Parigi Francia, ore 15,00
Tutto sembrava
tremare, dentro e fuori.
L'applauso
scrosciante che proveniva dalla massa scura davanti a lei faceva
vibrare l'intero studio.
I fari abbaglianti
delle luci stroboscopiche la accecarono per un lungo attimo, e
faticò non poco a scacciare le immagini impresse nella
retina come un negativo fotografico, karmico, simbolico.
Quel pubblico che
l'acclamava era la sua folla, la sua creatura, la sua dannazione.
Makoto Kino, da ben
21 anni, veniva cibata e cibava gli spettatori che la seguivano,
fedelissimi e nutrienti come la migliore delle crème
brulée.
Fece alcuni passi
avanti nei tacchetti verde pastello che Amélie le aveva
scelto quella mattina, quando avevano appurato quali ricette dovessero
affrontare durante la puntata.
Era completamente
vestita in verde. Non quel verde carico, scuro, smeraldino che
ricordava ed indossava tanto tempo prima, ma un verde chiaro, color
pastello, che le faceva pensare più ad una casalinga
occidentale, disperata o meno, degli anni Cinquanta.
Con un tocco veloce
si passò la mano sulla collana di perle, emblema di una
domatura portata a termine, e poi passò ai capelli.
Quella era la
differenza più sostanziale, a cui ancora non si era
abituata. Per quanti anni fossero passati, per quante volte avesse
ripetuto quel gesto nella speranza mai ammessa che fosse tutto un
sogno, continuava a sentire, a percepire, a desiderare la sua lunga
coda riccioluta.
Ma ogni volta
incontrava solo il vuoto, lo stesso vuoto d'aria che si formava sempre
nel suo stomaco il primo minuto che entrava in uno studio davanti alle
telecamere.
Così le
dita si allungavano, si tendevano ad incontrare una crocchia rosso
ruggine stretta e compressa, una morsa che si allungava e si tendeva
fino alla sua gola e oltre.
Finalmente la
macchia confusa e nera divennero volti e bocche. A quel punto, in quel
preciso punto del palco in cui poteva vedere che la creatura d'ombra
davanti a lei si era frazionata, dipartita nella più
famigliare forma di persone, di uomini e donne, allora poteva respirare
liberamente.
Era davvero reale.
Era reale davvero.
In quei 21 anni non
aveva agognato altro. Il suo sogno, la sua più grande
ambizione si era avverata e sapeva solo lei quanto aveva dato in cambio.
Pensò al
Giappone, pensò a se stessa come giapponese. Tutta la forza,
la durezza, il coraggio, la temerarietà che la
caratterizzavano, tutta la spigolosità racchiusa nei
caratteri katakana che aveva usato nella sua adolescenza, tutta la
caparbietà che entrava dentro di lei come un fulmine in un
cielo sereno, tutto questo era stato rinunciato.
Proprio
così. Era
stato rinunciato.
Ogni aspetto di lei
che prima l'aveva aiutata a sopravvivere a mostri e catastrofi, ora si
era staccato, volontariamente e coscientemente, senza rancore o rimorso
apparente. Da solo. Era stato rinunciato; come se sapesse che
lì, in Francia, nella sua nuova vita, nel suo sogno
realizzato, non sarebbe più servito.
E come sarebbe
potuto essere il contrario?
Aveva imperniato la
sua nuova esistenza su tutto ciò che era dolce, morbido,
tenero, arrendevole.
Ciò che
prima mordeva, addentava, pungeva come una rosa spinosa, adesso si
compiaceva di essere smembrato, dilaniato dal quel pubblico sadico,
senza pietà proprio in virtù della sua
amorfosità, della sua sovrana mutevolezza.
Oggi gli indici di
ascolto potevano premiarti, domani ti potevano affondare.
Tu dovevi dargli
ciò che chiedeva; nel suo caso, dolci a profusione, in
ricette talmente astruse che non sarebbero mai state eseguite dalle
casalinghe che la guardavano.
La parte ribelle di
lei in Francia non sarebbe mai durata. Non avrebbe mai potuto portare a
termine l'Istitut National de la Boulangerie Pàtisserie, non
avrebbe mai potuto arrotondare talmente le vocali di quella lingua
strana, ne avrebbe mai potuto pensare a Suave Douceur come nome per il
suo programma.
Aveva dovuto
reinventarsi, rimodellarsi, riplasmarsi in una nuova
nazionalità, per trarne forza e rifugio.
Poiché
in un giorno di 21 anni prima quella che si faceva chiamare Sailor
Jupiter, la guerriera del coraggio e della protezione, aveva perso
entrambi.
