La piccola libreria degli orrori di _Blanca_ (/viewuser.php?uid=593279)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Parte prima ***
Capitolo 3: *** Parte seconda ***
Capitolo 4: *** Parte terza ***
Capitolo 5: *** Parte quarta ***
Capitolo 6: *** Parte quinta ***
Capitolo 7: *** Parte sesta ***
Capitolo 8: *** Parte settima ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
part 1
Storia
scritta senza scopo di lucro. I personaggi di Supernatural non mi
appartengono, ma sono proprietà della CW e dei loro rispettivi
autori. Città, strade, etc. nominati nella storia sono tutti
luoghi realmente esistenti.
Titolo: La piccola libreria degli orrori.
Personaggi principali: Dean, Sam, Jane (OC).
Collocazione temporale: la fan
fiction è un episodio fittizio da inserire tra il II e il III
episodio dell'ottava stagione e che non altera in nessun modo l'arco
narrativo originale.
Beta: myself (sob).
Capitolo: 01/09.
N/A: Seguo e amo Supernatural
da anni, ma sono nuova delle fan fiction in questo fandom. Un OC
è sempre una scelta rischiosa, lo so. Tanto più (mi
sembra doveroso precisarlo fin da subito) che Jane è una donna,
umana fino al midollo, sprovvista di brevetto da cacciatrice e giacche
di pelle. Il banner è opera mia, ma le immagini sono pescate sul
web e appartengono ai rispettivi proprietari. Ultimo e ancora meno
importante: la storia, a cominciare proprio dal titolo,
brulicherà di citazioni a film e opere, perché sono una
che si diverte con poco. Detto ciò, ringrazio in anticipo e di
cuore chiunque avrà la pazienza di leggere (◡‿◡✿)
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Prologo
Mansfield, Pennsylvania.
Nel retro della libreria, l’orologio segna le sette e
trentacinque minuti esatti. Gli scaffali sono in balia del caos:
scatole, scatoline e scatoloni, involucri di plastica trasparente,
plichi di documenti, raccoglitori di cartone. Sul ripiano vicino alla
finestra, un piccolo televisore bianco, con due grosse manopole,
ricorda che gli anni Ottanta sono esistiti davvero. Il televisore
è acceso. Il mezzobusto del telegiornale locale sta ripetendo la
notizia del giorno.
«La polizia è ancora sulle tracce dell’uomo che, tre
ore fa, ha rapinato una gioielleria di Williamsport ferendo in modo
grave il proprietario del negozio e un cliente. L’intervento
tempestivo di due poliziotti ha impedito all’uomo, già
noto alle forze dell’ordine per precedenti di traffico di droga,
di fuggire con la refurt—».
Jane spegne il televisore e sfila una grossa scatola dal ripiano
sottostante. Lo schermo nero riflette l'immagine di una ragazza molto
alta, con capelli color carota lunghi fin oltre le spalle, divisi in
una perfetta scriminatura centrale. Indossa una camicetta bianca, un
gufetto di bronzo come ciondolo e si muove con la scioltezza e la
rapidità di chi è ben abituato a lavorare in quel
posticino angusto, odoroso di lucido per legno e di inchiostro. Jane
appoggia la scatola sul tavolo, strappa la striscia di nastro adesivo e
solleva le due ali di cartone, ritrovandosi sotto al naso copie su
copie di un romanzo dal titolo: Il dolce bacio delle tenebre. Fresco di
stampa. Storia di una giornalista alle prime armi che si innamora
perdutamente e immancabilmente del centenario vampiro di turno.
L’immagine in copertina è così simile alla
locandina di Via col vento, in versione dark, che a Jane viene da
chiedersi chi e come sia riuscito a pubblicarla senza beccarsi
un'accusa di plagio.
«Jane, pensavo fossi già andata a casa».
È la voce gentile della signora Sternwood. Con il suo cardigan
color pesca e la sua collana di perle, la padrona del negozio è
comparsa silenziosamente sulla porta: è una donna di quasi
settanta anni, molto minuta e con dei capelli biondi, tinti, tagliati
corti. Gli occhi azzurri non hanno ancora preso la sfumatura opaca
della vecchiaia e Jane sa — perché l'ha vista in una
fotografia — che la signora Sternwood da giovane è stata
una gran bellezza, con un fascino alla Lauren Bacall, qualcosa che le
rughe e il tempo si sono inevitabilmente portati via.
Jane appoggia le lunghe mani affusolate sui bordi dello scatolone.
«Sistemo questi e vado». Non fa mai nulla per dissimulare
il suo marcato e pulito accento inglese.
«Tesoro, ogni mattina arrivi qui in anticipo e tutte le sere
rimani oltre l'orario del tuo turno». La signora Sternwood va
verso il tavolo e si ferma di fianco a Jane — che la supera in
altezza di tutta la testa e anche qualcosa di più. «Non
hai un fidanzato che si lamenta perché passi troppo tempo chiusa
qui dentro e troppo poco tempo con lui?»
Jane arriccia il naso e sbuffa un sorriso a labbra serrate. Non
è timidezza e nemmeno disagio. È l’espressione di
chi vuole scacciare con garbo un argomento noioso.
«Lo sa che non ho nessun fidanzato».
La signora Sternwood le sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Be', dovresti trovartene uno».
«Non è che ne senta particolarmente il bisogno. Se proprio
devo scegliere, preferisco di gran lunga i libri» butta lì
Jane e, di riflesso alla sua ammissione, abbassa lo sguardo sulla
scatola. Inarca un sopracciglio. «Ma magari non questi libri.
Dobbiamo proprio venderla certa roba?»
«È quello che la gente compra di questi tempi, cara. E
possono restare nella scatola fino a domani mattina. Su, va a casa, ci
penso io a chiudere il negozio».
E Jane obbedisce. Recupera giacca, borsa e sciarpa dall'appendiabiti a
muro. Quando ha finito di chiudere la doppia fila di bottoni, la stoffa
marrone della giacca lascia scoperti appena dieci centimetri della sua
gonnella nera a pieghe, cosparsa di una fitta fantasia floreale. Jane
sfila i capelli da sotto il colletto, drappeggia per bene la sciarpa
attorno alla gola e si sistema la borsa in spalla.
«A domani, signora Sternwood».
«A domani, cara».
* * *
La libreria — che in tutto conta due piccole sale — ha un
aspetto molto ordinato, al contrario del retro. Non c’è un
solo volume che non sia al posto giusto nella sezione giusta. Sopra al
bancone della cassa, non c’è un solo volantino
pubblicitario che sporga di un solo millimetro fuori dal proprio mazzo.
Eppure, nonostante tutta la pulizia e l'ordine, Jane, fin dal suo primo
giorno di lavoro, ha avuto la sgradevole impressione che nel negozio
aleggi qualcosa di tetro e soffocante. Forse è per via del legno
scuro e lucido degli scaffali, spaventosamente simile a quello di un
feretro. O forse è colpa di tutti quei soprammobili kitsch che
la signora Sternwood ci tiene ad avere lì. Vecchie lampade in
stile liberty e spettrali animaletti di vetro soffiato. Un carosello
che non gira mai e un carillon perennemente muto. Due bambole di
porcellana che si tengono per mano e un ritratto di donna: una pallida
sconosciuta dai capelli neri, chiusa in una blusa bianca dal colletto
alto, che scruta il negozio con uno sguardo serio e malinconico.
Con il tempo, però, Jane ha semplicemente imparato a non dare
peso a quella sensazione e ormai tutto nella piccola libreria —
dallo scricchiolio leggero delle assi di legno del pavimento, passando
per le decorazioni floreali della vecchia tappezzeria, fino al trillo
limpido del campanello sopra alla porta, che suona anche questa sera
non appena la ragazza esce dal negozio — le è diventato
piacevolmente familiare.
* * *
Alla luce degli eleganti lampioni in ferro battuto, la strada appare
deserta. Jane getta un'ultima occhiata all'esterno della libreria: il
negozio occupa il pian terreno di un edificio a tre piani, con la
facciata coperta di mattoni rossi disposti a spina di pesce. Ce ne sono
tanti di edifici così nel centro di Mansfield: pittoresche
costruzioni vittoriane, tirate su durante il diciannovesimo secolo,
tutte portici, colonnine e torrette. Sopra all'architrave della porta,
in una calligrafia fin troppo piena di riccioli e onde si leggono le
parole 'Sternwood Book Shop'. Ancora più in alto, le finestre
degli altri due piani sono buie. Lo sono sempre. Le stanze, là
sopra, sono disabitate.
Jane nasconde le mani nelle tasche e s'incammina svelta verso la
fermata dell’autobus, a due traverse di distanza. Il leggero
impattare dei suoi stivali neri sul liscio marciapiede è l'unico
suono udibile... fin quando un'automobile non sbuca dal fondo della
via. La vettura scivola veloce sull’asfalto, anticipata dal
fascio di luce dei fanali. Svolta all'incrocio e sparisce in un batter
d'occhio dalla visuale di Jane — che è di nuovo sola,
mentre passa davanti a un vicolo tra due edifici: uno spazio senza
illuminazione largo quel poco che basta per farci stare due bidoni
della spazzatura.
Ed è ora che qualcosa l'agguanta per un braccio e la trascina nel buio.
Jane non riesce nemmeno ad urlare. Prima lo strattone, poi l’urto
doloroso della sua schiena contro il muro, infine una mano premuta
sulla bocca e sul naso quasi le impedisce di respirare.
«Se ti agiti, ti sparo subito».
Una voce maschile ed affannata è tutto quello che Jane riesce a
cogliere del suo aggressore: un uomo grosso, ben più alto di
lei, con il cappuccio di una felpa tirato sul capo — e che le sta
puntando una pistola alla tempia, mentre la tiene bloccata contro il
muro, usando tutto il peso del proprio corpo. Jane ha istintivamente
stretto entrambe le mani attorno al polso dell'uomo, ma non osa
muoversi.
«Ecco cosa facciamo adesso» ansima l’uomo.
«Torniamo in quel negozietto dal quale ti ho vista uscire, va
bene? Tu cammini vicino a me. Piano e in silenzio. Se provi a scappare,
se provi ad urlare…» Spinge con forza la bocca della
pistola contro la tempia della ragazza. «Intesi?»
Jane muove la testa in un cenno di assenso appena percepibile.
Con un altro strattone, sono di nuovo sul marciapiede.
Jane fa come che le è stato detto. Cammina, senza aprir bocca e
senza opporre resistenza. Ha i lineamenti immobilizzati in
un'espressione vuota, da automa, ma le brucia le fronte e le sudano le
mani. Sta accadendo tutto così in fretta che, per un misero
attimo, ha l'impressione di essere nel pieno di brutto sogno ad occhi
aperti — mentre è sull’autobus, diretta a casa, come
ogni sera. A ricordarle che è tutto reale c'è la
stretta ferrea dell'uomo sul proprio braccio, appena sopra la gomito, e
la pistola premuta contro i reni.
* * *
La signora Sternwood non ha ancora sistemato l’incasso della
giornata. È davanti al bancone e sta raddrizzando un cartellino
che ricorda ai clienti i vantaggi di munirsi di una carta-soci. Quando
sente lo scampanellio della porta e vede la sua commessa rientrare,
accompagnata da uno sconosciuto incappucciato, ha una attimo di
sorpresa — che muta all’istante in terrore, quando
l’uomo mostra la pistola.
«Stai ferma lì!»
La signora Sternwood si è appena coperta la bocca con le mani.
Jane la vede guardare verso la telecamera di video sorveglianza, sopra
alla porta d'ingresso. Ed è ora che un improvviso fiotto di
rabbia scuote la ragazza dal torpore dello spavento: gran coraggio ci
vuole a sbraitare contro una povera vecchia quando si è un uomo
grande, grosso ed armato.
«Non puntarle la pistola contro».
Jane si stupisce del tono della sua voce, quasi fosse stata un'altra
donna a parlare. Non ha biascicato un'umida supplica da vittima e non
ha ringhiato come un animale in trappola. Ha dato un ordine, fermo e
deciso. Le sue parole ovviamente non sortiscono nessunissimo effetto
sul rapinatore, che intima a lei di stare zitta e alla signora
Sternwood di svuotare la cassa e mettere i soldi sul bancone. Ma,
anziché obbedire, la signora Sternwood scosta le mani dalla
bocca per sussurrare: «Oh, mio dio, ma io so chi sei. Sei quello
di cui parlano in televisione. Sei quello che ha rapinato la
gioielleria…»
Jane si volta di scatto.
L’uomo ha ancora il cappuccio sulla testa, ma qui,
all’interno del negozio perfettamente illuminato, niente gli
nasconde il profilo: labbra grosse, naso largo, fronte sporgente. La
signora Sternwood potrebbe avere ragione. Somiglia all'uomo nelle foto
segnaletiche mostrate nei notiziari.
«I soldi!» abbaia il rapinatore, agitando la pistola verso
la signora Sternwood, e ora stringe con tanta forza il braccio di Jane
che la ragazza non riesce a dissimulare una smorfia di dolore.
«V-va bene! Va bene! Ma lascia andare la ragazza, per favore.
Falla uscire» supplica l'anziana donna. È sull'orlo delle
lacrime.
Il rapinatore ha uno strano scatto: trema e ride piano. E Jane si
chiede se, oltre ad essere un criminale, non sia anche uno squilibrato.
«Oh, no, no. Lo so che mi stanno alle calcagna. Lei viene con me. Lei mi serve».
Come ostaggio.
Jane lo capisce. E deve averlo capito anche la signora Sternwood
— che a quelle parole diventa più pallida delle bambole di
porcellana, sul ripiano alle sue spalle.
E poi accade qualcosa che costringe perfino il rapinatore a distrarsi
dai suoi intenti: la luce del lampadario sfrigola e trema. Subito dopo,
di colpo, il negozio piomba nel buio. Resta solo il chiarore dei
lampioni della strada a disegnare le sagome dei mobili. Il rapinatore
non lascia la presa dal braccio di Jane. Impreca, la strattona verso di
sé, ma poi tutti restano immobili, confusi. La porta è
chiusa, le finestre sono chiuse, eppure sembra che qualcuno abbia
appeno aperto un passaggio sull’Antartide.
Fa freddissimo.
Così freddo che ogni respiro dei presenti si condensa in una nuvoletta di vapore.
Nel giro di un istante, Jane il respiro se lo sente morire in gola. Si
è resa conto con orrore di star vivendo un deja-vù e
questo la terrorizza più di qualsiasi criminale armato. Non ha
il tempo di dire nulla. Sente la presa del rapinatore allentarsi fino a
lasciarla andare completamente. Poi un tonfo e la luce torna,
all'improvviso come se n'è andata.
La signora Sternwood urla e Jane trasale.
Il rapinatore è crollato sul pavimento. Immobile, riverso su un
fianco, ha la pistola tra le dita, ora bluastre. Le palpebre sono
rimaste spalancate, le labbra violacee sono socchiuse, il petto
è immobile. Qualcosa ricopre i suoi vestiti e la sua pelle:
minuscole scaglie di ghiaccio.
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Capitolo 2 *** Parte prima ***
part 1
Capitolo: 02/09
Avvertimento: l'inizio del
capitolo contiene i leggeri spoiler sull'ottava stagione citati
nell'introduzione. Nulla di troppo rovinoso comunque.
N/A. Grazie a chi ha letto il prologo e a chi ha messo la storia tra le seguite. Significa davvero molto per me! ♥
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Parte prima
Contea di Tioga, Pennsylvania.
Dopo una notte limpida, il primo mattino è stato accolto dalla
foschia. L'Impala, con la sua lucida e nera carrozzeria, riposa nel
parcheggio di una sperduta stazione di servizio e Dean Winchester,
seduto sul cofano, sta spazzolando via una colazione a base di una
solitaria fetta di torta preconfezionata. Sam, accanto a lui, legge un
quotidiano che riporta la data odierna. Lo ha comprato dentro la
stazione di servizio — dopo aver adocchiato uno dei titoli in
prima pagina e mentre Dean meditava a modo suo la scelta della
colazione.
Una scelta di cui il maggiore dei Winchester si sta pentendo: ha la
netta impressione che la scatola di plastica trasparente abbia
trasferito al dolce un che di insipido e granelloso, un retrogusto
così sgradevole che neppure il suo poco fine palato,
anestetizzato da fiumi di birra e alcolici, riesce ad ignorare. A dirla
tutta, sospetta che la torta sia scaduta. Da anni.
Oppure che a rovinargli il pasto sia la frustrazione per essere stati
depistati di nuovo da Kevin. Sono arrancati fino nel nord della
Pennsylvania correndo dietro a una falsa traccia ed eccoli ancora una
volta al punto di partenza.
Sam respira pesantemente, a bocca chiusa. E quando Dean lo vede
aggrottare la fronte in quel suo modo particolare, rivolgendo l'interno
delle sopracciglia verso l'alto, sa già cosa chiedere.
«Trovato roba per noi?»
«Ieri a Williamsport è stata rapinata una gioilleria. Il
ladro, Donny Allen, è scappato via a mani vuote. Si è
nascosto in un'altra città, ha tentato di rapinare un altro
negozio... ed è morto».
Dean riesce nell'impresa di masticare l'ultimissimo boccone di torta,
buttarlo giù e commentare la notizia. Tutto contemporaneamente.
«Si chiama karma».
«"Dalle prime analisi del medico legale sul corpo dell'uomo, la
causa del decesso sembra essere ipotermia. Un'ipotesi che pur
sopportata dai fatti, date le circostanze della morte, la polizia ha
dichiarato letteralmente impossibile"».
Dean rifila a Sam un'occhiata di assonnata attesa. E ci vuole una buona
manciata di attimi prima che Sam, alzando gli occhi dal giornale, se ne
accorga.
«Ipotermia significa assideramento».
«Lo so cosa significa. Sto aspettando i particolari. E di capire perché dovrebbe essere roba per noi».
«Perché stando a quanto dicono i due testimoni, l'uomo
è morto mentre stava tentando di rapinare il negozio. È
morto all'interno del negozio. Non in una cella frigorifera o in fondo
a un crepaccio. Era in una...» Sam torna a scorrere le parole
dell'articolo «...piccola libreria. Nel centro della
città».
Dean riassume il proprio parere in un verso a metà strada tra un
sbuffo e uno suono gutturale che annuncia ufficialmente l'inizio della
digestione.
«Dov'è successo?» chiede.
«Mansfield. A un'ora di macchina da qui».
Come traccia per un nuovo caso è molto vaga, ma ora che sono a
corto di indizi che conducano a Kevin, Dean sarebbe felice di non dover
passare un'altra notte a dormire in macchina. In più:
«...magari lì hanno torte che non facciano così
schifo».
Dieci minuti tardi, le ruote dell'Impala girano veloci sull'asfalto
nero come la pece, segnato da una linea gialla. L'auto macina le miglia
ma la foschia non accenna a diradarsi, nè sulla strada nè
tra la cupa distesa di boschi che la fiancheggia.
* * *
Mansfield, Pennsylvania.
Sam Winchester, nei panni dell'agente Smith, si lascia alle spalle le
porte dell'obitorio e imbocca un grigio corridoio impregnato dell'odore
di disinfettante. Ha appena parlato con un medico legale — un
quarantenne quasi calvo affetto da un principio di balbuzia — e
ha visto il cadavere di Donny Allen. Le parole del medico non sono
state molto diverse da quelle nell'articolo di giornale: a conti fatti,
non c'è spiegazione scientifica al caso dell'uomo morto per
assideramento in tempi record e a temperatura ambiente. Sam si è
perfino sentito domandare se l'FBI non si stia interessando al caso per
il sospetto di una nuova arma batteriologica, perché Allen non
soffriva di nessuna di quelle malattie che potrebbero portare un corpo
umano a un improvviso abbassamento della temperatura e non esiste droga
o veleno in grado di ridurre una persona a un stato di ipotermia di
grado quattro.
Come si sia potuto formare del ghiaccio sul corpo del rapinatore, poi, è un mistero.
Lungo il corridoio, Sam incrocia un infermiere che spinge una barella con sopra un sacco per cadaveri. Pieno.
In quello stesso momento, il suo cellulare inizia a squillare. È Dean.
«Allora?» chiede la voce di suo fratello, dall'altro capo del telefono.
A giudicare dal sordo ronzio di sottofondo, Dean deve essere in macchina.
«I medici brancolano nel buio» risponde Sam, allentandosi
il nodo della cravatta blu. «Ma Allen è morto per
assideramento: su questo non ci sono dubbi. E, a parte il ghiaccio, non
c'è altro sul suo corpo. Niente ferite. Niente segni...
sospetti. Tu cosa sei riuscito a sapere dalla polizia?».
«Che Donny Allen era un gran figlio di puttana. Vendeva droga, si
è beccato due denunce per stupro ed è stato accusato di
tentato omicidio».
«E riguardo alla rapina di ieri sera?»
«A quell'ora il negozio era già chiuso ai clienti, ma la
padrona e la commessa erano ancora lì. Quando la polizia
è arrivata, le due donne hanno detto che il negozio è
rimasto senza luce per qualche secondo. Hanno sentito la temperatura
nella stanza farsi di colpo fredda e poi l'uomo è stramazzato a
terra. La ripresa della telecamera di sicurezza conferma la
scena».
Il cigolio delle ruote della barella non si sente più. Sam si
ferma e si sposta di un passo verso la parete, tenendo d'occhio le
scale in fondo al corridoio.
«Okay. Freddo. Allora, siamo sulle tracce di un fantasma?»
«Probabile. Sul video non compare nessuna sagoma. Nessuna ombra.
Ma si vede chiaramente un'interferenza nella registrazione, proprio un
secondo prima che l'uomo tiri le cuoia. L'immagine traballa e
c'è una specie di... linea grigia... che l'attraversa».
«E le due donne?»
«Terrorizzate, ma illese. A proposito, la padrona del negozio,
una certa Virginia Sternwood, è stata portata in ospedale ieri
sera. Ha avuto un malore dopo l'arrivo della polizia. È ancora
ricoverata lì. Va a fare due chiacchiere con la nonnina, io ho
l'indirizzo della commessa».
* * *
Dean chiude la chiamata, getta il cellulare sul sedile del passeggero e
afferra il volante con entrambe le mani. Lascia che l'Impala percorra
la strada a velocità ridotta, mentre tiene d'occhio la fila di
piccole villette su entrambi i lati della strada. La foschia se ne
è andata, ma il tempo è rimasto sereno per poco e
Mansfield adesso è sotto una compatta cupola di nubi grigie.
Nonostatante sia quasi mezzogiorno di una giornata di fine ottobre,
tutto appare livido e spento, come in pieno inverno. A prima vista,
sembra che a Wakefield Terrace — un quartiere residenziale dove
le case sono tutte più o meno identiche — il massimo della
vivacità siano i ghigni storti delle zucche, sopra ai muretti e
ai gradini dei porticini, e lo svolazzo di foglie morte che il vento
solleva e ammucchia contro le grate dei tombini.
L'Impala inizia a rallentare. Accosta al marciapiede e si ferma. Dean
spegne il motore: è davanti a una casa con un unico piano. Come
le altre abitazioni, ha il tetto spiovente coperto di tegole scure ed
è rivestita di legno pitturato di bianco. Ma non c'è
nessun portico. Solo quattro gradini di pietra che collegano il
vialetto alla porta d'ingresso. Il numero civico è dipinto
sull'architrave: 2601.
Dean scende dall'auto, accompagnato dal lieve tonfo della portiera. Da
qualche parte, un cane uggiola. Il cacciatore percorre il vialetto,
dando una scrollata alla giacca del suo completo nero, sale i lisci
gradini e rifila alla porta tre rapidi ma vigorosi colpi.
Pochi attimi di silenzio.
Poi qualcuno fa scattare la serratura e la porta viene aperta in modo brusco.
Dean si ritrova faccia a faccia con una donna giovane e potenzialmente
carina, sebbene sfoggi un per niente sexy maglioncino color crema con
un colletto di trina nera. È la stessa ragazza che Dean ha visto
nella registrazione della rapina, ma è molto più alta di
quanto si aspettasse. E molto più... arancione.
Jane Leigh, a giudicare dalla mera espressione, non sembra sorpresa o
colpita dalla presenza dello sconosciuto in giacca e cravatta sul suo
pianerottolo e, prima che il cacciatore possa aprir bocca, pronuncia un
soave quanto perentorio: «No, grazie».
«No, grazie?» ripete Dean, senza capire.
«Aspirapolveri, opuscoli religiosi, enciclopedie. No, grazie, non
mi servono». La ragazza ha l'accento inglese più inglese
che Dean abbia mai sentito. Parla in fretta, con la meccanica e precisa
gentilezza di una hostess. «E se è un giornalista anche
lei, lo ripeto: vada a piantonare l'ufficio dello sceriffo. Buona
giornata». Una lieve spintarella e la porta viene richiusa.
Per un paio di lunghi secondi, Dean fissa la laccata superficie marrone
a quindici centimentri dal proprio naso. Poi si riprende. Infila una
mano nella tasca interna della giacca, ne tira fuori il falso
distintivo da agente federale e bussa di nuovo.
Quando Jane compare sulla soglia, Dean non le dà il tempo di parlare.
«Sono l'agente Wesson. FBI. Sono qui per farle alcune domande, signorina Leigh».
