Guards - Prima luce

di EsterElle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Imbris ***
Capitolo 2: *** Sotto chiave ***
Capitolo 3: *** Esplorazioni ***
Capitolo 4: *** Il quinto Guardiano ***
Capitolo 5: *** Il Mondo di Sotto ***
Capitolo 6: *** Acqua ***
Capitolo 7: *** Gita al lago ***
Capitolo 8: *** Sotto le stelle ***
Capitolo 9: *** Rosso rabbia ***
Capitolo 10: *** Storie di un tempo passato ***
Capitolo 11: *** Dirsi addio ***
Capitolo 12: *** Rombi di guerra ***
Capitolo 13: *** Riunione di famiglia ***



Capitolo 1
*** Imbris ***


PARTE PRIMA: L'INIZIO


Capitolo 1 
Imbris


 
Dimitar Pavalon stava giocando in una pozza di fango davanti la porta di casa sua. Suo padre non era andato al lavoro, quel giorno, né i due precedenti, così come i suoi cinque fratelli maggiori;  l’aria nella loro piccola casetta a schiera si era fatta irrespirabile, ormai. Il piccolo Dima, però, era un bambino furbo: aveva scoperto in fretta che, più tempo passava fuori casa, meno schiaffi avrebbe ricevuto da sua madre. Così, erano tre giorni che il bambino raggiungeva i suoi familiari solo per l’ora di cena.
“Odio queste stupide Cerimonie” disse, mentre con un legnetto spingeva la sua piccola barca di carta sull’acqua torbida, sporco di fango fino alle ginocchia. Tirò su col naso e si pulì dal muco colato sul labbro con la manica della camicetta lacera.
Dimitar Pavalon e la sua famiglia erano cittadini della Regione del Nord, ma non avevano niente a che fare con le soffici nevicate e i laghetti ghiacciati dell’interno. Partendo da Nenjaat, la splendida e popolosa capitale, e procedendo verso sud-ovest, dopo dodici, sfiancanti, ore di viaggio, si giungeva alla piccola città di Imbris, assai vicina al confine con la Regione dell’Ovest.
Ad Imbris non c’erano né ghiaccio né neve: ad Imbris a farla da padrona era la pioggia. Un’incessante, gelida, rovinosa pioggia. Una pioggia grigia che popolava il cielo di nuvole scure e le strade sterrate di fango. Ed il fango era il passatempo principale dei bambini come Dima. Castelli di fango, buche nel fango, il mostro di fango, la pista per le biglie nel fango: nessun bambino, in tutta Imbris, poteva vantarsi di avere mani e piedi completamente puliti. E, in verità, nemmeno nessun uomo. La maggior parte di loro, infatti, lavorava nelle miniere di carbone a pochi kilometri dalla città, tra le montagne. I loro scarponi e i loro vestiti portavano una fine polvere nera nelle case, nei letti, sulle loro tavole. Sulle guance dei bambini e delle mogli ogni qual volta si chinavano a baciarli.
Nemmeno l’acqua del pozzo era limpida: si respirava e si assumeva quella polvere sottile ad ogni ora del giorno e della notte.
Ad Imbris quella era la normalità.
Dima stava giocando tranquillo con la sua barchetta quando sua madre uscì come una furia dalla porta di casa. Appena la vide, il bambino scattò in piedi e si guardò intorno, alla ricerca di una via di fuga. Si trovava in una stretta via, circondata da entrambi i lati da casette a schiera: era in trappola.
“Non provare nemmeno a correre via da qualche parte Dimitar Pavalon” abbaiò sua madre, allontanandosi dal volto alcune ciocche dei capelli scarmigliati. Si avvicinò al bambino e, trascinandolo per un braccio, lo portò dentro.
La casa era buia e piena del fumo del tabacco utilizzato da due dei suoi fratelli. L’aria era carica di tensione: gli uomini di casa erano stanchi e nervosi a causa della forzata convivenza e dell’inattività.
Suo padre stava scrupolosamente pulendo e lucidando il suo fucile da caccia, che gli era più caro di almeno tre figli. Koboi e Newpt giocavano rumorosamente a carte, fumando come ciminiere, mentre Terensk grugniva e russava sull’unico divano della stanza. Belt si tagliava le unghie dei piedi sul consunto tappeto appartenuto alla bisnonna. Solo Senio, il più basso e minuto del gruppo, non molto sveglio, era stato arruolato dalla madre e pelava un cumulo di patate con aria afflitta.
 Quei sei grossi uomini, alti, con la barba lunga e puzzolenti di vino e tabacco, sembravano riempire tutta la stanza e il piccolo Dima si sentiva soffocare.
“Prendi questa e vieni con me al fiume” gli ordinò sua madre a voce alta, mettendogli davanti una grossa cesta di vimini piena di vestiti sporchi.
“Ma, mamma…” aveva iniziato a lagnarsi Dima, prima di essere bruscamente interrotto da un sonoro schiaffo sulla guancia.
“Fallo e basta!” sbraitò sua madre e, caricandosi sulla testa un cesto ancora più grosso di quello di Dima, lo precedette fuori.
Il bambino tirò nuovamente su col naso e afferrò il suo fardello. Uscito, si chiuse la porta alle spalle, soffocando il rumore di Koboi e Newpt che davano inizio ad una zuffa e le urla di loro padre, furioso per essere stato distolto dalla sua occupazione.
“Io odio, odio, queste stupide Cerimonie!” urlò a sua volta, mentre si incamminava verso il fiume.
-Quando papà e gli altri sono al lavoro, mamma non è così cattiva con me- pensava, mentre calciava tutti i sassolini che incrociava sulla strada sterrata.
-Ma quello stupido Guardiano doveva morire proprio adesso?-
Il piccolo Dima, però, stava per ricevere una bella sorpresa: giunto al fiume, infatti, il suo umore migliorò di gran lunga.
“Ehi, Dima!” lo salutò da lontano un ragazzino cencioso, immerso nell’acqua fino alla vita.
“Teppe!” urlò lui, correndogli incontro.
Teppedore era il suo migliore amico e il bambino fece un gran sorriso nella sua direzione. Lavare i panni in compagnia di Teppe era tutta un’altra storia!
Anche lui era lì con sua madre e, ben presto, le due donne li misero a strizzare le lenzuola. I bambini, sul prato, inventarono un gioco: ognuno di loro stringeva tra le mani un’estremità del panno zuppo e, correndo in cerchio, dovevano arrotolare quel lungo serpentone. Si scontrarono, risero, caddero, si bagnarono, ben lontani dagli sguardi severi delle loro madri.
Ad un certo punto iniziò a piovigginare, ma gli abitanti di Imbris convivevano da troppe generazioni con la pioggia per farsi spaventare da poche gocce.
Quando il contenuto delle ceste fu ben lavato e strizzato, le donne e i bambini utilizzarono alcuni vecchi fili tesi tra due aceri lì vicino per stendere.
“Resta qui, Dima, finché sarà tutto asciutto. Poi raccogli e torna indietro” gli disse brusca sua madre, prima di avviarsi verso casa, dove l’aspettava il pranzo da preparare.
“Lo stesso vale per te, Teppe” aggiunse l’altra donna.
I bambini, rimasti soli, si stesero supini sull’erba umida, esattamente sotto i panni appena stesi, gocciolanti e profumati. Per un po’ giocarono a chi riusciva a prendere più gocce d’acqua sul palmo di una mano.
“Sai che giorno è oggi?” chiese ad un tratto Teppe all’amico, stufo del loro gioco.
“Si, è martedì”
“Ma no, non intendevo quello! Oggi è il giorno della Cerimonia della Carta”
“Ah, già. Io odio le Cerimonie”
“Tutte?”
“Si”
“Ma se non ne hai mai vista una!”
“E chi se ne importa? Le odio perché fanno chiudere le miniere e Belt, quando è a casa, si diverte a mettermi la testa nella minestra ad ogni pranzo”
“ Beh, a me questa Cerimonia piace”
“Non ci credo”
“Dico davvero!”
“Lo giuri?”
“Si! Giuro sul mio bottone rosso e blu”
“Va bene. Perché ti piace?”
“Perché oggi scelgono il nuovo Guardiano del Nord”
“A me non me ne frega niente dei Guardiani. Tanto non si fanno mai vedere, quaggiù”
“Magari stai parlando con un Guardiano proprio adesso”
“Ma cosa dici! Certo che tu le bugie le sai dire proprio bene”
“Guarda che non è una bugia”
“E secondo te io ci credo? Dici sempre così”
“E invece no. Me l’ha spiegato mia zia Laurine e lei fa l’insegnante, quindi sa un sacco di cose”
“Ma cosa?”
“Mi ha detto che oggi scelgono il Guardiano tra tutti i bambini di dieci anni della Regione del Nord e io ho compiuto dieci anni tre settimane fa”
“Ma è impossibile! Come fanno a conoscere tutti i bambini e scegliere quello giusto? E come fai a capire se sei stato scelto?”
“Non lo so, ma so che è vero”
“Va beh, tanto a me non interessa. Mamma dice che io ho già undici anni”
“Se oggi mi scelgono, ti porto a Nenjaat con me. Staremo insieme al Palazzo e potremmo giocare tutto il tempo”
“Promesso?”
“Promesso. Lo giuro sul mio bottone rosso e blu”
I bambini sputarono sui palmi e si strinsero le mani.
“Dim, per me questa roba è asciutta. Ritiriamo?” propose Teppe, alzandosi.
“Si. Ma facciamo veloce, sono stanco morto” rispose Dima, sbadigliando vistosamente.
Con gesti lenti ma esperti i due piegarono la biancheria lavata e la riposero nelle rispettive ceste. Dima, però, sembrava sempre più provato.
“Ehi, Teppe, io mi siedo un attimo. Mi gira un sacco la testa” disse all’amico.
“Io conosco un trucco infallibile per far passare il mal di testa” disse quello, sedendosi al suo fianco.
“Guarda che a me la testa gira, non fa male” replicò Dima, in preda alla nausea.
“Fidati, me l’ha insegnato zia Laurine” insistette Teppe. “Dai, dammi la mano”
Dima non mosse un dito ma chiuse gli occhi: aveva voglia di vomitare.
Teppe allungò il braccino ossuto e prese tra le sue la mano sporca e callosa dell’amico.
“Guarda” spiegò. “Adesso prendo tra il pollice e l’indice la parte di pelle tra il tuo pollice e il tuo indice e la massaggio, così” disse, mettendosi al lavoro.
Il povero Dima, sempre più bianco, nemmeno sentiva le parole dell’amico.
“Meglio, vero?” chiese Teppe, con un gran sorriso.
Dima mugugnò qualcosa di indistinto e, voltando la testa dall’altra parte, vomitò la sua scarsa colazione.
“Oh, cavolo, Dima!” si allarmò Teppe, alzandosi in piedi vagamente schifato.
“Te l’avevo detto che non funzionava” replicò debolmente il bambino.
Subito fu scosso da un altro conato e, pochi minuti dopo, da un terzo. Vomitò bile per l’ultima volta e poi si stese supino sull’erba, pallido come un fantasma.
“Forza, amico, adesso starai meglio” continuò a ripetere Teppe, non sapendo cos’altro fare.
Quando dal naso del bambino iniziò ad uscire sangue a fiotti, però, Teppe perse completamente il controllo, iniziando a balbettare incoerentemente.
“Cavolo, Dima” piagnucolò, torcendosi le mani.
Corse al cesto della biancheria appena lavata, prese una canottiera e con quella cercò di frenare il flusso di sangue che macchiava la camicia già lurida dell’amico.
“Senti, adesso io vado giù, in città, e porto qui tua madre. Mi senti Dima? Ora vado via, ma torno, torno presto” disse Teppe, sporcando le guance del bambino col sangue della canottiera, mentre cercava contemporaneamente di sollevargli le palpebre e tamponare il naso.
Con le lacrime agli occhi si alzò in piedi e, stringendo ancora tra le mani la canottiera intrisa di sangue, corse come un pazzo giù per la collinetta, lungo la strada sterrata.
Dima rimase lì, immobile, cosciente per metà, steso sotto i fili vuoti della biancheria.
Passò un quarto d’ora e poi mezz’ora. Iniziò a piovere e questa volta non fu la pioggerella sottile della mattina. Dal cielo caddero grosse gocce di pioggia gelida e il bambino, ormai privo di sensi, fu presto circondato da una gigantesca pozza di fango.
Passò un’ora e poi un’altra e la pioggia si trasformò in un violento temporale.
Dima era prigioniero della sua testa; non aveva alcuna coscienza del suo corpo, dei vestiti zuppi e del fango.
Sognava di nuotare in un lago gigantesco, senza confini: una voce, nella sua testa, gli suggeriva la parola “mare”. Sognava di immergere la testa sott’acqua e non aver più bisogno di respirare. Sognava di nuotare tra le profondità di quel “mare” e di scoprire mondi nuovi e meravigliosi. Sognava di risalire in superficie e ridere alla vista del ghiaccio che lo circondava. Sognava di giocare a incidere tutte le parole che conosceva, poche, su quelle lastre spesse e fredde.
Era un davvero un bel sogno e non desiderava affatto svegliarsi. Eppure, qualcosa lo disturbava: ai margini della sua testa sentiva una voce, acuta e cristallina, che rideva gioiosa. Avrebbe tanto voluto scoprire qualcosa in più su quella voce, magari invitarla a giocare con lui, ma ormai sentiva che stava per svegliarsi. Era come se qualcuno lo strattonasse per un braccio e, quando aprì gli occhi, vide il volto di sua madre sopra di lui.
“Si è svegliato, il nostro figlio-di-re” disse, sarcastica.
“Mamma?” la interrogò il bambino, confuso.
Come risposta ricevette due violenti ceffoni sulle guance. Immediatamente i suoi occhi si riempirono di lacrime, per il bruciore e la delusione.
“Dimmi, come diavolo ti è venuto in mente di addormentarti?” stava sbraitando sua madre. “Ti sei addormentato e adesso il bucato è da rifare da capo!” urlò ancora, indicando le ceste piene di panni zuppi e infangati.
“Brutto scansafatiche! Ingrato di un figlio!” continuò, strattonando il bambino per rimetterlo in piedi e sottolineando ogni parola con uno schiaffo.
“Hai anche avuto il coraggio di mandarmi a chiamare da quello screanzato di Teppedore!Voleva che lo venissi a prendere, il signorino. Non le hai le gambe per tornartene da solo, eh, fannullone? Durante il pranzo, per di più! Lo sai come reagisce tuo padre se mi allontano durante il pranzo!”
Sembrava parlasse senza mai tirare fiato, rossa in viso e con gli occhi lucidi per lo sforzo. Dima, ancora provato dal suo malore, non reagì in nessun modo, ma un fiume di lacrime sgorgò senza controllo dai suoi occhi.
“Nemmeno il temporale ti ha fatto tornare! Ho dovuto aspettare che spiovesse e venirti a prendere io stessa!” continuò indignata, alzando le braccia al cielo.
“Ma adesso io e te facciamo i conti. Di quel bugiardo di Teppedore si sta già occupando sua madre; tu aspetta solo che racconti cosa hai combinato a tuo padre” minacciò, afferrandogli una mano e trascinandolo giù per la collina.
A Dima girava la testa e incespicava nei suoi stessi piedi, ma la donna sembrava non notarlo, tanto era presa dalla sua furia.
“Cosa ho fatto io per meritare tutto questo, cosa ? Per Dira, che cosa?” continuò a mormorare tra sé e sé lungo tutta la strada.
Arrivati a casa la madre non mantenne la promessa di riferire l’accaduto al marito. Si limitò a far sedere il bambino al tavolo e sbattergli davanti un avanzo di minestra alle patate, mentre gli uomini di casa si preparavano ad andare in paese. Dima aveva poco appetito, ma si sforzò di non lasciare nemmeno una briciola nel piatto.
Era pomeriggio inoltrato quando sua madre lo obbligò a spostarsi sul panchetto di legno addossato alla parete della casa, fuori, accanto alla porta d’ingresso. La donna lo raggiunse con le braccia cariche degli scarponi da lavoro del padre e dei fratelli. Pieni di fango e polvere, erano ridotti in condizioni pietose. Gli diede anche un catino d’acqua, una spazzola e del lucido.  
“Adesso tu te ne stai qui e pulisci come si deve queste scarpe, chiaro? E se combini qualche altro pasticcio dovrai vedertela direttamente con tuo padre!” minacciò per l’ennesima volta prima di tornare in casa, presa da una delle sue mille faccende.
Il padre ed i fratelli non erano ancora tornati: probabilmente erano andati al mercato in Piazza Rota, per spezzare la monotonia e sbrigare qualche commissione. Così, Dima lavorò tranquillamente per un paio d’ore.
Stava osservando il tramonto, rosso fuoco, mentre lucidava la punta dell’ultimo stivale del mucchio, quando un prurito fortissimo alla spalla destra lo costrinse a contorcersi su se stesso, nel tentativo di raggiungere il punto preciso con la mano. Dima era un esperto di pruriti: vivendo nel fango delle strade di Imbris, rotolandosi nei prati e facendo il bagno nel fiume, non era certo la prima volta che sentiva qualche parte del corpo pizzicare e formicolare. Non si allarmò e, quando capì che non riusciva a raggiungere  la spalla con la mano, iniziò a sfregare la sua piccola schiena sulla parete non intonacata della casa.
“Molto meglio” mormorò, sorridendo tra sé e sé. 
Eppure, in quel prurito c’era qualcosa di strano. Non solo il fastidio non diminuiva man mano che il bambino sfregava il punto dolente sulla superficie ruvida, ma sembrava peggiorare sempre di più. Leggermente allarmato fece scorrere la mano sulla spalla, temendo di raccogliere tracce di sangue: ma, quando la riportò davanti agli occhi, il suo palmo era calloso e sporco come sempre.
“Ahia!” si lagnò Dima, guardandosi intorno in cerca di aiuto. La strada era deserta e buia, e tutti i vicini iniziavano a raccogliersi intorno ai tavoli, per la cena. Se Dima fosse stato un bambino normale, sarebbe subito corso dalla mamma in lacrime, pretendendo una piccola magia che facesse passare il dolore all’istante: ma Dima era un bambino cresciuto nel fango di Imbris e la madri di quella città non facevano nessuna magia. Se avesse osato correre da sua madre avrebbe ricevuto solo altri schiaffi.
“Ahia” piagnucolò di nuovo, un po’ più forte. Quello che era nato come un leggero prurito si era trasformato in un dolore intenso, fatto di tante piccole fitte sulla sua spalla. Dima non sapeva cosa fare, né da chi andare: aveva tanta voglia di urlare ma era terrorizzato all’idea di indispettire sua madre, indaffarata a preparare la cena.
Si contorse sul panchetto ancora per qualche minuto ma, infine, non sopportando più il bruciore, corse in casa, diretto nel suo letto
“Dima! Se hai finito, porta dentro quelle scarpe!” lo rimproverò sua madre quando le passò davanti. Il bambino quasi non la sentì, mentre, con gli pieni di lacrime, si rannicchiava sotto le coperte, dondolandosi leggermente a destra e a sinistra.
La donna, desiderosa di essere ubbidita, decise di non dar tregua al bambino, e quella fu la sua fortuna. Quando vide il più piccolo dei suoi figli gemere rannicchiato sotto le coperte mentre inondava il cuscino di lacrime, qualcosa si mosse dentro di lei. Tutta la furia, tutta la delusione e l’amarezza che provava nei confronti della vita scomparve per un secondo, davanti ad una creatura tanto indifesa. In fondo, non era colpa del bambino se lei era condannata a dividere il resto della sua vita con un bruto e far da serva a un branco di rozzi uomini di miniera.
“Cosa stai facendo?” disse brusca, avvicinandosi al lettino. Da molti anni aveva disimparato ad usare la gentilezza: da troppo tempo la sua voce aveva assunto quella durezza che faceva sembrare ogni parola un rimprovero.
“Niente” mormorò il bambino, voltando il viso dall’altra parte, per proteggerlo dallo schiaffo che, ne era certo, sarebbe presto arrivato.
“Allora perché piagnucoli come uno stupido?” insistette lei, restando ferma al suo posto.
Dima sollevò leggermente il volto e sbirciò sua madre, rigida ai piedi del letto: sembrava arrabbiata, come sempre, ma ancora non si era nemmeno avvicinata per picchiarlo. Si fece coraggio e con un filo di voce disse:
“Mi fa male una spalla”
“Una spalla? Tutte queste storie per un dolorino alla spalla? Sei proprio uno frignone. Fammi vedere!” ordinò, avvicinandosi e girandolo bruscamente sulla pancia. Ora Dima premeva dolorosamente il volto sul cuscino, mentre sua madre sollevava le coperte e la camicetta sporca. La donna iniziò ad esplorargli la schiena con le dita fredde: la pelle era un fiorire di croste e lividi, tutti i segni dei piccoli incidenti che fronteggiava il ragazzo ogni giorno. In alto, però, sulla spalla destra, c’era qualcosa di insolito, qualcosa che la donna non aveva mai visto.
“Aspetta qui” gli ordinò.
Il bambino non avrebbe potuto fare altrimenti: accecato dal dolore, si lamentava piano, soffocando i singhiozzi con la stoffa dura della federa del cuscino. Non si spiegava la fonte di tutto quel bruciore: voleva solo che smettesse immediatamente.
La donna tornò presso il lettino con un panno umido e, poco delicatamente, iniziò a strofinare la porzione di pelle subito sotto la spalla dolorante del ragazzo. Quello proruppe subito in agghiaccianti grida di dolore ma la madre non ci fece caso finché la pelle sotto il panno non fu perfettamente pulita.
Fu allora che trattenne rumorosamente il fiato.
“Per tutti i nomi di Dira” disse in un sussurro, passando con leggerezza le dita sulla pelle arrossata.
Dima continuava a piangere e dimenarsi, senza prestare orecchio alla madre, dimentico della paura che gli aveva suscitato il solo pensiero di farsi toccare da lei.
“Taci, ragazzo!” gli ordinò quella, mentre si passava le mani tra i capelli con aria sconvolta.
“Ti prego, mamma! Mi fa male!” singhiozzò disperatamente.
La donna non poteva sentire il bambino: persa nei suoi pensieri, aveva il volto sconvolto da un profondo turbamento. Sedette sul bordo del letto e tornò ad osservare con attenzione la spalla del figlio: sulla pelle arrossata era ben visibile un piccolo marchio traslucido, di un azzurro chiarissimo, che richiamava la forma di un cristallo di neve. Anzi, riproduceva esattamente il più bel cristallo di neve che lei avesse mai visto, ma solo per metà: era un’immagine incompleta.
“Ma cosa vuol dire?” chiese a se stessa, passandosi una mano sul volto. Un’idea, leggera ed azzardata, stava prendendo forma ai margini della sua mente, ma lei per prima non osava prestarvi fede.
Quando la porta d’ingresso  si spalancò di colpo, andando fragorosamente a sbattere contro il muro, la donna era ancora persa nelle sue supposizioni e sobbalzò leggermente.
“Lorrein, dove diavolo è la cena?” disse una voce aspra e avvinazzata. Gli uomini erano tornati dal paese stanchi ed affamati, e il capo famiglia sembrava stesse per mettere in scena una delle sue peggiori sfuriate.
“Che cos’è tutta questa confusione?” chiese l’ingenuo Senio quando il padre smise di sbraitare, prestando orecchio al pianto disperato del povero Dima.
“Quell’idiota di Dima le ha prese un’altra volta” rise Terensk, sputando un grumo di saliva e tabacco nell’angolo più buio della stanza.
“Lorrein!” urlò con impazienza il marito alla moglie, mentre si lasciava pesantemente cadere sul vecchio divano sfondato.
La donna comparve dalla stanza adiacente, scarmigliata e pallida in volto, accompagnata dalle grida del bambino.
“Hanse, devi venire immediatamente” disse al marito.
“Stupida donna, chi ti fa credere che mi alzerò da questo divano? Pretendo la mia cena, ora!” disse, furioso, senza nemmeno guardare la moglie.
“Ragazzi, almeno uno di voi. Ho bisogno del vostro aiuto” supplicò lei, con un tono talmente nuovo che costrinse tutti i suoi figli ad osservarla meravigliati.
“Smettila di seccarci con i tuoi stupidi problemi di donna e vedi di far tacere il ragazzo. Mi sta perforando i timpani” replicò l’uomo, sfilandosi gli stivali e lanciandoli nel bel mezzo della stanza.
“Sta succedendo qualcosa a Dima, Hanse. Ma non ho la più pallida idea di cosa sia” iniziò a spiegare lei, cercando di sovrastare i singhiozzi del bambino nell’altra stanza, mentre gli altri suoi figli frugavano rumorosamente nella dispensa alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
“Gli passerà. Adesso, però, non spingere la mia pazienza oltre i limiti. Ho fame e voglio mangiare”
“Bene, ti preparerò da mangiare. Poi porterò il ragazzo dal Guaritore Gens” disse lei, coraggiosamente.
“Ma sei impazzita, donna? Il Guaritore Gens? E con quali soldi vorresti pagarlo?”
“Abbiamo dei risparmi”
“Io non lavoro come un mulo giorno e notte per assecondare i capricci di un ragazzino viziato!” sbraitò l’uomo avvicinandosi minacciosamente alla moglie. Tutti, ad Imbris, erano a conoscenza di quanto Hanse Pavalon fosse una testa calda e nessuno, se poteva, osava sfidarlo, men che meno sua moglie. Hanse non era un uomo malvagio: solo, non voleva essere contraddetto, mai.
“Se i tuoi figli sono degli smidollati non è colpa mia. Di certo non alzerò un dito per aiutarli. Se il ragazzo sta male, lascialo urlare per tutta la notte e vedrai che al mattino si sentirà meglio!” continuò, a pochi centimetri dal volto sfatto della donna.
“Stupido, ignorante, presuntuoso di un uomo” urlò lei, più forte del marito e del figlio piangente messi insieme. “Questa potrebbe essere la nostra fortuna e tu la stai buttando via!” continuò. Hanse, però, aveva ascoltato solo in parte: non appena gli insulti erano usciti dalle labbra della donna,  il suo volto si era fatto rosso per la collera e una vena aveva iniziato a pulsargli minacciosamente sulla tempia.
“Cosa hai detto? Come hai osato offendere in questo modo tuo marito, donna?” sibilò afferrando il polso della moglie e torcendolo tanto forte da farla urlare nuovamente.
“Smettila, schifoso ubriacone!” cercò di difendersi lei, dimenandosi con forza.
“Ti insegnerò io cos’è il rispetto per il proprio uomo” disse lui, prima colpirla con forza sulla guancia. Lorrein cadde a terra, impotente davanti alla forza bruta del marito. I suoi cinque, grossi, figli non osarono intervenire in sua difesa; il temperamento burrascoso e violento del padre terrorizzava anche loro.
Fu un ragazzino sporco e lacrimoso a precipitarsi davanti all’uomo. Dima sembrava lo stesso bambino di sempre agli occhi del padre, che non si era mai davvero soffermato ad osservarlo.
“Adesso smettila!” disse il ragazzo, col tono di voce più fermo e gelido che un bambino di undici anni avesse mai avuto.
“Eccolo, il nostro re! Sei venuto a prendere la tua parte?” replicò il padre, beffardo. Sollevò il braccio e stava per abbatterlo sulla guancia umida del bambino quando, improvvisamente, lasciò la mano sospesa a mezz’aria. Dimitar lo stava osservando  con occhi di ghiaccio. Un potente vento gelido si sollevò nella stanza: presto il padre fu gettato a terra, così come i fratelli, mentre una furiosa tempesta di neve imperversava senza pietà nella piccola casa.
Dima stesso si accasciò sul pavimento ricoperto di neve, lasciando che sull’intera stanza piombasse il più gelido degli inverni.




Note
Ciao a tutti! Mi sembra davvero strano parlare con dei possibili, virtuali, lettori!!!
Oggi ho finalmente deciso di pubblicare il primo capitolo di questa storia, che mi ronza nella testa ormai da anni; l'ho riletto, rivisto, modificato, tagliato e allungato almeno un centinaio di volte! Infine ho deciso di accantonare per un momento tutte le critiche che muovevo a me stessa e di ascoltare il parere di chi, questo testo, non l'ha visto nascere e crescere sotto i propri occhi! Per questo motivo sarebbe importantissimo, per me, ricervere qualche vostra recensione, giusto per sapere se sto andando nella direzione giusta!

Grazie,
EsterElle

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Capitolo 2
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Capitolo 2
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Quando Dima si svegliò, capì subito che c’era qualcosa di strano. Tutto, intorno a lui, era agitato da violenti tremiti e scossoni e l’andatura ritmica di quelli che sembravano zoccoli di cavallo faceva da sottofondo a quegli attimi di dormiveglia. Gli bastò qualche secondo ancora per realizzare che si trovava a bordo di un carrozzino, solo, sdraiato su morbido velluto rosso. Senza dubbio, era l’abitacolo più lussuoso ed elegante in cui Dima fosse mai stato. Si avvicinò immediatamente alla piccola finestra e scostò le pesanti tende dorate. Lo scenario che si presentò ai suoi occhi era magnifico e terrificante al tempo stesso: stava attraversando un fitto bosco, completamente ricoperto di brina. Gli alberi, spogli, i loro tronchi e i loro rami, le felci e i cespugli spinosi ai loro piedi e persino la rada erbetta che ricopriva il terreno, duro e freddo, era cosparsa di brina: meravigliosi e magici arabeschi facevano parte quel paesaggio cristallizzato, ostile alla vita in qualunque sua forma.
Dima era in preda al panico. Non c’erano vie di fuga: nessuna maniglia alla porta né alla finestra. Il bambino si accovacciò e tastò ogni palmo del fondo del carrozzino, bussò forte contro il soffitto, rovesciò tutti i cuscini per sfogare la rabbia: niente. Era chiuso in una scatola lanciata a gran velocità per un bosco di cristallo.
“Aiuto!” iniziò ad urlare, prendendo a calci e pugni ogni cosa.
“Aiuto!” gridò ancora, a pieni polmoni.
Strepitò per delle ore, e pianse, e tempestò di pugni la porta: non accadde nulla. Infine, esausto e confuso, si accovacciò sui cuscini morbidi e cercò di addormentarsi, stringendo forte le ginocchia al petto.
Era il tramonto quando il carrozzino si arrestò bruscamente, facendo ruzzolare il bambino sul fondo. Con gli occhi pesti per il pianto e la stanchezza, Dima tornò a guardare fuori e rimase sorpreso dalla gran quantità di neve che ricopriva ogni cosa. Al di là del vetro appannato, scorse delle figure avvolte in pesanti mantelli da viaggio che camminavano verso di lui.
-Chi sono? Cosa vogliono da me?- pensava febbrilmente, mentre cercava un posto per nascondersi.
Improvvisamente, la porta si spalancò e un uomo in livrea gialla e blu si affacciò all’interno, tendendo una mano al bambino.
“Mio signore, vi prego di seguirmi fuori” disse, composto.
Se Dima non avesse avuto tanta paura, avrebbe sicuramente riso. Lui un signore? Che assurdità!
-Sono capitato in mezzo ad una compagnia di saltimbanchi ubriachi- pensò, sempre più agiato.
-Guarda questo com’è vestito! Non perdonerò mai mio padre se scoprirò che mi ha venduto a questi qui!-
Nonostante il tremore alle gambe e gli oscuri pensieri, non perse tempo e saltò agilmente giù dal carrozzino. I suoi piedi nudi e buona parte delle gambe ossute affondarono nella neve, ma Dima non diede segno di avvertire il freddo intenso di quella sera. Il suo primo impulso fu quello di scappare. Correre via, attraversare quel bosco sommerso di neve per tornare al frango di Imbris, a casa sua, senza badare a quanto lontana essa fosse. Non appena alzò lo sguardo, però, fu costretto ad abbandonare i suoi progetti di fuga: una decina di uomini circondavano il carrozzino, vestiti delle austere  uniformi dei Soldati del Nord, familiari al bambino.
-Soldati? Mi stanno portando via dei soldati? Ma non è possibile!-  pensò, mentre il visino sporco di terra, lacrime e sangue si chiazzava di rosso.
“Io non ho fatto niente, posso giurarlo! È mio padre quello che ruba i polli dei vicini, non io. Prendete lui, è colpevole!” disse precipitosamente, chiudendo la paura in un cassetto della sua mente e affrontando quel gruppo di uomini grossi e armati con la sola forza delle parole.
“Mio signore, non dovreste agitarvi tanto” disse l’uomo in livrea, fermo al suo fianco.
“Parli bene, tu. Perché sei qui? Scommetto che ti hanno accusato di molestare le brave persone dei paesi, come fanno tutti i saltimbanchi ubriachi” urlò Dima, allontanando la mano dell’uomo. Più era spaventato più dalle sue labbra fuoriusciva un fiume di parole inarrestabile: una difesa naturale che Dima aveva esercitato nei lunghi anni di convivenza con i fratelli.
L’uomo in livrea divenne rosso per l’imbarazzo e la collera “La prego, mio signore, non deve dire queste cose”
“Io dico quel che mi pare e piace! Se non mi lasciate andare immediatamente, giuro che mi metto ad urlare talmente forte da rompere i timpani a tutti voi” minacciò.
I soldati scoppiarono a ridere fragorosamente.
“Stai calmo, piccoletto. Non ti succederà niente di male” disse quello più alto e grosso, avvicinandosi al bambino e posandogli una mano sui capelli spettinati.
“Ah, si? E allora perché mia avete tenuto chiuso in quel carrozzino per tutto il giorno?” replicò il bambino in tono di sfida.
“Il signor Pollok, valletto del Consigliere Qwan, si è fatto prendere la mano. Posso giurarti che non sei stato rapito né era nostra intenzione tenerti prigioniero” ribatté il soldato alto, indicando l’uomo in livrea, che se ne stava col mento per aria, offeso.
“Allora posso andarmene?”
“Certamente no”
“Ma non ho fatto niente, lo giuro!”
I soldati ridacchiarono ancora, sotto i baffi, alla vista dell’ennesima, strenua, difesa del ragazzino.
“Coda di paglia?” si sentì un militare bisbigliare al compagno, ancora ridendo. Fu messo a tacere all’istante, però, fulminato da una gelida occhiata di rimprovero del soldato alto.
“Io sono il capitano Reeply. Sono qui, insieme alla mia squadra, per scortarti a destinazione” disse, ignorando le ultime risatine dei suoi uomini e piazzandosi di fronte al bambino.
“Io non ci torno sul carrozzino” replicò Dima in tono di sfida.
“Precisamente. Adesso mi seguirai fino a quella slitta laggiù: ci sono due persone che dovresti conoscere” disse il capitano al bambino, indicando una bella slitta con finimenti dorati, ferma sulla neve a poca distanza dai soldati.
“Chi sono?” chiese subito Dima, curioso.
“Delle persone che, finalmente, risponderanno a tutte le tue domande, piaga di un ragazzino” disse il capitano, che non era certo un maestro di pazienza.
“Mi diranno anche cosa è successo alla mia famiglia? Forse loro sanno se è stato mio padre a farmi arrivare fin qui. L’ultima cosa che ricordo è che era molto arrabbiato con me” pensò ad alta voce il bambino, rivolto un po’ al capitano e un po’ a se stesso.
“Credo proprio di si. Mi seguirai senza provare a scappare?”
“Si, lo giuro”
“Molto bene, vieni” disse il capitano, sorridendo e facendo cenno ad alcuni degli uomini di seguirli.
I soldato scortarono Dima fino alla slitta: il loro atteggiamento era nuovamente composto e i loro volti non esprimevano alcuna emozione. Solo, di tanto in tanto, un lampo di curiosità attraversava i loro sguardi severi e un bisbiglio interessato si diffondeva tra loro.
“Ecco, ragazzo” disse il capitano Reeply quando furono allo sportello. “Ti raccomando un comportamento adeguato: i signori Consiglieri sono persone davvero importanti” aggiunse, lanciando un’occhiata di disapprovazione all’abbigliamento povero e malridotto di Dima.
Il bambino annuì, tirò su col naso e si preparò a quell’incontro tanto strano.
Il soldato bussò leggermente ed entrò per primo. Dima, incapace di resistere alla curiosità, spiò l’interno da uno spiraglio lasciato aperto dalla porta mal chiusa.
Vide due uomini mollemente seduti su grossi cuscini e coperte, interamente ricoperti di morbida pelliccia bianca.
“Finalmente! Abbiamo aspettato per ore, capitano!” disse uno dei due, vestito di viola e con una folta barba bianca.
“Dovete perdonarci, è stato un viaggio molto lungo. Il signor Pollock ha fatto del suo meglio per far giungere il ragazzo il più presto possibile” replicò Reeply.
“Va bene, va bene. Ci sono notizie dell’altra scorta?” chiese l’altro uomo, vestito del’identico viola ma con il ventre pronunciato e piccoli occhi indagatori.
“Si, signori. Sono giunti a destinazione parecchie ore fa”
“Ecco una bella notizia” disse l’uomo barbuto con amara ironia.
“Capitano Reeply, faccia salire il ragazzo e riprendiamo la via” disse l’altro, con fare sbrigativo.
“Certamente, signori”
Quando il capitano tornò fuori e rivolse nuovamente la sua attenzione a Dima, si accorse che il bambino aveva ascoltato tutta la conversazione.
“Senti, ho cambiato idea, non voglio salire lassù!” disse subito Dima, incrociando le braccia, improvvisamente cocciuto. L’austerità dei due uomini sulla slitta, la loro sottile ironia e il leggero disprezzo che aveva percepito nel breve scambio di battute con il capitano, l’avevano intimorito; avrebbe soffocato ogni curiosità pur di non trovarsi faccia a faccia con quei due brutti corvi vestiti di viola.
“Mamma dice sempre che con gli sconosciuti non ci devo parlare. E dice anche che i corvi portano male. O erano gli avvoltoi?”
“Devi andare!” ribatté perentorio il capitano, ignorando gli sproloqui del ragazzo sui volatili.
“No! Quelli mi portano lontano e poi mi chiudono in prigione. Io voglio andare a casa!”
“Ragazzo, come faccio a farti capire che non ti stiamo arrestando? Mi credi se ti dico che i signori nella slitta ti condurranno in una bellissima nuova casa?” replicò il soldato, cercando di mantenere la calma.
“Fidati di me, nessuno ti porterà in cella” promise ancora.
“Giuri?”
“Si”
“Su cosa?”
“Su quello che vuoi”
“Su un bottone d’argento della tua uniforme”
“Sei davvero un ragazzino impossibile!” disse esasperato l’uomo, mentre estraeva una lama sottile e con un colpo delicato recideva il filo argentato che legava un bottone al polsino della giacca.
“Ecco” disse, porgendoglielo. “Ho giurato. Adesso sali?”
“Va bene” disse il bambino, rigirandosi tra le mani quel bellissimo pezzo da aggiungere alla sua collezione.
“Tu non vieni?” chiese, quando il capitano gli diede una piccola spinta verso la scaletta.
“No, ti seguirò da fuori, a cavallo. Ma adesso sbrigati!”
Dima salì di corsa i pochi gradini ed entrò nell’abitacolo accogliente, foderato di candida pelliccia.
“Guarda, Qwan, hanno fatto salire un piccolo selvaggio” disse beffardo l’uomo barbuto, non appena posò gli occhi sul bambino, torcendo il naso.
“Suvvia, Estefan, non essere così duro. Il ragazzo ha solo bisogno di un bel bagno, vero?” disse l’altro, senza riuscire a dissimulare del tutto il disgusto che gli suscitavano l’aspetto e l’odore del bambino.
“No signore, io odio fare il bagno” rispose Dima in tono di sfida, tirando su col naso per l’ennesima volta e pulendosi con la manica della camicia, come suo solito.
I due uomini in viola scoppiarono in una risatina nervosa.
“Ci conviene metterci in viaggio, Qwan. Ora come ora, non abbiamo altra scelta”
“Hai perfettamente ragione” sospirò l’uomo. “Siediti, ragazzo. Perché non ci dici come ti chiami?” proseguì rivolto al bambino, mentre si sistemava sulla testa un pesante copricapo peloso.
“Dimitar Pavalon. Ma chi siete voi? Dove mi portate? Il capitano ha giurato che mi condurrete in una bellissima casa e non in prigione. Perché io non ho fatto proprio niente, davvero!” disse il bambino tutto d’un fiato, approfittando della possibilità di parlare che i due uomini gli avevano concesso.
“Quanta foga, ragazzo!” lo interruppe il Consigliere Estefan, con una smorfia delle labbra sottili. “Dovremmo lavorare duramente con te, temo” considerò poi, scuotendo severamente il capo.
“La strada sarà lunga e tortuosa, mio caro Estefan, lo sappiamo bene” rincarò la dose il Consigliere Qwan, annuendo alle parole dell’altro.
“Se avrai pazienza, Dimitar, presto saprai tutto”aggiunse con un sorriso tirato diretto al bambino.
Dima, allora, si morse la lingua e  rimase in silenzio, guardando i due uomini e rigirandosi il suo nuovo bottone tra le mani. Era una promessa, quella, e Dima non aveva mai dubitato delle promesse degli amici. Per non parlare di quelle suggellate coi bottoni.
“Molto bene” riprese Estefan. “Io e l’emerito Consigliere Qwan siamo membri del Gran Consiglio di Cadmow e, per la precisione, siamo i Consiglieri del Sud. Siamo stati…”
“Cosa sono i Consiglieri?” lo interruppe subito Dima, curioso come sempre e incapace di trattenersi oltre.
“I Consiglieri, caro ragazzo, sono alcune persone estremamente colte ed intelligenti che aiutano i Guardiani a svolgere il difficile compito che Dira ha loro destinato. Rappresentano il popolo della loro Regione e ne sono i portavoce più autorevoli” rispose pazientemente Qwan.
“Va bene. Ma ci sono anche quelli del Nord, vero?”
“Certamente”
“E dove sono adesso? Perché siete venuti voi? La Regione del Sud è molto lontana”
“L’intero Gran Consiglio si trova ospite a Nenjaat, in questi tristi giorni. Credo tu possa immaginare il perché” disse Estefan, a mani giunte.
“Ah già, è morto Karel, il Signore del Nord”
“Il tuo Guardiano, Dimitar, il Guardiano della Regione del Nord”
“Ma io cosa c’entro con tutti voi, che siete signori?”
 “Forse non ne sai nulla, ma ieri, a Nenjaat, si è tenuta una Cerimonia davvero importante…”
“Si, lo so! La Cerimonia della Carta”
“Molto bravo, Dimitar” disse Qwan, infastidito dall’ennesima interruzione.
“Questa Cerimonia si tiene soltanto alla morte di un Guardiano e ha lo scopo di eleggerne uno nuovo. Ma non siamo noi, poveri mortali, a scegliere la nostra guida, ragazzo. È Dira, la divinità che ha creato tutto il mondo conosciuto e ci ha donato la vita, che guida le nostre scelte” continuò Estefan.
“Esiste una Carta di Cadmow, antichissima. È una Carta impregnata della Grande Magia, ovvero la più grande manifestazione del potere di Dira su questa nostra terra. Le quattro regioni, del Sud, dell’Ovest, del Nord e dell’Est, sono state disegnate migliaia di anni fa da mani esperte e, con loro, le migliaia di persone che abitano quelle terre, sotto forma di piccoli punti neri” spiegò Qwan con grandi gesti.
Dima ascoltava attento, rapito come sempre dai racconti di magia.
“I Guardiani ancora in vita sono un tramite: grazie alla loro conoscenza dei segreti del tempo e dello spazio, grazie al loro essere totalmente immersi nella Grande Magia e alla loro comunicazione privilegiata con Dira, possono mostrarci il suo volere attraverso la Carta. I Guardiani sono rappresentati come punti estremamente luminosi: una nuova luce si accende sulla Carta quando il destino si è compiuto e un nuovo Guardiano è stato scelto. Questo è avvenuto ieri, nella Piazza Nevosa, a Nenjaat” concluse, teatralmente, Estefan.
“O almeno, questo sarebbe dovuto avvenire” bisbigliò Qwan a mezza voce.
“Non ho capito molto bene”  replicò schietto Dima.
I due uomini si concessero un sorriso davanti alla sincerità del bambino.
“Non preoccuparti. Avrai molto tempo per comprendere e studiare a fondo i misteri che rendono tale il nostro mondo” rispose bonariamente Qwan.
“L’importante è che tu capisca che ieri Dira ci ha indicato colui che ha scelto per guidare la Regione del Nord dopo Karel il Buono. Un bambino di dieci anni. Da millenni il Prescelto è un bambino di dieci anni e così anche questa volta”
“Perché quel bambino, Dimitar, sei tu”
Dima rimase un attimo in silenzio.
Il suo sguardo corse da Qwan ad Estefan, da Estefan a Qwan, veloce.
Infine, esplose in una grossa, grassa, risata.
I Consiglieri restarono esterrefatti.
Entrambi guardavano allibiti il bambino contorcersi sui cuscini per il gran ridere, senza sapere cosa fare.
“Dimitar!” esclamò Estefan, perentorio, inarcando fino all’inverosimile le bianche sopracciglia.
“Scusate, signori Consiglieri, scusatemi” disse Dima, ancora ridacchiando.
“Mi dispiace dirvelo, ma avete sbagliato bambino! Io ho già undici anni!” continuò, scosso dai singulti della risata non ancora spenta.
“Non dire assurdità, ragazzo” si dimenò il Consigliere Qwan sul suo sedile.
“La Carta non sbaglia mai. Mai! Qwan, non ti agitare, il ragazzo avrà calcolato male la sua stessa età. Non è la prima volta che la madre di un bambino di periferia non sa con esattezza quanti anni ha suo figlio” disse con gelida razionalità Estefan.
“Hai ragione, caro amico. Inoltre, anche se il ragazzo avesse davvero undici anni nulla potrebbe essere cambiato. E, d’altronde, non sarebbe nemmeno la stranezza peggiore che la Carta e Dira ci hanno riservato questa volta” replicò Qwan, incupendosi e affondando le spalle nella morbida e calda pelliccia.
“Estremamente logico, compagno” approvò Estefan.
“Aspettate, mi sono perso di nuovo. Se questa vostra Piantina sceglie solo bambini di dieci anni, io sono quello sbagliato. Questo mi sembra logico!” li interruppe Dima, mentre si ricomponeva sul suo sedile.
“Ragazzo, Dira vede molto più lontano di noi; non siamo in grado di comprendere tutte le sue scelte. Nell’ultimo migliaio di anni sono stati scelti sempre bambini di dieci anni, ma nulla vieta una modifica delle leggi divine” rispose, spazientito, Qwan.
“Prima di lanciarci in complesse congetture teologiche, però, studieremo tutti i documenti che ti riguardano e che il devoto Pollok ha portato con se da Imbris. Vedrai che la verità salterà fuori” aggiunse Estefan, pragmaticamente.
“Quindi?” chiese ancora Dima, alzando le sopracciglia con fare interrogativo.
“Quindi non c’è nessun errore: Dira ti ha scelto come futuro Guardiano del Nord e così sarà” chiarì Estefan.
“Ne porti i segni sulla tua stesa pelle” completò Qwan.
“Ma quali segni? Le mie croste?” replicò Dima, ridacchiando scioccamente. Non era abituato alle sorprese, ai regali, alle occasioni che cambiano la vita. Ad Imbris aveva conosciuto il lavoro, la durezza, corruzione e ruberie, qualche amicizia sincera e tanta, tanta, povertà: non era facile, per lui, credere alle belle e difficili parole dei due vecchi.
-Questi due mi vogliono infinocchiare per bene, così che me ne resto bello tranquillo per tutto il viaggio e, una volta arrivati, possono sbattermi con facilità in prigione per un crimine che, di certo, io non ho commesso! O, magari, vendermi come domestico al primo amico ricco che gli capita a tiro, così da farci un mucchio di soldi- pensava, con maturità e cinismo estranei al suo visetto sporco di bimbo.
“Non mi sembra il momento adatto per fare dello spirito, Dimitar” disse gelidamente il Consigliere Estefan.
“Si tratta di una questione importante che va affrontata con la massima serietà e maturità” aggiunse Qwan.
“Ma io sono serio. Per me avete proprio sbagliato. Io non ho nessun segno, non ho commesso alcun crimine e non voglio assolutamente finire in prigione” disse il ragazzo, cocciuto. “Ho capito tutto, potete anche smetterla con la finta del Guardiano- scelto-da- Dira” aggiunse, con strafottenza.
I due anziani Consiglieri non erano certo esperti nell’arte della sopportazione: quel bimbetto sporco e cencioso stava rendendo il viaggio in slitta una vera sofferenza per i loro poveri nervi.
 “Mi duole dirti, Dimitar, che sei completamente fuori strada” replicò secco Estefan. “Come ti spieghi la tempesta di neve che hai generato in casa tua e che ha quasi ucciso tutti i tuoi familiari? E il marchio che ti ritrovi impresso sulla spalla?” continuò.
“Come ti spieghi, testardo ragazzo, il fatto che te ne stai in camicia e pantaloni corti, a piedi nudi e testa scoperta, mentre fuori la temperatura è quella del più rigido inverno tu abbia mai conosciuto?” incalzò Qwan, senza dare a Dima il tempo di superare lo shock delle precedenti rivelazioni.
“Credi che i Consiglieri del Sud, due delle massime autorità di Cadmow, secondi solo ai Guardiani e al Supremo, si sarebbero scomodati per accompagnare un piccolo delinquente in gattabuia?” aggiunse amaro Estefan.
“La nostra dignità, il nostro elevato prestigio sociale e intellettuale, non ci permette di continuare a dare ascolto a te, piccolo, ignorante, figlio di un minatore, che con cocciuta insistenza metti in dubbio la nostra parola” concluse Qwan, con voce tonante.
Dima rimase muto come poche altre volte in vita sua; per un po’ sbatté le palpebre, confuso, cercando di districare la matassa annodata dei suoi pensieri.
“Come sta la mia famiglia?” chiese infine, con un filo di voce.
“Abbastanza bene, ora. Ma non per merito tuo” rispose Estefan.
“Io non ricordo niente, solo che ero molto arrabbiato con papà e i fratelli” disse ancora il bambino, scosso. Accettare la verità era davvero dura, per lui, cresciuto a pane e scetticismo.
“Il fedele Pollok ci ha scritto, prima di portarti via, ancora svenuto. Hai ridotto la tua casa in uno stato pietoso, peggio del bosco che vedi qui fuori, tanta era la neve e il ghiaccio che avevi accidentalmente creato”
“E secondo voi sarebbe stata opera mia?”
“Esattamente”
“Perché sono il nuovo Guardiano del Nord”
“Si”
“Ma dai, non può essere vero!” disse Dima, cercando di ritrovare la strafottenza e la sicurezza di poco prima.
“Non è così complicato, ragazzo: sei stato scelto. Dira ha voluto te come suo interlocutore privilegiato, te per proteggere e governare il suo popolo insieme agli altri Guardiani. Non tocca a noi giudicare le sue scelte” disse Qwan, lasciando intendere come fosse difficile per lui vedere in Dima un sovrano, al di là dello sporco ragazzino di periferia.
“Ma io non so niente di niente. Non sono nemmeno mai andato a scuola”
“Come ho già detto, un lungo cammino ti attende prima di poter compiere il tuo destino” rispose Qwan, eccessivamente pungente.
“Dove stiamo andando?”
“A Nenjaat, dove conoscerai gli altri Guardiani”
“E poi? Cosa dovrò fare? Potrò tornare a casa finché non sarò diventato abbastanza grande per vivere al Palazzo d’Inverno?”
“No. Tra poche settimane partirai, diretto al lago di Odundì, al centro esatto di Cadmow. Andrai presso il maggiore tempio di Dira e vivrai con i monaci. Ci resterai per sette anni, così da completare la tua istruzione” spiegò Estefan.
“Ma allora quando potrò tornare a casa?” chiese Dima, con voce incerta e densa di pianto.
“Non ci tornerai mai più”.
“Cosa? No! No, io devo assolutamente tornare! Il mio amico Teppe mi aspetta, devo portarlo a Nenjaat con me!” gridò il bambino, alzandosi per la prima volta in piedi nell’angusto abitacolo della slitta.
“Non sarà possibile” replicò Qwan.
“Deve essere possibile, l’ho promesso”
“Non devi insistere. Tutti i Guardiani, una volta scelti, lasciano la loro famiglia e il loro paese per dedicarsi al bene di tutta la comunità” intervenne Estefan.
“Ma se io sono il Guardiano posso fare quello che voglio! E io voglio tornare a casa e portare Teppedore Gosh con noi!” strillò ancora Dima, con le guancie istantaneamente rigate da nuove lacrime.
“Non è il momento di fare i capricci, ragazzo. Sarai un Guardiano e non puoi permetterti certe debolezze”.
“Ma io voglio il mio amico, solo lui, poi giuro che farò tutto quello che mi direte. Per favore!” pianse Dima, comportandosi come il bambino che in realtà era, grattando via tutti gli strati di durezza e ironia che aveva adottato per difendersi da un mondo fin troppo duro con i più piccoli.
“Sei proprio un ragazzino, Dimitar Pavalon. Quando sarai tra i monaci dovrai comportarti molto meglio di così” disse Estefan, disgustato dalle lacrime e dal moccio che inondavano il viso del ragazzo.
Dima pianse e pianse ancora, pianse per tutta la strada che li separava dalla capitale, pianse per tutta la notte. I due Consiglieri rimasero impassibili alle lacrime e alla crudeltà che stavano infliggendo ad un ragazzino come tanti, separandolo per sempre da tutto ciò che amava e conosceva. Era la prassi e loro non avevano il minimo dubbio sulla bontà delle loro azioni.
Quando giunsero in vista di Nenjaat, Dima nemmeno se ne accorse, tanto i suoi occhi erano stanchi e umidi di lacrime. I cancelli e le mura della città erano maestosi come pochi, a Cadmow. Alta e imponente, la cinta di mura, ricoperta di spesso ghiaccio, circondava un perimetro sin troppo grande per appartenere ad una città sola. Il cancello principale, in ferro battuto sapientemente lavorato, si riempiva di spettacolari ed astratte figure, disegnate da un freddo velo di neve e polvere di ghiaccio. La solidità di una Regione forte e temprata, che tutti i giorni lottava per preservare la vita in un clima tanto inospitale, si intrecciava con la  delicata e leggera eleganza degli arabeschi disegnati dalla neve, in un connubio di pietra, ferro e ghiaccio.
 La slitta seguì da vicino il percorso del fiume completamente gelato, illuminato da piccole lanterne e quindi ricco di affascinanti giochi di luce, che attraversava la città fino ad arrivare all’interno delle mura del Palazzo. La neve era ovunque e le case sembravano fare parte dello stesso paesaggio: per metà interrate nel duro terreno gelato, spesso lastricato di pietre e ghiaccio, adorne di stalattiti e tormentate dalla neve che, quel giorno, cadeva senza sosta, non stonavano affatto con lo spettacolo invernale intorno a loro. Le strade non erano state ripulite dalla fine polvere bianca e i cittadini si spostavano grazie alle slitte o per mezzo di passaggi sospesi, passerelle costruite con l’elemento che, ero chiaro, non mancava mai: il ghiaccio. I ponti sul fiume, le strade, le complicate forme che adornavano i tetti spioventi delle case, erano meravigliose strutture, anch’esse in solido ghiaccio, riflettenti la pallida luminescenza di un sole nascosto dal cielo bianco e nevoso. Tutto, a Nenjaat, era meraviglioso, artificioso ed elegante al tempo stesso: una città fragile, a prima vista, ma tanto solida da poter sostenere e guidare da sola tutta la Regione del Nord.
Cuore pulsante di quella astratta architettura era il Palazzo d’Inverno, a nord della città, e la bella Piazza Nevosa che, con le sue quattro fontane dai getti d’acqua raggelati, era stata teatro di tanti eventi e riconosciuto punto di contatto tra i cittadini fedeli e il loro Signore.
Dima non vide nulla di tutto ciò: quando senti la slitta fermarsi, certamente all’interno della mura del Palazzo, non alzò gli occhi. La notte era trascorsa lenta e le parole dei Consiglieri avevano incessantemente popolato il suo sonno, agitandolo.
Quando scese, subito dopo i Consiglieri, rigirava ancora tra le mani il bottone d’argento della divisa del capitano Reeply.
Lo osservò a lungo.
-Un sacco di bugie, tutti dicono un sacco di bugie! La mamma, il papà, i fratelli e il capitano; nessuno mi ha mai detto cosa sarebbe successo. E questi due vecchi mi hanno imbrogliato più di tutti, portandomi qui senza dirmi che non sarei mai più potuto tornare a casa. Tutti mentono e vogliono fare di me un traditore!-
“Vi odio! Vi odio tutti quanti!” urlò improvvisamente, scagliando forte il suo bottone davanti a sé.
 Fu in quel momento,povero e ferito, circondato da soldati e Consiglieri furiosi, che Dima sentì la sua voce per la prima volta. 




