Life is a fairy tale.

di _Maisha_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Snow White and the seven bodyguards ***
Capitolo 2: *** Hibernated ***
Capitolo 3: *** Three Knots ***
Capitolo 4: *** Asylum ***



Capitolo 1
*** Snow White and the seven bodyguards ***





Snow White and the seven bodyguards

Quando Biancaneve si accorse che affidarsi a dei nani per la sicurezza del locale non era stata una gran mossa, era ormai già troppo tardi. Davanti a lei i sette omini in fila, vestiti di smoking di sette colori rigorosamente sui toni pastello, sembravano la squadra di lacrosse del colleggio-femminile-per-donzelle-in-pericolo della bella addormentata. In realtà aveva dato loro una possibilità, all’inizio. Fu quando si rese conto che la fatina dai capelli fucsia passata dieci minuti prima era più spaventosa di loro che pensò di narcotizzarli e rinchiuderli nello sgabuzzino.
« Spiegatemi perché diavolo la mia giacca è verde acqua! Una volta il mio colore non era il bordeaux? »
« Brontolo, è possibile che tu debba sempre fare questione? » sbottò Dotto, sistemandosi gli occhiali nuovi dalla montatura rossa in tinta col proprio abito.
« Ma sentitelo! No, ma dico, ciccio, che ne dici di fare cambio? Come se non lo sapessi che l’hai ordinato di proposito il colore sbagliato! »
« Io? Ma no, figarut… ehm, voglio dire figurati… ».
« Ah! Beccato. Sessanta anni di nano e ancora che confonde le vocali quando si innervosisce… ».
Biancaneve si domandò, ascoltando quella conversazione, del perché nessuna belva selvaggia l’avesse divorata in quella dannata foresta dieci anni prima. Già, dieci anni e loro erano ancora identici. E identici dovevano essere i modi per ottenere l’attenzione.
« Nani! » sbraitò la moretta, portandosi le dita alla bocca per amplificare la potenza del fischio che seguì il suo grido. Tutti tacquero. Funzionava sempre. « Bene, ora che ho la vostra… » cominciò a parlare.
« E…e…e…etchiù! Scu…scu…scusaaatchiù! » Eolo, naturalmente, si faceva sempre riconoscere, nonostante fosse infagottato in uno sciarpone blu elettrico in tinta coi vestiti che indossava.
« ... dicevo, ora che ho la vostra attenzione, se qualcuno mi concede di comunicarvi due cosette…» riprese, lanciando uno sguardo torvo al nano perennemente raffreddato. « Vi ricordo che stasera è la sera. Confido in voi. No matrigne cattive, sì alle sorellastre, portano sempre soldi, sapete com’è, annegano nell’alcol i dispiaceri. Ah, a proposito di alcol. Ricordate di distribuire i volantini con il coupon per lo sconto sul “bacio del principe” ai clienti meglio vestiti. Questo cocktail spopolerà, me lo sento!»
Quando finì di parlare, nonostante Brontolo continuasse a battibeccare sul tessuto troppo ruvido del suo smoking – che gli avrebbe causato irritazioni all’ombelico – e Cucciolo si fosse messo le scarpe al contrario, Biancaneve era felice. Il suo sogno si era realizzato, o meglio, quasi. Da quando il principe l’aveva piantata per scappare con il castellano si era posta un unico obiettivo, quello di raggiungere il successo.  E per ottenere le luci della ribalta aveva deciso di investire in qualcosa che piace a tutti, di cui nessuno può fare a meno: il divertimento. E no, fare la cabarettista non era il lavoro per lei (non c’entrava nulla la brutta esperienza avuta a corte, con l’ex suocero, della barzelletta dell’uomo entrato in un caffè, proprio no). Biancaneve sarebbe diventata la direttrice del locale più alla moda del regno delle fiabe.
Quella stessa sera sarebbe cominciata per lei una nuova vita, grazie a qualcosa che già una volta le aveva dato la possibilità di uno stravolgimento totale e definitivo... un frutto rosso e dolce come la sua esistenza da quel momento in poi.
« Biancaneve? » la interruppe Mammolo, rosso più del solito in viso, forse per colpa dell’abito rosa shocking. «P-p-posso acc-accendere le luci? Manca poco all’apertura ».
« E sia. » biascicò la moretta stizzita perché interrotta nel momento clou del suo sogno ad occhi aperti. « Voglio la massima luminosità possibile, capito? Tutti dovranno notarlo ».
Un cenno della testa del nano, che scomparve un attimo dopo, silenzioso come era venuto, fu l’ultima cosa che la fanciulla vide prima di restare abbagliata dalla lucentezza delle enormi lettere cubitali davanti a lei. Una ad una si illuminarono fino a che la scritta non fu completa sulla struttura nera che era il locale: “La mela avvelenata”.
E se prima quelle parole erano significate morte, ora significavano fama. Vita. 










