Burning Up di RosenrotSide (/viewuser.php?uid=48264)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** America’s power ***
Capitolo 2: *** Run, idiot! ***
Capitolo 3: *** Voices, I hear voices ***
Capitolo 4: *** I get what I want ***
Capitolo 5: *** Waiting for you ***
Capitolo 6: *** You are my hero ***
Capitolo 7: *** Burning Up ***
Capitolo 8: *** She burns my horizons ***
Capitolo 9: *** Wo bist du? ***
Capitolo 10: *** Wo bist du, again? ***
Capitolo 11: *** Break Away ***
Capitolo 12: *** Everybody here ***
Capitolo 13: *** We’re all living in Amerika ***
Capitolo 14: *** Stella del mattino ***
Capitolo 15: *** Mein Herz Brennt ***
Capitolo 16: *** Hola chica de la noche ***
Capitolo 17: *** Nothing Else Matters ***
Capitolo 18: *** Lost Heaven ***
Capitolo 19: *** Unforgiven ***
Capitolo 20: *** The Unforgiven II ***
Capitolo 21: *** All the things they said ***
Capitolo 1 *** America’s power ***
Questa è una storia di pura fantasia che non intende dare alcuna rappresentazione reale dei caratteri o delle azioni dei personaggi rappresentati, che non conosco e non mi appartengono; la storia è stata scritta senza scopo di lucro alcuno.
Anzi, aggiungo che, come si è visto dall'introduzione, mi sono divertita a cambiare, anche se non radicalmente, il carattere dei protagonisti, ovvero i Tokio Hotel.
Getting Started
Bill Kaulitz non è uno stinco di santo, suo fratello Tom non scopa come un riccio, il timido Gustav non è poi così timido e quando vuole parla a raffica e Georg Listing, l'hobbit che tutti prendono di mira, è quello più furbo e che conquista più ragazze.
Se erano questi i ragazzi che conoscevate, dimenticateveli.
Io che lavo la loro biancheria tutti i giorni posso giurarvelo davanti ad ogni Dio esistente.
*
-Anya, dov'è la mia maglietta a righe?-
-Anya, i miei boxer!-
-Anya?-
-Anya! Dove sei?-
-Anya!- urlano quattro voci da quattro camere diverse dello stesso piano d'hotel. Per fortuna è riservato solo a loro, altrimenti ogni mattina ci sarebbe qualcuno a protestare con quel sant'uomo del direttore.
La ragazza non potè fare a meno di sentirsi come una fotocopia della povera Cenerentola presa di mira dalle sue sorellastre; solo che il controllo, nel suo caso, era rinforzato: non erano Genoveffa e Anastasia a romperle le scatole ogni benedetto giorno del calendario, ma quattro vandali teppisti con delle facce da schiaffi che cantavano canzonette.
Questa, per lo meno, era la sua personalissima opinione, non di certo condivisa dalle migliaia di fan della band tedesca.
-Vi ho sentiti!- urlò in risposta con quanto fiato aveva in gola. Si stropicciò ancora una volta gli occhi e, mezza nuda e con i capelli arruffati, iniziò la sua ronda quotidiana.
-Eccotela qua la tua adorata maglia!- lanciò l'indumento ad un Bill in jeans, petto nudo e capelli da pazzo. Il ragazzo le mandò un bacio con la mano affusolata e andò in cerca delle sue scorte di deodorante.
Sbadigliando senza ritegno, Anya entrò in camera del secondo Kaulitz della situazione, sciabattando per farsi sentire e lasciandogli una pila di boxer accuratamente piegati sul letto sfatto.
-Vuoi farti la doccia con me, tata?- chiese il rasta, facendo capolino dalla porta del bagno, ma Anya non lo degnò neanche di uno sguardo, dirigendosi poi in camera di Gustav, che gli grugnì qualcosa di incomprensibile e poi da Georg, l'unico vero amico che aveva in quella gabbia di matti.
Bè, se l'era cercata.
1.
America's Power
Internet è una rete infinita, è una grande trappola. Internet è una grande casa.
E’ un fantomatico popolo e il popolo americano scelse i Tokio Hotel; si risvegliò da un tepore ovattato durato anni e ascoltò alcune loro canzoni. Si sentì bruciare e vivere come mai prima. Così fece passaparola.
Al principio della grande avventura nel Nuovo Mondo, impresa che i quattro ragazzi consideravano addirittura più importante della scoperta del continente stesso, i Tokio Hotel, nonostante la rete, erano dei perfetti sconosciuti, un’utopia, solo quella, nella mente di qualche ragazza super informata.
David Jost, che coltivava il sogno di conquistare l’America con la giovane band, da mesi cercava, insieme al resto del management, di trovare una strategia vincente per schiacciare sotto ai loro piedi quel mondo che ancora sfuggiva al potere tedesco della band.
I ragazzi, seppur eccitati, non si lasciavano coinvolgere troppo da questi piani: sapevano che rimanendo se stessi, avrebbero fatto già di per sé più scalpore che non presentarsi ai nuovi potenziali fan come dei freddi calcolatori costruiti, anche se, come ricordava loro David, lasciare tutto al caso sarebbe stato come gettarsi da un dirupo senza paracadute. Se poi non li avessero amati, la vecchia Europa era già un buon regno su cui dominare.
Quel mattino, Bill, lo sparviero indomito, con gli occhi piccoli di sonno, struccati e i capelli in disordine, respirava a pieni polmoni l’aria fredda di New York, scacciando di tanto in tanto con un gesto spazientito della mano l’odore di gas del traffico congestionato delle vie perennemente affollate.
Era la prima volta che andava in America, anche questo faceva parte del piano di David: sondare il futuro terreno di gioco.
Bill se ne girava con le mani in tasca, il naso perso per aria, beandosi di passeggiare fra la gente, sbuffando di tanto in tanto per il piacere di vedere l’aria del suo respiro condensarsi davanti a lui in nuvolette bianche.
Si guardava intorno e camminava.
Le strade di quella città cosmopolita erano diverse da tutte le altre che aveva visto in quegli anni. I grandissimi pannelli al neon delle pubblicità o le insegne dormivano, spente, in attesa della notte per rischiarare il via vai incessante di auto, tante auto e taxi gialli, di quelli che si vedevano sempre nei film. La gente camminava a testa bassa, avvolta in cappotti e sciarpe di lana, i semafori scattavano ogni secondo, ammiccando come tante paia di occhi seducenti. Era decisamente facile perdersi in quella confusione di negozi appena aperti, saracinesche che alzavano il loro sguardo sul cielo plumbeo e gente munita di ventiquattrore che si dirigeva verso grandi scalinate per raggiungere la metropolitana.
La mattina americana aveva un sapore diverso da quella europea.
Bill si sentiva libero, assonnato, ma libero ed era una sensazione talmente grande da invaderlo completamente, togliendo il posto a tutti gli altri sentimenti.
Così grande da far sparire il freddo dalle sue spalle protette da un giacchino di pelle imbottito, ovviamente griffato.
Non capiva una parola di quello che i passanti dicevano, ma provava ad immaginarlo dai visi e dai gesti, in quel gioco solo suo a cui cambiava continuamente le regole.
Lo seguivano il fratello, infagottato nei soliti abiti giganteschi per la sua figura magra, Georg con i capelli sotto un berretto di lana, Gustav, Saki in borghese che comunque spiccava per la sua stazza e poi Anya a chiudere la fila. La ragazza doveva correre continuamente per non rimanere indietro e rischiare di perdersi. Avvolta in uno spolverino di lana grigia spessa, continuava a sistemarsi sulla spalla la tracolla di una grande borsa, che persisteva a scivolarle giù mentre affrettava il passo, guardandosi intorno.
-Ehi- strattonò la giacca del bodyguard che la precedeva –possiamo fermarci un attimo?-
L’uomo annuì, trattenendo Tom per il cappuccio della felpa e fischiando agli altri perché si fermassero.
Bill sbuffò.
-Che c’è ancora?-
-Ho trovato la lavanderia, io mi fermo qui- annunciò Anya, guardandolo storto.
-Dove?- Georg si alzò in punta di piedi cercando il negozio.
-Dall’altro lato della strada- gli indicò Anya.
-Non puoi mica andarci da sola!- ribattè il ragazzo, sistemandosi meglio il berretto sui capelli accuratamente piastrati.
-Che palle!- sbuffò ancora Bill.
-Non c’è problema, basta che quando vi chiamo, mi torniate a prendere. Altrimenti posso anche andare direttamente in hotel con un taxi-
-Vengo io con te-
Tutti si voltarono verso Tom, che si era offerto volontario.
-Sono stufo di camminare- si giustificò il rasta –E poi, adoro le lavanderie!-
Anya alzò gli occhi al cielo. Idiota!
-Eh va bene, mi sopporterò lo zozzo, sbrighiamoci però!- disse, prendendolo per un braccio.
-Allora mi chiami quando avete finito?- le domandò Saki, guardando l’orologio che teneva al polso.
-Sì, stai tranquillo-
Anya afferrò la mano di Tom, poi, stando bene attenti a non farsi investire, attraversarono in fretta la strada, trovandosi sul lato opposto.
Che condanna!, pensò Anya, per la centesima volta o giù di lì.
-Dite che c’è da fidarsi?- li guardò interrogativo Gustav, mentre i due approdavano sul marciapiede opposto incolumi.
-Gus, Anya ha più cervello di voi quattro messi insieme e Tom può benissimo essere scambiato per uno di quei pazzi rapper americani, quindi io non vedo alcun problema- scherzò Saki.
Bill incrociò le braccia al petto e fissò il suo sguardo sulla figura della ragazza che, trascinando suo fratello, si stava dirigendo verso la lavanderia.
Si chiese come una persona così minuta potesse trasformarsi al momento opportuno in una tigre. Se lo chiedeva da tempo, ormai.
Ne osservò i capelli castani sciolti sulle spalle, la borsa a tracolla, la camminata agile, nonostante le piccole gambe e i tacchi alti. Era cresciuta con loro, in fondo; era la persona che li conosceva meglio di chiunque altro.
Bill distolse lo sguardo e lo concentrò su Saki, aspettando che il bodyguard desse segno di riprendere la passeggiata. Senza sapere perché, maledisse Tom per essere andato con lei.
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Capitolo 2 *** Run, idiot! ***
Run Idiot
2.
Run, idiot!
Stranamente, Tom non andava mai a cercarsi troppi guai. Erano i guai a
trovare lui e si divertivano anche un mondo a vederlo dannarsi.
Anya frugò nelle tasche dei jeans alla ricerca dei gettoni
per la lavatrice, sperando che andassero comunque bene quelli che aveva
avanzato la scorsa volta in un'altro negozio. Oggi doveva fare un
carico di vestiti neri, i più numerosi.
Tom entrò nella lavanderia, tenendole aperta la porta e la
ragazza si fiondò ad occupare la prima lavatrice libera;
aprì lo sportello dopo aver inserito il gettone e salutato
con un cenno del capo il proprietario del negozio, un hippy fumato e
con i capelli lunghi fino al culo.
Iniziò a tirare fuori gli indumenti sporchi ed infilarli
nella macchina, mentre Tom, con le braccia dietro la schiena,
fischiettava e la guardava chinarsi e rialzarsi, chinarsi e rialzarsi.
-Ma quanta roba c’è in quella borsa?- le chiese,
stupito. Era una normalissima borsa a tracolla, bianca, ma sembrava
contenere l’intero guardaroba di Bill.
-Tutta quella che sporcate!- sbuffò Anya, infilando nello
sportello l’ultima pila di magliette e boxer –Ne
producete una quantità industriale-
Tom sorrise alla figura della ragazza che, attivata la lavatrice, si
sedette sul piano d’appoggio e incrociò le gambe,
poggiando le mani dietro di sé e alzando lo sguardo al
soffitto.
Quanto odiava quel lavoro, Dei del cielo, quanto lo odiava!
-Scheisse- borbottò fra sé.
Tre anni della sua vita sprecati al servizio di quelle scimmie dal culo
d’oro. Aveva studiato lingue e ora tutto quello studio andava
buttato nel cesso; spagnolo, italiano, inglese, francese erano buoni
solo a mandare a quel paese la gente.
Comodo, avere dei genitori che se ne fregavano di lei, comodissimo. Se
solo avesse avuto una madre con un po’ di senno, non si
sarebbe “venduta” come serva a quella band di
idioti. Se solo l’avesse avuta una madre. Il caso voleva che
quella santa donna fosse un’alcolista.
Non che ad Anya fregasse più di tanto, in fondo, non se ne
faceva un cruccio, l’abitudine rende dura la pelle; di certo,
non era un buon motivo per fare la vittima.
Terminati gli studi aveva deciso che il paesino in cui viveva era tropo
piccolo per tutte le sue ambizioni. Voleva viaggiare, vedere posti
nuovi, conoscere altre persone a differenza delle solite quattro facce
che dall’infanzia la perseguitavano.
La soluzione giusta era arrivata con Natasha, sua cugina di secondo
grado. Parente di suo padre, aveva qualche anno più di lei e
faceva la truccatrice.
Sin da quando era piccola, Anya aveva guardato alla cugina come unico
punto di riferimento, una sorta di ancòra che la tenesse aggrappata ad
una vita un po’ più normale. Aveva vissuto con lei
e gli zii per un certo periodo, poi si erano dovuti trasferire per
lavoro. Lì ad Amburgo, Natasha aveva trovato
l’occupazione perfetta: la truccatrice di star.
-Calmina, tesoro, non sono di certo star- aveva sorriso ad Anya, quando
le aveva comunicato la notizia.
-Come no?- aveva mormorato, delusa, la ragazza.
-Sono una band di ragazzini, hanno tre anni in meno di te, niente di
speciale-
-Portami con te, Nati, ti prego! Non ce la faccio più a
vivere così, in questo posto di merda- l’aveva
supplicata.
-Dipendesse da me ti porterei in capo al mondo, ma sono appena stata
assunta e non ho alcuna voce in capitolo- si era scusata Natasha.
Sapeva, però, che la cugina non si sarebbe arresa tanto
facilmente.
Infatti, Anya si era fatta dare l’indirizzo e il nome della
persona che aveva contattato Natasha ed era giunta
all’Universal come una furia, pretendendo di parlare con il
menager della nuova band.
Attirato dal trambusto che quella ragazza stava creando nella hall,
David Jost in persona, che si trovava lì per caso, era sceso
e si era informato sul problema di quella tigre ribelle; Anya non aveva
di certo perso tempo.
-E’ lei il signor Jost?- gli aveva chiesto.
-Sì, sono io- aveva annuito l’uomo.
-Bene, io sono la sua nuova dipendente-
E da lì era partito tutto.
I compiti di Anya erano vari: rispondeva alle telefonate private dei
ragazzi ogni volta che erano occupati e in questo modo era diventata
fin troppo in confidenza con Simone e la signora Schafer, riordinava le
camere, lavava i vestiti dei quattro ragazzi, servizio che tutti gli
hotel di gran lusso in cui alloggiavano offrivano agli ospiti, ma,
visto che c’era lei, il menagement ne approfittava per
risparmiare un po’ di soldi e, in pratica, era al loro
servizio ventiquattro ore su ventiquattro.
Veniva pagata, naturalmente.
-Non abbastanza- precisava ogni volta che ne aveva
l’occasione e allora David le scompigliava i capelli,
divertito, e gli ricordava quello che gli aveva detto la prima volta
che si erano visti alla Universal.
-Signore, non importa se dovrò lavare i calzini
delle sue stelline, non importa se dovrò cambiare loro il
pannolino e preparargli il latte, l’unica cosa che mi importa
è andare via da questo posto di merda-
*
Tom si frugò in tasca in cerca del pacchetto delle
sigarette, mentre Anya tirava fuori gli abiti dalla lavatrice per
metterli nell’asciugatrice subito lì accanto. Una
volta usciti da lì, c’era il servizio di stiratura
in fondo al negozio per farli sistemare.
-Io vado fuori a fumarmi una sigaretta- disse Tom, alla ragazza.
-Ok, ma non sparire- gli raccomandò Anya.
Il rasta annuì ed uscì. Tirò fuori la
sigaretta dal pacchetto e l’accese, aspirando subito
dall’estremità e rilasciando poi il fumo dalle
labbra. Chiuse un attimo gli occhi, assaporando il sapore amaro della
nicotina e lasciando cadere un po’ di cenere per terra.
Aveva voglia di assaggiare il caffè americano accompagnato
dalla sigaretta, come vedeva fare in un sacco di film. Si era tolto il
berretto, allacciandolo ai passanti per la cintura dei jeans e si stava
sistemando la fascia, reggendo la sigaretta quasi finita tra due dita.
-Fuck, you bitch!- sentì urlare dal fondo della strada. Si
voltò per vedere da dove provenisse tutto quel trambusto e
fu urtato da una ragazza che scappava via. Lei gli andò a
sbattere contro in pieno, rischiando quasi di perdere
l’equilibrio e facendo cadere a terra una quantità
di CD. Tom la trattenne per il polso, evitandole la caduta rovinosa e
si chinò per aiutarla a raccogliere i dischi caduti, ma lei
lo prese per la giacca e lo incitò a correre, voltandosi a
vedere indietro l’uomo che la inseguiva, imprecando.
-Run, idiot!- urlò a Tom.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, preso dal panico, e si
fece largo tra la folla che si era fermata lungo il marciapiede,
pestando accidentalmente la sigaretta che gli era caduta per terra.
Cazzo, pensò, una scopata in
meno!
(Commento dell'autrice: Tiè, ti sta bene! XD)
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Capitolo 3 *** Voices, I hear voices ***
3.
Voices, I hear voices
Tom correva, reggendosi i jeans larghi che lo ostacolavano nella fuga
con una mano. Nell’altra teneva l’unico CD che era
riuscito a raccogliere da terra prima che la ragazza lo trascinasse
via. La copertina si era rotta e probabilmente anche il fragile disco
al suo interno.
La matta che ancora correva con lui non accennava a fermarsi, facendo a
zig-zag fra le persone e le vie, salendo e scendendo pericolosamente
dal marciapiede.
-This way-
Svoltarono in una stradina laterale piena di cassonetti
dell’immondizia, nascondendosi dietro ad un angolo. Tom
appoggiò la testa al muro e respirò
profondamente. Gli faceva male la milza. La ragazza si fermò
al suo fianco, chinata con le mani sulle ginocchia e ansimante per la
grande corsa.
-Si può sapere che cazzo hai combinato?- le
domandò Tom, formulando la domanda in inglese.
La ragazza lo fissò, scostando dal viso una ciocca ondulata
di capelli biondi e fulminando il rasta con un’occhiataccia
degli occhi castani.
-Non sono affari tuoi- replicò, superba.
Tom alzò un sopracciglio, chinando la testa di lato.
-Li hai rubati- disse, indicando i CD –E’ per
quello che quell’uomo ti inseguiva-
-E allora? Vuoi arrestarmi?- lo sfidò la ragazza,
parandoglisi davanti.
-No, ma almeno potevi prendere della musica decente, non quello schifo
di Metal!- replicò Tom, sapendo già di
provocarla. La biondina gli diede una spinta.
-Pensi di poter esprimere un giudizio? Scommetto che ascolti rap e
hip-hop tu, non è così? Che merda-
Tom annuì, divertito.
-Che cazzo hai da ridere? Ma guarda un po’ questo che
idiota!- sbottò la bionda, incrociando le braccia al petto
–Chi ti credi di essere?-
-Tom, piacere- rispose il rasta, sarcastico, porgendole la mano, che la
ragazza guardò incredula. Poi, inaspettatamente, senza
rancore, la strinse.
-E tu sei…?- chiese Tom.
-Lotte-
-Lotte?- domandò Tom, sicuro di non aver capito bene.
Sembrava il nome di un cane.
-Bè, in realtà sarebbe Charlotte, ma non mi
piace, allora lo storpio a mio piacimento- la ragazza
scrollò le spalle –Lotte, Lotti,
Charlie…-
-Charlie mi piace di più-
-Sì, va bè, non stiamo qui a discutere del mio
nome che ci sono cose più importanti a questo mondo. Dai,
andiamo- la biondina lo prese per mano, incamminandosi.
-E dove?- chiese Tom.
-A casa mia-
In realtà, “casa sua” era lo scantinato
di un palazzo, una sottospecie di garage adibito ad appartamento. Tom
entrò dopo che Charlie ebbe sollevato la saracinesca che
fungeva da porta d’ingresso e si ritrovò nel caos
vero e proprio in cui viveva la ragazza: c’era un motorino
scassato in un angolo coperto da un lenzuolo non più bianco,
un tavolo quasi totalmente sommerso da più strati di
cianfrusaglie varie, tra cui alcuni cartoni di pizza vuoti, un armadio
sistemato in un angolo e un grandissimo divano macchiato. Charlie ci si
lasciò cadere sopra, prendendo una bottiglia di birra da
sotto il sofà.
-Ne vuoi una?- chiese al ragazzo.
Tom si sedette affianco a lei e prese la bottiglia di vetro verde
chiaro che gli veniva offerta. Guardò le mani della ragazza:
aveva le unghie dipinte di nero, proprio come suo fratello, solo che
erano decisamente molto meno curate. A Bill non sarebbe di certo
piaciuta.
Il rasta si guardò ancora un po’ intorno: strano,
ma vero, quel posto gli piaceva. Non c’era nessuno che
potesse dire a quella ragazza di mettere in ordine e
l’ambiente, anche se mal tenuto, era grande e spazioso, visti
i pochi mobili che ospitava. Gli dava un particolare senso di
libertà. Un po’ come guardare il mare in tempesta.
-Vivi qui da sola?- chiese alla ragazza.
Charlie annuì.
-Non è granché, ma mi ci trovo bene. Evito di
scusarmi per il disordine, tanto qui è sempre
così- gli sorrise –Ma tu non sei di queste parti,
vero?-
-No, sono qui in vacanza- rispose Tom, poggiando la bottiglia di birra
finita sul pavimento.
-Con chi?-
-Mio fratello e degli amici-
-Vacanza studio o vacanza di piacere?- si informò Charlie.
-Diciamo di mezzo lavoro-
-E che lavoro faresti?-
-Suono la chitarra-
La ragazza lo fissò stupita.
-Tu?-
-Sì, perché?-
-Ma non avevi detto di essere un rappettaro?- gli occhi di Charlie si
fecero ancora più grandi dalla sorpresa e Tom
scoppiò a ridere.
-Assolutamente no. Mi piace l’hip-hop, ma suono in una band
rock- le spiegò il ragazzo.
-E come vi chiamate?-
Evidentemente l’argomento le interessava. Tom sapeva che, se
anche le avesse detto il nome della band, lei non avrebbe capito chi
erano. Non si era ancora abituato all’idea che lì
la gente non li riconosceva per strada o chiedeva loro un autografo. Se
solo avesse voluto, avrebbe potuto fuggire dall’Europa e
ricominciare a vivere lì. Si immaginò per un
attimo in quello scantinato, padrone dei suoi orari e della sua vita.
Poi si immaginò con una ragazza come Charlie lì
con lui. Quella ragazza gli ispirava follie. Ma no, non era la vita che
voleva.
-Tokio Hotel-
Questa volta fu Charlie a scoppiare a ridere. Si gettò di
peso con la schiena sul divano, tenendosi la pancia e
continuò a sghignazzare, asciugandosi le lacrime dagli occhi.
-Tokio Hotel!- ripetè, per poi continuare a ridere
–Che nome da sfigati!-
-Fai poco la spiritosa, ragazzina- disse Tom, chinandosi per darle un
pizzicotto al braccio e perdendo volontariamente l’equilibrio.
Per la prima volta, Charlie si trovò a contatto diretto con
gli occhi di lui. Smise di ridere e si concentrò sulle iridi
del ragazzo. Sapevano di sole. Sapevano d’Europa, come quelli
di uno spagnolo. Avevano le stesse sfumature dorate dei suoi.
Accarezzò con la punta delle dita la guancia di Tom,
scoprendola completamente senza barba, come quella di un bambino.
-Devi sapere una cosa, biondino- gli disse, spostandosi da sotto il
ragazzo e costringendolo a voltarsi a pancia in su –Io non
sto mai sotto-
Portò una gamba al di là del ventre di Tom e si
sedette sul suo stomaco accentuato dagli addominali poco scolpiti.
-Sei pure comodo- lo prese in giro, osservando l’aria
divertita di Tom, che le afferrò i fianchi.
-Perché tu staresti sempre sopra?- le chiese.
La prospettiva da domato non gli era mai stata troppo gradita, ma
Charlie, sopra di lui, sembrava una regina, i capelli dorati come una
corona. Era sciatta, ascoltava robaccia e viveva in un posto schifo, ma
era una regina. Il genere di ragazza che ha il fascino nel sapore
ribelle degli occhi.
-Il perché- spostò la sua mano verso il basso
ventre di Tom, sotto la maglietta ingombrante –sono fatti
miei-
Scese pericolosamente e sorrise dell’espressione del ragazzo,
rapito dal movimento della sua mano. Charlie si alzò di
scatto, lasciando Tom disteso sul divano.
Il cellulare del ragazzo vibrò nella tasca dei jeans.
-Bill?-
-Tom, ma dove siete finiti?- urlò il ragazzo
dall’altro capo della linea.
-Calmati! Dì a Saki di venirci a prendere alla lavanderia-
rispose il rasta.
-Spero che tu non ti sia cacciato in qualche guaio, quando vuoi sei una
vera testa di cazzo-
-Sì, grazie mammina- lo prese in giro Tom, chiudendo la
chiamata.
-Quindi sei tedesco- lo raggiunse la voce di Charlie. Era davanti
all’armadio e gli dava le spalle mentre si cambiava la
maglietta, senza alcun pudore di mostrare le spalle nude allo
semi-sconosciuto sul suo divano.
-Sì- annuì Tom.
Charlie si infilò una felpa da casa grigia e tirò
fuori i capelli dal colletto, lasciandoli ricadere in disordine sulle
spalle. Si tolse poi le Etnies che portava ai piedi e le
lanciò in un angolo.
-Mi sa che devi andartene- disse al ragazzo
-Già- replicò Tom, ma non si alzò dal
divano. Charlie gli fece segno con la testa che la porta stava
lì, di fronte a lui. Doveva solo superarla, niente di
così poi difficile, no?
Tom si alzò, prendendo le bottiglie di birra che avevano
svuotato.
-Queste te le butto-
-Grazie e già che ci sei, butteresti via anche il cartone
delle pizze? Grazie mille, ciao ciao- Charlie si voltò di
nuovo verso l’armadio, slacciandosi i jeans e lasciandoli
cadere a terra, mentre cercava i pantaloni della tuta.
Tom represse l’istinto animale che gli sconvolse le viscere
alla vista delle gambe abbronzate della ragazza, della curva armoniosa
del suo sedere. Gli venne da ridere.
-Lo fai apposta?- le domandò, mentre recuperava i cartoni
della pizza dal tavolo.
-A far cosa?- Charlie si voltò verso di lui con sguardo
interrogativo.
-A spogliarti così-
-No di certo- scrollò le spalle lei.
Tom sorrise fra sé.
La porta stava lì. La superò. Niente di
così difficile, no?
No, un po’ difficile lo era stato. Uscendo, notò
dei post-it gialli sulla parete. Mise mano al cellulare in tasca e
prese a scrivere i numeri che vi leggeva sopra, senza farsi notare. Era
sicuro che uno di quelli fosse il suo. O magari quello del servizio del
ristorante giapponese, chi poteva dirlo?
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Capitolo 4 *** I get what I want ***
4.
I get what I want
Bill camminava avanti e indietro, accaldato.
Cretino, scemo, deficiente.
Ecco cos’era suo fratello, ecco cos’era! Un idiota!
Tom stava tentando per la centesima volta di chiamare Anya, ma il
servizio di segreteria diceva che non era al momento raggiungibile.
Voleva premere il tasto cinque per farsi richiamare? L’aveva
premuto cento volte quel dannato tasto!
Una volta uscito dalla “casa” di Charlie, il rasta
non aveva faticato a ritrovare la lavanderia dove aveva lasciato Anya,
l’unico problema era che la ragazza non c’era
più. Sparita nel nulla e neanche il vecchio hippy gli aveva
saputo dire dove era andata. Fatto sta che allora lui aveva chiamato
Saki per farsi venire a prendere e ora, riuniti nella hall
dell’albergo, i quattro ragazzi, David ed il bodyguard
stavano tentando con ogni mezzo possibile di rintracciare la ragazza.
Bill continuava a camminare per il nervoso, scostando di tanto in tanto
i capelli dal viso, tentato di mangiarsi le unghie laccate di nero e
tirando piccoli calci alla moquette del pavimento.
Dov’era finita? Anya!
Proprio in quel mentre, come richiamata dall’appello mentale
del vocalist, la ragazza varcò tranquilla
l’entrata dell’hotel, la borsa in spalla e un
ulteriore sacchetto di plastica in mano dove l’hippy del
negozio l’aveva aiutata a sistemare i vestiti che non
entravano più nello zaino.
Entrò sicura, con il suo passo lungo e spedito e non
notò subito i ragazzi, che la stavano aspettando mettendo in
subbuglio con la loro agitazione tutta la hall.
In un attimo, Anya pensò di essere accidentalmente capitata
in un film: vide Bill, trafelato e con gli occhi nocciola sbarrati per
la preoccupazione, iniziare a correrle incontro, come al rallenty, per
essere poi subito superato da Georg che, nella foga della corsa, simile
ad un’intera mandria di bufali inferociti, urtò la
figura gracile del vocalist, facendolo barcollare di lato e
costringendolo a reggersi al bancone della reception per non cadere
lungo disteso.
Anya sollevò un sopracciglio e poi scoppiò a
ridere, lasciando la busta di plastica per reggersi la pancia. Georg
travolse anche lei, gettandole le braccia al collo.
-Temevamo il peggio!- esclamò, prendendola per le spalle e
osservandola per accertarsi del suo stato.
-Come sei drammatico, Georg! Sono uscita dalla lavanderia e Tom era
sparito, il mio cellulare era scarico, così ho chiamato un
taxi. Ci abbiamo messo un po’ perché
c’era traffico, ma sono grande e vaccinata e per di
più parlo correttamente l’inglese, non
è il caso di fare tutte queste scene!-
-Sì, ma ci hai fatto preoccupare lo stesso! Potevi essere
stata rapita, oppure perduta in un quartiere malfamato, o…-
si intromise Gustav, dopo averla liberata dal carico della borsa.
-Sì, grazie Gus!- Anya rise e, con quella risata,
finì per tranquillizzare tutti definitivamente.
-Meno male, pensavamo di aver perso la nostra bella lavanderina!-
scherzò David e la ragazza gli rispose con una linguaccia.
Finalmente, anche Bill riuscì a raggiungerli, massaggiandosi
il braccio che aveva battuto.
-Tutto bene?- chiese ad Anya.
-Sì- annuì lei –E tu!- puntò
poi un dito accusatore contro Tom –Si può sapere
perché non mi hai aspettata?-
Tom si cacciò le mani intasca, imbarazzato.
-Forze superiori, Anya San- tentò di sdrammatizzare,
beccandosi uno scappellotto da Georg.
*
Il mattino, seguente, l’aereo che li avrebbe dovuti riportare
in Europa tardò di ben due ore.
Si erano dovuti alzare alle cinque del mattino, prepararsi in gran
fretta e trovarsi nella hall ad un’ora prestabilita, ma Anya
passò quindici minuti buoni a bussare alla porta di Gustav,
l’unico che mancava all’appello, ed era
così allarmata del suo ritardo che fu sul punto di chiamare
Saki per fargli sfondare la porta, quando il ragazzo le
comparì alle spalle. Era andato a comprare nel negozietto di
souvenir dell’albergo una scorta di rullini per la sua
preziosa Nikon.
Il buongiorno non fu dei migliori; seduti sui comodi divani della hall
semideserta, vista l’ora, i quattro ragazzi sembravano delle
mummie: occhiaie fino alla bocca celate dalle lenti scure, facce
pallide e i vestiti di due giorni prima.
-Vi avevo avvertito di non fare tardi ieri sera!- li
rimproverò David. L’unico a rispondere fu Bill,
che soffocò un grugnito in uno dei cuscini rossi del divano.
-E poi dicono che sei così adorabile- fu il commento
sarcastico del produttore.
Una volta saliti sull’aereo, poterono tirare un sospiro di
sollievo: stavano tornando a casa.
Bill e Georg litigarono per il posto vicino al finestrino, che
finì per occupare Anya e Tom si munì prontamente
delle cuffiette dell’I-Pod ultimo modello comprato a New
York, accoccolandosi con la testa fra le spalle nel sedile e afferrando
con tutte e due le mani il braccio di Gustav al momento del decollo.
-Illuminami, uomo della mia vita: quali sono i futuri programmi di
questi adorabili artisti?- chiese Anya, rivolta a David. Il produttore
cavò dalla tasca posteriore dei jeans il suo BlackBerry.
-Dunque- esordì, schiarendosi la voce –il 26
abbiamo i NRJ Awards e ancora i Goldene Camera il 6 Gennaio-
-Bene, inizio a prepararmi psicologicamente- sorrise Anya, chiudendo
gli occhi e appoggiando la testa al sedile morbido.
Una giornata di riposo e poi sarebbero di nuovo partiti. Destinazione
Francia.
Sinceramente, non vedeva l’ora di farsi un po’ di
shopping parigino. Con Natasha. Erano tre giorni che non si vedevano,
siccome lei non era venuta in America. Essendo là in
incognito, i ragazzi non avevano di certo avuto bisogno della
truccatrice.
Chissà perché, invece, avevano sempre bisogno
della tata!
Anya si stropicciò gli occhi, sbadigliando. Mancavano ancora
parecchie ore all’arrivo, giusto il tempo per una bella
dormita.
Volevo ringraziarvi per i commenti, mi hanno fatto molto piacere ^__^ |
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Capitolo 5 *** Waiting for you ***
5.
Waiting for you
Anya poggiò le borse su una sedia vicino a lei,
accomodandosi al tavolino nella zona fumatori del bar e guardando
Natasha fare lo stesso. Ordinarono due cioccolate calde, le guance
rosse per il freddo delle strade di Berlino, che avevano percorso fino
a quel momento dando fondo alle loro carte di credito. Puro e sano
shopping. Anya aveva appena ricevuto il suo stipendio e le due avevano
approfittato della mattinata libera per divertirsi e raccontarsi le
novità che in quei giorni, lontane, non avevano potuto
condividere.
Il solo pensiero di ripartire il pomeriggio seguente dava ad Anya la
nausea, nonostante l'immagine ricorrente degli
Champs-Elysées.
-Prima o poi mi licenzio- scherzò con Natasha, sistemandosi
meglio sulla sedia scomoda e sfilandosi il cappotto a scacchi grigi e
bianchi.
-Ma non dire cavolate, avresti il coraggio di lasciarmi da sola?-
-Non saresti mica da sola!- rise Anya, guardandosi intorno in cerca del
cameriere. Aveva cambiato idea, non voleva la cioccolata, preferiva il
tè.
-Dai, scommetto che in Francia ci divertiremo, tu finisci sempre per
attaccare bottone con i francesini!-
-Questo è vero- le concesse Anya –ma poi non li
posso frequentare perché mi tocca lavare i calzini dei
fantomatici Tokio Hotel! E pensare che centinaia di ragazze vorrebbero
stare al mio posto!-
-Appunto-
-Eh già, come sono fortunata!- sospirò,
sarcastica, Anya.
-Bè, io li devo truccare, tu li devi vestire, a ciascuno il
suo-
Finalmente arrivarono le cioccolate. Natasha afferrò la sua
tazza fumante e l’accostò alle labbra, riempendosi
le narici dell’aroma di cacao, mentre Anya
allontanò la tazza.
-Ma si da il caso, cara la mia Nati, che a te piaccia infinitamente
truccare il bel faccino di Bill Kaulitz. Ti assicuro che non
è la stessa cosa lavargli i boxer, ma se vuoi fare cambio
non mi tiro indietro, visto che ti piace così tanto!- Anya
andò a toccare il tasto debole della cugina: Bill.
Era da qualche tempo che l’aveva notato. Prima quel ragazzo
così strano e sensibile era poco più di un
bambino agli occhi della ragazza, ma qualcosa era cambiato. Il modo in
cui Natasha gli si avvicinava, piano, come per paura di infrangere un
sogno, il modo in cui si passava la lingua sulle labbra rosse ogni
volta che doveva attaccare discorso con il vocalist. Faceva in modo che
sembrasse tutto casuale, ma non lo era: le partite alla PlayStation, il
posto vicini sull’aereo o sulla macchina, le dita leggere con
cui applicava sulle sue palpebre il trucco nero.
Natasha arrossì di colpo, a conferma dei pensieri di Anya.
-Non me lo vuoi dire, ma io so che ti piace- disse la ragazza,
osservando le guance colorite dell’altra e frugando nella
borsa in cerca di un pacchetto di sigarette.
Lei tentò di cambiare discorso e simulò
l’imbarazzo in un tono serio.
-Sei andata a trovare tua madre?- chiese.
Anya chinò il capo, infiammando
l’estremità della Camel e portandosela alle
labbra. Distolse lo sguardo dagli occhi scuri di Natasha per fissarli
alla finestra.
-No, perché avrei dovuto?-
-E’ tua madre e sta morendo- le ricordò
l’altra.
-Non serve che me lo dici, non mi interessa. Quella non è
mia madre, è solo il suo fantasma- rispose Anya, lasciando
uscire il fumo dalle labbra.
*
Alla fine, Bill Kaulitz tu sei anche più bastardo di tuo
fratello.
Prometti l’amore, a tutte quante, a tutte quelle che stanno a
sentire i tuoi zusammen e i tuoi dich und
mich. Che vadano a farsi fottere!
Tom se le porta in camera una notte, massimo due, tu le illudi per un
mese e poi, quando sei annoiato dal profumo dei loro capelli, le
allontani, le dimentichi, perché non sono abbastanza heilig
per te e questo fa cento volte più male.
Anya l’aveva visto il dolore sui volti di quelle ragazze, che
la guardavano con odio, perché lei sarebbe rimasta,
perché lei era forte.
Lo stesso Bill, in quel momento, stava facendo le valigie nel suo
appartamento di Amburgo. Il beautycase era pronto, ma il trolley veniva
continuamente riempito e svuotato, riempito e svuotato,
all’infinito.
Sapeva già cosa avrebbe indossato per i NJR Awards e non
sarebbero stati via che per un paio di giorni, eppure qualcosa lo
rendeva agitato, inquieto.
I colori delle sue mille magliette gli andavano alla testa, si sentiva
soffocare dal profumo della stanza. Sei solo raffreddato,
si disse e quei diamine di antibiotici con cui lo imbottivano gli
facevano venire la nausea.
Tom entrò nella stanza, in accappatoio, grondando acqua
sulla moquette.
-Hai visto i miei jeans con le toppe chiare?- chiese al gemello,
guardando in giro.
-No- rispose Bill, sedendosi sul suo letto.
-Ma tu sei già pronto? Vieni così?- Tom
guardò il fratello in tuta da casa con i capelli sulle
spalle e il trucco sbavato.
-No, io non vengo-
-Come non vieni? Andiamo da Andreas, non lo vediamo da una settimana!-
protestò Tom, avvolgendo i rasta bagnati in un asciugamano.
-Non mi va Tomi, non sto tanto bene- Bill chiuse gli occhi.
-Gli antibiotici?- indagò l’altro e il moro
annuì.
-Bè, ma non ti posso mica lasciare solo a casa. Gustav
è dai suoi, Georg viene con me e tu?-
-Non fa niente, mi guarderò un film- Bill scrollò
le spalle.
Mezz’ora dopo, Tom indossò la felpa e prese le
chiavi dell’appartamento, mettendosele nella tasca della
felpa gigante e scese in strada, dove lo attendeva Saki con un
macchinone scuro per portarlo a casa di Andreas. Il bodyguard sapeva
già che il ragazzo, dopo quella serata, non sarebbe stato in
grado di guidare.
Le rimpatriate con l’amico d’infanzia erano una
buona occasione per ubriacarsi fino a vomitare e combinare cazzate,
meglio tenere d’occhio il rasta.
Bill si distese sul letto, davanti alla televisione, con la trapunta di
scorta e una lattina di Red Bull tra le mani. Accese
l’apparecchio, pronto a sorbirsi uno di quei film sdolcinati
in DVD, quando suonò il cellulare sul comodino lì
vicino, illuminandosi ad intermittenza e vibrando.
-Pronto?- rispose Bill, sbadigliando.
-Pronto, sono Anya e sto qui fuori, non è che mi apriresti?-
la voce della ragazza risuonò alle sue orecchie coperta dal
passare delle macchine in strada. Il campanello era rotto da secoli, ma
nessuno si decideva ad aggiustarlo.
Bill si alzò dal letto gettando la coperta di lato e corse a
piedi nudi fino al citofono.
-Parola d’ordine?- scherzò.
-Fa un freddo cane e se non mi apri ti maledirò fino alla
fine dei tuoi giorni!- gli urlò la ragazza, battendo i
denti. Bill la immaginava, stretta nel suo cappotto lungo e il viso
nascosto nella sciarpa di lana grossa.
Premette il tasto del citofono, aprendo il portone d’entrata
e andando all’ingresso ad attendere la ragazza, che, apertesi
le porte dell’ascensore, comparve sul pianerottolo e si tolse
il berretto, cacciandoselo nella tasca dei jeans delavè.
-Che ci fai qui a quest’ora?- le chiese Bill, facendola
entrare.
-Ti ho portato le magliette che ho lavato l’altro giorno e i
pantaloni militari- rispose Anya, posando la solita borsa su una sedia
insieme al cappotto e sistemandosi il pullover verde scuro scollato con
le maniche ampie sulla camicia scura.
-Ah, ecco dov’erano finiti- constatò il ragazzo.
-Ti dispiace se prendo qualcosa da bere? Poi me ne vado- chiese la
ragazza, ravvivandosi i capelli lisci.
-No, prego-
Senza bisogno che il ragazzo le facesse scorta, Anya si diresse in
cucina e aprì il frigorifero. Bill si appoggiò
allo stipite della porta, guardandola versarsi un bicchiere
d’acqua.
-Rimani, sto guardando un film- le propose.
-No, non fa niente, grazie lo stesso-
-Come no? Dai, sono da solo, rimani!- la pregò il ragazzo.
-E va bene- acconsentì Anya, rimettendo la bottiglia in
frigo –che si guarda?-
-Non lo so, se ti va puoi scegliere-
Bill si diresse verso la camera e si gettò di peso sul
letto, infilandosi subito sotto la coperta. Anya prese le custodie dei
DVD sul ripiano della televisione e scelse.
-La Fabbrica di Cioccolato?- chiese il ragazzo, alzando un sopracciglio
e increspando le labbra in un sorriso vista la scelta della ragazza.
-Johnny Depp è un mito- annuì Anya, inserendo il
cd nel lettore e andando a sedersi sul letto affianco a lui.
-Sì, ma è un film da bambini!-
-E chissà perché l’avevi in casa!- rise
Anya, sistemando il cuscino dietro la schiena.
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Capitolo 6 *** You are my hero ***
6.
You are my hero
Bill si era addormentato da un pezzo, scivolando in un sonno agitato di
valige e dolci parlanti. Anya spense la televisione e il lettore DVD.
Il ragazzo, girandosi, era pure riuscito a graffiarle il braccio con le
unghie lunghe e lei, prima di andarsene, gli sistemò la
coperta sulle spalle esili.
Solo pensare che a Bill era proibito persino ammalarsi, le fece venire
la nausea per quel mondo in cui entrambi vivevano, ma da cui, per
fortuna, lei non si faceva condizionare.
Appena il vocalist tossiva un poco, lo imbottivano di antibiotici su
antibiotici, aspirine e, a volte, persino il cortisone.
-Quando il tuo corpo non ce la farà più per tutte
le malattie accumulate e mal curate, scoppierai!- si arrabbiava Simone,
ogni volta che veniva a sapere dal figlio delle cure somministrategli.
Ma Bill non si lamentava mai. Anya lo doveva riconoscere: per le fan,
per non deluderle, per mantenere le promesse ed esserci sempre, avrebbe
fatto qualsiasi cosa. Non riusciva proprio a capire questo amore
smisurato che il ragazzo provava per loro, erano come i bambini
piccoli: sapevano solo urlare e piangere.
Eppure, erano le uniche ragazze che Bill riusciva ad amare veramente,
pur tenendole a distanza, sotto una campana di vetro, per paura di
contaminarle, ferirle, deluderle. Loro non immaginavano nemmeno chi
fosse Bill Kaulitz in realtà e lui, accecato
dall’amore, non rivelava i suoi difetti per paura di perderle.
Non voleva credere che loro gli avrebbero perdonato qualsiasi cosa, non
sapeva che lo stesso sentimento incondizionato bruciava con uguale
ardore nei loro corpi di ragazze normali.
Tom, quella sera, non tornò a casa, decise di fermarsi a
dormire da Andreas, visto il grado della sua sbornia e Bill si
svegliò solo il mattino seguente sul tardi, la luce
invernale che entrava da uno spiraglio delle tende.
Posò gli occhi ambrati sulla stanza, sbattendo le palpebre
per cacciare il sonno che lo aveva tormentato quella notte.
Andò in cucina, si scaldò un pezzo di pizza del
giorno prima e mangiò quella per colazione, visto che di
latte, in casa, non ce n’era.
*
-Che ascolti?-
Tom si riscosse alla domanda di Gustav e sfilò una cuffietta
dall’orecchio, abbassando il volume.
-Cosa?-
-Che ascolti?- ripetè il biondino, picchiettandosi un lobo
per ribadire il concetto.
-I Metallica- fu la risposta di Tom.
La faccia di Gustav tradì tutto il suo stupore:
lasciò cadere la mascella e sgranò gli occhi. Tom
Kaulitz non poteva ascoltare metal. No, non era possibile.
Gustav temette per un attimo il peggio: se il rasta non si sparava a
tutto volume nelle orecchie Samy Deluxe, il mondo sarebbe finito da
lì a pochi attimi.
Tom infilò di nuovo la cuffietta, scrollando le spalle. Era
una bella canzone. Nothing Else Matters.
Sorrise pensando all’espressione della ragazza americana se
lo avesse saputo. Avrebbe fatto la stessa faccia di Gustav. Il rasta
volse lo sguardo al batterista. No, Charlie era decisamente
più bella.
Sorrise fra sé e sé, ma in quel mentre fu
costretto a spegnere l’I-Pod, perché la voce
metallica dell’aereo annunciò che erano arrivati.
Allacciarono le cinture di sicurezza e si prepararono
all’atterraggio.
Francia, dolce Francia.
Ce l'avevano fatta. La 9ème édition des NRJ Music
Awards en direct du Palais des Festivals de Cannes li aspettava, come
li aspettava, prima ancora di mettere piede in hotel,
un’intervista con un’importante rivista nazionale,
che sarebbe iniziata da lì a mezz’ora. Mentre il
corteo di bagagli veniva trasportato all’hotel, i quattro
ragazzi, David, Anya e Natasha salirono su due enormi macchinoni per
recarsi allo studio di registrazione dove si sarebbe svolto
l’incontro.
Cinque ombrelli, capitanati dal produttore, arrivarono
all’entrata secondaria dell’edificio,
irraggiungibile in automobile. Saki ne dovette usare due per riparare
la capigliatura di Bill, affiancato dalla truccatrice; Tom si reggeva i
pantaloni per non bagnarli strisciandoli per terra, ma, in compenso,
non si curava della pioggia che picchiava sul suo volto protetto dalla
visiera e Gustav cercava di stare al suo passo, lottando contro il
vento che voleva strappargli il berretto.
Georg, invece, prese Anya sottobraccio e la scortò con
l’unico ombrello colorato del gruppo.
-Verde, come i tuoi occhi- le fece notare il ragazzo.
-E come i tuoi- sorrise lei.
L’entrata dello studio era calda e confortevole, un vero
rifugio per il tempaccio e la pioggia che cadeva violentemente di fuori
e la band fu fatta accomodare in un salotto.
In mancanza degli intervistatori, che avevano avuto la faccia tosta di
ritardare, Bill e Gustav si gettarono sul divano, il primo preso subito
di mira da Natasha, intenzionata a sistemargli l’ombretto
nero leggermente colato.
-Anya, non è che mi porteresti dell’acqua?- chiese
Tom, girandosi verso la ragazza, che stava dando un’occhiata
ad alcuni numeri della rivista per cui i Tokio Hotel avrebbero
rilasciato l’intervista. Anya prese dalla sua borsa una delle
bottigliette d’acqua che si portava sempre dietro e la
lanciò al rasta.
-Ne hai una anche per me?- chiese Georg, buttandosi anche lui sul
divano.
-Ne ho una per tutto il mondo- rispose, ironica, Anya. Era inutile
dirgli di bere da quella di Tom o di venirsela a prendere,
così si alzò dalla sedia su cui si era accomodata
e tese la bottiglietta al bassista.
-Che ti sei fatta al braccio?- chiese Bill, sporgendosi verso di lei e
guardando la pelle candida della ragazza scoperta dal maglione
attraversata da alcuni segni rossi.
-Sei stato tu, ieri sera- rispose lei, accennando alle unghie del
vocalist.
La porta del salotto si spalancò di colpo e un uomo sulla
quarantina fece entrare nella stanza l’intervistatrice sua
collega, bionda e dal passo deciso.
-Scusate per il ritardo- sorrise la donna –Bene, se siete
pronti, cominciamo-
L’interprete dei ragazzi si sedette affianco a loro e fece un
cenno d’assenso all’intervistatrice. Anya si
appollaiò sulla sua sedia, in disparte, riprendendo in mano
la rivista che stava sfogliando.
Conosceva già le domande che sarebbero state poste ai
ragazzi e le loro risposte. Erano sempre le stesse, da quasi tre anni
ormai.
-Vi conoscete da un’eternità. Che cosa stimate gli
uni degli altri in particolare?- fu il primo quesito e a rispondere fu
subito Bill.
-Quando uno di noi è particolarmente stanco o demotivato,
arriva Gustav che ci aiuta con i suoi modi positivi. E’ una
cosa che mi piace molto di lui!-
-Bill mi piace perchè è diretto; con lui si
può discutere di tutto. Inoltre con lui ci si diverte un
sacco- sorrise Georg.
-Tom è sempre il primo a dire la sua quando ci sono delle
decisioni importanti da prendere. Trovo questo molto cool- Gustav
parlò tranquillamente, senza guardare la donna in faccia.
-Georg non ha nessun lato buono- rise Tom.
Il solito, scosse la testa Anya.
-No dai, è un tipo che ti aiuta molto-
La giornalista aspettò che l’interprete le finisse
di tradurre le parole dei ragazzi, poi riprese: -Se vi doveste
descrivere a vicenda, cosa direste per prima cosa?-
-Georg è pigro! Di sera è molto motivato e fa i
programmi per il giorno dopo. La mattina non fa assolutamente nulla di
quello che ha detto, mentre Bill è una persona molto
spontanea e molto vivace. Ma solo dopo le quattro del pomeriggio-
Risero tutti.
-Come voi!- aggiunse Gustav- Con voi non si inizia mai niente prima di
mezzogiorno! Io sto sempre da solo perchè mi sveglio presto
e allora mi metto a guardare la tv o a leggere le mie e-mail per la
quarta volta-
-Gustav è uno che si sveglia presto la mattina-
spiegò Bill, divertito –E’ il tipico
batterista: deciso e diretto. Ha sempre molte energie, ma è
anche sempre riposato!-
La donna concentrò la sua attenzione su di lui.
Ecco, la domanda della ragazza, pensò
subito Anya, attenta.
-Bill, qual è la tua ragazza ideale?-
Appunto.
-Bè, non ho proprio un tipo ideale, nel senso:
l’importante è che sia se stessa, sempre. E che lo
sia anche se io sono Bill Kaulitz- ormai la sapeva a memoria quella
risposta e provava anche un certo gusto a ripeterla.
-Ma c’è qualche caratteristica che ti colpisce
subito? Per esempio, cosa guardi per prima cosa in una ragazza?-
Il culo, pensò Anya, è
un Kaulitz, cosa vuoi che guardi? I gemelli sono gemelli, non esistono
il diavolo e l’acqua santa quando si hanno gli stessi geni,
purtroppo.
-Le mani- rispose Bill –Mi piacciono le ragazze che si
prendono cura del proprio corpo-
Il est un menteur, avrebbe voluto urlare Anya alla
donna, ma anche questa volta si trattenne.
