The Key

di Hiroponchi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhi Specchio ***
Capitolo 2: *** L'indole di Kei ***
Capitolo 3: *** L'indole di Allie ***



Capitolo 1
*** Occhi Specchio ***


Occhi Specchio
“E’ una coccinella”, ricordo che disse la mamma. “Non è adorabile?”.
Aveva il palmo della mano aperta e io non vedevo altro che una distesa di pelle bianca con al centro una cosettina piccola, rossa a macchie nere. Ricordo di aver guardato con tanta attenzione e di essere rimasta triste quando la coccinella volò via. Erano passati undici anni da allora e ora mi ritrovavo ventenne, ad ammirare le stranezze del mondo, e imparando ad amarle. Perché io ero una di esse. Ero diversa. Ero strana. O così mi giudicava il mondo ed io avevo mio malgrado imparato anche questo. Ad essere diversa. La mia famiglia era composta da quattro persone esclusa me. Il papà era un omone biondo, ex surfista di Miami, innamorato pazzo della mamma, impiegata bionda. Le mie due sorelline minori avevano entrambi i capelli color dell’oro e odiavano la mia collezione di libri fantasy. Io avevo invece una capigliatura color castano cioccolato, mi dipingevo le unghia di nero, e leggevo Il Signore Degli Anelli prima di coricarmi sotto le coperte. Andavo a letto alle dieci, leggevo fino a mezzanotte, poi spegnevo il lume e, al calduccio delle coperte, passava un’altra ora buona prima che prendessi sonno. Le mie sorelline, dal canto loro, andavano a letto a mezzanotte, dopo le grida della mamma per far sì che facessero i compiti, e leggevano Il Mago di Oz per stancarsi delle pagine solo una mezz’ora dopo e una volta a luci spente, dormivano come ghiri. Erano entrambe alle scuole medie, una in terza e l’altra in prima, e si vantavano dei loro splendidi capelli biondi. Ma qualsiasi fosse la realtà, la mamma che ricordavo io, amava le coccinelle e teneva sempre i capelli cioccolato in un’alta coda dietro la nuca. Non metteva le zanzariere ai balconi, faceva entrare le coccinelle e litigava con le mosche. E non spruzzava mai insetticida perché diceva che le rendeva puzzolente la pelle. Poi lei era andata via ed io mi ero ritrovata in una nuova famiglia, dove i monologhi erano sempre gli stessi.
“Allie, stai ancora leggendo?”, disse la voce stufa di mamma.
“Si, sono all’ultimo capitolo”, risposi.
“Và a letto che domani c’è scuola. E non lagnarti, le tue sorelle vogliono dormire quando salgono, non credi di disturbare troppo?”.
Sbuffando misi da parte Agatha Cristy e spensi il lume. Al contrario di ciò che diceva o pensava mamma, Madison e Lily salirono ridacchiando e parlando abbastanza volgarmente di un ragazzo bello comparso in classe. Si infilarono sotto le coperte e aprirono i loro libri di favole che credevano essere una buona copertura. “Che palle far credere alla mamma che ci piace ancora questa roba” disse Madison, indicando la figura dell’uomo di latta senza cuore.
“Vorrei un libro su Micheal”.
Risero di nuovo e spensero il lume perché arrivò la voce di rimprovero di papà. “Credi che Allie stia dormendo?” domandò d’un tratto Lily. “Voglio spettegolare”.
“Si, dorme. Dice di essere insonne, ma valle a credere”.
“Papà ha detto che l’hanno adottata quando noi eravamo piccole. Non volevo una sorella maggiore che non fosse tale per davvero”.
“Dov’è finita sua madre? Era una puttana?”.
“Macchè, magari! Almeno non ci sarebbe stato tanto da vergognarsi. Sua madre era, pensa, una cartomante! E collezionava coccinelle vive! Diceva che fossero per botanica ma sono sicura che facesse esperimenti strani”.
Madison scoppiò a ridere e si coprì la bocca col lenzuolo. “Maddai, una cartomante? Una bugiarda! Chi crede a quella roba? Leggeva i tarocchi?”.
“La sfera di cristallo” ululò Lily e anch’ella si coprì col lenzuolo. “Forse qualcuno ha dato fuoco alla sua tenda”.
“E suo padre?”.
Cadde il silenzio. Entrambe guardarono verso il mio letto sul quale ero solo un ammasso silenzioso di coperte. Anch’io avevo il lenzuolo in bocca ma per i singhiozzi. “Scappò col circo” bisbigliò Lily, spaventata. “Un giocoliere matto. Mangiava il fuoco e si lanciava dal trapezio”.
Anche Madison si rabbuiò. “Forse è stato il padre, allora, a dar fuoco alla madre”.
“Questa si che sarebbe una bella storia da leggere”.
E spensero il lume.
 
La scuola era un cortile freddo e grigio anche se c’era il sole. La struttura era bianca, con qualche crepa, ma pulita. Lo spazio pullulava di gente che mi stava antipatica ed io lo ero a loro. Mi sedetti sul solito muretto di mattoni, ad osservare quello sciame di api annoiate. C’era una certa atmosfera agitata: tutti scrutavano tra la folla, tutti si parlottavano all’orecchio o controllavano l’orologio. Madison e Lily si fecero spazio a spintonate. “Ehi, Allie” mi chiamarono con arroganza. “C’è un nuovo tipo anche oggi. Non sappiamo chi sia ma noi l’abbiamo visto. È un figo da paura quindi non dire che siamo sorelle ok? Non vogliamo che si spaventi o che diventi amico di una che…”
“Si, okay” tagliai corto e mi ributtai lo zaino sulla spalla. Avevo solo un filo di matita intorno agli occhi e un po’ di rossetto rosa. Non mi piaceva truccarmi con mano pesante ma in quel momento avrei voluto indossare una maschera. Mi guardavano tutti, chiedendosi come mai in una famiglia di biondi, ci fosse una castana cioccolato. Nel cortile della scuola nessuno sapeva stancarsi dei pettegolezzi ed io non vedevo l’ora di diplomarmi e andare via di lì. Quanto a casa sarei presto scappata. Prima o poi. Forse più poi che prima ma lo desideravo. Suonò la campanella e ci fu una spinta tremenda contro l’ingresso come se la marea ti spingesse verso gli scogli. Finii addosso ad un ragazzo e lui mi sostenne. Sotto la guancia sentii un cuore che batteva sotto una t-shirt di cotone. Mi alzai di scatto e mi rassettai i capelli. Era un ragazzo molto alto e magro, ma non troppo. Portava i capelli neri a spazzola e gli occhiali da sole a specchio.