Martina's corner: non so scrivere storie comiche. Lo so. Purtroppo per voi il concorso per il quale ho scritto la storia (il "Diving into the fairy tales" di Aleyiah, sul forum) era troppo carino per non parteciparvi. Muahah. In caso la mia storia vi abbia comunque invogliato a comprare un abito da sera color pastello lasciatemi una recensioncina. Alla prossima, streghe! ^^

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Capitolo 2
*** Hibernated ***








                                          Si potrebbe pensare che avere potere illimitato sia magnifico, dannatamente eccitante.
                                            E in effetti lo è, poter creare e distruggere a proprio piacimento, intendo, eppure… eppure il ghiaccio non riesco a scioglierlo.
                                              Sono ibernato, da solo. Ci siamo io e la stupida superficie liscia di una lampada.
                                                Non ho niente, oltre a quella. A poco servono i poteri se non è possibile utilizzarli per se stessi.
                                                  Dovrei imparare ad essere egoista, ma non posso permettermelo. Non posso permettermi niente.
                                                    Sono semplicemente e irrimediabilmente solo, un frammento di vita di cui a nessuno importa.
                                                      Ovunque egoismo, mentre io resto invidia.















Martina's lamp:
chi l'avrebbe detto che il genio fosse invidioso dell'egoismo, eh?
Prima drabble della mia vita, pace e amore a tutti voi genietti.
Ah, in caso vediate male l'impaginazione, seguite il link. http://i42.tinypic.com/jl3z9l.png

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Capitolo 3
*** Three Knots ***


Three Knots


 
Cara Rosie,
sempre più spesso mi chiedi come mai di nonno tu ne abbia uno solo. Sei grande, ormai, e con te cresce anche la tua curiosità per il mondo e ciò che ti circonda. Questa lettera, mia adorata bambina, è per raccontarti una storia che poche persone conoscono; questa, piccola, è la mia storia.

Avevo circa la tua età quando mio padre morì. Lo amavo molto, quanto tu ami papà e me. Un amore forte e viscerale; oh, quanto adoravo le sue storie prima di dormire, la sua voce dolce e calda, i suoi occhi felici, le sue carezze. Tutto questo mi fu portato via all’improvviso, come se un uragano si fosse abbattuto repentinamente sulla mia vita distruggendo e scuotendo e rovinando ogni mio appoggio solido e fondamentale. 
Papà si era molto ammalato. Un male quasi impossibile da curare, gravissimo, lo fiaccava ogni giorno di più. Eppure lui lottava, lottava per tenermi stretta a sé, per non privarmi di un altro genitore. Come sai, infatti, la mia mamma, tua nonna, era scomparsa tragicamente quando io ero molto piccola, di lei ricordavo solo che mi assomigliava molto e che amava cantare, proprio come me e ora… come te.
Nonostante il suo continuo combattere, comunque, mio padre perse il duello con la morte, spegnendosi. Prima di lasciarmi, però, quando la malattia gli impediva già di parlare e di aprire gli occhi per più di pochi secondi, con mano tremante, accarezzandomi impercettibilmente, quasi a non voler essere scoperto, mi fece un dono: un pezzetto di corda con tre nodi.
Non capii, ero così piccola e ingenua e triste…
Quello spago fu l’ultimo regalo che ricevetti, insieme a quell’ultima carezza che sapeva sì di disperazione, ma anche di un invito a non mollare.
Dieci anni dopo, quando una dolce fatina, la mia madrina, venne ad aiutarmi per andare al ballo dove conobbi tuo padre, quella corda improvvisamente acquistò un senso. La Fata Smemorina, infatti, tra una magia e l’altra mi disse di appartenere a una confederazione di esseri magici chiamata “Tre Nodi”. Tre nodi come quelli presenti sulla corda regalatami da papà. Stupidamente non ci prestai attenzione, presa com’ero da ciò che mi stava accadendo intorno e lasciai che quell’informazione così importante si riempisse di polvere in un cassetto della mia mente.
Dopo il mio matrimonio con tuo padre ebbi molto più tempo da dedicare a me stessa non dovendo più accontentare i capricci di qualcun altro. Mi trovai a pensare più e più volte a un collegamento tra il buffo dono di mio padre e qualsiasi altro oggetto o situazione o luogo. Trovai il nesso che cercavo quando la mia madrina, l’unica persona rimastami della mia vecchia vita che teneva ancora a me, una sera di luglio, precisamente l’anniversario nel nostro primo incontro, decise di volermi rivedere sul limitar della foresta. Con me, naturalmente, c’era la mia cordicella che in pratica non mi lasciava mai.
I nostri saluti furono calorosi e felici e Smemorina non la smetteva di parlare neanche un secondo; erano cambiate molte cose in quell’anno e lei era una donna davvero curiosa, ma qualcos’altro turbava la mia mente.

