Hope

di Lilu_wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Scappa.                                                                                                                                                                                        
 
È solo un sussurro a fior di labbra, ma le esplode nel cuore come una cannonata. lacerante.                                                                                         
   Hope, scappa.                                                                               
    Sente i passi, sempre di più, ma non riesce a muoversi, è inchiodata alla strada fredda, dal calcio di quella pistola.                                                                                                                                                                             
 Una campana suona, è l’una di notte.                                                                                                         
   Le luci blu lampeggiano nell’aria, trema, le mani immerse in quel liquido caldo, scuro e denso, che le scorre tra le mani.                                                                                                                                                               
    Hope..                                                                                                                                                                                              
       
Un urlo straziante, quello che lacera la notte. Sua madre. Non ha la forza di voltarsi, ma deve farlo. Ora non sente più i passi, ne le campane, nemmeno le sirene, anche la voce è sparita. Sente solo sua madre che urla. E Dawn, con la voce piena di orrore.                                                                                                                                                                           
  Hope.. cosa hai fatto? Cosa hai fatto..  
 
                        
Hope si rizzò a sedere, con i ricci davanti agli occhi, occhi pieni di incubi. Si accorse di non avere il controllo sul suo corpo, tremava senza tregua, e i suoi polmoni non funzionavano bene. S’impose di respirare                                                                                                                                                                   
     -Respira Hope, respira. Sei al sicuro- mormorò Joe, attento a non abbracciala, provocando in lei un ulteriore motivo di terrore. La ragazza strinse i denti, dentro di lei era in corso l’ennesima lotta di ricordi.                                                                                                                                                                                           
 –Nessuno ti farà del male-                                                                                                                                                   
    –Joe..-                                                                                                                                                                                            
    –Sei a casa- 


Ci sono demoni che non possiamo sconfiggere. Li nascondiamo nei cassetti, recessi della nostra mente, e cerchiamo di scappare. La vita è una corsa, ma non per scappare. Ci sono dei momenti in cui bisogna fermarsi, guardarsi dentro, affrontare la realtà, porci domande, darci risposte.  Quanti avvenimenti ci hanno segnato, ci hanno fatto piangere di dolore e di gioia,  quante ci hanno spaventato, o ci hanno segnato.  Io ho corso senza mai fermarmi, attraversando le strade della delusione, della gioia, della sofferenza, della felicità, con impeto e coraggio. Ho sentito la vita, assaporato la sua essenza, ho incontrato la morte, l’ho guardata degli occhi, ho provato il suo gelido vuoto.  Mi sono sentita preda, cacciatrice, vittima, assassina. I sapori di questa giostra della vita li ho provati tutti. Ho detto addio a persone che mi hanno cambiato la vita, e ne ho incontrate altre che mi hanno sconvolto. Ho lottato per la verità, ho lottato per difendermi, per uccidere, per proteggere, e per amore. Ho cercato di salvare la mia famiglia, coloro a cui tenevo, condannando me stessa.  Ho lottato per ciò in cui credevo, la speranza. Percorrendo i tempi della mia vita, che sembra continuamente sorpassarmi. Ho lottato per la speranza. Mi chiamo Hope. Hope come speranza.  E solo quella mi è rimasta. Per amore mi sono sacrificata, e per amore sto morendo. Per Joe. Dawn. Per tutta la mia famiglia. Qualche volta i demoni tornano a casa. Ci tormenteranno sempre, se continuiamo a fuggire. Bisogna affrontarli, altrimenti torneranno a farti visita quando sei più fragile, nei sogni, logorandoti e distruggendoti, pezzo per pezzo. Ed è proprio la notte, il momento in cui bisogna sconfiggerli. Qualche volta dobbiamo fermarci, in questa nostra folle e continua corsa. Bisogna guardarsi nell’anima, e riprendere in mano i cocci della nostra vita.
Mi chiamo Hope. E questa è la mia storia, di come ho ucciso, e sono stata uccisa.                                      
   