Dovrebbe essere il turno della ragazza di restare basita, ma se lo
è allora raramente Dean ha visto concentrare, con tanta mirabile
sintesi, sorpresa e imbarazzo in un'unica vocale.
«Oh».
Jane Leigh sfiora con le dita il gingillo a forma di gufo che le pende
sul petto. Quindi apre per benino la porta e si schiarisce la voce.
«Chiedo scusa. Entri pure». Con un movimento del braccio,
invita l'uomo ad entrare: si accede direttamente al soggiorno. Non
appena Dean ha oltrepassato l'uscio, la ragazza richiude con calma la
porta.
Di colpo, si sente un trillo forte e prolungato.
«Ah, torno subito!» esclama Jane, piano. «Lei... si
accomodi, intanto». Accenna al divanetto, al centro della stanza,
e l'istante successivo sta già attraversando il soggiorno.
Dean, in nome delle vecchie e salutari abitudini, segue con lo sguardo
l'andatura della ragazza, per una rapida ricognizione del suo lato b e
delle gambe lunghe, gentilmente fasciate in un paio di aderenti
blue-jeans. Quando Jane sparisce oltre una delle due porte del
soggiorno, rimasto a corto di grazie femminili da ammirare, il
cacciatore deve ridursi ad osservare la stanza: rustici mobili di legno
chiaro e pareti tinteggiate di un azzurro opaco. Davanti al divano,
sopra al tavolinetto da caffè, ci sono una ciotola di ceramica,
piena di mele rosse e verdi, e un libro aperto — tanto grosso da
far sperare a Dean che ci sia da qualche parte un tavolo molto zoppo.
Non è l'unico libro nella stanza: gli scaffali vicino alla
finestra ne sono pieni. Consapevole della propria immagine riflessa
nello specchio rettangolare, sopra al camino dalla mensola bianca, Dean
fa un paio di passi verso il divano. Si è appena reso conto che
nella stanza è entrato un odore dolciastro, un profumo che
ricorda vagamente quello delle mele caramellate, quando esplode un
inconfondibile fracasso di piatti rotti.
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Capitolo 3 *** Parte seconda ***
part 1
Capitolo: 03/09
N/A. Da brava Befana quale
sono, oggi vi lascio un capitolo a base di mele, dolci e... poco chiari
comportamenti da parte di Jane. Perché è più
divertente scoprire un personaggio poco a poco (¬‿¬)
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Parte seconda
«Tutto a posto?»
Dean, raggiunta la porta socchiusa, si è ritrovato sulla soglia
di una cucina: i mobili sono pitturati di un opaco verde acqua e uno
degli sportelli della dispensa è aperto.
«...è solo caduto un piatto».
Jane, alzandosi in piedi, spunta da dietro l'isola al centro della
cucina. Ha raccolto tre grossi pezzi di coccio dal linoleum screziato e
borbotta qualcosa riguardo a mani fatte di ricotta e ore di sonno
perdute.
Ma di tutto ciò, ora come ora, Dean Winchester ne è consapevole in un modo molto vago.
Ha trovato la fonte del profumo. È lì. Sul piano
dell'isola, accanto a un guantone da forno, adagiata su un piatto
bianco: una torta. E Dean la guarda come guarderebbe una
spogliarellista sul bancone di un bar: un accenno di sorriso, un
sopracciglio inarcato, la mente che galoppa nell'immaginare le
meraviglia nascoste sotto la calda crosta dorata.
«Una torta».
Jane appoggia i cocci accanto al lavabo e chiude lo sportello. Sta
dando le spalle a Dean e sembra rispondere per pura forza d'inerzia.
«Concordo».
«Fatta in casa?»
«Be', questa è una casa».
«Cosa c'è dentro?»
«Che originale metodo investigativo».
Dean smette di fissare la torta, quando Jane si volta verso di lui.
La ragazza socchiude appena le palpebre struccate, arricciando il naso
per accompagnare un sorrisetto forzato e a stento percepibile.
«Non mi ritengo un'esperta, ma credo che possiamo eliminare la
mia torta dalla lista dei sospettati. Perché immagino che lei
sia qui per chiedermi della morte di Donny Allen, giusto?»
Senza aspettare una risposta, Jane circumnaviga metà del ripiano e torna in soggiorno.
Il cacciatore non può far altro che dimenticarsi — a
malincuore — della torta, seguire la padrona di casa e iniziare
con le domande.
«Sì, esatto... so che ha parlato con la polizia. Ho letto
i verbali della sua testimonianza e ho visionato la ripresa della
telecamera del negozio. Ma devo chiederle se c'è qualcosa che
pensa di aver tralasciato, ieri sera, durante la deposizione».
Dean si ferma nel mezzo del salotto e infila le mani nelle tasche dei
pantaloni. «Qualsiasi dettaglio. Qualsiasi piccola stranezza che
ha notato... prima o dopo la morte dell'uomo».
Jane sta raccogliendo il libro dal tavolinetto da caffè. Quando
lo chiude, l'uomo ne scorge la copertina: Storia dell'America del Nord.
«Tutto quello che ho visto e sentito l'ho detto alla
polizia» risponde la ragazza, mentre se ne va fino agli scaffali
e infila Storia dell'America del Nord nell'unico spazio libero, tra gli
altri volumi. «Non che sia molto, comunque. Le mie
capacità di osservazione non erano al loro meglio: tendo a
essere distratta quando mi minacciano con una pistola».
Dean ascolta, osserva e aggrotta la fronte.
Mentre guidava verso il 2601 di Wakefield Terrace, complice quanto
saputo dalla polizia, si sarebbe detto certo di cosa avrebbe trovato
una volta raggiunto l'indirizzo: una donna confusa e turbata. Come da
prassi. Ma Jane Leigh sembra tutto fuorché turbata. Dopo essere
stata testimone di una morte brutale ed inspiegabile e aver passato le
ore successive in una centrale di polizia, il mattino seguente prepara
torte e legge di libri di storia. Non si preoccupa di aver chiuso la
porta in faccia a un agente federale. Parla con calma e chiarezza,
infilando una parola dietro l'altra, senza esitazione. E tutto
ciò che dice, nonostante il tono serio e tranquillo, ha un
retrogusto ironico. Ma è un'ironia distratta, gentile. Nulla a
che fare con il sarcasmo offensivo, nervoso e scostante che si ci
potrebbe aspettare da un testimone impaurito e traumatizzato.
«Signorina Leigh, non per rigirare il dito nella piaga, ma...
meno di ventiquattro ore fa lei si è trovata in mezzo a una
rapina, ha rischiato di essere presa in ostaggio e ha visto un
uomo morire...».
«Già, l'ultima parte è stata piuttosto
inaspettata» commenta Jane, accomodandosi mollemente sul
bracciolo imbottito del divano. Incrocia le caviglie, poggia le mani
sulle ginocchia unite e guarda dal basso il cacciatore — che
ricambia lo sguardo. Se Dean ha letto bene i dati sul fascicolo, la
ragazza dovrebbe avere ventisei o ventisette anni al massimo, ma gli
sembra che ne dimostri di meno.
«Inaspettata?» ripete l'uomo, quasi sillabando la parola.
«Sbaglio... o... lei non è rimasta molto turbata da...
quello che è successo?»
«Sono inglese. Questo è il massimo del turbamento emotivo che riesco a mostrare».
Ironia, di nuovo. Dean ci impiega un paio di secondi per decidere di sorvolare il discorso.
«Da quanto tempo lavora nel negozio?»
«Sette mesi».
«In questi sette mesi avete mai avuto problemi come sbalzi di
corrente? O rumori nel muri? O punti del locale più freddi
altri?»
Jane ha abbassato lo sguardo. Sta giocherellando con un sottile
anellino dorato, a forma di freccia, attorno all'indice sinistro.
«No, nessun problema del genere».
«E sa se nel negozio, o negli edifici vicini, c'è mai stato un qualche caso di... morte violenta?»
«Non che io sappia. Abito qui solo da un anno ma da quel che ho
visto, fino a ieri sera, Mansfield ha avuto lo stesso tasso di
criminalità di Paperopoli. Quando la Banda Bassotti è in
vacanza». Jane chiude la bocca. Solleva lo sguardo e corruga le
sopracciglia. «Ma... perché lo chiede a me? L'FBI non
dovrebbe averle certe informazioni?»
Dean deglutisce e non batte ciglio.
«Ma certo». Sorride del suo sorrisetto più
impertinente. «E le sta vagliando in questo preciso momento il
mio collega».
* * *
Ma, in questo preciso momento, l'unica cosa che sta vagliando il minore
dei Winchester è la possibilità di non aver ottenuto una
sola informazione realmente utile.
È nella camera d'ospedale della signora Sternwood. L'anziana
donna è seduta accanto alla finestra e Sam è in piedi,
davanti a lei: il blocchetto per gli appunti tra le mani e il viso
atteggiato a un sorriso paziente e uno sguardo attento e cortese.
Pur ancora molto provata, la donna ha accettato senza problemi di
rispondere alle domande. Ha raccontato a Sam di aver aperto la libreria
trentadue anni fa esatti, subito dopo essere arrivata in
città. La costruzione è della fine dell'Ottocento,
ma lei ha sempre curato la manutenzione. Non ci sono mai stati problemi
con l'impianto elettrico o con il riscaldamento. Della storia
dell'edificio, sa soltanto che prima del proprio negozio c'era una
caffetteria e che i piani superiore facevano da abitazione per la
famiglia che la gestiva. In tutti questi anni in cui ha lavorato
lì, il quartiere non è mai stato turbato da nessun evento
degno di nota.
Anzi, da come ne parla la signora Sternwood, tutta Mansfield sembra essere un'oasi della tranquillità.
Il che, per il cacciatore, è una pessima notizia. Ma non ne fa una colpa alla signora Sternwood.
D'altra parte, la donna la colpa se la sta prendendo da sola. Deve aver
intuito, dall'espressione di Sam, che le risposte lasciano a desiderare.
«Mi dispiace di essere così poco utile» sospira.
Sam chiude il blocchetto per gli appunti e lo ripone nella tasca interna della giacca.
«Signora Sternwood, non si preoccupi. La ringrazio del suo tempo, è stata molto collaborativa».
«No, non lo sono. Sono solo una vecchia con un cuore che non regge più gli spaventi».
C'è qualcosa nel sorriso pacato e malinconico della signora
Sternwood, nel modo in cui tiene le mani in grembo — le dita
gracili sono intrecciate in una posa di composta stanchezza — e
nell'asettico e livido vuoto della stanza d'ospedale, che spinge Sam a
riflettere su un fatto: quella donna anziana, tanto fragile e gentile,
è anche tanto sola. Vale la pena restare qualche secondo in
più e farle almeno una domanda che non riguardi l'indagine.
«La dimetteranno presto?»
«Oggi, nel primo pomeriggio. I medici dicono che devo solo
tornare a casa, prendere le mie pillole e stare tranquilla».
«Verrà qualcuno a prenderla?»
«Sì, Jane».
«Jane... è... sua figlia?»
«Oh, no. Io non ho figli. Jane è solo la commessa che mi
da una mano con la libreria. Mio dio... » La donna si porta una
mano alla base del collo e sembra inghiottire a fatica. «Se solo
ripenso a cosa avrebbe potuto farle quell'orribile uomo... Jane
è una ragazza così buona. Pensi che ieri notte, appena la
polizia l'ha lasciata uscire... invece di andare a casa a riposare,
è venuta qui per vedere come stavo. È tornata a trovarmi
anche questa mattina. E quando se ne è andata, mi ha detto:
"Vado a prepararle una torta di mele. Per oggi pomeriggio". Gliel'ho
insegnata io, sa? La ricetta delle torta di mele...».
Di questo zuccheroso ritratto di sconosciuta, Sam non sa bene cosa farsene, ma non osa interrompere la signora Sternwood.
* * *
Jane è seduta al centro del divano. Sta fissando la ciotola di
frutta come se le mele fossero le responsabili di un terribile torto
nei suoi confronti. E non la smette di torturare l'anellino, facendolo
ruotare attorno al dito.
L'agente Wesson è andato via da cinque minuti. La ragazza lo ha
accompagnato alla porta, lo ha visto salire a bordo di un'automobile
nera e ripartire. Poi è rientrata in casa e non si è
più mossa dal soggiorno.
È convinta che se l'agente avesse avuto una minima idea di come
lei si senta davvero — del soffocante senso di vertigine che
tiene a bada da ore — non si sarebbe mai azzardato a fare un
commento del tipo “non è rimasta molto turbata”. Per
tutta la notte, Jane si è ripetuta ossessivamente sempre la
stessa preghiera. Non di nuovo. Ti prego. Non di nuovo. E ha fatto un
breve ma significativo elenco di tutti gli ottimi motivi per cui
farebbe bene a lasciare Mansfield. La ragazza distende la fronte,
ispira e poggia le mani sulle ginocchia.
«Otto» mormora.
* * *
Il Tioga Motel — un edificio rosso a un piano, a forma di L
— assicura camere a poco prezzo, ma non ha speranze di finire tra
le bellezze architettoniche di Mansfield. Oltretutto, rientra per un
soffio dentro i confini della città: il cartello che segna
l'uscita da Mansfield è a un miglio esatto dall'insegna del
motel, piantata all'inizio dello spiazzo sterrato del parcheggio. La
fredda luce al neon dell'insegna si perde in quella ancora più
fredda del pomeriggio. Sono le quattro passate, il cielo è
sempre plumbeo e l'aria è diventata umida, quasi dovesse
iniziare a piovere da un momento all'altro.
Jane, sul muretto di cemento che delimita un lato del parcheggio, sta
sperimentando la discutibile gioia dell'appostamento. Nascosta alla
bell'e meglio dal tronco di un albero rachitico, la ragazza può
tenere d'occhio sia il parcheggio — l'automobile nera dell'agente
Wesson è accanto a un pickup rosso e a due posti di distanza da
un furgoncino — sia la facciata del motel, con la sua ripetitiva
successione di porte bianche, ciascuna affiancata da una doppia
finestra.
Jane solleva il bavero della sua giacca marrone e si pente di non aver
indossato la sciarpa. Ormai è qui da venti minuti. Ha visto
uscire una coppietta, entrare un uomo con un cane, poi tornare la
coppietta. Ora inizia a sentire freddo e a prendere in seria
considerazione l'idea di andare a bussare a tutte le camere. Ma proprio
quando sta per scendere dal muretto, per sgranchirsi le gambe, una
delle porte si apre.
Ne escono due uomini. Indossano jeans e scure giacche sportive. A prima
vista, prestante è l'aggettivo più adatto per descriverli
entrambi. Uno ha i capelli lunghi e un viso sconosciuto. Ma l'altro, il
più basso dei due, è senza ombra di dubbio l'agente
Wesson.
Jane scivola giù, cercando di far il minimo rumore possibile nel
toccare il terreno con i suoi stivali neri, e se ne resta dietro
all'albero. Vede i due uomini raggiungere l'automobile nera. Salgono.
Sbattono le portiere. Poi il motore viene acceso e, di lì a
poco, con la ghiaia bianca che scricchiola sotto il peso delle ruote,
la macchina esce dal parcheggio.
* * *
Quindici: è il numero avvitato sulla porta della camera. Da
vicino, Jane può constatare quanto sia rovinata la vernice e
graffiato il legno sottostante.
La ragazza si guarda attorno. Non c'è nessuno nei paraggi. E
questo è un bene: sarebbe complicato spiegare perché stia
rovistando con tanta fretta nella propria borsa. E perché ne
abbia appena tirato fuori un grimaldello.
Scadente il motel. Scadenti le serrature.
Quando Jane sente gli ingranaggi scattare, sotto la spinta dell'uncino
di ferro, si permette un intimo moto di orgoglio e soddisfazione.
Apre la porta quel poco che basta per sbirciare all'interno e
controllare che la camera sia davvero vuota. Solo dopo essersi
assicurata di aver campo libero, la ragazza scivola dentro, curandosi
di lasciare la porta accostata. Non sa e non ha tempo di controllare se
la serratura sia diventata difettosa e non vuole correre il rischio di
restare chiusa nella camera.
La stanza non è né meglio né peggio di quanto si
aspettasse. Moquette sul pavimento, tappezzeria a strisce, due stampe
di brutte nature morte appese sopra ai due letti singoli. C'è un
tavolinetto sotto alla finestra, un minuscolo angolo cucina e una porta
a soffietto, aperta per metà, che lascia intravedere parte di un
bagno. Sui letti, ancora intatti, sono stati lasciati dei borsoni da
viaggio mentre, sopra al tavolo, c'è un computer portatile. Nel
cesto della spazzatura, Jane intravede due bottiglie di birra e delle
buste per panini, unte e accartocciate.
La ragazza mette via il grimaldello, accostandosi al tavolino. È
sul punto di sollevare lo schermo del portatile, ma poi ricorda a
sé stessa quanto la tecnologia — a cominciare dal suo
stesso telefono cellulare — ami remarle contro e opta per
qualcosa di meno virtuale: va al letto più vicino e apre la zip
del borsone. Sta bene attenta a non mettere in disordine il contenuto,
mentre alza gli angoli di due camicie di plaid piegate male. Ma ritira
di scatto le mani, come se avesse preso una scossa elettrica, quando,
sollevando un'altra camicia, vede spuntare una pistola.
«...okay, troviamo i documenti in fretta» mormora,
prendendo un piccolo respiro. «E togliamo subito le tende».
Fruga in una tasca laterale, ma non salta fuori nessun documento, solo una grossa, vecchia agenda con la copertina di pelle.
Jane stacca la chiusura, scorre le pagine e comprende di avere tra le
mani una sorta di diario: il proprietario l'ha riempito con disegni di
figure strane e spaventose, con simboli dall'aria esoterica, con
articoli di cronaca nera, ritagliati da giornali quotidiani. Alcuni
articoli portano la data di più di venti anni prima.
«Cerchi qualcosa in particolare?»
Jane sussulta così bruscamente che per poco il diario non le sfugge di mano.
Si gira piano, rallentata da un vago senso di panico.
I legittimi occupanti della camera sono sulla soglia. La stanno guardando male, ma non ci sono in giro fucili spianati.
Jane si schiarisce la voce. Rilassa le spalle e chiude il diario,
avvicinandoselo al petto. Chiama a raccolta tutta la sua
capacità di affabile chiacchiericcio.
«Oh, be', questo sarebbe il momento adatto a una frase brillante
per... convincervi che non sto facendo quello che sembra che io stia
facendo. Ma non riesco a pensare a niente del genere. Anche
perché sto facendo esattamente quello che sembra che io stia
facendo, quindi... oh, smettetela con quelle occhiatacce. Qui
siete voi quelli che vanno in giro a farsi passare per agenti federali.
Io ho solo forzato una serratura. Che, per la cronaca, era comunque una
serratura da quattro soldi».
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Capitolo 4 *** Parte terza ***
part 1
Capitolo: 04/08.
N/A. Ringrazio ancora una volta
e immensamente chiunque stia leggendo questa fan fiction. Chi l'ha
inserita tra le seguite, le ricordate e le preferite. Essendo la prima
volta che mi cimento in una storia del genere, usando uno stile di
scrittura "nuovo" per me (ispirato alle sceneggiature) che mi costa
parecchio impegno e infinite revisioni, veder salire il numero delle
visite mi fa battere il cuoricino. (◡‿◡) Per quanto riguardo il
capitolo, non c'è molto da dire se non che... it's ghost time!
______________________________________________________________
Parte terza
Chiusa
la porta e tolto di mezzo il diario, a Jane è stato ordinato di
mettersi seduta. La ragazza si sente come una taccheggiatrice colta in
flagrante, ma non lo dà a vedere: schiena contro la spalliera e
gambe accavallate, se ne sta con le mani sul tavolo e sfiora
distrattamente il suo anellino con il pollice. Ha ancora la borsa a
tracolla e non si è tolta la giacca. I due uomini, invece, le
giacche le hanno sfilate via: indossano entrambi camicie che lasciano
scoperti gli avambracci. Blu e aperta su una maglietta nera quella
dell'agente Wesson. Di plaid e abbottonata quella dell'uomo più
alto — che ha appena occupato la sedia dall'altro capo del corto
tavolino e le chiede, diretto: «Cosa stavi facendo nel
parcheggio?»
Jane sente dissolversi l'ultima briciola di illusione: non è furba come sperava.
«Ah. Mi avete vista».
«Se vuoi passare inosservata, cambia colore della tinta,
Ariel» commenta l'agente Wesson, in un tono a metà tra
l'annoiato e l'impaziente. Esattamente come lo è la sua
espressione. È in piedi, a braccia conserte, alle spalle
dall'altro.
«Questo è il mio colore naturale» specifica Jane,
con calma. È finita in una stanza con due grossi americani,
avvezzi a tenere le pistole persino tra i vestiti ancora chiusi in
valigia: il buon senso le suggerisce di evitare atteggiamenti
aggressivi. Alterna lo sguardo tra i due e stiracchia un sorriso
preoccupato. «A questo punto non è ovvio? Aspettavo che
lasciaste la camera per infilarmi qui dentro, frugare tra i vostri
affetti personali e trovare conferme alle mie supposizioni. E... ora
sto prendendo mentalmente nota di non usare mai più questa frase
all'inizio di una conversazione con degli sconosciuti. Comunque, mi
sembra di capire che voi due abbiate finto di allontanarvi dal motel
solo per vedere cosa avrei fatto io. Uno a zero per i coloni
ribelli».
«Che cosa vuoi?» domanda l'agente Wesson.
«E come ci hai trovato?» aggiunge l'altro.
Jane resta zitta per un paio di secondi, mordicchiandosi l'interno
della guancia, indecisa. Alla fine, drizza la schiena e stende le mani
sul tavolo. L'anello batte piano contro la plastica scura e rigata.
«Okay, ecco la versione corta della storia: qualche anno fa ho
avuto una... brutta avventura per colpa di... una creatura... poco
benevola... e molto poco viva». Ancora una volta, Jane quasi si
sorprende del tono spicciolo e tranquillo della propria voce, di come
riesca a non essere minimamente intaccata dall'angoscia che le suscita
anche il più flebile accenno al passato. «Un uomo mi ha
tirata fuori dai guai. Era un cacciatore di... mostri. Morale della
favola: ho imparato un paio di cosette sul modus operandi dei
cacciatori. E su quello dei fantasmi». Fa una piccola pausa.
«Lo so che Donny Allen è stato ucciso da un fantasma. E so
che anche voi lo sapete. Perché voi due siete cacciatori. Ho
iniziato a sospettarlo con le domande che mi ha fatto questa mattina
aperte virgolette l'agente Wesson chiuse virgolette. Poi, quando sono
andata a prendere la signora Sternwood all'ospedale, lei mi ha detto di
aver ricevuto la visita di un tale agente Smith: bel giovanotto, molto
alto, ha fatto un mucchio di domande sulla storia della libreria. Unire
i puntini è stato abbastanza facile: un'indagine su una morte
misteriosa più domande inusuali più nomi che puzzano di
falso [1] uguale cacciatori. E trovare un cacciatore non è poi
così difficile, se si ha un'idea del tipo di vita che conducono.
Mansfield è una città piccola. Una volta esclusi tutti
gli alloggi più costosi, i più centrali e i più
eleganti, rimangono solo due bed and breakfast e due motel. Per il
resto, sono stata fortunata: il Tioga era il primo della mia lista.
Quando ho visto quel vostro carro funebre nel parcheggio, ho
riconosciuto la targa e... eccoci tutti qui».
Un silenzio saturo di perplessità segue la sua arringa. Jane ha
il forte sospetto di aver parlato troppo. O troppo in fretta. O di aver
detto qualcosa che proprio non va. Altrimenti non riesce a spiegarsi
perché l'agente Wesson la stia guardando come se lei lo avesse
appena insultato: ha un'aria terribilmente seria.
L'altro cacciatore si limita a passarsi una mano dietro al collo, aggrottando la fronte.
«Quindi tu sei qui per...?».
«Be', aiuto. Io... conosco bene la libreria, voi conoscete bene i
fantasmi... suppongo. Spero. E se tutti sappiamo come stanno le cose,
possiamo...collaborare?» Jane fa salire lentamente le
sopracciglia sulla fronte, quasi la proposta colga di sorpresa anche
lei. «Capisco che la mia trovata di entrare qui di nascosto non
è un punto a mio favore, ma sono sincera: voglio solo liberare
la libreria dal fantasma che la infesta e tornare il prima possibile al
mio lavoro, e alla mia vita felicemente priva di presenze
spettrali».
C'è un lungo istante di silenzio.
Poi l'uomo con i capelli lunghi respira pesantemente.
«Okay, allora... io sono Sam. Questo è mio fratello Dean».
«E io sono Jane, ma questo lo sapete già» cinguetta
la ragazza. Unisce le mani, intrecciando le dita. «Passiamo alle
cose importanti: cosa avete scoperto?»
Si sta rivolgendo a Sam. Lui la guarda con la fronte aggrottata e le
sopracciglia alte, lasciando intuire che un approccio tanto diretto non
se lo aspettava.
Ma, dopo un attimo, Sam si abbandona con la schiena sulla spalliera.