“Ci vuole proprio
coraggio per non assaggiare un dolce simile. Credetemi, io l'ho provata
ed è una vera delizia!”
Claudette, la
co-conduttrice, era già vicino al bancone e stava arringando
il pubblico, come un avvocato che cerchi di convincere una giuria.
Era la solita
prassi, di ogni puntata. Si cominciava con quel senso di aspettativa,
poi lei si metteva a cucinare mentre la bionda francese che le era
stata affibbiata e che non aveva mai sopportato parlava, e parlava, e
parlava; e sorrideva, sorrideva, sorrideva, nel suo incessante
chiacchiericcio che doveva essere la cronaca di quello che Makoto stava
eseguendo.
Come stava appunto
pensando poco prima, il suo sogno si era avverato ma con un prezzo
altissimo, compreso sopportare Claudette.
“Oggi la nostra
Makoto, che ricordiamo viene direttamente da Tokyo, ci
preparerà il dolce alla menta. Non fatelo se volete
dimagrire!”
Makoto trattenne un
brivido di piacere, e un impulso mostruoso a colpire Claudette con un
pugno al contempo.
Come al solito, non
appena poteva, quell'oca sottolineava la sua provenienza, come se
questo fosse il peccato più grave mai commesso. Come poteva
un'orientale, una che mangiava sempre pesce crudo, capirci qualcosa
della sofisticata cucina francese?
Quell'atteggiamento
diffidente non era per la prima volta che lo affrontava, e non sarebbe
stata l'ultima, solo che quell'arpia ci metteva dentro un sarcasmo del
tutto personale che le urtava particolarmente i nervi.
Eppure Makoto aveva
trovato il modo per vendicarsi, almeno per quella volta.
In
realtà la ricetta del dolce da presentare quel pomeriggio
era del tutto diversa, molto più elaborata e complicata,
magari con noci che provenivano dal Borneo o pesche della Florida; una
scelta della produzione che lei non aveva mai approvato.
Nonostante
questo,Makoto quel giorno sentiva che non
avrebbe potuto, che non avrebbe permesso che il suo programma venisse
usurpato da altri, tanto meno da Claudette. Quel giorno speciale
sarebbe stata lei la protagonista assoluta, si sarebbe riappropriata
del suo sogno, interamente.
“Infatti, Claudette,
dici bene! Oggi, care amiche che mi state guardando, vi farò
vedere un dolce semplice e gustoso da preparare per le vostre amiche,
per i vostri figli e anche per la persona che amate. Ma soprattutto per
voi stesse!” si mise un grembiule e cominciò a
stendere una pasta sfoglia in una teglia, ”se in una giornata
piovosa, o quando siete tristi e sole e volete consolarvi, allora
prendete la crema di nocciole e quella al cioccolato bianco. Poi
spalmatela sul fondo della pasta. Ecco così!” Con
gesti rapidi e veloci, e senza il timore di sporcarsi, Makoto si
cimentò nell'operazione, con Claudette che la guardava con
un misto di rabbia e di languore che si sforzava inutilmente di
nascondere.
“Ora amiche mie,
dovete solo prendere qualche pancake e imberlo ben bene nella nostra
menta fresca e verde brillante. Vi consiglio di inzupparlo molto se
volete che si senta il sapore. E a noi non piacciono le cose insipide e
scialbe, vero?” Guardava la folla ma si rivolgeva alla bionda
che non smetteva un attimo di osservarla in cagnesco.
“Successivamente posizionate i nostri succosi pancake sulla
pasta sfoglia con il cioccolato bicolore spalmato sopra
e...”, cosa stava accadendo maledizione?
Makoto si sentiva
le mani appiccicose e verdi. Le guardava e le riguardava, e in un colpo
solo mille anni erano spariti, cancellati.
Si trovava di nuovo
sulla Luna, sul Lacus Gaudii, con quelle stesse mani, appiccicose e
verdi di sangue, il sangue dell'uomo che aveva amato e che nonostante
tutto continuava ad amare; il sangue che era sgorgato dalla ferita
mortale che gli aveva inflitto, che lo aveva liberato e condannato
insieme, assieme a lei.
Doveva riprendersi!
Era qui, nel presente, in Francia. La Luna era lontana, lontana come la
sua Usako che non vedeva da anni, che non proteggeva da anni.
“Scusatemi amiche
mie, mi ero distratta un attimo! Ora la parte finale. Richiudete il
nostro fagotto con un'altra pasta sfoglia preparata in precedenza e
mettetelo nel forno fino a quando non vedete che è pronto.
Mi raccomando, per una buona cottura fate prima dei buchetti con una
forchetta, per fare respirare il dolce!” E anche lei doveva
respirare.