 
Parte 1: il paese.
Se un turista, come me a quei tempi, capitasse nel paesino sperduto a nord Italia,  chiamato Borgo Querciantica, di circa tremila abitanti,  farebbe subito retromarcia e se ne tornerebbe indietro. Non c’è assolutamente nulla al paese. È solo un pittoresco borgo che attira poeti e pittori, perché si trova in mezzo ad un boschetto, attraversato da un placido fiume.  Ciò a cui il borgo e i suoi abitanti tengono davvero, sono le leggende. Leggende di mostri, di eroi, di avvenimenti che s’intersecano in quella valle. Leggende che agli adulti, agli anziani, piace tramandare. Si raccontano nelle locande, tra un boccale e l’altro, si narrano davanti al fuoco ai bambini, nelle sere d’inverno. D’estate si tramandano sotto un portico all’ombra. Si ride, si piange, si ricorda. I ricordi. Questo è il più grande tesoro della valle.  La valle. Che come uno scrigno racchiude la cittadella e tutte le sue storie. Storie in cui c’è sempre un fondamento di verità.  Quando mi trovai a passare a Borgo Querciantica ero una ragazzina di dieci anni, gli occhi grandi, pieni di curiosità.  Non sapevo che quella sarebbe stata la mia nuova casa. Ci trasferimmo circa due mesi dopo. Odiavo quel luogo.  Eppure, dopo qualche sera, mentre passeggiavo, incurante del meraviglioso paesaggio che avevo sotto gli occhi, decine di pioppi, larici, querce, cespugli di bacche, e il rumore placido del fiume, mi accorsi che tutti i ragazzi correvano verso un albero, il più antico di tutti. Sorgeva in una piazzetta circolare, circondata dai negozi. Un albero antico, dove c’erano attaccate mille e mille lanterne. Guardando bene, mi accorsi che non erano lanterne, ma lucciole. Non avevo mai visto le lucciole, e ne rimasi incantata.  Tutti i ragazzi si riunirono intorno all’albero, chi tra i suoi rami, chi seduto, chi ai margini della piazza, falsamente disinteressato.  Accanto all’albero, annerito forse da un incendio, c’era un vecchio, che pareva avere la stessa età del massiccio tronco. Fumava una pipa, ed era sdentato. I ragazzi iniziarono a parlare tutti insieme –Ben, raccontaci una storia!- urlarono. Ben, questo era il nome dell’uomo, si guardò intorno. C’erano due sagome sullo sfondo della piazza. Non le distinsi bene, restavano nel folto dell’ombra, ma il vecchio s’illuminò. E prese a raccontare una storia, un’affascinante storia di draghi e di principesse. Rimasi estasiata dall’atmosfera che si era venuta a creare.  I ragazzi ascoltavano tutti, e l’albero.. sembrava brillare. Perdemmo la nozione del tempo, e quando la storia finì non ero per nulla stanca. Anzi, rianimata, di un’energia nuova. Tutti i si alzarono, e corsero di nuovo  via –Novellina- mi chiamò il vecchio Ben. Mi girai –Piace il villaggio?- mi dondolai da un piede all’altro. Non lo sapevo. Quella sera aveva radicalmente cambiato la mia opinione. Se mi giravo potevo vedere il drago volare nel bosco, con la principessa sul suo dorso, tanto quella storia mi aveva affascinata –No- dissi alla fine –Questo posto non mi piace. Catturami- dissi, con aria di sfida. Lui fece lo stesso sguardo che aveva fatto guardando le due figure alla fine della piazza. Sorrise, mettendo in mostra i pochi denti ingialliti.                                                                                                                                   
–Mi ricordi tanto qualcuno..-                                                                                                                                                  
 -Una principessa delle tue fiabe?- domandai sarcastica                                                                                             
   –Oh, no.  non una principessa. Una ragazza reale, che abitava questa valle-                                                
    -Quella che hai salutato prima?-                                                                                                                                     
     -Precisamente-                                                                                                                                                       
    -E’ una protagonista delle tue storie?- domandai ancora,  alzando un sopracciglio                          
-Oh, si. Lei è l’unica delle leggende che racconto, ad essere stata vista con i miei occhi. Io c’ero- Ben aspirò dalla sua pipa, e un’intensa boccata di fumo si librò nell’aria. 
 –Ed io ti ricordo lei.- lui annuì, ad occhi socchiusi. I grilli smisero di cantare. Qualche lucciola si fermò. Il fiume coprì i rumori della natura   
  –Sei cocciuta e testarda. Ma intrigante-  lo ammetto, fui compiaciuta da questa sorta di complimento  
  –Non era una delle tue principesse, eh?-   
    -No, no. Lei è una regina-  
  Cio che dissi dopo cambiò del tutto la mia opinione della valle, degli abitanti di quel posto.  Mi sporsi verso il vecchio, e sussurrai quelle tre parole a fior di labbra.
   -Raccontami di lei-     
 il vecchio sorrise   
–Si chiamava Hope-