«Siamo stati nella libreria» comincia. «Ma con una
squadra della scientifica tra i piedi, non abbiamo potuto controllare
ovunque e per ora non è saltato fuori di nulla. Ho fatto qualche
ricerca sui precedenti proprietari dell'edificio e... be', sembra che
in più di centottanta anni ci abbiamo vissuto solo persone...
ordinarie. Tutte tranquillamente morte di vecchiaia nei loro letti. E
ignoriamo alla grande da dove salti fuori la faccenda
dell'assideramento. Così... ora pensiamo che, se nella libreria
c'è un fantasma, potrebbe essere per via di qualche oggetto.
Magari u—».
«Uno dei pezzi di antiquariato» lo anticipa Jane.
«Sì, be', sembra l'ipotesi più probabile. Sono vecchi, devono essere appartenuti a molte persone».
«Di quale pezzo sospettate?»
«Non possiamo dirlo, questo è il problema. Non sappiamo nulla di quegli oggetti».
«Bah, io ho proposto di bruciarli tutti» commenta Dean.
«Io propongo di bruciare tutto il negozio» gli fa eco Jane,
con un candore che spera comunichi tutto il suo sarcasmo.
Sam li ignora entrambi.
«Jane, che tu sappia, sono tutti veri pezzi di antiquariato?»
«Temo di sì».
«Ma hai anche detto che, da quando lavori nella libreria, non
c'è mai stato nessun fenomeno di... be', sai a cosa mi
riferisco. Quale è stato l'ultimo oggetto che è stato
portato nel negozio? Più o meno... nelle ultime settimane?»
«Nessuno. C'erano già tutti quando sono arrivata io. E una
volta la signora Sternwood ha accennato al fatto di non comprarne
più da almeno tre anni».
Cala di nuovo un attimo di silenzio — questa volta pieno di un leggero senso di delusione.
Dean sbuffa. «Dobbiamo tornare nella libreria e cercare meglio» conclude.
«Allora è una fortuna che io abbia il pomeriggio libero e
una copia delle chiavi del negozio» se ne esce Jane, prontamente.
«Possiamo andare lì ora».
«Rallenta, Nancy Drew [2]» interviene Dean. «Se sai
qualcosa che pensi possa essere utile, parla. Ma noi non siamo qui per
farti fare il giro turistico della Piccola Libreria degli Orrori
[3]».
Ha usato un tono così aspro e secco che la ragazza può
pensare una cosa sola: Dean non la considera un possibile aiuto. La
vede come un contrattempo da togliere in fretta di mezzo. E questo la
svilisce. Non che le importi l'impressione che ha di lei un perfetto
sconosciuto, ma è dura sopportare in silenzio certi ricordi e
intanto sentirsi dire di prendere la faccenda come un gioco.
Jane rivolge a Dean un sorrisetto sottile e molto poco benevolo.
«Che piacere constatare che la spocchia è una
caratteristica comune, tra i cacciatori» afferma, serafica.
«Siete voi quelli in gamba, giusto? Andate in giro a far strage
di mostri e di buon gusto nel vestire, mentre il resto
dell'umanità è un patetico branco di pecore impaurite.
Be', indovinate un po'? Io non sono una cacciatrice... e nemmeno una
spia provetta... ma questo non significa che sia lenta e rincretinita
come la protagonista di un dannato film dell'orrore [4]».
«Ehi, sta a sentire, duchessa di Cambridge» sbotta Dean. «Sto solo dicendo che noi—».
«Non sappiamo con certezza cosa ci sia nella libreria»
interviene Sam, placido e ragionevole, quasi stesse sedando i capricci
di un bambino. «Dobbiamo essere prudenti».
«E io non vi sarò d'impiccio, lo prometto» ribatte
Jane, gentile ma risoluta. «Sto solo cercando di essere pratica:
abbiamo bisogno di trovare indizi e tre paio di occhi guardano meglio e
più in fretta di due. In più, io conosco la libreria come
le mie tasche. Se c'è qualcosa di... diverso, anche un
dettaglio, lo noterò subito. E per quanto riguarda la
prudenza...»
Abbassa il capo, infila una mano nella tasca anteriore della sua borsa.
Quello che poggia sul tavolo, una volta estratto dal fodero, è
un coltello da caccia: lungo quasi trenta centimetri — quindici
di lama in ferro puro — e con un manico di legno nero.
«Il mio primo incontro con un cacciatore non mi ha lasciato solo incubi come regalo» conclude.
A questo punto, Dean e Sam si scambiano una lunga occhiata che Jane non
riesce a decifrare fino in fondo, ma intuisce che dev'essere in corso
una sorta di muta consultazione.
Alla fine, Dean si strofina stancamente un occhio.
«Grandioso».
Dalla scontrosa rassegnazione della sua voce è chiaro che,
qualunque sia la decisione, non ci trova nulla né di grande
né di ioso. Punta un dito verso Jane. «Ma ti avverto:
mentre guido, non voglio sentirti fiatare. La tua voce, e il tuo
ridicolo accento, ce li ho già piantati in testa».
Jane scrolla le spalle, insieme soddisfatta e indifferente.
* * *
Tra poco farà buio e il cielo non accenna a schiarisi. Il
maggiore dei Winchester distoglie lo sguardo dalla strada per
controllare lo specchietto retrovisore: il profilo di Jane è
pallido e levigato nella smorta luce dell'abitacolo. La ragazza, seduta
dietro a Sam, sta guardando tranquilla fuori dal finestrino. Non ha
detto una parola da quando sono saliti in macchina — vale a dire
da meno di dieci minuti — e Dean non riesce a decidersi. Ha
davvero azzitto la saccente inglese? Oppure l'ostentata obbedienza di
Jane è una sottile forma presa in giro?
È certo di una sola cosa: Jane Leigh potrà anche essere
carina e saper preparare torte dall'aria deliziosa, ma nessuno —
nessuno! — ha il permesso di insultare Baby.
«Di' un po', Nancy Drew». Dean torna con gli occhi sulla
strada. «Dove l'hai imparato a scassinare serrature?»
«Internet» si sente rispondere, come se fosse la cosa più ovvia e scontata del mondo.
Sam, a testa bassa, sta controllando che il lettore EMF funzioni
correttamente. Ma, dopo un attimo di silenzio, Dean lo scorge con la
coda dell'occhio alzare a sua volta lo sguardo verso lo specchietto. E
lo sente dire: «C'è una cosa che non capisco, Jane. Se eri
così sicura di avere a che fare con dei cacciatori,
perché non sei semplicemente venuta a parlare con noi?»
«Perché ho giurato di non rivolgere a nessuno la domanda
"vi guadagnate da vivere andando a caccia di mostri?". Non dopo quella
volta in cui ho scambiato per cacciatori un gruppo di impiegati in
un'agenzia per modelle».
Sam e Dean si guardano veloci l'un l'altro, profondamente perplessi, e nessuno osa chiedere i dettagli.
* * *
Quando Jane ha fatto presente la possibilità di parcheggiare in
una stradina laterale, sulla quale si apre la porticciola del retro
della libreria, nessuno l'ha trovata una cattiva soluzione: più
si abbassano le probabilità di avere spettatori occasionali e
meglio è.
Spento il motore e scesi tutti dall'auto, Dean e Sam hanno aperto il
portabagagli dell'Impala. Jane li osserva, mentre tiene le mani
aggrappate all'incavo dei gomiti e cerca di ignorare un'inevitabile
principio di crampi allo stomaco.
«Viaggiate pesanti» constata la ragazza, senza intenzione
di lode o di accusa. Non si è sorpresa troppo nel vedere che il
portabagagli nasconde un secondo vano e che nel vano è stipato
un arsenale. Così come non ha bisogno di chiedere perché,
per una caccia al fantasma, i due stiano trafficando con armi da fuoco
e barattoli di sale.
«È un problema?» ribatte Dean. Sta controllando il
caricatore di una pistola, mentre Sam si sistema in spalla una sacca
grigia.
«No... immagino che nel vostro mestiere la diplomazia serva a
poco». Jane si scosta una ciocca di capelli rossi da davanti alla
bocca. Tira un po' vento e sta iniziando a piovere, ma le gocce sono
così rade che se ne fosse per i puntini neri sull'asfalto
sarebbe difficile accorgersene. «Personalmente, però, non
sono un'ammiratrice delle armi da fuoco. Troppo... violente, per i miei
gusti. E non mi pacciono le cose violente».
Fatta sparire la pistola dietro la schiena, Dean chiude il portabagagli
— un sordo tonfo riecheggia lungo la stretta stradina — e
si volta verso Jane.
«Ma se te vai in giro con un coltello da serial killer nella borsa» le fa presente.
«Ho detto armi da fuoco» sillaba la ragazza. «E non
vedo come usare un coltello per difendersi da qualcuno che è
morto e incorporeo possa essere considerato un atto violento».
* * *
Le forze dell'ordine hanno messo la libreria sotto sequestro, ma
l'avviso affisso sulla porta non viene degnato di uno sguardo: Jane
infila la chiave nella serratura, con una spinta fa ruotare la porta
sui cardini e cede il passo ai cacciatori. Non appena sono tutti dentro
— nella penombra, complici le ombre tra gli scaffali, il
retrobottega ha un aspetto ancora più disordinato del solito
— la ragazza fa scivolare le chiavi nella borsa, prende il primo
scatolone che le capita a tiro e lo sistema tra la porta e lo stipite.
Intanto, i due uomini si stanno spostando per la stanza. Dean, occupato
ad osservare l'asta del lettore EMF, urta lo spigolo del tavolo. La
scatola con le copie de Il dolce bacio delle tenebre è ancora
là sopra, nel punto esatto in cui l'ha lasciata Jane, la sera
precedente.
«Aspettate» sussurra la ragazza.
Aggira il tavolo e raggiunge il quadro elettrico.
Solleva un'intera fila di levette nere e in tutte le stanze della libreria si accende la luce.
* * *
Nei quindici minuti che seguono, non accade assolutamente nulla: il
lettore EMF non rileva anomalie, neppure vicino agli oggetti
d'antiquariato. Non si trovano punti freddi, nè tracce di zolfo.
Non si sentono rumori — a parte il lugubre cigolio delle assi del
pavimento e lo scrosciare della pioggia, che nel frattempo si è
fatta più intensa. L'acqua scorre nelle grondaie e le gocce
colpiscono i vetri delle finestre come manciate di sassolini.
Cacciatori e commessa cercano ovunque e guardano da vicino ogni singolo
soprammobile. Tirano fuori le torce dalla sacca grigia per guardare
sotto il bancone, frugano nelle scatole, aprono i cassetti, spostano i
libri dagli scaffali, li sfogliano — perché ormai Sam e
Dean sono arrivati al punto di considerare anche l'ipotesi che in giro
passa esserci qualcosa come un sacchetto per le maledizioni o un
simbolo demoniaco.
Ma mentre i due Winchester fanno il loro lavoro in silenzio e con
attenzione, Jane allenta il nodo allo stomaco con un attacco di
incontinenza verbale, e in un tono che andrebbe bene per una
conversazione all'ora del tè.
«...detto tra noi, io voglio bene alla signora Sternwood.
È la migliore datrice di lavoro che si potrebbe desiderare. E
adoro lavorare con i libri... ma ho sempre pensato che questo posto
avesse... un non so che di... spettrale».
Sono tutti nella sala con il bancone. Il lampadario getta una luce
giallognola e qualche granello di polvere galleggia nell'aria. Gli
occhi vitrei delle bambole di porcellana e quelli tristi della donna
del ritratto sembrano sorvegliare i tre intrusi.
«Anche adesso, non è più inquietante del solito...
se si evita di pensare troppo al fatto che un uomo è morto qui
dentro. Senza possibilità di difendersi, ucciso da
un'entità che si aggira per queste mura. A proposito, che devo
dire se vedo il fantasma? Tally-oh? [5] O forse è meglio
qualcosa di più americano». Jane picchietta la punta
dell'unghia sulla cupola una lampada: è di vetro verde e rosso e
la sorregge la stutuina di una flessuosa donnina di bronzo. La ragazza
solleva la lampada e ne guarda il fondo. «Oh, be', suppongo che
anche un grido inarticolato risulterebbe efficace. Classico e
d'impat—quella è chiusa a chiave».
Si è rivolta a Dean: lo vede, dall'altro capo della sala, mentre
abbassa la maniglia di una porta scura, incassata tra due scaffali.
E la porta, come predetto, non si apre.
«Ce l'hai, la chiave?» ribatte l'uomo.
«No» risponde Jane. Parla con Dean, ma sta pensando ad
altro. Riflette sulla stessa idea che l'ha tenuta impegnata, e
silenziosa, a bordo dell'Impala. «Non l'ho mai vista aperta
quella porta. Da sulle scale, per salire di sopra. Ma di sopra non
c'è nulla. Non è parte del negozio».
«Un ottimo motivo per andare a controllare» commenta Sam.
Ha tirato giù il ritratto di donna. Ne ha guardato il retro, ha
guardato la porzione di muro che teneva nascosta. E non ha trovato
nulla. Ora lascia il quadro a terra, appoggiato contro la parete, e
raggiunge il fratello.
Jane si decide.
«Ehi!»
«Cosa?» chiede Sam.
Dean, passato il lettore EMF a Sam e pronto a tirare una spallata alla porta, si blocca.
La ragazza cammina verso di loro, attraversando svelta la sala.
«Primo: non buttate giù la porta, per favore. Possiamo
usare il mio grimaldello. E secondo: stavo pensando a una cosa».
Si ferma davanti ai due. «Se, per un attimo, ammettiamo che il
fantasma non è legato all'edificio o a un oggetto che si trova
qui dentro... questo è un punto a favore della mia teoria».
«Quale teoria?» domanda Dean, con più scetticismo che sorpresa.
«Quella che ho elaborato mentre eravamo in macchina. Continuavo a
chiedermi: perché il fantasma ha ucciso solo Donny Allen?
Perché, se è sempre stato qui, non ha mai fatto del male
alla signora Sternwood? E perché proprio il ghiaccio?». La
ragazza si picchietta l'indice sulla tempia. «E poi mi sono
ricordata del marito della signora Sternwood. Be', avrei dovuto fare
subito il collegamento, ma il mio cervello gira a rilento quando non
dorm—».
Sam la interrompe.
«La signora Sternwood è sposata?»
«Con un uomo scomparso più di trenta anni fa».
«Morto?»
«Be', no... ufficialmente... non è morto. Quando dico
"scomparso" intendo in senso letterale. Prima di trasferirsi a
Mansfield, la signora Sternwood viveva con suo marito nel New
Hampshire. Una sera l'uomo uscì di casa con la sua auto e da
allora nessuno l'ha più visto. Non hanno mai ritrovato né
lui né la macchina. Ed era inverno. La città era sotto
una bufera di neve. Capite dove voglio arrivare? So che non possiamo
escludere al cento per cento l'ipotesi che il signor Sternwood abbia
passato gli ultimi decenni su un'isola dei Mari del Sud, insieme alle
sue tre giovani spose indigene, ma io credo sia semplicemente morto.
Forse è lui il fantasma. Forse ha seguito sua moglie e nel
momento in cui lei si è trovata in pericolo, è
intervenuto per proteggerla, uccidendo Allen nello stesso modo in cui
lui è stato ucciso: dal freddo».
Jane alterna lo sguardo tra i due fratelli, impaziente.
«Avanti, dite qualcosa: siete voi gli esperti. Io sto solo...
ipotizzando. È una cosa possibile o ho visto troppi episodi di
Ghost Whisperer?»
Jane vede Sam alzare lo sguardo al soffitto.
Dean è molto più diretto.
«Ma che cazzo, Jane! Non credi che tutto questo avresti dovuto dirlo subito?» sbotta.
Per tutta risposta, Jane mette su un broncetto.
«Mi hai detto che in macchina dovevo stare zitta».
E Dean, per tutta risposta, la guarda con l'aria di chi si sta palesemente trattenendo dal dare voce a un sentito insulto.
«Come si chiamava l'uomo?» riprende Sam, andando al sodo.
«Mmh, John... No... Jonathan. Jonathan Sternwood».
Con uno scoppiettio secco, tutti i lampadari si spengono.
Tra le mani di Sam, il lettore EMF emette un acuto crepitio ininterrotto e le spie rosse brillano.
Avvertimento superfluo: la temperatura nella sala si è abbassata ed è chiaro a tutti cosa sta succedendo.
Dean e Sam hanno estratto le pistole e Jane... non osa neppure respirare.
All'inizio, nessuno si muove di un passo e tutti si guardano attorno.
Il negozio è quasi completamente al buio. Gli scaffali e le pile
di libri hanno l'aspetto di tozze sagome nere e i fiori della
tappezzeria sono macchie scure, simili a grossi insetti deformi,
immobili sulle pareti.
Uno scricchiolio flebile, a mala pena udibile tra lo scrosciare dalle pioggia, attira la attenzione verso il bancone.
È il carosello di legno.
Sta girando. Da solo.
I pallidi cavallini ruotano, lenti.
Sempre più lenti.
Sempre lenti, fino a tornare di nuovo immobili.
Esplode un colpo improvviso. Gli scaffali appoggiati alla parete
vibrano. Jane, Sam e Dean si sono girati di scatto verso la porta
chiusa: è arrivato da lì il colpo.
E ne arriva un secondo.
E un terzo.
Sembra che qualcuno, dall'altra parte, stia cercando di buttar giù la porta.
I cacciatori indietreggiano e tengono le pistole puntate verso il legno scuro.
Jane, due passi dietro a loro, avverte una fitta di dolore al centro
del petto e si ricorda di star ancora trattenendo il fiato.
Il terzo colpo sembra essere l'ultimo, ma il lettore EMF non tace e nessuno smette di fissare la porta chiusa.
«Un fantasma della vecchia scuola» commenta Dean. Una
nuvoletta di vapore si dissolve davanti alle sue labbra. «Gli
piacciono i trucchetti classici».
Jane si sta sforzando di far entrare un po' di aria nei polmoni e le
parole di Dean le arrivano attraverso il battito ovattato del proprio
cuore. Se lo sente pulsare nelle orecchie.
Poi, e non saprà mai dire il motivo preciso, avverte l'impellente bisogno di guardare alle proprie spalle.
Senza dire nulla e con un solo passo — uno dei più
faticosi della sua esistenza — fa un cauto mezzo giro su
sé stessa.
Espira quella poca aria inghiottita un istante prima.
Tira fuori un filo di voce.
«Tally-oh».
______________________________________________________________
[1] La Smith & Wesson è una fabbrica
statunitense di armi leggere fondata nel 1852 da Horace Smith e Daniel
B. Wesson. (© Wikipedia)
[2] Nancy Drew è la protagonista femminile di una serie di
romanzi gialli per ragazzi pubblicata negli Stati Uniti d'America a
partire dagli anni trenta. Protagonista della serie è la giovane
e affascinante Nancy, investigatrice dilettante dai capelli rossi e dal
pronto intuito, coinvolta in una serie di vicende a sfondo giallo.
(© Wikipedia)
[3] Storpiatura del titolo del film, ispirato a un musical omonimo,
degli anni Ottanta: La piccola bottega degli orrori. È anche il
gioco di parole che dà il titolo alla fan fiction.
[4] La traduzione migliore che sono riuscita a trovare per
un'espressione molto british che poteva essere qualcosa come “a
bloody horror movie”. Ho tradotto il tipico
“Awesome!” di Dean con “Grandioso”. Lo so che
non è la traduzione letterale, ma era l'unica che mi suonava
bene. Non vedo Supernatural in lingua italiana da così tanto
tempo che non ho idea di come l'abbiamo adattata nel doppiaggio.
[5] La frase Tally-ho è un'espressione britannica usata nella
caccia alla volpe, urlata quando un cavaliere avvista la volpe. (©
Wikipedia)
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Capitolo 5 *** Parte quarta ***
part 1
Capitolo: 05/08.
N/A. tutte le volte, prima di
pubblicare, vengo sempre presa da un attacco di insicurezza acuta del
tipo "non è venuto come sperato" o "potevo farlo meglio". Non
sono soddisfatta nemmeno a questo giro però, nel complesso,
scrivere questa parte è stato divertente. Non mi resta che
incrociare le dita e sperare che non sia malaccio neppure da leggere.
Ormai siamo a uno dei punti cruciali trama e io, come sempre,
ringranzio tantissimo chiunque passi di qui.
______________________________________________________________
Parte quarta
È
una visione agghiacciante. Nella semioscurità, si è
materializzata una figura femminile, vestita di bianco. Dalla stoffa
dell'abito, di foggia antica, sembra levarsi una sorta di livido
chiarore e, per un attimo, Jane crede che la donna sia spaventosamente
alta. Poi capisce che è sospesa nell'aria, a più di metro
dal pavimento: i piedi nudi spuntano oltre l'orlo sdrucito della lunga
gonna. La scura e liscia matassa di capelli, che le nasconde parte del
viso, lambisce una vita troppo stretta e sottile per essere naturale.
Ed è l'intero corpo della donna ad essere in una posizione
innaturale: con le braccia lungo i fianchi, il capo reclinato e le
spalle curve, somiglia al cadavere di un impiccato appeso alla forca.
Fin quando, come strattonata da una mano invisibile, il fantasma non
raddrizza la testa. Ha gli occhi chiusi e la bocca spalancata, tanto
che la mandibola, sostenuta da un rigido colletto, sembra sul punto di
staccarsi.
Tutto accade in un batter d'occhio.
Jane sente qualcosa chiudersi attorno al suo polso. E non urla soltanto
perché è così spaventata da non avere più
fiato. Ma quel qualcosa è la mano di Sam: il cacciatore la sta
trascinando al riparo, dietro di sé.
Nello stesso momento, il fantasma solleva un braccio. I suoi movimenti
sono rigidi e rapidi, quasi fossero manovrati da fili invisibili. La
mano pallidissima stende un dito, lungo e ossuto come un ramoscello
secco.
E Sam, all'improvviso, cade a peso morto sul pavimento. E poiché
il ragazzo è grosso, alto e pesante, e ha ancora la mano sul
braccio di Jane, lei viene trascinata giù con lui e sbatte
dolorosamente le ginocchia contro le assi di legno.
Dean fa fuoco all'istante sul fantasma. Esplodono tre colpi di pistola
e la donna svanisce in un turbinio grigio, simile a nebbia, che si
disperde subito nell'aria.
La libreria è ancora senza luce, ma Jane — pur rallentata
dal dolore alle gambe e da un sano terrore — si rende subito
conto che non fa più freddo.
«Sam!»
Dean si precipita accanto a suo fratello, riveso su un fianco, e lo adagia sulla schiena.
Jane lo vede tastare il collo di Sam. «È..?» sussurra, senza riuscire ad arrivare alla fine della domanda.
«Vivo!» abbaia Dean. «Sam! Sammy!».
* * *
Silenzioso. Freddo. E bianco.
Sam non sarebbe in grado di dire se sia in piedi o sdraiato. Non è neppure sicuro di avere gli occhi aperti.
Eppure sa di trovarsi in un luogo silenzioso, freddo e bianco.
Neve, pensa.
Ma la neve c'è davvero? La sta vedendo? O la sta solo pensando?
A un tratto, si accorge di essersi sbagliato.
Non c'è silenzio. C'è una voce.
È la voce di Dean.
* * *
Sam apre gli occhi. Dopo un attimo di stordimento, riconosce il negozio
di libri, riconosce il suono della pioggia in strada, comprende di
essere steso sul duro pavimento di legno. Vede Dean, piegato su di lui,
e scorge Jane, inginocchiata lì accanto.
«Sam! Ehi, Sam, sei con noi?»
La voce di suo fratello è così intrisa di ansia da
suonare infuriata. Sam lo conosce bene quel tono. «S-sì...
sto bene...». Scosta bruscamente la mano di Dean dal proprio
viso. Strizza le palpebre e si mette seduto, tirando un ginocchio verso
il petto. «Che... diavolo è successo? Dov'è il
fantasma?»
Dean lo aiuta a rimettersi in piedi, facendolo aggrappare al suo
braccio. «Ho sparato. È scomparso. Per ora. Ma che
è successo a te?»
«Io... non lo so... ».
Sam passa entrambe le mani sul viso, per scacciare via l'ultimo
rimasuglio di intorpidimento, e raccoglie la pistola dal pavimento.
«A-addormentarsi... è una delle... fasi
dell'assideramento» mormora Jane, con un filo di voce. Sam vede
l'esile sagoma della ragazza rimettersi in piedi, muovendosi con fin
troppa lentezza e cautela. «Probabilmente, stava cercando di
farti fare la fine di Allen. E... okay, a questo punto è chiaro
che il fantasma non è Jonathan Sternwood».
«Oh. Grazie per averlo notato e condiviso con noi, Nancy» commenta Dean, sardonico.
Jane lo ignora. «Cosa... chi pensate che sia... quella... donna?» chiede.
A Sam la risposta appare così chiara da essere scontata. Deludente, quasi.
«Che ne dite di lei?».
Il suo sguardo scivola diritto verso il ritratto di donna.
Man a mano che scorrono i secondi, quella poca e livida luce che filtra
ancora dall'esterno si fa sempre più flebile e Sam deve
recuperare una torcia elettrica dalla sacca — rimasta sul
pavimento, insieme al lettore EMF.
