Anime

di aturiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anime ferite ***
Capitolo 2: *** Anime sole ***
Capitolo 3: *** Anime silenziose ***
Capitolo 4: *** Anime maliconiche ***
Capitolo 5: *** Anime gemelle ***



Capitolo 1
*** Anime ferite ***


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Il sapore del sangue raschia sul fondo della mia gola, come mi succede sempre quando sono arrabbiata. O quando sono triste.
Stringo forte le pagine del mio libro e mi rannicchio ancora di più nell’angolo più lontano della classe. È proprio bello avere un libro tra le dita quando non si hanno persone con cui parlare.
Voglio scomparire, annegare nel mare, volare via dalla classe attraverso le finestre con le sbarre, catapultarmi nella finta realtà dei romanzi, stare in silenzio e non vergognarmi di non avere niente di cui parlare.
Non capisco, che cos’ho che non va? Saranno il mio essere acida più del dovuto, il mio carattere lunatico, i miei occhi troppo acuti, i capelli corti, il sorriso che non c’è mai, i vestiti che non stanno mai bene, l’eyeliner dalla linea troppo spessa, la musica eccessivamente alta, i miei disegni, la mia tristezza, la mia ingenuità, la mia continua fame, la mancanza di coordinazione, l’astio per gli altri, i miei silenzi o cos’altro?
Sì, il mio carattere e il mio aspetto sono parecchio lontani dalla perfezione.
Un raggio di sole attraversa i vetri delle finestre di fronte a me, illuminandomi il viso e una lacrima, una sola mi rotola sul volto impassibile e svanisce al sole, lasciandomi una riga di sale sulla pelle. Chiudo gli occhi e assaporo il calore, svuotando la mente.
Perché io?
Ma in fondo nessuno è perfetto.
Sono sola.
I The Fray cantano malinconici nelle mie orecchie, come una ninnananna che non vuole far dormire.
Ad un tratto un’ombra scura e imponente si avvicina.
Cause after all you do know best 
Non alzo nemmeno lo sguardo, anzi, mi accartoccio ancora di più, nascondendo il mio viso livido. L’ombra si siede accanto a me e mi osserva senza però perforarmi, solo mi guarda come si farebbe con il paesaggio fuori dal finestrino: lo si vede scorrere accanto ma non ci si sofferma.
«Che cazzo vuoi?» dico.
Incrocio il suo sguardo blu e mi ci immergo spaventata ed estasiata, come sempre. I suoi occhi sono inquietanti e forti. I suoi occhi inchiodano.
Si avvicina ancora, non intende andarsene.
«Sparisci!»
Allunga una mano e la posa sulla mia testa, mi scompiglia i capelli biondi.
Without granting innocence 
È così grande, così forte… potrebbe farmi male. Si accoccola anche lui vicino a me e appoggia i corti capelli ispidi sulla mia spalla magra.
Il suo sguardo si posa sulle pagine del libro che tengo in mano e inizia a coglierne le parole, lo legge.
«Quand’è che te ne vai?»
Sento qualcosa di caldo scorrere di nuovo sulle guance, salato, bagnato.
Lui si alza.
Non lasciarmi sola anche tu…
The things you've told him all along 
China la testa e mi dà un bacio sulla fronte, protettivo. Sta in piedi ancora un po’, sempre con quello sguardo un po’ vacuo.
Allunga una mano.
«Alzati, andiamo a fare un giro».
Io lo guardo, stupita.
Mi asciugo le lacrime poi sposto lo sguardo sulla mano tesa e l’afferro forte; mi tiro su, facendo leva sul suo braccio massiccio.
And pray to God he hears you 
«Andiamo a fare un giro, ok».
Spengo la musica proprio mentre stiamo per uscire dalla classe. 
E io, quella mano scura, non l’ho ancora lasciata.