Si sentiva come se
le pungesse la gola mentre la crocchia in testa sembrava stringersi
sempre di più. Che Amélie le avesse messo troppe
forcine?
Alzò la
testa e vagò con gli occhi per lo studio. Si sentiva
osservata, il che era strano perché era su un palco con
milioni di telespettatori che la guardavano.
Eppure si sentiva
osservata, dentro l'anima, da qualcuno che poteva vedere dentro di lei
fino ad arrivarci davvero alla sua anima.
Sopo quando prese
coscienza di questo si rese conto che lo aveva sempre saputo, che lui era
sempre stato lì, per tutta la puntata, per tutta la sua vita
in quel paese straniero. Era stato lì, a vegliare su di lei
per tutti quei 21 anni.
L'uomo con i
capelli rossi e la cicatrice sulla guancia era tornato, così
come era tornato l'altro che però non si era mai fatto
vedere. Uno presente e l'altro assente, ma mentre quello presente aveva
fatto di tutto per nascondersi quello assente, l'uomo che amava le
stelle, non aveva mai lasciato la sua mente, per quanto Makoto facesse
per dimenticarlo.
Ganimede
appuntò le sue iridi nere su quella che una volta era una
principessa e un comandante, e Makoto Kino, per tutta risposta svenne.
Tokyo, Giappone, ore 23,15
Se non avesse
mangiato qualcosa sarebbe svenuta.
Hotaru Tomoe era
completamente distrutta; dalla giornata faticosa di una tipica
infermiera all'Aiiku Hospital, dal fatto che era tardi e non aveva
messo niente nello stomaco da ore, dall'incontro che aveva avuto quel
pomeriggio. Un incontro che cercava e temeva ogni volta.
Appena entrata nel
suo appartamentino si accorse che non era sola; non perché
vedesse una figura distinta o per un brivido di paura e pericolo. No,
aveva sentito riannodarsi dentro di lei quel filo, caldo e pieno di
tepore che sentiva sempre quando era con le sue compagne, un legame a
cui aveva sempre pensato, sempre aspirato, in ogni sua breve e fugace
apparizione in quel mondo per cui nata per distruggere.
Le piacevano le
lampade! Hotaru Tomoe ne era una collezionista, di quei paralumi
così belli e discreti nella loro luminosità.
Uno di questi,
quello che proveniva da un negozietto di Firenze, era acceso, e dava
alla stanza un chiarore fioco ed evasivo. Proprio come la persona che
se ne stava seduta comodamente su una poltrona, dall'altra parte della
stanza, completamente in ombra.
“Dovresti mangiare
di più Hotaru-chan, sei pallida!”
Setsuna Meiō, o la
sua voce ad essere precisi, bucò le tenebre che la
circondavano e fece sorridere la ragazza con il i capelli neri come
gaietto.
“Era quello che
stavo per fare...vuoi farmi compagnia?”
“Non ho molta fame,
e poi sono preoccupata per te. Sembri sconvolta!”
Gli occhi viola di
Hotaru si socchiusero. A Setsuna-san era impossibile nascondere
qualcosa.
Ci fu un clic e poi
l'abat-jour vicino alla poltrona su cui era seduta la Signora del Tempo
si accese e illuminò la sua figura.
Improvvisamente, e
solo in quell'attimo, la ragazza si accorse di quale legame, di quanta
affinità ci fosse fra quella che era Sailor Pluto e le
tenebre.
E di quanto
altrettanto distacco da esse.
Sembrava quasi che
non fosse stata la luce della lampada a permettere di vedere il suo
profilo deciso e bellissimo, ma che fosse invece l'oscurità
medesima, che prima la nascondeva, a delinearne ora le fattezze,
continuando tuttavia a rimanere intorno a lei, a delimitarne i
contorni, come se ne fosse attratta e, certamente dalla sua forza
interiore, respinta contemporaneamente.
“Perché
sei venuta qui?” il tono di Hotaru era diventato
più piccato e seccato di quando avesse voluto.
“Sai
perché sono qui, sai per chi sono qui. Sai per chi siamo
qui, tu ed io. Per la stessa persona che ti ha sconvolto, la stessa
persona che ti fa tanta pena e per cui ti dai tanta pena.”
“ChibiUsa.”
Setsuna
annuì in silenziò, e il buio si diradò
un poco, come se quel nome puro e innocente lo avesse spaventato, lo
avesse sfidato.
“Oggi lei e Usagi
sono venute in ospedale per incontrare Mamoru. A volte lo fanno. Credo
che Usagi voglia accertarsi che suo marito non si allontani
troppo.”