Note
Ed ecco il secondo capitolo! Mi rendo conto che potrebbe risultare noioso, c’è poca azione e molto dialogo, ma ho pensato fosse necessario dare qualche spiegazione in più su Cadmow e le sue leggi, le sue caratteristiche. Questi  due capitoli sono stati incentrati su un solo personaggio, Dima, ma ben presto interverranno nuove figure; è una storia che si svela a poco a poco!
Grazie a chiunque spenderà un po’ del suo tempo a leggere questo racconto!
 
EsterElle

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Capitolo 3
*** Esplorazioni ***


Capitolo 3
Esplorazioni


 
“Ahia!” gridò una voce limpida di bambina.
Dima osservò quanto il grande viale del Palazzo d’Inverno fosse affollato, quella mattina: una decina di soldati in uniforme, quattro Consiglieri in tonaca viola, un uomo calvo vestito di uno sfavillante abito blu notte, e parecchi valletti e domestici, tutti rigorosamente abbigliati secondo i colori del loro signore. E poi, quasi nascosta dietro la figura massiccia di una cameriera, c’era una bambina. Una bambina piuttosto arrabbiata, a dir la verità.
“Mi hai fatto male!” disse, guardando Dima con i suoi grandi occhioni grigi, mentre mostrava un bottone d’argento.
Dima ebbe giusto il tempo di farle la linguaccia, prima che l’uomo calvo si parasse proprio davanti a lui, coprendogli la visuale.
“Mio caro ragazzo, benvenuto! Di certo sarai molto stanco; è stato un viaggio lungo e ricco di non poche sorprese. Seguimi all’interno e troveremo una bella stanza dove farti riposare” disse, con un gran sorriso, non facendo cenno alle parole, cariche di rabbia, pronunciate dal bambino pochi momenti prima.
“Finalmente qualcuno gentile” mormorò il ragazzo a mezza voce, più calmo, mentre lasciava che l’uomo vestito di blu gli cingesse le spalle con un braccio e lo guidasse in direzione del Palazzo.
Di certo Dima non aveva iniziato con il piede giusto quella sua nuova vita: esprimere così chiaramente i suoi sentimenti verso tutti i presenti era stato un gesto un po’ avventato, dato che, a partire da quel momento, il suo futuro era nelle loro mani. Ma il ragazzo era furbo e decise di mostrarsi come un bambino piacevole e simpatico, per porre rimedio alla gaffe.
“Io mi chiamo Dimitar, e tu?” chiese al suo accompagnatore, lanciandogli il più innocente degli sguardi.
“Goddars, mio piccolo amico. Ma tutti, qui, mi chiamano Supremo” rispose quello, sorridendo.
“È un bel nome -Supremo- ” replicò Dima, facendo mostra di tutte le carinerie apprese dalla zia di Teppe, Laurine, in un umido pomeriggio di qualche anno prima.
Il Supremo rise di gusto alle parole del bambino.
“No, Dimitar, il mio nome non è Supremo. Io sono il Supremo, cioè la massima autorità del Gran Consiglio, colui che rappresenta tutte le Regioni in maniera imparziale” spiegò l’uomo, mentre attraversavano un bellissimo Giardino d’Inverno.
“Ah. Ma tutte queste persone devono venire con noi?” chiese Dima, cambiando improvvisamente discorso e guardando oltre la sua spalla il corteo di Consiglieri e domestici.
-Chissà che fine ha fatto quella bambina- pensava, cercandola con gli occhi tra le cameriere.
“Non li vorrai lasciare fuori al freddo” rispose conciliante il Supremo.
“Freddo? Ma qui non fa affatto freddo!” constatò il bambino, osservando i suoi piedi nudi procedere sul sentiero lastricato completamente ghiacciato.
“Per te, forse. Ma ti assicuro che noi tutti non vediamo l’ora di un bel fuoco caldo e solide mura” rise ancora l’uomo.
Arrivarono davanti all’ennesimo portone, che alcuni uomini aprirono con grande sforzo. Infine, entrarono nell’atrio di quell’immenso palazzo di ghiaccio e pietra e gli occhi di Dima si persero nel contemplare la grande cupola che si apriva sopra le loro teste. Di trasparente, solido e luminoso ghiaccio, ovviamente.
“Ma qui c’è solo ghiaccio! Prima o poi questo posto cadrà a pezzi, ve l’assicuro” disse, senza neanche accorgersene.
“Non finché Dira e il suo Guardiano veglieranno su di noi” rispose bonariamente il Supremo.
“Quindi finché ci sarò io, giusto?”
“Si e no, Dimitar, si e no. Ma ora non perdiamoci in questi discorsi noiosi. Se seguirai Bessie, ti condurrà alle stanze che ti sono state destinate e potrai riposare finché vorrai” disse l’uomo, sorridendo.
“Verranno anche i due vecchi della slitta?”.
Il Supremo rise nervosamente “I Consiglieri Estefan e Qwan si godranno anche loro un meritato riposo nei loro appartamenti”.
“Va bene. Quindi starò solo?”
“È un problema?”
“No! Non vedo l’ora” disse Dima con un sorriso largo e gioioso. Già progettava come sarebbe potuto fuggire dalla sua camera da letto; immaginava di esplorare il Palazzo da cima a fondo, di intascare uno di quei bei portafiori d’argento e magari fare scorte di dolci in cucina. Ma, prima, aveva ancora qualcosa da chiedere al Supremo.
“Posso chiederti una cosa prima di andare?” disse, abbassando la voce con fare cospiratorio.
“Certamente” acconsentì il Supremo, chinandosi all’altezza del bimbo, proprio davanti alla splendida scalinata principale.
“Prima di essere portato qui, mi sono impegnato con una promessa solenne. I Consiglieri vecchi dicono che dovrò infrangerla, ma io non voglio”
“Davvero un pessimo consiglio. Non ci auguriamo altro che un sovrano giusto e leale per la Regione del Nord: spero vivamente che tu coltivi questa aspirazione negli anni che verranno. Ma adesso dimmi, di cosa si tratta?” replicò, con un lungo giro di parole.
Dima colse la palla al balzo “Ho promesso al mio amico, Teppedore Gosh, che, se fossi stato scelto, l’avrei portato a Nenjaat con me. Anzi, no, a dir la verità non è andata proprio così… Lui ha promesso a me che mi avrebbe portato qui se lui, Teppe, fosse stato prescelto. Ma sono stato scelto io, quindi la promessa si ribalta, vero?”
“Un affare complicato, noto”
“Ma abbiamo giurato sul bottone rosso e blu, quello raro, con solo tre buchi! Come faccio a dirgli di no? Per favore, Supremo, fallo venire qui” supplicò Dima.
“Se è solo questo, caro ragazzo, vedremo di venirti in contro nel migliore dei modi” disse quello, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
“Lo giuri?”
“Lo giuro”
“Su cosa?”
“Ti do la mia parola di Supremo, non basta?” rise di gusto l’uomo. “Ma adesso corri in camera tua. Ci vedremo di nuovo questo pomeriggio per chiacchierare un po’”.
Dima non era del tutto soddisfatto ma, non volendo risultare antipatico, decise di seguire la ragazza in divisa blu scuro e grembiule inamidato.
Camminarono a lungo: salirono e scesero scale lunghissime,percorsero corridoi ampi e traforati da alte ed eleganti finestre, attraversarono dieci e più atri e enormi saloni ariosi e pieni di candide tende mosse leggermente dal vento.
-Questo posto è un labirinto! Come farò a tornare indietro se vado in esplorazione? Mi servirebbe un altro uomo, un vice. Come vorrei avere Teppe già qui! Ma magari quella bambina ha voglia di giocare… glielo chiederò se riuscirò a trovarla!- pensava, mentre seguiva passo passo la ragazza.
Ad un certo punto Dima iniziò a domandarsi se non stessero scendendo nelle fondamenta di quell’antichissima costruzione e, proprio quando iniziava ad esserne convinto, la ragazza si fermò. Per poco il bambino non le finì addosso: lei era immobile davanti ad una modesta porta di legno chiaro, in un corridoio stretto e privo di finestre, ma profumatissimo.
“Eccoci arrivati, signorino” disse, prima di aprire la porta.
Dima, curioso come sempre, ficcò subito dentro la testa .
Restò a bocca aperta: mai si sarebbe aspettato di vedere quello che in realtà vide!
Un gruppo di donne dall’aria indaffarata si muoveva da una parte all’altra di un locale molto ampio, luminoso  per merito di una grande portafinestra  in vetro, lontana  rispetto a dove si trovava Dima. Le donne quasi non si accorsero del suo arrivo: alcune di loro erano affacciate su una grande vasca, le braccia calate nell’acqua fino ai gomiti e, con le dita rosse e scorticate, strofinavano un infinità di panni. C’era chi rammendava e chi rimestava la biancheria in un grosso secchio che bolliva pigramente sul fuoco, c’era chi riempiva cesti di panni umidi e puliti e chi si preparava ad uscire nel cortile. Un cortile davvero molto bello, pensò Dima: il bambino riuscì a sbirciare al di là della porta in vetro e vide un grande giardino dall’erba verde e due alberi di arance. Quel giardino era scavato nelle profondità del terreno e prendeva luce grazie ad una fantastica cupola. Dima non aveva mai visto nulla del genere!
“Ma che posto è questo?” chiese alla ragazza, mentre ancora si guardava intorno.
“Questa è la lavanderia del Palazzo” rispose quella, prendendolo per le spalle e guidandolo attraverso la stanza.
“E io cosa ci faccio qui? Il Supremo ha detto che dovevi accompagnarmi in camera mia, non a lavare i panni!”
“Nessun bambino sporco come voi è ammesso ai piani superiori, signorino”
“Quindi volete farmi il bagno?” chiese, inorridito, Dima.
“Esattamente” rispose la ragazza, senza riuscire a nascondere quanto questa piccola fobia del ragazzo la divertiva.
“Vi presento Frewa” disse ancora, indicando una donna dalle dimensioni mastodontiche china su un catino.
Quando sentì pronunciare il suo nome la donna si voltò verso di loro: aveva la pelle rossa e coriacea, due piccoli, acquosi, occhi azzurri e una bocca larga, che subito si aprì in un sorriso un po’ rigido, ma buono.
“Eccoti Bessie, appena in tempo! Stavo per riaccendere il fuoco, qui l’acqua si sta raffreddando in fretta. E tu, non sarai mica il nostro nuovo principino?” iniziò a domandare, cambiando spesso discorso in modo repentino.
“Invece si” disse semplicemente Dima, che ancora guardava con disgusto i vari pezzi di sapone bianco ammassati in un angolo della lavanderia.
“Per le sette bocche di Dira, guarda cosa mi tocca sentire! Quell’altra era molto più carina” disse quella, asciugandosi le mani bagnate sul grembiule umido.
“L’altra chi?” chiese subito il ragazzo, incuriosito.
“Niente, signorino, la vecchia Frewa non voleva offendervi!” disse precipitosamente Bessie, con voce stranamente acuta.
“Intendevi la bambina che ho visto questa mattina sul piazzale?” insistette Dima.
“Non parlo con bambini sporchi come te, non ti dirò altro finché io e Bessie non saremmo riuscite a renderti un vero damerino. Ora come ora sembri più un monello di periferia che il Signore del Nord”
Dima non ebbe il tempo per ribattere: con un guizzo veloce del braccio Bessie gli aveva già calato i pantaloni e la vecchia Frewa cercava di sfilargli la camicia con le grosse mani gonfie. Non aveva ancora del tutto realizzato qual che stava accadendo quando si ritrovò immerso nel catino d’acqua bollente. La mezz’ora che seguì fu tanto penosa per il povero ragazzo quanto indimenticabile per le due donne: urla, schizzi e maledizioni piovvero fuori dalla bocca e dalla vasca del bambino, mentre veniva insaponato, strofinato, strigliato fino a fargli diventare la pelle rossa e irritata. I tentativi di fuga furono innumerevoli, ma la vecchia Frewa aveva avuto parecchi figli e sapeva come trattare i ragazzi, anche quelli che, una volta adulti, sarebbero diventati i suoi signori e padroni.
Infine, stanche e fradice ma sorridenti, le due donne portarono un Dima estremamente imbronciato all’aperto, in cortile.
“Brutte streghe, volete farmi prendere una polmonite, adesso?” si lamentò lui, mentre stringeva a sé i morbidi asciugamani in cui era avvolto.
“Signorino Dima, voi siete il Signore del Nord, non avrete mai più freddo” disse Bessie, mentre gli strofinava i capelli e lanciava un occhiata incuriosita allo stano simbolo che il ragazzo aveva impresso sulla spalla destra.
“Oh, Frewa, guarda un po’ cosa abbiamo qui! L’avresti mai detto che sotto tutto quel fango c’erano morbidi riccioli castani? Sembrate proprio una bella pecorella, lo sapete?” disse ancora, mentre passava le dita gelate sulla testa del ragazzo.
“Un pecorone, caso mai! Giuro, in tutta la mia vita non ho mai visto un ragazzino fare tanti capricci per fare il bagno. Hai i pidocchi ragazzo?” rispose lei, brusca.
“No, la mamma ci controllava tutte le settimane” disse quello, ancora più scontroso.
“Sia ringraziato il buon cuore di Dira, che ci ha risparmiato un’epidemia di pidocchi a palazzo” replicò, alzando le braccia al cielo e afferrando con le sue manone quelle di Dima per pulirgli a fondo le unghie.
“Va bene che non sento freddo, ma non mi piace starmene qui fuori nudo come un verme. Dove sono i miei vestiti?” chiese il ragazzo dopo un po’.
“Bruciati” rispose semplicemente Frewa.
“Bruciati? E adesso come faccio ad andare in giro? La mamma me le darà di santa ragione quando lo verrà a sapere! Quanti guai che combinate, voi due!”
Le due donne si scambiarono un rapido sguardo, preoccupate; sapevano bene che il bambino non avrebbe mai più visto la madre né nessuno dei suoi vecchi compaesani. Essere scelto come Guardiano era un dono, tutti, a Cadmow, lo sapevano; eppure, spesso, sotto le pieghe dorate di una veste, tra i cibi prelibati di un banchetto e i morbidi cuscini di un letto caldo, si nascondevano i tratti di una vera e propria maledizione.
“State tranquillo, signorino, avrete i vestiti più belli di tutto il reame al posto dei vostri” disse Bessie, carezzandogli la fronte. Dima si beò di quel gesto materno, dolce e delicato, sconosciuto.
“Ne darete anche a Teppe quando arriverà? Perché lui è persino più sporco di me e forse ha anche i pidocchi” disse, ad occhi chiusi.
“E chi è questo Teppe?” chiese Frewa, distrattamente.
“Il mio migliore amico. Il Supremo lo porterà qui a giorni, mi ha dato la sua parola”
“Il tuo migliore amico ha i pidocchi? Povere noi! Mai che ci Dira ci mandi un bravo ragazzo di città!” replicò Frewa, roteando i piccoli occhi.
“Ma io non ne ho, lo giuro!”
Quando il ragazzo uscì dalla lavanderia, tutte le donne lasciarono il loro lavoro per ammirare l’opera della vecchia Frewa. Dima era irriconoscibile: il cespuglio sporco di ricci impastati di fango ora era una curata chioma di un morbido castano chiaro, in netto contrasto con gli occhi scuri e la carnagione rosea e sana. Le tracce di fango e sangue erano sparite dal volto e dalle mani e in cambio dei suoi vestiti laceri aveva ricevuto eleganti pantaloni in flanella blu scuro e una bella tunica ricamata sui toni del beige.  Per la prima volta in vita sua, Dima provava il piacere di indossare un paio di scarpe.
“Adesso, ragazzo, sembri proprio un signore” disse Frewa, mentre gli rassettava il colletto della tunica.
“Non è che me ne freghi molto” rispose quello, alzando le spalle e allontanando le mani della donna.
“Bisogna lavorare molto sui tuoi modi, però, mio caro. Ma, sia ringraziata Dira, questo non è compito mio” continuò quella, con voce tagliente.
“Ora, signorino, dovete seguirmi ai piani superiori” disse Bessie.
“Giuro che se mi porti in un’altra sala da bagno scappo!” mise le mani avanti il ragazzo.
“ Prometto che vi condurrò dritto nella vostra stanza, senza ulteriori deviazioni” ribatté lei, sorridendo.
Dima non aveva idea del piano, del corridoio o della torre in cui era collocata la porta davanti alla quale Bessie si fermò dopo l’ennesimo giro del Palazzo. Ma quando spalanco una delle doppie imposte in legno bianco  finemente intagliato, il suo sguardo si perse nella grande stanza che si apriva davanti a lui.
“Eccoci” disse semplicemente la ragazza.
“Questa è la mia stanza? Nel senso, è tutta per me?”
“Certo, signorino, è vostra per tutto il tempo in cui vi tratterrete al Palazzo” rispose lei, avanzando verso una grande porta finestra interamente oscurata dalla tende. Quando le spalancò, il tenue chiarore di quel giorno nevoso invase la stanza, e Dima corse a buttarsi sulle morbide coperte ammassate sul letto a baldacchino.
“Ma allora il capitano aveva proprio ragione, non mi volete portare in prigione!” disse, mentre si rotolava tra i cuscini.
“Che assurdità, signorino” rise Bessie, sedendo un momento al suo fianco.
“Questa è la casa più bella che potessi immaginare! Quando arriverà Teppe sarà tutto perfetto” continuò, rivolto alla ragazza.
“E ancora non avete assaggiato nessuna delle prelibatezze del cuoco di Palazzo. Vi farebbe proprio bene ingrassare un po’” sorrise quella, sviando abilmente la conversazione da un argomento delicato.
“Caspita, non vedo l’ora! Però c’è un’altra cosa che vorrei fare, prima di riposare” replicò, scendendo dal letto e piazzandosi di fronte alla ragazza.
“Dite, signorino, ed io vi aiuterò”
“Quando sono arrivato, questa mattina, ero così arrabbiato con i vecchi della slitta e col capitano Reeply che ho gettato il bottone d’argento che mi aveva regalato. Sai, quello è il simbolo del nostro patto! Ecco, adesso che so che non mi aveva mentito, lo rivorrei” spiegò Dima.
“Lo avete lanciato nel cortile?”
“Si”
“Allora lo faremo andare a prendere da uno dei garzoni del giardiniere e quando vi sarete svegliato lo troverete sul comodino” disse lei, scompigliandogli affettuosamente i capelli.
“In fondo, siete un bravo bambino” aggiunse, dolce.
“Però io sono quasi sicuro che, quando l’ho lanciato, la bambina che era con noi nel cortile lo ha raccolto. Perché non mi dici qual è la sua stanza, così posso andare a prenderlo?” continuò Dima, con una furba espressione innocente stampata sul volto.
“Signorino, non c’era nessuna bambina questa mattina. Vi sarete sicuramente sbagliato” rispose lei, sulla difensiva.
“Dai Bessie, non sono mica scemo! Ho undici anni, ormai, anche se qui siete tutti convinti che ne abbia solo dieci”
“Eravate molto stanco, e lo siete anche adesso. Dovete riposare per qualche ora, prima del pranzo” disse, spingendolo verso il letto.
“Non mi dici dov’è perché è la figlia di una domestica e io, che sono il Guardiano, non posso parlare con lei?” azzardò Dima.
“Esattamente” rispose quella, sorridendo nervosamente.
“Se è solo per questo, non devi preoccuparti! Fino a due giorni fa ero il figlio di un minatore poverissimo, e ladro, per di più”
“Basta, signorino, non c’è altro da dire. Voi dovete riposare, non giocare in giro per il Palazzo insieme ad altri bambini. No, basta, non voglio sentire nient’altro. Andate dritto sotto le coperte, da bravo” disse Bessie, sforzandosi di sembrare severa.
Dima, sconfitto, si arrese e si stese ubbidiente tra i grossi cuscini.
“Adesso vi lascio solo ma vi consiglio di non andarvene a spasso per i corridoi: vi perdereste di sicuro” sorrise Bessie, prima di rimboccargli una leggera coperta di cotone e uscire dalla stanza.
-Che silenzio- pensò Dima, poco dopo che la ragazza fu uscita. Era dal suo burrascoso viaggio in carrozzino che non aveva avuto modo di trascorrere qualche minuto in santa pace, solo con se stesso. Era tutto così strano, agli occhi del bambino: non solo non era più ad Imbris, l’unica realtà che avesse mai conosciuto, ma stava addirittura per diventare Guardiano del Nord.
-Guardiano del Nord!- scandì nella sua mente. Era un concetto tanto grande e sconvolgente che il bambino si ritrasse al solo pensiero. Non gli dispiaceva di diventare ricco, mangiare a volontà e vivere in un bellissimo Palazzo. Era però angosciato all’idea di dover prendere decisioni, lavorare, viaggiare, stare senza i suoi amici, lui, che non si era mai allontanato da Imbris in tutta la sua breve vita. Avrebbe dovuto leggere, scrivere, stare chino su una scrivania giorno e notte.
-Io vorrei solo poter giocare e godermi tutta questa ricchezza- si disse, guardando furori dalla finestra con desiderio.
Non sentiva nostalgia della sua famiglia. Di certo pensava a loro, a sua madre soprattutto, ma non avvertiva la loro mancanza. Era così bello non dover stare perennemente allerta, pronto a schivare lo schiaffo che era sempre in viaggio. A casa sua non c’era mai stato spazio per i bambini, le coccole, i giochi, l’affetto: tutto il suo mondo ruotava attorno agli umori del padre, della madre, dei fratelli e alla loro incessante, aberrante, povertà. Da quanto era partito, aveva incontrato tanti sconosciuti, era stato sballottato da un posto all’altro, era stato persino costretto a fare il bagno: tutto, però, era meglio della triste esistenza che conduceva con i suoi genitori.
-Magari, quando sarò un Guardiano a tutti gli effetti, potrò aiutare la mamma. Sono certo che le farebbe molto piacere non dover cucinare e pulire e lavare per tutti quegli uomini- ragionò, senza troppa tristezza. Per il momento, non aveva desiderio di ricongiungersi a loro.
-Uffa, ma quando arriverà Teppe? Di sicuro mi annoierò a stare tutto il tempo solo, qui dentro. Sono tutti così seri, anche se sono stati gentili a prendersi cura di me- si disse, agitandosi nel letto. Desiderava ardentemente la compagnia del suo amico e non solo per tener fede ad una bislacca promessa. Teppe era casa, era ciò che conosceva e amava; era il legame con la sua vecchia vita e il suo intero mondo, era quello che i suoi genitori e la sua famiglia non avrebbero mai potuto essere.
Pensare a Teppe lo portò a ricordare l’ultima volta che avevano giocato insieme, al fiume, e al vomito, al sangue, a quel fortissimo dolore alla spalla, al sogno incredibile che aveva fatto durante il temporale. Non si era mai voluto soffermare, neanche col pensiero, su quello che, a quanto gli avevano raccontato, era stato in grado di causare a casa sua. Lo spaventava l’idea di poter scatenare un potere tanto forte da provocare la morte di chi aveva accanto. Non avendo nessun ricordo di quell’episodio, però, non era difficile far finta che nulla fosse accaduto.
-Sono davvero curioso di vedere cosa ho sulla spalla. Tutti dicono di un simbolo; magari è un enorme drago che sputa fuoco, o il teschio della bandiera di un pirata. In fondo, sono il Guardiano! Adesso mi alzo e vado a controllare- si disse, incapace di domare quella curiosità che, tanto spesso, lo divora dall’interno.
 Così saltò giù dal letto e, a piedi nudi, fece il giro della stanza, alla ricerca di uno specchio; non trovando quello che cercava, iniziò ad aprire le belle porte che si affacciavano sulla camera. La prima a cui si avvicinò era decorata per metà con inserti di vetro smerigliato color lavanda; la spalancò, entusiasta, ma la richiuse immediatamente.
-Basta bagni!- pensò, imbronciandosi.
Ne aprì una seconda, finendo in un salottino accogliente, e una terza, che lo portò in un piccolo ambiente piuttosto buio, pieno di armadi, cassettoni, e specchi.
“Finalmente!” esultò.
Corse davanti alla bella specchiera che decorava un angolo della stanza e si sfilò con fatica la tunica. Il petto e la schiena erano puliti, ma né il bagno né la vecchia Frewa avevano potuto fare qualcosa per rimediare alla collezione di graffi, croste e lividi che fiorivano sulla sua pelle. Dima non vi fece caso e si giro di schiena, torcendo il collo all’indietro per osservare la pelle sotto la sua spalla destra. Intravide qualcosa, una sorta di disegno, spostato più verso il centro, tra le due spalle, che sotto la sola destra.
“Non riesco a capire. Ma che cos’è?” borbottò tra sé e sé mentre si contorceva davanti allo specchio.
Era tanto concentrato che non si accorse del leggero rumore della porta che si apriva e, delicatamente, veniva richiusa. Non sentì dei passi leggeri aggirarsi per la stanza e non vide una figuretta minuta affacciarsi nella stanza. Così, non poté fare a meno di sobbalzare quando questa parlò con voce chiara e forte:
“Ciao” disse.
Dima si voltò, spaventato, e incrociò gli occhi grigi della bambina.
“Ehi, ciao” rispose, sorpreso. “Cosa ci fai qui?” chiese subito.
“Volevo ridarti il tuo bottone. È molto bello”
“Caspita, grazie! Sai che me l’ha dato il capitano Reeply? L’ha tolto dalla sua divisa proprio davanti ai miei occhi” disse quello, vantandosi giusto un po’.
“No, non lo sapevo”
“Anche tu collezioni i bottoni?”
“No”
“Meglio, così non mi sento in dovere di regalartelo per ringraziarti!” disse Dima, con un gran sorriso.
“Tu avresti voglia di giocare con me? Presto arriverà il mio amico Teppe, ma nel frattempo possiamo passare un po’ di tempo insieme” propose subito, senza vergogna, senza peli sulla lingua, estremamente diretto.
“Ma quando arriverà il tuo amico io potrò continuare a giocare con voi? Qui è tutto così noioso!” disse lei, giocherellando con l’orlo di un grembiule bianco ricamato.
“Penso di si”
“Allora va bene” sorrise lei. “Tu come ti chiami?” chiese.
“Dimitar, ma mi chiamano così solo i grandi” 
“Allora io come ti devo chiamare?”
“Dima”
“Va bene. Io sono Elaisa Tomcure, piacere di conoscerti”
“Che nome terribile che hai!” disse lui, torcendo il naso.
“Che cosa?” replicò lei, sgranando gli occhi, sorpresa.
“Il tuo nome è proprio brutto” scandì Dima, come se parlasse con una bambina sorda. “È smielato, più di quello di tutte le altre femmine che conosco” aggiunse.
“Ma lo sai che sei proprio antipatico?” ribatté lei, acida.
“Ehi, non te la prendere, non ho detto nulla di male! Non è colpa tua se hai un nome così brutto”
“Ma la smetti?”
“Di fare cosa?”
“Di prendermi in giro! Peggio per te se il mio nome non ti piace, è così che mi dovrai chiamare”
“No, io ti chiamerò solo Elsa”
“Nemmeno per sogno!”
“Allora facciamo un patto: se vuoi giocare con noi, accetterai di farti chiamare Elsa. Ci stai?” disse Dima, tendendo la mano.
La bambina ci pensò un po’, in equilibrio su una gamba sola, ma infine annuì.
“Benvenuta nel gruppo, Elsa” sorrise il bambino, per poi sputare sul palmo della sua mano aperta.
“Che schifo!” urlò lei, facendo un passo indietro.
“Guarda che è così che si suggellano le promesse. Devi sputare anche tu sulla tua mano e poi dobbiamo stringercele” disse Dima, con l’aria di un esperto.
“Ma davvero? Allora facciamo un patto: io mi faccio chiamare Elsa solo se non mi obbligherai mai a sputare sulla mano” disse lei, scaltra.
Dima sentiva che c’era qualcosa di strano, in quella promessa, ma, in fondo, lei era una femmina e dalle femmine, si sa, ci si può aspettare di tutto.
“Va bene” disse lui, mogio, pulendosi la mano sui calzoni.
“Perché te ne stai in questo stanzino senza la camicia?” chiese quella, mentre si sedeva con grazia su una piccola poltroncina bianca e sistemava le pieghe della gonna.
“Perché tutti dicono che ho uno strano segno sulla spalla e volevo vederlo anch’io” rispose Dima, tornando davanti agli specchi.
“Ci sei riuscito?”
“No, è proprio al centro, non riesco a capire cos’è”
“Fammi vedere” disse lei, alzandosi e facendo voltare il bambino di spalle.
Lei posò le dita sottili sul piccolo disegno e trattenne rumorosamente il fiato.
“Che cos’è? Un drago? Un lupo che ulula alla luna?” chiese il bambino, emozionato.
“No, affatto. Vieni di là, dove c’è più luce?”
“Perché?”
“Perché così ti faccio vedere che simbolo è!”
“D’accordo” annuì Dima, curioso più che mai.
Seguì la bambina nella grande stanza da letto e poi davanti alla portafinestra .
“Ecco, lo vedi?” chiese la bambina.
Dima non ebbe bisogno delle indicazioni di Elsa per capire quello che lei intendeva mostrargli: sulla sua guancia sinistra, leggermente decentrato, c’era un disegno quasi traslucido, di un azzurro chiarissimo, ben visibile ad occhio nudo.
“Bhe, hai un cristallo di neve a metà disegnato sulla guancia. Cosa c’entra con la mia spalla?” disse, con leggero disprezzo.
“Certo che sei davvero un presuntuoso! Tu, sulla schiena, hai lo stesso identico simbolo” rispose lei, alzando il piccolo mento per aria.
“Non è vero!”
“Si che è vero!”
“Ma guarda che a me quel simbolo sulla spalla è venuto da solo, mica l’ho fatto incidere”
“E secondo te io sarei così scema da disegnarmi un fiocco di neve su una guancia di mia spontanea volontà?” ribatté Elsa, rispolverando il tono acido di poco prima.
“Perché io, che sono il futuro Guardiano del Nord, dovrei avere lo stesso simbolo di una cameriera?” disse Dima, arrabbiato.
“Cameriera a chi? Sei davvero insopportabile! E anche bugiardo! Tu non sei il futuro Guardiano del Nord” attaccò Elsa, mentre il suo volto, dalla carnagione chiarissima, si chiazzava di rosso.
“Invece si che lo sono! Io sono il Guardiano e se continuerai a farmi arrabbiare di rispedirò dritta in cucina”
“Ma sei proprio tardo, allora! Non sono una cameriera!” cantilenò la bambina, sempre più arrabbiata.
“Allora cosa ci fai qui?” urlò Dima, dandole uno spintone, come se, al posto di una ragazzina bassa e minuta, avesse avuto davanti uno dei monelli di Imbrs.
“Mi hanno portato qui i Consiglieri dell’Est perché io sono la futura Guardiana del Nord” strillò Elsa, con le lacrime agli occhi.
Il bambino non ebbe il tempo di ribattere: la porta della stanza venne spalancata e, con un turbinio di vesti blu notte, il Supremo irruppe nella camera, seguito da alcuni domestici.
“Eccola qui” disse, cercando di controllare l’affanno.
“Ma questa è la mia stanza!” protestò Dima, non appena ritrovò la voce, alla vista di quell’invasione.
“Signorinella, sbaglio o eravamo rimasti d’accordo che non ti saresti allontanata dai tuoi appartamenti?” chiese il Supremo, avvicinandosi ad Elsa e ignorando il bambino.
“Mi dispiace” disse lei, con un filo di voce, spaventata alla vista della rabbia che il Supremo mal controllava.
“Poco male, poco male” scandì l’uomo, mentre prendeva ampi respiri. “Avrei preferito rimandare questo momento il più possibile, ma sono ugualmente lieto che abbiate fatto la conoscenza l’uno dell’altro” continuò, cercando di ritrovare la calma usuale.
“Questa bambina è una bugiarda” si lamentò subito Dima.
“No, è lui il bugiardo! Dice di essere il Guardiano del Nord” ribatté Elsa, cercando di difendersi dalle accuse.
“Perché è vero! Supremo, lei non vuole ammettere di essere una cameriera” piagnucolò il ragazzo.
“Adesso smettetela di litigare come due bambini” intervenne l’uomo seccamente.
“Nessuno dei due dice il falso. La volontà di Dira è oscura all’uomo e non tocca ai mortali giudicare le sue scelte. Dimitar, Elaisa, stringetevi le mani e riportate la pace nei vostri cuori: da oggi le vostre strade si uniscono e solo Dira potrà separarle”.
 
 
 
 
 
 
Note
Finalmente (all’alba del capitolo 3!!) facciamo la conoscenza di Elsa, uno dei personaggi principali di questa storia! Non so se avete notato, ma ho un’insana passione per i dettagli insignificanti... se dovessi esagerare, non esitate a farmelo notare!! Spero che tutto risulti abbastanza chiaro, anche se molti particolari non sono ancora stati svelati; se dovessero esserci dubbi o domande, risponderò con molto piacere!
Grazie a chiunque leggerà questo capitolo!
EsterElle

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Capitolo 4
*** Il quinto Guardiano ***


Capitolo 4
Il quinto Guardiano


 
Dima era seduto immobile, composto più che poteva, all’estremità del tavolo in legno chiaro del salottino adiacente alla sua bella stanza. Aveva consumato il pasto migliore della sua vita ed ora si sentiva straordinariamente sazio. Sazio e afflitto. Per pochi giorni, una manciata di ore in realtà, si era sentito importante, unico al mondo; era il Guardiano del Nord. O meglio, lo sarebbe presto diventato.
-Quella stupida bambina! Ma perché devo sempre condividere tutte le mie cose con qualcun altro?- continuava a pensare, sempre più irritato. A casa sua, ad Imbris, aveva lasciato cinque grossi e prepotenti fratelli maggiori ma, dal suo arrivo a Nejaat, aveva sinceramente creduto che non sarebbe mai più stato secondo a nessuno.
Non erano riflessioni piacevoli per il piccolo Dima, solo nel salotto. Prese a giocare col bicchiere di cristallo e inventò un motivetto facendo correre l’indice umido lungo il bordo del calice.
“Mi annoio” scandì ad alta voce, con le poltroncine in morbido velluto come uniche ascoltatrici.
“Ho perso una compagna di giochi ed ho guadagnato una nemica. Certo che capitano tutte a me! Chissà quand’è che arriva Teppe?” si lagnò ancora, prendendo a calci la gamba del tavolo alla sua destra.
Il Supremo aveva parlato brevemente con lui dopo aver rispedito Elsa in camera sua. Gli aveva spiegato che lui e la bambina non sarebbe mai potuti diventare amici, per qualche strana ragione che avrebbe compreso più avanti. Lo aveva anche avvisato che, poco dopo il pranzo, qualcuno lo avrebbe condotto in uno dei mille saloni del Palazzo per fargli fare la conoscenza degli altri Guardiani.
Dima, quindi, attendeva, triste e impaziente allo stesso tempo.
-Chissà se da queste parti c’è un prato su cui fare una bella gara di corsa- pensò, avvicinandosi ad una delle tante finestre che si aprivano sul salotto. Alitò sul vetro, con l’idea di divertirsi per un po’ a disegnare con le dita: ma la finestra non si appannò.
“Stupidi poteri da Guardiano!” imprecò, voltandosi e buttandosi a peso morto su un divanetto.
Con la faccia affondata nei cuscini, fece dondolare mollemente il braccio al di là del bordo della seduta; prima piano, poi sempre più forte.
-Così sembro la lancetta di un orologio: tic, tac, tic, tac, tic, tac-
 Poco dopo si voltò e restò steso supino, contemplando il soffitto intarsiato. Casualmente, l’occhio gli cadde sul tappeto sotto di lui: una candida polvere bianca ricopriva una parte del tessuto pregiato, quella sopra la quale, poco prima, aveva fatto dondolare il braccio. Dima rimase a bocca aperta.
- Quella roba non c’era poco fa, ne sono sicuro!- pensò, mentre si sollevava e voltava la testa per guardare meglio. Veloce, si chino per terra e toccò con un dito quella strana polvere.
“Ma è neve!” esclamò, stupito, portandosela alle labbra.
“Come c’è arrivata della neve qui, sul tappeto della mia stanza?” chiese ad alta voce, come se si aspettasse una risposta dal tavolo o dalla cristalliera.
Si alzò in piedi e corse a controllare le finestre: perfettamente chiuse.
-Ma guarda! Fuori ha persino smesso di nevicare! Certo che questo posto è proprio strano- pensò, scuotendo la testa.
Gli servirono ancora una manciata di minuti per giungere a quella che era la conclusione più ovvia e che, come spesso accade, era sempre stata sotto il suo naso.
-Io? Ma andiamo, non posso essere stato io! Ma allora come…?- si ritrovò a pensare, mentre osservava il suo volto riflesso sul vetro.
“Caspita!” disse sottovoce, elettrizzato alla sola idea di avere in sé qualcosa di tanto magico.
La magia aveva sempre fatto parte della vita dei cittadini di Cadmow; risiedeva nei campi sempre dorati di spighe mature della Regione del Sud e nelle nevi perenni del Nord, nei fiori senza frutti dell’Est e nella eterna caducità dell’Ovest. Risiedeva negli studiosi degli antichi libri, che imparavano a trarre prodigiosi benefici dalle piante e apprendevano come manipolare le magiche energie che risiedevano nelle fondamenta di quel loro mondo. E, ovviamente, dimorava nei Guardiani, protettori e custodi della Grande Magia, la più grande manifestazione della presenza di Dira tra loro. Ma la magia non era per tutti; tanto rara quanto preziosa, era vana e flebile come il ricordo di un sogno. Tutti sapevano che il loro mondo ne era intriso, ma solo pochi eletti ne avevano avuto esperienza. Per il popolo, era la più bella, la più sacra, delle leggende.
Di conseguenza, Dima non si era mai sentito tanto speciale in vita sua.
Desideroso di mettersi alla prova, si voltò e tornò con passo spedito al tavolo, ancora ricoperto dai resti del suo pranzo. Prese tra le mani il bicchiere di cristallo e ne svuotò il contenuto nel piatto vuoto della minestra.
“Adesso mi devo concentrare. Com’è cavolo avrò fatto, prima?” si chiese ad alta voce.
Ritto in piedi, strinse il piccolo oggetto con entrambe le mani e prese a guardarlo intensamente.
-Andiamo! Riempiti di neve, adesso!- ordinava nella sua mente, mentre gli occhi gli bruciavano per la concentrazione.
Attese per quasi cinque minuti, ma non accadde nulla. Iniziò a distrarsi, prese persino a guardare fuori dalla finestra, soffermandosi su un sottile rivolo d’acqua che, dalla grondaia, cadeva a terra, goccia dopo goccia. Pian piano il leggero ticchettio dell’acqua lo catturò e Dima non volle più distogliere gli occhi da quella piccola e improvvisata fontanella: si sentiva come quelle gocce, aveva l’impressione di precipitare, di perdersi nella gelida aria invernale, di essere liquido e fragile. Non ricordava più di avere braccia e gambe, una testa e dei vestiti; lui era acqua, era goccia, impossibile da imprigionare in una singola forma, incolore e cangiante, imprevedibile. Era libero, libero di essere diverso eppure uguale a se stesso. Era straordinario!
Fu un rumore al di là della porta ad interrompere quel piccolo viaggio extracorporeo; Dima tornò in sé, leggermente stranito, e passò qualche minuto guardandosi intorno, come a voler riprendere familiarità con la stanza.
Sembrava tutto normale, tutto esattamente com’era sempre stato.
-È stato come sognare ad occhi aperti- si ritrovò a pensare il bambino.
Fu solo quando abbassò lo sguardo che si ricordo del bicchiere di cristallo; lo stringeva ancora tra le mani, in una presa tanto stretta da sentire male alle dita. Lentamente lo poggiò sul tavolo e allontanò, ad una ad una, le dita intorpidite.
“Oh, cavolo!” esclamò, quando riuscì a vedere per bene il calice.
Tutto nella stanza era esattamente come prima: tutto, tranne quel bicchiere.
Una patina di ghiaccio lo aveva ricoperto, disegnando improbabili volute sulla superficie di cristallo. Adesso brillava alla tenue luce del sole d’inverno, riflettendo i colori dell’arcobaleno sulle pareti chiare del salottino.
-Ma è bellissimo!- pensò Dima.
“Sono stato io, proprio io, a farlo diventare così! Perché io sono il Guardiano del Nord!” rise, trionfante.
Di corsa, si arrampicò sullo schienale del divano e, atteggiandosi come un signore, fece piccoli inchini ad un pubblico immaginario.
“Accorrete, accorrete, popoli di Cadmow, ad ammirare e omaggiare Dima, il nuovo Guardiano del Nord!” urlò, imitando la voce dell’araldo che, di tanto in tanto, si vedeva nelle piazze di Imbris.
Rise da solo della sua esibizione, e si lasciò scivolare sui cuscini.
-Sono forte, adesso. La mamma non potrà più prendermi a schiaffi e i fratelli non oseranno prendermi in giro. La farò vedere io a mio padre se oserà ancora rubare i polli dei vicini!- si disse, orgoglioso e consapevole, almeno in parte, della sua nuova condizione.
Dima si beò ancora per un po’ di quella scarsa consapevolezza; si atteggiava a salvatore della patria ma, in realtà, non aveva la più pallida idea di come replicare quel piccolo fenomeno paranormale. Né, tantomeno, di come fare a generarne di nuovi.
C’era una cosa, però, che voleva assolutamente fare. 
-Voglio proprio far vedere il mio bicchiere di ghiaccio a quella smorfiosa bugiarda- pensò, mentre afferrava il calice e procedeva quasi a passo di marcia verso la porta, completamente dimentico dell’appuntamento col Supremo.
Una volta in corridoio, si guardò a destra e a sinistra, indeciso.
-Rifletti, Dima; in questo palazzo tu ed Elsa sembrate essere gli unici bambini. La sua stanza sarà di certo vicino alla tua!- pensò, mordendosi il labbro.
Deciso, si incamminò verso sinistra, con l’intenzione di aprire tutte le porte che trovava sulla sua strada.
La prima che spalancò lo portò dritto in una piccola veranda, una sorta di grande terrazza; la seconda e la terza si aprirono su due modeste camere da letto e la quarta su una piccola saletta, molto intima e squisitamente affrescata. Tutte le stanze erano vuote e silenziose, della bambina non c’era alcuna traccia.
Dima, infine, raggiunse un  atrio circolare, traforato da archi dai quali entrava l’aria gelida e la luce del sole.
Un bellissimo mosaico dalle fredde tonalità invernali ne decorava il pavimento di marmo; Dima lo contemplò a lungo, seguendone i confini con i piedi.
Aveva percorso solo metà della sala quando, alzando gli occhi, scorse qualcosa di molto strano vicino ad uno degli archi di fronte a lui. Sbatté le palpebre una volta e tornò a guardare: no, non si era affatto sbagliato! Dall’altra parte dell’atrio, ritta in piedi sul davanzale di pietra, c’era una figuretta sottile in un corto abito grigio perla. Il vento leggero le muoveva i capelli biondissimi, tanto chiari da sembrare bianchi, e il sole pallido illuminava leggermente le palpebre chiuse e le guancie rosee.
-Ma capitano davvero tutte a me! L’unica bambina in questo posto non solo è mia probabile nemica, ma è anche smorfiosa, bugiarda e pure pazza!- pensò il Dima, scuotendo piano la testa, sconsolato.
“Ehi, Elsa, ma che fai lassù?” le urlò.
La bambina sobbalzò e, per un attimo, perse l’equilibrio. Con un urletto si aggrappò forte alla parete di roccia alla sua sinistra, accucciandosi sul davanzale.
“Ma sei matto?” gridò, voltandosi furiosa verso il bambino. “Per poco non mi facevi cadere di sotto!”.
“Mica è colpa mia se te ne stai in equilibrio sulle finestre” rispose lui, alzando le spalle.
“Non avevo nessun problema prima che arrivassi tu. Che ci fai qui?” domandò Elsa, sedendosi sul parapetto e facendo dondolare le gambe all’interno della stanza.
“Ti cercavo” rispose lui, con la schiettezza tipica dei bambini.
“Cercavi me? Perché?”
“Prima tu dimmi che cosa stavi facendo sulla finestra” disse Dima, che raramente rinunciava alla risposta per le sue domande.
Le guancie di Elsa si imporporarono “Fatti miei”
“Dai, Elsina, non fare l’antipatica!”
“Mi piace guardare i giardini del Palazzo e la città dall’alto, mentre soffia il vento. Lo facevo spesso anche all’Istituto” rispose lei, alzando il mento in un gesto di sfida.
“Mi sembra molto stupido” commentò Dima, assai poco delicato.
“Parla per te! Ti sei visto? Te ne vai in giro scalzo come un selvaggio” replicò, offesa.
Dima, che era abituato a fronteggiare insulti ben più terribili di quelli della piccola, beneducata, Elsa, non si scompose.
“Avevo fretta di trovarti. Voglio farti vedere una cosa”
“Che cosa?” chiese lei, sporgendosi un poco per vedere cosa il bambino stava nascondendo dietro la schiena, sospettosa.
“La prova che sei una bugiarda” disse lui, sorridendo vittorioso.
“Ti odio, Dima!” replicò Elsa, imporporandosi nuovamente e pestando i piccoli pugni sulla pietra fredda del davanzale.
“Solo perché sei gelosa” disse lui, avvicinandosi all’arco su cui era seduta di qualche passo.
“Ma perché non mi lasci stare?” chiese lei, facendo roteare gli occhi grigi.
“Vieni qui un attimo e poi giuro che me ne vado”
“Lo giuri?”
“Si”
“Su cosa?”
“Sul mio bottone d’argento”
“Va bene. Ma non provare a sputare su quella tua sudicia mano” si assicurò lei, prima di scendere dal davanzale con un piccolo salto.
Mentre camminava stese la gonna sulle ginocchia e si sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie: sembrava timida e insicura, persino spaventata.
-Che strano- pensò Dima, guardandola.
-Col caratteraccio che si ritrova non ci credo che ha paura di me. Ci scommetto che è tutta una finta. È proprio una femmina. Mai fidarsi delle femmine!- si disse, con un certo disprezzo.
“Allora? Cos’è questa cosa tanto importante?” chiese lei, cercando di simulare indifferenza.
“Ecco, guarda” disse Dima, mentre le metteva tra le mani il bicchiere ricoperto di ghiaccio.
“Aspetta, non parlare!” disse ancora, precipitosamente, alla vista del sorrisetto che andava dipingendosi sul viso della bambina.
“Sono stato io a farlo diventare così. Con i miei poteri. Perché io sono il Guardiano” spiegò, con altezzosa superiorità.
Elsa lo guardò stupita, poi tornò ad osservare il calice che aveva tra le mani.
“Ma davvero?”
“Si, davvero”
“Lo giuri?”
“Si”
“Su cosa?”
“Mmm… sul bottone d’argento?”
“Non vale, l’hai già promesso”
“Su quello rosso e blu, a tre buchi”
“Non basta. Giura sulla tua intera collezione”
“Ma sei pazza?”
“Allora non ti crederò”
“Va bene, va bene… lo giuro su tutta la mia preziosissima collezione”
“Wow” scandì Elsa, sgranando gli occhi grigi.
Dima non aveva previsto una reazione del genere; aveva immaginato di godere della sua rabbia e della sua impotenza, di avere la vittoria in pugno. Tanta tranquilla docilità lo spiazzava.
“Quindi? Adesso ci credi che sono il Guardiano?” le chiese, più gentile.
“Si”
“Allora ammetti di aver mentito!” esclamò.
“No, non ho detto questo” disse lei, sempre tranquilla.
“Non capisco”
“Non hai ascoltato il Supremo, in camera tua? Saremo entrambi Guardiani”
“Ma non è possibile! I consiglieri mi hanno spiegato che solo un bambino può essere scelto!”
“Lo so, ma quest’anno è successo qualcosa di inaspettato. Per questo siamo qui entrambi” rispose Elsa, sedendosi sul freddo pavimento di marmo e continuando a studiare il bicchiere.
“Ma tu sai fare una cosa come questa?” chiese Dima, sedendosi di fronte a lei e indicando la sua piccola magia.
“No” rispose. “Io ho un altro tipo di potere”
“Quale?” domandò lui, curioso più che mai.
“Mi è capitato una volta sola, poco dopo la Cerimonia, mentre ero ancora all’Istituto. Non è stata una bella esperienza, però” disse lei, pensierosa, mentre seguiva con le dita della mano sinistra un complicato ghirigoro del mosaico.
“Dai, dimmelo!”
“No, non mi va. Magari riuscirai a vederlo tu stesso, un giorno”
“Secondo te, visto che siamo stati scelti entrambi, perché non abbiamo gli stessi poteri?” le chiese il bambino, che iniziava ad averne abbastanza di quella strana situazione.
“Non lo so. Forse è per questo che il Supremo ha detto che non possiamo essere amici”
“Già”
“Perché noi non siamo amici, vero?”
“Ma certo che no! Io non sono mai amico delle femmine! Il mio vero amico sta per arrivare” disse Dima, brusco.
“Teppe, giusto? Sei davvero fortunato”
Dima stava per chiederle il perché di quella strana affermazione quando entrambi sentirono il rumore di molti passi che si avvicinavano. Drizzarono la testa e restarono in silenzio, finché non giunse loro l’inconfondibile  voce del Supremo, accompagnata da quella profonda e baritonale di un altro uomo.
“Oh cavolo, io dovrei essere in camera mia, non in giro per il Palazzo” mormorò Dima, alzandosi velocemente in piedi.
Elsa lo seguì, guardandosi intorno preoccupata.
“Anch’io! Adesso cosa facciamo? Non voglio essere rimproverata di nuovo”
“Non fare la fifona e non frignare. È ovvio, no? Ci nascondiamo!” suggerì Dima, esperto di fughe e sotterfugi.
Elsa annuì “Ma dove?”
“Tu seguimi e stai attenta a non fare rumore”
Il bambino osservò velocemente lo spazio intorno a lui; l’atrio era spoglio, adorno solo del mosaico e della flebile luce del sole. Scorse, però, sul lato orientale, una porta di legno chiaro, chiusa.
“Andiamo lì” bisbigliò.
Elsa approvò e, insieme, corsero in quella direzione.
“Ma che cavolo di scarpe hai!” sbottò Dima in un mormorio furioso, dopo  appena qualche passo, lanciando un’occhiataccia alla bambina dietro di lui.
Il tacco delle graziose scarpe di Elsa, infatti, risuonava al contatto col marmo duro e freddo del pavimento.
“Corri, ma sulle punte” le ordinò, mentre le voci si facevano sempre più vicine.
“Dai, muoviti!”
Dima spalancò la porta e trascinò la bambina dentro per un braccio.
“Mi fai male”
“Intanto ho salvato la pelle a tutti e due. Certo che sei lenta, eh?” ribattè lui, mentre poggiava un orecchio contro la porta.
“Ma la smetti di trattarmi così male?”
“Stai zitta un minuto!”
La bambina non rispose e Dima continuò ad ascoltare i rumori provenienti dal grande atrio. Sembrava che i due uomini si fossero fermati a discutere presso uno dei grandi archi e che a loro si fosse aggiunta anche una donna, dalla voce dolce e melodiosa.
“Sono in tre adesso” la aggiornò Dima.
Lei, però, rimase nuovamente in silenzio.
Il bambino si accucciò e cercò di spiare dal buco della serratura.
“Cavolo, sono troppo a destra, non riesco a vederli. Tu senti quello che si stanno dicendo?”
Silenzio.
“Ehi, Elsa!” disse il bambino, allontanandosi per la prima volta dalla porta e guardando nella sua direzione.
La bambina era di nuovo per terra, col mento sulle ginocchia e lo sguardo vacuo, perso nel vuoto.
“Che hai?” le chiese, scuotendole una spalla.
Elsa puntò su di lui grandi occhi grigi e scosse leggermente la testa.
“Stanno per venire qui!” disse, infine, agitata.
“Cosa?”
“Verranno proprio in questa stanza” ripeté, con l’urgenza nella voce.
“Ma come lo sai?”
“Lo so e basta!”
Dima guardò ancora una volta dal buco della serratura.
“Per Dira, hai ragione!” esclamò, ora allarmato quanto lei.
“Che facciamo?”
“Indovina?”
“Ci nascondiamo?”
“Come sei intelligente!” disse sarcastico Dima, correndo verso un lato della stanza ricoperto di pesanti drappi scuri.
Con un colpo della mano allontanò le tende, scoprendo una finestra dal vano tanto ampio e profondo da poter ricavare un sedile abbastanza grande per ospitare due persone.
“Dai, muoviti, vieni qua” chiamò.
Quando Elsa lo raggiunse, accostò con cura i due lembi della pesante tenda dorata. Seduti sul davanzale, con le gambe incrociate, si sentivano protetti, come in uno scrigno.
“E adesso, cerca di respirare il meno possibile” le bisbigliò Dima.
Elsa annuì, convinta.
Una manciata di secondi dopo, sentirono la porta aprirsi.
“Ecco, miei Signori, accomodatevi” disse il Supremo, con voce stranamente servile.
Dima non era mai stato in grado di frenare la sua incessante curiosità e in quella occasione non ci provò nemmeno. Trattenendo il respiro il più a lungo possibile, si avvicinò al piccolissimo spiraglio tra i lembi delle tende, sotto lo sguardo severo ed allarmato di Elsa. Da quella posizione riuscì a osservare la stanza e gli uomini che vi stavano entrando.
Ben visibile era il Supremo, seduto sulla punta di una poltrona, le mani strette nervosamente in grembo, e anche l’uomo che stava dritto in piedi alla sua destra, molto alto, con una folta barba grigio ferro e lo sguardo torvo. Gli davano le spalle, invece, due figure sedute su un panchetto in legno, assai vicino al loro nascondiglio. Una era indiscutibilmente una donna; aveva lunghi capelli bruni intrecciati a candidi fiori e una bella veste ricamata. La sua mano destra era delicatamente posata sul braccio dell’uomo a lei vicino. Quest’ultimo aveva il capo chino e le spalle curve, la sua sofferenza era evidente.
“Faccio chiamare Roosve?” chiese ancora il Supremo.
“No, grazie” rispose, secco, l’uomo alto e barbuto.
“Allora mando immediatamente qualcuno a convocare i Prescelti”.
Dima ed Elsa si scambiarono uno sguardo carico di terrore da dietro la tenda.
“Ti prego, ti prego, ti prego” iniziò a sillabare la bambina, muta, chiudendo gli occhi e strizzando le palpebre.
“Bene, Supremo, li faccia pure chiamare se lo crede opportuno; di certo ha già pensato a cosa diremo loro” proruppe l’uomo seduto, con voce furiosa.
“Mio signore, io non so… sono il vostro umile servo, lo sapete bene” si affrettò a mormorare quello, abbassando immediatamente lo sguardo.
“Non me ne faccio niente dei tuoi servigi, Hik!” inveì l’altro, alzandosi di scatto in piedi.
“Petar, tesoro, non fare così” intervenne la donna, carezzandogli una guancia.
“Safnea, apri gli occhi! Siamo tutti qui, grassi e ricchi, pronti a distruggere due vite innocenti” disse Petar, la voce spezzata, mentre stringeva con forza il polso delicato della donna.
“No, non è così che andrà, non è questa la ragione del nostro agire” replicò lei, risoluta. “Non dovresti dire queste cose. Non hai fiducia in noi? In Dira?” continuò.
“Safnea ha ragione, ragazzo” borbottò l’uomo barbuto, brusco. “Ne abbiamo già parlato e non c’è altra via d’uscita”.
“Siamo i Guardiani, nessuno è più forte, più potente, di noi. Come potremmo restare a guardare questo scempio senza fare niente? Se non interverremo noi, chi lo farà?” argomentò Petar, scostandosi una ciocca dei lunghi capelli castani dalla fronte.
“Questa è la volontà di Dira, mio Signore” azzardò timidamente il Supremo.
“La volontà di Dira, dici?” ribatté collerico Petar. “È vero, Dira ci ha indicato due bambini. Questo è il suo volere; due Guardiani del Nord. Tutto il resto, tutto il vostro folle piano, è mera speculazione, una legge mortale, non divina ” scandì.
Dima riuscì a sentire un vento tiepido sollevarsi nella stanza e subito si preoccupò di tenere ben accostati i lembi della tenda.
-Sono proprio loro: gli altri Guardiani!- pensava, emozionato. -E stanno parlando di me! Non ci posso ancora credere!-
Perso nelle sue fantasticherie restò stupito quando vide la donna, Safnea, col volto rigato di lacrime e le spalle sottili scosse dai singhiozzi.
“È orribile, tutta questa situazione è orribile. Io, noi… dobbiamo fare quello che è più giusto per Cadmow. Non c’è spazio per un quinto Guardiano, è contro natura. Chi siamo noi per sfidare leggi tanto antiche?” riuscì a dire, tra un singulto e l’altro.
“ Petar, cerca di essere razionale” iniziò l’uomo barbuto con la sua voce profonda, tonante.
“Sei un Guardiano da più di venticinque anni, e così anche tu, Safnea. Il nostro primo dovere, il nostro fondamentale e principale compito, è quello di portare a termine la missione che Dira ci ha affidato. Lei vede più lontano di noi; ha guidato i nostri padri quando stilarono le Leggi e ci ha donato la Grande Magia. Ora, mette alla prova noi, suoi strumenti, suoi mediatori. La nostra Grande Madre ha cancellato il sentiero tracciato, tutte le nostre sicurezze, ed ora siamo come persi in una selva assai intricata; solo seguendo la sua luce saremmo in grado di uscirne sani e salvi” concluse, con solenne gravità.
“Cosa vuoi dire, Orwen?” chiese Petar all’uomo, pallido e teso, immobile di fronte a lui.
“Tutto questo addolora molto anche me, ragazzo, non credere. Noi Guardiani siamo una famiglia, ma questi tempi duri ci costringono a potare i rami in eccesso” rispose quello, serio e composto.
“Taci, vecchio!” urlò improvvisamente Petar. “Come fai ad essere così freddo e razionale? Stiamo parlando di due bambini!”
“Petar, Petar!” accorse Safnea, raggiungendolo e stringendogli le mani tra le sue, le guance ancora rigate di lacrime.
“Cosa ti è successo? Pochi giorni fa eri furioso all’idea dell’arrivo di un nuovo Guardiano, odiavi il fatto che qualcuno avrebbe preso il posto di Karel, ed ora ti batti per entrambi i ragazzi?”.
“Ero troppo addolorato per ragionare lucidamente, allora. Mi pento profondamente di quanto ho detto e ho fatto in quella situazione” rispose lui, mentre una tristezza indicibile si impadroniva dei suoi bei lineamenti.
“Saf, tu sei la Guardiana dell’Est, proteggi la vita in ogni sua forma; come fai a tollerare tutto questo?” le chiese, più calmo.
“Io credo in Lei, Petar, mi affido a Lei”
“Ed è quello che ci si aspetta da ogni Guardiano, ragazzo” intervenne Orwen, severamente.
“Come potrebbe, una Madre, desiderare questo?” continuò lui, parlando solo per lei, solo per Safnea.
“Non lo so. Ma la mia fede non vacilla” affermò, con i begli occhi scuri lucidi di lacrime, straziata, divisa, afflitta, come mai si era sentita in tutta la sua vita.
“Allora è deciso” intervenne infine il Supremo, come a mettere un sigillo a quella conversazione.
“Entrambi i ragazzi raggiungeranno Odundì e lì verranno istruiti. Al compimento del diciassettesimo anno di età, entrambi avranno raggiunto lo stesso livello di preparazione, quello necessario per essere un Guardiano” spiegò, con voce forte e chiara.
“Sarà allora, miei cari compagni di vita, che si affronteranno; solo il più forte di loro, quello che vincerà l’altro suo pari, sarà degno di essere il legittimo Guardiano del Nord” continuò Orwen, rivoltò in particolar modo a Petar.
L’uomo più giovane lo guardò dritto negli occhi, neri come la pece. “Continua, Orwen, va fino in fondo”.
Ergendosi in tutta la sua altezza, l’anziano pronunciò le terribili parole che nessuno, in quella stanza, avrebbe mai più dimenticato:
“Colui che soccomberà sotto i colpi dell’avversario non avrà salva la vita”.
 