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Capitolo 2
*** Anime sole ***


Anime sole


Ci sono stati parecchi momenti infelici nella mia vita, altri invece sono stati particolarmente belli e, a volte, quasi poetici. Ma no, non è stata un’esistenza facile, la mia. Mi ricordo ancora quando, in seconda superiore, dovevamo decidere le stanze per la gita. Stringevo il foglio e la penna con più forza del dovuto e la delusione e l’umiliazione bruciavano il mio cuore che, piano, si crepava. Era rimasto un solo spazio vuoto, un solo quadratino bianco.
Appunto, uno soltanto: avrei avuto la stanza singola.
Tutti avrebbero avuto qualcuno con cui parlare la sera, io no.
Mi ricordo che mi infilai le cuffie nelle orecchie e mi misi, ostinata, a guardare la strada scorrere fuori dal vetro un po’ appannato. Mi sentivo come un coltello affondare piano nel mio petto magro e scavare sempre più a fondo. E faceva maledettamente male.
Non mi dovrebbe interessare. Tanto io me la cavo benissimo da sola, non ho bisogno di nessuno! Possono anche crepare tutti quanti, gli stronzetti.
Sì, mi dicevo proprio così, ma sapevo che non era vero, sapevo che anche io avevo il disperato bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi, qualcuno a cui stringere la maglia forte e affondarci il viso singhiozzante, come succede nei manga. Ma non ero in un manga e non avevo nessuno del genere.
Quindi mi limitavo a starmene zitta in disparte, in compagnia di canzoni tutt’altro che tranquille e ad alto volume.
Che sentano che non sono triste, ma solo arrabbiata. Loro non mi possono ferire, nessuno può farlo.
È davvero il colmo che, proprio nei momenti peggiori, accadano sempre le cose migliori. Infatti un gigante si sedette accanto a me.
Mi voltai e lo guardai un attimo. Non mi sembrava di averlo mai visto, anche perché uno così me lo sarei bene stampato in mente: pelle scura, capelli neri e occhi… occhi? Erano grigi o blu? Forse verdi? Non avrei saputo dirlo. Adesso so che sono color cobalto sotto una luce artificiale, azzurro cielo al sole, grigi durante un temporale e verdi se vicino al mare. Ero rimasta incantata da quel colore e, mentre la mia vena creativa sempre presente mi mandava impulsi strani su come disegnare qualcosa di quel colore stupefacente, la musica mi impediva di sentire quello che mi diceva.
Solo quando una delle sue manone mi ebbe tolto una delle cuffiette, capii davanti a chi mi ero trovata.
«Senti, abbassa ‘sta cazzo di musica che voglio dormire.»
Ripresa dallo stupore iniziale, il mio sarcasmo iniziò a farsi sentire in tutta la sua potenza:
«Non ti obbligo io a dormire qui: puoi benissimo sparire e andare a dormire da un’altra parte. Mi faresti anche un favore.»
«Lo farei se ci fosse un altro posto libero nel pullman.»
«C’è sempre il sotto. Magari muori investito.»
Mi guardò un attimo, con un sopracciglio alzato e lo sguardo, prima indifferente e scazzato, un po’ più interessato.
«Sei proprio una stronza.»
«Lo prendo come un complimento, tesoruccio.»
Appoggiò la testa sul cuscinetto e fece una serie di strani grugniti poco contenti, ma smise di parlarmi, e io non avrei potuto chiedere di meglio perché, di litigare, non ne avevo proprio voglia. Eppure non potevo far altro che lanciargli occhiatine curiose, sbirciando appena da dietro i miei capelli. Senza dire niente avevo anche abbassato il volume della musica, solo per capire che cosa stesse canticchiando piano.
Take me down to the river bend
Take me down to the fighting end
Ma io l’ho già sentita questa canzone…
Wash the poison from off my skin
Show me how to be whole again
Sapevo di conoscere quelle parole, le riconoscevo come si fa con un odore: non lo si ricollega subito alla fonte ma si sa di averlo già avvertito.
Fly me up on a silver wing
Past the black, where the sirens sing
No, aspetta…
Warm me up in the novice glow
and drop me down to the dream below
Mi avvicinai a lui e gli sfilai una cuffietta. Prima che iniziasse ad insultarmi me la accostai all’orecchio e iniziai a canticchiare con lui. All’inizio si limitò ad osservarmi come si fa con una pazza furiosa, ma dopo poco smise e spostò il suo sguardo di ghiaccio verso un punto imprecisato davanti a lui, chiudendo gli occhi.
Ora so che non si era addormentato ma che, al contrario, aveva smesso di guardare per ascoltare meglio. Così mi ha detto e io, ripensando al suo sorriso appena accennato che gli era sorto sulle labbra, sono convinta che fosse la verità.