“Tu sei la Frankstein di cui tutti parlano” esclamò. Non era una domanda. Poi mi fissò in silenzio perché non gli diedi una risposta. “Mi aspettavo un aspetto cadaverico e molto più trucco. Mani scheletriche e più borchie. Mah, la gente arricchisce troppo i pettegolezzi”.
Qualche ragazza in minigonna passò lanciando un’occhiata infuocata al tipo. Capii che era il nuovo ragazzo. Io mi guardai intorno. Non riuscivo a muovermi e al contempo mi girava la testa come su una giostra. “Stai bene?”, mi chiese. Era noncurante, come se stesse parlando ad un cane, ma c’era una nota preoccupata appena udibile, nel suo tono. “Mi sa di no, vieni con me”.
Mi prese per mano e prima che potessi fare qualcosa, mi condusse nel cortile ormai deserto. Un raggio di sole caldo colpiva gli alberi spogli e la fontanella di mattoni che aveva il rubinetto sporco di ruggine. Lui aprì l’acqua fredda e ne raccolse un po’ tra le mani, porgendomele. La luce solare colpì quel sorso d’acqua, facendone luccicare la superfice. Era come se mi mostrasse un lago segreto. “Bevi, prima che goccioli tutto”, mi disse. Per lui era la cosa più comune del mondo ma per me non lo era affatto. Tuttavia mi colpì un altro giramento di testa e caddi carponi dinanzi a lui, con la bocca che beveva dalle sue mani tese.
“Sembravi un gatto”, disse felice. “Che carino”.
“Non sono un gatto”, risposi contrariata.
Lui abbozzò un sorriso che sapeva di tristezza, poi si drizzò e mi porse la mano bagnata. Mi tirò su e mi sorrise con più entusiasmo. “Qui si sanno solo fare i pettegolezzi, vero?”, mi chiese.
“Farai tardi alle lezioni”.
“Non ci voglio andare”, disse. Se ne andò, dandomi le spalle, e oltrepassò il cortile della scuola. Incuriosita, lo seguii. I rumori del traffico ci arrivarono come squilli di trombe. D’un tratto mi mancò il silenzio che ci aveva avvolto mentre bevevo ma mi sentivo sollevata. Almeno i rumori coprivano i silenzi imbarazzanti. “Sei un tipo strano”, gli dissi.
“Lo so”. Non era sorpreso di vedermi accanto a lui. Non era neanche trasalito. “Per questo non mi piace questa scuola. E lo stesso vale per te”.
“Già”.
“Perché la scuola parla di te?”
Osservai lo sciame di auto, mi sentivo a disagio, come se stessi vivendo attraverso gli occhi di una persona estranea. “Perché sono diversa dalle mie sorelle”.
“E questo che centra?”, mi chiese lui, sconvolto.
“Credo di essere stata adottata”.
“Ah”.
Mi lasciai cadere sugli scalini di mattoni dinanzi ad una casa abbandonata e lui sedette accanto a me. Gli guardai il viso di profilo. Orecchie perfette, mi tentavano di accarezzarle; guance piene ma pallide, labbra carnose, rosee; fronte limpida, con un ciuffo di capelli corvini. “Togliti gli occhiali da sole”, gli sussurrai.
“Nient’affatto! Se lo facessi, la scuola parlerebbe anche di me”.
Un fruscio di vento mi scompigliò i capelli, mostrando un orecchino a forma di croce. “E perché dovrebbe?”.
“Perché qui la gente si nutre della sofferenza altrui. Spettegola, ti guarda soffrire, e gode. Basta che tu sia diverso per diventare cibo per i loro stomaci perennemente affamati”.
Le sue parole mi colpirono a tal punto da farmi rimanere zitta. Lo guardai con uno sguardo sognante che non mi accorsi di aver assunto sul mio viso. Avrei quasi voluto abbracciarlo mentre la sua voce calda mi carezzava, entrandomi nelle orecchie e scendendomi dolcemente giù per il corpo. “Dimmi almeno il tuo nome”, gli dissi piano, come se temessi di rompere un vaso di porcellana.
“Kei”, rispose solamente. “Vengo da lontano”, poi si voltò. “Tu chi sei, streghetta di Vancouver?”.
Gli sorrisi. Per una volta qualcuno usava quell’espressione per citarmi con simpatia, per farmi ridere e non per ferirmi. “Allie”, dissi.
“Ciao”, esclamò, balzando in piedi con un balzo. “Allie, streghetta di Vancouver”.
 

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Capitolo 2
*** L'indole di Kei ***


Non sapevo nulla di Kei. Né dove abitasse, né da dove venisse, né il suo cognome. Non sapevo neppure il colore dei suoi occhi; eppure la cosa che più mi premeva era che Madison e Lily volevano portarselo a letto ed io non facevo altro che ribollire di gelosia. Volevo rincontrarlo, in una strada a caso, parlargli di me, e sentirlo parlare di lui. Volevo che quella dolce voce mi ripetesse ancora quelle parole, quell’appellativo, “streghetta di Vancouver”. Una frase che sentivo mia, mi appartenesse.
“Dicono si chiami Kei”, disse Madison con fare malizioso. Aveva lasciato un assorbente sporco sul tappeto della camera e la mamma era andata su tutte le furie. Lei aveva cacciato due finte lacrime, poi lo aveva rimasto comunque lì. “Credi che uscirà con una di noi?”.