Quando mio padre morì mi donò questo, – la interruppi, sovrappensiero, mostrandole la cordicella. E...  mi chiedevo se tu potessi capirne qualcosa… ti prego Smemorina, aiutami.
Oh cielo, bambina! Sei sicura di quello che dici? Questa funicella è sicuramente legata ai Tre Nodi! Voglio dire, è il nostro simbolo! Ne ho una anch’io! rispose, mostrandomi la sua copia della piccola fune annodata, tirandola fuori da un tascone del vestito azzurro. Forse… forse tuo padre voleva che ti assistessi in qualche modo!
Io… io non lo so Smemorina. Vorrei solo capire cosa è successo a mio padre… del perché di questa corda… del perché se ne andato!
Lacrime amare presero a bagnarmi le guance e un dubbio iniziò ad insinuarsi in me. E se mio padre fosse stato ucciso? Non avrebbe avuto alcun senso la corda se fosse stato altrimenti, forse mio padre sospettava qualcosa, forse non aveva la forza di dirlo, forse anch’egli desiderava capire cosa stesse succedendo alla sua realtà.
Invano Smemorina provò a consolarmi; tentò di trasformare un ranocchio in una principessa in tutù ma divenne un maialino arancione e le mie lacrime cominciarono a scendere più copiose. Come avrebbe potuto aiutarmi quella donna? Buona, sì, ma così smemorata e buffa…
Quasi come se mi leggesse nella mente, la vecchia fata sussurrò: – Non dubitare di questa vecchietta solo perché ha i capelli bianchi, Cenerentola. Puoi portarmi nel luogo in cui se ne è andato?
Annuii, sorpresa. Quella sera stessa tornammo nella mia vecchia casa. Lady Tremaine, la mia matrigna, sussultò vedendomi arrivare, poi, quasi spaventata dalla mia fragile persona, che fino a poco tempo prima usava per pulire, servire e rassettare, s’inchinò con una smorfia.
Non la considerai. Quella donna mi aveva fatto tanto male che non meritava neanche la mia compassione. La camera di papà aveva lo stesso odore di quando l’avevo lasciata: tabacco e mogano. Mi sfuggì un sorriso. Lo sentivo quasi lì con me. Mi presi un po’ di tempo prima di chiamare la madrina a mente. Strizzai gli occhi, pensai di volerla vedere ed eccola lì, in una nuvola di stelline brillanti.
Per la prima volta la fata non parlò ma, limitandosi a farmi un cenno con il capo, si diresse vicino al letto di mio padre, perfettamente immacolato da quell’orribile giorno; Lady Tremaine, infatti, aveva deciso di cambiare stanza perché la sua vecchia camera le ricordava troppo papà. Come se le importasse veramente.
Non passò molto quando Smemorina, accigliata, cacciò la bacchetta dalla manica destra del suo morbido abito.

