorni non serve ad attenuare il rimorso. Sa che, per Dean, conta solo una cosa: avrebbe potuto tenerla al sicuro e non l'ha fatto. E non è disposto ad assolversi dalla colpa. Si lascerà alle spalle Mansfield e il caso della donna delle nevi, ma non il ricordo di non aver fatto abbastanza per proteggere l'ennesimo innocente.

* * *

Mentre l'Impala esce dal parcheggio, immettendosi nel sonnacchioso traffico serale della cittadina, qualcuno al terzo piano dell'ospedale esce dalla stanza di Jane.
La mano che si abbassa sulla maniglia appartiene a un uomo: pelle olivastra e un bracciale di cuoio attorno al robusto polso. Non è un medico né un infermerie quel giovane, in camicia di jeans, che adesso guarda entrambi i lati del corridoio momentaneamente deserto. Dai suoi occhi scuri non trapela alcun tipo di turbamento, sebbene sia consapevole di non avere l'autorizzazione per essere lì. Nessuno l'ha notato accedere al reparto. Nessuno l'ha notato oltrepassare l'ingresso dell'edificio ospedaliero. Nessuno lo vedrà uscire. Neppure le due infermiere che, tra pochissimi minuti, si precipiteranno per prime a prestare assistenza a una ragazza appena risvegliatasi dal coma.