“Avrà circa vent’anni” soppesò Lily con ansia, mentre accendeva una sigaretta. Alla sua età, ero sicura che da donna adulta, avrebbe avuto i polmoni perforati. “Starà al corso per gli universitari”.
Entrambe guardarono me. Lily mi fumò in faccia. Tossii e mi alzai di scatto dal letto, facendo cadere i libri di filosofia. “Sei pazza?”, urlai.
“Kei è nel tuo corso?” mi urlò Madison, sbattendomi davanti quel suo seno prosperoso.
“Si”, risposi, in tono di sfida. Volevo che si ingelosissero. Ma più che altro si arrabbiarono. Lily, la piccola undicenne Lily, schiacciò il mozzicone col piede e mi prese sotto le ascelle, bloccandomi. “Che cosa fai?”, urlai. Madison mi diede un colpo allo stomaco che mi fece perdere l’equilibrio.
“Non te ne do un altro solo perché il ciclo mi sfinisce”, disse altezzosa e poi entrambe mi lasciarono a soffrire sul pavimento. In corridoio sentii dire Lily “Mammina, Allie sta sporcando la camera”.
Fortunatamente la mamma non venne a guardare e io mi rialzai a fatica. Misi tutto nella borsa a forma di panda, infilai una felpa nera, e uscii. In salotto papà era entusiasta di parlare a telefono con dei parenti lontani, quindi nessuno mi sentii uscire. Per strada le lacrime mi riempivano gli occhi ma non le cacciai. Volevo resistere, farmi un’anima di ferro. Ma l’impresa sfumava sempre di più, specie quando ti sentivi estranea alla tua famiglia, quando non sapevi chi sei, e quando non avevi un’amica da cui rifugiarti o un cane pronto a leccarti la faccia con affetto. Ma vidi Kei. Era in fondo al vicolo, appena uscito da un negozio di dischi. Mi vide, accennò un saluto. Era quello che volevo. Incontrarlo per strada, per caso. In una situazione normale mi sarei catapultata tra le sue braccia ma niente in me era normale. Non volevo che mi vedesse piangere. Mi voltai dal lato opposto e corsi via, le spalle che tremavano per il peso della vita.
“Ehi, aspetta” udii la sua voce. Poi sentii dei passi affrettati. ‘fa che non mi venga dietro’ pensai con tutte le mie forze, ma inutile, tutto quanto. Mi mise una mano sulla spalla e mi voltò. Aveva ancora gli occhiali da sole a specchio nei quali si rifletteva due volte il mio viso piagnoso.
“Stai piangendo”, notò, triste. Poi vide che mi tenevo lo stomaco. “Ti fa male?”, chiese.
Voltai il viso, incapace di guardarlo, ma egli mi prese il mento con delicatezza e mi guardò. “Guardami”, mormorò.
“E cosa?” protestai esausta. “Un paio di occhiali da sole in cui si riflette il mio viso di merda?”.
Rimase immobile, forse scioccato dalla frase. Poi parve capire e lo vidi togliersi gli occhiali da sole. Aveva due enormi occhi confetto, a mandarla, tipici dei paesi orientali. Ora sapevo perché non voleva mostrarsi nel cortile della scuola. Ora sapevo che nemmeno Madison e Lily volevano più andare a letto con lui se l’avessero saputo. L’avrebbero chiamato ‘muso giallo’. Eppure a me parve bellissimo. “Va meglio?”, mi chiese.
Annuii, asciugandomi gli occhi. “Sono una stupida”.
Kei mi fece una carezza. “A me sembri molto più intelligente di chiunque altro. Ricordalo, Allie, è chi capisce che soffre. Non gli stolti”.
Gli rivolsi un debole sorriso e aspettai che succedesse qualcosa. “Vieni da me?” mi domandò con fare leggero. “Abito qui vicino”.
“Per fare che?” domandai sospettosa.
Lui mi fissò negli occhi e sorrise quel magico sorriso. “Tutto ciò che vuoi! Piangere o ridere, picchiarci o fare l’amore. Decidi tu!”.
Scoppiai a ridere. “Sei proprio un tipo strano”.
Kei allungò le braccia e mi strinse. Rimasi bloccata tra i suoi bicipiti e incapace di ricambiare. “Grazie” mi sussurrò. “Mi hai fatto tornare la voglia di stare con qualcuno. Sei proprio la streghetta di Vancouver che desideravo”.
*
Casa sua era bella. Piccola ma accogliente. I divani erano blu, i tappeti bianchi, la cucina ordinata e colorata, con una ciotola di frutta al centro del tavolo in legno. Le tende erano ben appese eppure qualcosa mi fece capire che viveva da solo. Nel lavandino c’era una sola tazza da lavare, sul divano un solo cuscino fuori posto. Il resto immacolato. Alle finestre più esposte c’erano delle assi. Di colpo fui spaventata. Kei capii che mi stavo guardando intorno e abbozzò un sorriso timido.
“Non farmi parlare”, disse. “Scapperai via da me”.
“Cosa vuoi da me?” sussurrai.
“Compagnia” mi rispose, scrollando le spalle. “Qualcuno con cui parlare”.
“Chi sei?”.
“Un fuggitivo” rispose, guardandomi indietreggiare. “Mio padre mi ha costretto a lasciare il Giappone, andare lontanissimo per qualche anno. Devo far calmare le acque. Io ho…” esitò, poi mi guardò intensamente. “Ucciso una persona”.
“Sei un assassino” esclamai, rapita.
“Già. Ma per autodifesa”.
“Voglio andare via”, ordinai, quasi in un grido.