 
 


 
Note
Le cose iniziano a complicarsi, in questo quarto capitolo! Incontriamo i Guardiani, altri personaggi molto importanti, e conosciamo Dima ed Elsa un po’ meglio. Le vicende scorrono lente, lo so, ma con pazienza arriveremo al cuore del racconto :D
Cercherò di aggiornare puntuale il prossimo fine-settimana!
Grazie a chiunque abbia dato un occhio, una scorsa, o persino letto questo capitolo ;)
 
EsterElle


 

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Capitolo 5
*** Il Mondo di Sotto ***


Capitolo 5
Il Mondo di Sotto



Dima era seduto sul suo letto, quella grigia mattina d’inverno, e osservava Bessie e un’altra donna muoversi freneticamente per la stanza.
Era l’alba ed il sole faticava a sorgere al di là delle basse montagne dell’Est; una fioca luce tentava di farsi strada tra il cielo bianco di neve, malinconica già di primo mattino .
L’umore di Dima era altrettanto cupo.
“Ma devo proprio andare, Bessie?”
“Basta, signorino, non voglio più sentire questa domanda” disse lei, sbrigativa. “Piuttosto, riuscite a ricordare dove avete messo la vostra sciarpa di seta?”
“Non lo so, forse sotto il tappeto del guardaroba”
“Per l’amor del cielo, come siete disordinato!” esclamò Bessie prima di dirigersi a passo di marcia nell’altra stanza.
“Bess, non trovo la scarpa destra, quella in cuoio lavorato dell’Ovest!” gridò l’altra donna, accucciata sotto il letto, con voce ovattata.
“Prova a vedere sul terrazzo” le suggerì il bambino, senza abbandonare la sua posizione sopraelevata.
“Non saremo mai pronti di questo passo” affermò Bessie, mentre riponeva la sciarpa nel baule, aperto nel bel mezzo della stanza.
“Meglio così” ribatté Dima a mezza voce, con una leggera alzata di spalle.
“Meritereste di essere sculacciato a dovere, lo sapete?” disse la ragazza, alzando la testa di scatto. Sembrava stanca e preoccupata: i capelli, generalmente ben raccolti, le cadevano scarmigliati sul viso e il grembiule era pieno di pieghe e macchie.
“Ma io non ho fatto niente” esclamò Dima, sgranando i suoi occhioni scuri in un’espressione innocente.
“Giusto, signorino, perdonatemi. È stato un gatto a scombussolare il vostro bagaglio nel cuore della notte” ribatté lei, sarcastica.
“Esatto. È entrato da quella finestra laggiù” continuò Dima con voce cristallina.
La ragazza alzò gli occhi al cielo e non rispose.
Le due donne si agitarono intorno a lui finché il suo baule non fu finalmente chiuso e trasportato al piano di sotto da due domestici in livrea.
“Grazie Kalah, adesso ci penso io” bisbigliò Bessie all’orecchio della donna.
Questa annuì e, silenziosa, uscì dalla grande porta.
“Da bravo, venite qui vicino a me, così che possa spazzolarvi i capelli” disse, mentre si sedeva su un panchetto accanto alla finestra.
Dima si alzò ubbidiente e sedette a gambe incrociate proprio davanti alla ragazza. Lei prese subito a passargli le dita fredde e sottili tra la folta massa di riccioli castano chiaro, perennemente in disordine.
“Quando sarete dai monaci, dovrete pettinarvi tutte le mattine” gli ricordò.
“Proprio tutte?”
“Tutte”
“Una si e una no?”
“Siete davvero tremendo, voi!” esclamò lei, lasciandosi andare in una leggera risata.
“Solo quando sono obbligato a fare cose che non mi piacciono” puntualizzò il bambino.
“Non volete andare ad Odundì, dunque”
“ Assolutamente no!” esclamò indignato Dima. “Io voglio rimanere qui a Palazzo”.
“Posso chiedervi il perché?” domandò Bessie, mentre le mani industriose si adoperavano per appiattire i numerosi ciuffi ribelli sulla fronte del bambino.
“Perché Teppe non è ancora arrivato” mormorò quello, chinando il capo, leggermente imbarazzato.
“Il vostro amico?”
“Si”
Fu una fortuna che il bambino non potesse vedere il volto della ragazza; una grande compassione si disegnò sui bei lineamenti giovani mentre mordicchiava delicatamente il labbro inferiore con i denti. Non avrebbe voluto mentirgli ancora. Eppure, non poteva fare altrimenti.
“Non dovete preoccuparvi per lui, signorino. Il Supremo se ne prenderà cura fino a quando voi non sarete tornato” disse infine, cercando di dare alla sua voce una nota gaia.
“Ma sette anni sono lunghissimi!”
“Non per un amico. Un vero amico sa attendere, senza smarrirsi”
“È che io ho… paura” ammise infine il piccolo Dima, le guance tinte di rosso scarlatto e gli occhi bassi.
“Di cosa?”
“Di restare solo. Odio essere solo! Almeno tu potrai venirmi a trovare, vero?” chiese speranzoso, senza girarsi a guardarla.
Le mani di Bessie giacevano immobili sulle spalle del bambino, ora, stranamente inattive.
“Temo proprio di no”
“Perché?” esclamò Dima, voltandosi a guardarla, sbigottito.
“L’accesso al Tempio di Odundì è concesso solo ai Guardiani e ai membri del Gran Consiglio. È un luogo estremamente sacro, lo sapete” spiegò lei, dolce, allontanandogli un ricciolo ribelle dalla fronte.
“Teppe non ci sarà, di Elsa non ne parliamo nemmeno, tu non verrai a farmi compagnia; cosa faccio io? Cosa faccio per sette anni in mezzo a quei lagnosissimi monaci?” quasi urlò il bambino, alzandosi di scatto in piedi e allontanando bruscamente la mano della ragazza.
“Ti prego, Bessie, fammi restare qui con te ancora per un po’” la supplicò subito dopo, prendendole le mani e inginocchiandosi davanti a lei.
La ragazza lo guardò negli occhi, in quei profondi occhi bruni tanto turbati, e non poté fare altro se non seguire l’istinto e spalancare le braccia. Quella piccola creatura impaurita non ci pensò due volte; si gettò immediatamente in quell’abbraccio tanto atteso, raggomitolandosi sulle ginocchia della cameriera e godendo del suo profumo di pulito.
“Andrà tutto bene, tutto bene” continuò a ripetergli Bessie in un orecchio, cullandolo piano avanti e indietro, proprio come avrebbe fatto con un bambino molto piccolo.
Lacrime silenziose scorrevano sul visetto del ragazzo; lacrime per Teppe e la sua famiglia, per la sua casa, per le terribili parole che aveva ascoltato quel lontano pomeriggio dietro una tenda. Piangeva perché non era preparato a tanti cambiamenti tutti in una volta, piangeva perché, in quel momento, avrebbe solo desiderato restare fermo, al sicuro, giungere, una volta per tutte, a casa.
“Andrai dai monaci, studierai, ti impegnerai, diventerai un uomo” continuò a sussurrargli Bessie. “Quando tornerai, sarai il più grande Guardiano del Nord che sia mai esistito”.
“Quindi un giorno tornerò qui, a Palazzo?”
“Certamente! È la tua casa, ora”
“E tu ci sarai?”
“Senza alcun dubbio. Ti sarò per sempre amica”
“Lo giuri?”
“Giuro”
“Su cosa?”
La ragazza si guardò intorno, in cerca di un’idea. Lo sguardo le cadde sulla pettorina del suo grembiule, agganciata al vestito blu scuro tramite due semplici bottoni bianchi.
Decisa, ne strappò uno, lasciando la stoffa penzolare sgraziatamente da un lato.
“Su questo” disse, porgendogli il bottone.
Dima annuì’ e tirò su col naso. Nessuno avrebbe mai tradito una promessa suggellata con un bottone, ne era più che sicuro!
“Va bene” mormorò, asciugandosi le lacrime.
Bessie gli carezzò la guancia, un po’ più paffuta rispetto al giorno del suo arrivo, e azzardò un piccolo bacio sulla fronte.
“Bleah! Che schifo!”  saltò subito su Dima, pulendosi il punto in cui le labbra di Bessie si erano posate con il dorso della mano.
“Sei come tutte le femmine! Sapete dare solo baci e carezze, proprio delle vere smidollate” disse, sconvolto, mentre scioglieva l’abbraccio e si metteva in piedi.
Bessie rise di gusto davanti alla piccola arringa del bambino.
“Aspettate di crescere, mio caro signorino, e vedrete: supplicherete le ragazze perché vi riempiano di baci!”
“Mai! Sono disgustose tutte queste smancerie!”
“Ne riparleremo quando tornerete a Palazzo! Adesso venite con me di sotto; c’è una slitta pronta per voi” rispose lei, rassettando la bella tunica color zaffiro del bambino.
Dima la seguì per i grandi corridoi del Palazzo senza fare storie, rasserenato e rassegnato al suo destino.
Quando attraversarono l’atrio dal pavimento a mosaico, però, gli occhi e i pensieri del bambino corsero immediatamente alla piccola porta in legno sul lato orientale.
Come dimenticare la terribile conversazione che aveva origliato? Ormai era passata più di una settimana da quando lui ed Elsa avevano fatto quella terribile scoperta; avevano partecipato a balli, banchetti, cerimonie in piazza e giochi cittadini. Sempre insieme, spalla a spalla, indivisibili. Eppure, non si erano più rivolti la parola da quel primo giorno. Era qualcosa di troppo grande, troppo terribile per due bambini come loro. Dima pensava il meno possibile ad Elsa e cercava di evitarla come poteva. Non riusciva nemmeno a immaginare le sue mani sporche del sangue della ragazzina.
Rabbrividì a questi pensieri.
“Bessie, com’è Odundì?” chiese per distrarsi.
“Meravigliosa, signorino” rispose lei mentre attraversavano il grande portone, diretti al cortile centrale.
“Più di Nenjaat?” disse Dima, meravigliato.
In quella settimana aveva camminato per le strade di quella sorprendente città, una distesa di tetti ghiacciati dalle forme più assurde, e non poteva immaginare un luogo più bello.
“Odundì non è una città, né una Regione. È un grande lago dalle acque tranquille, gli uccellini cinguettano e la neve del Nord inizia a sciogliersi, lasciando spazio ai primi crochi gialli. Ma la cosa più spettacolare di tutte, signorino, non si può descrivere a parole; Odundì è la storia, la tradizione, la magia della nostra terra. Lo vedrete con i vostri occhi” raccontò lei, con ampi gesti.
“Caspita” bisbigliò Dima, curioso più che mai.
“Odundì è incantevole, è vero, ma Nenjaat rimarrà sempre la città del mio cuore” precisò Bessie, strizzando un occhio.
“Anche la mia!” annuì Dima, deciso.
Il bambino fu distratto dal gran movimento che agitava il cortile non appena mise piede là del porticato. Si guardò intorno e rimase stupito alla vista di tanti soldati in uniforme sparsi per l’acciottolato gelato.
“Cosa sta succedendo, Bess?” chiese alla sua accompagnatrice.
“Niente signorino. Questa è la vostra scorta”
“Tutti loro?”
“Siete diventato una persona importante, non ve ne eravate ancora accorto?” ridacchiò lei.
“Direi proprio di si” rispose cupo il bambino.
La sensazione di sentirsi in trappola, di sentirsi colpevole di un qualche misfatto, non lo abbandonava mai quando era in presenza dei soldati.
“C’è anche il capitano Reeply?”
“Non saprei. In realtà questi non mi sembrano i suoi uomini”
“Peccato”
“Su, non siate triste. Fatemi un bel sorriso e poi salite svelto sulla slitta” disse lei, energica, piegando le ginocchia e chinandosi per portarsi all’altezza del bambino. Con un dito gli fece il solletico sotto il mento e Dima non riuscì a trattenere un gran sorriso.
“Ecco, così!” rise lei.
Di slancio, Dima tornò a stringerla in un ultimo abbraccio. La ragazza, però, in equilibrio sui talloni, si sbilanciò talmente tanto che caddero entrambi a terra, ridendo come pazzi.
Subito i soldati presenti corsero in loro aiuto, allarmati.
“Va tutto bene, non mi sono fatto niente” disse loro Dima, con il viso arrossato e le lacrime agli occhi.
“Signorino, ci spiace disturbarla, ma ormai è giorno fatto. Dobbiamo metterci in viaggio”
“Il comandante ha ragione” annuì Bessie, mentre si spazzolava la gonna in lana pesante con le mani, arrossate del freddo intenso di quella mattina.
Diede un’ultima sistemata alla tunica riccamente decorata che Dima indossava sopra i calzoni marroni.
“Sembrate proprio un signore!” disse, orgogliosa. “Salite, ora. Ci vedremo presto”
“Certo!” esclamò Dima, mostrandole trionfante il bottone bianco.
La bella risata di Bessie fu l’ultimo suono che il bambino udì prima di essere spinto all’interno della slitta dalla presa delicata, ma decisa, di uno dei militari. 
L’abitacolo era comodo e caldo ma, soprattutto, vuoto. Dima corse alla piccola finestrella e salutò con la mano la ragazza, e salutò a lungo, senza mai distogliere lo sguardo da lei, nonostante si facesse sempre più piccola e distante.
E poi, fu un attimo; proprio mentre stava per allontanarsi da vetro gelato, scorse una slitta correre parallela alla sua. Affacciato alla finestra di questo secondo mezzo,  c’era un visino pallido, incorniciato da morbidi capelli biondi e dal colletto azzurro di un abito; Elsa.
Si guardarono negli occhi per un momento, si fissarono senza essere in grado di mostrare alcuna emozione, fino a quando le due slitte si allontanarono l’una dall’altra, veloci, percorrendo strade diverse.
-Che scemo che sono! È ovvio che anche lei è in viaggio per Odundì!- si disse Dima, lasciandosi cadere su un morbido sedile imbottito.
-Chissà se ci vedremo qualche volta. Mi farebbe piacere, credo. No, meglio di no; non devo diventare suo amico!-
Perso in queste riflessioni, Dima si stese e, essendo reduce dalla lunga e gioiosa festa che i cittadini di Nenjaat avevano organizzato, la sera prima, per salutarlo, si addormentò.
Sognò di trovarsi nella Sale delle Feste, al Palazzo d’Inverno, e di ricevere doni e sorrisi da parte di uomini gentili, che si inchinavano davanti a lui e ammiravano la sua fierezza e la potenza.
Con terrore crescente, però,  vide la sala riempirsi pian piano di bestie orribili, gigantesche e assetate di sangue. Dalle porte, della finestre, da improvvisate botole sul pavimento; invasero la stanza in pochi minuti, seminando il panico tra i presenti. Poi, improvvisamente, si ritrovò a correre per un fitto bosco, verde e rigoglioso, la paura negli occhi e nel cuore, con gli animali infernali , dai denti scoperti e i ruggiti potenti, alle calcagna. Sentì una mano, piccola, delicata, stretta tra le sue, sentì la paura di un’altra persona accompagnarlo nella sua folle corsa. Provò il desiderio ardente di trovare un rifugio per entrambi; desiderò con tutte le sue forze che il suo compagno di sventure non fosse così irrimediabilmente lento.
Corse, sperò, si affannò, finché non percepì, chiaro e disgustoso, l’odore di sangue e vendetta, odore di morte, e seppe con certezza di essere rimasto solo. Solo, solo con le bestie dai denti sporchi di sangue e i cupidi occhi gialli, fameliche e inarrestabili. Vide gli animali spiccare un salto, tutti insieme, e lui non poté fare altro se non farsi piccolo piccolo, gridando al cielo la sua paura e il suo dolore, tutta la sua disperazione.
Dima si svegliò improvvisamente, urlando a squarciagola, steso sul pavimento della slitta, sudato e ansimante. Da fuori, i caldi raggi del sole pomeridiano illuminavano l’abitacolo.
Per un attimo riuscì ancora a sentire la puzza infernale delle bestie intorno a lui, sui suoi vestiti, sulle sue mani. Disgustato corse al finestrino e ne aprì uno spiraglio; l’aria pulita e profumata del’ampia zona pianeggiante che stavano attraversando, purificò il suo naso e quietò il suo animo.
-Che sogno assurdo- si disse, scuotendo la testa. -Nessuno ha visto niente, per fortuna. Almeno non sarò preso in giro-.
Viaggiò per altre due ore, cercando di allontanare i brutti ricordi. Provò a costruire una capanna coi cuscini, giocò a riconoscere nelle nuvole forme di animali, canticchiò tutte le canzoni che conosceva; il tempo passava lento e pareva che la corsa della slitta non dovesse fermarsi mai.
Stava provando a camminare sulle mani quando i cani si fermarono di colpo, facendolo ruzzolare in malo modo. Dima urtò con forza la schiena, ma non perse tempo a lamentarsi; immediatamente si rialzò e spalancò lo sportello della slitta.
“Siamo arrivati?” chiese a nessuno in particolare.
I soldati della sua scorta erano ancora in sella ai loro cavalli.
“No, signore, ma la slitta non più proseguire, non c’è abbastanza neve” disse uno di loro, mentre cercava di tener fermo il suo destriero.
“Allora che si fa?” domandò Dima, accorgendosi, per la prima volta, che grandi zolle verdi punteggiavano la neve caduta sulle pianure circostanti.
“Proseguiamo a cavallo”
“Ma io non ho un cavallo!”
“Monterete con me. Ormai ci restano solo poche miglia da percorrere” disse l’uomo, pragmaticamente.
Smontò e avvicinò il suo cavallo a Dima; con l’aiuto del soldato il bambino riuscì a salire in sella, posizionando le gambe negli spazi vuoti tra le numerose bisacce. Il militare salì dietro di lui e, senza dire una parole, spronò l’animale.
“Caspita, com’è alto!” esclamò Dima, mentre tutti gli altri soldati si distribuivano intorno a loro secondo una precisa formazione.
Il suo compagno di viaggio restò in silenzio, guidando l’animale lungo la strada lastricata.
Dima, allora prese a guardarsi intorno, e restò meravigliato alla vista dei piccoli fiori gialli che spuntavano tra la neve, dei cespugli di more selvatiche e delle sterpaglie che crescevano lungo il sentiero, delle grandi querce che ombreggiavano lunghi tratti del loro percorso.
-Non sembra nemmeno la Regione del Nord- pensò, voltando il capo a destra e a sinistra.
Fu quando sentì il primo uccellino cantare che vide il lago.
Era enorme.
“Come il mare” bisbigliò Dima, nonostante lui, al mare, non ci fosse mai stato.
Era come il ricordo di un sogno; acqua, acqua ovunque, fino a perdita d’occhio, tanta acqua da rendere la sponda opposta invisibile, inesistente, quasi una leggenda.
L’aria era frizzante sulle guancie di Dima, né calda né troppo fredda, e il sole si rifletteva tra mille scintillii.
C’era qualcosa, nell’aria, un non so che di davvero indescrivibile; era come se quel paesaggio idilliaco nascondesse qualcosa, come se celasse un segreto. Era una sensazione sottile, che pian piano si insinuava  sotto i vestiti e nella pelle, e Dima ne fu presto travolto. Prese a frugare avidamente tutto il paesaggio circostante, alla ricerca di quella magia che sentiva intorno a sé con incrollabile certezza.
“Siamo arrivati, adesso?” chiese, retorico, al suo accompagnatore silenzioso.
“Si”
“Ma dov’è il tempio?” domandò, come colpito da un’ improvvisa illuminazione.
“Scendete da cavallo, signore, e vi accompagneremo” replicò quello, aiutando il bambino a tornare con i piedi per terra.
L’erba sotto le suole delle scarpe era morbida e l’aria profumava di fiori; lavanda, probabilmente, ma Dima non era abbastanza esperto di profumi per distinguere l’uno dall’altro.
Un vento tiepido prese ad alzarsi dall’Ovest, scompigliandogli i capelli. Le mani del bambino corsero immediatamente alla testa, memore degli ammonimenti di Bessie.
-Ecco, adesso farò brutta figura con i monaci!- pensò, mentre si appiattiva i riccioli castani sulla fronte.
Seguì diligentemente i soldati fino alla riva del lago e non resistette alla tentazione di immergere una mano nell’acqua; fresca e cristallina, invitante, stuzzicò la sua instancabile fantasia.
Camminarono per qualche metro ancora sul terreno insidioso, finché non giunsero all’ombra di un grande masso, a sud-ovest del grande lago. I soldati si fermarono quasi contemporaneamente, e Dima con loro; un uomo alto e perfettamente rasato sembrò materializzarsi davanti a loro, seduto ai piedi della pietra, vestito di un’intricata tunica dei colori del sole, carico di numerosi scialli colorati. Al suo collo pendeva una sottile catena d’oro alla quale era attaccata una chiave d’ottone.
“Per il dono di questo giorno e di questo ragazzo, ti ringraziamo, oh Madre” prese a cantilenare ad occhi chiusi, senza degnare il folto gruppo di uno sguardo.
“Custode delle Chiavi, chiediamo il passaggio nel Mondo di Sotto per Dimitar Pavalon, futuro Guardiano del Nord, cadetto pronto a muovere i primi passi sulla via della conoscenza” disse una soldato, sciorinando una formula ben studiata e approvata.
“Concesso”
“Ve ne siamo grati” replicò il militare, chinando leggermente il capo.
Gli uomini fecero un passo indietro quando il monaco si levò con grazia da terra. Con un unico, fluido, gesto sfilò dal collo la catenina dorata che conteneva la chiave, per poi accovacciarsi di nuovo sul punto esatto in cui era stato seduto fino a poco prima.
Dima osservava tutto con occhi brucianti di curiosità e il cuore stretto in una morsa di paura e aspettativa, i piedi inquieti e la mente veloce tra i pensieri. Quando, poi, riuscì ad intravedere la lama lucente di un coltello nascosta tra le pieghe dell’abito del monaco, ebbe il chiaro impulso di scappare. Lo avrebbe certamente fatto se alle sue spalle non ci fosse stato un muro fitto di soldati con gli occhi puntati su di lui; coraggiosamente, allora, tirò sul col naso, deglutì a vuoto, e tornò ad osservare il monaco.
Quello girava la chiave in una serratura nascosta nell’erba rada e, dopo tre sonori scatti, prese a mormorare delle strane parole, accompagnate da armoniosi movimenti delle mani.
Quando ebbe finito, una botola si era aperta nel terreno e Dima riuscì ad intravedere una lunga scala scura che si perdeva nell’oscurità di un tunnel.
“Seguimi” disse semplicemente il monaco.
“Aspetta, aspetta un attimo!” proruppe subito Dima, allarmato. “Loro non vengono con noi?” chiese, indicando i soldati alle sue spalle.
“No”
“Ma sono la mia scorta! Io non vado da nessuna parte senza di loro!”
“Non abbiamo abbastanza Guide”
“Eh?”
“Chiunque voglia accedere al Mondo di Sotto necessita di una Guida, un esperto nell’uso della magia. Presto tu stesso sarai Guida, ma, per questa volta, ti scorterò io” spiegò, senza spazientirsi.
Dima non era del tutto convinto ma capiva bene di non avere altra scelta se non quella di seguire il monaco. Col cuore che batteva all’impazzata, iniziò la discesa per quella lunga scala buia; ben presto, anche la fioca luce proveniente dall’esterno si diradò e il bambino si trovò immerso nell’oscurità.
“Non puoi fare luce in qualche modo?” chiese alla sua Guida.
“Non hai bisogno di vedere per trovare la via, Dimitar Pavalon”
“Questo lo dici tu! Io non muovo un altro passo in questo buio” ribatté il bambino, testardo.
Abbarbicato alla parete di roccia e terra, sentì il frusciare delle vesti dell’uomo allontanarsi sempre di più, fino a perdersi nelle profondità del tunnel.
“Ehi! Ma dove vai? Non puoi lasciarmi qui!” urlò.
La sua voce rimbalzò tra le pareti strette e si diffuse forte e potente come non mai, ma nessuna risposta giunse dall’oscurità di fronte a lui.
“Ecco, lo sapevo io che non dovevo venirci” piagnucolò Dima.
“Che cosa faccio ora? Stupido monaco, a lui non gli interessa un accidenti di me. Maledizione!” si sfogò, battendo un pugno sul muro alla sua destra.
“Perché non inizi a chiudere la bocca? Ancora un po’ e mi facevi diventare sorda!” esclamò una voce alle sue spalle.
Dima si voltò in quella direzione, agitando le braccia davanti a lui “Chi c’è, chi ha parlato?” urlò, più forte di prima.
“Smettila, ho detto!”
“E tu dimmi come ti chiami”
“Non mi sbagliavo, sei davvero un tonto! Sono Elaisa, Dima”
“Elsa? Cosa diavolo ci fai quaggiù?”
“Quello che ci fai tu. La mia Guida mi ha piantato cinque minuti fa”
“Ma non è vero! Tu non c’eri quando sono sceso nel tunnel”
“Magari ci sono più ingressi”
“Forse. Adesso ce facciamo?”
“Scommetto che muori dalla voglia di tornare indietro” lo stuzzicò lei.
“Io, indietro? Assolutamente no!”
“Secondo me te la stai facendo sotto!” ridacchiò.
“Questa sarai tu!” si inalberò Dima. “Vieni, ti faccio vedere!” disse, risoluto, e mosse qualche passo incerto verso la sua voce.
Quando finalmente riuscì ad afferrare un lembo di stoffa, probabilmente la sua gonna, iniziò a trascinarla nell’oscurità, saggiando il terreno irregolare con i piedi.
“Piano, mi fai cadere!” si lamentò lei, incespicando al suo seguito.
“Ti lamenti come tutte le femmine” rispose sprezzante lui, mostrando un coraggio che di certo non aveva.
I due proseguirono nel buio lentamente, tirandosi piccole spinte e battibeccando tutto il tempo. Sembravano completamente dimentichi delle loro ultime scoperte, come se avessero rimosso il piccolo particolare che, in un futuro non troppo lontano, avrebbero tentato di uccidersi l’un l’altra. E come pretendere, d’altronde, tanta crudele macchinazione, tanta ferrea decisione, da due bambini come loro?
Sballottati, confusi, con la testa infarcita di domande e risposte a metà, non potevano fare altro se non gioire della presenza di una persona conosciuta, in tutto quel buio. Una volta fuori, sarebbero stati pronti, qualcuno gli avrebbe insegnato, ad erigere un alto muro tra di loro.
Ma nel buio di quel tunnel non c’erano lotte, differenze, non c’era futuro; era il qui e l’ora, e l’ardente desiderio di ritrovare la luce.
Vagarono a lungo, spingendosi a vicenda, procedendo per mano, spalla a spalla, sempre in contatto, per non perdersi, per non rimanere soli.
Fino a quando Dima non riuscì a sentire pietra dura e liscia sotto i suoi piedi.
“Ehi, Elsa, qualcosa sta cambiando” mormorò alle sue spalle.
“Si, lo sento anch’io. C’è dell’aria fresca nel tunnel, c’è profumo di fiori” aggiunse lei, tirandosi al suo fianco.
“C’è l’abbiamo quasi fatta, me lo sento!” esclamò emozionato Dima.
“Non lasciarmi indietro, dai!” lo richiamò Elsa, aggrappandosi con una mano alla sua spalla.
Avanzarono, ciechi e trepidanti, ancora per qualche minuto ma, infine, la videro.
Videro una luce, piccola e lontana, fioca, carica di mille promesse.
Niente e nessuno avrebbe più potuto trattenere Dima; con un urlo di gioia, spiccò una corsa leggera e decisa.
“Dai, Elsa, muoviti!" la incitò, senza nemmeno voltarsi a guardarla.
Anche Elsa procedeva più svelta ma, man mano che vi si avvicinava, la luce feriva i suoi occhi; lacrimavano, e la piccola batteva le palpebre tanto spesso che, infine, fu costretta a coprirsi il volto con le mani.
Il tunnel terminava con un grande arco in pietra; Dima lo superò per primo ma, una volta fuori, non mosse più un singolo passo.
Non poteva credere ai suoi stessi occhi; per tutto il tempo in cui aveva vagato nel il tunnel, era stato convinto di camminare sotto il grande lago, certo che sarebbe sbucato in una sorta di grande stanza scavata nel terreno.
Non avrebbe potuto sbagliare tanto.
I suoi piedi poggiavano sulla pietra levigata di un grande spazio aperto, decorato da aiuole in fiore e da un pacifico laghetto poco lontano, con tanto di piccola cascata. Panche di pietra grezza erano distribuite attorno lo specchio d’acqua e Dima riuscì a scorgere diversi edifici sparsi per quel cortile.
Subito alla sua sinistra c’era una piccola casetta a pianta ottagonale, col tetto a punta, completamente ricoperta di vetrate colorate. Poco lontano, già riusciva a scorgere la forma di un lago più grande, e, ancora più in fondo, gli sembrò di intravedere un piccolo boschetto. Erano edifici strani, come non ne aveva mai visti; come facessero a stare in piedi e non crollare, Dima non sapeva proprio spiegarselo.
Era una bella giornata e la luce del sole illuminava le vetrate dell’edificio disperdendo nell’aria tiepida del mattino bellissimi riflessi colorati.
-Aspetta… Riflessi? Sole?- si chiese improvvisamente Dima.
Fu automatico, per il bambino, alzare lo sguardo.
“Non ci posso credere!” trillò una vocetta acuta accanto a lui, accompagnata da uno scalpiccio di passi.
Elsa lo aveva finalmente raggiunto e, con una mano a proteggere gli occhi, guardava anche lei nella sua stessa direzione.
Sopra di loro si apriva un cielo azzurro, terso, punteggiato di sbuffi di nuvole bianche. Il sole del mattino brillava alto e un vento leggero scompigliava loro i capelli.
“Un cielo sotto il lago!” biascicò Dima, sconcertato.
“Il Mondo di Sotto” bisbigliò Elsa, a mo’ di spiegazione.
Restarono piantati davanti all’uscita del tunnel per un po’, in contemplazione di quella piccola meraviglia, di quella magia sorprendente.
Ma furono ben presto strappati da quel loro sogno ad occhi aperti.
 
 
 
 
Note
Con notevole ritardo, ecco il capitolo cinque! Non sono pienamente soddisfatta di questo passaggio, non è stato per nulla facile scriverlo… sono andata un po’ in blocco!!
Spero che, nonostante tutto, possa piacere almeno un po’ a chiunque passi di qui!
EsterElle

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Capitolo 6
*** Acqua ***


Capitolo 6
Acqua



 
Delicata come il vento in primavera, una voce si alzò da un punto imprecisato davanti ai bambini. Cantava in una lingua antica e bella, anche se incomprensibile. Carezzava lieve le orecchie dei ragazzi, che rimasero immobili in ascolto, incantati. Pian piano, un coro vigoroso si unì al fragile canto e un corteo di uomini apparve all’altezza del piccolo lago con la cascata. Tutti indossavano una tunica arancione e gialla, riccamente drappeggiata sulle spalle e sulla vita. Procedevano secondo una formazione rigida, quasi militare, i loro passi erano cadenzati e ritmicamente studiati. E il canto divenne sempre più forte e violento, veloce e urlato al cielo, scandito dal battere dei sottili sandali in cuoio sulla pietra.
Istintivamente, Dima ed Elsa indietreggiarono verso l’apertura del tunnel, intimoriti da quella marea arancio diretta verso di loro.
Quando i monaci giunsero a pochi passi, si aprirono in semicerchio, esponendo un uomo adorno della tunica più bella, finemente ricamata con un brillante filo d’oro.
Né alto né basso, mostrava un volto duro, perfettamente sbarbato e segnato da una lunga cicatrice che gli  incurvava il lato destro della bocca in una smorfia perenne. La pelle abbronzata del volto, le folte sopracciglia scure, rubavano una luce dai piccoli e splendenti occhi azzurri.
Scrutò i ragazzi con attenzione, nel silenzio più assoluto, dopo che anche le ultime note del canto si erano spente. Proprio quando Dima iniziava a preoccuparsi ed Elsa a mordersi il labbro inferiore, in ansia, questo apri le braccia e mostrò loro il suo sorriso monco.
“Benvenuti, cari ragazzi! Avete superato con successo la Prima Prova, quella a cui tutti gli ospiti del Tempio di Odundì sono sottoposti al loro arrivo. Il tunnel ha testato il vostro sangue freddo, la vostra forza d’animo e la vostra fermezza; noi monaci non potremmo essere più fieri” disse, muovendo qualche passo verso di loro.
“Oggi è giorno di festa ad Odundì; l’intera Cadmow gioisce e ringrazia la Madre!” proclamò infine, con voce forte e gentile, rivolto ai suoi compagni.
Questi chinarono rispettosamente il capo e, a mani giunte, si allontanarono in ordine sparso, diretti in un luogo diversi di quel grande cortile in pietra.
“Io sono il Sommo Sacerdote, il mio nome è Jeyco. Purtroppo i miei numerosi impegni spesso mi trattengono lontano da qui. I monaci si prenderanno cura di voi, provvederanno alla vostra istruzione, al cibo, ai vestiti, allo svago. Qualunque vostro desiderio, qualunque vostra necessità, deve esserci riferita; nel limite delle nostre possibilità ci adopereremo per esaudirvi. In cambio, dovrete accettare e rispettare il Codice, le regole benedette dalla Madre e che ci indicano la via per una serena convivenza. Presto vi saranno illustrate e, da allora, non saranno ammessi errori” disse, coi lineamenti severi e la voce ferma.
Con lentezza, fece seguire al breve discorso un ampio gesto della mano e, quasi all’istante, un altro monaco comparve al suo fianco, chinando il capo.
“Vi presento fratello Ashim, Mastro della Casa. Seguitelo, vi condurrà ai vostri alloggi e provvederà al vostro ristoro”.
Il Sommo Sacerdote scrutò ancora i ragazzi per un lungo minuto, gli occhi azzurri pungenti e indagatori. Infine si avvicinò, fino ad essere a pochi centimetri dai loro visi e posò la mani grosse e tozze sulle loro teste.
- Ma dove diavolo sono finito! – pensava con discreta disperazione Dima, mentre, ad occhi chiusi, sopportava il peso di quel tocco.
Il sommo sacerdote aggrottò la fronte e chinò le spalle, come se fossero state improvvisamente gravate di un gran peso, e prese a borbottare parole senza senso.
“È davvero sorprendente, mai in tanti anni mi è capitato di assistere ad un evento simile. Un potere tanto grande equamente diviso, la forza stessa sembra essersi sdoppiata per originare tutto questo” mormorò.
Quando aprì gli occhi e spianò le rughe che gli increspavano la fronte, il suo volto si trovava all’altezza di quello dei bambini, incredibilmente vicino.
“Siete speciali come nessuno in questa terra lo è mai stato. Le vostre piccole mani stringono il destino di Cadmow; molti vorranno manipolarvi, usarvi, eliminarvi, persino. Imparate presto di chi fidarvi, trovate la giusta via del bene” disse, gli occhi spalancati, un filo di saliva lungo la bocca storpia.
Con un movimento brusco raddrizzò la schiena e, altrettanto bruscamente, prese a camminare velocemente in direzione del tunnel.
Dima ed Elsa fecero in tempo a scambiarsi uno sguardo stralunato, prima che la loro attenzione fosse nuovamente catturata da fratello Ashim, Mastro della Casa.
“Se volete seguirmi” disse, iniziando a percorrere un sentiero decorato da lisce pietre levigate.
I ragazzi si affrettarono per tenere il passo con le lunghe falcate dell’uomo, e rimasero stupiti quando questo si fermò poco dopo, davanti alla costruzione ottagonale.
Aprì la porta in vetro azzurro con grazia e li precedette all’interno.
Uno spettacolo di luci colorate li attendeva tra quelle mura; una vasca in pietra con tanto di rubinetti in ottone occupava alcuni dei lati della costruzione, mentre un soffice tappeto dorato ne ricopriva quasi interamente il pavimento. Una pila di morbidi asciugamani e strani tessuti pendeva dal soffitto, disegnando piccole amache di seta, cotone e altre stoffe certamente pregiate.
“Io non mi lavo” mise subito in chiaro Dima, non appena i suoi occhi si posarono sul lavatoio.
“Zitto” gli bisbigliò di rimando Elsa, tirandogli una gomitata tra le costole.
“Ehi!”
Il monaco si schiarì la voce sonoramente, ponendo fine alla discussione che sarebbe sicuramente nata tra i due.
“Questa è la Sala della Purificazione” disse, solenne.
“Ecco, lo sapevo. Ancora bagni!” grugnì Dima, massaggiandosi il fianco.
“Purificarsi non è sinonimo di lavarsi, Signore” lo corresse il monaco, con malcelato fastidio.
“Verserò personalmente dell’acqua sulle vostre mani, i vostri piedi, il vostro petto e le vostre labbra; una volta puri, una volta che avrete allontanato tutto ciò che non è gradito alla Madre, ogni cattiveria, ogni maldicenza, ogni durezza di cuore, vi saranno date in dono nuove vesti” spiegò, invitandoli a spogliarsi.
“Che cosa?” protestò Elsa, il viso in fiamme.
“A me piacciono questi vestiti” rincarò Dima, anche lui rosso come un pomodoro.
“Nessuno è ammesso al Tempio se porta con sé i resti del Mondo di Fuori. Bisogna preservare il più possibile la santità di questo luogo” disse l’uomo, sempre più irritato.
“Ma dai, un po’ di terra e polvere non fanno male a nessuno! Certo non a Dira, che se ne sta lassù e non conosce nemmeno la differenza tra sporco e pulito!” esclamò Dima, scuotendo la testa.
“Avete davvero molto da imparare, Signore. È solo grazie alla vostra temporanea ignoranza che eviterete un serio provvedimento disciplinare” ribatté il monaco seccamente, riducendo le labbra in ad una linea sottile.
Rosso di rabbia e con lo sguardo torvo, sfilò la tunica di Dima e il vestito azzurro pallido di Elsa, che rimase con la sola biancheria intima.
Con lo sguardo rivolto al soffitto e le guance chiazzate, i ragazzi lasciarono che il monaco compisse il rituale senza fiatare ma, soprattutto, senza mai guardarsi.
Quando furono di nuovo sotto il cielo luminoso del Mondo di Sotto, indossavano abiti semplici, puliti e morbidi, di un’incantevole sfumatura di blu.
Elsa stava sistemandosi con le mani le pieghe della gonna, lunga fin sopra le ginocchia ossute, e Dima lottava contro il colletto troppo stretto della sua tunica quando fratello Ashim li superò e fece loro cenno di seguirlo. Insieme, camminarono lungo il viale fino a giungere sulle sponde di un lago, l’ennesimo. Lo specchio d’acqua era piuttosto grande e piccole onde tranquille si infrangevano sulla riva; al centro, si innalzava un’enorme palafitta, una costruzione alta due piani e traforata di finestre.
“Caspita!” bisbigliò Dima, incantato da ogni cosa nuova.
“Questa è la Casa. Qui i monaci riposano, mangiano, si occupano dei loro affari privati. È qui che risiederete anche voi per i prossimi sette anni” spiegò il monaco, fieramente.
“Davvero?” esclamò Dima, entusiasta.
Non attese risposta e subito si lanciò lungo il ponte in legno che collegava le sponde del lago alla piattaforma su cui poggiava l’intera costruzione.
“Signore, non è bene correre in questo modo!” lo rimproverò fratello Ashim, con voce stridula, mentre, afferrata Elsa per una spalla, si affettava sulle assi mobili della passerella.
“Elsa, vieni, muoviti!” incitava il bambino, ormai arrivato.
Tutto in quel posto era un mistero e Dima stava già progettando una fantastica spedizione per scoprirne tutti i segreti.
- Sarà divertente, persino più che al Palazzo d’Inverno- pensava, sorridendo.
Fu solo quando fratello Ashim mosse alcuni passi verso di loro che il bambino vide i due monaci, fermi sulla porta principale della Casa, alta e in pesante legno dorato.
“Chi sono loro?” chiese al trafelato monaco.
“Due fratelli che vi mostreranno la Casa, i vostri alloggi e vi illustreranno la Regola”
“Ma non ne bastava uno?” chiese Elsa, timidamente.
“No, mia Signora” rispose secco Ashim, prima di dare ad entrambi una piccola spinta verso i due uomini.
Così Elsa e Dima varcarono il portone e restarono per qualche secondo in un ampio ingresso, buio e fresco. L’odore del legno era forte e piacevole, e dei fiori di campo spargevano il loro profumo per tutta la stanza.
“Da questa parte” dissero in coro i due monaci, incamminandosi per due diversi, e opposti, corridoi.
I bambini si guardarono; infine, proseguirono ognuno per la loro strada, un po’ più soli, un po’ più tristi.
- Elsa non è la bambina più simpatica del mondo, ma almeno era un’amica con cui parlare- si ritrovò a pensare Dima, mentre seguiva il monaco.
Si corresse subito, però: loro non erano amici! Come aveva potuto dimenticarlo?
Camminò in silenzio per qualche minuto, senza mai perdere di vista la tunica arancione, un po’ stretta in vita, del monaco grassoccio di fronte a lui.
“Siete dispiaciuto, Signore?” gli chiese inaspettatamente l’uomo, mentre svoltava in un secondo corridoio, altrettanto stretto e male illuminato.
“Un po’”
“È per la vostra amica?”
“Lei non è mia amica”
“Fate bene a parlare in questo modo, Signore. Non è bene fidarsi di chi è nostro rivale”
 “Ma perché Dira ha scelto anche lei? Non le bastavo io?” chiese di getto il bambino, dando voce ad una domanda che da tempo si agitava nella sua testa senza pensarci troppo.
“Sarei un uomo molto sciocco se pretendessi di sapere la risposta esatta. Chi di noi può vantarsi di conoscere le ragioni di un dio? Eppure credo, Signore, che Dira abbia messo il suo popolo dinnanzi una prova; e noi dobbiamo mostrarci fedeli e devoti, rispettando la sua legge ed estirpando il maligno dal nostro mondo”
“Ma sarebbe Elsa, questo “maligno”?”
“No, mio Signore. Il maligno è in tutte quelle cose lontane da Dira. Che si sono allontanate da Dira” precisò, girando una chiave d’ottone nella serratura di una vecchia porta di legno.
Dima mosse alcuni passi nella piccola stanza circolare, completamente vuota, prima di essere folgorato da un pensiero terribile.
“Ma allora, tutti noi siamo dei “maligni”! Dira non è a Imbris, né nella Regione del Nord, non c’è proprio a Cadmow! Siamo lontanissimi da lei”
Il vecchio monaco guardò con tenerezza il suo allievo e, con un cenno del capo, gli indicò il pavimento. Entrambi sedettero per terra, le gambe incrociate, uno di fronte all’altro.
“Dimitar, chi è la persona a cui volete più bene in assoluto?” gli chiese, scrutandolo, guardandolo fisso negli occhi bruni.
“Teppe” rispose con sicurezza il bambino.
“E Teppe vuole vi vuol bene?”
“Certo! Siamo grandi amici, io e lui”
“Come fate a dirlo con tanta certezza?”
“Non lo so. Non lo so spiegare, lo so e basta”
“È vero, è molto difficile da esprimere a parole” annuì il vecchio. “Allora provate a dirmi cosa sentite quando Teppe è vicino a voi, quando siete insieme”
“Certo che voi monaci fate domande strane!” ridacchiò Dima, leggermente in imbarazzo.
“Sono felice, non faccio mai brutti pensieri e non mi sento triste. Nemmeno se la mamma mi ha appena picchiato” rispose infine, con lo sguardo basso.
“Ecco, Dimitar. Quando Dira vi è vicino, quando voi le siete vicino, vi dovreste sentire proprio in questo modo. Non serve vederla, toccarla, per sapere che vi vuole bene” sorrise il vecchio, il volto increspato di mille e più rughe.
“Quindi, quando siamo insieme, io sto bene? Tutte le volte che sono felice, tranquillo, che faccio qualcosa di buono, io sono vicino a lei e lei è vicina a me?”
“Esattamente”
“Ma allora, Dira è un po’ un’amica, un po’ una Teppe invisibile!” esclamò Dima, alzandosi in piedi per l’agitazione della sua nuova scoperta.
“Dira non la vedo, non la posso toccare, e quindi basta che la porto con me, nella mia testa, e non mi lascerà mai! Avrò sempre un’amica!”
Il monaco guardò il ragazzino con le guance chiazzate di rosso, emozionato, finalmente in contatto con quella loro grande Madre. Cosa c’è di più bello di un Guardiano, di un Prescelto, che per la prima volta si avvicina a Lei? È lo sfiorarsi, l’annusarsi e il toccarsi, di due anime gemelle, tenute lontane a lungo e finalmente ricongiunte. È la magia della prima carezza di una madre al suo bimbo appena nato.
“Siete molto saggio Dimitar, ma ancora non lo sapete”
“Non m’importano tutte le parole complicate dei monaci” disse Dima, con un’alzata di spalle.  “Sono contento, adesso!”.
“Allora sarete tanto ubbidiente da seguirmi nella vostra stanza” ribatté il monaco, alzandosi a fatica dal pavimento e incamminandosi verso l’unica porta presente nella stanza circolare.
Dima varcò una l’ennesima porta di legno e si ritrovò in una piccola stanzetta quadrata, sulla quale si apriva una grande finestra. Al di là del vetro si scorgeva un cortile interno, un chiostro, verde e fiorito, sul quale si affacciavano numerose altre finestre.
-Chissà qual è quella di Elsa- corse veloce , impalpabile, il pensiero, mentre guardava oltre il vetro.
L’arredamento era essenziale: un letto in legno intagliato, un piccolo armadio, una scrivania e una sedia. Nulla di più, nessun decoro, nessuno sfarzo; quella stanzetta era l’esatto opposto dell’intero appartamento che gli avevano riservato al Palazzo d’Inverno.
“Cosa ne pensate?” chiese il monaco, fermo sulla porta.
“Mi ricorda un po’ casa mia, ad Imbris. Non è poi così brutta” affermò il bambino, lasciandosi cadere a peso morto sul letto, duro.
“Ma questo non sarà molto comodo, credo” mormorò, tastando il materasso sotto di lui.
“Odundì non è il luogo del riposo e dell’ozio, Signore, lo scoprirete presto. Tutto qui è in funzione della meditazione, della conoscenza, dell’apprendimento”.
“Ma non vi divertite mai?” chiese allora, iniziando a rotolarsi sul letto.
“Certamente. Ma dubito che il divertimento che troverete ad Odundì corrisponderà a quello che avete in mente voi” replicò il monaco, con un mezzo sorriso.
 “Quand’è che iniziano le lezioni?”
“Domani mattina”
“Bello! Devo farvi vedere cosa riesco a fare con un bicchiere di cristallo, sono bravissimo!”
“Signore, perché non vi sedete un attimo, così che io possa parlarvi qualche momento?” chiese il monaco, quando intuì che il bambino stava per mettersi a saltare sul letto.
“Va bene” ubbidì Dima, lasciandosi cadere in una scomposta posa e rannicchiandosi sulle gambe.
Il monaco si accomodò sulla sedia di legno e iniziò a parlare con voce sicura.
“Le regole di Odundì sono poche e semplici, Dimitar. Vivendo con i monaci, parteciperete alla vita comunitaria, ai pasti, a tutte le preghiere e le meditazioni; in più frequenterete le vostre lezioni, presso la Torre della Prova. Non dovrete mai mettere in dubbio l’autorità dei vostri insegnanti; siete stato scelto come Guardiano, è vero, ma il percorso è ancora lungo e voi avete molto da apprendere da persone più anziane e più colte. Vi sarà vietato accedere al Mondo di Sopra senza un’esplicita autorizzazione del Sommo Sacerdote; riceverete le visite degli altri Guardiani e dei Consiglieri, ma a nessun altro sarà permesso accedere al Tempio. Tutto chiaro, fin qui?”
“Si. Non sembra molto difficile”
“Molto bene. Ricordate anche che non potrete giocare nel cortile, né schiamazzare, tuffarvi nei laghi, raccogliere i fiori della aiuole; qui tutto è un segno, un dono, una preghiera. Dovrete avere il massimo rispetto de luogo che vi circonda”.
“Va bene, farò il bravo” disse Dima, un po’ più afflitto.
Aveva l’impressione che tutto fosse vietato, in quel posto. Era tutto molto bello, eppure tanto inarrivabile, tanto intoccabile, da sembrare finto.
“La  vostra buona volontà è un ottimo punto di partenza. Il compito è arduo, lo sappiamo bene, ma tutti noi riponiamo un’immensa fiducia in voi e nella Madre” sorrise il vecchio monaco, congiungendo le mani in grembo.
“Ci sono altre regole che devo conoscere?”
“Una sola. La più importante”
“Sono pronto”
“Non dovrete mai cercare di vedere Elasia. Non dovrete avere nulla a che fare con lei, non una parola, non un gesto, un sorriso, una smorfia. Vivrete ad Odundì come se lei non esistesse, non vi incontrerete, non avrete occasione di ritrovarvi nella stessa stanza, alla stessa lezione, nessuna motivo di incrociare i vostri sguardi. Da questo momento in poi, potete dimenticarvi della bambina”
“Ma è proprio necessario?” chiese Dima, dispiaciuto ma piuttosto rassegnato.
“Assolutamente. La prossima volta che vedrete Elaisa sarà dopo il vostro diciassettesimo compleanno, quando sarete chiamato a confrontarvi con lei per stabilire chi di voi ha il diritto, nonché il dovere, di guidare la Regione del Nord” disse categorico il monaco.
Dima chinò il capo.
“Credo che mi mancherà”
“Siate forte, mio Signore, e vedrete che tutto andrà bene. Sono certo che sarete presto felice ad Odundì” ribatté il monaco, il viso nuovamente increspato dalle rughe del sorriso.
“Lo spero tanto” mormorò Dima in risposta.
Il suo pensiero corse subito a Nenjaat, a Teppe, che lo aspettava, a Bessie, tanto dolce, a Dira, la sua nuova amica. Non era affatto facile.
“Con chi potrò giocare nel mio tempo libero, se Elsa non la posso più vedere?”
“Con noi monaci, naturalmente. Sappiamo essere molto divertenti,  e degli ottimi compagni di giochi, se vogliamo”.
Dima alzò le sopracciglia in un gesto fin troppo eloquente.
“Suvvia, non siate così critico, così negativo!”  ridacchiò quello, facendo sobbalzare il suo stomaco pronunciato.
“Non siete mica il primo bambino che viene a stare ad Odundì! Tutti i Guardiani hanno trascorso sette anni in nostra compagnia e sono venuti su forti e sani come pochi in Cadmow” continuò, allegro.
“Ma hanno perso del tutto il senso dell’umorismo” commentò Dima, strizzando l’occhio destro.
“Non potete ancora dirlo, ma presto li conoscerete meglio e allora riprenderemo questa conversazione” proclamò il monaco, fingendosi urtato.
Entrambi risero; per la smorfia buffa dell’uomo, Dima, per il sorriso del bambino, il monaco.
“Adesso devo lasciarvi. Presto sarete raggiunto da un fratello che vi aiuterà a sistemare le vostre cose”
“Già vai via? Non viene Ashim, vero?”
“Il fratello Ashim ha compiti per più importanti da svolgere. Per vostra somma gioia, aggiungerei”
“Puoi dirlo forte!”
Un ultimo sguardo d’intesa, e il monaco sparì oltre la porta.
La giornata continuò lenta e noiosa, per Dima, alle prese con un monaco di veneranda età e ossa di pasta di zucchero, indaffarato col suo enorme baule.
Al sesto rintocco del pomeriggio, fu condotto in una sala interna molto grande, dal pavimento in legno lucido ricoperto di cuscini; passò l’ora seguente inginocchiato su uno di essi, ascoltando le monotone litanie intonate dai monaci. I suoi occhi non poterono trattenersi, e cercarono Elsa in ogni volto; ma si accorse ben presto di essere circondato da monaci in preghiera e nulla più.
A cena, restò in silenzio, stretto tra due uomini in arancio, e nella sua testa cercava di elaborare un piano per sfuggire alle future ore di preghiera.
Quando infine si infilò sotto le coperte del suo letto, nulla di quello che aveva vissuto in quella giornata gli sembrava reale. Nulla, tranne Elsa, la sua amica Elsa.
Con questo pensiero, si addormentò.
 