 
-Hope! Hope!-    
  Dawn si guardò intorno: non era possibile, tutte le sere la stessa storia! S’infilò il soprabito, coprendo la camicia da notte, ancora estiva ed inadeguata in quella giornata di freddo ottobre, e corse fuori. Il grande giardino era immobile. Un venticello scuoteva le cime degli alberi. Dawn non aveva paura del buio, ma non poteva scacciare l’inquietudine 
   –Hope?- sussurrò. Vento. Silenzio. Un fruscio. 
-Hope lo so che sei lì, mi fai paura!- gridò Dawn, avanzando nell’erba carica di rugiada. Vicino il muro d’edera  si fermò. Oltre c’era il bosco, e la loro proprietà finiva una ventina di metri più in là.  
  –Hope..-  
   -DAWN!- 
Dawn urlò con tutta la forza, prima che la bambina che si era gettata giù dall’albero,  le tappasse la bocca  
    –Hope!- esclamò Dawn, furiosa, arrossendo per l’umiliazione    
     –Scusami, sorellina, non immaginavo che ti saresti spaventata- era veramente pentimento, quello che esprimeva Hope? Gli occhi scintillavano, per la gioia della fuga, e dello scherzo. 
  Le ragazze si guardarono, l’ una lo specchio dell'altra
   –Ok. Ti perdono- annuì Dawn, strofinandosi il naso con la manica. Hope era in pigiama, e aveva solo una giacca di jeans come soprabito.
–Comunque cosa volevi dirmi?- domandò. A quella domanda, Dawn si ricordò di colpo
–Oh, la storia! Muoviti!- esclamò, trascinandola in casa. Le due bambine si spogliarono velocemente, percorsero sussurrando il corridoio 
–Ti sei lavata i denti?-   
 -Si. Mamma è arrivata?-  
- No, non l’ho vista.-   
   -Presto, presto..-  corsero  a letto, e si infilarono sotto le coperte. Appena a tempo. Una donna entrò nella stanza, con in braccio una neonata paffutella  
–Allora, che storia volete sentire?-  domandò con dolcezza –Una bella!- una Nuova!- urlarono in coro le bambine. La loro madre sorrise –Vi  racconterò della storia dei vostri nomi- mormorò dolcemente. Le due bisbigliarono estasiate. I loro nomi erano strambi. Erano inglesi. Ma loro erano in Italia. Era questo che le rendeva diverse, i loro nomi erano unici, e loro ne andavano fiere, quando nell’appello, al posto delle decine di “Francesca” “Giovanni” e “Chiara” sentivano i loro nomi, che non potevano essere confusi. La donna, la loro madre, cominciò a raccontare
-C’era una giovane donna, libera ed indipendente. Amava la vita, e sognava grandi cose. Un giorno conobbe un uomo, un giovane soldato molto simpatico e giovale. Un americanotto, come si suol dire. In effetti lui era americano, ma parlava bene anche l’italiano. La ragazza s’innamorò follemente, e decise di sposarlo, a dispetto della sua professione che lo avrebbe tenuto lontano per molto tempo. La coppia era felice, non gli mancava nulla. A parte..
-A parte?- sussurrò Dawn, incantata. Adorava le storie d’amore.                                                                   
      -Sta zitta!- sibilò la sorella, dandole una spintarella
A parte per il fatto che lei non poteva avere figli. Lo desiderava con tutto il suo cuore, ma non poteva. Il soldato le disse di non preoccuparsi: lui l’avrebbe amata per sempre. Per dimostrarglielo, la portò a fare un viaggio nella città più bella che la ragazza avesse mai visto. Si chiamava.. Londra.  Lei ne rimase estasiata. C’era di tutto e di più.  Un posto la affascinò in particolare: c’era un quartiere, dove delle persone vendevano strane cose. La ragazza, passeggiando lì per caso, incontrò un’anziana donna. Quella donna le disse che avrebbe avuto tanta felicità, che i suoi desideri si sarebbero realizzati. Però avrebbe avuto bisogno di un grande coraggio. Doveva proteggere la sua famiglia. Tutta. Lei lo promise. Non fece in tempo a tornare a casa, che aspettava una bambina. Le sembrò un miracolo, pianse di gioia.  Decise di chiamarla Dawn, Alba. L’alba di una nuova epoca. L’alba di ciò che sarebbe stata una vita insieme, Alba di una famiglia.  Ma.. al terzo mese, si scoprì qualcosa di sconcertante: la bambina non era sola. C’era una gemella. E quella gemella, sembrava compromettere la sua stessa vita, e quella di Dawn. La donna giurò alle sue bambine, che se si fossero salvate, se fossero riuscite a vivere, lei le avrebbe protette. Sempre.  Le bambine si salvarono. La donna riuscì a partorire, anche se con enorme fatica, la sua Dawn, e la sorella. Solo quando l’ebbe tra le braccia decise di chiamarla Hope. Hope significava Speranza. La speranza che l’aveva guidata per tutto quel tempo. Quella che non aveva perso, e che aveva salvato entrambe. L’alba e la speranza. Questi, bambine, sono i vostri nomi. È quanto vi amo.
La donna spense il braciere e mormorò –Buona notte tesori- le bambine dormivano.  Le guardò. La sera non si notava quasi la differenza. Entrambe avevano i capelli neri. Entrambe avevano la pelle bianca. Ma l’unico modo per distinguerle, oltre il carattere, erano gli occhi. Dawn aveva gli occhi verde brillante, come l’erba illuminata dal sole mattutino. Hope.. gli occhi di Hope potevano sembrare identici a quelli della sorella, ma erano scuri. Un verde brillante, certo, ma brillante come una stella nella notte.  La donna sospirò, e spense la luce.                                                                                           
   –Hope sei sveglia?-                                                                                                                                                 
    -Si. Dawn, un giorno ti porterò a Londra-                                                                                                                           
   -Dici sul serio?-                                                                                                                                                                              
   -Si. Sarà il nostro sogno segreto-
 
Hope e Dawn dormivano, silenziosamente.                                                                                           
     Il loro respiro era costante, rotto solo dai sommessi rintocchi della pendola presente nella stanza.                                                                                                                                                                           
  Hope e Dawn erano gemelle.                                                                                                                                   
 Gemelle nate dalla sofferenza, che avevano rischiato la morte più volte, e amavano la vita.           
Hope e Dawn erano migliori amiche, non potevano volersi più bene.                            
Tradire l’una, sarebbe stato per l’altra come tradire se stessa.  
Hope e Dawn non potevano essere più identiche. 
  Entrambe avevano capelli neri, lisci e leggermente mossi,  carnagione chiarissima, occhi verdi.  
   Ma Hope e Dawn non potevano essere più diverse. 
  E ben presto qualcosa le avrebbe divise, segnando le loro vite.
Per sempre