Accesa la torcia, l'alone di luce lattiginosa guizza sul pavimento,
mentre tutti e tre attraversano velocemente la sala. Sam si accovaccia
davanti al quadro, piegandosi sulle ginocchia e appoggiando un
avambraccio sopra la gamba. Osserva il ritratto con molta più
attenzione di poco prima.
Alto, ad occhio e croce, un metro e mezzo e largo uno, è un
dipinto estremamente realistico. Le pennellate sono fitte, uniformi,
precise, indistinguibili l'una dall'altra. La donna nel ritratto
è molto giovane. E probabilmente anche molto bella, per i suoi
contemporanei. Ma per Sam la delicatezza dei lineamenti non compensa la
tristezza dei grandi occhi cerulei e la piega severa della piccola
bocca scarlatta. Il collo è chiuso in un alto colletto
irrigidito da stecche e l'ovale del viso, sottile e candido come neve,
è coronato da una vaporosa crocchia di capelli neri
— neri come il nastro che serra la vita e spezza il bianco
assoluto del morbido abito dalle maniche a sbuffo. Con la mano destra
adagiata sopra il manico di un ombrellino di stoffa scura, la donna
è raffigurata all'interno di una stanza dall'arredamento
elegante. Ed è seduta su di una sedia intagliata: si vede la
linea dolcemente ricurva di un sottile bracciolo, che termina in una
forma di foglia. Il pittore non ha lesinato su nessun dettaglio. Si
è preso anche la briga di riprodurre un quadro nel quadro:
appesa alla parete, sullo sfondo, c'è quella che — per
quanto ne sa Sam — dovrebbe essere una stampa giapponese. Il
resto dello sfondo, è occupato da una finestra aperta su di un
cielo limpidissimo e su uno scorcio di paesaggio cittadino: si vedono
palazzi rossi e tetti di case, comignoli fumanti, il profilo di una
torre molto alta.
Sam è costretto a studiareil quadro con lo scambio di battute, offerto dai due alle sua spalle, come sottofondo.
Jane sta mormorando: «Non posso crederci. L'ho avuta sotto gli
occhi tutti i giorni negli ultimi sette mesi... e non l'ho
riconosciuta».
Dean gongola e si cimenta nelle imitazioni.
«"Se c'è qualcosa di diverso, anche un dettaglio, lo noterò subito"».
«Il tuo finto accento inglese fa venire i brividi» .
«Ora sai cosa provo ogni volta che apri bocca, Nancy».
«Hai davvero intenzione di continuare a chiamarmi "Nancy"?»
«Mh, sì».
«Ma Nancy Drew non è nemmeno inglese».
Sam li interrompe.
«Jane, cosa sai di questo quadro?».
Il cacciatore avverte il tocco leggero della mano della ragazza, sopra
la propria spalla, mentre Jane si accovaccia accanto a lui. «So
solo che è uno dei primi pezzi che la signora Sternwood ha
acquistato». Jane fa scivolare i polpastrelli sulla tela. Ha la
mano ferma. E lo è anche la voce, adesso. «È un
olio. Non l'ho mai osservato da così vicino... Dov'è la
firma del pittore?»
«Non c'è» afferma Sam. «È un autoritratto».
«Come lo sai?»
Per tutta risposta, Sam passa la torcia a Jane, afferra i bordi del
quadro e lo gira. Quando Jane punta la luce sull'angolo destro del
retro della tela, pur sbiadita dal tempo, si legge chiaramente la
parola autoritratto tracciata in una calligrafia elegante.
«Okay. C'è scritto. Voltalo di nuovo, per favore».
Sam fa come le ha chiesto la ragazza e Jane lascia vagare la luce della
torcia in lungo e in largo sulla tela, scivolando anche sulla liscia
cornice di legno. «Qui!» Sta indicando l'ombrellino: tra
una piega della stoffa, aguzzando bene la vista, Sam scorge tre
lettere. Grigie, sottili, non più grandi dell'unghia di un
pollice.
C. B. W.
«Ehi, Shaggy e Daphne» interviene Dean. «Dobbiamo
dargli fuoco, non venderlo all'asta. Vado a prendere la tanica di
benzina».
«Non vorrete brucialo qui dentro?» esclama Jane.
Sam alza lo sguardo verso il soffitto.
«No. Di sopra».
«Oh. Giusto».
E dal tono spicciolo e dalla velocità della risposta, Sam comprende che Jane ha capito.
Dean, però, non sembra avere le idee altrettanto chiare.
«Di sopra... cosa?»
Con un'inaspettata sincronia, Sam e Jane prima si guardano l'un l'altra, poi si voltano verso Dean.
«Le stanza dei piani superiori erano abitazioni» inizia Sam.
«Chi ci viveva avrà pur avuto bisogno di scaldarsi» continua Jane.
«Accendendo fuochi».
«Dentro ai cam—».
Ma, con un gesto della mano e un'espressione seccata, Dean interrompe la trasmissione in stereofonia.
«Ehi, ho afferrato!»
* * *
In un attimo, Sam recupera la sacca e il lettore EMF. E tutti si armano
di torce elettriche. Poi, quando Dean rompe la serratura della porta
con un calcio, Jane li delizia con un impreco, borbottato a bassa voce,
contro la categoria dei cacciatori, il genere maschile e l'America
tutta.
La porta dà accesso a un androne piuttosto stretto. A
un'estremità una porta chiusa, una prima rampa di scale
dall'altra. Jane spiega che l'androne doveva essere l'ingresso per gli
inquilini, ma è chiaro che sono passati anni dall'ultima volta
in cui qualcuno ci ha messo piede. L'odore di chiuso è quasi
soffocante. Una sottile e uniforme patina di polvere ricopre pavimento,
gradini e corrimano. Centimetro per centimetro. Tra le assi della
balaustra, al passaggio del chiarore della torcia, Sam vede un tozzo
ragno nero rintanarsi in un angolo della ragnatela.
Le scale vengono salite in fretta, quasi di corsa, e sul pianerottolo
del primo piano, al quarto tentativo, Dean riesce a far cedere una
vecchia porta sotto la spinta della sua spalla. La nuvola di polvere
che si solleva fa pizzicare le narici di Sam. Hanno appena messo piede
in una stanza completamente vuota. A giudicare dalle dimensioni e dalla
finestra a bovindo, Sam intuisce che deve essere stata un modesto
salottino. Le pareti sono in parte coperte di pannelli di legno e in
parte dai remasugli di una vecchia tappezzeria. Ovunque la torcia
illumini, compare l'ossessivo ripetersi dello stesso motivo sbiadito:
un uccellino dalle penne marroni e il petto rosso, sopra a un
ramoscello in fiore. Ma i tre comprendono, con sollievo, di essere
arrivati alla fine della loro ricerca.
C'è un caminetto annerito, a ridosso del muro.
* * *
«Ci sta mettendo troppo».
Con la presa ben salda sulla pistola, non troppo tranquillo, Sam tiene
d'occhio la porta sfondata. Il cacciatore è in piedi, al centro
della sala vuota, e del cerchio di sale che è stato tracciato
sul polveroso pavimento.
«Non è sceso neppure da un minuto».
Sam si volta verso Jane.
La ragazza se ne sta in ginocchio, davanti al caminetto. E al quadro.
Con una mano regge la torcia, per illuminare la tela, con l'altra
scatta fotografie con il telefono cellulare.
«Esattamente, tu che cosa stai facendo?» sospira Sam.
«Restituisco uno scopo a questa inutile scatolina» risponde Jane.
Sam aggrotta la fronte.
«Il tuo telefono ha qualcosa che non va?» butta lì.
«Fa tutto quello per cui è stato progettato, tranne farmi
fare una telefonata. Ironico, eh? Sono tre giorni che, ogni volta che
ci provo, non sento la voce di chi chiamo, anche se loro sentono me.
Magari il fatto di farlo cadere di continuo centra qualcosa ma, detto
fra noi, sono convinta che la tecnologia stia portando avanti una
crociata contro me. E... ventidue foto dovrebbero bastare».
Jane si alza in piedi. Ha ancora lo sguardo incollato allo schermo del
telefono, mentre con una mano scrolla via la polvere dalla stoffa dei
jeans.
Sam è perplesso. La osserva e chiede: «Vuoi tenerti delle foto ricordo?»
Jane gli restitusce lo sguardo e sbuffa un sorriso pacato, mentre fa sparire il cellulare nella borsa.
«Tu e tuo fratello siete cacciatori. Per voi magari è
sufficiente togliere di mezzo il fantasma, ma io voglio sapere chi
è stata questa donna. Chi era da viva. Come è vissuta.
Come è morta. E se scopro che cosa le è successo, magari
capirò perché ha ucciso Allen e attaccato noi. Cercare e
scoprire: anche questo è il lavoro dello storico».
Ora è Sam ad abbozzare un sorriso.
«Pensavo fossi una commessa».
«Che sarebbe diventata ufficialmente una storica, se si fosse
degnata di completare i suoi esami. Ero anche brava, nei miei corsi.
Ma, alla fine, sai com'è?». Jane traccia con le dita il
contorno di una decorazione in rilievo, al centro esatto della mensola
di marmo. IV. Iniziali, forse. Un numero romano, più
probabilmente. «Ho realizzato di essere troppo sveglia per
elemosinare l'approvazione di un branco di professori
incartapecoriti».
Sam sorride ancora, ma non può far a meno di aggrottare le
fronte. Gli sembra che Jane abbia un modo di fare così calmo e
dolcemente risoluto che è difficile capire dove finisce l'ironia
e dove inizia il discorso serio. E, a proposito di calma: «I
fantasmi non ti spaventano granché, eh?» commenta Sam,
dopo un attimo di silenzio.
Jane batte due volte le palpebre, in un accenno di onesta sorpresa.
«Felice di dare questa impressione. Quando è apparso il
fantasma, ho perso sei o sette anni di vita, ma... okay, è
consolante sapere di sembrare a mio agio».
Prima che Sam possa dire altro, Dean compare sulla soglia. Ha una
piccola tanica arancione con sé e Jane lo accoglie con un
leggiadro: «Com'era il Texas?»
«Perché ci hai messo tanto?» s'informa Sam.
«Avrei fatto prima se qualcuno non avesse chiuso la porta del retrobottega a chiave».
Dean rivolge un'occhiata a Jane, mentre svita in fretta il coperchio nero della tanica. Inizia a gettare la benzina sul quadro.
La ragazza cade dalle nuvole.
«Io non ho chiuso la porta a chiave!» esclama. «Seguo sempre la regola ventidue».
Sam e Dean la guardano, confusi.
Jane agita una mano, come a dire di sorvolare sull'ultima frase. «Ma non ho chiuso la porta» ribadisce.
«Be', qualcuno l'ha fatto» ripete Dean.
Tutti rivolgono lo sguardo al quadro e nessuno dice altro.
Dean infila una mano nella tasca della giacca e ne tira fuori una
scatola di fiammiferi. C'è il secco sfregamento e il bagliore
aranciato della fiammella.
Il cacciatore getta il fiammifero nel camino e il vecchio dipinto viene
subito avvolto dalle fiamme. Il fuoco consuma la tela, divora i colori,
deforma implacabile il viso della donna.
* * *
Nella sua difficile e penosa esistenza, sono poche le cose dalle quali
Dean Winchester riesce a trarre un po' di sollievo, sia pure
superficiale e momentaneo. Nello scarno elenco sono compresi i casi
risolti in meno di un giorno e gli hamburger di manzo e bacon grondanti
cheedar fuso. Oggi, Dean ha goduto di entrambi.
Appoggia il bicchiere, appena svuotato dell'ultimo sorso di birra
scura, accanto al piatto vuoto. Si umetta le labbra e osserva attorno a
sè, in cerca di una certa cameriera — una bionda
straordinariamente somigliante a Scarlett Johansson — che per due
volte ha incrociato il suo sguardo. La vede davanti al bancone, sta
sistemando tre bottiglie su di un vassoio. Il Red Creek è un
tranquillo locale al pian terreno di un edificio storico: ha un
pavimento in cotto, piccoli e tondi tavoli di legno e locandine di
vecchi film appesi alle pareti.
«...allora, sempre decisa a scoprire l'identità del nostro
fantasma?» sta chiedendo Sam. Avambracci incrociati sul tavolo,
si è rivolto a Jane, che è intenta a scorrere le foto sul
proprio telefono.
«Voglio almeno sapere il suo nome. Sarà anche diventata
uno spaventoso fantasma omicida ma... sapete, in un certo senso, mi ha
salvata da Allen».
«Senza una data o un posto da cui partire, sarà un lavoro difficile».
«Difficile non è impossibile» puntualizza la
ragazza. Poi, con un'ostentata indifferenza e dopo una pausa ad
effetto, continua: «Io credo che C. B. W. sia nata attorno al
1890. Che abbia vissuto nel Maryland. A Baltimora, per la precisione. E
che abbia dipinto l'autoritratto nel 1911, quand'era ancora
nubile».
A quelle parole, Dean aggrotta la fronte e smette di contemplare il
fondoschiena della cameriera. Si gira verso i suoi commensali e fissa
Jane. Nella luce calda del locale, i capelli arancioni della ragazza
hanno chiari riflessi dorati. Gli occhi, leggermente a mandorla e di
quel colore incerto tra l'ambra e il verde scuro, mostrano un velo
d'entusiasmo di cui Dean non riesce a capacitarsi. Ma, poiché lo
stomaco pieno ha migliorato il suo umore, l'uomo è giunto alla
conclusione che Jane Leigh sia una a posto — anche se parla
troppo e con un accento strano ed è incapace di riconoscere una
bella auto. E, comunque, si ritrova un viso grazioso e delle gran belle
gambe. Ragion per cui, Dean non nega a sé stesso che, se mai
dovesse capitare l'occasione di apprezzare quel che Jane nasconde sotto
al ridicolo maglioncino con la trina, lui sarebbe lieto di coglierla.
Per ora, si accontenta dell'appagamento che gli suscita punzecchiarla a parole.
«Ti stai inventando tutto di sana pianta?»
Jane lo guarda senza fare una piega — a parte quella sorridente
della bocca — e appoggia la schiena alla spalliera della sedia.
«Il vestito. L'acconciatura. Il semplice bracciolo della sedia.
Perfino la stampa giapponese sulla parete. Tutto dichiara "primi venti
anni del ventesimo secolo" e "sono una donna ricca". E questo lo
capirebbe chiunque. Sarà chiaro perfino a voi due,
immagino».
Per qualche motivo, Dean intuisce di essere in diritto di sentirsi offeso.
Jane continua: «Una donna di quella classe sociale, se fosse
stata una madre, una moglie o anche solo promessa in matrimonio a
qualcuno, avrebbe inserito nel proprio autoritratto un dettaglio che lo
rendesse chiaro. Ma non c'è nulla. Nemmeno un banale anello al
dito. Considerando che nel primo decennio del Novecento, l'età
media per un matrimonio per le donne era di ventuno anni, e
considerando che la donna nel ritratto è giovane, molto giovane,
questo porta la sua data di nascita dritta al 1890. Anno più,
anno meno».
«Okay» la interrompe Dean. «Ma da dove hai tirato fuori il 1911? E perché proprio Baltimora?»
Jane fa scivolare l'indice sullo schermo del cellulare e allunga il telefono verso Dean.
«Quella è una foto del dettaglio del paesaggio, fuori dalla finestra della stanza. Che cosa vedi?»
Preso il telefono, Dean si ritrova a fissare un paesaggio in cui, da
principio, non nota nulla di particolare. È solo uno scorcio di
città. Una città come tante, dell'inizio del secolo
scorso. Poi focalizza l'attenzione sulla presenza della torre. E la
cosa strana è che si tratta di una torre medioevale, con tanto
di merlature e feritoie. È l'edificio più alto di
tutti, mostra il quadrante di un orologio e sorregge un qualcosa,
dalla forma vagamente cilindrica, sormontato da una corona.
«C'è... una torre medioevale?».
«Quattordicesimo secolo» specifica Jane.
«Jane, l'arte non è il mio campo» interviene Sam,
ironico. «Ma sono sicuro che a Baltimora non ci sia proprio
niente di medioevale».
«Esatto. Ecco perché quella torre è così
riconoscibile: è la Emerson Tower. Isaac Emerson era a capo di
una compagnia farmaceutica del Maryland diventata famosa, alla fine
dell'Ottocento, per aver messo in commercio un antiacido». Jane
fa una smorfia, arricciando il naso. «Immagino che ci fosse un
mucchio di gente in balia dei bruciori di stomaco all'epoca...
comunque, nel 1911, Emerson decide di regalare un monumento alla
città. Fa copiare il modello della torre dell'orologio di un
palazzo rinascimentale in Italia: il Palazzo Vecchio, a Firenze. E ci
mette in cima una gigantesca riproduzione di una bottiglia del suo
famoso antiacido. Credo che l'abbiano rimossa negli anni Trenta, per...
non ricordo quale motivo». Jane fa di nuovo quella sua smorfietta
di sufficienza. «Piegare l'arte al servizio del commercio: molto
americano e straordinariamente di cattivo gusto. Ma, in questo caso,
anche molto utile, perché rende la sagoma della torre
inconfondibile».
«Questo significa solo che il ritratto potrebbe essere stato
fatto in qualsiasi anno, a partire dal 1911» obbietta Sam.
Jane sembra trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo.
«Il vestito» sospira, alternando lo sguardo tra i due
fratelli. «C'è un'enorme differenza tra gli abiti dei
primi anni dieci anni del Novecento e dei cinque seguenti. Il 1911
è il solo anno in cui una donna, sopratutto una ricca, avrebbe
ancora potuto indossare quel tipo di vestito. Fidatevi di me: conosco
la moda».
Dean compie l'immane sforzo di non far commenti sulla trina del
maglione. Guarda Sam e lo vede sorridere a Jane: è un misto di
piacevole sorpresa e di apprezzamento. Il sorriso di un nerd che
incontra un suo pari, conclude Dean, tra sé e sé.
«Dove le prendi tutte queste nozioni?» domanda Sam.
«Leggo tanto. Tendo a memorizzare molto» risponde Jane che,
come se niente fosse, recupera la bottiglia di Coca-cola dal tavolo e
si porta la cannuccia alla bocca.
Dean, appoggiato il cellulare sul piano, lo spinge verso la ragazza.
«Sei inquietante» ci tiene a far presente, sebbene non sia affatto lo stesso aggettivo che gli ronza in testa.
* * *
Jane è in cucina. Con una tazza verde tra le mani e un piacevole
senso di sollievo che si espande dal petto, guarda fuori dalla
finestra, oltre la curva metallica del rubinetto.
È sera, i lampioni in strada sono accesi e la pioggia, adesso
leggera e silenziosa, lascia sul vetro segni sottili come aghi di pino.
Dean e Sam hanno avuto la premura di accompagnare Jane fino al vialetto
del 2601 di Wakefield Terrace. Una volta rientrata in casa, la ragazza
si è preparata un tè, ha caricato le foto del ritratto
sul portatile e fatto una telefonata alla signora Sternwood. Si
è informata sulla salute della signora e poi, con tutta la
nonchalance che è riuscita a tirar fuori, ha chiesto:
«Signora Sternwood, il quadro che tiene il negozio... sa, il
ritratto femminile... mi stavo chiedendo se ricorda dove l'ha
comprato?»
«Oh, buon Dio, che domanda. È passato così tanto
tempo». La voce della signora Sternwood le è sembrata
più sottile del solito, ma non meno gentile. «Vediamo...
se non sbaglio, lo comprai a un mercatino... davanti a una casa. Sai,
di quelli che si organizzano in giardino. Appena lo vidi, pensai subito
che quel ritratto fosse un'opera deliziosa».
Jane ha tenuto accostato il cordless all'orecchio con la spalla,
riempiendo il bollitore dell'acqua per il tè. Sforzandosi di non
pensare ai danni in negozio — il quadro sparito, due
serrature rotte, tre fori di proiettile nel muro — ha continuato:
«Ricorda l'indirizzo?»
«Jane, cara, ora pretendi l'impossibile» ha ridacchiato l'anziana. «Ma perché me lo chiedi?»
E Jane, stanca e colta alla sprovvista, si è tolta d'impiccio con un banale: «Curiosità».
Abbandonando la tazza vuota nel lavello, la ragazza guarda l'orologio
alla parete. Sono le dieci e quindici minuti. A questo punto, Jane
desidera solo due cose: una doccia calda e otto ore di sonno,
possibilmente scevro da incubi e donne spettrali. Transita in soggiorno
e recupera il telefono cellullare dalla mensola del caminetto. Nel
farlo, si sofferma ad osservare il proprio riflesso, nello specchio che
copre la cappa: le sembra di essere più pallida del solito, gli
occhi sono un po' gonfi, le labbra un po' screpolate. Si chiede se
abbia avuto quell'aspetto per tutto il giorno.
Al tavolo del Red Creek, c'è stato il tempo di raccontare di
essere nata in una cittadina di mare, Mablethorpe, sulla costa
orientale dell'Inghilterra. Di avere una sorella minore che vive ancora
lì con i suoi genitori. Di essere stata altre volte negli
States, prima del trasferimento in Pennsylvania, perché ha dei
parenti nel Maine. Per qualche motivo, Sam e Dean non hanno fatto
domande sul suo precedente incontro con un cacciatore — il che,
per Jane, è stato un sollievo. I due, dal canto loro, si sono
mostrati vaghi e riservati. Adesso Jane sa che il loro cognome è
Winchester. Che cacciano da anni. E che sono capitati da quelle parti
perché in cerca di una persona. Sull'identità della
persona o sul motivo della ricerca non hanno detto nulla. Jane ha
restituito il favore e si è trattenuta dal fare domande. Ora si
sta rigirando il telefono tra le mani: i Winchester le hanno lasciato
dei numeri di telefono e l'hanno avvertita che resteranno al Tioga per
uno o due giorni.
Senza alcun preavviso, un rumore violento — è il rumore
di qualcosa che va in frantumi — costringe Jane a voltarsi
di scatto.
«Oh, ma che...»
La fruttiera, sul tavolino da caffé, è andata in pezzi.
Le mele stanno rotolando lungo il tavolo e una, rossa, cade oltre il
bordo e rimbalza sopra... a un libro aperto, gettato sul pavimento.
Con un crescendo di confusione, Jane gira lentamente il capo verso la libreria.
C'è uno spazio vuoto sugli scaffali.
Prima che lo sguardo della ragazza possa saettare di nuovo verso il
libro sul pavimento, il mobile inizia a tremare, come nel mezzo di un
terremoto.
I libri crollano sul pavimento, uno dopo l'altro.
Il lampadario si spegne.
Jane resta al buio. In una stanza improvvisamente fredda.
Ed è così inorridita da non riuscire a muovere un solo muscolo.
Quel che sta accadendo è privo di senso. Non può succedere. Non in casa sua.
Nella mente della ragazza, la linea tra panico e lucidità è sottile come un capello.
Ma Jane si ci aggrappa, disperatamente.
È da sola adesso. Non può permettersi di essere codarda.
Pensa al coltello nella borsa, in camera da letto.
Troppo lontano.
Sale, allora.
Jane corre verso la porta della cucina. Urta gli attrezzi per il
caminetto. Li sente rovesciarsi sul pavimento ed è ormai a un
passo dalla soglia della cucina. Ma è costretta a fare un scatto
all'indietro: la porta si chiude, da sola, con uno schianto che fa
tremare stipiti e architrave.
Jane si getta sul pomello: è freddo come un pezzo di ghiaccio.
Tenta di girarlo. Lo scuote. Niente da fare. La serratura è
bloccata, la porta è chiusa.
E ora la ragazza riesce a pensare solo a una cosa: a costo di sfondare
una finestra, deve uscire di casa. Si gira e attraversa di nuovo la
stanza, di corsa. Ma l'attizzatoio di ferro finisce sotto il suo piede
e lei perde l'equilibrio. Incespica, si piega sul ginocchio destro e,
per non strillare, è costretta a piantarsi i denti nel labbro
inferiore. Al dolore al ginocchio, già ammaccato, si unisce
quello al palmo sinistro: per frenare la caduta, la ragazza ha steso le
braccia in avanti e la mano è finita sopra a uno dei cocci della
fruttiera. Jane avverte subito la vischiosa umidità del sangue
tra le dita, ma non perde tempo.
Scatta in piedi.
E adesso un urlo, rauco e strozzato, non riesce a trattenerlo.
Il fantasma è lì.
Davanti a lei. Con le palpebre pallide calate sugli occhi, con lo
stesso spaventoso aspetto, la stessa bocca orribilmente spalancata, la
spettrale figura scivola in avanti e solleva il braccio. E Jane, spinta
da un misto di terrore e di adrenalina, reagisce. L'attizzatoio
è a pochi centimetri dal suo piede. La ragazza si abbassa per
afferrare il ferro con entrambe le mani, torna in piedi e
contemporaneamente colpisce il fantasma.
È come colpire l'aria.
Il fantasma si ferma.
Ma non scompare.
Jane arretra di qualche passo, spalancando gli occhi.
«Oh, n-no...» rantola. «Che cosa...?»
Ed è solo adesso che la donna si dissolve nel turbine nebbioso.
Poi si sente uno scricchilio.
Jane ci mette un attimo di troppo per capire.
Non fa in tempo a spostarsi.
Come sotto il colpo di un martello, lo specchio sopra al camino esplode
e le schegge schizzano in avanti, con la velocità dei proiettili.