-E in questi anni, avete mai avuto delle storie?-
-Parecchie- rise Tom.
Gustav non rispose, concentrato a fissarsi la punta delle scarpe.
Parlare con gli sconosciuti di sé non gli piaceva. Georg
sorrise senza farsi vedere. Se solo avessero saputo quante ragazze
aveva, in realtà!
-No, mai- fu la risposta di Bill –Non mi piace
l’idea che una ragazza di cui non sono innamorato entri nel
mio letto e, attualmente, non sono innamorato. Quando
succederà, quella ragazza e solo lei avrà tutto
me stesso-
Anya trattenne a stento le risate. Però, una cosa era vera:
Bill frequentava solo ragazze che incontrava a qualche party, ragazze
dell’hotel in cui alloggiava la band e mai, mai, aveva fatto
entrare una di loro in camera sua. Usavano quella di lei.
*
L’intervista, contro ogni previsione, finì in
fretta e all’uscita dello studio, la band trovò le
fan ad aspettarli, completamente in delirio e bagnate fradice per
averli aspettati sotto la pioggia. Fu per miracolo, o grazie a Saki,
che riuscirono ad entrare in macchina, dopo essere stati strattonati e
fotografati, toccati e ammirati, dopo aver firmato autografi qui e
lì. Scarabocchi, più che altro.
Bill si accomodò sui sedili posteriori dell’auto e
appoggiò la testa al finestrino. Voleva solo andare
all’hotel e farsi una doccia. Le strade di Parigi erano
affollate e presto furono bloccati dal traffico che
l’acquazzone aveva creato.
-Nati- chiamò, riscuotendosi dai suoi pensieri. Gli era
tornata alla mente una ragazza che, proprio lì, a Parigi, lo
aveva aiutato a trovare la strada per l’albergo qualche tempo
prima, quando ancora non erano così famosi. Aveva i capelli
castani e gli occhi verdissimi.
-Sì Bill?- gli rispose la truccatrice.
-Appena arriviamo all’albergo, mi devi accorciare le unghie-
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Capitolo 7 *** Burning Up ***
7.
Burning Up
Il display del cellulare si illuminò e comparve il disegnino
di una busta da aprire sui pixel dello schermo. Anya afferrò
il telefono: un nuovo messaggio. Click.
-Non riesco a dormire. Bill-
La ragazza controllò l’ora: mezzanotte e dieci. Se
David avesse saputo che il vocalist stava facendo le ore piccole si
sarebbe incazzato come una iena, visto che il mattino dopo, molto
presto, avevano ancora un paio di interviste.
Digitò, rapida, alcuni tasti.
-E quindi?-
La risposta arrivò quasi subito: -Voglio una camomilla-
Oddio, pure la “milla” voleva ora!
-Il servizio in camera no, eh?-
Un’altra busta. Click.
-Mi mandano a fanculo, è mezzanotte!-
Anya respirò profondamente, rassegnata. Perché
anche lei non aveva il sacrosanto diritto di mandarlo a fanculo? Eh no!
Lui chiama e tu corri, Anya!
-Arrivo- gli scrisse in risposta e, sbuffando, si alzò dal
letto, infilò le ciabatte e scese con l’ascensore
fino al bar, sperando che fosse ancora aperto. Per fortuna che neanche
lei riusciva a dormire.
Dieci minuti dopo, risalì al quinto piano con la tazza
fumante in mano e percorse il corridoio silenzioso, passando davanti
alle camere dei ragazzi. Da quella di Tom sentiva la voce del ragazzo
provenire da sotto la porta.
-Adesso parla pure nel sonno!- rise Anya, proseguendo piano, per paura
di far cadere anche una sola goccia del liquido chiaro e fumante.
Le stanze di Georg e Gustav erano attaccate. Quella sera i ragazzi si
erano ritrovati nella suite del bassista per un torneo di PlayStation e
il ragazzo aveva galantemente salutato la sua conquista del giorno
sulla porta con un bacio rapido e la promessa di rivedersi al
più tardi la sera seguente.
Anya arrivò davanti alla camera di Bill, la più
grande e lussuosa, senza dubbio. Bussò un paio di volte,
piano, per non svegliare tutto il piano.
Il vocalist comparve sull’uscio.
-Ehi- salutò, facendo entrare la ragazza in vestaglia, con i
capelli raccolti in uno chignon morbido da cui scappavano alcune
ciocche ribelli. Le prese la tazza dalle mani con un “Grazie”.
-Attento che…-
-Ahi, brucia!- esclamò Bill, che aveva accostato le labbra
al boccale e si era scottato la lingua.
Anya rise all’espressione corrucciata del ragazzo, che
guardava con rimprovero la tazza, tenendo la lingua fuori.
-Dovevi soffiare- gli ricordò lei, prendendogli la camomilla
dalle mani e sbuffando piano sul liquido bollente. Ne
assaggiò un sorso.
-Così va meglio, non brucia più-
Bill afferrò la tazza e si sedette cautamente sul letto.
-Però non è giusto, a quest’ora non
c’è niente in TV- si lamentò, cambiando
discorso.
-Bè, a quest’ora la gente dovrebbe dormire-
-Non è colpa mia se non ci riesco!- esclamò il
ragazzo, bevendo un altro po’ di camomilla.
-Capita anche a me- confessò Anya, sedendosi accanto a lui
–A volte sono talmente stanca o agitata che non riesco a
chiudere occhio-
-E allora che fai?- domandò Bill, voltandosi verso di lei.
-Bè, nel tuo caso ci vorrebbe una legnata in testa! Nel mio,
di solito, se non riesco a prendere sonno, me ne resto sveglia, tutto
qui- scrollò le spalle la ragazza, lasciandosi cadere a
pancia in giù sul materasso.
-Allora, se non dormi, rimani a farmi compagnia- la pregò
Bill –Mi annoio-
Aveva posato la tazza sul comodino, prendendo il telecomando in mano e
ora la guardava con gli occhi castani perfettamente svegli e illuminati
dal desiderio di non rimanere solo.
-Sembri proprio un bambino- rise Anya, accomodandosi da un lato del
letto e rubando il telecomando al ragazzo.
-Ma io sono un bambino!- Bill arricciò le labbra in un
sorriso e distese le gambe, appoggiando la testa al cuscino.
-Come no, solo quando ti fa comodo!-
-Hai ragione e adesso mi fa decisamente comodo- annuì
energicamente lui.
-Stai approfittando della mia gentilezza-
-E tu del mio letto!-
-Senti, principessa, che ci posso fare se a te tocca sempre la suite
più bella? Nella mia camera i cuscini sono dei mattoni!- si
lamentò la ragazza.
Bill si girò verso di lei, che stava tentando di sistemare
il guanciale dietro la schiena per guardare comodamente la televisione,
facendo zapping, senza trovare nulla che le piacesse.
-Dormi qui, allora- le propose, fissando lo sguardo allo schermo
illuminato.
-Ma neanche per sogno!- rise Anya.
Il letto di Bill era davvero più comodo e più
spazioso del suo. La ragazza, seppur contro le sue intenzioni,
finì per addormentarsi nel giro di dieci minuti, dopo aver
restituito il telecomando a Bill con un “Mi fa male il
pollice a forza di cambiare canale!”
Nel sonno, si era girata su un fianco, verso il ragazzo, le gambe
raggomitolate, una mano sotto il seno e l’altra abbandonata
sul cuscino. Bill spense la televisione con uno sbadiglio e, sollevando
un poco il corpo di Anya, tirò la trapunta per poi coprire
entrambi. Ma non spense la luce che illuminava soffusamente la stanza e
tingeva d’oro le guance della ragazza, le sue ciglia lunghe a
contrasto con la pelle chiara, la sua bocca leggermente dischiusa nel
sonno.
Se la ricordava con la fronte aggrottata e gli occhi stanchi, la prima
volta che l’aveva vista. David aveva spiegato loro che
sarebbe stata sì un membro dello staff, ma, siccome aveva
solo un paio di anni in più di loro, sarebbe stata ancora di
più un’amica. Forse, però, lei non lo
voleva, aveva pensato Bill, visto la maniera poco gentile con cui li
trattava. Così aveva chiesto spiegazioni a David.
-Perché Anya è sempre così arrabbiata?
Le abbiamo fatto qualcosa?- aveva domandato.
-No, lei non è arrabbiata con voi, è arrabbiata
con sé stessa, con sua madre- aveva cercato di spiegargli il
produttore, che sembrava capire la ragazza meglio di chiunque altro.
-Che è successo alla sua mamma?-
-E’ un’alcolista e Anya è cresciuta da
sola. Forse vede voi, che avete le vostre famiglie che vi sostengono
sempre e vi amano e si sente un po’ esclusa. Forse, si porta
dietro tanto rancore che ancora non può smettere di starne
male-
Bill aveva guadato David con gli occhi lucidi. Il modo in cui
l’uomo aveva parlato e le immagini di Anya, dei suoi rari
sorrisi, del suo sguardo cupo che gli erano venute il mente lo avevano
fatto sentire piccolo e strano. A suo confronto, seppur più
alto di lei di una buona spanna, si sentiva sempre un po’
indifeso, senza sapere perché: era così bella che
guardarla e ora capire che stava male lo spiazzava.
Appena aveva potuto, era corso dalla ragazza, intenta proprio a mettere
in ordine la sua camera.
-Ciao Bill- lo aveva salutato, lanciandogli un’occhiata.
Povera tigre in gabbia, aveva pensato lui.
Sì, perché Anya era una tigre.
-Mi dispiace per tua mamma- erano le uniche parole che era riuscito a
pronunciare.
Anya si era immobilizzata nel piegare la sua maglia grigia a scritte
blu e lo aveva interrogato con gli occhi verdi.
-Chi te l’ha detto?- aveva mormorato poi.
-D-David- aveva risposto Bill.
La ragazza aveva ripreso a piegare i vestiti.
-Non sono affari tuoi- era stata la sua riposta.
-Ma…-
-Ho detto che non sono affari tuoi!- aveva esclamato lei, arrabbiata.
Il ragazzo, allora, era uscito in fretta dalla camera ed era corso dal
fratello. Tom aveva certe idee strane su Anya, idee che lo vedevano
farla sua ragazza a vita. Lei era più grande e, sotto la
maglietta, la sporgenza del seno era decisamente più
invitante di quella di altre ragazze che il rasta aveva frequentato
dall’uscita del loro primo singolo. Aveva fatto i conti e
voleva farsene almeno una quindicina.
Così quando saprà che ho così
tanta esperienza, non penserà più che sono un
ragazzino e si innamorerà di me, credeva. Queste
erano fantasie che anche Bill, a volte, si trovava a condividere.
Tom ascoltò il racconto del gemello mordendosi il labbro
inferiore e non seppe che dirgli.
-Sono donne, fratellino- fu la sua sentenza –Tutte mezze
matte!-
Da quel giorno, l’idea che doveva dimostrare di essere grande
avendo tante ragazze catturò anche Bill, ma in queste finiva
sempre per idealizzare Anya. Sempre. Avevano i capelli castani oppure
gli occhi verdi come lei, oppure il loro comportamento gli ricordava il
suo.
E si disprezzava. Disprezzava lei perché alla fine si era
confidata con Georg e non con lui, perché Georg era
più grande, certe cose le capiva, le aveva sentito dire.
Invece di ringraziarla, aveva finito per disprezzare anche quello che
faceva per loro perché lui, ne era sicuro, non si sarebbe
mai abbassato a fare una cosa del genere. Lui era una star,
perché lei non voleva capirlo e continuava a trattarlo come
un bambino? Perché non vedeva nient’altro in lui
che lo sguardo dell’infanzia anche quando andava a braccetto
con una sua omonima che lo portava nella sua camera?
Bill continuò a guardare il viso di Anya a lungo, disteso
accanto a lei, così vicino da rubarle il respiro, i loro
toraci che si alzavano e abbassavano contemporaneamente.
Anche quella sera gli aveva detto che si comportava da bambino. Ma i
bambini non possono amare?
Bill si chinò sul suo viso, accarezzandole i capelli sulla
fronte, spostandoli delicatamente. Pianissimo, le posò un
bacio sulle labbra dischiuse, pianissimo le rubò quel
contatto e pianissimo si coricò di nuovo senza staccare gli
occhi dalla sua figura. Poi si tirò la coperta fino al mento
e si voltò dall’altra parte, spegnendo la lampada.
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Capitolo 8 *** She burns my horizons ***
8.
She burns my horizons
Secondo i suoi calcoli, se lì in Francia era notte, in
America doveva essere giorno. C’era un margine di dubbio, ma
a quell’ora non poteva chiedere a nessuno. Era stato uno
stupido a non pensarci prima. A parte che quell’idea gli era
venuta proprio nel mentre in cui toccava il materasso del suo letto con
la schiena.
Si era detto, perché
no?
Era andato a cercare sulla rubrica del telefono il nome con cui aveva
salvato il numero copiato dal post-it sulla parete e aveva premuto il
tasto di chiamata. Non ricordava più che quello non era
necessariamente il suo
numero, ma magari stava chiamando il negozio di pizze vicino alla
lavanderia. Si sarebbero di certo preoccupati di
un’ordinazione dall’altra parte
dell’oceano.
La linea era occupata. Riprovò: ora squillava libero.
-Hallo?- rispose una voce femminile, anche se non quella che lui
desiderava. Fu tentato per un attimo di chiudere la chiamata, ma doveva
tentare.
-Charlie?-
-Who?- domandò la voce dall’altro capo del
telefono.
-I want to talk with Charlie… Lotte!- pronunciò
quel nome ritornatogli alla mente come se fosse
un’ancòra di salvezza.
-Ah, Lotte! Yes, but who are you?-
-I’m Tom-
-Oh, I know! Sei il biondino tedesco!- rispose la ragazza, nella sua
lingua.
Tom annuì, sorridendo, ma, ricordatosi che lei non poteva
vederlo, esclamò, sollevato : -Sì, sono io!- per
poi domandare –Ma tu chi sei?-
-La migliore amica di Lotte, Mimi. Aspetta solo un secondo e te la
passo, sta dormendo sul divano-
-No, non svegliarla!- cercò di fermarla Tom,
precipitosamente.
-Tranquillo, tanto si deve alzare comunque. E’ solo che ieri
sera siamo andate ad una festa e si è assopita sul divano.
Lotte!- chiamò Mimi.
Tom sentì i mugugni della ragazza che borbottava qualcosa
all’amica. Poi, il telefono passò a lei.
-Ciao- la salutò Tom, sentendo il suo respiro
dall’altra parte della linea.
-Adesso tu mi dici come hai fatto ad avere questo numero o io,
bodyguard o non bodyguard, vengo lì, ovunque tu sia e ti
spezzo in due!- rispose Charlie, serissima e perfettamente sveglia.
Tokio Hotel. Quel nome le era ronzato nella testa per una settimana
dopo l’incontro con il rasta, fino a quando non si era
decisa: aveva preso qualche dollaro trovato per caso in una tasca dei
suoi jeans, era andata nel primo Internet Point che aveva trovato e
aveva digitato quella parola sulla barra lampeggiante di Google. Circa
17.000.000 risultati. Quel numero spropositato di siti, immagini,
interviste l'aveva lasciata sgomenta e vedere la foto di Tom accostata
a quella degli altri membri del gruppo le aveva scombussolato lo
stomaco. Erano così famosi e lei non ne sapeva niente.
Niente.
Erano dei ragazzini, ecco tutto, ma scoprire che lui, un tipo
così normale ai suoi occhi, era in realtà un
chitarrista famoso, era stato uno shock e ancora non capiva bene il
perché. Aveva ascoltato una loro canzone e il suo giudizio
era stato irremovibile: una vera schifezza.
-Hai scoperto chi sono?- chiese Tom, un po’ deluso. Che
stupido era stato a dirle il nome della sua band, se non
l’avesse fatto avrebbe potuto continuare a fare finta di
niente. Avrebbe potuto continuare a giocare e scoprire se il suo
fascino veniva dal suo nome o da ciò che in
realtà era.
-Ma sei scemo o cosa? Vuoi che non l’abbia scoperto? Chi ti
ha dato questo numero? Mi spii, mi segui o cosa?- lo aggredì
Charlie, parlando a raffica, furiosa.
-Guarda che non ti ho mica seguita! Non ho tempo per queste cose- si
difese Tom.
-Adesso non fare tanto lo sbruffone e rispondi alla mia domanda!-
-Ho copiato il numero da uno dei post-it alle pareti di casa tua. Certo
che sei proprio un bel tipo, non ti ricordi neanche il numero della tua
migliore amica!- rise il ragazzo.
Le guance di Charlie andarono a fuoco e ringraziò il cielo
che lui non la potesse vedere.
-Non sono affaracci tuoi!- gli sbattè il telefono in faccia.
Tutto ciò che Tom riuscì a fare a quella reazione
fu ridere, ridere fino a farsi venire male agli addominali. Adorava
quella ragazza.
*
Per andare da Parigi a Cannes dovettero sorbirsi un viaggio in aereo
molto più lungo che quello dalla Germania alla Francia.
-Ridimmi per la centesima volta come mai ci siamo fermati a Parigi-
chiese, scontroso, Tom.
David sbuffò: era incredibile l’effetto che
l’aereo aveva sul chitarrista e cominciava a desiderare
ardentemente di buttarlo giù dal finestrino. Tanto, tolti i
vestiti enormi che celavano le sue ossicina, ci sarebbe passato
comodamente.
-Per le interviste, Tom, le interviste! Ricordi?- rispose, sarcastico.
Questa volta fu il ragazzo a sbuffare.
Oltre a soffrire di vertigini, si stava annoiando e non sapeva con chi
parlare: suo fratello dormiva, Anya, Natasha e Gustav erano lontani dal
posto in cui era seduto e solo l’idea di alzarsi lo faceva
sudare freddo. E se proprio nell’istante in cui si fosse
sollevato dal posto, l’aereo avesse preso ad oscillare, una
delle porte si fosse aperta e lui fosse precipitato giù?
Rabbrividì al pensiero.
Con David non poteva parlare, era troppo occupato a far niente ed
agitarsi per quella sera e Georg era intento ad osservare il cielo dal
finestrino.
-Bello il paesaggio?- gli tirò una gomitata Tom.
-Umh-umh- fu l’unica risposta che ricevette dal ragazzo.
In realtà, Georg vedeva poco o niente dello spettacolo di
nubi bianche e soffici offertogli dall’oblò di
vetro. Stava pensando.
-Anya ha mai avuto un ragazzo?-
Natasha era davanti a lui, le mani sui fianchi, concentrata a rimirare
da lontano il profilo di Bill immortalato da un fotografo. Il ragazzo
continuava a cambiare posizione contro lo sfondo bianco e lei ne
seguiva ogni piccola mossa: un sopracciglio alzato, un piede
minimamente spostato, un ciuffo fuori posto che, se non
gliel’avessero impedito, sarebbe corsa a sistemare.
-Cosa?- si riscosse dai suoi pensieri.
-Anya ha mai avuto un ragazzo?- domandò di nuovo Georg,
facendo finta di concentrarsi sulla punta delle sue Adidas.
-Bè, sì. Quando vivevamo insieme, ne aveva due o
tre- ricordò Natasha, studiando il bassista
–Perché?-
-Sei la persona che la conosce meglio e io volevo sapere,
bè… se pensi che io possa piacergli-
Georg alzò lo sguardò e lo concentrò
negli occhi penetranti e scuri della ragazza, in attesa di una risposta.
-Non lo so, Georg, ma so che ti vuole bene-
-Allora non ho speranze?-sospirò lui.
-No, io credo tu abbia molte più speranze di chiunque altro.
Pensaci, con chi si è confidata quando ha avuto bisogno di
aiuto?- chiese precipitosamente Natasha. Se c’era una cosa
che le veniva bene era manipolare le situazioni per trarne un certo
vantaggio e non si sarebbe lasciata scappare quell’occasione,
ora che aveva capito come sfruttarla.
-Con me- rispose Georg, sorridendo al pensiero.
-Bene, allora ti dico io cosa devi fare questa sera con lei- gli
sorrise a sua volta la ragazza –Però, in cambio,
avrei bisogno un favore-
Gli occhi neri di Natasha si posarono sulla figura magra del vocalist
che, finito il photoshoot, cedeva il posto al fratello e si andava a
sedere accanto a Gustav e Anya.
-Tutto quello che vuoi- concesse Georg. Anche lui doveva sfruttare al
massimo la situazione.
*
Bill lisciò le pieghe del suo giacchino di pelle dorata e
Gustav indossò il cappellino nero, sistemando la visiera.
Quella sera, Georg e Tom sembravano essersi infilati le felpe della
nonna, invece che dei normali abiti, ma nessuno sembrò farci
caso e loro due adoravano quelle maglie.
Anya li spiava dal backstage: dopo aver fatto la loro bella figura sul
tappeto rosso ed essere stati accecati letteralmente dai flash, tanto
che, appena recuperata la vista, vedevano solo pallini colorati davanti
a loro, i ragazzi, accompagnati da David, impeccabile nella sua tenuta
informale, erano stati fatti accomodare tra il pubblico, discretamente
protetti dai bodyguard ai lati della passerella.
Sapevano che poco dopo sarebbe toccato a loro ricevere il premio. Groupe
International de l'année. Era questione di minuti.
Sul palco, i due presentatori lanciarono il video che mostrava al
pubblico, per la millesima volta, la lista dei candidati a quel premio.
Anya volse il suo sguardo a loro e le venne da ridere pensando che i
quattro tedeschi non capivano una sola parola di francese. Avevano
insistito per farla sedere vicino a loro e farsi tradurre qualcosa, ma
i posti erano già stati fissati e David sosteneva che
più la ragazza stava lontana dalle telecamere, meglio era.
Uno dei conduttori, notò lei, era un bel personaggio: non
altissimo, ma ben piantato, elegante nel suo completo non troppo severo
ed il pizzetto che dava un tocco da ribelle gentiluomo al viso.
L’altro era ridicolo: gay o pessimo attore, ostentava una
minigonna vertiginosa con leggins argentati, una pochette luccicante e
capelli biondi striati di rosa. Non stava a lei giudicare come una
persona decidesse di condurre la sua vita sessuale, anzi, aveva molti
amici gay sparsi per il mondo o suoi ex-compagni di studi, ma quella,
più che altro, gli sembrava una pagliacciata.
Il presentatore in abito scuro mostrò la busta e un paio di
ragazzine, già intuendo chi sarebbe stato il vincitore, si
alzarono in ginocchio sulle poltrone scrutando il pubblico alla ricerca
della band tedesca. Bill era già in procinto di alzarsi.
Si alzarono le urla.
-Je vais ouvrir- annunciò il ragazzo,
sventolando la busta. Anya chiuse gli occhi per quella che le parve una
frazione di secondo, sentendo l’altro conduttore in minigonna
iniziare ad urlare e agitarsi come una fan in calore.
-Tokio Hotel!- fu urlato e lei riaprì
gli occhi. I quattro ragazzi, dopo essersi abbracciati, con il sorriso
stampato in faccia, si alzarono, agitando le mani verso le ragazze che
si agitavano per loro e si diressero verso il palcoscenico.
E quello urla ancora!, pensò Anya,
alludendo al presentatore.
La prima cosa che Bill fece, una volta salito sul palco, fu acchiappare
il premio ed esibirsi in una delle sue facce sorridenti tanto amate.
Mentre il conduttore continuava a parlare, i quattro ragazzi lo
ignorarono e continuarono a salutare il pubblico, ringraziando.
Poi, ecco il momento fatidico: il discorso.
Appena Anya vide Bill schiarirsi la voce, infilare l’award
tra le gambe e tirare fuori da una tasca il bigliettino su cui si era
appuntato le frasi, scoppiò a ridere e fu costretta ad
allontanarsi dal dietro le quinte per non farsi sentire.
-Cette award…- iniziò Bill.
-Vuoi un bicchiere d’acqua?- chiese Natasha, preoccupata,
all’amica, che continuava a ridere e rischiava di soffocarsi.
Il vocalist aveva provato diecimila volte quel discorso sotto la
supervisione di Anya, che cercava inutilmente di addolcirgli la
pronuncia e sistemargli gli accenti, ma alla fine lo aveva dovuto
dichiarare un “caso perso”. Eppure, Bill si era
impegnato tanto e ora continuava sicuro con le sue parole mangiate,
gesticolando e sorridendo incerto di tanto in tanto, ma rassicurato
dalle urla di gioia delle fan.
Almeno loro capiscono,
pensava.
Terminò con uno strafalcione e un merci beaucoup,
accolto da salti di gioia e sventolii di emozione.
Anya si costrinse a smettere di ridere appena vide che i ragazzi la
stavano raggiungendo nel backstage, dove si sarebbero preparati
all’esibizione sul palco. Sorridevano, raggianti. Bill, in
particolare, sembrava un piccolo sole.
Anche Anya si sentiva felice. Nonostante tutto, quelli erano i suoi
ragazzi; suonavano canzonette, ma nessuno lo faceva come loro.
Emanavano calore, riscaldavano. Doveva decisamente proporli a qualche
società come energia alternativa.
Dai, ammettilo che li adori, le diceva ogni tanto la
sua coscienza, dandole una gomitatina.
Andò loro incontro insieme a David, sbucato fuori dal nulla,
pronta a rubare a Bill l’award, sapendo già di
farlo indispettire e ad abbracciare Gustav, che sembrava completamente
perduto, eccezionalmente muto, tanta era l’emozione.
Ma Georg glielo impedì. Fu il primo a raggiungerla e non si
limitò ad abbracciarla: la sollevò per la vita,
smuovendo la gonna del suo abito lilla, euforico e fece una cosa che
nessuno poteva aspettarsi. La baciò.
Posò le sue labbra su quelle della ragazza, che non
riuscì a ribellarsi, ma spalancò gli occhi, li
tenne aperti per quei pochi secondi. Non riusciva a pensare, non
riusciva a fermarlo, stupita, shockata. Quasi terrorizzata.
Il gesto del bassista passò inosservato nella confusione di
abbracci generali e pacche amichevoli sulla schiena. Solo due paia di
occhi notarono i due ragazzi: un volto impallidì, un altro
arricciò le labbra in un sorriso di vittoria molto
più importante del Groupe International de
l'année.
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Capitolo 9 *** Wo bist du? ***
9.
Wo bist du?
Bill si fermò davanti alla porta in noce, una mano alzata
nel gesto di bussare. La lasciò cadere sul fianco. Il
pomello della porta brillava alla luce calda del corridoio e gli
sarebbe bastato girarlo, entrare e chiederle scusa.
Respirò profondamente e alzò di nuovo la mano, ma
questa volta picchiò davvero sul legno chiaro. Una, due
volte.
Stava crollando dal sonno ed era completamente ubriaco. Se
solo fosse riuscito a raggiungere il letto. Se solo ci fosse riuscito,
ci si sarebbe buttato sopra e sarebbe morto. Aveva la gola arsa, voleva
bere ancora e i raggi della abat-jour gli penetravano il cervello.
Troppa vodka all’after-show.
-Stai qui, io arrivo subito- Tom mosse una mano davanti allo sguardo
annebbiato del fratello ed uscì dalla camera, probabilmente
per congedare la ragazza che aveva rimorchiato alla festa. Ma quella
sera non aveva tempo per lei.
Bill non era l’unico ad essere ridotto in quelle condizioni:
Saki aveva dovuto caricarsi Georg in spalla e Gustav era salito in
macchina barcollando. Solo il chitarrista sembrava immune
all’alcool.
Cazzo, che mal di testa. Cazzo, che voglia di spaccare tutto.
Sì, spaccare tutto.
Tirò un calcio al minibar ed un altro ancora, diede una
manata alla lampada facendola cadere per terra, ma la moquette
attutì l’impatto. Fissandola rotolare sul
pavimento, si sentì avvampare dentro senza un motivo
preciso. Una folata di caldo gli invase le guance per essere sostituita
poi dal gelo, che gli strinse l’anima in una morsa dolorosa.
Raggiunse finalmente il letto e ci si lasciò cadere. Nella
lucida follia dell’alcool, un pensiero saettò
nella sua mente annebbiata.
Ora lo capiva. Le idee erano chiare in una maniera impressionante.
Lo ammise, ubriaco.
Ossessione, desiderio, rabbia, frustrazione. Pazzia.
Cavò il cellulare dalla tasca e storse per un attimo gli
occhi alla luce del display, proprio nel mentre in cui suo fratello
rientrava in camera. Bill digitò lentamente alcuni tasti.
-Che stai facendo?- gli chiese Tom, buttando la sua felpa su una
poltrona. Il fratello gli rispose con un grugnito e tirò su
col naso.
-Eh?- insistette il rasta, avvicinandosi.
-Scrivo ad Anya che è una stronza- bisbigliò
Bill, cancellando per la terza volta consecutiva le parole senza senso
che stava scrivendo –Perché Georg l’ha
baciata?-
Si volse verso il volto del fratello, guardandolo smarrito, gli occhi
non più assenti, ma fissi nelle iridi del ragazzo, che lo
interrogò con lo sguardo. Lui non aveva viso, ma il moro gli
aveva raccontato tutto subito dopo il primo bicchiere di vodka.
-Lo voglio anche io un bacio- disse Bill, guardando le labbra del
fratello –Anya, lo voglio anche io un bacio-
Il rasta lo allontanò ridendo.
-Io non sono lei, scemo- lo prese in giro, ma Bill tornò
alla carica.
-Rimani qui stanotte-
-Che cos’hai tra le gambe, fratellino?- gli
domandò Tom, facendolo stendere sul letto.
-Il cazzo- mormorò Bill, con gli occhi che gli si stavano
chiudendo e una profonda sensazione di nausea.
-Bene, allora con te non ci dormo!-
-Mmmh- mormorò Bill, girandosi su un fianco –Tomi,
mi viene da vomitare-
Il fratello gli sistemò la coperta. Era da tempo che non
pensava più ad Anya come ci pensava una volta, come quando
aveva iniziato a frequentare le sue ammiratrici per segnarle su una
lista da far vedere un giorno all’amica e convincerla che lui
era un vero Sex-Gott. Si faceva pena da solo. Ma era solo un bambino
allora, era cambiato. Invece suo fratello no; lui era ancora attaccato
a quei ricordi con una forza simile alla violenza, alla dipendenza,
erano la sua aria, la sua ancòra.
Lo sapeva: Bill lo credeva cieco, sordo, muto, ma alcune cose le capiva
benissimo anche senza bisogno di quei sensi. Essere semplicemente suo
fratello era sufficiente per condividere gli stessi sentimenti.
Cosa vedeva Bill in Anya? Tante, tante cose. Era un ricordo, un
qualcosa a cui anelava per continuare a sentirsi vivo, per non perdere
di vista ciò che era stato, ciò che lei
simboleggiava per lui: un viaggio, dal ragazzino che si era perso nella
nebbia dei ricordi, all’uomo che stava cercando di diventare.
Lei ne era testimone e con i suoi sguardi lasciava impronte ben
visibili sulla sua pelle chiara. Lui non sapeva più chi era.
Solo ricordarla china a piegare la sua maglia grigia glielo ricordava.
Tom prese il cellulare dalla mano di Bill e controllò i
messaggi: le aveva davvero scritto che era una stronza. Scosse il capo,
sorridendo tra sé. Accarezzò la testa del
fratello e poi si coricò di fianco a lui. Di certo, non
poteva lasciarlo solo in quelle condizioni.
-Avanti, è aperto!- gli rispose la voce di Anya.
Bill girò il pomello, freddo nella sua mano.
Entrò.
-Chi è?- chiese di nuovo la ragazza. La voce proveniva dal
bagno.
-S-sono Bill- balbettò in risposta il ragazzo, diretto verso
la voce. Segui la sua voce, seguila.
Questa volta non bussò neanche, il bisogno impellente di
vederla e assicurarsi di essere sveglio era più forte di
qualunque altra cosa.
Aprì di scatto la porta. Anya era davanti a lui, i capelli
appena lavati sulla schiena. Ricci. Non aveva mia notato che i suoi
capelli castani, così dorati e lucidi al sole, si curvavano
in riccioli ribelli se lei non li lisciava. Non lo aveva mia saputo.
Vederli, sciolti sulle sue spalle. Vederli.
Trattenne il fiato quando si rese conto che la ragazza era in mutande e
canottiera, una gamba appoggiata al lavandino mentre si massaggiava la
crema sulle cosce. Fissò lo sguardo sulla sua pelle umida.
Doveva essersi appena fatta la doccia perchè c’era
afa nella stanza da bagno, i vetri erano appannati; la canottiera
aderiva al suo corpo, accarezzandole il seno, scivolando sui suoi
capezzoli scuri.
Bill rimase immobile, incantato, paralizzato. Anya alzò un
sopracciglio e rise.
-Ti vergogni? Eppure, mi sembrava di ricordare che tu mi avessi
già vista ben più nuda di così- gli
disse.
Bill scosse la testa, arrossendo ed uscì precipitosamente
dal bagno, sbattendo la porta.
-Scusa- le urlò poi, appoggiando la testa alla parete della
stanza.
Se lo ricordava. Bill arrossì ancora di più e si
dette per la centesima volta in ventiquattro ore dello stupido. Non gli
tornava alla mente come, ma era successo. Erano più piccoli,
questo lo ricordava e lui aveva sorpreso suo fratello Tom a sbirciare
dalla serratura della camera di Anya; il biondino sembrava tutto
intento a trattenere il respiro per non farsi sentire e si mordeva le
labbra, nascondendo un sorriso. Bill si era avvicinato piano a lui.
-Che succede?- gli aveva chiesto, bisbigliando.
-Guarda un po’- Tom aveva preso il fratello per le spalle e
lo aveva posizionato davanti alla serratura. Bill aveva sgranato gi
occhi e si era portato una mano alla bocca.
-Bella, vero?- aveva sussurrato Tom, al suo orecchio
–E’ per questo che un giorno sarà mia-
Bill guardò il fratello sorridere malizioso e poi
tornò a concentrarsi sulla visione dall’altro lato
della porta. Anya aveva solo un asciugamano legato alla vita ed era
china a cercare qualcosa in uno dei cassetti del comodino. Si
infilò poi il reggiseno, allacciandolo dietro le spalle.
Tom spinse il fratello di lato e, con le teste vicine, continuarono a
spiarla mentre lasciava cadere l’asciugamano per terra ed
indossava gli slip neri.
-E se ci scopre?- mormorò Bill, trattenendo il respiro. Il
fratello gli tappò la bocca con la mano, notando che la
ragazza si voltava verso di loro e sorrideva.
-Perché? Credete che non vi abbia già scoperto?-
chiese Anya, rivolta ai due fratelli al di là della porta.
Tom e Bill si guardarono e l’istinto suggerì loro
che era ora di darsela a gambe. Anya rise sentendo i due fratelli
correre per il corridoio e spintonarsi dandosi a vicenda dei cretini.
E ora rise alla voce imbarazzata di Bill.
-Tranquillo- gli disse –Perché sei venuto a
cercarmi?-
-Perché volevo scusarmi per quel messaggio, ieri sera ero
ubriaco e…- iniziò a spiegare il ragazzo. Era
strano parlare con il muro.
-Non fa niente, l’avevo capito. A quei party finite tutti per
ubriacarvi. E’ per questo che preferisco non fermarmi mai con
voi- lo interrupe Anya.
Quella era solo una scusa fra tante e fra le tante, la scorsa sera,
c'era stata quella di evitare Georg. Era tornata all'hotel subito dopo
il loro palyback di 1000 Meere, da sola, perchè Natasha non
aveva voluto venire via. Si era coricata e aveva subito chiuso gli
occhi, non aveva voglia di pensare al gesto di Georg, non era
abbastanza lucida per farlo. Ma, sicuramente, era stata l'euforia del
momento a spingerlo a baciarla. Ci avrebbe ragionato in un secondo
momento.
Sì, era meglio così.
PS. Volevo precisare alcune cose che, ne sono consapevole, avrei dovuto
scrivere all'inizio della storia, ma me ne sono dimenticata XD
Il titolo.
Letteralmente, il titolo significa
bruciando sopra e la cosa, di per
sé, non avrebbe alcun senso.
Molti capitoli di questa storia hanno titoli ispirati alla parola
inglese burn, bruciare. She burns
my horizons è
uno dei tanti e vuol dire lei brucia i
miei orizzonti. Tutto ciò è spiegato
da due fatti: il primo è che colonna
sonora di questa fan fiction per me scrittrice è Sunburn,
dei Muse e ha
ispirato molti capitoli con il suo assolo di chitarra che adoro.
Quindi, ho
omaggiato molto il testo richiamandolo nei titoli dei capitoli. In
secondo
luogo, l’unico collegamento che posso fare con i titolo,
ispiratomi da una
notte insonne, e la storia è che i sentimenti bruciano.
E tutti ci siamo più volte scottati con emozioni
più
grandi di noi.
I titoli dei capitoli.
Spesso, i titoli dei capitoli richiamano a delle canzoni,
soprattutto (lo vedrete più avanti) a canzoni dei Rammstein.
Chi sono i
Rammstein?
I Rammstein sono un gruppo
industrial metal tedesco
formatosi a Berlino nel 1994. La loro musica è un ibrido tra
metal, gothic rock
ed elettronica, e vengono spesso inseriti nella scena Neue Deutsche
Härte
insieme a gruppi quali OOMPH! e Die Krupps. Il tastierista Christian
"Doctor Flake" Lorenz ha descritto in un'intervista il genere
musicale dei Rammstein come Tanz
Metal, proprio a
sottolineare il connubio tra sonorità metal ed elettroniche.
Fino ad oggi hanno
venduto circa 12 milioni di dischi in tutto il mondo. (Danke Wikipedia)
Ciò
perchè la colonna sonora portante di questa storia vede loro
come protagonisti e verranno citati più volte. Capisco che
questo genere di musica può non piacere a tutti, ma io
è da tempo che li ascolto e mi sembrava giusto spiegarlo.
Per ulteriore chiarezza, ogni volta che inserirò come titolo
del capitolo una loro canzone, lo dirò e ve ne
fornirò il significato.
Per esempio questo capitolo ha come titolo Wo bist du?, appunto
una loro canzone. In italiano vuol dire Dove sei?
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Capitolo 10 *** Wo bist du, again? ***
10.
Wo bist du, again?
-Dove stiamo andando, di preciso?-
-Galeries LaFayette-
-Che?-
-40, boulevard Haussmann 75009 Paris - recitò Anya, beandosi
della faccia idota di Tom che la stava guardando come se parlasse la
lingua dei serpenti.
-Che tradotto per i comuni mortali significa?- chiese il ragazzo. Anya
sbuffò.
-Significa shopping-
rispose.
-Shopping?- li raggiunse la voce stupita di Bill, che fino a cinque
minuti prima era intento a guardare il suo cellulare, preso dalla
lettura di un messaggio, ma alla parola magica alzò di
scatto la criniera leonina e guardò interrogativo e ansioso
David, seduto sul sedile anteriore insieme ad Anya.
-Sì Bill, shopping gratuito- confermò
l’uomo, annuendo.
Il famosissimo department store parigino avrebbe aperto le sue porte ai
ragazzi per un intero pomeriggio, impedendo l’ingresso agli
altri visitatori. Sette, vastissimi piani, tutti per loro.
Bill si portò le mani alla bocca, strabuzzando gli occhi
dalla felicità: se c’era una cosa che adorava era
comprare abiti e se c’era una cosa che adorava ancora di
più era farlo gratis.
-Speriamo ci siano delle belle cose- disse Gustav, continuando a
guardare fuori dal finestrino della gigantesca autovettura su cui
stavano viaggiando.
-Ci puoi scommettere- lo rassicurò Anya, girandosi verso di
lui e sorridendo raggiante. Era di buon umore quel pomeriggio: dopo la
visita inaspettata di Bill quel mattino e l’episodio della
sera precedente con Georg, aveva deciso che prima avesse fatto passare
del tempo da quel bacio senza contatti con il ragazzo, meglio sarebbe
stato. Non era sicura dei sentimenti del bassista e sperava che fosse
solo stato un bacio dato per l’entusiasmo, ma in ogni caso
avrebbe messo le mani avanti e fatto capire che a lei non interessava.
Era sì il più grande dei quattro, ma lei
continuava comunque a sentirsi la loro sorella maggiore, se non una
sostituta delle loro mamme.
Il sorriso le morì sulle labbra non appena
incontrò lo sguardo di Natasha, seduta accanto al
batterista. La ragazza sembrava avere un diavolo per capello e la
fissava torva.
-Tutto bene Nati?- si azzardò a chiedere Anya, guardandola
interrogativa.
-Benissimo- fu la risposta di lei, che distolse lo sguardo dagli occhi
verdi della cugina per guardare il lento scorrere della macchine sulla
strada.
E’ incazzata perché noi non possiamo fare
shopping, pensò Anya, risistemandosi sul sedile.
Di solito, le commesse che servivano i ragazzi proponevano anche a loro
di provare qualcosa, ma lo facevano per cortesia ed Anya e Natasha
erano sempre tentate di comprare tutto quello che vedevano, ma non
avevano il coraggio di chiedere il permesso a David che, preso anche
lui dallo shopping, si perdeva fra camerini e corridoi.
-Ah, prima che mi dimentichi!- esclamò ad un tratto la
ragazza –Devo raccontarvi il sogno che ho fatto questa notte!-
-Oh no!- Tom si prese la testa fra le mani e si tappò le
orecchie –Ma quando ti farai passare la mania di raccontarci
tutto quello che ti capita di notte?-
-Sta zitto, che c’eri anche tu!- lo ammonì Anya e
il ragazzo alzò subito il volto, curioso.
-Davvero?-
-Sì-
-E allora raccontalo!-
Anya si girò di nuovo verso i sedili anteriori, sorridendo.
I suoi non erano mai sogni normali e, sin dalla prima notte che aveva
passato con i ragazzi, aveva preso l’abitudine di raccontar
loro cosa aveva sognato al mattino. Ogni volta, nel sonno, prendevano
vita storie diverse, anche a più episodi, eventi strani e
complicati che poco a poco erano diventati il risveglio migliore per la
band, che a colazione ascoltava divertita la favola di Anya. Quando
iniziava a raccontare, la ragazza si trasformava, perdendo il pelo da
tigre e assumendo un’aria dolce e pacata, da chioccia davanti
al camino. I suoi sogni erano belli perché lì
poteva capitare qualsiasi cosa e a lei piaceva farlo capitare; riuniti
ad ascoltarla, Bill, Georg, Tom e Gustav si sentivano qualcosa come una
famiglia intorno a quel fuoco vivo che era Anya. Questa trasformazione,
che durava un paio di minuti, rendeva piacevoli persino i risvegli
più faticosi, anche perché, dopo aver raccontato
il sogno, Anya rialzava subito le difensive e li svegliava
completamente con le sue urla da gatta su quale camera avesse da
riordinare quel giorno.
-Allora- iniziò la ragazza –adesso non ridete, ma
ero sposata con Tom-
Inutile chieder loro di rimanere seri perché tutti
scoppiarono a ridere a sentire il nome del chitarrista e ad immaginarlo
vestito in abito da cerimonia che conduceva Anya all’altare.
Risero tutti tranne lui, che cercò di zittire gli amici: per
una volta che aveva il ruolo di protagonista e, per il momento,
sembrava non combinare cazzate, voleva sentire il resto del sogno e
crogiolarsi nella sua parte di marito.
-E, guarda caso, mi toccava sempre lavare le sue mutande. Era estate e
faceva caldissimo, ma Tom mi costringeva comunque ad andare a stendere
i panni in un abitone ottocentesco con tanto di cuffia inamidata. E
perché? Perché era geloso del fatto che Gustav
volesse avermi tutta per sé- continuò Anya,
girandosi completamente verso i ragazzi sui sedili anteriori.
-Oddio!- esclamò David, asciugandosi le lacrime dagli occhi.
-E chi ha vinto?- chiese Bill, ridendo ancora nell'immaginarsi il
fratello e l’amico in un duello mortale stile western per
Anya.
-Nessuno, li ho piantati tutti e due! Non capisco perché, ma
nei miei sogni finisco sempre per essere sposata con qualcuno!-
-Bè, credo sia perché qui tutti ti vogliamo
sposare!- esclamò Georg, fissando il profilo sorridente
della ragazza, che arrossì e si girò di nuovo
davanti, senza rispondere. Si affacciò al finestrino per
simulare l’imbarazzo anche con David e guardò
nello specchietto retrovisore da cui spiccavano gli occhi di Natasha,
sempre più furiosi. Con lei.
*
Li fecero scendere davanti all’entrata del negozio, la porta
venne aperta da una commessa che, con un sorriso radioso, li fece
accomodare. Appena varcata la soglia, contemporaneamente, tutti
alzarono gli occhi: si trovavano al centro del negozio, sotto la cupola
principale e sopra di loro, in cerchi concentrici, si estendevano i
piani del department store. Gigantesco. Colorato. Pazzamente perfetto.
-Sbizzarritevi- ordinò David ai quattro ragazzi, che stavano
attendendo suoi ordini. Ci fu un fuggi fuggi generale: Bill corse al
negozio di gioielleria ed accessori, dove due commesse eleganti lo
accolsero, mostrandogli gli ultimi modelli di orologi; Georg e Tom
cercarono i negozi sportivi ed il chitarrista si impossessò
di tutte le inservienti che trovò nel negozio per farsi
mostrare quanti più capellini avevano. Seduto su una
poltrona comoda con tante belle ragazze che gli svolazzavano intorno
mostrandogli jeans, magliette giganti e fasce, si sentiva in paradiso.
Gustav prese a gironzolare in giro, guardando le vetrine delle varie
boutique e ammirando tutti i vestiti e le borse che avrebbe potuto
comprare per sua madre, fanatica dell’ultima moda. Lo sguardo
di Anya si concentrò sull’enorme insegna di un
emporio di abiti eleganti, ma la vista di Natasha che le tagliava la
strada per raggiungere Bill la fermò. Prese la cugina per un
braccio e, senza sentire scuse, la trascinò con
sé in un negozio di intimo femminile, l’unico dove
i quattro ragazzi non sarebbero di certo entrati.
Dopo aver fatto cenno alle commesse che davano solo
un’occhiata intorno, Anya fronteggiò Natasha, le
mani sui fianchi e lo sguardo indagatore.
-Si può sapere che ti succede oggi? E’ tutta
mattina che mi guardi in cagnesco, ti ho forse fatto qualcosa?- la
interrogò. L’altra distolse lo sguardo dal viso
della cugina.
-Niente- rispose.
-Non è possibile, non ci credo. Cosa è successo?-
insistette Anya. Natasha sbuffò e strinse gli occhi a
fessura. Quel pomeriggio era parecchio nervosa e stava già
perdendo la pazienza, possibile che l’altra riuscisse a
recitare così bene e nasconderle una cosa così
importante?
-Cosa è successo?- rispose infine, alzando la voce in un
tono volutamente ironico –Non te l’ho mai detto in
faccia, ma mi sembrava palese che mi piacesse Bill! E tu che fai?-
l’aggredì, puntandole un dito contro.
-Io che faccio?- chiese Anya, confusa. Oddio, che aveva fatto?
-No, dimmelo tu: come mai eri in camera sua l’altra sera? E
stamattina, come mai è venuto a cercarti?- il tono di
Natasha era alto e concitato, furioso. Non ci stava a farsi prendere in
giro da sua cugina, la persona a cui teneva di più al mondo.
Le doveva essere grata, lei non l’aveva abbandonata come
tutti quanti, se era lì doveva solo ringraziarla.
-Dico io, ma stai scherzando, vero?- sorrise amaramente Anya, guardando
incredula Nati –Stai scherzando? Punto primo: io con Bill non
ci sto, non abbiamo né scopato né
nient’altro; punto secondo: credi davvero che starei con lui
senza dirtelo? Potrei anche fregarmene altamente del fatto che ti
piaccia, ma se succedesse qualcosa, qualunque cosa, te la direi!
Pensavo ti fidassi di me!-
Natasha vide la situazione capovolgersi in un istante, adesso era Anya
quella arrabbiata e delusa. Sì, sembrava davvero delusa
delle accuse della cugina.
-Io… credevo…- cercò di giustificarsi
lei –Insomma, hai dormito con lui! Ti ho vista uscire da
camera sua il mattino!-
-L’hai detto anche tu, ho dormito, dormito, solo questo!-
riprese Anya.
-Non c’è niente?- chiese ancora Natasha.
-Piantala, ti ho detto di no! Sembriamo tornate ai tempi delle medie,
ti stai comportando da ragazzina. Ci vivi insieme, diamine! Se ti piace
tanto, fattelo!-
La ragazza arrossì violentemente.
-Sono stata proprio una bambina e dire che ho ventisei anni, diamine!
E’ che io pensavo che lui ci provasse con te e allora ho
incoraggiato Georg a farsi avanti, visto che era da…- prese
a spiegare Natasha, vergognandosi profondamente.
-Un momento- la fermò Anya –Tu cosa hai fatto?-
La cugina prese a schiaffeggiarsi mentalmente: non doveva dirle di
Georg. Stupida, stupida, stupida. L’altra non le dette il
tempo di spiegare; le rivolse uno sguardo furioso, girò sui
tacchi e se ne andò di tutta fretta dal negozio, senza
ascoltare la voce di Natasha che cercava di fermarla, senza
però avvicinarsi, temendo la sua collera da tigre arrabbiata.
Ok essere gelosa, sospettare e arrabbiarsi, ma giocare con i sentimenti
di Georg, giocare con la sua vita, no, questo non glielo poteva
permettere. Anya affrettò il passo, ignorando i richiami di
Natasha ed entrò nel negozio in cui Gustav stava dando
un’occhiata a delle T-shirt. Non lo raggiunse, non aveva
voglia di parlare con nessuno, perché sentiva che se avesse
aperto bocca, sarebbe esplosa.
Deviò per il reparto femminile, tuffandosi in jeans e
vestiti per cercare di calmarsi. Passeggiò per il corridoio,
respirando il buon profumo dell’ambiente e accarezzando il
tulle di un abito a fiori.
-Ehi-
Anya si voltò di scatto, trovandosi Georg davanti,
appoggiato ad un tavolino dalla cui vetrinetta si potevano ammirare
accessori e gioielli in bella mostra su stoffe colorate.
-Ehi- rispose al saluto –Dove sono gli altri?-
-Siamo tutti qui, questo credo sia il miglior negozio- disse Georg,
sorridendole –E tu? Non compri niente?-
-Mmh, non credo mi sia permesso- tergiversò Anya,
giocherellando con la cerniera di un giubbino lì vicino.
-Ma certo che puoi, prendi tutto quello che ti piace, lo dico io a
David- rispose, accorato, il ragazzo.
-Grazie, ma…- si oppose lei, allontanandosi un po’
dal bassista sempre più vicino.
-Ehi Anya! Sei tu?- chiamò una voce, che i due ragazzi
riconobbero come quella di Bill. La testa del ragazzo spuntò
per un attimo da una delle tende color carne dei camerini lì
vicino, cercandola.
-Devo…- iniziò a dire Anya, senza concludere la
frase, ma alludendo al vocalist che l’aveva chiamata.
-Anya!- urlò, appunto, Bill, per la seconda volta. Sembrava
agitato.
Georg sorrise alla ragazza, annuendo e lei gli voltò le
spalle velocemente, correndo ai camerini. Correva troppo quel giorno,
si disse.
Scostò bruscamente la tenda da cui aveva visto sbucare la
testa di Bill
-Che cosa c’è?- chiese al ragazzo, che gli dava le
spalle e lui si voltò subito.
-Lo sapevo che quel cibo di merda mi avrebbe fatto
ingrassare!-imprecò –La cerniera non vuole saperne
di salire!-
Anya guardò senza imbarazzo la zip dei pantaloni che Bill si
stava provando: la taglia più stretta l’aveva
trovata lui. La ragazza non riusciva a capacitarsi di come quel fascio
di ossa riuscisse a trovare una taglia che gli andasse bene, figurarsi
una ancora più stretta. Tutta colpa di quegli stronzi degli
stilisti, fissati con i fisici impossibili. Poi la gente andava a
chiedersi come mai le ragazzine diventassero anoressiche.
-Ma no, scemo!- simulò una risata –Si
sarà incastrata la zip-
Senza pensarci due volte, si avvicinò a Bill e mise mano
alla cerniera dei pantaloni, afferrando il triangolino metallico della
chiusura lampo. Il ragazzo chinò lo sguardo alle dita agili
di Anya e sentì qualcosa bruciargli nello stomaco. Il suo
profumo non faceva che accrescergli il dolore al cuore: sapeva di
shampoo e di vestiti puliti.