* * *

«Ed ecco le copie della contabilità della libreria».
Jane sventola la cartellina sottile sotto il naso di Sam.
Lui gliela sfila dalle mani, per sfogliarla distrattamente.
Siedono entrambi sul divano, nel soggiorno del 2601 di Wakefield Terrace. Non c'è più traccia della profetica frase impressa dalla Yuki-onna sopra al camino e la stanza è stata rassettata a dovere. Jane, tornata a casa la mattina precedente, ha spazzato il pavimento e gettato via i cocci; tolto di mezzo la cornice vuota e sostituito le lampadine fulminate. Un lavoro notevole per qualcuno che ha sfiorato la morte per assideramento, è stato in coma per dodici ore e ha trascorso gli ultimi cinque giorni bloccato in ospedale, sottoposto ad analisi su analisi, accertamenti su accertamenti.
Gli esiti dei controlli hanno lasciato allibiti i medici ma nessun spazio per i dubbi: l'organismo di Jane non ha risentito dei traumi subiti. Si è risvegliata sana come un pesce e i dottori, a parte mormorare come una simile ripresa abbia del miracoloso, non hanno potuto far altro che dimetterla. La ragazza, dal canto suo, si è posta qualche lecita domanda e, dopo aver accuratamente esaminato a quali risultati l'ha condotta la sua curiosità, ha convenuto che per una volta può far a meno delle risposte. Si sente in forze come mai si è sentita in vita sua, e tanto le basta. A ricordo delle sue sfortune, resta il taglio al palmo della mano sinistra, i lividi alle ginocchia e non un grammo di sollievo per la fine degli orrori della piccola libreria.
È stato Dean Winchester a colpire la Yuki-onna ma, in cuor suo, Jane riconosce in sé stessa e in nessun altro la causa della morte della signora Sternwood.
«Più uscite che entrate» continua, raccogliendo la tazza di tè dal tavolinetto. «Lei non mi aveva mai detto dei problemi con il negozio, ma spiegano perché avesse iniziato a vendere gli oggetti antichi sotto falso nome. Stampa giapponese compresa».
Sam abbandona la cartellina sul tavolinetto da caffè — che è già occupato da due piccoli libriccini rilegati in pelle.
Poi, appoggia gli avambracci sulle gambe e guarda Jane. «Posso farti una domanda?»
Jane mugugna un verso di assenso.
«Ricordi qualcosa... del coma?»
«Niente luci in fondo al tunnel e niente esperienze extra-corporali». La ragazza soffia sul tè. «In effetti, non c'è stato proprio niente di niente. È come se quelle dodici ore non fossero mai esistite. Ricordo il freddo e poi... il soffitto della camera, in ospedale. Francamente, mi va bene così».
Il rombo di un motore dirotta l'attenzione di entrambi verso la finestra: fuori è l'inizio di una placida giornata autunnale. Brandelli di basse nuvole grigie avvolgono le cime delle colline coperte di boschi e il cielo è ancora un gonfio tappeto bianco, ma qui e là fanno capolino pennellate di azzurro.
In strada, una lunga automobile con la carrozzeria nera rallenta fino a fermarsi davanti alla casa di Jane.
È l'Impala.
Sam e Jane osservano Dean scendere e percorrere il vialetto.
«Perché tuo fratello cammina sempre come un cowboy appena smontato da cavallo?»
«Difetto di fabbrica».
«Temevo fosse una scelta di vita».
Un rumore all'ingresso e Dean li ha raggiunti in soggiorno.
«Serbatoio pieno. Possiamo partire» esordisce, avvicinandosi al divano. Un'occhiata a Jane: «Bel vestito».
Jane pecca di ingenuità e sorride.
«Davvero? Ti piace?»
Ma si dà il caso che l'abituccio sembri rubata agli anni Sessanta: una lunga blusa bianca, lavorata a maglia, con un paio di balze in pizzo come orlo per la gonna.
«No. Nonna Papera rivuole indietro i suoi centrini».
«Amico, tu quando sei diventato un fashionista?» interviene Sam.
«Non è mai successo» decreta Jane. Sorseggia il suo tè. «Allora, avete nuova meta?»
«Minneapolis» sillaba Sam, lanciando un'occhiata strana alla volta del fratello.
«Notizie da Harrison Ford?»
«No» risponde Dean. «Ma abbiamo notizia di due cuori strappati, nel giro di sei mesi, in quella città». [1]
«Scenario incantevole».
Dean raccoglie dal tavolino uno dei libri.
«Questo è...»
«Uno dei suoi diari» lo anticipa Jane. «Erano tutti nascosti e tenuti sotto chiave nella scatola con il grosso lucchetto. Ho dovuto usare un martello».
«Ma hai davvero intenzione di tenere tutta la sua roba?» chiede Sam. Con un vago cenno del capo, indica alle proprie spalle.
Si riferisce alla camera degli ospiti — dove, stivato con minuziosa cura in una decina di scatoloni, c'è quanto era conservato nella stanza in cima alla libreria.
Dal letto d'ospedale, Jane ha chiesto a Sam e a Dean il favore di tornare lassù e svuotare ogni cassetto e ogni vano. Ne è uscito un bottino degno di un museo dedicato all'Ottocento: cofanetti pieni di gioielli, abiti e cappellini, giocattoli e libri. I diari si sono rivelati una lussureggiante forte di informazioni. Jane ha scoperto che C.B.W. erano le iniziali di Crystal Blanche Wells: l'identità assunta dalla Yuki-onna al suo arrivo negli Stati Uniti. Ha letto che la bambina nacque in Inghilterra nel 1858, figlia di un tale signor Haydon di Londra. Era umana e fu la tubercolosi a portarsela via. Ma la scoperta più inaspettata è stata sulla capacità della Yuki-onna di mutare i dettagli del proprio aspetto fisico: non un dono innato della sua razza ma l'effetto di un incantesimo, perché più di ogni altra cosa la donna delle nevi desiderava poter vivere tra gli esseri umani e non nascosta nelle foreste, come quelle che diario definiva 'sorelle'.
«Li metterò in un deposito» spiega Jane. «Ma non voglio che vadano perduti». Anche se è impegnata a fissare il bordo smussato della tazza, la ragazza avverte su di sé lo sguardo poco convinto dei due cacciatori. «Sentite, sembra assurdo... alla luce del fatto che abbia tentato di ammazzarmi... ma non ci riesco a pensare a lei come a un mostro. Non era cattiva. Anzi, sono sicura che a modo suo... un modo poco sano, certo... mi volesse bene sul serio».
«Jane, non si uccidono le persone alle quali si vuole bene» fa notare Sam.
«E chiederle di sacrificare la sua vita per la mia non è un richiesta da poco» insiste Jane. «Quel diario... risale al periodo in cui ha avuto la bambina. C'è la cronaca di tutta la sua sofferenza del vedere la figlia ammalarsi e morire. Dicono che non ci sia dolore peggiore di quello di un genitore che perde un figlio. Immaginate come dev'essere stato convivere con quel dolore per centoquarantasette anni? Non mi stupisce che alla fine sia...»
«Diventata pazza?» suggerisce Sam.
«Non era pazza. Credo solo che... qualcosa, sotto la superficie della normalità, fosse andato in pezzi».
Dean e Sam continuano a sembrarle perplessi.
«È davvero così inconcepibile, per voi due, avere pietà di qualcuno anche se non è umano?»
È Dean a rispondere. Lo fa senza guardare né Jane né il fratello.
«No» afferma. E mette giù il diario.
Jane osserva il profilo del cacciatore, incerta sul reale significato da dare a quella risposta. E al modo in cui è stata pronunciata.
Poi, il breve silenzio viene rotto dal secco toc della tazza di tè che la ragazza poggia sul tavolino. Si strofina le mani sulle gambe, prima di alzarsi in piedi e annunciare: «Be', ho qualcosa per voi».
I bassi tacchi degli stivaletti marroni fanno un discreto fracasso, prima sul parquet, poi sul linoleum della cucina e poi di nuovo sul parquet, quando Jane si ripresenta in soggiorno con una scatola per alimenti tra le mani. Stende le braccia e la porge a Dean. «Per il viaggio. Sfornata un'ora fa» cinguetta. «Visto che la prima volta che sei entrato in questa casa, c'è mancato poco così che non sbavassi sull'altra torta...»
Dean solleva il coperchio: il profumo di torta di mele è inconfondibile e il sorriso del cacciatore più eloquente di qualsiasi parola.
Jane arriccia il naso in una smorfietta.
«Consideratelo anche un grazie in più per avermi... be', salvato la vita. Alla fine, mi sono davvero comportata come la protagonista stupida di un film dell'orrore».