Tiritì, tiritò, tiritù, letto svela il misfatto, ora o mai più!
Il letto di papà fu colpito da un lampo di luce gialla.
Qualche secondo dopo, immerse in una nebbia dorata, io e la fata madrina vedemmo comparire al nostro fianco una figura evanescente, con le stesse sembianze di una persona che conoscevo…

Genoveffa! – urlai. Doveva andarsene da lì!
Smemorina ridacchiò. Non capivo cosa c’era da ridere in quella situazione così delicata. Forse intimorita dal mio sguardo severo, la fata si rabbuiò e allungata una mano trapassò da parte a parte la mia sorellastra che non parve accorgersi di nulla. Ah, la magia… non finiva mai di sorprendermi.
Osservai la scena in silenzio.
Genoveffa, che notai essere poco più che bambina in quella forma spettrale, si avvicinò al letto di papà e dopo essersi guardata intorno, come se nulla fosse, attraverso una piccola boccetta di profumo spruzzò qualcosa sulle lenzuola.
La scena si ripeté dinanzi ai miei occhi per dieci volte circa e ogni volta Genoveffa aveva una pettinatura o un abito diverso. In pratica, Rosie, la mia sorellastra per alcune settimane aveva fatto visita regolarmente alla stanza di mio padre cospargendo il letto di quello strano liquido biancastro.

Fata Smemorina, cos’è quella roba? – non riuscii a contenermi. Dovevo sapere. La mia madrina si avvicinò al letto, sfiorando le lenzuola con delicatezza e pizzicandosi le dita in seguito.
È un batterio, mia cara. – Smemorina strizzò gli occhi, quasi a voler piangere. O meglio, è una pozione che contiene un batterio.
Un batterio? Genoveffa? Mio padre? Io… non è possibile! Devo… devo chiederglielo subito! 
Corsi fuori da quella stanza, da quell’omicidio, da quell’orribile verità.

Genoveffa! Genoveffa, vieni fuori! È la tua regina che te lo ordina!
Non avevo mai ordinato niente a nessuno, tantomeno urlando… ma stavolta era diverso. C’era di mezzo un assassinio, e il morto era mio padre. Il mio amato padre.
Genoveffa uscì dalla sua stanza, trascurata, invecchiata a poco più di vent’anni, un piede ancora zoppo per i danni procuratisi nel provare a indossare la mia scarpetta di cristallo.

Maestà – disse, inchinandosi con aria di sufficienza, proprio come l’odiosa madre.
La invitai a scendere al piano inferiore. Davanti al grande camino del salone che avevo pulito così tante volte sedevamo io, le mie sorellastre e Lady Tremaine, nonostante sentissi ancora la presenza di Smemorina accanto a me.

Sono passati molti anni da quando il papà è morto, – cominciai. – Immagino che a tutte voi manchi molto, proprio come manca a me.
Osservai i loro sguardi, nessun fremito, nessun guizzo di tristezza. Vuote.

Credo che nostro padre e suo marito, Lady Tremaine, sia stato ucciso. E ho dei… temporeggiai, cercando di trattenere le lacrime e la rabbia. – Sospetti. Si dà il caso che il sospettato si trovi proprio qui, in mezzo a noi, mi fermai un istante. – Genoveffa, circa dieci anni fa cosa spruzzavi sul letto di papà, quando t’intrufolavi di nascosto in camera sua?
Pronunciai l’ultima frase con una tale rapidità che quasi non si capì.

Non so di cosa stai parlando.
La sua risposta fu secca, fredda, come se se l’aspettasse.

Ho le prove, mostro! – le urlai contro, aspra. – Cos’era quella pozione? Come l’hai avuta? Per l’amor del Cielo parla! Genoveffa, ti ho servito per anni, mi devi delle spiegazioni! Se non lo farai, te lo ordinerò in quanto tua regina.
La mia sorellastra trasformò il suo ghigno in una risata beffarda e malefica che ben presto divenne un continuo singulto seguito da copiose lacrime.