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Capitolo 3
*** Anime silenziose ***


Anime silenziose


Non sono mai stata una persona facile, lo riconosco, ma credo che l’eccessiva stima di me e, allo stesso tempo, il sentirmi sempre a disagio con gli altri, mi abbia fatto pensare che, in fondo, non avessi niente di meno delle altre persone, ma semplicemente che il mio guscio esterno fosse troppo spesso per far vedere la dolcezza che covavo in me. E questo, nella mia logica, sarebbe dovuta essere un’attrattiva maggiore nei miei confronti, solo che, ultimamente, ho capito che non lo è. Le persone sono pigre: è dannatamente difficile trovare qualcuno abbastanza ambizioso da interessarsi davvero a me perché tutta da scoprire, perché si sente messo alla prova o per qualche strana attrazione verso i casi persi di ragazze troppo schive. Io infatti, fino a oggi, non ho mai incontrato nessuno così e penso che mai lo incontrerò.
Comunque sia non ne ho bisogno: ho conosciuto lui e mi basta.
 
La prima sera in gita fu una tortura: sentivo le risate soffocate provenire dalle altre stanze, quindi mi ero infilata sotto le coperte con la speranza che il rumore della loro felicità si attutisse un poco, ma niente da fare. Allora avevo provato con la musica ma, quando i Coldplay avevano incominciato a cantare Fix You, ogni buon proposito di restare impassibile e di non mostrarmi debole era svanito. Avevo cominciato a piangere, così tanto da farmi venire il singhiozzo, proprio come quello dei bambini piccoli.
Non ricordo esattamente quanto tempo restai accucciata tra le coperte con gli occhi spalancati e costantemente bagnati e quanto invece dormii, so solo che il mattino seguente ero abbastanza stanca da addormentarmi in pullman.
Ho ricordi molto vaghi del sogno che stavo facendo, probabilmente qualche fantasia eccessivamente smielata di cui quel ragazzo carino dell’ultimo anno era assoluto protagonista, ma al contrario ho ben stampato in mente chi mi ritrovai di fronte, aprendo gli occhi.
«Ehi dormigliona, vuoi scendere o no?»
Feci qualche mugugno.
«Su muoviti, che se ne sono già tutti andati!»
Nel frattempo però mi ero ripresa abbastanza da sostenere una conversazione:
«A fanculo? Era ora».
Lui mi guardò con sguardo strano, come se volesse aprirmi il cranio e osservare quali collegamenti nervosi mi permettessero un tale livello di acidità. Evidentemente ci rinunciò in breve tempo, tanto che si voltò e scrollò le spalle. Appena scesi dall’autobus facemmo una piccola corsa per raggiungere il nostro gruppo e la professoressa che ci aspettava impaziente.
Iniziammo a camminare e, in breve tempo, mi ritrovai in fondo al gruppo da sola. Lui era proprio davanti a me, con quelle spalle forti e leggermente curve in avanti che gli davano una postura quasi animalesca, come se da un momento all’altro dovesse mettersi a quattro zampe e ululare alla luna.
Proprio mentre stavo formulando questi pensieri si voltò e mi trapassò con quel suo sguardo ghiacciato. Io abbassai gli occhi, un po’ intimidita, mentre lui rallentò il passo per affiancarsi a me. Poi disse:
«Posso sapere come ti chiami?»
«Chiara».
«Nome azzeccato per una biondina pallida con gli occhi grigi.»
«I miei occhi non sono grigi, sono azzurri. Sei orbo?»
Scosse le spalle e smise di parlare.
Passarono alcuni minuti di silenzio imbarazzato poi, presa da un attimo di coraggio, gli chiesi:
«E tu come ti chiami?»
«Federico».
«Uhm, ok».
Ancora silenzio poi lui disse a mezza voce, come se si vergognasse:
«Adesso che ci faccio caso, in effetti i tuoi occhi sono proprio azzurri, azzurro ghiaccio».
«E vorrei vedere! Saprò di che colore sono i miei occhi, non ti pare?»
Mi sarei voluta mangiare la lingua: provava a fare conversazione e io lo continuavo a stroncare così!
«Senti, scusa, lo avrai capito che non sono brava a parlare con le persone, quindi se vuoi parla tu. So ascoltare bene se ciò di cui parli mi interessa».
«E come faccio a capire se ti interessa o no?»
«Se mi interessa non faccio commenti e sto zitta ad ascoltarti e basta».
Sembrò pensarci un attimo, poi prese il cellulare e le cuffie. Me ne porse una che io presi un po’ titubante.
«È faticoso parlare», disse, e fece partire la musica. 