 
Da sempre Dima aveva la cattiva abitudine di dormire sul bordo del letto, in precario equilibrio per tutta la notte. Vuoi per necessità (a casa sua aveva sempre condiviso la sua branda con uno o più fratelli), vuoi per piacere personale, raramente riusciva a riposare al centro del materasso.
Ci pensarono i monaci, la mattina del secondo giorno, a fargli cambiare completamente idea.
L’alba di Odundì aveva appena colorato il cielo di viola quando un suono profondo, basso, e roboante si disperse per tutta l’area del Tempio. Dima sussultò così violentemente, il suo corpo si tese tanto di scatto, che fu impossibile per lui non finire dritto sul pavimento di pietra, sbattendo dolorosamente la fronte e un ginocchio.
Imprecando come solo un monello di Imbris saprebbe fare, si alzò in piedi, massaggiandosi la testo con una mano.
“Maledizioni ai monaci, ai rintocchi e a questo posto assurdo” borbottò, mentre afferrava di malavoglia i pantaloni che gli avevano dato il giorno prima e se li infilava saltellando sulla gamba sana.
Una volta vestito, si diresse al catino d’acqua vicino alla finestra e, senza pensarci, vi immerse entrambe le mani con decisione. Si lavò il viso e il collo per bene e si asciugò con la salvietta pulita e austera lì accanto, lasciando vagare lo sguardo aldilà del vetro. Fu un attimo, il riflesso del sole, il soffio del vento; per qualche secondo a Dima sembro di intravedere la chioma bionda di Elsa affacciata ad una delle finestre del chiostro.
Subito spalancò le imposte e prese a gridare forte il suo nome, dimentico di qualsiasi divieto:
“Elsa! Ehi, Elsa!” chiamava, muovendo le braccia e l’asciugamano che ancora teneva tra le mani.
Quando nessuno ricomparve alla finestra, Dima iniziò a pensare di essersi sbagliato, non erano i capelli di Elsa quelli che aveva intravisto, e allora smise di saltellare sul posto e tornò al suo letto.
Un po’ deluso, si infilò gli stivali e passò velocemente una mano tra i riccioli, memore degli insegnamenti di Bessie. Infine uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Attraversò veloce l’atrio circolare antistante la sua camera e si ritrovò in uno dei corridoi stretti e bui della residenza dei monaci.
Non sapeva bene da che parte andare; era certo, però, che lo attendeva un’altra snervante e noiosissima ora di preghiera.
Un uomo vestito di giallo svoltò nel suo stesso corridoio e Dima pensò di seguirlo.
Con discrezione, non distolse mai gli occhi dalla sua schiena e ne seguì ogni passo, fino a che non giunsero nella grande stanza dal pavimento in legno, già piena di monaci inginocchiati.
Alla preghiera seguì la colazione e Dima si sentiva perso in mezzo a quella marea arancio, senza un amico, senza nessuno con cui parlare. Allora si ricordò di Dira, la sua nuova amica invisibile, e pensò che fosse educato augurarle il buongiorno.
“Ciao! Come stai? Hai dormito bene? Io così così, il letto era durissimo e sono pure caduto. Spero che oggi sia una bella giornata, anche se non so bene cosa dovrò fare. In questo posto mi perdo sempre, è un labirinto! Chissà se qualcuno mi verrà a prendere e mi accompagnerà nel posto giusto” bisbigliò piano, per non farsi sentire.
Quando si accorse che nessuno gli avrebbe risposto, mise su il broncio, incrociò le braccia al petto e restò pensieroso per il resto della colazione.
Fu il tocco leggero di una mano sulla spalla destra che lo riscosse dalle sue meditazioni. Alzò la testa di scatto e puntò gli occhi in quelli verdi e vitrei di fratello Ashim.
“Mio Signore, è ora di andare. Il vostro maestro vi attende” disse in tono piatto.
Dima si alzò, fece cadere le briciole del pane dalla tunica e seguì ubbidiente il monaco.
Uscirono dalla Casa e percorsero un breve tratto costeggiando il lago. Si ritrovarono a guardare il retro della residenza, mentre alla loro spalle fioriva una foresta verde e piuttosto intricata.
Un monaco li attendeva, con la tunica sollevata e i piedi immersi nell’acqua fino alle caviglie. Aveva gli occhi chiusi e la sua barba bianca tremava, scossa dal vento leggero.
“Cosa sta facendo?” bisbigliò il bambino al suo accompagnatore.
“Medita” rispose quello, secco.
Si avvicinarono e attesero che l’uomo barbuto aprisse gli occhi.
“Lui è Dimitar, fratello Gahs. Vi auguro una buona lezione, che la Madre possa guidare i vostri passi” biascicò fratello Ashim prima di allontanarsi a passo svelto.
Il vecchio e il bambino si guardarono per qualche secondo, studiandosi a vicenda.
“Vieni, Dimitar” disse infine, facendogli un piccolo cenno con la mano.
Il bambino si avvicinò di qualche passo.
“Dentro l’acqua?” chiese, un po’ titubante.
Il monaco annuì.
Dima, allora, si tolse velocemente gli stivali e bagnò le punte dei piedi. L’acqua non era fredda, nulla era ormai freddo per lui.
“Cosa senti Dimitar?” gli chiese il monaco, che aveva nuovamente chiuso gli occhi.
“È piacevole. L’acqua mi scivola tra le dita, è bello” rispose il bambino, schietto.
“ Poi?”
-Cosa devo dire?- si scervellò.
“Ehm… sento caldo?”
“Devi sforzarti di più, ragazzo. Pensa!”
Dima allora imitò l’uomo, e chiuse gli occhi nella speranza di concentrarsi.
L’acqua lambiva le sue caviglie dolcemente e le carezzava con impercettibili movimenti; avanti e indietro, avanti e indietro. Improvvisamente percepì con estrema chiarezza i suoi piedi, tutto il suo corpo, e iniziò a riprodurre quel movimento ondeggiante con il busto.
“Molto meglio” disse il monaco, con un sorriso nella voce.
Dima aprì gli occhi e vide che l’uomo lo stava osservando.
“L’acqua è parte di te, Dimitar. Il Nord è acqua. Nel ghiaccio dei fiumi, nelle nevi perenni, nelle piogge e nelle grandini, l’acqua trova la sua casa al Nord. Grande, mutevole e inconsistente, cristallina e pura, amica e nemica, crudele talvolta, spesso inaspettata, l’acqua è parte della tua essenza, tu sei acqua. È questo che imparerai con me; ti insegnerò a riconoscere l’acqua dentro di te, a riconoscerti come acqua e, quindi, a conoscere te stesso”.
Dima ascoltava rapito le parole del monaco, imprimendosele nella mente, curioso come sempre, avido di nuove scoperte. Erano discorsi difficili, però.
“Finché non riconoscerai questo, raramente riuscirai a utilizzare la grande magia che risiede in te” concluse fratello Gahs, senza scomporsi.
“Ma io l’ho già fatto una volta. Anzi, ben due!” lo interruppe il bambino, emozionato.
Il monaco lo osservò con cura.
“Tutti  Prescelti hanno una forte manifestazione del loro potere non appena ne vengono investiti. Tu, Dimitar, hai distrutto la tua casa e quasi ucciso la tua famiglia” disse severo. “Non è certo qualcosa di cui vantarsi”.
“Ma non l’ho fatto di proposito! È successo e basta e io nemmeno me lo ricordo!” esclamò il bambino, infervorandosi davanti al quel rimprovero ingiusto.
“E comunque, mi è capitato di usare i miei poteri anche a Nenjaat, al Palazzo. Ho fatto diventare di ghiaccio un bicchiere di cristallo” continuò, orgoglioso fino in fondo.
Se il monaco restò stupito da questa rivelazione, Dima non lo seppe mai. I suoi lineamenti rimasero inalterati e la sua voce ugualmente calma e pacata. 
“Adesso non è importante” disse. “Togliti la tunica e seguimi” aggiunse, camminando sul fondo del lago.
Si fermò e attese, immerso nell’acqua fino alla vita, le vesti arancioni fluttuanti.
Dima non era sicuro di potersi fidare del fratello Gahs, aveva un che di inquietante, ma, come gli era capitato fin troppo spesso negli ultimi mesi, non aveva altra scelta.
Si sfilò la tunica blu dalla testa e la lanciò sulla riva; poi, raggiunse il monaco, camminando incerto.
“Avvicinati di più” disse quello, fissando un punto imprecisato davanti a sé.
Il bambino mosse qualche passo verso sinistra, fino ad arrivare a sfiorare il braccio del vecchio con la spalla.
Con un movimento troppo rapido per un uomo dell’età di fratello Gahs, il monaco sollevò il braccio rinsecchito e, senza lasciargli il tempo per un solo pensiero coerente, premette con tutta la sua forza sulla testa di Dima.
Il bambino ebbe giusto il tempo per un respiro veloce, sorpreso, impaurito; e poi, si ritrovò sott’acqua, schiacciato da una forza sorprendentemente grande.
Dima per la sorpresa spalancò i grandi occhi bruni, prese a muovere convulsamente mani e braccia, cercò di nuotare, di sbattere forte i piedi, di liberarsi, liberarsi a tutti i costi. Il monaco era troppo forte per lui, sentiva i suoi polmoni svuotarsi, e il panico crescere, crescere tanto, sempre di più, crescere troppo.
Urlò e graffiò quella mano, quel polso d’acciaio, ma niente di quello che faceva sembrava bastasse a liberarlo. Infine, dovette abbandonarsi alla corrente, dovette, per forza, aprire la bocca e tentare di respirare. Un fiotto d’acqua gli passò violento tra le labbra e poi giù, giù nei polmoni. Con gli occhi chiusi per metà, senti come un risucchio e, improvvisamente, come tutto era iniziato, tutto finì.
Il monaco gli batteva forte una mano sulla schiena, incoraggiandolo a buttare fuori tutta l’acqua che aveva bevuto.
Dima tossì forte, e sputò, e singhiozzò, e pianse. In un moto di paura e ribellione si allontano da fratello Gahs, cercò di tornare a riva il più velocemente possibile.
La gola gli bruciava e il cuore martellava nel suo petto.
“Stai lontano!” urlò in direzione del monaco quando questo lo raggiunse sulla terraferma.
“Tranquillo, Dimitar. Nessuno di noi vuole farti del male, tanto meno io”
“Stai scherzando? Per poco non mi facevi annegare, brutto vecchio!”
“Per poco, hai detto bene. È questo il tuo addestramento, ragazzo, questa è la tua lezione. Ti immergerai nel lago tutte le mattine, fino a quando non sarai in grado di entrare in sintonia con l’acqua che ti circonda. Allora, annegare non sarà più un problema, perché tu sarai acqua” spiegò pacato, apparentemente immune agli insulti.
“Io non lo voglio fare!”
“Non puoi sottrarti. Ci sono molte cose che devi imparare e scoprire la tua vera natura è il primo passo. Non pensare di fuggire, non ci riusciresti”.
Era forse una minaccia? Di sicuro era la verità. Non l’avrebbero fatto andare via. Lui era il Prescelto. E poi, cosa lo aspettava fuori di lì? La fuga. Avrebbe dovuto nascondersi, vivere nei boschi, da solo. E Dima non era assolutamente disposto.
-Io voglio essere un Guardiano, lo voglio davvero!-
Allora chinò il capo e con il volto rosso di indignazione e risentimento, mosse i primi passi nell’acqua bassa della riva, pronto a ricominciare.
 
 
 
 
Note
Dopo moltissimo tempo, aggiungo un capitolo a questa storia. Sono fermamente convinta che non è uno dei migliori, anzi. Spero non risulti troppo pesante, troppo lungo, “troppo” in generale. È un periodo difficile, l’ispirazione per scrivere va e viene, ma la voglia di portare avanti questa storia è tanta.
Se qualcuno di voi lettori ha un po’ di tempo  e un po’ di voglia, sarebbe davvero importante per me ricevere una recensione, o una mail privata, o un piccione viaggiatore, un gufo, un messaggio in una bottiglia… Insomma, mi farebbe davvero piacere sapere cosa pensate di questi capitoli!
Grazie a tutti quelli che continuano a leggere e leggeranno ;)
A presto,
EsterElle

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Capitolo 7
*** Gita al lago ***


Capitolo 7
Gita al lago

 

Dima gocciolava acqua dappertutto, mentre attraversava i giardini del Tempio diretto alla residenza, a mezzogiorno, quasi due settimana dopo il suo arrivo.
Bagnato dalla testa ai piedi, la tunica blu stretta nella mano destra, aveva appena terminato una delle orribili sessioni con fratello Gahs.
 Non era ancora riuscito ad ottenere un buon risultato in quella prova, e non capiva il perché.
- Sono già stufo di stare qui!– pensò tra sé e sé, abbattuto.
Il lavoro era duro e lo svago promesso davvero, davvero, poco.
Senza le corse, i giochi, gli amici, le risate, tutto appariva grigio e triste agli occhi di Dima, costretto alle sue lezioni dalla mattina alla sera.
- Tranne per quelle dannatissime preghiere – imprecò mentalmente.
Camminò veloce lungo la passerella sul lago e altrettanto spedito attraversò il grande portone della Casa. Ormai riusciva ad orientarsi abbastanza bene, e non ebbe problemi a trovare un piccolo chiostro verde, con un pozzo nel centro, dove si rifugiava spesso dopo le lezioni di fratello Gahs.
- Chiamarle lezioni è anche troppo! Non fa altro che spingermi la testa sott’acqua per tutta la mattina!- era il pensiero ricorrente.
Si beò del sole sul viso, caldo, e poi si avvicinò al pozzo, scuotendo i capelli fradici con la tunica per poi strizzarla insieme ai pantaloni, come gli aveva insegnato la mamma, facendo gocciolare tutta l’acqua all’interno.
Stanco, sedette su un sedile di pietra, ben nascosto da un pesco in fiore.
A volte aveva fortuna, e i monaci non venivano a cercarlo fin laggiù per costringerlo a prendere parte alla preghiera; altre, lo scovavano in meno di dieci minuti e Dima era obbligato ad inginocchiarsi su un cuscino per un’ora e più.
Ormai aveva perso il conto dei rimproveri e delle punizioni che aveva ricevuto per aver disobbedito al Codice; in una settimana era stato redarguito più e più volte, aveva sperimentato qualche castigo e, un giorno, persino il completo digiuno.
- È stato quella volta che ho cercato di parlare con Elsa – rammentò.
Dima stava tornando dalle sue lezioni pomeridiane alla Torre, il quarto giorno a partire dal suo arrivo a Odundì,  e aveva la testa piena di lettere e parole, lo sguardo e la mente stanca per lo sforzo di imparare a leggere e scrivere a più di dieci anni. E poi, tutt’un tratto, mentre attraversava il boschetto che divideva la Torre dalla Casa, ecco che Elsa era apparsa davanti a lui, carica di libri, accompagnata da un monaco che Dima non aveva mai visto.
Era l’Elsa di sempre, con il vestitino blu, il collo sottile, e i capelli biondi completamente intrecciati in una coroncina sopra la testa.
Dima non aveva saputo trattenersi dal salutarla, e le aveva persino battuto un pugno sulla spalla, come faceva con Teppe. Il monaco lì con lei lo aveva incenerito con un solo sguardo e, posata una mano sulla spalla della bambina, l’aveva guidata lontano con decisione.
Il giorno dopo, a Dima non era stato permesso di toccare neanche una tazza di te.
- Che cosa orribile, la fame- rimuginò, sdraiandosi sul panchetto, mentre il sole asciugava la sua pelle e i suoi vestiti.
Sopra di lui, tutt’intorno al muro in pietra e legno della Casa, correva un porticato, adorno di rampicanti verdi. Dima sentì un rumore di passi, il battere di tacchi e suole di un paio di scarpe sul pavimento duro; immediatamente si irrigidì e cerco di nascondersi alla meglio tra le foglie e i fiori del pesco.
- Se mi beccano, è finita! Mi tocca un’altra volta pulire i bagni per punizione! - pensava, disperato.
Un tomo pesante, rilegato in cuoio, si abbatté sul cornicione del porticato, e due mani sottili ne sfogliarono le pagine gialle e consunte.
Non era il viso vecchio e arcigno di un monaco, quello che si affacciò sul chiostro, chino sulle vecchie carte, però.  Era il visino tenero di una bimba, bianco e rosa, un po’ pallido forse, incorniciato dalla bella coroncina di capelli intrecciata sulla testa.
- Elsa! -
Dima la osservò posare la guancia sul palmo della mano e vide che i suoi occhi correvano tra le parole con aria annoiata.
Come avrebbe voluto chiamarla! Come avrebbe voluto divertirsi per un’ora, un’ora soltanto! Ma i monaci erano stati molto chiari e Dima non voleva farli andare su tutte le furie per l’ennesima volta.
- In più, è proprio vero che io e Elsa non dovremmo essere amici. Sarebbe un bel guaio, poi, quando dovremmo batterci l’uno contro l’altra- pensò, cercando di essere giudizioso come desiderava fratello Agos.
Così rimase in silenzio, ben nascosto tra i rami del pesco e i cespugli verdi.
- Nemmeno lei deve essersi divertita molto in questi giorni, però – pensò ancora, dopo il terzo sbadiglio della bambina.
- È davvero brutto non poter essere amici e giocare insieme. Perché, Dira, non vuoi che ci facciamo compagnia, io ed Elsa? In fondo non facciamo nulla di male. Perché hai scelto entrambi, così che adesso ci troviamo in questa bruttissima situazione?- si arrovellava, sempre sullo stesso argomento, terrorizzato dal futuro e desideroso di non darlo a vedere. 
Elsa girò pagina, e accasciò la testa sul grande libro; il sole brillava sulla chioma bionda e alcune ciocche di capelli sfuggivano dall’acconciatura.
- Chissà se anche lei è costretta ad immergersi nel lago tutte le mattine. A Nenjaat mi ha detto che non ha un potere come il mio… magari lei segue delle lezioni diverse- .
Sempre più impaziente, Dima si agitava tra le foglie, combattuto tra il desiderio di non farsi scoprire e quello di attirare l’attenzione di Elsa. Ma la bambina restava intenta alla sua lettura, senza mai sollevare lo sguardo dalle pagine.
Un pensiero veloce attraversò la mente del ragazzo, e i suoi occhi si accesero di puro divertimento.
- Le farò uno scherzo! Nessuna regola me lo impedisce e lei non saprà mai che sono stato io!- ridacchiò tra se e se.
Attento, ora, a non fare nessun rumore, si accucciò a terra e raccolse nella mano alcuni piccoli sassi.
Con la mano vuota si aprì un varco tra le foglie, in direzione della bambina ancora affacciata al davanzale.
- Ora prendo bene la mira e le colpisco il naso- progettò ghignando, senza distogliere lo sguardo da Elsa, concentrata sul suo libro.
- Uno…-
Dima si concentrò meglio, strizzando un occhio.
-Due…-
Si accucciò sulle ginocchia e buttò fuori l’aria dai polmoni.
-Tre!-
“Non lo fare, Dima!” esclamò la bambina, all’improvviso.
Aveva alzato di scatto la testa e fissava il giardino, ora la panchina, ora un cespuglio verde.
Il sasso che Dima stava per lanciare finì a pochi metri da lui, per terra.
“Elsa?” azzardò, un  po’ sorpreso, un po’ irritato per il fallimento del suo piano.
“Zitto! Stai zitto e immobile!” ordinò lei, bisbigliando, senza posare lo sguardo in nessun punto.
-Non sa dove mi trovo!- intuì Dima, mentre tratteneva il fiato e cercava di mimetizzarsi con la vegetazione.
-Come ha fatto a capire che ero proprio io?-
Ma, mentre il bambino si scervellava su queste domande, dei leggeri passi di corsa iniziarono a risuonare lungo tutto il porticato. Tip, tap, tip, tap… faceva il cuoio sulla pietra. Un monaco in avvicinamento!
“Signorina Elaisa! Cosa succede qui? C’è qualcuno nel chiostro?” esclamò un uomo dal cranio completamente calvo, mentre avanzava verso la bambina.
“Va tutto bene fratello Lopa” disse Elsa, sicura.
“Mi è sembrato di sentirvi urlare”
“O, si, scusatemi se vi ho disturbato! È solo che, mentre leggevo il mio libro, proprio come voi mi avete ordinato, una formica è salita sul dorso della mia mano. Io odio le formiche, sapete?” raccontò Elsa, disinvolta nel mentire come mai Dima si sarebbe aspettato.
-Guarda che faccia disgustata, e com’è sicura di quello che dice!- pensava ammirato.
“Allora o urlato: -Non lo fare!- e ho scrollato forte la mano finché quell’odioso insetto non è caduto” continuò la bambina, col visino corrucciato.
“Suvvia, signorina, non dovreste essere così impressionabile! Tutto ciò che vive è oggetto dell’amore di Dira e quindi anche del nostro. Dovreste saperlo bene” la redarguì con fare severo il  monaco.
“Chiedo perdono, fratello Lopa. Mi impegnerò per  essere più buona con le nostre amiche formiche” mormorò Elsa, con aria contrita e i brillanti occhi grigi già umidi di lacrime.
“Bene, signorina, accetto di buon grado le vostre scuse. So bene che in fondo siete una brava ragazzina. Cercate di prestare maggiore attenzione alle vostre lezioni di teologia, però” ribatté fratello Lopa, intenerito da un pentimento apparentemente tanto sincero.
-Teologia? E che cos’è?- si domandava Dima, al sicuro nel chiostro, protetto dalla bugia di Elsa, mentre la bambina chinava la testa al saluto del monaco.
Così, senza aggiungere altro, fratello Lopa tornò a passo svelto alla sua occupazione precedente, mentre Elsa, con una mano sul cuore,strizzava gli occhi chiusi, ancora lacrimanti.
Trascorrere ad Imbris gran parte della sua infanzia aveva insegnato a Dima quanto può essere gravoso il peso dei debiti; il bambino aveva  presto sperimentato quanto fosse difficile accettare una gentilezza sapendo di non poterla ricambiare.
-Sono in debito con Elsa, mi ha salvato da fratello Lopa, anche se non ho idea di come abbia fatto. Devo assolutamente restituirle il favore- pensò, uscendo allo scoperto.
“Elsa!” bisbigliò.
La bambina, però, stava raccogliendo il suo libro in silenzio, e non alzò lo sguardo al richiamo dell’amico.
“Dai, Elsa, voglio solo ringraziarti!”
“Non posso parlare con te. È vietato” mormorò lei, senza guardarlo.
“Allora ascoltami e basta. Mi hai salvato la pelle, se non intortavi bene come hai fatto quel vecchio, mi toccava pulire un’altra volta l’intera sala mensa! Ti devo un favore!” disse allegro Dima.
“Non è vero. Io non posso avere nulla a che fare con te. Devo  vivere qui e fare finta che tu non esisti” ribatté lei, cupa.
Di scatto, voltò le spalle al chiostro e sparì dietro una pesante porta di legno.
-Accidenti! Ma perché quella bambina è così antipatica, certe volte? Cosa le costava disubbidire per un momento e rispondermi? Non la sopporto proprio!- pensava infastidito, mentre tornava a sedersi sul panchetto.
A Dima le regole erano sempre state strette; lui era fatto per gli imbrogli, i nascondigli, i rimproveri e le punizioni. Non ce la faceva proprio trasformarsi nel bravo allievo che tutti avrebbero voluto, mentre ad Elsa essere ubbidiente ed educata riusciva facile come respirare.
Peccato che tutto quello che lo circondava, la sua vita stessa, era diventata così seria e importante da non poter più essere presa alla leggera.
Pensò agli obblighi, ai doveri, alle preghiere, al silenzio, alle immersioni mattutine, alla noia, alla solitudine.
- Com’è brutto questo posto!- inveì mentalmente.
Stufo e innervosito, prese ad osservare il cielo sopra di lui, azzurro e terso, un prodigio sempre presente sopra la sua testa. O sotto i suoi piedi, che dir si voglia.
Il ritmico gocciolare dell’acqua dalla sua tunica al terreno umido lo cullò per qualche minuto, ipnotizzandolo come solo un’altra volta, in tutta la sua vita, era stato in grado di fare. Goccia dopo goccia, ticchettio dopo ticchettio, Dima non era più Dima, ma solo acqua. Meravigliosa, fresca, leggera acqua. Era uno e molti, era forte e docile. Acqua.
Quando aprì gli occhi, non rimase sorpreso alla vista del delicato fiore di pesco accanto a lui, del rosa più bello, completamente ricoperto di ghiaccio.
Si mise seduto e recise il bocciolo dalla parte ancora verde.
Lo osservò per qualche minuto, cercando di capire cosa si agitava dentro di lui. Finalmente ce l’aveva fatta, era riuscito a penetrare dentro se stesso tanto a fondo da trovarsi. Era riuscito a scoprirsi acqua. E aveva realizzato un nuovo prodigio, il terzo, da quando era stato scelto. Eppure, Dima non si sentiva felice, né soddisfatto, né orgoglioso.
Dima era triste.
- Oh, no, eri un così bel fiore fino a qualche secondo fa! Te ne stavi li tranquillo, con le tue api, i tuoi insetti, ti facevano compagnia persino quegli schifosissimi monaci! E adesso, invece? Guarda cosa ti ho fatto! Sei morto, fiore di pesco, non sei altro che un gelido, immobile, bellissimo pezzo di ghiaccio. È orribile! - pensava, desideroso di raggiungere il piccolo bocciolo tra le sue mani, rivolgendosi, nella sua testa di bimbo, a lui direttamente.
- Ero arrabbiato. Con i monaci, con Elsa, con un sacco di gente. Forse anche con Dira. Ed ho combinato un casino. Ti ho ucciso, fiorellino-.
Spaventato da se stesso, non poté far a meno di far correre il pensiero ad Imbris e a quello che i Consiglieri del Sud gli avevano raccontato sulla sua casa. Distrutta, come da una tempesta di neve implosa all’interno. I suoi familiari, quasi morti.
- Per colpa mia- realizzò, forse per la prima volta, forse finalmente consapevole di sé.
Era strano rendersi conto di essere pericoloso. Non era affatto un pensiero piacevole.
- Il mio potere può essere terribile. Può far del male. Può uccidere – realizzò, con stupore crescente.
“Non mi piace. Non voglio essere un mostro” bisbigliò al fiore di pesco ancora tra le sue mani, con gli occhi scuri carichi di lacrime.
Tirò su col naso e tastò la tasca dei suoi pantaloni. Con la punta delle dita, percepì tre bottoni; sapeva bene che erano quello d’argento del capitano Reeply, quello bianco di Bessie e uno blu, a tre buchi, un vecchio regalo di Teppe.
- Loro mi vogliono bene lo stesso, credo, anche se ora non sono più il Dima di prima. Non voglio che restino delusi da me. Io voglio diventare un grande Guardiano del Nord. Il più grande. Ma voglio anche essere buono, e gentile, e giuro che non userò mai i miei poteri per fare male. Lo giuro sulla mia intera collezione di bottoni. Su tutti i pezzi, pure quelli nascosti nella mia scatola sotto il letto- si disse, asciugandosi le lacrime dalle guancie.
Con movimenti delicati, adagiò il fiore di ghiaccio sull’erba folta del chiostro, proprio vicino ad una aiuola di tulipani rossi.
“Così sarai in buona compagnia” gli sussurrò, con un’ultima carezza.
Dima era bravo a scovare il lato bello di tutte le situazioni e portarlo alla luce. Non era rimasto indifferente a quei nuovi, inquietanti, pensieri, ma aveva trovato velocemente la soluzione giusta per lui in quel momento.
- Io sarò buono perché voglio essere buono. Anche se forse sarà difficile- ammise dentro di sé.
Desideroso di allontanare i pensieri più tristi, decise che era ora di avviarsi verso il pranzo, così che i monaci non si insospettissero troppo per quella lunga assenza.
- Caspita, se non mi muovo farò tardi!
Vivere con i monaci non era semplice, e Dima l’aveva sperimentato sulla propria pelle.
Il pranzo era sempre un evento serio, composto, piuttosto silenzioso. Per certi aspetti meglio rispetto alle furiose litigate intorno al tavolo che erano all’ordine del giorno a casa sua, per altri, una vera e propria tortura. A cui seguivano immediatamente lunghissime ore di lezione.
I pomeriggi di Dima erano consacrati, da due settimane a quella parte, agli esercizi di lettura e scrittura.
Analfabeta come la gran parte degli abitanti di Imbris, faticava non poco a sillabare una lettera insieme all’altra, a costringere un pensiero sulla carta. Puntualmente, dopo queste lezioni, gli veniva un gran mal di testa! Quel pomeriggio non andò diversamente e si ritrovò, più tardi di quel che aveva sperato, a percorrere in direzione della Casa il boschetto di sempreverdi che la divideva dalla Torre.
Trascinava i piedi tra la polvere e gli aghi caduti dagli alberi; Dima non vedeva l’ora di infilarsi sotto le coperte e perdersi in uno dei suoi sogni.
Già pregustava la calma solitudine della sua stanzetta, la pacchia di poter far divagare il cervello in anfratti tutti suoi, quando vide un monaco ancora giovane correre a perdifiato verso di lui.
Subito la colpa gli si dipinse in volto “Non ho fatto niente, lo giuro!” disse, alzando le mani sopra la testa.
Il monaco lo guardò stranito.
“Infatti, signore” disse, con il fiato corso per la corsa.
-Cavolo! Per poco rischiavo di farmi scoprire, di spiattellare il fatto che ho parlato di nuovo con Elsa, ho saltato la preghiera e tutto il resto! Che idiota!- si disse da solo, dipingendo un sorrisetto di circostanza sul viso.
“Devi dirmi qualcosa, fratello?” cercò di rimediare.
Il monaco appoggiò le mani sulle ginocchia e trasse un respiro profondo.
“Avete visite”
“Cosa?”
“Avete una visita, signore” ripeté l’uomo, raddrizzando un poco la schiena.
“E chi è?”
“Il Guardiano dell’Ovest”
Dima scavò nella sua memoria, cercando di dare un volto ad un nome tanto famoso. L’unica volta che aveva visto i Guardiani era stato a Nenjaat, quel terribile pomeriggio in cui lui ed Elsa, all’ombra di una tenda, erano venuti a conoscenza di ciò che gli attendeva una volta fuori dal Tempio.
- Ovest, ovest..- pensava.
-Esclusa la donna, si tratta o dell’uomo grosso e barbuto o di quello più giovane, quello che sembrava tanto triste-
“Cosa devo fare?” chiese al monaco.
Sperava che non si trattasse del guardiano più vecchio, quello con la barba grigio ferro e la voce tonante; lo metteva in soggezione come pochi, fino a quel momento, erano stati in grado di fare.
“Correte alla Casa; nella sala privata del Sommo Sacerdote”
Dima non se lo fece ripetere due volte e spiccò una corse in direzione del lago.
- Chissà cosa vuole da me. Cosa mi chiederà? I monaci gli avranno parlato del mio comportamento? Caspita, non voglio farmi rimproverare anche dal Guardiano- pensava, mentre correva a perdifiato alla luce rosea del tramonto.
Come un fulmine percorse la passerella di legno e altrettanto velocemente si precipitò nella Casa.
“Scusa, fratello!” urlò in direzione di un monaco che aveva malamente travolto.
Col fiato corto, si fermò davanti alla sala privata del Sommo Sacerdote. Bussò e attese, impaziente e agitato, incapace di tenere i piedi fermi e assumere l’atteggiamento composto e posato che avrebbero richiesto le circostanze.
“Avanti”
Dima entrò timidamente.
“Mi avete fatto cercare, signore?”
“Certamente Dimitar” disse l’uomo, alzandosi in piedi e strascicando l’orlo della lunga veste sul pavimento di legno.
“Petar, Guardiano dell’Ovest, chiede di vederti”
“Si, lo so. Ma lui dov’è?”
“Ha chiesto di incontrarti al lago di Odundì, nel Mondo di Sopra”
“Al lago?” chiese stupidamente Dima, sgranando gli occhi, brillanti di gioia.
-Evvai! Non vedo l’ora di uscire di qui per un po’-
“Avete capito bene” confermò il sommo Jeyco, strizzando gli occhi fino a renderli due sottili fessure.
Lo scrutava dalla testa ai piedi, con i suoi occhi di giaccio e la bocca storta, pensieroso.
- Visto da vicino, fa davvero paura- si ritrovò a pensare Dima, mentre aspettava che l’uomo parlasse nuovamente.
“Dimmi, ragazzo: cosa dovrei fare? Dovrei concederti il permesso di accedere in superficie?” chiese infine.
Il tono era tanto retorico che Dima non si azzardò a pronunciare una sola parola.
“In queste prime settimane ho sentito molte voci su di te, sul tuo comportamento così poco opportuno” continuò il monaco, percorrendo la sala a passi lenti e misurati.
Dima deglutì a vuoto. Mai in quei giorni, quando progettava e metteva in atto le sue marachelle, aveva pensato al Sommo Sacerdote, al suo giudizio, alla sua severità, a punizioni ben più gravi di quelle che aveva già sperimentato.
Desiderava ardentemente andare nel Mondo di Sopra.
-Ti prego, ti prego, ti prego!-
 “So che sei stato punito. So che sei stato duramente redarguito numerose volte; ebbene, lasciami il piacere di regalarti questo solo avvertimento” continuò avvicinandosi al ragazzo e prendendolo per le spalle.
“Non importa quante preghiere salti o quanto sei indisciplinato a lezione; a tutto questo possiamo porre rimedio. Ma sta lontano da Elaisa. Non lo ripeterò più Dima; se verrai trovato di nuova in sua compagnia, perderai ogni cosa. Non crederci degli sciocchi, non ti conviene; sei controllato, seguito, verremo sempre a sapere cosa fai e cosa non fai. Se dovessi disubbidire ancora a questa sola regola verrai rimandato a casa in disgrazia e sarai il disonore della tua Regione. Spero di essere stato abbastanza chiaro, questa volta”.
Dima annuì, serio.
-Che stupido che sono! Il Sommo Sacerdote ha ragione. Non possiamo diventare amici perché un giorno uno dei due ucciderà l’altro. Perché non mi entra in testa?-.
“Mi sento molto solo, però” azzardò, con un filo di voce.
Il monaco sorrise mestamente “È il destino di tutti i potenti, Dima. Prima accetterai questo fatto, prima riuscirai a diventare il grande Guardiano che desideri essere”.
 “Adesso vai, un monaco ti accompagnerà in superficie, dove incontrerai Petar. Cerca di non fare sfigurare tutti noi” disse infine, allontanandosi dal ragazzo per tornare ad un tavolo ingombro di fogli e carte geografiche.
Dima non aspetto altro congedo; in silenzio, uscì dalla sala e si diresse verso l’uscita.
Se aveva pensato di stare ad Odundì come era stato ad Imbris, erano bastate quelle poche settimane a fargli capire che non era possibile. Lì non era un bambino, era il futuro Guardiano del Nord; e, per quanto fosse duro, aveva  degli obblighi, dei doveri, da rispettare.
Pestò i piedi una volta sola, stizzito, ma poi compose il volto in un’espressione quasi tranquilla.
In silenzio seguì la sua Guida e, senza troppa fatica posare i piedi sullo strato di rada erbetta del Mondo di Sopra.
Dima prese un lungo respiro, godendo del profumo dei fiori di campo, dell’aria fresca della sera sul viso. Trattenne a stento la voglia di spiccare una corsa liberatoria, di gridare e saltare e sciogliere tutti i lacci che lo tenevano stretto nella sua posa seria, ben studiata.
Si avvicinarono alle sponde del lago e il suo accompagnatore lo lasciò solo quando videro camminare verso di loro un uomo.
Alto e snello, vestito in cuoio marrone dalla testa ai piedi, avanzava verso di lui Petar, Guardiano dell’Ovest;  non più un ragazzo ma non ancora vecchio, portava i capelli castani lunghi fino alle spalle, scompigliati dal vento, e restava nel suo sguardo quella profonda malinconia che Dima aveva percepito la prima volta che l’aveva visto.
-Menomale che non è quello barbuto- fu il suo primo pensiero.
Con un gesto della mano Petar allontanò gli uomini in divisa che lo seguivano da lontano.
“Buona sera, Dima. Non ti dispiace se restiamo senza guardie per un po’, vero?” gli chiese, accennando ad un sorriso.
“Per niente”
“Bene. Perché avevo in mente di fare qualcosa di divertente, insieme”
“Non sei qui per sgridarmi? O per parlarmi dei miei doveri? O della Regione del Nord?”
“Credo che di queste cose tu ne discuta a sufficienza con i monaci” ridacchiò l’uomo, scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte.
“Perché ridi?”
“Perché mi ricordi moltissimo me quando ero ad Odundì, prima di diventare Guardiano. Mi annoiavo da morire!”
“No, non è vero, io non mi annoio”
“Tranquillo, Dima, a me puoi dirlo. I monaci sono le persone più fastidiose di tutta Cadmow!” gli strizzò l’occhio.
“Ecco, magari solo un pochino”
“Quando ero qui, ormai parecchi anni fa, avrei tanto voluto che uno dei Guardiani mi portasse a fare un giro in barca. Ma Arden aveva sempre qualche rivolta da sedare, Orwen era, ed è tutt’ora, troppo serio, Karel troppo vecchio. Così ho deciso che, se non ho potuto farlo allora, lo farò adesso”.
“Un giro in barca? Davvero? E posso venire anch’io?” Dima aveva già congiunto le mani, come in una preghiera.
“Assolutamente, Dima. È bello avere degli amici con cui condividere i divertimenti” approvò Petar, sorridendo di quel suo sorriso triste.
“Si, ma qui ad Odundì non ce ne sono molti” rifletté Dima, incupendosi un po’.
“Perché non hai cercato bene. Scommetti che te ne trovo due in un battibaleno?”
“È impossibile, non ci riuscirai mai”
“Mi stai sfidando? Guarda che sono pronto a scommettere qualsiasi cosa”
“Va bene, allora. Ma preparati a perdere”
“Che caratterino! Se vinco io, mi prometti che ti fiderai sempre di me, e che non mi considererai un vecchio Guardiano rimbambito?”.
“Va bene! Se vinco io, invece, tu mi assicuri un divertimento a settimana!”
“Affare fatto”
“Allora, dove sono questi amici?” chiese impaziente, divertito da quel nuovo gioco, di cui conosceva le regole fin dalla nascita.
“Uno è davanti ai tuoi occhi. Mi piacerebbe molto diventare tuo amico, Dima”
“Ma tu sei un Guardiano! Non vale!” esclamò il bambino, stupito.
“È vero, ma lo sei anche tu. Noi Guardiani siamo come una famiglia”
“È un po’ strano avere un Guardiano per amico. E poi, non hai affatto la mia età!”
“Si, ma mi piacerebbe molto divertirmi come sai fare tu”
“Mmm… va bene allora, ma solo se non mi farai la predica per ogni cosa che dico o faccio, come tutti gli adulti”
“Promesso”
“L’altro amico che mi hai promesso, invece, dov’è?”
“È proprio qui, insieme a noi” rispose l’uomo, con un sorriso divertito sulle labbra sottili. “Vieni pure” disse ancora, a voce più forte, come per farsi sentire da una terza persona.
Infatti da alcune sterpaglie alte, poco distanti dalla riva del lago, si alzò una figurina che Dima non aveva notato, prima.
Non servì molto tempo al bambino per riconoscere Elsa.
“No! Non è possibile, Petar! I monaci mi cacceranno se ci scoprono!” esclamò, agitato, memore della sua ultima conversazione con il Sommo Sacerdote.
“Non devi preoccuparti, Dima, siete con me. Chi oserebbe sfidare un Guardiano? Mi sono assicurato che nessuno dei presenti racconti questa nostra piccola gita a qualcuno del Tempio” cercò di tranquillizzarlo l’uomo, posandogli una mano pesante e ruvida sulla spalla.
“Ciao” mormorò Elsa, pallida e preoccupata, in direzione del bambino.
“Stai combinando un macello, lo sai Guardiano?”
“Di grossi errori ne ho commessi tanti, Dima, ma non questa volta” mormorò a voce bassa e dura Petar.
“Adesso che ne dite di salire sulla barca e dare inizio alla nostra gita?” esclamò, con un repentino, e forzato, cambio di umore.
Dima era combattuto; la voglia di fare un giro in barca era tanta, tantissima! Eppure, proprio non voleva che la presenza di Elsa gli causasse guai con il Sommo Sacerdote.
Petar si accorse dell’esitazione del bambino e, più dolcemente, gli parlò:
“Fidati di me, Dima. Ricordi? L’hai promesso”
“E se ci scoprono?” intervenne Elsa, tormentandosi le mani.
“Siete con me, non può accadervi nulla di male” ripeté quello, carezzando la testolina bionda della bambina.
Le guancie di Elsa si tinsero di rosso, ma annuì. Con decisione, alzò un poco la sua gonna e si sedette con grazia sul sedile rustico della barca.
Petar la seguì con un agile balzo, per poi tendere la mano a un Dima ancora piuttosto scettico.
“Dai, testone, muoviti a salire o partiremo senza di te!” gli disse, ridendo.
Dima tentennò ancora qualche secondo.
-Se non vado con loro, dovrò tornare di sotto. Uffa!-
“Chissenefrega dei monaci!” urlò infine, salendo a bordo.
Petar sorrise, soddisfatto. Al gesto della sua mano un forte vento si sollevò alle loro spalle e la barca venne spinta in avanti.
Afferrati i remi, i bambini presero a vogare con forza, mentre schizzi di acqua fredda finivano su tutti loro.
E risero, e scherzarono, e fecero finta di offendersi quando il Guardiano sollevò una tempesta d’acqua che li infradiciò dalla testa ai piedi.
Con un soffio e del vento tiepido creato all’occorrenza da Petar, si asciugarono in fretta. Giocarono a fare a gara, a chi remava meglio, a chi riusciva a stare in equilibrio più a lungo.
Era bello, tanto.
Ma il sole calava velocemente sull’orizzonte ed era quasi buio quando si ritrovarono tutti e tre al centro del lago.
“Allora, io mi sono alzato, è ho urlato talmente forte che la mamma è inciampata nella gonna, mandando a terra tutte le carote per la cena. Ho riso un sacco, fino a quando non me le ha date di santa ragione!” finì di raccontare Dima, tra mille gesti e smorfie.
Elsa rise piano, lasciando cadere mollemente una mano nell’acqua.
“Certo che ne combini un sacco tu” commentò Petar, appoggiato ad un remo.
“Abbastanza, si!” sorrise il bambino. “Ma anche Elsa, che sembra tanto una santarellina, non è così calma! Proprio oggi, ha detto una bugia megagalattica a fratello Lopa” aggiunse, dispettoso.
“Davvero piccola?”
“Ecco, si, non potevo mica lasciare che ti scoprisse, Dima!” si giustificò lei, imporporandosi.
“Nessuno lo direbbe, ma può essere davvero antipatica, certe volte. E furba!” la stuzzicò Dima.
Lei, in risposta, gli fece una linguaccia.
“Vedo, vedo” ridacchiò Petar, osservando i due bambini divertirsi insieme.
“Adesso che si fa?” chiese Dima, dopo un attimo di silenzio.
“Dobbiamo rientrare, vero?” aggiunse Elsa, rattristandosi.
“Credo proprio di si, bambini”
“Vorrei stare qui ancora, tutta la notte! Le lezioni sono così pesanti… teologia, astronomia, matematica, non ne posso già più!” si lamentò Elsa.
“Caspita, quante cose che studi! Con me si limitano a provare ad annegarmi e ad insegnarmi a scrivere!”
“Ti annegano? Non è possibile!”
“Invece è così. Dicono che devo diventare un tutt’uno con l’acqua”
“Ma non ha senso! Potresti anche farti male”
“Io non ho paura”
“Sarebbe bello frequentare insieme qualcosa” pensò lei.
“Si, almeno fratello Gahs non si accanirebbe solo su di me”
“Bambini, questo non sarà mai possibile. La vostra situazione è così complicata, così nuova, che i monaci, il Supremo e gli altri Guardiani non vi permetteranno mai di passare del tempo insieme” disse Petar, cercando di essere ragionevole.
“Perché un giorno dovremmo lottare e cercare di ucciderci l’un l’altra” completò Dima, senza peli sulla lingua.
Elsa sbiancò al suono di quelle parole, diventando più pallida del solito.
“Ma tu ce lo permetti. Perché?” chiese, acuta come sempre.
“Per me è diverso. Io non condivido l’opinione degli altri Guardiani e del Supremo”
“Cosa vuoi dire?”
“Un giorno Cadmow avrà bisogno di voi. Di tutti e due. Le cose stanno cambiando, gli equilibri sono stati alterati, e Dira ha permesso, ha voluto, tutto questo. È da sciocchi tentare di far tornare tutto come prima.
Perché essere tanto pazzi da mettersi contro il volere della Madre?” disse, serio, lasciando correre un fiume di parole inaspettato.
Aveva completamente catturato l’attenzione dei bambini che, per la prima volta, non si sentivano di troppo, sbagliati, un’escrescenza da eliminare.
“Entrambi dovreste sopravvivere, entrambi dovreste guidare la Regione del Nord. Voi dovete essere amici, dovete. È essenziale che non lasciate che altri vi dividano. Non state bene, insieme? Non vi divertite? Cadmow avrà presto bisogno di entrambi” ripeté con forza, afferrando le loro mani, sempre più coinvolto dalle sue stesse parole, sempre più agitato.
“Dovete farmi questa promessa, qui, ora” sembrava disperato, con gli occhi da folle, il Guardiano, mentre pronunciava queste parole.
“Voi siete la speranza di questa terra, l’occasione di ripulirla dal marcio che la ricopre, che è penetrato negli anfratti più inaspettati. Non dovete sottostare alle leggi degli uomini; lasciate che sia Dira a guidarvi. E Dira vi ha scelti insieme, in due, uniti. Voi dovete restare uniti, dovete essere amici. È fondamentale. Siate amici e vivrete entrambi. Io vi appoggerò” quasi scorsero delle lacrime negli occhi chiari dell’uomo, quasi era dolorosa la sua stretta spasmodica sulle loro mani.
“Fidatevi di me. Ho commesso molti errori in passato, ma ora sto cercando di rimediare. Di essere un uomo giusto, di lottare per il bene di Cadmow. Siete voi, la nostra speranza”.
“Ci stai chiedendo di disobbedire ai monaci? Al Supremo e agli altri Guardiani?” cercò di chiarire Dima, spiazzato dalle parole che aveva appena udito, tanto sovversive eppure pronunciate da un Guardiano .
“Si, ragazzo, proprio questo. È l’unico modo per salvare voi e l’intera nostra terra. Nulla può più tornare come prima, è inutile fingere” disse il Guardiano, leggermente più calmo, sforzandosi di dare un tono razionale alle sue parole.
“Ma è rischioso” mormorò Elsa.
“Voi avete dimostrato di essere coraggiosi. E poi, non vedete come è facile, come è bello, essere amici? Non è quello che vorreste anche voi?”
“Io non voglio fare del male ad Elsa, non voglio diventare cattivo. Ho giurato su tutta la mia collezione di bottoni che non avrei mai usato il mio potere per fare del male” disse Dima, risoluto.
“Per me hai ragione, Petar. È da stupidi comportarsi come vogliono i monaci; noi abbiamo Dira dalla nostra parte, e le è unica!” esclamò ancora.
“Allora sarà il nostro segreto, bambini. Non mettetevi mai l’uno contro l’altro, e fate in modo di non farvi mai scoprire. Insieme, farete grandi cose per questa terra” sorrise l’uomo, carezzando la testa di un’Elsa rossa per l’emozione.
“Siamo una squadra, adesso!” concluse lei, sorridendo.
Le mani strette, i cuori vicini, tutto sembrava possibile; Dira era con loro, e anche Petar, tanto divertente e simpatico.
Dima aveva trovato due amici speciali; quella giornata non poteva riservagli sorpresa migliore!
 