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Capitolo 6 *** Parte quinta ***
part 1
Capitolo: 05/08.
Avvertimenti: spoiler ottava stagione. Accennati, ma ci sono.
N/A: capitolo di svolta, che
considero anche il mio preferito. Non vi tedio oltre con le chiacchiere
e vi lascio alla lettura, ringrazio chiunque aprirà la pagina.
______________________________________________________________
Parte quinta
I
resti dello specchio, sul pavimento del soggiorno, riflettono il
chiarore delle torce elettriche in minuscoli luccichii bianchi. Sam
punta la propria torcia vicino al tavolino da caffé, nel punto
esatto in cui si trovava Jane, quando lo specchio è andato in
frantumi: uno spazio circolare, preciso come se fosse stato tracciato
con un compasso, largo poco meno di un metro e perfettamente pulito.
Nel buio, il cacciatore rivolge lo sguardo alla sagoma della ragazza:
è seduta sul divano. Dopo aver raccontato l'accaduto, è
scivolata in un pensoso silenzio post-spavento. A parte il taglio alla
mano destra, avvolta in un fazzoletto bianco, non ha nemmeno un
graffio. Per qualche ragione che non ha nulla di naturale, la pioggia
di vetri l'ha risparmiata.
«Immune al ferro» sta dicendo Dean, con un misto di
confusione e frustrazione che riassume lo stato d'animo comune. Getta
l'attizzatoio tra gli altri ferri del caminetto. I frammenti
scricchiolano sotto i suoi passi. «Può uscire dalla
libreria, bruciare il dipinto non è servito e... cosa dovrebbe
significare questo?».
Ha rivolto la luce della torcia verso la cappa del camino. Sam lo imita. Jane solleva il viso.
Lettere deformi, simili a chiazze di umidità, hanno macchiato la
parete, là dove era coperta dallo specchio. Formano una frase.
Breve, di senso compiuto e con il sapore di minaccia.
"La curiosità uccise il gatto".
* * *
Quasi un'ora più tardi, nella camera del Tioga, Sam strizza gli
occhi davanti alla cruda luce del portatile. Dean, all'altro capo del
tavolino, ha appena smesso di sfogliare il diario di John per spiare
fuori dalla finestra. Mentre scosta un lembo della tendina, di un
polveroso color cachi. «Jane deve essere ancora sveglia. La luce
nella sua stanza è accesa» afferma.
Sam non ribatte, assorto dall'elenco di nomi sul display. Si limita a
un secco mugugno a bocca chiusa: che Jane non riesca a prendere sonno,
dopo quel che è successo, gli appare comprensibile. Quando lui e
Dean le hanno detto che sarebbe stato più prudente passare la
notte al motel, lei non si è fatta pregare: infilato
l'indispensabile in uno zaino, ha preso una camera per sé,
nell'altra ala dell'edificio. Ha lasciato che tracciassero un cerchio
di sale attorno al letto e ha accettato di tenere una pistola carica
— dopo essersi fatta mostrare come mettere e togliere la sicura.
«Che ne pensi?» chiede Dean. La tendina ricade mollemente al proprio posto.
«Che il particolare del freddo ci ha portato sulla strada
sbagliata, fin dall'inizio. Sembra un fantasma, ma deve essere
qualcos—»
«Intendo di Jane. Cosa pensi di lei».
«Sembra intelligente».
Solo al rumore del diario che viene chiuso, solleva lo sguardo sul fratello.
Dean fa scattare le sopracciglia verso l'alto, insieme a un angolo
delle labbra. «Ehi, Sammy. Tu continua a cercare, io vado a
controllare Jane».
Sam è perfettamente conscio del significato di
quell'espressione, quando si parla di donne. Aggrotta la fronte,
indeciso se sorridere e restare perplesso. Opta per una via di mezzo.
«Ma fai sul serio, Dean?»
«Non scherzo mai su certe cose, lo sai».
«L'hai chiamata 'inquietante'» gli ricorda Sam.
«E stavo pensando 'sexy'».
«Che cos'hai, otto anni?»
«Sta zitto».
Dopo aver visto Dean trafugare due birre dal frigo e uscire gongolante,
Sam si passa una mano sugli occhi e torna a concentrarsi sul lavoro.
Ma non è facile.
Il vuoto silenzioso della camera e quella porta chiusa che lo divide, e allontana, da suo fratello aprono la strada ai ricordi.
Il sorriso di una donna dagli occhi nocciola. Un altro motel. Un'altra città. Un'altra vita.
* * *
Jane ha fatto una doccia calda e si è rivestita in fretta. Ora,
da come le batte ancora il cuore, è arrivata a sospettare
d'essere nel pieno di un leggero attacco di tachicardia. Aspetta che
passi, mentre se ne sta supina sul letto e fissa accigliata l'intonaco
ingrigito del soffitto, tenendo le mani sul ventre. La mancina è
fasciata con una garza pulita. La ragazza ha medicato il taglio da
sola, pescando dalla cassetta per il pronto soccorso che aveva in casa
— e che adesso è sul tavolino della camera.
La stanza è identica a quella dei Winchester. Stessi colori, stessa tappezzeria, stessa disposizione dei mobili.
Bussano alla porta.
«Chi è?»
«Sono io: Dean».
Jane si sforza di mettersi seduta, facendo perno sui gomiti. Incrocia
le lunghe gambe, poggiando entrambe le mani all'altezza delle caviglie,
sopra alla pelle nera degli stivali. Una semplice maglia color prugna,
tagliata da uno pudico scollo a barchetta, ha preso il posto del
maglione con la trina.
«Entra. È aperto».
E Dean entra: ha due birre tra le mani e indossa la sua giacca verde militare, slacciata sopra alla camicia blu.
«Niente chiave?» esordisce il cacciatore, richiudendo la porta.
Jane fa spallucce. «Le serrature non tengono fuori gli spiriti
dei morti. E in questo motel nemmeno i corpi dei vivi. Come ho
ampiamente dimostrato. Novità?»
«Nessuna. Sono solo venuto a vedere come... te la passi».
Dean si fa avanti, scavalca la striscia di sale sulla moquette e le
allunga una bottiglia. Jane dapprima esita. Poi tende la mano sana e
afferra la birra, sebbene non abbia intenzione di toccarne nemmeno una
goccia. Qualsiasi cosa provasse a mandar giù, liquida o solida,
le darebbe la nausea. Ne è sicura. A testa bassa, leggicchia
l'etichetta. «Grazie» mormora, ma parla troppo lentamente
per suonare sincera.
«Ehi, non dirmi che non bevi birra» esclama Dean, piano. «Sei inglese! L'avete inventata voi, la birra».
«No. Gli Antichi Egizi hanno inventato la birra. O le popolazioni della Mes—».
Dean stronca la lezione di storia sul nascere: «Come stai?»
chiede. Siede sul bordo del letto e Jane avverte il peso del suo corpo,
attraverso il lieve abbassarsi del materasso.
«Come una che è sul punto di passare la seconda notte di
fila senza chiudere occhio» illustra la ragazza, con la calma
della rassegnazione.
Dean schiude le labbra e abbozza un sorrisetto furtivo, come davanti a una piacevole scoperta.
«Be', visto che nessuno qui ha intenzione di dormire, potremmo trovare un modo per occupare il tempo».
Nella sua voce roca, ironica malizia e finta distrazione sono mescolate
con maestria. Jane sorprende gli occhi verdi dell'uomo ad abbassarsi,
per un attimo, sulla sua bocca. È chiaro cosa Dean stia
ponderando e lei non si sente né lusingata, né offesa,
né tentata di accettare l'offerta. Pur essendo perfettamente in
grado di vedere che Dean Winchester sia un uomo attraente e appetibile
— con quelle labbra tumide, quei lineamenti maschili e regolari,
quelle spalle larghe e tutto il corollario di modi da duro — gli
risponde in un tono tanto affabile quanto smaliziato: «Una
partita a Cluedo [1]?».
Dean continua a sorridere, leggero, ma una piccola ruga compare tra le sopracciglia.
«Clu—che?»
«Un gioco da tavola. Niente doppisensi, per favore. Questa non me
l'aspettavo. Mi era sembrato di capire di non piacerti, hai detto che
perfino il mio accento ti fa venire i brividi».
«Non ho detto che genere di brividi».
«E mi hai chiamata inquientate».
«Ma sentito dire "chi disprezza compra"?»
«Sì, be', non prenderla sul personale. Io non disprezzo...
la tua... merce. Che, anzi, trovo... rimarchevole. Ma non sono
interessata».
Dean le dà l'impressione di smarrire la sicurezza, tutta in un colpo. Per un attimo, Jane lo vede boccheggiare a vuoto.
«Ah... tu... Oh. Okay». L'uomo si schiarisce la gola, tira
indietro il capo, nel palese e goffo tentativo di racimolare un po' di
confidenza. «Non avevo capito che tu... »
«Dean, non sono lesbica» gli viene in soccorso Jane, con un
sospiro placido. «Ma se credi che quello sia l'unico motivo per
il quale una donna potrebbe rifiutare le tu—»
«Che? No! Io non ho mai... è il modo in cui tu lo hai detto!»
Jane dirotta gentilmente il discorso.
«Dove hai lasciato Sam?»
«A fare ricerche» risponde lui, spicciolo.
Dal punto di vista di Jane, la sveltezza con la quale Dean ha incassato
il rifiuto testimonia tutta la squisita superficialità
dell'interesse di lui.
«Non lo aiuti?»
«È lui quello intelligente».
«Già, lo avevo notato» cinguetta Jane. «E mi
chiedevo: se Sam è quello intelligente, e palesemente anche
quello bello, tu che ruolo hai?»
L'occhiata ironicamente basita che le rivolge Dean strappa a Jane una
risata, soffocata come meglio può in un rauco sbuffo a labbra
chiuse. Poi entrambi si azzittiscono. Jane fissa la bottiglia di birra
tra le proprie mani e, mentre osserva i colori accesi dell'etichetta e
l'ovale di luce riflesso sul vetro scuro, sarebbe pronta a giurare che
il suo battito cardiaco sia tornato normale. Dean stappa la propria
birra e Jane, senza alzare il viso, lo spia mentre beve. Ora lo vede di
profilo e, per qualche assurdo motivo, crede di scorgere qualcosa di
sofferente nel modo in cui l'uomo si porta la bottiglia alla bocca.
Sente la sua stessa voce mormorare: «Sei molto stanco».
«Sono abituato a dormire poco» butta lì Dean, insieme al secondo sorso di birra.
Jane aggrotta la fronte. «No, io intendevo—». Ma si
accorge di non saper continuare. Chiude la bocca, pizzica la ruvida
stoffa del copriletto, si decide a cambiare posizione. Appoggiata la
birra sul comodino, stende le gambe e mette i piedi a terra. Adesso che
è seduta di fianco a Dean, e pochissimi centrimetri li separano,
il cacciatore neanche si prende la briga di voltarsi una sola volta. Ma
neppure lei guarda lui. Entrambi fissano la moquette. Dean con la
schiena curva in avanti e le braccia sulle gambe larghe; Jane con le
spalle rilassate e le mani tra le ginocchia unite.
«Sono felice che tu e Sam siate venuti a Mansfield» ammette la ragazza.
«Sì, be', fin ora non abbiamo fatto granché per tenerti al sicuro».
«Non sono venuta a cercarvi per avere protezione».
«Lo so. Lo hai detto. Volevi aiuto».
«Reciproco».
«Mmh».
C'è una piccola pausa ed è di nuovo Jane a riprendere il
discorso. Quando lo fa, però, si rende conto d'aver perso la sua
parlantina sciolta. «Non potevo... affrontare questa
situazione... da sola. Be', teoricamente, avrei potuto. Ma non volevo.
[2] Sarebbe stato un incubo. E lo è comunque: ho scoperto che il
negozio dove lavoro è infestato da qualcosa... che non è
nemmeno un dannato fantasma... e che mi ha seguita a casa... ma... sai:
"nessun incubo è così terribile, quando lo si affronta in
compagnia"».
Dean non dice nulla. Per quelli che devono essere almeno tre o quattro
secondi, rimane assorto nei propri pensieri. Alla fine, chiede:
«E che roba era? Shakespeare?»
«No. Solo mia madre» spiega Jane. «È quello
che mi diceva quando rimboccava le coperte. A me. E al mio esercito di
pupazzi di stoffa. Sono stata una bambina straordinariamente
paurosa».
Dean espira rumorosamente dal naso e Jane non sa come interpretare il
verso. È comprensione o compatimento? Non le importa. Non le
interessa nemmeno sapere se Dean conserverà un ricordo di questa
corversazione o se, una volta lasciata la città, sarà
come se non fosse mai avvenuta. Ancora meno si preoccupa dell'idea che
quell'uomo possa considerarla patetica. O non considerarla affatto.
Improvvisamente, desidera solo poter continuare a parlare,
perchè: «Da quando ho scoperto che cosa c'è
là fuori... voglio dire: da quando so che il mondo non è
il posto razionale e sicuro che credevo... questa è la prima
volta che ne parlo a voce alta. Con una persona. Liberamente. Negli
ultimi sei anni, ho finto con tutti che non fosse cambiato nulla. Non
ne ho mai parlato con la mia famiglia. O con i miei amici. Non che
siano molti, quelli. Non volevo passare per pazza. O, peggio ancora,
fargli provare il mio stesso terrore. E sono diventata brava a fare
finta che vada tutto bene. Però, stavo iniziando a
sentirmi...»
«Stanca» la anticipa Dean.
«Già».
Dean beve la birra. E poi domanda: «Sei anni fa. Il cacciatore. Il fantasma. Che cosa è successo?»
Jane non riesce a evitarlo: un senso di angoscia le preme sul petto, la
spinge a serrare forte le labbra e la lascia per un attimo a corto di
parole. «Storia complicata» afferma, prima di cambiare
argomento: «Tu e tuo fratello come avete iniziato con la
caccia?»
Dean fa oscillare la birra, agitando la bottiglia con una distratta lentezza.
«È un affare di famiglia. Non c'è mai stato altro. Non per molto, almeno».
Nei frangenti di placido silenzio che seguono, lo sguardo di Jane va al
comodino. Pistola e coltello sono vicini all'abat-jour da quattro
soldi, coperta da un paralume pieghettato che ha lo stesso colore del
pane raffermo. «Comunque sia, invidio il vostro coraggio»
confessa la ragazza. «Quando ho capito di essere di nuovo in un
altro dannato casino sovrannaturale, la prima cosa che ho pensato
è stata di lasciare la città. Darsela a gambe: tipico dei
cordardi».
«E dei furbi che restano vivi» ribatte Dean. «Perché hai cambiato idea?»
«Sensi di colpa». Jane appoggia le mani sul bordo del
letto, sfiorando inavvertitamente la stoffa dei jeans di Dean.
«Non potevo lasciare la signora Sternwood in quel posto. È
anziana, non ha nessuno ed è sempre stata così gentile
con me. Poi, quando tu sei spuntato sul mio pianerottolo, ho visto la
possibilità di fare qualcosa che non fosse da codardi, ma
nemmeno da stupidi. Mi sono detta che potevo affrontare la situazione
con l'aiuto di...». Socchiude le palpebre. «Mmh, non mi
è piaciuta la parola cacciatore. Preferisco 'esperti del
settore'».
Jane si volta verso Dean: gli guarda il profilo, solleva un po' il
mento e riesce a sorridergli. Con sincerità e con un briciolo di
titubanza. Dean ricambia lo guardo, restandosene chino in avanti. Lei
lo vede battere piano le palpebre e sollevare un angolo della labbra in
una piega morbida. Sembra insieme una smorfia pensierosa e un accenno
di sorriso comprensivo. In questo momento, non è né
l'uomo stanco né il ragazzo marpione. E Jane si ricorderà
di questo momento come di quella volta in cui ha pensato —
inaspettamente, confusamente e solo per il tempo di un misero battito
di ciglia — che se Dean Winchester avesse tentato di baciarla,
lei non lo avrebbe respinto.
Il doppio trillo di un cellulare risuona nella camera. Dean estrae il telefono dalla tasca della giacca, legge il messaggio.
«È Sam. Ha trovato qualcosa».
* * *
Sullo schermo del portatile, una delle foto del ritratto è
affiancata dall'immagine di un dipinto giapponese. Inchiostro nero e
pochi tratti, precisi e calibrati, hanno impresso sulla carta bianca la
figura di una donna, inginocchiata sotto un albero, in un paesaggio
innevato. La donna è avvolta in un kimono bianco, che le
nasconde le mani e le braccia, rannicchiate vicino al petto. I capelli
sono lunghissimi e sciolti.
«Che cos'è?» domanda Dean, appoggiando le mani sul tavolo.
«Una donna delle nevi» risponde Sam. È seduto
davanti al pc e Jane è in piedi, dietro di lui, con le dita
aggrappate alla spalliera. «O, come viene chiamata in Giappone,
una Yuki-onna. Quando siamo stati attaccati, nella libreria, non ho
solo perso i sensi. Ho sognato. E ricordo, nel sogno, l'impressione di
trovarmi in mezzo alla neve. Così, ho provato a rivedere
l'intera faccenda mettendo al centro quel particolare: le neve. E la
stampa giapponese riprodotta nel ritratto mi ha fatto... accendere la
lampadina. Una Yuki-onna è essenzialmente uno spirito, ma
può simulare una natura umana. E indovinate un po' come è
che uccide le sue vittime? Congelamento. Ma c'è di più:
quando una Yuki-onna si manifesta, si porta dietro l'aria fredda delle
tempeste di neve. Quando scompare, lo fa trasformandosi in nebbia. E il
fatto che sia una creatura legata alla neve e al ghiaccio, potrebbe
spiegare, almeno in linea teorica, perché il sale dei proiettili
l'abbia allontanata. Vedete? Tutti dettagli che ci hanno fatto credere
si trattasse di un fantasma».
Dean sposta lo sguardo dal viso di suo fratello allo schermo del pc. E
viceversa. Mugugna un verso di asciutta approvazione. «Okay. Come
ce ne sbarazziamo?»
«Ci sto ancora lavorando» ammette Sam. «Secondo la
tradizione giapponese, l'unico modo per uccidere una Yuki-onna è
rivelarne la vera natura quando è in forma umana. Ma ho scoperto
che esistono leggende di così dette 'Regine delle nevi' o
'Streghe della neve' anche in Nord Europa. Nomi diversi. Diversi punti
del globo. Caretteristiche quasi identiche. Stessa creatura,
presumibilmente. Ed è uscito fuori questo».
Sam tocca il touchpad del portatile e sullo schermo si aprono due nuove
finestre: la scannerizzazione della pagina di un manoscritto
simil-medioevale e un documento di testo.
Dean aggrotta la fronte, nel tentativo di leggere le prime righe del
documento: è sicuro che sia scritto in inglese, ma ogni due e
tre parole di facile comprensione, ne seguono una decina alle quali non
saprebbe dare né un suono né un significato.
«Cronache del Lancashire» spiega suo fratello.
«Un'opera minore e semi-sconociuta del quindicesimo secolo. Il
nome dell'autore si è perso nel tempo. Ma in questa parte»
continua Sam, indicando la pagina del manoscritto, «riporta la
cronaca di un villaggio colpito dalla maledizione di una Signora delle
Neve. Qualcosa su un inverno particolarmente rirgido e lungo. La
maledizione viene spezzata quando un cavaliere riesce ad uccidere la
creatura. Il problema è che il museo che custodisce il
manoscritto originale ha messo online la scannerizzazione delle pagine
insieme a una trascrizione». Sam indica il documento. «E a
un riassunto sommario della vicenda, dove non è specificato come
il cavaliere l'abbia uccisa. Buona parte della trascrizione è
incomprensibile. È inglese medioevale».
«Medio».
È stata Jane a parlare. Sam e Dean si voltano verso di lei
— che si stringe nelle spalle, quasi a mo' di scusa, mentre
chiarisce: «L'inglese del quindicesimo secolo si chiama Medio
Inglese».
Dean si astiene dal sottilineare ad alta voce l'inutilità della
precisazione. È certo che sia sufficiente la propria
espressione. Poi stacca le mani dal tavolo, sollevando il busto.
«Va bene, allora. Troviamo una traduzione. O qualcuno che sappia
tradurla. Potremmo provare con Morrison [3]». Ma quando sente
Jane schiarisi la gola e la vede sollevare la mano fasciata, non riesce
a trattenersi: «Ci prendi in giro? Tu parli l'inglese del
Medioevo?».
Jane abbassa lentamente il braccio. «No» ribatte, pacata,
come se stesse spiegando un concetto molto semplice ad un bambino molto
ottuso. «Nessuno lo parla. È una lingua estinta. Ma
è facile da comprendere, una volta assimilate le basi. I
Racconti di Canterbury sono scritti in Medio Inglese. Li ho studiati
nella versione originale, durante il corso di Storia della Lingua
Inglese. Che, se vi interessa saperlo, ho modestamente superato con il
massimo del punt— ».
«Puoi tradurre il testo sì o no?» taglia corto Dean.
«Ci posso provare».
* * *
Venti minuti dopo, Dean, seduto ai piedi del proprio letto, si tiene
occupato pulendo il fucile a canne mozze, con movimenti rapidi e
precisi. Fa scattare la canna al proprio posto, con un secco rumore
metallico, e controlla l'arma. Poi adocchia il tavolo: Jane e Sam si
sono insediati lì attorno. Lui, appropriatosi del portatile di
Dean, cerca nei meandri di Internet qualsiasi informazioni con una
parvenza di utilità; lei, con una biro in mano, alterna lo
sguardo tra lo trascrizione sul display dell'altro computer e il foglio
che sta riempiendo di parole.
Dean osserva il volto di suo fratello, e la sua espressione attenta, e
si ritrova a constatare come — all'apparenza — le loro vite
siano rimaste immutate. Sente risalire in superficie la stessa rabbia
provata settimane prima, nel rifugio di Whitefish. «Ci siamo
sempre detti di non cercarci» aveva esclamato, davanti a suo
fratello. «E abbiamo sempre ignorato quella regola. Ma non questa
volta, vero, Sammy?» [4]
Dean abbassa gli occhi sulla nera lucidità del fucile. Serra la
mandibola, sopprimendo il riflusso di collera in un guizzo sottopelle.
Si rifiuta di soffermarsi di nuovo sui ricordi della propria odissea in
quel limbo. Su chi è riuscito a tirare fuori. Su chi ha lasciato
indietro.
Deve fare il suo lavoro. Ora.
Guarda nuovamente verso il tavolo. Guarda Jane: con i capelli spostati
dietro le orecchie, se ne sta china sul foglio come una studentessa che
si affanna a prendere appunti. Dean non riesce a immaginare essere
umano più diverso da sé stesso di quella bizzarra donna
con i capelli color carota. Eppure, nell'altra stanza, mentre parlavano
— per essere precisi: mentre lui ascoltava lei ciarlare —
per un attimo ha pensato l'esatto contrario. Adesso si scopre a
desiderare, e nemmeno in modo troppo latente, che Jane Leigh resti
così com'è. Umana e intatta, a dispetto di qualsiasi cosa
abbia dovuto affrontare sei anni prima. Sotto il suo sguardo, la
ragazza solleva il capo, mette giù la biro e trilla:
«Eureka».
______________________________________________________________
[1] Gioco da tavolo con un'ambientazione che riproduce
l'atmosfera dei gialli. (© Wikipedia). Dean o non ne ha mai
sentito parlare oppure non riconosce il nome. Negli Stati Uniti il
gioco è chiamato Clue ma Jane usa il nome europeo.
[2] Citazione "inconsapevole" da parte di Jane, ma voluta da me u.u del Pilot.
Dean: Yeah well dad’s in real trouble if he’s not dead already, I can feel it. I can’t do this alone.
Sam: Yes you can.
Dean: Yeah. Well, I don’t want to.
[3] Morrison è un professore di Antropologia che
Sam e Dean consultano in cerca di informazioni sulle Amazzoni nella
7x13 (The Slice Girls) viene nominato anche nella 8x03 (Heartace).
[4] Dalla puntata 8x01 (We Need To Talk About Kevin).
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Capitolo 7 *** Parte sesta ***
part 1
Capitolo: 07/08.
N/A. Terzultimo capitolo!
Qualcuno mi ha davvero seguita fin qui? In tal caso, wow, thank you,
guys! Io continuo a sperare che la trama susciti un pochino di
interesse e in qualche recensione ;__; e a ringraziare chiunque passi da queste parti. In particolare, un grazie enorme va a JunJun (fate un salto sul suo profilo!) per il tempo e l'attenzione che sta dedicando a questa fan fiction.
______________________________________________________________
Parte sesta
Dean resta seduto ai piedi del letto e si concentra su Jane.
«Premetto che non dormo da più di ventiquattro ore»
esordisce la ragazza. Su ogni parola schiocca forte l'accento inglese.
Gesticola piano, mentre i suoi occhi vanno dal foglio a Dean. E poi da
Dean e Sam, all'altro capo del tavolino. «E che il mio inglese
del quindicesimo secolo potrebbe essere leggermente arruginito, ma
credo di aver capito: il cavaliere uccide la Signora delle Neve
trafiggendole il cuore con una freccia. Ma non una qualsiasi. Donata al
cavaliere da un monaco, era stata ricavata dal legno di una quercia
cresciuta su un terreno consacrato».