Respirò fino a farsi male alle narici pur di catturarlo. A
volte, bastava concentrarsi per sentirlo anche se lei non
c’era, sul cuscino la notte, tra le mani il giorno. Avrebbe
ceduto all'istinto da un momento all’altro.
La ragazza tirò su la zip senza alcuna
difficoltà, per poi alzare gli occhi a quelli ambrati di
Bill, fissandoli interrogativa mentre loro le restituivano uno sguardo
completamente dipendente da ogni suo respiro, uno sguardo in attesa,
indeciso. Lei finì di abbottonargli i jeans.
Ora o mai più, pensò Bill.
-Ma perché ora?- gli aveva chiesto Tom, quando si era
confidato con lui.
-Ho provato a rinunciarci, a farmi una ragione della sua indifferenza,
ma ho bisogno di lei e adesso è una questione di
sopravvivenza- gli aveva risposto.
-E le altre?- aveva domandato il fratello.
-Quali altre?-
Il tempo aveva corso fin troppo, lui aveva lasciato che accadessero
molte cose che non avrebbero dovuto affatto accadere. Non rispose alla
domanda che gli occhi di Anya gli stavano ponendo, allungò
la mano a chiudere bene la tenda del camerino, perchè
nessuno doveva vedere, nessuno doveva portargliela via.
Le prese le mani, lentamente, temendo una sua ribellione se solo avesse
velocizzato i tempi, le portò al suo petto e la ragazza le
appoggiò delicatamente, lisciando la maglietta del vocalist,
sorpresa di quel tocco nuovo. Chinò la testa, non voleva
confrontarsi con gli occhi spiazzanti di Bill, ma lui li aveva
già chiusi: prese il viso di Anya fra le mani e le
leccò le labbra dischiuse, imprimendo poi
l’impronta della sua bocca su quella della ragazza, che si
lasciò stupidamente incantare da quel dolce movimento.
Quando Bill l'afferrò di nuovo, si ritrovò a
fissare le sue palpebre nere e serrò immediatamente gli
occhi. Senza il senso della vista, ciò che stava succedendo
acquistò un'altra dimensione, quella del tatto.
Non percepiva niente all’infuori di Bill, Bill, Bill e solo
Bill. Era dappertutto, invadeva interamente il momentaneo vuoto della
sua mente, facendosi spazio come un’onda del mare sulla
spiaggia, solo che lui non aveva intenzione di ritirarsi.
Il suo odore la stordì, le sue mani sulla pelle la trovarono
impreparata: erano delicate, come se stesse accarezzando qualcosa di
fragile come un petalo di rosa.
Non rimase immobile ancora per molto, rispose alle toccate fugaci delle
labbra del ragazzo, che sembrava travolto dalla marea di quel bacio.
Voleva esplorare tutta la bocca di Anya, sentirla sotto il suo
controllo e il fatto che la ragazza glielo stesse permettendo lo
stordiva.
Leccò ancora una volta le sue labbra, sentendo che una
lacrima gli pizzicava l’angolo dell’occhio, ma era
troppo distante da se stesso e dalla realtà per versarla.
Poi lei si staccò. Vicinissima a lui, quasi in bilico per
non cadergli addosso, tenne il viso sollevato verso il suo, la bocca
dischiusa vicino al mento del ragazzo a rubargli l’aria.
Sentiva il sangue circolare di nuovo regolarmente, i pensieri rifluire
alla testa e fu quello a farla allontanare. Bill provò di
nuovo ad avvicinarsi, passando un pollice sul contorno della sua bocca,
ma Anya subito si staccò, spezzando il contatto,
distruggendo senza pietà il cerchio che li univa con uno
sguardo. Lo fissò ancora un attimo, sentendo la bocca gonfia
e gli occhi lucidi. Poi indietreggiò, incredula, fino a
chiudere la tenda fra di loro.
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Capitolo 11 *** Break Away ***
Innanzitutto, volevo ringraziarvi per
tutti i commenti,
positivi o negativi che siano. Se c'è una cosa di cui mi
rammarico è che su
questo sito non posso avere un rapporto con voi lettrici che seguite
questa
storia come lo vorrei io e come sono abituata ad averlo con chi legge
le mie
fan fiction. Solitamente, posto sempre nei forum e lì posso
avere un dialogo,
scambiare impressioni e spiegazioni, rispondere a domande, cosa che qui
non mi
è permesso fare. Insomma, non sapete nulla di me! Ed io
voglio rimediare, per
quanto mi sia possibile: mi chiamo Alice e ho quindici anni.
Bè, scrivo da
quando ero piccola, ho sempre scritto e questa mia passione ha sempre
viaggiato
in parallelo con la lettura. Voi siete qui per leggere Burning Up, non
per conoscermi, ma mi sembrava giusto stabilire un rapporto
più "umano".
Mi sembrava poi giusto rispondere a The Fighting Temptations:
ero partita a
scrivere con l’intenzione di spiegarti che Anya non
è una Mary Sue (altrimenti,
abbiamo divergenze sulla definizioni di una Mary Sue) e la storia non
è
prevedibile, melensa o cose simili. Hai detto che hai intenzione di
continuare
a leggere, spero che lo capirai da sola senza le mie spiegazioni, che
non
riesco a darti ora e non ho intenzione di darti; se hai letto, come
hanno fatto
tante altre ragazze che hanno capito, allora capirai anche tu, o forse
no, non
è di mia competenza. Le critiche negative di solito aiutano,
ma una cosa che so sicuramente è che la ragazza di cui leggi
e leggete tutte voi non è un mio surrogato, non è
una modella perfetta, non ha super poteri in eleganza e persuasione
sensuale, non è amata e corteggiata a dismisura, non
è bellissima, non è niente di tutto
ciò. E' superba, fa dell'ironia la sua arma, pungente e
spesso aspra, non ha avuto un passato facile, ma non si è
dimostrata una vittima, se non di se stessa e della sua cocciutaggine.
E' Anya, l'unica figura stabile per quattro ragazzi, l'unico barlume di
normalità e famiglia per loro che vivono troppo diversamente
da noi per capire cosa significhi. Io ci ho provato. E so che a volte
un'amica che ti sta sempre affianco può diventare tutto ad
un tratto la persona più importante della tua vita e puoi
non dirlo a te stesso, ma finirai per amarla per il fatto che lei
c'è stata sempre. Questa è Anya, la ragazza che
lava i calzini e riordina le camere, la ragazza grande, la ragazza
matura, la ragazza simbolo di tutto ciò che concerne una
vita normale: una madre, un'amica, una ragazza, un viaggio, da quando
si è piccoli a quando si è grandi. Se avete
letto, tutto questo lo avete trovato in ogni mio capitolo, senza
intenzione di rendere l'imperfetto perfetto. Perderebbe tutto il suo
fascino.
Volevo dirvi anche che non scrivo di
volta in volta i capitoli, sono già stati scritti e sono
molto più avanti. Mi limito a postarli.
11.
Break Away
Sbatterti in faccia la realtà in un momento di relax
completo come quello della scelta di un CD, questa volta non da rubare,
ma da comprare, perché il tuo lavoro di cameriera ti ha
fruttato qualcosa e il tuo istinto ti ha subito spinto nel primo
negozio di dischi nelle vicinanze, non è la cosa
più piacevole che si possa desiderare. Un gelato, una
passeggiata, anche una scopata, ma ricevere uno sgambetto dalla vita
vedendo quella faccia da schiaffi con sotto la notizia del suo arrivo
proprio no.
Il fuoco le invase le guance.
Due o tre ragazzine guardavano il manifesto con interesse, indicando i
quattro ragazzi in posa. L’avevano affisso proprio loro, dopo
aver chiesto il permesso al proprietario, che aveva accettato, senza
sapere chi fosse quella band per lui emergente.
-Tom- mormorò tra sé e sé Charlie. Era
dannatamente diverso dal ragazzo sdraiato sotto di lei con le mani
grandi e un po’ ruvide con l’orologio in bella
vista e i capelli lunghi sulle spalle, diverso dall’immagine
stampata che le rimandava lo sguardo. Audace, sfrontato, sensuale e
incredibilmente indomito.
Sarebbe tornato in America con i Tokio Hotel. Le scappò una
risata a quel nome e una smorfia al ricordo di una loro canzone.
Riportò l’attenzione ai dischi allineati per
generi e puntò sul gruppo contrassegnato dalla targhetta Metal.
E poi la sezione quasi vuota Metal Germania.
Afferrò un CD con in copertina una nave imprigionata tra i
ghiacci e lesse il nome del gruppo: Rammstein.
-Bene, vediamo cos’hanno da offrire questi tedeschi- si
disse, dirigendosi verso la cassa con il CD in mano. Passando davanti
alla foto di Tom, lo fissò di nuovo, al contempo minacciosa
e invitante.
-Ti aspetto- mormorò.
*
Le girava la testa e neanche l’aspirina l’aveva
aiutata a sentirsi meglio; anzi, le aveva lasciato l’amaro in
bocca e non era una bella sensazione. Sicuramente, le stava venendo la
febbre. Cercò tra le valigie della stanza di Tom, che stava
cercando di mettere in ordine, una delle felpe del chitarrista per
buttarsela sulle spalle, ma inciampò in alcuni DVD porno
buttati per terra e dovette aggrapparsi alla testata del letto per non
cadere.
Diamine, che male,
pensò, sedendosi sul comodo materasso a due piazze e
massaggiandosi le tempie.
-Ehi Anya, va tutto bene?-
David fece capolino dalla porta e la raggiunse, saltando tra le
cianfrusaglie per terra; la ragazza alzò la testa verso
l’uomo, tentando di sorridere e non far vedere che aveva gli
occhi rossi.
-Ho un po’ di mal di testa- gli rispose, spostandosi a lato
per fargli posto.
-Sì, in effetti mi sembri un po’ esaurita in
questi giorni- constatò David, guardandola apprensivo.
-E' così- annuì lei –Voi uomini mi
rendete la vita complicata-
Il manager rise della sua espressione imbronciata e seria e le pareti
della stanza gli rimandarono la sua stessa risata roca.
-Non c’è niente da ridere- lo ammonì
Anya, dandogli un pugno scherzoso al braccio –Ho bisogno di
staccare un po’ la spina-
David annuì, scrutandola attentamente.
-Ti capisco fin troppo bene e te lo meriteresti. Sai, dopo i Goldene
Kamera, torneremo in America e là il servizio in camera
è migliore che in Europa. Credo che per una settimana o poco
più riusciremo a cavarcela senza di te- le sorrise,
alzandosi di scatto nel momento in cui il suo cellulare
vibrò nella tasca dei pantaloni e lui controllò
chi lo stava cercando.
-Pensaci- le disse, dirigendosi verso la porta –e, Anya?-
-Sì?-
-Forse allontanarti un po’ rimetterà a posto gli
ormoni di Bill e Georg. E’ un periodo intenso anche per loro
e devi capirli: sei una delle poche figure stabili della loro vita, sei
la loro amica, la loro famiglia; non lo dicono spesso, ma a loro manca
un po’ di normalità e tu sei l’unica
cosa che gliela ricorda, non possono fare a meno di amarti-
-Lo dici come se fossi una sorta di Messalina- rise Anya.
-Per loro lo sei. Credo che, anche se il mondo in cui noi viviamo
è molto grande, ti stia iniziando ad andare stretto. Loro
sono uccellini in gabbia, nati così, cresciuti
così, tu,invece, sei una tigre e le tigri non vivono per
stare rinchiuse. Comunque tu decida, io ci sarò sempre-
David mise mano alla maniglia della porta, mentre la ragazza lo
guardava intenerita dal letto, le gambe raccolte al petto e la felpa di
Tom che le faceva da vestito.
-Grazie David, ci penserò-
Evitare i ragazzi non era stata una cosa tanto facile, ma fino a quel
momento c’era riuscita. Ovviamente, era sempre occupatissima
a fare telefonate, non poteva cenare con loro, ma preferiva ordinare in
camera lamentando problemi di stomaco e fuggiva sovente in una
qualsiasi lavanderia portando a smacchiare capi che sporcava di
proposito. Nei momenti in cui proprio non poteva non esserci, per
esempio quando i ragazzi si rilassavano con il ping-pong o giocavano
alla PlayStation, lei lasciava il suo posto di avversaria imbattuta a
Natasha, a cui bastava un’occhiata da cerbiatto di Bill per
farlo vincere, sdraiandosi sul primo divano nelle vicinanze e
ostentando la sua aria superba da contessa decaduta e mestruata
trecentosessantacinque giorni l’anno, costretta a pulire i
piedi a quelli che erano stati i suoi servi e teneva tutti distanti con
la scusa del mal di testa. A furia di ingigantire la malattia, le venne
davvero e le rese le giornate ancora più impossibili di
quanto già non lo fossero. E l’idea di indossare
un vestito per i Goldene Kamera non le migliorava di certo le
prospettive.
-Nati, che palle- sbuffò, guardandosi allo specchio di
fronte, di profilo, allungando il collo per rimirare il fondoschiena.
-Anya, se non la smetti di rompere giuro che brucio te e il vestito- la
sgridò la cugina, cercando di appuntarle un fermaglio tra i
capelli, ma i movimenti bruschi della ragazza glielo impedivano.
-Ma li devo proprio mettere questi guanti? Guarda, mi stanno malissimo-
si lamentò ancora lei, fissandosi le mani coperte da dei
guanti di pizzo che le arrivavano al polso.
-Danno un tocco rock, fidati di me-
-E chi lo vuole un tocco rock- disse, a denti stretti, Anya.
-Adesso stai qui buona e tranquilla, non toccarti, non guardarti, non
respirare neanche. Torno subito- l’avvertì
Natasha, dirigendosi verso il corridoio. Niente da fare, quando
ritornò Anya si era sfilata i guanti, aveva liberato i
capelli da quello stupido fermaglio e si era cambiate le scarpe.
A Natasha venne da piangere per il nervoso e dovette stringere forte la
sua pochette cercando di resistere alla tentazione di scaraventarla
addosso alla cugina, ma ormai non c’era più tempo
e dovette ingoiare il rospo: aveva vinto ancora una volta lei.
L’idea di vestirsi elegante non era mai fra le più
gradite ad Anya, ma solitamente sopportava tutta quella farsa con il
sorriso sulle labbra, convincendosi che era assolutamente bellissima
con i tacchi ancora più alti di come li portava di solito e
il trucco pesante, ma quella sera, complice il mal di testa, non
riusciva a non guardare tutti con odio per averla trascinata a quella
stupida premiazione.
I Tokio Hotel brillavano, o meglio, era Bill che, con il suo giacchetto
argentato, attirava su di sé tutti i flash delle macchine
fotografiche e li rifletteva sui compagni, illuminandoli con la sua
aria volutamente invincibile nel sorriso di perla che celava
imperfezioni infantili. Si mise a battere le mani quando vide i posti
in cui si sarebbero seduti, contrassegnati non solo dal nome di
ciascuno, ma addirittura con una foto. Mentre loro si accomodavano,
Anya e Natasha si impossessarono della stanza adibita a backstage della
band.
-Vi chiamo quando salgono sul palco- le avvertì David, prima
di scomparire, impegnato a far chissà cosa.
Anya si distese subito su uno dei divani di pelle nera, lanciando
lontano le scarpe che la stavano uccidendo.
-Mi chiedo perché, invece di indossare questa robaccia per
sembrare più alta, non possa semplicemente girare in spalla
ad uno dei ragazzi! Così avrei una vista panoramica e non mi
distruggerei i piedi- mormorò la ragazza, coprendosi gli
occhi con una mano –Dici che ci toccherà stare qui
tanto?-
-Tutta la sera e credo ci sarà anche un party,
più tardi- le rispose Natasha, ferma davanti alla porta
semiaperta, intenta a rimirare l’andirivieni di gente in
agitazione e presa dai propri problemi. A sua volta, Anya
fissò l’immagine avvolta in raso rosso della
cugina e le vennero in mente i suoi di problemi, o meglio, i loro,
perché se Natasha avesse saputo di Bill e del suo bacio,
sarebbe stata la fine.
Non avrebbe né urlato, né pianto, né
si sarebbe arrabbiata. L’avrebbe semplicemente odiata con un
astio silenzioso ed eterno, perché era colpa sua, solo sua.
No, Anya, non è colpa tua, continuava a
ripetersi lei, non è colpa tua se hai due idioti
per amici.
Scosse forte il capo per non pensarci, perché ogni volta che
lo faceva, la sua mente le ingigantiva solo di più il
problema. Era semplice, no? Mandarli a quel paese tutti e due.
Ma non poteva e non voleva farlo. Voleva loro bene, non lo dimostrava
spesso, ma era così ed ora le stavano solo ingarbugliando la
vita. Non tanto Georg, con le sue maniere calme e i suoi modi pacati,
ma Bill, sempre agitato e fremente, impegnato a destreggiarsi tra fan e
fotografi, fra la realtà e il successo, tra quello che era
veramente e la sua immagine riflessa che con tanto impegno aveva
costruito per non deludere e non deludersi. La sua vita vera non era
perfetta, quella recitata doveva esserlo.
Anya chiuse gli occhi, esasperata, ma un colpo violento della porta
glieli fece riaprire all’istante e prima che potesse capire
qualcosa, David la prese per un braccio e trascinò lei e
Natasha nel dietro le quinte, da dove si poteva vedere tutto senza
essere visti, un po’ come essere dei fantasmi.
-Il discorso- fu l’unica spiegazione che il produttore diede
alle due.
Gli applausi si levarono dal pubblico, discreti e contenuti e poi
più accesi e umani nel momento in cui l’entrata
dorata che recava l’immagine dei quattro ragazzi su un grande
schermo al fondo del palco si aprì, lasciando posto
all’avanzata sfolgorante dei Tokio Hotel, le mani agitate in
saluto, gli occhi che brillavano. Il pubblico elegante li
seguì con lo sguardo mentre si avvicinavano al piedistallo
con il microfono e l’award. I conduttori, uno addirittura
più alto di Bill, li salutarono e abbracciarono tutti e
quattro, per poi lasciare a loro l’intero palco per il
discorso.
Anya si appoggiò alla spalla di David per non cadere nella
confusione del dietro le quinte, aspettando e guardando i ragazzi
stringersi intorno a Bill, il padrone del microfono. E aveva anche
un’altra cosa in mano: un foglio.
La ragazza strabuzzò gli occhi per vedere meglio:
solitamente, i discorsi alle consegne degli award erano sempre
preparati, ma mai Bill ne aveva scritto uno. Trattenne il fiato
sentendo le prime parole del ragazzo.
-Bhe, grazie, grazie mille davvero. Siamo felici di essere qui stasera.
In occasione di ricevere il Goldene Kamera ci siamo seduti insieme
pensando agli ultimi due anni-
-Oh mamma mia!- esclamò Anya, subito zittita dalla cugina,
stupita anche lei. Solo David sembrava sapere qualcosa di
ciò che avrebbe detto Bill, perché sorrideva
compiaciuto.
-Non ci hanno neanche avvertite!- bisbigliò Natasha
all’orecchio di Anya, facendo la finta indignata.
-Ho preso degli appunti- proseguì Bill, con il microfono al
lato della bocca, un’anca in fuori e il foglio appoggiato
allo stomaco -Più di tutto noi siamo l'esempio lampante per
cui non si debbano avere figli-
-Confermo- rise David, senza farsi sentire.
-Nella prima settimana dopo l'uscita di Durch den Monsun il mio bel
fratellino dai pantaloni decisamente troppo grandi si è
scopato 25 ragazze- Tom si infilò le mani in tasca, chinando
il capo in un divertente atto di pentimento fasullo che
suscitò mormorii nella folla e risatine qua e là,
così il rasta continuò a dondolarsi allegramente
nella sua aria di marpione.
-Poi siamo stati sputtanati dall'ufficio assistenza giovanile e
cacciati dalla maggior parte degli hotel. Poi un nonno è
andato fuori controllo e l'esercito ci sta cercando- Bill
scrollò le spalle come se stesse raccontando alla vicina di
casa i problemi dell’artrite.
Natasha si girò verso Anya, in attesa di una delle sue
battute. Avrebbe potuto dire che il nonno era il suo o che gli hotel
avevano fatto una loro gigantografia con scritto Wanted
o cretinate del genere, ma Anya era troppo occupata a tendere le
orecchie per prestarle attenzione. Credeva di stare immaginando tutto.
-Come si può vedere, ho rinfrescato il mio trucco agli occhi
e poi sono andato online per annunciare quanto io sia finocchio. E...ah
sì, sono quasi morto di anoressia- disse ancora Bill,
serissimo. Anya spalancò gli occhi che le si stavano
riempiendo di lacrime, cercando di non pensare al male che facevano
quelle parole al cuore suo e di tutti gli altri ogni volta che le
sentivano dire con cattiveria da chicchessia. Le ricacciò
indietro per sfoderare uno dei suoi sorrisi più radiosi.
Bill. Bill. Bill. Era lui, il vero Bill. Sì. Era
inconcepibile, si sentiva così fiera di quel discorso e
soprattutto di lui che anche il bacio avventato passò in
secondo piano. Era disposta a perdonargli quello che considerava un
gesto capriccioso e stupido quanto quello di Georg.
-Ma nonostante questo siamo ancora qui stasera. O forse grazie a
questo. Il nostro ringraziamento va al 100% ai nostri fan tedeschi, che
sono sempre stati al nostro fianco. Certo, può suonare come
un cliché, ma loro sono stati gli unici che hanno reso tutto
questo possibile. Incluse le cose che sono accadute fuori dalla
Germania. Grazie mille, voi ci rendete orgogliosi, grazie-
terminò di dire Bill, con un piccolo inchino. Il
pubblicò applaudì, entusiasta.
Pensava fossero solo battute e aveva riso per i moti di spirito di quel
giovane ribelle e dei suoi tre amici, Bill e gli altri tre, solo
questo. Anya, invece, continuava a sorridere, ignorando quel pensiero
così poco importante in quel momento, il momento della
verità, per lei, come per i ragazzi. Mai si erano svelati
così profondamente davanti ad una telecamera, mai avevano
dato l’immagine più giusta di sé come
quella sera.
I conduttori ripresero possesso del palco mentre i Tokio Hotel
ritornavano dietro le quinte. Fieri e anche tanto. La prima persona che
videro fu Anya, che sorrideva come non faceva da giorni, gli occhi
così verdi e grandi. Tom, Georg e Gustav la salutarono con
la mano.
Bill ne rimase folgorato. Attratto, sconvolto. Voleva raggiungerla,
sapeva che quello era il momento giusto per riallacciare il cerchio che
lei aveva spezzato dopo il bacio, ma David lo afferrò per un
braccio, tentando di scompigliargli i capelli e trascinandolo nel loro
camerino, strappandolo a quell’attimo da sogno.
L'uomo respirò profondamente.
-Siete stati grandi, fenomenali, pungenti e seri nello stesso attimo,
sapevo che avreste detto le cose più giuste e avreste fatto
la vostra figura, bravi, bravi, bravi- disse, tutto d’un
fiato, molto simile a Bill quando iniziava a parlare a macchinetta, ma
fu lo stesso ragazzo ad interromperlo.
-Grazie David, ma posso andare un attimo di là?
Dovrei…- iniziò a dire, adocchiando la porta.
-Tu non vai da nessuna parte, per una volta che non riesco a contenere
l’entusiasmo, tu te ne vuoi andare?- rise il produttore,
spingendolo a sedersi vicino ai suoi amici, che si erano già
impossessati dei divani.
-Sì, ma devo dire una cosa ad Anya- tentò ancora
Bill.
-Oh, Anya- David lo fulminò con lo sguardo
involontariamente. Il ragazzo gli aveva dato un motivo in
più per non lasciarlo andare.
-A proposito di Anya, ho io una cosa da dirvi-
Georg, fino a quel momento era stato occupatissimo a fissare il
soffitto, alzò di colpo lo sguardo su David e altrettanto
fece Bill, spostando definitivamente l’attenzione dalla porta
al produttore.
-Ne abbiamo parlato stamattina e abbiamo deciso che, mentre noi saremo
in America, lei si prenderà una vacanza- disse David,
fissandoli uno ad uno. Lo disse con un tono volutamente noncurante,
pronto a vedere le reazioni di Bill e Georg.
-Va-vacanza?- balbettò il bassista, incredulo –E
noi come faremo?-
-Ci arrangeremo- scrollò le spalle David.
Bill staccò la spina e chinò il capo, fissandosi
la punta delle scarpe, un solo pensiero in testa che aveva cancellato
tutto: il discorso, l’entusiasmo, l’adrenalina che
già gli invadeva le vene al pensiero
dell’esibizione di quella sera.
Il sorriso di Anya non era per loro, non era per lui. Sorrideva
perché li avrebbe lasciati, lo avrebbe lasciato. Quello era
solo il primo passo per la libertà e per la sua rovina.
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Capitolo 12 *** Everybody here ***
I ringraziamenti sono impliciti
(grazie XD) e rispondo ai
vostri commenti.
_ToMSiMo_
sai, a volte la gente
interpreta nel modo sbagliato anche il più insignificante
gesto nella maniera
sbagliata. Siamo sempre pronti a credere che ciò che vediamo
sia un segno che
ci confermi la nostra fortuna o, in questo caso, sfortuna. In poche
parole, Bill
lo vedo molto come tipo che si fa questo tipo di viaggi!
bimbaemo, bè, Bill, da bravo pessimista, pensa
che, una volta assaggiata la
libertà, Anya non torni più indietro, Georg
è più che altro preso alla
sprovvista: tutti e quattro i ragazzi hanno vissuto tre anni
ininterrotti con
lei, quindi pare un po’ strano che così, su due
piedi, senza una ragione
precisa, Anya non li segue in questo viaggio.
the Fighting Temptations,
non ti avrei
mai insultata, né presa di mira, né sarei mai
“schizzata”, a parte che non è
educato, ma soprattutto perché non sarebbe giusto. Che ci
stanno a fare le
recensioni aperte a tutti, se poi una persona non può dire
liberamente ciò che
pensa?
Fee17, sono contenta a mia volta che ci sia qualcuno che
la pensa come me! Senza
lettrici, noi che scriviamo siamo niente, il vuoto assoluto! Quindi,
più
scrivete, magari anche di voi o di cosa non vi piace/vi piace,
più io sono
contenta e, come avete visto, se dite che vi fa schifo, non vi vengo a
cercare
a casa XD
after_all,
non credevo che una ff sui
TH potesse piacere a qualcuno che non è loro fan, sono
rimasta senza parole
davvero! Sei riuscita ad andare oltre alle apparenze e te ne ringrazio,
avere
il parere di una non-fan è veramente fantastico, mi fa
capire che la mia storia
non è valida perché tu ami loro e di conseguenza
ogni parola sulla loro
esistenza sia oro colato, ma perché ti piace davvero. Grazie.
dark011, sei tornata! Mi fa piacere che tu abbia recuperato
tutto e che sia di
nuovo qui a leggere.
Buona
lettura, Ali
12.
Everybody here
La gente passava senza lasciare segni. Il tempo sembrava non sfiorarli
nemmeno e la luce grigia del cielo nuvoloso entrava dalle vetrate da
cui si poteva vedere un enorme aereo bianco, in attesa. Stagliati
contro la volta malinconica, aspettavano la chiamata di volo, immobili
e di guardia ai loro bagagli a mano, che avevano ricontrollato cento
volte la sera precedente e quello stesso mattino con Anya, che
ricordava all’uno o all’altro qualcosa di
dimenticato.
Per la prima volta in tre anni, lei, invece, aveva completamente
disfatto le valigie e ritrovato nelle tasche più nascoste
oggetti che aveva temuto di aver perso o mai avuto.
Gli occhiali da sole indossati per abitudine, visto il brutto tempo,
erano quasi ridicoli, ma ciascuno indossava il suo paio, firmato o non.
-Starai bene, vero?- chiese Natasha, per la centesima volta.
Anya alzò gli occhi al soffitto ridendo.
-Sì Nati, strai tranquilla, farò una vita da
regina- le rispose.
-E’ solo che…-
-Lo so, è strano anche per me- terminò per lei
Anya, per poi sfoderare l’espressione più
convincente che aveva –Me ne starò una settimana a
fare nulla, senza vedere una sola lavanderia-
-Bella prospettiva- mugugnò tra i denti Bill.
-Ottima- gli rispose la ragazza, con uno sguardo di sfida.
La voce metallica che annunciava la partenza del volo
risuonò piatta nella sala d’attesa, facendo
scattare in piedi gli altri passeggeri. David mise in tasca il
BlackBerry e si sistemò la visiera del cappellino che aveva
indossato.
-E’ ora- disse ai ragazzi, con la voce assonnata.
Tirò verso di sé la leva del piccolo trolley e,
per primo, si diresse verso Anya, stringendola tra le braccia.
-Passa una buona settimana- le sussurrò
all’orecchio.
-Anche voi. Non lavorate solo come dei matti, divertitevi anche un
po’-
L’uomo la lasciò andare e si affrettò
verso il gate.
-Ciao Nati- salutò Anya, buttandosi addosso a lei e
dondolandosi nell’abbraccio con la cugina.
-Mi raccomando- l’avvertì questa, accarezzandole i
capelli.
-Dai ragazzi, datevi una mossa!- li incitò David, da lontano.
-Sì, muovetevi- ripetè Anya, acchiappando Gustav
per la maglia e stringendolo al petto, mentre Tom si avvicinava,
reggendo lo zaino in mano. La ragazza colpì scherzosamente
il capellino del batterista e poi circondò con un braccio il
rasta, che la sollevò per i fianchi solo qualche attimo.
Anya diede una spintarella ad entrambi che si erano fermati a guardarla
ancora un po’ e li incitò a correrre da David e
Nati.
Volse lo sguardo e incontrò quello di Georg, che le sorrise,
scrollando le spalle. Anya rimase a fissare quegli occhi, talmente
sinceri nel loro dispiacere da toglierle la maschera; gli
afferrò la mano con un mignolo e si avvicinò al
suo viso, regalandogli un bacio timido.
-Roccheggia anche per me- mormorò, sorridendo, anche se
Georg non poteva vederla.
-Georg, Bill!- urlò David, spazientito
–L’aereo non aspetta voi!-
-Arrivo!- fu tutto quello che disse il bassista, prima di caricarsi il
borsone in spalla e trascinarsi verso il gate.
Anya raggiunse Bill e si fermò davanti a lui, che solo in
quel momento alzò lo sguardo verso di lei per puntarlo nei
suoi occhi e leggerci un qualcosa che desiderava trovare.
-Ciao Bill-
Non ricevette alcuna risposta dal vocalist, che continuò a
guardarla, riempendosi le iridi dei suoi lineamenti fini.
-Dai, non farla tanto lunga- lo pregò la ragazza,
incrociando le braccia al petto. Bill respirò profondamente
e le afferrò un polso. Dapprima con tutta la forza che
sentiva in corpo, la forza che di sicuro l’avrebbe
abbandonato una volta salito sull’aereo e intrapreso quel
viaggio da cui, lo sapeva, sarebbero tornati cambiati. Poi
addolcì la stretta e avvicinò Anya a
sé, posando le mani sulla sua schiena e il mento sui suoi
capelli.
-Mi mancherai- le disse.
-A me mancheranno i tuoi calzini- sbuffò lei, per poi
allargare le labbra in un sorriso che Bill sentì contro il
suo petto, caldo di respiro umano.
Si staccò per guardarla ancora: Anya sorrideva, ma i suoi
occhi non potevano evitare di urlargli con quanta disperazione avevano,
Amore, Amore, tutti vogliono solo addomesticarti, Amore, Amore
alla fine impigliati tra i tuoi denti.*
Lo lasciò andare e Bill sparì dietro
l’angolo, senza voltarsi, nero. Alto. Scuro.
Così perduto nel digrignare i denti e reprimere la
frustrazione di essere quello che era e nient’altro da non
rendersi conto di ciò che intorno a lui succedeva.
Anya non aspettò di veder decollare l’aereo, non
ne aveva bisogno per sentirsi libera. Scacciò un pensiero
irrilevante e si affrettò all’uscita,
parallelamente a Bill. La direzione è la stessa, solo che
non ci si incrocia mai, si continua a camminare affianco senza sentire
il calore della pelle dell’altro, senza poter sapere qual
è la forma del suo corpo, la consistenza del suo sonno e la
forza della sua vita.
Uscì dall’aeroporto, fischiando per chiamare un
taxi e lanciando le braccia al cielo, chiamando pioggia di
felicità, osannando la libertà. Tutti vogliono
addomesticarti, ma tu continua a mordermi.
Il taxi arrivò e si fermò per farla salire,
l’autista le venne pure ad aprire la portiera e, salendo,
Anya alzò gli occhi al cielo plumbeo, spaccato in due dai
decibel di un aereo diretto chissà dove, ma così
nitido nel suo viaggio verso altri viaggi, che gli occhi le pizzicarono
e il cuore urlò di chitarra distrutta da mani abili in un
assolo straziante.
Amore, Amore, tutti vogliono solo addomesticarti, Amore, Amore
alla fine impigliati tra i tuoi denti.
*
Bill si lasciò cadere pesantemente sul sedile a lato del
fratello dopo aver risistemato la tracolla da dove aveva preso
l’mp3 sopra le loro teste. Lo accese, scocciato.
-Ti annoi?- gli chiese Tom, scrutandolo in volto. La domanda era
retorica, ma sapeva che andava posta. Serviva, a suo fratello, lo
faceva sentire importante in un momento in cui in realtà era
solo un bambino a cui è stata sbattuta in faccia la
realtà, che si era ribellata al suo controllo e lo aveva
azzannato nel suo punto più debole. Era una questione
psicologica e con il tempo Tom era diventato sempre più
bravo ad esercitare il suo compito di ancòra con Bill.
-No, sto pensando- gli rispose questo, senza smettere di smanettare con
l’apparecchio che non voleva saperne di accendersi.
-A cosa?- insistette Tom. Bill piantò lo sguardo in quello
del fratello, poi scosse la testa, girandosi di nuovo verso il
finestrino.
-C’è qualcuna che ti aspetta?- chiese a Tom, con
noncuranza.
-Lo spero, ma per quel poco che so di lei, sarà una bella
sfida-
E a chi non piacciono le sfide?
-Bionda? Mora?- indagò il fratello.
-Non ha importanza-
No, non ne aveva.
L’unica cosa di cui i gemelli non parlavano mai erano le
ragazze della notte. Se ne avessero parlato , si sarebbero insultati a
vicenda per la loro poca sensibilità, tacerlo rendeva tutto
più facile. Solo se la questione diventava importante era
giusto condividerlo e Charlie non lo era ancora abbastanza.
-Io dormo- disse Tom, sfilandosi la musica dalle orecchie e
sistemandosi meglio sul sedile. Diede ancora un’occhiata
intorno: Georg e David erano stati sistemati due o tre posti dietro a
loro e Gustav, insieme a Natasha, chiacchierava di fianco a loro.
Bill frugò nella tasca del sedile, alla ricerca della solita
rivista della compagnia aerea, ma le sue lunghe dita trovarono
qualcos’altro. Tastò l’oggetto con la
curiosità dipinta nei lineamenti prima di estrarlo: un libro.
-Oh!- esclamò Bill, stupito. Lo rigirò fra le
mani; era da tempo che non toccava un libro, un vero libro. Non aveva
mai più avuto né il tempo, né la
voglia di comprarne uno o chiederlo in prestito a chicchessia. Per
esempio, Natasha leggeva molto e anche Dujna e a volte anche Gustav, ma
il ricordo della scuola era sempre, inesorabilmente legato ai libri e
preferiva dimenticare quella parentesi della sua vita in cui la mattina
sua madre lo svegliava con un bacio e lo mandava alla fermata
dell’autobus per mano a Tom. Il bacio e la fermata
dell’autobus, con la sua casetta di legno, andavano bene,
come andava bene tenere per mano Tom. Era quando arrivavano davanti a
quell’edificio grigio che iniziava l’incubo. I
ragazzini li facevano passare e ridevano, bisbigliavano e non
smettevano di farlo nemmeno quando suonava il campanello, nemmeno
quando li conoscevano da tempo. Non si abituavano, non volevano farlo
di fronte agli occhi neri di Bill, al suo prematuro piercing, al
fratello che lo difendeva e si faceva tirare i rasta dai più
grandi. Ma si erano vendicati: il primo e l’ultimo giorno in
cui erano andati a scuola con Saki, avevano potuto passare per quel
corridoio senza sentire alcuna risata di scherno, senza chiacchiere
malvagie, solo bisbigli stupiti e zip di zaini aperti per tirare fuori
i cellulari e fotografare i capelli di Bill, sempre uguali a prima, ma
ora ammirati, non derisi. Incredibile, quanto sia grande
l’ipocrisia della gente.
Aprì il libro, spinto dalla curiosità e
lisciò le pagine ingiallite. Chissà chi
l’aveva lasciato lì, doveva essere vecchio.
Mezz’ora dopo, Gustav si trovò a ridere nel vedere
il libro per terra e Bill profondamente addormentato sulla spalla di
Tom, la bocca leggermente dischiusa e le mani ancora sulle gambe a
reggere il libro che ormai era caduto. Si alzò dal suo posto
e si chinò a raccogliere il volume, lo aprì alla
pagina in cui era caduto e ci dette un’occhiata, ma
l’espressione sul volto di Bill addormentato era troppo buffa
per non essere immortalata. Prese dallo zaino ai suoi piedi la fedele
Nikon, la impostò in modo che non scattasse il flash e
fermò per sempre l'immagine della criniera di Bill confusa
con il miele dei capelli di Tom e i loro volti persi in sogni segreti.
Magari stavano sognando la stessa cosa, a volte capitava e quelli erano
gli unici sogni che Anya permetteva che i due raccontassero al posto
del suo quotidiano la mattina.
Gustav riguardò la foto sullo schermo della macchina e poi
riconcentrò la sua attenzione di nuovo al libro. Una donna
chiedeva al suo interlocutore se credesse nel caso. Lui rispondeva che
l’importanza che gli si attribuisce è senza senso
e poi parlava delle anime. Alcune, secondo lui, si incontravano nel
corso di più vite per formarne una sola, si rincorrevano nel
tempo, si cercavano e si trovavano, sempre. Ma se nel corso di una vita
terrestre un’anima spezzava il giuramento che
l’univa all’altra, allora entrambe erano destinate
a spegnersi. Non potevano continuare a viaggiare da sole.**
Gustav si scompigliò i capelli corti con una mano e
tornò a prendere in mano la macchina fotografica.
Studiò la foto dei gemelli.
Non c’era scatto in cui i due non sembrassero complici, in
cui uno sguardo non li legasse, una parte del corpo non li unisse,
anche solo un braccio accostato, un piede vicino. E la luce che
invadeva la foto, sapeva di loro. Vetro perfettamente smerigliato, luce
del mattino.
I gemelli, stagliati contro la luce che emanavano, che piano piano si
stava consumando in assenza di qualcosa che non potevano darsi a
vicenda.
*citazione da un testo dei Rammstein, Amour
**il libro è
La prossima volta di Marc Levy e quello che Gustav legge
è davvero scritto nel libro, l'ho solo sintetizzato.
|
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Capitolo 13 *** We’re all living in Amerika ***
_ToMSiMo_,
grazie mille per tutto,
credo che, per me, il sentimento tra Bill e Tom sia più
difficile da descrivere
rispetto agli altri, il fatto è che non ho esperienza e
circolano talmente
tante storie su di loro che non ho un’idea precisa, quindi
interpreto.
dark011,
sulla guancia, è stato
un bacio dato per pena XD
Arina,
sono contenta che tu ti sia
decisa a leggerla, benvenuta a bordo! Grazie per i complimenti, mi fa
davvero
piacere.
13.
We’re all living in Amerika
Una grande mela, verde.
Bell’aspetto, non c’è che dire.
Vedeva solo quello.
Tom affondò i denti nella polpa succosa del frutto,
masticandolo pigramente, sentendolo scricchiolare in bocca. A
quell’ora del mattino, la sua concentrazione era limitata e
la mela la catturava completamente, ipnotizzandolo.
-Questo caffè fa schifo- mormorò Gustav, con una
smorfia di disappunto nel viso perfettamente sveglio.
David guardò preoccupato l’orologio e
sbuffò, pestando un piede a terra.
-Sono in ritardo- annunciò per la terza volta in dieci
minuti.
Bill si stropicciò piano gli occhi per non sbavare
l’ombretto nero diligentemente applicato da Natasha quella
mattina stessa e sbadigliò, portando una mano davanti alla
bocca.
Distogliendo l’attenzione dalla mela che Tom aveva preso dal
cesto sul tavolo del locale, fece uno sforzo per ricordarsi
perché erano lì: intervista. E i giornalisti
erano in ritardo. Bell’inizio.
Era capitato spesso in quei giorni, prima in Canada e poi
lì, a Los Angeles: era in ritardo il conduttore di MuchMusic,
avevano iniziato in ritardo il concerto a Le National
a causa di un disguido dei proprietari. Solo le fan, ai
Meet&Greet erano state puntuali; a loro non si poteva
rimproverare mai nulla.
Sbadigliò ancora.
Il sonno era una costante della loro vita da nomadi e in quei giorni si
faceva pesare. Stava sempre lì, accostato alle porte,
affacciato alle finestre, nascosto dietro il flash del photoshoot che
avevano fatto il giorno prima, coricato sui divani nei backstage con le
sue fattezze da grassa matrona con le palpebre pesanti e i movimenti
strascicati. Non pronunciava una sola parola, ma chiudeva loro gli
occhi nei momenti meno opportuni, tappando loro le orecchie e la mente
con un silenzio ovattato.
Silenzio che venne infranto dallo squillo di un cellulare. Natasha ci
mise qualche minuto a rendersi conto che era il suo e quando lo
capì, fece un salto sulla sedia e prese a frugare nella
borsa.
-Scusate- disse, alzandosi dal posto che aveva occupato fino a quel
momento accanto al vocalist e lasciandoli soli in attesa.
Premette il tasto di chiamata e accostò il telefono
all’orecchio.
-Neanche quattro giorni che siete ad Hollywood e già ti sei
dimenticata di me? Il freddo del Canada ti teneva sveglia, Los Angeles
è più soporifera?- la investì la voce
allegra di Anya. Quella voce, filtrata dai chilometri di distanza,
sapeva così aspramente di Germania, che Nat
riuscì a vedere perfettamente nella sua testa la figura
scattante della ragazza per le vie di Amburgo.
-Lascia perdere, qui si finisce anche per dimenticare il proprio nome-
rispose Natasha, stancamente.
-E perché?- rise Anya.
-Conosci il termine “frenesia”? Ecco, è
la parola che si addice perfettamente a tutto ciò che
facciamo. I ragazzi non sono abituati all’ambiente, alla
lingua, ad essere delle star emergenti, tanto che anche Gustav adesso
sta più attento a cosa indossa per non sfigurare. E Tom non
ha mai cambiato più cappelli in vita sua. Ostentano
sicurezza, ma tremano di paura, non sono pronti ad essere divorati
dalla stampa americana, i primi due concerti, nonostante fossero
sold-out, sono stati ampiamente criticati. Triti e ritriti. E, come al
solito, Gustav e Georg non li prendono minimamente in considerazione,
ma forse è un bene, visto ciò che le malelingue
hanno scritto sui gemelli. Sembra di essere tornati agli inizi e non
sai quanto vorrei averti qui- spiegò Natasha, sistemandosi i
capelli biondi scompigliati.
-Ho letto qualcosa in proposito, ma non c’è da
preoccuparsi. Ho sempre detto a David che era un po’ presto,
ma tutto ciò non può che fare bene alle nostre
scimmie. Quei quattro riescono sempre ad imporsi, in un modo o
nell’altro- la rassicurò Anya, mentre girava
rumorosamente la chiave nel portone.
-E tu che fai?- domandò Natasha, trattenendo uno sbadiglio.
-Sto tornando a casa adesso- rispose Anya, tenendo il telefono tra
l’orecchio e la spalla e forzando la porta con due mani.
Quell’appartamento andava sistemato, oltre al campanello
anche la porta iniziava a dare problemi.
-Quale casa?- chiese Nati.
-L’appartamento dei ragazzi. Fino ad oggi sono stata dai
tuoi, siccome casa tua è inutilizzabile: ti comunico che tuo
zio Franz ha deciso di ristrutturarti tutto, di dare il bianco e ha
piantato un caos da terza guerra mondiale-
Alla notizia, Natasha ringhiò e si massaggiò le
tempie con due dita, maledicendo mentalmente quell’impiccione
di suo zio Franz. C'era da aspettarselo.
-Ah, ho un’altra notizia da darti- proseguì Anya,
salendo sull’ascensore e premendo il tasto contraddistinto da
un luminoso tre. Si voltò verso la sua immagine riflessa
nello specchio e sorrise dell’espressione rilassata di quella
sua gemella di vetro –L’altro giorno, sfogliando un
quotidiano, ho trovato un annuncio. Sai
l’università in centro?-
-Sì- rispose Nati, guardando David, che si stava dirigendo
verso la porta del locale, spazientito.
-Ecco. C’è un corso di spagnolo, questa settimana
e la prossima e così, siccome non avevo nulla da fare, ho
dato l’adesione. Oggi c’è stata la prima
lezione e ho scoperto che l’insegnante è il tuo
vecchio professore, il signor Friedrich-
Natasha rise: si ricordava il signor Friedrich, un gran bel
rompiscatole, ma divertentissimo. Era il suo docente di inglese e se la
spassava a farle tradurre le vignette umoristiche di qualche giornale
di enigmistica.
Nati sentì un campanello risuonare metallico e
immaginò che la cugina fosse arrivata al piano
dell’appartamento. Stava già apprestandosi a
salutarla e lasciarla ai suoi affari, quando sentì qualcuno
toccarle delicatamente un braccio.
-E’ Anya?- chiese Georg, speranzoso.
-Sì. Anya, ci sei ancora? Ti passo Georg- rispose Nati,
passando il telefono al ragazzo.
-Nat, no!- tentò di fermarla la cugina, ma dovette simulare
quella preghiera in un colpo di tosse sentendo la voce del bassista
dall’altro capo della linea.
-Georg! Come stai?-
-Bene, qui va tutto a meraviglia, piuttosto tu, come stai senza di
noi?- chiese il ragazzo.
-Vuoi la verità? Una meraviglia!- rise Anya –Sto
proprio andando a prendere possesso del vostro appartamento, quindi ti
lascio. Ci sentiamo ok?-
-Ehi Anya…-
Troppo tardi, la ragazza aveva riattaccato. Georg si strinse nelle
spalle, avrebbe voluto avvertirla, ma lei non gliene aveva dato tempo;
porse il cellulare a Nati, che lo guardava in attesa.
-Mi sa che il tuo piano non ha funzionato, almeno, non nel mio caso-
constatò Georg, cacciandosi le mani in tasca.
Nati si girò un secondo verso Bill, appoggiato con i gomiti
al tavolo e la testa ciondoloni.
-Io non ci ho neanche provato, ma abbiamo ancora tempo, non vorrai mica
arrenderti?- sorrise rassicurante lei.
-No- risponse ragazzo.
-Vedrai che andrà bene, se ti piace così tanto
non può andare male- Natasha posò una mano sulla
spalla muscolosa del bassista.
-Può darsi, ma può darsi anche di no-
commentò lui, prima di raggiungere gli altri al tavolo nel
mentre in cui gli intervistatori entravano nel locale, trafelati e
dispiaciuti per l'increscioso ritardo.
Anya aprì la porta dell’appartamento e
lasciò cadere la borsa a terra, inorridita.
Quello era l’inferno.
-Oh mio Dio- riuscì a mormorare.
Raccapricciante. Non c’era un solo centimetro
dell’appartamento che non fosse stato devastato dalla festa
che i ragazzi avevano dato prima di partire. Bastava vedere una delle
chitarre galleggiare su un mare di schifezze e birra versata per
rendersi conto che quello era solo l’inizio di una nottata in
compagnia dello straccio.
*
Il fiume di gente in fila davanti al Roxy, famoso locale di Los
Angeles, emanava calore. Eppure, erano fin troppo civili, nessuno osava
toccare l’altro per paura di disturbarlo e
nell’attesa ci si conosceva e parlava.
L’eccitazione fuoriusciva dalle bocche insieme alle parole
fluide e allegre.
-Ma quanto ci vuole?-
Una fra le tante ragazzine presenti batteva più forte il
piede sull’asfalto con i suoi anfibi neri, spostando il
ciuffo castano chiaro dagli occhi, continuando ad alzarsi in punta di
piedi per vedere oltre la fila.
-Martha, hai finito di agitarti?- la riprese Mimi, cercando di
calmarla. La bionda accanto a loro rise.
-Tra poco entriamo- disse alla ragazza. E in quel mentre aprirono i
cancelli.
-Ho bisogno dell’acqua!- sbraitò Bill,
rivolgendosi a chiunque gli capitasse a tiro, dandosi dei piccoli
schiaffi alle guance per tenersi sveglio. L’adrenalina aveva
lasciato le sue vene, sentiva solo stanchezza. Era pesante, pesante,
girava tutto.
-Dov’è l’acqua per 'sta cazzo di
aspirina?- urlò ancora una volta e Gustav gli porse
finalmente un bicchiere, per nulla turbato dal suo tono di voce, che
non sentiva avendo le orecchie invase dalla musica ad alto volume. Bill
si cacciò la pasticca bianca in bocca e buttò
giù tutta d’un fiato l’acqua, chiuse gli
occhi e contò fino a cinque.
-E’ ora- li avvertì di nuovo Tobias. Nessuno gli
rispose, ma i ragazzi, ubbidienti, lo seguirono fuori dalla stanza in
cui l’aria viziata sapeva d’ansia.
L’odore di sudore e luci infuocate, di centinaia di persone,
capelli sciolti sulle spalle, stringhe slacciate, nasi
all’insù e mani in tasca, li raggiunse alle
narici. Odore di live.
Non c’era niente di meglio che sudare con le fan.
L’aria acre tingeva di soddisfazione il viso dei quattro
musicisti. Se le ragazze sudavano e li facevano sudare, allora lo show
era perfetto.
Ringraziando non si sa bene chi, nessuno di loro soffriva
d’asma, se no sarebbero morti nell’istante stesso
in cui misero piede sul palco. Quel palco.
In pasto alle fan, a due metri dai loro visi accaldati, a due metri
dalle loro mani, dalla loro consistenza; a due metri da un baratro
senza fondo da cui era bello sporgersi. Era bellissimo affacciarsi e
assaggiarne l’altezza e la caduta precipitosa, chiunque
poteva allungare un po’ di più il braccio e
afferrarli, chiunque poteva salire lì con loro con un balzo
e molti ci tentarono.
Le mani di Tom facevano piacevolmente male mentre accompagnava la voce
di suo fratello, strana nel suo accento duro mentre cantava in inglese.
Era un dolore meraviglioso, come i crampi del sesso.
Lui adorava quei crampi, alle gambe, alla schiena, allo stomaco, li
adorava.
Aveva caldo al collo, alla nuca su cui battevano le luci caldissime,
caldo ai piedi in quelle scarpe pesanti, ma così comode, in
fondo. Pure gli occhi gli stavano sfrigolando mentre li alzava sulla
folla, ardenti e curiosi, rapiti da un mare di colori indefinito.
Rosso, blu, verde. Biondo.
Quel biondo.
Che si allontanava facendosi largo gentilmente.
Fermatela!
Boccheggiò, ma non urlò quell'ordine.
Fece un cenno a Tobias e uno a Saki, la fermarono loro.
Un unico pensiero mentre le dita pizzicavano da sole le corde: aveva
vinto.
Si trattenne dal dare voce alla risata che sentiva montare dentro di
sé, che gli riecheggiava nelle orecchie e represse il
desiderio di correre dietro ai due bodyguard che portavano la ragazza
nel backstage, sorreggendola per non farla finire a terra e pestare
dalle altre ragazze. Tom non si rendeva conto di quello che stava
succedendo, però, diamine se si sentiva bene. La testa gli
pulsava e confondeva se stesso con migliaia di altri corpi, ma non
importava. La sua mente gli aveva dato l'immagine della ragazza
desiderata, che, anche in quel caos, era un faro luminoso.