Kei mi guardò triste e per un attimo mi persi nei suoi occhi teneri. Annuii comprensivo e mi aprii la porta. Feci qualche passo sul pianerottolo. Sentivo il suo sguardo su di me, il suo cuore battere alle mie spalle. Non sapevo cosa fare. Andare via o… restare? Mi voltai. Mi guardava come un cane abbandonato. Lo stavo lasciando come la mamma aveva lasciato me? Gli stavo dicendo addio? Perché si era difeso? Dovevo credergli? O aver paura? I dubbi erano troppi per andar via.
“Voglio restare”, esclamai.
“Ogni tuo desiderio è un ordine” esclamò, sorridendo mio malgrado.
Chiuse la porta alle mie spalle e corse ad aprire quella della camera da letto. Era quasi tutta blu, con molti fumetti, poster e cd. C’era un portatile sulla scrivania e un peluche decisamente brutto: gli mancava un occhio di bottone e l’imbottitura saltava fuori. “E’ orribile”, gli feci notare.
Lui rise. “E’ di quando ero bambino. Non riesco a buttarlo via”.
“Voglio che mi parli di te”, risposi, carezzando il peluche. Non volevo pensare che mi stesse guardando. “Ogni cosa. E poi deciderò se andar via”.
Kei si stese sul letto, le braccia incrociate sotto la testa. Al suo fianco, sembravo brutta come il peluche. Ma lo ascoltai parlare. La sua voce tremolava, a volte più forte, altre di meno, ma di sicuro tratteneva le lacrime. “Era una notte buia, d’inverno, avevamo bevuto. Io e i miei amici. Eravamo stati al karaoke ed io mi ero al quanto ubriacato. Raggiungemmo un vicolo. Toya diceva che lì si poteva fumare canne senza essere visti. Non avevo mai fumato nemmeno una sigaretta ma volevo provare. Seguii lui e gli altri. Ma lì trovammo dei banditi, i topi di fogna, più ubriachi di noi. Ci dissero di andare. Noi li fronteggiammo. Poi quello più grosso afferrò Toya con una mano sola, un braccio peloso e scimmiesco. Lo scaraventò nel muro e…”
Mi guardò, forse indeciso se continuare. Ero immobile, a fissarlo, senza mostrare orrore o disagio. “Il suo collo si spezzò” continuò, guardandomi in faccia. “Lo vidi cadere a terra, morto. Il mio migliore amico. Feci per scappare ma ero così ubriaco da inciampare. Gli altri erano tutti fuggiti. Gli uomini ridevano e parlavano di vendermi al mercato, di farmi a pezzi, o schiavo. Uno tentò di afferrarmi la gola ma io ebbi i riflessi pronti. Non volevo finire lì come Toya, essere trovato chissà quando, e avere un misero funerale di cui nessuno si sarebbe ricordato. Trovai una bottiglia scheggiata alla cieca, nel buio, e la ficcai nella testa dell’uomo. Ci fu un boato, lo vidi cascare a terra, il sangue che invadeva il vicolo. Gli altri urlavano, mi insultavano. Decisi di dover scappare, per quanto le gambe me lo permettessero. Raggiunsi casa e gliene parlai a mio padre… le presi prima di santa ragione. Poi mi spiegò che dovevo andarmene lontano perché il tizio che avevo ucciso era… il capo di una banda mafiosa”.
“Oh, Kei…”.
“Non dire nulla”, si mise seduto e spinse le gambe fuori dal letto. Le sue ginocchia dure sfioravano docilmente le mie. “Agisci soltanto. Vai via?”.
Lo guardai negli occhi e provai un senso di affetto. Volevo accompagnarlo nel dolore, stargli accanto, e sostenerlo. “Rimango solo se mi prometti che non berrai più”.
Kei sorrise, preso alla sprovvista. “Mai più”, gridò e mi offrì le braccia. Era la prima volta che ricambiavo la sua stretta ed era piacevole. Profumava di bucato fresco e violette. “E tu? Perché parlano di te?”.
Mi carezzai l’addome ancora dolorante. Forse per il colpo incassato o la storia ascoltata. “Mia madre era una cartomante. E mio padre un giocoliere del circo. Lui non l’ho mai conosciuto ma credo sia vivo… la mamma,non so…”.
Kei mi baciò la fronte e io chiusi gli occhi per sorbirmi il tenero effetto. “Non voglio che tu ti prenda un’ossessione per me”, gli sussurrai spaventata.
“Ossessione? Non so che significhi”. Ancora una volta la sua voce mi percorse in brivido la spina dorsale.  “Sei la cosa più libera che abbia mai visto. Mi piacerebbe essere il fiore sul quale ti poserai per succhiare il polline, quando ne hai voglia, e stare lì ad ammirare le tue splendide ali. Mi piacerà incontrarti per caso e salutarti come un amico. Non sei incatenata a me. Sei ciò che mi rende sereno. È diverso! Sai che diceva mia mamma quando calciavo una porta? Che le avevo fatto male e dovevo pentirmi. E io andavo lì e dicevo ‘scusa porta’.” Mi guardò sorridere e mi fece una carezza sulla guancia. “Non ferirò il tuo animo”.
“Guarirò il tuo”, gli promisi. “Fuggitivo del Giappone”.
Mi catapultai in un altro abbraccio, quello che avevo desiderato poco tempo prima. Gli cinsi i fianchi, gli poggiai la testa sugli addominali. Mi lasciai carezzare i capelli, sentire la sua esistenza lì accanto a me. “Sai una cosa?”, notai. “Il tuo nome pronunciato all’inglese, vuol dire chiave”.
“Sono felice che tu l’abbia notato” esclamò Kei. “Perché tu sei quella chiave che ha aperto lo scrigno che era diventato il mio cuore. Era stato chiuso per troppo tempo”.