«Tutto qui? Ne sei certa?» si assicura Sam, abbassando lo schermo del laptop.
Jane fa scivolare il foglio verso di lui.
«Io sono certa che āc vuol dire quercia e che ārwe sta per
freccia. Se mi stai chiedendo se funziona davvero, lascio a voi lo
spasso di scoprirlo... avete arco e frecce?» Dean la vede
contrarre le labbra in una sorta di broncio insoddisfatto. «Se lo
avessi saputo, un anno fa avrei sopportato tutte le rogne necessarie
per far passare il mio alla dogana americana».
«Il tuo cosa?» mastica Dean.
«Il mio arco».
Prima l'inglese medioevale e poi il tiro con l'arco?
Il cacciatore non dissimula la propria perplessa, e in una certa misura
divertita, incredulità: corruga la fronte e sbatte le palpebre.
Blocca un sorriso a metà e a stento si trattiene dal roteare gli
occhi.
«Non fare quella faccia» squittisce Jane. «Non vado
mica in giro per i boschi con un'allegra compagnia di fuorilegge. Il
tiro con l'arco è una disciplina sportiva a tutti gli effetti.
Che io pratico da prima che diventasse una moda».
«Hipster» borbotta Dean.
Sam, impegnato a leggere la traduzione, riporta il discorso sui binari.
«Abbiamo solo bisogno di un oggetto abbastanza... appuntito.
Fatto con il legno di una "quercia cresciuta su un terreno
consacrato"».
«Oh, qui in città c'è l'Oakwood Cemetery» afferma Jane.
«Inizieremo da lì, allora» conclude Dean.
Jane incrocia gli avambracci sul tavolo.
«Chiedo scusa, posso sapere una cosa?»
Un mugugno da parte di Dean e lo sguardo attento di Sam sono mute risposte affermative.
«Solo io mi sto facendo un mucchio di domande? Voglio dire... per
quale dannato motivo uno spirito della neve dovrebbe infestare un
negozio di libri? Esiste davvero un collegamento con il ritratto? E
poi... ha fatto fuori Allen e ha tentato di uccidere Sam, ma non si
è scomodata a far del male a me, anche se mi ha letteralmente
inseguita fino casa. Perché? E che significa "la
curiosità uccise il gatto"? E se non fosse una minaccia? E se
fosse... non lo so... una sorta di indizio. Magari sta cercando di
farmi... sapere qualcosa».
Dando la stura al fiume di quesiti, Jane alterna lo sguardo tra i due
cacciatori con una frenesia nervosa e mal celata. E Dean intuisce che
l'idea di avere a che fare con qualcosa di diverso da un semplice
fantasma deve averla scombussolata parecchio, anche se fin ora non ha
battuto ciglio.
Dean non sa se provare invidia o commiserazione per la possibilià, concessa al resto del mondo, di meravigliarsi.
«Jane, è quello che ci stiamo chiedendo anche noi»
ribatte Sam. «Scopriremo cosa sta succedendo, ma dobbiamo essere
sicuri di avere i mezzi per difenderci».
«Quindi adesso il programma prevede una gita notturna al cimitero?» chiede la ragazza.
Ma Dean e Sam sono d'accordo sul rimandare la ricerca all'indomani mattina.
* * *
Per Jane il sonno resta un'utopia.
Con la luce accesa o spenta, girata su di un fianco o sull'altro, stesa
sulla schiena o a pancia in giù, non fa differenza. Passano i
minuti, le mezz'ore, le ore. Ricomincia a piovere. Mentre ascolta
l'acqua gorgogliare nei canali di scolo, la ragazza pensa di telefonare
alla signora Sternwood. Poi si ricorda dell'orario — sono le tre
di notte — e accantona l'idea, rimproverandosi di non essersi
preoccupata prima della sua datrice di lavoro.
Tira fuori il computer portatile dallo zaino e per un sostanzioso
quarto d'ora passa in rassegna le foto del ritratto. Quando il
pizzicore agli occhi la costringe a mettere via il laptop, è
giunta a una sola e inutile conclusione: il volatile dipinto nella
stampa, alle spalle della Yuki-onna, ha tutta l'aria di essere un
airone. L'uccello è sulla sponda di un ruscello, immerso in
un'atmosfera rarefatta. È un'immagine insieme scarna ed eterea,
formata da pochi brillanti colori — azzurri, blu e verdi —
e da ampi e precisi colpi di pennello.
Infilandosi sotto le coperte, Jane si rassegna a fissare la luce del
parcheggio, che filtra dallo spiraglio sotto la porta, tentando di non
pensare a nulla.
Alle quattro e mezzo del mattino, la stanchezza ha finalmente la meglio
e lei scivola in un sogno confuso del quale, meno di tre ore dopo,
svegliata da una serie di insistenti colpi contro la porta, ricorda
solo un vago senso di angoscia.
La ragazza si mette goffamente a sedere.
È spettinata, intorpidita e preda di un attimo di spaesamento
esistenziale: perché mai ha dormito, vestita, in una stanza che
non è la sua camera? Mentre i ricordi si fanno lucidi, nella
fretta di alzarsi, Jane rotola giù dal bordo del letto.
La moquette accoglie il suo fondoschiena con un tonfo ovattato.
Alla porta continuano a bussare.
«Un attimo!»
Jane si aggrappa al copriletto e ringrazia che nessuno stia assistendo
alla scena. Infilati gli stivali neri, che le coprono le gamba fino a
metà del polpaccio, scavalca la striscia di sale, e va ad
aprire.
L'aria umida e pungente del primo mattino le pizzica il viso mentre
Sam, con la sua giacca marrone e una diversa camicia a quadri, le
spinge tra le mani una busta bianca.
«Caffè e due ciambelle». Il buongiorno suona
implicito nel rapido sorriso a labbra strette. «Stiamo per andare
all'Oakwood Cemetery. Tu vieni con noi o vuoi restare qui al
motel?»
* * *
Le nubi sono ancora tanto fitte e basse da ridurre le colline boscose,
intorno a Mansfield, a enormi quanto spettrali sagome grigie.
All'interno dell'Impala, il mangianastri rovesca nell'abitacolo le ruvide note di Gimme back my bullets [1].
Dean è al volante, Sam guarda fuori dal finestrino —
stanno attraversando il centro della cittadina, nel pieno del pigro
risveglio — e Jane, sul sedile posteriore, fissa le gocce d'acqua
rimaste sul vetro durante la notte, agognando un secondo caffè.
Prima di salire in macchina, è riuscita a contattare la signora
Sternwood, con il telefono nel parcheggio del motel. E ha tirato un
intimo sospiro di sollievo nel sentire la voce tranquilla della donna,
leggermente sorpresa per una chiamata tanto mattiniera.
L'Impala svolta a un incrocio quando, nella borsa di Jane, il suo
cellulare avverte dell'arrivo di un SMS con una coppia di brevi beep.
La ragazza recupera il telefono. Legge il messaggio e scivola al centro
del sedile.
«Ehi, la signora Sternwood mi ha appena inviato un SMS».
«La vecchietta sa come si mandano gli SMS?» commenta Dean.
«Yep! [2] Ha stupito anche me, quando l'ho scoperto. Mai
sottovalutare le vecchiette. Dice di aver qualcosa da... dirmi riguardo
al ritratto. E visto che lei abita da queste parti, che io non ho una
gran passione per i cimiteri e che voi due, ragazzoni, potete potare
una quercia anche senza di me...»
Jane molla un vivace colpetto sulla spalla di Dean.
«Accosta e fammi scendere. Ci rivediamo al Red Creek».
* * *
Le automobili sono poche, ma tutte si prendono la briga di affondare le
ruote nelle pozzanghere nere e decorare i passanti con spruzzi d'acqua
sporca. Così Jane cammina tenendosi accuratamente distante dal
bordo del marciapiede. Superati i deserti tavoli all'aperto di una
tavola calda, passa davanti alla vetrina di un negozietto
d'antiquariato addobbata per il vicino Halloween. Lo stesso soffio di
vento che spettina i capelli della ragazza fa oscillare con dolcezza
l'insegna di metallo. Old Good Things recitano le grosse lettere
dorate.
Jane continua per la sua strada. La borsa, sistemata a tracolla, batte
piano sul suo fianco. E lei cerca di ignorare il pruriginoso senso di
colpa che le suscita andarsene in giro con un grimaldello, un coltello
da caccia e una pistola carica.
Jane si blocca all'improvviso.
Più in là, un uomo, che sta portando a spasso un bassotto, la osserva perplesso, ma lei neppure se ne accorge.
Gira i tacchi e percorre a ritroso i pochi metri che la separano dal negozio di antiquariato.
La vetrina è un pot-puorri d'oggetti ammucchiati assieme senza
un criterio: dietro a una vecchia targa della Coca-Cola spunta la
sommità di un busto in gesso. Un grammofono ottocentescono
convive fianco a fianco con una macchina da scrivere color lime. Ma nel
guazzabuglio generale, tra centrotavola di vetro soffiato, finte zucche
d'Halloween e pacchiane scatole di latta per biscotti, ad avere
l'attenzione di Jane è l'oggetto sul piccolo treppiedi di legno.
Ha tirato fuori il cellulare e qualsiasi dubbio è svanito.
La stampa giapponese esposta all'Old Good Things è la stessa riprodotta nel ritratto della Yuki-onna.
Identico il soggetto e identici i colori.
* * *
Uno campanello tintinna mentre la porta del negozio si richiude alle spalle di Jane.
Il locale è lungo e molto stretto. O, forse, sembra stretto
perché gli scaffali strabordano di merce. Dietro alla teca di
vetro che fa da banco della cassa, un uomo è intento a leggere
un giornale: ha capelli neri e mossi, lunghi fin quasi alle spalle e
pettinati all'indietro.
Jane gli si para davanti.
«Come posso aiutarti?» esordisce l'uomo. Le sorride con una
gentilezza distratta ma non distaccata, e se ne resta con gli
avambracci appoggiati alle pagine del giornale. Non può avere
più di trentacinque anni. Indossa una camicia di jeans ― i primi
tre bottoni aperti sulla pelle glabra ed olivastra del petto magro ― e
un filo di barba gli ombreggia il mento e le guance.
«Lo spero» afferma Jane. «La stampa giapponese in vetrina: da dove arriva?»
«Dal Giappone» si sente rispondere e negli occhi nocciola dell'uomo legge un filo di confidenziale ironia.
Una remota parte del suo cervello le fa notare di trovarlo attraente.
È per qualcosa nella particolare combinazione della fronte
ampia, del naso diritto della forma degli zigomi: probabilmente l'uomo
ha origini pellerossa.
«Quindi è un pezzo originale?»
«Sì. Lo abbiamo fatto controllare da un esperto. È dei primi del Novecento».
«E... come è arrivata qui?»
«Venduta da un privato».
«Chi? Quando?»
«Per il quando: circa tre settimane fa». L'uomo si piega un
pochino in avanti, con un filo di innoffensiva malizia. «Per
quanto riguarda il chi... non è il genere di informazioni che
cediamo così, su due piedi, alla prima bella inglese di
passaggio».
Jane preme forte le labbra l'una contro l'altra, in quello che dovrebbe risultare un sorriso, e abbassa gli occhi.
La teca mette in mostra vecchi anelli dall'aria molto pesante, spille tempestate di perle e cammei di diaspro scuro.
«Ma sei fortunata» riprende l'uomo, attirando di nuovo lo
sguardo di Jane su di sè. «Il capo non c'è questa
mattina. Potrei fare uno strappo alla regola. Se posso... ottenere
qualcosa in cambio».
Jane non è sicurissima di dove l'uomo voglia andare a parare.
Ma non ha dubbi sul fatto di voler evitare di aprire il portafogli.
«Del tipo?» chiede.
«Un numero».
«Da giocare alla lotteria?»
«Di cellulare».
* * *
Nei pressi di una fermata dell'autobus, Jane è alle prese con un
vecchio telefono pubblico. Schiaccia uno ad uno i rigidi tasti neri,
componendo il numero segnato su di un post-it. Il recapito ― a detta
del comesso del negozio d'antiquariato ― corrisponde a un nome di
donna: Ivy Robins.
«Personalmente, non l'ho mai vista» ha spiegato l'uomo.
«Ci ha fatto avere la stampa tramite una ditta di consegne e i
documenti sono stati sistemati per posta. Le ho parlato solo una volta,
al telefono. A giudicare dalla voce, penso sia giovane».
* * *
«No, non ho idea di quale sia il nesso». Attraverso il
cellulare di Sam, impostato in modalità vivavoce, le parole di
Jane irrompono nel silenzio verde e umido del cimitero. La voce della
ragazza suona leggermente distorta dal ricevitore e animata da una
squillante impazienza. «Ma non può essere solo una
coincidenza. E il numero di telefono che risulta inesistente? Questo
è sospetto».
Sam affonda la mano libera nella tasca della giacca.
«Be', le persone cambiano numero di telefono».
Dean, di fianco a lui, regge la solita sacca in spalla.
«Magari ti hanno rifilato di proposito il numero sbagliato».
«Ne dubito» ribatte Jane. «E per essere cacciatori
del sovrannaturale, voi due siete spettacolarmente razionali». La
sentono sospirare. «Il nome Ivy Robins vi dice qualcosa?»
A quella domanda, Sam scambia un'occhiata incerta con Dean ― che scuote il capo.
«Mai sentito» ammette.
Jane insiste: «Eppure a me suona familiare, ma non capisco
perchè... è come quando guardi un film e ti accorgi di
conoscere la faccia di un attore, ma non riesci a ricordare in quale
altro dannato film lo hai già visto. Avete presente la
sensazione? È così frustrante. Comunque, mi sembrava il
caso di avvertirvi. Ora vi invio la foto che ho fatto alla stampa e
vado dalla signora Sternwood. Forse quello che deve dirmi
chiarirà qualcosa. E, ehi, come va la ricerca della
quercia?».
Sam le assicura che sono a pochi metri dal querceto nel cuore del
cimitero. Poi, chiusa la telefonata: «Questa storia continua ad
avere un mucchio di punti interrogativi» commenta.
«A me ne interessa uno solo» afferma Dean. «Come far
uscire di nuovo allo scoperto Miss Alaska 1911. E come colpirla prima
che sia lei a congelare noi».
«Tecnicamente, questi sono due punti interrogativi».
Dean rallenta il passo fino a fermarsi e Sam si volta a guardarlo. Sono
accanto a una fossa vuota: dal fondo infangato si leva l'odore di terra
smossa e bagnata.
«Sarebbe stato meglio se uno di noi due avesse accompagnato Jane» afferma Dean.
«Non credo che Jane sia in pericolo».
«Già. Dimenticavo la tua nuova... filosofia».
Sam sa bene di cosa lo sta accusando Dean, ma non ha alcun desiderio di
rivangare adesso la questione. Stringe i denti e lascia andare gli
angoli delle labbra a uno spasmo che sembra lo spettro di un sorriso,
ma è ben altro. «Dean, sto solo dicendo che se la
Yuki-onna avesse voluto uccidere Jane, lo avrebbe fatto la scorsa
notte. O la sera della rapina. Questo non è un cieco fantasma
vendicativo. Se non ha mai preso Jane di mira è perché
non le interessa farlo».
Sam vede suo fratello annuire, in uno scatto tanto secco quanto quasi
impercettibile, come fa sempre quando vuole chiudere un discorso che
gli ha lasciato l'amaro in bocca.
Poi Dean riprende a camminare e lui, in silenzio, lo segue.
* * *
Jane ha appena selezionato l'opzione Invia sul proprio cellulare,
quando un autobus si ferma vicino al marciapiede. Il rumore dei freni
la spinge ad adocchiare la strada: attraverso il vetro rigato, guarda
aprirsi la porta automatica del bus e scendere un rumuroso gruppetto di
ragazzini. Il trumabusto mette in fuga un piccione che, fino ad un
attimo prima, passeggiava lungo il bordo del marcipiede. La bestiola
spicca il volo, entrando per un attimo nel campo visivo di Jane. E in
quello stesso attimo, tutto a un tratto, la ragazza ricorda.
* * *
La tregua della pioggia è già finita.
Jane ascolta l'ininterrotto rimbalzare delle gocce d'acqua sopra la
tela dell'ombrello, fissa in cagnesco la serratura rotta del retro
della libreria e combatte contro gli ultimi ostinati spasmi di
esitazione. Sarà questione di pochissimi minuti — si sta
spronando. E se ha fatto la fatica d'allungare la strada solo per
includere il negozio di libri nel percorso verso la casa della signora
Sternwood, tanto vale andare fino in fondo. Tornare là dentro da
sola è la tipica trovata da film dell'orrore, ma è pur
vero che se la Yuki-Onna è stata in grado di comparire nel suo
soggiorno, allora la libreria non dovrebbe essere né più
né meno pericolosa di qualsiasi altro posto.
Una volta nel retrobottega, Jane abbandona l'ombrello e ha l'accortezza
di spostare la pistola dal fondo della borsa alla cintura dei jeans,
dietro alla schiena.
Nel negozio non è cambiato nulla.
Il pavimento scricchiola, la pioggia picchia sui vetri e tutto ciò che è inanimato resta tale.
Jane si muove in fretta nella quieta penombra degli scaffali,
imponendosi di respirare normalmente. Evita con calcolata cura di
guardare lo spazio sul muro orfano del ritratto, raggiunge la porta
delle scale — aperta per metà, come è stata
lasciata il pomeriggio precedente — e scivola nell'androne, dove
le strette finestre sono offuscate da anni di sporcizia. Per affrontare
i cigolanti gradini deve arrangiarsi con la luce del cellulare. Pochi
secondi ed è nella stanza con il caminetto: il cerchio di sale
è intatto; le ceneri del quadro riposano nel camino; al
polveroso odore di chiuso si è mischiato quello acre del fumo.
Sollevando il cellulare all'altezza del viso, Jane osserva da vicino il motivo che decora la tappezzeria.
Anche se il tempo si è portato via la vivacità dei
colori, la forma è perfettamente visibile. E riconoscibile.
«Lo sapevo!» esclama Jane, in un soffio. Sfiora i contorni del disegno. «Sono pettirossi». [3]
Guarda verso il caminetto.
Guarda l'incisione sulla mensola.
IV.
«Ed ecco Ivy». [4]
Non è mai stato il nome a essere familiare. È stato il
suono di due parole che solo se pensate insieme — come le hanno
attraversato la mente il giorno prima, mentre era in questa stanza con
i Winchester — possono venir scambiate per un nome di persona.
E qual è il significato di ciò?
Jane appoggia la schiena contro la parete. L'effimera soddisfazione sfuma in un istante.
Non lo sa quale sia il significato.
In effetti, potrebbe non esserci alcun significato.
Ma Jane si impunta: non può essere solo un caso se tutto quel
che riguarda il ritratto riporta alla libreria. Così, per una
fiammata d'orgoglio — fin ora le sue deduzioni si sono rivelate
errate o tatolamente inutili, che almeno la sua memoria serva a
qualcosa — cambia i programmi: invece di fare dietro front, si
solleva con colpetto di reni dalla parete e attraversa la stanza, con
l'intenzione di controllare il resto della casa.
Dalla stessa superficie delle due sale e del retrobottega sono state
ricavate in tutto cinque stanze di modeste dimensioni. Sono tutte
immerse nel livido chiarore della giornata di pioggia. Tutte ammorbate
da uno spettrale senso di abbandono. E tutte completamente spoglie.
Jane può sentire i propri passi echeggiare da una stanza
all'altra, amplificati dal vuoto, e nel giro di una decina di minuti
deve accettare l'idea che la casa in sè non nasconde alcun
segreto — nè rivelatore nè spaventoso — e non
offre nuovi indizi.
Non c'è assolutamente nulla da cercare e in cui cercare. Jane
comprende perché, il giorno prima, i Winchester non abbiano
dedicato più di un singolo giro di controllo a quelle stanze,
prima di lasciare una volta per tutte l'edificio.
Gettata la spugna, torna sul pianerotto.
Lì, davanti alla seconda rampa di scale, soppesando l'idea di salire all'ultimo piano, tentenna di nuovo.
Strofina le unghie contro il palmo della mano destra, mollemente chiusa
a pugno. Poi prende un respiro a pieni polmoni, come prima di un tuffo,
e avvicina le dita alla vecchia balaustra tarlata.
Arranca verso l'alto, gradino dopo gradino, scricchiolio dopo
scricchiolio, per ritrovarsi davanti all'ennesima porta chiusa a
chiave.
Jane infila le mani nella borsa e scende a patti con il buon senso:
farà un tentativo veloce con il grimaldello. Uno solo. Se la
serratura non cede subito: «Qui finisce l'esplorazione»
mormora, piegandosi sulle ginocchia. E fa scivolare il grimaldello nel
buco della serratura. Che è arruginita e par intenzionata a
resistere alle sue grezze capacità di scassinatrice. Ma Jane fa
presente al proprio cervello quanto sarebbe proficuo concentrarsi di
più sul rumore dei pistoncini metallici e meno sull'immaginare
la Yuki-onna che si materializza alle sue spalle.
E spinge la lama seghetatta verso l'alto.
Il suono nitido di un scatto metallico echeggia fin giù per le scale, confondendosi con il mite scrocio della pioggia.
Jane sospinge la porta.
Ed ecco un'altra stanza vuota.
Sul pavimento c'è tanta di quella polvere che la porta,
nell'aprirsi, ha letteralmente lasciato il segno, trascinando la
sporcizia. Anche le suole bagnate degli stivali di Jane lasciano
impronte sulle assi di legno. La ragazza si sposta per la stanza e
imbocca un corto corridoio solo per constatare che l'ultimo piano
è ancora più vuoto e desolato del precedente. Non ci sono
mobili e non ci sono porte. Un caminetto c'era, ma è stato
murato. Niente pannelli e nemmeno un brandello di tappezzeria. Le
pareti e il soffitto — che è molto basso e segue
l'inclinazione del tetto — sono coperti da un intonaco grigio,
pieno di venature. In alcuni punti, è venuto via, lasciando nudi
i mattoni rossi che sono l'anima della vecchia costruzione.
In compenso, gomitoli di ragnatele fanno capolino da ogni angolo dei muri e delle finestre.
Eppure c'è un particolare che attira l'attenzione di Jane.
La stanza in fondo al corridoio è l'unica ad avere una porta:
chiusa, verniciata di bianco, ma sporca e rovinata come il resto della
parete, cosparsa di schegge della pittura sottostante. Rossa in alcuni
punti, di un verde molto annacquato in altri.
Dalla piastra della serratura si affaccia un pomello rotondo, nerissimo e lucido come l'occhio di un insetto.
Sembrerebbe essere l'unica cosa, in tutta la casa, libera dalla polvere.
Jane aggrotta la fronte; è ferma davanti alla porta, tossisce
— l'aria viziata le sta serrando la gola — allunga la mano
destra e stringe le dita attorno al pomello.
Si aspetta un'altra porta chiusa.
La serratura, invece, cede con estrema dolcezza.
Per far ruotare la porta sui cardini basta una leggera spinta.
«Accidenti...» [5]
______________________________________________________________
[1] Gimme back my bullets è
pezzo dei Lynyrd Skynyrd pubblicato nel 1976. I Lynyrd Skynyrd sono una
nota band rock americana formatasi a Jacksonville, in Florida nel 1964,
esponente del Southern rock. (© Wikipedia).
[2] Ho lasciato il termine in inglese perché nessuna possibile
traduzione in italiano mi suonava carina e adatta a Jane quanto uno
'Yep!'.
[3] Il termine inglese per 'pettirosso' è robin (robins al
plurale). Robins è anche un cognome anglosassone molto comune.
[4] Il nome di persona Ivy si pronuncia 'aivi'. Nell'alfabeto inglese la vocale i suona 'ai' e la consonante v come 'vi
[5] Come 'dannato' sta per 'bloody', qui 'accidenti' è un molto inglese 'blimey!'
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Capitolo 8 *** Parte settima ***
part 1
N/A.
Chiedo venia per il mostruoso ritardo, ma studio disperato e tirocinio
serale mi succhiano via tempo, energie mentali e forza vitale. Insomma,
soffrirei di meno se dovessi chiuderle io le porte dell'Inferno, ma
alla fine mi sono concessa una giornata libera e ho (anche) sistemato
il capitolo. Sperando di non aver combinato una schifezza, ecco a voi
il gran (quasi) finale! (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧
______________________________________________________________
Parte settima
Jane
racimola un po' di coraggio e oltrepassa la soglia. La stanza è
piccola, bassa e arredata: un baule e uno scrittoio vicino alla
finestra; un mobile da toeletta in un angolo; una lunga poltrona
trapuntata di velluto bianco al centro. Vecchi libri occupano gli
scaffali più alti di un mobile pieno di ante e di cassetti. Una
disciplinata folla di quadretti e acquarelli punteggia le pareti.
Vezzosi pavoni, blu e verdi, emergono dallo sfondo niveo della carta da
parati. Ciò che stupisce Jane non è la presenza di arredi
nell'ultima stanza di una polverosa casa abbandonata da decenni. Non
è nemmeno il fatto che i mobili — eleganti, scolpiti in
linee dolcemente ricurve, impreziositi da delicati intarsi floreali e
guarnizioni in bronzo — siano antichi. La vera sorpresa è
la lucidità del legno, è il pavimento spazzato, è
il profumo di fiori.