Martha si spaventò, ma seguì i due uomini senza
fiatare. Solo, sua cugina si sarebbe arrabbiata. Pazienza, sono cose
che capitano.
Si sedette sull’anonimo divano dove era stata scaricata come
un sacco e aspettò di sapere perché si trovasse
lì. Le passarono davanti mille persone e non una che la
degnasse di uno sguardo, le rivolgesse la parola. Dopo tanto
andirivieni, stanca e scomoda, infischiandosene della buona creanza, si
levò le scarpe, le lanciò in un angolo e si
coricò sul divano; chiuse gli occhi e così la
trovò Tom, mezz’ora dopo.
Aveva corso per raggiungerla, rivederla. Aveva lasciato la chitarra in
mano ad uno stranito Georg che ancora imbracciava il basso e aveva
superato tutti sfiatandosi. Charlie. Gustò il nome in bocca
come una caramella, come avere le sua lingua in bocca, di cui
immaginava solo il gusto. Li rivoleva, i suoi occhi.
La smania si impossessò di lui, gli strinse lo stomaco,
aprì la porta del backstage piano, intimando a suo fratello
e agli altri che lo avevano raggiunto di tacere e di lasciarlo solo.
Ovviamente, i tre amici non lo stettero a sentire e cacciarono la testa
dentro alla stanza, curiosi.
-Che c’è, che c’è?-
continuava a chiedere Georg, che non riusciva a vedere nulla siccome
Bill gli stava davanti e gli precludeva la vista.
-Shhh- bisbigliò Tom, portando un dito alle labbra e
spingendo gli amici fuori.
Si avvicinò piano al divanetto dove intravedeva solo le
forme della ragazza, il suo corpo ritmato dal respiro profondo, i
capelli sciolti. Imprecò sotto voce battendo un piede a
terra e si morse la lingua quando Martha si rigirò sul
divano, per fortuna ancora addormentata. E questa chi era?
Si sedette cautamente davanti al divano, guardandola in viso. Non di
certo Charlie. Troppo piccola e troppo curata: aveva i capelli
perfettamente lisci e vestiti ordinati e puliti; le unghie erano rosa e
lucide. Continuava a dormire e respirare, respirava in silenzio.
Tom sorrise amaramente. Si prese la testa fra le mani e chiuse gli
occhi stanchi; rimase così, galleggiando nel silenzio che
sentiva dentro.
-Hei- lo riscosse la voce dolce della ragazza. Si era svegliata e ora
non capiva perché Tom Kaulitz stesse piangendo. O almeno,
così le sembrava.
No, non piangeva, ma sembrava davvero stanco. Gli fece allora posto
accanto a lei e il rasta si sedette, grato. Aveva visto una rosa e ora
la voleva.
-Hei- ripetè Martha –Senti una cosa,
perché sono qui?-
-Bè, perché io sono uno scemo- rispose lui, con
un inglese strascicato.
-Bella risposta, ma il perché vero?- insistette Martha,
guardando il profilo del ragazzo perso a rimirare il tavolino.
-Ti ho confuso con un’altra ragazza- ammise Tom.
-E questa ragazza chi è?-
-Non ha molta importanza. Forse ora devi andare-
Si girò verso la ragazzina e chinò la testa da un
lato.
-Oh sì, certo- esclamò lei, buttando i piedi
giù dal divano e alzandosi in fretta, sistemando i capelli
castani dietro le spalle –Comunque, io mi chiamo Martha. E'
stato proprio un bel concerto, siete stati bravissimi. Devo
assolutamente ringraziare mia cugina e Lotte per avermi portata-
Martha annuì, recuperò gli anfibi da dove li
aveva lanciati e li infilò senza allacciarli, correndo verso
la porta.
-Allora, ciao- esclamò, prima di aprirla.
-Ciao- rispose Tom, ancora immerso nei suoi pensieri.
Lotte.
Strabuzzò gli occhi, si alzò di colpo.
-Martha, aspetta!- urlò.
*
Mimi guardò la cugina arrivare trafelata e, quando le
raggiunse, le mollò un sonoro ceffone prima che Charlie
potesse fermarla. Martha non battè ciglio.
-Si può sapere che fine avevi fatto?- la sgridò
Mimi, furiosa.
La ragazzina si alzò in punta di piedi per darle un bacio
sulla guancia, indifferente al colpo ricevuto.
-Grazie per avermi portata la concerto Mimi. Ah, Lotte, questo
è per te-
Tese una mano smaltata di rosa alla bionda e le porse un biglietto.
-Che cos’è?- chiese lei, rigirandolo in mano e poi
spostando lo sguardo a Mimi, che aveva il volto contratto dal mal di
testa.
-Tom Kaulitz ha detto che i bodyguard mi hanno fermato per sbaglio e mi
ha chiesto con chi ero al concerto. Io gliel’ho detto e lui
ha sorriso, ha detto che allora non si era sbagliato e mi ha detto di
darti questo-
Charlie aprì veloce i biglietto con le dita scattanti,
mentre Mimi la guardava curiosa.
Tanto ti trovo, c’era scritto.
Buttò indietro la testa e rise fragorosamente.
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Capitolo 14 *** Stella del mattino ***
Mi perdonerete mai quest'assenza senza avviso? Due mesi senza di voi,
mie poche e spero fedeli lettrici. Ci siete ancora, da qualche parte in
questo universo chiamato Internet? Spero di sì, lo spero
tanto e spero che continuerete a leggere dopo questa vacanza troppo
lunga. Un bacio, Alice
14.
Stella del mattino*
Bill si stropicciò le mani in un gesto nervoso mentre i suoi
passi risuonavano attutiti dalla moquette bordeaux del corridoio.
Tossì una volta e andò avanti, deciso.
Salutò con un lieve cenno del capo Dunja che usciva da una
delle camere, non fece caso a quale e non fece caso a niente, lo
sguardo fisso alla sua meta.
Spalancò la porta aperta della suite del gemello ed
entrò senza tanti complimenti.
-Tom, devo parlarti- annunciò cupo.
Il rasta fissò il gemello, distogliendo lo sguardo dal
soffitto che si era perso a guardare coricato sul letto, in attesa di
prendere una decisione, la mano nella tasca dei jeans.
Ti devo parlare.
Realizzando ciò che il fratello aveva appena detto, Tom
chiamò in soccorso tutta la sua forza di volontà
per non tapparsi le orecchie e correre via urlando come un matto,
scappando a gambe levate da quella camera in cui, lo sapeva, si stava
per consumare una tragedia. Lo faceva presagire il tono di Bill.
Suo fratello, con le parole, era disarmante. Ti uccideva, con quella
lingua.
Poteva benissimo iniziare a parlarti della guerra che sconvolgeva
qualche parte lontana del mondo della quale era venuto a conoscenza
grazie a Gustav, della condizione umana, oppure di quanto aveva
stupidamente speso in abiti che non gli piacevano neanche, ma che aveva
comprato per impulso momentaneo o perché non andiamo al
cinema? dai, ci sono i pop corn, ho voglia di pop corn,
perché quelli del supermarket fanno schifo. Oppure di quella
remota volta, a quel concerto di secoli prima in cui aveva stonato, te
lo ricordi Tom? E che figura, vero che te lo ricordi? Sì,
Bill, sì sì sì.
Il vocalist ricambiò lo sguardo di suo fratello e si sedette
sul letto su cui l’altro era ancora sdraiato.
Curvò la schiena in avanti, poggiando il mento tra le mani
che in quei giorni tentava di non far screpolare dal freddo.
-Voglio dare una festa- disse il ragazzo, rivolto più alla
poltrona che gli stava davanti che a suo fratello.
-Una festa?- sorrise Tom, tirandosi su e sospirando di sollievo sapendo
che sarebbe stato quello l’argomento della loro conversazione
e non gli extraterresti o le giacche di Gucci.
Bill girò lo sguardo sul ragazzo accanto a lui. Che strano,
erano uguali. Identici.
Annuì senza ricambiare il sorriso sollevato di Tom.
-A casa, sì- gli rispose.
-Nell’appartamento di Amburgo? Ma è piccolo, non
potremmo aspettare di trovare quello nuovo? Oppure no, facciamola in un
locale, quando torniamo in Germania, secondo me il Felix andrebbe bene,
che ne dici?- iniziò a ipotizzare Tom, senza dar peso allo
sguardo del fratello che sembrava aspettare solo che si tappasse il
becco e smettesse di parlare a vanvera perché lui sapeva
già quello che voleva.
-No Tom, a casa- ripetè, cocciuto.
Il rasta lo guardò senza capire, con l’aria
confusa.
-A Loitsche?- domandò, scettico, perdendo tutto
l’entusiasmo.
-Sì, a casa Tom-
L’idea di un blog era venuta a Dujna.
Un’ottima trovata commerciale, l’aveva definita,
semplice, facilmente gestibile, non originalissima, ma i risultati
erano assicurati.
-Che cosa intendi per blog, precisamente?- aveva chiesto Bill
-Una pagina Web che potete aggiornare voi stessi raccontando le vostre
esperienze, dialogando anche con le fan- gli aveva spiegato la ragazza.
Bill era apparso entusiasta e aveva subito scritto un primo intervento
da inserire come pagina iniziale del blog, tradotto poi da Dujna e con
delle foto allegate. La pagina Internet era di un
bell’azzurro, molto algido, con uno spazio per i commenti dei
fan.
“Buongiorno a tutti!
Il mio nome è Bill Kaulitz e sono il cantante dei Tokio
Hotel, una rock band tedesca. Sono le 2.30 di giovedì
mattina; io e i membri della band (mio fratello gemello Tom, Gustav e
Georg) siamo appena tornati al nostro hotel a Berlino. Abbiamo avuto
una serata fantastica ad un'importante premiazione televisiva qui in
Germania. Abbiamo ricevuto il premio "Best Musica National" e abbiamo
fatto la nostra canzone "1000 Meere". E' stato magnifico! Oltre alla
nostra band, c'erano altri ospiti come Hilary Swan e Robert De Niro! E'
stata un'esperienza interessante incontrare questa gente di persona,
specialmente dopo aver visto così tanti loro film.
Adesso sono le 2.40 e farei meglio ad andare... ho ancora da preparare
le mie valigie per domani. Dobbiamo lasciare l'hotel alle 5.20 per
andare all'aeroporto di Berlino. La nostra destinazione è
Montreal, Canada, per suonare il nostro primo concerto nordamericano
sabato. E' piuttosto eccitante, ma spaventoso allo stesso tempo. Negli
ultimi due anni ci siamo esibiti molto in tutta Europa, ma ora siamo
pronti ad attraversare l'Atlantico e a fare del nostro meglio
laggiù. E' un sogno che diventa realtà per noi il
fatto che ci venga data un'opportunità del genere.
Restate in contatto - vi farò sapere com'è andato
il primo concerto. Oddio, mancano dieci minuti alle tre adesso... devo
andare!
Abbiate cura di voi e ciao.
Bill”
Non gli era stato possibile scrivere quello che voleva, aveva dovuto
rispettare le norme impostegli da Dujna: chiaro, sobrio e corto. Molto
sobrio e molto corto, soprattutto. Una tortura per uno che appena
iniziava a parlare finiva per raccontare anche tutta la sua vita.
Ma Bill si era sforzato di entrare nella parte e aveva scritto pensando
alle ragazze che avrebbero letto. Aveva pensato a quello che avrebbe
voluto scrivere in realtà, che era eccitato, ma anche tanto
spaventato, così almeno loro lo avrebbero consolato e tirato
su, dicendogli che loro erano i migliori dell’universo e cose
simili. Avrebbe voluto scrivere che era anche arrabbiato e deluso e si
sentiva sconfitto. Perché Anya non sarebbe andata con loro e
perché dopo il bacio lo aveva evitato.
Dopo quell’intervento, aveva scritto di rado, lasciando il
posto a suo fratello, che già se ne intendeva un
po’ di più di computer. Lui aveva avuto altro a
cui pensare: quel malessere che continuava ad identificare nello stress
ed era stressato davvero, lo sentiva in ogni osso del suo corpo. David,
lievemente preoccupato, aveva iniziato a dargli qualche aspirina di
tanto in tanto e a fargli portare qualcosa di caldo in camera ogni
sera. Bill odiava quelle dannate camomille indesiderate e servite da
sconosciuti e odiava quell’odiosissimo quotidiano americano
al mattino che gli ricordava quanto in realtà fosse strano
agli occhi della gente e quanto la sua musica facesse schifo.
L’ultimo concerto era stato un disastro.
“Bene, ora devo andare perché devo riordinare la
mia roba. Domani voleremo a L.A. Dovreste vedere la mia camera
–i miei vestiti sono ovunque, mi ci vorranno ore per
riordinarli.
Tom” aveva scritto il chitarrista, qualche giorno dopo.
Anya mancava a tutti. In un modo o nell’altro.
-Una festa- ripetè Tom. Bill annuì.
-A casa della mamma- aveva continuato il rasta e suo fratello aveva
annuito di nuovo –Perché?-
Bill scrollò le spalle.
-Bè, le solite feste possiamo farle dove vogliamo, ma io ho
bisogno di casa. Lo so che adesso comincerai a dire che sono il solito
rompicoglioni, ma voglio una festa come quando eravamo piccoli, quelle
dei compleanni in giardino, sulla casetta di legno. Tom, voglio
sentirmi di nuovo a casa, ne ho bisogno, ti prego. Mi sto perdendo-
Bill si prese la testa fra le mani, tentato di piangere di sconforto.
Voleva tornare piccolo. Lo desiderava tanto ed era troppo che non
vedeva Simone, che non scherzava con Gordon, che non faceva cazzate con
Andreas che quasi sentiva il cuore straziarsi dalla nostalgia.
-Va bene, va bene- acconsentì Tom, chinandosi a cercare lo
sguardo di suo fratello –Lo faremo Bill, ok?-
Il ragazzo annuì impercettibilmente.
-Chi invitiamo?- gli chiese Tom.
-I ragazzi e poi Andreas e i nostri vecchi amici, mamma ci deve essere
e poi io e te- elencò Bill, sorridendo al gemello.
-E Anya, immagino- aggiunse il rasta.
-Sì, anche Anya- confermò Bill.
Tom si alzò, infrangendo l’atmosfera di confidenza
e malinconia che quella conversazione gli aveva lasciato addosso e
allungò una mano verso suo fratello. Il ragazzo si
sollevò dal materasso e abbracciò
l’altro.
-Grazie Tom- gli sussurrò ad un orecchio. Il rasta strinse
forte le spalle esili di Bill e poi si sciolse dall’abbraccio.
-Adesso vai, che devo fare una telefonata-
Il vocalist sbadigliò.
-Va bene. E’ tardi, che ore sono?- chiese ancora.
-Quasi mezzanotte- controllò Tom sul quadrante
dell’orologio che aveva preso l’abitudine di
portare al polso. Lo faceva sentire più uomo.
*
Rispondi, pregò mentalmente. Era
già al quinto squillo.
-Dai- sbottò, nervoso
Finalmente la chiamata venne accettata dall’interlocutore
all’altro capo del telefono, ma nessuno rispose all’hallo
di Tom.
-Mimi!- chiamò il ragazzo, cercando di abbassare il tono di
voce per non svegliare tutto l’hotel.
La ragazza non rispose, Tom riusciva solo a sentire un rumore infernale
di folla, di urla, confusione, che gli rimbombavano prepotentemente
nell’orecchio, tanto che dovette allontanare un poco il
cellulare per paura di rimanere sordo di quel vociare e del rumore di
vetri rotti.
Un suono convulso gli giunse dall’altro capo della linea,
come se qualcuno stesse soffocando.
-Mimi?- chiamò ancora.
-Bitch!- imprecò una voce maschile e poi rise. Il telefono
cadde per terra.
Tom rimase immobile, i muscoli contratti, spaventato da ciò
che sentiva, ma troppo coinvolto per staccare il telefono. Si accorse
di star sudando.
-Hal…hallo?- la voce di Mimi tremava e sembrava
più terrorizzata di Tom, sovrastata dal fracasso indefinito
che riempiva i timpani del ragazzo e gli scavava il sistema nervoso.
-Mimi, sono Tom, ti-ti ricordi?- balbettò il ragazzo,
aggrappandosi con due mani al cellulare.
-Tom…- biascicò lei –Sì,
sì-
-Mimi?- chiamò, sentendo che la ragazza non respirava
più nella cornetta.
-Vieni a prenderci- pregò lei, dopo un silenzio che al rasta
parve interminabile.
-Dove? Dove sei? Lotte è con te?- urlò Tom, non
controllando più l’ansia.
-Vieni, ti prego- pianse Mimi. Tom udì di nuovo quel rumore
di vetro rotto e seppe che la ragazza era caduta da un tonfo sordo che
lo colpì come una pugnalata.
-Dove? Dove?- urlò ancora.
-Lost Heaven- biascicò la ragazza e poi interrupe la
comunicazione.
Paradiso perduto. No, assomigliava di più
ad un purgatorio di anime corrotte, vestite da spiriti indemoniati,
perduti in un limbo di rumore. Era un locale, Tom l’aveva
sentito nominare e proprio in quei giorni, sui quotidiani, era stato
pubblicato un articolo su quel covo di disperati.
Niente paura, niente-paura, si intimò il
ragazzo, infilandosi la felpa e dirigendosi verso camera di Gustav
quasi di corsa. Bussò forte tre volte e avrebbe continuato a
tempestare la porta di pugni se il biondino non fosse comparso sulla
soglia, in pigiama, ma sveglio.
-Che c’è?- borbottò, infastidito
–Ti pare questa l’ora di fare scherzi?-
-Vestiti che dobbiamo andare- rispose Tom, non facendo caso
all’irritazione dell’amico.
-Ma che diamine stai dicendo, è l’una di notte!-
esclamò Gustav, cercando di fermare il rasta, che
entrò nella stanza e si mise a cercare tra le valigie di
Gustav un paio di jeans da fargli indossare.
-Sbrigati, io intanto vado a chiamare Saki- gli ordinò Tom.
Il biondino lo guardò precipitarsi fuori dalla suite con la
stessa frenesia e la stessa agitazione con cui era entrato; si
sbrigò a togliere il pigiama e infilare una maglietta a
caso, per poi seguirlo fino alla camera del bodyguard.
-Tom, tu sei impazzito- continuava a ripetere sottovoce Saki, tirato
fuori a forza dal letto.
-Saki, dobbiamo andare- protestava Tom con i suoi toni soavi,
sottolineando con disperazione quel verbo dovere.
L’omone inforcò gli occhiali che teneva in tasca e
il rasta interpretò quel gesto come il più
desiderato dei sì. Saki sollevò le mani per
impedire a Tom di abbracciarlo e chiese con un’occhiata
eloquente almeno cinque minuti per infilarsi i vestiti e chiamare
qualcuno che li potesse scortare.
-Ma almeno sai dov’è questo posto?- chiese al
ragazzo.
-No, dobbiamo prendere un taxi-
-E taxi sia- acconsentì Saki, mettendo mano al cellulare in
tasca e premendo un paio di tasti -Su, andiamo- fece cenno a Tom e
Gustav che lo stavano guardando in attesa di ordini e i due si
diressero precipitosamente verso l’ascensore.
-Posso chiederti una cosa, Tom?- domandò Gustav, mentre le
porte dell’abitacolo si chiudevano davanti a loro
accompagnate dal suono del campanello.
Tom annuì, premendo il tasto del pianoterra.
-A cosa ti servirei io?- il biondino si indicò portando
l’indice al petto e sollevando un sopracciglio con fare
dubbioso.
-Tu? Bè, tu non sei un metallaro?- indagò Tom,
pur conoscendo già la risposta.
-Bè, sì- ammise Gustav –ma cosa
c’entra?-
-C’entra. Stiamo andando ad una festa del genere-
spiegò il rasta.
-E perché?-
-Perché là c’è Charlie-
Le mani di Tom sudavano quando scese nella hall e aspettarono insieme
il taxi, sudarono all’idea che se David avesse scoperto
qualcosa sarebbero finiti nei guai e, nonostante continuasse ad
asciugarle nel tessuto interno della tasca gigantesca dei suoi jeans,
sudarono anche durante tutto il tragitto, nel quale le strade
illuminate e trafficate che tanto lo avevano affascinato
all’inizio gli passarono accanto senza catturare neanche un
briciolo della sua attenzione. Continuava a guardare Gustav e i suoi
piedi e poi ancora Gustav e il conducente, che si desse una mossa, per
la miseria.
Il taxi curvò di colpo in una strada diversa dalle altre,
nel centro scuro della città e frenò in un vicolo
di insegne al neon flebili e senza lampioni. Solo la luce che proveniva
dagli edifici illuminavano la strada.
-Here- indicò loro il conducente, permettendo loro di
scendere.
L’attenzione della stampa era stata probabilmente attratta
non dal posto, che di notevole non aveva nulla, anzi, era alquanto
anonimo, ma dalle persone, se si potevano definire così.
Tom indietreggiò, andando a sbattere contro
l’automobile gialla.
All’entrata, segnalata da una luce al neon blu, del Lost
Heaven, ciò che non potevano lasciare indifferenti erano
quei volti. Bianchi, pitturati da ali nere, che disegnavano la loro
pelle diafana e scarna di giochi scuri e neri tracciati e sbavati,
sfumati dalla stessa mano. Alcuni di quei ragazzi si girarono verso
Saki, Gustav e Tom, concentrando la loro attenzione soprattutto
sull’ultimo. Per la prima volta nella sua vita, Tom maledisse
i suoi capelli e i suoi vestiti. Sentiva gli occhi infuocati di quei
tizi bruciargli la pelle, seguirlo minacciosi.
Impallidì notando le loro borchie e i loro anfibi.
-Saki- chiamò Tom, tirando una manica della giacca del
bodyguard.
-Tom, ma dove cazzo ci hai portati?- domandò
l’uomo.
-Entriamo dal retro- supllicò il rasta.
-Questo è il retro, pensavo dovessimo andare ad una qualche
festa dove potevano riconoscervi e allora ho chiesto di portarci
direttamente all’entrata secondaria- spiegò lui.
-Can I go away?- domandò il tassista, uscendo dalla vettura.
Era già stato pagato, ma vedendo l’incertezza dei
suoi clienti si era fermato ad aspettare che decidessero se restare o
scappare.
-No, please, stay here and wait us- rispose Tom, ingarbugliando le
parole. L’uomo annuì e si riaccomodò in
macchina, per nulla turbato.
-Che facciamo?- chiese Gustav all’amico.
Tom chiuse gli occhi e respirò, buttando fuori
l’aria dalla bocca.
-Entriamo-
Gustav lo trattenne per la maglietta, facendolo voltare verso di lui.
-Guarda che questi, Saki o non Saki, ci pestano- lo avvertì.
-Non m’importa- Tom si liberò della presa
dell’amico –Entriamo- ripetè e deciso,
si cacciò le mani in tasca e avanzò verso
l’entrata del locale, cercando di non pensare alla poltiglia
d’ossa che sarebbe diventato di lì a poco. Saki lo
precedette, allontanando con lo sguardo le persone
all’entrata che aspettavano di entrare o rimenevano
lì a bere, già mezze ubriache. Prese per un
braccio Tom e per l’altro Gustav ed insieme entrarono. Ci
misero qualche minuto per abituarsi al buio e a rendersi conto che si
trovavano di fronte ad un corridoio stretto e lungo, che dava su stanze
diverse e affollate di gente. Passare per quel lungo cunicolo sembrava
impossibile. All'estremità lontana, potevano vedere solo la
flebile luce di un neon blu, come una cometa da seguire e raggiungere.
Sentirono il loro primo passo avanti pesante come se nelle scarpe
avessero pietre, ma ciò che li ostacolava non era la
pesantezza dei piedi, ma quella della paura. Altre maschere nere si
ergevano ai loro lati, ma queste meno minacciose, più umane.
A Tom sembrò che fossero i loro occhi a farlo sentire
prigioniero e incapace di proseguire, trattenuto da mani invisibili che
lo strattonavano per la giacca e lo alzavano da terra per schiantarlo
con forza al suolo.
Una bottiglia volò sopra le loro teste, ma il tipo a cui era
stata lanciata era già troppo ubriaco per riuscire ad
afferrarla e quella precipitò e si ruppe in mille pezzi ai
suoi piedi. Ci rise su, una risata da ubriaco accompagnata da un sonoro
rutto, fin troppo consono a quel porcile. Il rumore del vetro rotto
scosse Tom dal silenzio che lo aveva avvolto fino a quel momento e i
rumori del Lost Heaven entrarono tutti contemporaneamente e con
prepotenza nelle sue orecchie, stordendolo. C’era musica
molto alta, ma non era il volume a fare pressione sui suoi timpani,
bensì il lamento continuo di una chitarra elettrica che
scuoteva le fondamenta dell’edificio e faceva traballare i
muri.
Avanzarono a fatica e più volte Saki dovette cacciare a
manate tizi ubriachi o rissosi che si avvicinavano e bloccavano loro il
passo. Tom si riparava la testa con le mani, sentendosi affogare in un
mare non suo, ma determinato a raggiungere la luce blu. Cercava con gli
occhi Mimi, ma non l’aveva mai vista ed era come cercare uno
spirito. L’entrata della sala in fondo al corridoio era
occupata da un divano messo di traverso che dovettero scavalcare,
aiutandosi a vicenda e lasciandosi alle spalle l’odore di
alcool e sudore che impregnava il corridoio.
Il neon blu era sospeso su un tavolo basso di legno consumato, lungo e
robusto che sembrava occupare con la sua superficie titanica tutta la
stanza, illuminata in aggiunta al blu artificiale da una sola piccola
finestra. La luce della luna invernale entrava dal vetro aperto e
irradiava d’argento i suoi capelli. Tom, spinto da un tizio
robusto, andò a cozzare contro il tavolo, sbattendo il
fianco dolorosamente e sbiancando di colpo per il dolore.
Cercò di non sputare il sangue che sentiva in bocca a forza
di mordersi le labbra.
Con il sapore metallico che gli gonfiava la lingua, alzò gli
occhi, reggendosi al tavolo.
La luna illuminava anche la schiena nuda della ragazza, fluida di raggi
argentati su cui i capelli biondi cadevano sciolti e ribelli. Tante
mani li continuavano ad accarezzare e scostare dal suo collo per
morderlo, azzannarlo, leccarlo. In piedi sul tavolo, Charlie aveva gli
occhi scuri persi nella luce dell’astro del cielo, le mani in
alto in un gesto di donazione completa a quei corpi che opprimevano il
suo celato appena dallo straccio di una maglietta strappata che le
copriva ormai solo i fianchi. Inclinava la testa seguendo il ritmo dei
baci sulla sua pelle, sul suo seno e tra le sue gambe, in uno stato di
incoscienza completa. Non sapeva cosa aveva preso quella sera, ma era
stato sufficiente a farla sentire libera come tutte le altre volte.
Quegli uomini che la lambivano con assuefazione non avevano un volto,
né un nome, lo facevano e basta, l’avevano sempre
fatto. Il corpo di donnola della ragazza scivolava da una mano
all’altra fino a quando, per puro caso, non
incontrò gli occhi di Tom, lacrimanti per il dolore al
fianco. Ne lesse la sorpresa, l’imbarazzo,
l’impotenza di fronte a quel mondo in cui era capitato per
sbaglio. L’aveva trovata, non era scemo come lei pensava.
Sorrise sensualmente.
Allargò le braccia per allontanare i corpi che si muovevano
intorno a lei con gesto imperioso, da regina quale era e quale Tom
l’aveva riconosciuta dal primo istante. Quelli si
allontanarono mansueti come ombre e lei camminò sul tavolo,
picchiando il legno con i tacchi alti. Arrivò al bordo e
fece per scendere, barcollando. Tom l’afferrò
prima che cadesse a terra.
La ragazza si aggrappò al collo del rasta, mentre le gambe
le cedevano e lui la sorreggeva con tutte le sue forze, cercando di
allontanarsi dal tavolo, allontanarsi dal quel posto e andarsene via,
salvarla.
Charlie combatteva con i conati di vomito e il sudore freddo,
stringendosi a Tom. Trovò abbastanza forza per guardarlo
negli occhi, sentendo il suo seno nudo a contatto con la felpa del
ragazzo e rabbrividendo dal freddo.
-Sei venuto qui per leccarmela anche tu?- gli chiese, sensuale e
minacciosa, prima di cadere ancora.
-No- mormorò Tom al suo orecchio, accarezzandole dolcemente
i capelli rassicurandola. Si tolse la maglia e gliela fece indossare a
fatica e poi la prese in braccio. Una scarpa cadde dal piede di
Charlie, ma nessuno dei due ci fece caso. Il ragazzo la strinse a
sé e si diresse verso Saki e Gustav, alle prese con un
gruppo di tizi che li minacciavano con le loro borchie e le loro bocche
sporche d'alcool. Il batterista strabuzzò gli occhi davanti
alla figura della ragazza in braccio a Tom, prese l’amico per
una manica e incitati da Saki, imboccarono di nuovo il corridoio per il
ritorno, scappando dalla ressa.
Questa volta lo superarono senza difficoltà, le persone si
scostavano vedendo la nota chioma bionda di Charlie ondeggiare tra le
braccia di quel ragazzo che, secondo loro, era venuto lì
solo per cercare rogna.
Quando arrivarono a due metri dall’uscita, la ragazza
sembrò riprendere i sensi sentendo l’aria pungente
e fresca della notte entrare dall’ingresso e alzò
il viso dalla spalla di Tom. Fissò le iridi nocciola del
ragazzo e si sentì al sicuro.
-Tom, sei venuto a prendermi- sussurrò, roteando gli occhi.
Il ragazzo le sorrise, rassicurando lei e se stesso e
mormorò un sì incomprensibile, che la ragazza
lesse sulle sue labbra tremanti. Charlie fece per ripiombare nel suo
sonno ammalato, ma il ricordo di Mimi le attraversò la mente.
-Dobbiamo, dobbiamo… prendere Mimi- riuscì a
biascicare, ad occhi chiusi e con la bile in bocca.
-Cosa?- cercò di scuoterla Tom.
-Ha detto che dobbiamo prendere Mimi, mi sembra-
rispose per lei Gustav.
Tom si voltò con ansia verso il corridoio che avevano appena
superato, accarezzando ancora la testa bionda di Charlie.
Inspirò per farsi coraggio.
-Aspetta, vado io- lo fermò Gustav.
-Non puoi da solo- cercò di fermarlo l’amico, ma
il batterista stava già tornando indietro, mescolandosi tra
la folla. Urlò un paio di volte il nome della ragazza,
cercando di non farsi prendere dal panico. Non sapeva chi era, non
sapeva com’era, non aveva mai sentito neanche la sua voce.
-Mimi!- urlò, con le mani a conchiglia davanti alla bocca.
Il suo richiamo venne risucchiato dalla musica assordante. Gustav si
guardò intorno, svoltò in una stanza che si
affacciava sul corridoio, buia come le altre e chiamò ancora
la ragazza.
-Scusa, conosci una certa Mimi?- chiese in inglese ad un tizio,
prendendolo per la maglietta. Quello rise e gli indicò i
divani tarmati in fondo alla sala. Gustav corse lì. Una
ragazza mora e robusta stava vomitando l’anima vicino ad uno
dei divani e, spossata, perse l’equilibrio, scivolando su un
lago di birra versato sul pavimento. Il batterista la raggiunse e le
sorresse la fronte mentre questa respirava profondamente, aspettando un
altro conato, che però non venne.
-Sei Mimi?- le chiese il biondino. Questa barcollò, annuendo
e tenendosi il ventre con le mani.
-Vieni, ti porto fuori di qui, ce la fai a camminare?-
La ragazza annuì ancora e alla luce dell’unica
fonte di chiarore della sala Gustav vide che aveva un occhio nero e un
taglio al labbro. La prese per mano e le passò un braccio
intorno alle spalle, portandola via da quell’inferno.
L’aria fredda della notte fece indurire i capezzoli della
ragazza attraverso la maglia leggera e Gustav la guidò fino
alla macchina dove, con l’aiuto di Saki, riuscirono a farla
salire. L’autista chiuse con un colpo secco gli sportelli del
taxi e salì a sua volta; accese il motore e
partì, sgommando nella notte.
*Il titolo originale è Morgenstern,
la canzone dei Rammstein che accompagna la seconda parte di questo
capitolo.
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Capitolo 15 *** Mein Herz Brennt ***
Arina,
eccomi qui il prima possibile per continuare questo super film
drammatico *w* Spero che ti piacerà!
Gufo, benvenuta
a bordo, la nave si è svuotata quindi di posto ce
n'è! Poche, ma fedeli, godetevi il cap. 15 **
Un ringraziamento speciale va alla mia Lalù. Bè,
il perchè io e lei lo sappiamo fin troppo bene, riesce a
tirare fuori il meglio di me quando scrivo e se ho bisogno di aiuto,
non me lo nega mai. Credetemi, il merito va il più delle
volte a lei e non a me. Se provi a negare, Ale, vengo a Roma a
picchiarti u___u
Detto ciò, ecco the chapter.
15.
Mein Herz Brennt*
La paura aveva ricoperto la pelle del corpo agitato di Tom di una
sottile pellicola di sudore ghiacciato, che scivolava fastidiosamente
lungo la schiena senza lasciargli pace e non poteva liberarsene, il
peso del corpo di Charlie su di lui gli impediva qualsiasi movimento.
Non voleva svegliarla, né agitarla.
La suggestione che l’incubo del Lost Heaven gli aveva
lasciato addosso via via svanì quando il taxi
imboccò le vie accecanti di Los Angeles, diretto
all’hotel; il conducente aveva al suo fianco una sperduta, ma
cosciente Mimi, che si era accomodata sul sedile anteriore, soffrendo
il mal d’auto. Le luci dei locali, dei lampioni, delle
insegne illuminarono il volto della ragazza, che non risultò
così tumefatto come Gustav aveva immaginato nel buio della
sala da dove l’aveva salvata. Aveva lo zigomo un
po’ gonfio e il labbro spaccato, ma ad aver scurito
l’occhio non era stato un livido, ma le lacrime nere che
probabilmente la ragazza aveva versato. Charlie era abbandonata tra le
braccia di Tom, mentre lui rimaneva immobile, senza sapere cosa fare o,
peggio, cosa avrebbe fatto da lì in avanti. Il peso delle
sue azioni avventate era arrivato ad incombergli sulla testa appena la
confusione e la paura lo avevano abbandonato, mostrandogli con occhi
nuovi la verità di quella notte. Era stato un pazzo
incosciente, aveva perso quel poco di ragione che credeva di possedere,
quella che gli serviva per decidere il volume della chitarra ad un
soundcheck e quella che gli suggeriva di usare il preservativo ogni
volta che scopava con quella di turno. Era stato stregato,
schiaffeggiato dalla suggestione, i diavoli che avevano popolato quel
posto sperduto, che in realtà si trovava solo un
po’ fuori dal centro, erano ragazzi comuni, eccentrici per
lui, resi forse violenti da droga e alcool, ma non decisi ad ucciderlo,
come aveva temuto fino a quando non era salito in macchina con Charlie,
svenuta tra le sue gambe divaricate e la testa appoggiata al finestrino
freddo. Si passò piano una mano sugli occhi, schiacciato dal
silenzio del conducente, di Saki, di Gustav, preso ad osservare Mimi
con apprensione, mentre la ragazza non degnava nessuno di alcun tipo di
attenzione, continuando a toccarsi il labbo con mani tremanti. Voleva
spiegazioni, ma non sapeva né come, né a chi
chiederle, era solo grata per esserne uscita viva da
quell’incontro furioso e patetico di cui era stata vittima.
Scacciò il pensiero con una scossa del capo.
Saki, il più discretamente possibile, approfittò
di quegli attimi di monacale silenzio per chiamare David, che fu
buttato giù dal suo letto con la notizia stupefacente che
Tom Kaulitz ne aveva combinata una delle sue. Non ascoltò
nessuna spiegazione, interruppe la chiamata, si vestì in
fretta e svegliò Georg e Bill e tutti quelli che si alzarono
di conseguenza al suo sbraitare infernale contro quel teppista
scellerato, che poi è tuo fratello Bill, ne sei cosciente,
sei cosciente di avere un fratello completamente matto? Ah, ma questa
volta non se la caverà, no, parola di David Jost. Bill
sbadigliò vistosamente e si vestì, per nulla
preoccupato: se con suo fratello c’era Gustav, allora niente
poteva andare male. Sicuramente, le cose non stavano come David
sosteneva e se c’era qualcuno che poteva capirlo era lui, che
con quel suo gemello aveva vissuto diciannove anni e ne avrebbe vissuti
tanti altri. Le cazzate di Tom consistevano nell’ubriacarsi
con alcolici nauseanti alle feste e portarsi in camera tre o quattro
ragazze compiacenti, un tempo nel tracannare birra con Andreas e
sbirciare sotto alle gonne di qualche compagna. Decidere di ammazzarsi
andando in un locale del genere non rientrava nella lista.
Il taxista accostò davanti all’entrata
dell’hotel da cui era andato a prelevare i due amici e Saki
un’ora prima, parcheggiò e, seppur contro le
proteste gentili del bodyguard, si rifiutò di andarsene
senza prima averli aiutati. Aprì lo sportello a Tom, che
scese ringraziandolo, ma non gli permise di toccare Charlie, che prese
di nuovo in braccio. Saki sorresse Mimi, a cui girava la testa e il
tassista precedette quel corteo fino alla porta dell’hotel,
che David arrivò a spalancare, sorpassando
l’usciere, infuriato. Ma dovette inghiottire gli improperi
che fino a quel momento aveva mormorato a denti stretti alla vista del
labbro sanguinante di Mimi, che Gustav accompagnò subito
alla reception per farsi dare del ghiaccio, di Tom che sorreggeva
Charlie e varcava la soglia, apparentemente come uno sposo che conduce
in casa la sposa, ma Charlie era livida e aveva i vestiti sbrindellati
e neri, Tom l’aria di chi era appena scappato ad un
terremoto. Il ragazzo la distese su uno dei divanetti della hall sotto
lo sguardo stupito di tutti gli inservienti dell’hotel, degli
amici, di Dunja e Natasha, alle quali lasciò la ragazza, e
anche quello di se stesso.
-Ma cosa è successo?- domandò Bill, cercando di
tenere ferma la voce, quando il fratello lo ebbe raggiunto, parandosi
davanti a David. Tom non gli rispose.
-Mi dispiace David- disse invece, guardando l’uomo con
l’aria di uno a cui, in realtà, non dispiaceva per
nulla. Quello che aveva fatto, l’aveva fatto non per
disubbire al manager. Si sentì più grande e
maturo dei suoi anni, gonfiò il petto e affilò lo
sguardo, sentendosi fiero, per una volta. Quanti, lo consideravano uno
stupido ragazzino. Aveva dimostrato che avevano torto, almeno in parte.
David lo squadrò ancora arrabbiato e gli mollò
uno spintone stizzoso, prima di mutare espressione del volto, attirarlo
a sé e abbracciarlo, sentendosi piccolo in confronto alla
statura gigantesca del chitarrista. Tom accettò quel gesto,
che sembrava tanto quello di un padre, senza disdegnare
l’affetto del manager come disdegnava in genere ogni prova di
debolezza sentimentale, anche quelle dategli da suo fratello.
I camerieri e gli inservienti, che fino a quel momento erano rimasti
immobili a scrutare ciò che avveniva, non capendo una sola
parola di quegli ospiti tedeschi, ripresero i loro affari.
L’usciere chiuse la porta dietro al taxista, che Saki aveva
pagato e ringraziato, l’uomo alla reception si mise comodo in
attesa di disposizioni.
-E adesso, come facciamo?- chiese Dunja, dal divano su cui era seduta.
Georg si riscosse dai suoi pensieri, accorgendosi di aver fissato fino
a quel momento solo Bill, che guardava fuori dall’entrata con
preoccupazione, in cerca di qualche pericolo, Bill che continuava a
spostare gli occhi dalla cielo scuro a Charlie e la studiava, incredulo
e poi notava Gustav e Mimi ritornare dall’infermeria, il
ragazzo che tamponava delicatamente il labbro di lei con un plico di
gel ghiacciato.
-David, dobbiamo sistemarle, in qualche modo- disse Georg, rivolto al
manager, che annuì.
-Ci penso subito- rispose al bassista, lasciando Tom e dirigendosi
verso la reception.
Il rasta guardò suo fratello vicino a lui e Bill gli rivolse
uno sguardo interrogativo con gli occhi assonnati e struccati.
-Chi sono, Tom?- gli domandò, cercando di simulare il suo
nervosismo che, lo sapeva bene, Tom non aveva potuto ignorare.
-Charlie e Mimi- gli rispose lui –Siamo andate a prenderle ad
una festa in un locale-
-Ma come fai a conoscerle?- indagò l’altro.
-Ho conosciuto Charlie quel giorno in cui Anya è tornata
dopo dalla lavanderia- Bill annuì, ricordando lo spintone di
Georg che l’aveva mandato a cozzare contro lo stesso tavolo
della reception davanti a loro –Ma in verità, non
la conosco per niente. Non la conosco perché non sapevo che
fosse… così-
-E adesso?- domandò Bill. Sapeva che suo fratello aveva una
risposta pronta, l’aveva da quando era scappato con Saki e
Gustav per andare al Lost Heaven. Altrimenti non ci sarebbe andato.
-Adesso mi prenderò cura di lei-
Bill annuì e prese un respiro profondo.
-Ti rendi conto di quello che hai e stai rischiando, Tom Kaulitz?- la
voce era seria e il suo nome pronunciato per intero era una sorta di
avvertimento. Il rasta assentì, tranquillo.
-Lo sai, ma non ci pensi minimamente, vero?-
-Esatto- confermò Tom –Non mi interessa-
-Poniamo un’ipotesi- Bill cercò di ragionare e far
ragionare il gemello –Cosa penseresti se mi vedessi su un
giornale con una ragazza drogata, con le gambe livide e i vestiti
strappati in braccio?-
Tom scrollò le spalle.
-Non è un problema tuo Bill, perché tu non ci sei
su quel giornale e non ci sarò nemmeno io-
-Questo non lo puoi sapere. Giornalisti, paparazzi, fan, sono sempre in
agguato, pronti a distruggerci e non mi sembra che fino ad adesso sia
andata così bene, no? Vuoi che ti citi un paio di articoli
usciti in questi giorni anche sul New York Times?-
Bill sembrava nervoso, sveglissimo ora. Preoccupato per suo fratello.
-Piantala con la paternale- ribattè Tom.
-Fa come ti pare- sbuffò Bill, scocciato dalla testardaggine
dell’altro. Testardo, come lui.
-E’ quello che sto facendo e almeno io faccio qualcosa. Tu
pensi solo a quello che potrebbero dire di te, per tanti anni
l’hai fatto- lo provocò Tom, alludendo
all'argomento più delicato che sapeva avrebbe turbato
l'altro, ma Bill non potè ribattere, perchè David
stava tornando verso di loro con in mano un tesserino.
-Dovremo arrangiarci, perché hanno una sola camera libera ed
è una singola- spiegò ai ragazzi.
-Io non ho sonno, Mimi può dormire da me e Charlie possiamo
portarla nella singola- propose Gustav.
-No- cercò di protestare la ragazza vicino a lui, ma nessuno
di quegli estranei le diede tempo di ribattere.
-Gustav, tu starai da me- disse Tom, all’amico, sorridendogli
grato. Questo annuì.
-Va bene, allora andate in camera, tutti quanti- ordinò
David –Domani, tanto per cambiare, la sveglia è
alle sette-
-A che piano è la stanza di Charlie?- chiese Tom, allungando
una mano verso il produttore per farsi consegnare il tesserino, mentre
già suo fratello e gli altri si stavano dirigendo verso gli
ascensori, trascinando i piedi.
-Oh no, caro, levati dalla testa quello che hai in mente- lo
rimproverò David, intuendo le sue intenzioni e bloccandolo
prima che potesse ribattere –A lei ci penseranno Dunja e Nat-
-No- si rifiutò Tom, avvicinandosi al corpo della ragazza
disteso sul divano.
-Sì, invece- insistette David.
Il rasta scosse la testa e si parò davanti a Charlie,
risoluto. David sbuffò: stava per perdere la pazienza e
già l’aveva persa una volta, volevano mica vederlo
di nuovo furioso? Quelle due incoscienti erano già di per
sé un problema senza che il rasta si ostinasse a fare il
bambino.
-Vai Tom, ti porto da lei dopo- gli sussurrò senza farsi
notare Dunja e allora, solo allora il ragazzo, con le mani in tasca, si
avviò verso le scale e iniziò a salirle a due a
due, contrariato. David ringraziò il cielo e fece segno a
Saki di aiutare Natasha a sollevare Charlie, che mugugnò
quando l’omone la tirò su senza
difficoltà.
Attesero che si liberasse un ascensore e poi salirono al quarto piano,
cercando la camera segnata sul tesserino plastificato. Non era grande
né tanto meno lussuosa come quelle al piano di sopra dei
ragazzi, ma aveva un bella vista sul centro della città.
Dunja tirò le pesanti tende bordeaux per impedire alle luci
della notte di entrare attraverso il vetro chiaro. Congedò
sia Saki che Natasha, a cui chiese di andare a vedere come stesse Mimi,
anche se era sicura che Gustav si stesse occupando di lei e
andò in bagno a cercare qualcosa che potesse assomigliare ad
una bacinella. Riempì il catino, che trovò sotto
il lavandino, di acqua calda e prese una spugna dal cestino degli
omaggi dell’hotel, tornando poi vicino al letto su cui Saki
aveva adagiato la sfortunata ragazza. Nessuno ci aveva fatto molto
caso, tutti impegnati a compatire il suo viso sofferente nel sonno e il
pallore delle sue guance, ma Charlie aveva le gambe graffiate e livide.
Dunja immerse la spugna nell’acqua calda e scoprì
le cosce della ragazza fino alla vita, prendendo a strizzare e lavare
la pelle, recandole un po’ di sollievo. Poi le
levò la maglia di Tom e la sollevò un poco per
poterle lavare il collo sporco e appiccicaticcio di quella saliva
impregnata di birra che l’aveva percorso, il viso con il
trucco sbavato e il rossetto sul mento; le tolse i capelli biondi dagli
occhi e corse di sopra nella sua camera, sacrificando un po’
della sua biancheria e un pigiama per la ragazza, che le fece indossare
con qualche difficoltà.
-Hei- le mormorò, appena vide che cominciava a svegliarsi.
Charlie scrutò il viso sconosciuto della donna e chiuse di
nuovo gli occhi, accecata dalla luce che proveniva dal comodino.
-Io sono Dunja, un’amica di Tom. Non devi avere paura- disse
lei, con lo stesso tono pacato di prima.
-Chi ti dice che io ne abbia?- rispose la ragazza, stropicciandosi gli
occhi. Guardò le vesti pulite che aveva addosso e la maglia
oversize che Dunja le aveva di nuovo posato sulle spalle. Se la strinse
addosso.
-Sei.. sei stata tu?- le chiese, continuando a guardarsi intorno.
-Sì- annuì l’altra.
-Mi hai portata qui?-
-No, è stato Tom, io ti ho lavato e cambiato, spero di non
sembrarti maleducata, ma avevi del sangue rappreso sulle gambe e il
viso sporco di trucco-
-No, no, anzi, grazie- le sorrise Charlie –Ma cosa
è successo? No, so cosa è successo, lo so
benissimo, ma solo fino ad un certo punto-
Dunja scrollò le spalle.
-Io non lo so, è stato Tom a venire a prenderti e ci ha
fatto preoccupare, David ci ha svegliati tutti. Poi ti ha portata qui,
devi chiedere a lui il resto, magari domani a colazione. Ora dormi un
po’- le consigliò.
Charlie annuì debolmente, rintanandosi sotto le coperte e
Dunja spense la luce, lasciando la camera e salendo al piano superiore,
dove nel corridoio incontrò Natasha, che stava uscendo dalla
stanza di Gustav.
-Sta bene?- si domandarono insieme e insieme assentirono.
-Gustav è ancora con Mimi, lei gli stava parlando di
qualcosa. E’ un po’ scossa- spiegò Nati,
avviandosi verso le loro stanze, ma, accorgendosi che l’altra
non la seguiva, si voltò.
-Ti raggiungo dopo, devo andare a cercare Tom- si giustificò
Dunja, affrettando il passo e svoltando il corridoio per raggiungere la
suite del chitarrista. Per la fretta, andò a sbattere
proprio contro di lui, che misurava con passi nervosi il tragitto fino
al muro e poi di nuovo lì, alla sua camera, in attesa,
rischiando più volte di svegliare gli altri e soprattutto
David.
Dunja cavò dalla tasca il tesserino per la camera e glielo
sventolò davanti al naso.
-Sta dormendo, fai piano- fu l’unico avvertimento che
riuscì a dare a Tom, prima che questo la ringraziasse con un
bacio frettoloso su una guancia e scappasse a premere il tasto di
chiamata dell’ascensore. Quell’abitacolo di metallo
stretto e chiuso, ogni volta che doveva salirci sopra, lo
destabilizzava completamente, impossessandosi di ogni suo pensiero.
Sarebbe rimasto soffocato lì dentro, schiacciato dalle
pareti, prigioniero della sua stessa immagine spaventata che si
rifletteva nello specchio davanti a lui. Questa volta chiuse
semplicemente gli occhi e aspettò che la voce metallica
annunciasse il piano e le porte si aprissero, senza aver sofferto
neanche un istante di inspiegabile terrore.
-Trecentotre… trecentotre- mormorava, cercando la camera e
trovandola in fondo al corridoio. Infilò il tesserino nel
lettore magnetico e aprì silenziosamente la porta, per poi
chiuderla dietro di sé con attenzione. Se lei dormiva non
voleva svegliarla e se dormiva, voleva dire che stava meglio e non
c’era bisogno di chiederglielo, si sarebbe risparmiato una
discussione imbarazzante. Si avvicinò al bordo del letto,
accendendo l’abat-jour e posandovi sopra il suo capello, per
smorzare la luce aranciata e calda che emanava.
Il suo stomaco iniziò a far male e a risvegliarsi: era
davanti a lui, indifesa e placida nel sonno e sotto alle sue palpebre
non c’era alcun movimento repentino e canzonatorio, come
ricordava nei suoi occhi nocciola mentre si gustava la vista della
casa-garage seduta sul suo inguine. In quel momento, avrebbe tanto
voluto non averla mai vista in quel locale per quello che era, avrebbe
voluto preservare il ricordo di quella ragazza ribelle e bionda che si
spogliava senza pudore e lo prendeva in giro. Allungò una
mano callosa verso il suo collo gentile, disgustato dal pensiero che,
fino a poche ore fa, quella stessa pelle era stata disprezzata e in un
certo senso profanata da bocche che non erano la sua,
l’avevano leccata senza alcuno scopo se non quello di
eccitarsi, luridi bastardi. Accarezzò quel collo che lui e
solo lui voleva e pretendeva di avere. Indugiò un attimo
sulle sue spalle: il suo desiderio era toccarla e toccarla ancora,
ovunque, ma se l’avesse fatto, approfittando del fatto che
fosse addormentata e ancora stordita, sarebbe sceso al livello di
quegli altri, quei lupi affamati che con lui non avevano nulla a che
fare. Era un maledetto stronzo, questo sì, ed era anche un
porco, ma non a quei livelli, non lo sarebbe mai stato con lei come con
nessun'altra, mai. Nessuno poteva meritarselo; se non amore, almeno
piacere reciproco e rispetto. Sentì le viscere contorcersi e
ribellarsi alle sue riflessioni puritane e si fece una doccia gelata
mentalmente, prima di ritirare l’indice in discesa sulla
pelle di Charlie. Sbuffò contro la sua pancia, deciso a
metterla a tacere, per una santissima volta. Non poteva sempre averla
vinta lei, lei e il suo complice lì sotto.
La ragazza si mosse nel sonno, rigirandosi e lui si sedette al suo
fianco, sul letto, distendendo le gambe e passandole un braccio dietro
alle spalle, avvicinandosi cercando di non svegliarla, ma fu inutile,
perché il sonno fragile di Charlie si spezzò e la
ragazza aprì gli occhi, spostando un ciuffo biondo dal viso.
-Ciao- mugugnò, sollevando la schiena per consentire a Tom
di sistemare il braccio sotto di lei e poi adagiandosi con la testa
sull’incavo del suo gomito.