Io ero invidiosa, – cominciò. – Di te, di voi. Sì, tu Cenerentola eri sempre al centro di tutto e di tutti ed io e mia sorella eravamo sempre in disparte! Sempre! Ma io soprattutto. Sì, io ero il nulla. Anche Anastasia era più importante di me, con il suo caratterino più docile e con un viso più dolce del mio. E la mamma, oh, la mamma sembrava felice. Ma le sue figlie? Non esistevano più. C’era solo il suo stupido nuovo odioso marito.
Bambina, ma cosa stai dicendo? provò a ribattere Lady Tremaine.
Oh, sta zitta mamma! – rimbeccò la figlia, Io non ce la facevo più. Odiavo tutti voi. La mia vita era un inferno! L’unico a volermi bene era il mio papà… che se ne era andato. Dovevate capire quanto soffrivo! –
Non sapevo cosa pensare. Genoveffa era sempre stata una bambina… una ragazza, forte, dura, sicura di se stessa. Non mostrava a nessuno il suo dolore, ma solo la sua frustrazione e la sua rabbia.

Pagai una delle cameriere che avevamo prima per ottenere quell’intruglio. Lei non sapeva di cosa si trattasse, naturalmente. Beata ignoranza. Dal canto mio, essendo io la maggiore tra voi, sapevo leggere e mi dilettavo con i libri di medicina e scienze della biblioteca. Non ci ho messo molto a trovare qualcosa che potesse essere letale. Ho fatto l’ordinazione alla serva e puff, ecco il mio veleno direttamente dal mercato nero del villaggio. Ci ha messo anche più del previsto per far fuori tuo padre, regina.
E tua madre? – trattenni le lacrime. – Non avevi paura che tua madre facesse la stessa fine? –
Sorrise:
No, certo. Ho ordinato anche l’antidoto per lei. Ogni giorno bastava una piccola goccia nel tè. E se ti stai chiedendo del perché nessuno riuscisse a curare tuo padre la risposta è semplice. Gli altri ingredienti della pozione rendevano il germe della malattia indistruttibile, tranne che al mio antidoto.
Improvvisamente la consapevolezza di ciò che aveva fatto quella donna malefica mi pervase. Non c’era pietà da provare o tristezza. La morte di mio padre era stata ingiusta e terribile ma la fragile psiche di Genoveffa aveva toccato il fondo. Era compassione, quella che provavo.
Decisi di non punirla. Che restasse lì, in quella stessa casa, sola tra le persone che amava ma che ormai non amavano più lei. Il dolore non pesa tanto quanto il senso di colpa, ma ti toglie di più. E in quel caso le aveva tolto tutti i suoi affetti. Spesso siamo noi i veri nemici di noi stessi, piccola mia. Impara a essere leale, forte, generosa, regale. Impara ad essere te stessa.
I tuoi genitori saranno sempre qui, per te, ogni volta che cadrai e ti sentirai sola e vorrai finirla con tutto quel dolore. Saremo sempre qui, anche quando saremo andati via da questo mondo. Ricorda, chi ti ama non se ne va mai veramente.

Con affetto,
mamma.

 