E questo perché sopra lo scrittoio, in un vaso colmo d'acqua,
riposa un mazzolino di freschi narcisi autunnali: fiori minuti, bianchi
come fiocchi di neve.
La stanza è abitata.
Riguardo all'identità dell'abitante, Jane formula un'ipotesi
inquietantemente plausibile, mentre la sensazione d'essere spiata
diventa tanto nitida da farle pizzicare la nuca.
Eppure, il grosso specchio sopra la teoletta continua a restituirle il
proprio solitario riflesso: una sagoma scura nel candore funereo e
straniante delle quattro pareti.
Jane guarda alle proprie spalle. Non c'è nessuno. Ha lasciato la porta spalancata e il corridoio è deserto.
Ma dita fredde e invisibili le stanno accarezzando una guancia.
Tesa com'è, la ragazza annaspa in un attimo di terrore... prima
di comprendere che la causa del suo principio d'infarto non è un
alito sovrannaturale.
È la corrente tra la porta e lo spiraglio aperto della finestra
a ghiogliottina: lo spostamento d'aria gonfia la tenda, leggera e
quanto un velo nuziale.
Jane si riprende e va vicino alla toeletta. Il piano è occupato
da fotografie incorniciate e da piccoli ritratti realizzati a mano.
Sono così numerosi da essere stati disposti in tre file, in modo
da disegnare una sorta di ventaglio. Il soggetto delle immagini
è sempre lo stesso: una figura femminile con capelli neri e
occhi chiari. Di ritratto in ritratto, di foto in foto, cambia
l'abbigliamento, la capigliatura, il luogo, le persone che
l'accompagnano: sono chiaramente immagini di epoche differenti.
Recuperato il cellulare, Jane indirizza il bagliore del display verso le cornici della prima fila.
Aguzza lo sguardo e aggrotta la fronte.
Non riesce a capire: si tratta della medesima donna o sono solo persone
molto somiglianti? È forse una lunga generazione di madri e
figlie?
I volti, per quanto simili, non le sembrano uguali. Coglie minuscole ma
innegabili differenze: la forma del viso e degli occhi, la linea del
naso e della bocca.
In una fotografia, di bianco e nero sbiadito, Jane riconosce la
Yuki-onna. Ha lo sguardo vuoto, serio e distante delle donnine degli
inizi del Novecento. Dritta come un pioppo, vitino da vespa e una
gonfia acconciatura raccolta, posa sullo sfondo di un lussuoso salone
dipinto, in un abito da sera con una profonda scollatura. Osservando le
altre immagini, Jane intuisce che la meno recente dev'essere una
piccola miniatura su avorio: ritrae una donna con un nastro blu tra i
fitti riccioli scuri. Un altro nastro blu le cinge la vita del vestito,
di mussola bianca, appena sotto al seno. Accanto alla miniatura, un
dipinto a olio: un'altra sconosciuta, vestita d'azzurro, seduta
all'ombra di un albero, immersa nell'atmosfera brumosa di una campagna.
Il ritratto abbonda di particolari: i riflessi argentati delle pieghe
della gonna, le increspature dello stretto corpino, le piume sul
cappellino di feltro. Ma tra la moltitudine di immagini, due foto
catturano con prepotenza l'attenzione di Jane. Nel mondo tinto di
seppia del dagherrotipo, la solita figura di donna siede in un cupo
salottino vittoriano: i capelli lisci severamenti spartiti sul capo e
la mastodontica gonna che fagocita il sedile della poltrona. Ha una
bambina sulle ginocchia: una creaturina di quattro o cinque anni al
massimo, infagottata di un abitino tutto merletti e balze. Il visetto,
tondo e imbronciato, è contornato da una cascata di boccoli
chiari. Nella seconda foto, la bambina è sola e sempre sulla
medesima poltroncina. Sembra più grande, stringe una bambola al
petto e ha gli occhi chiusi.
Jane non s'illude che qualcuno abbia scattato una fotografia a una bambina addormentata.
Con un senso di disagio sempre più pressante, drizza la schiena
e fa un passo indietro, sfiorando il bracciolo della sedia con il dorso
della mano fasciata.
E nota adesso che uno dei cassetti della toeletta sporge in avanti di
qualche millimetro, come se non fosse stato richiuso bene.
La ragazza è restia a toccare qualsiasi cosa, in quello strano
posto, ma si sforza di superare l'avversione. Allunga il braccio, con
lo scatto incerto di chi teme di venir morso da un animale inquieto, e
fa scivolare le dita sotto l'incavo del pomello a forma di conchiglia.
Apre il cassetto per metà — è più pesante di
quanto si aspettasse — e ne tira fuori l'unico oggetto
all'interno: una cartellina rilegata in pelle e gonfia di fogli.
Jane esita, in bilico tra ansia e morbosa curiosità. Alla fine,
si sposta verso lo scrittoio e mette giù la cartellina.
I fogli sono sottili e per la gran parte macchiati e ingialliti dal
tempo. Foglio dopo foglio, Jane passa in rassegna vedute campestri,
scorci di città, disparati ritratti di sconosciuti. Alcuni sono
di schizzi incompiuti, altri sono dettagliatissimi, ma tutti
palesemente opera della stessa mano. Nessuno dei ritratti è
accompagnato da un nome, anche se ben presto appare chiaro che molte
sono effigi della bambina morta. Per ogni ogni paesaggio, al contrario,
qualcuno non ha dimenticato di appuntare una data e un nome sull'angolo
di ciascuna pagina.
Vienna, 1907. Bristol, 1878. Parigi, 1810. Amiens, 1823. Londra, 1850. Portsmouth, 1937.
Jane si sofferma sull'immagine di una colossale colonna che sorregge
una riconoscibilissima statua di George Washington: Baltimora, 1911.
Inarca un sopracciglio, stupita dalla precisione delle proprie deduzioni.
Poi passa al disegno successivo: un grazioso edificio in stile
coloniale. Ha solo il tempo di leggere la parola Concord, prima di
vedere qualcosa che la lascia completamente raggelata e leggermente
inorridita. Sollevando quel foglio, ha scoperto il sottostante. Un
altro ritratto. Ed è il suo. È lei la giovane donna che
la fissa dalla superficie della pagina. Suoi sono i lineamenti del
volto rotondo — tracciato con il rugginoso rosso di una
sanguigna. Suoi gli occhi a mandorla dall'espressione risoluta. Sua la
bocca piccola e regolare. Suoi i folti capelli.
Per un lungo attimo, Jane guarda il ritratto senza osare muovere un muscolo.
Batte le palpebre.
Lo sguardo guizza di nuovo al foglio tra le sue mani.
Concord, 1964.
«Concord» mormora. «Concord... è... la capitale... del New Hamsphire».
Jane lascia cadere il foglio, corre verso il mobile della toeletta, fa vagare la luce tra le cornici.
Il suo stomaco si contrae in un nodo quando allunga la mano sana per
sollevare una fotografia, rimasta letteralmente nascosta dal piccolo
ritratto a olio.
La fotografia è in bianco e nero ma molto più nitida
delle altre, perché di epoca più recente. Dev'essere
stata scattata in un un parco o in un giardino: la donna è
seduta su di un telo steso sull'erba, nel bel mezzo di un pic nic, e
rivolge uno sguardo malizioso e un sorriso civettuolo all'obiettivo. Ha
un look degno di una modella degli anni Sessanta: occhi grandi, dal
taglio felino, pesantemente truccati; una nuvola di capelli neri e
cotonati a contornarle il volto dolce, a forma di cuore, benedetto da
splendidi zigomi.
Jane conosce quella donna.
Ha visto una fotografia pressoché identica in casa della signora Sternwood.
Quella donna è Virginia Sternwood.
Da giovane.
La signora Sternwood alla quale Jane ha chiesto del ritratto poco prima
di ricevere il messaggio 'la curiosità uccise il gatto'.
La signora Sternwood che era presente quando è morto Donny Allen.
La signora Sternwood che tanto ama gli oggetti dei secoli passati.
Pietrificata dalle sue stesse idee, Jane scorge con la coda dell'occhio la porta ruotare sui cardini e chiudersi piano.
Ora sa che non è colpa della corrente d'aria.
E lo sa perché, nel momento in cui solleva lo sguardo, nello specchio non è più sola.
* * *
La pioggia picchia forte sopra il tettuccio dell'Impala. L'automobile
è parcheggiata lungo il marciapiede, non lontana dall'entrata
del Red Creek. Nonostante il locale abbia aperto da poco, dietro ai
vetri s'intravede già un discreto via vai di sagome: un ragazzo
con un ombrello blu entra proprio ora, dopo aver attraversato la strada
di corsa, passando a qualche metro dal muso dell'Impala.
«Be', ora ci serve un piano» butta lì Dean. Continua
a rigirarsi tra le mani, e davanti al viso, il paletto appuntito
ricavato dal ramo di una delle querce del cimitero.
Un'altra mezza dozzina di paletti sono nella sacca, gettata sul sedile posteriore.
Sam a mala pena gli presta ascolto. Tiene il portatile sulle ginocchia:
non gli piace quel che sta vedendo sullo schermo. Per un po', ha
cercato inutilmente informazioni sulla stampa dell'airone e sulla sua
ex-proprietaria. Poi, ha avuto l'intuizione di cambiare soggetto,
digitando un nome e un cognome nella barra di ricerca.
«Dean...»
«Cosa?»
«Jane ha detto che la signora Sternwood abitava nel New
Hampshire, quando il marito è scomparso. Ed è stato
più di trenta anni fa».
«Lo so. C'ero anche io quando l'ha detto».
«Guarda qui».
Sam gira il laptop verso Dean.
Gli sta mostrando la prima pagina di un vecchio giornale quotidiano.
Sotto i caratteri cubitali della testata — Concord Monitor
— la data riportata è quella del 16 Gennaio 1978.
L'articolo d'apertura grida qualcosa sul maltempo, mentre il titolo
della spalla recita: Prima vittima del gelo. Uomo trovato morto nella
propria auto.
«Jonathan Sternwood non è scomparso» spiega Sam.
«È seppellito nell'Old North Cemetery di Concord: ho
trovato il suo necrologio. Fu dichiarato morto per assideramento e
l'auto ritrovata sul ciglio di una strada, appena fuori città.
Ma, stando all'articolo, non hanno mai capito perché l'uomo si
fosse fermato lì. Non c'erano guasti nell'automobile e la strada
era sgombra dalla neve».
«E anni dopo la moglie racconta di non saperne nulla».
«Quando le ho parlato, la signora Sternwood non ha fatto domande
sulla morte di Allen. Ho pensato che fosse ancora troppo stanca e
sconvolta per affrontare il discorso, ma...».
«Ma "mai sottovalutare le vecchiette"».
Dean non perde tempo: getta il legno sul sedile posteriore, gira la chiave e fa partire il motore.
* * *
Lentamente, Jane mette giù la fotografia e si volta.
L'altra persona nella stanza è la signora Sternwood.
È in piedi, accanto alla finestra.
Ma non è nella forma dell'anziana libraia.
Qui c'è la ragazza della foto: una bellezza algida e delicata,
come un silenzioso paesaggio innevato. E con occhi dell'azzurro
più vivido e della tristezza più inconsolabile che Jane
abbia mai visto. Non è molto alta, ma ha una corporatura snella
e armonica, e veste di bianco — ma il bianco appare quasi sporco
in confronto all'incarnato diafano della pelle. L'abito le stringe la
vita con una larga fascia e lascia le braccia scoperte. I capelli,
lisci e nerissimi, cadono sulla spalla nuda come una pennellata di
inchiostro nero. Dietro di lei, la tenda si agitano appena, come un
sospiro trattenuto
«Jane». La voce è giovane, il timbro tanto
carezzevole quanto intriso di vuoto sconforto. «Non avere
paura».
E Jane non ne ha. È troppo stordita per provare paura. La sua
cara, gentile e affettuosa signora Sternwood è la Yuki-onna.
Tutta l'angoscia e la confusione delle ultime ore sono spazzate via da
un flutto di avvilimento. Con la schiena pressata contro il bordo del
ripiano, serra le mani attorno al cellulare fino a sentire la dura
plastica spingere con la carne. Ricaccia indietro la voglia di piangere
e atteggia il viso nell'espressione più ferma, ma non
tracotante, che riesca a simulare.
«Quindi... signora Sternwood... o C.B.W... o qualunque sia il tuo
nome... questo è il tuo aspetto reale? O è solo uno delle
tante facce?».
La donna delle nevi viene avanti, senza dire nulla. È scalza, i
suoi passi non fanno rumore. L'orlo della gonna, fatta di pieghe
leggere, lambisce i polpacci sottili.
Continua ad avvicinarsi e Jane si sposta di lato, finendo con l'urtare il ginocchio contro un angolo della lunga poltrona.
Raggiunto il mobile della toeletta, la Yuki-onna appoggia entrambe le
mani alla spalliera della sedia. Stringe le dita sottili sul legno e si
curva in avanti, come sotto il peso di una stanchezza improvvisa. O di
una fitta di dolore. «Jane...» mormora, a testa bassa.
«Io sono stata costretta a uccidere quel criminale. Per
proteggerti. Se si fosse limitato a prendere i soldi, io non avrei
mai... ma avrebbe fatto del male a te». Poi, come se aver messo
insieme quelle poche frasi le avesse richiesto uno sforzo che non
riesce più a sostenere, fa una pausa. Il suo respiro somiglia a
un flebile verso accorato. Socchiude le palpebre, abbassando le lucide
ciglia nere. «E tutto ciò che ho fatto dalla sera della
rapina, l'ho fatto per tenere te al sicuro. Ma ho commesso un errore...
Non era così che doveva andare e io... io ero così
spaventata».
Jane si sforza di capire. Fissa il profilo della Yuki-onna e la sua
mente è un impasto che si rifiuta di prendere la forma di
quesiti da esporre a voce alta. Eppure, nel subbuglio generale, non
dimentica un dettaglio importante: è qui, da sola, con la donna
delle neve e un cellulare mal funzionante come unico legame con Sam e
Dean, i quali la credono da tutt'altra parte. Adocchia la porta chiusa:
anche dal basso del propria esperienza, può immaginare il
possibile brutto segno rappresentato da una via d'uscita sbarrata.
Pensa alla pistola dietro alla schiena, ma sa di aver bisogno di
un'uscita d'emergenza meno temporanea.
Torna con gli occhi sulla Yuki-onna.
Deglutisce a forza, rendendosi conto di avere la gola secca e la bocca arsa.
«Spiegati» sillaba. «Che... che cos'è che avresti fatto... esattamente?»
La Yuki-onna sta fissando la sé stessa nello specchio.
«Ieri pomeriggio, vi ho visti nella libreria. Tu. E i due
cacciatori. È stato un caso. Non sapevo foste lì. Sono
entrata passando dal retro e davanti alla porta aperta ho creduto che
qualche altro ladro fosse sgattaiolato dentro».
Jane l'ascolta, senza mai distogliere lo sguardo. Le mani, ancora
strette attorno al cellulare, sono premute al petto in un gesto che
è la perfetta rappresentazione di uno stupito timore.
E che, sopratutto, le permette di avviare una chiamata senza dare nell'occhio.
Per una volta, Jane è lieta di essere una di quelle persone che
dimenticano sistematicamente il telefono in modalità silenziosa.
Un impercettibile movimento del pollice destro e recupera l'ultimo numero utilizzato: il cellulare di Sam.
Seleziona la cornetta verde.
Inizia a pregare.
«...così ho chiuso la porta a chiave» sta dicendo la
Yuki-onna. «E stavo per chiamare la polizia, quando vi ho sentito
discutere. Eravate convinti che Allen fosse stato ucciso da un
fantasma! Allora, invece di restarmene da parte e sperare che non
trovaste questo posto, ho pensato che potevo eliminare qualsiasi
possibilità di venir scoperta. Potevo darvi il fantasma e farvi
credere di averlo mandato via. I cacciatori ci avrebbero lasciato in
pace e noi due avremmo continuato a vivere tranquille. E il
ragazzo... non l'ho colpito con il desiderio di fargli davvero
del male. È stata tutta una messa in scena».
Jane è allibita.
«E... e la scorsa notte, a casa mia? Anche quella è stata tutta una messa in scena?»
«Con le tue domande, ho capito che ti eri messa in testa di
cercare ancora. E tu sei testarda. Prima o poi, avresti capito
qualcosa. Dovevo farti desistere da subito».
«Terrorizzandomi a morte?»
Jane perde il controllo della propria voce: il tono è più stridulo e sfiatato di quanto avesse voluto.
La voce della Yuki-onna, invece, resta un mormorio spossato.
«Esiste metodo più efficace della paura per tenere i
bambini lontani dai pericoli? Ma tu sei tornata dai cacciatori, non
è vero? Quando mi hai telefonato, questa mattina, ho sentito le
loro voci in sottofondo».
«E che altro credevi avrei fatto?»
«Prestato ascolto al mio consiglio».
«E l'SMS di poco fa? Che cosa mi avresti detto?»
«L'unica cosa rimasta da fare... ti avrei raccontato io la storia
del ritratto. Una storia inventata, certo, ma avrebbe accontentato la
tua curiosità».
C'è una lunga pausa, riempita solo dal malinconico scroscio
della pioggia. La luce nella stanza si è fatta più debole
e più grigia. La Yuki-onna è bianca e immobile come una
statua di cera; lo sguardo assente rivolto alle immagini della sue vite
passate. Jane, quasi senza accorgersene, si ritrova seduta sul bordo
della poltrona. Lascia cadere il cellulare in grembo, coprendo il
display con la mano fasciata. Si affanna a rimettere in ordine i
pensieri, rivivendo quanto accaduto nelle ultime ore con la
consapevolezza che è stata tutta una messa in scena.
Solleva piano il volto e osserva di nuovo la stanza.
«Questi oggetti ti appartengono?» chiede, in un sussurro retorico.
«Sì».
«E perché... perché non li nascondi in casa tua?
Perché proprio quassù, in una stanza all'ultimo piano
della libreria?».
«Perché qui non viene mai nessuno».
Jane — che ancora si guarda attorno — finalmente lo vede.
Il dettaglio insignificante. L'ultimo pezzo del puzzle. Sulla stessa
parete alla quale è addossato il mobile della toeletta,
c'è uno spazio vuoto tra due acquarelli. Ed è molto ampio
rispetto alla distanza tra tutti gli altri quadretti.
«La stampa con l'airone» sospira la ragazza, legando
mentalmente un dettaglio all'altro, fino ad ottenere la catena completa
degli eventi. «La stampa... che compariva nel tuo ritratto, in
negozio, era appesa lì, non è vero? Quando hai preso
accordi per venderla, eri nella stanza del caminetto, al piano di
sotto. Avevi questo aspetto... o, comunque, hai usato questa voce. E
hai lasciato un nome falso. L'unico che ti è venuto in mente,
guardandoti attorno».
La Yuki-onna accartoccia la lebbra pallide in un sorriso rassegnato.
Jane vorrebbe chiedere perché abbia deciso di vendere la stampa,
e perché sotto falso nome, ma un'altra domanda si affaccia di
prepotenza.
«Chi è la bambina nella foto?»
Silenzio.
Jane sente la Yuki-onna prendere un doloroso respiro.
«È la mia bambina. Mia figlia».
Un'altra penosa pausa.
«Tanto tempo fa, cedetti alle lusinghe di un uomo che non amavo.
Era uno sciocco noioso, ma conosceva il senso del dovere. Quando seppe
che aspettavo un bambino, volle sposarmi. Fu un matrimonio breve: tre
mesi e il mio caro marito riposava in fondo al mare, insieme a una
delle sue preziose navi mercantili. Ci fu poco da piangere: ereditai
quasi tutta la sua fortuna, ed era davvero consistente, e avevo una
creatura da amare. Lei... lei era... era il sole della di vita, la
ragione di tutta la mia esistenza, la bambina più bella e dolce
che si potesse immaginare. Ma era così fragile, così
cagionevole di salute... Si chiamava come te, sai? Jane. La mia Jane. E
aveva capelli come i tuoi. E occhi come i tuoi. Negli ultimi mesi, ogni
volta che ti ho guardato, fingevo di credere che mi fosse stata
restituita la mia bambina».
Cala di nuovo il silenzio.
Jane si morde l'interno del labbro fino a farsi male. Sapere di essere
il simulacro di una bambina morta le fa orrore. Tuttavia, non riesce ad
evitare un gran senso di pena per la madre che le sta davanti. È
arduo venire a patti con l'idea che la signora Sternwood — la
dolce vecchietta, proprietaria della libreria — non sia
umana. È raccapricciante pensare che possa assumere l'aspetto di
quella spaventosa donna che l'ha attaccata per due volte. Ma è
anche impossibile dimenticare tutta la gentilezza e la bontà che
ha ricevuto negli ultimi sette mesi. Forse, non essere umani — si
azzarda a sperare Jane — non vuol dire necessariamente essere dei
mostri.
«Se davvero hai ucciso Donny Allen solo per proteggere me...
allora... non devi più preoccuparti dei cacciatori. Nessuno ora
ti farà del male. Hai avuto paura di loro e... questo lo
capisco... ma di me avresti potuto provare a fidarti. Avresti potuto
dirmi la verità fin dall'inzio. Non c'era nessuno bisogno di
ricorrere a questa... assurda... inutile... sceneggiata».
La Yuki-onna fa cenno di no con il capo, rifiutando di voltarsi verso di lei.
«Non centrano nulla i cacciatori». A stento trattiene i
singulti. «Loro non mi hanno mai fatto paura. Io avevo il terrore
di dover di nuovo—»
Scossa da un pianto silenzioso ma disperato, la donna ammutolisce e nasconde il viso tra le mani.
Jane si agita sul bordo della poltrona, sempre più vicina a
perdere quel poco di lucida risolutezza che è riuscita a tenere
insieme fino ad ora.
«Perdonami... mi dispiace. Mi dispiace così tanto»
riprende la Yuki-onna, con la voce soffocata, impastata dal pianto.
«Io ti voglio bene, Jane. Te ne voglio sul serio... ma è
la regola... non posso cambiarla. Non ho scelta. Se un essere umano
scopre la nostra reale natura... noi moriamo. Sto morendo, Jane, e
c'è solo un modo per impedirlo...»
E quando Jane capisce cosa sta per succedere, è già troppo tardi.
Una morsa di ghiaccio le serra i polmoni. Il gelo le morde le viscere e
si propaga lungo ogni fibra del suo corpo. La ragazza trema, scossa dal
freddo e dal terrore. Si guarda le mani, ma non riesce ad alzarsi in
piedi, non riesce a ribellarsi. E ora la Yuki-onna è accanto a
lei: la circonda con le braccia — ed è come essere avvolti
da una nebbia gelata, che rode le ossa — le fa appoggiare la
testa sulla spalla, le accarezza i capelli dietro l'orecchio. Mormora
che finirà presto. Che deve solo lasciarsi andare.
Nella mente di Jane continua a esplodere un urlo disperato.
Non uccidermi.
Dischiude le labbra ma non riesce a parlare.
Ha troppo freddo.
E tanto, tanto sonno.
La voce della Yuki-onna è un sussurro ipnotico rotto dal pianto.
«Dormi, Jane. Dormi, bambina mia»
E Jane chiude gli occhi.
* * *
La porta si apre con violenza.
«Allontanati da lei!» ringhia Dean.
La pistola in pugno, l'adrenalina in circolo, il cacciatore irrompe
nella stanza insieme a Sam — che impugna il paletto di quercia.
La loro comparsa, annunciata dall'eco della corsa su per le scale,
è come boato in un deserto di ghiaccio: non ha nessun effetto
sulla scena che si ritrovano davanti.
Jane è distesa sulla lunga poltrona: immobile, le palpebre
calate sugli occhi, le mani sul ventre. Una donna vestita di bianco
è inginocchiata accanto alla ragazza, come al capezzale di un
malato. Dà le spalle alla porta e all'arrivo dei due fratelli
non si lascia scuotere nemmeno da un misero sussulto.
Il cellulare di Jane è stato gettato sul pavimento: ha fatto da
canale di comunicazione, ha guidato Sam e Dean fin lassù, ha
permesso loro di udire buona parte della conversazione tra Jane e
laYuki-onna.
«Non sono io l'assassina» mormora la creatura. La sua voce
suona svuotata. Muove il capo il poco che basta perché Dean
riesca a scorgerne il profilo, in parte nascosto dalle lunghe ciocche
di capelli nerissimi. «Siete voi che mi state uccidendo...»
L'indice di Dean freme sul grilletto. Non può sparare: se fa
fuoco ora e la creatura si smaterializza, i proiettili colpiranno Jane.
Poi, è questione di un attimo.
Una forza invisibile solleva lo scrittoio. Con la velocità di un
oggetto lanciato da una catapulta, il mobile schizza verso di loro. Il
vaso va in frantumi, i fiori bianchi si spargono sul pavimento ed
è Sam a rovinare sotto l'urto contro il tavolo. L'impatto
è accompagnato da uno schianto secco — un rumore tanto
terribile da far temere a Dean che la gamba dello scrittoio non sia
l'unica cosa a essersi spezzata.
«Sam!»