 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***




nel mio quatriere c'è stato un blck out e non sono riuscita ad aggiornare. Ringrazio i recensori, ricordate che non pubblico se non si raggiungono o superano le 4 recensioni. Mi date una gioia immensa. Vi voglio bene


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-Hope! Sveglia! – era un giorno qualunque, un giorno come tanti. Era iniziato proprio così: la cantilena di Dawn nelle orecchie, e i gridolini di felicità di Mirth e Joy. Joy era il loro fratellino di sei anni, mentre Mirth la loro sorellina di due.  Le gemelle si vestirono in fretta, fecero colazione, ed uscirono rapidamente di casa. Un vento gelido raschiava il piccolo villaggio. Quell’inverno si prospettava più rigido del solito, già la stradina che le conduceva alla piazza principale, e quindi alla scuola, s’andava ghiacciando, e bisognava fare attenzione a non correre troppo, perché si rischiava di mettere un piede in fallo e scivolare. Le gemelle arrivarono a scuola un momento prima che la campana della chiesetta suonasse i consueti otto rintocchi, per annunciare agli studenti di entrare nelle classi. Le lezioni iniziarono con l’italiano, poi matematica, e disegno artistico. All’intervallo corsero all’ingresso, dove le aspettavano i membri del loro gruppo –Ehi, ragazzi!- salutò allegramente Dawn, ricambiata a sua volta. Hope la seguì subito dopo, facendo un sorriso ed un lieve cenno di saluto. Quel giorno sembrava astratta –Hope?Hope. sveglia!- esclamò Gioia, schioccandole le dita sotto gli occhi –Ehi, vacci piano! Cosa hai detto?- rispose a sua volta la bambina –Dicevo, che domani  è sabato! Potremmo andare al colle quattroventi per raccogliere le castagne- riprese Emilia –si, mi pare un’ottima idea, noi siamo libere- rispose Dawn –Così Hope potrà provare il suo aereo- la voce proveniva da dietro il gruppo –Cedric !- esclamò Hope, abbracciando il suo amico –Allora anche tu verrai?- domandò lui, speranzoso –Così anche io provo il mio aquilone nuovo- aggiunse –Mh ok!- esclamò la ragazzina sorridendo. Dawn ridacchiò sotto i baffi. Parlarono fino a quando non suonò la campanella, e dovettero tornare in classe. Le ore si trascinarono lente, ed alle quattro precise, la fiumana di studenti stravolti varcò la soglia della scuola, per non tornare mai più.. almeno fino al lunedì successivo. Dawn uscì correndo, con un sorriso sulle labbra –Aria!! Hope, è finita!- esclamò gioiosa. La gemella, che di solito si lanciava in manifestazioni di gioia a quella notizia, si limitò ad annuire, pensierosa –Cos’hai?- domandò la sorellina, inclinando la testa –Nulla, sono stanca- risposa Hope, trascinandosi dietro la cartella –Andiamo a casa- .A casa fecero merenda, e Hope sembrò ritrovare un po’ di buon umore, così propose a Dawn di fare una gita al ruscelletto che scorreva nel bosco, senza allontanarsi troppo –Ho la sensazione di essermi scordata qualcosa- mormorò Hope, mentre costruiva una barchetta di carta, e la posava delicatamente sull’acqua –Se non ricordi, forse non era importante- Magari era importante per qualcun altro- obbiettò la bambina, soffiando sulla superficie dell’acqua –Guarda, si muove!- esclamò estasiata. Giocarono fino a tardi, poi, quando Dawn finì nel ruscello, a causa di uno degli “scherzetti” di Hope, tornarono a casa. Mentre Dawn si faceva una doccia, Hope lesse un grosso libro antico, sull’anatomia della valle –Hooooopeeeee!- esclamò Dawn dal bagno –Mi porti l’accappatoiooo? – Non posso, è di microfibra, e io sono allergica alla microfibra, inizio a starnutire e si gonfiano le mani- brontolò Hope –Allora prendine un altro!-  sbuffando, Hope afferrò un asciugamano e lo gettò nella doccia –Ecco cosa mi sono dimenticata!!- esclamò allarmata subito dopo –Hope? Hope?