* * *

In fondo al vialetto, è tempo di salutarsi.
Jane, sollevandosi in punta di piedi, abbraccia Sam. Lui le accarezza la schiena e lei stringe le dita sottili sulla stoffa marrone della giacca del cacciatore, mentre respira profumo di dopobarba misto a un odore che ricorda quello della pelle dei sedili della vecchia Impala.
Dean li ha osservati in silenzio. Ora, davanti a lui, Jane è costretta a dissimulare l'improvvisa titubanza con un sorriso sghembo. 
«Niente abbraccio per me, Nancy?» sogghigna amabilmente il cacciatore.
Jane sbuffa in silenzio e alza gli occhi al cielo.
Poi, si fa più vicina, quanto basta per posagli una mano una guancia e un asciutto bacio sull'altra.
Dean deve accontentarsi e sale in auto, mentre Sam, un attimo prima di seguirlo, si rivolge a Jane.
«Ehi, un'ultima cosa: cos'era quella storia della regola ventidue?»
Jane se la ride.
«Non avete mai visto Zombieland? Sono le regole per sopravvivere in un mondo post-apocalisse zombie. Non-così-sorprendentemente utili anche nel nostro, di mondo. La regola ventidue è: conosci sempre la tua via d'uscita. Voi due siete la regola otto».
«Vale a dire?» chiede Dean, dal finestrino abbassato.
«Trovati un compagno con le palle». [2]
Entrambi i fratelli sbuffano un mezzo sorriso. Sam prende posto accanto a Dean e Dean afferra il volante con entrambe le mani.
«Sta lontana dai guai, Nancy Drew».
Con quell'ultima frase, il motore scoppietta e i fratelli Winchester se ne vanno.
Jane resta sul vialetto, fin quando l'automobile non scompare dalla sua visuale.
Adesso, Wakefield Terrace — le sue bianche case, le sue zucche sui portici e i suoi alberi dalle fronde dorate — è quanto di più tranquillo e ordinario si possa desiderare.
Jane stringe le braccia al petto e cerca con le dita la metallica solidità del ciondolo a forma di gufo. 
È il momento di tornare a fingere che il mondo sia un posto dove niente sfugge alle leggi del naturale.





FINE










______________________________________________________________

[1] Il dialogo è basato sulla scena iniziale dell'episodio 8x03 quando, nel marcato all'aperto, Dean - vincendo le resistenze di Sam che preferirebbe mettersi sulle tracce di Kevin - trova notizie sul prossimo caso da risolvere. Non ricordo se nella scena viene indicato dove si trovino i Winchester, ma potremmo fingere u.u che il mercato si trovasse proprio dalle parti di Mansfield. E che quindi la conversazione sia avvenuta proprio poco prima che Sam e Dean si separino da Jane.
[2] "Get a kickass partner" nel film del 2009.


______________________________________________________________

Inutili chiacchiere
Note finali

A chiunque mi abbia seguita fino all'ultima parola o solo saltuariamente o capiterà da queste parti in futuro: grazie! And let me hug you!




Io  mi commuovo per aver portato a termine qualcosa nella vita una storia. Un giorno, una mia versione del futuro tornerà a leggere questa fan fiction e la decreterà una vergogna da riscrivere da capo a piedi, ma per ora ho fatto del mio meglio. Non sono una scrittrice di professione e nemmeno una sceneggiatrice per la tv, volevo solo provare e divertirmi. Spero che a qualcuno il personaggio di Jane sia piaciuto, almeno un filino. Da parte mia, mi garbava l'idea di far interagire Sam e Dean con un personaggio femminile, e positivo, che fosse nelle corde dello show, ma magari leggermente diverso da quelli che ci hanno proposto in tutti questi anni gli autori. Jane è lontana dallo sterotipo della cacciatrice, di una Xena senza macchia e senza paura, ma non è prettamente e soltanto la damsel in distress di turno. Sotto questo aspetto, credo sia simile a Charlie, anche se in quanto a carattere temo che i due personaggi siano agli antipodi. Che poi Jane si ficchi comunque da sola nei guai e qualcuno la debba tirare fuori all'ultimo minuto, be', quelle sono esperienze di vita. Nessuno nasce eroe, a mio parere. A proposito di eroismi vari: prego e scongiuro di essermi  tenuta discretamente alla larga dai cliché alla Mary-Sue. Ma ora colgo l'occasione per annunciare che, poiché nessuno mi ha ancora invitato a dedicare il mio tempo libero ad altre attività, i fratelli Winchester non riusciranno ad arrivare sani e salvi alla fine dell'ottava stagione senza incappare di nuovo in Jane durante un secondo episodio. Da qui la mia scelta di lasciare aperte alcuni punti secondari della trama della fanficion. Gettate le basi con un primo incontro, sfrutterò il nuovo racconto per far evolvere il personaggio e il rapporto con Sam e Dean. E non si sa mai, da qualche parte potrebbe persino esserci spazio per una sorta di risvolto più o meno romantico.
Per ora, un saluto a tutti dalla vostra tazzina di tè!

◕‿◕
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2363302