-Ciao- rispose Tom –Mi dispiace di averti svegliata-
-Non fa nulla- scosse la testa Charlie. Il rasta non trovò
niente da dire, così tacque, fissandosi la punta lontana
delle scarpe. Ora che ci pensava, avrebbe dovuto toglierle.
-Ti ho disgustato, non è così?- lo
interrogò la ragazza, interpretando a suo modo il silenzio
imbarazzato del chitarrista.
Tom si voltò verso di lei e scosse la testa.
-No- mormorò.
-E allora ti ho fatto pena- incalzò ancora Charlie, ma la
risposta del rasta fu la medesima.
-Perché sei venuto a prenderci?-
-Perché, al contrario di te, io ci tengo-
-A cosa?- lo interrogò lei, non capendo cosa intendesse dire.
-Tengo a te-
Charlie scoppiò a ridere, ma la risata sfumò in
un accesso ti tosse, perdendo tutto il suo fascino.
-Come fai a tenere a me, lo sai solo tu-
-Già- annuì Tom –e immagino sarebbe
inutile tentare di spiegartelo-
-Esatto- rise ancora Charlie –L’idea mi sa molto di
assurdo-
-Ti disprezzi fino a questo punto?- chiese Tom, cercando il suo sguardo.
-Forse- fu la risposta evasiva della ragazza.
-Io no e anche questo credo di saperlo solo io-
-Senti un po’- vambiò discorso lei - Spiegami una
cosa: che te ne frega di me in questo momento, adesso che non posso
soddisfare le tue voglie, visto che sono leggermente invalida?
Risparmia i convenevoli quando sarò in grado di scoparti-
Tom ammutolì.
-Che…?- fece per chiedere, ma capì
l’allusione di Charlie: se aveva scoperto chi erano i Tokio
Hotel doveva anche aver scoperto chi fosse lui, cosa dicessero di lui e
quali voci lui si rifiutava di negare, divertito. Gli vennero in mente
alcune battute, alcune sul fatto di scoparsi da solo, visto quanto era
sexy, e rise.
-Tom Kaulitz non ama - oh, non pretende amore - e non è
amato, non lo permette a nessuno perchè ha paura. Cerca la
via più comoda e se ne infischia, nessuna lo
cercherà più, è sempre in giro per il
mondo e fa in modo di allontanarle tutte una volta ottenuto quello che
vuole. Se lo ottiene, ovvio!- rise Charlie, ricordando un qualche
articolo che le era capitato di leggere.
-Quante cose si apprendono sul proprio conto dai giornali! Dovrei
leggerli più spesso- rise a sua volta lui.
-Non è così?- fece finta di stupirsi Charlie,
sollevandosi e guardandolo.
Tom le prese una mano e, tirandola per il braccio,
l’avvicinò fino a far scontrare i loro petti.
-Mi fai talmente compassione che vorrei essere capace di amarti un
pochino io- mormorò Charlie, tra le labbra del ragazzo.
-La cosa è reciproca e chissà che un giorno non
ci riesca- le soffiò sul collo Tom, facendola di nuovo
sdraiare accanto a sé e spegnendo l’abat-jour.
*omonima song dei Rammstein
Sono graditi i commenti XD
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Capitolo 16 *** Hola chica de la noche ***
16.
Hola chica de la noche
Mi raccontò anche di Tom, un suo amico che portava
sempre con sé un blocchetto su cui tracciare delle righe
verticali, una per ogni donna che aveva
“posseduto”. E i nomi dov’erano? Questo
gran cavalcatore aveva dimenticato di prenderne nota; non le
“possedeva neanche nel ricordo. Nella sua estenuante carriera
di seduttore di una notte, Tom aveva imparato meno di coloro che hanno
amato una sola donna, ma l’hanno
“conosciuta” in tutti i sensi.
Afrodita – Isabel Allende
Parole calde le uscivano dalla bocca sorridente, mentre sottobraccio
scortava un signore anziano, suo nonno probabilmente, ad un tavolino
del bar. Gli ombrelloni verdi dell’entrata, quelli che i
gestori aprivano d’estate per fare ombra ai clienti seduti
sotto il sole di Berlino, erano chiusi e impolverati, là
fuori nella primavera incalzante. I due erano arrivati con la
metropolitana, li aveva visti subito, appena avevano fatto capolino
dalla scala che conduceva alla tana di quell’utile mostro di
metallo che si muoveva rapido proprio sotto la città, ed ora
la ragazza stava facendo accomodare il signore, scostandogli la sedia e
chiamando un cameriere con il braccio. Questo sorrise al vecchio,
probabilmente era cliente abituale, si vedevano tutti i giorni;
infatti, l’uomo diede un buffetto sulla guancia al ragazzo,
che tornò in cucina con l’ordine di portare al
signor Friedrich “il solito” e una lattina di acqua
tonica alla signorina, che, tuttavia, non si sedette al tavolino, ma
rimase in piedi. Invano l’anziano signore tentò di
persuaderla a sedersi, ma lei continuava a rifiutarsi, dicendo che era
in ritardo. Per cosa? insisteva quello. Estoy en retraso.
(spagnolo, sono in ritardo)
E mentre scuoteva la testa per rifiutare l’invito a sedersi
del signor Friedrich, faceva ondeggiare sulla schiena la treccia ramata
lunga quasi fino alla vita. Era una strana treccia, fatta di
tante treccine intrecciate tra di loro. Appena Rodrigo
rifletté su ciò che aveva appena pensato, rise.
Aveva creato una specie di scioglilingua sulla capigliatura di quella
ragazza che parlava la sua stessa lingua con un accento caldo e ridente
come pochi aveva sentito, anche se non propriamente dolce: nella sua
pronuncia rimaneva l’abbaiare del tedesco celato, ma non
invisibile ad uno spagnolo.
Si alzò, dopo essersi lisciato il pizzetto scuro sul mento e
si diresse verso di lei, disinvolto.
-¿Habla usted español?- (spagnolo, parla
spagnolo?)
Anya si voltò di scatto sentendo il fiato di colui che aveva
appena parlato sul collo. Studiò per un attimo quella figura
alta e abbronzata, sorridente e affascinante, forse per
l’accenno di barba sulle guance, forse per il sorriso bianco
che faceva capolino dalle labbra sensuali dell’uomo che le
stava davanti. Era alto, ma non eccessivamente e aveva un aspetto
piuttosto sano, allegro. Non indossava né abiti sformati,
né jeans aderenti, né capellini con la visiera,
ma dei pantaloni comodi e una camicia stirata, a differenza di tutte le
maglie che lei lavava e che nel giro di una giornata finivano
spiegazzate in una valigia qualunque. Anche il signor Friedrich si
voltò a guardare l’uomo che importunava la sua
alunna, ma non proferì parola.
-Poco, soy alemana- (spagnolo, poco, sono tedesca) gli rispose Anya,
scostandosi un poco.
-¿Puedo ofrecerle un café?- (spagnolo, posso
offrirle un caffè?) le chiese l’uomo, sorridendo e
facendo cenno al tavolino lì vicino, dove fino a pochi
minuti prima sedeva. Lo sguardo di Anya andò a cercare
curioso e attento quello di lui, per cercare qualche cattiva intenzione
in una delle pagliuzze dorate delle iridi castane, ma sembrò
non trovarne affatto e decise che si poteva fidare. Una sola mossa
falsa di quello spagnolo e avrebbe rialzato le difese.
-¡Pero si es casi ora de comer!- (spagnolo, però
è quasi ora di pranzo!) sorrise a sua volta, protestando.
L’uomo guardò l’orologio che teneva al
polso e alzò gli occhi al cielo.
-Bueno, entonces le ofrezco de comer, si usted quiere- (spagnolo, bene,
allora, se preferisce, le offrirò da mangiare)
cambiò idea.
-Un cafè seria perfecto, gracias- (spagnolo, un
caffè sarà perfetto, grazie) si tirò
indietro Anya, sottolineando con le labbra la parola
“perfecto”.
Rodrigo si fece da parte per lasciarla passare, allargando le braccia
in un gesto elegante e stendendo le labbra in un sorriso aperto. Anya
si chinò verso il signor Friedrich, che aveva ascoltato
compiaciuto il discorso fra i due giovani, non degnando neanche di uno
sguardo il suo pranzo caldo sulla tavola.
-¿Bueno, entonces nos vemos mañana, no?-
(spagnolo, bene, ci vediamo domani mattina, no?) gli
sussurrò la ragazza, chinandosi a prendere la borsa sulla
sedia vicina. Il professore le allungò una carezza sulla
testa, scacciando con la mano una mosca che gli ronzava attorno,
attratta dall’odore di menta e tabacco dei suoi vestiti.
-Claro, querida, no te preocupes- (spagnolo, certo, cara, non ti
preoccupare) assentì, voltandosi verso il piatto davanti a
sé e facendo un cenno al ragazzo, che si scostò
di nuovo per far passare Anya e la sua treccia, che la ragazza
spostò su una spalla prima di accomodarsi al tavolino,
trovandosi di fronte il Kosmos. Proprio lì, davanti a lei,
grigio e anonimo, senza di loro. Il signor Friedrich era abituato a
pranzare al bar di quel cinema storico da anni: ci andava da piccolo,
conoscendo il proprietario, ci aveva portato qualche fidanzata, sua
moglie, ci era tornato per un po’ di compagnia quando questa
era morta e non aveva mai più smesso di farlo, neanche
quando aveva iniziato ad avere qualche problema a muoversi
tranquillamente per la città facendo affidamento solo nella
metropolitana; Anya si era offerta di accompagnarlo e ogni giorno aveva
dialogato con lo sguardo con il Kosmos, senza di loro sopra il tetto, a
suonare. Non ricordava di chi era stata l’idea di girare il
video di Der Letzte Tag sopra
quell’edificio, sapeva solo che per il giorno stabilito le
previsioni annunciavano pioggia, anche se la stagione non
l’avrebbe mai fatto pensare e l’agitazione era
talmente palpabile e tagliente che si era trovata a gridare ordini ai
quattro ragazzi perché si preparassero, il sole sta uscendo
e David vi vuole lì fuori, vado a chiamare Natasha per il
trucco e speriamo che quelle ragazzine lì sotto facciano
abbastanza rumore, devono sembrare vere fan. C’era gente
persino sui balconi a guardare cosa ci facessero quattro pazzi sopra al
Kosmos a fare finta di suonare, presissimi da una melodia che si
sentiva come un sottofondo nel traffico lontano e impegnati a sudare
sotto il sole sperato con gli strumenti al collo. Era il video
preferito di Anya, forse perché l’aveva seguito
interamente insieme ai tecnici, forse perché poi David
l’aveva ringraziata per il suo intervento da generale, forse
perché l’unica canzone che avesse ascoltato con
piacere le prime volte che aveva lavorato con loro era stata quella,
quando ancora la voce di Bill non era ben definita e la versione della
musica era molto più infantile, forse perché
l’ultimo giorno di cui lui cantava la faceva pensare. In
effetti, stare con lui ti faceva pensare, sempre e troppo. Rimanendo da
sola, nell’appartamento vuoto dei ragazzi, Anya si era
sentita sollevata dal peso di quei pensieri, li aveva rinchiusi in un
cassetto e li aveva lasciati lì a marcire, preoccupandosi
solo del minimo indispensabile per sopravvivere; aveva creduto di aver
tante cose da recuperare, da riprendere dalla sua vecchia vita, una
volta trovatasi sola, ma alla fine, del suo passato, aveva trovato solo
le ceneri e tutto ciò che la faceva andare avanti era il
pensiero che avrebbe ripreso a lavare calzini, fossero quelli di Bill,
capriccioso, lui e quel suo bacio nello stanzino, a cui si era promessa
di non dare alcuna importanza, accorgendosi di non riuscirci una volta
avuta l’occasione di rifletterci su senza lui intorno.
Stronzo e capriccioso; non era lui quello che l’aveva sempre
tratta con un misto di disprezzo e superbia, quello che le passava
davanti con una ragazza dai capelli castani o gli occhi verdi al
braccio per farle vedere quanto loro fossero giuste, non lei, che
doveva solo servirlo e non gli andava giù, no, che lei lo
trattasse come se fosse ancora un sedicenne, ma quella era la loro
lotta. Sì, era stato lui. Poteva capire Georg e il fatto
che, per affetto, l’avesse confusa per qualcosa di
più che “l’amica”, ma a lui
poteva permetterlo, lui era stato sempre così con lei,
così gentile e disponibile ad ascoltarla, come quella volta
in cui si erano ritrovati a parlare del passato e con lui, solo con lui
era riuscita a confidarsi. Gli altri erano bambini, Bill lo era e lei
lo sapeva.
Si accorse di essersi incantata davanti all’immagine
dell’entrata del Kosmos solo quando vide la mano di Rodrigo
sventolarle insistentemente davanti agli occhi con lo stesso fare
scherzoso dipinto sul suo volto, facendole fare un salto sulla sedia.
-Perdoneme- (spagnolo, perdonami) mormorò, imbarazzata,
scuotendo la testa con fare distratto.
-No, scusami tu, è che, sentendoti parlare, mi hai ricordato
casa e non ho resistito- le sorrise lui, bloccandole il braccio che lei
aveva fatto saettare verso la borsa con la sua mano.
-Ma allora sai il tedesco!- si sorprese lei e la sua espressione
accusatoria lo fece sorridere.
-Certo-
-Bravo, grazie a te ho fatto la mia figura quotidiana e per di
più davanti al mio professore!-
-Ma cosa dici, lo parli molto bene- si difese lui, alzando le mani
davanti a sé.
-No, non è vero- rise Anya –Ti dispiace se ti do
del tu?-
-Tanto ormai è fatta. Io sono Rodrigo- le porse la mano lui,
la stessa che fino a quel momento era rimasta sul braccio della ragazza
e che lei strinse calorosamente.
-Anya- si presentò –E, se mi è
concesso, cosa ci fai a Berlino?-
-Sono qui per lavoro, sono un manager- spiegò Rodrigo.
-Ah- annuì la ragazza –Lavoriamo nello stesso
ambiente-
-Davvero?-
-Bè, sì, ma non proprio- notando la faccia
stupita dell’uomo, Anya ci tenne a precisare
all’istante, ma la sua risposta vaga non chiarì le
idee allo spagnolo, che le fece cenno di andare avanti.
-E’ una storia lunga-
-Abbiamo tutto il tempo, nell’attesa del caffè,
poi, se non vuoi raccontarmela, è un altro conto-
-No!- scosse la testa Anya –Mi farebbe piacere, ma credo sia
meglio saltare i particolari!-
Sono figlia di un’alcolizzata uscita di senno e ora
ricoverata in una clinica qualsiasi, se vuoi saperlo, non ricordo quale
sia e non mi interessa, sono anni che non vado a trovarla e non ho
intenzione di farlo ora. Mi sto ingarbugliando, comunque, ho studiato
lingue cinque anni e poi, quando ne ho compiuti diciannove, mia cugina
è stata assunta come truccatrice di una band emergente,
spero che tu li conosca così mi risparmio tante spiegazioni,
i Tokio Hotel. Io ho deciso di seguirla: sono andata dal manager della
band e mi sono fatta assumere. Adesso arriva la parte divertente: io
sono la loro tata. Sì, hai capito bene, la loro tata! Lavo
la loro roba, rimetto in ordine le loro camere e in pratica mi occupo
di ogni loro capriccio, che, devo dire, sono pochi, almeno questo.
Quindi, calcolando, sono tre anni o poco più che viaggio con
loro.
-Ho buttato via cinque anni di studio delle lingue e ora lavoro come
“lavanderina” per i Tokio Hotel- spiegò
Anya, dopo aver pensato alla maniera più semplice per
spiegare una situazione particolare come la sua. Rodrigo la
fissò incredulo per qualche secondo prima di scoppiare a
ridere, mettendola in imbarazzo.
-So che è divertente detto così, ma viverlo, te
lo assicuro, non è propriamente la stessa cosa-
sbuffò la ragazza.
-Oddio, non ci posso credere!- continuò a ridere Rodrigo,
fino a quando un’occhiata gelida di Anya non lo
riportò alla realtà –Ok, ok, scusami.
Ma spiegami una cosa: non avresti potuto essere la loro traduttrice
visto che conosci tante lingue?-
Anya aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito. Il
perché non lo sapeva neanche lei, in fondo, David le aveva
sempre detto che, visto la cattiva luce in cui era caduta Natasha
stando sempre sotto ai riflettori, aveva voluto esonerarla da quel
compito per non farle accadere la stessa cosa. Ma lei non
l’avrebbe permesso, non era come la cugina; se fosse
accaduto, avrebbe saputo infischiarsene di ciò che i
giornali, le fan dicevano? Il mondo dei Tokio Hotel ruotava intorno a
loro ed un errore sarebbe stato per sempre, ma l’irritazione
per essere solo un’inserviente, cos’era
altrimenti? a volte la lasciava senza fiato a rigirarsi nel
letto. Darsi dei validi motivi non serviva e allora l’idea di
essere una serva, non un’amica, non una persona di aiuto, non
qualcuno che importasse davvero, le risvegliava la stizza nel petto.
-Evidentemente no- rispose, dopo averci pensato –ma non fa
niente. E tu invece?-
-Bè, sono il manager di una cantante spagnola, dubito che tu
possa conoscerla e in questo periodo sto cercando di farla emergere
anche in Europa, per questo sono qui- spiegò Rodrigo,
scostandosi mentre un cameriere posava sul tavolino due cartoni fumanti
di caffè allungato ed il conto.
Anya spostò la manica della giacca dal polso, interrogando
l’orologio, che le urlò il suo ritardo.
-Accidenti- imprecò sottovoce.
-Tutto ok?-
-Sì, sono solo in ritardo- esclamò Anya,
alzandosi dalla sedia con il caffè in mano e prendendo il
conto, ma Rodrigo la fermò.
-Lascia ci penso io – e, allungando una mano nella tasca
della giacca, le porse il suo biglietto da visita –Nel caso
dovessi aver bisogno di un posto da traduttrice, non si sa mai, potrei
aiutarti-
Anya prese il cartoncino, sorridendo e dopo averlo posato in borsa si
mise alla ricerca di una penna, che trovò in una delle
tasche interne, in mezzo a delle mentine ed il trucco; prese uno dei
fazzolettini di carta dal contenitore sul tavolino e scrisse il suo
numero.
-E questo è il mio numero, nel caso ci incontrassimo in
qualche parte del mondo- rise, porgendogli il fazzoletto
–Buona fortuna-
-Anche a te- annuì Rodrigo, guardandola allontanarsi dopo
aver fatto cenno al signor Friedrich un’altra volta
–Ah, se mi è permesso saperlo- le urlò
poi, facendola voltare.
-Sì?- lo incoraggiò Anya.
-Dov’è che vai tanto di fretta?-
-A prepararmi, domani vado a Loitsche-
*
-E’ spaventoso come tutto precipiti così in fretta-
-Ne sono successe di cose spaventose quest’anno
[…] Ti fa pensare che ciascuno di noi potrebbe andarsene in
un momento per la più piccola sciocchezza-
Dawson's Ceek
Mamma, ho fame!
E la mamma apriva il frigorifero e tirava fuori la colazione, tutto
quello che volevi per colazione, ma Bill doveva sempre prendere le cose
più buone, angelico e assonnato, con le gambe a penzoloni
dalla sedia.
Mamma, ne voglio ancora!
E ce n’era sempre ancora.
La lingua che sentiva provenire a volume basso dalla televisione
davanti al letto non era la sua, non quella che parlava tutti i giorni,
né sua era la stanza che, aperto un occhio ed uno solo,
intravide tra le ciglia. Sì, mi alzo mamma,
ma, come capitava spesso, non si sarebbe veramente svegliato se non un
quarto d’ora dopo, con molta calma; quando ricordò
di non essere a casa, ma in un albergo in America, perché
era inglese la lingua che sentiva, Tom si accorse che
un’altra cosa non era come avrebbe dovuto essere: il suo
bacino pesava. Aprì di scatto gli occhi e
sobbalzò nel letto, aprendo la bocca per emettere un urlo,
ma riuscendo a fermarsi appena in tempo davanti alla faccia sorridente
di Charlie, che saltava allegramente sul suo stomaco con una matita
nera in mano. Una matita da trucco.
-Io ho fame- gli disse, tranquilla.
-Non farlo mai più, mi hai spaventato! Ti stai abituando
troppo a questa posizione e i miei poveri gioielli ne risentono sai?-
esclamò Tom, cercando di scostarla senza farla cadere, ma
Charlie puntò i piedi sul materasso, costringendolo a
desistere.
-Hai capito che ho fame?- gli chiese ancora, testarda, ma Tom non la
sentì, preso a fissare la matita che la ragazza si rigirava
tra le dita.
-Cosa stavi facendo con quel coso?-
domandò, non sicuro di voler ricevere una risposta.
-L’ho trovata nel cestino degli omaggi dell’hotel,
volevo vedere se truccato assomigliavi un po’ di
più a tuo fratello- spiegò Charlie.
-Tu cosa?- urlò Tom, facendo forza sulle braccia per alzarsi
e correre in bagno, ma riuscendo solo a mettersi seduto sul letto, dove
continuò a toccarsi il viso, guardando Charlie terrorizzato.
-Cosa mi hai fatto?-
-Io ho fame- fu l’unica risposta di Charlie, che si
avvinghiò con i piedi al busto di Tom per sistemarsi meglio.
-Se mi facessi alzare e levare questa roba dalla faccia!-
-Se ti lascio, giura che non mi fai niente-
-Cosa? Ma che dici?- strabuzzò gli occhi Tom davanti
all’espressione preoccupata della ragazza.
-Hai la faccia di uno che ha voglia di vendicarsi- gli
assicurò Charlie, scoppiando a ridere.
-Prima o poi lo farò, per ora accontentati del fatto che ti
darò della stronza per tutta la vita- rispose Tom, non
cercando più di alzarsi, bloccato dal sangue che iniziava a
scorrere più veloce, ora che era sveglio e conscio di
ciò che stava accadendo in quel momento; la pressione delle
mani sulle cosce della ragazza aumentò involontariamente e
lo sguardo di Tom vagò disperato, cercando di non posarsi
sulle sue curve morbide, ma Charlie non poteva non accorgersene e
sorriderne.
-Allora va bene- replicò, scavalcandolo inaspettatamente e
dirigendosi verso la sedia su cui Dujna le aveva lasciato un paio di
jeans e un dolcevita. Quella scena le ricordava qualcosa di
già vissuto, un divertente deja-vu che
aveva a che fare con due bottiglie di birra e una tuta grigia e
l’espressione di Tom abbandonato sul letto non
potè che confermarglielo. Forse, si era dimenticato del
trucco con cui gli aveva impiastricciato tutta la faccia.
-Sai, il trucco prima o poi si deve togliere, perché ti
rovina la pelle e poi ti vengono le rughe- gli consigliò da
sopra la spalla, trattenendo le risate.
-Porca puttana!- esclamò Tom, buttando i piedi
giù dal letto e inciampando nella corsa verso il bagno,
verso i lavandino, che aprì al massimo, schizzando acqua da
tutte le parti.
Come diavolo ci si strucca? si urlò
mentalmente, maledicendosi per non aver mai fatto caso a quando Bill si
spogliava del suo amato nero.
-Ok- si incoraggiò il rasta, prendendo un po’ di
sapone liquido dal contenitore e buttando la faccia sotto il getto
d’acqua. Quando si guardò allo specchio, fece un
salto all’indietro: era Bill, Bill lo stava guardando dallo
specchio, con il trucco colato sulle guance e l’espressione
femminile; gli venne quasi da piangere e ridere insieme, ma si
trattenne dal fare entrambi, gettandosi sulla carta igienica a lato del
lavandino, srotolandola e sfregandosela sulla pelle fino a farla
diventare rossa.
Per il nervoso, fu tentato di rompere il vetro a pugni, ma la figura
bionda di Charlie che lo sbirciava dalla porta lo fece girare di
scatto: scuoteva la testa, con le braccia incrociate al petto e il sole
chiaro dietro alla schiena.
-Siediti- gli intimò piano, avanzando verso di lui, mentre
Tom lasciava cadere nel lavabo la carta igienica zuppa e si sistemava,
camminando all’indietro per non perderla di vista, sul bordo
della vasca da bagno, reggendosi con le mani al marmo freddo.
Charlie tirò fuori dal mobiletto dello specchio il kit di
pronto soccorso di cui gli hotel munivano tutte le camere e
aprì la confezione del cotone, prendendone qualche
batuffolo, che bagnò appena con un po’ di acuqa e
sapone.
-Chiudi gli occhi- ordinò di nuovo pacatamente al rasta e
lui obbedì, deglutendo un paio di volte come a rimprovero
della salivazione scarsa e del brivido che gli percorse il collo teso
in avanti mentre il cotone, piano piano, lo lavava del trucco colato.
-Brucia- protestò, sentendo gli occhi lacrimare e pizzicare.
-Lo so- replicò la ragazza, prendendo altro cotone e
bagnandolo d’acqua tiepida, per poi inginocchiarsi ai piedi
del ragazzo e continuare a sciacquarlo, soffiando delicatamente per
alleviare il bruciore che, per esperienza, sentiva fastidioso anche tra
le sue ciglia.
-Meglio?- chiese, dando al ragazzo un colpetto sul ginocchio per
invitarlo ad aprire gli occhi.
Tom si strofinò le palpebre e poi posò lo sguardo
sull’espressione rilassata di Charlie vicino alla sua gamba
destra, seduta per terra con una posa da sirena poco aggraziata ed il
viso a sfiorare i suoi jeans.
Prima che potesse muoversi, balzare via ridendo e lasciarlo
lì come un idiota, Tom si chinò di scatto verso
il suo viso, facendola sobbalzare e baciandole uno zigomo e poi
l’orecchio e poi la fronte, cercando di reggersi ancora alla
vasca per non caderle addosso. Una mano di Charlie si staccò
dal pavimento per colpirlo, allontanarlo, spingerlo via, ma la mano
reagì diversamente, ad un tratto debole e costretta a
lasciarsi cadere su un fianco, anzi no, prenderlo per il ginocchio e
farlo cadere vicino a sé, per ritrovarsi a contatto con le
sue labbra carnose bagnate dell’acqua colata dal cotone e
finita ad inumidire il cerchio di metallo al labbro inferiore, che
scontrava con quello della ragazza gonfio di morsi precedentemente
afflitti mentre si tratteneva dal baciarlo quando ancora giaceva
addormentato sul letto. Tom sbattè il gomito contro la
struttura della vasca con un rumore sordo che fece aprire gli occhi a
Charlie, ma lui strizzò solo una volta le palpebre per il
dolore e poi tornò a leccare l’interno della bocca
della ragazza, dipingendolo sapientemente di saliva, mentre lo stomaco
gli si rigirava al tocco della mano di lei che gli tracciava non
curante le vene del braccio.
Inevitabilmente, separandosi, le loro labbra schioccarono con il
profumo del sapone alle mandorle che le aveva accompagnate nei morsi e
nelle succhiate avide.
-Io ho fame, voglio la colazione- mormorò Charlie, dopo aver
ripreso fiato.
-In bagno?- sorrise Tom.
-No, scendiamo-
Il ristorante
dell’hotel era semideserto e vi aleggiava
un’atmosfera piuttosto sonnolenta, anche i camerieri che
apparecchiavano il tavolo dei dolci e della frutta in fondo alla sala
sembravano muoversi al rallentatore.
Gustav era seduto al loro
solito posto, vicino alla finestra che dava sul giardino interno
dell’hotel e al suo fianco c’era Mimi. Aveva il
viso fresco e i capelli lavati e pettinati; ora sembrava graziosa,
rivestita a nuovo e rilassata.
I due ragazzi stavano parlando tranquillamente tra loro, mentre il
biondino imburrava dei toast per poi adagiarli nel piatto di lei. Non
si accorsero di Tom e Charlie se non quando i due furono abbastanza
vicini per udire le loro parole e allora tacquero, come imbarazzati.
-Buongiorno- salutò Tom, accomodandosi –Tutto
bene?-
-Sì- rispose Gustav, guardando Charlie prendere posto
accanto a Mimi, che non si voltò.
-E tu, Mimi?- le chiese l’amica –Come stai?-
-Sta bene- rispose per lei il batterista, notando
l’ostinazione della ragazza a tacere.
-Che c’è? Lei non sa più parlare?- lo
aggredì, scontrosa, Charlie, voltandosi verso di lui.
La complicità fra i due e l’apparente
ostilità di Mimi la misero in allerta, il presentimento che
si fermò all’altezza della gola insieme alla
saliva d’un tratto amara non era dei migliori.
Tom le posò una mano sulla spalla, sentendo il nervosismo
della ragazza scorrere come una scossa elettrica dal tessuto del
dolcevita fino alla sua carne.
Georg stava entrando in quel momento nella sala, sbadigliando; aveva
voglia di qualcosa di caldo perché il grigiore del mattino
di Los Angels gli metteva il gelo nelle ossa. Poi, quando il giorno
avanzava, iniziava a fare più caldo sotto il sole di inizio
primavera.
Natasha lo fermò a metà strada, come sbucata dal
nulla; in realtà, Georg era solo troppo assonnato per
accorgersi di lei prima.
-Ti devo parlare- esordì la ragazza, prendendolo per un
braccio e allontanandolo dalla vista dei suoi amici seduti a colazione.
-Dimmi-
-Mi devi un favore- Natasha lo guardò quasi furente,
sembrava sconvolta, frenetica.
-Per Anya, sì, lo so- annuì Georg, leggermente
infastidito. Ricordargli quell’episodio da cui non aveva
ricavato niente e chiamarlo propriamente “favore”
non gli sembrava giusto, ma lui era un tipo corretto, avrebbe aiutato
Natasha, per quanto poteva fare.
-La festa a Loitsche- gli fece presente la ragazza; Georg
annuì –Non sono stata invitata-
Il ragazzo ammutolì, prima di protestare, cauto.
-E’ una festa di Bill, privata, non posso fare inviti per lui-
-Però Anya è stata invitata- ruggì
Natasha, facendolo sobbalzare.
-Te l’ho già detto, la festa non è mica
mia!- ribattè il ragazzo, convinto. Nat si
quietò, prendendo un respiro profondo; quella notizia,
saputa per caso, l’aveva sconvolta, interdetta. Lei non era
stata invitata dal cantante, Anya sì. Anya sì e
questo non lo poteva sopportare.
-Portami con te Georg, ti prego- gli chiese poi, abbassando il tono di
voce –me lo devi-
Il ragazzo distolse un attimo gli occhi da quelli di lei imploranti,
posandoli sul tavolo dove sedevano i suoi amici. Charlie si era appena
alzata di colpo, facendo cadere la sedia a terra con un colpo secco.
-Te ne vai in Germania!- urlò all’amica con quanto
fiato aveva in gola, in tono accusatorio. Tutti i presenti si voltarono
verso di lei, disturbati da quel caos.
-Calmati, è una decisione che abbiamo preso insieme- si
alzò a sua volta Gustav, frapponendosi fra lei e Mimi, ma
quest’ultima lo scostò per guardare in faccia
l’amica.
-Non posso fare altrimenti, non dopo quello che è successo.
Non ce la faccio più a vivere così e adesso
ancora di più, ho bisogno di aiuto- cercò di
spiegare all’altra.
-Io non sono abbastanza per te? Ce la possiamo fare Mimi,
lavorerò il doppio, solo per te- Charlie prese per le spalle
l’amica, dialogando con lei in inglese e tenendo gli altri
distanti solo con la forza del suo sguardo.
-No, non possiamo andare avanti così. Anche tu non puoi,
guarda dove viviamo, come viviamo. Ti prego…-
-Non mi puoi chiedere di venire con te- scosse la testa Charlie,
interpretando lo sguardo chiaro dell’altra e allontanandosi
con fare tradito. Mimi chinò la testa e non
ribattè.
-Lei no, ma io sì- intervenne a quel punto Tom, alzandosi
anche lui e prendendo delicatamente la bionda per un braccio. Lei lo
fulminò con gli occhi, lanciandogli un’occhiata
sdegnata e disgustata.
-Hai capito male ragazzino- si liberò dalla presa del rasta
con uno strattone –Io sono libera e me ne vado da qui, non ho
bisogno di aiuto, di nessun tipo di aiuto, specialmente quello di un
bambino viziato abituato a fare sempre e solo i suoi comodi. Non ho
intenzione di diventare il tuo nuovo giocattolo-
-Charlie, non…- tentò di avvicinarsi di nuovo
Tom, ma questa si allontanò di scatto, guardandolo furente e
fiera come una leonessa. Vedendola indietreggiare, il rasta
iniziò a scuotere la testa lentamente e farle cenno di no,
di non andarsene, rimanere lì con lui, se qualcosa valeva,
se quella notte valeva, ma Charlie scattò verso
l’uscita del ristorante, andando a finire addosso a Georg,
ma, liberatasi della sua presa, corse via. Tom si lanciò
all’inseguimento, ostacolato, come sempre, dai suoi abiti.
Riuscì a guadagnare la hall e arrivare
all’ingresso appena in tempo per vedere la figura bionda
della ragazza scappare via e perdersi tra quelle di altri mille
passanti.
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Capitolo 17 *** Nothing Else Matters ***
Oh mio Dio, è un secolo che non aggiorno, mi dispiace, mi
dispiace davvero tanto, soprattutto per te Freiheit,
non sai quanto mi ha fatto piacere il tuo commento, anche se sei una
sconosciuta (bè, è ovvio che spero di conoscerti
meglio) *-*
La citazione di Dawson's Creek, bè, non mi ricordo molto
bene perchè l'ho messa. Volevo sicuramente mettere delle
frasi di un telefilm vero, le frasi in inglese che Tom sente
svegliandosi. Poi, proprio perchè quelle, non lo ricordo;
sono una fan di Dawson's Creek e quella puntata mi era molto cara.
Sicuramente, non morirà nessuno XD Però il fatto
che le situazioni degenerino in fretta fa pensare ed è
collegato al fatto che Charlie, che è libera, lo dice lei, e
quindi libera di scegliere, scelga così bruscamente di
voltare la schiena a Mimi, a Tom, presa da un impulso da animale in
gabbia. Lei, come Anya, non è fatta per stare in gabbia.
In quanto al pezzo della mamma, è un flashback molto da
interpretare, mi è venuto così, pensando ai miei
risvegli da bambina. Io li sento Tom e Bill, soprattutto in queste
cose. Sono felice che tu abbia apprezzato, davvero tanto ^^
Ora, il nuovo capitolo.
Avviso, è lungo. Ma lungo.
Eppure, non mi sono stancata a scriverlo.
Se c'è qualche errore di battitura, perdonatemelo. Non mi
funziona più a dovere Word e anche rileggendo certe cose non
sempre saltano all'occhio.
Niente sarà più
come prima, dopo questo.
Consiglio dell'autrice: visto che non vi do mai
canzoni da ascoltare durante la lettura, questa volta voglio
consigliarvi come procedere in questo senso, sempre che vi vada. Dopo
il primo * che separa due parti dello stesso capitolo, l'argomento va a
toccare i ricordi. Ricordate un pò anche voi, magari
ascoltando una canzone dei mini-Tokio like Der Letzte Tag (la prima
versione). Se ne preferite altre simili, siano le benvenute.
Dopo il secondo * io ho sempre immaginato il tutto con Amour dei
Rammstein. E' metal molto, ma molto leggero. L'ho fatta sentire ad
alcune amiche, che si sono spaventate XD (non è il tuo casoFreiheit)
Quindi è una cosa molto facoltativa, tutto è
facoltativo, però io mi sono sentita in dovere di indicarvi
alcune cose che potevano migliorare la lettura.
La traduzione di Amour la potete trovare facilmente su metalgermania,
un sito molto fornito, adoro le parole, per me sono vere più
di qualsiasi altra cosa. Buona lettura.
Dopo questo, niente sarà
più come prima.
17.
Nothing Else Matters
Gli aveva detto che era incinta, di tre mesi; da tre mesi a quella
parte aveva sentito qualcosa dentro di sé crescere e
sconvolgerla e lei l’aveva lasciata andare avanti, tenendola
segreta e al sicuro dall’ambiente in cui viveva, fino a
quando la necessità della sua condizione di povera barista
senza mezzi non l’aveva indotta a chiedere aiuto a Luke, il
colpevole. La sua risposta era stata un ceffone che l’aveva
sbattuta a terra facendole sputare sangue sul pavimento del Lost Heaven
e da quel pavimento l’aveva raccolta Gustav. La luce bluastra
del locale avevano reso i lineamenti del ragazzo quasi spettrali, tanto
che era giunta a chiedersi se non fosse stato l’angelo che
l’avrebbe condotta all’Inferno con le scuse del
Santo Padre, ci dispiace, ma il Paradiso non fa per te; invece lui le
aveva parlato nella lingua che sin da bambina aveva considerato sua e
l’aveva sollevata da terra come se fosse stata fatta di piume
leggere. Ne era rimasta accecata e a chi altri dare la sua fiducia,
dopo che lui aveva passato l’intera nottata ad ascoltarla? Le
era venuto naturale confessargli il suo segreto, gliel’aveva
quasi sputato in faccia tanta era la foga di pulirsi di quel bellissimo
peccato e sapeva già dal principio che lui
l’avrebbe aiutata, non si sarebbe tappato le orecchie
coprendo il suo lamento con altre parole, come un bambino isterico.
Magari le avrebbe lasciato dei soldi, da quel che diceva Charlie sul
loro conto, i Tokio Hotel erano una band famosa, il cantante spendeva
dei milioni solo per vestirsi. Qualche dollaro non poteva di certo
rovinare il biondino.
Gustav, invece, si era alzato dal letto su cui lei era coricata ed era
andato al comodino a versarsi un bicchiere d’acqua; il tempo
di berlo gli era stato sufficiente per decidere con
un’impulsività che tirava fuori di rado e solo in
occasioni che la richiedevano con così tanta persuasione.
-Tu non hai bisogno di soldi- le aveva spiegato, avvicinandosi di nuovo
–tu hai bisogno di tutto l’aiuto che ti posso
offrire e questo non sta di certo in un paio di banconote-
-Che cos’hai qui, in America?- le aveva chiesto poi.
-Ho un appartamento, un lavoro e Charlie. E il bambino- aveva risposto
Mimi.
-Una famiglia?-
-No, i miei non li ho mai conosciuti, ho vissuto con mia cugina Martha,
che in verità non è neanche mia cugina di sangue,
ma la figlia del mio padrino e poi a sedici anni me ne sono andata-
-E parli tedesco- aveva considerato Gustav.
-E parlo tedesco- gli aveva confermato.
-Domani partiamo per la Germania. Vieni con noi- non era una proposta,
né un invito.
-E lì, cosa farò?- chiese Mimi, un attimo
spaventata dalla determinazione del ragazzo.
-Nulla di nulla, penserò a tutto io. Fino a quando rimarremo
lì, starai con me, se vorrai e per il resto, per non
affaticarti con i nostri viaggi e i nostri orari impossibili, starai a
casa di mia sorella- le spiegò il biondino, inginocchiandosi
ai suoi piedi e poggiandole con fare rassicurante una mano sulla spalla.
Mimi non seppe che rispondere, si limitò a sorridere con
gratitudine a Gustav; avrebbe voluto che il padre del suo bambino fosse
così, come una vita nuova.
*
Le specialità di Simone in fatto di dolci erano i waffel e
le torte al cioccolato e marmellata di albicocche; quando i suoi figli
erano più piccoli, poi, cucinava sempre e solo biscotti
perché a loro piaceva giocare con le formine e dare alla
pasta l’aspetto di animaletti, soli, lune e
quant’altro. A Bill non piaceva il cioccolato, quindi i
biscotti al caramello erano tutti suoi, li sceglieva con cura dal
vassoio e li nascondeva a suo fratello per non farglieli mangiare,
così che Tom faceva indigestione di quelli al cacao e alle
nocciole. Poi, quando Bill aveva deciso di togliersi
l’orecchino che lo distingueva stupidamente dal fratello per
adottare la maniera più drastica di tingersi i capelli di
nero e truccarsi gli occhi, non avevano più voluto cucinare
con lei e imbrattarsi di farina lanciandosi le pentole oppure
assaggiare l’impasto non ancora pronto con le dita. Il loro
maggiore divertimento, dal creare animali strani mai visti
né in cielo né in terra, diventò
quello di rinchiudersi o in soffitta o nella casetta di legno
sull’albero a suonare; Bill, appena imbracciata una chitarra,
aveva capito che cantare era il suo mestiere: neanche il tempo di
pizzicare una corda, che quella era subito saltata via, preferendo
suicidarsi piuttosto che stonare tra le mani del ragazzino. La
differenza tra i due fratelli in campo musicale era che Tom aveva avuto
la costanza e la testardaggine di domare lo strumento e Bill aveva
preferito non rischiare e andare sul sicuro su una cosa che sapeva
già fare. Nonostante ciò, da quel momento i due
avevano sempre e solo continuato a fare musica, senza più
smettere. Per questo, Simone si stupì quando, il giorno
della festa, Bill arrivò in cucina al mattino presto,
sveglio e lavato e si mise accanto a lei ad impastare farina,
sporcandosi subito il naso e disegnandosi per gioco due baffi signorili
con il lievito.
Nonostante la sua buona volontà, l’aiuto maggiore
che il ragazzo riuscì ad offrire senza combinare danni fu
quello di assaggiare, con molto piacere, ogni dolce, per poi dare una
mano a preparare il giardino per la festa e, compito più
difficile, svegliare suo fratello nel primo pomeriggio
perché desse anche lui il suo contributo.
-La festa è tua, te la prepari tu- fu la risposta mugugnata
di Tom quando Bill entrò in camera cantando a squarciagola
una canzone di Nena.
-Una volta non tanto lontana mi hai detto che sono tanti anni che me ne
sto con le mani in mano e non faccio niente, per paura di quello che
potrebbero di me. Io ho solo paura di quello che potrebbe dire lei di
me, ma questa volta mi aiuterai tu- ritrattò il fratello,
aprendo leggermente le imposte per fare chiaro.
-Non posso mica scoparmela per te- borbottò Tom, buttandosi
giù dal letto a fatica.
-No, però puoi coprirci-
Dal sopracciglio alzato di Bill, Tom capì che faceva sul
serio e la cosa contribuì a svegliarlo del tutto. Aveva
deciso e sapeva bene che suo fratello non si tirava indietro, non dopo
aver fatto la sua faccia convinta; come aveva ottenuto il successo, con
quel sopracciglio avrebbe ottenuto lei.
Tom scelse con cura la felpa e i jeans da indossare, perché
sapeva che sarebbe venuto anche Andreas e questo voleva dire che la
festa si sarebbe evoluta solo in una maniera: una fuga nel primo locale
a bere con gli amici e rivedere le vecchie fiamme della scuola, anche
se quest’ultimo particolare non gli interessava
più di tanto: erano diventate tutte brutte per lui e
l’unica cosa che potevano offrirgli di allettante erano i
ricordi passati, per distrarlo.
-Tom, aiutami a portare fuori i salatini per piacere!- urlò
Simone, pulendosi le mani nel grembiule ed affacciandosi dalla porta
della cucina per vedere il figlio maggiore scendere i gradini a due a
due ed afferrare le chiavi della macchina da una mensola.
-Bill, aiuta mamma a portare fuori la roba!- urlò di rimando
Tom al fratello che lo seguiva a ruota –Io vado a prendere
Andreas, mamma, ci vediamo dopo- schioccò un bacio sulla
guancia di sua madre e poi uscì dalla porta sul retro,
mentre Bill si congratulava con lui ad alta voce per tutto
l’aiuto che gli stava dando.
Uscendo, Tom inciampò in uno degli attrezzi da giardino di
Simone e battè la testa contro la porta aperta del garage,
dove aveva parcheggiato la sua auto tornando dalla città la
scorsa sera.
-Maledizione!- imprecò, portandosi una mano alla fronte
–Merda-
Appoggiò entrambe le mani al muro, respirando
perchè la fitta di dolore gli passasse più in
fretta; ma non c’era modo per fargliela passare del tutto.
Odiava essere lì, a casa, odiava essere stato trattato
così e adesso fare finta di nulla solo perché suo
fratello lo voleva bello e sorridente per la festa, per il comodo di
averlo come alleato alla caccia alla puledra, dopo che lui aveva
lasciato scappare la sua. Charlie non era ritornata sulla sua
decisione, era scappata e basta dopo avergli urlato contro quelle
falsità, dopo averlo insultato. Perché quello era
un insulto. Tom era andato a cercarla nel suo garage, l’aveva
trovato chiuso e nessuno aveva risposto alle sue urla; poteva provare a
chiamarla ora, aveva il numero del suo cellulare, ma non gli avrebbe
risposto mai, anzi, dubitava che la ragazza lo possedesse ancora
sapendo che lui poteva rintracciarla, sicuramente l’aveva
buttato in un tombino.
Stronza ed ingrata, maledizione.
Tom aprì con rabbia l’auto e si fiondò
sul sedile, chiudendo con un colpo secco la portiera e portando le mani
al volante. La vista dei sedili in pelle color crema lo
calmò: la sua Cadillac non lo avrebbe tradito mai. Aveva
desiderato tanto averla, talmente tanto che la stava per comprare
ancora prima di aver preso la patente e appena avuto il documento in
mano si era già visto girare la Germania con la sua auto, la
sua bambina; dopo la collezione di chitarre, quella era la cosa a cui
teneva di più. Ma anche adesso che la sua presenza
confortante e titanica lo circondava, non poteva fare a meno di
desiderare che da un momento all’altro, dalla carrozzeria
spuntassero delle ali, per poter viaggiare sopra il mare e tornare da
dove era venuto per non ricommettere l’errore di farsi
prendere in giro da quella ragazza. Accarezzò il volante in
pelle, tutta la sua curva, lucidando con il pollice gli inserti di
acciaio e sotto i polpastrelli non sentì il freddo del
metallo, ma il calore di Charlie che lo bruciava e rianimava. Se la
sarebbe ripresa.
Si sistemò meglio sul sedile, appoggiando la testa al
cuscinetto imbottito, stirando la maglia con una mano e continuando a
toccare il volante e poi il cambio e poi la radio con
l’altra, preso dalla fantasia che ogni parte
dell’auto fosse una parte del corpo di Charlie.
Inclinò all’indietro il sedile anteriore del
passeggero solo per il piacere di immaginarsi la ragazza stesa
lì e lui. Se la sarebbe mangiata viva.
La radio a tutto volume che aveva acceso inavvertitamente lo
riportò alla realtà: si risedette composto,
sistemandosi la visiera del cappellino. Decisamente, quella era il tipo
di macchina che faceva per lui.
Appena oltrepassato il vialetto di casa, vide i nonni, i primi
invitati, entrare dalla porta principale con in mano dei dolci; erano
tanto invecchiati, poveri nonni.
Le strade di Loitsche erano deserte come sempre, drittissime e
affiancate da pini solitamente grigi ed insignificanti, ma il sole che
stava uscendo in quell’ora del pomeriggio li faceva
più rossi ed irreali in una visione decisamente strana. Tom
superò la casetta della fermata dell’autobus che
portava lui e suo fratello a scuola anni prima e che ora i fan avevano
trasformato in un piccolo santuario.
Una figura comparve lontana al bordo della strada e, man mano che
l’auto si avvicinava, i suoi lineamenti si facevano
più netti: teneva in mano un cappottino di lana ed un
berretto e indossava un vestito a righe, con gli stivali. Tom
frenò per avvicinarsi, sorridendo tra sé.
-Ti sei fatta tutta la strada a piedi da Amburgo?- chiese ad alta voce,
scendendo dal macchinone e stringendo in un abbraccio Anya.
-No, solo fino dalla stazione- gli sorrise lei, alzando lo sguardo per
incontrare quello ben più alto del ragazzo.
-Se lo avessi saputo, ti sarei venuto a prendere in macchina, anche
Andreas arriva in treno, ha l’auto a riparare-
-Non fa niente- scrollò le spalle lei –Allora,
tutto bene? Vi siete ripresi dal viaggio?-
-Sì, tutto a posto. Ammettilo che ti siamo mancati-
scherzò Tom, infilando le mani in tasca e sorridendo
sornione.
-Vuoi farmi dire una bugia?- rise lei.
-Ah bè, grazie, grazie mille davvero- si offese Tom
–Quando tu a noi sei mancata moltissimo!-
-Posso immaginare- tagliò corto Anya -Adesso sarà
meglio che vada, a piedi è più lunga che in
macchina-
-Ma non scherzare, sali, andiamo a prendere Andreas e poi torniamo con
la mia- propose Tom, aprendole la portiera.
-Grazie, ma preferisco andare da sola, vai pure a prendere il tuo
amico, ormai sono di strada-
-Come vuoi- fece spallucce Tom, salendo in macchina –ma ti
avverto: a casa c’è ancora solo mio fratello con i
nonni. A lui farà sicuramente piacere, non so quanto possa
far piacere a te discutere con due vecchietti sordi. A dopo-
L’auto partì a tutta velocità sgommando
e Anya rise di quanto fosse scemo, a volte, Tom. Riprese la sua strada,
sistemandosi la spallina del reggiseno che le era scivolata su una
spalla.
Era stata a casa dei gemelli solo una volta, qualche anno prima; forse
era proprio nel primo periodo in cui aveva iniziato a lavorare per i
Tokio Hotel, non ricordava bene. Era una casa normalissima, come tante
in quel paese, con il suo bel giardino e tutto il resto, proprio il
tipo di posto in cui le sarebbe piaciuto vivere da bambina; anche le
camere dei due ragazzi parevano abbastanza nella norma nonostante i
proprietari non lo fossero per nulla.
La loro mamma era una donna al contempo pacata ed energica, nulla
faceva presagire che avesse dato alla luce due pazzi. Le aveva fatto
vedere le foto dei due fratelli quando ancora indossavano magliette con
il loro nome scritto sulla schiena e Bill rimaneva appiccicato a Tom
come una figurina all’album; il fratello si era sempre preso
cura di lui: dormivano insieme se Bill aveva paura dei mostri che
sbucavano da sotto il letto o da dietro le tende, lo portava in giro
per mano morbosamente ed esaudiva qualsiasi suo capriccio, anche se
dava sempre a vedere di essere lui il capo. Era sempre stato lui il
più responsabile da un certo punto di vista, anche se
nessuno l’avrebbe mai detto.
Simone le aveva raccontato tutto questo mentre entrambe aspettavano che
i gemelli portassero giù le valigie per il loro primo tour,
sedute comodamente sul divano, senza nessuna intenzione di fare dei
convenevoli, come due amiche improvvisate. Poi non si erano
più viste.
Salutata con qualche difficoltà la nonna e altri amici di
vecchia data appena arrivati, Bill si incamminò per portare
dalla cucina al giardino gli ultimi piatti di stuzzichini. In un punto
imprecisato del prato si fermò di colpo, guardandosi i
piedi: era sicuro che proprio in quel punto, in quel comunissimo
fazzoletto di verde, fosse caduto e si fosse sbucciato un ginocchio,
quando era piccolo. In realtà, non poteva affatto ricordarlo
ed era anche improbabile, visto che non era mai stato il tipo di
bambino che passava le giornate dietro ad un pallone, preferiva giochi
più tranquilli o sessioni di litigate con il fratello per
decidere quale cartone animato guardare, ma l’istinto
primitivo del ricordo e dell’appartenenza lo rendevano certo
di aver versato sangue e lacrime su quella terra, sua, sua e di Tom. La
differenza tra il loro pianto e il loro sangue era nulla, magari
c’era differenza nel modo di versarli.
Se n’era andato da lì a sedici anni, ben felice di
farlo: sua mamma, da quando era arrivato Gordon, aveva potuto
ricominciare a vivere, iniziare di nuovo da zero dopo la brutta
separazione con loro padre; lui e Tom avevano intrapreso la loro strada
senza alcun rimpianto, senza alcuna casa, viaggiatori instancabili.
Era una bella strada da percorrere, con le sue curve e i suoi
incidenti, ma comunque era la loro strada.
Poche fermate e rari incroci.
Forse era ora di averne di nuovo una, di casa, un appartamento grande,
vicino ad Amburgo, in un posto un po’ isolato magari. Assorto
nei suoi pensieri, Bill tirò un calcio ad una zolla di terra
con i suoi camperos dorati, facendola finire ai piedi di qualcuno
appena entrato di soppiatto dal cancello del giardino, qualcuno con
degli stivali molto familiari.