“Mamoru è
più lontano di quanto lei pensi; di quanto lei, e lui,
sopportino. Non dovremmo impicciarci del loro matrimonio, ma se i
problemi di Usagi e Mamoru dovessero protrarsi e compromettere il
futuro di Crystal Tokyo saremo costrette ad intervenire.”
Hotaru si
buttò, anche se con la solita grazia che la
contraddistingueva, sulla poltrona davanti alla donna dai capelli scuri
come alghe.
“ChibiUsa
però mi inquieta. Proprio così, mi inquieta. La
bambina capricciosa, diffidente e triste che ho visto oggi non
è più la ragazzina solare che ho incontrato un
giorno ventoso di 23 anni fa nel parco. E che rimpiango.”
“Ti sbagli. Non lo
è ancora. Quella
che tu hai visto oggi assomiglia più al Coniglio, il
soprannome che le avevano dato, e che le daranno i Black Moon. Ed
è davvero un coniglio, un essere spaventato, sempre
all'erta, in attesa di qualcosa.” Setsuna si interruppe per
schiarirsi la gola da un rantolo sospetto. “ Quel qualcosa
che troverà nel suo viaggio nel passato, quando
incontrerà, e comprenderà, il passato dei suoi
genitori. Il passato di se stessa.”
“Di che stai
parlando Setsuna? ChibiUsa ha già fatto quel viaggio, i
Black Moon sono già stati sconfitti!”
“Certo, sono stati
sconfitti nel 30° secolo, grazie a Small Lady e al suo viaggio
temporale. Non solo. Dopo quella vicenda ChibiUsa è riuscita
a trasformarsi, ad avere dei poteri, ha contribuito nella faccenda del
Death Moon Circus in maniera determinante.”
Una pausa, e poi la
voce ieratica, ultraterrena della Guardiana del Tempio prese il posto
di quella comprensiva, umana di Setsuna Meiō.
“Small Lady
rimarrà tale per altri 900 anni, racchiusa nel suo corpo di
bimba,” ad Hotaru sembrò quasi una maledizione,
anche se non c'era niente di più lontano da quello che
Sailor Pluto provava per la sua protetta, ”durante il periodo
di massimo splendore di Crystal Tokyo ribelli provenienti da Nemesis
attaccheranno la nostra patria e ChibiUsa, per salvare sua madre
tornerà nel 20° secolo per trovare Sailor Moon e il
Cristallo d'Argento del Passato.”
Per la prima volta
in quella sera speciale gli occhi di entrambe le donne si incontrarono;
occhi viola spaventati e ormai consci di una terribile
verità, e occhi color malva che ormai quella terribile
verità l'avevano accettata da un pezzo.
“Solo nel
30° secolo i Black Moon saranno sconfitti, solo nel futuro la
Sailor Moon del passato, la ragazzina di 14 anni di un tempo
prenderà consapevolezza del suo regale dovere, solo tra 900
anni ChibiUsa potrà crescere, sbloccando se stessa dalle sue
paure con...”
“Con la tua
morte.”*
Setsuna Meiō
ritornò in tutta la sua presenza, in tutto il suo dolore.
“Già.”
Si alzò
e andò alla finestra. La Luna era piena, bianca, tonda come
un sorriso. Un sorriso che sapeva di lacrime. Lacrime amarissime.
“Quando Demand
cercherà di fare entrare in contatto il Cristallo d'Argento
del Passato e il Cristallo d'Argento del Futuro che verrà
trafugato da Small Lady io interverrò fermando il tempo. E
morirò. Solo così la ragazzina che hai incontrato
nel parco 23 anni fa potrà esistere. Solo così il
potere latente della mia piccolina potrà uscire e
permetterle di perdonare suo padre, di perdonare sua madre, di
perdonare se stessa. Solo con il mio sacrificio lei potrà
crescere.”
Le sue labbra si
incurvarono dolcemente in un piega rara nel suo volto, quasi allegra.
”Un prezzo modesto da pagare, non ti pare?”
“Quindi stai
affermando che noi Guardiane dovremmo lasciare che i Black Moon
prendano il potere su Nemesis e sferrino un attacco a Crystal Tokyo nel
30° secolo?”
“Non solo, gli
antenati della Famiglia Nera stanno già calcando il suolo
terrestre. Sono in mezzo a noi, forse anche in Giappone. Non sanno che
sono portatori della piaga che ci metterà in ginocchio tra
900 anni e forse non lo sapranno mai,” Setsuna
sospirò pesantemente, come se l'intero mondo fosse sulle sue
spalle, ”si Hotaru-chan, dobbiamo lasciarli sguazzare
impunemente nelle loro ideologie terroristiche e malvagie.
Perché c'è in gioco non solo il futuro e il
presente ma anche il passato!”