 
Quello che successe dopo non lo so neanche io. La sera era calata e noi non avevamo sciolto quell’abbraccio. Quando lo facemmo scoprimmo che l’aria era fredda ed entrambi desiderammo l’uno il calore dell’altro. Kei mi baciò. Le sue labbra erano vellutate, piene di delicatezza. Non sembravano le labbra di un assassino e in quel momento non pensavo a questo aspetto della sua vita. Nella mia mente c’era Kei e basta. Sentii i vestiti cadermi di dosso, le spalline del reggiseno scrivolarmi dalle spalle. Le sue mani calde mi sfioravano la pelle. Tremavo ma non dal freddo. Lui lo sapeva e mi strinse a sé con più forza mentre mi posava dolcemente sul letto. Non avevamo la forza di accendere le luci. Bastava il chiarore della luna. Si spogliò mentre tenevo gli occhi chiusi. Non sapevo cosa pensare né cosa fare. Eppure era ciò che volevo. Mi afferrò teneramente per i fianchi e, chinandomi il capo all’indietro, mi baciò il seno. In tutta la famiglia, era quella che ce l’aveva più piccolo. Le mie sorelle mi avevano prese in giro per questo e mia madre criticata. I miei seni erano come due pesche, vellutate e rosee, sode. Eppure a Kei piacevano tanto. Succhiò i capezzoli con avidità e mi rilasciò sul letto, dove mi rimase inerte. Ansimavo ancora, con le gambe strette e il seno unto di saliva. Alla fine aprii gli occhi e lo guardai. Pettorali scolpiti si sposavano con i muscolosi bicipiti che avevo già sentito. I suoi addominali palestrati erano tesi. Vidi un bacino perfetto, il che mi fece pensare stupidamente che forse avrebbe spinto con forza. Il suo pene, poco più scuro del resto del corpo, era eccitato. Mi venne addosso e mi diede un bacio a fior di labbra. I suoi caldi pettorali erano un piacere sul mio seno freddo. Mi penetrò con una dolcezza che non mi ero aspettata. Faceva male ma restai aggrappata al suo collo, ansimando, e lasciandolo fare. Quando finimmo, io ero stanchissima e lui non aveva voglia di parlare. Mi carezzava piano, ovunque. Sembrava che mi chiedesse scusa, che gli dispiaceva. I suoi occhi espressivi mi fissavano da sopra il cuscino, trasmettendomi un senso di pace. Le sue dita carezzarono la mia vagina e io mi lasciai sfuggire un gemito. Caddi tra le sue braccia, e gli leccai il collo. Poi Kei mi tenne stretta tutta la notte e poco prima che mi addormentassi mi sussurrò all’orecchio “Era la mia prima volta, Streghetta di Vancouver”.
 

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Capitolo 3
*** L'indole di Allie ***


Il giorno dopo, a scuola, Kei mi mancava tremendamente. Eravamo nelle stesse classi ma non potevamo guardarci spesso e quando ci incrociavamo, facevamo finta di essere formali l’uno con l’altro. Lui aveva rimesso gli occhiali a specchio prima di uscire di casa ma il fatto che io sapessi che occhi stupendi c’erano dietro, faceva sì che mi sentissi la custode di un segreto. Una tipa bionda si sedette sul banco di Kei durante l’ora di biologia e il mio viso avvampò di rabbia. Lui fece finta di niente, lanciandomi un’occhiata che non potei classificare.
“Kei, che ne dici di uscire stasera?”, gli domandò con voce mielosa. Gli prese una mano e se la portò sulla gamba. Strinsi forte la spalliera della sedia di ferro, pronta a lanciargliela in fronte. “C’è il circo in città, faranno un nuovo spettacolo di leoni. Vuoi venirci, con me?”.
L’indifferenza di Kei divenne interesse. Si voltò di scatto verso la bionda e io sentii lo stomaco precipitare negli abissi di qualche oscuro luogo. “Il circo?”, chiese.
“Si, ti piace? Ci andremo insieme e poi, magari, chissà…” si chinò a dargli un bacio sulla guancia. Quelle labbra volgari, rosse, sul quale desideravo mollare un pugno e veder spuntare una crepa sanguinosa. “Giocheremo un po’”.
“Si, okay”.
La sua risposta gioiosa mi fece saltare dalla sedia. “Lascialo in pace”, gridai, scaraventando la tipa giù dal banco.
“Ehi” strillò quella. Un gruppo di amiche inviperite si fece avanti per pestarmi.
“Lui non ti appartiene, ok?”.
“Perché, a te si?”
Nell’aula scoppiarono a ridere in molti. Le tipe mi si fecero strette intorno. Kei si alzò e disse di smetterla. “Hai fatto bene” gli sussurrò la tipa all’orecchio. “Altrimenti avrei ridotto questa mostriciattola alle dimensioni di una frittella. Come osa rivolgermi la parola?”.
“Calmati” mi disse Kei, piuttosto freddamente. “Il professore ci sentirà se continui”.
Mi fece arrabbiare. Sentii che tutto ciò che avevo subìto stava uscendo allo scoperto. “Non atteggiarti a capetto. Solo io so chi sei!”. Gli tolsi gli occhiali da sole prima che potesse fermarmi e la classe ammutolì.
“Un… cinese?” esclamò la bionda, indietreggiando. “Dimentica il circo, ok?”
“Che delusione” mormorò qualcun’altra.
Lui mi lanciò uno sguardo di fuoco. “Aspettami giù dopo le lezioni” ringhiò a denti stretti. Quel giorno uscii con una mano sulla bocca e gli occhi che colavano lacrime. Tutti si voltavano a guardarmi, tutti sapevano della scenata in classe. Non ero l’unica. Ora anche Kei veniva criticato. Ma lui camminava a testa alta nella mia scia, scrutandomi con la vista di un falco. Mi raggiunse sul muretto del retro, dove c’era la palestra. “Che ti è preso, stronza?”. Mi spinse e caddi. Il ginocchio mi si ferì e si aprì una sbucciatura.
“Ero gelosa”, risposi.
“Non avresti dovuto farlo”, si voltò e fece per andarsene, calciando l’asfalto.
“Vuoi scappare anche da me?”, gli urlai. “E le parole di ieri sera?”. Mi alzai a fatica, zoppicando. “Dov’è finito il Kei che ho amato a letto? Quello che mi ha fatto perdere la verginità?”.