-Wow, che fantastica accoglienza a casa Kaulitz!- sorrise sarcastica
Anya, tirando di rimando un calcio alla zolla.
-Non-non ti ho vista arrivare, scusa- balbettò Bill,
deglutendo a tradimento alla vista della ragazza.
Lei annuì, scrutandolo: -Già-
Aveva accorciato di poco i capelli, finalmente, ed indossava
semplicemente dei jeans, una maglietta e la giacca di pelle. Il
dettaglio più sorprendente era il vassoio di salatini che
reggeva con una mano sola, in pericolo di caduta imminente,
già troppo inclinato per la forza di gravità. Si
avvicinò per sorreggerlo visto che Bill, troppo intento a
fissarla, sembrava non essersene accorto.
-Oh!- eslcamò, riprendendo il controllo sul vassoio.
-L’aria dell’America non deve averti fatto troppo
bene, hai una faccia…- commentò Anya, scrutando
gli occhi lucidi di Bill.
-Io sto benissimo!- si difese il ragazzo, corrugando la fronte. Scusa
tanto se faccio la faccia da ebete, ma era una settimana e
più che non ti vedevo e scusa ancora se mi sei mancata!
Ma non lo disse, rimase solo a fissarla di nuovo, mentre lei,
disinvolta, continuava a sostenere il suo sguardo, senza alcuna ombra
di imbarazzo, come solo lei sapeva fare.
-Oh bè, se non hai niente da dirmi, posso anche smetterla di
guardarti in attesa che spiccichi parola. Vado a salutare tua madre-
Anya lo superò sbattendo i tacchi; passandogli accanto, Bill
percepì il vento che la sua gonna aveva sollevato e la
fragranza dei vestiti e dei capelli, lavati da poco. Chiuse gli occhi,
respirando a pieni polmoni, senza girarsi: anche senza vederla, sapeva
che Anya l’aveva superato di buon passo e adesso stava
incrociando le braccia sbuffando.
-Mi sei mancata- quasi le urlò da dietro le spalle,
affinchè lo sentisse; poi, riprese velocemente la sua strada
verso il gazebo del giardino, infilandosi un salatino in bocca.
Tirò fuori con una mano il cellulare ed iniziò a
premere i tasti, continuando a masticare rumorosamente.
"E’ arrivata, vedi di muoverti" scrisse a suo fratello, con
la rapidità del pollice da SMS.
"Vedi di muoverti tu, scemo!" fu la risposta divertita ed altrettando
veloce di Tom.
-Vaffanculo- biascicò Bill tra i denti, appoggiandosi di
schiena con entrambe le mani al tavolo dei dolci, rischiando di
rovesciarlo.
Da lì poteva vedere la veranda di casa, la porta aperta
della cucina e, contemporanemante, il vialetto di accesso, ornato da
una siepe di mirto, da dove sarebbero arrivati gli altri ospiti. Sua
madre uscì di casa per braccetto ad Anya, presentandole i
nonni e i vicini; Gordon stava arrivando in quel momento, le braccia
cariche di patatine e popcorn in più presi al supermercato.
Raggiunse Simone stampandole un bacio gentile sule labbra colorate dal
rossetto e abbracciò Anya calorosamente.
La ragazza sembrava a suo agio più di quanto lo fosse Bill
in quel momento, come se lei avesse sempre vissuto lì al
posto suo, come se quelli fossero i suoi parenti, quella la vita che
non aveva mai vissuto. Il ragazzo, invece, era sull’orlo di
una crisi di pianto, ancora prigioniero dei ricordi per potersi
scuotere e tornare al presente di quella giornata che infrangeva le
regole del tempo, ridimensionandolo a bambino, rimpicciolendo il suo
cuore ai sentimenti antichi e ingrandendolo di rassegnazione ai nuovi.
Dei passi sulla ghiaia del viale gli fecero cacciare indietro la
lacrima a bordo dell’occhio destro che già voleva
cadere; riconobbe la chioma liscia di Georg e quella bionda di Gustav
oltre la siepe. Ma non solo le loro: dietro veniva quella tinta e
composta di Natasha.
Bill chiuse gli occhi a fessura a quella sorpresa e strinse i pugni sui
bordi del tavolo: ok, se non l’aveva invitata, aveva avuto i
suoi buoni motivi, quindi, cosa ci faceva lì?
Gustav alzò la mano nella direzione del vocalist,
salutandolo e dirigendosi verso di lui con Georg al seguito,
leggermente imbarazzato, mentre Natasha, euforica, correva incontro
alla cugina, trascinandola in una danza isterica, ridendo e baciandola
tutta.
Bill distolse lo sguardo dalle ragazze ridenti e si
concentrò di nuovo sui suoi due amici, che già si
stavano servendo dal buffet. Quando Georg incrociò gli occhi
neri e furenti di Bill, si cacciò le mani in tasca e
chinò la testa, sentendosi colpevole, soprattutto di tenere
nascoste tante cose all’amico, che aveva subito
sentito odore di bruciato e aveva individuato senza fatica il
responsabile.
-Scusa Bill- rispose così all’occhiata
dell’amico.
-Sapevi che non volevo che venisse, vi avevo spiegato che negli ultimi
tempi il suo comportamento mi dava fastidio perché
l’avevo sempre attaccata, all’aeroporto, nella zona
relax, in macchina. Non la posso sopportare-
-Lo so Bill, ho provato a dirle che era una cosa privata, solo tua, ma
quando ha saputo che veniva anche sua cugina, ha insistito tanto-
tentò di giustificarsi Georg, pentendosi di non essere stato
più severo con la bionda.
-Non gliene frega niente, a quella, di sua cugina- ringhiò
Bill. Quante volte, facendo di tutto per rimanere in disparte con lui,
gli aveva casualmente elencato i mille e più difetti di
Anya? Era stato questo suo nuovo comportamento, adottato in America
perché lontana dall’altra, ad indurlo a prendere
in antipatia la truccatrice che prima, se non la considerava
propriamente sua amica, era comunque una persona piacevole e simpatica,
con cui passava del tempo insieme ai ragazzi.
La falsità della bionda, che ora abracciava amorevolmente la
cugina, gli fece venire i nervi a fior di pelle.
Georg rimaneva ancora con le mani in tasca, aspettando un gesto di Bill
che gli facesse capire se dovesse scusarsi ancora o se fosse stato
perdonato.
Il vocalist sciolse i muscoli del collo in tensione e finalmente
sorrise all’amico, dedicandogli uno dei suoi sorrisi
speciali, non quelli montati da passerella. Georg gli battè
una pacca sulla spalla, sollevato, infilandosi una manciata di salatini
in bocca.
-Gustav, come sta Mimi?- chiese Bill, girandosi verso il batterista.
-Il viaggio in aereo è stato stancante per lei, ora
è a casa di mia sorella. Hanno fatto subito amicizia,
è una buona cosa no?- rispose Gustav, accennando un sorriso.
-E’ un’ottima cosa- annuì Bill
–Oh bene, è arrivato Tom!- esclamò poi,
vedendo quel bestione della Cadillac Escalade del fratello entrare dal
cancello automatico. Ne scese al volo un allegro Andreas, il biondo che
più biondo non si può, loro amico da sempre,
già munito di una Beck’s finita per
metà.
-Hallo leute!- esclamò, in direzione della casa, aprendo poi
la portiera posteriore per far scendere tre ragazze e due amici che si
erano stretti di poco per entrare tutti nel macchinone, con somma
preoccupazione di Tom; si vedeva lontano un miglio che stava
ringraziando il cielo con il pensiero perché era andato
tutto liscio e i suoi sedili di pelle erano ancora integri.
C’era stata solo una vittima: un CD di Sammy Deluxe che
Andreas aveva schiacciato con il sedere, accomodandosi pesantemente al
suo posto.
-Mamma, dov’è Bill Kaulitz?- urlò
Andreas, rivolto a Simone; sin da quando erano piccoli, aveva preso la
strana abitudine di chiamarla così e da allora non aveva mai
cambiato.
-Sono qui- gli rispose Bill, raggiungendolo a passo svelto e
abbracciandolo come un fratello.
-Era ora che ci rivedessimo, razza di stronzi che non siete altro!-
Andreas battè una forte pacca sulle spalle fragili di Bill.
Il biondo si era fatto più uomo che mai, aveva sempre avuto
questo punto in più rispetto ai gemelli: la
virilità. Divertente, muscoloso e con un bel sorriso,
Andreas, nonostante non fosse alto quanto i due Kaulitz, sembrava il
loro doppio.
-E lei dov’è?- chiese ad un tratto, prendendo da
parte Bill.
-Lei chi?- strabuzzò gli occhi l’altro.
-Lei Anya- Andreas abbassò ancora di più la voce
–Tom mi ha raccontato-
-Ci avrei scommesso- borbottò il ragazzo
–Comunque, è sulla veranda con mia madre-
accennò con la testa alla figura della ragazza seduta a lato
di Natasha.
Andreas alzò lo sguardo e la riconobbe: l’aveva
incontrata un paio di volte, ma, siccome durante le rimpatriate con i
gemelli andavano sempre in qualche locale fuori, lei non aveva mai
voluto venire e lui non aveva mai avuto l’occasione di
conoscerla meglio. E in più, quello stronzo di Bill non gli
aveva mai detto niente di niente.
-E’ brutta come me la ricordavo- scherzò Andreas,
ridendo di cuore alla faccia scorbutica dell'amico.
-Non è brutta!- protestò infatti il ragazzo.
-Diciamo che è il solo tipo di ragazza che potrebbe colpire
te-
-Scusa tanto se non ho il testosterone al posto dei neuroni e non mi
piacciono particolarmente le bionde siliconate!-
-Avanti Bill, scherzavo!- rise ancora Andreas –Su, andiamo da
lei-
E, nonostante le proteste silenziose di Bill, l’amico lo
trascinò fino alla veranda, mentre Tom e gli altri si
gettavano sul buffet raggiungendo Georg e Gustav.
-Buonasera a tutti!- salutò ancora Andreas, alzando la
bottiglia mezza finita in direzione degli ospiti seduti su delle sedie
di fortuna portate dalla cucina. Simone si alzò per baciarlo
su entrambe le guance e fare presente ai nonni, alzando la voce, che
quel giovanotto ben cresciuto era il piccolo Andreas che veniva a casa
da scuola con Tom e Bill qualche anno prima. Un po’ di anni
prima.
-Oh!- esclamarono i nonni, fingendo di ricordare o ricordando davvero.
-Salve- li salutò allegramente il ragazzo, sorridendo con
tutto il gusto che metteva sempre nei suoi sorrisi e rivolgendosi poi
alle due cugine sedute sul dondolo –Anya e Nat-
Anya si alzò sistemandosi la gonna e si avvicinò
per salutare il ragazzo, seguita dalla cugina. A convenevoli superati,
Andreas le prese entrambe a braccetto, annunciando che loro andavano a
servirsi qualche stuzzichino.
-Volete qualcosa?- si chinò a chiedere Anya ai nonni e alle
vicine –Da bere, una fetta di torta?-
-Grazie cara, vorrei solo un bicchiere d’acqua fresca- le
chiese la nonna di Bill, sorridendole gentile.
-Gliela porto subito- le assicurò Anya incamminandosi
insieme alla cugina e i due ragazzi verso il gazebo del buffet.
-Che ragazza a modo e gentile!- commentò la signora,
poggiando una mano sul ginocchio di Simone, quando i giovani si furono
allontanati –E’ la fidanzata di Bill?-
Simone scosse la testa: -No, mamma, è una ragazza che lavora
per loro-
-Ma sei sicura?- si stupì la donna –Da come la
guarda mio nipote, sembrerebbe molto di più-
affermò, spalleggiata dai suoi anni di esperienza e
dall’abitudine di spettegolare.
Simone la fissò imbambolata, illuminandosi ad un tratto per
quella rivelazione; spostò il suo sguardo verso i due
ragazzi che camminavano nel giardino e sorrise, ancora confusa e
sentendosi una povera rimbambita per non essersene accorta prima.
Arrivati al gazebo, Anya dovette salutare tutti, dedicando maggiore
attenzione alle sue quattro scimmie, che non vedeva da tempo e quindi
fu felicissima di riabbracciare Georg, Gustav e Tom e sentire i loro
discorsi sull’America; ovviamente, più tardi,
sarebbe venuta a conoscenza di particolari scottanti, gli unici per cui
rimpianse di non averli seguiti. Non si incontra tutti i giorni una
Charlie.
Li lasciò poi ai loro discorsi, Georg seduto su delle sedie
in mezzo alle tre amiche dei gemelli, gli altri intenti a discutere tra
loro di auto e ragazze, con Natasha che tentava di partecipare, ma lei
di macchine non se ne intendeva molto, quindi veniva subitto azzittita
dagli altri, esperti appassionati.
Anya si avvicinò di nuovo al tavolo del buffet, riempendo un
bicchiere d’acqua ed un piatto con del dolce e dei salatini
da portare a nonna Kaulitz.
-Posso darti una mano?- le chiese Bill, avvicinandosi da dietro; la
ragazza annuì, indicandogli di prendere la bottiglia
dell’acqua e degli altri bicchieri.
Si incamminarono insieme di nuovo verso la veranda, il ragazzo un
po’ stufo omai di fare avanti indietro, ma ben determinato a
stare vicino ad Anya.
-Allora, questa America?- interrupe il silenzio lei, concentrata a non
far cadere nulla dal piatto.
-Niente di che, in fondo. E’ andato tutto bene-
-Niente di eccitante, di strano, degno di nota?- indagò
ancora lei, rallentando il passo e alzando la testa per guardare Bill.
-A me, personalmente, non è accaduto niente di che. Chiedi a
Tom e Gustav- le sorrise, incuriosendola, ma Anya non potè
chiedere ancora, perché, raggiunti gli ospiti sulla veranda,
le parve scortese continuare il suo discorso con il ragazzo non
includendo gli altri.
Servirono tutti e fecero girare il piatto con il cibo, sentendosi
ringraziare mille e mille volte.
-Prego, prego- continuava a ripetere Bill, mentre le signore
chiacchieravano alle sue spalle, ponendosi i soliti mille interrogativi
sul suo conto, ma non osando chiedere nulla per la centesima volta ai
suoi genitori.
-Vieni- sussurrò Bill, prendendo Anya per un braccio per
allontanarla dalle signore che continuavano a chiederle dove avesse
preso quel bel vestito e dove fosse andata a farsi mettere in piega i
capelli, perché erano proprio belli, così lunghi
e lucidi.
La ragazza scese i gradini in legno delle veranda, facendo per
dirigersi nuovamente verso il gazebo, ma la presa sul braccio di Bill
la fece fermare.
-Andiamo di qua- accennò lui, indicandole il retro della
casa –Voglio farti vedere una cosa-
-Va bene- assentì lei, seguendolo. Fecero il giro della
casa, diretti verso un grande albero al centro dell’altro
fazzoletto di giardino che confinava con la casa dei vicini.
Bill si girò una volta sola verso il fratello, per dargli il
segnale convenuto; Tom era dall’altro capo del prato, ma lo
stava guardando e recepì il messaggio, non aspettava altro.
Fece un gesto scaramantico e uno di vittoria senza farsi vedere,
finalmente. Finalmente, dopo tre anni, forse ce l’avevano
fatta, perché quella era una vittoria di entrambi.
-Ehi Tom, andiamo a farci un giro di là? Hai ancora quel
pallone da calcio che ti avevo regalato?- chiese Andreas
all’amico –Possiamo farci due tiri vicino al grande
albero mentre aspettiamo di andare-
Tom si risvegliò dal suo coma momentaneo, allarmato.
-Ehm, no, non ce l’ho più il pallone e tanto tra
cinque minuti ce ne andiamo, mio fratello ha detto che non viene e se
ci dividiamo tra la mia e la carretta di Georg ci stiamo tutti-
spiegò il rasta, prendendo l’amico e facendolo
voltare nuovamente verso il gazebo, perché non vedesse Anya
e Bill allontanarsi assieme.
-E mia cugina?- rimbeccò Natasha, alzandosi in punta di
piedi per cercare la testa mora dell’altra. Tom le si
piazzò di fronte, bloccandole la visuale e facendo girare
anche lei verso gli amici, che, impegnati a bere e chiacchierare, non
si erano accorti di niente.
-Tua cugina è in casa con mia mamma e mia nonna, hanno
voluto farle fare il giro, sai com’è…-
mentì Tom, infilandole a forza una bottiglia di birra in
mano.
Bevi e ubriacati, magari è la volta buona che non
rovini la vita a mio fratello, pensò, tracannando
anche lui un lungo sorso da una bottiglia.
*
La casa sull’albero era semicoperta dai rami della grande
quercia nodosa, che stava mettendo le foglie in quella tiepida
primavera; il sole cominciava a tramontare, regalando
l’ultimo arancione della giornata al paesaggio. Per salire,
il papà dei gemelli, a suo tempo, aveva applicato al tronco
dell’albero dei pioli sporgenti e una corda annodata per
aiutarsi. La salita era la parte più bella, ma questa volta
Bill trovò qualche difficoltà: doveva avere avuto
i piedi molto più piccoli per salire su quei pioli. Anya si
arrampicò dopo il ragazzo, aiutandosi con le mani e
rischiando di cadere non poche volte, ma arrivata in cima, Bill la
sollevò con entrambe le mani e lei fu issata senza problemi
sul balconcino della casa. Cadere da lassù non sarebbe stato
affatto piacevole. Bill aprì la porticina della costruzione,
lasciando entrare per prima Anya.
-Perché mi hai portata qui?- chiese la ragazza, guardandosi
intorno.
-Per farti vedere il mio vero regno- Bill mostrò con un
gesto delle lunghe braccia il piccolo interno della casetta. I raggi
dorati del sole entravano dalle due finestrelle senza vetri; il ragazzo
doveva stare lievemente chinato per non battere la testa sul tetto
spiovente .
Anya fece scorrere le dita sullo schienale di una delle seggiole vicine
al tavolo contro la parete, catturando con i polpastrelli la polvere
che si era accumulata nel tempo.
Chiuse gli occhi e le sembrò di vedere i due fratelli come
nelle vecchie fotografie, giocare tra quelle mura, incredibilmente
ricchi di un posto tutto loro, incredibilmente ricchi di loro stessi.
Si sentiva quasi di troppo lei, Anya, in mezzo a quei ricordi non suoi
che, ne era certa, in quel momento si specchiavano nelle due pozze
ambrate di Bill, a cui dava le spalle.
-E’ un bel posto- sorrise. Silenziosamente, come per paura di
infragere un qualcosa che non vedeva con gli occhi, ma percepiva su
ogni centimetro di pelle, il ragazzo si avvicinò,
circondando Anya con le braccia, avvolgendola e appoggiando una guancia
sulla sua spalla.
Lei chiuse gli occhi, tutti i suoi buoni propositi, i suoi piani, i
suoi ragionamenti cancellati dai battiti accellerati del suo cuore.
Stronzo e capriccioso; non era lui quello che
l’aveva sempre tratta con un misto di disprezzo e superbia,
quello che le passava davanti con una ragazza dai capelli castani o gli
occhi verdi al braccio per farle vedere quanto loro fossero giuste, non
lei, che doveva solo servirlo e non gli andava giù, no, che
lei lo trattasse come se fosse ancora un sedicenne, ma quella era la
loro lotta. Sì, era stato lui.
Ricordò i suoi recenti pensieri davanti al Kosmos mentre i
capelli di Bill le sfioravano il viso. Doveva ribellarsi, subito: se i
sentimenti erano testardi e prepotenti, lei lo sarebbe stata di
più
Tira fuori le unghie, tigre, si urlò
mentalmente, perché non poteva credere che il suo cuore
stesse battendo per l’emozione e non per
l’indignazione.
Si girò di scatto, fronteggiando il ragazzo e lo
aggredì con quanto fiato aveva in gola.
-Ho passato tre anni della mia stupida esistenza a seguire te e gli
altri, mi hai sempre disprezzata, forse per quello che faccio, forse
perché non ho una vita rosea come la tua e adesso? Tenti di
ammaliarmi come una qualsiasi?-
-Tento di amarti- mormorò Bill, sentendosi ferito da quelle
parole, che erano vere, in parte: quella stupida maschera che si era
cucito per lei aveva avuto le sue ragioni. Ma non abbandonò
la determinazione.
-Tu ami solo te stesso, le tue unghie, i tuoi capelli! Non prendermi in
giro, sei talmente presuntuoso che, con tutte le arie che ti dai,
potresti volare!-
Era caduta sul personale, mai toccare il look a Bill Kaulitz. Ma Bill
Kaulitz sorrise fra sé del tono della ragazza, che voleva
essere cattivo, invece sembrava sempre di più disperato; del
suo corpo, che voleva allontanarsi, ma gli permetteva di avvicinarsi
sempre di più; dei suoi occhi, che volevano incenerirlo e
invece la rendevano solo più bella.
-Tu piaci a Natasha- Anya si aggrappò all’unica
motivazione che le rimaneva.
-E tu a Georg- le fece notare lui, ma a quel punto non importava a
nessuno dei due, nonostante se lo fossero detti in faccia.
Bill l’afferrò per i fianchi, ormai lei cozzava
contro il tavolino di legno e poteva afferrarsi solo a quello.
Avvicinò i loro bacini, facendogli sentire che lui
c’era, era lì contro di lei; faceva sempre
così, era il suo modo per imporsi. Anya dischiuse le labbra,
involontariamente, presa a fissare il loro punto di contatto e lui
approfittò di quell’attimo per catturarle la bocca
e aprirgliela dolcemente. Inciampando nei suoi stessi stivali, pressata
da Bill, la ragazza si sedette sul tavolino, per poi coricarsi e
lasciarsi spogliare, sentendo il contatto della schiena con la
superficie ruvida.
La pelle levigata come un sassolino bianco e calda come tenere un
pulcino in mano; da piccolo, Bill aveva tenuto un pulcino in mano:
sperduto e pigolante, ruotava il collo e piangeva, agitando le zampine,
così come ora lei muoveva il suo corpo diafano sotto di lui,
pronta a scappare, ma troppo sconvolta per farlo, gli occhi grandi e
verdi spalancati che brillavano. Rimaneva lì, a subire,
ammaliata dalle mani del ragazzo, dai loro giochi concentrici.
Continuò a guardare il suo corpo fremere d’amore,
le zone che non si erano abbronzate durante le ultime vacanze, le
natiche fragili quanto le sue, ripensando alla sgomento dolcissimo che
l’aveva paralizzata anni prima tra le braccia di un altro.
Le bastò dire, tremando –Bill, ho freddo-
perché lui raccogliesse la sua giacca da terra e le coprisse
le spalle dolcemente, lasciandole scoperti i capezzoli scuri e lucidi
della sua saliva. L’aveva voluta, chiamata, anelata. Dalla
prima volta che l’aveva vista nuda e senza difese dalla
fessura di una porta, aveva desiderato mille e mille volte di averla,
confondere i suoi peli biondi con quelli di lei ricci e scuri, di
vederla sussurrare quelle parole in una lingua che solo loro capivano e
nessun’altra ragazza aveva saputo parlare, le stesse parole
che ora le uscivano dalla gola come fusa di gatta e a cui lui
rispondeva con baci e sospiri, mentre lasciava posto nella sua mente
solo ai movimenti secchi e ritmati come una canzone che stava compiendo
per rincorrere il paradiso dentro di lei.
Si sentivano più forte del primo giorno d’estate,
più della pioggia che ti sferza il viso, più
dell’attimo rivelatore in cui sai di per certo che al mondo
la gente soffre e muore, ma nel momento in cui ami tutto il dolore
svanisce e Bill sapeva che anche quando fosse stata vecchia avrebbe
continuato ad amarla così, facendole scricchiolare le
giunture e lui, pur di stare tra le sue gambe, non sarebbe mai
invecchiato, agonizzando nella lussuria che lo spintonava e lo lasciava
poi vinto e senza difese a dibattersi in una pozza d'amore.
Il sole le colorava i capelli sciolti oltre il bordo del tavolo,
cascata rossa e viva, mentre Anya perdeva le sue mani tra i capelli
neri di Bill, sul suo volto e i suoi occhi chiusi, sulla sua bocca che
le baciava le dita. Il ragazzo le sollevò la schiena per
avvicinarla ancora di più a sé, poggiando la
fronte sul suo petto e continuando a muoversi più adagio.
Avevano entrambi la pelle d’oca ed Anya avrebbe voluto
continuare a sfregare i loro corpi più che per sempre,
pentendosi, ma reclinando la testa all’indietro verso
l’infinito e lasciando che dalle sue labbra scappasse un
gemito che fece sorridere Bill di soddisfazione. Le morse piano la
pancia e sollevò gli occhi fino ai suoi. Non aveva mai visto
una ragazza più bella, tutte quelle che si erano mosse sotto
di lui in quella posizione gli sembrarono volgari e trasparenti al
ricordo, lei, invece, aveva una consistenza umana bruciante; aveva
voglia di dirglielo e dirle altre mille cose, ma sapeva che se avesse
aperto bocca tutto si sarebbe infranto. Erano in due, ora, a dover
tacere.
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Capitolo 18 *** Lost Heaven ***
Un
super ringraziamento a tutte coloro che non si sono perse per strada,
mi fa sempre tantissimo piacere ritrovarvi tra le mie recensitrici.
pazzerella_92,
dire che Anya si è resa conto di amare Bill è
leggermente eccessivo, almeno per il momento. Però
sì, ha ceduto finalmente! Saranno il tempo e i prossimi
capitoli a far evolvere la loro storia; non sempre in bene
però XD Non può essere tutto rose e fiori,
soprattutto con un tipino come Anya!
Arina, non
ci siamo sentite per due capitoli, ma con il tuo ultimo commento hai
recuperato alla grande, sono stata molto felice di leggere il tuo
entusiasmo ^^ Anche io sono una grande romanticona e siccome queste
cose nella mia realtà non succedono, le faccio accadere in
ciò che scrivo! Per quanto riguarda il passato dei
gemelli... sono contenta di aver raggiunto questo risultato, se vi
siete sentite coinvolte ed emozionate vuol dire che sono riuscita ad
avvicinarmi ad un'ipotetica realtà. A dire il vero, mentre
lo scrivevo, non mi sentivo come se stessi inventando tutto, ma come se
fosse accaduto veramente. Ribadisco però il disclaimer: io
non li conosco e non so se capiterà mai l'occasione,
è tutto frutto della mia fantasia. Baci&abbracci
anche a te!
Frehieit489, meglio tardi
che mai sicuramente, benvenuta a bordo ** Aspetto altre tue recensioni
u_u
after_all, ti
accontento postandoti quest'altro capitolo, w Tom -oh mio eroe!-
miss hiphop, davvero
hai lacrimato? *_* che dolce!
Ok, nuovo capitolo, buona lettura e grazie a tutte quelle che hanno la
mia storia tra i preferiti, io continuo sempre a sperare nel ritorno
delle mie pecorelle smarrite ^^ Soprattutto della critica negativa, the
Fighting Temptations, che con le sue recensioni mi ha aiutata molto,
forse involontariamente. Attendo ancora di sapere quali sono gli errori
che ho commesso e che mi hai indicato nella tua ultima recensione!
18.
Lost Heaven
La sua divisa da lavoro era squallida quanto il posto in cui lavorava.
Charlie
aveva sempre lavorato là, da quando aveva sedici anni faceva
il turno del
pomeriggio e della notte un paio di volte alla settimana, il minimo
indispensabile per sopravvivere. Solo quelle che non accettavano di
farsi
infastidire dai clienti ubriachi facevano il turno del mattino, ma
venivano
pagate poco niente, anche perché il maggiore guadagno erano
le mance e se non
rinunciavi alla dignità, che vedevi puntualmente calpestata
dal primo uomo di
turno, le tue tasche rimanevano vuote.
Era per questo che aveva improvvisamente deciso di cambiare lavoro e da
giorni
sfogliava i quotidiani delle offerte, comprati con le ultime banconote
da un
dollaro che aveva trovato nella tuta blu; il mistero dei soldi che
sbucavano come per magia da quella tuta ancora non lo aveva risolto. Ma
era stato tutto invano, cercavano
solo commesse o dog-sitter o cose del genere: lei odiava i vestiti, i
conti e
aveva paura dei cani di grossa taglia. Perfetto.
Gettò anche la rivista che aveva in mano oltre il divano,
dove si ergeva una
pila di schifezze tra cibo, bottiglie vuote e calzini spaiati. Aveva
deciso di
rimettere in ordine il suo garage e aveva iniziato con lo scrivere una
lista
delle cose da fare, ma aveva mandato tutto al diavolo dopo la prima
mezz’ora
passata a spostare quei quattro mobili che possedeva alla ricerca delle
cose
perdute, per scoprire che una gatta randagia, da tempo, aveva partorito
lì i
suoi micini che, cresciuti, avevano insudiciato tutto
l’angolo in cui la madre
si era nascosta. La gatta se n’era andata con i cuccioli al
seguito, tutti
tranne uno, completamente nero e un po’ spelacchiato.
L’aveva chiamato Bill,
perché il suo essere nero e diverso gli ricordava il
vocalist tedesco, ma
chiamarlo così, dopo un po’, le fece venire il
nervoso, così il gatto diventò
“Tu”.
Con Tu-Bill in braccio, Charlie si alzò dal divano,
strappò dal muro la lista
delle cose da fare e la gettò tra la pila di giornali vecchi.
Non aveva mai avuto né la voglia, né la
determinazione per riordinare quella
discarica che era il suo garage; solo Mimi, di tanto in tanto, era
riuscita a
mettere un po’ a posto e pulire per terra e spolverare e
svuotare l’armadio per
fargli prendere aria. Mimi aveva la pazienza per queste cose, non lei.
-Vaffanculo- ripetè per la centesima volta Charlie,
ripensando all’amica –Te e
il tuo farti mettere incinta e poi lasciarmi qui per uno sfigato che
tra un po’
non saprà che farsene di una donna gravida brutta e cicciona
in attesa di un
figlio di nessuno- Tu miagolò tra le braccia della ragazza,
affamato.
-E tu, Tu, smettila di piangere che non ho niente da darti da mangiare.
Dovevi
andartene con tua madre e lasciarmi da sola come fanno tutti, tanto
cosa se ne
fanno di me? Peccato che tu sia maschio, così non potrai
rimanere incinto e
attaccarti al primo gatto tedesco che trovi, a lui e ai suoi amici
spelacchiati!-
Charlie posò il gatto poco delicatamente
sull’unico tavolo della stanza e da
lì, questo saltò giù agilmente, per
dirigersi con la coda ritta verso l’unico
giornale non ancora sfogliato. Charlie si bloccò a guardarlo.
-Tu, non azzardarti a fare quello che stai per fare!- lo
avvertì, fissandolo
con odio; il micio non le diede retta e si accomodò sulla
carta stampata,
concentrato. Charlie scattò verso di lui, spaventandolo e
facendolo scappare a
gambe levate con un soffio di protesta.
-Vaffanculo Bill! Volevi farmela sul giornale!- gli urlò la
ragazza, agitando
la rivista miracolosamente intatta verso di lui con fare minaccioso.
Tirò poi
un grosso sospiro, prima di guardarsi intorno e, desolata, piombare sul
divano
mezzo rotto con tutto il peso del suo corpo.
-Parli con un gatto- si disse, amareggiata, prendendo a pugni un
cuscino –con
chi parlerai tra un po’, con il muro?-
Una lacrima le pizzicò il naso e lei la lasciò
cadere giù, fino al tessuto del
divano, dove si allargò formando un piccolo cerchio nero; la
seconda lacrima
prepotente, invece, cadde sopra il titolo di un annuncio del giornale
che teneva
in grembo: Cercasi
personale per assistere gli alcolizzati e i
tossicodipendenti del Volontariato Statale. A seguire,
l’indirizzo della sede,
a due isolati da lì, la paga, piuttosto considerevole visto
che, comunque, si
trattava di una sorta di volontariato, e la nota di chi aveva scritto
l’annuncio: non si richiede alcuna specializzazione
particolare, se non
quella della pazienza e della virtù di saper ascoltare e
affrontare la vita con
persone più deboli di te. Sicuramente chi
l’aveva scritta non conosceva il
cosiddetto mondo del lavoro e i lupi affamati che leggevano quei
giornali.
Charlie sollevò gli occhi dalla rivista con un mezzo sorriso
rivolto al micio
nero che si stava di nuovo avvicinando a lei, chiedendo ancora cibo;
gli
allungò una carezza riconoscente, prima di prenderlo e
stringerlo a sé,
dandogli un affettuoso bacio sulla testolina. Gli occhi nocciola della
bestiola
sembravano rivolgerle la domanda che non si era voluta fare da quando
Mimi era
partita: tu cosa avresti fatto al suo posto? Lo sapeva benissimo, in
fondo:
quello era uno dei casi estremi che avrebbero portato al suo ritorno;
estremi
perché quel ritorno sarebbe stato per sempre, ma per un
potenziale figlio
l’avrebbe fatto, almeno là sarebbe stato al
sicuro. Si alzò dal divano con una
spinta e si diresse verso il frigorifero seguita a ruota dal gatto;
tirò fuori
l’ultima bottiglia di latte quasi finito e lo
versò interamente nella ciotola
di Tu-Bill, con il gatto che le si strusciava tra le gambe.
Dopo aver gettato la bottiglia, con un balzo agile, Charlie
afferrò il giornale
e si diresse ancheggiando verso l’uscita di casa,
canticchiando dentro di sé il
motivetto di una canzone e sentendosi una star in squallore, ma che
ancora
brillava dentro; ogni tanto gli venivano questi attacchi di pazzia e si
trovava
a canticchiare “Let me see you stripped, let me
hear you make decisions,
without your television” camminando come una
top-model per casa e facendo ondeggiare la chioma bionda, per poi
piombare sul divano e ridere reggendosi
la pancia. Questa volta riuscì ad arrivare fino alla porta
senza ridere facendo
finta di essere una famosissima cantante e imitando gli sculettamenti
di non si
ricordava più chi, per poi imboccare il vicolo che portava
alla principale con
il sorriso sulle labbra. Bastava poco per farle dimenticare tante cose,
anche
se le sentiva ancora scottare sulla pelle. Svoltato l’angolo,
la voracità della
città l’accolse nella sua tremenda bocca: il
marciapiede era affollatissimo e
appena oltre il bordo rialzato, file e file di macchine rumorose e
puzzolenti
mangiavano l’asfalto con sgommate e frenate varie. Proprio
lì, fermi
all’angolo, un gruppo di skater sedeva per terra addosso al
muro di un palazzo,
i vestiti larghi e sformati già sporchi e impolverati, le
scarpe giganti distrutte
e i capelli lunghi legati in code disordinate o nascoste sotto
giganteschi
cappelli sformati. Le sembrò di riconoscere il tizio con i
ricci neri lunghi
sino alle orecchie ed uno skate consumato in mano; anche lui
sembrò notarla,
per poi sorriderle.
-Matt!- esclamò la ragazza, andandogli incontro mentre si
legava i capelli
biondi in una coda alta.
-Charlotte- si inchinò questo, ridendo.
-Sai che odio che mi si chiami così- rise a sua volta lei,
abbracciandolo con
slancio dopo aver fatto un cenno di saluto agli altri ragazzi
–Come stai? E’ da
tanto che non ti vedo in giro-
-Me la cavo- rispose il moro, scrollando le spalle –E tu? Fai
ancora la
cameriera in quel posto di merda?-
-No, mi sono licenziata due giorni fa. A proposito, sto andando a
vedere per un
nuovo lavoro, ti va di accompagnarmi?- gli chiese Charlie.
-Dove?-
-All’incrocio della tredicesima, al prossimo isolato-
Per tutta risposta, Matt lasciò cadere a terra lo skate con
un rumore secco e
mise un piede sulla pedana nera, salutando con un cenno gli amici, in
apparente
catalessi contro il muro.
-Salta su, baby!- esclamò, invitando Charlie a posizionarsi
sullo skate, dietro
di lui. La ragazza si appoggiò alle spalle del moro,
ridendo: sapeva che ci
sarebbe stato da divertirsi, Matt era un matto con lo skate.
*
Scesero dall’albero con qualche difficoltà in
più di quando erano saliti, dato
che il giardino si stava rabbuiando nel calare della sera e
l’unica luce nei
paraggi era quella della veranda. Bill ed Anya percorsero il tratto che
li
divideva da casa Kaulitz vicini, cercando di inventare delle scuse sul
momento
per la loro prolungata assenza e tappandosi la bocca a vicenda quando
alzavano
troppo il tono di voce.
Il ragazzo continuava a ridere, facendosi pestare i piedi da Anya,
decisamente
più preoccupata di lui; Bill si sentiva libero, pronto ad
affrontare chiunque,
anche il mondo intero, dopo quello che era successo. Appagato e felice,
come un
bambino a Natale.
-Ma la vuoi smettere di ridere?- continuava a rimproverarlo sottovoce
la
ragazza, guardandolo senza capire –Dobbiamo trovare una scusa
ed in fretta; non
posso andare da tua madre e rispondere alla sua aria curiosa con un
“Scusi se
siamo spariti, suo figlio mi stava scopando sopra un albero”-
-E’ che sono felice- si giustificò lui, sorridendo
ancora.
-Ma abbiamo un problema!- gli ricordò Anya, voltandosi
dall’altra parte per non
fargli vedere che stava sorridendo anche lei, ma troppo tardi.
-E’ inutile che ti nascondi, stai ridendo!- Bill la prese per
le spalle,
accusandola divertito e tappando la bocca di Anya con le mani per
impedirle di
svegliare tutto il vicinato con uno scoppio della sue risa rumorose e
cristalline. La ragazza tornò seria, allontanando le dita
smaltate di Bill
dalle sue labbra, ma continuando a tenerle fra le sue; lasciarono
libere le
loro mani di intrecciarsi prima di proseguire il loro cammino verso
casa,
cauti. Ma ormai, non c’era più nessuno.
Né sulla veranda, né sotto al gazebo,
né sul viale; le macchine di Georg e Tom erano sparite, le
sedie erano state
portate dentro, il prato era silenzioso e buio.
A quel punto Bill non potè più trattenersi:
scoppiò a ridere in modo che tutto
il vicinato lo potesse sentire. Erano stati talmente occupati a pensare
a come
salvarsi la pelle, che non avevano fatto caso al fatto che era tutto
silenzioso
e tranquillo. Tom e gli altri dovevano essersene andati da un pezzo da
qualche
parte a bere e festeggiare, cosa non si sapeva. Si figurò
suo fratello brindare
con la terza Vodka Lemon e farfugliare qualcosa come
“casetta” “Bill”
“ahaha,
questo è –hic- mio fratello”.
Anya incrociò le braccia al petto, sbuffando e trascinando
il ragazzo sulla
veranda con fare spazientito.
-Sei proprio un bambino- gli disse, scuotendo la testa. Il ragazzo si
fermò
all’improvviso, obbligandola a voltarsi e immobilizzandola
con i suoi occhi
castani ridenti e accusatori.
-E’ una vita che me lo dici- le fece notare.
-E continuerò a farlo- lo provocò lei, arrogante.
-Sicura di volerlo fare?- Bill alzò il sopracciglio destro
con evidente gusto,
sorridendo sornione, tirando fuori il Tom che c’era in lui.
Senza farsi notare,
solo con l’avanzare della sua figura, stava lentamente
spingendo la ragazza
contro il muro.
-Sicurissima- ribattè Anya, andando a cozzare contro la
parete e ritrovandosi
subito Bill davanti al viso, con le mani ai lati della sua testa, che
sorrideva
convinto.
-Io credo di…- ma in quel momento la porta si
aprì di colpo.
-Ah, ecco, mi era sembrato di sentire qualcuno!- esclamò
Simone, facendo
capolino dall’ingresso della casa.
-Mamma!- esclamò Bill, terrorizzato
dall’apparizione quanto mai inopportuna di
sua madre in vestaglia e capelli sciolti, pronta per la notte. Si
staccò subito
dal muro dove aveva inchiodato Anya, imitato dalla ragazza, che aveva
perso
tutta la sua arroganza e ora si torceva le mani, imbarazzata.
Simone fece una rapida scansione dell’immagine che si
presentava ai suoi occhi:
dunque, Bill aveva i capelli fuori posto, bè, più
fuori posto del normale e la
giacca gli cadeva scomposta sulle spalle. Suo figlio non aveva mai un
vestito in
disordine, neanche un calzino; in più, quegli occhi non
potevano mentirle. Anya
sembrava tesa, all’erta, il naso vibrante ad annusare aria di
possibile
tempesta e la cintura del vestito slacciata per metà.
Simone sorrise con non curanza, assumendo l’aria collaudata
da “qui-gatta-ci-cova”,
per poi assumere quella innocente da “io-non-ho-notato-nulla”.
E per
perfezionarla al massimo, chiese, senza alcuna ombra di imbarazzo:
-Avete
fame?-
A Bill cadde la mascella dallo stupore. Se ne era accorta, sicuro, non
era mica
stupida! Oppure…no? Quella faccia non tradiva niente, pura
ignoranza; non
l’aveva notato allora. Oppure era un’ottima
attrice. No, non aveva notato niente!
Sorrise gentilmente a sua madre.
-Cos’è rimasto?- chiese Bill, affamato.
-Della torta. Dovrete essere stanchi, dove siete andati? A fare una
passeggiata?- suggerì Simone con noncuranza, facendo entrare
i due ragazzi in
casa.
-S-sì- annuì in fretta Bill, cogliendo
l’occasione –Fino al bosco vicino a casa
dei Weiß-
-Sì?- domandò ancora Simone, guidandoli in cucina
e facendoli accomodare
intorno al tavolo.
Anya, che fino a quel momento era rimasta zitta e aveva seguito madre e
figlio
come un burattino, sorrise a Simone: -Proprio così. Ci sono
delle belle
villette qui a Loitsche, sa molto di campagna- commentò,
radiosa.
-Peccato che ai miei figli non sia mai piaciuto tanto. Preferivano la
città-
ribattè Simone, sospirando e tagliando due grosse fette di
torta alle nocciole
per i ragazzi.
-Ah sì?-
Bill guardò le due donne iniziare a parlare di un argomento
a caso a cui lui
non voleva prendere parte; seguì con gli occhi prima la
testa bionda di sua
madre servirli con i piatti del dolce e poi Anya sorridere e porgere
altre
domande cortesi, recitando perfettamente la parte della santarellina.
Prese con
le mani la torta e iniziò a masticarla lentamente, senza
distogliere lo sguardo
spento dalle due donne, per poi posarlo sulla finestra, non vedendo il
suo
oltre. Si sentiva ancora i muscoli piacevolmente indolenziti e le
labbra gonfie
di morsi; nella sua gola gorgogliava ancora, ormai spento, un gemito
che aveva
trattenuto e ora gli scombussolava le budella, le stesse budella che
sentiva
della consistenza della gelatina ogni volta che la memoria fresca gli
poneva
davanti agli occhi l’immagine dei capelli di Anya tra le sue
mani e la curva
del suo ginocchio che si stagliava alla luce del sole che tramontava.
Sorrise
di nuovo come uno scemo, facendo sbriciolare la torta sul tavolo e
ringraziando
ancora il cielo che sua madre non si fosse accorta di niente. Era
davvero una
sorta di miracolo.
-Ti puoi sistemare nella camera di Tom, davvero, non
c’è nessunissimo problema-
-Veramente, forse è meglio se…-
-No, non ti lascio andare a casa da sola a quest’ora e non ho
neanche la
macchina per accompagnarti, Gordon è dovuto andare da sua
madre, che non sta
molto bene e Tom non è in casa, quindi ti fermi qui, non
devi preoccuparti di
niente-
Bill scosse forte la testa, ritornando in quel momento alla
realtà ed
esclamando: -Cosa?-
Le due donne si girarono verso di lui con aria di rimprovero e il
ragazzo si
difese dai loro sguardi alzando le mani e sgranando gli occhi
all'inverosimile.
-Che c’è?- osò chiedere, un attimo
interdetto.
-Non hai seguito una sola parola di quello che dicevamo! Anya si ferma
qui a
dormire, visto che non la possiamo accompagnare alla stazione.
Starà in camera
di tuo fratello- gli riassunse Simone.
-E Tom dove dorme?- Bill corrugò la fronte.
-Se torna a casa, sul divano- gli spiegò Simone, scrollando
le spalle.
-Ah- capì finalmente il ragazzo, facendo due più
due –Sì, per me va bene-
-Non mi serviva il tuo permesso per invitarla a rimanere- gli fece
notare
Simone, un po’ contrariata –Vieni Anya cara, ti
faccio vedere dove dormirai e
ti do un pigiama pulito-
Entrambe uscirono dalla cucina, lasciando il ragazzo solo; incredibile,
si
erano subito alleate contro di lui. Ad un tratto si ricordò
una cosa; trattenne
un gemito di disgusto e balzò in piedi, raggiungendo di
corsa le due donne che
stavano salendo le scale e bloccando loro il passaggio con un balzo
agile.
-Ehm- bofonchiò, davanti al sopracciglio di sua madre che si
stava alzando
pericolosamente; forse era una cosa genetica –D-dunque, in
camera di Tomi ci
vado un attimo io, ok? Devo, devo sistemare alcune cose, tu intanto
falle
vedere dov’è il bagno-
Salì si corsa gli ultimi gradini, rischiando di inciampare
sul tappeto del
pianerottolo e finire con il culo per terra, ma riuscì a
raggiungere la camera
del fratello incolume. Una volta accesa la luce, il disastro apparve ai
suoi
occhi: meno male che si era ricordato che proprio in quei giorni Tom si
era
messo a riordinare la sua camera e riordinare, per lui, aveva un
significato
alquanto strano, perché tirava fuori tutto quello che
trovava nell’armadio, nei
cassetti, nei luoghi più impensati e invadeva la camera con
abiti, cappelli,
plettri, lettere di fan, lanciava le chiavi ovunque e perdeva il
cellulare tra
i boxer. Poi, dopo aver spalmato anche i muri con tutto il suo
disordine, si
decideva a rimettere di nuovo ogni cosa alla rinfusa
nell’armadio, creando più
disordine di prima. Per il momento si era fermato solo alla fase
“tiro fuori tutto
e mi faccio una bella moquette con le mutande delle mie fan”.
La cosa peggiore,
però, era il letto perché sì, proprio
lì, sulle lenzuola disfatte e il
materasso cigolante, Tom aveva sparpagliato la sua collezione di
preservativi
da cui attingeva tutta la band, dividendoli per colori, profumo e marca.
Bill prese la loro scatola da terra e iniziò a cacciarceli
dentro, tutti
insieme, per poi nasconderli in un cassetto di quella che si poteva
chiamare la
scrivania di suo fratello; raccolse i vestiti a manciate da terra,
aprì le ante
dell’armadio e ce li lanciò dentro, chiudendo a
fatica i cassetti stracolmi.
Non sapeva come, ma nel trambusto si ritrovò con un paio di
tanga incastrati
tra i capelli e riuscì a buttarli nel cestino proprio un
momento prima che
qualcuno bussasse alla porta.
-Posso?- sentì la voce di Anya entrare dallo spiraglio
dell’uscio insieme alla
luce del corridoio.
-Sì, sì, vieni- le rispose lui, tirando un
sospiro di sollievo. La ragazza
entrò, dando un’occhiata intorno e sorridendo
rivolta al moro.
-Guarda che non mi sarei spaventata per il casino di Tom, ci sono
abituata, non
serviva che corressi qui come un matto a riordinare- gli fece notare.
-E’ vero, ma visto che sei mia ospite, ci tenevo a farti
trovare un minimo di
decenza- sospirò Bill, avvicinandosi alla ragazza
–La mia stanza è proprio qui
accanto se hai bisogno-
-Non avrò bisogno, grazie Bill- Anya si alzò in
punta di piedi, sorridendo
sotto gli occhi nocciola del ragazzo e sfiorandogli leggermente le
labbra in
segno di congedo –Ciao, ciao-
Lo spinse leggermente verso la porta, non dandogli il tempo di reagire
e
protestare e poi chiuse l’uscio dietro le sue palle, con una
risata soffocata.
Accese la luce del comodino e si sedette sul letto, tirando fuori da
sotto il
sedere una manciata di preservativi che Bill si era dimenticato di
mettere via;
nell’attesa, aprì la finestra e lasciò
che l’aria fredda della notte le scompigliasse
i capelli e le facesse venire la pelle d’oca, per poi
chiudere i vetri e
cacciarsi sotto le coperte, come faceva da bambina. Dopo un poco, i
rumori che
riecheggiavano per casa cessarono: niente più colpi di tosse
o rigiramenti nel
letto; allora si alzò cautamente, dischiuse la porta ed
uscì in corridoio, per
poi entrare di soppiatto nella camera di Bill. Si avvicinò
al letto dove il
ragazzo sembrava dormire beato e gli tappò la bocca, prima
di svegliarlo senza
pietà; il moro aprì gli occhi, terrorizzato, ma
riconoscendola al buio, sorrise
contro la sua mano e alzò il lenzuolo, facendole posto nel
letto. Anya si
accoccolò contro il suo petto magro.
-Non riuscivi a dormire?- le domandò, con la voce impastata
di sonno.
-Non ho molto sonno e così ho deciso di venirti a rompere le
scatole- gli
rispose Anya.
-Bugiarda, sei venuta perché ti mancavo, ammettilo!- la
stuzzicò Bill,
accarezzandole una guancia.
-Anche per quello-
Bill si sorprese: l'Anya che conosceva non l'avrebbe mai ammesso e,
sinceramente,
gli piaceva che l'avesse fatto.
-Ehi, ma hai visto che mia madre non ha capito niente? Siamo stati due
bravi
attori- annuì poi vigorosamente a quell’ultima
affermazione, contento, ma Anya
si alzò di scatto, sedendosi sul materasso.
-Ma allora sei proprio scemo, non fai finta!- esclamò
sottovoce –E’ ovvio che
tua mamma se ne accorta no? Ha fatto solo finta per non farci sentire
in
imbarazzo. Non ti sei reso conto che ci ha reso tutto più
facile?-
Bill si grattò il mento, pensieroso e Anya tornò
a stendersi al suo fianco.
-Va bè, lasciamo perdere né Bill? Buona notte-
tirò il lenzuolo fin sopra alle
loro teste e fece sbattere i loro nasi vicini.
-Buona notte Anya- le sussurrò il ragazzo, tra le sue
labbra, baciandogliele
piano e poi cadendo di nuovo nel sonno.
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Capitolo 19 *** Unforgiven ***
Ah
rieccola XD Spazio per le recensioni:
miss hiphop, spero
che tu non sia morta nell'attesa, l'astinenza è una brutta
cosa XD Grazie mille per i complimenti, sempre graditi.
Arina,
le mamme sono le solite u___u Tom, nonostante la buona
volontà, mi sa che non riordinerà mai niente, ma
c'è Anya per questo XD Povero ragazzo, che ci volete fare?
_ToMSiMo_,
che bello rivederti tra le recensitrici, ovviamente sei
perdonata, a me basta che leggi e che ti piaccia. Un bacio!
pazzerella_92,
cerco sempre di aggiornare il primo possibile! Anche da questo commento
torno a criticare Tom: solo lui poteva dividerli XDD Quell'antipatica
di Natasha... chissà...
Ladynotorius,
*___________________*
Non ti sei affatto resa ridicola, anzi, mi hai fatto un'immenso
piacere. Sono contentissima che tu abbia letto la mia storia e sono
contenta che ti sia piaciuta. Per quanto riguarda la scena tra Anya e
Bill, non per vantarmi, è la migliore che abbia mai scritto,
mi sono commossa a scriverla e il fatto che abbiate apprezzato quel suo
"diverso" dalle solite scene di sesso è stato per me
fantastico!
Ora, solo una cosa che non ho ben capito XD Perchè io sarei
Charlie?
Il mio nick nei forum e su msn, è vero, è
Charlie, è un soprannome che mi hanno dato tempo fa e ho
deciso di darlo alla Charlie in questione, ma io non ho niente a che
vedere con lei XD Nè fisicamente (io assomiglio molto di
più ad Anya, almeno, come colori, come viso è
tutta un'altra questione) nè penso caratterialmente.
Qualcosa in comune l'abbiamo, ma nessuno dei personaggi di questa
storia è un mio surrogato u___u E' ovvio che trasmetta loro,
magari anche senza l'intenzione, alcune mie caratteristiche, ma io non
sono nè Anya, nè Charlie nè tanto meno
Mimi.