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Capitolo 4
*** Anime maliconiche ***


Anime malinconiche


Io ho una teoria sulle anime gemelle, ovvero che non debbano stare insieme per forza come coppia, ma che si incontrino e creino un reciproco accordo di tacita solidarietà, senza pretese e nobili sentimenti. Quando si scopre un proprio simile non sempre si ha voglia di baciarlo, abbracciarlo o passarci insieme la notte, a volte basta la sola presenza a farci sentire che, nel mondo, almeno un posto per noi c’è e ci sarà sempre.
 
La seconda notte non fu terribile come la prima, anzi, fu particolarmente piacevole. Ero andata a dormire con tutti i buoni propositi di questo mondo, quando sentii bussare.
Forse è qualcuno che mi vuole invitare in camera da loro!
Che illusa ero. Ma in fondo andò meglio così perché, fuori dalla porta, c’era un assonnatissimo Federico in pigiama con un pacco di caramelle gommose in mano.
«Mi fai entrare?»
Io mi spostai e non pronunciai mezza parola, tanto basita ero dal suo arrivo. Chiusi la porta dietro di me e lo guardai mentre si accoccolava tra le mie coperte e le mie lenzuola, sopra il mio letto. Se già ero abbastanza sotto shock così, figuriamoci quando mi fece segno di entrare nel letto con lui!
Però quel gesto mi fece scattare qualcosa in testa che mi permise di recuperare il dono della parola:
«Brutto pervertito del cazzo, per chi mi hai presa? Per una di quelle puttanelle con cui immagino tu ti veda di solito? Per prima cosa porta le tue sudicie chiappe fuori dalla mia stanza e poi vedi di mozzarti una per una le dita di quella mano che tanto si agita ad invitarmi nel letto con te!»
Immagino fosse il discorso più lungo e articolato che avevo formulato in quei giorni e, forse proprio per quello, prima di scoppiare a ridere rimase qualche secondo bloccato a fissarmi con quegli occhi stupefacenti.
«Ma stai scherzando, spero! Non voglio farti assolutamente niente, solo mangiare due caramelle in santa pace con qualcuno di più divertente del mio compagno di stanza quattr’occhi».
«Ah, ok…»
Dire che ero imbarazzatissima sarebbe riduttivo.
Salii nel letto con lui e iniziammo a mangiare caramelle e, tra un boccone e l’altro, a chiacchierare a bassa voce. Non parlammo di cose importanti, della nostra vita o di chissà che, semplicemente parlammo. E, per noi, parlare così liberamente, era già un traguardo.
La quiete durò però al massimo una mezz’oretta, al termine della quale iniziò a dire di avere sonno e io, ovviamente, colsi l’attimo per fare la mia solita uscita:
«Allora puoi anche andartene.»
«Non mi vuoi già più?»
«Non ti ho mai voluto tra i piedi.»
Sbuffò, ma non si mosse.
«Allora, te ne vai?»
Non mi rispondeva, quindi mi sdraiai e gli dissi:
«Senti, io vado a dormire che sono distrutta, tu fai come ti pare.»
Adesso se ne va, evviva.
Ero lì, facendo finta di dormire, in attesa dello schiocco della porta che si sarebbe dovuta chiudere alle mie spalle e le mani intrecciate sotto il cuscino ma non sentii mai quel rumore, bensì ne udii un altro, quello di lenzuola che si scostavano e di un corpo pesante che si posava accanto al mio.
Federico poi posò con cautela un braccio attorno al mio fianco e mi avvolse in un abbraccio stretto.
«Certo che sei proprio un bel peperino, cara ragazza…»
«Non credo di esserlo abbastanza».
«Oh sì invece, lo sei».
Dopo un attimo di silenzio gli dissi piano:
«Non mi lasci sola, vero?»
Se la risatina soffocata mi fece arrossire, le parole che vennero dopo mi fecero diventare bordeaux:
«Credo di essere troppo pigro per cercare qualcun altro con cui stare così bene».