- chiamò Dawn, ma Hope era già scesa. L’asciugamano le aveva ricordato che aveva dimenticato il suo lavoro a maglia(ovviamente era un compito per la scuola) da Marta, e doveva assolutamente recuperarlo prima di lunedì! Corse per mezzo Borgo, ma fortunatamente la casa di Marta era abbastanza vicina. Prese uno di quei rari pullman che circolavano per la città (saranno stati cinque in tutto) ed arrivò dalla sua amica. Marta le diede il lavoro a maglia, e si fermò a chiacchierare con lei. parlarono dell’esplorazione al Larcitonia, il bosco dove, si diceva, fossero tornati i lupi, e del giorno seguente, che avrebbero passato a raccogliere noci, castagne, e altri frutti. Si avvicinava la sagra d’autunno, un’altra occasione per stare insieme al villaggio. Chiacchierando si fecero le dieci e mezza. Era già buio, e Hope doveva tornare in tempo per la cena. Salutò Marta, e corse in strada, cercando un pullman, ma non c’era nessuno a quell’ ora. Girò, girò, fino ad arrivare nella piazza della chiesa dei benedettini. Era una chiesa con alcuni monaci, ma isolata dal resto delle case. Lì trovò la sua condanna. Udì un grido strozzato, poi uno sparo. Il cuore le si spezzò in gola, mozzandole il respiro. Non era una bambina priva di cuore, e corse a vedere cosa stava accadendo. Quello che vide la lasciò senza fiato. C’era un uomo, un uomo in una pozza di sangue. Cacciò un gridolino, ma qualcuno, da dietro, le tappò la bocca. Una voce che non aveva mai sentito, mormorò –Hope. Non fare scherzi- nella confusione, la bambina non capì chi era –Adesso- continuò –Prendi la pistola. E spara un colpo- Hope inorridì. Un colpo?! Perché?! E chi era quell’uomo –Hope, non vuoi che la tua mamma si faccia male, vero? E nemmeno Dawn..- la bambina sussultò –Non fate del male a mia sorella, non fate del male a Dawn- trovò la forza di dire –Faremo di peggio, sia a lei che agli altri tuoi familiari. Ora, spara un colpo. O le conseguenze si ritorceranno contro la tua sorellina- Hope non aveva mai tenuto in mano una pistola. Notò che era pesante, e che non sapeva come usarla. Ma poi, sotto indicazione, premette il grilletto, verso il cielo. Uno sparo ruppe la quiete della cittadina, e da allora nulla fu più come prima. L’uomo si dileguò. Hope crollò in ginocchio, accanto all’uomo morto. Starnutì più volte, non riusciva a respirare, e le prudevano le mani. Mollò la pistola, e si resse con le mani al pavimento, per non cadere. Sentì le sirene, e tante voci. Il sangue iniziò a scorrerle tra le mani. Capì cosa doveva fare. Per salvare la sua famiglia, avrebbe sacrificato se stessa.  E quando la polizia girò l’angolo, la trovò inginocchiata davanti ad un cadavere, con le mani zuppe di sangue, e una pistola accanto. Dawn non credette ai suoi occhi –Hope.. cosa hai fatto? Cosa hai fatto?- la sorella alzò gli occhi. erano freddi, gelati. Quella notte, qualcosa si ruppe.
La polizia portò via la bambina, senza sapere cosa fare. Mandò la salma alla scientifica, e dalle analisi fatte alla pistola, non si poté far altro che constatare che le impronte digitali appartenevano alla bambina. Fu fissata la data del processo. Hope si rifiutò di vedere chiunque. Nessuno andò da Hope.
Joe era giovane. Era bello. Aveva un lavoro. Ed era un donnaiolo di prima categoria. Ma quel giorno, quando si fermò per un aperitivo in quel borgo sperduto, aveva voglia di gettarsi nel fiume. Era diretto alla capitale per alcuni problemi di eredità. Lui non voleva l’eredità. Lui rivoleva solo Corinne. Il solo pensare quel nome lo faceva star male, lo distruggeva nell’animo. Così, pensò di cercare un locale e fasi servire qualcosa. Ma quel giorno la sua vita cambiò per sempre. Dopo aver visto i primi due locali chiusi, notò un terzo negozio. Un uomo si affaccendava davanti alla serratura, tentando di chiuderla –Buon uomo!- chiamò Joe, col suo accento straniero ed un candido sorriso. L’uomo lo squadrò –Sa dove posso trovare un buon bicchiere di qualcosa di forte?- continuò il giovane avvocato –Non troverà nulla, qui! Sono tutti al processo-  e si batté una mano in fronte, come a darsi dello stupido per non essere andato anche lui prima –Non ho mai visto un processo che attiri tanta gente- Beh, io non ho mai visto un’imputata dell’età di quella bambina!-  ribatté l’uomo. E scosse la testa incredulo, come se ancora non ci credesse manco lui. Alla parola “ processo” lo spirito da avvocato di successo qual era Joe, si era risvegliato –Penso che andrò a dare un’occhiatina.  È lontano?- Non si preoccupi andiamo insieme- così Joe e l’uomo giunsero ad una casetta che fungeva da tribunale. Per miracolo riuscirono ad accaparrarsi un paio di bei posti,  così Joe vide l’imputata. La stavano interrogando in quel momento . L’avvocato  le stava porgendo alcune domande. Lei, calmissima, fredda, e a testa alta, rispondeva.                                                                                        
–Quanti anni hai, Hope?-                                                                                                                                     