Però, mi piacerebbe un casino essere Charlie *-*
Grazie ancora Ladynotorius, è stata una fantastica
recensione, grazie davvero tantissimo <3
Ora, per chiarirvi un pò le idee sui personaggi di questa
storia, ho deciso di farvi vedere i modelli che li rappresentano.
"Modelli" perchè prima li ho creati su carta, poi ho cercato
qualcuno che potesse assomigliare loro. Non esiste la copia perfetta,
perchè Charlie, Anya e Mimi sono perfette solo nel mio cuore
e nella mia testolina.
Dopo ciò, ecco il capitolo u___u
19.
Unforgiven*
Da ormai più di venti
minuti erano chiusi nella sala
riunioni dell’appartamento di Amburgo, piuttosto stretta per
tutti loro, perchè
David stava tenendo loro un amabile discorsetto spaccanervi
sull’imminente
futuro dei Tokio Hotel, aggiornandosi di continuo con il suo fidato
BlackBerry,
che per i ragazzi sembrava emanare nel suo splendore un luccichio
alquanto
sinistro, simbolo di una sola cosa: lavoro. Questa volta,
però, la parola
lavoro era accostata ad un’altra molto più
piacevole: tour.
Durante quegli interminabili minuti a cui anche Anya era stata
costretta ad
assistere, la ragazza aveva dovuto combattere una battaglia ben
più snervante
che il discorso di David. Non c’era verso a farglielo capire.
Quella mattina, Tom era finalmente rientrato a casa Kaulitz dalla sua
serata
con Andreas e gli altri e aveva trovato prima Bill, seduto in soggiorno
a
guardare la televisione e poi Anya, appollaiata sul tavolo della cucina
con una
tazza in mano e Simone lì vicino; nonostante stesse morendo
di sonno, non potè
fare a meno di sorridere della scena, irritando la ragazza, che lo
aveva subito
fulminato con lo sguardo. Tom aveva alzato le mani come a dichiararsi
innocente
ed era scappato dalla cucina prima che sua madre iniziasse a fargli la
paternale, fiondandosi sul divano accanto a Bill. Anche il fratello si
era
irritato non poco davanti alla faccia del suo omonimo distesa in una
smorfietta
saccente e alquanto divertita.
Dopo alcuni minuti, in cui la faccia di Tom parve irrimediabilmente
essersi
congelata in quell’espressione per il resto dei secoli, Bill
aveva sbottato:
-Cos’hai da guardarmi così?-
Per tutta risposta, Tom aveva alzato due volte le sopracciglia
rapidamente,
facendo cenno con la testa alla porta chiusa della cucina; Bill aveva
sbuffato
sonoramente, prima di sciogliersi in un sorriso, troppo eccitato per
fingersi
sdegnato con il fratello per la sua scenetta irritante.
-Ebbene?- lo aveva incoraggiato Tom
–Com’è andata?-
Bill aveva preso fiato e poi aveva iniziato a raccontare tutto al suo
gemello;
tutto, tranne alcuni dettagli, fissi nella sua memoria, che mai e poi
mai
avrebbe condiviso a parole con lui, ma bastava la sua espressione beata
a
trasmetterli quasi come un fax alla mente di Tom, che si stropicciava
compiaciuto le mani.
-Ma quanto siete stati là sopra?-
-Quando siamo scesi, era già buio da un po’-
-Come prima volta con lei, va bene- si congratulò Tom
–tenendo conto del fatto
che ce ne saranno altre, no?-
-Credo proprio di sì!- annuì Bill, convinto.
-E lei come ha reagito?-
-Bene, come avrebbe dovuto reagire?- chiese il moro, un attimo
interdetto.
-No, va bè, intendo dopo, dopo il tutto, quando è
venuta in camera da te- si
spiegò meglio Tom, sbuffando.
-Non ha reagito, è stata normale- ci rifletté un
attimo Bill –Bè, ovviamente
dopo avermi dato dello scemo per non aver capito che nostra madre ci
aveva
scoperti, cosa di cui sono ancora convinto-
Tom si sistemò la visiera del cappellino, contrariato.
-Male- fu l’unica risposta che diede allo sguardo
interrogativo del fratello.
-Come male? Ma se non poteva andare meglio di così!-
esclamò Bill.
-Eppure certe cose dovresti saperle, caro mio, si vede che
l’amore ti ha un po’
annebbiato i ricordi: cosa fa ogni singola ragazza di questo pianeta
dopo il
sesso? Dopo le coccole e stronzate varie?- gli chiese il rasta, come se
stesse
ponendo una domanda particolarmente facile ad un alunno
nell’ora di storia.
Bill non gli seppe rispondere, beccandosi un’occhiataccia.
-Cerca conferme! E Anya non l’ha fatto- gli
ricordò Tom. Bill fissò il gemello,
capendo improvvisamente.
-Oh no- biascicò.
-Oh sì! E le conseguenze di ciò possono essere
molto varie, spero tu sia pronto
ad accettarle o chiuderla prima ancora di iniziare a crederci, capito?-
gli
spiegò Tom, funesto.
Bill non seppe rispondere neanche questa volta. Mezz’ora
dopo, ricevuta una
chiamata di David, i due gemelli e Anya, seduta sul sedile anteriore
della
Cadillac, raggiunsero il più discretamente possibile lo
studio di Amburgo per
ritrovarsi con gli altri. Appena oltrepassata la soglia, poterono
constatare i
danni della scorsa serata di baldoria: Georg aveva due grandi occhiaie
scure,
proprio come Tom; evidentemente, entrambi non avevano dormito molto
quella
notte. Gustav, invece, era come al solito sveglio e rilassato e, seduta
di
fronte a lui sul divano, c’era Natasha, con la chiara faccia
di chi aveva
passato ore a vomitare per la sbornia. La bionda beveva poco e
saltuariamente,
ma ci aveva pensato Tom a darle il drink di troppo e spedirla per tutta
la
serata nella terra di non ritorno degli ubriachi e ogni volta che la
ragazza
chiedeva se sapessero qualcosa di Anya e Bill, le veniva allungato
senza
sospetti un Martini in più. La storia che Tom aveva rifilato
a tutti quanti,
con complicità di Andreas, era che suo fratello si era
sentito poco bene e Anya
non era venuta con loro perché non ne aveva alcuna voglia.
Nell’attesa che David e Dujna li raggiungessero nello studio,
i sei ragazzi si
erano piazzati davanti alla televisione e lì era iniziata la
lotta di Anya: per
prima cosa, dopo aver salutato la cugina con un abbraccio, aveva dovuto
raccontarle che si era fermata a casa Kaulitz perché nessuno
le aveva potuto
dare un passaggio fino in stazione ed era per quello che era arrivata
con i
gemelli, che non si facesse delle strane idee. Aveva adottato un
sorriso di
circostanza mentre raccontava con aria innocente alla cugina la sua
versione
dei fatti, ma lo stomaco le si era attorcigliato dolorosamente nel
fingere.
Era questo il suo problema: ne era capace, ma le faceva male farlo.
Quella
notte, addormentata accanto a Bill con un suo braccio sullo stomaco, si
era
svegliata di colpo e non era più riuscita a prendere sonno,
le conseguenze
delle sue azioni che si erano fatte prepotentemente spazio nella sua
coscienza.
Alle due di notte, sveglia, con gli occhi spalancati che guardavano il
soffitto, aveva realizzato quello che era successo: era andata a letto
con
Bill, se l’era scopato di brutto, porca puttana. Eh
sì, si era scopata l’oggetto
dei desideri di sua cugina e le era anche piaciuto farlo, non se ne
pentiva
minimamente.
Però, era sua cugina. E lui era solo Bill.
Urgeva una soluzione e anche in fretta, per l’amor del cielo,
altrimenti il suo
grillo parlante non l’avrebbe più lasciata vivere
in pace, facendole pesare
quella scopata come l’errore più grande della sua
vita e non le sembrava
proprio il caso. Doveva solo fingere, fino a nuovo ordine e sarebbe
andato
tutto bene.
Tom aveva preso posto sul divano accanto alla truccatrice e Bill e Anya
erano
stati costretti a sedersi vicini sull’altro divano, in
compagnia di un composto
Gustav che faceva zapping fra i canali; trovato quello che poteva
interessargli, il biondino aveva appoggiato la testa sulla mano e si
era perso
fra i pixel del grande schermo. A poco a poco, la stupida telenovelas
che il
batterista si era messo a seguire aveva catturato
l’attenzione di tutti che,
automaticamente, si erano girati verso il televisore e stavano
assimilando
piano piano la storia a forza di flashback dei personaggi. Bill si era
accomodato sul divano, accoccolandosi vicino ad Anya per poter
allungare le
gambe sul sofà e aveva portato una mano oltre il cuscino
dietro le sue spalle.
La ragazza era rimasta immobile ed indifferente, almeno fino a quando
non aveva
sentito la testa di Bill posarsi sulla sua spalla e il suo braccio
scenderle
lungo la schiena, dietro di lei. Si era subito scostata con
un’occhiata di
rimprovero al ragazzo e si era allontanata da lui, cercando di fargli
capire
con lo sguardo che non era proprio il caso che si facessero vedere da
tutti.
Bill le aveva lanciato uno sguardo sconsolato e poi si era di nuovo
raddrizzato, stringendole per un attimo la mano. All’arrivo
di David, i sei
ragazzi avevano dovuto spegnere la televisione e seguirlo nella sala
riunioni e
lì, Anya aveva passato venti minuti ad intimare a Bill
sottovoce di spostarsi
un po’ con la sedia, evitare di toccarle la schiena o la
gamba con una mano e
di crollarle addosso addormentato, approfittando del fatto che il
discorso del
manager stava annoiando tutti.
-Bene, come voi sapete, ora inizierà il tour- era finalmente
arrivato a dire
David, dopo aver parlato senza sosta dell’America, dei suoi
progetti andati a
buon fine e blablabla. Con la parola tour,
riuscì a conquistare l’attenzione di tutti i
presenti, che si raddrizzarono
sulle sedie e cacciarono il sonno con uno scossone deciso del capo. Per
la
centesima volta, Bill spostò la sedia verso Anya, in maniera
talmente
impercettibile che nessuno poteva accorgersene, nessuno tranne lei che,
esasperata, scattò in piedi come una molla al grido di: -Chi
vuole un caffè?-
Tutti la trovarono un’idea magnifica, grazie Anya, fecero le
loro ordinazioni,
chi il cafè, chi un bicchiere di Coca-Cola, e la ragazza si
precipitò verso la cucina,
tirando il fiato solo alla vista del fornello sporco davanti a
sé; ci si
appoggiò con entrambe le mani e prese a dare testate sulla
credenza lì sopra.
Il rumore arrivava fino alla sala dove erano riuniti gli altri, ma
nessuno ci
fece caso, a parte Bill, che lanciò un segnale
d’allarme al fratello con un
calcio sotto al tavolo, ottenendo in risposta solo uno scuotere del
capo
indefinito.
Anya trovò la caffettiera grande e la scatola del
caffè dopo aver cercato in
ogni sportello; riempì d’acqua il contenitore e, a
cucchiaini, sistemò la
polvere di caffè nera ed intensa nella caffettiera, per poi
chiuderla e
metterla sul fuoco. Ci mise cinque minuti a bollire e spandere il suo
profumo
per tutta la cucina; durante quel tempo, Anya non seppe far altro che
camminare
avanti e indietro, dalla porta al forno, misurando la cucina con i suoi
passi
lunghi e nervosi. Un goccio di caffè scappò con
uno sbuffo dal beccuccio di
acciaio prima che si accorgesse che doveva spegnere il fuoco, o la
cucina
sarebbe stata inondata di caffè bruciacchiato.
Tirò fuori le tazzine e si mise
a cercare lo zucchero, che sembrava essersi volatilizzato nel nulla; di
solito,
non lo riponevano neanche in un contenitore, ma lo lasciavano nella sua
confezione, così come il sale e la farina, se riuscivi a
trovarli. Sì, erano
là, li aveva visti: sull’ultima mensola della
credenza. Ovvio, quella a cui le
non arrivava neanche con i trampoli; ci tentò, per la
verità, ma sedie su cui
salire non ce n’erano, erano servite per sedersi tutti in
sala e quella era
l’unica credenza volante, senza alcun bancone sotto. Per una
volta, Anya
maledisse la sua statua e quello che i tacchi non potevano fare; si
affacciò
alla porta, urlando in corridoio: -Qualcuno venga ad aiutarmi a
prendere lo
zucchero!-
Iniziò a versare il caffè nelle tazzine,
improvvisamente calma; sapeva che
sarebbe venuto lui, era inevitabile, maledetta cucina. Lo vedeva
già, alzarsi e
dire –Vado io- con un sorriso mal celato, cercando
l’approvazione del fratello.
Attese ancora poco, con la schiena volutamente rivolta alla porta; non
si girò,
continuò a versare il caffè, mentre Bill, appena
entrato, recuperava senza
difficoltà lo zucchero e si avvicinava a lei per
porgerglielo. Lo posò sul
tavolo, vicino alla caffettiera e, dopo aver inumidito
l’indice, lo immerse nei
granelli dolci, portandoseli alla bocca. Anya gli fece cenno con il
capo al
cassetto dei cucchiaini che lui, mansueto, andò a prendere.
Svolta anche quella mansione, Bill si avvicinò di nuovo alla
ragazza che,
nonostante cercasse di non farlo, si trovò costretta a
rivolgere la sua
attenzione dalla bottiglia di Coca-Cola appena presa dal frigorifero, a
quel
viso chiaro e stranamente tranquillo, senza risparmiarsi un sospiro e
un’occhiata di rimprovero mal simulata.
Bill sorrise divertito del broncio della ragazza e poi le prese il viso
tra le
mani, aggredendola con un bacio, da cui Anya cercò di
staccarsi, ma senza
successo.
-Bill…- lo avvertì, mordendogli il labbro per
tentare di allontanarlo. Come
risposta, ottenne solo che il ragazzo riuscisse ad oltrepassare la
barriera
bianca dei suoi denti ed invaderle il palato, leccandolo con
l’ausilio di quel
suo gelido piercing. Vinta, Anya si avvicinò di
più e si aggrappò al collo di
Bill con entrambe le braccia, mentre il ragazzo si impossessava del
tessuto
della sua gonna. Tenne gli occhi aperti per un po’, fissi
sulla porta,
all’erta, ma le palpebre rapite cominciavano a chiudersi da
sole
inesorabilmente, intimandole di concentrarsi su qualcosa di
più importante di
un corridoio.
-Ehm, ehm- li interrupe una voce roca alle loro spalle, facendoli
staccare di
colpo; il cuore di Anya iniziò a martellare impazzito per lo
spavento, saltando
parecchi battiti e si tranquillizzò solo quando
riuscì a focalizzare la faccia
di Tom sotto uno dei suoi soliti berretti. Tirò un sospiro
di sollievo.
-Per quanto mi ecciti l’idea di vedervi scopare sopra il
tavolo della cucina,
sono venuto ad avvertirvi che di là aspettano il
caffè- annunciò loro Tom,
prendendo in mano due delle quattro tazzine posate sul ripiano
–E si chiedono
che fine avete fatto-
Bill guardò allarmato il fratello, imitato da Anya, ma Tom
li rassicurò con lo
sguardo.
-No, nessun sospetto, ma dovreste fare più attenzione e
ringraziare del fatto
che sono venuto io ad avvertirvi; poteva venire qualcun altro- fece
loro
presente Tom, dirigendosi verso il corridoio con le tazzine.
Anya respirò
profondamente, guardando Bill mandare
sottovoce a fanculo suo fratello.
-No, Bill, ha ragione- lo ammonì, staccandosi dal suo
abbraccio e prendendo il
vassoio con le altre tazzine e la Cola-Cola –Aspettami qui,
dobbiamo parlare-
E Bill l’aspettò lì, vedendola uscire
dalla cucina con la gonna che le sbatteva
sul ginocchio, ondeggiante e ammaliatrice,
l’aspettò senza far nulla, in
verità, senza chiedersi nulla, anestetizzato
dall’aria pacata della cucina. Al
suo ritorno, Anya si sedette sul tavolo, in silenzio.
-Ho detto agli altri che sei in bagno e che venivo a ripulire la
cucina- gli
spiegò, dondolando le gambe. Bill annuì e
aspettò.
-Ti ricordi quello che ti ho detto sulla casetta a proposito di
Natasha?- gli
chiese la ragazza; Bill annuì di nuovo –Non deve
saperlo, nessuno deve saperlo,
né lei, né Georg, né
nessun’altro-
-In pratica dobbiamo fare finta che non sia mai successo niente-
l’assecondò
Bill, contrariato, cominciando a capire davvero quello che suo fratello
aveva
voluto dirgli.
-Io, ecco… sì. Sì Bill, io non posso
dire a mia cugina che ho scopato con il
ragazzo che le piace e tu non puoi dirlo a Georg. Andrebbe tutto a
puttane! Non
possiamo dirglielo così!-
-Sì che possiamo. Non abbiamo fatto niente di male Anya,
capiranno e lo
accetteranno; tenerglielo nascosto peggiorerà solo la
situazione- cercò di
convincerla Bill, mostrandole l’altro lato della medaglia.
-Natasha non mi parlerà più, tu litigherai con
Georg e l’armonia della band
andrà a farsi fottere e per cosa? Per me, ti senti di
litigare con uno dei tuoi
migliori amici, nonché membro della tua band, per me?- gli
chiese Anya,
sollevando un sopracciglio.
-Sì!- rispose d’impeto Bill.
-No Bill, no. Non possiamo dirglielo così, metterli davanti
al fatto compiuto e
dar loro un ultimatum, o lo accettate o ve ne andate a fanculo- scosse
il capo
Anya –Sono già in troppi a saperlo-
-Lo sa solo Tom-
-E tua madre e lo scoprirà anche David. Dovremmo dirglielo
secondo te?-
Bill non rispose, cominciando ad entrare nell’ottica del la
ragazza: erano
tutti contro di loro, tutti.
-No- le rispose –so già che non ce lo
permetterebbe. Tirerebbe fuori che ho la
mia carriera a cui pensare e che averti vicina ventiquattro ore su
ventiquattro
mi distrarrebbe- conosceva bene il suo manager, Bill.
-Capisci?- Anya scese dal tavolo, prendendo il viso del ragazzo tra le
mani
-Non voglio rovinare qualcosa in cui credo. E’ strano-
aggiunse poi -non ci
siamo mai potuti sopportare, tu troppo star, io troppo Anya-
-Io è da quando ho sedici anni che penso a te, scema- le
fece presente Bill,
facendola sorridere.
-Per quanto riguarda Nati, ci parlerò, chiarirò
tutto. E anche con gli altri,
poco a poco chiariremo e andrà bene- annuì Anya.
-Ok-
-Ok?- Anya stampò un bacio sulle labbra dolci del ragazzo,
guardandolo di
nuovo.
-Sì, ok- la baciò a sua volta Bill.
Tornarono nella sala riunioni silenziosi e discreti e si risedettero ai
loro
posti mentre David poggiava la tazzina del caffè sul
piattino e si puliva i
baffi con un tovagliolino.
-Bene, ora che anche il nostro vocalist è tornato, parliamo
seriamente di
questo tour- annunciò, incrociando le braccia al petto
–Dunque, come sapete
abbiamo aggiunto altre date e la prima sarà il 3 marzo, a
Bruxelles, sold out.
Io e gli altri produttori abbiamo preso una decisione
all’ultimo minuto e ci
scusiamo di farvela avere così in ritardo: la scaletta, per
quanto riguarda i
Paesi in cui è uscito Scream,
sarà in inglese-
Bill soffocò nel suo bicchiere di Coca-Cola.
-Cosa?- esclamò con voce strozzata.
-Ve ne avevo già accennato, per promuovere l’album
in inglese dovrete cantare
in inglese-
-Ma, ma le nostre fan ci conoscono in tedesco, io credevo che avremmo
cantato
in tedesco!- esclamò ancora Bill.
-Allora Bill, ascoltami bene: abbiamo deciso, quando è
uscito Scream,
che avremmo fatto di tutto per conquistare il mondo e il mondo non
può essere
conquistato in tedesco. L’inglese è la lingua
della musica-
-Non la mia! E poi continui a dire “conquistare,
conquistare”, non dobbiamo
fare la guerra a nessuno!- protestò il ragazzo, esasperato.
-No, hai ragione, ma così stanno i fatti e li devi
accettare: anche in Europa
canterai in inglese. E’ questa la nuova faccia che io e gli
altri produttori
vogliamo dare ai Tokio Hotel e prima vi abituerete, meglio
sarà- gli tarpò le
ali David.
-Immagino sia una questione di marketing- sentenziò Gustav,
esprimendo a parole
quello che anche gli altri volevano dire.
-E’ soprattutto una questione di coerenza: ci siamo fissati
un obbiettivo,
anche voi ragazzi e ora lo dobbiamo portare a termine. E’ lo
Scream Tour
questo, il tour per l’album Scream-
-E' il 1000 Hotels Tour- protestò Bill -Non sono pronto a
cantare in inglese-
-Sì che lo sei, in America non hai fatto altro e poi avrai
tutto il tempo che
vorrai per provare, in questi giorni faremo le prove generali, a Lipsia-
Bill fece per protestare di nuovo, ma un’occhiataccia di
David lo mise a
tacere. Doveva solo accettare il fatto che avrebbe di nuovo cantato con
la sua
pronuncia orribile e la sua “r” mal riuscita. Ma
forse era un bene: era
importante, adesso, imparare l’inglese, altrimenti non
avrebbero più potuto
rimanere al passo con i tempi che la loro carriera stava prendendo.
Si rassegnò, mentre David faceva passare loro il foglio con
la scaletta
provvisoria.
-On the Edge la voglio prima di Ready Set, Go!- pattuì subito
Tom,
appena presa visione della lista. David gli rispose con un gesto vago.
-Abbiamo mantenuto il più possibile le indicazioni che ci
avete dato-
-Sì, ma On The Edge va
prima di Ready, Set, Go!- gli
ricordò ancora il
chitarrista.
-Sì, va bene Tom- si arrese David, per metterlo a tacere
–Ah, un’altra cosa:
nelle date in Germania e Francia, le canzoni saranno in tedesco-
-Ah no eh! O tutte in tedesco o nessuna!- scattò in piedi
rumorosamente Bill,
puntando un dito contro il manager, contrariato.
-In Francia e in Germania non è uscito Scream-
iniziò a spiegargli
David, ma il ragazzo non gli diede modo di continuare.
-Così le fan penseranno che facciamo preferenze!-
esclamò.
-E’ ora, Bill, che pensi un po’ di più a
quello che si deve fare e non a quello
che le fan potrebbero pensare!- lo ammonì David.
-Ma quale artista pensa così? Le fan sono al primo posto in
queste faccende-
David sospirò, sconsolato, massaggiandosi una tempia con la
mano.
-Bill, così è e prima te lo fai entrare in testa,
meglio è. Andrà tutto bene,
capisco che siete eccitati e in ansia, ma tirare fuori il panico non mi
sembra
il caso, non è il primo tour e non sarà neanche
l’ultimo- mise fine alla discussione
il manager –E adesso siediti, che abbiamo anche altro su cui
discutere-
-Sì, infatti- si intromise questa volta Gustav. David lo
guardò un attimo
interdetto, non capendo cosa volesse dirgli il biondino.
-Dobbiamo trovare un posto a Mimi- annunciò questo, pacato.
Il manager alzò gli occhi al cielo: -No, anche questa storia
no!-
-Sì, invece-
-Non possiamo portarcela dietro, Gustav! Abbiamo un capitale contato e
le
nostre spese non possono oltrepassarlo, ci sono delle regole e una
tabella di
marcia. Quella ragazza non ne fa parte, non c’entra niente-
-Ed è qui che ti sbagli: per i soldi, non
c’è alcun problema, se è solo per
questo, sono abbastanza ricco da potermi permettere di mantenerla, se
è il
caso. Non la lascio qui in Germania-
-Un momento- si intromise Anya, confusa –Chi è
Mimi? Perché io non so mai
queste cose?-
Si era decisamente persa qualche passaggio. Gustav la guardò
un attimo
stranito, prima di ricordarsi che lei non l’aveva conosciuta
e non c’era stato
modo di parlargliene da quando si erano visti. Fece per aprir bocca e
iniziare
a spiegarle, ma Nat lo precedette, prendendo da parte la cugina e
dicendole che
le avrebbe raccontato tutto dopo.
-Comunque, non c’è niente di cui discutere Gustav,
non può venire- rincarò la
dose David, categorico.
-Non c’è niente di cui discutere perché
lei viene, punto e stop- ritrattò il
biondino, cocciuto. Il manager non si era di certo aspettato una
reazione
simile dal pacato batterista della sua band.
-Ma, è incinta e…- tentò di
argomentare ancora.
-Questi sono affari nostri, voi non siete coinvolti. Posto sul tourbus
ce n’è e
una persona in più non ci manderà in bancarotta.
Inoltre, può sempre aiutare
Anya nei suoi compiti; è una ragazza abituata a lavorare per
vivere, non se ne
farà alcun problema- Gustav lanciò uno sguardo
supplichevole alla loro tata,
perché lo appoggiasse e Anya colse subito la chiamata, un
attimo sorpresa del
fatto che il batterista avesse una nuova ragazza da così
poco e questa fosse
già incinta.
-Sì David, chiunque sia, può darmi una mano, non
sarà di alcun disturbo, anzi,
si renderà utile-
Il manager sospirò ancora.
-Va bene, ne riparliamo, ma per ora è un sì-
capitolò alla fine, per la gioia
di Gustav, che ricevette una pacca amichevole da Georg per il buon
esito della
missione.
-Bene, direi che la riunione è conclusa-
sentenziò Tom, spazientito da tutte
quelle chiacchiere e ben deciso a concedersi un’ora
rilassante davanti alla
Play Station –Chi viene a giocare a Tekken 5?-
Georg alzò una mano, offrendosi volontario e
scattò rapido verso il soggiorno,
seguito con qualche difficoltà dall’amico. Anche
Anya fece per alzarsi e
raggiungerli, era un mostro a quel gioco, ma Natasha la
fermò.
-Senti Nani, io oggi vado dal parrucchiere, ho l’appuntamento
pre-tour, sai
com’è- rise –Ti va di venire a farti
dare un’aggiustatina ai capelli?-
Anya annuì, sorridendo.
-Certo. Ah, Gustav!- chiamò il batterista, che stava
lasciando la sala con un
sorrisone stampato in viso –Chiedi a Mimi se le va di venire
dal parrucchiere
con noi questo pomeriggio, così la posso conoscere-
-Molto volentieri, grazie mille Anya- le sorrise il ragazzo, annuendo.
Alla prossima, grazie a tutte
quelle che hanno inserito la mia storia in preferiti *-*
*song dei Metallica
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Capitolo 20 *** The Unforgiven II ***
Arieccola con il capitolo 20. Finalmente, direte! (almeno spero XD)
Lady, ti tocca rileggere se hai già letto il seguito,
perchè l'ho aggiornato, mi sembrava incompleto senza la
parte che poi ho effettivamente aggiunto. Sono anche io della tua
opinione riguardo Anya, ma lei è fatta così
purtroppo e quindi dobbiamo beccarci questi scontri ancora per un
pò. Piacerebbe anche a me che prendesse Bill e se lo
slinguasse sotto gli occhi di sua cugina per poi mandarla a fanculo, ma
tiene troppo a lei per farlo, anche se questo comporta la sua e la
sofferenza di Bill. Grazie anche a Tomsimo e miss hiphop, mi fa sempre
piacere trovarvi tra le recensitrici <3
20.
The Unforgiven II
Ciao a tutti, sono ancora io, Tom.
Oggi è il nostro il ultimo giorno a New York. Domani
torneremo in Germania per le prove del nostro Tour europeo. Inizieremo
il 3 Marzo a Bruxelles (che è in Belgio), quindi abbiamo
bisogno di prepararci.
WOW il viaggio in Nord America è stato pazzesco. Prima siamo
rimasti intrappolati a Toronto a causa di un’enorme
quantità di neve, e ci sono voluti due giorni per arrivare a
L.A.! Dopo, ce l’abbiamo fatta per un pelo a New York
perché il nostro aereo ha avuto problemi tecnici –
è davvero poco divertente passare tre giorni in aeroporto
accanto a Georg (non ha decisamente un buon odore) ;-)
Ma dopo questo – parliamo delle cose belle! Siamo stati
completamente sopraffatti da tutti voi fans. È stato
così incredibile vedere come eravate pompati ed
eccitati…ci avete fatto sentire a casa, specialmente me! A
paragone con gli altri membri della band, ho avuto tonnellate di numeri
di telefono dalle ragazze più belle ;-) Quindi
fondamentalmente, non vedo l’ora di tornare. Per la prossima
volta: forse tutte voi potete pensare di dare una
possibilità anche agli altri membri della band.
Questo è tutto per oggi – GRAZIE di tutto e ci
vediamo presto!
Tom
Non era con quello spirito che Mimi aveva lasciato New York; non era
rimasta bloccata in nessun aeroporto, nonostante il volo che lei e
Charlie avevano preso per andare da Martha a Los Angeles fosse in
ritardo, né aveva ricevuto milioni di numeri di telefono,
cosa che non valeva neanche per Tom, perché
l’unico numero di cui gli importava non sarebbe servito a
niente, né era stata sommersa da fan eccitante; in compenso,
però, era stata malmenata al Lost Heaven e aveva litigato
con la sua migliore amica, andava bene lo stesso? Decisamente, si era
lasciata dietro più cose cattive che buone.
Non era nata a New York, ma lì aveva vissuto fin da quando
poteva ricordare e ricordava grattacieli e strade e poi vicoli, locali
e anche la scuola di periferia che aveva frequentato; andare a scuola
le piaceva, era anche abbastanza brava, soprattutto in matematica e
partiva avvantaggiata nel corso di tedesco, la lingua che parlava il
papà di Martha, nonché suo padrino e unico
barlume di genitore che avesse mai avuto. I suoi erano morti quando lei
era molto piccola, o almeno così le avevano raccontato, ed
era tutto ciò che sapeva; da bambina fantasticava spesso,
come ogni orfano, su chi potessero essere i suoi genitori, re e regine
di qualche regno lontano, maghi o artisti del circo. Non che si
trovasse male con Martha, per cui provava un forte affetto, e i suoi
genitori, Frank e Sophie; solo, non accettava di essere figlia di
nessuno. A sedici anni aveva lasciato la scuola per lavorare in un
caffè, uno di quei tipici locali da film americano dove
dovevi indossare una divisa ridicola e girare con il bricco del
caffè caldo tra i tavolini dei clienti. Lì aveva
conosciuto Charlie, o meglio, la versione decisamente più
piccola ed innocente di quella che era diventata. All’inizio,
non capiva proprio cosa ci facesse una ragazzina come lei in un posto
tanto anonimo come quello: era la principessa che lei non era mai
stata. Superba e piena di maestà, non dava confidenza a
nessuno e per lei eri come invisibile, troppo concentrata su di
sé o sui suoi problemi per percepire
qualcos’altro. Mimi era riuscita per forza di cose a starle
simpatica, erano coetanee e, soprattutto, era l’unica a che
non le continuava a chiedere informazioni sul suo passato, che solo la
proprietaria del locale conosceva e che si sarebbe poi portata nella
tomba.
Il suo vero nome, Charlotte Dawson, se lo dimenticarono tutti molto
presto e lei diventò solo Lotte; anche i bei capelli color
del miele, luminosi e lunghi fin oltre il sedere se li dimenticarono
non appena la ragazza decise di tenerli più corti e lavarli
solo quando capitava. E pure gli orecchini, che sì,
sembravano proprio diamanti e i vestiti, di stoffa nuova e pregiata,
sparirono . Disse che li aveva venduti per comprare una casa in nero,
cosa non tanto difficile in quella città di mafie ed
inganni, ma il fatto che fosse riuscita a trovarla poco distante dal
centro faceva davvero pensare al valore di quegli orecchini; era solo
un garage, alla fine, ma era suo, con anche i mobili indispensabili, la
corrente elettrica, il frigorifero e il fornello a gas.
A sedici anni, Charlotte era piccola, piatta ed infantile; un anno di
quella vita lontana dalla presunta casa da dove era probabilmente
scappata, l’aveva fatta crescere di una buona spanna, le
aveva colorito la pelle prima bianca come la neve, le aveva arrotondato
i fianchi e cresciuto il seno, che ora teneva stretto in una taglia di
reggiseno più piccola per cercare di nasconderlo ai clienti
che cominciavano a guardarla troppo insistentemente. Poi un giorno
aveva capito che le sue tonde e giovani morbidezze erano un vantaggio,
non una vergogna, e aveva iniziato a dare loro il giusto valore.
L’amicizia tra le due ragazze era cresciuta fino a renderle
indivisibili; quando Martha e i suoi genitori si erano trasferiti
vicino a Los Angeles per un’importante offerta di lavoro a
cui Frank, vista la loro condizione sociale, proprio non aveva potuto
rifiutare, Mimi si era trasferita per qualche periodo da Charlie;
quando l’amica era andata a farsi tatuare sull’osso
sacro, ben nascosta, una rosa rossa che solo i più fortunati
avrebbero visto, Mimi l’aveva seguita ed aveva ceduto al
tanto sospirato piercing al labbro, quel sottile cerchietto di metallo
che conferiva al suo sorriso qualcosa di magnetico ed invitante.
Insieme si erano anche fatte la prima sbornia e la prima dose; avevano
vomitato e delirato insieme, rischiando di farsi investire e finendo
nelle braccia sbagliate a farsi amare di un amore storto. La droga non
le aveva intrigate tanto, solo quando veniva loro offerto fumavano
qualcosa insieme, se i tempi lo permettevano, chiaramente. La sciocca e
candida Mimi, da Biancaneve, si era trasformata nella mela avvelenata,
trascinata dalla corrente impetuosa in cui si era trasformata Lotte; ma
quel candore, ben celato dagli occhi truccati e la disinvoltura
imparata a copione, persisteva ancora.
Per quelle strade buie e nascoste, erano arrivate fino al Lost
Heaven, un locale malfamato che sarebbe diventato
“il locale”, scenario epico per tutte le loro
avventure: l’incontro con Nafee, un bambino storpio e
spaventato, nuova attrazione di quel pazzo del proprietario del locale,
che lo teneva incatenato ad un muro; Charlie aveva tentato di
avvicinarlo e lui le aveva morso una mano, lasciandole una piccola
cicatrice. Di conseguenza, la relazione malsana che la ragazza aveva
condotto per un certo periodo con il proprietario, al solo scopo di far
liberare quello sventurato. C’era riuscita. Poi il taglio
radicale di capelli di Mimi che, risvegliatasi da una notte di sesso,
aveva scoperto che il suo amante era un pazzo collezionista che le
aveva tagliato la chioma per la sua raccolta e anche le foto che si
erano fatte fare per pubblicizzare il locale, truccate pesantemente e
coperte solo dalle chitarre e i bassi della band che suonava piuttosto
frequentemente al Lost Heaven, covo di metallari. Avevano apprezzato
quella musica con il passare del tempo e la cosa era stata inevitabile,
le loro orecchie avevano imparato da sole ad amare lo stridere di
chitarre e il picchiare duro di batteria, le voci demoniache e solenni.
Charlie era riuscita a cantare per qualche tempo con la band,
guadagnando piano piano i soldi per il loro ultimo viaggio a Los
Angeles in visita all’ormai cresciuta Martha.
Il capolinea era stata la sua ultima avventura: il bambino. E la scelta
di seguire Gustav, lasciandosi alle spalle Lotte, troppo libera per
farsi catturare da un Tom qualsiasi, troppo forte per capire la
fragilità di questo, troppo superiore per abbassarsi al
livello dei comuni mortali. Troppo stupida, per non aver sentito
né immaginato.
Ma Mimi non si era affatto disperata, il loro litigio non aveva
lasciato alcun segno visibile: non sapeva quando, ma la sua illimitata
fiducia nel destino e in quella amicizia di sangue le assicurava che la
loro storia non era ancora finita e, dietro un qualsiasi angolo, il
più improbabile, l’avrebbe ritrovata.
Ora, aveva altro a cui pensare. Per esempio alla ragazza che Natasha le
stava presentando, nell’ingresso dell’appartamento
della sorella di Gustav dove Mimi era scesa per
l’appuntamento. Aveva i capelli lunghi più o meno
come Charlie quando l’aveva conosciuta, ma castani e non
molto in ordine. La circondavano come un mantello, sfiorando lo
spolverino color crema sopra all’abito invernale fiorato e
allegro che indossava. Erano più o meno alte uguali, ma la
sua postura e forse anche il modo in cui teneva la testa la facevano
sembrare più alta; la guardava con curiosità e
notò anche che i suoi occhi, verdi ed indagatori, correvano
spesso alla sua pancia neanche a malapena accennata, senza imbarazzo.
-Anya, piacere- si presentò, tendendole una mano appena
sguantata che Mimi sfiorò con un po’ di titubanza;
la stretta con cui però la ragazza le catturò il
palmo le infuse coraggio.
-Mimi- le sorrise.
-Ok, Saki ci sta aspettando di fuori e siamo già piuttosto
in ritardo- annunciò Natasha, pilotando le due ragazze verso
l’uscita e dirigendosi incontro al macchinone nero
parcheggiato davanti al palazzo. Salutarono la sorella di Gustav
affacciata al balcone e salirono sui sedili posteriori della vettura.
-Ciao Mimi- le rivolse la parola Saki, prima di accendere il motore ed
immettersi nel traffico scorrevole della via. Il tono di Saki era
sempre un po’ brusco e spiccio, ma quella era stata la prima
a cosa a cui la ragazza si era abituata. Doveva ancora fare i conti con
le paranoie di David, i difetti sconosciuti dei ragazzi, la vita da
artista e l’amicizia con Nati e Anya; c’era
decisamente da impegnarsi, era fatta così: se voleva stare
bene, doveva fissarsi degli obbiettivi e in quella nuova vita ne aveva
parecchi, ma la voglia di raggiungerli, stranamente, le risollevava la
giornata.
-Allora- cominciò Anya, riscuotendola dai suoi pensieri e
lisciandosi la piega del vestito –come mai sei incinta di
Gustav?- le chiese schietta. Natasha le tirò una botta sulla
spalla, ammonendola con lo sguardo.
-Anya!- esclamò.
-Che c’è? Voi sapete tutto ed io niente, non
è giusto!- si lamentò questa, girandosi verso una
Mimi un po’ imbarazzata e pentendosi immediatamente di
quell’improvvisata alla Bill. Oddio, ecco gli
effetti collaterali, pensò con un attimo di
orrore, prima di scusarsi con la ragazza per il suo poco tatto; ma se
lei aveva imparato a convivere con la verità, allora anche
gli altri dovevano farlo.
-No, tranquilla- la rassicurò Mimi –sembra giusto
anche a me che tu non rimanga la sola all’oscuro di tutto.
Non sono incinta di Gustav, fino a qualche giorno fa non lo conoscevo
neanche-
Anya tirò un sospiro di sollievo e si accomodò di
nuovo sul sedile, ora meglio disposta ad ascoltare la storia della
ragazza; l’idea che fosse stata incinta di Gustav non le era
andata per niente a genio, per un motivo che neanche si sapeva
spiegare. Forse istinto di protezione per l’amico: avere un
figlio a vent’anni e per di più con la vita che
conduceva lui non era l’idea migliore al mondo.
-Sono rimasta incinta del mio direi ex-ragazzo, anche se la definizione
non è propriamente esatta- continuò Mimi, non
sapendo come altro spiegare alla ragazza la sua situazione. Infatti
Anya le lanciò uno sguardo indagatore, incitandola a
proseguire.
-Bè, diciamo che era il ragazzo che frequentavo e, per
errore mio, temo, sono rimasta incinta; sono passati già due
mesi, ma ho trovato il coraggio di dirglielo solo qualche sera fa. Non
l’ha presa molto bene, come già immaginavo; invece
non immaginavo che sarebbe arrivato al punto di picchiarmi. Mi sono
difesa come ho potuto e poi lui, ubriaco com’era, mi ha
lasciata perdere e se n’è andato. A quel punto, ho
ricevuto una chiamata da Tom; ero stordita, spaventata, avevo vomitato
e pianto fino a stordirmi, non capivo più niente, ma sono
riuscita a dirgli di venirci a prendere-
-Venirci?- corrugò la fronte Anya.
-Sì, Lotte ed io- spiegò Mimi.
-Lotte?-
-Bè, in verità, Tom la chiama Charlie, si
conoscevano già da un po’; è la mia
migliore amica e quella sera aveva preso della roba, forse delle
pasticche, non so, ci siamo perse di vista. E quindi non so neanche
come Tom abbia fatto a trovarla; Gustav è venuto a
prendermi, mi ha portata fuori dal locale e poi all’hotel. Ho
passato il resto della notte a raccontargli la mia storia e
lui…- Mimi si bloccò, presa dalla commozione del
ricordo. Anya le sorrise, mettendole una mano sulla spalla.
-Gustav è sempre stato così, infinitamente buono.
Sono davvero contenta che ti abbia trovata. Ma Charlie?-
-Non ha voluto venire- mormorò Mimi, ricambiando il sorriso
di Anya con una smorfia amara.
La ragazza stava facendo un rapido excursus della
sua memoria: quel nome non ricordava di averlo mai sentito. Possibile
che quel chiacchierone di Tom, sempre pronto ad urlare ai quattro venti
le sue conquiste, non avesse mai parlato a nessuno di lei? E questo la
portava solo ad una conclusione: non gliel'aveva data. Rise tra
sé e sé a quel pensiero, vedendosi Tom steso a
terra, schiacciato dal piede di un’immaginaria Charlie che
sì, lo aveva battuto. Non voleva chiedere altro a quella
povera anima di Mimi, scuoterle i ricordi ulteriormente non le sembrava
molto salutare per i suoi nervi, quindi per il resto del viaggio se ne
stette zitta ad ascoltare i discorsi dell’americana con la
cugina e a pensare a questa ipotetica vincitrice di nome Charlie.
Sicuramente era un dimuntivo, stava per Charlotte. Forse era per colpa
sua che in quei giorni Tom aveva un’aria più cupa
del solito; ma quando poteva mai averla conosciuta? Mimi aveva detto
che si conoscevano già da un po’, probabilmente
dal loro primo viaggio in America. Sgranò gli occhi, colta
da un’illuminazione: la lavanderia, Tom era sparito e
l’aveva lasciata sola. Ecco cos’era successo, aveva
conosciuto questa Charlie! E il ricordo del viso di Tom nel dirle:
-Forze superiori, Anya San- non potè che confermarglielo.
Mascalzone!, rise piano. Gli avrebbe rotto le
scatole a vita per quella storia, gliel’avrebbe tirata in
ballo fino alla nausea; decise che quella Charlie le era simpatica a
priori.
Il parrucchiere di Natasha si chiamava Oliver ed era uno dei
più famosi nella vecchia e cara Amburgo: il suo
“studio di creazione” era in un attico in centro,
al nono piano, con l’ascensore che funzionava un giorno
sì ed uno no. Era arredato con un perfetto stile
Bohémien: poltrone rosso carminio di velluto, parquet lucido
e ovunque specchi con cornici dorate che riflettevano con un abile
trucco la luce che proveniva dalle grandi finestre. L’unica
cosa che stonava con tutta quella eleganza era appunto lui: vestiti
neri sempre stracciati e scarpe spaiate, viso incipriato di bianco e
capelli incredibili. L’ultima volta che Anya
l’aveva visto, aveva i capelli lunghi fino alle spalle, un
grande ciuffo da un lato e una cresta a sole dietro la nuca, tinta di
arancione brillante. Dopo aver schiacciato cento volte il tasto
dell’ascensore e averlo convinto a pedate ad aprire le porte
per portarle con scossoni poco rassicuranti fino al nono piano, Anya
potè constatare che la fantasia del ragazzo non era di certo
scemata in quei mesi di lontananza: una fascia multicolore tratteneva
indietro i nuovi rasta multicolori che aveva fatto da un lato e la
criniera selvaggia verde smeraldo dall’altra. Questa volta
era vestito di bianco, ma comunque sdrucito e scomposto. Era questo il
suo fascino: sembrava appena uscito da una rivoluzione tra forbici e
tinte per capelli, di cui lui era l'unica vittima.
-Ciao Oliver- lo salutò Natasha, gettandosi tra le braccia
magroline del ragazzo.
-Nati, che piacere vederti!- strillò questo con la sua voce
acuta da frocio mancato. Ebbene sì, Oliver era eterosessuale
convinto, come però era anche convinto a tenersi i suoi
capelli da pazzo e le sue maniere raffinate da donnina del settecento.
-Prego, accomodatevi pure- fece loro strada –Anya, quanto
tempo che non ci vediamo! Noto con piacere che nessun’altro
oltre al sottoscritto ha toccato la tua chioma in questi mesi-
-E chi altri potrebbe farlo Oliver?- scherzò la ragazza,
fiondandosi subito sulla sua poltrona preferita.
-E tu sei…?- chiese il ragazzo, rivolgendosi ad una
più che curiosa Mimi, che continuava a guardarsi intorno,
affascinata da quel posto nuovo e così diverso da quelli che
vedeva abitualmente.
-Mimi- completò la frase lei, riscuotendosi dai suoi
pensieri e allungando una mano verso Oliver, che la lasciò
basita con un bacio delicato sul suo dorso.
-Bene signore, come posso servirvi?- si rivolse poi alle tre ragazze,
girandosi verso di loro con una piroetta –Spero non il solo e
banale taglio e piega-
-Per me sì caro, mi spiace deluderti- rise Anya, alzando gli
occhi dalla rivista di moda che aveva preso a sfogliare.
-A te non avrei neanche dovuto chiederlo, sono tre anni che vieni qui
con tua cugina e ogni benedettissima volta mi chiedi solo la solita
spuntata. Ti rendi conto che così distruggi il mio estro
creativo?- si lamentò Oliver, con la sua perfetta aria da
artista ferito nell'orgoglio.
-Sai cosa? Per farti contento posso farmeli scalare un po’,
va bene?- concesse la ragazza.
-Oh bene, così sì che si inizia a ragionare!-
Oliver fece un gesto di trionfo –E tu, cara Nati?-
-Voglio cambiare tinta, magari un biondo un po’
più acceso, non il solito platinato. Per il taglio, boh,
vediamo sul momento, magari trovo qualcosa sulle riviste-
-Mimi?-
-Non lo so proprio- rispose timidamente la ragazza, arrossendo sotto lo
sguardo carezzevole ed entusiasta di Oliver.
-Hai tutto il tempo per pensarci mentre mi occupo delle altre, tra poco
dovrebbe arrivare anche la mia assistente. Tieni, qua ci sono altre
riviste, prova a vedere se ti piace qualche taglio- il ragazzo le mise
in grembo un plico di cataloghi e poi scortò Natasha al
lavabo.
L’acqua prese a scorrere piano nel recipiente di ceramica
smaltata con uno scroscio piacevole; Oliver controllò la
temperatura prima di bagnare la testa di Natasha con il getto. Anya si
ritrovò a guardare con un sorriso l’espressione
rilassata della cugina che, ad occhi chiusi, si godeva il massaggio di
Oliver, mentre lo shampoo sfrigolava impercettibilmente sulla sua nuca,
spandendo un buon profumo.
La faccia rattristita di Bill le comparì improvvisamente
riflessa in uno dei tanti specchi, scuotendola dal suo tranquillo
rimirare la cugina, o forse proprio per lei, perché pensare
a Natasha equivaleva pensare a ciò che doveva dirle; si
morse un labbro con forza. Poteva cominciare con il dirle, con tono
casuale, che Bill le era sembrato cambiato nei suoi confronti, alla
festa era stato molto gentile e poi... avevano scopato. No, non andava
bene. Alla festa era stato molto gentile e poi… basta, non
le veniva in mente nient’altro, solo che avevano scopato e
che gli aveva promesso che le avrebbe parlato. E perché
gliel’aveva promesso? Ah sì, perché era
cascata come una pera cotta davanti alla triste rassegnazione del
ragazzo a mantenere quel segreto troppo grande per lui e la sua
linguaccia, o forse, per lui e la sua felicità; non avrebbe
potuto fare altrimenti, fingere che non gliene era fregato niente
sarebbe stata una bugia colossale. Ancora non capiva perché,
ma i fatti erano questi: le era importato farlo con Bill ed ora le
doveva importare dirlo alla cugina, almeno accennarle la cosa.
Ritornò con la memoria alla discussione con Mimi, al fatto
che, quel’erano le parole esatte che aveva pensato? Se
lei-Anya aveva imparato a convivere con la verità, allora
anche gli altri dovevano farlo.
Bene, anche i suoi pensieri erano contro di lei.
Ma si trattava di Natasha, quella ragazza ignara intenta a godersi il
suo shampoo sfrigolante, la stessa che non le aveva mai detto di no,
che le aveva sempre voluto bene. Se ripensava a tutta la sua vita,
tralasciando qualche anno buio, la rivedeva sempre e ovunque: al suo
fianco il primo giorno nella scuola nuova, a spiegarle
cos’erano le mestruazioni e perché sentisse uno
strano formicolio nella pancia quando vedeva il ragazzo che le piaceva,
ad aiutarla a ripassare per un compito difficile, ad accompagnarla a
trovare sua madre. Sì, l’aveva anche accompagnata
là, in quel posto odioso.
Punto primo, io con Bill non ci sto, non abbiamo né
scopato né nient’altro; punto secondo: credi
davvero che starei con lui senza dirtelo? Potrei anche fregarmene
altamente del fatto che ti piaccia, ma se succedesse qualcosa,
qualunque cosa te la direi! Pensavo ti fidassi di me!
Oddio, le aveva detto così! Il flashback improvviso di quel
giorno a Galeries LaFayette le fece fermare il cuore
all’improvviso.
Nati, Nati, forse facevi bene a non fidarti, ma ora come puoi
saperlo?
-Hei, tutto bene?- la voce di Mimi la riportò al presente:
nello studio di Oliver, al nono piano, ad Amburgo, in un mare di guai e
conti in sospeso con la sua coscienza. Scheisse.
-N-sì, tutto a posto- rispose alla ragazza, regalandole un
sorriso rassicurante; non che a Mimi servisse, piuttosto, sarebbe
servito a lei.
Bill non poteva capire: lei non era stata fortunata come lui a nascere
insieme ad un Tom che, nei momenti d’ansia, ti prendeva il
braccio suonando sulle tue vene come avrebbe fatto con la sua amata
chitarra e ti sussurrava, ridendo: -Bill, l’ansia mandala
via- Lei si era dovuta accontentare di se stessa e in parte di sua
cugina, l’unica figura che poteva lontanamente paragonare a
quello che Tom era per Bill e viceversa.
-Ma sai cosa non ti ho raccontato?!- esclamò Natasha,
rivolta all’altra, che si voltò di scatto verso di
lei, fingendosi interessata. Con i capelli raccolti in un asciugamano,
la bionda si accomodò su una delle sedie davanti agli
specchi, mentre Oliver avvicinava alla postazione il carrello da
lavoro, ed iniziò a raccontarle di una cena in un famoso
ristorante giapponese, il Katsuja, o simile. Anya odiava il giapponese.
-Hanno conosciuto quella troia di Nicole delle Pussycat Dolls, hai
presente chi sono? Ecco, quella si è messa in testa di
seguirli in ogni dove per farsi pubblicità e così
si è autoinvitata alla cena. Le morivano tutti dietro, si
sedeva sempre vicino a Bill e gli faceva mille moine e quel tonto era
tutto preso dai suoi sorrisini. Avrei voluto ammazzarli, giuro, sia lei
che lui!- Natasha sembrava davvero arrabbiata al ricordo; Anya sapeva
meglio di chiunque altro che la cugina era gelosissima di qualunque
cosa sua o che voleva fosse tale (tra queste, rientrava Bill) e per
principio odiava tutte le mezze artiste sexy che i ragazzi conoscevano
ai party o in giro per il mondo. Non aveva completamente torto,
perché, per la maggior parte dei casi, si dimostravano
essere delle persone false ed ignoranti, per non dire approfittatrici.
Anya fece un sorriso forzato e poi tornò a concentrarsi
sulla sua rivista. Complimenti Anya, stai mentendo per uno
che fa pure il cascamorto con le altre, complimenti!