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Capitolo 4
*** Asylum ***


Cioè, mi spiego Oreste? Un bruco che fumava ha dato a me della rapa! Che maleducazione. E non sapeva neanche aspirare! Poi a me non sembrava per niente un bruco, forse un millepiedi. No che non mi sono messa a contare quanti ne avesse, è ovvio! Però ne erano tanti e mille lo si dice per dire. O almeno, io lo dico per dire. Sarai mica convinto che i millepiedi abbiano mille piedi? Maddai, nessuno li conta! Voglio dire… non è che il loro odore sia dei migliori. Hai presente quando andiamo a giocare nel fango con le scarpette che mi ha portato la zia Johanne dalla Cina? Immagina lo stesso odore moltiplicato per mille… no, nessuno si avvicina ai millepiedi.
Ecco! Ho appena trovato un altro motivo per cui sicuramente quel finto bruco in realtà bruco non è! Se stesse fumando la puzza dei suoi innumerevoli piedi? Ciò spiegherebbe la sua solitudine e il suo colore! Era blu e nessun bruco è blu a questo mondo e neanche in un modo parallelo sarebbe possibile, no? Mi pare evidente che fosse blu perché il suo puzzo lo ha fatto marcire. Sì, è solo uno stupido millepiedi marcio.
E non sapeva neanche raccontare le storie! Un coccodrillo che mangia pesce… che idiozia.
Si chiama coccodrillo o sbaglio? Cocco-drillo. Mangia cocchi e drilli… è così chiaro!
Forse per Brucaliffo no, forse era troppo offuscato dalla sua puzza impressionante.
Fatto sta che la sua storia non stava in piedi. Mi aveva annoiato a morte, appestato, trattato con sufficienza e che pretendeva? Che restassi con lui a ripetere l’alfabeto? No, no, io non ci stavo. Sono corsa via e sono caduta su un’erbaccia.
Quella tutt’a un tratto mi ha urlato che dovevamo smetterla di calpestarla, strapparla e ridurla in cenere. Io ho provato a dirglielo: “Guardi, signora Erbaccia, io al massimo posso usare il tosaerba oppure posso farle una scalatura corta o un caschetto, ma strapparla proprio no! Sono un’esperta!”
Ma lei non mi ha creduto e ha voluto il rimborso.
Davvero, Oreste, io so quello che faccio e sono sempre stati tutti contenti del mio lavoro, non ho mai torto un filo d’erba a nessuno, pensa se mi metto a strappare erbacce!
Non contenta la signora mi ha urlato che puzzavo di fumo, diceva che lei e la signora Maria avevano litigato e io avevo il suo fetido odore addosso. Io ero: no, senta, non conosco nessuna Maria, ho parlato con un bruco-millepiedi poco fa, ma di signore rispettabili non ne ho incontrate. Mi ha risposto che Maria fa di cognome Juana, e dovevo per forza averla intravista dato che la strada da cui venivo era tutta la sua.
Alla fine si è convinta e mi ha chiesto un favore, mi avrebbe concesso di non rimborsarla se fossi andata dalla signora Juana a chiedere di restituirle il suo marsupio. Ho accettato, ero stanca di sentirla parlare e ho preferito camminare e affaticare le gambe al posto del cervello. Che poi, davvero, c’è gente che usa ancora i marsupi? Comunque, lungo via Canna bis l’unica casa era una nascosta da un tubo dell’acqua gigante. Era piccola, più lunga che larga, di carta bianca finissima mentre il tetto era di consistenza più dura, quasi cartonato. L’odore era particolare, allegro. Ricordava quelle feste sulla spiaggia, il mare, il sole, il pigiama party da mia cugina Carmelina. Bussai alla porta e mi aprì questo bel pezzo d’erba.
“Signora Maria? Vengo per conto della signora Erbaccia, vorrebbe il marsupio.”
Non ha voluto darmelo, oh! Ho insistito e insistito ma niente. Diceva che la signora Erbaccia le aveva rubato le unghie dei piedi e non era giusto e quindi se l’era riprese.
Stanca di quella tiritera ho accennato al Brucaliffo, per una qualche raccomandazione, sai com’è e Maria è impallidita, è scappata in casa e ha lasciato il marsupio lì davanti. Quando sono tornata da Erbaccia era più felice che mai. Nel paese delle meraviglie sono tutti fissati coi piedi, più puzzolenti sono, meglio è.
Non guardarmi così Oreste! I miei piedi non puzzano!
Ad ogni modo, ero davvero curiosa di sapere cosa se ne facesse un’ erbaccia delle unghie dei piedi della signora Maria. Quando le portai il marsupio Erbaccia scoppiò in lacrime di gioia, continuava a dire che ora non era più sola.