 -Nove e mezzo-                                                                                                                                                  
 -E’ piccola, per la miseria!- sussurrò Joe  
  –Si, ed ha sparato ad un uomo, uccidendolo. Non ha negato, dicono- 
  -Sei stata accusata di un grave crimine, come ti reputi?-                                                                                                 
 -Colpevole- tutta il tribunale sussultò, con i cittadini.                                                                                              
   –Quella è la madre, vede? E quella la gemella- disse l’uomo accanto a Joe, indicando una bambina uguale a quella che stavano interrogando    
    –E il padre?- chiese Joe                                                                                                                                         
  –Morto. Disperso. Faceva il soldato- Joe annuì    
  –Come si chiama la bambina?-                                                                                                                                    
      -Hope. Hope Buttercup-                                                                                                                                           
   Qualcosa, qualcosa era scattato, quando aveva visto quella bambina. Rimase tutto il pomeriggio a guardare il processo, ed alla fine Hope fu condannata colpevole. Restava da capire cosa farne. In carcere non poteva restare. Nessuno voleva la sua tutela. E fu lì, che Joe si alzò –Mi scusi, vostro onore, se è possibile, vorrei ottenere la custodia legale della bambina-  disse a chiare lettere. Tutta la sala lo guardò, sconvolta. E lui da dove usciva?!                                                                                               
      –M-Ma lei chi è? – domandò confuso il giudice –Mi chiamo Joe. Joe Welshire. Sono un avvocato londinese, e vorrei portare lì la bambina- tutti sbiancarono. Hope a Londra?! Il giudice sospese il giudizio, e si consultò prima con la famiglia, poi con il giovane avvocato. Non era mai successo prima, qualcosa del genere. Hope aveva sconvolto tutta la vita del Borgo
Quando aveva detto quella frase, quel signore, Hope aveva per un secondo perduto tutto il suo aplomb. Chi era quel tizio, e cosa voleva da lei?!? lo guardò: era bello, aveva un’aria .. quasi dolce, comica. I capelli erano castano chiari, e disordinatamente corti. Gli occhi di un caldo color nocciola, e un sorriso ammaliante.  I due si squadrarono, con diffidenza, con simpatia. Ma quando Joe aveva pronunciato quella parola, Londra… Andare così lontano dalla sua famiglia.. Senza Dawn.. Dawn. Doveva fare ciò che era meglio per lei, ormai. E forse, Londra non sarebbe stata così male.
La corte aveva deciso. Hope sarebbe andata a Londra. Dawn non riusciva a crederci, aveva il cuore spezzato, trafitto: una parte della sua anima, la sua gemella e migliore amica era un’assassina. Le aveva mentito per tutto quel tempo, e  in più l’aveva totalmente abbandonata. Guardarla durante il processo era stata un’agonia. Quando era stata chiamata per testimoniare aveva cercato lo sguardo di Hope, uno sguardo umano, che le desse calore, speranza.. ma Hope era rimasta impassibile, e i suoi occhi verdi non avevano sfiorato la sorella.  Joe, quell’uomo che se la sarebbe portata lontano, era una persona velata di mistero. Era andato a casa loro, e aveva chiesto tutte le cose della bambina. La madre era impallidita, e gli aveva consegnato due pesanti sacchi neri. Aveva intenzione di buttare tutto. Adesso aveva solo tre figli –La faccia dimenticare. la porti via- aveva sibilato. Dawn era rabbrividita –Perché?- aveva chiesto all’uomo. Perché? Perché me la porta via? Perché lo ha fatto? Perché ha deciso di adottare un’assassina? Perché lei mi ha tradito? Lui l’aveva guardata, un misto di tristezza e malinconia –Speranza- aveva detto soltanto questo. Doveva andare a gestire degli affari in sud Italia, poi sarebbe tornato a prendere la bambina. In capo a tre giorni, Hope sarebbe sparita da Querciantica. E lei non l’avrebbe vista mai più.
Tre giorni dopo, Hope fu fatta uscire dalla cella. Joe le aveva portato uno dei suoi vestiti puliti, ed era andato a prenderla –Vuoi salutare qualcuno?- chiese gentilmente. La bambina scosse la testa –Non ho nessuno- mormorò.  Così la macchina lasciò per sempre il borgo. E Hope lasciò la sua vecchia vita.  
 