“Comincio a capire
quello che vuoi dire. Si chiama paradosso temporale, vero? Se ChibiUsa
non avesse avuto motivo di venire nel passato, se i Black Moon non
avessero mai attaccato la nostra patria, lei non avrebbe mai conosciuto
Usagi, e Mamoru, e me. E non mi avrebbe mai salvato.”
Hotaru si strinse
nello scialle giallo arancio che si era messa addosso durante la
conversazione. Era una serata fredda, gelida, dentro e fuori l'anima.
Di entrambe.
“Forse Mistress 9
avrebbe preso il sopravvento e io avrei distrutto le Terra!”
Setsuna-chan si
sporse fino a toccare la sua mano. ”No, non sarebbe mai
avvenuto questo. Tu sei, e rimarrai Sailor Saturn, la guerriera che
porta alla rinascita.”
Hotaru la
guardò con gratitudine ma anche con un cipiglio fermo,
comicamente deciso e pronto a tutto.
“Prima non mi hai
risposto. Perché sei qui?”
La sua compagna
appoggiò le mani sulle ginocchia per alzarsi di nuovo,
stancamente. Ma stavolta non si diresse alla finestra per osservare la
Luna, ma andò verso il televisore che aprì di
malavoglia. Sulla rete nazionale, a quell'ora tarda avrebbero dovuto
trasmettere film, o programmi per adulti, invece c'era un'edizione
speciale del telegiornale con i sottotitoli che capeggiavano in rosso.
“Per chi si fosse
perso la prima parte del nostro speciale vogliamo ricordare che la
redazione seguirà minuto per minuto l'evento più
spettacolare degli ultimi anni. Il fenomeno, che tutti gli scienziati
del mondo stanno monitorando dovrebbe avvenire tra circa dieci minuti.
Siamo in collegamento sia con Mauna Kea alle Hawaii che con
l'Osservatorio Astronomico Nazionale Giapponese a Mitaka
e...”
Setsuna
abbassò il volume fino a che le persone nello studio
sembrarono personaggi di un film muto. Il timer sulla parte alta a
destra dello schermo segnava le 23,35 mentre un piccolo ma inesorabile
countdown si portava via i secondi e la tranquillità dal
volto della Signora del Tempo.
“Per questo sono
qui. Ecco, credo che ci sia una piccola complicazione.”
Hotaru era
scettica. Quando Setsuna-san parlava di complicazioni poi il mondo era
sempre in pericolo.
“Ma ancora possiamo
aspettare,” scrutò in giro per la stanza,
esaminando ogni dettaglio, ogni particolare per ricavarne una trama
lunga 21 anni.
“Parlami di te. Sei
ancora un'infermiera?”
Hotaru-chan
roteò gli occhi con un'aria melodrammatica e
sbuffò sonoramente.
“A me piace il mio
lavoro e non ho nessuna intenzione di cambiarlo. Il medico lo lascio
fare a Mamoru-chan, lui è nato per quello.”
“Mamoru-san
è nato per essere re.” il tono era lapidario, con
una venatura di malinconia e di un sentimento represso e non
corrisposto, la cui natura Hotaru, sia per il carattere schivo di
ambedue sia per le implicazioni titaniche che ne sarebbero derivate,
non avrebbe mai sondato.
“Anche Amy-san
è nata per salvata vite, eppure adesso comunica solo con i
morti.”
Setsuna
afferrò il telecomando ma prima di spingere il tasto per
alzare nuovamente il volume affermò, con la stessa certezza
delle sue altre profezie: ”A volte ci si rivolge ai morti per
parlare ai vivi.”
Darmstadt, Germania, ore 15,30
Le due persone si
lasciarono il freddo e il vento di quell'inverno che non voleva finire
fuori dall'ingresso che immetteva nella gigantesca struttura.
L'edificio che
ospitava la sede dell'Agenzia Spaziale Europea si estendeva in
orizzontale sulla Robert Bosch Strasse, e le molte bandiere di varie
nazionalità garrivano nella tempesta che si era abbattuta
sul sud-ovest della Germania.
Pioveva a dirotto e
le due strane figure, una alta e allampanata, l'altra piccola ma dal
portamento fiero ed eretto, avevano i soprabiti completamente bagnati e
pieni di goccioline che risplendevano sotto le applique che
costellavano i soffitti degli innumerevoli corridoi della base. Quelle
luci rendevano i capelli scuri della donna di una sfumatura quasi
turchina, e l'uomo che l'accompagnava la guardava di sottecchi
affascinato e perplesso.
Passarono numerosi
controlli fino ad arrivare ad una porta a due ante, ultramoderna e
trasparente, al di la della quale si potevano notare varie persone che
si affaccendavano dietro diversi monitor e computer.