“Signora Erbaccia, ma me lo dice cosa deve farsene? ” Mi rispose che da quando suo marito l’aveva lasciata per scappare con una primula fresca di bocciolo aveva iniziato a collezionare le unghie dei piedi della gente perché le ricordavano il suo primo amore: Brucaliffo. Aha! Come vedi, amico mio, la mia teoria sulla vera razza di quello pseudo-bruco andava sempre più consolidandosi. Se la signora Erbaccia era fissata per i piedi del suo amore significa che erano una parte non importante, ma importantissima del suo corpo… e per quale animale sono così importanti? No, non il serpente, Oreste, non sei per nulla simpatico… per un millepiedi, ovvio, no? Alla signora Maria non andava a genio che Erbaccia ricadesse nel folle amore per quell’essere che si divertiva a fumare oltre alla puzza dei suoi piedi anche le ciocche dei capelli che le tagliava mentre dormiva. Eh, sì, Maria odiava quell’uomo, quel bruco, quel millepiedi, oh, insomma, quel tossico. Le due avevano litigato a morte e avrei potuto farle riappacificare, ma non ce l’ho fatta. Andiamo, Oreste, avevo appena lasciato un bruco drogato e ora mi ritrovavo un’ erbaccia piangente! L’ho lasciata lì e ho proseguito per la mia strada. Quel posto era davvero strano. Avevo incontrato quei gemelli prima, i fiori canterini e Brucaliffo poi… e nessuno che fosse simpatico! Strano a dirsi ma volevo tornare a casa: al mio albero, al mio giardino, alle mie lezioni di storia. Avevo bisogno di una strada che mi portasse via da lì! Ho girato a destra, a sinistra, avanti, dietro ma nulla! Fu allora che incontrai uno spazzolino steso su una larga foglia di fico arancione. Gli chiesi se conoscesse una strada ma non rispose… io ero disperata e lo chiesi una, due, tre volte finché, stanca, decisi di scrollarlo dal suo torpore.
“Senti, mi puoi rispondere almeno con un gesto?” E quello improvvisamente si rabbuiò e con una faccia da pazzo iniziò a urlare che noi umani siamo fatti male, che trattiamo male gli altri. Era una vita che tutti pensavano di poterlo usare per spazzolarsi i denti senza minimamente curarsi del suo parere e ora si era stancato, non avrebbe risposto più a nessun umano. Secondo me era uno spazzolino molto solo… lo si capiva dal suo viso triste, dal suo sguardo spento, dai calli sulla mano destra.
Che potevo fare Oreste? Lo sai, sono di buon cuore, alla fine. Mi son seduta lì vicino a lui e mi son fatta raccontare la sua storia, magari potevo aiutarlo… e magari poi mi avrebbe ripagato indicandomi la strada.
Si chiamava Giantoldo, ed era figlio di una saponetta. Non aveva mai conosciuto suo padre… era morto… spremuto per intero da un bambino umano. Che destino atroce per un dentifricio a menta. Comunque, era cresciuto di stenti… per aiutare la madre era passato di bocca in bocca finché non si era malridotto e lo avevano gettato via. La madre, d’altronde, dovette lavorare il doppio finché non si consumò del tutto, e Giantoldo rimase solo. Girò il mondo, circondato da persone disposte solo ad usarlo, senza mai trovare nessuno che lo amasse veramente, e poi arrivò lei, Madeline. Era una scultura di sabbia a forma di pappagallo e Giantoldo si era innamorato follemente. Era stata una storia travagliata, la loro. Guardati con diffidenza, per gli altri erano contro natura. Fu quando un pappagallo vero insultò la sua bella, dandole del mostro, che Giantoldo esplose. La baciò con passione, sentimento, esternando tutto quello che aveva serbato ogni volta che qualcuno li aveva criticati… ma quando le loro labbra si staccarono di Madeline non era rimasto altro che una montagnetta di sabbia. L’aveva spazzata via. Le sue urla si erano sentite in tutto il Paese delle Meraviglie. Da quel giorno decise di rimanere da solo e non si fidò più di nessuno.
“È una storia molto triste,” dissi. Fu la prima cosa che mi venne in mente, lo so che non è brillante, vorrei vedere te, gattaccio.
“Già, davvero triste. E pensare che l’amore non dovrebbe avere limiti, dovrebbe essere emancipato, l’unica cosa che non può incatenare, ma solo liberare.”
“E ora che fine ha fatto Madeline?” gli chiesi, sai che sono curiosa, no?
Aveva deciso di portarla con sé, in un cofanetto.