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Capitolo 3
*** capitolo 2 ***



Capitolo 2
Al nostro Joe che disegna le balene negli spazi vuoti

La macchina procedeva silenziosa.  Al suo interno due persone stavano zitte, ma interiormente scoppiavano di domande. Joe voleva sapere chi era quella bambina, perché aveva sparato un uomo, cosa faceva, cosa ne pensava di lui. Hope voleva capire perché quell’uomo l’aveva adottata, chi era, che tipo di vita avrebbe condotto, che tipo era. Joe si schiarì la voce                                                                         
       –Allora, Hope. Io non voglio sostituirmi al tuo papà, perché un padre già lo hai. Perciò, se vuoi, io ti lascerò il tuo cognome originale, Buttercup-  cominciò, osservandola con la coda dell’occhio, per vedere come avrebbe reagito. Lei non si mosse. Non fece nulla                                                                                  
No. non lo voglio- disse, dopo un po’   
   –D’accordo, allora ti va bene se sarai Hope Welshire?-   
   -Suona bene- per la prima volta, Joe la vide sorridere. Un sorriso di sfuggita, fulmineo, un angolino della bocca che si sollevò e poi si abbassò. Decise di provarci di nuovo  
  –Vuoi sapere dove vivrai?- lei scosse le spalle, incurante. –La casa in cui abito è piccolina. Vivo solo.. da un po’- s’interruppe un istante, per stringere i denti. La bambina si girò verso di lui                      –Perché?-                                                                                                                                                                                     -Mia… moglie, Corinne. È morta tre mesi fa. Lei.. ti avrebbe adottato sicuro, e sarebbe stata molto felice di averti con noi- parlò velocemente. Hope si morse il labbro, e decise di fargli cambiare discorso, per non farlo soffrire. Ruppe nuovamente il silenzio, con la sua vocetta limpida       
–Mi stavi dicendo della casa- 
-Oh, si, è piccola, ma si sta bene. Io faccio l’avvocato, perciò quando sei a scuola, io sarò in ufficio. Sai, mi hanno dato una caparra, per farti frequentare una piccola scuola. Vedrai, ti troverai bene. Solo che ci sono delle regole. Ovviamente non le ho messe io, le regole. Ti accorgerai che sono leggermente diverso da come mi presento- ridacchiò. Hope, cercando di non darlo a vedere, lo osservava incantata.   
–Immagino che tu non sia un povero vedovo santarellino- Momorò, piano                                                         –Mi piace divertirmi, ma non amo nessuna ragazza o donna- disse lui, tornando a guardare la strada –Ti dà fastidio?- No, per nulla- scrollò le spalle, Hope. Chissenefrega, se aveva delle compagne che circolavano per casa. Non aveva proprio dormito negli ultimi giorni. Sentii le palpebre farsi pesanti, e crollò contro il finestrino. 
Quando si svegliò era notte –Quanto ho dormito?- domandò stupita –Più di 12 ore- rispose Joe, senza batter ciglio –Stiamo per arrivare a casa. Se hai fame, c’è il pranzo, o cena, o colazione, siccome sono le cinque del mattino- Hope mangiò un paio di panini, e bevve un po’ d’acqua. Mentre la macchina sfrecciava in un lungo tunnel, cercò di pensare a cosa lasciava, e cosa avrebbe trovato. Circa sette ore dopo, oltrepassarono i cartelloni che indicavano l’inizio di Londra. Hope si stupì del traffico, della polvere, del chiasso, dei palazzi e delle strade. Spalancò gli occhi, e cercò di assorbire ogni particolare. Tutto era caotico. Eppure ordinato. Era un caos. Ma era fantastico –Ti abituerai- ridacchiò Joe, guidando fino ad un parcheggio
-Casa- esclamò, aprendo la porta blindata. Hope si trovò in un piccolo ingesso. La casa aveva solo un bagno, foderato di piastrelle verde mela, con una grande specchiera e una doccia abbastanza larga, un angolo cottura che terminava con un lungo bancone. Oltre il bancone c’era un salone abbastanza largo. Un divano color tortora, difronte alla parete attrezzata, faceva la sua bella figura, accanto ad una consolle di legno che pareva molto antica. Un tavolo di cristallo, con sopra un grosso lampadario, era confinato all’angolo del salone, che formava un secondo ambiente, anche se collegato al primo. C’erano due camere da letto. La prima era antica, c’era un grosso letto di legno di quercia, accanto ad una scrivania piena di carte dove si gettava la luce di una lunga finestra, dando all’ambiente un’aria luminosa e fresca. Un grosso armadio troneggiava lungo mezza parete, condividendola con molti quadri di arte moderna, e parecchi attestati, lauree e master. La seconda.. Joe si fermò sulla porta della seconda camera. Era stata Corinne a volerla: avevano deciso che quella sarebbe stata la stanza dei loro bambini. Posò la fronte sulla porta fresca, e poi scivolò dentro. Ci sarebbe stato parecchio lavoro da fare. Però la stanza era bella: c’era una finestra che dava sul parco di fronte casa sua. Una piccola libreria bianca, perfetta per metterci volumi scolastici, ma anche libri da leggere, e suppellettili. Joe si chiese se Hope amasse leggere. Aveva chiamato il suo socio qualche giorno prima, facendogli ordinare dei mobili per arredarla, ma doveva ancora pittarla.  Per quella notte portò una brandina nella stanza, e raccomandò ad Hope di chiamarlo per qualsiasi cosa. Lei annuì. Joe studiò qualche causa importante. Preparò una cena veloce, perché  Hope era provata dal lungo viaggio, e doveva abituarsi al fuso orario. Si scolò una birra. Poi andò a dormire, perché era esausto. Ma come posò la testa sul cuscino, la stanchezza passò. Si trovò a riflettere. Cosa aveva appena fatto? Aveva adottato una bambina, una piccola killer. Si ritrovò a pensare alla bocca sottile di Hope, ai suoi occhi verdi brillanti, alla sua faccia affilata, ai suoi capelli morbidi e scuri come la notte. Alla sua figurina piccola e indifesa, e alla sua voce… -Joe- ecco, era così, come un uccellino spaventato.. eh?! –Joe?- Joe sentì dei passettini che tornavano in stanza –Hope!- chiamò. Hope, che stava tornando in camera, corse nuovamente in camera di Joe. Aveva profonde occhiaie, come se fosse stata inseguita dai demoni 
 –Ho fatto un incubo- disse, strusciando i piedini nudi l’uno contro l’altro. Aveva un pigiamino leggero, uno dei suoi vestiti che, per fortuna, si era portato.  
  –Lo vedo- mormorò lui comprensivo. Ma cosa poteva fare? Cosa dirle? 
   –Ti va di dirmi cosa hai sognato?- 
  -La realtà- Joe deglutì. Anche lui sognava spesso la realtà. Una realtà dove corinne non c'era più, e lui era solo.  
     –Hope. Tu sei innocente. Perché ti sei condannata?- non era una domanda. Ma lei si limitò a fissarlo con i suoi occhi scintillanti.  
–Bhe, cosa vuoi fare..- momorò l’avvocato, dopo un po’. Hope era in imbarazzo   
   –Ok, allora ne parliamo domani..-  
  -Joe!-  
   -Si, Hope?-   
   -Posso.. posso dormire con te?-
   Joe non disse nulla, ma allargò le braccia. La bambina entrò circospetta nel letto, senza accettare l’abbraccio.  Si girò su un fianco, e rimase immobile. Joe si addormentò, fissando la sua spina dorsale. Si svegliò poco dopo, sentendo un calore improvviso. Hope, nel sonno, lo stava abbracciando. Mormorava parole convulse nel sonno, e Joe ne colse una in particolare     
  –Papà..-      
  lo sapeva che lei intendeva il soldato Buttercup, ma in quel momento gli venne spontaneo dire
     –Sono qui, Hope. Sono qui- 
  Si, aveva decisamente fatto la scelta giusta. Lei non era una piccola killer. Lei era un piccolo sassolino di fiume, una fogliolina di una quercia. E lui l’aveva salvata. Abbracciò la bambina, e si addormentò.