Mi si spinse contro e finii rumorosamente contro le porte vetrate della palestra. “E’ ancora qui”, mormorò e mi fece seriamente paura. “Ma non vuole essere deluso”.
Abbassai lo sguardo, come una preda. “Non posso essere gelosa dell’uomo che amo?”.
Lui rimase in silenzio e il suo sguardo duro si addolcì. “Mi ritieni il tuo uomo?”.
“Non dovrei?”, chiesi timida, il cuore che batteva forte. Kei mi sfiorò una guancia con la mano destra. La mano che probabilmente aveva usato per uccidere.
“Sei proprio quella che credevo”, abbozzò una risatina bassa. Posò le mani sui vetri della palestra, gonfiando i muscoli delle braccia, e mi diede un bacio senza lingua. Un segno d’amore. “Sei libera, ricordi? Non devi essere gelosa. Devi amarmi come ieri. Non farlo più, okay?”.
Annuii, più serena. “Non volevo che tu… che tu andassi con quella e…”.
Kei mi baciò di nuovo per zittirmi. “Ehi, sciocca, parlava di circo. Sarebbe stata una buona occasione per vedere se trovavo tuo padre o qualche traccia di lui”.
Trasalii, i miei occhi balzarono dritti nei suoi, e qualche lacrima trattenuta schizzò via. “Tu… avevi pensato a me?”.
“E a chi, sennò? Sciocchina!”.
Mi sentii una vera stupida. Per farmi perdonare, gli baciai sentitamente le labbra. Ebbi voglia di lui in quel preciso istante. La pioggia scese giù a catinelle, bagnandoci il collo. Una goccia furba mi scese giù per il petto, e Kei la seguii con lo sguardo. Mi prese per mano e mi lasciai condurre chissà dove. Ora sapevo che di lui potevo fidarmi ciecamente. Tra tutte, aveva scelto me. Amava me e le mie anormalità. Amava me in ogni tipo di sorte, purchè ero io e basta. Mi poggiai al freddo muro e ansimai. Negli spogliatoi del club di basket, Kei mi aveva infilato una mano nei leggins. Sentii il suo dito freddo penetrarmi le grandi labbra e mi lasciai abbandonare al piacere. Mi toccò il seno con avidità, mi leccò il basso ventre. Sapevo che voleva farlo, ma la cosa mi turbava un po’. Lo bloccai con le mani senza volerlo. Lui si fermò e mi guardò con quell’aria da bambino. “Non vuoi?”, mi sussurrò.
“Ho paura che tu voglia solo questo da me”, replicai sottovoce.
Kei scosse il capo, ma rimase in silenzio a sostenermi lo sguardo. Più i secondi passavano, più acconsentivo ad ogni suo volere. Era meccanico, automatico. Lo amavo alla follia, ed avevo iniziato a farlo solo perché lui si era aperto a me. Mi leccò la vagina con voglia, penetrandola un po’. Gemitai, cercando di non far troppo rumore. Lo sentii baciarmela piano, poi forte, poi di nuovo piano. Le diede un’altra energetica leccata, che mi fece sfuggire un grido, poi tornò su e mi baciò. Mentre le nostre lingue si toccavano e giocavano tra loro, gli spinsi giù la zip e gli calai i jeans e i boxer contemporaneamente. Lo portai dentro di me, lo condussi al mio cospetto come una regina col suo suddito, e mi lasciai soddisfare. Era ancora più intenso della prima volta ma meno dolce. La tensione ci era passata, ci eravamo già esplorati ed entrambi desideravamo più passione. Durante l’orgasmo, gridai, senza curarmi di far piano. Quando lui si stancò e si poggiò su di me, tranquillo e innocuo, lo coccolai come si fa con un cucciolo e Kei sorrise, felice di essere viziato. Lui era l’unico che mi faceva capire chi ero ed era questo ciò che contava per me. “Mi porterai nel tuo paese, un giorno?”, gli sussurrai nel buio degli spogliatoi.
“Ha-ha”, esclamò Kei. Sembrava molto rilassato. “Andremo a vivere lì quando ci sposeremo”.
Mi sfuggì un sorriso e lo strinsi più forte. “Mi porterai al circo, oggi?”.
“Va bene”, si alzò, afferrò i boxer e se li infilò. Poi mi lanciò un’asciugamano pulita che stava sulla mensola di un armadietto aperto. “Riscaldati un po’, sei gelida” mi disse premurosamente.
 
Quella sera, l’oscurità era invaghita di luci. Le giostre ne avevano mille e le facevano risplendere tutte insieme. I venditori di cibo erano allegri e gridavano i loro sconti. C’era gente dappertutto e movimento in ogni angolo. Kei mi stringeva la mano e mi guidava dove gli spettatori non c’erano. Un pagliaccio, privo del naso rosso, si esercitava con sette palline che faceva roteare in cerchio tra le mani. Ci rivolse un segno di saluto che ci fece continuare più spensierati. Il grosso tendone a strisce blu e bianche occupava gran parte dello spazio e nel vicolo del personale, c’era più oscurità. I bagliori delle luci arrivavano a rilento e i rumori giungevano ovattati. Vari giocolieri se ne stavano seduti su una panca a fumare il sigaro. Alcuni bevevano alcool. Più in fondo, vedemmo un mangia-fuoco. L’uomo era alto e con molti muscoli, ma il fisico rispecchiava l’età. Non doveva essere più tanto giovane ma l’allenamento gli dava l’aspetto di ciò che era stato il passato. Soffiava da un bastoncino e ne usciva una fiamma. Indossava dei jeans stracciati e una maglietta di cotone nera. Era scalzo.
“Ehm… mi scusi” domandò gentilmente Kei. Non avevo un briciolo del suo coraggio ed ero rimasta indietro di due passi. Non riuscivo a guardare da nessuna parte se non l’ombra nel terreno. L’uomo si voltò ma non degnò Kei di uno sguardo. Mi fissò dritto negli occhi, costringendomi a fare lo stesso. I suoi erano color nutella, come i miei. Non azzurri come quelli di papà.