-Meno male che dopo quella cena non l’abbiamo più
rivista- continuò Natasha, mentre Oliver, completamente
estraneo a quelle chiacchiere, cercava una adattatore per il phon
–E Bill è tornato lo stesso di sempre. I suoi
sorrisi sono adorabili, ma solo quando li rivolge a me- E
giù una risata allegra.
-Quindi, scusa se mi intrometto, lui ti piace?- chiese Mimi alla
bionda, sorridendo.
-Mi piace da una vita, anche se è decisamente più
piccolo di me. Ma non si può guardare a queste cose quando
si tratta di Bill Kaulitz- ammiccò lei, allusiva.
-Non so, l’ho visto poche volte e mi è sembrato
sempre triste, spaesato. Mi ha fatto pena e il suo aspetto, anche se
è particolare e affascinante, sembra più quello
di un bambino troppo cresciuto che quello di una star-
scrollò le spalle Mimi.
-Aspetta di vederlo in circostanze migliori, solo truccarlo mi
risveglia i bollenti spiriti!- rise ancora Natasha, guardandosi
riflessa nello specchio mentre Oliver le pettinava i capelli con lo
stesso amore che un fidanzato avrebbe usato per baciare la fidanzata.
Anya sorrise amaramente: erano altri i pensieri che risvegliavano i
suoi di bollenti spiriti.
Due paia di camperos lasciati al loro destino, mentre i proprietari
sembravano disprezzare anche tutto il resto del loro abbigliamento.
Il tavolino ruvido a contatto con la sua schiena, il sole che
tramontava.
Gli occhi di Bill chiusi e struccati e i suoi capelli incollati dal
sudore sulla fronte.
Sì, proprio, complimenti Anya!
*
(se vi fa piacere ascoltarla, rende l'atmosfera giusta: Wilder Wein)
Il primo colloquio di lavoro era andato bene; era stato strano, ma
l’avevano assunta subito. C’era da dire che non
aveva dovuto fare proprio niente per farsi benvolere.
Matt l’aveva lasciata all’incrocio della
tredicesima strada con un leggero bacio sulle labbra ed un arrivederci
frettoloso; non era mai stato il tipo per gli addii, anche quando, anni
prima, si erano salutati per quello che poi non era stato per sempre,
le aveva detto solo “ci vediamo” prima di sparire.
In effetti, si erano rivisti.
Il Sanitarium, così si chiamava il
posto, era l’unico edificio colorato tra i tanti grattacieli
della tredicesima, anche se ormai l’intonaco rosa antico
cadeva a pezzi dai muri della villa in rovina. Un cancelletto di ferro
battuto dava sul piccolo cortile di erbacce e più in
là, il porticato dell’edificio, su cui faceva
brutta mostra di sé una porta di legno ammuffito affiancata
da due finestre con i vetri rotti. Appena Charlie aveva messo mano
sulla maniglia della porta sgangherata, quella si era aperta da sola,
facendo cigolare i cardini; per un attimo, la ragazza era rimasta
terrorizzata, la mente attraversata dallo sciocco pensiero di essersi
imbattuta in una casa di spiriti, dimentica del fatto che, a pochi
metri da lì, New York respirava rumorosamente come un mostro
di cemento vivo, per nulla al corrente dell’esistenza di quel
luogo. Ma poi, una signora era arrivata vociando
nell’ingresso, seguita subito da tutti gli altri baccani
della casa, a cui Charlie non aveva fatto caso fino a quel momento:
urla e improperi, frastuono di vetri rotti o oggetti caduti. La donna
l’aveva vista lì impalata, stretta nella sua tuta
e con gli occhi castani sgranati.
-Sei qui per il lavoro?- le aveva chiesto bruscamente, studiandola
accigliata. Charlie aveva annuito debolmente, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte della turbolenta donna che,
nell’attesa della sua risposta, aveva già
combinato mille disastri cercando di spostare il mobile che ingombrava
l’entrata.
-Levati quell’aria da tontolona e rimboccati le mani
bambolina, benvenuta all’Inferno- e con queste parole
decisamente inquietanti, aveva preso la ragazza per un braccio,
facendole strada fino ad un piccolo studio, l’unica stanza,
forse, non completamente distrutta dell’intera casa. Fu
intimato a Charlie di sedersi su una delle due seggiole da cucina
davanti alla scrivania e aspettare; la ragazza obbedì, non
senza però una mezza idea di scappare via sempre
più concreta man mano che i minuti passavano senza che nulla
cambiasse. Si era già vista con l’occhio della
mente aprire la porta, sgattaloiare fino all’ingresso
rumoroso e poi fuori, di nuovo in strada; non un’anima se
sarebbe accorta. Aveva già per metà alzato il
culo della sedia per dirigersi alla maniglia, quando questa si
abbassò con uno scatto alle sue spalle e fece il suo
ingresso nella stanza la ragazza più bella che Charlie
avesse mai visto. Era brutta, ma le sembrò celestiale, goffa
come la prima stella del mattino, ma altrettanto graffiante.
Fino a quell’apparizione, Charlie aveva sempre pensato che la
donna più bella che avesse mai visto fosse la prosperosa
ragazza di colore che a volte si esibiva al Lost Heaven come
spogliarellista, le natiche al vento e un costume di diamanti di vetro;
l’aveva pure baciata per scommessa: aveva le labbra carnose e
dolci come mai lo sarebbero state quelle di un ragazzo, la pelle
vellutata e una cicatrice sopra l’occhio destro. Per lei,
quella era stata la donna più bella del mondo, almeno fino a
quando non aveva fatto capolino dalla porta quel mostriciattolo
malsano, che le fece un sorriso sghembo e, con passo felpato,
andò a sedersi all’altro lato della scrivania,
sulla grande poltrona tarmata.
Aveva una testa di scarmigliati ricci rosso fiamma, naturali, lo si
vedeva dalle chiare sopracciglia sul suo viso latteo cosparso di
lentiggini bionde; era infagottata in un vestito di lana smagliata con
sopra una stinta felpa che un tempo doveva essere stata blu. Solo le
scarpe sembravano in buono stato: degli stivaletti di finta pelle
rossa. A vederla così, il suo aspetto di pallido fantasma
bruno poteva lasciare un attimo interdetti, colti dal dubbio legittimo
che il rosso non fosse davvero il colore del diavolo: tutto di lei, dai
canini aguzzi che spuntavano fuori dalle labbra screpolate se tentava
di sorridere, alle mani con le unghie lunghissime, allo sguardo felino
da strega, riconducevano ad un ipotetico demone maligno. Ma poi, notavi
che quei canini avevano un aspetto più spiritoso, che
minaccioso, le unghie erano solo un po’ troppo non curate e
gli occhi sorridevano allegri, non cattivi; tuttavia, bastava
distogliere lo sguardo da queste riflessioni per ripiombare
nell’inquieto incantesimo del suo aspetto gotico.
-Il tuo posto non è qui- parlò per la prima volta
da quando era entrata. La voce della ragazza riscosse Charlie dal suo
lungo studiarla e le fece venire un brivido lungo la schiena: era bassa
e rauca, celata da colpi di tosse secchi. –Cosa stai
cercando?-
Quella domanda tolse completamente le parole di bocca alla povera
Charlie.
-Ma, veramente, io…- tentò di rispondere, nel
vano tentativo di riprendere il controllo.
-Messalina!- si sentì tuonare una voce dal corridoio, una
voce chiara e forte di donna. La ragazza alla scrivania
drizzò subito il capo, che fino a quel momento aveva tenuto
piegato sulla spalla destra, e si alzò di scatto,
indietreggiando. Una signora robusta con un’ampia gonna
gitana fece il suo ingresso nello studio, lo sguardo accigliato e la
bocca piegata in una smorfia rabbiosa. Messalina, alla vista di quel
volto così arrabbiato, lanciò un urlo rauco e
corse via, uscendo dalla porta secondaria della stanza, che fino a quel
momento Charlie aveva ignorato.
La donna dalla voce potente sbuffò sonoramente, dirigendosi
lentamente verso la scrivania, forse ostacolata dalla sua gigantesca
mole; il suo aspetto massiccio poteva solo far pensare ad una matrona
romana, vestita però con abiti da mercatino etnico e con i
capelli ricci e incolti da zingara.
-Scusami cara per questa accoglienza un po’ turbolenta-
rivolse la parola a Lotte, che, al confronto con gli eventi che le
stavano piombando addosso e, soprattutto, con la figura della donna, si
sentiva rimpicciolita al livello di una formica.
-Non fa niente- rispose, dopo aver deglutito, decisamente scossa da
tutte quelle stranezze.
La matrona si sedette sulla poltrona, facendo uscire polvere dalle
cuciture e producendo un cigolio per nulla rassicurante, ma, per il
momento, la sventurata sembrava resistere.
-Come ti chiami?- le domandò, questa volta con un tono molto
più pacato e dolce ed un sorriso mirato ad essere
rassicurante.
-Lotte-
-Oh bene, credo che sia palese il motivo per cui tu ti trovi qui- si
accomodò meglio la donna sulla poltrona, appoggiando la
schiena e incrociando le mani in grembo.
-Bè, sì, ho letto…- iniziò
a spiegare Charlie, ma fu subito interrotta. Evidentemente, la
precedente affermazione della donna non era che l’inizio di
un discorso che aveva intenzione di portare avanti senza il suo aiuto.
-Sei qui perché non hai la minima idea della
responsabilità che ti stai per prendere. Questa casa
appartiene alla mia famiglia da generazioni, si è un
po’ lasciata andare con il passare dei decenni, come puoi
vedere, ma se è ancora in piedi adesso dopo tutto quello che
è successo, posso contare su di lei ancora per un
pò, almeno fino a quando non morirò uccisa da una
delle tegole pericolanti del tetto. Non ho intenzione di rivangare il
passato più di quanto sia necessario, ti basti sapere che,
quando ho ereditato la proprietà avevo vent’anni,
trenta chili di meno e tanto amore risparmiato da donare; allora non
sapevo che gli uomini danno più soddisfazione di un
Sanitarium e che avrei fatto bene a sprecare il mio amore con il primo
quarantenne miliardario, come la mia condizione poteva permettermi- la
donna prese fiato, gettando uno sguardo alla finestra alle sue spalle
–Ad ogni modo, ho deciso di utilizzare questa villa per scopi
umanitari, ho richiesto allo Stato l’autorizzazione ad aprire
un piccolo ricovero per i primi alcolisti anonimi del secolo e quelli
che sopravvivevano all’attacco delle nuove droghe; mi fu
concessa, frequentai un corso da infermiera e assunsi delle aiutanti,
mie colleghe di studio. Avrebbe finanziato tutto lo Stato, cosa che
successe per i primi dieci anni, ma poi, i soldi da cavare dalle tasche
divennero i miei e devo dire che fui ben felice di spenderli. Ero
ingenua allora, lo ammetto; ma, come tutte le cose belle, anche loro
finirono presto-
A questo punto della storia, mentre la donna sembrava tutta
intenzionata a raccontarle vita, morte e miracoli, Charlie
ritrovò un po’ della sua smarrita faccia tosta e
la squadrò con un’alzata di sopracciglio, accolta
con una sonora risata del donnone.
-Hai ragione, avevo detto che non avrei rivangato troppo il passato!-
-No, è solo che si fa notte se continua a raccontarmi i
dettagli- le fece notare ironicamente la ragazza, provocando
un’altra grassa risata da parte dell’altra.
-Sì, va bene, saltiamo l’introduzione e veniamo al
sodo: questo posto è cambiato, è caduto in rovina
e con lui anche i suoi abitanti, compresa me-
-E Messalina?- l’interrupe ancora Charlie, curiosa.
-Oh, la sua storia la conosce solo lei ed è benintenzionata
a tenersela segreta; è qui da più di quindici
anni, era una bambina quando la trovammo nel giardino, con un gatto di
peluche stretto tra le braccia: disse che si era persa, ma non trovammo
mai la madre. Rimase qui, allevata con i figli delle alcolizzate-
spiegò la donna, incupendosi. Doveva essere un tasto dolente
per lei, quella ragazza –Ora, se vuoi saperlo, questo posto
non avrebbe più l’autorizzazione statale- e
lo credo, pensò Charlie –ma non ho avuto
il cuore di chiuderlo neanche quando mi sono ritrovata povera in canna,
non lo farò di certo ora-
-Ma…- allora come l’avrebbero pagata?, si stava
chiedendo la ragazza, e la donna sembrò leggerle nella mente.
-I soldi sono di mio figlio; abbiamo questo compromesso: mi
terrò lontano dalla sua vita fino alla morte a patto che lui
versi lo stipendio alle persone che lavorano per me e procuri
ciò che è necessario per il sostentamento del Sanitarium-
le spiegò.
-Suo figlio? Ma aveva detto di non essersi sposata-
-Non mi va di parlarne- la donna tagliò corto bruscamente,
alzandosi dalla sedia. Era una donna bizzarra e controversa sotto molti
punti di vista; il suo aspetto non faceva per nulla presagire che in
passato fosse stata ricca: era robusta e sgraziata e indossava abiti
decisamente in cattive condizioni. Eppure sì, forse nel suo
modo di presentarsi e di parlare c’era qualcosa che ricordava
un suo eventuale passato di padrona indiscussa e nobile. Sembrava molto
vecchia, nonostante la vitalità, ma dal suo racconto Charlie
capì che in realtà lo era molto di più
di quanto non desse a vedere: vecchia dentro.
Aveva commesso un errore: presentarsi lì, per quel lavoro
che le era sembrato giusto per lei, si stava rivelando un passo
azzardato nel vuoto più assoluto. Era partita con
l’idea che avrebbe dovuto badare a dei malati, rifare letti,
pulire per terra o cose simili, ora si trovava coinvolta in qualcosa di
molto più grosso.
Come le spiegò più tardi Dora, questo era il nome
della donna, i malati lì erano ben pochi. Coloro che si
presentavano a quelle porte era dei disperati senza alcun mezzo, persi
nella droga e nell’alcool, ma lì non
c’era la possibilità di curarli come si conviene,
quindi venivano trasportati nel primo ospedale e venivano loro pagate
le spese della disintossicazione. Tornavano sempre, guariti o magari
più ammalati di prima, ma lì trovavano rifugio e
un tetto sotto cui dormire quando non potevano trovare di meglio; era
un via vai di gente, un giorno li vedevi, il giorno dopo sparivano e il
tuo compito non era ricordare i nomi o le malattie, ma ascoltarli se
volevano parlarti e tacere se volevano stare zitti. C’era poi
un piccolo asilo per i figli delle alcolizzate che, non potendo badare
loro e cercando continuamente di uscire dal giro e procurarsi da
vivere, li abbandonavano lì, per tornare poi un giorno,
magari, a rivederli. Molte erano le donne incinte che partorivano nella
villa e molte altre erano quelle che arrivavano per farsi proteggere e
consolare da Dora se avevano subito maltrattamenti da mariti o
fidanzati violenti. Quel Sanitarium non era semplicemente un sanitario,
ma un ricovero per ogni anima persa di New York.
I compiti di Charlie erano illimitati, doveva aiutare e sapersela
cavare da sé in ogni cosa ci fosse da fare.
-Ma come..?- aveva protestato, quando Dora le aveva spiegato la
situazione.
-Non c’è un come, devi farlo e basta. Non oggi,
vattene a casa. Ci vediamo domani; arriva quando vuoi, ma non dopo
mezzogiorno, c’è da preparare da mangiare per i
bambini-
E l’aveva congedata semplicemente uscendosene di scena,
richiamata dalle solita urla provenienti da qualche parte della casa. A
Charlie non era restato altro che alzare il culo dalla sedia ed
andarsene anche lei. Sulla strada di ritorno, aveva rischiato di farsi
investire due volte da taxi impazziti tanto era persa nei suoi
pensieri: non aveva nulla da perdere, ma neanche qualcosa da guadagnare
in quel lavoro. O forse sì?
Avrebbe tentato, poche volte si era tirata indietro e il tono con cui
Dora le aveva parlato dall’inizio faceva dubitare che si
sarebbe aspettata di vedersela comparire davanti l’indomani;
chissà quante altre persone si erano magari presentate per
quel lavoro, ma, visto in realtà di che cosa si trattava,
erano fuggite, per nulla attratte da quella prospettiva. Lei non
sarebbe stata una di quelle, non lo era mai stata e pur di dimostrarlo
era disposta a tornare al Sanitarium, a badare ai bambini: quella
sarebbe stata la sua prima mansione.
Svoltò l’angolo di casa, con già le
chiavi in mano per aprire la saracinesca del garage. Fuori, seduto sul
bordo del marciapiede con una sigaretta in mano, stava un uomo
sulla trentina, in cappotto blu e scarpe italiane, con l’aria
malsana da ammalato del lavoro. Nell’altra mano, teneva una
borsa nera e lucida proveniente da qualche negozio alla moda della
Principale.
Charlie non si stupì di vederlo, anche se avrebbe dovuto.
-Ciao Eddy- lo salutò, fermandosi a pochi passi da lui, che
buttò a terra la sigaretta ormai finita da cui aveva
aspirato l’ultimo tiro.
-Quante volte ti ho detto che odio essere chiamato così,
Charlotte?-
-Almeno quante volte ti ho detto che io non voglio essere chiamata
Charlotte- rise Charlie, al ricordo.
-Allora facciamo un compromesso sorellina ed invitami almeno ad entrare-
|
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Capitolo 21 *** All the things they said ***
YOOOO
Anche qui il capitolo 21 ù.ù
miss hiphop,
ti ho accontentata per quanto riguarda sapere di più su
Edmond, ma mi spiace, per ora non è previsto che si
innamori, anzi, rimarrà ancora per un pò
nell'oscuro e tornerà più avanti XD
Sono contenta che tu riesca ad entusiasmarti e a seguire tutti i
personaggi con lo stesso interesse, la vita non si concentra solo su
una persona, così anche in questo scorcio di vita che voglio
scrivere i personaggi si moltiplicano sempre di più. Spero
di essere in grado anche in futuro di tenere le redini di questo gioco.
lilylemon,
per quanto riguarda la foto di Charlie: è l'unica che non mi
ha mai pienamente soddisfatto, perchè, hai ragione tu, il
mio personaggio è molto più ribelle e molto
più "spacca-schermo" che quella ragazza della foto, ma
siccome di Charlie in giro non se ne trovano, anche per l'immagine ho
avuto qualche difficoltà. Nonostante tutto, ho tenuto quella
come modello perchè quella
risata è la risata di Charlie, precisa.
Ti ringrazio molto per aver recensito *-*
Per la scena hot, non so che altro dirti se non grazie per averla
apprezzata, grazie davvero, è molto importante per me quel
capitolo, ci ho messo mesi a scriverlo e ho iniziato quando ancora la
ff era agli inizi. Spero di trovare altre recensioni, perchè
questa mi ha fatto davvero un immenso piacere!
CowgirlSara, Come anche lilylemon sei scusatissima XD
Devo confessarvi però che quando ho iniziato a postare qui,
ero abbastanza scoraggiata perchè tutte le mie amiche di
scuola che frequentano il sito mi avevano detto che era una sorta di
"culla primordiale" di ff e che se non ero apprezzata qui, non valeva
la pena continuare a scrivere. Ma ho fatto finta di niente e ho
continuato a postare, che mi costava? Ho incontrato delle critiche,
degli apprezzamenti e finalmente la mia determinazione è
stata premiata, quindi vi ringrazio moltissimo di aver lasciato un
segno nelle mie recensioni. Non sono una ragazza sicura di
sè al limite, quindi gli apprezzamenti mi fanno sempre
piacere ^^
(sono contenta che anche a te sia piaciuta la scena con Bill <3)
Per quanto riguarda Charlie, sono convintissima che nella tua critica
ci sia qualcosa che mi possa davvero aiutare: (vai con lo spiegone XD)
sin da quando ero piccola ed ho iniziato a scrivere, i miei racconti
erano piuttosto fantasy, elfi, maghi ecc., ero grande fan del Signore
degli Anelli e quindi tutte le atmosfere strane, anche piuttosto
offuscate o magari troppo fuori dalla realtà della ff
derivano da questo. Devo aggiungere qualcosa di assolutamente
intrigante e fiabesco dapperutto, altrimenti mi sento persa e in questa
storia l'ho fatto con Charlie, non perchè davvero il Lost
Heaven fosse così dannatamente inquietante o il Sanitarium
così fuori dal tempo e dal luogo, ma perchè tutto
ciò è visto dalla sfera emozionale dei
personaggi. Devo dire che questa mia mania deriva anche dai romanzi
sudamericani, i miei preferiti in assoluto: lì le atmosfere
non sono mai definie, sembrano intatte dal tempo, sanno di fiabesco.
Ovviamente, non mi è mai saltato in testa di copiare da
nessuno nè tanto meno di paragonarmi a Marquez o alla mia
amatissima Allende, semplicemente tutto ciò mi ha molto
influenzata.
Però è vero, rendo la narrazione pesante, non
credo sia difficile all'estremo da comprendere, ma anche io quando
correggo devo rileggere una seconda volta XD
Quindi cercherò di alleggerire un pò,
perchè una lettura noiosa non ha mai attirato nessuno.
Grazie mille!
21.
All the things they said
Charlie fece strada al fratello, che, come se fosse a casa sua,
posò la borsa nell’unico angolo libero del tavolo
della cucina ed inizio a sbottonarsi il cappotto.
Dirigendosi verso il frigorifero in cerca di qualcosa da bere da
offrirgli, la ragazza indagò: -Come mai a New York?-
-Lavoro, cos’altro?-
-Te l’ha mai detto nessuno che lavorare fino a farsi
succhiare il sangue non ha mai giovato a nessuno?- lo
stuzzicò Charlie, con un sorrisino irritante.
-Te l’ha mai detto nessuno che condurre una vita dissoluta
come la tua non è altrettanto salutare?- rispose a tono
Edmond.
-Io non conduco una vita dissoluta!- rise di cuore la ragazza, versando
dell’acqua in due bicchieri sbeccati e offrendone uno al
fratello.
-Oh sì, invece- le sorrise in risposta lui, bagnandosi le
labbra con il liquido trasparente –Da
quant’è che non ci vediamo?-
-Due anni-
Due anni senza suo fratello e quattro senza la sua famiglia; non le
erano mancati neanche un po’, ma Ed si era fatto vivo ogni
tanto, non lasciandole, come avrebbe voluto, rimuovere completamente il
ricordo dei suoi primi sedici anni di vita. Era cocciuto, suo fratello,
anche più di lei.
Era più grande di dieci anni esatti, quindi non era mai
stato il fratello con cui giocare o fare i compiti al pomeriggio,
né da coinvolgere in fantasie infantili: era stato il tipo
di fratello che trovava gratificante insegnarle tante cose, come andare
a cavallo o sputare come un maschiaccio, ma che non sopportava se lei,
magari anche in un momento poco propizio, piombava in camera sua per
farsi leggere una storia o per giocare con i suoi preziosi videogiochi.
Nonostante tutte le litigate e le botte che si erano dati (Charlie
aveva il vantaggio di poter facilmente colpire basso), Edmond era
innamorato della sua adorabile e bellissima sorellina come lo sono in
genere i fratelli e per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa.
-E tu? Non lavori?- le domandò ancora Ed.
-A dire il vero, torno adesso da un colloquio di lavoro- lo
informò la sorella, guardandolo storto.
-Ma davvero?- si finse stupito il ragazzo, con una risata.
-Proprio così, lavorerò in un posto dove si
aiutano gli alcolizzati e tutti quelli che ne hanno bisogno-
-C’è da stupirsi: non avrei mai pensato che la mia
altezzosa sorellina si abbassasse a tanto. Già con il
servire ai tavoli temevo di averti persa, ma questo credo sia ancora
più disonorevole per sua maestà!-
-Vaffanculo!- esclamò Charlie, scaldandosi.
-Te lo ricordi come ti chiamavano tutti? La
“contessa”! Anche quando ormai eri grande ti facevi
sempre servire e riverire; m ricordo anche che ti facevi fare il bagno
dalla domestica!-
Charlie stava per ribattere sdegnata, quando un
“miao” alla porta fece alzare lo sguardo di
entrambi sul povero Tu-Bill, che entrava in quel momento nel garage
dopo il suo giretto quotidiano nel quartiere; la bestiola fece un salto
vedendo un intruso nella casa e rizzò il pelo, allarmata.
Lotte gli andò incontro e lo prese in braccio,
rassicurandolo con dei baci affettuosi sulle orecchie pelose e
ritornando poi dal fratello, porgendogli per gioco l’animale,
mentre questo continuava a gridarle di tenere quella bestiaccia
lontana: Ed non aveva mai sopportato i gatti e in più era
tremendamente superstizioso, convintissimo che quelle povere bestiole
dal pelo nero come Bill fossero streghe trasfigurate.
-Io lo metto giù, ma tu ora la smetti con le domande
stronze, altrimenti gli dirò di attaccarti- lo
minacciò Charlie con un sorriso, permettendo al micino di
scendere e andare a rifugiarsi nella sua cuccia di cartone, soffiando
contro l’intruso.
-Va bene, niente più domande stronze- acconsentì
l’altro, guardando storto il piccolo gatto, che ora si stava
leccando copiosamente una zampa –Come stai?-
Charlie sorrise al fratello e si coricò sul divano,
poggiandogli la testa bionda in grembo: -Devo dire che me la cavo
abbastanza bene. Tu invece?-
-Anche io; sono a New York per un importante causa di un mio cliente e
da Boston fino a qui non è mica una passeggiata,
così mi sono detto: perché non andare dalla mia
sorellina ribelle?-
Charlie tirò un cuscino in testa al fratello, ridendo: ribelle.
Nella sua perfetta famiglia, lei era questo e da quattro anni era
consapevole che il suo nome, se veniva pronunciato da chicchessia, era
sempre accompagnato da una smorfia di disgusto. Se ci fosse stato un
albero genealogico della famiglia Dawson, il suo nome sarebbe stato
cancellato, fatto sparire nel nulla. Per così poco, poi! Per
la sua libertà.
-E il tuo amico?- Ed tirò i capelli della sorella per
richiamare la sua attenzione.
Charlie si sollevò, guardandolo con gli occhi nocciola
sgranati: -Quale amico?-
Non poteva saperlo, sapere di lui. Nessuno sapeva
di Tom, esclusa Mimi, che era lontana e poi, a sua volta, Mimi non
sapeva che lei avesse un fratello. E perché qualcuno avrebbe
mai dovuto saperlo?
La parola amico che Edmond aveva usato le
suonò molto strana.
Tom era un amico? No, sicuramente no, anzi, dopo la loro ultima
discussione, era diventato un nemico. Nemico della sua
libertà. Charlie si ritrovò a pensare seriamente,
senza averlo fatto fino a quel momento, ai giorni passati; aveva
mandato il ricordo solo a Mimi, alla rabbia che sentiva dentro, seguita
a tutta la malinconia per essere stata lasciata sola da quella che
considerava sua sorella di sventure, ma mai aveva riformulato il nome
di Tom, come se il suo cervello lo avesse tenuto lontano per
autodifendersi, al pari di un antivirus, paladino della
sanità mentale. E lui, aveva mai pensato a lei?
Come se mi importasse, poi, si disse.
"Dovrebbe, invece. Perché, qualcun altro ti avrebbe salvata
dalla tua perdizione? Sì, perdizione e dissolutezza, ecco i
principi della tua vita, Ed ha ragione cara. Qualcun altro avrebbe
avuto il coraggio di oltrepassare il paradiso perduto per salvarti da
uno stupro di gruppo a cui andavi incontro consapevole, ma troppo
distante da te stessa per rifiutarlo? Non credo tesoro, non credo"
La sua coscienza era sempre molto stronza con lei: le parlava con voce
zuccherosa, pizzicandole le guance come si fa con i bambini e
chiamandola con appellativi sdolcinati, ma sentivi che la sua vocettina
era carica di ironia e disprezzo, sentivi che ti stava prendendo in
giro. La sua coscienza assomigliava tanto alla voce stronza e odiata di
sua madre.
"Cavalcarlo, questo è stato il tuo pensiero fisso, pulcino
mio, altrimenti, perché guardare sempre il mondo dalla
prospettiva del suo bacino? Pensavi fosse un cavallo per caso? Un
destriero che ti avrebbe guidato nella tua lotta per la
libertà? Non è mica un rivoluzionario francese,
poverina! Eppure, tu volevi cavalcarlo, magari allontanarti al galoppo
con una nuova speranza, una nuova vita, come quella che sta crescendo
nel grembo della tua amica e che sarà felice, madre e figlia
lo saranno. E tu stai a guardare, povero tesoro. Non te lo sei
cercato?" (nessuna allusione al sesso con la parola
“cavalcare”, vedetela sotto un altro aspetto
n.d.a)
Edmond tacque, vedendo il volto così confuso e corrucciato
della sorella a quella sua domanda. La stessa ruga
d’espressione che le segnava la fronte quando da piccola
rifletteva sul bene ed il male come le imponeva il sacerdote della
Chiesa in cui andavano ogni domenica, ora le solcava la pelle rosea. Il
fratello, conoscendo la portata della battaglia che il cervello, ma
soprattutto il cuore della sua Charlie stavano combattendo, si nascose
nel retroscena, continuando a tacere.
“Mi fai talmente compassione che vorrei essere
capace di amarti un pochino io” "Sei tu che mi fai
compassione, non riesci neanche ad amare te stessa, vorresti amare un
ragazzo così? Così complicato, così
ambito? Così fragile? Tenti invano di salvare te stessa, ti
fai salvare da lui e poi non lo ringrazi"
No, non lo aveva ringraziato. L’aveva disprezzato e
frainteso. E pure baciato.
-Brucia- le aveva detto quando gli stava passando il cotone sulle
palpebre.
-Lo so- gli aveva risposto e infatti lo sapeva bene. E’ bello
truccarsi, ma poi brucia.
Charlie si riscosse dai suoi pensieri, girandosi piano verso il
fratello muto e lanciandogli un occhiata confusa: -Qual-quale amico?-
-Il ragazzo con cui stavi l’ultima volta che ti ho vista, due
anni fa-
-Oh, non lo vedo più- mormorò la ragazza.
Ed annuì, facendo ciondolare il capo tra le spalle e
lanciando un’altra occhiata alla ragazza: non la vedeva da
tanto tempo e, inevitabilmente, gli sembrava ancora più
perduta. Quello che non aveva mai capito di lei era questa sua voglia
di imporsi su tutto e tutti, la sua ostinazione nella ricerca del
giusto. Lui aveva imparato ad ingannarlo e nasconderlo, ottenendolo di
nascosto, senza rumore. Charlie, invece, viveva di rivoluzione, con
tutti gli scoppi di guerra, le grida, i pianti della lotta cronica
contro ciò che il suo senso di giustizia e
libertà non poteva tollerare.
Quando era piccola, si ribellava ai castighi immeritati con tanta foga
e tanta rabbia, che concludeva i suoi insuccessi contro gli adulti
staccando la testa alle sue bambole e tagliuzzando i loro vestiti;
Edmond, invece, aveva sempre chinato furbamente la testa davanti alle
autorità, guadagnandosi il perdono con salamelecchi e finto
pentimento. Per questo loro madre lo adorava.
-Impara, Lotte e smettila di combattere una battaglia troppo grande per
te- la derideva il fratello.
Ovviamente, la ragazza non gli aveva dato retta e alla violenza aveva
imparato a rispondere con la violenza e ad usare denti ed unghie per
difendersi.
Edmond si alzò dal divano e recuperò la borsa
nera dal tavolo, porgendola poi alla sorella: -E’ un regalo;
spero che il tuo numero di piede sia rimasto il trent’otto-
Charlie accettò la busta squadrando il fratello con
curiosità e annuendo alla sua affermazione, per poi
curiosare dentro. Tirò fuori una scatola bianca da scarpe
decorata con scritte dorate e in rilievo e poi un pacchetto di carta
velina ornato da un grande fiocco, anch’esso dorato.
-Ed, ma, non dovevi!- recitò a memoria la formula di
cortesia che gli avevano insegnato a dire quando riceveva un regalo,
rigirandosi tra le mani il fragile pacchetto che, visto il peso e la
consistenza, doveva contenere dei vestiti.
-Rimarrò qui a New York per una settimana o più,
spero che mi verrai a trovare e per farlo, visto che non alloggio in
una discarica, forse ti converrebbe indossare qualcosa di
più elegante- la provocò il fratello.
Charlie gli fece il verso, storcendo impercettibilmente la bocca mentre
estraeva dalla scatola le decolté con laccio che Ed aveva
pensato (male) di comprarle. Era da tanto che non ne vedeva un paio
o,almeno, nelle vetrine dei negozi di New York articoli del genere
facevano sempre la loro bella figura, ma era da tanto che non ne vedeva
uno sapendo di possederlo. Seppure questo le provocasse un insensato
senso di felicità, non volle darla vinta al fratello e
ribattè: -Per tua informazione, sono entrata in uno dei
migliori alberghi della Principale ricoperta di stracci e svenuta,
quindi, non credo ci saranno problemi se mi presenterò con
una tuta e le scarpe da ginnastica-
Edmond la guardò stupito e Charlie si rese conto di aver
parlato un po’ troppo; troncò sul nascere la
domanda che il fratello le avrebbe posto da un momento
all’altro scartando anche il pacchetto: come aveva
immaginato, conteneva un vestito, molto semplice a dire la
verità, blu scuro con due grandi spacchi ai lati.
-Bè, grazie- gli sorrise, accarezzando la gonna vellutata
dell’abito.
Il fratello le sorrise trionfante: -Prego. Ora scappo Lotte, ci vediamo-
Infilò rapidamente il cappotto senza allacciarlo, si
chinò per dare un bacio sulla testa bionda della sorella e,
senza aggiungere altro, uscì dal garage con la stessa
serietà e alterigia che avrebbe potuto usare per uscire
dignitosamente da uno dei suoi soliti alberghi a cinque stelle.
*
Più Georg ci pensava, più si dava dello stupido;
come poteva essersi fidato di Natasha ed aver poi chiesto il suo aiuto
in una questione di cui si sarebbe dovuto occupare da solo?
Era lui che provava qualcosa per Anya, non sua cugina.
Quando ancora abitava ad Amburgo e studiava al conservatorio, aveva una
ragazza, si chiamava Sophie. Ora, non sapeva più niente di
lei: né come aveva finito gli studi, né cosa
aveva deciso di fare dopo il diploma, né se il suo cane era
guarito dopo essere stato investito da un’auto, né
se i suoi genitori si erano poi separati. Non sapeva soprattutto se
aveva continuato ad andare alla loro panchina nei giardinetti ed era la
prima cosa che gli veniva in mente se gli capitava di ripensare a lei.
Era stato molto preso da Sophie; quando ancora non era famoso e il suo
aspetto non lo interessava più di tanto, erano poche le
ragazze che avevano la volontà di andare oltre alla sua
corazza di timidezza e scontrosità. Lei ci era riuscita con
un solo sorriso; le mancava un canino, ma era tanto dolce lo stesso.
Tra le tante cose, di lei gli piaceva come si preparava per uscire:
apriva l’armadio e poi accarezzava tutti gli abiti appesi,
facendoli ondeggiare in un caleidoscopio di colori e poi ne sceglieva
uno ad occhi chiusi; quando si truccava, faceva delle facce buffe per
mettersi il mascara e poi gli lasciava pettinarle i capelli.
Georg era convintissimo che sarebbe finito per sposarla, ma a rovinare
tutto ci pensarono i Tokio Hotel, anzi, prima di tutto i Kaulitz. Il
ragazzo conosceva già Gustav ed erano molto amici, ma non
era preparato al confronto inevitabile con il mondo dei gemelli. Non
poteva negare neanche ora, dopo tanti anni in cui si era fatto bagaglio
dei loro difetti e stranezze, che fossero due ragazzi molto
particolari. E molto belli.
Per sopravvivere e non sotterrare la propria autostima tre metri sotto
terra, Georg aveva dovuto convincersi che era ormai ora di abbandonare
il suo aspetto da orso; i “sei bellissimo” di
Sophie non bastavano più e non sarebbero bastati in ogni
caso.
All’uscita del loro primo singolo, lei aveva smesso di
chiamarlo e lui era stato troppo occupato per andare a casa sua a
pettinarle i capelli. Era finita così.
Quando poi la carriera dei Tokio Hotel era stata ufficialmente
battezzata da mille impegni e un nuovo modo di vivere le giornate
sempre più occupate, era arrivata Anya; ragazza
più diversa da Sophie non poteva esistere.
Era stato il primo a fare amicizia con lei, perché un giorno
l’aveva trovata per caso in camera che piangeva; gli era
venuto in mente che quando la sua ragazza era triste o agitata,
riusciva a calmarsi solo con un abbraccio e così aveva fatto
con Anya. Quando stringeva Sophie faceva sempre molta attenzione, era
talmente fragile che temeva di romperla se avesse esagerato, ma lei,
sotto ogni punto di vista, pareva fatta di pietra.
Dopo un poco di dondolio tra le braccia di quel ragazzo che conosceva a
malapena, Anya si era asciugata le lacrime con il dorso della mano e,
giustamente, si era sentita in dovere di raccontargli i suoi crucci.
Così Georg era venuto a sapere dell’infanzia
difficile della ragazza, di come fosse stata costretta dalle
circostanze a crescere fin da subito, di suo padre sparito nel nulla
dopo la sua nascita e di sua madre, alcolista e disperata, che era
finita in un centro di disintossicamento dal quale non era
più uscita, lasciando Anya in balia dei servizi sociali che,
dopo molto combattere, l’avevano affidata agli zii materni.
Da quella mezz’ora passata a raccontare e ascoltare, erano
diventati amici; per il resto, Anya non poteva soffrire
l’ansioso e crucciato Tom, che si faceva bello agli occhi di
tutti anche a discapito degli altri e disprezzava Bill, che pur
all’inizio sembrava pendere dalle sue labbra. Quando Anya era
in circolazione, il ragazzino si distraeva dal mondo circostante
contando i nei sulle braccia di lei, quante volte rideva e quante
alzava la voce; se aveva i capelli raccolti in qualche modo strano, se
si era messa la gonna rossa che a lui piaceva tanto vederle indossare.
Poi, nessuno sapeva perché e nessuno si era preso il tempo
tra le mille cose da fare per chiederselo, Bill aveva smesso di
guardarla così e aveva iniziato a frequentare ragazze su
ragazze che, in un modo o nell’altro, per questo o per
quello, sembravano assomigliarle, come se volesse farle dispetto.
Georg voleva parlare alla ragazza, doveva trovare il tempo e il modo
per farlo, prenderla da parte e dirle che gli dispiaceva essere stato
così assillante e stupido da non capire che quello che in
realtà erano e dovevano rimanere erano gli amici di sempre.
Ne era quasi del tutto convinto.
-Hei Georg, smettila di sbavare!- la voce di Tom lo colpì
come uno schiaffo improvviso sul didietro; Georg si voltò
verso il rasta, appena passato con una delle sue numerosissime chitarre
al collo ed esordì, come appena tornato dal pianeta Marte:
-Eh? Che dici?-
-Lasciamo perdere. Pensare per te è difficile, povero, non
dovrei prenderti in giro così!-rincarò la dose il
gemello cattivo Kaulitz, sghignazzando. Georg lo guardò in
cagnesco, prima di mandarlo gentilmente a cagare. Vedere gli occhi di
uno dei gemelli, non quello a cui aveva pensato fino a quel momento, ma
comunque uguali e profondi allo stesso modo, però, gli fece
venire un’idea strana.
Si voltò di scatto verso Bill, già salito sul
palco per il soundcheck e tutto preso dal suo giubbino nero.
In quegli ultimi giorni, già dalla festa, gli era sembrato
che gli stessi occhi che ora il ragazzo si stava sfregando per il sonno
e che quel giorno si era truccato da solo, avessero smesso di ignorare
Anya. La seguivano fin troppo assiduamente.
Mancava ancora Gustav, poi avrebbero iniziato.
Quello era il loro ultimo giorno di prove e Bill aveva indossato gli
abiti che già aveva scelto per le tappe del tour; sarebbero
stati quelli dalla prima data fino all’ultima, per viaggiare
il più leggeri possibile, ma soprattutto perché
sul retro delle T-shirt erano state applicate delle apposite cerniere
per permettere al ragazzo di cambiarsi rapidamente senza rovinare
l’impalcatura laccata dei suoi capelli.
Indossarli lo faceva già sentire sballottato
dall’andamento del tourbus, in uno dei tanti camerini in
attesa di salire sul palco, sotto la pioggia di coriandoli della
canzone finale; era un modo per entrare di nuovo nella parte, ciascuno
aveva il suo: Gustav aveva comprato nuovo scotch per i calli, Georg
aveva messo da parte i videogiochi che si sarebbe portato dietro, Tom
aveva fatto lavare tutte le sue mutande per infilarle in valigia;
quest’ultimo rituale implicava, per sua sfortuna, un grande
lavoro da parte di Anya e, come ricompensa, Tom le aveva fatto
preparare il suo posto preferito per assistere al soundcheck: una sedia
davanti al palco con succo di frutta e uno scatolone per appoggiare i
piedi. Ad Anya piacevano più i soundcheck che i concerti,
perché se c’era una cosa che aveva il supremo
potere di farla capitolare lunga distesa su un divano con la testa che
girava a mille, quella cosa era il caos delle fan ai concerti.
Erano i periodi di massima tensione per lei: il lavoro non le pesava
più di tanto, ma viaggiare in bus era un grande sacrificio.
Non era mai riuscita ad ambientarsi e mai lo avrebbe fatto: non sentire
la terra stabile sotto i piedi per tanto tempo le dava la nausea.
L’unica gioia di quel periodo era il vedere posti nuovi,
perché lei, al contrario dei ragazzi e della stessa cugina,
si poteva prendere la fantastica libertà di uscire
dall’hotel a fare quattro passi per le città in
cui sostavano.
Tutto questo sarebbe stato invece nuovo per Mimi: la ragazza non aveva
la minima idea di cosa volesse dire saltare da un posto
all’altro come cavallette per mesi, senza la
possibilità di fermarsi quando la testa iniziava a girare
troppo e il senso del tempo e della realtà andavano perduti.
La sensazione di avere il mondo a portata di mano era piacevole solo
per i primi tempi, poi iniziavi a chiederti quando finalmente quel
fastidioso potere sarebbe finito.
-Allora, cominciamo?- vociò Bill rivolto ai tecnici,
incrociando le braccia al petto.
-Sì Bill, un attimo di pazienza, manca ancora Gustav-
-Ma dove si sarà cacciato?- esclamò il cantante,
guardandosi per la millesima volta alle spalle, come aspettandosi che
il ragazzo sarebbe apparso all’improvviso con una nuvoletta
di fumo rosa e uno scampanellare da genio della lampada.
-Ti ho acceso il microfono, inizia a scaldarti!- gli urlò
uno fra i tanti tecnici.
Anya succhiò forte dalla cannuccia del suo succo, fissando
lo sguardo sul ragazzo: era perfettamente al centro del palco,
perfettamente davanti a lei e continuava a guardarla; prendeva il
microfono e le lanciava un’occhiata, tossicchiava e sollevava
gli occhi su di lei, si levava la giacca e la osservava da sopra la
spalla. Sapeva che anche lei lo stava guardando, che, nonostante
fingesse di essere presissima dal succo, non poteva fare a meno di
seguire i suoi movimenti. E poi girava la testa intorno, per vedere se
qualcuno potesse disturbare la loro intesa: nessuno, Natasha era nel
guardaroba con Mimi, Georg era all’estremità del
palco ad accordare il basso con Tom, Gustav ancora non si faceva vedere
e tutti gli altri erano impegnati con i preparativi, i tecnici con le
luci e i computer, David e Dujna a discutere davanti ad una tazza di
caffè fumante.
Essendosene accorto a sua volta, Bill mosse un passo verso la ragazza,
fino ad arrivare al limitare del palco: -Allora, domani partiamo- le
sussurrò con malcelata noncuranza. Anya sorrise maliziosa,
giocando con la cannuccia.
-Scaldati Bill- gli intimò, spietata.
-Ma, dopo, riusciamo a stare… sì, a stare un
po’ insieme?- le chiese lui, guardandosi intorno con
circospezione e parlando in modo che solo lei potesse sentirlo.
-E come?- fu la risposta ironica della ragazza.
Bill si morse il labbro inferiore: -Non lo so, potremmo…- ma
Anya lo interruppe.
-Vediamo Bill-
Lo sai che mi piacerebbe, avrebbe voluto aggiungere,
ma in quel momento Tom raggiunse il fratello con la chitarra al collo e
già le mani pronte per suonare con lui, ignaro della
preziosità di quello che aveva interrotto. Bill
annuì allo sguardo allusivo del fratello e
recuperò il microfono dalla cassa su cui lo aveva appoggiato.
Tom attaccò con gli accordi di una delle poche canzoni che
Anya, loro spettatrice, apprezzava: Der Letzte Tag.
Bill tossicchiò un paio di volte prima di iniziare a
cantare, interrompendo la melodia con vari schiarimenti di gola che, lo
sapeva, ma non riusciva a farne a meno, peggioravano solo la situazione.
Pigolando, il ragazzo arrancò fino al ritornello e
lì, nonostante tutta la sua buona intenzione, la sua voce si
esaurì con un suono strozzato e anche Tom si
fermò, stonando e guardando stranito il gemello. Bill corse
alla sua bottiglietta d’acqua, trangugiandone una lunga
sorsata e cercando di nuovo Anya con lo sguardo.
-Tutto ok Bill?- lo interpellò il fratello, sistemandosi la
visiera del cappellino, come faceva sempre per denunciare un certo
nervosismo. Tom era il più ansioso di tutto il gruppo,
addirittura diventava morboso quando cadeva nel panico. Bill era
più appariscente nel manifestare la tensione, ma Tom era una
bomba ad orologeria pronta ad esplodere; faceva diventare i capelli
bianchi a metà della troupe, diventava insopportabile,ti
infastidiva con i suoi se e i suoi ma, si attaccava alle gonne come un
bambino piccolo.
E se si trattava di suo fratello, la questione degenerava in assoluta
pazzia, in iper-protezionismo, in crisi di asma psicologica.
-Sì- annuì Bill –Riproviamo, sono solo
poco caldo-
Georg, che aveva finito di accordare il suo strumento, con cui aveva
avuto delle complicazioni per il volume del suono troppo alto,
raggiunse i due gemelli con un sorriso per Anya e, accordatosi con gli
altri, iniziarono a suonare un’altra canzone. Ma anche questa
volta, la voce di Bill si infranse alle prime battute. Il ragazzo
sembrò tremare di collera e incomprensione nel momento in
cui sentì la propria voce cadere come un animale ferito e
gli sguardi sconcertati che gli lanciarono i suoi due amici lo
innervosirono ancora di più.
Provò ad emettere suono, ma senza successo e allora
gettò il microfono per terra: se Tom era il gemello ansioso,
Bill era quello affetto da crisi di ira e stizza irrefrenabili. Chiuse
le mani a pugno e si accanì contro la sua voce, provando a
fare dei deboli vocalizzi con le lacrime agli occhi.
Proprio in quel momento, tutti quelli che fino ad allora avevano
lavorato per i conti propri senza arrecare disturbo, non trovarono
niente di meglio da fare che fermarsi a guardare apprensivi il ragazzo;
David si alzò, rischiando di rovesciare la sua tazzina e far
cadere a terra la sedia, non capendo cosa stesse succedendo.
Anche Anya si alzò, scrutando il ragazzo che batteva i piedi
a terra per il nervoso, causato anche dall’improvviso
silenzio che gli portava un’attenzione non desiderata.
Sarebbe scoppiato ad imprecare, ossessionato dal suo maledetto
perfezionismo se Anya non fosse intervenuta, salendo sul palco senza
una parola e picchiettando rumorosamente con i tacchi delle scarpe
sugli scalini.
-Andate a provare più in là, per piacere-
ordinò a Tom e Georg, che, un po’ stupiti e ancora
preoccupati per il loro cantante, si avviarono verso un altro angolo
del palco; fece poi un cenno secco a tutta la troupe, imponendo di
farsi gli emeriti cazzi loro. Infine, si rivolse a Bill con sguardo
severo: non poteva sopportare le sue crisi da bambino; il ragazzo si
quietò subito, come un cagnolino ammaestrato.
-Senti male?- gli chiese.
-Fastidio, più che altro- rispose lui a bassa voce.
-Non è niente di preoccupante, non serve fare tante scene-
lo rimproverò Anya –Sciogli le spalle-
Bill scrollò piano le braccia, ruotando anche il collo teso.
L’ira che lo aveva assalito era scemata di colpo davanti alla
ragazza e alla sincera attenzione che gli stava dando, senza
preoccuparsi di essere vista o quant’altro. Era piacevole
essere rasserenato dalla sensazione di fiducia che lei gli trasmetteva.
Anya aveva seguito alcune lezioni di canto e dizione che
un’esperta aveva impartito a Bill quando il ragazzo aveva
iniziato a cantare anche in inglese e si era mostrata talmente
interessata da imparare qualcosa a sua volta.
-Bene. Ora lascia cadere la mandibola e respira profondamente con il
diaframma- gli intimò gentilmente, poggiando una mano sugli
addominali alti di Bill, che rabbrividì interiormente a quel
contatto. Obbedì, docile, ma non potè fare a meno
di appoggiare la sua mano su quella di lei e stringerla con dolcezza.
Anya arrossì contro il suo volere, ma non si
spostò di un centimetro, respirando con lui per guidarlo.
Dopo un quarto d’ora passato a cercare la preziosa ed
inseparabile macchina fotografica, Gustav fece la sua attesa
apparizione sul palco, ignaro di aver fatto aspettare tutti; nel
ritrovarsi una così singolare scena davanti agli occhi, il
ragazzo spalancò la bocca, incredulo, ma soprattutto
colpito. Ognuno era impegnato per conto suo, si sentivano solo le note
della chitarra e del basso in mezzo ad un silenzio irreale.
Immortalò subito tutto quello che l'obbiettivo della sua
alleata poteva contenere, corrucciato per non poter imprimere su carta
anche la sensazione straordinaria che infondeva quel silenzio strano;
poi volse lo sguardo alla sua batteria.
Impegnati a discutere sottovoce dell’accaduto tra loro, Tom e
Georg non erano stati abbastanza accorti da notare che Mimi, lasciata
sola Natasha, meravigliata e incuriosita da quell’ambiente
pervaso da una così piacevole aura di frenesia e imminenza,
aveva iniziato a passeggiare tra i fili e il disordine del palco,
finendo poi per sedersi, dopo un capogiro, sullo sgabello della sacra
ed inviolabile batteria di Gustav, di cui il ragazzo era molto geloso.
Si era fatto aiutare a montarla dal suo tecnico di fiducia qualche
giorno prima ed era legge non scritta che, all’infuori di
qualche privilegiato, lo strumento non andava sfiorato da
nessun’altro.
Georg fece uno scatto quasi involontario verso la ragazza, per
avvertirla del grave sacrilegio che stava compiendo, ma Gustav, che
l’aveva notata prima di loro, si avvicinò a Mimi
con un sorriso, scattandole una foto e salutandola gentilmente.
-Come stai?-le chiese, tranquillissimo. Georg lanciò
un’occhiata preoccupata verso Tom, che scrollò le
spalle, molto più in pensiero per suo fratello e
già assorto nelle possibili e nefaste conseguenze che
quell’incidente avrebbe potuto portare a tutto il tour.
-Bene- gli rispose Mimi, sistemandosi la frangetta che si era fatta
tagliare da Oliver.
A rompere il silenzio, la voce di Bill, che stava provando Monsoon
aiutato da una poco sicura Anya, li raggiunse come l'annuncio della
Terra Promessa; tutti, nella sala, tirarono un sospiro di sollievo e
finalmente poterono tornare al loro lavoro chiacchierando allegramente.
-Ecco io dovrei…- biascicò Gustav, indicando lo
sgabello su cui era seduta la ragazza –Dovremmo provare-
-Oh!- Mimi saltò in piedi, scusandosi e prese la macchina
fotografica dalle mani del batterista, dirigendosi verso le scale del
palco.
-Allora?- urlò Gustav agli altri, sedendosi al suo posto
–Proviamo sì o no?-
Bill raggiunse gli altri con un sorriso soddisfatto e subì
con allegria le pacche di incoraggiamento che Georg e Tom gli batterono
sulle spalle; Anya tornò al suo posto, al suo succo e
riprese a succhiare forte dalla cannuccia, facendo cenno a Mimi di
raggiungerla.
Perdonate gli eventuali errori. Ali
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