 
 
 

Note
Con enorme ritardo rispetto ai primi aggiornamenti, ecco qui questo capitolo, l’ultimo della prima parte. Nel prossimo faremo un bel salto rispetto a questa conclusione, cambieranno alcune cose.
Dima ed Elsa sono di fronte ad un bivio; gli sono stati dati due consigli, due avvertimenti totalmente diversi, e loro devono decidere quale seguire per davvero.
Spero di aver catturato la vostra attenzione, ma per qualsiasi parere, anche critico, aspetto le vostre recensioni!!
Grazie e a presto,
EsterElle
 

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Capitolo 8
*** Sotto le stelle ***


PARTE SECONDA: LA FINE
 

 
Capitolo 8
Sotto le stelle


Una bolla.
Prima piccola, poi sempre più grande, sale lenta fino in superficie, gira e si rigira, prende la luce, cerca la luce, ne vuole riflettere i mille colori, tutti insieme.
E poi, si rompe.
Proprio quando è più bella, più grande, più luminosa che può, infrange la linea dell’acqua e muore.
Una piccola sacca d’aria che si sacrifica nell’immenso cielo azzurro della mattina.
Un’altra bolla. Lo stesso ciclo, la stessa tragica fine.
Un’altra ancora, e poi una quarta.
Dima adorava pensare quando era immerso nell’acqua, quando tutto in lui era leggero, e adorava circondarsi delle effimere bolle. Le lezioni di fratello Gahs erano un ricordo lontano, e ne rideva tra sé e sé. Da anni, ormai, aveva trovato dentro di sé quella fantastica sintonia con il suo elemento naturale.
I capelli chiari fluttuavano intorno ai suoi occhi e le braccia galleggiavano rigide davanti a lui. Nulla era più rilassante del lasciarsi andare, farsi trasportare, cullare, abbracciare dall’acqua. Era come un magia. Anzi, era davvero una magia!
Dima era sotto il grande lago da quasi un’ora. Un po’ per sfuggire alla sua lezione di teologia, un po’ per pensare.
Aveva molto a cui pensare.
Il giorno del suo diciassettesimo compleanno era arrivato e passato da un pezzo e con quello erano piombate addosso al ragazzo tutte le preoccupazioni che per anni aveva volontariamente tenuto lontano.
Mancavano poche settimane al compleanno di Elsa e, per allora, tutto si sarebbe compiuto, tutto sarebbe stato deciso, ultimato. Uno dei due non avrebbe più respirato sotto quel cielo limpido.
Dima scosse con forza la testa, stringendola tra le mani.
Erano pensieri orribili.
- Devo assolutamente parlare con Petar. Non possiamo continuare in questo modo, non possiamo fare finta di avere ancora degli anni davanti a noi- si disse.
Determinato, chiuse gli occhi e si concentrò sull’acqua intorno a lui. Percepì distintamente il suo corpo, le morbide curve del liquido che lo circondavano, sotto di lui, sopra di lui.
Con un piccolo sforzo ancora, iniziò a salire verso l’alto, come una bolla, immobile, guidato dalla sola forza della sua magia. Era un’ascensione lenta ma sicura; quando la sua testa infranse la superficie cristallina, prese il primo vero respiro da un’ora a quella parte.
Zuppo, arrancò verso la riva. Con un ultimo sforzo di concentrazione e un gesto secco della mano, allontanò l’acqua dai suoi vestiti, creando una pozza ai suoi piedi.
- Sarà meglio avvisare anche Elsa -
Da quando Dima aveva iniziato ad avere una padronanza migliore dei suoi poteri, avevano sperimentato un nuovo modo di comunicare; grazie agli insegnamenti di fratello Gahs, da anni ormai si scambiavano messaggi tramite piccoli rivoli d’acqua. Si infilavano sotto le porte, su per l’intelaiatura di una finestra, tra i monaci a mensa e tra i fiori delle aiuole: una volte arrivati a destinazione, prendevano la forma delle parole desiderate da Dima.
Nessuno li aveva mai scoperti fino a quel momento e entrambi erano immensamente orgogliosi della loro arguzia.
Dima si chinò sulla pozza davanti a lui e sussurrò il suo messaggio:
“Questa notte, al lago di Odundì. È importante!”
Un piccolo incoraggiamento, e un rigagnolo d’acqua prese a muoversi verso la Torre, come dotato di vita propria, un piccolo serpentello senza testa e senza occhi ma non per questo cieco. Riusciva sempre a trovare il suo destinatario.
Dima sorrise al pensiero di rivedere Elsa quella notte stesse. Furbo, scrisse un nuovo messaggio nell’acqua:
“Accorcia la gonna e sciogli i capelli: ci sarà anche Petar!”.
Ridacchiò tra sé e sé mentre osservava il rivolo d’acqua correre lontano. Elsa si sarebbe infuriata, ne era sicuro; da quando aveva scoperto l’infatuazione della ragazza per il bel Guardiano dell’Ovest non le aveva concesso un attimo di pace.
Soddisfatto, si avviò verso la Casa, canticchiando a mezza bocca una vecchia canzoncina del suo paese, le mani sprofondate nelle tasche e il cervello sgombro. Era una bella giornata e Dima non aveva nessuna voglia di chiudersi nella Sala delle Preghiere come sarebbe stato suo dovere.
Con circospezione si guardò intorno: nessun monaco in vista, la via era libera.
Con fare noncurante, allora, sistemò meglio la sua borsa carica di vecchie pergamene sulla spalla e svoltò a sinistra. Attraversò i giardini perennemente fioriti del Tempio e raggiunse indisturbato la cascata; si sdraiò su una panchina, preparandosi ad un lungo sonnellino all’aperto.
Non temeva più i monaci come un tempo; in un certo senso, più giorni passavano, più lui stesso acquistava forza e autorità. Raramente, ora, veniva punito come quando era bambino. E poi, era diventato amico di molti di loro; erano persone buone, in fondo, semplici. Si accontentavano di una vita tranquilla, spesa nella meditazione e nella preghiera, ma avevano tanto buon cuore da prendersi cura di un ragazzo scalmanato come lui per molti anni. Quanti grattacapi gli aveva dato, da ragazzino!
Dima sorrise a quel ricordo.
Adesso la situazione era leggermente diversa; stava diventando un uomo e nemmeno una testa calda come lui poteva ignorare tutti i doveri e le responsabilità che questo comportava.
Stava diventando un uomo e presto sarebbe stato Guardiano del Nord, uno dei quattro potenti di Cadmow. O meglio, così si augurava.
Voleva essere Guardiano, Dima, lo voleva davvero; rappresentava il riscatto da un’infanzia povera ed infelice, la possibilità di fare qualcosa di buono per chi si trovava ora nella sua stessa situazione, la bellezza del sentirsi parte integrante del mondo, della natura e di tutto ciò che vive.
Lo desiderava ardentemente.
Ma non a qualsiasi prezzo; non se il costo da pagare era la vita di Elsa.
Dima scosse la testa; erano giorni, ormai, che non riusciva a pensare ad altro. La sua mente si incagliava sempre in quel pensiero, in quel futuro incerto, fumoso, di sangue. Nemmeno Elsa era riuscita a tranquillizzarlo, non lei, la sua voce tranquilla, le sue carezze leggere, le sue visioni vaghe e mutevoli.
Era già tutto scritto? Tutto era stato deciso? Doveva passivamente rassegnarsi ad essere una pedina nelle mani di Dira e degli uomini?
Petar non l’avrebbe mai permesso. Quanta forza infondeva il Guardiano nei ragazzi, quanta speranza!
Non avrebbe permesso alla disperazione di farsi largo nei loro cuori, di questo Dima era sicuro. Non erano soli, per fortuna.
Su questo pensiero, finalmente, riuscì a rilassare la testa e i muscoli, addormentandosi come un bambino tra le braccia della madre.
Peccato, però, che il risveglio non fu altrettanto dolce.
“Mio signore, svegliatevi!” abbaiò una voce stizzita qualche ora dopo.
Dima aprì gli occhi e lentamente riuscì a mettere a fuoco la figura arancione di fratello Ashim.
-Oh, no! Non lui! – fu il suo primo pensiero, mentre alzava le mani sul volto per difendersi dalla luce accecante del sole di metà mattina.
“Vedo che siete incorreggibile come sempre. È vergognoso per un futuro Guardiano saltare le preghiere con così assidua costanza, sapete? Non siete per caso voi, l’intermediario scelto da Dira? È per bocca vostra che, un giorno, la Madre parlerà al suo popolo? Poveri noi, povera la nostra terra!” lo rimproverò, melodrammatico.
Nel frattempo Dima si era seduto sulla panca e, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani sulla faccia, cercava di ritrovare pensieri coerenti.
“Devi dirmi qualcosa di importante, fratello Ashim?” riuscì a chiedere infine, con la voce impastata di sonno.
“Ovviamente, mio Signore. Ho già detto qualcosa di importante; mi sono preso la pena di ricordarvi l’importanza della meditazione, al posto del buon fratello Portus, maestro di teologia. Ma non mi sarei mai scomodato solo con l’intendo di riportarvi sulla retta via; ho un messaggio del Sommo Sacerdote per voi” continuò.
“E sarebbe?”
 “Desidera vedervi nelle sue stanze private; sono giunte notizie dalla Regione del Nord” rispose fratello Ashim, visibilmente stizzito dalla noncuranza con cui il ragazzo riceveva i suoi riproveri.
“Adesso?”.
“Immediatamente. All’istante. Vi consiglierei di correre, come ormai è vostra abitudine fare in qualsiasi luogo di questo Tempio sacro”.
“Non è mica vietato” obbiettò Dima al tono irritato di fratello Ashim.
“Questo lo dite voi, nella vostra suprema ignoranza di ogni codice di comportamento”
“Sarà. Allora vado, giusto?” disse il ragazzo, alzandosi in piedi con ricercata lentezza.
Fratello Ashim restò a guardarlo, rosso di rabbia, sistemarsi con gesti misurati la tunica sulle spalle, controllare le pergamene nella borsa, sciacquarsi il viso con l’acqua della fontana e passarsi le dita umide tra i riccioli castani. Infine, con un ultima occhiata canzonatoria verso il monaco, il ragazzo alzò una mano in segno di saluto e si avviò verso la casa strascicando i piedi ad ogni passo.
Non appena Dima fu sicuro di essere fuori dalla visuale del monaco, scoppiò in una risatina liberatoria e, con un piccolo balzo, spiccò una corsa leggera.
Niente gli dava più soddisfazione del fare impazzire il ligio fratello Ashim, Maestro della Casa, odioso fin dal suo primo giorno ad Odundì.
In realtà Dima era piuttosto curioso rispetto a quello che il Sommo aveva da dirgli. Da molto tempo, ormai, la situazione nella Regione del Nord era assai complicata, e il ragazzo non vedeva l’ora dell’arrivo di una bella notizia.
Così, non appena ebbe raggiunto le sale private del Sommo Sacerdote, spalancò la doppia porta senza nemmeno bussare.
“La Muraglia è stata abbattuta, vero?” chiese, entrando come una furia, accaldato per la corsa e rosso in volto.
Nella stanza, i presenti rimasero a dir poco stupiti.
Il Sommo Sacerdote non era solo; un uomo girato di spalle stava parlando con lui, alto, imponente. Quando si girò verso il ragazzo, fu impossibile per Dima non riconoscere la barba grigio ferro e gli occhi scuri profondamente incavati di Orwen, Guardiano del Sud.
Nessuno riusciva a mettere in soggezione Dima come quell’uomo; si erano visti molte volte, in quegli anni trascorsi ad Odundì, e mai quella sensazione di essere osservato, analizzato, giudicato era svanita in presenza di quel preciso Guardiano.
Orwen era tutto il contrario di Petar; serio, posato, dalla voce profonda ma di poche parole, controllava regolarmente i progressi del ragazzo in tutti gli ambiti della sua formazione, dalla manipolazione, alla meditazione, alla politica.
Era come un severo preside, un padre duro e attento, implacabile e difficile al perdono. Se Petar era l’amico che aveva sempre voluto, spensierato, giocherellone, amante dell’avventura, Orwen era il tipo di Guardiano potente e impietoso che Dima non avrebbe mai voluto essere.
“Signore” disse, chinando leggermente il capo, come gli era stato insegnato di fare in presenza di altri suoi pari.
“Ragazzo, non credo che questo sia il modo appropriato di presentarti al tuo ospite, al padrone della casa che ti ha accolto per questi anni” lo redarguì l’uomo, puntando su di lui gli occhi scuri e profondi.
“Mi dispiace”
“Non è a me che devi chiedere scusa. Comportati come si conviene ad un futuro Guardiano”
“Ti porgo le mie scuse, Sommo Sacerdote di Odundì, giuda di tutti i fedeli, pastore della dottrina di Dira” mormorò Dima, completamente sottomesso da un’autorità tanto forte.
Orwen non aggiunse altro.
Con poche parole bisbigliate al monaco, si congedò, dirigendosi verso la porta. Quando arrivò all’altezza del ragazzo, si prese del tempo per osservarlo dalla testa ai piedi.
Dima pensò allo stato della sua tunica, spiegazzata e macchiata d’acqua, ai suoi capelli spettinati, al volto arrossato: come avrebbe voluto non aver dormito, non aver corso!
Il Guardiano fece un smorfia di disapprovazione e, senza un saluto, lasciò la stanza.
“È stato un piacere vederla, signore” mormorò Dima al vuoto, sforzandosi di mettere in pratica le sue poche conoscenze di buone maniere.
Infine, nella stanza non rimase altro che il Sommo Sacerdote, muto fino a quel momento.
“Vieni, Dima, accomodati” gli disse, indicando una sedia morbidamente foderata di velluto viola.
“Ovviamente non gioisco della tua pessima figura con il Guardiano del Sud; è un uomo giusto ed esigente e pretende esattamente che tu sia sempre memore del tuo ruolo e del tuo dovere. Probabilmente noi monaci ti concediamo troppe libertà” disse, mormorando l’ultima parte, quasi diretta a sé soltanto.
“Mi sono scusato come si conviene, credo” ribatté Dima, leggermente stufo di tutti quei rimproveri. In fondo, si era semplicemente dimenticato di bussare ad una porta dopo una bella corsa. Non aveva mica appiccato il fuoco all’intero Tempio!
“Si, Dimitar, ma non è sufficiente. La disciplina è ciò che di fondamentale devi imparare; devi apprendere come educare il corpo e i pensieri, per essere sempre in armonia con ciò che ti circonda”.
Dima si limitò ad annuire. Per lui quelle parole non avevano alcun senso; era come chiedere ad un leone di carezzare l’agnello invece di inghiottirlo in un sol boccone. Come avrebbe potuto modificare di tanto la sua natura?
“Ma non è questo il punto che mi preme discutere con te oggi” continuò il Sommo, sedendosi dietro il suo tavolo e massaggiandosi la fronte con una delle grandi mani.
Aveva un’aria stanca del tutto particolare, come se troppi pensieri si rincorressero dietro quella linea.
Da quando Dima aveva smesso di vedere e parlare con Elsa alla luce del sole, le cose con il Sommo erano andate per il verso giusto. Era stato un uomo di parola: si era mostrato tollerante per le molte mancanze di Dima, come un padre indulgente verso un figlio avventato. Se, però, fosse venuto a conoscenza di tutta la verità, Dima era certo che avrebbe sperimentato la sua rabbia e ogni terribile conseguenza per il suo già incerto futuro. Avrebbe protetto in tutti i modi il loro segreto, ma entrambi i ragazzi dovevano fare molta attenzione al Tempio.
Con il passare degli anni, i monaci, convinti che i due bambini non si fossero più visti né parlati da quei primi giorni, avevano persino smesso di pronunciare al’uno il nome dell’altra e viceversa.
Come se non fossero mai esistiti due Prescelti.
Come avrebbero reagito se fossero venuti a sapere che Dima ed Elsa non solo avevano contatti tra loro, ma erano legati l’un l’altra come fratelli?
Dima deglutì a vuoto, aspettando che il Sommo Sacerdote prendesse nuovamente la parola.
“Si tratta della Regione del Nord” continuò l’uomo, sempre ad occhi chiusi, dopo qualche minuto di silenzio.
“La Muraglia?”
“Si, Dimitar”
“Ma allora avevo ragione! Finalmente non è più necessaria!” esclamò il ragazzo, illuminandosi.
“Tieni a freno il tuo entusiasmo. Le tue sono informazioni fittizie, che la tua mente produce solo perché è quello che desidera sentire”.
“Casa intendi dire?”
“Nessuno ha mai detto che la Muraglia verrà presto abbattuta, ragazzo”
“Quindi non… non mi hai chiamato qui per questo?”
“Dimitar, rifletti! Non è per un miglioramento della situazione che se qui. Tutto sta andando per il verso sbagliato, al Nord” continuò il Supremo, guardando Dima fisso negli occhi.
“Quindi l’epidemia non è ancora stata sconfitta?” domandò il ragazzo, torcendo il volto.
“Non è così semplice, lo sai bene anche tu. Si diffonde tanto rapidamente, è quasi impossibile isolarne tutti i casi”.
“Impossibile?” ripeta Dima, leggermente accaldato.
“I medici stanno facendo quel che possono; è rischioso per tutti avvicinarsi ai malati, il contagio è veloce e noi non possiamo permetterci di perdere i nostri migliori Guaritori”
“Quindi mi stai dicendo che non è stato fatto tutto il possibile? Che i malati vengono abbandonati a loro stessi, senza cure, senza soccorsi?”
“No, Dimitar. La Regione del Nord formicola di aiuti, di volontari e medici. Sto dicendo che è impossibile per le altre Regioni inviare soccorsi” chiarì il Sommo, con voce dura.
“Sono cinque anni, signore, cinque anni. Come è possibile che un intera Regione sia afflitta da questa piaga da cinque anni?” chiese Dima, alzandosi in piedi, nervoso. Prese a camminare per la stanza, costeggiando il bel tappeto del Sommo.
“È stata fatta ogni cosa per evitare che il male si diffonda nel resto di Cadmow, per far si che resti dentro la Regione del Nord”.
“Si, avete costruito quella maledetta Muraglia!” esplose Dima, al quale la Muraglia non era mai piaciuta.
“Così che, adesso, tutto sembra morire, infetto, avvelenato, contagiato! Non abbiamo più legname, né ghiaccio da vendere, nessuno importa più le loro merci al Nord, e le persone muoiono come mosche!” continuò il ragazzo, memore dei precedenti incontri sul tema.
“Hai centrato il problema in pieno, Dimitar. La gente muore per la malattia, muore di fame, muore per il freddo. È un territorio ridotto allo stremo”.
“Ma allora buttiamo giù quel Muro! Facciamo si che i soccorsi accorrano numerosi, che tutti coloro che desiderano aiutare lo possano fare! Inviamo soldati, per impedire lo sciacallaggio e i furti, uomini per seppellire i morti dignitosamente, soccorritori che portino cibo e coperte, Guaritori, soprattutto, i migliori luminari del tempo. Aiutiamoli come possiamo! Ormai saranno rimasti pochi gli uomini al Nord in grado di soccorrere i malati”.
“E lasciare che l’epidemia si diffonda in tutta Cadmow, Dimitar? Davvero ti sembra una buona idea?”.
“Lasciare che un intero popolo muoia senza poter far niente, invece, è un’idea migliore?” ribatté prontamente il ragazzo.
Dima era accaldato, e il cuore gli batteva forte in petto. Le persone in difficoltà andavano soccorse, punto e basta. Era tanto semplice, per lui, questo ragionamento, tanto lineare. Non poteva dimenticare quando, da bambini, lui e Teppe guardavano verso la capitale, sperando di veder arrivare carri carichi di buon cibo, quello che sulle loro tavole mancava sempre.
“C’è una lezione che devi imparare, Dimitar” iniziò il Sommo Sacerdote, avvicinandosi a lui e posandogli le mani sulle spalle. Ormai il ragazzo era più alto dell’uomo e la situazione sembrava stranamente ribaltata.
“Spesso chi ha il potere di prendere decisioni, deve compiere delle scelte difficili; il Gran Consiglio ha messo il bene dell’intero regno davanti a quello dei singoli, sconosciuti, individui. È la cosa giusta da fare” continuò, battendo piano una mano ruvida sul petto del ragazzo.
“Non per loro, Sommo. Non per il popolo del Nord, che vede morire sotto i propri occhi figli e mariti e genitori. È talmente innaturale, tutto questo!” disse Dima, leggermente più ragionevole.
Il monaco diceva la verità; era giusto, forse, mettere a rischio la vita di tutti?
Ma cosa fare allora? Come aiutare senza ferire?
Dima si scervellava alla ricerca di una soluzione. Batteva nervoso una mano sul fianco, mordendosi il labbro inferiore. Infine, un’idea brillante illuminò quell’oscurità.
“Sommo, ti prego, permettimi di andare al Nord”.
“Come dici?”
“Permettimi di andare a Nord! Io sono il Guardiano, io sono l’essenza di quella Regione. Il Nord vive in me, in me vivono tutti i cittadini! Sono certo di poter fare qualcosa per loro; ormai sono bravo a gestire il mio potere. Posso risanare quella terra perché è la mia terra, la terra che Dira ha scelto di affidare a me! Col suo aiuto, qualcosa potrà essere fatto, vedrete!” spiegò Dima, accalorandosi nuovamente.
Un sorriso di gioia si dipinse sul suo volto; non sapeva bene cosa stava dicendo, ma sentiva che era la soluzione giusta.
Lui doveva andare a Nord!
Il Sommo, però, era di tutt’altro avviso:
“È fuori discussione, Dimitar!” esclamò secco, tornando a sedersi al suo posto, dietro il tavolo ingombro di fogli.
“Come? È a soluzione giusta, invece, fidati di me!”
“Affatto, ragazzo. Sei solo esaltato dai tuoi poteri e dal tuo ipotetico ruolo politico, ti stai sopravvalutando. Non puoi fare niente per la Regione del Nord”
“Ma perché? Chi meglio di me potrebbe aiutare quel popolo?”
“Forse hai dimenticato, Dimitar, in tutti questi anni, che non sei solo qui. Che ancora non c’è certezza; potresti anche non essere tu il futuro Guardiano del Nord” disse quello, serpentino, con voce stranamente animosa.
“Elsa” mormorò Dima, come a confermare le parole dell’uomo.
“Vedo che la tua memoria non fa difetto” replicò il Sommo. “Quindi, concorderai con me quando dico che nulla può essere fatto dal Guardiano del Nord fino al giorno della tua investitura. Si rivelerebbero inutili e rischiosi sforzi”.
Dima non ebbe il coraggio di pronunciare una sola parola.
“Bene, sono lieto di vederti  finalmente ragionevole. Era mio dovere aggiornarti sulla situazione e presto ti farò sapere se vi sono delle nuove. Per il momento è tutto, puoi andare” lo congedò, gelido.
Dima chinò la testa e uscì dalla Sala senza discutere ulteriormente.
Il Sommo aveva molti volti, lo sapevano tutti; era un uomo duro, adatto al comando, mutevole.
Dima non rimase sorpreso da tanta decisione, della gelida autorità con cui l’aveva trattato; il Sommo concedeva ai suoi sottoposti solo un impressione di libertà ed esercitava la sua legge con un pugno di ferro.
Scaltro, ma non abbastanza.
Dima era irritato; sapeva di aver trovato la soluzione giusta ai problemi di centinaia di uomini. Come poteva non essere messa in pratica a causa per la stupida legge che vedeva lui ed Elsa come nemici giurati?
Mentalmente, aggiunse un appunto alla lunga lista di problemi che avrebbe voluto discutere quella notte, con Petar. La situazione nella Regione del Nord stava andando troppo oltre; bisognava assolutamente intervenire, prima che la malattia decimasse del tutto i suoi abitanti.
- I miei cittadini- si corresse mentalmente.
Non era per niente facile riconoscersi come guida di qualcuno avendo passato quasi la metà della propria vita isolato in un Tempio sotto terra.
Dima era tanto nervoso da non badare a dove metteva i piedi; così si ritrovò ben presto ai margini dell’Orto. Definirlo orto era proprio un’esagerazione; in realtà si trattava di un piccolo appezzamento di terra congiunto al Prato della Meditazione, molto caro ai monaci. Fratello Tonse se ne occupava con cura e dovizia da decenni.
“Buonasera, mio Signore” salutò il monaco, chino su una pianticella patita di pomodori.
“Buonasera fratello” rispose Dima, distrattamente.
“Pregate per me, Signore. Fate che Dira aiuti queste povere pianticelle” lo supplicò il monaco, mogio.
“C’è qualcosa che non va? Il terreno non è abbastanza fertile?” si informò Dima, giusto per distrarsi.
“Oh, no, nulla è migliore del terreno di Odundì. Il problema, mio Signore, è l’acqua”
“L’acqua?”
“Non vi siete accorto che non piove da mesi, quaggiù? Le piante ne soffrono terribilmente; noi monaci siamo troppo vecchi per trasportare i secchi da una parte all’altra del Tempio” spiegò quello, mettendosi dritto in piedi con una smorfia e una mano sulla schiena.
“Ma, fratello, perché non me ne hai mai parlato? Io posso aiutarti!” ribatté Dima, allibito.
Gli sembrava tanto ovvio: lui aveva il potere di manipolare l’acqua, giusto?
“Mio Signore, non possiamo distogliervi dai vostri studi per contrattempi tanto banali. Voi siete destinato ad utilizzare il vostro dono per compiti ben più importanti”.
“Cosa c’è di meglio che donare la vita, con il mio potere? Permettimi di aiutarti fratello” disse Dima, più dolce.
Chiuse gli occhi e, aprendo il palmo della mano davanti a sé, iniziò a far sgorgare acqua dalla punta delle sue dita. Goccia dopo goccia, il campo fu presto ben irrigato: Dima aprì gli occhi e spianò le rughe di concentrazione, soddisfatto.
Manipolare l’acqua diventava ogni giorno più facile.
“Che te ne pare, Tonse?”
“È perfetto, mio Signore. Siete stato molto bravo a ricreare l’effetto della pioggia” lo lodò quello, sinceramente colpito.
“Si, la conosco bene, la pioggia” sorrise Dima, strizzando l’occhio al monaco.
“Ma, fratello, è sbagliato dover dipendere dalla carità di qualcuno. Se non fossi passato di qui avresti lasciato morire le tue piante?” continuò, cercando di essere davvero di aiuto al monaco.
“Signore, non avevo altra scelta: il lago è troppo lontano, e questi poveri ortaggi non possono vivere senza la pioggia” rispose quello, leggermente urtato.
“Vedi, Tonse? Dipendi dalla pioggia, dalla magia, dalla misericordia di Dira. Perché non prendi tu stesso in mano la situazione?”.
“Ma cosa state dicendo?”
“Hai mai sentito parlare di canali di irrigazione?” disse Dima, sorridendo.
A grandi gesti, il ragazzo riversò tutto il suo sapere sul povero monaco; Dima aveva assistito, ad Imbris, alla costruzione dell’unico canale della città. In fondo, in un paese ricco di pioggia come il suo, non ve ne era veramente bisogno.
Così, parla che parla, riuscì a convincere fratello Tonse a mettersi al lavoro e, insieme, diedero il via ai lavori di costruzione.
Non erano esperti e spesso dovettero tornare indietro, scavare a fondo, disegnare nuovi tracciati; il sole era alto in cielo e il lavoro faticoso. Sotto lo sguardo di disapprovazione del monaco, Dima fu presto a torso nudo, i capelli impiastrati di terra e la faccia sporca. Lavoravano in silenzio, seguendo le precise istruzioni che avevano concordato. Era un lavoro lungo, che avrebbe richiesto molti giorni per essere ultimato, ma il ragazzo era contento di aver suggerito quell’idea.
Dima si stupì di quanto il lavoro potesse fargli bene.
Il nervosismo, la preoccupazione, la paura, scivolavano giù lungo la pala, si disintegravano grazie ai duri colpi scagliati sul terreno morbido del Tempio. Niente era difficile e la monotonia del compito lo aiutava a non pensare, non pensare a nulla, se non al suo braccio, alla fronte sudata e solco che stava scavando.
Tutto era semplice, meravigliosamente semplice.
- Altro che Guardiano! Niente al mondo è bello e utile come il prendersi cura della propria terra- pensò, deciso, mentre strofinava le mani umide sui pantaloni.
Il sole calava lentamente e Dima lavorava.
Dentro e fuori di lui tutto taceva.
 

 
Dima alzò il cappuccio del mantello scuro sul volto: mai Petar avrebbe potuto donargli un oggetto più utile!
Cercando di fare il meno rumore possibile, sgattaiolò fuori dalla Casa, ed, una volta fuori, restò solo la luce della luna di Odundì a guidare i suoi passi.
Da quando aveva iniziato a fuggire di nascosto in superficie, Elsa aveva letto ogni manuale sul tunnel; così, Dima era venuto a conoscenza della data in cui era stato costruito, del materiale nel quale era stato scavato e, soprattutto, di ogni via e ogni cunicolo che lo componevano. Con decisione passò oltre l’imboccatura e, una volta dentro, si affrettò ad accendere la lanterna che aveva portato con sé.
Il chiarore giallo della candela rese davvero semplice la traversata; con la sicurezza di un esperto, prese il cunicolo che lo avrebbe portato in un posto sicuro, lontano dai posti di guardia di superficie.
Il lago era tanto grande da impedire la vista della sponda opposta; ma Dima sapeva bene che, dall’altro lato, lo attendevano i due monaci di ronda, armati e potenti.
L’aria fresca della notte gli scombinò i capelli.
Niente era bello come stare lassù, nel mondo vero, nel mondo che era suo, al quale si sentiva di appartenere anima e corpo. Dima ispirò a lungo il profumo dei fiori di campo e, infine, si concesse un’occhiata intorno.
Come aveva immaginato, Elsa era già arrivata, puntuale come sempre.
Stava tranquillamente sdraiata sul prato, poco lontana dall’imboccatura del tunnel dal quale erano usciti entrambi, le braccia piegate sopra la testa. Col viso rivolto al cielo, ne scrutava l’oscurità, rilassata. Piccola e delicata, non era cresciuta molto in altezza, in quei sette anni; vicino a lei, si aveva sempre la sensazione che sarebbe stata portata via dal primo soffio di vento.
Dima si avvicinò in silenzio, per poi crollare pesantemente a terra alla sua destra.
Elsa lanciò un gridolino, prontamente fermato dalla mano del ragazzo sulla sua bocca.
“Ma sei pazzo?” bisbigliò lei, una volta libera.
“È stato divertente” ridacchiò il ragazzo.
“Per te, forse” ribatté lei, sgranando i grandi occhi grigi.
“Non farlo mai più!”
“D’accordo, d’accordo” sghignazzò Dima, sdraiandosi accanto a lei e alzando lo sguardo verso il cielo.
“Cosa stavi facendo?”
“Indovina?”
“Guardavi le stelle?”
“Si. Nel Mondo di Sotto non sono così belle”
“Ma sono pur sempre stelle, no?”
“Non pensi mai che queste stesse stelle le guardano milioni di persone in questo momento? Siamo sotto lo stesso cielo di tutti i popoli di Cadmow, finalmente. Per una volta non ci escludono”
Dima rimase in silenzio. No, non ci aveva mai pensato.
“Come stai? Sono settimane che non ci vediamo” le chiese, per cambiare discorso.
“Abbastanza bene. I monaci non fanno altro che mettermi alla prova”
“In che senso?”.
Elsa sospirò “Lo vuoi proprio sapere?”.
“Certo” ribatté pronto Dima, che iniziava a preoccuparsi.
“Vogliono allenarmi perché io possa avere qualche probabilità di vincere contro di te, quando dovremmo affrontarci”.
“Che cosa?”
“Dai, Dima, non fare finta di non saperlo. Se non potremmo fare a meno di scontrarci, io non ho uno straccio di possibilità contro di te. E questo angoscia i miei istruttori” disse lei, leggermente irritata.
“Ma questo non è vero! Il tuo dono è talmente speciale, Elsa! Sei inarrivabile”.
“Io conosco il futuro, è vero. Quando capita, però. Non ho il minimo controllo sul mio potere, lo sai. Tutte le volte che ho una visione, divento inerme, come il più insignificante degli  insetti” ribatté lei, evitando di guardarlo, con voce tremula.
“Potrai schiacciarmi facilmente, se vorrai” aggiunse.
“Elsa, ma che diavolo stai dicendo? Tu sei più forte di così!” esclamò il ragazzo, mettendosi a sedere per guardarla negli occhi.
Elsa lo guardò di rimando, come alla ricerca. La luce della luna ne illuminava i lineamenti sottili, le ciglia folte e le labbra pallide; sembrava lottare con se stessa, nella speranza di ritrovarsi.
“Hai ragione, Dima. Mi sto lasciando condizionare troppo dai monaci. Noi troveremo una soluzione, costi quel che costi. Non ci scontreremo: siamo amici” disse infine con un fil di voce, spalancando gli occhi verso il cielo.
“Ecco, ora si che ti riconosco! Insieme siamo invincibili!” fece lui, a voce forse troppo alta, alzando un pugno al cielo.
“Non urlare, Dima!” disse lei, ridacchiando.
Elsa era più bella quando sorrideva.
Il ragazzo si sentì autorizzato a farle passare del tutto la tristezza.
Con un piccolo movimento delle dita, creò un sottile filo d’acqua e iniziò a farlo danzare, a farlo passare  tra i suoi capelli intrecciati, sotto il suo naso, fino a legarle insieme i piedi, le mani, la vita, fino a farle il solletico.
Risero, più leggeri.
“Va bene, va bene, il momento negatività è passato! Tra poco arriverà Petar non può trovarci a giocare come due bambini!” disse infine lei, ancora sorridendo, sistemandosi i capelli sfuggiti alla pettinatura durante il gioco.
“Oh, Petar” le fece il verso Dima, sbattendo più volte gli occhi.
“Che idiota che sei”
“Oh Petar, che bello che tu sia qui!” continuò il ragazzo, arricciandosi immaginarie ciocche di capelli sulle dita.
“Piantala, Dima”
“Ma guarda che sei tu che ti sciogli non appena lo vedi”
“Sono fatti miei!”
“Basta che non ti rendi ridicola”
“Io non sono ridicola!” si inalberò lei.
“Certe volte…”
“Dima, ti conviene stare zitto”
“Altrimenti?”
“Altrimenti ti… ti…”
“Si?”
“Oh, come sei irritante certe volte!” sbuffò lei, dandogli uno schiaffetto leggero sulla spalla.
Dima rise.
Aveva ragione lei; Elsa non faceva paura ad una mosca.
Eppure il suo potenziale era enorme, instabile, incontrollabile. Lei stessa era vittima del suo stesso potere.
Da sempre i Guardiani del Nord avevano avuto l’abilità di conoscere il futuro, di vedere attraverso gli anni. Fratello Agos gli aveva spiegato che era un’abilità legata all’acqua, ovviamente. Era un richiamo all’estrema chiarezza, purezza dell’elemento; così come si vede il letto del fiume attraverso le sue acque turbolente, così il Guardiano del Nord poteva guardare attraverso le oceani del tempo.
Una persona sola aveva sempre riunito in sé entrambe le abilità, la manipolazione e le visioni; ma la loro situazione era del tutto straordinaria e nulla poteva ripetersi come era sempre stato. Semplicemente, come il Guardiano si era sdoppiato, così si erano separati i suoi doni. Ad ognuno il suo.
“Nel frattempo che facciamo?” chiese Dima, stendendosi sul prato, testa a testa con Elsa.
“Non lo so. Se vuoi ti insegno a riconoscere le costellazioni” propose lei.
Quando Petar raggiunse il luogo dell’incontro dalla vicina Regione dell’Ovest, lì trovò così: stesi sul prato, le teste vicine, una castana l’altra bionda, le mani sollevate verso il cielo, a tracciare disegni nel vuoto.
Gonfiò il petto, prese un respiro profondo e si lasciò andare ad un’enorme sorriso, come se non potesse contenere la gioia che gli procurava quella visione. E, forse, era proprio così.
Non si avvicinò subito; invece, si inginocchiò e, a mani giunte, ringraziò silenziosamente Dira.
“Perdonami e continua a restarmi vicino, Madre mia” bisbigliò infine, alzandosi.
Quando raggiunse i ragazzi, quelli abbandonarono immediatamente la loro occupazione.
“Petar!” esclamò Elsa, imporporandosi immediatamente.
“Ragazzi” salutò lui, ammiccando.
Dima si alzò per battergli una pacca sulla schiena.
“Come stai, vecchio?”
“Vecchio, ragazzino? Sono ancora nel fiore degli anni!” rise l’uomo, ancora agile e prestante nonostante i quarant’anni compiuti.
“Come state voi, piuttosto?” disse ancora, allontanandosi una ciocca di capelli castani, ormai leggermente ingrigiti, dalla fronte.
“Più o meno bene, se non consideriamo il fatto che tra pochi giorni potremmo non essere più vivi” provò a scherzare Elsa, guadagnandosi uno sguardo severo da parte dell’uomo.
“E tu, ragazzo?”
“Le cose vanno sempre peggio, Petar. Non possiamo più stare ad aspettare con le mani in mano. Tra poche settimane ci metteranno l’uno di fronte all’altra” iniziò quello, caricandosi.
“Lo so bene, questo” affermò l’uomo, sedendosi sul prato.
“Hai qualcosa in mente? Cosa possiamo fare per salvarci?” chiese Elsa, arrossendo di nuovo.
- Quella ragazza deve controllarsi un po’ meglio- pensò Dima, irritato, mentre raggiungeva gli altri due sul prato.
“Ci penso da molti anni, e continuo a vedere un’unica soluzione; credo che la conosciate anche  voi” rispose Petar, senza troppi giri di parole.
“Forza, Petar, dillo ad alta voce”
“Dovete fuggire”
“Come? Ma se fuggiamo noi… saremmo come dei fuorilegge?” si preoccupò Elsa.
“Peggio”
“Saremmo ricercati in tutti gli angoli del regno” concluse Dima con foce funebre.
“Esatto. Ma ricordatevi una cosa: voi siete Guardiani, due delle persone più potenti in tutta Cadmow. Sarà molto difficile mettervi alle strette” aggiunse Petar.
“Ma cosa ne sarà delle nostre vite? Dovremmo nasconderci per sempre?”
“Non credo che avremmo altra scelta, Dima” rispose Elsa, logica.
“No ragazzi, io non la penso in questo modo. Voi non vivete più a Cadmow da sette anni, ormai, non sapete che aria tira quassù. E posso tranquillamente dirvi che non ci sono in serbo delle belle sorprese” parlò Petar, prendendo la mano sottile della ragazza, alla sua destra.
Le guance di Elsa si tinsero di rosso all’istante “Cioè?” chiese, lieve.
“State certi che, se fuggirete, il mondo che conoscete non esisterà più”
“Due Guardiani, Prescelti da Dira, in fuga. Di certo questa sarà un bella novità. Nessuno potrà fare finta di niente” rifletté Dima.
“Non solo. Ci sono grandi cambiamenti nell’aria. La Muraglia, per esempio…”
“Quell’odiosa Muraglia! Deve essere abbattuta immediatamente, Petar!” inveì all’istante Dima, memore dei discorsi di quella mattina.
“Piano, ragazzo. La Muraglia sta creando moltissimi problemi, ben più di quelli che voi potete immaginare. Provate a pensare: cosa succede alle altre Regioni del regno se dal Nord non entra o esce più niente e nessuno da più di sette anni?” li interrogò Petar, concitato.
“Non saprei…”
“Pensa, Dima!”
“L’economia! È un disastro economico quello che ci aspetta!” esclamò Elsa, intuitiva come sempre.
“Brava, piccola. Da anni è tutto bloccato; il Nord non compra più i cereali del Sud, né le erbe curative dell’Est o le sete e i tessuti della mia Regione. È un vero e proprio tracollo; per di più, la Regione del Sud soffre terribilmente la mancanza di ghiaccio. Io ho cercato di fare il possibile, ho mandato uomini e bestie fino alle cime più alte dei miei monti, ma non posso eguagliare le forniture del Nord” spiegò Petar.
“È molto peggio di quello che sembra” mormorò Dima, che non era stato sfiorato da pensieri di questo tipo, tanto era concentrato sulla malattia.
“Ma perché non buttano giù la Muraglia, allora?” chiese Elsa.
“Orwen vorrebbe. Ma ne io né Safnea lo appoggiamo e senza il nostro aiuto è un’impresa a dir poco titanica”.
“Cosa? Davvero Petar non vuoi mettere fine a questo sfacelo?” strepitò Dima.
“Taci, ragazzo, tu non sai niente” bisbigliò duramente Petar. “La Muraglia è l’unica cosa che ci ha permesso di conservare la pace in tutti questi anni”.
“Che vuoi dire?”
“Orwen è pronto. Ha un esercito armato fino ai denti che ad un suo minimo cenno andrà a Nord a prendersi ciò che gli spetta di diritto. Non si fida del Supremo, non accetta più di essere tenuto fuori da quei territori. La Muraglia è la migliore difesa per la vostra Regione, in questo momento. Ma non reggerà a lungo alla furia del Sud se Orwen deciderà di aprire il fuoco. I suoi soldati apriranno una breccia nel muro, e allora non ci sarà più un futuro per voi come Guardiani, né per l’intera Cadmow” sentenziò Petar, con voce glaciale.
Una guerra.
Dima rischiava la sua vita, quella di Elsa, la sua Regione era povera e malata ed ora il suo popolo correva il pericolo di perdere la libertà. C’era qualcos’altro che poteva ancora andare storto?
“Dobbiamo tornare a casa, al più presto”.
Il ragazzo cercò la mano di Elsa; intrecciarono le dita l’uno con l’altra e una preghiera volò all’unisono verso il cielo scuro trapunto di stelle.
 
 

 
Note
Eccoci alla seconda parte, finalmente! Non vedevo l’ora di pubblicare questo capitolo, lo ammetto! So che è moolto lungo, spero non sia un problema…
I toni iniziano a farsi più cupi e verranno al pettine parecchi nodi. Spero di riuscire a far proseguire la trama come ho immaginato all’inizio, ma ammetto che non è semplice scegliere cosa svelare e cosa no in ogni capitolo! Ho bisogno del vostro parere: secondo voi la trama fila abbastanza? E i personaggi? Subiscono cambiamenti o prendono decisioni troppo velocemente? Insomma, sono abbastanza credibili?
Sono qui, pronta a ricevere ogni tipo di parere!
Grazie a tutti, i lettori silenziosi, i visitatori, i recensori!
A presto,
EsterElle

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Capitolo 9
*** Rosso rabbia ***