“Allie…” sussurrò e quegl’occhi che stavo studiando, si riempirono di lacrime. “Allie, sei tu”.
Mi misi a piangere anch’io. Non sapevo cosa fosse giusto ma andai ad abbracciarlo. Il fatto che mi avesse riconosciuta così presto mi sciolse il cuore e mi fece tremare il torace, carico di troppe emozioni. Mio padre era così forte da sollevarmi da terra mentre mi abbracciava. “Sei… uguale a tua mamma”, esclamò. “Caroline, la dolce Caroline che prevedeva il futuro con le carte. Non sai quanto l’ho amata, Allie, non sai…”
Sorrisi, cercando di fermare il pianto. “Qual è il tuo nome?”.
“Joseph, mi chiamo Joseph”.
Kei si fece indietro, senza volersi immischiare in quel ritrovo. “Cos’è successo alla mamma?”, gli domandai.
“Era malata di cancro, Allie. Non voleva che tu la vedessi morire e non aveva nessuno a cui affidarti. Io avrei voluto tenervi con me, sin dall’inizio. Ma guardami, guardati intorno, sono un nomade. Guadagno pochissimo, vivo in tutti i paesi del mondo, e non ho una famiglia. Il circo di certo non è un posto in cui vivere. Non per una ragazza… ma sei venuta su così bene”, mi strinse a sé e io ricambiai.
“Vedrò lo spettacolo, papà”, esclamai rapita.
“Oh, Allie. Farò del mio meglio, per te. Solo per te. Sei il regalo più bello!”.
Dopodichè io e Kei, mano nella mano, ci sedemmo nel buio del tendone, a sgranocchiare popcorn. I pagliacci fecero un vero baccano, la gente rideva a più non posso. Ci furono le tigri e i loro domatori. I leoni fecero uno spettacolo assolutamente fantastico. E poi papà, fu colui che fece trattenere il fiato a quelle centinaia di persone. Si lanciò col trapezio in una serie di cerchi infuocati, mangiò fuoco, fece roteare dei ramoscelli infuocati tra le mani. Non facevo altro che trasalire e gridare, scorticando la mano di Kei. Ma mio padre fu uno spettacolo straordinario e glielo dissi quando lo salutai, portandogli un fascio di fiori che avevo comprato lì fuori. “Sei stato bravissimo”.
“Allie”, mi disse, mettendomi una mano sulla spalla. “Ti scriverò cartoline e lettere da ogni parte del mondo. Fidati di me”.
“Mi fido di te, papà”.
Quando ce ne andammo ero fuori di me dalla gioia ma continuavo a piangere e a ridere al tempo stesso. Kei condivideva le emozioni con me, mi teneva la mano, e mi baciava la tempia quando piangevo troppo. “Ti adora”, mi disse. “Finalmente puoi vivere in quella famiglia di biondi-occhi-azzurri, col pensiero che tuo padre è un giramondo strepitoso che ti vuole bene”.
Mi asciugai una lacrima. “Kei”, esclamai, aggrappandomi a lui in un caldo abbraccio. “Lasciami qui, per favore. Preferisco tornare a casa da sola”.
“Sei sicura?”.
“Sì. Madison e Lily saranno lì e non voglio che ti vedano e ti…”
“Non m’importa”, mi interruppe fermamente.
“Ma importa a me”, gli presi le mani e gliele accarezzai. “Grazie di tutto Kei. Di avermi accolta nella tua vita come una persona qualunque, con così tanto amore. E grazie per questo giorno. Io… non dimenticherò mai”.
Si chinò a baciarmi. “Buonanotte, Allie, streghetta di Vancouver”.
Gli strappai un ultimo bacio e le nostre strade si divisero. Avevo la pancia piena di popcorn e l’aria felice ma stanca. Sul mio viso, stravolto tra pianti e risate, sembrava passato un maremoto. Le luci dei lampioni erano spente e in strada era comparso l’avviso comunale che diceva qualcosa a proposito di un guasto ad una cambina elettrica ma era così buio che si leggeva a stento. Tuttavia casa mia era la terza villetta a partire dal vicolo quindi ci sarei arrivata benissimo. “Dove sono le chiavi?” mormorai a me stessa, scavando nella borsa. Le luci erano spente, forse i miei genitori dormivano già. Non mi aspettavano mai.
“Aspetta un secondo, okay?”, mi fece trasalire una voce.
Voltandomi a guardare, mi sentii avvampare. La tipa bionda era lì fuori, con un paio di amiche mulatte. Indossavano minigonne e tacchi alti. La spallina del reggiseno rosso spuntava da sotto la camicetta sudata della mia compagna di classe. Si tolse la sigaretta di bocca e lasciò che una scia di fumo ondeggiasse tra di noi. “Cristy, ti ho detto cosa fare”, ordinò.
La più scura di pelle sorrise un candido sorriso, la cosa più bianca che ci fosse in tutta la via. Mi si avvicinò a passo spedito e mi trattenne per un braccio, stringendomi forte. La borsa mi scivolò vià e tutto il contenuto si riversò sull’asfalto. “Lasciami, stronza”, urlai, mentre mi spingeva contro la bionda. Ella mi spense il mozzicone sul braccio bloccato, facendomi urlare fino allo spasimo. Ma più urlavo, più spingeva la sigaretta nella carne. Alla fine mi rimase una scottatura violacea, con una brutta bolla, e caddi carponi, tenendomi il braccio ferito.
“Lascia Kei”, mi ordinò la bionda, alzandomi il viso tirandomi per i capelli. Con la testa così inclinata all’indietro, vedevo solo il manto stellato. “Sarà pure un tizio orientale chissà di quale paese di merda ma, è figo. Ho deciso che me lo voglio scopare. Tu, ci hai scopato, bruttina?”.