Un colpo. Due colpi. Alla fine un calcio. La porta si apre di colpo –Joeeee- urla una ragazza. Ha i capelli neri e gli occhi verdi –Buongiorno dolcezza- esclama un uomo sbracato sul divano. Ha i capelli in disordine. La barba non rasata, e la camicia sbottonata –Hai fatto di nuovo tardi, ieri- sbotta Hope, trascinando un cestino, e cominciando a raccattare le bottiglie di birra –Chissà cosa direbbero i giudici, vedendo che sei cresciuta con un ubriacone donnaiolo- scherza il poco sobrio avvocato –Vado a prepararti un impacco per il dopo sbornia. Ti servirà tra un po’- esclama la ragazza, gettando via il suo maglione, e restando in canottiera. Oltre lo strato di alcol, l’uomo vede chiaramente la sottile e affilata linea di Hope, e si morde un labbro. Quando la ragazza si inginocchia per pulire una chiazza di bagnato a terra, il cuore dell’uomo si stringe, vedendo la fila di tagli e lividi che spuntano sulla schiena e la spalla della sua piccola –Sai, è in momenti come questi che vorrei andare a castrare a suon di calci tutti quei figli di puttana che ti hanno fatto questo- mormora. Hope si copre velocemente la schiena, abbassandosi bruscamente la canottiera, e mettendosi una mano sulla spalla –Quante volte ti ho detto che mi fa più male sentirti parlare così, che quello che loro… mi hanno fatto- deglutisce, stringendo i denti –E tutte le sue conseguenze- Joe stringe i pugni, fino a farsi diventare le nocche bianche –Josky- lo richiama dolcemente la ragazza –Va tutto bene. Io sto bene- Joe va in bagno, Hope lo sente imprecare e vomitare, e rabbrividisce. Se i  giudici sapessero che in realtà è lei che da cinque anni si prende cura del padre adottivo gli leverebbero immediatamente la custodia. Ma il giorno prima erano esattamente sei cinque anni che Corinne era morta. Era ovvio che Joe avesse ceduto all’alcol, almeno quella sera. Entra in bagno, e lo prende sottobraccio, conducendolo in camera sua. Nulla è cambiato, da quando è arrivata in quella casa. Forse la sua stanza è l’unica ad essersi evoluta, e lentamente sono apparse piccole cose, come foto di loro due, souvenir, pagelle scolastiche. Deposita Joe sul suo letto, e telefona a Miss.Kindle, la sua nuova segretaria e probabilmente futura compagna –Miss Kindle? Sono Hope Welshire. Senta, Joe non potrà venire in ufficio oggi, ehm.. è molto, molto malato. Si, ha provato ad alzarsi dal letto, ma glielo ho impedito. Non vogliamo che stia peggio di prima, non trova? Bene, grazie, arrivederci!-  dice, attaccando in faccia alla povera segretaria, che si trova a fronteggiare da sola un’orda di clienti imbufaliti. Hope Chiude le tende, e mette una borsa d’acqua fresca sulla fronte dell’avvocato –Hope?- Sono qui, Joe- mormora la ragazza –Perché non mi chiami papà?- biascica lui –Abbiamo lo stesso cognome- Hope sorride –Ma non lo stesso sangue- Già, nelle tue vene scorre il sangue di un’assassina- esclama lui, fingendo di rabbrividire –Sono innocente, e già lo sai. Ora cerca di dormire. E se vuoi qualcosa, chiamami. Vado a fare un the-  mormora lei, alzandosi. Mentre il bollitore emette il suo classico borbottio, Hope si accomoda sul divano, accarezzando distrattamente Kill, il suo cane –Sei un bastardo come me, Kill. Non sai mai chi sono i tuoi genitori- mormora, passandosi la mano sulla spalla piena di lividi. Quello che non sa, Hope, era che lo capirà presto, chi è la sua famiglia.
 

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