Capitolo 9
Rosso rabbia



 
La notte era scura, nel Mondo di Sotto. Poche stelle illuminavano quel cielo e la luna era oscurata da grandi nubi.
Due figure si stagliavano contro l’imboccatura del tunnel, protette dalla sua cavità, i volti illuminati grazie ad una lanterna.
Il ragazzo poggiava le spalle alla parete di roccia e terra, insudiciandosi la bella tunica, e, a gambe incrociate gesticolava a più non posso.
La ragazza, invece, se ne stava rannicchiata, le gambe contro il petto e il mento sulle ginocchia. Aveva gli occhi stanchi e vitrei per il sonno, ma ascoltava attenta gli sproloqui del compagno.
“Dovremmo chiedere un permesso, Elsa, o qualcosa del genere. Non possiamo starcene qui con le mani in mano mentre quelli che dovremmo proteggere soffrono e vengono attaccati dalla Regione più potente di Cadmow!” stava dicendo, bisbigliando con forza.
“Ma Dima, noi non siamo ancora pronti. Io non lo sono! Non sono brava a gestire il mio potere”
“Non ti devi preoccupare per questo. Siamo una squadra: tu farai la mente ed io il braccio”
“E secondo te funzionerà? Noi due contro la Regione del Sud?”
“Ma certo! Perché non siamo soli: Petar è dalla nostra e anche il Supremo ci appoggerà. Insieme, scoraggeremo qualsiasi attacco da parte di Orwen e aiuteremo la nostra gente a guarire da questa malattia. È perfetto, Elsa!” si esaltò lui, prendendole una mano.
“Non direi, Dima. Noi non possiamo allontanarci da questo posto, non prima del mio compleanno. Ricordi? Non possono esserci due Guardiani del Nord”.
“Ci saranno, invece”
“Come?”
“Faremo come dice Petar, fuggiremo”
“Petar è così coraggioso nelle sue scelte. Viene qui, ci incoraggia ad essere amici contro le regole, ci sostiene e ci suggerisce un piano di fuga: io non so se potrò fare altrettanto. Ho paura” ammise lei, a testa bassa.
“Ma allora cosa vuoi, Elsa? Vuoi che ci scoprano, che ci dividano ancora e puniscano Petar in chissà che modo orribile?”
“No! Assolutamente no!”
“Non abbiamo altra scelta, allora”
Lei sospirò.
“Insieme?”
“Sempre”
“Non so come farei ad affrontare tutto questo da sola. È bello averti qui con me” sorrise lei, leggermente imbarazzata.
“Già. Non riesco ad immaginare come abbiano fatto gli altri Guardiani a vivere ad Odundì circondati solo da monaci” annuì lui.
“Sai cosa penso, certe volte?”
“No, dimmi”
“Che non è stato tutto uno sbaglio. Dira vede più lontano di noi, dicono sempre i monaci. Ecco, per me è vero: lei sapeva che divisi non avremmo mai potuto farcela” sorrise lei a quel pensiero.
“Mi piace pensare che le cose siano andate così” aggiunse.
“Già. Oppure si era stufata di dover scegliere sempre e solo un Guardiano” ridacchiò lui.
“Scemo”
“Che c’è? Anche un dio può annoiarsi! Pensa di fare la stessa cosa, ciclicamente, per più di mille anni; dopo un po’ ti viene a nausea!”
“Se ti sentissero i monaci!” sorrise lei.
“Se mi beccassero qui, con te, nel cuore della notte a chiacchierare amabilmente, non credo che farebbero molta attenzione alle mie parole”.
“Cosa potrebbe succederci, secondo te?”
“Ci spedirebbero a casa, vergogna della nostra gente. E il Supremo resterebbe reggente fino alla nuova Cerimonia della Carta”.
“Come lo sai?”.
“Il Sommo mi minacciava così, quando ero più piccolo, per scoraggiarmi e rendermi un bambino ubbidiente”.
“Una causa persa in partenza, allora!”
“Ma io sono stato bravo!”
“Certo! Come quella volta che mi hai messo un pesce morto nel vestito?”
“Ma si, avevo solo tredici anni! E poi, eri davvero ridicola, e divertente, mentre saltellavi da tutte le parti per lo schifo” rise lui, al ricordo.
“Davvero molto simpatico” gli fece la linguaccia lei.
Risero un po’ al ricordo degli anni trascorsi insieme; sulla superficie del lago, insieme a Petar, a giocare a nascondino nel boschetto, nel cuore della notte, ad esplorare il tunnel.
Malgrado tutto, era stata un’infanzia felice.
I veri problemi erano appena stati avvistati all’orizzonte.
“Guarda, Dima, il cielo si sta schiarendo. È quasi l’alba”
“Dobbiamo tornare?”
“Credo proprio di si. Prima che cambi il turno per la ronda”
Entrambi si alzarono da terra e il ragazzo spense la lanterna.
“Tieni, prendi il mio mantello”
“Dima, io non posso sentire il freddo, lo sai” disse lei, sorridendo.
“Lo so, non sono ancora così stupido! Era per coprirti la testa; sarai meno visibile” rispose lui, leggermente urtato.
“Grazie, allora” fece Elsa, prendendo tra le mani la ruvida stoffa marrone.
“Quando ci vedremo ancora? Dobbiamo mettere a punto un piano d’azione” chiese Dima mentre le sistemava il cappuccio sopra la testa.
“Non saprei. Presto, spero. Petar tornerà tra due giorni”.
“Va bene, allora. Buona giornata per dopo” ammiccò lui, ficcando le mani in tasca come al solito.
“Anche a te”
Camminarono insieme, in silenzio, fino all’uscita del tunnel. Poi, senza dire una parola, presero entrambi due direzioni diverse per raggiungere la Casa.
Dima sbadigliò sonoramente quando mise piede nella sua stanza, finalmente. A peso morto, si gettò sul letto e chiuse gli occhi, esausto; presto sarebbe iniziata una nuova giornata e sarebbe stata dura, se lo sentiva. I suoi pensieri indugiarono un poco sulla notte appena trascorsa, cercando di recuperare dentro di sé quella sensazione di fiducia e sicurezza che solo Elsa e Petar sapevano regalargli. Forse perché erano gli unici a cui non era costretto a mentire, forse perché erano i suoi compagni di vita da quando era bambino; sta di fatto che Dima non vedeva l’ora di rivedere entrambi. E poi, Elsa era così bella e fragile alla luce delle stelle! Dima sentì il suo cuore battere più veloce a quel ricordo. Era orgoglioso di lei, sempre e comunque; era intelligente e sensibile, dolce e davvero, davvero, tanto forte. Come non volerle bene? Come non amarla? Negli anni, la piccola bambina bionda tanto antipatica era diventata la sorella che non aveva mai avuto, e molto di più. Era Elsa e guai a chi avrebbe osato ferirla.
“Grazie, cara amica, Madre mia, per non avermi lasciato solo a portare questo peso” mormorò al vuoto della stanza.
Sospirò, infine, e chiuse gli occhi, che bruciavano di stanchezza.
Dima aveva creduto che addormentarsi sarebbe stato facile, stanco com’era. Eppure, continuò a rivoltarsi nel letto senza riuscire a chiudere occhio, lottando contro le lenzuola ruvide e contando un’infinità di pecore. Come mettere a tacere la testa quando c’era tanto a cui pensare, di cui preoccuparsi? La Muraglia, una guerra all’orizzonte, la terribile epidemia del Nord e, soprattutto, la consapevolezza di non avere alcun controllo, alcun potere, sulla proprio vita. Era troppo, assolutamente troppo, per un ragazzo di diciassette anni che amava divertirsi e ridere.
- Chi l’avrebbe mai detto che è questa la vita di un Guardiano? Un cumulo di ansie e pensieri spiacevoli che ti tolgono il sonno- pensò, affondando il volto nel cuscino.
Il lieve bussare alla porta fu la buona scusa per alzarsi e mettere fine a quel tormento.
“Signore, deve alzarsi, la prego. È l’ora delle preghiere” disse la voce di fratello Portus, supplichevole.
Abituato a borbottii e grugniti, a scene di pianto e urla isteriche, il monaco fu molto sorpreso quando sentì la voce del ragazzo forte e chiara.
“Arrivo subito, grazie fratello” disse, rinvigorito dalla nuova attività.
In un batter d’occhio si lavò e si cambiò d’abito, per non far nascere nei monaci dei sospetti sulla notte appena trascorsa. Davanti allo specchio, passò una mano tra i suoi riccioli ribelli, sorridendo dolcemente in direzione di un piccolo bottone bianco posato l’ vicino.
“Buona giornata Bessie” mormorò.
Infine, uscì.
Di corsa, ovviamente!
Il rito delle preghiere mattutine si prospettava lungo e noioso, come sempre. Fratello Ashim, inginocchiato in fondo alla sala, vicino alla porta, ridacchiò vedendo entrare il ragazzo.
“Il nostro beneamato Signore del Nord ci concede la grazia della sua presenza. È davvero un gran giorno” commentò, sarcastico, avendo cura di farsi udire da Dima.
Il ragazzo scelse di ignorare la provocazione e, inginocchiatosi su un cuscino blu, si impegnò nella sua meditazione.
Parlare con Dira, per lui, era qualcosa di semplice e spontaneo; non riusciva proprio a comprendere il bisogno dei monaci di formule e orari fissi, prestabiliti, pronti ad ingabbiare la libera preghiera verso la Madre. Quello sfiancante rituale non faceva altro che allontanare Dima da quella stanza, da quelle parole, lo portava ad isolarsi in pensieri tutti suoi, belli e colorati, simili ai sogni.
Dira era Dira, come poteva essere imbrigliata in poche frasi scelte dall’uomo? Il ragazzo preferiva di gran lunga aprirgli il suo cuore, dialogare con lei, anche senza le parole.
Distratto da questi pensieri, prese a guardarsi intorno, osservando la stanza fin troppo familiare.
Il pavimento in legno levigato era lo stesso di sette anni prima, così come i cuscini, un po’ consunti, e i volti invecchiati dei monaci. Con lo sguardo, individuò subito fratello Agos, il suo preferito, con il ventre pronunciato e il sorriso buono. Ricordava quanto fossero buoni i dolci extra che, di tanto in tanto, gli passava dalle cucine!
Poco lontano sedeva fratello Tonse, il giardiniere; chissà a che punto erano i suoi canali!
E poi Portus, e Lopa e quel vecchio bastardo di Gahs; erano tutti lì, uniti nella preghiera a quel dio a cui avevano votato la loro vita. Era un movimento bellissimo il loro, Dima doveva ammetterlo: mai viste tante menti e tanti cuori battere e pensare allo stesso momento, tendere insieme verso il cielo, verso Lei.
In fondo, non erano poi così male, i monaci, anche se tanto diversi da lui.
Fu per caso che i suoi occhi si posarono su una figura scura nel punto più isolato della sala; Dima aguzzò la vista  e si accorse in fretta che l’uomo inginocchiato in quell’angolo buio non portava il tradizionale abito arancio dei monaci. Era una macchia scura in mezzo a quel mare color del sole, quando l’unico ad avere il permesso di non indossare la tunica era Dima stesso. Ed Elsa, ovviamente, ma la sagoma di quella figura era troppo imponente per appartenere alla ragazza.
Il sole sorgeva insieme alla preghiera dei monaci e presto fu pronto ad illuminare la sala attraverso i lucernai del soffitto; un raggio di luce colpì in pieno volto lo sconosciuto, illuminando le sue vesti vermiglie, i radi capelli e la folta barba grigio ferro.
“Orwen!” non riuscì a trattenersi dall’esclamare il ragazzo, soffocando le sue parole con una mano.
-Cosa diavolo ci fa qui Orwen, ancora?- si chiese, nervoso.
Dopo le rivelazioni di Petar, il Guardiano del Sud aveva assunto un aspetto molto più minaccioso di quello che già non gli era proprio, agli occhi di Dima.
Al ragazzo ribolliva il sangue al solo pensiero che quell’uomo, seduto a pochi passi da lui, stesse pianificando un guerra contro la sua Regione. Con che coraggio si presentava ad Odundì, come osava anche solo pensare di rivolgerli la parola? Lui, un Guardiano pronto a tradire un suo fratello per puro interesse, un Guardiano che preferiva essere distruttore di pace anziché portatore.
Dima sentiva di odiarlo ogni secondo di più ed era quasi certo che fosse lì per lui.
Quando anche l’ultimo canto terminò, vibrando sull’ultima nota, e i monaci presero ad alzarsi, Dima cercò di guadagnare in fretta la porta, per non essere costretto ad un faccia a faccia con l’uomo che stava imparando a considerare suo nemico.
Purtroppo, però, non aveva fatto i conti con il viscido servilismo di fratello Ashim.
“Quanta fretta, mio Signore. Avvertite la condanne di Dira su di voi, per caso?” disse infatti, non appena il ragazzo si avvicinò alla porta.
“Non temere per me, fratello, io e Dira ce la spassiamo alla grande” rispose quello, irriverente.
Il volto del monaco si tinse di rosso, rosso rabbia, e afferrò con decisione il polso di Dima.
“Abbiate la cortesia, allora, di tenermi compagnia, mentre mi accerto che tutti i fratelli abbiano lasciato la sala” sibilò.
Dima cercò di divincolarsi da quella presa sorprendentemente ferrea; con un ultimo strattone liberò il braccio, pronto a riversare un torrente di maledizioni sul monaco e correre via.
Fu il tocco leggero di una mano sulla sua spalla a immobilizzarlo sul posto, stranamente muto.
“Ragazzo” disse la voce profonda e tonante di Orwen.
Dima imprecò mentalmente.
“Signore” mormorò voltandosi e chinando rispettosamente il capo.
Non ci voleva, non ci voleva proprio. Dima non era pronto per quel confronto, lo sapeva bene; non aveva avuto il tempo per immagazzinare e riflettere, non aveva chiuso occhio per un’intera notte, non sarebbe riuscito a dominarsi.
Perdere le staffe in una situazione così delicate, però, sarebbe stato un passo falso incredibilmente stupido.
-Ecco, adesso si che sarebbe utile il sangue freddo di Elsa- pensò.
“Dimitar, sono lieto di vedere che prendi parte alle preghiere con i tuoi fratelli monaci” continuò Orwen, stringendo la presa sulla sua spalla e guidandolo lungo il corridoio principale della Casa, verso l’esterno.
“È una sorpresa, signore, trovarvi qui”
“Il Sommo non ha avuto cura di avvisarti, allora” constatò semplicemente l’uomo.
Attraversarono in silenzio il ponte per giungere alla terra ferma, mentre Dima sentiva crescere la tensione dentro di lui.
“Gradisci accompagnarmi al Prato, Dimitar? Avrei piacere di scambiare due parole con te” disse, infine, il Guardiano.
-No che non ho piacere! Ma dubito di avere qualche alternativa, detestabile vecchio- pensò il ragazzo, mentre annuiva docilmente.  
Orwen osservò a lungo i lavori per l’irrigazione dell’orto quando si trovarono a passargli di fianco.
“È opera di fratello Tonse?” chiese, sospettoso.
“Si, signore. Abbiamo concepito il progetto insieme, ma io non posso essere molto d’aiuto a causa della mie lezioni” spiegò Dima, orgoglioso.
“Immagino senza chiedere alcun permesso” puntualizzò Orwen, storcendo la bocca.
“Permesso?” si stupì il ragazzo. “Non avevo idea che servisse un permesso. In fondo, è per il bene della comunità, no?”.
“Non tutto ciò che è bene è anche giusto, ragazzo”
“Ma, se mi permette, signore, è vero anche che non tutto ciò che è giusto è bene” replicò Dima, duro, non riuscendo a risparmiare quella frecciata al suo nemico.
Era forse “bene” quella giustizia che lo voleva morto? Era forse “bene” quella giustizia che patteggiava per una lunga e dolorosa guerra?
Dima non riusciva a controllore il tremito delle sue mani e le chiuse a pugno.
“Certamente. È questo il motivo per cui molti rifuggono le scelte e preferiscono rintanarsi in un’abbietta ignavia. Ciò che è bene e ciò che è giusto non sempre procedono di pari passo; è qui che si misura il nostro coraggio e la nostra saggezza di Guardiani”.
“Il coraggio si esprime in molti modi, io credo. Per esempio, ammettendo che nessuno, se non Dira, può dirci ciò che è giusto e bene e, di conseguenza, come agire”.
Orwen si fermò a guardare il ragazzo negli occhi un momento. Erano ormai arrivati allo  steccato che separava il Prato della Meditazione dal resto del Tempio, e l’uomo vi poggiò entrambe le mani, allungando lo sguardo davanti a sé.
 “Parli con trasporto, eppure sei così giovane. Ammiro molto la tua fiducia in Lei, la vicinanza dei primi tempi mi manca. Ma l’esperienza e la saggezza sono ottime compagne di questa età tarda. Spero di non dover interpretare in malo modo le tue parole, Dimitar. Sono sicuro che non oseresti disprezzare le Leggi dettate  da Dira” disse, pensoso.
“Conosco l’argomento. I monaci sono stati degli ottimi maestri” rispose Dima, evasivo.
Il ragazzo sentiva che non avrebbe sopportato ancora a lungo la tensione, l’avversione che provava verso quell’uomo e il fastidio per l’ipocrisia delle sue parole montavano sempre di più in lui.
-Ma perché diavolo non arriva al punto e poi sparisce?- pensava.
 Doveva assolutamente controllarsi, stringere i denti per qualche momento ancora.
“Signore, aveva bisogno di dirmi qualcosa in particolare?” decise infine di chiedere, dopo un lungo silenzio.
“Nonostante i lunghi anni di studio e a dispetto della severa disciplina dei monaci, sei rimasto lo stesso bambino di periferia, pratico alla vita in ogni senso. Immagino che tu non gradisca i giri di parole. Sarò diretto: si, sono venuto qui con uno scopo ben preciso. Seguimi, per cortesia” disse l’uomo, con un mezzo sorriso.
Oltrepassarono la recinzione e, presto, furono immersi in quell’aurea calma e pacata tipica del Prato della meditazione.
“Come mai siamo qui?” chiese Dima.
“Durante questi sette anni ho avuto a cuore la tua preparazione di Guardiano, come ben sai. Le verifiche sono state molte e non sempre ti sei mostrato all’altezza” iniziò quello, duramente.
Dima incassò il colpo, sempre più furente. Erano chiare nella sua memoria quelle visite, impresse a fuoco come dei veri e propri incubi.
“Ebbene, ormai la salita sta per terminare, presto poserai il tuo fardello per prenderne uno più gravoso sulle spalle. Tra poche settimane avrai l’opportunità di importi come Guardiano del Nord e, per allora, l’intera Cadmow si aspetta una guida forte, saggia e potente. Affermi di essere tutto questo, Dima? Ti reputi pronto per quest’incarico? Cosa senti, quando pensi al Nord? Perché, ricorda, tu sei il Nord”.
“Io non ho paura”.
“Non mentire, ragazzo”.
“Mentire? Cosa volete che vi dica, signore? Io non mento. Sono spaventato? Certamente. È una responsabilità più grande di me, quella che sto per addossarmi, lo so bene. Ne sarò all’altezza, mi chiedete? Non lo so. Ne sono pronto? Si, assolutamente. Non ho dimostrato disciplina, in questi anni, né costanza, né
mi sono mostrato sottomesso, ma so di essere pronto. Lo sento, signore, sento che sono io quello giusto, sento di potercela fare. Mai come in questi ultimi mesi è stato facile manipolare l’acqua; la sento dentro. Riuscite a capirmi?”.
“Meglio di quanto tu non creda, Dimiatr”.
“E allora perché diavolo siete qui?” esplose Dima, allargando le braccia, esasperato.
Orwen gli lanciò un’occhiata gelida “Ricorda con chi stai parlando, ragazzo, e mostra rispetto”.
Dima voltò la testa, rosso di rabbia, mordendosi la lingua a sangue.
“Sei qui perché è arrivato il momento della resa dei conti. Parli con passione, te l’ho già detto; ma riuscirai a trasformare quanto detto in fatti? Io non ne sono sicuro e sono qui per metterti alla prova”.
“Come?”
“L’ennesima prova, si, l’ultima” confermò Orwen, mentre iniziava a sciogliere il nodo della cintura che teneva chiusa la ricca veste di seta.
Dima restò a guardarlo, senza parole, mentre lasciava che la stoffa gli scivolasse giù dalle spalle; il vecchio, ora, vestiva solo dei calzoni, neri a motivi rossi, e il ragazzo mai si sarebbe aspettato di vederlo tanto forte e vigoroso nonostante l’età e la barba grigia.
-Che cavolo sta pensando di fare?-
“Di un po’, ragazzo: chi sono io?”
“Ma che razza di domanda è?”
“Rispondi e non essere impertinente”.
“Siete Orwen, Guardiano del Sud”.
“Molto bene. Quali sono i miei poteri? Chi e che cosa rappresento io?”
Le mani di Dima prudevano per l’irritazione “Il fuoco, mio signore. Voi siete fuoco”.
La risposta era corretta e l’uomo annuì sorridendo.
“Il fuoco” ripeté e, con la velocità di un lampo, si chinò sulle ginocchia, sollevando la mano destra.
Una fiammata scaturì dal suo palmo, forte, dirompente, che sfiorò il ragazzo, strappandogli un urlo di sorpresa e di dolore.
“Ma sei pazzo?” urlò, portando una mano al braccio destro, dove la tunica bruciacchiata cadeva a brandelli.
“Il fuoco, Dimitar, è impulsivo, istintivo, passionale. Inarrestabile” disse ancora l’uomo, avvicinandosi di qualche passo.
Un secondo gesto delle mani e piccole fiammelle presero a volare verso di lui, appuntite come frecce, più dolorose che mai.
Dima guardava allibito l’uomo davanti a sé.
-È impazzito, è diventato pazzo in un colpo solo- pensava freneticamente, mentre tamponava con la mano destra una bruciatura alla base del collo.
Eppure Orwen restava serio e controllato, sorridente, persino.
Dima pensò, allora, di chiedere aiuto, nella speranza che qualche monaco giungesse in suo soccorso.
Quando alzò lo sguardo, però, spostandolo fino alla recinzione del Prato, restò dolorosamente sorpreso: i monaci erano tutti lì, in file ordinate, immobili e silenziosi.
Persino il Sommo se ne stava tranquillo, osservando tutto quello che succedeva al di là del suo rifugio sicuro.
 Non sarebbero intervenuti, Dima non ci mise molto a capirlo. Era tutto programmato.
“Maledizione!” urlò, cercando di dare sfogo alla sua rabbia.
“Non temere, ragazzo, non verrà fatto alcun male ai tuoi amici” disse Orwen, seguendo la direzione del suo sguardo e interpretando male i suoi pensieri.
Dima avrebbe voluto annegarli tutti, quegli stupidissimi monaci!
-Diavolo, Petar, perché non ci sei mai quando servi?- disse mentalmente, mentre osservava l’uomo davanti a lui mettersi nuovamente in posizione d’attacco.
Questa volta, però, Dima non voleva farsi trovare impreparato.
Quando giunse il torrente di fuoco e fiamme direttamente dal palmo di Orwen, reagì prontamente, ingabbiandolo in un fitto reticolo di sottili fili d’acqua.
Una gigantesca nuvola di vapore si sollevò per tutto il Prato, nascondendo i due combattenti.
Ignorando le urla di dolore delle sue mani e del suo volto, già ustionate dal calore, Dima si mosse silenziosamente, con la speranza di riuscire a cogliere l’anziano Guardiano di sorpresa. Era pronto, il ragazzo, a difendersi a tutti i costi.
Cercò la concentrazione e, serio come mai, iniziò a richiamare a se quel fluido così familiare. Presto, l’intero Prato fu completamente allagato, un acquitrino di terra e fango alto fino alle ginocchia.
Quando il vapore si diradò, Dima poté vedere Orwen alla sua destra, impantanato, mentre cercava di muovere un passo.
La prossima mossa era chiara nella mente di Dima, e lui era pronto.
Peccato, però, che anche il suo avversario aveva avuto il tempo necessario per escogitare una strategia vincente.
Proprio quando la fanghiglia ai loro piedi stava per mutarsi in un solido blocco di ghiaccio, intrappolando entrambi, un calore inaspettato iniziò a propagarsi dall’uomo. Col volto distorto per la fatica, Dima iniziò ad arrancare, nel tentativo di raggiungere l’asciutto. Presto, però, la massa ai suoi piedi divenne incandescente, iniziando a bollire e schizzare ovunque.
Urlò per il dolore, incapace di persino di pensare.
“Qualche problema, ragazzo?” chiese sprezzante l’uomo.
Dima digrignò i denti, sudato, col respiro affannoso e la mente appannata.
-Pensa, maledizione, pensa!- cercava di farsi forza.
Un’unica soluzione si presentò alla sua mente; poco elegante, certo, e sicuramente poco efficace.
Ma il ragazzo non avrebbe sopportato un minuto di più in mezzo a quell’inferno.
Con un movimento circolare delle braccia creò attorno a sé una piccola bolla d’acqua e si premurò di rivestirla di una spesso strato di ghiaccio.
Il sollievo fu immediato: Dima sospirò quando le sue gambe furono finalmente libere dal fango incandescente.
Le voci gli giungevano ovattate ma riuscì a sentire, e a vedere, la risata di Orwen, a pochi passi da lui.
L’uomo schioccò le dita, semplicemente.
Un cerchio di fuoco nacque intorno al suo rifugio, e si fece sempre più vicino. Dima riusciva a sentire il calore delle fiamme anche all’interno della sua bolla.
“Un topo in trappola, ecco quello che sei, Dimitar” disse l’uomo, con odiosa boria.
Dima non aveva mai provato tanto disprezzo per una sola persona in tutta la sua vita.
Il vapore iniziò nuovamente a riempire l’aria intorno a loro e il ghiaccio della sfera prese lentamente a sciogliersi, sfrigolando al contatto con le fiamme.
Sembrava la bocca di un forno, la condanna delle anime dannate: fuoco, fuoco ovunque, e una piccola bolla d’acqua al centro.
Poi, Dima sentì un urlo, in mezzo a quel caos. Acuto, infuriato. Un urlo che non poteva essere suo.
E allora, così come tutto era iniziato, tutto finì: velocemente e inaspettatamente.
Tutto quel fuoco si estinse nella magia di un solo attimo e Dima stesso lasciò andare quell’energia che teneva la sua piccola bolla intorno a sé. Finì disteso in un acquitrino di acqua e fango, dolorante, le gambe in fiamme, e, per un momento, gli sembrò di essere tornato a casa, ad Imbrs. Dopo tutto quel tempo, sentire la terra umida sotto le sue dita era come lasciarsi abbracciare dalla mamma affettuosa che non aveva mai avuto, era come sentirsi battere una pacca sulla schiena dal suo vecchio amico Teppe.
Così, quando una mano delicata gli sfiorò la fronte con una carezza, non si stupì, credendo ancora in quel suo dolce sogno.
“Caspita Orwen, ma perché deve finire sempre così? Te l’avevo detto di lasciare fare a me!” disse la voce di una donna, da un punto imprecisato sopra di lui.
“Cara, tu sei troppo morbida. I ragazzi devono prepararsi ad affrontare una sfida e questa è la loro ultima possibilità per mettersi alla prova”.
Quando Dima sentì la voce di Orwen non poté fare altro che spalancare gli occhi, teso.
Fu così che vide il volto dolce di Safnea, Guardiana dell’Est, sopra di lui, i lunghi capelli bruni sopra una spalla e la mano delicatamente posata sulla sua testa. Alle sue spalle, Orwen si stava rivestendo, tranquillo e pacato come se nulla fosse successo.
“Lo so bene che era necessario. È successo anche a me, lo ricordo, e ai tempi la situazione non era così complicata. Ma sono solo dei ragazzi, potevi mostrare più clemenza” stava rispondendo lei, con la sua dolce voce leggermente alterata.
“La vita non è clemente, prima imparano a fare i conti con questa realtà, meglio sarà per loro” si limitò a ribattere Orwen, prima di lasciare il Prato a passi decisi.
La donna sospirò, triste.
“Allora, Dima, come ti senti?” gli chiese infine. “Riesci ad alzarti?”.
Dima annuì e, con l’aiuto di fratello Tonse, riuscì a rimettersi in piedi. Vide il Sommo Sacerdote avvicinarsi, serio e imperscrutabile.
“Mia Signora” disse, chinando la testa davanti alla donna.
“Sei stato molto coraggioso, Dimitar, questo devo riconoscerlo. Hai affrontato con intelligenza una delle persone più forti su questa terra. Noi monaci siamo soddisfatti del lavoro che abbiamo svolto con te” disse al ragazzo, posandogli una mano sulla spalla.
“Ma sono stato battuto” disse il ragazzo, mogio.
“Come era giusto che fosse” ribatté il monaco. “Nel momento del pericolo sei ricorso all’elemento che ha caratterizzato la tua infanzia e che ancora, nonostante la lontananza, ti rappresenta: il fango. Il tuo compito, negli anni a venire, sarà di concentrarti molto di più sulla tua nuova identità, regale, incrollabile, solenne. Solo allora riuscirai a combattere col ghiaccio, e avrai molte più possibilità” continuò il Sommo, come se fossero a lezione e non in un Prato appena distrutto dalla furia degli elementi.
“Si, fratello” annuì Dima, sottomesso.
Safnea, allora, prese la parola con decisione.
“Grazie, Sommo, le tue parole sono sempre piene di saggezza. Ma adesso Dima ha bisogno di cure e riposo, permettetemi di medicarlo” disse, posando una mano sull’altra spalla del ragazzo con fare protettivo.
Così, zoppicando e poggiandosi a due monaci ai suoi lati, Dima raggiunse l’Infermeria, all’interno della Casa, seguito dalla Guardiana.
Era una sala piccola e luminosa, nella quale si aprivano numerose finestre.
I monaci fecero stendere Dima su un lettino e, silenziosamente, si allontanarono. Safnea prese ad esaminargli le gambe, ustionate, e le piccole scottature delle braccia e del volto.
“Perché mi curate voi, che siete una Guardiana?” chiese Dima, sospettoso.
“Noi Guardiani dell’Est abbiamo ottime capacità curative, dovresti saperlo” rispose lei, sorridendo. “E mi piacerebbe molto essere meno formale con te. In fondo, siamo tutti Guardiani e noi due ci conosciamo da tempo” disse ancora, ammiccando.
Poi si chinò sulle sue gambe e, con un leggero soffio, prese a curargli le bruciature. Alla fine di quella magia, la sua pelle era ancora arrossata e sensibile, ma aveva un aspetto decisamente migliore. Sembrava una ferita vecchia di settimane.
“Vedi?” disse lei, orgogliosa. “Ora metterò una pomata alle erbe e fascerò le gambe. È sempre meglio non guarire del tutto con la magia; il tuo corpo potrebbe risentirne” spiegò, mentre si dirigeva vero un tavolo sotto la finestra, carico di boccette, sacchi di iuta e mortai.
In pochi minuti preparò un composto che sparse con cura sulle ferite di Dima.
Il ragazzo rimase pensieroso, mentre guadava la donna muoversi con grazia.
“Perché Orwen ha fatto tutto questo?” chiese infine, con voce roca.
Safnea alzò lo sguardo su di lui “Non pensare male di lui, ti prego”.
Dima la guardò, scettico.
“Non essere così severo. Nessuno come Orwen ha a cuore gli interessi di Cadmow, e quindi i Prescelti come te,  nessuno come lui è pronto a sacrificare tutto per questo popolo” disse ancora, convinta.
“Mi risulta difficile crederlo”.
“So bene che può sembrare duro e senza cuore, ma tutto quello che fa è per il bene della nostra terra. Per quello che lui pensa essere il bene, ovviamente” le sue mani erano inoperose, mentre parlava, e stringevano le morbide bende.
“E a volte può sbagliare?”.
“Come tutti noi, Dima”.
“Ci sono sbagli da cui non si può tornare indietro, però, che sono difficili da perdonare” si lasciò sfuggire Dima, in un sussurro.
Safnea lo guardo, sospettosa.
Aveva detto troppo, aveva accennato a realtà di cui non avrebbe dovuto essere a conoscenza. Ma non era pentito. Sentiva di potersi fidare di quella donna dal cuore tenero.
“È così?” insistette.
“In una vera famiglia si perdona sempre. Un padre non porta rancore al figlio, il figlio non lo porta al padre, se c’è amore. E noi Guardiani, Dima, siamo una famiglia” rispose lei, decisa.
Dima avvertì la familiare sensazione di fastidio alla bocca dello stomaco. Non tutti avevano il diritto di far parte di quella famiglia, però; di certo non lui ed Elsa, non insieme.
Safnea sembrò leggergli questo pensiero negli occhi.
“Ci sono scelte difficili da compiere, Dima. Scelte che spezzano il cuore” sussurrò, con le mani tremanti.
“Può una madre uccidere il proprio figlio?” replicò retorico lui.
“Chi ti ha detto questo?” chiese Safnea, allarmata all’improvviso.
“Nessuno. È la verità, però” rispose lui, sincero.
“Parli come un uomo che conosco, Dima, e gli somigli. Ma, come ho già detto a lui, non possiamo ribellarci alla mano che ci ha donato la vita e questa bellissima terra. È il volere di Dira” replicò, più severa.
“È scritto nelle Leggi” affermò Dima, cercando di smorzare il tono polemico.
Non voleva discutere con lei, tanto dolce e gentile. Eppure, Dima poteva leggere una determinazione e una fede forte dietro il bel volto e i fiori intrecciati tra i capelli.
“Esatto. Sii paziente con Orwen, e presto scoprirai quanto può essere buono, e onesto. Le cose andranno per il verso giusto, vedrai, e tutto tornerà com’era prima” disse infine, riprendendo a fasciargli le gambe ferite.
Dima preferì restare in silenzio. Le ferite non bruciavano più, ma erano ugualmente molto fastidiose. E Safena si stava dimostrando un osso duro, incrollabile nelle sue certezze.
Sarebbe rimasta molto delusa dal loro piano di fuga, quando l’avrebbero messo in atto  con l’aiuto di Petar. Delusa e addolorata, a differenza della furia ceca che Dima immaginava si sarebbe impossessata di Orwen.
-Nessuno dovrà sapere che Petar è dalla nostra parte, però- rifletté tra sé e sé.
Sarebbe stata una vera e propria guerra interna, altrimenti. Chissà da che parte si sarebbe schierata Safnea davanti ad una spaccatura così profonda nel sistema dei Guardiani.
Stava andando tutto a rotoli.
-Altroché famiglia! Questo è un covo di vipere!-.
“Ecco fatto, Dima. Adesso cerca di non infettare le ferite, cambia spesso le bende e non fare a pugni con nessun monaco. Nel giro di pochi giorni non avrai alcun ricordo di questo scontro” disse infine la donna, dopo essersi asciugata le mani su un grembiule lì vicino.
“Ti ringrazio, bella Safnea” disse lui, ammiccando malizioso, cercando di riportare a galla il suo spirito malandrino.
La donna scosse la testa e scompigliò i capelli del ragazzo.
“Avevo sentito parlare della tua faccia tosta” disse, ridacchiando.
“Io direi, piuttosto, del mio buon gusto” sorrise sornione il ragazzo.
“Forza, ragazzino, sii bravo in questi ultimi giorni al Tempio, e vedrai che ci rivedremo presto” disse lei, chinandosi per scoccargli un bacio delicato sulla fronte.
Era dolce, Safnea, tanto. Lo era sempre stata, anche quando lui era solo un bambino combina guai.
In un certo senso, Dima si era affezionato a lei.
“A presto” la salutò, sfiorandosi la fronte con le dita e portandosele alla bocca, mentre faceva il gesto di mandarle un bacio.
Lei rise e in fruscio di veli mossi dal vento e dalla camminata leggera, uscì dalla stanza.
Rimasto solo, Dima si sedette e si prese la testa fra le mani.
-Mai visto un casino simile- si disse, cercando di fare ironia.
Non sapeva proprio cosa pensare, ora, di quel Guardiano severo, implacabile e fautore di guerre. Era davvero così orribile odiare il proprio fratello, la propria famiglia?
Sentiva più che mai il bisogno di parlare, di confidarsi a cuore aperto, con qualcuno. Petar, per esempio: ma sapeva bene che non sarebbe tornato prima di due giorni. Così, stanco e piuttosto malconcio, scese dalla branda e, zoppicando leggermente, fece per andare in camera sua. O al lago, o nel bosco. In qualunque posto potesse trovare un po’ di riposo e, magari, recuperare qualche ora di sonno.
Si sentiva uno straccio a camminare strisciando lungo le pareti dei corridoi stretti della casa. E tutto per colpa di Orwen!
Passava proprio davanti alla sala delle preghiere quando udì un bisbiglio concitato.
-Mi mancano solo le beghe tra i monaci, adesso- pensò, sorridendo mesto, deciso a passare oltre.
Ma una voce, chiara e profonda, che lo portò indietro sui suoi passi.
Curioso, si affacciò dalle porte imponenti e, notando che la sala era vuota, mosse qualche passo all’interno.
La voce continuava a guidarlo, impossibile da confondere con quella di chiunque altro. Bassa, baritonale, profonda anche nei sussurri; poteva essere soltanto il Guardiano del Sud.
Cosa ci faceva ancora al Tempio? Con chi stava parlando, così nascosto e concitato? Dima era pronto a scommettere sul bieco tradimento di quel verme di Ashim.
La situazione era sospetta, molto. Il ragazzo non si sarebbe mai lasciato sfuggire un occasione importante come quella, non avrebbe voltato le spalle ad informazioni che sarebbero potute essere vitali per il suo popolo. Quando capì che le voci provenivano dalla veranda sopra la Casa, alla quale si accedeva solo grazie una stretta scala dalla sala delle Preghiere, strinse i denti e, ignorando il bruciore delle gambe, si arrampico sui primi pioli.
Dalla botola sul pavimento, vide distintamente la veste vermiglia di Orwen, mossa dal vento leggero e intravide anche l’orlo di una tonaca arancio, bella, ricamata con un sottile filo d’oro.
-Un filo d’oro?-
Un ricordo lottava per emergere dalla nebbia dei suoi pensieri. I monaci non avevano ricami dorati sulle loro vesti, nessuno era tanto elegante. Nessuno, tranne il Sommo Sacerdote!
Dima si morse la lingua a sangue per trattenersi dall’urlare di sorpresa e risentimento.
“Dobbiamo mantenere la calma, mio Signore, lo sapete meglio di me” stava dicendo in quel momento il monaco, cercando di smorzare i toni della conversazione.
“Non c’è più tempo, Jeyco. Ho già espresso i miei dubbi, conosci la mia posizione. Stiamo rischiando troppo, non possiamo più stare con le mani in mano” replicò Orwen.
“Non siete sicuro per il Supremo?”
“Assolutamente no, ho grandi preoccupazioni nei suoi confronti. Ma non possiamo liberarlo, scioglierlo da quest’obbligo e farlo semplicemente sparire senza destare sospetti”.
“Allora lo lasceremo dove l’abbiamo messo, Signore”.
“Ma saprà gestire la situazione che abbiamo creato? Io dubito che riuscirà ad essere d’aiuto nel momento del bisogno” disse Orwen, nervoso. “Per questo non posso più attendere. Quest’epidemia va avanti da troppo, troppo tempo. Nessuno pensa più che sia stata creata per cause naturali. Bisogna portare rinforzi, per il bene di Cadmow” aggiunse, e Dima lo vide passeggiare convulsamente tra le piante della veranda.
“State pensando di dichiarare guerra ora, Signore?”.
“Subito dopo la Cerimonia della Scelta, quando avremo uno e un solo Guardiano del Nord”.
“E pensate di riuscire ad ottenere quello che più desiderate?”.
“Si, Jeyco, sarà semplice porre fine alle malattie e alla povertà una volta riportato il potere nelle mani del suo giusto possessore. Il Supremo non c’è più di alcuna utilità, è arrivato il momento di mettersi in gioco in prima persona” disse determinato, uscendo dalla visuale del ragazzo.
Una sola parola aleggiava nella mente di Dima, per il resto completamente bianca: traditore.
Traditore, traditore, traditore.
Traditore.
Nonostante tutto, si era sempre fidato di Owen, del vecchio saggio Orwen. Tutti avevano fiducia in lui, i monaci, i Guardiani, il suo popolo. Ed invece, non era altro che un viscido, subdolo, spietato traditore.
Uno schifoso traditore!
Aveva portato morte e malattia, imprigionato un uomo giusto, ed ora non si faceva scrupoli a scatenare una guerra. Chi era quell’uomo con cui lui stesso aveva condiviso tanti ricordi, parole, discussioni?
Perché tutto stava andando così maledettamente male?
Il cuore di Dima batteva veloce mentre si affrettava a scendere dalla scaletta.
Pallido e con il respiro mozzo, ignorando le punture di spillo sulle sue gambe, lasciò la sala delle preghiere e prese a correre, correre come se non ci fosse un domani.
Non voleva sentire una parola di più, non una sola sillaba pronunciata da quella voce tonante, non un sussurro di quel vigliacco del Sommo, complice del farabutto.
Sapeva qual’era la sua meta e nessuno l’avrebbe potuto fermare. 
 

 
 
 
 
Note
Ciao a tutti! Sono contenta di essere riuscita a caricare questo nuovo capitolo senza un ritardo mostruoso!! Ormai ho abbandonato la speranza di riuscire a pubblicare una volta a settimana XD
Che dire, ve lo aspettavate, un qualcosa del genere, dal caro, vecchio Orwen?
In più, questa è la prima scena di pseudo-azione che scrivo in questa storia, spero che non sia troppo male… Ditemi voi dove dovrei migliorare, accolgo a braccia aperte ogni possibile suggerimento!
E poi basta, non mi dilungo più di tanto, già il capitolo è un mare di parole!!!
Grazie ancora a quelle persone che seguono e leggono questa storia,
a presto,
 
EsterElle

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Capitolo 10
*** Storie di un tempo passato ***


Capitolo 10
Storie di un tempo passato




 
Mai come quel giorno i suoi segreti avevano avuto meno importanza.
Dima correva per i corridoi della casa e non si curava di non farsi vedere, né di rendere il suo passo felpato o di mantenere vigile l’attenzione.
Correva e basta.
Da quando era stato scelto da Dira come Guardiano del Nord aveva avuto poche certezze da tenersi strette e da difendere. Ora, anche quella poca sicurezza era stata spazzata via.
Di chi fidarsi, adesso? Su chi fare affidamento?
Le gambe gli tremavano, mentre urtava lo stipite di una porta mal chiusa. Trattenne un gemito di dolore e si lanciò verso l’area est, dove sapeva che avrebbe finalmente trovato pace.
Si accanì, infine, sulla solita porta di legno vecchio, abbattendo una scarica di pugni sulla superficie irregolare.
“Sono Dima, aprimi, per favore!” disse, con una certa ansia nella voce.
Udì dei passi leggeri, strascicati, e un sospiro. Poi, il chiavistello girare nella serratura e uno spiraglio aprirsi tra la porta e il  muro.
“Dima?” chiese una voce affaticata al di là del legno. “Cosa ci fai qui?”
Il ragazzo non perse tempo e aprì la porta quel tanto che bastava per insinuarsi nella piccola stanzetta.
“Avevo bisogno di parlarti, Elsa. Non hai idea di quello che ho sentito poco fa!” disse, raggiungendo velocemente la finestra all’altro capo della camera.
“Non dovevi venire! Se ti avesse visto qualcuno?” chiese lei alle sue spalle, sempre con quella strana voce sottile, rotta in più punti.
“Che importanza ha, ormai? Noi dobbiamo andarcene, andarcene ora”
“Smettila di dire scemenze e chiudi quelle tende, o qualcuno ti scoprirà qui” disse lei, secca e decisa.
“Elsa, tu non capisci! Stanno organizzando…” prese a spiegare Dima, voltandosi per guardarla in faccia. Ma le parole gli morirono in gola quando il suo sguardo si posò per la prima volta su di lei.
“Per Dira, Elsa! Ma che cosa ti è successo?” chiese, atterrito, muovendo qualche passo verso di lei.
“Non provi nemmeno ad indovinare?” chiese lei, sorridendo amara.
Indossava uno dei suoi semplici abiti celesti, leggeri e lunghi fino alle caviglie, strappato, annerito e bruciacchiato in più punti. Le braccia nude erano rosse e delle vesciche le ricoprivano, così come sul collo e parte del viso. Un brutto taglio gli percorreva la fronte candida e un livido violaceo stava fiorendo tutto intorno. Una benda bianca spuntava da sotto l’orlo della gonna, spessa e già macchiata di sangue, abbarbicata alla gamba sinistra della ragazza, che si reggeva in piedi a stento.
Aveva i capelli sciolti sulla schiena, opachi, e una leggera puzza di bruciato sembrava aleggiare ancora intorno a lei.
Dima la raggiunse in un batter d’occhio e senza dire una parola la fece sedere sul letto perfettamente rifatto, adagiandole la gamba ferita su un cuscino lì vicino.
“Quel maledetto di Orwen! È arrivato fino a te, quindi?”  disse, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Cosa credevi? Sono anch’io una Guardiana, in teoria”.
“Vecchio viscido e senza midollo, senza onore, traditore e spergiuro! Si approfitta dei più deboli, gode della loro sconfitta e del loro dolore. Quanto lo odio!” urlò il ragazzo, non riuscendo a stare seduto accanto ad Elsa e passeggiando per la stanza.
“Che cosa stai dicendo? Dima, calmati cinque secondi e raccontami” intervenne lei, stancamente.
“L’ ho incontrato stamattina, dopo le preghiere” sputò lui, tra i denti.
“Va bene, e quindi?”
“E quindi ha deciso che voleva provare a friggermi un po’, come ha fatto con te”.
“E adesso come stai? Sei ferito?”
“No, va tutto bene. È arrivata Safnea e mi ha guarito” disse, con un alzata di spalle. “A proposito, perché tu, invece, sei ancora conciata così?” chiese all’improvviso, guardando il volto sfatto della ragazza.
“Non è importante, Dima. Continua a raccontare” replicò lei, evasiva.
“No, lo voglio sapere”.
“Dima, ti prego”.
“Se non mi dici nulla, penserò il peggio, lo giuro. E allora niente mi tratterrà dall’andare dritto ad Aprica e fare a pezzi quel vecchio bastardo” disse il ragazzo, con violenza, scuotendo leggermente Elsa per le spalle.
La lasciò andare subito, però, quando lei storse la bocca in una chiara smorfia di dolore.
“Sei odioso quando fai così!”
“Allora?”
Elsa sospirò “È stato un ordine di Orwen”.
“Cosa?”
“Dima, è stato una disastro. Terribile, davvero. Non riuscivo a fare nulla, se non saltellare da una parte all’altra del Prato nella speranza di evitare il suo fuoco. E lui continuava a gridarmi di reagire, di difendermi almeno. Ma, ti giuro, mi sentivo inerme come una qualunque ragazza di Cadmow: non una visione, neanche l’ombra, capisci? Allora Orwen si è infuriato ancora di più. Quando sono finita per terra, distrutta, ha impedito a Safnea di prendersi cura di me; dice che queste ferite devono ricordarmi quanto io sia stata debole e incapace. Safnea ha protestato, ma anche il Sommo si è schierato contro di lei” raccontò Elsa, a testa bassa.
Dima fremeva, nel suo angolo. Come aveva potuto, il grande e potente Orwen, accanirsi con qualcuno tanto delicato, tanto fragile? Conosceva le difficoltà di Elsa, eppure non l’aveva risparmiata. Quanto può essere crudele, un uomo accecato dal potere?
“Te l’avevo detto che non avresti voluto ascoltare questa storia” disse Elsa, osservandolo con apprensione. “Non fare nulla di stupido, ti prego. In fondo, Orwen non ha tutti i torti; merito qualche punizione per la mia incapacità” continuò lei, affranta.
“Diavolo, Elsa! Ma come puoi chinare la testa davanti alla spietatezza di quell’uomo? Ha preso a calci un nemico già a terra! E non colpevolizzarti, porca miseria: sai che il tuo potere è difficile da gestire, lo hai sempre saputo. E lo sapeva anche lui” esplose il ragazzo.
“Ti ha ferita, ti rendi conto? Ti ha fatto del male. È lui, secondo te, la persona di cui dovremmo fidarci, lui colui che potrà guidarci dopo la Cerimonia? Che diavolo di saggezza potrà mai insegnarci!” sbraitò ancora.
Elsa lo guardava muta, immobile. Gli occhi le divennero lucidi, ma non pianse.
“Saremo morti tra pochi giorni, probabilmente. O in prigione, o sotto sequestro, o sbranati dagli animali dei boschi. Che importanza ha cosa fa Orwen?” disse lei, più dolce.
“Ha importanza, più di quanto immagini”.
“Cosa vuoi dire?”
“ È tutta colpa sua, Elsa, tutta colpa sua. Se le cose vanno così male è perché lui ha voluto così. L’ho sentito parlare con il Sommo, quell’altro bastardo di un monaco, falso ed ipocrita. Sono complici. E io non posso ancora credere a quello che ho ascoltato” continuò il ragazzo, sedendosi su una sedia e prendendosi il volto tra le mani.
“ Dima, mi devo preoccupare?”
“Si, e molto. Ho sentito chiaramente Orwen affermare di aver provocato lui l’epidemia nella nostra regione. Lui, capisci? Non è una circostanza naturale, o la sorte avversa. È la sua schifosa smania di potere. Ha condannato centinaia di uomini e donne alla morte, le nostre stesse famiglie, probabilmente, per pura  sete di potere” iniziò a spiegare, disgustato.
Non aveva più la forza, Dima, per infuriarsi. Dentro di sé, però, una sfiducia profonda si stava insinuando, amara e dolorosa.
“Oh, no, non è possibile” mormorò Elsa, gli occhi sgranati, sollevando leggermente la schiena dal cuscino su cui era adagiata.
“L’ho sentito, con queste orecchie. L’ho sentito” ribadì Dima.
“Ma come può raggiungere Nenjaat, e il potere del Nord, decimando la popolazione di tutta la Regione?” chiese lei.
“Ha reso debole e fiacco il nostro territorio, Elsa, per facilitarsi la conquista. L’ha isolato, impedendo alle altre Regione di correre in loro aiuto. Ed ha imprigionato il Supremo, come suo fantoccio nel governo del Nord. Attaccherà presto” spiegò il ragazzo, guardandola bene negli occhi lucidi.
“Quando?”
“Subito dopo la Cerimonia della Scelta”.
“E noi? Che ne sarà di noi?”
Dima ridacchiò, un riso amaro e terribile: “Faremo la stessa fine del Supremo, credo. Noi tre siamo d’intralcio e verremo fatti fuori senza pietà”.
Restarono muti per un po’, ognuno immerso nei suoi terribili pensieri.
Tutto era cominciato come un gioco, come la bella avventura di diventare Guardiani, essere forti, potenti, rispettati. In un certo senso, al sicuro.
Quand’è che la loro storia aveva iniziato a prendere i tratti  dell’incubo? Perché non se ne erano accorti, continuando a vivere un’adolescenza spensierata sotto il lago di Odundì?
Adesso i tempi dei giochi e delle risate, delle scappatelle in superficie, sembravano lontanissimi.
In un silenzioso movimento, impacciato e lento, Elsa si alzò dal suo letto e, a fatica, percorse la distanza che la separava dal suo compagno di sventura. Lo abbracciò, lei in piedi, lui ancora seduto sulla sedia, e calò il viso sui suoi riccioli ribelli, e pianse qualche lacrima, mentre l’amico la stringeva per la vita, sostenendola, aiutandola a reggersi in piedi. Restarono abbracciati per un po’, godendo di quell’amicizia segreta che era tutto ciò che gli restava, al momento.
“Ce la faremo Dima. Non siamo destinati ad essere sconfitti: Dira ci ha scelto e lei vede più lontano di noi” gli sussurrò Elsa all’orecchio, fiduciosa.
“Ma tutto è contro di noi”
“Io ho te, tu hai me, noi abbiamo Petar, che non si tirerà indietro. Vedi che non siamo soli?”
“Sembra così facile, detta così”
“Non sarà facile, ma noi non possiamo permettere che persone crudeli come Orwen, ora che si è rivelato, distruggano la nostra terra. Siamo Guardiani, Dima, e il nostro compito è quello di proteggere le persone che amiamo” disse ancora Elsa, rassicurante, carezzandogli la chioma castana.
Dima la guardò negli occhi, cercando quel calore e quella fiducia che erano soliti regalarsi l’uno con l’altra.
“Cosa facciamo, adesso?”
“Che ne dici di recuperare qualche informazione in più? In fondo, noi non sappiamo nulla di come è venuto fuori tutto questo pasticcio” propose lei, zoppicando nuovamente fino al brodo del letto.
“Di sicuro i monaci qualcosa sanno, impiccioni e curiosi come sono” si rianimò Dima, accompagnandola.
“Ma tu resta qua, va bene?” le disse ancora.
“Non credo proprio! Sono più brava di te, quando si tratta di avere a che fare con le persone. Con i monaci, soprattutto!” ribatté lei, facendogli l’occhiolino, cercando di reprimere la smorfia di dolore, causato dalla mano di Dima sul suo braccio ustionato.
“Ma guarda come sei conciata! Non riesci a muovere un passo. Giuro che poi ti faccio sapere tutto”.
“Ma è noioso starsene qui fermi mentre tu ti becchi tutto il divertimento!” protestò ancora Elsa, davvero impaziente di mettersi all’opera.
Detestava stare con le mani in mano, Dima lo sapeva bene.
“Non ti lascerò sola ad annoiarti, infatti. Adesso vado giù in infermeria e costringo uno dei monaci a salire su, per cambiare quella benda” disse il ragazzo, lanciando uno sguardo perplesso alla fasciatura bianca della gamba, già macchiata.
“Sai che non è buona educazione guardare sotto la gonna di una ragazza?” lo provocò lei, sorridendo, mentre incrociava le braccia al petto, in una dispettosa resa.
“Non quando la ragazza in questione è carina come te” replicò lui, pronto.
Si beccò uno scappellotto gentile sulla testa e poi, ancora ridendo, si avviò verso la porta.
“Attento a non farti beccare da queste parti” lo ammonì Elsa, mentre sistemava meglio il cuscino sotto la sua gamba.
Dima sventolò una mano, annoiato, e, dopo aver scrutato attentamente il corridoio, uscì.
La Casa era silenziosa.
- Probabilmente i monaci sono tutti riuniti per il pranzo – si disse, mentre camminava veloce per i corridoi scuri e odorosi di vecchio legno.
Stando ben attento a tenere la mente lontano dal pensiero di Orwen e del suo bieco tradimento, Dima raggiunse la stanza dell’infermeria con facilità. Supplicando ed implorando fratello Gongi, di turno in quel momento e tutto intento a godersi la sua scodella di zuppa di cipolle, Dima raggiunse il suo obbiettivo non appena vide il giovane monaco incamminarsi verso la stanza di Elsa.
Davanti alla ragazza, Dima aveva cercato di nascondere quanto fosse preoccupato, pur ottenendo risultati poco soddisfacenti; Orwen era forte e invincibile, e lui non voleva neanche pensare a come doveva essere sembrata Elsa sotto i suoi colpi. Sofferente e caparbia, fragile come mai. L’istinto di protezione verso di lei, la bimba che si arrampicava sulle finestre e leggeva enormi libroni nel chiostro, sembrava non dovesse esaurirsi mai in lui.
Arraffando un pezzo di pane dalle cucine, Dima si diresse alla sua prima lezione del pomeriggio, alla Torre.
La Torre era il suo edificio preferito in assoluto nel Mondo di Sotto; ad est rispetto alla Casa e al lago, era immersa in un fitto boschetto di faggi, buio e odoroso di terra fresca e foglie. Era un rifugio perfetto, per Dima, nei suoi momenti no. Era stato teatro di piccole marachelle e dei giochi segreti con Elsa. La Torre svettava alta e sottile, di pietra bianca, scintillante alla luce del sole. Era traforata da mille e più finestre, punteggiata di archi di tutti i tipi e sottili piattaforme. Elsa, un giorno, gli aveva raccontato che le piattaforme erano tutte riservate ai Guardiani dell’Ovest, che venivano brutalmente lanciati verso la terraferma da un altezza sempre maggiore durante la loro formazione. Dima aveva pensato che mai, nella vita, avrebbe voluto essere al posto del povero Petar.
Con la bocca piena, Dima si perdeva in ricordi nostalgici.
- E non è nemmeno la prima volta, in questi giorni. Mi sto davvero rammollendo! – pensava tra sé, mentre calpestava un incauto cespuglio di felci sulla sua strada.
Un altro pensiero lo perseguitava, in quei momenti: doveva assolutamente parlare con Petar. Al più presto. Non poteva permettere che il Guardiano, nella sua ambigua, pericolosa, posizione, a metà tra le Leggi e loro, i due Prescelti, non fosse informato. Doveva essere informato su quanto fosse ripugnante il doppio gioco del suo vecchio amico e mentore Orwen. Ma era inutile arrovellarsi sui possibili futuri, sul cosa dire e come fare; tutto si sarebbe deciso all’indomani, sotto le stelle del Mondo di Sopra, tra lui, Elsa e il loro più caro amico.
Fratello Agos lo aspettava nella solita stanza, dipinta a colori pastello e ricoperta di carte geografiche, piena tavoli dalle gambe sottili carichi di preziosi strumenti. Dima salutò il suo maestro, e prese posto in un banchetto vicino ad una finestra; la tenda sottile si gonfiava a ritmo del vento e carezzava lieve la nuca e le spalle del ragazzo.
“Ben arrivato, Signore” rispose pacato fratello Agos, sorridendogli appena.
“So che avete avuto una mattina movimentata” aggiunse.
Dima restò immobile per un momento, non sapendo come interpretare le parole del monaco: sapeva della sua visita ad Elsa?
“Il Signore del Sud è stato molto duro con voi” concluse quello, comprensivo.
Dima respirò, sollevato.
“Si, fratello Agos. È stata una mattinata davvero insolita”.
“Allora noi, oggi, riprenderemo con le nostre lezioni di routine. L’argomento, mio Signore?”
“Politica”
“Molto bene” ammiccò Agos, posando entrambe le mani sul suo ventre sporgente.
Con la sua camminata ondeggiante percorse tutta la lunghezza della stanza, per tornare indietro carico di pesanti tomi rilegati in pelle. Dima gemette, mentalmente, alla sola vista di tutto quel materiale.
“Continueremo dal trattato che stavamo esaminando la volta scorsa” disse il monaco, scegliendo con cura la pagina del primo dei volumi accatastati sul banco del ragazzo.
Dima si trovava a suo agio con fratello Agos; era buono e giusto, comprensivo al momento opportuno e votato alla sua veste e al suo dio in tutto e per tutto. Ma le sue lezioni di politica erano davvero sfiancanti. E noiose. Lui e Dima leggevano per ore e ore vecchi trattati, o scritti, o poemetti di alcuni passati uomini di stato, Consiglieri o Guardiani stessi, e ne studiavano le mosse e contromosse, imparando l’arte dell’oratoria, soffermandosi sulle innovazioni o su un’epoca particolarmente feconda. Insomma, una lunga carrellata di idee e comportamenti a cui Dima, una volta diventato Guardiano, avrebbe dovuto rifarsi.
Il tempo scorreva lento e il ragazzo faticava a concentrarsi sul grande discorso di Bertold dell’Est al Gran Consiglio, volto a ottenere finanziamenti per una guerra oltreconfine più di cent’anni prima.
La sua mente continuava a vagare e perdersi, riportata al presente da un sempre meno paziente fratello Agos.
“Bene, signore, basta” disse infine il monaco, sistemandosi meglio sulla piccola poltrona destinata a lui.
Dima alzò gli occhi dalla lettura, impappinandosi sull’ultima parola del suo trattato, scritto nell’antica e complicata lingua di Cadmow.
“Ho fatto qualcosa di sbagliato, maestro?” chiese, piuttosto umilmente.
“Devo farvi smettere per la salute delle mie povere orecchie. Mai una lingua bella come la nostra è stata storpiata e modificata come state facendo voi questo pomeriggio” disse quello, con l’ombra di un sorriso sul volto paffuto.
“Mi dispiace, fratello. Mi impegnerò più a fondo, adesso”.
“No, Dima, dubito che lo farete”.
“E perché?”
“La vostra mente è altrove e nulla può il discorso di Bertold per riportarla indietro”.
Dima chinò il capo, sospirando “Hai ragione, maestro, come sempre”.
“Allora perché non mi dite quello che vi passa per la mente? A cosa state pensando?”
Dima  esitò per qualche secondo. Poteva essere molto pericoloso parlare ad un monaco di quello che aveva scoperto in maniera esplicita. Insomma, loro non si sarebbero mai schierati contro il Sommo!
Eppure, quella poteva essere una buona occasione per ottenere qualche informazione in più e portare a termine il piano concordato con Elsa.
“Fratello, sono preoccupato per la Regione del Nord. Proprio ieri ho parlato con il Sommo Sacerdote e non ci sono buone notizie, purtroppo” iniziò, tenendo gli occhi bassi e la mente vigile.
“Intendete l’epidemia, Signore?”
“Ovviamente”
“È doloroso sapere che molta brava gente soffre, in questo momento, mentre noi ci godiamo il sole e la bellezza di Odundì. Avete ragione ad essere preoccupato; ma il mio cuore si riempie di speranza quando mi date la prova del vostro affetto per quella terra lontana” ribatté Agos, senza riuscire a nascondere una nota di commozione che Dima non sapeva proprio come interpretare.
 “Poi, la Muraglia… Sai, mi incuriosisce sempre di più” continuò il ragazzo, dritto verso il suo obbiettivo.
“Incuriosisce?”
“Ecco, è da anni che mi chiedo come sia stato possibile mettere in piedi una costruzione tanto grande e imponente in così poco tempo. Grazie alla quale abbiamo salvato il resto di Cadmow, ovviamente” aggiunse precipitosamente, cercando di nascondere il suo disprezzo verso quella vecchia decisione.
Fratello Agos storse la bocca prima di rispondere, ma Dima non riuscì a cogliere il guizzo nei suoi occhi chiari che già il monaco aveva preso a raccontare.
“Dovete sapere, Dimitar, che quando l’epidemia scoppiò al Nord, il panico si diffuse velocemente a Cadmow. Non potevamo permettere ad una malattia di decimare la nostra popolazione e infettare le nostre merci e i nostri raccolti. Per evitare il tracollo demografico e economico, allora, il Gran Consiglio al completo si riunì diverse volte, nella speranza di trovare una soluzione. Naturalmente io non so nulla di quello che accadde in quelle riunioni, non essendone ammesso in nessun modo” spiegò il monaco.
Dima ricordava l’agitazione che aveva percorso il Tempio in quel periodo; aveva dodici anni, la vita sembrava finalmente andare per il verso giusto e lui non aveva pensato ad altro se non a godersi i giorni di sole e di pioggia con i suoi nuovi amici.
“Eppure sarà circolata qualche voce, qualche indiscrezione. Ti prego, fratello, raccontami questa storia; mi appassiona molto e credo sia utile, per me, conoscere ciò che avvenne durante i primi anni del mio addestramento” lo supplicò allora.
“Le voci che circolarono a Cadmow furono molte e poco affidabili. Una cosa posso dirvi con certezza; l’idea della Muraglia è stata del nostro amato Sommo Sacerdote. Fu lui che suggerì la giusta soluzione ad un problema che rischiava di diventare insolvibile”.
“Non è possibile!” si lasciò sfuggire Dima, in un moto di stupore.
Fratello Agos alzò gli occhi su di lui immediatamente, con una strana espressione dipinta in viso. Dima si morse la lingua a sangue; avrebbe voluto rimangiarsi quanto detto!
L’idea che fosse stato tutto deciso, tutto architettato, dal Sommo ed Orwen sin dall’inizio lo mandava in bestia. Ma aveva assolutamente bisogno di salvare la situazione con il suo maestro.
“Intendo, non è nella natura dei monaci interessarsi troppo agli affari terreni” aggiunse, cercando di dare al suo volto l’espressione più innocente che possedeva.
Fratello Agos continuò a guardarlo dritto negli occhi mentre procedeva con il suo racconto.
“Invece è andata proprio così. La storia non sempre segue la strada che noi immaginiamo”.
“E l’approvazione fu unanime?”
“Si dice che la maggior parte dei Consiglieri abbiano appoggiato la proposta. La costruzione ebbe inizio qualche settimana dopo”.
 “Chi fornì i materiali necessari, quale Regione?” la curiosità lo divorava, sentiva che c’era ancora molto da scoprire sull’argomento.
“Il Sud, ovviamente. Era una periodo prospero e ricco, per quella Regione, quel tempo. Mise a disposizioni i suoi migliori lavoratori che estrassero le pietre dalle Montagne dell’ Ovest e le trasportarono su grandi carri. Anche la costruzione fu curata dal buon Orwen, che prese a cuore il progetto come nessun altro”.
“Orwen? Perché Orwen e non Petar? In fondo, le Montagne sono nella sua Regione” chiese Dima, quasi scandalizzato.
Com’era potuta accadere una cosa del genere sotto gli occhi di tutti? Le parole di Fratello Agos non facevano altro che rafforzare le sue idee, dandogli una sicurezza nuova.
“Il Signore dell’Ovest ha preferito rinunciare a quest’incarico. Non ne conosco le ragioni, so solo che discusse lungamente con il Guardiano Orwen” rispose il monaco, sistemandosi meglio la stola gialla sulle spalle grassocce.
- Petar aveva provato ad opporsi ed è stato brutalmente scavalcato!- pensava Dima, in fretta.
- Magari quel bastardo ha minacciato di invadere anche la sua Regione -.
“Devono essere stati tempi piuttosto bui, fratello” scelse di commentare, mordendosi l’interno di una guancia per il nervosismo.
“Bui ed incerti, si. Per noi monaci, però, la priorità siete sempre stato voi, la vostra istruzione e protezione”.
“Come mai il Supremo ha accettato un incarico tanto pericoloso? Nel senso, so che è suo compito occuparsi della Regione fino ai miei diciassette anni, ma è stato praticamente condannato ad una lunghissimo periodo di reclusione” lo interrogò Dima, anche se pensava di conoscere già la risposta.
“Non è il tipo d’uomo che si tira indietro. Io non so nulla delle sue scelte, né delle sue motivazioni. L’unico che, da cinque anni a questa parte, mantiene i contatti con lui è Il Signore del Sud, in quanto più anziano dei Guardiani”.
“Orwen? Proprio lui?”
“Esatto. Vedo che l’argomento vi interessa non poco. Avete qualche scopo particolare?”
Dima deglutì, a disagio.
“Semplice curiosità, fratello. Sai quanto poco riesco a controllare questo lato del mio carattere” sorrise, infine.
“La curiosità è un’ottima qualità, Dimitar, se usata nel modo giusto. Fate attenzione, in modo che non diventi morbosa, atta solo a soddisfare un primario istinto” lo redarguì fratello Agos.
Il suono profondo del gong di Odundì scosse entrambi, uomo e ragazzo, riportandoli al presente.
Fratello Agos congedò Dima con grazia, e il ragazzo prese ad avviarsi verso la cena. Moriva di fame, ma nulla avrebbe potuto mettere a tacere il rumore della sua mente in moto.
La verità era dura da accettare.
Si trattava di un complotto, ormai era chiaro. Un piano di azione ben architettato, pronto pronto a colpire al momento giusto, quello più instabile e incerto della storia di Cadmow da più di mille anni. Un errore, due Prescelti al posto di uno, il rischio di un cambiamento. E così anche le ambizioni più losche trovano il loro spazio.
Dima inorridiva al solo pensiero.
Il sistema dei Guardiani aveva garantito la pace a Cadmow per più di mille anni, dopo un lungo periodo di sanguinose guerre interne, gestite dalle famiglie più potenti di ogni Regione.
Mille anni di tranquillità, nei quali ogni rivolta, ogni congiura, ogni corruzione era stata sventata o sapientemente arginata e contenuta. I libri di storia raccontavano di Wenda, Guardiana del Sud, brutalmente assassinata da un gruppo di ribelli, o del feroce piano architettato dal Supremo Deel, due secoli prima, per conquistare il potere, o delle rivolte popolari che a più riprese percorsero l’intero paese; la mediazione e la saggezza dei Guardiani, il sangue freddo del Consiglio e la spiccata intelligenza di alcuni uomini politici avevano efficacemente allontano ogni cupo risvolto di queste tristi vicende.
Ora, Dima si sentiva al centro di un pericoloso vortice, e sapeva che presto sarebbe stato risucchiato in qualcosa di più grande di lui. Le poche settimane che lo separavano alla Cerimonia della Scelta non avrebbero solo deciso della sua vita; dopo quel giorno, niente, a Cadmow, sarebbe stato più come prima.
Stranamente, parole lontane, la voce di Petar, prese a risuonare nella sua mente, mentre attraversava il boschetto di faggi. La voce di Petar, una sera lontana.
Le cose stanno cambiando. Cadmow avrà presto bisogno di entrambi.
 