L'ennesima guardia
all'entrata li fermò per controllare il loro pass.
“Buon pomeriggio Herr Ōzora, come
va? Questo tempo non aiuta di certo!” si era rivolto all'uomo
dai capelli chiari con un evidente tono amichevole, segno che era una
faccia conosciuta in quell'ambiente. Inoltre la conversazione si svolse
in tedesco, anche se la guardia non poteva sapere che la donna il
tedesco lo parlasse frequentemente da 21 anni.
“Hai ragione Karl,
ci avrebbe proprio danneggiati se non fossimo già partiti
penalizzati rispetto agli asiatici e agli americani. Pazienza,
vorrà dire che osserveremo il fenomeno con XMM-Newton e in
diretta dalle Hawaii.”
Prese la donna per
il gomito, come se avesse fretta di portarla dentro, ma Karl fu
irremovibile.
“Il suo pass
grazie!”
Stavolta aveva
usato l'inglese, la lingua ufficiale lì dentro in quel
crogiolo di persone provenienti da tutto il mondo.
“Ummm, Mizuno. Amy
Mizuno. Va bene, tutto a posto, potete passare.”
“Puoi passare Amy!
Ehi ma mi senti?”
La donna dai
capelli corti si riscosse improvvisamente dallo stato di torpore che la
invadeva da quella mattina.
Appena si era
alzata e aveva visto i nuvoloni neri che minacciavano l'orizzonte si
era resa conto che quella giornata era speciale.
La sua compagna di
viaggio, Helda-san, professoressa di biotecnologia
all'Università di Stoccarda e sua collega e amica da molti
anni, le stava facendo un cenno per avanzare nella fila che si
profilava davanti al buffet della colazione che offriva l'albergo.
Quel viaggio a
Darmstadt si stava rivelando molto più faticoso del
previsto. Il maltempo e il pensiero sgradevole di avere rimandato un
sacco di impegni che poi si sarebbero accumulati sulla sua scrivania, e
per ultimo anche la sensazione di qualcosa di strano nell'aria,l a
rendevano estremamente nervosa e agitata.
Eppure lei era
sempre stata la più tranquilla del gruppo, quella che
manteneva la calma anche nelle situazioni più aggrovigliate.
Con il suo
minicomputer, il suo cervello superdotato e una buona dose di buonsenso
riusciva sempre a risolvere i problemi delle sue compagne, a risolvere
i problemi per combattere contro chi voleva distruggere il mondo, a
risolvere i problemi di se stessa e dei dubbi che potevano attanagliare
una ragazzina di 14 anni con tante ambizioni e un destino da guerriera.
Ma ora, a
metà di quel pomeriggio scuro e tetro le sembrava quasi di
non poter pensare con la dovuta lucidità, con il solito
raziocinio che in quei 21 anni aveva perfezionato, limato, acuminato
come solo Amy Mizuno sapeva fare, fino a farlo diventare duro e secco
come il ghiaccio, come l'incisione a Y che praticava sui suoi pazienti.
Perché
la ragazza di 14 anni che voleva salvare delle vite, come faceva sua
madre, ora invece imperniava tutte le sue energie, tutta la sua fredda
passione verso persone che non potevano più essere salvate,
almeno non fisicamente.
Amy Mizuno,
splendida e famosa ricercatrice, nonché detentrice di una
cattedra in biologia all'Università di Stoccarda era anche
un famoso medico legale, che collaborava con la polizia per risolvere i
casi più macabri e difficili, ma che dedicava la stessa
attenzione, la stessa perizia alla vecchietta che era stata trovata
morta dopo tre settimane in casa senza che nessuno, compreso suo
figlio, se ne fosse accorto o ne avesse denunciato la scomparsa.
Ripensando a quel
caso, si ricordò che dall'autopsia aveva rilevato che la
donna era caduta, forse per prendere qualcosa da un armadio o per dare
da mangiare ai suoi due gatti, ma era morta solo cinque giorni dopo di
disidratazione.
Non sapeva
perché un episodio simile le si fosse affacciato alla mente
proprio quel giorno, ma le metteva addosso un senso di disperazione che
neanche il più atroce dei delitti le avrebbe ispirato.
Lei non era molto
diversa da quella vecchina, lei non era molto diversa da un essere solo
e abbandonato a se stesso.
Un po' come lo era
stata prima di conoscere Usagi, quando passava per i corridoi del liceo
senza che nessuno le chiedesse come stava, o se volesse dividere il
pranzo con lei. Ed in entrambi i casi era soltanto
responsabilità sua.
Ma se prima poteva
dare la colpa alla sua timidezza, al suo carattere introverso, ora non
aveva scuse.