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Capitolo 5
*** Anime gemelle ***


Anime gemelle


Avete presente quelle mattinate chiare e soleggiate che vi fanno sperare in una buona giornata? Ecco, proprio in una di queste raggiunsi il mio limite più basso, toccai il fondo del baratro o, se preferite, mi resi conto che non ero affatto una persona come le altre, ma che ero troppo diversa da loro per far parte di un qualsiasi gruppo.
Tutto cominciò quando, davanti alle macchinette del museo, sentii Gianna e Arianna parlare di me:
«Ma io non capisco come quel figo di Federico possa andarle dietro. È solo una sfigata asociale, e pure bruttina».
«Vero cavolo… io ci sbavo dietro da quando l’ho visto, e lui si va ad appiccicare alla prima che capita! Ha il prosciutto davanti agli occhi proprio!»
«Sì, madò! Non lo capisco proprio… secondo me è perché fa un po’ la puttana e quindi lui le va dietro in cerca di un po’ di figa…»
«Verissimo! Secondo me è un puttaniere morto di figa che si cerca solo quelle facili!»
Se fino a poco prima avevo sentito solo una dolorosa stilettata incastrarsi tra lo sterno e le costole, pronta ad affondare nel cuore, con l’ultima affermazione mi partì un embolo:
«Ma che cazzo di problemi avete?»
Le ragazze si girarono e mi squadrarono un attimo, come se si fossero appena accorte della mia presenza e, forse, era proprio così.
«Ehi, ma che cazzo vuoi tu?»
«Ovvio che si incazza, sta difendendo il suo fidanzatino.»
«Punto primo, lui non è il mio “fidanzatino”, punto secondo, se siete tanto sicure di essere più belle di una sfigata asociale e puttanella come me, non dovreste preoccuparvi di farvi consolare da un’amica, punto terzo non me ne frega un cazzo di cosa dite di me, ma non insultate lui o vi spacco quelle stupide facce da topo che vi ritrovate… magari in veste di carlino sareste più carine, che ne dite?»
«Ehi, ma chi ti credi di essere, stronza?»
«E tu chi ti credi di essere nell’insultare così una persona nemmeno presente che, oltretutto, dici che ti piace? Figuriamoci cosa dici alle spalle di quelli che non ti piacciono. Magari ne sei solo invidiosa perché hanno più di un grammo di cervello nella zucca.»
Arianna allora mi saltò addosso e mi diede uno schiaffo, forte. Non mi fece molto male, ma ebbe l’effetto di farmi partire un secondo embolo.
«Alzare le mani è il gesto tipico di quelli che non sanno più come controbattere. Quindi mi dai ragione così in fretta? Pensavo pure di doverti convincere.»
Un altro schiaffo.
«Smettila di parlare, puttanella, o ti spacco quella bocca sudicia che ti ritrovi.»
«Sì dai, così magari Federico non starà più con lei visto che non può più fargli pompini.»
«Eh lo so, immaginavo che voleste tanto fargliene uno voi due.»
Questa volta mi arrivarono più colpi insieme, ripetuti e maledettamente dolorosi. Caddi per terra e mi misi a ridere. Non sapevo esattamente perché, ma mi sembrava una liberazione, un modo per sfotterle ancora di più, per farle andare fuori di testa dalla rabbia. So che non è stato saggio farlo, ma proprio non riuscii a trattenermi.
Iniziai a preoccuparmi quando i colpi iniziarono ad annebbiarmi la vista. Per fortuna la buona sorte, per una volta, fu con me e la professoressa, per caso, ci vide.
 