 
 


 
Note
Ok, questo capitolo mi sembra noioso, inutile, banalissimamente di passaggio e, per di più, pubblicato in ritardassimo! Mi dispiace, ma in tutti questi giorni la mia testolina non è riuscita a produrre niente di meglio!!
Spero che, nonostante il mio parere non proprio positivo, possiate leggerlo e apprezzarlo per quello che da… Di seguito ho aggiunto un paragrafetto per spiegare un “tecnicismo” del testo, perché potrebbe sembrare in alcuni punti incongruente e io sono un po’ maniaca su queste cose!! Lo lascio qui sotto, se vi va, leggetelo :)
Come sempre, per ogni opinione, positiva o critica che sia, vi aspetto nelle recensioni!
Infine, grazie, grazie, grazie, a tutti quelli che leggono e seguono questa storia di capitolo in capitolo… siete il miglior incoraggiamento!!
A presto,
EsterElle
 
 
Appunti
Mi sono accorta ora che, leggendo tutti i capitoli, può sembrare strano l’uso del “tu” e del “voi” senza una logica standard, uguale per tutte le situazioni. In realtà non ho lasciato al caso questo dettaglio, ma posso ben capire che non è un ragionamento che salta subito all’occhio! Quindi qui di seguito provo a spiegarlo…
 
Ho pensato che tutto debba dipendere da chi si rapporta a Dima e in che periodo della sua vita, e soprattutto come sceglie di considerarlo; un semplice bambino di appena dieci anni (per quanto riguarda i capitoli della prima parte), inesperto e grezzo, oppure il Guardiano del Nord.
Per esempio, fratello Gahs, durante la primissima lezione al lago, gli da del tu, invece qui fratello Agos del voi. Dima è cresciuto e quindi anche i monaci non si prendono le stesse libertà di quando era bambino.
Alcuni monaci, però, (tipo fratello Ashim) in un eccesso di zelo, si rivolgono da sempre in maniera formale al bambino.
Allo stesso modo, il Supremo e il Sommo danno del tu a Dima; infatti, essendo ancora un bambino/ragazzo sotto la loro responsabilità, e avendo loro un ruolo di potere a Cadmow, non si sono convertiti, per il momento, al voi dovuto ai Guardiani.
Ancora, al Palazzo d’Inverno, Bessie da del voi al bambino e Frewa del tu; sono entrambe domestiche, ma la seconda è più anziana e rude, passa tutto il giorno in lavanderia e quindi non conosce né apprezza certe finezze del linguaggio e l’etichetta del palazzo.
Dima da del tu a tutti, perché così ha fatto dal giorno del suo arrivo a Nenjaat, secondo il vizio di tutti i bambini. Solo ai Guardiani si rivolge con formule diverse e, in particolare, solo ad Orwen.
Un discorso contorto, lo so, e noioso! E magari non interessa proprio a nessuno… Ma sono fissata con queste piccolezze, e ci tenevo a spiegare!

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Capitolo 11
*** Dirsi addio ***


Capitolo 11
Dirsi addio


“Dima, basta, smettila ti prego!” supplicò Elsa, le braccia allargate come a farsi spazio tra i due.
Dima respirò lentamente, dal naso.
L’erba e il terreno sotto i suoi piedi erano completamente ghiacciati, il volto di Petar a meno di una decina di centimetri dal suo.
La situazione stava degenerando. Decisamente.
Le mani gli formicolavano e l’acqua del lago di Odundì, alla loro destra, sciabordava a più non posso, infrangendo le sue onde sulla riva fangosa.
Lo sguardo di Petar era duro e fermo, per nulla spaventato. Lo fissava dritto negli occhi, le braccia rilassate lungo il corpo. Nell’aria, nemmeno un alito di vento.
Dima chiuse gli occhi un momento, prima di parlare.
“D’accordo, adesso la smetto” acconsentì, posando entrambe le mani sulla fronte.
Ad Elsa non servì molto tempo per piantarsi tra i due litiganti, trascinandosi la sua gamba ancora dolorante, lanciando occhiate preoccupate a destra e a sinistra.
“Ecco, e la finite tutti e due di comportarvi come bambini, chiaro?” ribadì, un po’ più sicura.
Dima, ancora teso, voltò le spalle agli altri due e percorse i pochi metri che lo separavano dal lago. Con un colpo secco, scalciò via gli stivali e camminò lentamente tra le acque agitate. Niente riusciva a calmarlo come la sensazione fresca del suo elemento sulla pelle.
Petar, nel frattempo, aveva posato una mano sulla spalla della ragazza, come per rassicurarla.
“Tranquilla, piccola, non gli avrei permesso di fare niente di cui si sarebbe potuto pentire” le sussurrò, sfiorandole la sommità della testa con le labbra.
Elsa annuì stancamente, dimenticandosi, per una volta, di arrossire.
Tutti e tre lasciarono che il silenzio scivolasse tra loro, portatore di pace.
Elsa era ancora pallida in volto quando decise di avvicinarsi al ragazzo che le dava le spalle. Senza curarsi di inzupparsi scarpe, gonna e fasciatura, lo raggiunse in mezzo al lago, guardando il suo profilo alla luce della luna.
Dima era un ragazzo esile, lo era sempre stato. La sua forza non era nei muscoli o nelle braccia; lui era il suo potere. Lui era acqua.
“Per favore, non colpevolizzarti più di quanto dovresti” gli disse. Sussurrò.
Ma l’altro restò in silenzio, continuando ad osservare il cielo coperto di quella notte.
Era alto, leggermente allampanato. La massa di corti ricci castano chiaro sembrava più scura in tutta quell’oscurità.
“Non è stata davvero colpa tua” continuò lei.
“Ero io, invece. Quello sono io, Elsa” disse infine, con voce roca, vincendo la sua reticenza.
“Si, sei anche quello”.
“Contro Petar, ti rendi conto? Io volevo… Ho rischiato di fare del male al Petar!”
“Eri arrabbiato. Sai che è più difficile gestire il tuo potere quando non ragioni lucidamente”.
“Pensavo di essere migliore. Di averlo superato”.
“E invece hai scoperto che c’è ancora del lavoro da fare. Beh, possiamo esercitarci insieme, se ti va. Farò da  cavia, promesso” sorrise lei, nella sua direzione.
Dima si voltò appena in tempo per cogliere un barlume di quel sorriso.
“Che stupida”.
“Che povero idiota e testa calda”.
“Dici che devo tornare da lui?”
“Mi sembra ovvio. Stai sereno, è molto meno arrabbiato di quanto non lo sia tu con te stesso”.
“Mi sconvolge l’idea che il mio potere può ferire” commentò Dima, guardandosi i palmi delle mani umidi, mentre un vecchio ricordo correva veloce nei suoi occhi.
 “Chi meglio di un altro Guardiano può darti consigli su questo? Torniamo indietro, dai; possiamo trovare una soluzione a tutto” disse Elsa, cercando di far trasparire più ottimismo di quello che lei stessa non provava.
“Ma io non posso ancora credere a quello che ha detto. Tu non sei sconvolta?”
“Io…  non so. Credo di si, in realtà. Ma è Petar e… insomma, lui è dalla nostra parte! Lo è sempre stato, l’unico. Deve esserci una spiegazione” mormorò lei, stringendosi tra le braccia.
Dima si prese un momento per posare i palmi a pelo d’acqua.
Sospirò. “Andiamo ad ascoltarla, allora”.
Il primo a raggiungere la terra ferma fu proprio Dima; a piedi nudi, prese a camminare verso il masso seminascosto dall’erba, dove Petar li stava aspettando.
L’uomo accenno un mezzo sorriso nella sua direzione, mentre Elsa prendeva posto al suo fianco.
“Mi dispiace. Non so cosa mi è preso” mormorò Dima a testa bassa.
“Posso capirti più di quando immagini” rispose Petar, rassicurante. “Ma tu ancora non riesci a comprendere me, vero?”.
“Si. Io non ti capisco affatto”.
“Nemmeno io, se è per questo. Sei davvero convinto di quello che hai detto? Come puoi non crederci?” aggiunse Elsa, voltandosi verso il Guardiano.
Un sorriso triste, ben noto ai ragazzi, andò disegnandosi sul volto dell’uomo. Con una mano sistemò una bionda ciocca dei capelli di Elsa, sfuggita alla stretta pettinatura, prima di parlare. Le sfiorò la fronte, ancora livida e segnata dagli incidenti del giorno prima.
“Ma io vi credo” sussurrò.
“E allora perché diavolo difendi quel bastardo schifoso di Orwen?” inveì Dima.
“Perché lui non ha colpe”.
Il ragazzo alzò le braccia al cielo, furioso. Prese a girare in tondo, stringendo forte i pungi.
“Dima l’ha sentito, Petar! L’ha sentito mentre complottava con il Sommo. Sono stati loro a creare l’epidemia al Nord, anche se non ho minimamente idea di come abbiano fatto!” spiegò Elsa, per l’ennesima volta.
“Ti prego, devi crederci!” aggiunse, afferrandogli un braccio.
“Te l’ho già detto, piccola; vi credo. Dima ha ascoltato una dubbia conversazione tra Orwen e il Sommo, ma sono convinto che sia saltato subito alle conclusioni sbagliate. Che interesse avrebbe il Guardiano del Sud a decimare la popolazione del Nord?”.
“Per espandere la sua schifosissima influenza” sputò Dima, tra i denti.
“Per sete di potere dici?” replicò scettico Petar. “Io conosco Orwen, ragazzi. Da più di trent’anni siamo guardiani insieme. È un uomo giusto, un uomo buono. È severo con voi, posso immaginarlo, ma mai quanto lo è con se stesso”.
“Tu hai il cervello pieno di decenni di amicizia e non te ne rendi conto; lui è un traditore, punto e basta. Ha rapito il Supremo e lo tiene prigioniero da cinque anni!” si rivoltò Dima, terribilmente indignato.
Tutto stava andando storto. Tutto. Non poteva credere che anche il loro ultimo e più fidato alleato li stesse abbandonando. La rabbia di poco prima tornava a crescere veloce, in lui.
Doveva controllarsi. Assolutamente.
“Non ci metterei la mano sul fuoco”.
“Ma che diavolo ti prende, questa sera? Non puoi davvero giustificare tutto questo!”
“Va bene ragazzi, ascoltatemi” iniziò Petar, risoluto, sporgendosi in avanti e poggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia. Li guardava negli occhi, a fondo, come a volerli convincere di una verità inconfessabile.
“Le cose non sono sempre come sembrano. È chiaro che qualcosa di losco sta succedendo al Nord, ed è chiaro che deve essere coinvolto qualcuno di potente. Sul Sommo non posso garantire. Non conosco il suo passato, ma deve avere parecchi scheletri nell’armadio”.
“Già, chissà come se l’è procurata quella cicatrice”
“Fallo finire, Elsa!”
“Dicevo, non posso dire nulla su di lui. Forse è coinvolto, forse no. Ma di una cosa sono certo: Orwen è innocente. Fino al midollo. Non lo farebbe mai, fidatevi; non ho mai conosciuto nessuno che avesse a cuore gli interessi di Cadmow come lui”.
“Ma se ci vuole uccidere!” sbottò Dima, con una risata sarcastica e finta.
“No, ragazzo, vuole uccidere uno solo di voi”.
“Siamo messi bene, allora!”
“ È molto legato alle Leggi e alle tradizioni, questo è vero: ma solo per il bene della vostra Regione”.
“Appunto! Nella sua testa il bene di Cadmow consiste nella morte di uno di noi; piuttosto distorto come concetto di salvezza, no? Tu non capisci, non riesci a vederlo. Porre il Nord sotto il suo governo non può essere altro che una mossa giusta, buona, per lui; persino doverosa. Sarà pure animato dai più nobili sentimenti, Petar, ma quello che vuole fare, quello che ha già fatto, è sbagliato! Tremendamente sbagliato!” si accalorò Dima, gesticolando come un pazzo nel tentativo di farsi capire da Petar.
“Maledizione!” saltò su l’uomo, battendo forte un pugno sulla gamba.
“Io non posso. Non posso aiutarvi. Non andrò contro un innocente solo per alimentare i vostri sospetti!” disse infine, scuotendo leggermente la testa.
Dima sgranò gli occhi, allibito.
No.
Non potevano essere davvero giunti a quella conclusione, era assurdo. Non doveva finire così; era la peggior sorpresa di sempre.
Petar li stava abbandonando e i suoi incubi si stavano materializzando proprio davanti ai suoi occhi.
“Petar, ma noi abbiamo delle prove” cercò di spiegare Elsa, con una sfumatura leggermente disperata nella voce. “Fratello Agos ci ha raccontato un sacco di cose. Di come è stata costruita la Muraglia e perché. Orwen ha orchestrato tutto col Sommo sin dall’inizio; io e Dima crediamo abbia minacciato anche te” continuò, accorata.
“Orwen minacciare me?” ripeté Petar, completamente incredulo, quasi ridendo.
“Si, per accaparrarsi il diritto di costruire quel dannato muro! Così da poterne avere pieno accesso al momento giusto” rispose Dima, in tono di sfida.
Era pronto a spaccargli la faccia se avesse riso un’altra volta.
“Dopo aver fiaccato la popolazione per anni, cioè” precisò Elsa, frettolosamente.
“Voi… voi avete frainteso tutto! È assurdo! Nessuno hai mai osato minacciarmi; di cosa, per di più?”
“È ovvio, no? Di un’incursione armata”.
“Dai, Petar, non essere così arrogante; lo sanno tutti che la Regione del Sud è praticamente imbattibile. Ti avrebbe schiacciato” commentò Dima.
“Piccoli stupidi” buttò lì l’uomo, prima di alzarsi dal masso e allontanarsi di qualche passo.
Quella era la prima vera lite tra loro tre. Avevano creduto di essere indivisibili, invincibili; ma ora un muro spesso stava calando tra loro.
Dima si prese un minuto per guardare Elsa, ancora rigidamente seduta. Aveva occhi lucidi e lui sapeva bene il perché.
-Quella scema ha una cotta megagalattica per lui dai tempi dei tempi. Non vorrei essere nei suoi panni, ora- pensò.
La vide abbassare la testa, magari per versare qualche lacrima indisturbata.
Ma c’era poco da discutere, poco da capire, da compiangere; Petar stava girando loro le spalle in nome della fedeltà ad un vecchio amico.
E questo faceva male. Tanto.
Quasi sussultò quando la ragazza si alzò di scatto, andando a sfiorare con la punta delle dita la casacca di pelle del Guardiano, ancora di spalle. Fu un attimo, e Dima si ritrovò ad osservare i suoi migliori amici stretti in un abbraccio infinito, la piccola Elsa con i piedi sollevati da terra e il volto del Guardiano immerso nei capelli di lei.
“Mi dispiace, mi dispiace tanto” sentiva mormorare Elsa, incessantemente, tra un singhiozzo e l’altro.
Una strana immobilità si impossessò dei lineamenti di Dima. Sentiva un peso al cuore, grande, e la voglia di piangere anche lui.
Quello non era un abbraccio qualsiasi.
Elsa stava dicendo addio al loro migliore alleato, al loro confidente, amico, fratello, al suo amore segreto.
Qualcosa pizzicava agli angoli dei suoi stessi occhi; Dima si chiese se stesse veramente per cedere.
L’avrebbe fatto, molto probabilmente. Si sarebbe messo a singhiozzare come un bambino, stanco di portare un fardello troppo pesante per lui, stanco di essere abbandonato, di essere solo.
L’avrebbe fatto sicuramente.
Peccato che, proprio quando la prima lacrima aveva percorso la sottile e irregolare peluria della guancia, qualcosa di strano accade davanti a lui.
E la situazione precipitò velocemente.
Elsa, ancora stretta tra le braccia di Petar, smise di piangere, di mormorare, di stringere convulsamente le mani intorno al collo del Guardiano. Smise di fare qualsiasi cosa.
 In un attimo, si accasciò sulla sua spalla, bianca, debole.
“Elsa? Elsa?” la chiamò Petar, allarmato, sentendola inanimata.
-Come morta, in realtà- registrò Dima, ancora immobile, come sotto shock.
Che diamine stava succedendo?
In un attimo, il Guardiano si era chinato sull’erba alta, posando delicatamente a terra la ragazza, e, preoccupato, le scostava i capelli biondissimi dal volto.
Dima, ripresosi, corse verso di loro in un nanosecondo, inginocchiandosi al suo fianco.
Lei era pallida, più pallida del solito, pallida sotto i tagli e i lividi del volto in via di guarigione.
“Petar, che cos’ha?” chiese, preoccupato.
Il Guardiano non rispose, ma le poggiò due dita sul collo, avvicinando l’orecchio al viso di lei.
“Rispondimi, porca miseria!” si infuriò Dima, ormai sotto pressione da troppo, troppo, tempo.
Petar si tirò su lentamente.
“Sta bene” disse, laconico.
“Certo, sta bene. Ecco perché è sdraiata per terra mezza morta”.
Dima si meravigliò di riuscire a fare ancora del sarcasmo.
“Sta avendo una visione”.
Una visione.
La parola rimbombò nella mente di Dima, prima di acquistare un senso.
“E tu come lo sai? Come sai che è per questo che sta così male?”
“Me lo ha raccontato lei”
Dima alzò le sopracciglia, scettico. Elsa si era sempre rifiutata di parlare con lui del suo potere, di confidargli i suoi timori. In fondo, ne era ancora profondamente spaventata.
“Quando?”
“Anni fa, mentre tu facevi a gara con te stesso sul tempo che passavi in apnea sotto il lago”.
La voce di Petar era stanca, strascicata. Si passò una mano sulla fronte, chiudendo gli occhi.
Anni fa.
Elsa si fidava di lui, di Petar. E Dima stesso non aveva mai dubitato, fino a quella notte.
“Cosa dobbiamo fare?”
“Niente. Aspettiamo che finisca”.
Leggere increspature percorrevano la superficie del lago, e Dima lasciò che il suo sguardo si riposasse a quella vista; il vento agitava le piccole onde, questa volta. Il caldo vento del Sud.
Dimitar Pavalon era sempre stato un ragazzo curioso; aveva desiderato parecchie volte il potere di Elsa. Voleva spiare il domani, svelarne i segreti e conoscere ogni singolo pericolo davanti a lui. Voleva vedere.
Ma ora lei stava male e al ragazzo sembrava di comprendere, per la prima volta, la maledizione di quel potere. Non le aveva mai creduto e si sentiva un vero stupido.
Incapace di stare ancora seduto, si alzò, senza degnare di uno sguardo Petar. Non sapeva davvero come comportarsi nei suoi confronti; allontanarsi poteva solo fare bene ad entrambi.
La terra e la ghiaia scricchiolavano sotto i suoi piedi e quel rumore tanto lieve pareva amplificato mille volte nel silenzio della notte. Un uccello notturno cantò, in lontananza, tra i boschi dell’Est. Un suono cupo e basso, che si unì allo sciabordio delle onde.
Quell’attesa sembrava non dovesse finire mai.
-Andiamo Elsa, svegliati!-
Non riusciva a vedere le stelle; troppe nubi nel cielo. Ma l’aria di pioggia aveva sollevato forte il profumo dei fiori di campo, ed ora ne era avvolto da capo a piedi. Piccoli grilli nascosti frinivano piano tra le sterpaglie, in quella natura selvaggia e non curata, tanto diversa dalla simmetrica perfezione del Mondo di Sotto.
A Dima piaceva tanto starsene lassù; ma quella notte anche il lago di Odundì aveva perso ogni apparenza di favola.
Infine, qualcuno annaspò forte alle sue spalle.
Dima si voltò di scatto, raggiungendo gli altri due. Petar stava reggendo una stranita Elsa per le spalle, sussurrandole qualche parola rassicurante, di sicuro.
“Ehi, non mi sembrava proprio il momento adatto per un pisolino” scherzò Dima, prendendole una mano.
“Idiota” disse lei di rimando, flebilmente.
Ma sorrise, e questo non poteva che essere un buon segno.
“Oddio, gira tutto!” si lamentò, portandosi una mano alla testa.
Insieme, Dima e Petar lasciarono che, lentamente, ritornasse seduta. Con le mani in grembo, Elsa aveva una strana espressione svagata, un leggero sorriso stampato sul volto.
“Beh, allora?” chiese il ragazzo, impaziente.
“Allora cosa?”
“La tua visione, piccola. Cosa hai visto?”
La consapevolezza sembrava farsi strada piano piano tra i lineamenti delicati della ragazza. E i suoi occhi, di secondo in secondo, si facevano più cupi, carichi d’orrore.
Un singhiozzo muto le sfuggì dalle labbra.
“Elsa? Che succede, cos’hai ancora?” chiese Dima, scuotendola leggermente per le spalle.
“Lasciala, ragazzo. È solo sconvolta”
“Ma per che cosa?”
“Era… era orribile” mormorò lei, puntando gli occhi, spalancati come fari, sul Guardiano.
“Raccontacelo, Elsa, ti aiuteremo noi” la incoraggiò lui.
“Si, è vero” rincarò Dima.
Il cuore gli batteva forte in petto; ansia e paura, preoccupazione, si alternavano nella sua mente senza sosta. Che nottata orribile!
“Era giorno, c’era tanto sole. C’erano tutti, credo. Ho visto moltissimo arancione e mille e più persone senza volto. Era come in un torneo; c’erano degli spalti di legno, pieni di drappi colorati e al centro una spiazzo vuoto. Ed è proprio lì che.. che ho visto..”
Elsa aveva il respiro veloce e spaventato mentre raccontava.
“Cosa?”
La ragazza lo guardò per qualche secondo, la fronte increspata da piccole rughe di espressione.
“Ho visto te, Dima, e me stessa. Morti” sussurrò.
Il gelo scese tra i tre senza essere cercato, innaturale, e Dima si ritrovò a trattenere il respiro, come tramortito.  
 Lui ed Elsa morti.
Qualcosa non quadrava in quella visione; solo uno di loro doveva essere sacrificato, erano sempre stati questi i patti.
Cosa diavolo avrebbe portato a quel futuro di sangue? Il suo cervello prese a lavorare febbrilmente, come a voler tenere lontano a tutti i costi il terribile segreto del domani appena svelato. Meglio pensare, indagare il presente, che soffermarsi un solo minuto sul reale significato di quella visione.
Basta con i dubbi, le ipotesi, i piani; il potere di Elsa aveva appena sbattuto in faccia a tutti loro la verità, una certezza.
Petar sembrava pallido quanto loro “Cos’altro hai visto?” chiese.
“Tante persone ferite, urlanti, intorno a noi. E poi... non so, era tutto così vago” continuò, la voce soffocata dalla mani, salite a coprire il volto.
“Di chi era la colpa?” chiese Dima pressante, mentre pian piano ritornava a far funzionare la testa.
Tutto si incastrava alla perfezione; all’appello mancava un solo, particolare, dettaglio.
“Io non lo so. Mi è sembrato di sentire ridere qualcuno ma non ho riconosciuto la voce” rispose sconsolata.
“Beh, tranquilla, io non ho dubbi” intervenì il ragazzo, duramente.
La sua espressione era di ghiaccio mentre gli occhi scuri andavano a piantarsi sul volto ancora sconvolto del Guardiano.
“Come?”
“C’è solo una persona per la quale noi due, tutti e due, siamo un reale intralcio, un bastone tra le ruote. Non essere così sorpresa, Elsa; siamo stati due stupidi a non arrivarci da soli” spiegò Dima, sprezzante.
Elsa impallidì ulteriormente sotto i suoi occhi. La sua pelle sfiorava la trasparenza dell’acqua, tanto era bianca, dando risalto ad un’espressione sconvolta.
“Ancora una volta, Dima, ti stai sbagliando” disse seccamente Petar.
“Anche se tu ti rifiuti di accettarla, la verità è una sola. La visione di Elsa mi rende più sicuro che mai; è una prova inconfutabile dei piani del vecchio pazzo! Ci vuole morti, me, lei e il Supremo. Vuole il Nord per sé”.
“Non saremo mai d’accordo su questo punto, piantatela di discutere”intervenne la ragazza, tra loro.
“Tu condividi quello che sta dicendo, piccola?” le chiese allora Petar, addolorato.
Dima attendeva trepidante le parole che la ragazza avrebbe pronunciato; si stavano spaccando, dividendo, e lui voleva a tutti i costi portare Elsa con sé.
Eppure, poteva leggerle in faccia quanto stava male in quel momento; un riflesso del suo stesso  dolore, daltr’onde.
“Io non posso negare la realtà, i fatti. Abbiamo visto e sentito cose troppo grandi, troppo importanti per essere ignorate. Io credo che Dima abbia ragione; è Orwen l’artefice di tutto questo, lui che ci porterà alla morte. Dobbiamo fare qualcosa” mormorò infine, a testa bassa.
Fu allora, dopo quell’ultima stoccata, che il Guardiano dell’Ovest si alzò in piedi, imperturbabile, come a voler mettere fine all’agonia di quella notte.
Restò a guardare i due a lungo, prima di congedarsi.
“Le nostre strade si dividono. Abbiate cura di voi, ragazzi; restate uniti, restate forti. Aprite il vostro cuore e le vostre menti alla verità quando questa giungerà fino a  voi” disse, forte e chiaro.
“Il futuro è ricco di insidie, la visione di Elsa ce ne ha appena dato la prova. Non smettete di lottare per il bene di Cadmow e restate vivi. Io farò altrettanto” concluse.
E così, quasi di sottopiatto, fece per recuperare il suo cavallo e andare via.
“Sei stato il nostro migliore amico, Petar. Grazie di tutto” disse Elsa, forte, prima che l’uomo fosse troppo lontano per sentirla.
Quando si voltò, il Guardiano vide entrambi i ragazzi in piedi, le mani allacciate, protesi verso di lui.
Avevano scelto di percorrere vie completamente diverse e quell’allontanamento non poteva significare nulla di buono. Ma niente avrebbe potuto completamente oscurare il ricordo di un’amicizia come la loro; fiorita e sbocciata in gran segreto, sotto il cielo magico di Odundì, conservava quel sapore di eternità. Nonostante tutto.
Il Guardiano non riuscì a trovare parole per esprimere il tumulto nel suo cuore; alzò il braccio, semplicemente. Un saluto veloce, forse un arrivederci.
In un soffocato rumore di zoccoli, ecco, era sparito verso i suoi monti, verso la sua casa, la sua Regione.
“E adesso?” chiese la ragazza, ancora frastornata da quell’addio.
“Adesso dovremmo arrangiarci da soli, Elsa” rispose Dima, lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé.
“Siamo rimasti soli, ormai” aggiunse, senza riuscire a trattenere quel senso di incompiutezza che sentiva.
“Io ci sono”.
“Lo so”.
-E ti ringrazio infinitamente- pensò, mentre con la mano si aggrappava a quell’unica amica che gli restava.
Non riuscì a fare a meno di fare un conteggio veloce delle vittime di quegli anni, delle persone che non avrebbe potuto portare con sé nella sua nuova vita: i suoi genitori, i fratelli, Teppe, Bessie, il Supremo, il Sommo, Orwen. Ed ora, Petar.
Aveva perso tutti. O quasi.
L’alba li colse impreparati, ancora immobili e con gli occhi puntati ad Ovest.
Senza il bisogno di aggiungere una sola parola, i due si incamminarono verso la botola.
Tornare nella prigione dorata del Mondo di Sotto, però, era quasi insopportabile quella notte.
“E se ce ne andassimo? Se fuggissimo ora, in questo momento?” si ritrovò a dire Dima, con la voce arrocchiate dal lungo silenzio.
“Adesso?” chiese lei, riemergendo dai suoi pensieri, turbata.
“Sì! Andiamo via e lasciamoci tutto alle spalle. Io non voglio passare un giorno di più in quel covo di vipere.  E poi, hai visto cosa succederà se assecondiamo il loro gioco”.
“Ma, Dima, le visioni non funzionano proprio in questo modo” disse lei, titubante.
“In che senso?”
“Quello che ho visto è solo uno dei possibili futuri. Tutto dipende dalle nostre scelte; il futuro non è scolpito nella roccia, ma è mutevole e cangiante. Come l’acqua, appunto” disse, mentre un velo di sconforto permeava ancora le sue parole.
“Beh, si, non mi ha nemmeno sfiorato l’idea che quella visione si sarebbe avverata. Ovviamente noi cambieremo il corso degli eventi” borbottò Dima.
“Fuggendo questa notte?”
“Potrebbe essere una buona idea. Di certo non è un’ipotesi che contemplavi quando hai avuto la visione”.
“Questo è vero” annuì lei, pensierosa.
“Ma?” chiese Dima, inarcando le sopracciglia.
“Ma non credo sia la scelta giusta”
“Perché no? Se avresti un’altra visione, ora, e vedresti che tutto andrebbe a buon fine, verresti?”
“Credo di si. Ma non vedrò nient’altro, ne sono sicura”.
“E perché?”
“Non lo so, Dima, ma è così. Non è una scienza esatta, io non posso controllarla!” ribatté, innervosita.
“Allora dovremmo tentare la sorte”.
“Non questa notte”
“Giuro, non ti capisco. È una decisione inaspettata, prenderemo tutti in contropiede!”
“Non siamo davvero lucidi, non dopo il casino con Petar. Dovremmo prenderci del tempo. Dobbiamo pensare meglio alle conseguenza per l’intera Cadmow, dobbiamo riflettere su cosa fare dopo. Noi non vogliamo la guerra, vero? Non possiamo voltare le spalle al Nord. E poi, non saremmo più appoggiati da uno dei Guardiani e li avremmo tutti contro; ci avevi pensato? Senza aggiungere che ci sarà un caldo tropicale nei prossimi giorni, sulle sponde di Odundì. Sono i venti del deserto del Sud, li senti? Porteranno via le nubi prima che sia giorno. Non dureremmo a lungo, sai che non possiamo esporci troppo al sole cocente. Non serve una visione per capire che non andrà per niente bene”.
“E questo come lo sai? Come sai del caldo?” chiese Dima, irritato da quella sfilza di ragionevoli obiezioni al suo brillante, almeno all’apparenza, piano.
“Vedo il futuro o sbaglio?”
“Senti, non farmi sembrare più stupido di quello che sono. Un momento fa hai detto che non puoi controllare le tue visioni ed ora sei sicura che nei prossimi giorni saremmo travolti dall’estate. Ti rendi conto?”
“Dima, le previsioni del tempo non contano nulla! Sono anni che riesco ad anticiparle!” fece lei, quasi esasperata.
“Beh, io non ne sapevo nulla. Non hai mai parlato con me del tuo potere” mormorò quello, allora.
“Mi dispiace. Io… non volevo caricarti di un altro mistero. Mi divertivo con quel ragazzino spensierato e scalmanato, non volevo che cambiassi” spiegò Elsa, più dolce, posandogli una mano sul braccio.
Dima annuì, in silenzio. In fondo, poteva capirla.
“Quindi non fuggirai con me stanotte?”
“No. Anche se detta così sembra tutta un’altra cosa” riuscì a ridacchiare lei, nonostante tutto.
“Scema” mormorò lui, aiutandola a calarsi nella botola senza bistrattare troppo la gamba ferita.
Presto furono entrambi nel tunnel ed Elsa accese la lanterna. Camminarono spalla a spalla in silenzio.
Nella semi oscurità di quel passaggio non c’era più spazio per ingegnosi piani o ironia; circondati dall’oscurità, al riparo solo grazie ad una piccola fiamma, i pensieri correvano cupi.
Era strano pensare che non avrebbero più percorso quei cunicoli in direzione opposta, certi di trovare, una volta fuori, un volto amico. Strano e doloroso.
“Mi mancherà moltissimo” sussurrò Elsa, poco prima dell’uscita.
Sentivano entrambi che, una volta superata quella soglia, avrebbero dovuto lasciarsi il passato alle spalle. L’infanzia era finita, e la verità di quella notte non poteva essere ignorata.
“Anche a me. Ma è troppo legato al quel bastardo di Orwen per vederne l’anima nera. Noi non possiamo fermarci; nessuno può fermarci. Giusto?” disse lui, prendendole entrambe le mani.
“Ci ha aiutato tanto, Dima. È grazie a lui se oggi siamo qui, insieme. Ha messo a rischio la sua posizione, per noi, è stato così coraggioso e altruista e io… io credo di volergli davvero molto bene” continuò lei, a testa bassa, le guance rosse.
-Che, tradotto, vuol dire che ne sei stupidamente innamorata- commentò Dima, tra sé e sé.
“Non posso credere che è andato via. Che l’abbiamo lasciato andare” continuò.
Dima era sulle spine; non aveva mai voluto una conversazione del genere con Elsa, non l’aveva mai cercata.
Andava tutto bene quando poteva scherzare e prenderla in giro sulla sua cotta storica per il bel Guardiano, ma così era più complicato. Non sapeva farli, lui, quei discorsi!
“Su, non piangere. Io sono convinto che, quando tutta questa storia sarà finita, torneremo come prima, noi tre. Oh meglio, succederà quel che ti pare con lui, ma saremo ancora insieme” si corresse, imbarazzato.
Elsa tirò leggermente su col naso, prima di riprendersi.
- Questa ragazza soffre di personalità multipla, per forza. Prima mi da dell’idiota per il piano della fuga e per le visioni e in due secondi prende lei il comando della situazione. Ora, invece, mi piange sulla spalla per il suo amore impossibile!- si lamentò, mentalmente.
“Non c’è bisogno di fare il duro, l’ottimista in ogni caso, Dima. So che non te la passi bene nemmeno tu” disse lei, asciugandosi le guance, prima di abbracciarlo un’ultima volta e scivolare via, nella luce violetta del Tempio.
-Per niente bene- pensò il ragazzo, sincero con se stesso.
Ma non c’erano alternative, e lo sapeva. La regione del Nord, la vita di migliaia di persone, quella del Supremo, quella di Elsa, venivano prima di tutto.
“Maledetto Orwen” sputò, tra i denti.
Era colpa sua, tutta colpa sua.
Dima avrebbe trovato il modo di fermarlo, per Dira se l’avrebbe fatto!
Cadmow doveva ritornare un posto sereno, dove la pace regnava tra le sue fazioni; se lui poteva fare qualcosa, non si sarebbe tirato indietro.
-È una promessa, Petar. Per te e tutti quelli come noi, che ancora credono in un mondo giusto, in un mondo più buono. Cadmow sarà presto un posto migliore-.
 
 
 
Note
E così, lasciatami alle spalle un terribile esame, eccomi qui ad aggiornare questa storia. Questo capitolo l’ho scritto e letto più volte ma, ancora adesso, non mi convince del tutto. Purtroppo, ho la spiacevole sensazione che sia piuttosto lamentoso: posso dire, a mia discolpa, che ci tenevo a mostrare il rapporto tra Dima, Elsa e Petar forte e importante. Perché è così che l’ho sempre pensato. E quindi ho dedicato un intero capitolo alla loro rottura… Spero davvero di non annoiarvi, con questo passaggio!!!
Non essendone pienamente soddisfatta io personalmente, darò il doppio dell’importanza ai vostri commenti, se vi va di lasciarne qualcuno… quindi, siate numerosi!!! :)
Per il mese di agosto non assicuro nulla, dubito che riuscirò a trovare la tranquillità giusta per scrivere. Male che vada, ci ritroveremo a settembre!!
Un grande grazie e un bacio,
EsterElle



 

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Capitolo 12
*** Rombi di guerra ***


Capitolo 12
Rombi di guerra


 