Vede suo fratello sbattere la testa contro le assi del pavimento, il
paletto rotolare verso la poltrona e la Yuki-onna svanire in uno sbuffo
di nebbia.
Prima di ancora di poter muoversi di un passo, Dean si sente strappare la pistola via dalle mani dal nulla dell'aria.
In alto, qualcosa scricchiola.
L'attimo dopo, polvere e scaglie di intonaco piovono sopra le spalle dell'uomo.
Dalla fenditura appena apertarsi nel soffitto guizza fuori un cavo
nero: con lo stesso movimento di un colpo di frusta, il cavo si
attorciglia attorno al collo di Dean.
E inizia a stringere.
La Yuki-onna è di nuovo nella stanza.
Ha raccolto la pistola. Ed è piedi nudi tra i frammenti di vetro
ma non un goccia di sangue sporca l'acqua o macchia i fiori bianchi.
Sam strizza gli occhi: è ancora a terra, lo scrittoio gli schiaccia il costato.
La Yuki-onna solleva il braccio alabastrino, puntandogli la pistola alla testa.
«Io non sono l'assassina» ripete, senza forze. «Ma...
voi... non sareste mai dovuti venire in questa città. Mi
dispiace...»
«E t-ti è dispiaciuto anche quando hai ucciso tuo marito!» ansima Dean.
Ha stretto le mani attorno al cavo, nel tentativo di allentare la
stretta, ma è inutile. Gli manca il fiato, deve sbattere le
palpebre per non lasciarsi annabbiare la vista e cambia subito
strategia.
«Io amavo Jonathan» biascica la Yuki-onna, senza voltarsi
— e non vede Dean inclinarsi in avanti, sfidando il nodo sempre
più serrato e il cavo sempre più teso, fino a sentire
sotto le dita la liscia consistenza del manico del coltello infilato
nello scarpone.
«Ma anche lui aveva scoperto la verità... e se non l'avessi ucciso... sarei morta io».
Ed è proprio perché sta morendo anche ora —
comprende Dean — che non li ha già uccisi tutti,
congelandoli in un istante, come ha fatto con Donny Allen.
È troppo debole.
Così debole che quando la lama recide di netto il cavo, qualche
che fosse la magia che lo teneva vivo e stretto al collo del
cacciatore, cessa di funzionare.
Il cavo si affloscia come un serpente senza vita.
Dean scatta in avanti, portando una mano sotto la giacca.
La Yuki-onna preme il grilletto.
Il boato dello sparo rimbomba tra le pareti della piccola stanza, fa
vibrare i vetri della finestra e sovrasta il gemito della Yuki-onna.
Solo Dean riesce a udire il verso di dolore e di sorpresa: circondato
il collo della donna con un braccio, le ha conficcato il paletto nella
schiena, all'altezza del cuore. Senza battere ciglio, senza altra
emozione che non sia il dover di uccidere, spinge il legno nella carne.
E continua a spingere fin quando non avverte il corpo della creatura
accasciarsi tra le sue braccia.
Estrae il paletto. Fa un passo indietro.
La donna delle nevi crolla tra i resti del vaso e dei fiori. Sotto lo
sguardo impassibile del cacciatore, il suo corpo si dissolve in un
turbinio di ghiaccio, proprio come la fiamma di una candela si spegne
sotto a un soffio, lasciando un sottile filo di fumo.
Dean non è il solo ad assistere alla scena: visibilmente
frastornato e dolorante, Sam si sta riprendendo dalla botta al capo.
A pochi centimetri dal suo orecchio, il proiettile si è conficcato in una delle assi di legno del pavimento.
Dean si precipita accanto al fratello. Lo aiuta a liberarsi del peso
dello scrittoio — che viene rovesciato bruscamente sul pavimento
— e a mettersi seduto.
«Ehi! Vacci piano... sei tutto intero?»
Sam scuote il capo, si passa le dita tra i capelli, apre e chiude gli occhi.
«S-sì...» mugugna.
Dean lo vede spostare lo sguardo, di colpo allarmato, su un punto oltre le sue spalle.
Di riflesso, il fratello maggiore si volta.
Jane non si muove.
Con un «No» sibilato a denti stretti, Dean torna in piedi e raggiunge la poltrona.
Mentre si piega su un ginocchio, nella visione di Jane distesa sulla
lunga poltrona, inerme e con gli occhi chiusi, c'è qualcosa che
gli suscita rabbia: è la posizione del corpo della
ragazza.Dev'essere stata la Yuki-onna a sistemarle i capelli dietro le
orecchie e le mani sul ventre, l'una sopra l'altra.
Pronta per la tomba — a quel pensiero la rabbia diventa un
boccone velenoso che il cacciatore si impone di mandar giù.
Prende il viso di Jane tra le mani: la pelle di lei è arrossata e fredda come il marmo.
Le tasta prima il collo e poi i polsi, in cerca di un debole battito cardiaco.
Non lo trova.
Si china in avanti, accostando la propria guancia al volto di Jane, nella speranza di riuscire ad avvertire un flebile respiro.
Non lo sente.
______________________________________________________________
Due noticyne (molto superflue):
1) La Yuki-onna fa parte del folklore giapponese ma, anche se ho tenuto
fede alla maggior parte delle caratteristiche delle leggende originali,
qui e là ho aggiunto o cambiato qualcosa per adattarla meglio
all'universo del telefilm. L'Epilogo chiuderà qualsiasi punto
rimasto poco chiaro in questo capito, troppe spiegazioni avrebbero
rallentato l'azione.
2) Io c'ho l'animo del cast director: come per Jane, anche per la
cattifah di turno non ho tenuto a bada la voglia di scartabbellare
attrici su attrici e sceglierne una
sulla quale cucire l'espressività del personaggio. La mia
soddisfazione per quel photoset sfiora l'indecenza, ma vabbé.
|
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Capitolo 9 *** Epilogo ***
part 1
N/A. And that's a wrap. Epilogo rivisto e pubblicato in tempi record.
______________________________________________________________
Epilogo
La riga luminosa incide il nero del monitor. Disegna picchi sempre uguali, a un ritmo sempre uguale.
Quelle linee bianche, insieme al cadenzato segnale acustico dei
macchinari, testimoniano che la vita nel corpo della ragazza resiste.
Sam, ai piedi del letto, osserva il viso di Jane: addormentato,
tranquillo nella totale assenza d'espressione, incorniciato dal rosso
smorto delle lisce ciocche. Il petto di lei, sotto alla stoffa del
camicione, si alza e si abbassa in respiri poco profondi ma regolari.
Più di undici ore prima, nella stanza bianca, un respiro molto
più flebile di quelli è stato sufficiente per restituire
speranza ai cacciatori.
Sono stati attimi di gesti convulsi e di decisioni prese in un batter d'occhio.
Hanno coperto Jane con le loro giacche. Dean l'ha sollevata in braccio
per spostarla al pian terreno, dove l'aria poteva essere più
calda. Sam ha composto il 911. Poi, il bagliore blu e il suono di una
sirena, il sobbalzo di una barella, una corsa verso l'ospedale. Tutto
è terminato nel quieto brusio di un corridoio del terzo piano,
quando un medico di mezza età — radi capelli grigi e lindo
camice bianco — con il misto di tatto e solerzia adatta al
proprio ruolo, ha spiegato: «Vostra cugina è viva, signori
Simmons». Un ma non detto è rimasto ad aleggiare nell'aria
odorosa di medicinali. «Sfortunatamente, la bassa temperatura ha
rallentato la circolazione del sangue per un periodo di tempo troppo
lungo e il cervello non ha ricevuto sufficiente ossigeno. C'è
speranza che la ragazza si risvegli dal coma, ma anche in tal caso, non
possiamo sapere quali e quanto gravi danni il suo sistema nervoso abbia
riportato».
Sam si è detto che un letto d'ospedale è pur sempre
meglio del tavolo di un obitorio o di una pila in fiamme, ma da un'idea
del genere ha ottenuto una magra consolazione, subito sostituita da un
flusso di pensieri ben più amari.
Se fossero stati meno negligenti nel controllare il vecchio edificio.
Se non avessero lasciato Jane da sola.
Se fossero arrivati prima in quella maledetta stanza.
Se, semplicemente, avessero compreso subito la verità.
Solo adesso Sam inizia a realizzare quanto sia stata inutile la propria
fuga. Per un anno intero, tra le braccia di Amelia, ha creduto con
tutto il cuore di essersi finalmente liberato della vita da cacciatore.
Ha sperato che fossero finiti i giorni in cui era costretto ad
addossarsi la responsabilità delle esistenze altrui, spezzate o
rovinate per sempre.
Tutta un'illusione.
Il cacciatore distoglie lo sguardo. Respira pesantamente e si appresta a lasciare la camera.
In una manciata di minuti, raggiunge Dean nel parcheggio St. Peter's
Hospital: un'arida distesa di asfalto nero e di automobili, rischiarata
dalle pozze di luce dei lampioni.
È tarda sera. Ha smesso di piovere e le nuvole iniziano a diradarsi, mostrando scaglie di cielo buio e vuoto.
Dean se ne sta appoggiato allo sportello dell'Impala: mani affondate
nelle tasche e sguardo basso. L'illuminazione, che piove dall'alto,
scava i suoi lineamenti regolari, dando loro un aspetto più
severo e dolente di quanto siano normalmente.
Quando Sam lo raggiunge, il maggiore dei fratelli Winchester non si prende la briga di alzare lo sguardo.
«Dobbiamo decidere cosa fare» principia Sam.
La reazione di Dean è stoica: «Torniamo al negozio e
facciamo sparire ogni traccia. Registrazioni comprese. Tempo pochi
giorni e qualcuno denuncerà la scomparsa della libraia. Dobbiamo
tenere i sospetti lontani da Jane».
Sam stringe le labbra in un cenno di assenso.
«E con lei, con Jane, cosa facciamo? Hai sentito i medici, Dean.
Non hanno idea di quando si risveglierà. Noi dobbiamo trovare
Kevin, non possiamo restare qui. E Jane ha una famiglia. Che ha il
diritto di sapere cosa le è successo».
«E lo saprà. Adesso andiamo» ribatte Dean, lapidario.
Sam lo guarda aprire la portiera con uno strattone.
Non c'è altro da dire ad alta voce. Sam sa già cosa
nasconde la cupa immobilità del viso del fratello. Sa che, per
Dean, il fatto di conoscere Jane Leigh da meno di un paio di giorni non
serve ad attenuare il rimorso. Sa che, per Dean, conta solo una cosa:
avrebbe potuto tenerla al sicuro e non l'ha fatto. E non è
disposto ad assolversi dalla colpa. Si lascerà alle spalle
Mansfield e il caso della donna delle nevi, ma non il ricordo di non
aver fatto abbastanza per proteggere l'ennesimo innocente.
* * *
Mentre l'Impala esce dal parcheggio, immettendosi nel sonnacchioso
traffico serale della cittadina, qualcuno al terzo piano dell'ospedale
esce dalla stanza di Jane.
La mano che si abbassa sulla maniglia appartiene a un uomo: pelle
olivastra e un bracciale di cuoio attorno al robusto polso. Non
è un medico né un infermerie quel giovane, in camicia di
jeans, che adesso guarda entrambi i lati del corridoio momentaneamente
deserto. Dai suoi occhi scuri non trapela alcun tipo di turbamento,
sebbene sia consapevole di non avere l'autorizzazione per essere
lì. Nessuno l'ha notato accedere al reparto. Nessuno l'ha notato
oltrepassare l'ingresso dell'edificio ospedaliero. Nessuno lo
vedrà uscire. Neppure le due infermiere che, tra pochissimi
minuti, si precipiteranno per prime a prestare assistenza a una ragazza
appena risvegliatasi dal coma.
* * *
«Ed ecco le copie della contabilità della libreria».
Jane sventola la cartellina sottile sotto il naso di Sam.
Lui gliela sfila dalle mani, per sfogliarla distrattamente.
Siedono entrambi sul divano, nel soggiorno del 2601 di Wakefield
Terrace. Non c'è più traccia della profetica frase
impressa dalla Yuki-onna sopra al camino e la stanza è stata
rassettata a dovere. Jane, tornata a casa la mattina precedente, ha
spazzato il pavimento e gettato via i cocci; tolto di mezzo la cornice
vuota e sostituito le lampadine fulminate. Un lavoro notevole per
qualcuno che ha sfiorato la morte per assideramento, è stato in
coma per dodici ore e ha trascorso gli ultimi cinque giorni bloccato in
ospedale, sottoposto ad analisi su analisi, accertamenti su
accertamenti.
Gli esiti dei controlli hanno lasciato allibiti i medici ma nessun
spazio per i dubbi: l'organismo di Jane non ha risentito dei traumi
subiti. Si è risvegliata sana come un pesce e i dottori, a parte
mormorare come una simile ripresa abbia del miracoloso, non hanno
potuto far altro che dimetterla. La ragazza, dal canto suo, si è
posta qualche lecita domanda e, dopo aver accuratamente esaminato a
quali risultati l'ha condotta la sua curiosità, ha convenuto che
per una volta può far a meno delle risposte. Si sente in forze
come mai si è sentita in vita sua, e tanto le basta. A ricordo
delle sue sfortune, resta il taglio al palmo della mano sinistra, i
lividi alle ginocchia e non un grammo di sollievo per la fine degli
orrori della piccola libreria.
È stato Dean Winchester a colpire la Yuki-onna ma, in cuor suo,
Jane riconosce in sé stessa e in nessun altro la causa della
morte della signora Sternwood.
«Più uscite che entrate» continua, raccogliendo la
tazza di tè dal tavolinetto. «Lei non mi aveva mai detto
dei problemi con il negozio, ma spiegano perché avesse iniziato
a vendere gli oggetti antichi sotto falso nome. Stampa giapponese
compresa».
Sam abbandona la cartellina sul tavolinetto da caffè — che
è già occupato da due piccoli libriccini rilegati in
pelle.
Poi, appoggia gli avambracci sulle gambe e guarda Jane. «Posso farti una domanda?»
Jane mugugna un verso di assenso.
«Ricordi qualcosa... del coma?»
«Niente luci in fondo al tunnel e niente esperienze
extra-corporali». La ragazza soffia sul tè. «In
effetti, non c'è stato proprio niente di niente. È come
se quelle dodici ore non fossero mai esistite. Ricordo il freddo e
poi... il soffitto della camera, in ospedale. Francamente, mi va bene
così».
Il rombo di un motore dirotta l'attenzione di entrambi verso la
finestra: fuori è l'inizio di una placida giornata autunnale.
Brandelli di basse nuvole grigie avvolgono le cime delle colline
coperte di boschi e il cielo è ancora un gonfio tappeto bianco,
ma qui e là fanno capolino pennellate di azzurro.
In strada, una lunga automobile con la carrozzeria nera rallenta fino a fermarsi davanti alla casa di Jane.
È l'Impala.
Sam e Jane osservano Dean scendere e percorrere il vialetto.
«Perché tuo fratello cammina sempre come un cowboy appena smontato da cavallo?»
«Difetto di fabbrica».
«Temevo fosse una scelta di vita».
Un rumore all'ingresso e Dean li ha raggiunti in soggiorno.
«Serbatoio pieno. Possiamo partire» esordisce,
avvicinandosi al divano. Un'occhiata a Jane: «Bel vestito».
Jane pecca di ingenuità e sorride.
«Davvero? Ti piace?»
Ma si dà il caso che l'abituccio sembri rubata agli anni
Sessanta: una lunga blusa bianca, lavorata a maglia, con un paio di
balze in pizzo come orlo per la gonna.
«No. Nonna Papera rivuole indietro i suoi centrini».
«Amico, tu quando sei diventato un fashionista?» interviene Sam.
«Non è mai successo» decreta Jane. Sorseggia il suo tè. «Allora, avete nuova meta?»
«Minneapolis» sillaba Sam, lanciando un'occhiata strana alla volta del fratello.
«Notizie da Harrison Ford?»
«No» risponde Dean. «Ma abbiamo notizia di due cuori
strappati, nel giro di sei mesi, in quella città». [1]
«Scenario incantevole».
Dean raccoglie dal tavolino uno dei libri.
«Questo è...»
«Uno dei suoi diari» lo anticipa Jane. «Erano tutti
nascosti e tenuti sotto chiave nella scatola con il grosso lucchetto.
Ho dovuto usare un martello».
«Ma hai davvero intenzione di tenere tutta la sua roba?»
chiede Sam. Con un vago cenno del capo, indica alle proprie spalle.
Si riferisce alla camera degli ospiti — dove, stivato con
minuziosa cura in una decina di scatoloni, c'è quanto era
conservato nella stanza in cima alla libreria.
Dal letto d'ospedale, Jane ha chiesto a Sam e a Dean il favore di
tornare lassù e svuotare ogni cassetto e ogni vano. Ne è
uscito un bottino degno di un museo dedicato all'Ottocento: cofanetti
pieni di gioielli, abiti e cappellini, giocattoli e libri. I diari si
sono rivelati una lussureggiante forte di informazioni. Jane ha
scoperto che C.B.W. erano le iniziali di Crystal Blanche Wells:
l'identità assunta dalla Yuki-onna al suo arrivo negli Stati
Uniti. Ha letto che la bambina nacque in Inghilterra nel 1858, figlia
di un tale signor Haydon di Londra. Era umana e fu la tubercolosi a
portarsela via. Ma la scoperta più inaspettata è stata
sulla capacità della Yuki-onna di mutare i dettagli del proprio
aspetto fisico: non un dono innato della sua razza ma l'effetto di un
incantesimo, perché più di ogni altra cosa la donna delle
nevi desiderava poter vivere tra gli esseri umani e non nascosta nelle
foreste, come quelle che diario definiva 'sorelle'.
«Li metterò in un deposito» spiega Jane. «Ma
non voglio che vadano perduti». Anche se è impegnata a
fissare il bordo smussato della tazza, la ragazza avverte su di
sé lo sguardo poco convinto dei due cacciatori. «Sentite,
sembra assurdo... alla luce del fatto che abbia tentato di
ammazzarmi... ma non ci riesco a pensare a lei come a un mostro. Non
era cattiva. Anzi, sono sicura che a modo suo... un modo poco sano,
certo... mi volesse bene sul serio».
«Jane, non si uccidono le persone alle quali si vuole bene» fa notare Sam.
«E chiederle di sacrificare la sua vita per la mia non è
un richiesta da poco» insiste Jane. «Quel diario... risale
al periodo in cui ha avuto la bambina. C'è la cronaca di tutta
la sua sofferenza del vedere la figlia ammalarsi e morire. Dicono che
non ci sia dolore peggiore di quello di un genitore che perde un
figlio. Immaginate come dev'essere stato convivere con quel dolore per
centoquarantasette anni? Non mi stupisce che alla fine sia...»
«Diventata pazza?» suggerisce Sam.
«Non era pazza. Credo solo che... qualcosa, sotto la superficie della normalità, fosse andato in pezzi».
Dean e Sam continuano a sembrarle perplessi.
«È davvero così inconcepibile, per voi due, avere
pietà di qualcuno anche se non è umano?»
È Dean a rispondere. Lo fa senza guardare né Jane né il fratello.
«No» afferma. E mette giù il diario.
Jane osserva il profilo del cacciatore, incerta sul reale significato
da dare a quella risposta. E al modo in cui è stata pronunciata.
Poi, il breve silenzio viene rotto dal secco toc della tazza di
tè che la ragazza poggia sul tavolino. Si strofina le mani sulle
gambe, prima di alzarsi in piedi e annunciare: «Be', ho qualcosa
per voi».
I bassi tacchi degli stivaletti marroni fanno un discreto fracasso,
prima sul parquet, poi sul linoleum della cucina e poi di nuovo sul
parquet, quando Jane si ripresenta in soggiorno con una scatola per
alimenti tra le mani. Stende le braccia e la porge a Dean. «Per
il viaggio. Sfornata un'ora fa» cinguetta. «Visto che la
prima volta che sei entrato in questa casa, c'è mancato poco
così che non sbavassi sull'altra torta...»
Dean solleva il coperchio: il profumo di torta di mele è
inconfondibile e il sorriso del cacciatore più eloquente di
qualsiasi parola.
Jane arriccia il naso in una smorfietta.
«Consideratelo anche un grazie in più per avermi... be',
salvato la vita. Alla fine, mi sono davvero comportata come la
protagonista stupida di un film dell'orrore».
* * *
In fondo al vialetto, è tempo di salutarsi.
Jane, sollevandosi in punta di piedi, abbraccia Sam. Lui le accarezza
la schiena e lei stringe le dita sottili sulla stoffa marrone della
giacca del cacciatore, mentre respira profumo di dopobarba misto a un
odore che ricorda quello della pelle dei sedili della vecchia Impala.
Dean li ha osservati in silenzio. Ora, davanti a lui, Jane è
costretta a dissimulare l'improvvisa titubanza con un sorriso
sghembo.
«Niente abbraccio per me, Nancy?» sogghigna amabilmente il cacciatore.
Jane sbuffa in silenzio e alza gli occhi al cielo.
Poi, si fa più vicina, quanto basta per posagli una mano una guancia e un asciutto bacio sull'altra.
Dean deve accontentarsi e sale in auto, mentre Sam, un attimo prima di seguirlo, si rivolge a Jane.
«Ehi, un'ultima cosa: cos'era quella storia della regola ventidue?»
Jane se la ride.
«Non avete mai visto Zombieland? Sono le regole per sopravvivere
in un mondo post-apocalisse zombie. Non-così-sorprendentemente
utili anche nel nostro, di mondo. La regola ventidue è: conosci
sempre la tua via d'uscita. Voi due siete la regola otto».
«Vale a dire?» chiede Dean, dal finestrino abbassato.
«Trovati un compagno con le palle». [2]
Entrambi i fratelli sbuffano un mezzo sorriso. Sam prende posto accanto a Dean e Dean afferra il volante con entrambe le mani.
«Sta lontana dai guai, Nancy Drew».
Con quell'ultima frase, il motore scoppietta e i fratelli Winchester se ne vanno.
Jane resta sul vialetto, fin quando l'automobile non scompare dalla sua visuale.
Adesso, Wakefield Terrace — le sue bianche case, le sue zucche
sui portici e i suoi alberi dalle fronde dorate — è quanto
di più tranquillo e ordinario si possa desiderare.
Jane stringe le braccia al petto e cerca con le dita la metallica solidità del ciondolo a forma di gufo.
È il momento di tornare a fingere che il mondo sia un posto dove niente sfugge alle leggi del naturale.
FINE
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[1] Il dialogo è basato sulla scena iniziale
dell'episodio 8x03 quando, nel marcato all'aperto, Dean - vincendo le
resistenze di Sam che preferirebbe mettersi sulle tracce di Kevin -
trova notizie sul prossimo caso da risolvere. Non ricordo se nella
scena viene indicato dove si trovino i Winchester, ma potremmo fingere
u.u che il mercato si trovasse proprio dalle parti di Mansfield. E che
quindi la conversazione sia avvenuta proprio poco prima che Sam e Dean
si separino da Jane.
[2] "Get a kickass partner" nel film del 2009.
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Inutili chiacchiere
Note finali
A chiunque mi abbia seguita fino all'ultima parola o solo
saltuariamente o capiterà da queste parti in futuro: grazie! And
let me hug you!
Io mi commuovo per aver portato a termine qualcosa nella vita
una storia. Un giorno, una mia versione del futuro tornerà a
leggere questa fan fiction e la decreterà una vergogna da
riscrivere da capo a piedi, ma per ora ho fatto del mio meglio. Non
sono una scrittrice di professione e nemmeno una sceneggiatrice per la
tv, volevo solo provare e divertirmi. Spero che a qualcuno il
personaggio di Jane sia piaciuto, almeno un filino. Da parte mia, mi
garbava l'idea di far interagire Sam e Dean con un personaggio
femminile, e positivo, che fosse nelle corde dello show, ma magari
leggermente diverso da quelli che ci hanno proposto in tutti questi
anni gli autori. Jane è lontana dallo sterotipo della
cacciatrice, di una Xena senza macchia e senza paura, ma non è
prettamente e soltanto la damsel in distress di turno. Sotto questo
aspetto, credo sia simile a Charlie, anche se in quanto a carattere
temo che i due personaggi siano agli antipodi. Che poi Jane si ficchi
comunque da sola nei guai e qualcuno la debba tirare fuori all'ultimo
minuto, be', quelle sono esperienze di vita. Nessuno nasce eroe, a mio
parere. A proposito di eroismi vari: prego e scongiuro di essermi
tenuta discretamente alla larga dai cliché alla Mary-Sue. Ma ora
colgo l'occasione per annunciare che, poiché nessuno mi ha
ancora invitato a dedicare il mio tempo libero ad altre
attività, i fratelli Winchester non riusciranno ad arrivare sani
e salvi alla fine dell'ottava stagione senza incappare di nuovo in Jane
durante un secondo episodio. Da qui la mia scelta di lasciare aperte
alcuni punti secondari della trama della fanficion. Gettate le basi con
un primo incontro, sfrutterò il nuovo racconto per far evolvere
il personaggio e il rapporto con Sam e Dean. E non si sa mai, da
qualche parte potrebbe persino esserci spazio per una sorta di risvolto
più o meno romantico.
Per ora, un saluto a tutti dalla vostra tazzina di tè!
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