Me la mostrò: “É una bella sabbia, Giantoldo”. Scoppiò a piangere, lacrime di dentifricio cadevano ai miei piedi e un odore di mela verde iniziò a diffondersi nell’aria. E a me non piacciono le mele.
“Su, su, non piangere. Forse posso fare qualcosa!”
Alla fine la sabbia è simile al fango, quindi iniziai a modellarla come meglio potevo, aiutandomi con le lacrime appiccicose dello spazzolino. Dopo ore di lavoro, Madeline era di nuovo integra… Era un pappagallo nuovo di zecca. E dai Oreste! Mi sono impegnata, aveva il becco storto e un’ala più piccola dell’altra e non aveva una superficie troppo omogenea, ma almeno stava in piedi!
“Uhm, uhm, Madeline?” la chiamavo, ma niente, non rispondeva. Lo spazzolino ricominciò a piangere e io davvero non ce la facevo più. Perché tutti piangevano in quel dannato posto e io che ero sola e disperata no, ma anzi, dovevo aiutarli?
Però a dir la verità quel poveretto usurato dalle bocche altrui mi faceva pena… decisi di usare le maniere forti.
“Baciala!”
“No, non posso, potrei distruggerla di nuovo, no, no.”
“Avanti, baciala! ”
“Non insistere, no!”
“Oh, che noia!” lo afferrai e lo poggiai delicatamente, più o meno, vicino al becco della scultura e quella pian piano, prese a sbattere gli occhi. Era viva!
I due si riabbracciarono, fecero i piccioncini e io lì, a braccia incrociate. Sai che bello.
“Ehm, carini, ma un aiuto qua qualcuno vuole darmelo?”
Giantoldo e Mad si offrirono di accompagnarmi al sentiero che avrei dovuto seguire per trovare la strada di casa, per ringraziarmi, a sentirli parlare, della mia “infinita gentilezza e tenerezza”.
Non ridere Oreste! Tutti mi considerano gentile, sei tu che non mi capisci!
Ad ogni modo, parlarono per tutto il viaggio. Erano, erano… Dio, come descriverli? Immagina una torta al cioccolato, aggiungici del miele e della panna. Ecco, la vedi? Così dolce… fai finta che ci siano cento di quelle torte e allora capirai quanto lo erano loro. Da mal di pancia. Alla fine ci trovammo davanti a un albero davvero, davvero, davvero enorme.
“Bhe, Alice, siamo arrivati. Prosegui a destra, poi a sinistra e poi su e giù.”
“Io… credo di aver capito… più o meno.”
“Tranquilla mia cara,” disse Mad. “Se ti lasci guidare dall’amore troverai sempre la strada di casa.”
“Va bene...”
Che diavolo significava? Avrei preferito una mappa a guidarmi, sinceramente.
Comunque, quando mi girai Giantoldo e la sua fidanzata non c’erano più. In fondo mi dispiaceva, erano gli unici amici o, in ogni caso, persone sane di mente - se possono essere considerati sani di mente uno spazzolino parlante e una scultura di sabbia a forma di pappagallo resuscitata che si scambiano effusioni - che avevo incontrato lì. Forse quella pazza ero io.
Sì Oreste, me ne sono accorta solo ora. E mi sono accorta che mi piacciono anche i gattini al forno. Vediamo, dove potrei trovarne uno? Oh, ecco, ce l’ho davanti.
Cos’è, ora stai zitto? Bene.
Alla fine mi persi nel bosco. Non ho un gran senso dell’orientamento, lo sai. E pensai all’amore, prima al sentimento in sé, poi ad una coppia… ma niente giravo in tondo. E alla fine pensai a te, il mio micio. Perché anche l’affetto per un animale è amore. E poi io ti voglio bene, Oreste. Fu allora, che sullo stesso grande albero di prima, apparve un gatto, proprio come te, forse un po’ più matto. Ma tanto, sono tutti matti lì dentro, proprio come qui fuori.





















Martina's wondercorner:
Okay, questa shot è stata un parto, ma alla fine eccola qui *clap clap clap*. Ehi, perchè nessuno batte le mani?

No, bhe, quest'avventura giunge al termine e in fondo mi dispiace, mi ero affezionata (sì, mi affeziono ai concorsi).
La mia nonsense, risulta, o almeno dovrebbe risultare, comica, perchè, alla fine, a me questo genere ha fatto sempre ridere.
Cronologicamente il MM dovrebbe collocarsi dopo il Brucaliffo, quando Alice è alle prese con la ricerca della strada per casa, prima di incontrare lo Stregatto che la indirizzerà al Cappellaio Matto. Ah, il contatore di word mi segna 1998 parole, quindi dovrei rientrare nelle 2000 massime. Bao, niente, spero sia di vostro gradimento, se vi va le recensioni sono ben accette ahah.
:)

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