Si era
autoesiliata, confinata nella sua torre d'avorio, fatta di libri,
formule matematiche, cadaveri da aprire e capire, tutto nella speranza
che ci fosse una maniera per difendersi nel suo castello medioevale con
tanto di fossato, e nel contempo essere pronta all'attacco, quando
questo fosse certamente avvenuto, per opera di due occhi verdi come
zoisiti, verdi come quelli di un gatto che gioca con il suo topo
preferito.
Ed Amy non era una
persona che se ne stava ad aspettare impotente senza erigere delle
barricate spesse e invalicabili.
Una come Amy Mizuno
prendeva in considerazione tutte le possibilità, tutte le
strategie attuabili e sceglieva la migliore.
Quella di essere e
rimanere sola ed abbandonata come quella vecchina era la migliore; lo
era stata 21 anni prima e continuava ad esserlo.
Rifletteva su
questo mentre passeggiava per le vie di Darmstadt, e non si accorse
dell'uomo che la fissava da un pezzo dalla vetrata di una caffetteria.
Poi un rumore di
passi la raggiunge, un rumore innocuo che neanche le fece voltare la
testa se una voce, una voce stranamente famigliare non l'avesse
chiamata per nome, in giapponese.
“Ehi sei proprio tu!
Mizuno-san vero? Amy Mizuno.”
Si voltò
più per la lingua che aveva usato, una lingua che non
sentiva da anni ma che usava spesso per richiamare alla mente le
formule o i teoremi matematici più difficili.
Tutto si aspettava,
ogni faccia del suo passato in quei pochi secondi venne presa in
considerazione, ma lui proprio non rientrava nelle statistiche.
"Ōzora-san!”
Kakeru Ōzora era
lì, davanti a lei, certamente invecchiato in quei 23 anni
che non si vedevano ma sempre lo stesso, con i capelli chiari e
l'espressione di eterno sognatore che ricordava e che, in quel momento,
invidiava.
“Per il sacro Monte
Fuji sei bellissima come ti ricordavo!”
“Anche tu stai molto
bene, davvero!” Certamente stava meglio della prima volta che
lo aveva visto, quando lei e le altre lo avevano soccorso in mezzo alla
neve, dopo il suo viaggio oniricamente reale in uno spazio, anzi nello spazio
in cui lui non sarebbe mai potuto andare, e che Luna gli aveva invece
regalato, gli aveva sacrificato.
Dopo quell'episodio
avevano continuato a sentirsi ogni tanto, soprattutto lei che a volte
lo andava a trovare, quando era in Giappone con la sua fidanzata
Himeko, per parlare di astronomia e di ingegneria spaziale.
“Senti, io stavo
bevendo un caffè mentre aspetto il gran momento,
perché non vieni anche tu? Sarai eccitata quanto me, non
è così?”
Ed in effetti
Kakeru sembrava l'euforico, giovanile ragazzo che aveva conosciuto
tanto tempo prima, lo stesso ragazzo che contro ogni teoria accreditata
dai migliori astrofisici credeva che sulla Luna ci fossero creature
intelligenti, e che avrebbero potuto comunicare con noi se solo le
avessimo ascoltate.
Senza attendere una
sua risposta la portò quasi di peso dentro il locale e la
fece sedere al tavolo.
“Due Sachertorte e
due caffè forti, molto forti, grazie.” Dopo che
ebbe ordinato anche per lei dedicò tutta la sua attenzione
alla donna che gli stava davanti.
“Mamma mia, sei
uguale all'ultima volta che ti ho vista! Se così non fosse
non ti avrei immediatamente riconosciuta. Dimmi tutto, come stanno le
altre tue amiche? Non ricordo i loro nomi, manco dal Giappone da tanto
quindi perdonami! Allora, la bionda con i codini me la ricordo, Usagi
giusto? E' la ragazza che possiede, no anzi dubito che ci sia qualcuno
che possa possedere una creatura tanto straordinaria......è
l'amica di Luna, no?” Kakeru-san interruppe quel fiume in
piena con una diga improvvisa e improvvisata, una smorfia di
disappunto, come se non tutti i conti con il passato fossero chiusi,
ermeticamente sigillati; un'espressione che lei aveva ogni volta che
guardava il suo minicomputer.
“Stanno tutte bene,
anche Luna. Però è da molto che non li vedo. Con
le lezioni all'Università e il mio lavoro......”
“Sei un medico come
avevi sempre desiderato?”
Amy
cominciò ad affettare la Sachertorte come se dissezionasse
il cadavere di un serial killer.
“Si, sono un medico!
“Grandioso! In quale
branca ti sei specializzata? Medicina interna? Chirurgia
generale?”
“Medicina
legale.”