La sera mi rinchiusero in camera, proibendomi di uscirne per qualunque motivo. Non penso l’avrei fatto comunque.
Verso mezzanotte mi venne di nuovo a trovare Federico.
Entrato nella stanza si sedette sul bordo del letto e mi iniziò a guardare intensamente, soffermandosi soprattutto sui lividi e i graffi sul mio viso. Non fece commenti, ma si intrufolò anche lui, di nuovo, tra le coperte e mi abbracciò stretta. Non so se sapesse il motivo delle botte, non so se lo sappia tutt’ora, fatto sta che quella sera non mi parlò e si limitò a tenermi tra le sue enormi braccia lunghe e scure, come se fossi una bambina da consolare dopo un brutto incubo.
Prima di andarsene dalla stanza però mi diede un bacio leggero sulla guancia e mi sussurrò delle parole che non credo dimenticherò mai:
«Non abbassare mai la guardia con nessuno o potrebbero capire che cuore grande e forte hai dentro. Non farlo con nessuno tranne che con me. Io ci sono per te, capito? A costo di subirmi le tue risposte acide io starò qui, accanto a te, qualsiasi cosa succeda. Te lo prometto.»
Appena chiuse la porta, io scoppiai a piangere.
 
Da quella gita che fu, in un certo senso, il mio punto di svolta per una vita nuova, io e Federico abbiamo incominciato a parlare sempre di più, a scambiarci titoli di canzoni e numeri di cellulare, a uscire, a compensarci l’uno con l’altra. Da quel viaggio in poi abbiamo trovato talmente tanti punti in comune da pensare di essere la stessa persona sdoppiata in due corpi, e ne abbiamo trovati talmente tanti in disaccordo da immaginare che, se solo non avessimo così bisogno della nostra reciproca presenza, probabilmente ci odieremmo.
Adesso siamo entrambi usciti dalle superiori, io sto studiando per diventare psichiatra, lui lavora come barista in un locale notturno e gioca a pallacanestro in una squadra abbastanza importante da potergli garantire un discreto successo in quello sport.
Se credete che ci siamo, che so, messi insieme, vi sbagliate: una sera ci siamo baciati e un’altra abbiamo fatto sesso, ma fu talmente strano che non abbiamo continuato una relazione di questo tipo, semplicemente siamo diventati due anime inscindibili, unite da un legame così stretto da superare la semplice amicizia o l’amore, qualcosa a cui io non so dare ancora un nome. Ma d’altronde se non gli si dà un nome, non per questo l’essenza del sentimento cambia: questo è e sarà, spero a ancora lungo, qualcosa di speciale che lega noi, e noi soltanto.

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