“Una giornata splendida, fratello, non trovi?”
“Il sole e le nubi gioiscono con noi, caro amico, nell’avvicinarsi del grande giorno. Un chiaro segno del cammino tracciato da Dira”.
“Prego, mio Signore, per detergere il sudore dalla vostra fronte”.
Dima accolse la pezzuola umida che fratello Agos gli porgeva con gratitudine. Era un giorno caldo e umido, assai diverso dall’abituale temperatura mite di Odundì.
Non c’era vento a portare un po’ di ristoro al ragazzo. Poggiato alla palizzata del Prato, Dima respirava pesantemente, tenendo entrambe le mani sulle grosse assi di legno chiaro che stava trasportando.
-C’è una certa macabra ironia, in tutto questo- pensava, mentre sulle labbra gli aleggiava un sorriso amaro.
Fratello Lopa e fratello Ashim parlottavano presso di lui, agitando grandi foglie verdi davanti ai volti e osservando il via vai dei monaci più giovani.
I giorni precedenti il ragazzo aveva visto trascinare pesanti tronchi giù al tempio e i monaci falegnami vi avevano lavorato notte e giorno, chiusi nel loro laboratorio ai confini del boschetto della Torre. Pialla e pialla, avevano creato enormi assi di legno chiaro, di diverse dimensioni e forme, ben imballate l’una con l’altra. Una moltitudine di assi.
Inizialmente, Dima non era riuscito a capire la ragione di tutto quel movimento. L’agitazione dei monaci si percepiva nell’aria, ma nessuno si era degnato di dare spiegazioni al giovane Guardiano. Non aveva potuto interrogare nemmeno Elsa, tanto più intuitiva di lui: dal loro ultimo incontro al lago non si erano più visti.
Era stato solo quando i monaci avevano assoldato anche lui per i lavori pesanti, cancellando tutte le sue lezioni del giorno, che aveva iniziato ad afferrare qualcosa.
Avanti e indietro, aveva trasportato decine e decine di assi lisce e robuste fino all’imboccatura del tunnel, dove ad attenderlo stava un carretto su sottili rotaie. Avanti e indietro, aveva ascoltato le più disparate chiacchiere dei monaci più giovani, di quelli più forti; chiacchiere sul “grande giorno”. E quell’amarissima verità si era palesata ai suoi occhi come dal niente, naturale come l’acqua che sgorga dai monti del Nord.
Stavano costruendo l’arena.
Su, in superficie, i monaci si affrettavano a dare vita a quegli spalti insanguinati della visione di Elsa. A lui, ovviamente, non era concesso uscire; ma i monaci non avrebbero lasciato inerti le sue molte qualità.
E così Dima si trovava a collaborare alla costruzione di quello che avrebbe potuto essere il suo terreno da macello.
“Davvero macabro” mormorò tra sé.
“Tutto bene, Signore?” chiese la timida voce di fratello Jili, di soli tre anni più vecchio di lui.
Un esortazione a continuare, sicuramente.
“Si, fratello. Ora proseguo” annuì Dima, abbattuto.
La strada sempre uguale non meritava di essere osservata nei dettagli; Dima percorreva quel terreno lastricato da sette anni e niente avrebbe più potuto sorprenderlo. Si sentiva insensibile alla magica bellezza di Odundì, ormai; insensibile alla magia della sua esistenza, del lago e della palafitta, dei giardini fioriti. Sognava campi sterminati e papaveri rossi, lui, silenzio e urla, sognava di cavalcare a pelo sulla brughiera desolata in superficie, verso i monti a nord-ovest. Sognava casa sua; non Imbris, non più, ormai. Sognava Nenjaat e il Palazzo d’Inverno, sognava Bessie e Teppe. Sognava Petar.
Ma sognare non era sufficiente. Lui era determinato ad ottenere tutto ciò che i potenti di Cadmow stavano tentando di portagli via.
Aveva un piano.
La luce di un raggio di sole rubò il suo sguardo al pavimento, mentre passava sotto le finestre della Casa. Grazie ad una imposta aperta la luce del giorno riverberava sulla chioma bionda, strettamente intrecciata, dell’unica ragazza presente. Dima sapeva che Elsa era lì. Lo sapeva da quando aveva iniziato a lavorare, quando lei gli aveva rivolto un triste sorriso fugace, sollevando un ago ed una pesante stoffa porpora a mo’ di spiegazione.
Avevano messo all’opera anche lei; ma non nel tumulto di monaci e legno, al piano di sotto, no. Lei stava nella Casa, a ricamare drappi d’oro e sete, dei quali si sarebbe adornata la tribuna regale dell’arena.
Ma lui doveva far finta di non conoscerla. Come se non fosse mai esistita. Come sempre.
-Per oggi, meglio così- rifletté, passando oltre.
Aveva un piano, ed era meglio tenere anche Elsa all’oscuro di tutto. Saperla in agonia, in bilico tra la vita e la morte, tra la gioia e il dolore, come certo lei pensava, era doloroso, per lui. Ma quella era l’unica possibilità, un lampo di genio di una notte senza sonno. Lei avrebbe fatto bene a quietare il suo animo affidandosi al buon cuore di Dira, che di certo l’avrebbe protetta.
-Abbi fiducia, piccola, e vedrai che andrà tutto bene- pensò Dima, proprio come avrebbe fatto Petar.
Con uno sbuffo, scaricò il suo fardello sul carretto, producendo un gran cigolio di ruote e di giunture mal oliate.
“Sicuri che arriverà in superficie, carico com’è?” chiese ai fratelli intorno a lui.
“Non preoccupatevi, mio Signore; questo piccolo carro serve fedelmente noi umili accoliti di Dira da centinaia di anni” lo rassicurò fratello Stano, giovane ancora, ma dai numerosi denti marci. E sorrise.
“Già. Sia fatta la volontà di Dira” mormorò sarcastico Dima, distogliendo lo sguardo dal terribile ghigno.
-Un ordine povero, ormai. Con scarso potere- pensò mentre si allontanava. –Solo il Sommo sembra conservare una qualche autorità tra i grandi potenti-.
Scoprire la verità sul Sommo, per Dima, era stato davvero un brutto colpo. Se con Orwen non era mai riuscito ad istaurare la giusta sintonia, la guida dei monaci era stata una figura importante per lui durante la sua infanzia. Un esempio di forza e saggezza, di autorità e clemenza. Quando era venuto alla luce il suo sporco doppio gioco, Dima ne era rimasto ferito più di quanto immaginasse.
-Si è preso cura di me. Ed ora vuole uccidermi-.
Non aveva mi saputo leggergli dentro, al Sommo. Ed ora temeva il confronto con lui, temeva si rendesse conto che ormai sapeva tutto. Che aveva un piano.
“Da quella parte, mio Signore” gli indicò premurosamente la strada un monaco.
Dima sbuffò; troppi pensieri contorti si agitavano nella sua mente, rendendo davvero difficile concentrarsi sul presente.
“Fratelli, lasciatemi usare il mio potere per aiutarvi; sarei molto più utile!” ritornò a supplicare, una volta arrivato alla casetta dei falegnami.
“Mio signore, rovineresti il legno!” si indignò uno di questi, scuotendo la testa.
“La pazienza è una virtù; il lavoro aiuta a non dare tutto per scontato, ad essere pronti d’animo per superare le difficoltà della vita” aggiunse un altro, voltandosi verso di lui e arricciandosi la corta barbetta, con fare di disapprovazione.
Dima avrebbe maledetto tutti quanti.
Non ne poteva più di rimproveri ed insegnamenti; era quasi un uomo, ormai, ed un uomo potente, con preoccupazioni ben più pressanti di quelle degli insulsi monaci davanti a lui.
Calciò forte una delle assi lì vicino, non riuscendo a trattenere un urlo di esasperazione.
“Andate tutti al diavolo!” sbraitò, prima di voltare le spalle ed andarsene.
“Signore, ma cosa fate?” si agitarono quelli, allibiti.
Dima non restò ad ascoltare, preso com’era dalla sua cupa frustrazione. Camminando, si passò le mani, ricoperte di un sottile strato d’acqua, sul volto, e poi nei capelli e sul collo. Ignorò tutti, fino a quando arrivò alle sponde del lago sotterraneo; era lì che si era tenuta la sua prima lezione, lì che, per la prima volta, aveva messo alla prova il suo potere.
-Ritorno alle origini, allora- si disse, mentre iniziava a spogliarsi della semplice tunica marrone che indossava.
Dopo i primi passi nell’acqua fredda, sentì i battiti del suo cuore decelerare e prese a fare profondi respiri. Camminò fino ad immergersi completamente e, quando l’acqua era già sopra la sua testa, lui continuò a tenere i piedi ben piantati sul fondo. Camminò fino ad arrivare alla palafitta; ne poteva vedere il fondo, molto al di sopra di lui, e i profondi pali di sostegno lo circondavano.
Il suo piano era semplice, in fondo; tutto stava in quel suo potere sorprendente, unico al mondo. Chi avrebbe potuto fermarlo una volta messi i piedi nel lago di Odundì? Orwen con il suo fuoco? Petar, il suo amico? Oppure la dolce Safnea, che guariva e non feriva mai?
No, una volta raggiunta dell’acqua, lui era invincibile.
Ma Elsa? Lei non era come lui, non ce l’avrebbe fatta.
Meglio non pensarci, non ora.
Doveva esercitarsi, doveva ottenere il perfetto controllo di quel suo elemento in pochi giorni; meno di una settimana, e lo avrebbero gettato in quell’arena che aveva appena aiutato a costruire.
Ghiaccio e neve, pioggia e acqua, acqua a volontà; ecco quello che avrebbe servito all’infido Orwen ed i suoi seguaci.
-Tra cui Petar, in realtà- pensò, portandosi le mani ai capelli.
Meglio non pensarci, non ora.
Per fuggire, doveva essere determinato e spietato, incurante di tutti. A cosa era disposto, pur di ottenere la libertà, pur di non dover sottostare alle leggi di un terribile tiranno? Quanto era pronto a sacrificare per la sua gente del Nord, per scampare la morte?
-Io non sono pronto a tutto questo, ma nessuno verrà a  chiedere permesso prima di devastare la mia vita. E’ già successo in passato-.
E poi, una volta libero? Sarebbe andato a Nord, ovvio. A portare aiuto ai suoi uomini; li avrebbe difesi, avrebbe messo a loro disposizione tutto il suo potere. Si immaginava già, profugo nei boschi dell’Ovest, con la speranza di passare oltre la Muraglia e raggiungere Nenjaat; in fuga da Orwen, braccato, ma ancora al sicuro nei territori di Petar.
 Qualcosa continuava a bussare ai margini della sua testa mentre lasciava correre l’immaginazione a briglia sciolta.
Elsa, Elsa, Elsa!
Che ne sarebbe stato di lei? Come poteva proteggerla nel modo giusto? Come avrebbe fatto ad evitarle quel destino difficile che sembrava già segnato, per lui?
-Dobbiamo restare uniti, e saremo più forti. Ma come?- si scervellava.
La terra tremò debolmente sotto di lui; i piccoli pesci che abitavano le acqua del lago presero ad agitarsi, correndo a rifugiarsi sotto la morbida sabbia e dietro le rocce.
Forse Dima aveva avuto un’idea.
La terra tremò nuovamente, un po’ più forte.
Il ragazzo alzò gli occhi, ma l’unica cosa che riuscì a vedere fu il pallido riflesso del sole di mezzogiorno, alto nel cielo.
La terza scossa agitò tanto le acque che, persino lui, poté udire l’onda abbattersi sulle sponde del lago.
-Qualcuno mi cerca- pensò. –Credo di sapere di chi si tratta- sorrise leggermente.
Aveva avuto un’idea, piccola piccola, e poteva funzionare. Ma adesso era ora di rientrare.
Ascese in superficie lentamente, i riccioli castani che vorticavano nell’acqua e gli occhi chiusi.
Quando si trovò davanti una bella donna, dai fluenti capelli bruni ed occhi sorprendentemente verdi, non rimase stupito.
“Buon pomeriggio, Dima” lo salutò a denti stretti.
“A te, Safnea. Mi cercavi?” le chiese, mentre camminava sul pelo dell’acqua, verso di  lei.
Aveva avuto un’idea, finalmente! Ora poteva concedersi qualche sorriso in più.
“Da cosa l’hai intuito?”.
“Scusami, ma stavo pensando”.
“Forse, durante il nostro incontro, troveremo anche il tempo di discutere della tua condotta di questa mattina con i monaci falegnami, ma per il momento non è la mia priorità”.
“Safnea, sei tanto bella quanto pungente, stamattina” replicò lui, piccato.
“A cosa dobbiamo l’onore della tua presenza?” continuò Dima.
Accanto alla donna, due monaci lo squadravano con fare torvo: “Il ragazzo non intendeva mancarvi di rispetto, mia Signora. Non è così che l’abbiamo educato” si sdilinquì fratello Portus, maestro di teologia.
“Non preoccuparti, io e Dima siamo in rapporti piuttosto amichevoli ora” lo liquidò la donna, frettolosamente.
“Adesso, però, Dimitar, ho assolutamente bisogno di parlarti” aggiunse, sgranando gli occhi chiari con urgenza.
“Soli?” ammiccò lui.
L’euforia del nuovo piano lo rendeva temerario.
Safnea lo guardò a lungo, sinceramente infastidita.
“Ti prego, mi servi serio e con i piedi piantati per terra. È un’emergenza” bisbigliò l’ultima parte, la donna.
“Eccomi, mia Signora” rispose allora il ragazzo, allontanando l’acqua dai suoi vestiti fradici e indossando nuovamente la sua tunica.
In silenzio la seguì lungo la strada lastricata, fin dentro la Casa, e su, fino alla sala privata del Sommo Sacerdote.
“Qui?” chiese infine, preoccupato.
“È un affare importante, quello di cui ti devo parlare” annuì lei.
Con delicatezza, bussò alla porta.
Fu fratello Ashim ad aprire.
Il monaco sorrise e s’inchinò al passaggio della donna: “Siete attesa, mia Signora".
“Mi spiace che abbiate dovuto fare tutta questa strada per portare qui il caro Dimitar” fu la prima parola che il Sommo le rivolse, col suo storto sorriso a metà.
“Nessun altro sarebbe riuscito a tirarlo fuori da quel lago” replicò lei, sorridendo a sua volta. Un sorriso tirato, avrebbe detto Dima, se l’avesse visto.
Invece, la sua attenzione era catalizzata da tutt’altro.
“Tu qui?” chiese, sgranando gli occhi.
“È un piacere rivederti, Dimitar, dopo tutti questi anni” rispose educatamente Elsa, abbassando gli occhi, le mani delicate a riposo sulle pieghe della gonna.
Gli lanciò un solo sguardo, carico di avvertimenti.
“Ti ricorderai di Elaisa Tomcure, Dima” aggiunse il Sommo, indicandogli la sedia accanto a quella della ragazza.
“Ehm, si, certo” sputò fuori lui. “Piacere mio”, aggiunse.
“Bene, credo che abbiamo dato il giusto spazio a tutti i convenevoli del caso” disse Safnea, ancora in piedi accanto a lui.
“Perché anche lei è stata convocata?” la interrogò Dima.
“Perché ho da comunicarvi una notizia urgente e piuttosto spiacevole, e non ho alcuna intenzione di perdere tempo in due conversazione separate” ribatté.
Era una Safnea inedita, quella che stava con loro nella sala privata del Sommo Sacerdote. Dima non l’aveva mai vista così dura, così poco sorridente; spogliata di quella sua tenera dolcezza, Safnea sembrava la potente Guardiana dell’Est che in realtà era. Niente guance rosee e fiori nei capelli questa volta; profonde occhiaie le solcavano il viso, e le sue mani si muovevano a scatti, nervose. Dima aveva intravisto la determinazione ferrea di quella donna altre volte; ora, era sotto gli occhi di tutti.
“Vi prego, Safnea, accomodatevi” disse il Sommo da dietro la sua scrivania, indicando un morbido divanetto a due posti lungo la parete.
“Se permettete preferirei restare in piedi”.
Il monaco annuì, drappeggiandosi meglio la stola dorata sulle spalle.
“Bene. Bene.” Iniziò la donna. “Nel Mondo di Sopra le relazioni tra le Regioni sono drasticamente peggiorate, in questi ultimi giorni. Mi sembra giusto che anche voi ragazzi ne veniate a conoscenza, dato che la questione vi riguarda da vicino. Ne ho parlato con il Sommo e anche lui si è trovato concorde”.
“Hai approvato tu questo incontro?” chiese Dima, ancora stupito, indicando lui ed Elsa con un gesto leggero della mano.
“Nulla succede al Tempio di Odundì senza la mia approvazione” disse quello, gelido.
Il ragazzo abbassò lo sguardo all’istante, rimangiandosi ogni possibile replica.
“Cinque giorni fa un messaggero è corso a Viridian in sella al più veloce dei cavalli; era stata convocata una seduta straordinaria del Gran Consiglio ed era richiesta la mia presenza” continuò Safnea, come se non ci fosse stata alcuna interruzione.
“Con un seguito bene scarso, quindi, sono corsa ad Aprica, dove il Consiglio si trova riunito in questo periodo dell’anno. Lì, davanti agli otto consiglieri provenienti da ogni angolo di Cadmow, Orwen, Guardiano del Sud, ha ufficialmente dichiarato guerra alla Regione del Nord”.
Quella verità cadde come un macigno sui due ragazzi seduti vicino.
-Si. Me l’aspettavo- pensò Dima. –Ma non credevo che questo giorno sarebbe mai arrivato-.
Elsa fu la prima a parlare, con la voce esile di quando era spaventata: “Guerra contro la Regione del Nord” ripeté.
“Cosa dobbiamo fare?” chiese subito dopo, con la frenesia nello sguardo, come se dovesse agire in quel momento stesso.
Dima avrebbe voluto prenderle la mano, dirle: “Piano, Elsa, dobbiamo saperne di più”, ma non poteva, non lì, non davanti al Sommo.
Il monaco non aveva fatto una piega, invece; di certo, già sapeva.
“Cara Elaisa, non è semplice come credi” disse quello, con un mezzo sorriso.
“Si, il Sommo ha ragione. Orwen ha dichiarato guerra alla Regione del Nord, ma subito dopo Petar dell’Ovest ha deposto la sua spada accanto a quella del Sud, rilasciando la propria dichiarazione di sostegno e appoggio” continuò Safnea.
Si vedeva che soffriva. Tutti soffrivano; tutti poterono udire la timida Elsa trattenere sonoramente il fiato e portarsi le mani al cuore.
Dima sentiva il vuoto dentro di sé.
“Cosa… come è… quali motivazioni hanno portato per muovere guerra alla nostra Regione” riuscì a dire Elsa.
Il Supremo estrasse una lunga ed elegante pergamena dal mucchio di scartoffie davanti a lui e lesse con voce solenne:
“Ritenendo la Regione del Nord colpevole di cospirazione, complotto e macchinazione per ottenere il completo possesso del Regno di Cadmow, ritenendo i Vigilanti della Regione del Nord colpevoli di occultamento e omissione per ordine dell’autorità incaricata, ritenendo i governanti della Regione del Nord colpevoli di uso delle arti magiche contro il bene dell’umanità, proclamiamo, qui ed ora, davanti a questo Concilio e al Regno intero, la nostra intenzione di muovere col ferro e col fuoco verso la sopradetta Regione, nella nome della Legge di Dira, per preservare l’ordine sacro che lei ci ha donato all’inizio dei tempi”.
Furono quelle parole a smuovere qualcosa in Dima.
“Che cosa? Chi, chi ha osato scrivere tutte queste idiozie?” scattò in piedi, furioso.
“Dimitar, mantieni la calma”.
“Non provare a dirmi di calmarmi, Sommo! Io devo sapere!” continuò ad agitarsi.
“Quel grandissimo bastardo di Petar” continuò a mormorare, percorrendo a grandi passi il tappeto pregiato del monaco.
“Sommo, Safnea, vi prego, abbiamo il diritto di sapere ogni cosa: è la nostra Regione quella a cui hanno dichiarato guerra” intervenne Elsa, ancora immobile e gelida sulla sua sedia.
Piccola e delicata, lei ottenne tutta l’attenzione dei presenti, facendo ciò che gli strepitii di Dima non avevano potuto: mostrare un po’ di autorità.
Safnea si prese qualche minuto per osservare entrambi. Infine, si lasciò cadere sul divanetto, affondando il volto tra le mani.
“Sono parole vergate dal pugno di Orwen e sottoscritte da Petar” disse, con voce soffocata.
“Sono tutte menzogne!”.
“Che prove hanno portato al Concilio per motivare questa loro richiesta?”
“Dolce Elsa, che bisogno avevano di prove? Metà dei Consiglieri erano già dalla loro parte prima ancora che la seduta iniziasse. Nessuno, in questo momento, può opporsi alla loro forza combinata” disse Safnea, mentre un lampo di impotenza le attraversava gli occhi verdi.
“Miei Signori, scusate questa mia umile intromissione” tossì il Sommo dal suo scranno.
L’attenzione si spostò su di lui all’istante.
“La mia obiezione è la seguente: i nostri Guardiani sono persone sagge e sapienti, prescelte da Dira, la Madre di tutti noi. Lei mai concederebbe questo onore e questo duro incarico ad uno squilibrato. Quindi, vi chiedo: e se non fossero menzogne?”
Dima avrebbe voluto prendersi a schiaffi.
Come aveva potuto dimenticare? Era proprio con il Sommo che Orwen aveva progettato questo sporco inganno. Era stato il suo braccio destro per tutto il tempo ed ora non poteva non essere lieto della novella giunta con Safnea e di cui lui era di certo già a conoscenza.
 Come doveva comportarsi, ora?
Fu Elsa a toglierlo dell’impiccio:
“Sommo, quella di Orwen è una guerra condotta contro un popolo in ginocchio, oppresso da una terribile malattia. Come avrebbe potuto la Regione del Nord macchiarsi di tali crimini? Noi al di qua della Muraglia non abbiamo notizie del Supremo e dei suoi uomini da più di cinque anni; potrebbero essere morti nel frattempo, o gravemente invalidati dalla malattia. È chiaro che Orwen sta muovendo per tutt’altro tipo di interessi; quelli che ha avanzato nella sua dichiarazione sono solo pretesti” concluse, con le guance imporporate per aver osato tanto verso il Sommo.
“Non avrei potuto dirlo meglio, Elsa” concordò Dima, felice che lei fosse lì con loro.
Gli occhi vigili del Sommo corsero dall’uno all’altra, distanti nella sala ma visibilmente affini; il suo sguardo si assottigliò paurosamente.
“Allora, quali sono i motivi che spingono il nostro illuminato Guardiano del Sud e il saggio Guardiano dell’Ovest a muovere eserciti contro i loro stessi fratelli?” insinuò, sorridendo del suo sorriso sghembo.
Né Dima né Elsa, allora, osarono rispondere ad una domanda tanto tendenziosa.
“Orwen è un uomo giusto e duro. Sono certa che crede fermamente in ciò che dice, sono certa che, per lui, non si tratta di pretesti. Non ascolterò altre parole dirette ad infamare il suo nome e il suo onore” intervenne Safnea, severa come mai Dima aveva immaginato potesse essere.
“Ma allora…”
“Lui pensa di operare giustamente. Ma ha scelto di usare i mezzi sbagliati, preferendo la violenza al confronto con i suoi fratelli. È questo l’unico errore che permetterò gli sia addebitato”.
“Parole sagge, mia Signora. Non è in nostro potere, ora come ora, sapere dove dimora la verità. Ci è permesso solamente di muovere ipotesi” replicò quello.
“Io sono fermamente convinta di un’unica, sola verità: Cadmow non può permettersi una guerra civile, non ora, non con il Guardiano della Regione del Nord tanto incerto. La mia unica certezza è che noi, qui presenti, dobbiamo unirci e batterci per la pace” esclamò Safnea con decisione, zittendo la replica di Dima.
“Pace? Safnea, hanno appena giurato di mettere a ferro e fuoco la nostra Regione! Come possiamo, Elsa ed io, parlare di pace?” replicò Dima, sorpreso.
“È l’unica cosa che potete fare. Una Regione allo stremo, senza una guida, attaccata dalla forza congiunta di due eserciti; se non decidete di scendere a compromessi, non ci sarà più un Nord di cui essere Guardiani” disse lei, asciutta.
“E tu? Da che parte sarà schierata la Regione dell’Est?” chiese Elsa, che raggiungeva sempre il cuore del problema prima degli altri.
“Da nessuna parte, ovviamente. Quando durante la seduta non ho potuto in nessun modo distogliere Orwen da suo orribile piano, ho provveduto a dichiarare la mia regione territorio franco. Se è quando verrà abbattuta la Muraglia, provvederò a creare un corridoio per tutti i profughi del Nord”.
“Un gesto davvero molto nobile, mia Signora”.
“Non c’è niente di nobile e bello in tutto questo, Sommo” lo sguardo della donna era di fuoco. “Nelle guerre non ci sono glorie né onori, solo sangue, dolore e morte”.
Il silenzio ristagnò alcuni secondi tra i presenti.
“Ti siamo grati per tutto quello che fai, dolce Safnea” mormorò infine Dima, a testa bassa.
“Non basta. Bisogna che anche voi scendiate in campo a lottare per la pace”.
“Loro? Mia Signora, Dimitar ed Elsaisa non sono nulla ancora. Non è concepibile che si mostrino in pubblico insieme, come parte di unità, come due Guardiani della stessa Regione!” si indignò immediatamente il Sommo, lanciando occhiate truci ai  due ragazzi seduti l’uno accanto all’altro.
“Non ho cura delle formalità. Il mio unico obbiettivo è la pace e se per ottenerla devo calpestare un centinaio di leggi degli uomini, lo farò”.
- Una vera Guardiana - pensò Dima, osservando la figura alta e flessuosa della donna avanzare verso il Sommo, avvolta in una veste splendida dai colori pastello.
“Quando la situazione sarà decisa per il bene o per il male, solo allora permetteremo a Dira di indicarci il suo ultimo prescelto” continuò, senza nemmeno guardare i ragazzi.
- Safnea non è Petar -, dovette rammentarsi Dima.
Lei non aveva mai lottato per mantenere entrambi nella Regione del Nord; ricordava le sue lacrime, ma anche la sua inflessibile volontà. Non ci sarebbero mai stati due Guardiani del Nord.
Ma questa era un’occasione da prendere al volo, per garantirsi una migliore opportunità di salvezza. Si sarebbero mostrati insieme, forti e uniti, e il popolo li avrebbe adorati!
“Per me va bene. Possiamo fare un tentativo” disse allora, a testa alta.
Il volto del Sommo era una maschera impenetrabile mentre Elsa tendeva dolcemente una mano verso il suo compagno di sventure.
“Anche per me” disse.
“Bene, sono contenta di trovarvi così ragionevoli. Sommo, invierò immediatamente messaggeri ai miei fratelli e concorderemo un incontro a Germna, nella Regione dell’Est. Vi comunicherò ogni cosa al più presto; confido che sia Orwen che Petar accetteranno questa mia richiesta. È la nostra ultima speranza, credo che tutti voi lo sappiate bene. Vi voglio preparati, ragazzi, sarà presente anche l’intero Gran Consiglio; dovrete convincere anche loro” parlò velocemente, gesticolando con le mani.
“Ah, Sommo; la prego, interrompa immediatamente i lavori per la costruzione dell’arena. Devono assolutamente riprendere le lezioni per i ragazzi” ordinò.
A passi svelti, si avvicinò a Dima ed Elsa, baciò in fronte lei, carezzò i capelli di lui.
“Siate forti, sta giungendo la tempesta” mormorò.
Poi, voltò le spalle, ed in un fruscio di sete e velluti uscì dalla stanza.
Elsa aveva la testa bassa e le mani strette in grembo, e a Dima sembrò intravedere il luccichio di una lacrima solitaria sulla sua guancia. Fu spontaneo, per lui, allungare il braccio e cingergli le spalle.
Non appena alzò lo sguardo, però, il Sommo lo fulminò.
I lineamenti testi, la stola calata lungo le spalle ampie, si alzò dalla sedia, aggirando il suo grosso tavolo. Dima immediatamente sciolse quell’abbraccio improvvisato tra lui ed Elsa, pieno di paura.
“Giovani e stolti, ecco cosa siete” sibilò quello, con voce bassa e gelida, due volte più spaventosa delle urla.
“Illusi. Se pensate di passarla liscia, se pensate che non ci saranno conseguenza per tutto questo, vi sbagliate di grosso. Non si raggira il Sommo Sacerdote di Dira senza restare impuniti”.
Elsa, accanto a lui, tremava leggermente.
“Pensavo di essere stato chiaro, Dimitar, sette anni fa. Ti avevo promesso la rovina, e sarà quello che avrai. Non c’è speranza per voi, ricordatelo bene; il vostro legame sarà la vostra fine”.
Detto questo sputò per terra e, furioso, uscì dalla stanza, sbattendo forte la porta.
Elsa respirava forte, i suoi sospiri che rompevano il silenzio.
“Petar, Petar si è messo contro di noi” mormorò infine.
Ovvio, il tradimento di Petar era stato il colpo più grosso, per lei.
Dima si alzò finalmente in piedi, la schiena tesa e indolenzita; era bastato tanto poco per far precipitare una situazione già pessima.
“Cosa facciamo, Elsa? Cosa facciamo ora? Io avevo un piano, un buon piano; te ne avrei parlato oggi stesso”.
“Ho paura”.
Dima si portò le mani dietro al collo e ispirò profondamente. Doveva rimanere lucido.
Eppure Petar li aveva traditi nella maniera più orribile.
No, via questi pensieri dolorosi. Doveva trovare una soluzione.
Lui, che solo poche settimane prima era il loro alleato, il loro migliore amico.
Mettere a tacere i demoni nella sua testa, ecco cosa doveva fare.
Il Sommo li aveva scoperti e chissà cosa sarebbe stato in grado di fare.
Basta!
E due potenti eserciti marciavano verso il Nord.
Dira non mi lasciare, non adesso!
La loro unica possibilità era un’allegra chiacchierata con i suoi nemici. Che flebile speranza!
E presto lui ed Elsa si sarebbero affrontati e avrebbero dovuto sfidare l’intera Cadmow per sopravvivere.
E Petar li aveva traditi, pugnalati alle spalle. E Il Sommo li aveva scoperti. 
Per quel giorno, Elsa non ebbe risposte, né consolazioni; uscirono da quella sala in silenzio, distanti. Senza dire una parola, si separarono.
 
 
 
 
 
Note 
Ecco! Dopo la pausa delle vacanze, questo è quello che sono riuscita a produrre per il dodicesimo capitolo! Ci avviciniamo sempre di più alla conclusione delle seconda parte e questa cosa un po’ mi agita: spero di riuscire a rendere nel migliore dei modi le idee che mi frullano in testa!!
Un grande grazie a chi leggerà!!
A presto,
EsterElle

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Capitolo 13
*** Riunione di famiglia ***



Capitolo 13
Riunione di famiglia




Dima non trovava pace, quella mattina; il colletto del mantello, di pregiata stoffa bianca, stringeva sul suo collo in maniera davvero fastidiosa e gli stivali di pelle lavorata erano scomodi quanto calzari di legno.
L’avevano addobbato come un vero damerino, vestito di grigio e di bianco, i colori della sua regione, obbligandolo ad assumere quell’aria regale che lui non aveva mai sentito propria.
Non si era mai visto un ragazzo di Imbris agghindato a quel modo, continuava a pensare!
Da dieci minuti girava attorno al tempietto ottagonale, alla Sala delle Purificazioni, ben vicino all’entrata del tunnel: a condividere l’attesa con lui c’erano una decina di monaci, gialli e arancioni nei loro abiti ufficiali.
Con loro, manco a dirlo, c’era fratello Ashim.
“Sarete emozionato, mio Signore. La prima volta nel Mondo di Sopra dopo sette anni” disse, con un sorriso furbo, quando Dima gli passò davanti in uno dei suoi numerosi giri.
“Sarebbe stata una bella gita, fratello, se non che è di guerra che andiamo a discutere” ribatté lui, pungente.
“Quisquilie. Vedrete, resterete incantato dal cielo blu e dai campi immensi intorno a voi, tanto da dimenticare le vostre preoccupazioni. Non siete un ragazzo che si resta turbato a lungo, voi” ridacchiò quello.
Dima si morse la lingua; non poteva prenderlo a pugni, giusto?
“Signore, siete sicuro di non volere la vostra colazione?” mormorò per l’ennesima volta fratello Gongi, l’infermiere.
“Grazie, ma no” replicò stizzito il ragazzo.
Perché non poteva avere un attimo di silenzio per pensare in pace, per rendersi conto di quanto effettivamente fosse grande la responsabilità che gravava sulle sue spalle quella mattina? Avrebbero parlato, lui ed Elsa, davanti alle massime autorità di Cadmow e solo le loro parole avrebbero potuto sventare una guerra.
Una guerra!
Dima ancora non si capacitava di come tutto fosse così velocemente precipitato verso quella terribile conclusione.
Durante l’ennesimo mezzo giro del tempietto, vide in lontananza una massa arancione di monaci e, al centro, un luce bianca. Ecco, finalmente anche Elsa stava arrivando!
Era molto bella, davvero, con l’abito delle cerimonie ufficiali: bianco ad intarsi grigio perla, lungo ma non troppo, estremamente stonato in tutta la sua serena delicatezza con il volto teso di lei.
“Buongiorno a tutti, fratelli” mormorò quando fu abbastanza vicina. “Ciao, Dima” cercò di sorridere.
Fratello Ashim si affrettò verso di lei, drappeggiandole sulle spalle un pesante mantello grigio bordato di morbida, bianca pelliccia.
“Ecco, Signori, ora siete pronti per partire” disse, rimirando i due ragazzi l’uno al fianco dell’altro.
“Suvvia, cosa sono questi volti da funerale? Dovreste essere lieti, questa uscita pubblica è un’opportunità che raramente viene concessa ad un Guardiano in fase di preparazione” blaterò ancora.
Eppure, in tutto il suo insulso servilismo, fratello Ashim aveva centrato il punto.
La situazione era tragica e la loro era una missione senza speranza. Ma l’intero regno li avrebbe visti insieme, uniti, forti: al centro esatto del disastro, ad un passo dalla fine del Nord, avrebbero potuto trovare clemenza per le loro vite, avrebbero potuto continuare ad esistere insieme, come un’unica realtà, un unico Guardiano.
Il cuore di Dima si appesantì dell’ennesima responsabilità.
Senza neanche guardarla, tese la mano destra verso la ragazza, che subito la afferrò con la sua sinistra.
“Siamo pronti” disse allora, sicuro.
Mostrarsi forte, ecco cosa doveva fare: strinse le dita intorno a quelle di lei.
Quando arrivarono in superficie, il sole stava sorgendo, lentamente; il cielo striato di luce e di viola, il profumo dei fiori che si aprivano al sole, la brezza lieve sul volto e il lago mormorante alle spalle.
Era tutto così bello!
“Io non vorrei essere qui, non voglio più avere paura” sentì bisbigliare Elsa al suo fianco, a lui soltanto, mentre i monaci si affrettavano a preparare il calesse.
“Anch’io. Ma non possiamo abbandonare chi ripone speranze in noi” rispose Dima, stupendosi lui per primo di aver pronunciato quelle parole.
Lui, che per natura fuggiva gli impegni, le responsabilità, le regole, era profondamente mutato in quei lunghi sette anni al Tempio.
 “Ho diciassette anni, Dima,  e non conosco nulla del mondo. Non so niente al di fuori di quello che ci hanno insegnato ad Odundì. Non ho mai scelto un vestito nuovo, o mangiato dolci fino ad avere mal di pancia; non ho mai visto un tramonto dalla vetta di una montagna, non ho mai visto il mare, non ho mai avuto un’amica. Non ho mai baciato un ragazzo. Ho diciassette anni e non ho ancora vissuto un secondo della mia vita fino in fondo” si sfogò, tutto d’un colpo, con voce bassa e vibrante.
Erano pensieri oscuri, cupi, tenuti nascosti per mesi, cresciuti nel buio della paura.
“Ma conosco il dolore, l’abbandono, e soffro per persone che non ho mai visto, di cui non so nemmeno il nome. Mi sento una ragazzina che va a fare la lotta contro i giganti. Loro hanno esperienza, potere, forza: noi, abbiamo solo un mucchio di nozioni imparate a memoria”.
Dima era felice che i monaci fossero troppo impegnati nei preparati del viaggio per fermarsi ad ascoltare le parole piene di rabbia della ragazza. Felice di avere la possibilità di rispondere.
“Chissà, magari troveremo anche noi il tempo per fare tutte queste cose e molto di più. Magari troveremo il tempo per capire chi siamo e come vogliamo vivere le nostre vite, dopo questa guerra. Grazie a questa guerra”.
“Nessuno ci darà indietro gli anni perduti, Dima”.
“Allora noi non consideriamoli persi”.
“In che senso?”
“Beh, abbiamo visto e abitato al Tempio, abbiamo scoperto l’amicizia, abbiamo imparato ad essere forti. Abbiamo capito cosa vuol dire prendersi cura di qualcuno, qualcuno che confida in te. Abbiamo conosciuto persone sagge che ci hanno insegnato tutto ciò che sapevano. Abbiamo capito che tipo di Guardiani vogliamo essere e abbiamo imparato che bisogna lottare con le unghie e con i denti per prendere ciò che ci spetta di diritto. In fondo, non siamo messi poi così male: anche queste sono delle esperienze! Abbiamo avuto un’infanzia spensierata e degli anni tranquilli anche se sapevamo che i problemi sarebbero arrivati, prima o poi. Non buttiamo via tutto, Elsa! Io, quando sono arrivato qui, ero completamente diverso da come sono ora. Adesso mi piaccio di più” spiegò, sorridendo e posandole una mano sulla spalla sottile.
Davvero nascondeva tutto questo coraggio, questa fiducia?
Lei lo guardò, più dolce.
“Mi ricordo di te, un bambino sporco, maleducato e davvero irritante” disse, mentre un sorriso si apriva sul volto incupito.
“Senti chi parla! Tu eri tutta impettita e perfettina, bacchettona e noiosa!”
Lei  rise debolmente, una luce in più nello sguardo spento.
Rassicurare Elsa aveva contribuito a rassicurare se stesso, a scoprirsi più forte; la giornata si prospettava sempre nera all’orizzonte, ma Dima ora sperava di essere ptonto ad affrontarla con forza, speranza, determinazione maggiori di prima.
Non tutto era perduto, non ancora. Safnea aveva ragione; quello era un tentativo da non sprecare.
“Vedrai” bisbigliò in fretta, mentre fratello Gongi si avvicinava a loro. “Convinceremo Petar a ritirarsi: lui è ancora nostro amico!”.
“Prego, signori, seguitemi” disse il monaco, senza riuscire a cogliere quello sguardo fugace, quelle fiducia, che passava dall’uno all’altra.
Dima non era mai stato in nessun posto a Cadmow, che non fosse a Nord; Germna, invece, era il primo avamposto della Regione dell’Est, il più vicino al confine di Odundì. Ma la curiosità, quella curiosità onnipresente nella sua vita, aveva poco spazio dentro di lui, in quel momento. Senza dare nell’occhio, asciugò i palmi delle mani sudati sui pantaloni e salì a bordo.
Tese una mano, ed ecco che anche Elsa si era accomodata accanto a lui, le spalle dritte e il collo teso.
Intorno a loro, due calessi pieni di monaci facevano da scorta e da avanguardia.
Le sterpaglie cedettero ben presto il passo a bassi cespugli e prati verdi, durante la loro marcia verso oriente; margherite e dente di leone, grosse foglie verdi e alberi dal tronco robusto costeggiavano la strada principale.
Era la primavera, era la Regione dell’Est.
Non appena varcarono il confine, una scorta di uomini armati si materializzò davanti a loro, affiancandoli nell’ultimo, breve tratto verso la città di Germna. Gli uomini di Safnea, intuì presto Dima.
Il silenzio regnava sovrano quando il calesse abbandonò i campi verdi e coltivati, oltrepassando le basse mura della città. Germna era piccola, poco più di un villaggio: le case erano di pietra, scura e levigata, e fiori ed edera ne adornavano le finestre e le porte. La gente del posto, come una fiumana, era sulla strada principale, rumorosa spettatrice del loro ingresso in città.
Dima poteva quasi sentire i commenti, la preoccupazione e la paura che serpeggiava tra quelle persone intorno a lui; afferrò la mano di Elsa e la strinse forte, come per rassicurare quel popolo inquieto.
Una brezza calda muoveva alcune ciocche dei capelli di lei, ribelli alla treccia stretta; il profumo dei fiori, di rose e di mele, sembrava essere ovunque.
“Signori, credo sia il caso che indossiate i vostri cappucci” disse fratello Agos, leggermente a disagio.
Dima non aveva badato a quanto forte il sole picchiasse sulla sua testa, a quanto la sua pelle fosse bollente; si, era proprio il caso di accettare il consiglio. Subito si sentì meglio, la testa e il volto coperto, al sicuro dai raggi cocenti del sole di primavera.
“Fa troppo caldo per noi, creature del Nord” gli spiegò Elsa in un sussurro distratto.
Avanzarono ancora per poco, fino a quando non raggiunsero il Palazzo del Portavoce. Lì, bella come sempre, c’era Safnea ad aspettarli.
Dima si inumidì le labbra, teso.
“Benvenuti, Dima ed Elsa, nella Regione dell’Est. Tutti noi siamo lieti della vostra presenza qui” sbrigò le formule di rito la Guardiana, allargando le braccia e sorridendo al suo popolo raccolto intorno a loro.
“Adesso, il Gran Consiglio ci attende” si congedò in fretta, facendo cenno ai ragazzi e voltandosi in un fruscio di sete e stoffe pregiate.
Elsa si affrettò a seguirla, trascinano un Dima impacciato ed imbambolato, ancora saldamente legato alla sua mano.
“Non è il momento per farsi prendere dal panico!” gli sussurrò, non troppo tranquillamente.
Uno stuolo di soldati e di monaci seguiva i tre per le sale adorne di tralci rampicanti e frutta fresca del Palazzo. I loro passi risuonavano per gli ampi corridoi, conferendo un che di ufficiale, di assoluto, alla loro visita. Due uomini in divisa spalancarono la grande doppia porta della Sala Grande non appena li videro, annunciandone i nomi; Dima sentì il suo e non lo riconobbe.
All’interno, un grande tavolo era stato allestito, di legno scuro, liscio e lucido: lì seduti c’erano uomini in viola, le vesti lunghe e le facce austere, un berretto di forme diverse in testa oppure posato sul piano davanti a loro. I membri del Consiglio si alzarono in piedi al loro ingresso, ma sui loro volti Dima riuscì a leggere solo disapprovazione, labbra strette, occhiate penetranti e impassibilità. Si affrettò, allora, a lasciare la mano di Elsa che ancora stringeva.
Un ometto basso e rugoso parlò per primo:
“Benvenuti, miei signori. Nella speranza che il vostro viaggio sia stato veloce e comodo, vi invitiamo a prendere posto e a dare inizio a questa seduta straordinaria” disse, con voce tremula, indicando tre sedie vuote.
Accanto a quelle, eccoli, i loro fratelli Guardiani: Orwen, alto e riccamente abbigliato di porpora ed oro, e Petar, l’unico rimasto seduto, lo sguardo vuoto davanti a sé. Safnea avanzò a passo deciso, eliminando ogni imbarazzo; prese posto con grazia alla sinistra del Guardiano dell’Ovest, lasciando che Dima ed Elsa si sedessero vicini alla sua destra.
-Safnea, lo spartiacque, la pace- pensò Dima, mentre abbassava il cappuccio.
Fece per appoggiare una mano sul tavolo, ma la ritrasse immediatamente; il legno sotto il suo palmo stava già riempiendosi di ghirigori ghiacciati. Doveva tranquillizzarsi, maledizione!
“Chiedo la parola, miei Signori” annunciò uno dei Consiglieri, un rubino pendente all’orecchio.
“Concessa” accordò Orwen, parlando per la prima volta.
“Vorrei illustrare a voi presenti quella che possiamo a ben donde ritenere una delle più floride situazione economiche e di benessere dell’intero Paese. La perfetta regolarità delle casse della Regione del Sud permette a noi tutti di ritenere che una divisione di tale ricchezza, una diffusione di codesta prosperità, sia quantomeno auspicabile e…”  
Dima respirò piano un paio di volte, guardando dritto davanti a sé, cercando equilibrio, la calma.
Era così facile, scoprì ben presto, far vagare la mente, perdersi, volteggiare per finta in quell’aria tesa e pesante! Osservò l’enorme mosaico esattamente di fronte a lui, alle spalle di alcuni consiglieri vestiti di viola, e cercò di svuotare la mente.
Era grande e di mille colori, quell’opera d’arte; mille minuscoli tasselli sembravano comporlo, mille minuscole sfumature, raggi di sole.
E fu allora che il ragazzo si perse, preso alla sprovvista dalla bellezza, dalla verità.
Intorno al tavolo si iniziò a discutere di armi ed eserciti, fiumi, monti, raccolti e magazzini, ma Dima lasciava ai suoi pensieri briglia sciolta, e non un frammento della sua attenzione era rivolto alle voci vigorose degli uomini intorno a lui. Lui era lì, tra quel mosaico di verdi, di gialli e di neri, su quel prato fiorito di rosa e vermiglio, fatto di mille tasselli che non si toccavano mai. Là, sul muro, i raggi del sole, dorati e bianchi, piovevano ovunque, una polvere fine che bagnava ogni cosa, senza lasciare ombre: sul muro, gli uomini partecipavano al raccolto come fratelli.
Le ceste, i fardelli, alberi alti e frondosi, il fiume che scorreva tra loro; turbanti di ogni colore avvolgevano il capo delle figure, delle donne chine tra i filari, tra quel rigoglioso insieme di doni della terra, di frutti e fiori, speranze dipinte di arancio.
Collaborare sembrava facile, volersi bene e condividere un gioco da ragazzi; un uomo prendeva per mano un bambino, sul muro dipinto, e quella stretta di mano conteneva tutto l’amore del mondo. Dima era lì, con la testa, coi pensieri, a guardare come si può essere uniti, concatenati l’un l’altro pur essendo composti di singoli tasselli disgiunti.
Il cielo era blu, e verde, ed azzurro; il cielo era giallo di luce, bianco di nubi, riflesso di rosso.
Il cielo nel mosaico era grande  e circondava ogni cosa, era intenso, profondo, richiamava ricordi.
Il cielo nel dipinto sussurrava al suo orecchio attento, coinvolto.
Il cielo era conforto, era consiglio, era Madre.
Dima non aveva mai capito cosa esattamente intendessero i monaci quando definivano i Guardiani gli “interlocutori prediletti di Dira”. Lui, con la loro grande dea, parlava raramente e sempre per gioco; non sempre ricordava che lei era lì, nascosta, un’amica invisibile.
Adesso non era così, adesso capiva; poteva ascoltare quel bisbiglio diretto al suo cuore.
Con gran stridore di legno e di pietra si alzò in piedi, senza sentire il suo corpo, senza sapere cosa avrebbe fatto,  cosa avrebbe detto.
Quanto tempo era passato dall’inizio della riunione? Minuti? Ore? Dima non lo sapeva, non aveva percezione di nulla, all’infuori del suo cuore che batteva violento.
I toni animati della discussione precipitarono d’un colpo in un silenzio stupito e tutti gli occhi restarono incollati a lui, il giovane Guardiano da cui nessuno si aspettava alcunché.
Rigido e impacciato nei suoi abiti da cerimonia, lo sguardo fiero, la testa alta, Dima li fronteggiava senza paura: gli occhi grigi e grandi di Elsa, alla sua destra, bruciavano di fiducia e speranza e Dima sapeva che non l’avrebbe delusa.
“Vi prego di scusarmi, signori Consiglieri, per l’interruzione” iniziò, la voce alta, che non tremava.
“Trovo estremamente inutile restare qui, seduto tra voi, a discutere di dettagli qualsiasi, a fare il conto delle forze, delle possibilità, a mettere in scena un balletto di domande e risposte dal sapore acido e tendenzioso. Io sono venuto qui per parlarvi di pace; e la pace non si misura in denaro ed armi. Forse parlo con una semplicità che voi riterrete ingenua ed infantile; ma Dira ci parla, ci parla ogni giorno, e sappiamo bene cosa insegna. La pace nasce prima di tutto dai nostri cuori, dalla nostra anima, nei nostri pensieri più profondi. Non è un compromesso, non un patto; perché continuiamo a dimenticarlo?”.
Dima tirò il fiato, rosso in volto per aver osato tanto, sfuggendo con gli occhi agli sguardi indignati di molti, mentre pian piano prendeva coscienza del mondo intorno a lui.
Elsa afferrò la sua mano, e sorrise; uno sguardo veloce, la forza per andare avanti.
“Ora, so bene che i miei compagni Guardiani sono contro di noi; non servirà elencare i disastri di una guerra per imporre la pace. Per questo motivo, chiedo la possibilità di parlare con loro e loro soli. Perché siamo una famiglia e abbiamo bisogno di discutere delle nostre divergenze, abbiamo diritto alla possibilità di chiarirci”.
Deglutì a vuoto, passandosi una mano tra i capelli, a disagio.
Dove aveva trovato il coraggio, la determinazione, quelle parole, non lo sapeva. Ma quando Safnea si alzò, posandogli una mano sottile sulla spalla, Dima seppe di aver fatto la cosa giusta.
“Certe volte noi, che ci crediamo tanto saggi, perdiamo di vista ciò che è il nostro vero obbiettivo, diamo ascolto alla rabbia e all’interesse, ci dimentichiamo chi siamo. È a questo, allora, che servono i giovani dal cuore puro, con la verità sulle labbra; Dimitar ha ragione, miei signori. Lasciateci un momento, torneremo presto a discutere della questione in Consiglio” disse, autoritaria, percorrendo con gli occhi i volti incartapecoriti dei Consiglieri.
Il furore e l’indignazione di quegli uomini colti e potenti, Dima lo sentiva sulla pelle.
Intravide Estefan e Qwan del Sud, sue vecchie, spiacevoli, conoscenze, lanciargli sguardi si fuoco; un uomo dai lunghi capelli grigi, invece, gli sorrise.
Dima ed Elsa li osservarono sfilare, uno dopo l’altro, fuori dalla grande stanza in perfetto silenzio, avvolti nelle loro tonache viole e nella loro disapprovazione.
Quando i soldati di guardia richiusero i battenti, un silenzio pesante si impossessò della sala ormai vuota.
Ed il silenzio si protrasse per alcuni, imbarazzanti, minuti.
Orwen si alzò in piedi e, senza dire una parola, raggiunse una delle alte finestre della sala. Petar, invece, restò immobile, lo sguardo fermo sulla superficie levigata del tavolo, come imbambolato; non uno sguardo, un cenno, ai suoi ragazzi.
Dima poteva quasi sentire il respiro leggero di Elsa, vicino a lui, e leggeva nei suoi occhi la confusione e la pena. Era la prima volta, dopo quella terribile notte, che il vecchio trio si ritrovava, e l’atmosfera non avrebbe potuto essere più gelida.
- Perché, Petar?-
“Bene, signori, poniamo fine a questa assurda pagliacciata” sbottò all’improvviso Orwen, voltandosi a guardare ognuno di loro in volto.
“Voi, Dimitar, Elaisa, Safnea, reclamate la pace, pretendete la pace. Ebbene, credete che non sia anche il mio più grande desiderio? Credete che mi starei preparando a condurre una guerra se avessi altre possibilità, una scelta migliore? Safnea, tu mi conosci; sai che non sono un mostro” era violento il suo tono, rabbioso, ferito.
Aveva le mani tese davanti a sé, chiuse a pugno; Dima lo osservava con occhi di ghiaccio.
“Non lo credo, infatti” replicò la donna, portandosi la mano al cuore e muovendo qualche passo nella sua direzione.
Avrebbe continuato, ma Dima non poteva tacere ancora a lungo.
“Io si, invece” disse, duro, glaciale.
“I nodi vengono al pettine, a quanto pare” intervenne il Guardiano, sprezzante, rivolgendo a Dima tutta la sua attenzione. “Dimmi, Dimitar, parla; ho sempre sospettato la tua antipatia, il tuo risentimento. Adesso puoi esprimerti liberamente; cosa provi, cosa pensi, ragazzo?”.
“Penso che tu sia un bastardo egoista, un approfittatore, un violento. Provo solo rabbia, nei tuoi confronti, Orwen, e non ti temo. Vuoi portare un esercito su al Nord, vuoi attaccare una Regione stremata? Bene, puoi farlo. Ma non osare ripetere le menzogne dell’atto di guerra per giustificare la tua sete di potere”.
Dov’era la calma, il controllo di poco prima? Perché Dira l’aveva abbandonato proprio ora?
Sentiva la presenza di Elsa, dietro di lui, bassa, nascosta.
L’aveva spaventata?
Sul volto di Orwen tornò un sorriso odioso.
“Non hai capito davvero nulla, ragazzino” disse, seccamente.
“Spiegacelo, allora. Perché io e Dima non sappiamo più cosa fare, cosa pensare. Perché ci fai questo, Orwen?” trovò il coraggio di intervenire Elsa, sbucando da dietro la spalla del ragazzo in tutta la sua semplicità.
“Tu e Dima, eh? Piccola cara, questo non è un problema che vi riguarda. Tu e Dima non esistete, insieme, lo capisci, vero?”.
“Uno solo sopravvive, si, lo so. Ma tu dimentichi che il Nord è casa nostra, è li che ancora vivono le nostre famiglie e i nostri amici. Come possiamo restare indifferenti?” trovò da ribattere lei, avvicinandosi di qualche passo.
Erano vicini, tutti, ora come ora. Orwen e Safnea, Dima ed Elsa; in piedi, le guance rosse, gli occhi brillanti di collera, di paura, di disprezzo. Solo Petar restava in disparte, ancora seduto al suo posto.
 “Noi siamo i Guardiani del Nord, che ti piaccia o meno. Non staremo a giocare, a stuadiare ad Odundì mentre tu devasti le nostre terre e uccidi la nostra gente” volle specificare Dima, posando una mano sulla spalla tremante della ragazza, mentre il marmo sotto i suoi piedi si trasformava in una solida lastra di ghiaccio.
Fuoco zampillò dalla punta delle dita di Orwen, fuoco dai suoi occhi.
Discutere di pace? No, non era possibile trovare un accordo. La questione si sarebbe risolta col ghiaccio e col fuoco.
“Basta!”
L’urlo fu forte e sconvolgente.
“Adesso basta” ribadì Safnea, andando a posizionarsi tra Orwen e i ragazzi.
“Ricordi le parole che tu stesso hai detto, Dima, pochi minuti fa? Noi siamo una famiglia! Se siamo una famiglia perché vi ostinate a comportarvi da nemici?” disse, con le lacrime agli occhi e la voce dura.
“Non essere ingenua, Safnea” sferzò l’aria la voce di Orwen.
“Si, io ti conosco da troppo tempo, caro amico, per crederti violento e vendicativo. Io so che agisci solo per il bene di Cadmow; ma la guerra porta dolore, nulla di più! Perché dici che non hai altra scelta?”.
Ora, la donna si rivolgeva ad Orwen, ad Orwen solo; quasi dimentica degli altri, gli afferrò le mani e lo guardò dritto negli occhi, piena di amore.
Lui si liberò dalla sua stretta per carezzarle una guancia.
“Non dico il falso, Safnea, tu devi credermi ed unirti a noi. Il Supremo, su, al Nord, sta per rivoltarsi contro tutti; è una menzogna, quella di uno stato allo stremo. Il Nord è forte, è diventato forte in tutti questi anni, ed ora è pronto ad un’invasione”.
Dima scalpitava al fianco di Elsa, il braccio destro stretto tra le sue mani, mentre intorno a loro si agitavano i venti gelidi dell’inverno, ormai fuori dal controllo del ragazzo.
“Si è barricato al di là di un muro, un muro che noi stessi abbiamo contribuito ad erigere, imbrogliati da una miserevole finzione. Noi, con le nostre stesse mani, abbiamo fornito a quell’uomo spregevole il rifugio che cercava, un luogo tranquillo per consolidare le sue forze, per programmare il suo attacco. Ora che ho finalmente aperto gli occhi, non permetterò a nessuno di fermarmi. È per il bene di Cadmow”.
“Menzogne!” urlò Dima, urlò forte, i muscoli del collo tesi all’inverosimile.
“Quelle che dici sono tutte menzogne, sole pretesti. Mostrati per quello che sei, dannato te!”.
Fiocchi di neve erano impigliati, ora, sulla barba grigio ferro dell’uomo, sui capelli biondissimi di Elsa.
Safnea non sembrava nemmeno averlo sentito.
“Che prove hai, Orwen? A me devi dirlo, devi dire tutto” bisbigliò.
“Te lo dirò, piccola mia, perché ti voglio al mio fianco, come una famiglia” rispose l’uomo, nascondendo un brivido di freddo.
“Le merci del Nord sono rimaste in circolazione, a nostra insaputa, sul mercato nero di Cadmow per tutti questi anni” iniziò a spiegare.
“Non merci qualsiasi, no. Ghiaccio e legno, marcati col sigillo del Guardiano. Venduti a peso d’oro ai forzatori del blocco, a chi, giornalmente, scavalcava e aggirava la Muraglia, oltrepassava porte aperte dall’interno. Perché un uomo giusto come il Supremo avrebbe dovuto correre il rischio di diffondere una malattia tanto orribile? mi sono chiesto. Ebbene, cara Safnea, perché quella malattia non esiste! Perché aveva bisogno di ricchezze, solido oro per raggiungere i suoi scopi!”.
La donna era pallida, e cercò l’appoggio di una sedia alle sue spalle.
“Non hanno mai fatto avvicinare uno dei tuoi guaritori, le tue erbe medicinali, vero? Perché era tutta una finzione, capisci?” le chiese l’uomo avvicinandosi.
“Non è possibile” sussurrò lei, scuotendo il capo.
“E tu non crederci, Safnea”.
Il vento si fermò, nella stanza, a seguito delle poche parole di Elsa.
“Non crederci” ribadì, con più forza.
“Perché non dovrei piccola?”
“Perché quelle di Orwen sono prove fittizie. Io conosco il mercato nero, so come funziona” intervenne Dima, furente ma più controllato.
"Che cosa intendi dire?” chiese Orwen, guardandolo attentamente.
“Vivevo ad Imbris, ricordate?” disse, sprezzante. “Si tratta di gruppo, un gruppo di uomini che vive al di fuori della legge, e si rivolge a quelle persone e quelle famiglie di cui lo stato non si cura, nelle periferie. Loro la merce non la comprano; portano via ciò di cui hanno bisogno senza pagare, senza chiedere. Semplicemente, sono ladri” concluse.
“Quindi, il Supremo non si sarebbe potuto arricchire tramite i loro traffici” dedusse Elsa.
“Il ghiaccio e la legna circolano al di fuori del controllo del governo” sputò tra i denti Dima.
“E se si trattasse  si iniziative di privati, che al di fuori di questo famigerato gruppo di malfattori accettano di comprare dall’autorità?” si informò Safnea, dritta sulla sua sedia.
“Impossibile. La setta controlla tutto il settore, non permetterebbe l’esistenza di una concorrenza”.
Orwen era impallidito.
“Qualcuno al di fuori della Regione del Nord avrebbe potuto, però” continuò lei.
“Difficile. Non impossibile, certo, ma molto difficile. Avrebbero avuto bisogno di contatti dall’interno”
"Non metto in dubbio la tua conoscenza dei più infimi e malfamati meccanismi del Nord, ragazzino” disse, altero l’uomo.
“Ma tu non capisci; il loro contatto era il Supremo! Messaggi e corrieri sono corsi veloci come il vento da una parte all’altra di quella Muraglia, a nostra insaputa!”.
“Io conosco il Supremo, lo conosco da lunghi anni, ormai: un uomo viscido, sempre all’ombra dei potenti, autoritario. Non si sarebbe mai immolato per la causa, mai! Non è confinato al Nord da tutti questi anni per amor di patria; ha uno scopo e presto lo raggiungerà se non agiamo” concluse, con un’aria quasi esausta.
Ma ormai Safnea vacillava.
“Mi dispiace, Orwen, ma tu muovi un esercito sulla base di un tuo sospetto, di un presentimento! Io non posso schierami, non questa volta. Dovremmo trovare il modo di comunicare col Supremo, con i Consiglieri del Nord”disse, decisa.
“Io conosco la verità, la conosco. Non è mia facoltà spiegarvi come sono venuto a conoscenza di questi fatti, ma dovreste davvero fidarvi di me”.
“Tu ci vuoi morti. Ci risulta difficile confidare in te” intervenne Elsa, con un risolino acuto, gelido.
“No, non tutti e due. So della tua ultima visione, cara bambina; solo il Supremo potrebbe trarre benefici dalla morte di entrambi. Lui, che è già saldamente insediato a Nenjaat”.
“Non ho motivo di crederti, Orwen. Potresti essere tu, ora, che tenti di ingannare tutti noi, che cerchi di convincerci e di renderci complici del tuo piano folle per conquistare il potere” ribatté lei.
“Perché, nella mia visione, un uomo rideva. Un uomo rideva e non era il Supremo, puoi starne certo”.
Gli occhi grigi velati di bianco della ragazza erano l’unica cosa che Dima riusciva a guardare, che tutti loro riuscivano a guardare.
Se solo Elsa fosse stata più forte, ora avrebbero saputo cosa fare, avrebbero saputo cosa il futuro aveva in serbo per loro!
“Peccato, Elaisa, che tu non riesca a vedere più oltre. Allora scopriresti da che parte sta la verità”.
“Fino ad allora, signore, credo che noi saremmo nemici” concluse semplicemente lei, scuotendo leggermente la testa.
“Fino ad allora, nessuna pace sarà possibile tra noi” rafforzò il concetto Dima, prendendo la mano di Elsa.
Il silenzio cadde, rotto solo dal respiro pesante di Safnea.
“Mi dispiace, mia cara” le disse Orwen, avvicinandosi e depositando un bacio sulla sua testa. “Io sono stato sincero e non mi tirerò indietro: per amore di Cadmow, per dare a questo nostro regno la guida giusta, sono disposto a separarmi da tutti voi”.
Ed allora voltò le spalle, e il volteggiare del suo mantello dorato fu l’ultima cosa che videro sparire al di là delle porte.

 
Fuoco e fiamme, urla.
Uomini cadevano dall’alto, volteggiavano nell’aria bollente della notte, cadevano a terra senza un rumore. Uomini e cavalli si ammassavano tra le sterpaglie ed il fango, sporchi, insanguinati.
Un nugolo di frecce si alzava tra il cielo arroventato, la pece calda colava dal parapetto di un muro immenso. Il grande muro coperto di neve, grondante d’acqua sotto tutto quel fuoco.
Lingue di fiamme si alzavano, volavano al cielo, come in preghiera; lingue di fuoco attorno a lei, attorno a tutti loro.
Un uomo sbraitava ordini alla sua destra; un altro, a sinistra, agonizzava in una pozza di sangue, di fango, di pece incandescente. Le sue urla squarciavano quella notte di fuoco.
“Non voglio morire!”
Stava urlando anche lei adesso.
Perché?
Le sue gambe corsero verso la base del muro, sotto le frecce infuocate dirette al nemico. Lì, proprio lì, un uomo stava seduto e la guardava.
“Petar, sei tu!”
Lui non parlò, non sorrise; il volto insanguinato, gli occhi rossi, sgranati, da pazzo.
Un urlo muto, i tendini tesi del collo, una spasmo.
Viola, macchiate, gonfie, grondanti di sangue.
Labbra cucite con filo di ferro.
 
“Elsa, Elsa!” un grido, reale, stavolta.
E lei si svegliò, ritta in piedi, cosciente, incrociando gli occhi scuri di Dima.
Lacrime scesero sulle sue guance.
Che futuro era, quello, per loro?
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
Mi dispiace moltissimo per tutto questo silenzio, questo mese senza farmi viva con un capitolo. È un impegno, quello di questa storia, che ho preso con voi che leggete (se ancora è rimasto qualcuno!), ma soprattutto con me stessa. In questo periodo, però, non riuscivo a buttar giù che poche parole, non riuscivo a continuare. Ho iniziato e finito nuovi progetti, nel frattempo, nuove storie brevi, che mi hanno aiutato a ritrovare la voglia e l’entusiasmo nei confronti di questo racconto.
Quindi, ecco un nuovo capitolo; non dico nulla, a me non sembra un granché (che novità!!), ma spero di aver raggiunto lo scopo che mi ero prefissata prima di scrivere!
Fatemi sapere cosa ne pensate, da che parte state, cosa pensate che succederà: mi fa sempre molto piacere leggere i vostri commenti!! :D 
A presto,
Ester

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