“Ah.”
Scese un silenzio
imbarazzante; le conversazioni in tedesco degli altri clienti avevano
preso il posto dei suoni giapponesi, che però rimasero
nell'aria come bolle di nebbia.
Kakeru-san stava
per dire qualcosa ma si era trattenuto con una certa fatica. Uno come
lui, che era andato contro la comunità internazionale degli
scienziati per difendere le sue opinioni, ora si stava sforzando di
andare contro la sua natura. Una natura che non poteva prescindere dal
dire sempre quello che pensava. Ma poi, per un motivo misterioso,
decise di cambiare idea.
“Mi dispiace, forse
non ti piacerà quello che ti dirò ma non posso
farne a meno. Hai tutto il diritto di arrabbiarti, in fondo non ci
vediamo da anni e non sono il tuo migliore amico, anche se mi piaci, mi
piaci molto Amy Mizuno.”
“Dimmi pure, ma
quello che dirai non potrà mai scalfire le mie convinzioni,
ne le mie decisioni.”
“Si, è
giustissimo. ”Fece una pausa, e tossicchio come per provare
se la voce gli tenesse.
“Andrò
dritto al punto. Ebbene, non capisco come una persona come te, con una
volontà, uno spirito, una forza interiore così
forte, così dedita agli altri esseri viventi, possa avere
scelto una strada che porti solo in un freddo obitorio. Tu sei un
medico, un medico che cura, che guarisce le persone, quelle che hanno
ancora una speranza. E i morti non ne hanno più, hanno perso
tutto.”
“Ma non il rispetto,
e la possibilità che qualcuno parli per loro. E poi i morti
con cui ho a che fare almeno non possono ritornare.”
Kakeru era
trasalito. ”Ma che dici? Tutti i morti non
ritornano!”
La donna che gli
stava di fronte e che aveva aperto la Sachertorte facendone uscire un
liquido grumoso e arancione, sorrise di un sorriso irreale, quasi
grottesco se la bellezza e la purezza di quegli occhi azzurri come
ghiaccio alla deriva non lo avessero mitigato.
“Fidati Kakeru-san,
alcuni morti ritornano, e quando lo fanno sono i vivi a
pagare.”
L'uomo
abbassò la testa, senza rispondere. Amy-san era molto
cambiata. Non fisicamente, ma dentro lo era eccome. Nonostante questo
però lui non poteva rimproverarle nulla, ne giudicarla.
Chi era
Kakeru Ōzora per criticare una paladina della giustizia?
Lei e le sue amiche lo avevano salvato, anzi avevano salvato tutta la
Terra dall'essere freddo che era stata Kaguya. Ma ora Amy aveva deciso
di non salvare più nessuno.
“Hai detto che stai
aspettando qualcosa quando ci siamo visti. Di cosa parli?”Amy
stava cercando di rimediare, di alleggerire la tensione che lui aveva
contribuito a creare impicciandosi di questioni non sue.
“Pensavo che fossi
qui anche tu per lo stesso motivo. Una scienziata come te non avrebbe
faticato ad ottenere un pass per l'ESA.”
“No, non ho niente a
che fare con l'Agenzia Spaziale Europea. Adesso mi dedico solo alla
biologia e alle sue varie ramificazioni e uso più il
microscopio per guardare l'infinitamente piccolo piuttosto che il
telescopio per l'infinitamente grande.”
Forse
è questo il problema, cara Amy. Ma non lo disse ad alta voce,
non avrebbe fatto lo stesso errore.
“Io invece
guardò sempre verso l'alto, sopra di me!” il suo
sembrava quasi un rimprovero che Amy-san incassò con quella
sua aria da erudita che sa comunque di essere nel giusto.
“Comunque mi pare di
capire che non sai niente del fenomeno di questo pomeriggio.
Sarà eccezionale, imperdibile. Perché non vieni
con me all'ESA? Vedresti qualcosa di unico e di irripetibile.”
L'entusiasmo di
Kakeru era contagioso, o forse era il fatto di tornare a parlare nella
sua lingua madre che la rendeva così elettrizzata, eccitata
come quando entrava in una libreria nuova.
“Di che si tratta?
Non sono molto aggiornata sull'argomento e gli ultimi giorni li ho
passati con gli appunti per la lezione di domani alla
Technische.”
Gli occhi dell'uomo
ammiccarono mentre si sporgeva con un'aria da cospiratore verso di lei
per non farsi sentire dagli altri avventori, nonostante parlasse in
giapponese.
“Di uno scontro fra
titani.”
*Questo
argomento l'ho approfondito nella one-shot Il complesso di Elettra, che spiega dettagliatamente i fatti che ho
ripreso dal manga.
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