Vidi il suo viso malefico guardarmi con severità e trattenni le lacrime. Le amiche mulatte mi trattenevano a terra. “Scopare? Io e Kei ci amiamo!”.
“Sciocco”, sorrise la bionda. “Irragionevole. Illogico. Una brutta come te. Un’imbecille come te. La figlia di una cartomante… pazza, suppongo. Vediamo, cosa dice la sfera della mamma, Allie?”, mi prese il viso tra le mani e mi fece specchiare nei suoi occhi verdi. “Che la sua brutta streghetta sta per essere pestata a sangue, eh? Ohhh, non hai molta fortuna”.
Mi diede un calcio nello stomaco e sentii il tacco a spillo colpirmi l’intestino. Una mulatta mi schiacciava sull’asfalto, l’altra mi prendeva a schiaffi. La bionda accese un’altra sigaretta e mi fece una serie di bruciature sulle gambe. Per quanto urlassi, nel buio solo le stelle mi guardavano. Grandi e immense nello spazio, potenti, inutili e piccole sul cielo terrestre. “Basta…” sussurrai, il corpo in fiamme per il dolore. “Basta…”.
“Andiamocene!”.
 
Dlin Dlon
“Un attimo”, sbadigliò Kei dal bagno, mentre si asciugava il viso con un’asciugamano di lino. La porta suonò di nuovo. “Ho detto un attimo, che cavolo!”.
Aprì la porta senza indossare una t-shirt, e Madison trasalì appena. Regnò il silenzio, poi lei iniziò il primo passo della conversazione. “E’ qui che abiti, allora!”.
“Che vuoi?”, le chiese scontrosamente Kei, trattenendo la porta con noia. “Non sei la sorella di Allie?”.
“Adottiva”, lo corresse lei, giocando col pearcing all’ombelico. Guardò lungo il vicolo deserto, poi di nuovo verso di lui. “Beh, non so perché sono venuta ma papà ha detto che altrimenti mi avrebbe preso il cellulare per una settimana o forse più, che cazzo!”.
“Insomma, che vuoi?”.
“Allie ha fatto il tuo nome”, tagliò corto Madison che sbadigliò sonoramente a metà frase. “Pare sia stata pestata a sangue ieri sera. Vorrebbe vederti”.
Kei era rimasto alla prima parte della frase, sconvolto e ferito, col cuore che sembrava competere con un tamburo. La testa gli si annebbiò ma trovò la forza di ribattere. Prese una felpa e se la infilò sul dorso nudo e seguì la sculettante Madison fino a casa. In realtà aveva camminato un passo innanzi a lei per tutto il tragitto, con voglia di correre, ma ogni tanto si era girato per vedere se lei lo stesse seguendo. A casa, fu papà ad aprirgli la porta. Era estramamente diverso dall’uomo conosciuto al circo e non somigliava a me per nulla al mondo.
“Tu devi essere Kei”. Papà non gli porse la mano ma nemmeno Kei osò inchinarsi.
“Sì. Dov’è Allie?”.
“Di sopra” rispose l’uomo, incapace di comprendere come comportarsi. “Sta molto male. Cerca di confortarla un po’. Non fa altro che chiamare il tuo nome”.
Kei saltò gli scalini due alla volta e aprì piano la porta della mia camera. Al cigolio dei cardini, voltai il capo dolorante sul cuscino e quando lo vidi mi spuntò un sorriso sul viso graffiato. “Kei…”.
Lui si avvicinò esitando. Mi guardava con aria seria, crucciato. “Chi è stato?”.
“Non importa”.
“Importa a me”, mi prese la mano e me l’accarezzò, come avevo fatto io la sera precedente, l’ultimo ricordo che ricordassi prima d’esser picchiata. Mi fece capire che prestava attenzione ai miei gesti e la cosa mi fece piacere. Un po’ di luce in quell’ammasso di oscurità che tentava di affogarmi.
“La bionda. Quella che voleva invitarti al circo. Con le sue amiche mulatte”, risposi. Avevo paura nel dirglielo ma, mentre parlavo, vedevo già la mie parole stampate nei suoi occhi.
“Perché lo hanno fatto?”.
“Non ritenerti responsabile”.
Kei abbassò lo sguardo. Mi baciò la mano e poi restò a studiarmi le dita, come se le contasse. “Se vuoi, le ammazzo! Le scortico vive e poi butto i loro organi nella spazzatura”.
Lo guardai con tanto d’occhi. “Non farlo! Non voglio che tu sia un assassino anche qui. Kei, non voglio separarmi da te. Stammi accanto”.
Vide le bruciature sulle gambe e gli spuntò una lacrima. “Dovevo accompagnarti a casa”, rispose con voce tremante. Mi misi a sedere, sopportando il dolore alle ossa, e lo abbracciai.
“Mi basta che tu ci sia”.
“Vieni a vivere a casa mia”, disse, d’un tratto, senza indecisione. “Viviamo insieme d’ora in avanti. Ti proteggerò da tutto”.
Gli sorrisi. “Siamo ancora giovani, Kei”.
Lui scosse il capo, piangendo e tenendomi la mano. “Non lo sono per la donna che amo. Ti amo, Allie. Voglio che tu viva accanto a me”.
Era la prima volta che me lo diceva e trovai la forza di abbracciarlo ancora. “Anch’io ti amo, Kei”, gli dissi all’orecchio. “Sei tu la vera chiave tra di noi. Hai aperto il tempio in cui la mia vita era rinchiusa e l’hai resa libera”.
Guardammo fuori dalla finestra e vedemmo una farfalla, forse l’ultima della stagione, posarsi sul davanzale di legno e sbattere le ali con stanchezza. “Sai una cosa, Allie? Diventerò uno scrittore. E tu sarai la protagonista di ogni mio romanzo. Parlerò di come la Streghetta di Vancouver si trasformò in una farfalla e di come si innamorò di un potenziale assassino venuto da lontano”.
 
 
 
 
 

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